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Italian Pages 238 [239] Year 1994
Maurizio Viroli
DALLA POLITICA ALLA RAGION DI STATO La scienza del governo tra XIII e XVII secolo
DONZELLI EDITORE
© 1994 Donzelli editore, Roma ISBN 88-7989-067-0
DALLA POLITICA ALLA RAGION DI STATO
Indice
p.
Introduzione
VII
3
49
I.
L'acquisizione del linguaggio della politica
IL La filosofia della città e l'ideale dell'uomo civile
83 III. Machiavelli e la concezione repubblicana della politica
109 IV. Politica e arte dello stato in Francesco Guicciardini 129
V.
Gli ultimi bagliori della filosofia civile
155 VI. Il trionfo della ragion di stato 185
Epilogo. La politica come filosofia civile
195
Bibliografia
219
Indice dei nomi
DALLA POLITICA ALLA RAGION DI STATO
Introduzione
Fra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, il linguaggio della politica subì una trasformazione radicale che può essere definita la «rivoluzione della politica», anche se il termine «rivoluzione» è un po' troppo drammatico. Come ogni rivoluzione che si rispetti, la «rivoluzione della politica» ha avuto una portata e un rilievo generali. Il concetto di politica assunse un nuovo significato e con esso cambiarono la concezione e il ruolo della scienza, o dell'arte, politica, l'interpretazione e il valore dell'educazione e della libertà politica. La «rivoluzione» comportò una perdita di prestigio. Dopo esser stata considerata per tre secoli la più nobile fra le scienze umane, la politica emerse dalla rivoluzione come un'attività ignobile, depravata e sordida: non più l'arma per combattere la corruzione, ma l'arte di adattarsi ad essa. Nonostante la sua ampiezza, la «rivoluzione della politica» è una rivoluzione dimenticata. In questo saggio vorrei cercare di riportarla alla memoria ripercorrendo la storia della rinascita e della trasformazione del linguaggio della politica dal XIII secolo fino all'affermazione della concezione della politica come ragion di stato agli inizi del Seicento. Per quanto radicale, la «rivoluzione della politica» non distrusse totalmente il linguaggio della politica come arte del buongoverno. Di politica nel senso di filosofia civile si continuò a parlare durante tutto il Seicento; ma si trattava, per lo più, di recriminazioni o invocazioni nostalgiche, prive della passione e della speranza che si avverte nelle opere di Machiavelli o di Donato Giannotti. Nella scelt1 dei limiti cronologici e geografici ho seguito criteri, in una certa misura, arbitrari. La storia poteva cominciare dal contrasto fra il politico e il tiranno in Platone e finire con la disputa contemporanea fra realisti e fautori di una rifondazione etica della politica. E poteva comprendere, oltre all'Italia, la Francia, la Spagna, l'Inghilterra e la Germania. Sarebbe stata, senza dubbio, una storia più varia e più interessante. VII
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Ritengo tuttavia che ci siano buone ragioni per iniziare il racconto nel XIII secolo e terminare, almeno per ora, agli inizi del Seicento. Esistono infatti prove sufficienti che i dotti e i filosofi del Duecento si resero conto di avere a disposizione una scienza e un linguaggio - la scienza e il linguaggio della politica - che i loro predecessori del secolo XII conoscevano solo per vaghi accenni. Mentre un anonimo studente del XII secolo lamentava la mancanza di una scienza del bene politico, Giovanni Villani ricordava che nella Firenze del Duecento Brunetto Latini aveva insegnato «la politica». Circa tre secoli dopo la rinascita del linguaggio della politica, la comunità intellettuale riconobbe, con rammarico o con approvazione, che si era verificato un cambiamento sostanziale: «politica» non significava più l'arte di govern:ire una repubblica o un regno secondo giustizia e ragione (per parafrasare la definizione di Brunetto Latini), bensì «ragion di stato», ovvero l'arte di conservare ed espandere lo stato, nel senso di dominio sopra un popolo, come recita l'altrettanto celebre definizione di Botero. Più tardi, la nuova concezione della politica come «ragion di stato» entra nel linguaggio comune: nel Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1705, dopo la definizione di Brunetto Latini, si legge che «politica» significa anche «ragion di stato» (jus regni). Il contrasto fra la concezione della politica come arte del buon governo e la politica intesa come ragion di stato esisteva già prima ed esiste anche oggi; ma il Seicento segna un punto di svolta. In questo saggio, descrivo la rinascita del linguaggio della politica a partire dalla tradizione delle virtù politiche, del diritto civile e dall'aristotelismo e cerco di delineare la transizione intellettuale dal linguaggio della politica intesa come arte del buon governo a quello della politica come ragion di stato. La nascita e l'affermazione del linguaggio della ragion di stato coincisero, in altre parole, con il declino del linguaggio della politica che si affermò nella seconda metà del Duecento e conobbe il suo massimo splendore nell'epoca dell'umanesimo civile. · Noi siamo, oggi, abituati a chiamare «politica» qualsiasi attività di governo o legislativa; nei secoli che precedettero la nascita della ragion di stato, per «politica» si intendeva invece solo un particolare modo di legiferare e di governare. La vicenda che cerco di ripercorrere rivela l'esistenza di una distinzione storicamente e concettualmente importante fra la concezione della politica intesa come l'arte di conservare una respublica, nel senso classico di una comunità di individui che vivono insieme in giustizia, e la politica come arte dello stato, ovvero l'abilità di mantenere lo stato nel senso del potere di una persona o di un gruppo sulle istituzioni pubbliche (lo stato dei Medici, per fare un VIII
Introduzione
esempio ovvio). Il concetto di stato era tuttavia usato anche nel significato di «dominio» in generale, e in questo senso «stato» comprendeva anche la repubblica in quanto forma particolare di esercizio del dominio. Questo non toglie, però, che il contrasto fra lo stato di qualcuno e la repubblica fosse un aspetto fondamentale del linguaggio della politica nell'Italia moderna. «Stato» e «repubblica», in altri termini, erano anche concetti esclusivi e non inclusivi. Se un cittadino riesce a creare una rete di clienti o di partigiani che gli consente di controllare le istituzioni e i magistrati, la città non appartiene più ai cittadini; non è più una repubblica, ma lo stato di qualcuno: una creazione dell'arte dello stato, non della politica. L'arte dello stato e l'arte della politica mirano a instaurare e a conservare due forme alternative della vita pubblica. I Livres dou Tresor (1266) di Brunetto Latini e Della ragion di stato (1586) di Botero possono essere considerati come due punti di riferimento ideali nella storia del linguaggio della politica moderna. Latini elaborò la definizione che divenne il nucleo della concezione convenzionale della politica fino agli inizi del XVII secolo; Botero è l'autore della nozione di «ragion di stato» che divenne il fondamento del nuovo linguaggio della politica. Le due concezioni della politica - «politica» nel senso di arte di governare secondo giustizia e secondo ragione e «politica» come ragion di stato - rivelano immediatamente la differenza che le separa tanto nel fine quanto nei mezzi. Nel caso della politica il fine è la conservazione della respublica, nel senso di comunità di uomini che vivono insieme in giustizia sotto il governo della legge. Nel caso della ragion di stato, il fine è lo stato, legittimo o illegittimo, giusto o ingiusto che sia. Nel caso della politica, i mezzi devono essere sempre legittimi; nel caso della ragion di stato, devono essere semplicemente efficaci. Dal punto di vista intellettuale la politica è figlia dell'etica e del diritto, mentre la ragion di stato è figlia dell'arte dello stato, l'arte di conquistare, conservare, allargare il potere di un uomo o di una famiglia o di una fazione. La presenza del termine «ragione» in entrambe le definizioni non deve trarre in inganno: nel caso della politica «ragione» significa recta ratio (in senso ciceroniano); nel caso della ragion di stato, «ragione» ha un significato strumentale e indica la capacità di calcolare l'efficacia dei mezzi rispetto al fine. Tanto i teorici della politica quanto i sostenitori della ragion di stato raccomandanno la prudenza come virtù fondamentale del governante, ma i primi intendevano per prudenza la retta ragione nelle cose pratiche, quindi mai separabile dalla giustizia, i secondi la semplice capacità di decidere la prassi più efficace per consen·are lo stato. Ludovico Zuccolo, uno dei più raffinati teorici della ragion di stato, ammetteva che
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era legittimo parlare di prudenza del tiranno; nessun umanista del Trecento o del Quattrocento avrebbe accettato un simile modo di parlare: il tiranno poteva essere astuto o scaltro, non prudente. Il linguaggio della politica come arte del buongoverno e quello della politica come ragion di stato non sono fra loro incommensurabili. Il passaggio dall'uno all'altro rappresentò, tuttavia, un cambiamento profondo nel modo di pensare e nel modo di parlare della politica. Si potrebbe osservare che in fondo fu solo un cambiamento di nomi 1• È vero, fu un cambiamento di parole, ma non bisogna dimenticare che le parole servono per sostenere o condannare comportamenti e modi di agire, nella fattispecie pratiche politiche, e che l'intera storia del passaggio dall'uno all'altro linguaggio è la storia di un cambiamento di rilievo nel modo di valutare e interpretare la politica. Sarebbe ingenuo pensare che prima del trionfo della ragion di stato la politica fosse sempre buona e i principi devoti al bene comune. Brunetto Latini e gli scrittori politici umanisti erano principalmente dei retori e come tali elaborarono delle definizioni eulogistiche della politica. Il loro scopo era di persuadere i lettori a perseguire nobili ideali. Coloro che scrivevano di arte dello stato e di ragion di stato erano, invece, preoccupati di descrivere la realtà politica e insegnare come muoversi in essa. È quindi del tutto plausibile giudicare il passaggio dalla politica alla ragion di stato come una salutare transizione da una concezione retorica ad una realistica della politica. Chi può seriamente negare che Il principe di Machiavelli o il Dialogo del reggimento di Firenze di Guicciardini rappresentano un enorme progresso teorico rispetto alla Vita c:'vile di Matteo Palmieri o alla Laudatio florentinae urbis di Leonardo Bruni? Non va tuttavia dimenticato che anche i teorici della ragion di stato, come i retori umanisti, non intendevano solo descrivere, ma anche sostenere, invocare, incoraggiare modi concreti di azione politica. La distinzione fra la concezione della politica come arte del buon governo e come ragion di stato non fu storicamente un contrasto fra una concezione persuasiva e una concezione realistica della politica, ma fra la politica come arte della città e la politica come arte di acquisire e conservare il potere. Quelle medesime azioni - come ad esempio distribuire onori o denaro agli amici o eliminare gli avversari con mezzi illeciti -, che la politica condannava, diventano, per la ragion di stato, scusabili, o addirittura meritevoli di lode.
' Cerco di rispondere qui ad alcune delle obiezioni che mi hanno rivolto Norberco Bobbio e Michelangelo Bovero nel corso di un memorabile, almeno per me, seminario torinese. X
Introduzione
La storia e la vita sono ruttavia più complesse delle definizioni e dei concetti e anche per i concetti di politica e di ragion di stato le distinzioni non escludono sovrapposizioni. Come «repubblica» non era sempre contrapposta a «stato», così la politica, in determinati casi, si sovrapponeva all'arte dello stato. Una repubblica è uno stato rispetto agli altri stati e rispetto ai sudditi, se possiede, come era il caso di Firenze, un dominio. Inoltre, la repubblica è uno stato come ogni altro in quanto è una struttura di potere che si basa sull'apparato di coercizione. Trattando con altri stati, o con sudditi o con ribelli, il rappresentante di una repubblica può essere «necessitato» ad applicare i mezzi prescritti dall'arte dello stato: combattere ingiustamente una guerra ingiusta, trattare i sudditi con durezza o reprimere una ribellione con misure crudeli. I più avveduti pensatori politici del Rinascimento, Machiavelli e Guicciardini, hanno spiegato nella maniera più chiara possibile che l'uomo politico deve sapere usare sia l'arte del buon governo che l'arte dello stato. Le sovrapposizioni, tanto nella teoria quanto nella pratica, fra la politica e la ragion di stato, non alterano ruttavia il fatto che le due concezioni della politica furono, storicamente, l'una nemica dell'altra, anche se di tanto in tanto si guardarono con interesse e perfino con ammirazione. Ma non c'era e non poteva esserci spazio per entrambe: la città poteva essere solo o la città di tutti, cioè una repubblica, o lo stato di qualcuno. In Italia fu lo stato (di alcuni) a prevalere sulla repubblica. Principati e tirannie, o il dominio straniero, presero, pressoché ovunque, il posto delle repubbliche, e il linguaggio della ragion di stato si sostituì a quello della politica. La transizione intelletruale si configurò come un processo di esaurimento: con il mutare dei tempi, il linguaggio della politica divenne gradualmente obsoleto. Che senso poteva avere usare il linguaggio della politica in un principato o in una tirannia? Anziché usare il linguaggio della politic:1, i principi e i loro consiglieri, ed anche i filosofi, usarono il linguaggio dell'arte o della ragion di stato. Considerata in origine come un'attività ignobile, l'arte dello stato acquista, verso la fine del Cinquecento, un ruolo rispettabile. Venne prima riconosciuta come la «nuova politica», poi, semplicemente, come «la politica». La storia che cerco di delineare in questo studio tratta solo dell'Italia e tratta solo di un aspetto particolare. Non pretende di avere una portata generale, né coprire l'evoluzione del pensiero politico italiano dal medioevo alla Controriforma. Esistono già, fortunatamente, ottimi studi d'insieme sui secoli in cui avviene la transizione dalla politica alla ragion di stato. Una sto·ria della transizione intellettuale dalla poliXl
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tica alla ragion di stato non è stata però ancora scritta. Come altre storie, essa avvenne indipendentemente, in parte, dalle intenzioni dei protagonisti. Quando Guicciardini introdusse il concetto di ragion di stato nel Dialogo del reggimento di Firenze, intendeva spiegare ai discepoli intellettuali di Cicerone che, per conservare repubbliche che hanno dominio, non basta la giustizia. Nondimeno, mise in circolazione un concetto che da una parte confermava un insieme consolidato di credenze, dall'altra sarebbe diventato, di lì a pochi decenni, il nucleo centrale del nuovo linguaggio della politica. Machiavelli, che non usò mai il termine «politica» per parlare dell'arte dello stato, contribuì in questo modo a conservare il significato convenzionale del concetto di politica. Non sapremo probabilmente mai se lo fece di proposito, per preservare la distinzione fra politica e arte dello stato, ma questo non è importante. Importa invece il fatto che si servì di due diversivocabolari, uno per la politica, l'altro per l'arte dello stato, e che fu sempre coerente nell'uso dell'uno e dell'altro. La transizione dalla politica alla ragion di stato è una storia importante, che ci invita a ripensare interpretazioni autorevoli e accreditate sull'origine e la trasformazione del linguaggio moderno della politica, prima fra tutte la tesi secondo cui la storia moderna del linguaggio della politica comincia con la rinascita dell'aristotelismo nella seconda metà del secolo XIII. Prima della diffusione in Europa della traduzione latina della Politica di Aristotele, la tradizione ciceroniana delle virtù politiche e il linguaggio della «sapienza civile» rom:.ma avevano già reso possibili gli idiomi fondamentali di un linguaggio comune della politica. E anche dopo l'assimilazione del corpo principale del pensiero politico di Aristotele, la tradizione ciceroniana e la filosofia giuridica romana continuarono ad essere tra le maggiori componenti della concezione com-enzionale della politica e dell'uomo politico. Anche l'immagine del Quattrocento come il secolo della querelle fra umanesimo civile e fautori della vita solitaria, fra i sostenitori dell'eccellenza della vita civile e i loro critici deve essere ripensata. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che il Quattrocento fu il secolo dell'ascesa dell'arte dello stato, che fu la pratica e l'ideologia che avrebbe preso il posto della politica. Il contrasto fra la repubblica e lo stato fu un aspetto del panorama ideologico del tempo, tanto importante quanto il contrasto fra vita civile e vita contemplativa. La distinzione fra la politica e l'arte dello stato è essenziale per intendere il significato storico della nascita del concetto di ragion di stato. Perché costruire un nuovo concetto, quale appunto era la «ragione degli stati»? Guicciardini potrà essere stato più o meno originale nel XII
Introduzione
forgiare il termine «ragione degli stati», ma è fuori di dubbio che mettendo quelle parole in bocca a Bernardo Del Nero nel Di.a.logo del reggimento di Firenze intendeva produrre un cambiamento importante nella concezione della politica. Per capire che tipo di pratiche intendesse sostenere, o incoraggiare, o giustificare, bisogna collocare le parole di Guicciardini nel linguaggio del tempo, e bisogna soprattutto tenere presente che, nel modo convenzionale di parlare, la politica aveva, per così dire, il monopolio della ragione: governare secondo giustizia, promulgare giuste leggi, introdurre o riformare buone costituzioni erano infatti considerate attività politiche per eccellenza e al tempo stesso l'esempio più illustre di capolavori in cui la ragione umana si avvicinava a quella divina. Le pratiche designate nel loro complesso come «arte dello stato», per contro, non potevano invocare alcuna giustificazione razionale: la ragione, la recta ratio, le ripudiava senza appello. Data l'identificazione fra politica e ragione, l'unico modo per assicurare una qualche giustificazione razionale all'arte dello stato era di inventare un'altra ragione e affermare la necessità di tenerne conto. Combattere una guerra ingiusta, trattare i cittadini ingiustamente, usare le istituzioni e i beni pubblici a fini privati - tutte pratiche che il linguaggio della politica considerava contrarie alla ragione - ottennero, grazie al nuovo (o ritrovato) concetto di ragione di stato una qualche legittimità: non erano più attività perpetrate contro la ragione, ma in ossequio ad un'altra e più potente ragione, ovvero la ragione degli stati. Non si comprende il significato storico della nascita del concetto moderno di ragion di stato chiamando in causa i concetti romani equivalenti (ratio publicae utilitatis, ratio necessitatis). I termini sono simili, ma il significato è diverso. Il concetto di ragion di stato serviva a Guicciardini per sottolineare l'incompletezza della filosofia civile di derivazione greca e romana. Incompletezza dovuta al fatto che quella concezione della politica assicurava l'approvazione della ragione solo a chi governa con giustizia o introduce leggi giuste e costituzioni bene ordinate. Il suo concetto di ragion di stato, usato in quel contesto intellettuale, serviva a legittimare, o scusare, azioni fino ad allora considerate ripugnanti alla ragione (anche se poi venivano ugualmente compiute); serviva, in sintesi, a giustificare lo stato come prodotto della pura forza e ad assolvere la sua arte, l'arte dello stato. Come il linguaggio della politica, quello della ragion di stato subì sviluppi e trasformazioni. Dalla prima formulazione di Guicciardini alla definizione di Botero si verifica un importante cambiamento. Mentre Guicciardini aveva esplicitamente sottolineato che tutti gli stati (ad eccezione delle repubbliche e solo per quanto riguarda la comuXIII
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nità dei cittadini) sono illegittimi in quanto nascono dalla forza o dall'inganno, Botero considera l'esistenza dello stato e del principe come dati di fatto. Dal punto di vista della ragion di stato, è del tutto irrilevante se lo stato è legittimo o meno. Il concetto di stato viene in questo modo riscattato dalle connotazioni negative che lo avevano accompagnato nei secoli dell'egemonia intellettuale della filosofia civile. Dotato di una propria ragione, lo stato assume uno status rispettabile. Non era altro, in ultima analisi, che la ragione della forza, della forza di coloro che erano riusciti a fondare o a consolidare stati; una ragione forse meno luminosa della ragione politica, ma certo più potente. Tanto il linguaggio della politica quanto quello della ragion di stato furono il prodotto dell'elaborazione di più pensatori, anche se alcuni lasciarono un'impronta più profonda di altri. Nell'analizzare le loro opere ho cercato soprattutto di mettere in luce in che modo e in qual misura contribuirono alla formazione del linguaggio della politica o sostennero il sorgere e l'affermazione del linguaggio della ragion di stato. In questo contesto, Brunetto Latini emerge come un personaggio centrale, poiché compendia in una definizione generale la concezione della politica emersa dalla tradizione delle virtù politiche e dalla sapienza civile romana, mentre il suo allievo Dante allarga il concetto di politica, come arte di governare secondo ragione e secondo giustizia, nell'arte di fondare e conservare la buona costituzione politica, riassumendo in tal modo una delle innovazioni fondamentali prodotte dalla riscoperta della Politica di Aristotele. Il giurista Baldo degli Ubaldi si distingue, invece, come uno dei principali teorici della politica come scienza civile. Attraverso l'assimilazione della politica alla «disciplina civile», ovvero alla scienza della giustizia, Baldo continuò la tradizione del diritto civile romano e aprì la strada all'identificazione della politica con la legislazione, che divenne uno dei temi centrali del pensiero politico degli umanisti. Al di là delle sue ambiguità intellettuali e ideologiche, Coluccio Salutati emerge come l'autore del «manifesto» della concezione umanistica della politica, intesa come l'espressione più alta della razionalità umana che sola può creare le condizioni perché gli uomini possano godere della felicità civile. Altri umanisti, come Leon Battista Alberti e Poggio Bracciolini, percepirono con acutezza l'emergere dell'arte dello stato e il graduale declino del linguaggio della politica. Il principe di Machiavelli, per citare il personaggio più illustre della storia, non è un testo di politica, ma di arte dello stato, se per «politica» intendiamo ciò che intendeva Machiavelli. Se poi consideriamo l'insieme della sue opere politiche, Machiavelli, contrariamente a ciò XIV
Introduzione
che comunemente si ritiene, si distingue come uno dei più decisi difensori della nozione di politica come arte della repubblica, più che come il padre spirituale della politica come ragion di stato. Francesco Guicciardini fu, dal canto suo, come Machiavelli, un sostenitore della necessità di integrare l'arte del buon governo con l'arte dello stato e al tempo stesso l'assertore di una concezione dell'arte dello stato più corn enzionale rispetto a quella teorizzata da Machiavelli nel Principe. Guicciardini è il vero simbolo del periodo di transizione dalla politica alla ragion di stato: sostenne per tutta la vita gli ideali della «civilità», eppure fu il primo a teorizzare in forma compiuta la ragion di stato. Donato Giannotti, per citare uno dei nomi più noti degli ultimi esponenti del pensiero repubblicano, non fu uno scolastico imitatore delle dottrine politiche classiche, come è stato sostenuto, ma un pensatore che si sforzò di dimostrare che la repubblica, e quindi la politica, può competere con successo con il principato e l'arte dello stato su quello stesso terreno della stabilità e dell'ordine, in cui questi avevano ottenuto i più brillanti trionfi. Giannotti si impegnò in una revisione seria della dottrina politica della repubblica per sostenerne la causa sul piano teorico. Traiano Boccalini, per citare un ultimo personaggio, non fu solo un ironico osservatore della vita politica degli inizi del Seicento, ma anche 1:no dei primi a riconoscere, seppur con riluttanza, che il termine «politica» aveva assunto il significato di «ragion di stato» e a capire le implicazioni politiche e ideologiche della trasformazione. Quando la transizione fu completa, il linguaggio della filosofia civile cessò di essere il linguaggio convenzionale della politica per diventare un linguaggio della nostalgia o dell'utopia, un linguaggio atto a sognare repubbliche del passato o a desiderare repubbliche a venire. «Ragion di stato» divenne sinonimo di prudenza politica: una prudenza, a differenza della vecchia prudenza politica, separata dalla giustizia e dal diritto. Il concetto di politica, che era emerso dall'esperienza delle repubbliche cittadine, era figlio del diritto e dell'etica; quello dell'età dei principati e delle tirannidi ripudiò la parentela con l'uno e con l'altra. Mi auguro che la storia che ho cercato di ricostruire ci aiuti a capire una fase importante del pensiero politico moderno e soprattutto a prefigurare, come cerco di fare nell'Epilogo, una concezione della politica per cui valga la pena impegnarsi. Chi è interessato solo alla storia può senza danno trascurare l'Epilogo; chi è interessato alla teoria può tralasciare la storia. Personalmente prediligo una teoria ricavata dalla storia.
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Dalla politica alla ragion di stato
I.
L'acquisizione del linguaggio della politica
Anche se i termini «politica» e «politico» non compaiono nei documenti di papi e re, il medioevo conservò alcuni resti del linguaggio classico della politica1. Filosofi, teologi ed eruditi del XII secolo avevano nozione di una scienza della politica e trattarono di virtù politiche. Nelle classificazioni generali delle scienze e nelle enciclopedie medievali troviamo infatti riferimenti alla scienza politica, mentre le virtù politiche venivano discusse nel contesto di più ampie analisi dei vari tipi di virtù morali. Nel contesto intellettuale tardo-medievale, gli idiomi del linguaggio classico della politica erano tuttavia quasi irriconoscibili, come frammenti di templi greci o romani inseriti in una chiesa romanica. È solo nel XIII secolo che le sparse rovine della saggezza greca e romana vennero rielaborate per formare un linguaggio coerente e condiviso della politica intesa come arte della città e per costruire l'immagine dell'uomo politico. La rinascita avvenne nel contesto storico delle repubbliche cittadine che fiorirono nei secoli XI e XII nel Regnum Italicum. Anche se il linguaggio della politica che si diffuse nella seconda metà del XIII secolo non fu prodotto esclusivamente dall'ideologia dei governi repubblicani o popolari, l'esperienza storica dei liberi comuni e la loro lotta contro la tirannide furono elementi essenziali a stimolarne la rinascita. Per quanto riguarda le radici intellettuali, possiamo sostenere che le tradizioni di pensiero che cooperarono alla ricostruzione del linguaggio della politica furono soprattutto la tradizione delle virtù politiche, l'aristotelismo e il diritto romano. In questo capitolo cercherò di mettere in luce il contributo specifico di ognuna di queste tradizioni e illuminarne le relazioni reciproche.
' Cfr. W. Ullmann, Principles of Gc'. ernment and Politics in the Middle Ages, LondonNew York, 1974, pp. 111-4 e P. Michaud-Quantin, Universitas, Paris 1970, pp. 5-6; M. Grabmann, Die Geschichte der Scholastischen Methode, Freiburg 1911, Il, pp. 28-54.
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________ Viroli, Dalla politica alla ragion di stato _ _ _ _ _ __ 1. La tradizione delle virtù politiche.
I viaggiatori del tempo notavano che molte città, in Liguria, Lombardia, Romagna, Toscana, Emilia, avevano adottato forme di governo senza eguali in Europa. Parlando di Genova, il viaggiatore ebreo Beniamino di Tudela osservava che i cittadini erano uomini forti che non obbedivano a principi o re, ma solo ai senatori che avevano elettd. Il cronachista Ottone di Frisinga, che viaggia in Italia fra il 1156 e il 1158, scrive che le città italiane erano così attaccate alla propria libertà e temevano tanto l'insolenza dei governanti che si reggevano da sole senza principi o re. Inoltre, per impedire che la sete di potere dei magistrati si manifestasse, cambiavano i loro consoli quasi ogni anno. Con i loro ordinamenti, commenta ancora Ottone di Frisinga, le città italiane imitano la saggezza degli antichi romani1 • Era un'osservazione giusta. Il diritto romano (civilis sapientia) e la tradizione ciceroniana e stoica delle «virtù politiche» furono le fonti principali dell'ideologia politica delle repubbliche cittadine e della rinascita del vocabolario della politica. La letteratura sul governo della città che fiorì nel XIII secolo offre abbondanti testimonianze della presenza del pensiero politico e giuridico romano. Il tema centrale di quella letteratura era, com'è noto, la figura del podestà, il magistrato supremo dotato di poteri giudiziari, militari, amministrativi e del diritto di rappresentare la città nella politica estera. Nonostante l' ampiezza dei suoi poteri e delle sue prerogative, il podestà restava un magistrato elettivo, tenuto ad obbedire agli statuti della città'. Non aveva potere legislativo e alla fine del suo mandato doveva rispondere di fronte ad un consiglio di sindaci del modo in cui aveva usato l'autorità che i cittadini gli avevano affidato. Pertanto, i teorici del governo comunale vedevano in questa figura il fondamento della libertà della città e dedicarono larga parte dei loro trattati a descriverne le qualità. Anche se alcuni testi sul governo comunale e sul podestà furono scrit-
2 «Cives sunt viri fortes: ideoque nec regi nec principi parent; sed senatoribus quos sibi praeficiunt», Benianùno di Tudela, Itinerarium Benjaminis, Lyon 1633, p. 16. ' «In civitatum quoque dispositione ac rei publicae conservatione antiquorum adhuc Romanorum imitantur solleniam•, Ottone di Fnsinga, Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I. Imperatoris, in «Monumenta Germaniae Historiae», Hannover 1884, p. 93. 'Cfr. Q. Skinner, The Foundations of Modern Politica! Thought, Cambridge 1978, r, pp. 3-48; A. Sorbelli, I teorici del reggimento comunale, in «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano», LIX, 1944, pp. 31-136; D. \>.aley, The Italian City-Republics, London 1969. Sulla struttura giuridica dei comuni italiani cfr. H. J. Berman, Law and Revolution. The Formation of the Western Legai Tradition, Cambridge (Mass.) 1983, pp. 386-403.
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ti anche nel XIV e perfino nel XVI secolo, la letteratura sul governo del Comune come genere si esaurì agli inizi del XIV secolo, quando la maggioranza delle repubbliche italiane si trasformarono in Signorie5• Alcune città, come Bologna e Genova, alternarono regimi repubblicani e Signorie. Altre, come Siena e Firenze, difesero fieramente le loro istituzioni repubblicane e capitolarono solo nel Cinquecento. A partire dal XIII secolo, la tendenza generale, tuttavia, fu l'affermazione delle Signorie. Nonostante la relativa brevità, l'età delle libere repubbliche ebbe grande importanza politica e intellettuale. I teorici del governo comunale del XIII secolo ridefinirono l'immagine dell'uomo politico ideale ed elaborarono la concezione della politica intesa come arte di governare la città con giustizia, due temi centrali del linguaggio della politica fino al XVI secolo. Prima ancora della definizione di filosofia politica, fu trattato e sviluppato il discorso relativo all'immagine dell'uomo politico. Premeva in questo senso il bisogno politico e ideologico di precisare il modello ideale del buon podestà, e la stessa tradizione romana che rappresentava la fonte principale dei teorici del governo comunale non aveva detto molto sulla scienza o sull'arte della politica. Gli autori romani trattarono di «ragione civile» e di «scienza civile» come componenti della filosofia, ma parlarono con enfasi molto maggiore delle qualità che il buon governante deve possedere. Per i teorici del governo cittadino, la fonte principale per l'elaborazione dell'ideale dell'uomo politico era il commento al Sogno di Scipione di Macrobio, da cui ricavarono l'idea che chi governa la città deve in primo luogo possedere le virtù politiche: prudenza, fortezza, temperanza e giustizia. Solo le virtù rendono il governante vero uomo politico atto a reggere la città, intesa nel senso classico di respublica, ovvero comunità di individui che vivono insieme secondo giustizia, sotto il governo della legge. Dal testo del De re publica di Cicerone, con la mediazione di Macrobio, tornò in circolazione l'ideale dell'uomo politico che è tale perché possiede le virtù politiche e difende la comunità civile.
Il commento di Macrobio rappresentò da questo punto di vista un ponte importante fra la filosofia politica romana e il pensiero politico ' Sorbelli, I teorici del reggimento comunale cit., p. 123. Sulle origini delle signorie dr. E. Sestan, Le origini delle signorie cittadine: un problema storico esaurito?, in «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano», LXXI, 1962, pp. 41-69, ristampato in La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura d1 G. Chittolini, Bologna 1979, pp. 53-75; N. Valeri, L'Italia nell'età dei principati, Milano 1969; L. Simeoni, Le Signorie, Milano 1950, 2 voi!.
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repubblicano tardo-medievale6• Grazie ad esso, il Somnium Scipionis sfuggì all'oblio che toccò in sorte al testo di Cicerone. I passaggi fondamentali per quanto riguarda le virtù politiche e l'uomo politico si trovano nel I libro, dove Macrobio commenta queste parole che Publio Cornelio Scipione Africano dice al nipote Scipione Africano il giovane: ma perché ru sia, Africano, più ardente nel proteggere lo stato [rem pu!Jlicam ], ricevi questi insegnamenti: per tutti coloro che avranno conser. ato, aiutato e ingrandito lo Stato [patriam] nel cielo è riservato un luogo sacro dove felici possano godere l'eternità'.
Il punto su cui bisogna riflettere per capire il testo di Cicerone, osserva Macrobio, è la connessione fra il perseguimento delle virtù politiche e la felicità. Il bersaglio polemico di Macrobio era la tesi, sostenuta da alcuni filosofi 8, che le virtù appartengono solo a chi si dedica alla contemplazione; tutti gli altri, compresi i buoni reggitori, non possono coltivare le virtù e quindi è preclusa ad essi la via della felicità. Per confutare questa idea, Macrobio ricorre alla distinzione delle virtù in quattro gruppi - le virtù politiche, le virtù purificatrici, le virtù dell'animo purificato e infine le virtù esemplari - e definisce le virtù politiche come proprie dell'uomo in quanto animale sociale. Per mezzo di tali virtù, gli uomini retti servono la repubblica, proteggono la loro città, rispettano i genitori, amano i figli, si prendono cura dei loro concittadini e trattano con equità gli alleati. Fatta questa premessa, Macrobio entra nei dettagli delle virtù specifiche dell'uomo politico. La prudenza dell'uomo politico (politicus) consiste nella capacità di dirigere le proprie azioni secondo la ragione, senza desiderare né fare nulla che non sia giusto9. Deve inoltre possedere la fortezza, che significa temere non i pericoli, ma soltanto la vergogna, rimanere saldo nell'avversa fortuna e conservare la giusta misura nella prosperità. Deve infine essere giusto e dare ad ognuno il suo. Queste virtù permettono all'uomo buono (vir bonus) di essere padrone di se stesso e al tempo stesso governare la repubblica secondo giustizia, prendendosi buona cura dei cittadini. Dopo aver spiegato in che cosa consistono, Macrobio osserva che le virtù 'Cfr. P. Henry, Plotin et l'Occident, Lovanio 1934, pp. 248-50, dove l'autore ricostruisce la circolazione delle teoria di Macrobio e Plotino nella filosofia medievale. ' Macrobio, Commentariorum in Somnium Scipionis libri du,,, a cura di L. Scarpa, Liviana, Padova I 981, p. 93 • Seondo P. Courcelle, Macrobio si riferisce qui ai filosofi della tradizione pitagoricoplatonica; dr. P. Courcelle, Recherches sur S. Ambroise, Paris 1973, p. 12. ' «Et est politici prudentiae ad rationis normam guae cogitat quaeque agir universa dirigere ac nihil praeter rectum velle vel facere humanisque actibus tamquam divinis arbitris providere», Macrobio, Commentariorum in Sorr.ni:,m cit., I, 8.
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politiche sono virtù come le altre, e come le altre portano alla felicità. Con la finzione del sogno di Scipione, Cicerone voleva dire che non solo i filosofi, ma anche i reggitori delle repubbliche (rerum publicarum rectores) possono ottenere la beatitudine eterna. A sostegno della critica alla tesi che solo la contemplazione porta alla felicità, Macrobio cita il trattato di Plotino sulle virtù. Macrobio tuttavia capovolge il ragionamento di Plotino. Nel I libro delle Enneadi, Plotino aveva infatti concesso che le virtù politiche aiutano in una certa misura l'uomo ad ottenere la somiglianza con Dio, che rappresenta il nostro unico e vero fine e la sola speranza di fuggire il male che affligge il mondo secondo leggi necessarie 10 • Le virtù politiche portano alla somiglianza con Dio perché sono principì di ordine e bellezza e danno misura e limite ai nostri desideri e alle nostre passioni. Introducendo nell'anima ordine e misura, la rendono simile all'ordine e alla misura del mondo trascendente, ma non possono assicurare l'agognata somiglianza con Dio. La somiglianza con Dio, spiega Plotino con le parole di Platone, è una fuga da questo mondo la quale richiede, non le virtù politiche, ma le virtù che purificano ed emendano l'anima. Macrobio nobilita le virtù politiche come mezzo per ottenere la felicità. Contro la tradizione neoplatonica, che celebrava le virtù contemplative rispetto alle virtù politiche, Macrobio restaura il principio ciceroniano secondo cui i buoni reggitori, che hanno esercitato le virtù politiche, ottengono gloria perenne. Tanto il buon reggitore che serve la repubblica, quanto il filosofo che cerca la verità nella contemplazione, hanno accesso alla beatitudine. Il Somnium Scipionis, sottolinea Macrobio nell'ultimo capitolo del suo commento, ci esorta a perseguire la virtù e ad amare la patria. Oltre alla teoria delle virtù politiche, il Commentario di Macrobio contribuì a far sopravvivere anche un altro principio importante del!' etica politica repubblicana, ovvero l'idea che i buoni reggitori e i fondatori delle repubbliche meritano uno status quasi divino, sia perché tramite la loro virtù conservano o fondano repubbliche, e nulla è più caro a Dio che le repubbliche dove gli uomini vivono in giustizia sotto le leggi, sia perché, perseguendo la virtù, vivono già, su questa terra, in maniera quasi divina. Non deve dunque sorprendere, conclude Macrobio, se i popoli antichi veneravano come dei i fondatori e i riformatori delle repubbliche 11 • Il commento di Macrobio mantenne in vita " Plotino, Enneades,
I,
I, a cura di A. H. Armostrong, London-Cambridge (Mass.)
1966-88, 7 val!. 11
Macrobio, Commentariorum in Somnium cic., I, 9.
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non solo l'immagine dell'uomo politico caratterizzato dal possesso delle virtù politiche, ma anche l'idea che il grande politico è più vicino a Dio degli altri uomini e ottiene, per le virtù, l'immortalità: in terra non morirà mai nella memoria degli uomini, in cielo aiuterà gli dei a reggere l'universo. La tradizione delle virtù politiche rimase viva lungo tutto il medioevo. Accanto al Commentario di Macrobio, altri trattati sulle virtù contribuirono a trasmettere l'ideale dell'uomo politico, che è tale in quanto possiede le virtù. Fra questi è necessario menzionare almeno le Formulae vitae honestae, di San Martino da Braga, scritte fra il 570 e il 579, a lungo attribuite a Seneca12 • Le Formulae, che, secondo Petrarca, tutti leggevano con grande avidità, trattano delle virtù seguendo lo schema di Seneca che pone al primo posto la prudenza seguita dalla magnanimità, dalla temperanza e dalla giustizia. Nella sua dedica al re Teodemiro, Martino sottolinea che le virtù politiche sono particolarmente importanti per chi dedica la propria vita al bene comuneu. Con la guida delle virtù, il reggitore potrà infatti mantenere il giusto cammino evitando sia la temerarietà che la pusillanimità. La dottrina delle virtù politiche riappare anche nell'anonimo Moralium dogma fhilosophorum, un testo scritto fra il 1145 e il 1170 che ebbe larga circolazione. Se ne conservano infatti cinquanta manoscritti del XIII, XIV e XV secolo e trentotto manoscritti della traduzione in francese arcaico del tardo secolo XIIP'. Il Prologo che accompagna il testo lo descrive come un'imitazione dell'etica di Cicerone e di Seneca: «ethicam Tullianam et Tullium et Senecam imitari» 15. La filosofia pratica, continua il Prologo, si distingue in economia, politica ed etica, che insegnano rispettivamente a governare la famiglia, i cittadini (ad regendum cives) e noi stessi. Dopo questa partizione aristotelica, il testo ripresenta la stessa divisione delle virtù, in quattro gruppi, operata da Macrobio, ovvero virtù politiche (,politice, id est civiles) purgative, virtù dell'animo purificato e virtù esemplari16 • Fra le virtù quelle politiche o civili sono le virtù proprie di coloro che reggono le repubbliche («illis qui regunt rempublicam» ).
" Cfr. C. W. Barlow, lntroduction alle Formuuze, pp. 204-10, in Martino da Braga, Opera Omnia, a cura di C. W. Barlow, New Haven 1950. "Formuuze 'IJitae honestae cic., in Opera Omnia cic., pp. 249-50. " Cfr. lntroduction di J. Holmberg al Moralium dogma fhilosophorum des Guiluzume de Conches, Uppsala 1929, pp. 12-5 e 39-40. " Jbid., p. 77. "Jbid., p. 79.
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Nell'analisi delle virtù politiche, l'autore ribadisce il principio ciceroniano della priorità dell'honestum fondato sul possesso di tutte e quattro le virtù: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza 17 • La prudenza sta al primo posto, perché ad essa spetta il compito di guidare alla scelta giusta, e la deliberazione precede logicamente l'azione. Segue la giustizia, la virtù che conserva la società umana e le repubbliche. Se la giustizia non assicurasse a ciascuno il suo, la società si dissolverebbe per effetto dell'invidia e della sedizione18 • La giustizia deve combattere la truculenza e la negligenza, due nemici ugualmente insidiosi. La prima consiste nella volontà di danneggiare gli altri per paura, avidità o ambizione; la seconda consiste nel non respingere le offese fatte ad altri quando saremmo in grado di impedirle. L'esempio della truculenza è il tiranno, quello della negligenza è il governante o il cittadino pusillanime che non ha virtù civili. La terza virtù, la fortezza o grandezza d'animo ci insegna ad affrontare con fermezza la sorte avversa; la temperanza, infine, ci aiuta a sottomettere le passioni al governo della ragione. Se seguissimo questi principi, vivremmo sicuramente una vita tranquilla, sotto il governo della ragione. I re non dovrebbero mai prestare orecchio a consigli come quello che, secondo Lucano, venne dato a re Tolomeo di Macedonia, ovvero che i re perdono il loro potere quando cominciano a preoccuparsi della giustizia e che la virtù è incompatibile con il potere assoluto 19• Per l'autore del Moralium dogma, al contrario, considerazioni di interesse non possono mai prevalere sull'onestà e giustificare l'abbandono delle virtù, e questo vale tanto per la vita privata e familiare quanto per la vita pubblica. Il tema delle virtù politiche era largamente discusso anche dai teologi del XII e XIII secolo. Nei loro testi, le virtù politiche non sono trattate in relazione al reggitore, come nel Somnium Scipionis e nel M oralium dogma, ma rispetto al problema della salvezza. Simon de Tournai (ca. 1130-ca. 1201), un allievo della scuola di Pietro Abelardo e Gilbert de la Porrée, distingueva fra virtù politiche e virtù cattoliche in base ai criteri del dovere (officium) e del fine (finis). Un dovere, scrive sulla falsariga di Cicerone, è un atto conforme alle leggi e alle istituzioni della città. Un dovere civile o politico è dunque un dovere sancito dal diritto civile (civili iure) o approvato dalla città. Un fine ci"Ibid., pp. 6-7. "«Juscicia esc virrus conscrvacrix humane sociecacis ec vice communicacis», ibid., p. 12. "«Uc distane et fiamma mari, sicut utile recto./ Scepcrorum vis tota eerit, si pendere iusta/ [... ). Vinus et summa potestas non coeunt», Lucano, La guerra civile, a cura di R. Badalì, U tet, Torino 1988, Vili.
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vile è la conservazione e l'unità della repubblica. Una qualità dello spirito informata da un dovere politico e diretta ad un fine politico deve, dunque, essere chiamata virtù politica. L'aggettivo «politico», commenta Simon de Tournai, viene da polis, che significa pluralità o città. Per essere politica, una virtù deve dunque essere approvata dalla città. Le virtù politiche si trovano anche nei pagani e negli ebrei, ma non sono sufficienti per la salvezza dell'anima, per la quale sono necessarie anche le virtù cattoliche, ovvero le virtù per mezzo delle quali noi assolviamo i doveri della religione cattolica, avendo Dio come nostro solo fine 20 • Per Alano di Lille (ca. 1114/20-1202) le virtù politiche non possono essere chiamate semplicemente virtù («non dicuntur simpliciter virtutes» ), ma costituiscono una classe pertico lare, in quanto virtù della città, ovvero virtù sancite dai costumi della città («secundum usum civitatum» ). Le virtù politiche sono dunque essenzialmente particolari e in questo senso si oppongono alle virtù cattoliche che sono genuinamente universali («catholice, quia universales» )2'. Altri testi di teologi dello stesso periodo parlano di tre classi di virtù: le virtù naturali, le virtù politiche e le virtù cattoliche. Per Godefroid de Poitiers, autore fra il 1213 e il 1215 della Summa theologica, le virtù politiche sono il medium fra le virtù naturali e le virtù teologiche o cattoliche, intendendo per virtù naturali gli abiti virtuosi innati («habitus innatus») e per virtù politiche gli abiti acquisiti («habitus acquisitus») che gli uomini apprendono tramite la reiterazione di atti virtuosi22 • Anche per Odo Rigadus (?-1275), chiamiamo la giustizia, la prudenza, la fortezza e la temperanza virtù politiche perché sono il prodotto del comportamento abitudinario tipico della vita della polis. Mentre per Odo Rigadus e gli altri teologi polis significa semplicemente «moltitudine» o «pluralità», in San Bonaventura (ca. 12171274) e Alberto Magno (ca. 1200-1280) troviamo una interpretazione della polis, come comunità di uomini che vivono insieme in modo virtuoso e ordinato, più vicina al significato classico. Le virtù politiche, scrive San Bonaventura, sono così chiamate perché rendono l'uomo bene ordinato per vivere con i suoi concittadini («bene ordinatum ad vivendum inter homines» )2l. Sono dette virtù politiche, chiarisce Al-
"Cfr. O. Lottin, Psyrhologie et morale aux XII• et XII Je siècles, Gembloux 1949, III, 2• pare~: PP: 106-7 · Ib,d., p. 112. "Ibid., p. 125. "Ibid., p. 179.
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berto Magno, perché mantengono la repubblica perfetta, secondo l'ottimo stato dei cittadini (« secundum optimum statum civium» )2'. Furono, tuttavia, i teorici del governo comunale ad attingere largamente al vocabolario delle virtù politiche per disegnare l'immagine del buon reggitore della città. Ne è l'esempio il bolognese Guido Faba, autore, attorno al 1230, della Summa de vitiis et virtutibus 1;. All'inizio del trattato, dopo aver riassunto i quattro tipi di virtù secondo il modello di Macrobio, Faba spiega che le virtù politiche sono proprie di chi regge la repubblica secondo la ragione (cum ratione)2'. La sua trattazione delle virtù politiche presenta, tuttavia, un importante emendamento rispetto a Macrobio. La giustizia è collocata al primo posto seguita dalla fortezza, dalla temperanza e dalla prudenza. Tutte e quattro le virtù sono necessarie al buon reggitore, ma la giustizia viene prima di tutte. Il podestà deve infatti dedicare le sue energie migliori all'amministrazione della giustizia, tenendo in mano la bilancia senza permettere alla pietà di alterare il suo giudizio. Fin quando conserva la giustizia non ha nulla da temere, perché Dio non abbandona chi mantiene sulla terra la giustizia divina27 • La priorità della giustizia, fra le qualità che l'uomo politico deve possedere, emerge anche dall'Oculus pastoralis, un trattato anonimo scritto nel 1222 o 1242 per istruire i nuovi rectores. I.}Oculus termina con un dialogo fra la Giustizia e il podestà che deve rispondere all'accusa di aver trasgredito, per vano desiderio di gloria, le leggi della città che aveva solennemente giurato di rispettare. All'accusa della Giustizia, il podestà risponde che l'estrema corruzione dei tempi lo ha obbligato a ricorrere a decisioni arbitrarie. Ma la sua giustificazione non convince la Giustizia, che ribatte di non essere più disposta a tollerare gli eccessi perpetrati contro il popolo, perché tali eccessi dissolvono i vincoli che lo tengono unito. Il consorzio umano si regge infatti sui principi della sapienza civile (nexibus praeceptorum civilis sapientiae), che impongono la corretta amministrazione della giustizia e il rispetto delle leggi. Ti esorto e ammonisco, conclude la Giustizia, a seguire il mio esempio: astieniti dal pronunciare sentenze ingiuste, dal raccogliere denaro in "Ibid., p.180. · G. Faba, Summa de .•itiis et virt'ltibus, in «Quadrivium», a cura di V. Pini, I, 1956, pp. 41-152. "Ibid., p. 128. " Ibid., p. 133. In un discorso modello, il nuovo podestà dichiara: «son veg[n]uto per essere comunale e fare e mantìg[n]ere ad onne persona rasone». In un altro discorso scrive che s~nza un uomo che assicuri la giustizia («s'el no fosse chi tenesse rasone») non potrebbe esserci vita civile. G. Faba, Parlamenta et epistole, in La prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Monti, Milano-Napoli 1959, pp. 15 e 18.
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modi illeciti e non opprimere coloro che non rientrano nella tua giurisdizione28. Il primo dovere del governante è infatti quello di dedicare ogni sforzo e applicarsi con assoluta diligenza, fede pura e impegno totale per preservare la giustizia (servando iustitiam). Fin quando il podestà conserverà la giustizia, la città avrà pace e tranquillità, sarà prospera e fiorente e i cittadini vivranno in concordia e amicizia29 • L'immagine dell'uomo politico, inteso come governante che garantisce la pace e la giustizia per mezzo delle virtù, è sviluppata con ricchezza di particolari da Giovanni da Viterbo nel Liber de regimine civitatum, scritto negli anni quaranta del XIII secolo, di gran lunga il trattato più ampio sul governo del podestà. L'opera si apre con la definizione di regimen e dei fini del governante. Regimen, si legge, significa dirigere e governare: come il navigante dirige e governa la nave, così il podestà dirige e governa la città per mezzo della giustizia e delle leggi 30• Il fine del governo è frenare e moderare gli uomini, per proteggerli dai mali che nascono dai loro stessi eccessi. Come dichiara il nuovo podestà nel solenne giuramento che deve pronunciare di fronte alla città, il suo dovere è quello di governare, dirigere, reggere, conservare e proteggere la città e i suoi abitanti, tanto i nobili quanto i comuni cittadini, con particolare cura per le vedove, i bambini, gli orfani e i bisognosi; difendere le leggi e gli statuti della città, prendersi cura degli edifici pubblici, degli ospedali, delle strade, tutelare i mercanti e i pellegrini. Per tutto il periodo in cui resta in carica, il podestà deve lasciare da parte ogni sentimento di amore, di amicizia, o di odio, non indulgere alla simulazione o all'inganno, non praticar sofismi, ma servire il bene comune con purezza di animo e di cuore 3'. Dopo aver spiegato cosa significa governo, Giovanni definisce la civitas come «la libertà dei cittadini e l'immunità degli abitanti» 32 e sottolinea, citando Cicerone, che le città furono istituite per assicurare il libero godimento delle proprietà e, come disse Platone, per vivere bene. Dalla definizione di città discende la prescrizione delle virtù del
"Oculus pastoralis, a cura di D. Franceschi, in «Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino», 4, 11, 1966, p. 66 (Jnvectiva Iusticie contra rectores gentium); cfr. anche D. Franceschi, L 'Oculus pastoralis e la sua fortuna, in «Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino», II, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, 99, 1964-5, pp. 206-61. " Omlus pastoralis cit., pp. 24-7. " «Et sicut navis malo et ternane a nauta gubernatur, sic civitas iustitia et iure a preside sive potestate vel rectore gubernatur et regitur, et sine hiis perire sepe solee», Giovanni da Viterbo, Liber de regimine civitatum, a cura di G. Salvemini, in «Biblioteca iuridica medii aevi», lll, Bologna 1901, p. 218. " Jbid., p. 228. "Jbid., pp. 218-9. 12
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reggitore. Prendendo a modello le Formulae vitae honestae di Martino da Braga, Giovanni da Viterbo formula il convenzionale elenco delle virtù politiche: prudenza, magnanimità, temperanza, giustizia, e sottolinea che tali virtù sono indispensabili per chi è responsabile, non solo verso se stesso, ma anche verso i molti33 • Nel seguire le virtù il reggitore deve sempre conservare la giusta misura secondo i tempi e le circostanze, senza eccedere i giusti limiti. Una prudenza eccessiva si trasforma in astuzia; una magnanimità eccessiva rende l'uomo inquieto, pericoloso e selvaggio; un'eccessiva continenza diventa grettezza, sospettosità e timidezza. Anche nella giustizia, è necessario mantenere la giusta misura ed evitare sia la negligenza che la durezza. Poiché la scelta del reggitore è di fondamentale importanza per la vita della città, Giovanni da Viterbo insiste nella descrizione del podestà ideale. I cittadini devono eleggere un uomo che sia capace di governare la città secondo giustizia ed equità («in iustitia et equitate» ), e per scegliere bene devono considerare soprattutto i suoi costumi e la nobiltà del suo animo, senza guardare alle sue origini. Deve essere amante della giustizia e della saggezza, da cui la prudenza non può mai andare disgiunta3'. Deve avere una buona mente, un'intelligenza sottile, essere amante della verità, forte e magnanimo, insensibile alla vanagloria, alla pompa, alle adulazioni e alle ricchezze. La sete di gloria o la brama di ricchezza minacciano infatti la libertà della città («glorie cupiditas... eripit enim libertatem» ). La sua magnanimità deve essere totalmente votata a difendere, non a distruggere, la libertà. Alla scadenza del suo mandato, il buon reggitore deve lasciare la sua carica con piacere, e durante l'esercizio delle funzioni di governo rimanere immune dall'ambizione, dalla paura e dalla irascibilità. Deve essere un uomo tranquillo, costante e sereno, un buon oratore, capace di tenere discorsi alla cittadinanza, ricevere adeguatamente ambasciatori e amministrare la giustizia, non essere troppo loquace: una persona che non sa frenare la lingua non può essere un buon reggitore. Infine, è bene che possegga la «persona» adatta al rango che occupa. Un reggitore che non possieda le virtù politiche non può soddisfare le aspettative dei cittadini, che vogliono un podestà che governi con
"Ibid., p. 255. Nella Summa virtutum et vitiorum, scritta nel 1250, Guillaume Peyraut definisce le virtù politiche come le virtù necessarie all'uomo politico (politice hominis), ovvero all'uomo buono che protegge e serve la repubblica. " Giovanni da Viterbo, Liber de regimine cit., p. 220; Giovanni da Viterbo cita in proposito De offìciis di Cicerone, I, 61-2: «Nihil autem honestum esse potest quod iustitia vacet; nullum enim tempus est quod iustitia vacare debeat». Cfr. Cicerone, De officiis, a cura di W. Miller, London-Cambriclge (Mass.) 1947.
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virilità e con energia, rispettando la giustizia e l'eguaglianza, obbedisca alle leggi e agli statuti, conservi la città pacifica e quieta, punisca ed estirpi i malfattori e i ladri. Usando le redini della giustizia e delle leggi, la città può essere governata pacificamente e diventare quindi ricca e floridaH. Ma se i cittadini eleggono un reggitore che non possiede le virrù, sottolinea Giovanni da Viterbo, tutti i buoni effetti del governo svaniscono e in luogo della pace, della sicurezza e della prosperità regneranno crimine, discordia e miseriaJ 6• L'idea di uomo politico, che emerge dalla letteratura sull'autogoverno comunale, è quello di un magistrato che ha ampi poteri di governo e possiede la maestà che gli deriva dall'essere capo della città. I poteri e la maestà gli sono conferiti in quanto. persona pubblica. Quando entra in carica, il podestà si impegna infatti ad agire come rappresentante, o meglio come personificazione della città37 • È magistrato supremo e, al tempo stesso, servo della città. Nell'adempimento dei suoi doveri deve lasciare da parte le sue passioni private e i suoi interessi. Non può né amare né odiare, poiché se lasciasse interferire le passioni con i suoi doveri cesserebbe di essere persona pubblica per diventare un privato cittadino con grandi poteri nelle sue mani. Le sue virtù devono essere le virtù politiche, che sole gli permettono di rimanere una persona pubblica e servire adeguatamente il bene comune. L'immagine dell'uomo politico costruita dai teorici e dai sostenitori del governo comunale si basa su due elementi principali - il concetto di persona pubblica e il possesso delle virtù -, entrambi di derivazione romana. Attingendo alla filosofia morale di Seneca e di Cicerone, gli scrittori politici del XIII secolo costruirono il ritratto dell'uomo politico che doveva servire come modello del reggitore e del magistrato comunale, senza tuttavia porsi il problema di definire in che cosa consista l'arte o la scienza della politica. Per trovare una definizione della politica bisogna aspettare il Tresor di Brunetto Latini, un testo che ebbe grande influenza nella costruzione del linguaggio politico dell'Italia tardo-medievale. In questo senso è indicativa la testimonianza di Giovanni Villani: Brunetto Latini, scrive nella Cronica, «fu mondano uomo, ma di lui averno fatta menzione, perch'egli fu cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti di
" «Per hec enim frena civitatcs reguncur et tenetur pacifice, crescunt, ditancur et maxime recipiunc incrementum•, Giovanni da Viterbo, Liber de regimine cit., p. 231. ,. «Cessantibus virtutibus in preside, cesset bonus effectus regiminis», ibid.,p. 221. " Cfr. Q. Skinner, Ambrogio Lorenzetti: The Artist as a Politica! Philosopher, in «Proceedings of che British Academy», 77, 1986, p. 24.
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bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica» 38 • La connnessione fra politica e retorica, che Latini sottolineava nel Tresor, rispondeva bene ai bisogni intellettuali e pratici della politica comunale, dove il discorso aveva tanta parte, nelle deliberazioni più o meno ristrette, nei consigli, e nelle orazioni. Al tempo stesso, Latini compendiava in una definizione la concezione della politica destinata ad avere grande fortuna nell'età umanistica e rinascimentale. Dopo aver suddiviso, aristotelicamente, la filosofia pratica in etica, economica e politica, spiega che la politica è la più elevata fra le scienze umane e la più nobile attività dell'uomo, in quanto insegna a governare gli abitanti di un regno, di una città, di un comune, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, secondo ragione e secondo giustizia («selonc raison et selonc justice» )3". La scienza della politica, prosegue Latini parafrasando Aristotele, ha il compito di conservare, attraverso il linguaggio, l'ordine civile; per questa ragione le scienze che ci insegnano a ben parlare, ovvero la grammatica, la dialettica e la retorica, devono essere considerate parti della politica. Senza dubbio Latini ricava la descrizione della politica come la più nobile ed elevata attività pratica dell'uomo dal passo dell'Etica nicomachea, in cui Aristotele introduce l'immagine della politica, come arte architettonica' 0• La sua definizione della politica, come scienza che insegna a governare secondo la ragione e secondo la giustizia, è però una elaborazione di temi e concetti che venivano da fonti romane e "G. Villani, Crorica, Firenze 1845, VIII, cap. 10. "B. Latini, Li livres dou tresor, a cura di F. J. Carmod;·, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1948, r, p. 4. "' «Son livre definiroit en politique, c'est à dire des governemens des cité, ki est la plus noble et la plus haute ~~ience et li plus nobles offices ki soit en tiere, selonc Aristodes preuve en son livre», ibid., m, 73. Cfr. anche il sunto dell'Etica nicomachea nel II libro del Tresor. Non c'è accordo fra gli studiosi sull'edizione dell'Etica usata da Latini nel Tresor. Th. Sundby sostiene che Latini consultò la traduzione di R. Grosseteste, mentre Skinner suggerisce il testo tradotto dall'arabo, nel 1240, da Hermannus Allemannus. Cfr. Th. Sundby, Della vita e delle opere di Brunetto Latin:, Firenze 1884, p. 144; Skinner, Ambrogio Lorenzetti: The Artist as a Politica! Philosopher cit., p. 4. Si veda inoltre N. Rubinstein, MarsiL.s and ltalian Politica! Thought o/ bis Time, in Europe in the Late Middle Ages, a cura di J. R. Hale, J. R Highfield e B. Smalley, Evanston 1965, p. 51, nota 3. Quale che sia stata la fonte diretta, Latini adattò Aristotele ai suoi ideali politici. Nella sua parafrasi del X libro dove Aristotele dice che la miglior forma di governo è la monarchia («Harum autem optima quidem regnum pessima timocratia» ), Latini gli fa dire che la mi,;lior forma di governo è la repubblica: «Signories sont de m manieres: L'une est des rois, la seconde est des bons, la tierce est des communes. Laquele est la trés millour entre ces autres». Sulle traduzioni latine di Aristotele cfr. M. Grabmann, Forschungen uber die La:einischen Aristotles-Ubersetzungen des 13. Jahrunderts, in «Beitrage zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters•, a cura di C. Baumker, XVII, 5-6, Miinster 1916.
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circolavano nella letteratura sull'autogoverno comunale. Tanto la formula «governare la città secondo giustizia» («in iustitia» ), quanto il precetto di governare secondo la ragione (« cum ratione ») erano luoghi comuni nei trattati sul governo comunale. Nella Summa de vitiis et virtutibus, ad esempio, Guido Faba parla delle virtù politiche come delle virtù proprie di coloro che vogliono governare la repubblica secondo ragione41 • Per intendere il significato della definizione del Tresor dobbiamo dunque interpretarla nel contesto della letteratura sull'autogoverno comunale. Come Latini stesso spiega, la sua riflessione verte sulla persona e sui doveri del reggitore («au cors dou signor et a son droit office»). Del resto, anche se comprende nella sua definizione di politica il governo degli abitanti di un regno, esclude esplicitamente dalla sua trattazione le Signorie ereditarie, come quelle dei re e degli imperatori o le magistrature temporanee come quelle che esistevano in Francia, dove il re vende il governatorato delle città senza tenere in nessun conto le virtù della persona e gli interessi dei cittadini. La sua definizione di politica e i commenti ad essa connessi si riferiscono di fatto alle repubbliche, dove i cittadini eleggono come loro podestà o signore la persona più atta a tutelare il bene comune della città42 • Sebbene il suo ideale di uomo politico sia il medesimo dei teorici dell'autogoverno comunale, Latini, attingendo dall'Etica nicomachea, nobilita ulteriormente l'arte del governo pubblico, presentandola come la più eccellente fra le scienze pratiche. Seguendo lo schema del Liber de regimine civitatum di Giovanni da Viterbo, Latini inizia la sua trattazione con una spiegazione dell'origine e della natura delle comunità politiche di stampo schiettamente ciceroniano. Le città, scrive, furono istituite per difendersi dai nemici esterni e dagli ambiziosi che vogliono imporre la loro volontà agli altri. Nel suo vero significato, la città è dunque una congregazione di uomini, istiruita per vivere insieme in pace sotto il governo della legge•J. Oltre alle leggi, il requisito fondamentale della vita civile è il linguaggio, che consente agli uomini di esprimere non solo sensazioni di piacere o pena, ma anche di argomentare del giusto e dell'ingiusto ed intrattenere una conversazione civile. La comunità politica è, dunque,
• 1 •Pollitice virtutes dicumur civiles que conveniunt illis qui rempublicam cum ratione gubernant•, Faba, Summa de vitiis cit., p. 128. • 2 Latini, Li livres dou Tresor cit., III, 73, 4. •, «Por ce dist Tuilles ke cités est un assemblemens de gens a abiter un lieu et vivre a une loi», ibid., 73, 3.
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il luogo in cui gli uomini possono esprimere la propria umanità per mezzo del linguaggio e vivere una vita veramente umana. A ragione, commenta Latini, Cicerone disse che la retorica è la più nobile componente della scienza del governo civile". I mitici fondatori delle comunità politiche erano uomini saggi che parlavano bene («sages hommes bien parlans») e seppero persuadere i loro simili ad abbandonare la vita selvaggia per vivere insieme, secondo ragione e secondo giustizia. Con la saggezza e la persuasione, emanciparono gli uomini dal disordine e dall'insicurezza, offrendo loro la possibilità di vivere come uomini in comunità civili. A ragione, sottolinea Latini, gli antichi veneravano come semidei i fondatori delle repubbliche' 5• La medesima alleanza di saggezza e retorica, che rese possibile la nascita delle comunità politiche, è necessaria alla loro conservazione. Senza la saggezza la retorica può distruggere la vita civile, in quanto eccita le passioni e aiuta l'imporsi di interessi particolari, causando, nell'un caso e nell'altro, la dissoluzione della comunità civile e la perdita della libertà. La convivenza civile fa nascere litigi e rivalità che devono essere risolti con la persuasione, prima che degenerino in guerra civile'6• Quindi il reggitore deve conoscere l'arte della retorica per persuadere o individui o famiglie o gruppi a moderare le loro richieste, avendo sempre come fine la conservazione della concordia e cieli' amicizia civile. Come il princeps ciceroniano, il reggitore della repubblica deve essere un uomo buono e un bravo oratore, per essere in grado di conservare i tre fondamenti della repubblica: la giustizia, il rispetto e l'amore. Deve avere la giustizia fermamente radicata nel cuore per dare a ciascuno il suo, senza favorire una componente della città a danno delle altre. I cittadini e i sudditi, a loro volta, devono essere reverenti nei confronti dei magistrati, perché la reverenza sostiene la fede e aiuta a superare i momenti difficili che ogni città fatalmente attraversa. La libertà e la pace della città si fondano dunque su un doppio legame di affetto: il reggitore deve amare lealmente i cittadini e vigilare giorno e notte sul bene comune della città e sulla sicurezza di ogni cittadino; i cittadini devono
amare il loro signour con tutto il loro cuore e assicurargli tutto il sostegno di cui ha bisogno per svolgere il suo oneroso compito".
" «Et Tuilles dist gue la plus haute science de cité governer si est rèctorique, c'est à dire la science du parler», wid.• 1.
"Ibid. "Ibid., 4. "Ibid., 74. 17
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Anche per Latini, come per gli altri teorici del governo comunale, essere podestà di una repubblica è il più grande onore che un uomo possa avere in terra. Il podestà è infatti liberamente eletto, fra tutti, per le sue virtù e a lui sono affidati i supremi poteri' 8• Gode di una nobilità che lo distingue da tutti gli altri cittadini e che vale più di ogni altra, perché è un riconoscimento pubblico e perché torna a vantaggio del bene comune". Chi è chiamato a reggere la città, sottolinea Latini, non deve cercare altra nobiltà tranne quella che i suoi concittadini gli hanno liberamente conferito50 • L'orizzonte politico di Latini è ancora centrato sulla figura del reggitore, più che sulla forma di governo. Il reggitore è il perno della vita della città. Se il reggitore governa secondo giustizia e ragione, la città sarà pacifica e prospera nelle ricchezze e nel numero degli abitanti; se è cattivo, soffrirà divisioni e guerre che porteranno al suo declino. Sfortunatamente, commenta Latini, le repubbliche italiane sono spesso poco sagge nelle loro scelte ed eleggono i loro reggitori guardando più alla famiglia di appartenenza e al potere che alla virtù. In questo modo, preparano con le proprie mani la propria rovina51 • Anche se le pagine del Tresor sul governo della città riproducono i concetti convenzionali della dottrina dell'autogoverno comunale, Latini diede un contributo importante all'acquisizione del linguaggio della politica, perché diffuse una concezione che andav.1 ad integrare quella che i teorici dell'autogoverno repubblicano avevano ricavato dalla tradizione delle virtù politiche. Il concetto aristotelico della politica come scienza nobile arricchiva dunque l'immagine del politicon. In questo senso Latini fu davvero, come Villani aveva scritto, maestro di politica, della politica, bisogna aggiungere, come arte del buongoverno.
" «Et puiske vous m'avés fet le plus grand honour ke gens puissent faire en cest siede vivant, c'est a faire de moi conduiseour et segnor de vous par vostre bon gré, je espoir et eroi •, :raiement que vous serés estables et obeissant a mes honours et a mes commandemens, meismement por le proufit et por le governement de vos et des vostres», ibid., 82, 6 "Ibid., 79. "Ibid., 82. "Ibid., 75. " Un esempio della fusione del linguaggio delle virtù politiche con termini della tradizione greca è il trattato De regi,1:ine rectoris, di Fra Paolino Minorita, scritto fra il 1313 e il 1315. La prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, scrive, sono dette virtù politiche da polis, che significa in greco pluralità (è chiara la confusione fra polis e polys), perché esse permettono agli uomini di vivere insieme in maniera ordinata: «dite politiche en lengua grega, quasi da pluralitade, ché per ese se ordena la moltitudene de li homini a viver horddenadamenre l'un con l'altro•, Fra Paolino Minorita, De Regimine Rectoris, a cura di A. Mus~afia, Vienna-Firenze 1898, p. 3.
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2. La rinascita dell'aristotelismo. La riscoperta dell'Etica nicomachea e della Politica nel XIII secolo apre un nuovo capitolo nella storia dell'acquisizione del linguaggio della politica. Prima che Grosseteste completasse, attorno al 1240, la sua traduzione latina dell'Etica nicomachea, e Guglielmo di Moerbeke, attorno al 1260, quella della Politica, gli studiosi di cose morali e politiche avevano solo una vaga conoscenza della concezione aristotelica della politica'. Nel suo De divisione philosophiae, scritto a metà del XII secolo, Domenico Gundisalvi parla di un libro di Aristotele che tratta della politica come parte dell'etica («in libro Aristotelis qi,i politica dicitur, et est pars ethice» ). La politica, scrive nel capitolo sulla partizione della filosofia pratica, è la scienza di governare la città («scientia est gubemandi civitatem» ), detta anche, secondo l'idioma latino, «ragione civile» («civilis ratio»). La compresenza di idiomi greci e romani non sorprende, in quanto Gundisalvi oltre ad Aristotele, che conosceva da fonti arabe, attingeva anche ai testi di Cicerone2• Tuttavia, si trattava, almeno per quanto riguarda la Politica, di una conoscenza molto imprecisa, come è dimostrato dal fatto che egli vi sostiene che il libro di Aristotele insegna quali sono le inclinazioni e le qualità che bisogna incoraggiare in un futuro re per essere certi che diventi un re perfetto («rex perfectus» ). Poiché i buoni costumi dei sudditi dipendono in larga misura dalla virtù di chi li governa, è necessario, affinché i sudditi vivano vinuosi e felici, che il reggitore possieda una virtù regale («virtus regia»). La virtù regia, spiega Gundisalvi adattando la partizione aristotelica della filosofia pratica, si distingue in scienza della legislazione, scienza del governo della famiglia e scienza del governo di se stessi'. Un altro esempio di commistione di concetti di derivazione greca e romana si ritrova in Ugo di San Vittore (1098-1142), che insegnò nell'abbazia di San Vittore e vi fondò un'importante scuola di teologia. Nel Didascalicon, dopo aver presentato una classificazione sistematica delle scienze, spiega che «politica» deriva dal greco polis, che in latino significa civitas e aggiunge che da questi termini nascono le espressio'Cfr. J. Kra~·e, Moral Philosophy, in The C., ..,.,1,r,dge History of Renaissance Philosophy, a cura di Ch. B. Schmitt, Cambridge 1988, p. 303. 'Domenico Gundisalvi, De divisio.~e philosophi.te, in «Beitrage zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters•, a cura di L. Baur, IV, 2-3, Miinster 1903, p. 134. ' Ibid., pp. 134-7. Sulla rinascita dell'aristotelismo politico cfr. G. de Lagarde, La naissance de l'esprit laique a,, declin du moyen age, Il, Louvain-Paris 1958, pp. 10-27 e C. 11artin, Son.: ,\fedieval Comment".·ies on Aristotle's Politics, in «Histor;_.•, 36, 1951, pp. 29-44.
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ni «filosofia politica», ovvero «civile» («politica, id est civilis» ). Un'altra parola che si usa per «politica», è «pubblica», da distinguersi da «privata» e «individuale». La filosofia morale individuale ci insegna a perseguire le virtù e ci indica la strada della felicità, quella privata ci istruisce sul governo della famiglia, mentre la filosofia pratica pubblica ci guida nel governo della repubblica e a prendersi cura del bene comune con la sollecitudine della prudenza, la misura della giustizia, la tenacia della fortezza e la pazienza della temperanza. Il fine della filosofia politica o civile è dunque il bene pubblico, nettamente distinto, pur se lo comprende, dal bene individuale o dall'interesse della famiglia. Come ripete Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie', la filosofia politica o civile è quella filosofia di cui ci serviamo per amministrare l'interesse di tutta la città ( «totius civitatis utilitas administratur» ). Mentre la filosofia morale «solitaria» è propria dell'individuo, e quella privata (ovvero l'economia) del capo della famiglia, la filosofia politica o civile racchiude la saggezza che si conviene al reggitore della città («convenit ... politica rectoribus urbium» )5. Nel XIII secolo, il linguaggio della politica è ancora prevalentemente debitore alla tradizione latina delle virtù politiche e al diritto romano, con poche aggiunte di ispirazione aristotelica, che si riferiscono quasi esclusivamente alla partizione della filosofia pratica ed hanno dunque un significato essenzialmente chiarificatorio. Nel suo Tractatus de divisione multiplici potentiarum animae, il teologo francescano Jean de la Rochelle definisce la virtù individuale - di cui tratta principalmente l'Etica nicomachea - «monostica» in quanto insegna all'uomo a governare se stesso. La virtù «domestica», o «economica», che serve al marito per governare la moglie e i figli, può essere invece studiata nel De officiis di Cicerone, mentre la virtù politica, che ci insegna a governare la città, deve essere studiata su testi giuridici, in particolare il Codice di Giustiniano, e il Decreto di Graziana6. Ancora negli anni quaranta del XIII secolo, nonostante la disponibilità (parziale) dell'Etica nicomachea, la politica non ha un proprio status intellettuale né un testo fondamentale, ma deve rivolgersi al di' «Cuius partes sum tres, moralis, dispensativa et civilis. Moralis dicitur, _per quam mos vivendi honesrus adpetitur, et instituta ad virtutem tendentia praeparantur. D1spensativa dicitur, cum domesticarum rerum sapienter ordo disponitur. Civilis dicitur, per quam totius civitatis utilitas adrninistratur», Isidoro di Siviglia, Etymologi.arum sive originum, a cura di W. M. Lindsay, Oxford 1911, II, 24. ' Ugo di San Vittore, Didascalicon, II, 19, a cura di Ch. H. Butimer, Washington 1939, pp. 37-8. 'Jean de la Rochelle, Tractatus de divisione multiplici potentiarum animae, m, 5, a cura di P. Michaud-Quamin, Paris 1964, pp. 152-3.
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ritto civile e canonico. I frammenti dell'aristotelismo, che erano giunti in Europa attraverso il mondo arabo, non erano sufficienti per edificare un linguaggio autonomo della politica. Un passo in avanti significativo in questa direzione furono la traduzione cieli' Etica nicomachea da parte di Grosseteste e il commentario di Tommaso d'Aquino. Seguendo l'uso convenzionale, anche Tommaso divide la filosofia morale in monostica, che tratta del governo dell'individuo, yconomica, che verte sul governo della famiglia, e politica che ha per oggetto la condotta dell'uomo nella società politica7• La scienza politica, in particolare, ha per fine la virtù; suo fine è rendere i cittadini buoni e rispettosi delle leggi, come mostra l'esempio degli eccellenti legislatori di Creta e Sparta. Poiché si prende cura dell'anima umana, la politica deve dunque essere considerata l'arte più nobile e importante8• Perché la politica diventasse disciplina autonoma, dotata di un proprio linguaggio condiviso, occorreva aspettare la traduzione della Politica. Grazie al testo aristotelico, cominciò a diffondersi una concezione più ampia della politica, non solo come arte di reggere la città secondo ragione e secondo giustizia, ma come scienza della città in generale («de civitate doctrina» )9. Il centro della riflessione si spostò dalla figura del reggitore alla costituzione e alla vita collettiva della città, dai doveri e dalle virtù dell'uomo politico alla valutazione dei vizi e delle virtù delle diverse forme di governo. Questa visione più ampia della politica emerge con particolare evidenza dai testi dei filosofi scolastici del XIII e del XIV secolo 10 • Come ha osservato Nicolai Rubinstein, fu lo stesso Guglielmo di Moerbeke a favorire, involontariamente, il passaggio dall'uomo politico alla costituzione politica. Nella sua traduzione del passo in cui Aristotele confuta l'identificazione del politico con il re o il despota, Moerbeke rende «uomo politico» con politicum, intendendo, o almeno autorizzando ad intendere, «regime politico» in contrasto con il regime monarchico e il regime dispotico". Tommaso, seguendo l'indicazione di 'Tommaso d'Aquino, Sententia libri ethicorum, in Opera Omnia, Cura et Studio Fratrum Predicatorum, voi. 47, Roma 1969, p. 4. ' «Civilis enim scientia secundum rei veritatem maxime videcur studere et laborare circa virtutem; intendic enim cives bonos facere et legibus oboedientes, sicuc patet per legislacores Crecensium et Lacedaemoniorum, qui habebanc civilitacem optime ordmatam, ve! si qui alii sunt similes, leges ponentes ad faciendum homines vircuosos», ibid., p. 68. 'Tommaso d'Aquino, Sente1;tia libripoliticoru,·z, in Opera Omnia cit., p. A 69. "Cfr. B. Tierney, R,:igion, law and the grorth of constitutional thought 1150-1650, Cambridge 1982, p. 29. 11 N. Rubinscein, The history of the 'IL'Ord politicus, in The Languages of Politica! Theory in Early-Modern Europ~, a cura d1 A. Pagden, Cambridge 1987, p. 42. Il testo di Moerbeke recita: «Quicunqu: quidem igitur existimant politicum et regale et yconomicum et despoti-
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Moerbeke, concentra il commento sul concetto di regime politico («regimen politicum») e spiega la distinzione fra il governo monarchico e il governo politico. Tommaso spiega che nel primo il sovrano ha il potere assoluto («plenariam potestatem» ), mentre nel secondo il potere del reggitore è moderato dalle leggi della città 12• Fra i due tipi di regime, la differenza non è quantitativa, bensì qualitativa. Nel primo il potere sovrano è esercitato senza limitazioni; nel secondo il reggitore ha l'obbligo di esercitare il potere sovrano nel rispetto di leggi dettate dalla prudenza politica, ovvero di leggi istituite per la conservazione della città 13 • Il regime politico e il regime dispotico sono diversi anche per il tipo di obbedienza che lega i governati ai governanti. Il regime politico riproduce il governo dell'intelletto sugli appetiti, mentre il regime dispotico è simile al dominio dell'anima sul corpo; il corpo non può infatti opporsi ai comandi dell'anima, mentre gli appetiti possono invece resistere all'intelletto. Nel governo politico sopra uomini liberi i cittadini possono opporsi, come spesso fanno, ai comandi dei governanti; gli schiavi sottoposti al regime dispotico non ne hanno invece facoltà, così come le mani non possono rifiutarsi di seguire i comandi della mente". In un regime politico, inoltre, i cittadini si alternano nelle cariche pubbliche in quanto, sottolinea Tommaso, sono per natura eguali. E la loro eguaglianza come cittadini non è intaccata dal fatto che i magistrati godono di dignità superiore e sono autorizzati a portare simboli onorifici 15 • Il regime politico, infine, è istituito per il bene comune dei cittadini'"; se questi sono oppressi da un tiranno o se le sette distruggono la civile concordia e impongono interessi particolari, non si può più parlare di regime politico 17• Tommaso accetta la celebrazione aristotelica dell'eccellenza della comunità politica come destinazione naturale dell'uomo e condizione cum idem, non bene dicunt», Aristote.'isr.oliticorum libri octo cum vetusta tr..: datione Guilel-ni de ,lfoerb,ka, a cura di F. Susemih, Leipzig 1872, I, 1.2 (1252a 5-10). " «Secundum aliquas leges civitates», Tommaso d'Aquino, Se,:tent,a libri politicorw· cit., p. A 72 (1252a 7). " «Quando enim ipse home preest simpliciter et secundum omnia, dicitur regimen re 0 ,le. Quando autem preest secundum sermoncs disciplinales, id est secundum leges positas per disciplinam politicam, est regimen politicum», ibid., p. A 72 (1242a 9). " Ibid., p. A 87. " «In politicis principatibus transmutantur persone principantis et subiecte; qui enim sum in officio principatus uno anno subditi sunt alio, et hoc ideo quia talem principatum competit esse inter eos qui sunt equales secundum naturam et in nullo differunt naturaliter», ibid., p. A 113. "Ibid., p. A 202. "Ibid., p. A 175.
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necessaria per l'elevazione morale 18 • Chiama la comunità politica «comunità perfetta» («communitas perfecta» ), in quanto assicura l'autosufficienza, permette di vivere in giustizia e incoraggia il perseguimento della virtù. Anche se riconosce ai fondatori delle comunità politiche il merito di aver dato agli uomini il mezzo necessario per conseguire la loro eccellenza morale, Tommaso non celebra i fondatori delle comunità politiche con la stessa enfasi dei teorici del governo comunale e dedica alla descrizione delle virtù del reggitore solo poche osservazioni 19. Il solo riferimento alle virtù dell'uomo politico («politicum, id est rectorem politie») è nel commento al celebre passo del III libro, in cui Aristotele discute se le virtù del buon cittadino siano le medesime dell'uomo buono. Un uomo non può essere un buon principe, se non possiede le virtù morali, in particolare la prudenza20 • Il buon principe, conclude Tommaso, deve essere buono, poiché la prudenza è la capacità di fare, nelle condizioni concrete della vita pratica, la scelta che conduce al bene. Benché riconosca alla politica e all'uomo politico un rango elevato, Tommaso toglie ad entrambi parte dello splendore di cui godevano negli scritti dei teorici del governo comunale. Poiché ha per fine il bene comune della città, la politica può, a ragione, essere considerata la più nobile fra le scienze umane; ed è giusto considerare la politica come il completamento dell'etica, come fa Aristotele alla fine dell'Etica nicomachea 21 • La politica ha il compito di istituire l'ordine della città per mezzo della costituzione22 • E poiché la città è la più alta creazione della ragione umana, il più alto bene sulla terra, la politica merita il rango più elevato fra tutte le scienze pratiche. Al di sopra della comunità politica vi è, tuttavia, la città eterna e, oltre ai fini umani, vi sono i fini ultimi dell'universo di cui si occupa la teologia («scientia divina»), che va quindi riconosciuta come la più perfetta fra tutte le scienze23 • La politica, osserva Tommaso, potrebbe rivendicare un rango più alto della teologia solo se potesse provare che
"Jbid., p. A 79. " Ibid., p. A 80. " «Non enim dicirur aliquis esse bonus princeps nisi sit bonus per virtutes morales et prudens; dictum est enim in· I Ethicorum quod politica est quedam pars prudentie. Unde oportet politicum, id est rectorem politie esse prudemem et per consequens bonum virum•, ibid., p. A 194. " «Si igitur principalior scientia est que est de nobiliori et perfectiori, nece_.se est politicam imer omnes scientias practicas esse principaliorem et architectonicam omnium aharum, utpote considerans ultimum et p :rfectum bonum in rebus humanibus•, ibid., p. A 70. " «De hominum considerar ordinatione•, ibid. "Tommaso d'Aquino, Senu·,tia libri ethicoru: _cit., p. 9.
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l'uomo è la più nobile creatura nell'intero universo. Senza considerare Dio, l'universo è abitato anche da altre creature celesti superiori all'uomo. La politica deve dunque cedere il passo alla teologia. La conoscenza che la politica ci offre, inoltre, è necessariamente contingente e particolare e poiché non può raggiungere l'universalità e la necessità della scienze contemplative deve cedere anche ad esse. Per Tommaso, Aristotele ha ragione a separare la politica dalla prudenza, in quanto la prudenza, a rigore, è l'arte di governare se stessi, mentre la politica si occupa del governo dei molti. Quest'ultima non dovrebbe essere considerata come un tutto indifferenziato, bensì distinta in arte della legislazione - che è esercizio della prudenza nel fare le leggi - e arte della loro attuazione. Mentre la prima dovrebbe essere chiamata scienza della legislazione, la seconda potrebbe conservare il nome di politicaH. Una revisione ancora pìù profonda dell'immagine dell'uomo politico e della politica fu attuata da Egidio Romano nel suo De regimine principum libri !II, scritto attorno al 1280. Come f.gidio stesso spiega nel «proemio», il tema del libro è specificamente il governo di un regno («gubernatione regni secundum rationem, et legem» )H. Pur conservando in parte la terminologia di Latini quando parla di governo secondo la ragione e secondo il diritto, Egidio Romano non si riferisce ad un governante elettivo, ma ad un monarca ereditario. Allargando il campo di applicazione del concetto di governo politico fino :, comprendervi il governo monarchico, Egidio introdusse una modificazione che diede l'avvio a una importante discussione sui requisiti che un regime o un governante debbono possedere per meritare il titolo di «politico» 26 • Seguendo l'ordine naturale e razionale, spiega Egidio, bisogna trattare, nell'ordine, del governo di se stessi (etica), del governo della famiglia (economia), del governo della città (politica). Nella prima parte del De regimine principum, dedicata all'analisi dei fini, delle virtù, delle passioni e dei costumi del principe, Egidio disegna un'immagine del principe ideale che riproduce vari elementi del reggitore teorizzati dai sostenitori dell'autogoverno comunale. Come un vero uomo civile o politico, il principe merita di governare solo se possiede le virtù politiche, prime fra tutte le virtù. Chi non possiede le virtù è atto a servire, non a governare, poiché solo chi è capace di sottomettere le sue pas,, Jbid., p. 353. "E_gidio Romano, De regimine pri·icipum, Roma 1607, I, 2. "fbid., I, I. 1.
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sion~ e i suoi appetiti al governo della ragione può riuscire a conservare il regno unito e pacifico". Il buon principe deve essere perfettamente virtuoso e possedere tutte le qualità necessarie, in quanto la mancanza anche di una sola di esse compromette tutte le altré8• Nella descrizione delle virtù, tuttavia, Egidio si allontana tanto dallo schema ciceroniano quanto dall'esposizione di Seneca; tuttavia, come quest'ultimo, pone la prudenza al primo posto, perché ha il compito di guidare le altre virtù, ma colloca la giustizia al di sopra della fortezza e della temperanza29 • L'avanzamento della giustizia dal quarto al secondo posto è dovuto all'enfasi con cui Egidio raccomanda che il principe sia, prima di ogni altra cosa, guardiano delle leggi. Anche se il principe è la legge vivente («lex animata»), deve essere anche servitore della giustizia30 • Dio gli ha infatti affidato il popolo, affinché lo governi secondo giustizia, non perché lo opprima come un tiranno. Attingendo dalla tradizione delle virtù politiche, Egidio completa il suo decalogo soffermandosi su fortezza, temperanza, magnanimità, liberalità, mansuetudine, affabilità e piacevolezza31 • A queste aggiunge la devozione a Dio e la carità, due virtù che non rientrano nello schema delle virtù politiche e provengono invece dalle virtù teologiche o cattoliche. Mentre l'uomo politico ciceroniano aveva bisogno solo delle virtù politiche per conseguire la gloria perenne e la beatitudine eterna, il principe scolastico, per essere principe perfetto, deve essere anche devoto a Dio e caritatevole. Oltre all'elenco delle virtù, Egidio rielabora anche il concetto di felicità politica. Poiché il principe ha sulle sue spalle il peso di guidare il popolo sulla via della felicità, deve sapere meglio di ogni altro che la vera felicità non consiste nei piaceri sensuali, nella ricchezza, negli onori, nella fama, nella gloria, nel potere, ma nell'amore di Dio e nella vita virtuosa. Come ha spiegato Aristotele, la virtù perfetta nella vita politica è la prudenza, e il principe che governa secondo la prudenza raggiunge la felicità politica («est felix politice» )l2. Quello di Egidio è, tuttavia, un adattamento dell'argomento aristotelico sulla prudenza "Ibid., 1, 1. 3, pp. 9-10. " «Quare sic decet Reges, ec Principes esse quasi semideos, et habere vircuces perfeccas: decet eos habere omnes virtuces, quia perfecte una vircus sine alijs habere non potesc», ibid., I, 2.31, p. 143.
"Ibid., 1, 2.5, p. 60.
'° «Summopere srudere debent Reges, et Principes uc servent Iustitiam»; ibid., I, 2.12, p. 82.
"lbid., I, 2.3, p. 51. " «Cum igicur, penccta vircus secundum Philosophum in vita politica sic Prudencia»,
ibid., I, 1.12., p. 37.
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politica sensibilmente diverso anche da quello elaborato dal suo maestro Tommaso. Commentando il VI libro dell'Etica nicomachea, Tommaso aveva sottolineato che, per Aristotele, politica e prudenza sono sostanzialmente il medesimo abito dello spirito, in quanto consistono entrambe nel giudicare rettamente su questioni pratiche33 • Sono tuttavia diverse, in quanto la prudenza è retto giudizio sul bene o sul male individuale, mentre la politica considera il bene o il male della città. Aristotele, precisa Tommaso, distingue due aspetti della politica, la prudenza legislativa e la «scienza deliberativa»; la prima ha un rango superiore, direttivo e architettonico, in quanto definisce ciò che altri devono fare; la seconda consiste nel deliberare, ovvero nell'applicare a circostanze particolari le norme universali, scoperte dalla prudenza politica. Rispetto al legislatore, coloro che sono impegnati nell'amministrazione e nel governo sono come artigiani che applicano le regole definite dall'architetto. La prudenza politica consiste, dunque, nel consigliare in corpi legislativi e nel deliberare su problemi particolari, avendo sempre come fine il bene comune della città. Poiché il fine è il bene comune, che è superiore al bene dell'individuo, la prudenza politica merita un rango superiore rispetto alla prudenza economica e individuale. Delle due componenti della politica, conclude Tommaso, la prudenza legislativa è superiore rispetto all'attività di governo e all'amministrazione e merita il titolo di più nobile fra le attività umaneH. La riflessione aristotelica sul significato e sulle diverse componenti della prudenza politica, lasciata in ombra da Egidio Romano, viene ripresa, nell'ambito della filosofia politica scolastica, da Enrico da Rimini nel trattato De quatuor virtutibus cardinalibus, scritto all'inizio del XIV secolo. La felicità politica («politica felicitas» ), osserva, consiste nel vivere secondo la prudenza, che è la virtù perfetta nella vita pratica e abbraccia tutto il bene umano e politico ( totum humanum et politicum bonum» )3 5• Indispensabile a tutti, la prudenza è particolarmente necessaria al principe per governare secondo il bene comune. Assistito dalla prudenza, il principe guida i sudditi verso il bene, senza la prudenza il suo governo degenera nella tirannide. Un principe avido di beni materiali, che spoglia e opprime i sudditi, è un principe impru" «Politica et prudentia sunt idem habitus secundum substantiam», Tommaso d'Aquino, Sententia libri ethicomm cit., p. 356. " •Legisposiri•. a est principalior inter partes politicae et simpliciter precipua circa omnia agibilia humana•, ibid., p. 3~7. " Enrico da Rimini, De quatuor virtutibus cardinal.'l,us, Ann Arbor (facsimile dell'edizione del 1481) 1975, I, 3.
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dente. Per l'imprudenza dei principi, conclude Enrico, sono rovinate molte città36 • La riflessione sui testi di Aristotele rafforza la concezione della prudenza politica come retta ragione o retto giudizio nelle cose pratiche. Come nella tradizione ciceroniana, la prudenza non può essere disgiunta dalla giustizia. Una scelta ingiusta, anche se efficace, non può dirsi prudente. Per questo, e si tratta di un aspetto importante del linguaggio della politica che rinasce nell'fo.lia tardo-medievale, il tiranno non può essere prudente. La prudenza politica, sottolinea Enrico, educa i cittadini al rispetto delle leggi e comanda al sovrano di vivere in giustizia con i suoi sudditi3'. I cittadini delle repubbliche hanno bisogno, più degli altri, di prudenza politica. In un principato, la rettitudine del principe è sufficiente a garantire la stabilità dello stato; in una repubblica è necessario che i citt1dini siano retti, in quanto non agiscono per comando del principe ma secondo leggi che si sono dati, ovvero secondo la propria volontà. Come Cicerone ha spiegato nel De officiis, scrive Enrico da Rinùni, ogni gruppo di cittadini deve possedere una particolare prudenza politica («proprù:m prudentiam» ), conforme ai propri specifici dO\ eri sociali: i magistrati devono essere consapevoli di rappresentare, nella loro persona pubblica, la città; i cittadini devono vivere con gli altri cittadini su un piano di equità e uguaglianza senza essere né servili, né arroganti, adoperandosi sempre per la pace della repubblica; i residenti non cittadini, infine, devono rispettare le leggi della città, senza immischiarsi negli affari pubblici.38 Nell'analisi di Enrico, questi doveri sono dettati dalla prudenza politica («per prudentiam ordinati»), al fine di preservare la pace e la concordia della repubblica. Quando i doveri delle diverse classi di cittadini sono ordinati in modo che dalla diversità nasca una dolce armonia, la prudenza politica compie il suo capolavoro e il politico può essere paragonato al citaredo («politicus siwt citharedus» ). Il talento del politico consiste infatti nel saper moderare le passioni dei cittadini con la giustizia e la clemenza, in modo che tutti vivano con prudenza e facciano il loro dovere, contribuendo così alla pace e alla tranquillità della città39 • Enrico da Rimini elaborò un'interpretazione repubblicana della prudenza politica, in cui convivevano il tema del politico come mode"Jbid., I, 27. ·- «Ex quo patet quod necessaria omni homini civitatis abitatori predicca prudemia politica•, ibid., I, 31. "Cicercne, De offìciis cit., l, 124-8. " «Per prudemiam politicam [... ] regit tamen se in ordine ad bonum commune», Enrico da Rimini, De quattuor vi:·tutibus cit., I, 3 I.
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ratore e l'idea aristotelica della prudenza come virtù che deve condurre i cittadini a vivere secondo il bene comune. Il suo repubblic:mesimo era sostenuto dall'ammirazione per la Repubblica di Venezia, modello di libertà, pace e sicurezza. Nel governo misto della repubblica veneta, fondato sulla divisione dei ruoli e sull'equilibrio, vedeva l'esempio concreto della più perfetta prudenza politica'0 • Egidio Romano, invece, leggeva Aristotele dal punto di vista di un sostenitore della monarchia ereditaria, e dava alla prudenza politica un ruolo minore. Non vedeva in essa né l'arte sublime dell'ordinatore della repubblica, che sa trarre armonia dalla diversità, né il genio del governo misto, ma solo la capacità del principe di conoscere ciò che conduce al bene comune. Egidio attribuisce al monarca uno status semidivino, in un senso, però, diverso da quello che gli scrittori repubblicani attribuivano ai reggitori delle repubbliche. Gli uomini, spiegava, vivono tre tipi di vita: la vita secondo le passioni, la vita civile e la vita contemplativa. La prima è la vita degli animali e dei bruti, la seconda è la vita propria dell'uomo, la terza la vita degli angeli. Il principe deve compendiare in sé la vita civile e la vita contemplativa: governando con giustizia ottiene la felicità politica, ma per partecipare dello stato divino de, e dedicarsi anche alla contemplazione e coltivare l'amore di Dio". Mentre il rector ciceroniano otteneva la felicità perenne grazie alle sole virtù politiche, il monarca di Egidio deve essere anche devoto e caritatevole. L'innovazione più profonda che Egidio introduce nel linguaggio della politica consiste, tuttavia, nella ridefinizione del rapporto fra civitas e governo repubblicano. Come ho messo in evidenza, gli scrittori politici del XIII secolo avevano unanimemente sostenuto che la forma di governo più adatta a conservare e far prosperare una civitas era il governo repubblicano. Per tutelare la giustizia e il bene comune, era argomento convenzionale che i cittadini dovessero affidare le cariche pubbliche a magistrati elettivi, che avevano l'obbligo di governare, per un periodo limitato, nel rispetto delle leggi e degli statuti della città. Egidio Romano accetta e accentua il valore della civitas come fine naturale dell'uomo, ma respinge la tesi che il mezzo migliore per preservarla sia l'autogoverno repubblicano. Ricorrendo al vocabolario aristotelico, chiama la civitas «vivere politicum» e il governo repubblicano «regimen politicum» e sostiene che per conservare il vivere politico non bisogna istituire un governo repubblicano, bensì una monarchia ereditaria. Si trattava, come compresero i contemporanei, di una criti"lbid., II, 16. "Egidio Romano, De ,·egim ··,e pr:'ncipur.-z cir., I, 1.4, pp. 10-3.
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ca radicale al principio fondamentale del linguaggio politico che si era affermato a partire dal XIII secolo. Per sostenere la propria tesi, Egidio partiva dal principio aristotelico che la comunità politica o città («communitatem politicam sive civitatem») è la destinazione naturale dell'uomo. Il fatto che l'uomo sia il solo animale dotato di linguaggio dimostra la sua naturale inclinazione a vivere in società. La comunità politica è necessaria non solo al conseguimento dei beni indispensabili alla vita, ma anche a vivere bene. L'uomo non è infatti destinato a una vita di mera sussistenza, ma a vivere secondo la virtù. Perché l'uomo possa vivere virtuosamente sono state istituite le leggi e la giustizia, i due fondamenti del vivere politico. Vivere politicamente significa, dunque, vivere secondo buone leggi e buone istituzioni". Tradotta in linguaggio aristotelico, la civitas, come vivere politicum, assume una più marcata connotazione morale. Mentre gli scrittori che si ispiravano a Cicerone sottolineavano che le città e le repubbliche erano state istituite per prevenire le offese e i crimini e godere in pace delle proprietà, Egidio insiste sul vivere politico come condizione necessaria per la vita virtuosa43 • Questo nobile fine non può essere realizzato per mezzo di un regime politico dove i cittadini hanno il potere legislativo ed eleggono i magistrati. Diversamente dalla monarchia, dove il re governa senza restrizioni, i magistrati elettivi delle repubbliche devono obbedire alle leggi della città e sottostare alla volontà dei cittadini". Come la storia delle repubbliche italiane dimostra ampiamente, le città che si sono date regimi repubblicani soffrono discordia, sedizioni e miseria. La città e le province rette da un re prosperano nella concordia, nella pace e nell'abbondanza';. Il governo monarchico è, dunque, più conforme alla natura e più adatto del regime politico a garantire l'unità e la pace. E fra i due tipi di governo monarchico, quello elettivo e quello ereditario, il secondo è da preferirsi al primo. Sulle orme del suo maestro Tommaso, Egidio combina la celebrazione della vita politica con la difesa della monarchia. Nel I libro del
" «Ostendo er~o vi· ere politicum secundum aliquas lcges et secundum aliquas laudabiles ordinationes», ibid., Ili, 1.2, p. 404. " Giovanni da Viterbo cil~ il seguente passo dal De officiis, II, 78, p-~r spiegare le ori~ini delle comunità politiche: «Hanc ob causam enim maxime, ut sua tenerent, res publice civaatesque constitute sunt. Nam etsi duce natura congregabantur homines, tamen etiam spe custodie rerum suarum, urbium presidia querebam», Liber de regi•nine o·;itatum cit., p. 219. "Egidio Romano, De regimine principum cit., Ili, 2.2, p. 455. " «Expeni enim sumus civitates et provincias non existens sub uno rege esse in penuria, non gaudere in pace, molestari dissensionibus et guerris: existentes vero sub uno rege, e contrario, guerras nesciunt, pacem sectamur, abundamia florent», ibid., III, 2.3.
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De regimine principum, quasi certamente scritto da Tommaso prima che Tolomeo da Lucca si assumesse l'onere di completare l'opera, troviamo un'esaltazione della vita civile come destinazione naturale dell'uomo, seguita da una lunga argomentazione a sostegno del governo monarchico come il più atto a conservare la vita politica. La comunità politica ha come fine supremo la pace; la miglior forma di governo è allora quella che più di ogni altra n1tela la pace. Per sapere quale essa sia basta guardare alla natura, infatti tutti i regimi naturali sono monocratici: il cuore governa solo sull'intero corpo; la ragione governa sola sulle altre componenti dell'anima; le api hanno una sola regina; Dio, infine, regge da solo l'intero universo' 6• Anche se il governo monarchico può degenerare in una tirannide, non per questo è da considerarsi migliore il governo di molti, incline per sua natura, come dimostra la storia, a corrompersi nella licenza. E dunque più conveniente vivere sotto un re che in un regime repubblicano' 7• La concezione aristotelica delh vita politica coesisteva con opposte idee sulla miglior forma di governo: Tolomeo da Lucca ritiene che la forma di governo più adatta a conservare il vivere politicum sia un regimen politicum, guidato da un rector politicus elettivo'8; Tommaso d'Aquino e Egidio Romano separano, invece, la vita politica dal regime politico e usano il testo di Aristotele per sviluppare una critica filosoficamente fondata della teoria politica repubblicana. Il concetto di regime politico («principatus politicus») occupa larga parte del IV libro del De regimine principum, scritto da Tolomeo fra il 1300 e il 1305, dopo la morte di Tommaso avvenuta nel 1274' 9• Il regime politico, spiega Tolomeo, è una forma di governo in cui il potere sovrano appartiene alla cittadinanza. Deriva il suo nome da polis o civitas e prescrive che i governanti, diversamente dalla monarchia, siano limitati dalle leggi. Per Tolomeo il regime politico è il più consono alla vita politica ed è particolarmente adatto alle repubbliche cittadine, come dimostra l'esempio dell'Italia. Vi sono, tuttavia, delle eccezioni: Roma ebbe un regime politico e non era una repubblica cittadina, come altre province italiane'°.
"Tommaso d'Aquino-Tolomeo da Lucca, De regi">'line principum ad regem Cypri, a cura.9i J._ Mathis, Torino-Roma 1948, I, 2.
· Ib,d., I, 5. "Ibid,, !V, 23, p. 90. " Sulla composizione del De regim:ne principum cfr. A. O'Rahilly, l'-:otes on St. Thomas: IV. •De regi,>iine principum•; V. Tholomeo of Lucca, the Continuator of the «De Regimi·ie Principu1.:», in «Irish Ecclesiastica! Record», 31, 1928, pp. 396-410, 606-14. '° Tommaso d'Aquino-Tolomeo da Lucca, De regimine principum cit., !V, 1-2, pp. 66-7.
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Condizione necessaria per il governo politico non è dunque la modesta estensione del territorio quanto il fatto che i cittadini abbiano animo virile, cuori coraggiosi e fiducia nella propria intelligenza. I regimi dispotici, per contro, fioriscono presso i popoli che hanno costumi servili51 • In un governo politico perfetto, gli uomini possono raggiungere la felicità politica ( «politica felicitas» ). Un governante politico («rector politicus») regge infatti la città per mezzo della virtù e secondo virtù guida alla vita tutta la città. Come Agostino ha scritto nel De civitate Dei, una civitas è una congregazione di uomini legati da vincoli sociali, che la vera virtù rende felici; e la felicità che gli uomini possono godere nella civitas è soprattutto opera del reggitore che governa politicamente e incoraggia in tal modo la virtù dei cittadini52 • Per rispondere alle critiche mosse da Tommaso e da Egidio Romano al regime repubblicano, Tolomeo da Lucca do?e-,a dimostrare che un regime politico retto da governanti virtuosi e bene ordinato non era affatto destinato a degenerare nella guerra delle fazioni o nella licenza popolare. Gli esempi offerti dalle repubbliche italiane non erano, però, incoraggianti: all'inizio del XIV secolo, la maggior parte dei Comuni erano caduti sotto il dominio di tiranni o di singole famiglie per effetto delle lotte di fazione e del sovrapporsi di interessi privati al bene comune. Lo sottolineava con passione Remigio de' Girolami, una delle voci più eloquenti dell'ideologia politica comunale. Gli uomini, scriveva all'inizio del De bono communi, a causa del loro smodato amore per il bene privato, distruggono con spirito diabolico città e provincie53 • Contro la corruzione, Remigio scrive il suo elogio del bene comune, citando Aristotele, Cicerone e fonti bibliche. Di Aristotele cita il passo del I libro dell'Etica nicomachea, sulla superiorità del bene comune al bene particolare, osservando che la virtù e la disciplina, che persegue il bene comune, deve avere un ruolo di guida rispetto alle altre, deve cioè essere, come spiega Aristotele, architettonica5'. Cita molti passi di Cicerone, fra cui il luogo canonico del De officiis (I, " «Qui aucem virilis animi ec in audacia cordis, et in confidemia sive imelligemiae sum, tales regi non pos.- unt nisi principatu politico, communi nomine extendendum ipsum ad aristocraticum», ibid., r., 8, p. 76. Cfr. anche I, 1, p. 66. "Jbid., IV, 23, p. 90. Nella Determi•1atio compendiosa de ùtrisdictione imperii, Tolomeo da Lucca scrive che anche se le virtù plitiche ( «virtutes politicas civiles») g,ranciscono la felicità politica («felicitatt:n politic,,m» ), il buon cristiano deve coltivare queste virtù per entrare nel regno dei cieli e godere della beatitudine. Cfr. Tolomeo da Lucca, Determi•zatio compendiosa de i:trisdictione impcrii, a cura di M. Kramer, in Fontes luris Germanici Antiqut, Hannover-Leipzig 1909, pp. 57-8. " Remigio De' Girolami, Tracutus de bono com,nuni, in M. C. De Matteis, La teologia politica con;unale di Remig:,J de' Giro/ami, Bologna 1977, p. 3. "Ibid., pp. 4-5.
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25), in cui Cicerone ammonisce chi governa la repubblica di lasciare da parte i propri interessi particolari, e il passo della prima orazione contro Catilina: «patria, mihi vita mea multo carior est» 55 . Remigio elabora i luoghi classici per sottolineare, da un lato, che l'amore del bene comune, che nel suo linguaggio è sinonimo di patria, è un amore virtuoso e razionale 56 , dall'altro, che la virtù politica deve essere patrimonio della cittadinanza nel suo insieme. Allontanandosi dalla tradizione di Cicerone e Macrobio, Remigio parla infatti di virtù politica al singolare ( «politicam virtutem» ), quasi a condensare le quattro virtù in una, ovvero nell'amore del bene comune, che è amore razionale, perché fondato sulla consapevolezza che se la città è corrotta anche la vita dei singoli è impoverita. Senza vita civile, non è più possibile coltivare le virtù del cittadino. Rimane solo l'apparenza esterna, quasi la statua o l'ombra del cittadino senza più vita e sostanza57. Con il cittadino svanisce la persona umana, perché non si può vivere da uomini senza vivere come cittadini;a_ Il comportamento del cittadino che rimane indifferente di fronte alla corruzione della città o addirittura la favorisce è dunque immorale e irrazionale. Se i cittadini fossero legati da sentimenti di amicizia, come sarebbe naturale in quanto il simile ama il simile, e amassero il bene comune, la città sarebbe pacifica e sicura: dall'amicizia civile e dall'amore del bene comune nascono infatti unità, generosità, entusiasmo, zelo, ovvero le qualità che rendono la repubblica pacifica e forte. L'interpretazione del concetto di virtù politica in termini di amore razionale della patria fu un contributo significativo al linguaggio repubblicano della politica. Testimone del declino dei liberi Comuni, Remigio comprese che la virtù del reggitore, se non è sostenuta dalla virtù dei cittadini, non è sufficiente a sconfiggere la tirannide e la corruzione. Il tema centrale del linguaggio politico degli inizi del XIV secolo era la pace civile, che solo la buona costituzione politica e la virtù dei cittadini possono assicurare. La politica era vista in questo contesto
"Cicerone, In Catilinam, I, 11 in Le orazioni, a cura di G Bellardi, Utet, Torino 1978, 4 voli. " Remigio De' Girolami, De bono communi cit., l'· 8. Nel De peccato usure, scritto fra il 1269 e il 1272, Remigio usa il termine «politicus» nel significato scolastico, quando scrive che l'usura va contro le leggi dei principati politici ( «principatus politici»), ovvero di ogni autorità secolare o reli~iosa istituita per il bene dei sudditi. Cfr. Remigio De' Girolami, De peccato usure, a cura di O. Capitani, in «Studi medievali», 6, 1965, p. 655. " « Unde destructa civitate remanet civis lapideus aut depictus, quia scilicet caret virrute et operationem quam prius habebat», Remigio De' Girolami, De bono communi cit., p. 18. " «Et si non est civis non est homo, quia "homo est naturaliter animai civile", secundum philosophum in Vlll Ethic. et in I Polit.», ibid.
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come la scienza del buongoverno e della buona costituzione, anzi, la scienza che modella i costumi della città. La pace, scriveva Dante nel De monarchia, scritta fra il 1309 e il 1313, è il sommo bene dell'uomo, la condizione necessaria della sua felicità sulla terra59. E la pace può essere assicurata solo dalla politica, perché essa è fonte e principio delle costituzioni politiche rette («politica sit ymo fans atque principium
rectarum politiarum» )60 • La vita politica, sottolinea Dante, è fondamento della libertà, in quanto essa sola consente di giudicare e vivere secondo ragione e solo chi sa e può governarsi secondo ragione è veramente libero. Chi è costretto a vivere sotto un regime corrotto non può essere libero perché o obbedisce alla volontà di altri o è schiavo delle proprie passioni. Il fine della monarchia universale è quello di permettere agli uomini di vivere politicamente e quindi liberi. In quanto fonda la giusta costituzione, la politica è fonte di libertà. Al centro della concezione dantesca della politica sta il monarca inteso come volontà razionale, che vigila sulle comunità inferiori affinché esse siano rette politicamente. Il monarca universale non deve, infatti, prescrivere le proprie regole, ma le regole della ragione. Essere sottoposti al monarca che governa politicamente significa essere sottoposti al governo della ragione, e dunque liberi61 • La concezione della politica come arte della buona costituzione politica, e quindi fondatrice di libertà - già presente nella letteratura politica scolastica e in misura minore nei trattati sul governo repubblicano - che Dante elabora nel De monarchia, rappresentò un contributo importante alla rinascita del linguaggio della politica62 • Per quanto riguarda la diffusione della nuova concezione politica nel linguaggio comune, molto più importante del De monarchia fu la Commedia, come dimostrano i commenti del Trecento. L'Ottimo commento, ad esempio, sottolinea che le cose più care che Dante, secondo la predizione, perderà con l'esilio sono «il virtuoso operare, e 'I politico reggere, e 'l bene comune, la moglie, e' figliuoli, li parenti e gli amici, e
"Dante Alighieri, De monarchia, a cura G. Vinay, Firenze 1950, I, 4. "lbid., I, 2 " «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est: rune enim solum politie dirigunrur oblique, democratie scilicet oligarchie atque tyrannides, que in servitutem cogunt genus humanum [... ]; et politizant reges, aristocratici quos optimates vocant, et populi libenates zelatores, quia, cum Monarcha maxime diligat homines, ut iam tacrum est, vult omnes homines bonos fieri: quod esse non potest apud oblique politizantes», ibid., I, 12. " Sull'imponanza _della civitas nel pensiero politico di Dante si veda A. Passerin d'Entrèves, Dante as a Politica/ Thinker, Oxford 1952, pp. 1-25 e L. Minio-Paluello, Tre note alla Monarchia, in Medioeva e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, 2 voli., Il, pp. 511-22.
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tutte le facultadi, le quali nullo è sf disumano, che almeno per lo necessario uso non l'ami, e per l'afezione carnale e naturale»63 • Un'altra celebrazione della vita politica come condizione necessaria per la vita virtuosa si trova nel commento al passo del Paradiso, in cui Dante afferma recisamente, rispi::mdendo a Carlo Martello, che, se non si può vivere come cittadini, la vita dell'uomo è peggiore di quella delle bestie. L'uomo, osserva l'Ottimo, è un animale civile e politico, che tende per natura alla perfezione dello spirito, la quale può essere raggiunta con la pratica delle virtù morali, nella comunità politica. Dante aveva dunque ragione ad attaccare i cattivi governanti, che distruggono la vita politica"'. Coloro che hanno il compito di reggere la repubblica dovrebbero dare l'esempio della giustizia e dell'onestà e guidare i sudditi lungo la via del «vivere civile e politico», invece di recar ingiuria ai corpi, alle anime e alle proprietà dei sudditi65 • Altri commentatori del Trecento individuarono in Pegaso, che Dante invoca nel canto XVIII del Paradiso, il simbolo della scienza morale e politica che assiste gli uomini di genio nell'opera gloriosa di fondare le città, per mezzo della giustizia e delle leggi, e che Cicerone aveva definito nelle Tusculanae disputationes guida della vita66 • Come dimostrano sia il Lana che l'Ottimo, l'opposizione fra governo politico e dominio tirannico era diventata parte del linguaggio convenzionale della politica. Commentando il luogo dell'XI canto del Paradiso, in cui Dante fustiga la vana bramosia di beni mondani di chi persegue il potere «per forza o per sofismi», l'Ottimo sottolinea che il « regnar per forza[...] è contra il regno politico»67• La presenza di concetti aristotelici è visibile anche nei commenti al canto xndell'Inferno, il canto dei tiranni. Dopo aver spiegato che i tiranni sono immersi nel sangue perché sparsero sangue e i Centauri che li feriscono con le loro frecce sono simbolo delle passioni bestiali che dominano l'animo dei tiranni, Iacopo della Lana sottolinea che
" «Qui tocca in singularitade, che per tale cacciata l'Autore abbandonerae ogni cosa, ch'elli arà amata», L'Ottimo commento della Divina Commedia, a cura di A. Torri, Pisa 1827-9, Paradiso XVII, pp. 55-7. ., Jbid., Paradiso VII, pp. 115-7. "Ibid., XX, note. 64 «Et praeditti narrandum invocar illarn vivam fontanarn Pegaseam, quarn pro morali et politica scientia et philosophia figurat, quae ingendi facie in fama longacva et movet, idest disponit secum civitates et regna legibus et justitia; de qua ait Tullius in v de Tusculanis quaestionibus», Pietro di Dante, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam commentarium, a cura di V. Nannucci, Firenze 1845, Paradiso XVIII, 82-4. Il passo di Cicerone sulla filosofia è in T usculanae disputationes, v, 2. 5. " L'Ottimo commento cit., Paradiso XI, 6.
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per ben comprendere un concetto bisogna intendere il suo opposto, e quindi, se vogliamo capire cosa intende Dante per tirannia, dobbiamo riferirci al suo opposto, ovvero la costituzione politica68 • Il medesimo ragionamento è ripetuto dall'Ottimo, ad indicare che politica e tirannide erano, nel linguaggio politico del tempo, i termini di un'antitesi69 • Nel linguaggio politico del primo Trecento, al di là delle controversie sulla miglior forma di governo, la politica è legata alla vita civile. Nel Defensor pacis, l'opera filosoficamente più significativa dell'epoca, Marsilio elabora il concetto della politica come scienza della città, insistendo sul governo della legge come fondamento del vivere politico e sottolineando che la politica è, in primo luogo, l'arte di fare leggi e statuti che realizzino il bene comune della città. Come Dante, Marsilio usa il verbo politizare nel senso di attuare o conservare la vita politica per mezzo di leggi approvate da un corpo sovrano, composto dalla cittadinanza nel suo insieme, o dalla maggioranza, e applicate da magistrati elettivi. La politica, nel Defensor pacis, non è solo arte del vivere politico, ma anche arte del governo politica7°. Marsilio sviluppa il tema del governo della legge come fondamento della vita politica, e il concetto di politica come arte della legislazione, elaborando il testo aristotelico. Come gli scolastici, parte dal concetto di polis inteso come una comunità istimita per rendere possibile la vita secondo virtù. Procede poi a discutere il tema della miglior forma di governo, confrontando pregi e difetti della monarchia elettiva e della monarchia ereditaria. L'una e l'altra, sottolinea, sono forme di governo legittime, ma il monarca ereditario governa sudditi meno disposti ad obbedire di quanto non lo siano i sudditi di una monarchia elettiva. E aggiunge che le leggi di una monarchia ereditaria sono meno politiche e meno orientate al bene comune delle leggi di un monarca elettivo71 • I monarchi e i governi elettivi sono, dunque, i più consoni alla vita politica72 • L'argomento di Marsilio sulla superiorità della costituzione repubblicana discende dal riconoscimento della sovranità della legge come
"Jacopo della Lana, Comedia di Dante degliAllagerii col commento di Jacopo della Lana bolognese, a cura di L. Scarabelli, Bologna 1866, Inferno XD, note. " •Ora, perché questa materia è intorno alla gente tiranica, la quale guasta il reggimento politico, un poco ad utilitade della geme si tratterà della vita politica, per la quale si debbono reggere i regni, e le cittadi, e l'universitadi», L'Ottimo commento cit., Inferno, Xli. ,. Marsilio da Padova, Defensor pacis, in Fontes Iuris Germani.i Antiqui, a cura di R. Scholz, Hannover 1932, I, 12. 2. 71 «Et ipsos disponunt legibus minus politicis ad commune conferens, quales pridem barbarica dicimus», Marsilio da Padova, Defensor pacis cit., I, 9..6. n «Electi vero magis voluntariis presunt, eosque disponunt legibus politicis magis, quas diximus latas ad commune conferens», ibid., I, 9. 6.
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requisito fondamentale di una comunità politica. Il governo della legge si realizza solo se le leggi sono il prodotto della ragione; o, più precisamente, il prodotto della prudenza politica'3• Perché sia la prudenza, e non le passioni, a guidare l'attività legislativa, è necessario affidarsi alla superiore saggezza dei molti ed affidare il potere legislativo alla cittadinanza nel suo insieme o alla parte migliore di essa. Come aveva sottolineato Aristotele, i molti vedono il bene comune meglio dei pochi. Inoltre, poiché tutti devono sottostare alle leggi approvate dall'organo sovrano, non è verosimile che questo promulghi leggi ingiuste. Infine, se le leggi sono approvate dall'intera cittadinanza, o della parte migliore di essa, i cittadini sono meno riluttanti ad osservarle. Affidare il potere legislativo a pochi cittadini sarebbe in contraddizione con il principio fondamentale che la polis, come Aristotele ha spiegato, è una comunità di uomini liberi e nessun cittadino può essere servo di un altro. Se il potere legislativo fosse nelle mani di pochi, essi imporrebbero il proprio interesse, rendendo gli altri cittadini schiavi della loro volontà 7'. Marsilio elabora la concezione della politica come arte della legislazione, innestando sulla tradizione romana della saggezza civile la concezione aristotelica della prudenza politica; una prudenza che non deve essere solo del reggitore, ma della cittadinanza nel suo insieme. Il Defensor pacis rafforzò, dunque, l'immagine della politica come arte della civitas e contribuì a difend eme la nobiltà. Nel corso del XIV secolo, la Politica e l'Etica nicomachea integrarono le immagini convenzionali della politica e dell'uomo politico derivate dalle fonti romane e rafforzarono l'immagine della politica come l'arte di governare secondo giustizia e ragione e di fondare e preservare le giuste costituzioni politiche. Anche se non era né sistematico né indifferenziato, il linguaggio della politica, che si diffuse dopo la rinascita dell'aristotelismo, aveva un proprio insieme di convenzioni condivise e un ambito delimitato di applicazione. L'aggettivo «politico» era usato per denotare il governo del principe giusto e moderato e il regime repubblicano. La tirannide e il malgoverno restavano fuori dall'ambito della politica che divenne, in termini ancor più netti di quanto non lo fosse prima della rinascita aristotelica, una filosofia civile.
" «Politico scilicet id est ordinacio de iustis et conferentibus et ipsorum oppositis per prudenciam politicam», ibid., I, 10. 4b. " «Civitas est communiras liberorum, ut scribirur III Politice, capitulo IV, quilibet civis liber esse debet ncc alterius ferre despociam, id est servile dominium», ibid., I, 12. 6.
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3. Il diritto civile e la politica.
Prima del Tresor di Latini, e della riscoperta dell'aristotelismo politico, non si trovano, nella letteratura sul governo comunale, menzioni di una scienza o di un'arte politica. Per indicare la scienza del governo pubblico gli scrittori dell'età comunale si servivano dell'espressione latina civilis sapientia. Il termine appare nell'Oculus pastoralis e nel De regimine et sapientia potestatis. Orfino da Lodi menziona la saggezza civile «civilis sapientia» accanto alla teologia e alla retorica, come una delle discipline che presiedono alla formazione delle leggi 1• La fonte dell'espressione «civilis sapientia» era probabilmente Ulpiano, che nel Digesto aveva scritto che la conoscenza del diritto civile («civilis sapientia» ), è «res sanctissima»'. Espressioni simili - «civilis scientia», «civilis philosophia», «civilis ratio» - si trovavano anche nei testi di Cicerone, con un significato più ampio della «civilis sapientia» di Ulpiano. Quando parla di scienza o ragione o filosofia civile, Cicerone non si riferisce solo alla competenza nel diritto civile, ma alla scienza del governo della repubblica, ovvero alla politica, come Cicerone stesso afferma nel De finibus. Riferendosi alla partizione peripatetica della filosofia scrive, infatti, che l'argomento che giustamente è chiamato scienza civile («quem civilem recte appellaturi») era chiamato dai greci «politik6s» 3• La ragione civile («civilis quaedam ratio»), scrive nel De inventione I, 6, comprende molte discipline importanti, fra cui l'eloquenza ed è un errore ritenere che la scienza civile («civilem scientiam») non abbia bisogno dell'eloquenza'. Nel De oratore (r, 193), l'espressione («civilis scientia») si riferisce esplicitamente alla conoscenza degli interessi e dell'organizzazione della repubblica; in altro luogo raccomanda all'oratore e a chi regge la repubblica la cognizione e la prudenza nelle cose civili («rerum civilium cognitione et prudentia» )5. In modo obliquo, Cicerone usa il termine civilis sapientia nel De republica, (III, 3, 5-7), dove qualifica la ragione e la disciplina civile ' «De tribus virginibus quae fecerunt lcges, scilicet thcologia, civilis sapiemia et rhetorica», Orlino da Lodi, De regimine et sapientia potestatis, in «Miscellanea d1 storia patria», 7, 1869, p. 50. 'Il Digesto di Giustiniano cit., 50, 13,1. 5, a cura di Th. Mommsen, P. Kriiger, A. Watson, Philadelphia 1985, N, p. 929. ' Cicerone, De fmibus bonorum et malorum, in Opere politiche e filosofiche, a cura di N. Marinone, Utet, Torino 1976, li; anche Seneca, riferendosi alla scuola paripatetica, parla della civilis philosophia accanto alla filosofia naturale, morale e razionale. Ctr. Seneca ad Lucilium epistulae morales, 2 voli., a cura di R. M. Gummere, Cambridge (Mass.)-London 1958, pp. 384-5. 'Cicerone, De inventione, I, 5. 6, a cura di H. M. Hubbell, London-Cambridge 1949. 'Id., De oratore, I, 13. 60 in Le orazioni, a cura di G. Bellardi, Utet, Torino 1978, 4 voli.
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(«ratio civilis et disciplina») come una specie di scienza («sapientiam» )6. Più esplicitamente Quintiliano, nella Institutio oratoria (II, 15, 33-4), assimila la scienza civile ciceroniana alla saggezza o filosofia civile («civilis autem scientia idem quod sapientia est» )7. Anche se potevano contare sul concetto di saggezza civile intesa tanto nel significato ristretto di diritto civile, quanto in quello più largo di scienza del governo della repubblica, gli studiosi del XIII secolo cominciarono a considerare il diritto civile e canonico insufficienti per un'adeguata riflessione sulle cose politiche. L'autore di un anonimo testo scritto attorno al 1240 lamentava, ad esempio, la mancanza di una scienza del bene economico e politico («De bono yconomico et politico non habemus aliquam scientiam») e si i:ammaricava del fatto che gli studenti di politica avessero a disposizione solo testi di diritto civile o canonico8• Dopo la rinascita dell'aristotelismo politico, il monopolio dei giuristi sulla scienza politica apparve sempre più come un'usurpazione. I giuristi, scriveva Egidio Romano, trattano di problemi politici senza alcuna prospettiva razionale; essi meriterebbero di essere chiamati idioti politici («idiotae politici» )9. La critica di Egidio è, però, mal riposta. I giuristi del XIV secolo, in particolare Baldo degli Ubaldi, svilupparono l'idea romana della politica come disciplina che ha per fine la conservazione della comunità civile e diedero in questo modo un contributo fondamentale alla costruzione del linguaggio della politica. Il termine politico veniva usato per indicare il reggitore e i cittadini di una libera repubblica o per qualificare il rapporto fra la persona giuridica del principe e il corpo della repubblica, mai per indicare il tiranno che governa contro le leggi o per il monarca assoluto che si pone al di sopra delle leggi 10• Il lavoro di ricostruzione del significato della politica da parte dei giuristi fu, da un lato, un'opera di scavo archeologico nelle ricche miniere del diritto romano, dall'altro, una riflessione giuridica sull'esperienza politica delle repubbliche cittadine. Come è noto, Bartolo da Sassoferrato e la sua scuola elaborarono i fondamenti giuridici dell'au-
' Id., De repubblica, in Opere politiche e filosofiche cit., I. ' Quintiliano, lnstitutionis oratoriae, II, 15, 33-34. ' Cfr. P. Michaud-Quantin, Uni·uersitas cit., p. 5, n. 4. 'Egidio Romano, De regimine principum cit., II, 2, c.8 " J. P. Canning, A fourteenth-century contribution to the theory of citizenship: politica! man and the problem of created citizenship in the thought of Baldus de Ubaldis, in Authority and Power: Studies on Medieval La'L and Govemment Presented to Walter Ullmann on bis Seventieth Birthday, a cura di B. Tierney e P. A. Linehan, Cambridge 1980, pp. 197-212.
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tonomia politica delle repubbliche cittadine e della cittadinanza. Meno noto, ma ugualmente importante per la nostra storia, fu il loro contributo alla ricostruzione della nozione di politica come saggezza civile. Rispetto ai Glossatori del XVIII secolo, i Commentatori interpretarono i testi del diritto romano con una diversa sensibilità e attenzione nei confronti dei concetti politici. Il passo del Digesto I, 3.2, che contiene un riferimento alla concezione aristotelica dell'uomo come animale politico, rimase totalmente opaco, da questo punto di vista agli occhi dei Glossatori. Nella traduzione dei Glossatori della Scuola bolognese il passo recita: «la legge è la regola del giusto e dell'ingiusto e di quelle cose che sono per natura civili». La glossa di Accursio oscura ulteriormente il significato del testo: «sono per natura civili», scrive, ovvero «secondo il genio dell'uomo naturale» 11 • Il significato aristotelico del testo fu, invece, correttamente individuato da Baldo degli Ubaldi, che sottolineò il significato autentico del concetto dell'uomo come animale, per sua natura, politico e l'idea della legge come fondamento della vita dell'uomo politico, bene ordinato 12 • I giuristi del XN secolo diedero un apporto particolarmente importante al linguaggio della politica nelle discussioni sul!' oggetto e i confini della giurisprudenza. Punto di partenza di quelle riflessioni era la definizione, coniata da Azo, secondo cui il diritto civile appartiene all'etica in quanto tratta dei costumi13• Sul medesimo tema, Pietro di Bellapertica (morto nel 1308), uno dei luminari della scuola di Orlèans, introdusse un interessante slittamento concettuale. Accettava la tesi che la scienza giuridica è una provincia dell'etica, in quanto il suo oggetto è l'uomo. Ma aggiungeva che l'uomo deve essere inteso come parte della comunità civile («pars civitatis» )". L'idea che oggetto del diritto è l'uomo come animale politico fu ulteriormente sviluppata da Guglielmo da Cuneo (morto nel 1335), maestro della scuola di Tolosa. Il passo rilevante è nel proemio al Digestum vetusi;·. Oggetto della giustizia civile, scrive Guglielmo, è l'uomo politico («iusticiae civilis est subiectum homo politicus» ), in quanto atto al governo della repubblica e membro della comunità politica. Anche Cino da Pistoia (12701336/7), commentando il Digestum vetus, sottolinea che non c'è diffe"Cfr. J. P. Canning, The Politica[ Thought of Baldus de Ubaldis, Cambridge 1987, pp. 164-5. " Cfr. ibid., p. 165. "A:zo, Summa codicis, Lyon 1557, additio V. «Incipit materia ad Codicem»: «Supponitur ethice, quia tractat de moribus, sian et omnes libri legalis scientie». " Pietro di Bellapenica, Lectura institottionum, Lyon 1586 (riproduzione anastatica Bologna 1972), Rubr., «In nomine dominiJesu Chrisci», n. 27-8 (pp. 22-3). " Guglielmo da Cuneo, Proemio al Digestum vetus, a cura di B. Brandi, pp. 111-2.
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renza nel porre, come oggetto del diritto, l'uomo politico o le azioni umane civili. L'uomo politico, scrive citando esplicitamente Aristotele, appartiene al diritto civile («in civili iustici.a est homo politicus» )16 • Ricapitolando lo stato della discussione, Alberico da Rosciate (12901360) cita anch'egli Aristotele e sottolinea che oggetto del diritto è l'uomo che vive politicamente, e aggiunge che il diritto considera l'uo~o _in vist~ del bene e che le leggi sono fatte per permettere all'uomo d1 vivere virtuosamente, ovvero civilmente 17 • Bartolo da Sassoferrato, il più eminente dei Commentatori, non dedicò molta attenzione a chiarire il significato di «politica» e «politico». Come ha ~sservato Robert Cunning, il termine «politico» appare poche volte nei suoi scritti e mai in forme teoricamente interessanti 18 • Anche per lui la sapienza civile è la base dell'arte di governo. Requisit': ~ondamentale del buon governo è, infatti, il rispetto delle leggi e del dmtto; per questo è importante che i giuristi partecipino al governo della città e si dedichino allo studio delle forme di governo, per essere ben preparati a svolgere incarichi pubblici19• Il contributo più rilevante alla definizione del concetto di politica venne tuttavia da Baldo degli Ubaldi (1327-1400). Come ho osservato, i Commentatori che lo avevano preceduto avevano messo a fuoco la tesi importante che l'oggetto della scienza del diritto è l'uomo politico e che suo fine è di rendere l'uomo interamente politico. L'uomo diventa politico, o civile, per mezzo delle leggi e della giustizia, grazie alle quali vive la polis. Il diritto forma i cittadini, che mantengono viva la comunità civile. Per Baldo, i giuristi devono ricavare i principi del diritto dalla natura. Poiché il fine naturale dell'uomo è vivere in una comunità politica, scopo del diritto deve essere la conservazione della civitas. II diritto civile è, dunque, scienza politica per eccellenza e la politica è arte di " Cino da Pistoia, Lectura super Digesto veteri, m., Bibl. Savigny 22, Preussische Staatsbibliothek, Berlin, fol. 114. "«Sed si queratur quod sit subiectum in_ is~a scientia, de quo p~incipaliter tractaru_r, dix_erunt quidam quod bonum et equu1:1 [... ]. Alu dixerunt qu?d t?Pe_rauones humanae, ~u,a d 711lis in iure principaliter agitur, ut 1!1 f:uth .. «H.aec con~t1tut10 mnovat• _[·:·l m pnn. Philosophus, 3 Politicorum, dicit, quod rnstme c1viJ15 est sub1eccum homo po!tt1cus prout aptatur ad regimen reipublicae [.. .]. Concedo quod homo politicus sit subiectum quia de eo principaliter traccatur in iure, ut bene regacur, cum gratia hominum omnia iura facta sunt [... ]. Item or,erationes h_umane possunt d\ci subiectun:, inspect _homi".e prout operatu~ ~iviliter; unde ruhil videtur mteresse utrum d,camus hommem polincum, 1d est v1vemer c1viliter, ~se subieccum, an operationes humanas», Alberico da Rosate, Commentarii i1: pr:mam Digesti veteris partem, Venezia 1585 (riproduzione anastatica: Forni, Bologna 1974), nn. 11-2, fol. 2v. 11 Banolo da Sassoferrato parla di «nobilitas politica» in e 12. I. I n. 24, (p. 118 dell'ed. Bard, Basilea 1589). " Cfr. Id., Tractatus de regimine civitatis, 80-90, in Politica e diritto nel Trecento italiano, a cura di D. Quaglioni, Firenze 1983, p. 153.
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governare secondo giustizia. Fra tutte le virtù necessarie a reggere la civitas, sottolinea Baldo ripetendo un tema caro ai teorici del governo comunale, la più importante di tutte è la giustizia, a ragione chiamata la regina delle virtù. E poiché la giustizia è il vincolo fondamentale della civitas, il diritto civile è la scienza più nobile, e la sua nobiltà si riverbera sulla politica, la disciplina a essa più affine. Nei suoi commenti sulla politica, Baldo attinge sia dal linguaggio aristotelico che da quello ciceroniano. In un importante commento al Codex I ustinianus, ad esempio, usa il concetto aristotelico di polis per sottolineare che l'uomo può essere considerato sia in posizione di preminenza che in congregazione. Se è considerato «in congregatione» l'uomo naturale è reso politico, e da molti individui riuniti si forma un popolo; quando un popolo è circondato da mura e abita una città viene propriamente definito politico, da polis, che significa appunto città'0 • In un altro luogo, commentando la definizione di populus nel Codex I ustinianus, osserva che l'uomo può essere analizzato da tre punti di vista: come un individuo formato naturalmente di anima e corpo; come capo di una famiglia o abate di un monastero, o come «un corpo politico o civile come il vescovo di una città o il podestà» 21 • In quest'ultimo caso l'uomo è appunto considerato in stato di preminenza, e, riferito al vescovo e al podestà, l'aggettivo «politico» indica la personalità pubblica o collettiva che ad essi appartiene22• Il vescovo rappresenta, infatti, la comunità dei fedeli, mentre il podestà è personificazione della città. Entrambi possono parlare e agire in nome della comunità che rappresentano'). La scienza del diritto comprende dunque le tre dimensioni dell'uomo civile e, quando tratta dell'uomo in relazione alla respublica, si pone il fine che l'uomo sia ben governato, ovvero il medesimo fine della politica24. " «Sed si consideratur in congregatione tunc homo naturalis efficcretur politicus, et cx multis aggregatis fit populus [... ]. Iste populus quandoque muris cingitur, et incolit civitatem; et idem proprie dicicur politicus a polis quod est civitas», Baldo degli Ubaldi, Lectura in VI-IX libros Codicis, Lyon 1498, C. 7. 53. 5. " «Prout est quoddam corpus civile seu politicum», ibid. C. 7. 53. 5 fol. 236r.
Cfr. J. P. Canning, ldeas of the State in Thirteenth and Fourteenth-Ce--itury Commentators on the Roman La::;, in «Transactions of che Royal Historical Society», s• serie, 33, 1983, pp. 1-27. "Si veda anche un altro passo dei Consiliorum: «Modo sequitur in !itera comractus tertia particula "que tenet et possidet" [... ] prout autem respicit politicum regimen intelligitur "que tenet et possidet", id est que regit et gubernat seu nomine suo gubernentur», Baldo degli Ubald~ Consiliorum si~,e responsorum volumine 1-8, Venezia 1575, ad D. I. I. Rubr. fol. 4r. "«Causa finalis (artis nostre) est triplex, scilicet in hominem, ad hominem. et ad rempublicam. In homine, ut bonus sic; et hoc pertinet ad ethicam. Ad hominem, ut quis bene regat familiam; et hocJ'ertinet ad economicam. Ad rempublicam, ut re publica salubriter regarur; et hoc pertinet a politicam», D. Constane, «Omnem», Il.
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Per vivere una vita politica, l'uomo deve essere capace di distinguere il giusto dall'ingiusto e regolare la sua condotta conformemente al giusto. Poiché la scienza del diritto e la filosofia morale gli permettono di fare questa distinzione, esse sono il fondamento necessario del vivere politico25 • E la politica, che ha per fine il bene comune, merita il rango più elevato fra le scienze pratiche26• In un altro luogo, nel contesto di una riflessione ispirata al linguaggio ciceroniano delle virtù politiche, chiama la giustizia «virtù politica», a sottolineare che come è impossibile muovere una montagna da un luogo all'altro, così non si può governare una città senza giustizia27 • Il riferimento a Cicerone è evidente, anche nel Proemio alle lstitutiones, dove Baldo definisce la legge «vincolo della società civile». Senza la legge, commenta, non si può parlare di civita?. E, in un intricato passo del commento In usus feudorum, aggiunge che il diritto civile è la norma politica che rende possibile un ordine civile29• Ancora una volta, il diritto e la politica condividono la gloria di essere le scienze che fondano la comunità civile3°. Nel linguaggio di Baldo, la politica è collegata strettamente alla respublica e si identifica con il perseguimento del bene comune della città. Anche se in un passo parla della politica come partecipazione attiva dei cittadini al governo della cosa pubblica31 , non attribuisce la qualifica di «politico» solo al governo repubblicano. Anche un re o un imperatore
" «Subiecrum est homo, qui per scientiam acquirit politicam id est moralem qualitatem seu philosophiam per quam perfecte cognoscit, separar iusrum a contrario, quia indicat quod iusrum est», D. I.I.I. Addirio Baldi n. 7. "' «Quanto bonum est communius tanto divinius. Comrnune booum dicirur quod debet esse subiecrum io qualibet consideratione politica et morali, ut no», D. 13.2. " «Hic diffinirur iustitia prout est virrus politica, dieta a polis, quod est civitaS, et icos, quod est scientia, quasi scieotia de regimine civitatis. Et ponirur in diffinirione coostans et perpetua ad denorandum, quod ira est impossibile civitates sioe iuscitia regi, que est virtus politica, sicut est impossibile monres de uno loco ad alium rransferri. Et quod iste inrellecrus est verus, probacur, guia virrutes polirice sunt quattuor. iustitia, temperantia, fortirudo et prudeotia». Id., Praelectiones in quatour institutionum libros, Venezia 1599. 21 «Scientia civilis [...] q,ue tante mirabilitatis existit quod ea pretermissa hwnane societatis nullum est vinculum, sic nec CIVÌtatis consistit vocabulum•, ibid., ProemiD, ad v. «Quoniam» foL 2r. "«Ubi vero est tribuna!, ibi aliquam politicam et regulam necesse est esse que dici potest ius civile, id est ius vivendi sub quadam specie civilitatis», Id., In usus feudorum comm.."TZtaris, Lyon 1585, I.8 (Additio). ,. Si veda anche Cino da Pistoia: «ubi est iustitia, est felicitas», dove per giustizia intende una virtù, un abito della mente: «Verum est, quod particulariter io qualibet mente, io qua est diffusa, corrumpirur. et sic definite esse virtus quando corrumpirur, et sic non est iustitia. & talis iustitia, prout est virtus, semper est apta tribuere ius suum». Specifica quindi che «habitus mentis bonus, unicuique rribuens secundum suam dignitatem: maioribus reverentiam, minoribus disciplinam, Deo religionem, parencibus obedientiam, paribus concordiam, sibiipsi cascimoniam, miseris, seu pauperibus, compassionem», Cino da Pistoia, Iurisconsulti praesr.ancissimi, In Codicem, et aliquot titulos primi pandectarum tomi commentaria., Frankfurt a. M. 1578. " «Quedam sunt universitates, que habent regimen active, id est que habent regere; que-
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possono governare politicamente, a condizione che perseguano la giustizia e il bene comune. Se invece perseguono interessi particolari, essi fuoriescono dai confini del governo politico e cadono, come aveva insegnato Bartolo, il maestro di Baldo, nella tirannide ex parte exercitii. L'imperatore che persegue il proprio interesse, scrive Baldo, «quasi tyrannus est» e non agisce come personificazione della repubblica32• Nei suoi scritti la politica è l'arte di prevenire e combattere la tirannide, la sola arte che permette agli uomini di godere il bene prezioso della città''. Anche per i giuristi sostenitori della monarchia, valeva il medesimo discrimine: il monarca può essere detto politico fin quando non diventa tiranno. Un esempio particolarmente interessante dell'uso del linguaggio politico da parte dei giuristi è la riflessione di Luca da Penna, napoletano e contemporaneo di Baldo, che teorizzò la relazione fra il principe e la respublica come un «matrimonium morale et politicum» 34• Il termine appare in un commento a una legge sull'occupazione di terre incolte. Attingendo a fonti classiche e bibliche, Luca presenta il principe come marito della respublica, il cui il matrimonio con la repubblica può essere definito come un matrimonio morale e politico («Inter principem et rempublicam matrimonium morale contrahitur et politicum» )3;. La metafora del matrimonio serve a Luca per spiegare che il principe, nella sua persona pubblica, incorpora l'intera repubblica e agisce come suo capo. Come Seneca scrive nel De clementia, rivolgendosi all'imperatore Nerone, il principe è l'anima della res publica e la res publica è il corpo del principe36• Luca parla, però, di corpo e capo anziché di anima e corpo, come fa Seneca nel De clementia 37•
dam passive tantum, idest que habent reP:i et non regere, ut rustici qui non participant politica, nam agricole non participant politicam secundum Aristotelem•, Id., Decreta/es Gregorii P.IX. seu Liber Extra 1.31.3. n. 5, in Canning, A fourteenth-century contribution to the theory of citizenship cit., p. 207. " «Non tamquam respublica gereret st ,, Baldo degli Ubaldi, In usus feudornm ciL, I, 14.1. " «Homines tria dicuntur possidere: vitam, libertatem et civitatem», Id., Commentaria in prirr,.,1m et secundam Digesti veteris partem cit., I, 4 «De sraru hominum et !ex narurae•. " Luca da Penna, Commrotaria in tres posteriores libros Codicis, Lyon 1597, C. 11, 58. 7. n. 8; su Luca cfr. W. Ullmann, The medie:·al idea of law as represented by Lucas de Prona, London 1946. "Cfr. E. Kantorowicz, The King's T'l:·o Bodies. A Study in Medieval Politica! Theology, Princeton 1956, p. 214; (trad. it. I due corpi del re. L'idea di regalità nella teologia politica medie-vale, Einaud~ Torino 1989). "«Nam si, quod adhuc colligit, tu animus reipublicae ruae es, illa corpus tuurn. .. », in Seneca, De clemrotia, I, 5.1, in Id., Mora! Essays, a cura di J. W. Basore, London-Cambridge (Mass.) 1958, pp. 370-1. 37 « ••• item, sicut vir est caput uxoris, uxor vero corpus viri [Eph. 5. 23] ... , ira princeps caput reipublicae, et res publica eius corpus», Kantorowicz, The King 's Two Bodie; cit., p. 216. Cfr. anche Ullmann, The M edù .,al I dea cit.
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Come ha sottolineato Ernst Kantorowicz, il concetto di matrimonio morale e politico era di uso corrente nel diritto canonico. Come Cristo è capo e marito del corpo collettivo della chiesa, così il principe è capo e marito dello stato. La relazione di Cristo con la Chiesa e quella del principe rispetto allo stato sono relazioni di comando: Cristo è il capo della chiesa; il principe è il capo del corpo politico. Né la chiesa può sussistere come corpo collettivo vivente senza Cristo e senza i vescovi, né il corpo politico può esistere senza il suo capo. È solo attn.verso la mediazione di Cristo e del principe che i fedeli e i sudditi possono unirsi rispettivamente nel corpo fittizio della chiesa e dello stato38 • Oltre al comando e alla personificazione, l'immagine del matrimonio morale e politico esprime l'idea che la repubblica ha un esistenza e un patrimonio autonomo e che il fisco, in quanto dote della repubblica, non appartiene al principe. Sposando la repubblica, il principe acquisisce il diritto di usare la dote della repubblica, ma non quello di alienarla. Al momento dell'incoronazione, il principe deve infatti promettere solennemente di proteggere lo stato e di astenersi dall'alienare proprietà che appartengono al fisco, una promessa analoga a quella che deve fare il vescovo. Il concetto di matrimonio morale e politico ha implicazioni importanti per il linguaggio della politica, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto del consenso e della legittimità dell'autorità politica. Prima di Luca da Penna, i canonisti avevano già commentato, fondandosi sul Digesto, che l'elemento fondamentale del matrimonio è il consens0' 9• Uguccione da Pisa, nella sua glossa al Codex, paragona la nomina del vescovo al consenso matrimoniale' 0• Cino da Pistoia, all'inizio del XIV secolo, si era servito della metafora del matrimonio per sottolineare che l'elezione del principe avviene per mutuo consenso e che il principe si impegna a proteggere la repubblica. Anche l'imperatore, commenta Cino, deve consentire a prendere la repubblica come sposa e la repubblica deve accettare volontariamente l'imperatore come marito e difensore 41 •
"Luca da Penna, Commentaria cic., c. 11, 58. 7. n. 8. "«Nuptias, non concubitus, sed consensus facie», Digesto, 50.17.30. "'«Ex mutuo consensu, scilicet eligenrium et electi», cfr. Kantorowicz, The K:ng's Two Bodies cir., p. 212. " •Quia ex elecrione Imperatoris et acceptione electionis Reipublicae iam praeposirus negari non potest et eum ius consecurum est, sicut consensu mutuo fit matrimonium [... ]. Et bona est comparatio illius corporalis matrimonii ad istud inrellecruale: quia sicut maritus defensor uxoris dicitur [... ], ita et Imperator Reipublicae», Cino da Pistoia, In Codicem et aliquot titulos cit., C. 7. 37., n. 5, fol. 446r.
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Mentre Cino e gli altri giuristi,z usano l'espressione «matrimonio intellettuale», Luca parla di matrimonio morale e politico. I due aggettivi indicano sia il carattere fittizio dell'unione fra il principe e la repubblica sia la responsabilità del primo nei confronti della seconda. Aggiungendo i termini «morale» e «politico», Luca intende sottolineare che il governo del principe sulla repubblica è limitato dalle regole della giustizia e deve essere sempre diretto al bene comune. Il governo del principe sulla repubblica è un matrimonio morale e politico, in altre parole, non un semplice matrimonio, in quanto il principe rispetta la giustizia e persegue il bene comune. Aggiungendo gli aggettivi «morale» e «politico» al matrimonio, Luca sottolineava dunque sia il ruolo preminente e superiore del principe, sia il suo dovere di governare secondo giustizia mirando al bene comuneu. La comunità politica non può esistere senza il principe come suo capo e fondamento". Gli interessi e le passioni contrastanti dei cittadini esigono un'autorità superiore che possa armonizzarli e moderarli e tale autorità non può essere il governo di molti, ma il governo del principe45 • Anche se non si identifica più con il regime repubblicano, il governo politico resta, per Luca, fondato sull'equità' 6• Il principe, unito allo stato in matrimonio morale e politico, è infatti tutore, non proprietario. Come l'anima dà vita e vigore al corpo, così il monarca, se governa rettamente, conserva la salute del corpo politico. Deve sempre ricordare che le proprietà della repubblica e quelle dei sudditi non gli appartengono. Come un tutore deve proteggere e amministrare, ma non espropriare. Dio ha istituito il potere del principe per impedire ai malvagi di fare il male e permettere ai buoni di vivere in pace'7• Lo stato è affidato alla sua " Ad esempio Alberico da Rosate, nel suo commento al Codice, scritto agli inizi del T recente: •quia sicut matrimonium consensu perficitur [... ], sic ex mutuo consensu eligentium et electi ius plenum consequitur Imperator [...]. Nota ergo quod ex quo res administrat, et est bona argumentatio matrimonii carnalis ad istud intellecruale, quia sicut maritus est defensor uxoris ... ita Imperator Reipublicae», Alberico da Rosate, Commentariorum pars prima cit., C. 7. 37. 3, n. 12. " Il concetto del principe come capo del corpo mistico della repubblica («caput mystici reipublice corporis») si trova anche in E. S. Piccolomini, Epistola de ortu et auctoritate impe-
rii Romani. Come capo della repubblica il principe deve essere pronto a sacrificarsi per i1 bene comune, come fece Cristo in quanto capo, reggitore e principe della chiesa ( «caput ecclesie, princeps et rector» ). Cfr. G. Kallen, Aeneas Silvius Picco/omini als publizist in der Epistola de ortu et auctoritate imperii ro,.--:a·:i, Koln 1939, pp. 82-4. " «Nihil est tam necessarium civitatibus quam principarus, sine quibus impossibile est esse civitatem. Et sine his (quae ad bonum ordinem et omarum) impossibile est habitare», Luca da Penna, Commentaria cit., C. 12. 59. 8., n. 3. " •Princeps solus melius exercet imperium quam plures», ibid. " «Omnis actus regms debet super aequitate fundari», ibid., c. 11. 70. 5, n. 36. '' «Potestas quippe regia constituta est, ut mali coerceantur a malo, et bonis inter malos quiete vivant», ibid., c. 11. 71. 1., n. 1.
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cura, perché gli uomini possano vivere insieme secondo giustizia e godere della pace e della concordia'8• Sotto il governo di un principe giusto i sudditi possono godere del bene prezioso della libertà civile, che Luca definisce la luce della vita dell'uomo, mentre la servitù imposta dal tiranno è l'immagine della morte". Come la salute, la libertà civile non ha prezzo e il principe non può limitarla senza giusta causa50• Se lo fa, agisce come un tiranno che abusa del potere che gli è stato affidato e tratta la repubblica come sua proprietà o come sua serva. Il matrimonio morale e politico è dunque dissolto" e con esso è dissolta anche la repubblica; dove c'è un tiranno, scrive infatti Luca, non c'è società civile;2• Il concetto di matrimonio morale e politico è il risultato non solo del trasferimento al linguaggio politico di temi e immagini proprie del linguaggio del diritto canonico, ma anche dell'adattamento di convenzioni del linguaggio politico aristotelico e della filosofia scolastica. Riutilizzato nell'ambito di una dottrina monarchica, il concetto aristotelico del governo del marito sulla moglie come governo politico serviva adeguatamente a Luca per elaborare l'immagine del principe politico. Non si deve tuttavia trascurare il fatto che la riflessione di Luca sul matrimonio morale e politico comincia con un riferimento alla Pharsalia di Lucano, in cui il poeta presenta Catone come padre e marito della città di Roma5J_ Il principe giusto assume, quindi, i titoli che il poeta latino attribuiva al cittadino che aveva servito il bene comune della patria. Non solo la tradizione del diritto canonico, ma anche l'aristotelismo e la tradizione romana costituiscono il retroterra ideale del concetto di matrimonio morale e politico. Quando usano il termine «politicus», i sostenitori del governo monarchico intendono sempre attribuire al monarca caratteri della respublica: l'impero della legge, l'impegno per la giustizia e per il bene comune, la moderazione o anche il carattere elettivo o limitato del principato o della monarchia5'. La combinazione più influente di «politico» e "!bui., c. 10. 1., n. 4, dove Luca dà una definizione di civitas fedele a quella ciceroniana. "Jbid., c. 11. 48. 1., n. 10. '° «Hornines [...] quorum gratia bona omnia sunt inducta [... ] et qui sunt bonis omnibus digniores [... ] eorum salus et libertas aestimari non potest», ibui. '.' «Tyrannus est qui violenta dorninatione populum prernit», ibui., c. 10. 31. 42., n. 2. '' «Nulla est socictas cum cyrannis et potius summa desrructio est», ibid., c. 12. 63. l., n. 74. " «Item princeps si verum dicere ve! agnoscere volumus [...], est marirus reipublicae iwcta illud Lucani ... ». Segue la citazione da La guerra civile (Pharsalia), a cura di R. Badalì, Utet, Torino 1988, n. 388: «urbi pater urbique maritus». '' Un esempio interessante si trova nel Policraticus, di Giovanni da Salisburgo, un testo che ebbe notevole influenza sui giuristi italiani e su Luca da Penna; cfr. W. Ullmann, The lnfluence of fohn of Salisbury on Medieval Italian jurists, in «The English Historical Rcview», 59, 1944, pp. 384-92.
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_ _ _ _ _ _ L'acquisizione del linguaggio della politica _ _ _ _ _ __
«regale» è quella di Tommaso d'Aquino, quando definisce il dominio imperiale come «dominium regale et politicum». Il governo imperiale, scrive nel capitolo XII del IV libro del De regimine principum, è una forma di dominio che sta in mezzo fra il dominio regale e il dominio politico («medium tenet inter politicum et regale»). Il dominio imperiale e il dominio politico sono simili, perché nell'uno e nell'altro i governanti si succedono per elezione e perché il titolo di imperatore non si trasmette ai discendenti. Infine, come i consoli della tarda repubblica, gli imperatori succedono gli uni agli altri per usurpazione. Al tempo stesso, il dominio imperiale partecipa dei caratteri del regime monarchico, perché l'imperatore possiede la summa potestas, ha il potere e il diritto di imporre tasse e il potere legislativo. Come un ,nonarca, l'imperatore porta la corona e ha un potere assoluto sui sudditi, un carattere questo che lo distingue dai consoli o dai reggitori politici;;_ Tanto per i sostenitori dell'autogoverno repubblicano, quanto per i fautori della monarchia, per essere politico un regime deve soddisfare un certo numero di requisiti: l'impero della legge, il consenso dei governati, il perseguimento del bene comune. A seconda degli autori cambia, non solo il significato attribuito a ciascuno di questi principi, ma anche l'interpretazione della loro appropriata combinazione. Un regime politico può essere anche un governo popolare, ovvero, per usare l'espressione con cui Bartolo da Sassoferrato traduce la politia di Aristotele, una forma di governo in cui il potere sovrano appartiene ai cittadini, ma deve almeno soddisfare i requisiti del governo della legge, del consenso e del bene comune56 • Nonostante l'ampiezza del suo campo di applicazione l'aggettivo «politico» non poteva applicarsi, nel linguaggio dei giuristi, alla tirannide. Entro l'ambito dei governi politici rimaneva il bene prezioso della comunità civile da conservare con la più grande cura per mezzo della prudenza civile e politica. Presentando la scienza di fare e applicare le leggi come disciplina politica per eccellenza, i giuristi trasferirono alla politica la nobiltà che spettava al diritto. In questo senso, continuarono l'opera iniziata dai teorici del governo comunale che si ispiravano alla tradizione delle virtù politiche e degli aristotelici e prepararono il contesto intellettuale in cui fiorì la celebrazione umanistica della politica come filosofia civile.
"«A consulibus sive rectoribus politicis~, Tommaso d'Aquino, De regimine principum cir., a cura diJ. Marhis, lii, 20, p. 62. ,. Cfr. Bartolo da Sassoferrato, Tractatus de regimine civitatis cit., p. 150.
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DALLA POLITICA ALLA RAGION DI STATO
II.
La filosofia della città e l'ideale dell'uomo civile
Nell'età dell'umanesimo, soprattutto nell'umanesimo civile fiorentino, la politica conobbe il suo massimo splendore. Non solo possedeva un proprio coerente linguaggio, ma era anche riconosciuta come la più nobile delle attività umane. La celebrazione della politica come arte o scienza del vivere civile si accompagnava all'esecrazione dell'arte dello stato, intesa come ricerca del potere e uso delle istituzioni pubbliche per promuovere interessi particolari. L'uomo di stato, l'uomo che cerca lo stato, era, per gli umanisti, l'opposto del buon cittadino'. Come si vede nella lettera del 1373 di Petrarca a Francesco Carrara, signore di Padova, l'ideale nel buon principe è tratto largamente da Cicerone, da Aristotele e dal diritto romanc2. Anche se Cicerone era pagano, sottolinea Petrarca, i suoi insegnamenti sul governo della repubblica sono accettabili anche per i cristiani. Chi regge la repubblica dovrebbe _ricordare, prima di ogni altra cosa, il monito di Cicerone a cercare con tutte le proprie forze di conquistare l'amore dei sudditi e non porre mai l'utile al di sopra dell'onesto, se vuole ottenere gloria imperitura3. Da Aristotele, il principe deve invece imparare che suo dovere è quello di operare come un buon amministratore, mai come un padrone («ut administrator non ut dominus» )'. Il diritto romano insegna, infine, che essere giusti significa non danneggiare nessuno senza gravi ragioni ed essere comunque sempre caritatevoli: non bisogna mai dimenticare,
come ha scritto Luca da Penna, che la repubblica è il corpo di cui il ' Sul contrasco fra l'uomo di staco e l'uomo politico si veda P. L. Weinacht, Der Pvlitiker als Staatsmann, in «Civitas», IX, 1970, pp. 75-7. ' F. Petrarca, Ad Mag,;ificum Franciscum de Carraria Padue dominum, qualis esse debeat qui rem publicam regit, in Epistole, a cura di U. Dotti, Torino 1978, p. 771. 'Ibid., p. 807. 'Aristotelis politicorum libri octo cum vetusta translatione G,delmi de Moerbeka, 1314b, 40, a cura di F. Susemihl, Leipzig 1872, p. 583.
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principe è il capo («unum enim corpus est res publica cuius tu caput es» )5. Per questo, il principe deve amare la repubblica come se fosse il proprio corpo e cercare l'aiuto di uomini esperti di diritto civile. Fu tuttavia Coluccio Salutati, cancelliere della repubblica fiorentina dal 1375 al 1406, ad elaborare l'ideale umanistico dell'uomo politico. Politica significava, per lui, impegno strenuo a difesa della libertà della città, da assolvere con prudenza e dedizione, con l'aiuto di una profonda conoscenza del mondo umano e dell'abile padronanza della retorica. La politica, scrive Salutati in una lettera del 1374, è opera difficile e onerosa che non dà felicità o ricompense materiali, come molti si ostinano a credere•. Il vero uomo civile deve tenere sempre presenti le parole dell'imperatore Adriano, quando disse che era sua intenzione governare con la piena consapevolezza che la repubblica non apparteneva a lui, ma al popolo («se rempublicam gesturum, ut sciret rem populi esse, non propriam -)7. Il buon politico deve, dunque, servire la patria per senso del dovere ed assisterla nel momento del bisogno, anche a rischio della propria vita8• L'opposto della politica è la tirannide, ovvero la forma di governo che più di ogni altra si avvicina al dominio del padrone sugli schiavi ( « Tyrannus ... magis cum iconomico convenit») e contraddice il principio del governo politico, ovvero, sottolinea Salutati seguendo Tolomeo da Lucca, la forma di governo in cui l'autorità è limitata dalle leggi («autoritate restricta legibus» )9. Se il monarca rispetta le leggi e governa con giustizia, anche la monarchia può essere compresa fra le forme di governo politico 10• Fra il re e il tiranno, sottolinea Salutati ancora una volta in pieno accordo con il linguaggio convenzionale della politica, non vi è affinità alcuna: mentre il tiranno governa contro le ' Petrarca, Epistole cit., p. 778. • «Sic de primoribus urbium contingit, quos inter populorum diver~a indiscretaque studia oportet multis anxiisque laboribus ac damnis patrie naviculam regere, qui tamen quadam auctoritatis umbra vul~o quieti putantur felices et leti fructum de republica reportare», Epistolario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, Roma 1891, I, p. 193. 'Epistrlario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, Roma 1893, li, p. 40 (lettera a Carlo di Durazzo, 1381). ' Ad un amico che lo esortava ad abbandonare Firenze, infestata dalla peste, rispondeva che lasciare la città nel momento del bisogno è contro ogni principio morale: «Inhonesta est igitur ista fuga guam facitis, que contraria quidem est cunctis virrutibus, que verum sunt honeste pulcritudmis fundamentum•, ibid., p. 88 (lettera a Antonio di Ser Chello, Augusto 1383). In un'altra lettera del 1384 (?) a Landolfo Caiazza, Salutati ribadisce il suo ideale della politica come impegno senza riserve per il bene del paese, ibid., p. 133. 'Coluccio Salutati, De tyranno, I, 6, a cura di F. Ercole, Berlin-Leipzig 1914, p. Xlii. " «Nonne politicum est, et omnium sapientum sententiis diffinitum, monarchiam omnibus rerum publicarum conditionibus preferendam, si tamen comingat virum bonum et srudiosum sapiemie presidere?», ibid., IV, 14.
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leggi e contro la giustizia, il re accetta i vincoli delle leggi e governa secondo la giustizia e secondo la verità («lex iusticie, !ex veritatis, et equitatis» )'1. Come indicano la sfera e lo scettro - i due simboli del potere regio - il re deve essere l'esempio della perfezione delle virtù e il guardiano della legge. La sfera è infatti simbolo di perfezione, mentre lo scettro indica rettitudine. Sia la sfera che lo scettro sono fatti d'oro e come l'oro ritorna alla sua bellezza originaria dopo essere stato fuso, così il buon re deve rimanere immune dal vizio e dalla corruzione, conservando in tal modo intatto lo splendore della sua maestà 12• Per essere un uomo politico, il cittadino non deve, tuttavia, trascurare i propri doveri verso la famiglia, né cercare di imitare la marmorea severità di Catone'\ ma cercare solo di proteggere la «dolcissima libertà»". Scrivendo nel 1369 a Niccolosio Bartolomei, Salutati sottolineava che non vi è nulla di più nobile, di più grande e di più prezioso della libertà («quid supra libertatem dabis altius, maius, ve! carius?» )15. Come sanno bene i popoli che sono riusciti a sottrarsi al giogo della servitù, nessuna gioia della vita è tanto grande quanto la riconquista della libertà, anche se essa è in primo luogo freno e limite imposto da leggi che valgono per tutti i cittadini, secondo il giusto principio del[' eguaglianza. Come Hans Baron ha sottolineato, l'umanesimo civile di Salutati era largamente condizionato dal suo attaccamento all'ideale trecentesco dell'imperium Romanum e da una profonda incertezza sull'ideale umanistico della superiorità della vita attiva rispetto a quella contemplativa''. Ciononostante, i suoi scritti ebbero un'influenza rilevante nella diffusione dell'ideale della politica come arte della repubblica. Il De nobilitate legum et medecinae, scritto nel 1399, può essere considerato come il manifesto della concezione umanistica della politica17 • Per intenderne il significato, bisogna collocare il De nobilitate legum nel contesto della controversia sulla superiorità del diritto e del11 Epistolario di Coluccio Salutati cit., Il, p. 36. "Jbid., pp. 42-6. u Jbid., I, pp. 107-8. " Coluccio Salutati, Invectiva in Antonium Luschum vicentinum, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli (s.d.), p. 15. " Epistolario di Coluccio Salutati cit., I, p. 90 (lettera a Niccolosio Barcolomei, aprile
1369). 1' Cfr. H. Baron, The Crisis of the Early Italian Re:.aissance, Princeton 1966, I, pp. 7996; e In Search o{ Fiorentine C::,ic Humanism, Princeton 1988, I, p. 135, dove Baron definisce Salutati una (igura di transizione. 1' Baron giudica il De nobilitate, come una deviazione o digre.csione, The Crisis of the Early ltalian Renaissance cit., I, p. 92. Credo inece che il De nobilitate sia un testo fondamentale per la comprensione del linguaggio della politica agli inizi del XV secolo.
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la medicina, che fu inaugurata da Petrarca e proseguì per tutto il Quattrocento' 8• La «disputa delle arti», come fu chiamata, fu uno dei momenti di più intenso confronto e scontro intellettuale fra umanisti e scolastici. Mentre i primi sostenevano la superiorità delle discipline pratiche e del mondo umano, i secondi esaltavano la superiorità della natura e delle scienze naturali. L'opera di Salutati, scritta in risposta alle tesi del fisico Bernardo da Firenze, definì i termini del problema e delineò le linee argomentative che altri umanisti avrebbero poi seguito nel corso della querelle. Salutati inizia infatti la sua argomentazione definendo che cosa sia il diritto, poi cosa sia la medicina e procede alla comparazione dei meriti delle due discipline. Il punto essenziale del ragionamento di Salutati consiste nella tesi che diritto e politica sono la medesima cosa. A Bernardo, che aveva sostenuto che il titolo di «arte architettonica», come insegna Aristotele, spetta alla politica e non al diritto, risponde infatti ripetendo la tesi ampiamente discussa dai giuristi del Trecento e ricavata dalla concezione romana della civilis sapientia' 9: idem esse politicam atque leges» 20 • Anche il fondamentale concetto di «ragione politica» («politica ratio»), che introduce nel XX capitolo, è di derivazione ciceroniana e sinonimo di «ratio civilis» 21 • Come Cicerone ci ha insegnato, la legge è la norma razionale della vita umana. Benché sia una creazione umana, la legge è fondata sulla natura e quindi divina. Nessuna legge umana è vera legge, se viola la norma dell'equità dettata dalla ragione eterna22. Il principio del diritto romano, che afferma che la volontà del principe ha vigore di legge, è giusto, ma è pur vero che altro è avere vigore di legge, altro essere una legge. Un comando ingiusto può avere vigore di legge in virtù del potere del principe o della codardia dei sudditi, o addirittura per errore. Tutto questo non basta, tuttavia, a fare di un ingiusto comando una legge23 • Per confutare la tesi di Bernardo, che le leggi non hanno valore universale perché cambiano secondo i tempi e i luoghi e sono frutto di decisioni contingenti, Salutati non si affida affatto, come è stato sostenuto, all'ideale aristotelico della repubblica, ma alla concezione ciceronia-
" Si veda E. Garin, Introduzione a C. Salutati, De nobilitate· legum et medicinae, Firenze 1947, p. XLV. "Sulla formazione giuridica di Salutati dr. F. Novati, La gioùnezza di Coluccio Salutati (1331-1353), Torino 1888. "Salutaci, De nobilitate legum et medicinae cic., p. 168. 21 Jbid., p. 170. "Ibid., p. 18. u Jbid., p. 243.
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na della legge2'. «Cicero meus», scrive infatti, ha chiaramente spiegato la natura e il fine delle leggi: anche se sono il risultato di decisioni e deliberazioni umane, esse incorporano il principio universale dell'equità e tendono alla conservazione della città e dell'intera umanità. Le vere leggi sono, dunque, precetti universali per il bene comune25 • Il compito della ragione politica è di introdurre misura, proporzione e giustizia nel mondo umano, ed essa può svolgere il suo ufficio per mezzo delle leggi vigenti («politicae rationis institutio atque preceptio» )26 • Tanto la politica quanto le leggi tendono alla consenazione della società civile. Fine della politica è creare il buon cittadino e per il medesimo fine opera il legislatoré'. Come Aristotele ha giustamente sottolineato, scrive Salutati, il bene politico («bonum politicum») è più grande e più nobile del bene individuale. La politica è responsabile del bene dello spirito e della felicità degli uomini. Vera felicità è infatti felicità politica («politica felicitas» ), ovvero la vita conforme a virtù, nella città. Solo la politica, per mezzo delle leggi, offre agli uomini la possibilita della felicità politica, creando le condizioni per una vita informata alla virtù. Ad essa e alle leggi va dunque riconosciuto il rango più nobile fra tutte le scienze. Il medesimo linguaggio della politica si ritrova, pochi anni più tardi, nelle opere di Leonardo Bruni. Nelle sue traduzioni dell'Etica nicomachea, della Politica e della pseudo-Economia, presentò il pensiero politico di Aristotele come una filosofia civile ispirata al valore della vita activa e fondata sull'etica della misura. Tanto la respublica quanto la vita dei singoli devono essere guidate dalla misura e dalla proporzione. Né la vita contemplativa, né una vita dominata dalla sete di gloria, di potere e di ricchezze si conformano all'ideale della virtù, ma solo una volontà bene ordinata, che sappia assaporare le gioie che la vita ci offre e accettare i limiti e i mali che necessariamente accompagnano la condizione umana. Per Bruni, quella parte della filosofia morale che i greci chiamano «politica» deve essere tradotta «precepta circa rempublicam». È tem" Cfr. J. G. A. Pocock, The .\f,;chiavellian Moment. FJorent'"le Politic. l Thought ai:d the Atlantic Republican Tradit',m, Princston 1975, p. 66. E ceno plausibile considerare la teoria della pohs come la forma più pura di teoria politica (cfr. ibid., p. 74); meno plausibile indicarla come la componente fondamentale dell'ideologia politica delle repubbliche italiane e dell'umanesimo civile (cfr. ibid.). La teoria della res publica, soprattutto nella sua versione ciceroniana, era certamente altrettanto importante. "Salutati, De nobilitate leg,.m et medi.:.;, ,ae cit., pp. 132 e 16-9. "Ibid., p. 198. " «Intendit politica conservationem humane societatis; hoc idem intendit et !ex. Vu!t politica civem bonum; et quid aliud latores legum suis institutionibus moliuntur?», ibid., p. 170.
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po, sottolinea Bruni nel «Prologo» alla pseudo-Economia, di usare il nostro vocabolario, anziché parole greche. Ciò che attiene alla «politici intellectus et theoria», secondo la traduzione di Moerbeke, diventa «civilis intelligentia et speculationis» 28 • Mentre Moerbecke conserva il termine greco politia per indicare la costituzione della città, Bruni traduce con respublica29 • Il fine della politica diventa così la civitas, intesa come una comunità di cittadini che hanno in comune le leggi, le cari-
che, le cerimonie pubbliche e religiose. In una vera città i rapporti fra i cittadini sono ispirati all'amicizia e alla solidarietà; quando, invece, l'invidia e l'odio prendono il posto dell'amicizia, la città si dissolve in una moltitudine di stranieri o di nemici30• Una civitas bene ordinata, sottolinea Bruni con Aristotele, è una comunità che si autogoverna, in cui i cittadini si alternano nelle cariche pubbliche. Solo in una simile comunità gli uomini possono trovare la felicità e vivere una vita veramente umana31 • Il bene comune, sottolinea nella prefazione alla traduzione della Politica, è più nobile e più grande del bene particolare, e più il bene è comune, più è divino. E il bene comune più prezioso e più divino è la comunità politica, che garantisce agli uomini il necessario per vivere e permette loro di vivere secondo la virtù. Per questo, la disciplina che insegna che cos'è e come si conserva una civitas deve essere considerata la più nobile delle discipline umane3 2• Coloro che trascurano le discipline del mondo umano, per dedicarsi alla conoscenza della natura, scrive Bruni nell' Isagogicon morali:; disciplinae (1421-4), trascurano ciò che è veramente «nostro» («re nostra») per qualcosa che ci è estraneo33 • E nulla è più nostro della politica, ovvero della disciplina che insegna a governare e a conservare la cirtà3'. Le opere di Aristotele offrivano a Bruni la possibilità di arricchire la concezione dell'uomo politico. Come il buon legislatore, l'uomo politico deve conoscere la migliore costituzione politica da introdurre nella città, tenendo presenti i caratteri specifici degli abitanti e del luo"Aristotelis politicorum libri octo (trad. di Leonardo Bruni), Parigi 1506, \ Il, 2. "lbid., IV, I. '° Ibid., m, 6. "Ibid., u, 8. " «Nulla profecto convenientior discipline homini esse potest quae quid sic civitas et quod respublica intelligere et per que conservatur imereatque civilis societas non ignorare• Leonardo Bruni, In libros politicorum Aristotelis de greco in latini traducto prologus, in Leonardo Br,mi Aretino, Humanistische-Philosophische schriften, a cura di H. Baron, LeipzigBerlin I 928, p. 73. " Leonardo Bruni, Isagogicon moralis disciplinae ad Galeottum Ricasol...~um, in Filosofi italiani del Quattrocento, a cura di E. Garin, Firenze 1942, ,PP· 106-7. " «De civitacibus eorumque gubernacione conservauonemque traduntur•, Aristot:lis politicorum libri octo, Prologus cit. (crad. Bruni).
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go. Benché il momento più alto della politica sia l'introduzione di una nuova costituzione, ugualmente grande e difficile è riformarne una già esistente. Un compito simile può essere assolto solo da un «vero uomo civile» «vere civilem hominem»H. L'uomo politico o civile non può governare ingiustamente; chiedersi se è lecito che ciò avvenga, sottolinea Bruni, è palesemente una domanda assurda; 6• Come ogni altro uomo civile, il reggitore deve possedere le virtù, ma a lui si richiede una maggiore prudenza, che gli consenta di vedere i pericoli in anticipo17• Dalle virtù dei cittadini e dei governanti dipende la sopravvi, enza del vivere civile. Come per Salutati, la celebrazione bruniana della politica si fonda sull'ideale della civitas. Se il De nobilitate può essere considerato il manifesto dell'ideale umanistico della politica, la Laudatio Florentinae urbis di Bruni, scritta nel 1403-4, è il modello della celebrazione umanistica della città. Come hanno sottolineato gli studiosi, la Laudatio è un testo redatto a fini propagandistici, in cui Bruni dipinge, piuttosto che la Firenze reale, la città ideale in cui libertà e eguaglianza civili si fondano sul più ammirevole ordine e equilibrio delle istituzioni. Come un'armonia formata da diversi accordi, ogni componente della città è ordinata convenientemente per il bene del tutto. Le magistrature pubbliche sono ben differenziate e bene organizzate, secondo il modello ciceroniano dell'ordine inteso come su,tm locum:i. La costituzione nel suo insieme è un capolavoro della prudenza politica3'. Senza governo della legge non può esserci civitas e senza la libertà la vita perde valore' 0• La più grande preoccupazione dei fiorentini, sottolinea Bruni, è sempre stata quella di prevenire la tirannide. Per garantire il governo della legge hanno dedicato particolare attenzione ad organizzare la costituzione della città, in modo da impedire che qualche magistrato ambizioso e potente potesse imporre la sua volontà a dispetto delle leggi e agire come un tiranno. A tal fine, le ca-
"Ar:,todis politicorum libri octo cit. (trad. Bruni), IV, 1. "«Existimare civile disciplinam esse dominari [... ] hoc aurem absurdum», ibid., VII, 2. " «In principio fit malum cognoscere dit non cuiuscuique, sed politici vir», Aristotelis politicorum libri octo cum vetusta tram.'.:uione Guil lmi de Moerbeka cit., VIII, 8; «tamquam malum ab initio exoriens cognoscere non cuius sit :ed civilis viri» Aristotelis politicorwn libri octo cit. (trad. Bruni), vm, 8. " N. Rubinscein, Fiorentine Constitutivn.dism und Medici Asce:1dancy in the Fifteenth Ccntury, in Florent:-.e Studies, a cura di N. Rubinstein, London 1968, pp. 442-62, soprattutto p. 455. " Leonardo Bruni, Laudatio Flore:,tinae Urbis, in From Petra, :h to Leo:.ardo Brur•.', a cura di H. Baron, Chicago 1968, pp. 25~-9 . ., Jbid., p. 259.
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riche pubbliche sono di breve durata e le magistrature più importanti hanno carattere collegiale. Ma il fondamento più saldo della libertà è il Consiglio dei cittadini, cui spetta il potere legislativo. La repubblica deve conservare, con la massima cura, l'uguaglianza civile e impedire ai nobili e ai ricchi di concentrare nelle loro mani troppo potere. Deve essere benevolente con i deboli e con i bisognosi e severa con i potenti•'. Fin quando è libera, la città appartiene veramente ai cittadini che condividono le istituzioni pubbliche, le leggi e le magistrature. Essi hanno le stesse speranze e le stesse paure, gli stessi nemici e gli stessi amici. Essere cittadini di una libera città, conclude Bruni secondo i più classici moduli della retorica ciceroniana, è una grande cosaere politico» e religione sono presentate come due caratteri intimamente connessi della vita della città: «mostrorno in ultimo e! politico vivere di quella città, e con quanta religione e osservanzia di legge», Id., Legazioni e co:nmissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, II, p. 1007. "Machiavelli, Discorsi cit., I, cap. 6.
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rio, sia per indebolire un vicino troppo potente e pericoloso, sia per punire un invasore che abbia portato guerra nei suoi territori. Se non è in grado di espandersi quando necessità lo impone, o per mancanza di armi proprie o perché la popolazione è troppo esigua, la repubblica può facilmente crollare. E anche nel caso che non debba espandersi, è comunque poco prudente non esercitare i cittadini alle armi: l'ozio prolungato rende la repubblica effeminata e divisa, e la conseguenza è, ancora una volta, la perdita della libertà. Per queste ragioni, conclude Machiavelli, «credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine romano e non quello delle altre repubbliche». La costituzione della città deve essere modellata in modo da favorire l'aumento del numero degli abitanti e riconoscere al popolo, su cui grava gran parte del peso della guerra, un ruolo fondamentale nelle istituzioni pubbliche. I conflitti sociali che una simile costituzione incoraggia devono essere considerati non come una corruzione del «vero vivere politico», ma come un elemento importante della libertà della città. Il «vivere politico» si rafforza attraverso i conflitti sociali, a condizione che la loro composizione avvenga per via politica. Indicando il modello romano, Machiavelli non abbandona l'ideale del «vivere politico», ma assegna all'agire politico il compito di preservare la libertà attraverso i conflitti59 • Si potrebbe sostenere che la scelta di Roma rispetto a Sparta e Venezia era, in effetti, una scelta che poneva la grandezza e l'espansione al di sopra della libertà60 • Machiavelli sapeva bene che il perseguimento della grandezza era nel lungo periodo fatale alla libertà, e la storia di Roma era l'esempio migliore• 1• E sapeva altrettanto bene che l'altra causa della fine della libertà romana fu l'estrema virulenza dei conflitti fra la plebe e il senato sulla legge agraria62 • La repubblica sarebbe sopravvissuta più a lungo, scrive, se avesse proceduto più lentamente nelle conquiste e avesse curato di più la tranquillità interna. La storia insegna, scrive nell'Asino d'oro, che l'espansione è stata la rovina di principi e repubbliche e la cosa più sorprendente è che «ciascuno conosce questo error, nessun lo fugge» 63 •
" Cfr. Machiavelli, !storie fiorentine cit., lii, cap. 1. "'Cfr. ad esempio Pocock, The Machiavellian moment cit., pp. 197, 218. " MachiaYelli, Discorsi cit., Ili, cap. 24. " «E si accese per questo tanto odio tntra la Plebe ed il Senato che si venne nele armi ed al sangue, fuori d'ogni modo e costume civile», ibid., I, cap. 37. "Niccolò Machiavelli, De/l'asino d'oro, 46-7, in Id., Il teatro e gli scritti letterari, a cura di F. Gaeta, Milano, Felcrinelli 1965, p. 287.
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Da queste premesse sarebbe lecito attendersi una decisa raccomandazione a non volersi espandere e a seguire l'esempio di Sparta e di Venezia. Machiavelli conclude, invece, che una repubblica, come ogni stato, deve raggiungere una dimensione adeguata ed essere capace di difendere la propria libertà per mezzo di un'efficiente organizzazione militare, di abilità diplomatica e di una politica giusta nei confronti dei territori dominati. Storicamente, le repubbliche hanno perseguito l'espansione territoriale o attraverso la conquista, seguita dall'assorbimento degli abitanti dei territori conquistati tramite l'estensione della cittadinanza, come fece Roma; o attraverso la conquista e la successiva imposizione del dominio sui territori conquistati, come fecero Atene e Firenze; o attraverso la formazione di federazio_ni o leghe di città, come fecero gli Etruschi. Per Machiavelli il modello romano è ancora una volta il migliore, mentre il peggiore è quello ateniese e fiorentino. Qualora non fosse possibile seguire i romani, l'esempio degli etruschi offre una valida alternativa: E quando la imitazione de' Romani paresse difficile, non dovrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Toscani. Perché se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare un Imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che fu per un gran tempo sicuro con somma gloria d'imperio e d'arme, e massima laude di costumi e di religione...
Il fatto che lodi l'espansione ottenuta tramite la federazione di libere città dimostra che per Machiavelli il fine fondamentale è la conservazione del vivere politico, non la conquista e ancor meno la guerra. La guerra, ha scritto Felix Gilbert, è per Machiavelli «l'attività più essenziale della vita politica»; nel Principe e nei Discorsi essa appare come una forza «inesorabile e grandiosa» 65 • Tutto questo è vero solo in parte. La guerra per Machiavelli è anche orribile, inumana e crudele66 • Nella terzina Dell'ambizione ne fa un ritratto in cui non vi è alcuna grandiosità. Rivolga gli occhi in qua chi veder vuole l'altrui fatiche e riguardi se ancora cotanta crudeltà mai vidde il sole " Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio cit., li, cap. 4; Discorsi cit., II, cap. 19; la lettera a Vettori del 25 agosto 1513, in Lettere cit., p. 294; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in Arte della guerra e scritti politici minori cit., pp. 71-5; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze alle armi, in Arte della guerra cit., p. 95. " Gilbert, Machiavelli: The Renaissance of the Art of War cit., in Makers of Modem Strategy, a cura di P. Paret, Princeton 1986, p. 24. "La posizione di Machiavelli sulla guerra e la pace è stata brillantemente descritta da Sebastian De Grazia in Machiavelli in Hell, Princeton 1989, pp. 165-6.
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_____ Machiavelli e la concezione repubblicana della politica _ _ _ __ Chi 'l padre morto e chi 'l marito plora, quell'altro mesto del suo proprio tetto, battuto e nudo trar si vede fora. O quante volte, avendo il padre stretto in braccio il figlio, con un colpo solo è suco rotto a l'uno e l'altro il petto! Quello abbandona il suo paterno sòlo accusando gli Dei crudeli e ingrati con la brigata sua piena di dolo. O esempli mai più nel mondo stati! Perché si vede ogni dì parti assai per le ferite del lor ventre nati. Drietro a la figlia sua piena di guia dice la madre: «A che infelici nozze, a che crude! marito ti serva! Di san~ue son le fosse e !'acque sozze, piene cti teschi, di gambe e di mani e d'altre membra laniate e mozze. Rapaci uccei, fere silvestri cani son poi le lor paterne sepolture: O sepulcri erodei, feroci e strani! Dovunque gli occhi tu ivolti, miri di lacrime la terra e sangue pregna, e l'aria d'urla, singulti e sospiri.
La guerra è «empio e cruel martoro I de' miseri mortali», «lungo strazio e 'nrimediabil danno» 67 • Quando non è necessaria è ingiusta, come le guerre che Firenze combatté per arricchire alcuni cittadini68 • Peggiore ancora della guerra è però la sconfitta o essere alla mercede del furore e dell'ambizione degli uomini69 • Mentre è spesso impossibile sfuggire alla guerra, la sconfitta, con tutti i suoi orrori, può essere evitata, se la città ha armi proprie e una valida disciplina militare. I saggi legislatori e i prudenti governanti devono dunque disegnare la costituzione e le leggi in modo da evitare, prima di tutto, la sconfitta militare e la conquista. Se non può essere evitata, la guerra va combattuta con decisione e perizia; più breve è la guerra, meglio è per la città, soprattutto per i non combattenti. Per vincere la guerra nel più breve tempo possibile, sono necessarie tutte le virtù militari - coraggio, disciplina, entusiasmo, ferocia - e bisogna imparare l'arte della guerra. Sul campo di battaglia l'esito dello scontro e quindi la libertà della città dipendono dalla competenza e dall'organizzazione militare. Per questo è necessario che i cittadini coltivino l'arte della guerra, senza tuttavia farne loro esclusiva occupazione. "Machiavelli, Degli spiriti beati, in Il teatro e tutti gli scritti letterari cit., p. 332. "Id., !storie fiorentine cit., N, 14. "Id., Del[' ambizione, 91-3, in Il teatro e tutti gli scritti letterari cic., p. 332.
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_ _ _ _ _ _ _ Viroli, Dalla politica alla ragion di stato _ _ _ _ _ __
La città deve essere in condizione di combattere per difendere la propria libertà. Bisogna saper fare la guerra, è la tesi di Machiavelli, per avere la pace; mai mettere a repentaglio la pace per avere la guerra. Il dovere fondamentale del buon governante è quello di proteggere la pace e la sicurezza dei suoi sudditi: e per questo deve conoscere l'arte della gucrra 70 • L'arte della guerra è una componente, non il fine, dell'arte politica. Per Machiavelli la politica è l'arte di fondare e conservare un vivere libero. Ad essa spetta il compito di ordinare le altre arti, compresa l'arte della guerra e le arti che concorrono a rafforzare la virtù dei cittadini11 • Solo la politica repubblicana può riuscire nel compito di edificare una comunità politica in cui la virtù è onorata e premiata, la povertà non è disprezzata, il valore militare è stimato, i cittadini hanno a cuore il bene comune e ognuno può vivere una vita più felice che nella città corrotta72 • Il contrasto fra l'arte dello stato e l'arte politica che attraversa i Discorsi e le /storie fiorentine riaffiora, con particolare evidenza, nel Disc:,rsus florentinarum rerum, dove Machiavelli non offre consigli al principe su come conservare il suo stato, ma insegna come istituire un ordine politico e indica le vie per passare dallo stato dei Medici alla repubblica. Il tema centrale del Discursus non è la costruzione di uno «stato» stabile, ma il passaggio da un dominio privato ad una comunità che appartiene ai cittadini. E per trattare questo tema Machiavelli si serve del linguaggio convenzionale della politica. La differenza fra il linguaggio della politica e il linguaggio dell'arte dello stato emerge con particolare rilievo dal confronto fra il testo di Machia, elli e le altre proposte di riforma presentate ai Medici nel medesimo periodo. Uno dei documenti più illuminanti da questo punto di vista è I'lstructione inviata da Goro Gheri al cardinale Giulio de' Medici a Roman. Nel suo scritto il fedele servo della Casa, come lui stesso si pregia di definirsi, ricapitola i punti salienti della tradizionale arte dello stato. Fondamento dello «stato» dei Medici sono gli «amici»; solo gli «amici» hanno permesso allo «stato» di superare le crisi che si sono verificate a partire dalla morte di Cosimo il Vecchio. D:t,. «E perché voi allegasti me, io voglio esemplificare so_pra di me; e dico di non aver mai usata la guerra per arte, perché l'arte mia è governare i miet sudditi e defendergli, e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra», Id., Dell'arte della guerra, in Arte della guerra e scritti politici minori cit., p. 342. "Ibid., p. 325, «Proemio». " «La quale cosa chi ordina, pianta arbori sotto l'ombra de'quali si dimora più felice e più lieto che sotto questa», ibid., pp. 332-3. " Goro Gheri, lstructio,1e per Roma, in von Albenini, Firenze dall..: repubblica al prin · cipato cit., pp. 360-4. 102
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gli amici dipende il futuro dello «stato». I Medici devono dunque industriarsi di associare i cittadini importanti allo stato senza ovviamente indebolire l'autorità della Casa 7'. Attraverso un'appropriata distribuzione di favori e di onori si può accontentare gli amici, rafforzare la loro lealtà allo stato e al tempo stesso convincere gli oppositori e gli incerti che il modo migliore di fare i propri interessi è di,. entare amici dello stato. Fin quando può contare sull'appoggio degli amici, sul controllo delle istituzioni e sulle armi, lo stato è in grado di sconfiggere qualsiasi opposizione, compresa quella dei repubblicani. Insieme alla «politica delle amicizie», infine, i Medici devono tornare alla consuetudine del «governare civilmente et honorevolmente» usando cautela con i grandi e trattando con giustizia i cittadini comuni. In un altro testo di quegli anni, Niccolò Guicciardini insiste sul fatto che il regime mediceo instaurato nel 1512 non riuscì a soddisfare le aspettative degli avversari della repubblica che speravano nel nuovo regime per ottenere i riconoscimenti che ritenevano adeguati al loro status. I sostenitori del regime trovarono irritanti le maniere di Lorenzo, che abbandonò la consuetudine del governo civile, comportandosi come un signore assoluto. Il fallimento della cospirazione di Boscoli e l'elezione del cardinale Giovanni de' Medici al soglio pontificio avevano creato condizioni favorevoli per un governo civile; Lorenzo governò invece come un principe assoluto, scegliendo magistrati a lui fedeli, usando il denaro pubblico a fini privati e trattando i cittadini con disprezzo. Se gli abusi e le ingiusizie fossero continuati, il popolo si sarebbe certo ribellato e avrebbe istituito il governo popolare, ovvero una forma di governo di sicuro peggiore del regime mediceo. Per evitare il crollo del regime è necessario che i Medici sappiano riconquistare l'amicizia del popolo governando con giustizia e proteggendo gli interessi dei cittadini75 • La paura di un imminente crollo del regime, a causa dell'imprudenza di Lorenzo, domina anche il Discursus scritto da Alessandro de' Pazzi per il cardinale Giulio de' Medici nel 1522. L'intera città, sottolinea, è mal disposta verso il regime. I nemici sono numerosi e gli amici sono «tiepidi», perché non ritengono di avere ricevuto i benefici a loro dovuti. L'unico modo per evitare un cambiamento traumatico di regi' «l\la in modo però che si conoscessi la differentia da quelli che sono naturali amici della casa alli altri», ivid.. , p. 362. "Niccolò Guicciardini, Discorso del modo del procedere della famiglia de' Medici in Firenze et del fii;e che poteva ave, · lo stato di quella famiglia, in Rudolf von Albertini, Firenze dalla repubblica al principato cit., pp. 365-75.
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me sarebbe l'istituzione, promossa dallo stesso cardinale Giulio de' Medici, di una repubblica mista, sull'esempio di Venezia. Le discussioni sul progetto di riforma costituzionale rappresentarono per Machiavelli un'altra occasione per ribadire le sue idee sulla teoria e sulla pratica del governo civile mediceo. Lo stato di Cosimo e di Lorenzo, sottolinea nel Discursus, non era né una vera repubblica, né un vero principato, ma una via di mezzo, incline ad evolversi nell'una o nell'altra direzione, e per questo particolarmente instabile. Un vero principato può infatti evolvere solo verso la repubblica, e una vera repubblica solo verso il principato. Un'ulteriore considerazione che sconsiglia il ritorno al modello di Cosimo è che tanto i fiorentini quanto i Medici sono profondamente cambiati; i primi, dopo l' esperienza della repubblica, sono più riluttanti ad accettare un principato; i secondi sono diventati troppo grandi e fra loro e i fiorentini non può più esserci una rapporto conforme ai principi del vivere civile76 • La critica al modello di Cosimo consente a Machiavelli di restringere il campo delle possibili alternative politiche al puro principato e alla repubblica. Nei confronti del primo ripete la critica tradizionale, ovvero che a Firenze vi è troppa eguaglianza per istituire il principato, e cercare di introdurlo a forza sarebbe opera indegna di chiunque voglia essere considerato «pietoso e buono»n. Rest:t la repubblica: è vero che i fiorentini hanno bisogno di un capo, come sostengono i fautori del regime mediceo, ma è altrettanto vero che non vogliono un capo pubblico bensì privato". Il governo repubblicano è non solo il più adatto alla tradizione della città, ma è anche quello che da maggiori garanzie di stabilità. In un testo indirizzato al cardinale Giulio de' Medici, Machiavelli non poteva sostenere la repubblica in nome della libertà. Doveva difenderla servendosi delle armi tratte dall'arsenale ideologico e retorico degli avversari. Dimostrare la superiorità della repubblica non era del resto sufficiente; bisognava anche convincere i Medici che non avevano nulla da temere da una repubblica bene ordinata, che riconoscesse ad ogni componente della città il suo giusto rango. Le critiche alla repubblica del 1494-1512 vanno lette in questa prospettiva. La repubblica di Soderini era male ordinata perché i grandi non avevano un ruolo adeguato nelle istituzioni: le più alte cariche erano spesso affidate a uomini di scarsa reputazione, cosicché l'auto" «Ora, sono tanto divenuti grandi, che passando ogni civiltà, non vi euò essere quella domestichezza, e, per conseguente, quella grazia», Machiavelli, Discursus Jlorentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in Opere cit., II, p. 265. " I bid., p. 268. "Ibid., pp. 265-6.
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rità non era dove doveva essere e le istituzioni non erano sufficientemente forti da resistere agli interessi privati o di parte. Nel suo ultimo scritto politico Machiavelli chiama ancora una volta i Medici a una nobile impresa; li esorta a imitare l'esempio dei grandi uomini politici repubblicani e dei «principi buoni» e fuggire quello dei tiranni e dei corrotti 79 • Vera gloria va solo a chi istituisce, conserva o riforma un «vivere politico»: Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è dato loro dalla loro patria: credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltre di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quelli che hanno con leggi e con istituti reformato le repubbliche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati"'.
La grandezza del vero politico si rivela soprattutto nella capacità di essere moderatore, in senso classico, ovvero saper modellare una costituzione politica in cui ogni componente della città abbia il suo giusto posto. Così fece Licurgo, che «ordinò in modo le sue leggi a Sparta dando le parti sue ai re, agli ottimati e al popolo», mentre Solone, pensando solo al popolo, non seppe creare un vero ordine politico. Mentre Sparta sopravvisse per ottocento anni con grande gloria, la democrazia ateniese cadde quarant'anni dopo, sotto la tirannide di Pisistrato81. Il migliore esempio di repubblica bene ordinata resta tuttavia Roma, dopo l'istituzione dei tribuni della plebe: fu allora, commenta Machiavelli, che essa divenne una «perfetta repubblica». Una citta che voglia conservarsi libera deve dunque darsi una costituzione moderata82 • Sia che lo squilibrio derivi dal fatto che «il popolo non vi aveva dentro la parte sua» 8!, sia che derivi dal fatto che il popolo pretendeva di espellere i grandi dal governo della città", la conseguenza è una continua oscillazione fra tirannide e licenza. La riforma della repubblica male ordinata può essere compiuta solo da «un savio buono e potente cittadino», che sappia, con le leggi, moderare gli appetiti del popolo e dei nobili difendendo in tal modo la libertà di tutti85 • " Machiavelli, Discorsi cit., I, cap. 1O. "' Id., Discursus ftorentinarum rerum post mortem cic., p. 275. Sull'apoteosi dei grandi politici cfr. De Grazia, Machiavelli in Hellcit., pp. 360-85. " Machiavelli, Discorsi cit., I, cap. 2. " «Coloro che ordinano una repubblica debbono dare luogo a ere diverse 9ualità di uomini, che sono in tutte le città; cioè i primi, mezzani e ultimi», Id., Discursus jlorentinarum rerum post mortem cit., p. 268. "Ibid., p. 262. " Machiavelli, !storie fiorentine cit., IV, cap. 1. " «Da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de' nobili e de' popolani si quietino o in modo si restringhino che male operare non possino», ibid.
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La città è abitata da individui che amano, odiano, temono, sperano, hanno ambizioni e desideri, vogliono essere riconosciuti, stimati, premiati. Alcuni cercano il dominio e la superiorità; altri vogliono solo sicurezza per se stessi e per le loro famiglie. La politica deve operare sul composito universo di passioni che formano l'ethos vivente della comunità86. Chi voglia ordinare su tale universo deve conoscere l'arte della sapienza civile, le leggi e la retorica, ma deve essere soprattutto, come il politico classico, un uomo buono. Machiavelli non abbandona l'immagine convenzionale dell'uomo politico o civile come un uomo buono che istiruis.:e o riforma o protegge il «vivere politico» 8'. I suoi eroi sono i condottieri e i politici che dedicarono le loro forze alla causa della repubblica e ottennero con merito gloria imperitura. Cesare e Pompeo ottennero fama, non gloria. E per quanto la fama possa essere durevole, non può mai eguagliare la vera gloria di Scipione e di Marcello. E dico che Pompeo e Cesare, e quasi tutti quegli capitani che furono a Roma dopo l'ultima guerra cartaginese, acquistarono fama come valenti uomini, non come buoni; e quegli che erano vivuti avanti a loro, acquistarono gloria come valenti e buoni".
L'immagine del politico come uomo buono ha un ruolo di primo piano nel pensiero politico di Machiavelli, compreso Il principe. Un uomo che voglia essere sempre buono, leggiamo nel capitolo XV, non potrà che rovinare, fra tanti che non sono buoni. Per questo un principe che voglia mantenere il proprio stato deve, se necessario, «imparare a poter essere non buono»ij•. Con ciò Machiavelli intendeva dire che i filosofi umanisti, che predicavano che il principe non deve mai abbandonare il sentiero della virtù, di fatto insegnanno una dottrina che lo porta alla disfatta. La necessità di imparare ad essere «non buono» era un dato acquisito nella letteratura sull'arte dello stato. Machiavelli, dal canto " ,;,;· olin sottolinea invece che Machiavelli fu uno dei fondatori della grande tradizione della politica basata sugli interessi, Politics and Vision cit., p. 236. ' «E dico che Pompeo e Cesare, e quasi tutti quegli capitani che furono a Roma dopo l'ultima guerra cartaginese, acquistarono fama come valenti uomini, non come buoni; e quegli che erano vivuti avanti a loro, acquistarono gloria come •:alemi e buoni•, Machiavelli, Arte della guerra cit., p. 337. u Ibid., p. 337. Mark Hulliung, che sostiene che per Machiavelli il fine supremo non è la libertà ma l'espansione, non ritiene necessario discutere questo passo. Se accettiamo la tesi di Hulliung- che a Machiavelli interessa solo la gloria - dobbiamo concludere che il messaggio di Machiavelli è di seguire l'esempio di Scipione e di Marcello, non quello di Cesare: essere un buon cittadino e un buon soldato anziché perseguire la conquista e l'espansione. Cfr. M. Hulliung, Citizen M&.chiavelli cit., p. 26. Cfr. anche: V. A. Santi, «Fama e «laude» distinte da «glor;a» in Machiavelli, in «Forum ltalicum», 12, 1978, pp. 206-15. "Machiavelli, ll principe cit., cap. 15.
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_____ Machiavelli e la concezione repubblicana della politica _____ suo, sottolinea che anche il reggitore di una repubblica, non solo un principe interessato al proprio stato, deve imparare a violare i patti, a essere ingiusto, a ingannare. Perché dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'i~nominoso; anzi, posposto opni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le sai. i la vita e mantenghi le Ja libertà''. Pier Soderini credeva di poter accontentare i partigiani dei Medici con la bontà e con i premi, pur sapendo bene che si imponevano provvedimenti assai più severi. Non poté risolversi ad adottarli perché non volle violare le leggi". La sua incapacità di lasciar da parte la naturale pazienza e umiltà di carattere furono la causa della rovina sua e della repubblica fiorentina92 • Quando morì, recita un sonetto di Machiavelli, la sua anima non fu ammessa all'inferno, e venne spedita invece al limbo, con i bambini. Se avesse fatto il suo dovere sarebbe stato accolto all'inferno, il posto giusto per un uomo politico9;. Il politico deve imparare ad essere non buono soprattutto quando si propone di restaurare la vita politica nella città corrotta". E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per via cattive, ancora che il fine suo fosse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene che egli ha male acqui,tata';. L'uomo buono deve saper diventare cattivo per conseguire lo scopo che gli scrittori politici repubblicani hanno sempre indicato come il più nobile e degno di un uomo. Machiavelli mette in luce l'estrema difficoltà di un tal compito, ma sottolinea al tempo stesso che non vi è fine più alto che un uomo possa proporsi. Arriva fino a dire che un uomo desideroso di vera gloria dovrebbe chiedere a Dio di farlo nascere in una città corrottissima per avere la possibilità di riformarla96 • Era questo, in fondo, l'intento dei Discorsi. Ovvero incitare i giovani a imitare la virtù antica e a seguire i principi della politica repub"Id., Di,:vrsi cit., Ili, cap. 41. "Jbid., cap. 3. "Jbid., cap. 9. " «La notte che morì Pier Soderini.'l'anima andò de l'inferno a la bocca:/~ridò Pluton: 'Ch'inferno anima sciocca/va su nel limbo fra gli altri bambini», Machiavelli, !fte- .tro e tutti gli scritti letterari cit., p. 365. "Id., Discorsi cit., I, cap. 18. "Jbid., I, cap. 18. "Jbid., I, cap. 10.
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_______ Viroli, Dalla politica alla ragion di stato _______ blicana. Era l'unica opportunità rimasta ad un uomo buono, cui le avverse circostanze avevano impedito di praticare la vera politica: Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de' tempi e della fortuna ru non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo". Se volete ottenere imperitura gloria - questo il messaggio di Machiavelli - dovete dedicare tutte le vostre energie ad istituire e conservare il «vivere politico» secondo gli esempi degli eroi della tradizione repubblicana; ma mentre Cicerone, Macrobio e gli altri che seguirono le loro orme promettevano al politico l'accesso immediato alla felicità eterna, Machiavelli avverte che il loro destino sarà probabilmente l'inferno98. Chi voglia dedicarsi alla politica deve sapere che il Somnium Scipionis era solo un sogno. Per tornare alla domanda che ho posto all'inizio - se Machiavelli rifiutò o continuò la concezione della politica come arte della città o se propose una combinazione fra l'arte dello stato e la politica - credo si debba rispondere che Machiavelli contribuì a mantenere viva la concezione repubblicana della politica e dell'uomo politico. Sostenne la necessità di integrare la filosofia civile con l'arte dello stato senza tuttavia ridurre la prima alla seconda. Non solo mantenne la distinzione, ma assegnò alla politica il rango più elevato. Machiavelli non contribuì affatto, come si è pensato, al cambiamento di significato del termine «politica». Cercò piuttosto di rinnovare la filosofia civile per renderla atta ad affrontare il problema della restaurazione della repubblica e della liberazione dell'Italia. Per l'una e per l'altra era necessario un vero uomo politico capace di usare, se fosse stato necessario, anche l'arte dello stato.
"Ibid., II, «Proemio». "Il padre di Machiavelli, Bernardo, possedeva una copia del Somnium Scipionis e dei De Satumalibus di Macrobio. Cfr. B. Machiavelli, Libro di ricordi, Firenze 1954, p. 70.
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IV.
Politica e arte dello stato in Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini può essere considerato, insieme a Machiavelli, il simbolo dell'epoca di transizione dalla politica alla ragion di stato. L'uno e l'altro si proposero di integrare nel linguaggio della politica temi e concetti propri del linguaggio dell'arte dello stato. Dei due fu tuttavia Guicciardini a portare il linguaggio dell'arte dello stato ai suoi livelli più alti di sofisticazione intellettuale e a far uso dell'espressione «ragione degli stati» che diventò poi il nucleo centrale della nuova concezione della politica. Confrontati con i Ricordi e i tanti Discorsi (mai pubblicati) di Guicciardini, i testi di quanti, prima di lui, scrissero di arte dello stato sembrano esercitazioni elementari. Anche Il principe, per altri aspetti magistrale, rivela come Machiavelli, che pur sapeva molto di arte dello stato, non conosceva tutto ciò che era necessario conoscere per essere considerato un vero maestro o che, pur sapendo, non voleva seguire il tracciato convenzionale. I testi in cui Guicciardini cerca di integrare il linguaggio della politica con quello dell'arte dello stato sono, in primo luogo, il discorso Del modo di ordinare il governo popolare e il Dialogo del reggimento di Firenze. Accenni e suggestioni importanti si trovano anche nei Ricordi, ai quali lavorò dal 1521 al 1530' e nelle lettere, forse mai spedite, ai Medici. Da questi scritti emerge che la sua interpretazione dell'arte dello stato muove dalla convinzione che esiste una sostanziale continuità e affinità fra l'arte dello stato e l'arte dell'amministrazione e del commercio. Se Machiavelli, anziché a Vettori, avesse confessato a Guicciardini di non intendersi dell'arte della seta e della lana, dei guadagni e delle perdite, avrebbe ai suoi occhi perso molta della sua reputazione come esperto di arte dello stato. 1
Cfr. G. Sasso, Per Francesco Guicciardini, Roma 1984, p. 5.
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Tanto l'economia, nel significato complessivo di amministrazione e di commercio, quanto l'arte dello stato hanno a che fare con le passioni e gli umori degli uomini e hanno come fine quello di conservare, incrementare ed espandere la ricchezza, nel caso dell'economia, il potere, nel caso dell'arte dello stato. Chi ha esperienza nell'amministrazione di proprietà o nel commercio o nelle attività bancarie è più adatto di ogni altro ai maneggi dello stato. Sottolineando l'affinità fra l'arte di conservare lo stato e il commercio, Guicciardini al tempo stesso illuminava la profonda differenza che intercorre fra l'arte dello stato e la politica. Mentre la prima può essere descritta come un'estensione dell'economia, la seconda è, dal punto di vista intellettuale, una derivazione dall'etica e dal diritto. Come l'economia vuole aumentare la ricchezza di una persona, così l'arte dello stato insegna i mezzi per rafforzare e incrementare lo status di una persona; la politica è invece intesa come l'arte di consolidare e proteggere il bene comune. Mentre l'arte dello stato insegna a coltivare e creare lealtà private, la politica lavora esattamente nella direzione opposta, indebolendo le lealtà private a vantaggio di quelle impersonali ed educando alle grandi passioni quali l'amore della libertà e della patria. Governare o riformare una città richiede, per Guicciardini, l'opera di cittadini esperti nel commercio e nell'amministrazione dei beni familiari, in quanto essi soli possiedono la necessaria conoscenza degli uomini e sanno fare la scelta giusta nelle diverse circostanze. L'esperto banchiere o l'esperto commerciante sa come trattare con gli uomini; interpreta le loro passioni e decide di conseguenz:i. Il suo successo dipende dalla sua abilità di leggere l'intricato e mobile universo delle passsioni. Se la sua interpretazione è giusta, può rivolgere a proprio vantaggio le passioni degli uomini con cui tratta, ma se fallisce rischia di perdere reputazione e sostanze. Come il commercio, anche il governo della città richiede talento nel trattare con gli uomini. Negli affari di stato è necessario capire con che tipo di persona abbiamo a che fare e questa conoscenza non si può acquisire seguendo regole generali o fidando in una generica razionalità umana. È ingenuo e pericoloso credere che gli uomini decidano seguendo la ragione, ammonisce Guicciardini; per sapere quali sono i piani di una persona è molto più saggio considerare i suoi costumi e le sue inclinazioni. E questo vale sia nell'arte dello stato, quando trattiamo con principi, sia nel commercio, quando abbiamo a che fare con privati2. 'Scrive Guicciardini nella Mass:r. t 128: «Nelle cose degli stati non bisogna tanto considerare quello che la ragione mostra che dovessi fare uno principe quanto quello che secondo la sua natura o sua consuetudine si può credere che faccia». E nella .11assiMa 151: «Abbiate sempre la mira come è anche detto sopra de' principi, non tanto a quello che gli uomini con
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Politica e arte dello stato in Guicciardini
Nell'arte dello stato e nella politica le regole generali aiutano poco, in quanto ogni situazione fa eccezione alla norma. Per questo né l'arte dello stato né la politica si possono imparare dai libri, così come nessun libro può insegnare il successo negli affari3• L'abilità di identificare i caratteri specifici di ogni circostanza è in parte un talento naturale, in parte prodotto dell'esperienza'. Anche il riferimento a esempi o a situazioni simili è una guida malsicura, in quanto una piccola differenza fra l'esempio e la realtà può fare tutta la differenza. Anche quando sono disponibili buoni esempi, resta sempre il problema di identificare il carattere specifico della situazione in cui dobbiamo decidere5 • Una condizione fondamentale per il successo, tanto nelle decisioni economiche quanto in quelle politiche, è la scelta del tempc6. Molti piani, sottolinea Guicciardini, falliscono non perché siano sbagliati, ma perché intrapresi troppo presto o troppo tardi'. Accade a volte che i pazzi che sfidano la sorte abbiano più successo degli uomini prudenti che seguono la ragione8, ma tanto gli uni quanto gli altri devono inchinarsi al fato. Anche se è vero che ducunt volentes fata, nolens trahunt, gli uomini prudenti che ponderano a lungo i vantaggi e gli svantaggi hanno più probabilità degli altri di evitare gli errori 9• Nei suoi primi scritti, Guicciardini mostra di condividere l'idea fondamentale della filosofia civile secondo cui la città corrotta può essere riform:ita e che dobbiamo anzi dedicare le nostre migliori energie per realizzare questo nobile ideale. La riforma politica della città è infatti il tema centrale del Discorso di Logrogno scritto nel 1512, mentre seguiva la corte del re di Spagna in qualità di ambasciatore della repubblica fiorentina. Il punto di partenza della sua analisi è la corruzione delle istituzioni e dei costumi di Firenze. La vita pubblica, osserva, non assomiglia per nulla a quella di una repubblica bene ordinata 10• chi avc'te a negociare dovrebbero fare per ragione, quanto quello che si può credere che facciano considerata bene la natura e costumi loro», Francesco Guicciardini, Ricordi, in Opere, a cura di E. Scarano, Torino 1974, p. 764. 'Ibid., p. 729. 'Ibid., p. 828. ' «E el discernere queste varietà, quando sono piccole, vuole buono e perspicace occhio», ibid., p. 762. ' «Crediate che in tutte le faccende pubbliche e private la importanza dello espedirle consiste in sapere pigliare el verso•, ibid., p. 786. ' «Le cose medesime che, tentate in tempo, sono facili a riuscire, anzi caggiano quasi per loro medesime, tentate innanzi al tempo, non solo non riescono allora, ma ti tolgono ancora spesso quella facilità che avevano di riuscire al tempo suo: però non correte furiosi alle cose, non le precipitate , ibid., p. 751. 1 lbid., P· 767.
'Ibid. 10
Guicciardini, Discorso di Logro.::no, in Opere cit., p. 249.
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Domina ovunque una licenza sfrenata; i cittadini non hanno rispetto né timore delle leggi e dei magistrati; i più virtuosi e saggi non hanno la possibilità di vedere riconosciute le loro qualità e chi serve con onore il bene pubblico riceve misero premio; i cittadini sono posseduti da un'illimitata ambizione di ottenere gli onori; ognuno vuole immischiarsi anche negli affari pubblici più importanti e delicati; i costumi degli uomini sono effeminati e snervati; lo stile generale di vita troppo delicato e sontuoso; nessuno cerca la vera gloria e il vero onore, tutti bramano solo il denaro e le ricchezze. Per riformare una situazione siffatta non b:i.sta introdurre qualche nuova legge, ma è necessario riformare l'intera sostanza della città per creare, come un buon medico, una nuova disposizione dell'intero corpo attaccando le cause della malattia con diverse medicine. Si tratta certo di un compito pressoché disperato, degno di un grande medico, ma non impossibile". Se la città fosse giovane, sarebbe più agevole riformarla. Ma, anche se vecchia, l'opera può essere portata a compimento se alcuni cittadini saggi e generosi si dedicassero a questo nobile fine con la stessa industria che impiegano di solito ad accumulare ricchezze e a fare il male. In un testo successivo alla restaurazione dei Medici, scritto nella forma di consigli su come conservare il loro stato in Firenze, Guicciardini mostra un volto diverso: abbandona le convenzioni e il linguaggio della politica e attinge a quello dell'arte dello stato per indicare il modo di trasformare la libera città in una tirannide più o meno velata di civiltà 12 • Per conservare il loro stato, spiega Guicciardini, i Medici devono seguire la semplice regola di indebolire i nemici e al tempo stesso creare e rafforzare una rete di partigiani per contrastare gli oppositori del nuovo regime, che, nel caso di Firenze, erano gran parte della cittadinanza. Per cogliere la distanza che separa il Guicciardini che parla della riforma della repubblica dal Guicciardini che scrive consigli ai Medici su come tenere il loro stato basti pensare che mentre nel Discorso di Logrogno aveva descritto come elemento di corruzione della repubblica la pratica di escludere dagli onori pubblici una parte della cittadinanza premiando altri per ragioni private, pochi " «Il che se bene è difficile e ha bisogno di buon medico, pure non è impossibile», Id., Discorso del modo di riformare il governo popolare, in Opere inedite cit., p. 250. " «Perché del buon governo ne seguita fa salute e conservazione di infiniti uomini, e del contrario ne resulta la rovina ed esterminio della città; di che nella vita delli uomini nessuna cosa è più preziosa e singulare che questa congregazione e consorzio civile», Id., Delle condizioni in cui trovavansi le contrarie parti che dividevano la città per la m,1tazione dello Stato, e della difformità di pareri e d'intenti nel restringere il Governo, ottobre 1512, in Opere inedite cit., Il, p. 316. 112
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mesi più tardi raccomandava le medesime politiche come i mezzi più efficaci per distruggere quella concordia civile che gli scrittori politici repubblicani avevano sempre raccomandato come il fondamento principale della libertà della città. Quando scriveva come professionista dell'arte dello stato, Guicciardini non aveva esitazioni a consigliare politiche che di fatto trasformavano la città nel dominio di una famiglia, sostenuto da una rete di lealtà private. Mentre la repubblica deve incoraggiare le nobili passioni, lo stato alimenta l'attaccamento all'interesse particolare. Gli uomini di,-entano devoti allo stato non per amore, ma per interesse. Ciò di cui i Medici hanno bisogno per rafforzare il loro stato sono partigiani consapevoli che per loro è più conveniente essere amici dei Medici piuttosto che amici dei loro concittadini. I partigiani del regime, commenta freddamente Guicciardini, sono capaci di qualunque cosa per sostenere lo stato che è fonte dei loro onori e delle loro ricchezzeu. Il consolidamento dello stato richiede dunque che un numero sufficientemente ampio di cittadini guardi i molti che sono esclusi come dei nemici. In questi scritti di Guicciardini l'arte dello stato si rivela nel modo più chiaro possibile come l'arte di dissolvere la città. Pochi anni più tardi, nel 1516, nello scritto Del modo di riformare il Go'Vemo, per meglio assicurare lo Stato alla casa dei Medici la quale era rappresentata da papa Leone X, da Lorenzo e dal cardinal Giulio, Guicciardini offre un altro saggio della sua conoscenza della tradizione fiorentina dell'arte dello stato. Anche in questo testo l'intento è di spiegare cosa dovrebbero fare i Medici per trasformare la repubblica in un loro dominio più o meno diretto. Fedele al proprio stile, Guicciardini parte dalla constatazione che i Medici sono signori di Firenze e del dominio". La sola differenza fra la posizione dei Medici e quella di un principe assoluto consiste nel fatto che, mentre questo governa direttamente e le sue parole sono legge, quelli fanno ciò che vogliono con la mediazione di magistrati a
" «Nessuna amicizia oggidì si misura, se non quanto è accompagnata dalla utilità; e dove non è questa, non si può avere nessuna fede. Però bisogna che quelli che lo Stato elegge e disegna, avere per amici, incorporarsegli in modo, che vi vegghino dentro tanto guadagno; ed e converso, tanta perdita, mutandosi lo Stato, che li sforzi a conservalo, non solo l'amore, ma più tosto la utilità, anzi necessità. La quale seguiterebbe gagliarda con questi modi; e massime che offendendo altri, e a petizione dello Stato e per le cupidità loro private, temerebbono nelle mutazioni non solo del perdere li onori, ma le facultà e la vita; e però sarebbe forza che non avessino rispetto a nulla per mantenerli», ibid., pp. 323-4. " «Sono padroni di questa città, e di tutto questo dominio•, Guicciadini, Discorso del modo di riformare il Governo per meglio assicurare lo Stato alla Casa dei Medici, in Opere inedir, cit., li, p. 327.
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loro legati. Una volta accettato come dato di fatto lo stato di servitù della città, Guicciardini offre tre consigli per renderla più sicura: che i Medici stessi vadano a vivere a Firenze per seguire direttamente gli affari dello stato; che creino una rete di partigiani completamente fedeli alla casa; che soddisfino, in una certa misura, le richieste del popolo. Delle tre raccomandazioni la seconda rivela con particolare evidenza la distanza che separa la politica dall'arte dello stato: mentre la prima prescrive di onorare e premiare i cittadini per i loro servizi al bene comune, la seconda consiglia di onorare e premiare i cittadini leali verso chi ha il potere o i cittadini che paiono ben disposti a servire. Quelle stesse passioni che sono letali alla repubblica sono la forza dello stato. Non viviamo più, assicura Guicciardini, ai tempi di _Roma e della Grecia, quando la città era popolata da anime generose e assetate di gloria15. I fiorentini sono oggi attaccati solo al proprio interesse 16 . Per rafforzare il proprio stato, i Medici non devono dunque far altro che soddisfare l'interesse particolare di un certo numero di cittadini in modo che questi, persuasi che la loro sicurezza dipende dalla stabilità del regime, diventino fedeli sostenitori. Era esattamente l'opposto di quanto aveva scritto nel Discorso di Logrogno, dove aveva sottolineato che una repubblica bene ordinata deve incoraggiare la giusta ambizione di gloria attraverso azioni virtuose. Per l'arte dello stato è invece indispensabile incoraggiare l'attaccamento agli interessi privati e le lealtà personali. La politica e l'arte dello stato si basano su due diverse interpretazioni dell'identità della città e prescrivono criteri opposti per la distribuzione di onori pubblici. Lo «stato» esige individui disposti a ottenere distinzione e superiorità per mezzo della benevolenza del signore; la repubblica ha invece bisogno di individui che desiderano solo gli onori e i riconoscimenti che l'autorità pubblica distribuisce a chi serve il bene comune. Ne! corso della sua lunga carriera, Guicciardini mostra una capacità straordinaria di usare, a seconda delle circostanze, tanto le convenzioni della filosofia civile quanto quelle del linguaggio dell'arte dello stato. Anche Machiavelli aveva cercato di parlare entrambi i linguaggi, ma la sua interpretazione dell'arte dello stato era, come abbiamo visto, troppo lontana dalla tradizione medicea. " «Non sono più i tempi antichi de' Romani e dei Greci, né quegli ingegni generosi e rutti aspirami alla gloria; nessuno è a Firenze che ami canto la libertà e il reggimento populare, che, se gli è dato in uno altro vivere più parte e migliore es,ere che non pensa di avere in quello, non vi si volei con tutto lo animo», ibid., pp. 323-4. " «Moverebbeli sopra ogni cosa lo interesse loro parciculare, che è lo maestro che ne mena cucci gli uomini•, ibid., p. 333.
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Il testo che più di ogni altro rivela il talento guicciardiniano di combinare politica e arte dello stato è tuttavia il Dialogo del reggimento di Firenze, scritto fra il 1521 e il 1525. La morte di Lorenzo de' Medici nel 1519 sembrava aver riaperto la possibilità di restaurare un governo repubblicano a Firenze e Guicciardini abbandona i ragionamenti su come conservare lo stato dei Medici per ripredere il tema dei governi pubblici, ovvero, come scrive in una delle versioni del Proemio, l'arte di ordinare un governo libero 17• Nel Dialogo, Guicciardini ribadisce la sua adesione all'ideale di um. libertà bene ordinata, usando le convenzioni tradizionali del vocabolario della politica. L'obbligo che abbiamo verso la patria, scrive nel più chiaro linguaggio ciceroniano, viene prima di ogni altro; se mi accingo a scrivere su come introdurre a Firenze un governo onesto, veramente libero e bene ordinato, non potrò dunque essere rimproverato'8. Anche se non c'è speranza di introdurre un governo siffatto in Firenze, non vi è nulla di più lodevole della meditazione su un tema così elevato. La città libera e bene ordinata permette di vivere sicuri e di perseguire nobili ideali. Il linguaggio della politica che pervade il Proemio introduce in modo efficace il tema fondamentale del Dialogo, ovvero l'ideale di una libertà bene ordinata fondata su un governo misto, che evita tanto gli eccessi del governo popolare quanto quelli della tirannide. Guicciardini presenta il testo come una ricostruzione di una discussione effettivamente avvenuta nel 1494, al tempo della restaurazione della repubblica, fra Bernardo Del Nero, Piero Capponi e Paolo Antonio Soderini. Piero Guicciardini assiste alla discussione che poi racconterà al figlio Francesco. Il portavoce delle idee di Francesco è Bernardo Del Nero, giustiziato dalla repubblica nel 1497, sotto l'accusa di aver complottato con i Medici. Ed è proprio Bernardo che si prende la briga di spiegare ai giovani, entusiasti della repubblica, che il governo popolare non è di per sé garanzia della libertà e può facilmente rivelarsi peggiore del governo principesco e della moderata tirannide dei Medici al tempo di Cosimo. Nel dialogo, è un aspetto da tenere presente, Bernardo è in una situazione simile a quella in cui si trovava Guicciardini, nel 1521-3. Come Guicciardini, Bernardo è un uomo dei Medici che tuttavia, come fa
" «De' modi di ordinare la libertà della nostra città»; «de' modi di ordinare uno governo libero nella nostra città», Guicciardini, Dialogo del reggim, neo di Firc.'IZe, in Opere cit., p. 477. " «Uno governo onesto, bene ordinato, e che veramente si potessi chiamare libero», ibid., p. 300.
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Guicciardini stesso nel Proemio, dichiara esplicitamente di amare sopra ogni oltra cosa la città e di parlare avendo sempre in vista il bene comune. È proprio perché ha sempre a cuore i destini della città che Bernardo, ormai lontano dalla politica, accetta di ragionare di cose pubbliche con i giovani ospiti. Meno ferrato in letture classiche, Bernardo ha dalla sua parte l'esperienza diretta delle cose di stato 19 e si serve della sua esperienza per trattare non di come conservare lo stato
di qualcuno, ma di come istituire un buon governo che rispetti le leggi, garantisca giustizia a tutti e sappia collocare ogni componente della città al posto che gli spetta. Un buon governo, spiega Bernardo, deve essere in grado di durare a lungo. Prendendo a esempio i grandi fondatori di stati, dobbiamo sforzarci di pensare istituzioni che possano sfidare la posterità. Attraverso le parole di Bernardo, Guicciardini vuole portare la discussione sul piano della politica architettonica che disegna la forma della città. Mentre l'arte dello stato raramente spinge lo sguardo oltre la vita del principe o dei suoi successori immediati, la discussione che ha luogo nel Dialogo riguarda la possibilità di riformare le istituzioni politiche esistenti, che definiscono l'identità della città nel lungo periodo. Lo «stato», come Guicciardini stesso aveva spiegato nel Discorso del 1516, si basa su un sistema di lealtà private ottenute tramite favori. Anche se la lealtà può andare oltre la persona del signore che ha elargito i benefici ed estendersi alla famiglia o alla casa (la casa dei Medici), lo stato deve continuamente riprodursi attraverso la distribuzione di nuovi onori e nuovi benefici ai discendenti di chi era stato «beneficato» in passato. L'arte dello stato è in questo senso esercizio di discrezione, che si esprime nell'abilità di scegliere la persona giusta cui fare favori e di valutare quanto una particolare famiglia o una persona debbano essere onorati rispetto ad altri. Per questo l'arte dello stato deve avere sguardo acuto, ma ravvicinato. La repubblica deve invece, per sua natura, basarsi su regole che chiunque può applicare. La stessa rotazione dei magistrati non richiede la ricostruzione delle basi del consenso. Se l'arte della politica fosse correttamente applicata, la repubblica potrebbe durare in eterno, come i politici classici hanno sognato. L'obiettivo più ambizioso al quale il cultore dell'arte dello stato può aspirare è la conservazione dello «stato» per la durata della vita del signore. Con la sua morte, l'opera di ricostruzione del sistema di lealtà private deve ricominciare dacca" «Io so solo per esperienza, della quale ne:suno di voi manca, avendo già più e più anni sono, atteso alle cose dello stato», ibid., p. 307.
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po. Parlando della forma istituzionale di una repubblica bene ordinata, Guicciardini sottolinea con parole che evocano il Somnium Scipionis, che la riforma della repubblica è degna di un animo generoso e apre la via alla gloria perenne. Ma, quando scrive su cosa devono fare i Medici per conservare il loro «stato» in Firenze, non troviamo nessuno dei convenzionali temi repubblicani sulla nobiltà e la grandezza della politica. Quella di conservare lo stato di qualcuno non è opera che possa soddisfare l'ambizione di uno spirito elevato, come senza dubbio Guicciardini riteneva di essere. Pur se difficile, l'istituzione di una repubblica bene ordinata, a Firenze, è ancora presentata nel Dialogo del reggimento di Firenze come un'impresa possibile senza bisogno di ricorrere a mezzi straordinari2'. Firenze, sottolinea l'esperto Bernardo, è vecchia e non ha la vitalità necessaria per guarire dalle sue molte malattie. Anche la virtù e la prudenza possono essere insufficienti: non è affatto vero, come insegnavano gli umanisti, che la virtù vince contro la fortuna. Data la vecchiezza della città bisogna procedere con cautela per non rischiare di compromettere l'opera di riforma con certe iniziative premature. Anche se il fine della riforma della repubblica è quanto di più nobile possa esserci, non è saggio fidarsi troppo della propria virtù e cercare di forzare la situazione. Bisogna saper attendere senza rinunciare ai propri disegni e confidare nella benevolenza della fortuna 21 • Un governo bene ordinato può essere infatti istituito o con la forza o con la persuasione. Il modo migliore di istituire una repubblica con la persuasione si ha quando il principe abdica volontariamente: se gli uomini sapessero in che cosa consiste la vera gloria, ci sarebbero molti principi disposti a mettere l'interesse della città al di sopra di quello proprio e della propria discendenza e a permettere l'istituzione della repubblica. Purtroppo gli uomini hanno da molto tempo perso il desiderio della vera gloria ed è quindi assai improbabile che un principe rinunci al potere per favorire la nascita di una repubblica. Un altro modo per restaurare un governo bene ordinato è l'affermazione di un grande uomo politico che ami profondamente la città e riesca a concentrare nelle sue mani un'autorità eccezionale da usare per il bene comune. Si tratta, con tutta evidenza, del problema discus"Guicciardini non era tuttavia contrario per principio all'uso di mezzi straordinari per restaurare o proteggere la libertà della città. Cfr. Francesco Guicciardini, Se sia lec''o condurre e/ populo alle buone legge con la forza non pote.,do farsi altr:'.-,enti, in Scritti politici e Ri:ordi, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1933, pp. 229-31. " «A ogni modo è mala cosa :h! non si abbia a sperare di riordinarlo», Id., Di.dogo del re;·gimento di Firenze cit., p. 446.
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so da Machiavelli nel capitolo XVIII del I libro dei DiscorsA Pur sottolineando che è quasi impossibile che un uomo voglia acquisire poteri straordinari per il bene della città, Machiavelli riteneva che solo un politico di questa narura potesse riportare la libertà in una città corrotta. Guicciardini guarda ad um. simile eventualità con scetticismo e mette in evidenza i rischi che una tale soluzione comporterebbe. Per consolidare il nuovo ordine, il nuovo uomo politico dovrebbe restare a lungo al potere, con la prevedibile conseguenza che, come dice il proverbio, «lo indugio piglia vizio»n. La migliore soluzione, spiega Bernardo, è quella di istituire un buon governo a piccoli passi senza cedere all'impazienza di ottenere tutto subito. Il ragionamento di Guicciardini, attraverso le parole di Bernardo, è pervaso dalla convinzione che, benché l'età delle repubbliche stia ormai volgendo al tramonto, qualcosa può ancora essere fatto; mantenere la città viva in quanto corpo politico indipendente, anche se non in perfetta salute, sarebbe già un risultato importante. La prudenza e la circospezione dell'arte dello stato, la consumata abilità di trattare il mutevole e variegato universo delle passioni e degli umori, possono essere utili anche allo scopo di restaurare la repubblica. Nel Dialogo, l'arte dello stato è invocata come correttivo o integrazione, non come alternativa, alla politica; ad essa spetta il compito di correggere la tendenza della filosofia civile ad assumere un indirizzo moralista che porterebbe ad un completo fallimento. Come ogni uomo d'affari, sa che un'impresa avviata al momento sbagliato può rovinare il suo patrimonio, mentre è saggio attendere accontentandosi magari di un piccolo guadagno. Il filosofo civile deve imparare b medesima lezione e insegnarla ai fururi reggitori. Proprio perché così ardua, la restaurazione della libertà è la più gloriosa fra le opere umane2'. È impresa per un uomo buono e prudente, non per un semplice esperto dell'arte dello stato. E tuttavia l'uomo buono e prudente deve maneggiare anche quell'arte. Come spiega Capponi, ricapitolando i temi consueti della filosofia civile, le città sono state fondate per il bene comune dei cittadini ed è pertanto contro la loro ragion d'essere che l'interesse di un individuo o di una parte si impone. I Medici, come tutti i tiranni, possono affermare che è una necessità favorire una parte della città ai danni dell'al-
" Gennaro Sasso (Per Francesco Guicciardini cit., pp. 92-3) ha giustamente sottolineato che i Discorsi di Machiavelli sono lo sfondo del Di.Jlogo. "Guicciardini, Dialogo cic., p. 444. "Jbid., p. 251.
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tra. Ma la necessità non li assolve dall'accusa che il loro potere ha istillato odio e malevolenza fra i cittadini, corrompendo l'amicizia civile che è il vero vincolo della città25 • L'esposizione di Capponi è validamente rafforzata dai commenti di Soderini. La cosa più importante è che la città sia governata in giustizia e che i cittadini vivano sicuri, ma è altrettanto importante che la città sia onorata e splendida. E perché sia onorata e splendida deve essere libera; nessuna città che serva un tiranno, o un'altra città, ottiene reputazione e onore. Guicciardini usa qui il tipico argomento della filosofia civile secondo cui il solo governo adatto a Firenze è il governo repubblicano fondato sulla sovranità della legge. La libertà è l'eredità preziosa che le generazioni passate hanno trasmesso ai cittadini di Firenze ed è loro sacro dovere difenderla con tutte le loro energie26 • La forma di governo che meglio garantisce la conservazione della libertà è il governo misto, composto da un Consiglio Grande, un gonfaloniere e un senato o consiglio ristretto. Ogni istituzione ha il compito di assolvere alle funzioni principali del governo: il gonfaloniere, a vita o eletto per un lungo periodo, assicura la continuità del comando e sovraintende al funzionamento delle varie istituzioni della repubblica; il senato, formato da cittadini rinomati ed esperti nel maneggio della cosa pubblica, deve assicurare una preziosa riserva di competenza e di prudenza nelle più importanti deliberazioni politiche; il Consiglio Grande, che sctglie i magistrati e approva le leggi, è infine il fondamento della libertà della repubblica. Il fatto che gli onori pubblici siano assegnati dal Consiglio Grande è una garanzia che i magistrati non abbiano obblighi nei confronti di particolari individui o gruppi". Se poi il Consiglio fa sì che solo i magistrati che hanno servito rettamente il bene pubblico siano rieletti o promossi a più alte cariche, i cittadini saranno incoraggiati a servire la repubblica al meglio delle loro capacità. Altrettanto importante per la conservazione della libertà è l'approvazione delle leggi, altra prerogativa fondamentale del Consiglio Grande. Ripetendo un tema ricorrente del
" «El maggior vinculo delle città e quello che è più utile e più necessario, è la benevolenza dei cittadini l'uno con l'altro e come manca questo manca e! fondamento della società civile; ma come una parte si vede sanza giusta causa oppressata dall'altra, bisogna che di necessità vi nasca uno odio, una malivolenza inestimabile», ibid., p. 387. "«Né è altro la libertà che uno prevalere le legge e ordini publici allo appetito delli uomini paniculari», Guicciardini, Discorso di Logrogno cic., p. 255. Sul debito intellettuale di Guicciardini nei confronti dell'umanesimo civile fior .mino cfr. N. Rubinscein, Guicciardini politico, in Francesco Guicciardini 14,~J-19f3, Firenze 1984, pp. 180-2. ·" «Nessuno abbi a riconoscere lo scato da uno o da pochi», Guicciardini, Di,,·orso di Logrogno cit., p. 262. 119
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linguaggio politico repubblicano, Guicciardini sottolinea che se il potere legislativo fosse affidato ad un gruppo ristretto di cittadini, questi potrebbero facilmente fare leggi che favoriscono i loro interessi invece di promuovere il bene della città. Se è dunque più saggio affidare ad un Consiglio largo il potere legislativo, è tuttavia necessario prendere opportune misure per evitare dibattiti caotici e inconcludenti 28 • Un Consiglio Grande dotato di poteri legislativi, sottolinea Sederini, può assicurare la giustizia e con la giustizia crescono la concordia e la benevolenza fra i cittadini. Alle orazioni di Capponi e Sederini, formulate secondo gli idiomi più convenzionali della filosofia civile, fa da contraltare il ragionamento di Bernardo Del Nero, ispirato alla sapienza consumata dell'arte dello stato. Gli ideali della libertà e i principì repubblicani, spiega Bernardo, non sono sufficienti a istituire e a conservare un buon governo. Chi regge la cosa pubblica deve imparare a trattare con le passioni e gli umori dei cittadini e a sapersi orientare nell'arena pericolosa delle relazioni internazionali. Se i governanti non possiedono questi talenti, la repubblica degenererà nella licenza popolare, che è peggiore della tirannide, o cadrà preda di una potenza straniera. All'arte della politica si deve dunque aggiungere l'arte dello stato. Proprio perché vecchia e debilitata, Firenze ha bisogno di medici esperti, non di dilettanti entusiasti, che aggraverebbero solo le condizioni del malato. Per questo, sottolinea Bernardo, è indispensabile istituire un governo misto in cui, mentre la libertà è tutelata, le deliberazioni più importanti sono affidate ad un ristretto numero di cittadini esperti e reputati. Il governo misto può soddisfare le diverse ambizioni e gli umori presenti nella città, compresi quelli dei cittadini più in vista. Gli onori distribuiti da un Consiglio Grande sono infatti più preziosi di quelli ottenuti per il favore di un tirannc2 9 • Proprio per rispondere alle ambizioni dei cittadini più eminenti, è necessario che la carica del gonfaloniere sia a vita. In questo modo sarà offerta ad essi la possibilità di aspirare ad una carica di grande prestigio nel rispetto delle leggi e della libertà. L'ambizione di perseguire grandi onori servendo il bene comune non è dunque contraria all'eguaglianza civile, come vuole un'erronea interpretazione del repubblicanesimo, ma è il suo più sicuro fondamento 10• "Id., Dialogo cit., p. 264. ,. «E f;lÌ altri onori poi che si hanno con opinione della virtù e n )n del favore, e poi che gli uomini che gli conse~iscono gli esercitano secondo il parerere lor0 e non a' cenni degli altri, quanto sono più belli e più onorevoli!~, ibid., p. 420. "Ibid., p. 274.
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Nel Dialogo, il bersaglio polemico di Guicciardini è la concezione egualitaria o popolare della repubblica, ovvero l'idea che la repubblica non deve ammettere una gerarchia di onori e i diversi livelli di responsabilità pubblica. In questo errore era caduto anche Machiavelli, che nei Discorsi aveva assegnato al popolo un ruolo troppo preponderante31 • Per bocca di Bernardo Del Nero, Guicciardini accetta senza riserve il principio che la fonte di tutti gli onori pubblici debba essere il Consiglio Grande, ma sottolinea anche che la città comprende tre tipi di cittadini: i grandi, che amano la gloria e sono animati da un'onesta ambizione, i cittadini che si accontentano di qualche forma di riconoscimento e ia maggioranza che si accontenta di essere lasciata tranquilla e di attendere in pace ai propri affari. Perché la repubblica sia stabile, bisogna allora modellare la costituzione in modo tale che tutte le componenti della città abbiano il proprio posto. L'istituzione del gonfaloniere a vita rappresenta il fine appropriato per i cittadini che cercano la gloria; il senato e le altre magistrature sono il grado appropriato per i cittadini di media reputazione; il Consiglio Grande risponde infine alle esigenze della maggior parte dei cittadini che vogliono solo la propria sicurezza e la libertà della città. Mentre una repubblica così costituita può durare a lungo, una repubblica che pretenda di abbassare i «savi» al livello dei cittadini comuni, come \ ogliono gli egualitari, è condannata alla decadenza e alla dissoluzione. Se non trovano un posto conforme al loro rango, i cittadini più influenti cercheranno di cambiare la costituzione della repubblica istituendo uno «stat9 stretto» o favorendo l'introduzione di una tirannide, che dia loro quei riconoscimenti che non trovano nella repubblica. Dai maestri dell'arte dello stato il filosofo civile deve imparare non solo la difficile sapienza di assecondare i diversi umori della città, ma anche le dure regole che presiedono all'esercizio del dominio. Gli studia humanitatis e le opere di Cicerone avevano poco da insegnare circa i mezzi atti a tenere un dominio. Tocca ancora una volta all'esperto Bernardo spiegare nella maniera più chiara possibile la differenza fra gli «stati» e le repubbliche.
" «A fuggire queste cose (no, itl e penurbazione) bisogna non rimettere al popolo alcuna cosa imponame, eccetto quelle che se fussero in mano di altri non sarebbe la lioenà sicura, come è la elezione de' magistrati, la creazione della legge, le quali non è bene venghino al popolo, se non prima digestite e appronte da'i magistrati supremi e dal · ~nato; ma quelle ordinate da loro non abbiano già vigore se non sono confermate dal popolo», Guicciardini, Consideraz ·.1,.i sui «Di,c"orsi» del Machiavelli, in Oper, cit., pp. 612-3. Cfr. anche quanto s~rive Guicciardini a commento dei rapp. 47 e 58 nelle pp. 652-8.
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________ Virali, Dalla politica alla ragion di stato _ _ _ _ _ __ E el medesimo interviene a tutti gli altri, perché tutti gli stati, a chi bene considera la loro origine, sono violenti, e dalle repubbliche in fuori, nella loro patria e non più oltre, non ci è potestà alcuna che sia legitima, e meno quella dello imperadore che è in tanta autorità che dà ragione ad altri; né da questa regola eccettuo e' preti, per la violenza de' quali è doppia, perché a tenerci sotto usano le armi spirituali e le temporali".
La legittimità delle repubbliche non va oltre la comunità dei cittadini. I loro dominii, -come ogni altro stato, non hanno altro fondamento che la forza: «non è altro lo stato e lo impaio che :ma violenza sopra e' sudditi, palliata in alcuni con qualche titulo di onestà» 33 • Ciononostante, la conservazione del dominio è una necessità e la repubblica deve essere in grado di difendere se stessa e i territori conquistati. Le buone istituzioni, modellate dalla sapienza civile, devono essere sostenute dalla perizia militare; alla ragione deve aggiungersi la forza3'. Come aveva insegnato Machiavelli, chi guida una repubblica deve dotarla di armi proprie3; e imparare a lasciare da parte, se necessario, i precetti della morale cristiana e pensare secondo «la ragione e uso degli stati» 3~. Appare qui, per la prima volta, il termine che esprime la sostanza del nuovo concetto di politica. Oltre alla recta ratio e alla ragione civile c'è la ragione degli stati ed è quest'ultima che deve guidare l'uomo politico. Mettendo quelle parole in bocca a Bernardo Del Nero, Guicciardini intendeva sottolineare che il linguaggio della politica come filosofia civile era gravemente inadeguato e andava modificato, imparando dalla prassi degli stati. Come lo stesso Bernardo ha cura di precisare, il linguaggio dello stato va tuttavia usato solo in circoli ristretti e in discussioni confidenziali. In questo senso, Guicciardini segue la tradizione fiorentina. Come mostrano i protocolli delle Pratiche, non era affatto insolito, in circoli ristretti, opporre ai dettami della ragione l' «uso» degli stati. Aggiungendo ali' «uso» la «ragione», Guicciardini introduce tuttavia un mutamento significativo: le medesime azioni che potevano essere scusate solo appellandosi al!' «uso» sono ora scusabili in base ad una nuova ragione, la «ragione degli stati», e, come Guicciardini sapeva bene dai suoi studi giuridici, la ragione ha un potere giustificativo o scusante maggiore dell'uso.
" Id., Dialogo cit., p. 464. " Id., Discorso di Logrogno cit., p. 254. " «Non basterebbe che la fussi ordinata bene drentro e vivessi con la ragione, se la forza la potessi sopraffare», ibid., p. 251. Guicc1ardini, Dialogo cit., p. 252. "Ibid., p. 465.
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Spetta dunque a Guicciardini il titolo di padre spirituale della moderna ragion di stato. Non va però dimenticato che, mentre la ragion di stato è presentata come una dura necessità, la vera gloria spetta ancora alla politica. Il Discorso di Logrogno si chiude con l'invocazione di un nuovo Pericle, capace di riformare la repubblica e per questo meritevole di gloria perennei'. Il Dialogo del reggimento di Firenze, si apriva con l'elogio dell'arte dei governi publici ... Invece di un nuovo Pericle, divenne signore di Firenze, nel 1530, Alessandro de' Medici. Come aveva fatto dopo il 1512, Guicciardini ripone gli scritti sulla riforma della repubblica e torna a scrivere di cose pubbliche consapevole della profonda differenza fra le regole di funzion:i.mento dello stato e quelle della repubblica. Uno stato, scrive nei Ricordi, non può essere governato secondo i principi della libertà, e per converso una repubblica non si può governare s..:condo l'arte dello stato. Nel 1527 i Medici persero lo stato perché vollero governare secondo i principi della libertà; la repubblica di Soderini, a sua volta, cadde perché i suoi reggitori vollero tenerla come si tiene uno statoi 8• Per conservare il loro regime, i Medici avrebbero dovuto dedicare i loro sforzi più assidui a soddisfare i partigiani tramite fo ori individuali, invece di seguire una politica troppo egualitaria nella distribuzione di onori e benefici che finì per scontentare gli «amici», senza peraltro soddisfare la maggioranza dei cittadini ancora legata alla repubblica. Persero dunque lo stato perché vollero imitare i modi di governo della repubblica. Una repubblica, d'altra parte, si conserva solo fin quando ottiene l'appoggio della cittadinanza. Essa non può nutrire partigiani o amici con favori o discriminazioni, ma deve invece coltivare l'amicizia e la . concordia fra i cittadini con la giustizia e il rispetto dell'uguaglianza civile. In una repubblica, le discriminazioni e i favori generano discordie e conflitti che essa non può controllare. La medesima politica che rafforza lo stato distrugge la repubblica. Con il graduale rafforzamento del regime mediceo in Firenze, i temi e il voeabolario della filosofia civile spariscono gradualmente dagli
" «E cerco secondo el gusto mio, io non vcggo quale ma~giore premio possi essere preposto a uno animo generoso, che trovarsi capo di una città libera, non per potenza e parentadi e sétte, ma per una reverenza e autorità che sia di lui, causata per conoscerlo prudente e amatore della sua città. Questo grado el quale ebbono anticamente molti uomini nelle republiche, e sopra tutti in Atene Pericle, mi pare da preporre a ogni potenza e autorità di alcuno tiranno: conoscersi stimato e grande SJlo per le virtù e sue buone qualità», Guicciardini, Discorso di Logrogno cit., p. 287. "«Io ho detto e scritto altre volte che e' Medici perderono lo stato nel '27 per averlo go, ernato in molte cose a uso di libertà, e dubitavo che el popolo perderebbe la libertà per governarla in molte cose a uso di stato», Id., Riordi cit., serie e, n. 21, pp. 732-3.
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scritti di Guicciardini. Resta tuttavia il tradizionale attaccamento aristocratico all'ideale della «civiltà», che porta Guicciardini ad ostacolare l'instaurazione aperta del principato, con l'argomento che i tempi non sono ancora maturi. Il duca Alessandro, scrive, è ancora troppo giovane e manca di esperienza nelle cose fiorentine. Prima di compiere passi istituzionali radicali è bene si industri a convincere i sostenitori del regime di non nutrire intenzioni rapaci. Deve, in altre parole, guadagnarsi la fiducia degli amici e degli amici potenziali. Per questo deve mostrare i modi della «civiltà» e accettare alcuni vincoli che potranno in futuro essere allentati, piuttosto che esibire i tratti inquietanti del principato39. L'esempio da imitare, sottolinea Guicciardini, è quello di Augusto, che fu imperatore mantenendo le apparenze della libertà' 0 • La resistenza di Guicciardini al principato è condotta in nome del commercio e della prosperità economica più che della libertà. L'istituzione aperta del principato, sottolinea a più riprese, farebbe nascere fra i cittadini facoltosi la paura che il principe voglia attentare ai loro beni e tale stato d'animo avrebbe certo effetti perniciosi sulle attività imprenditoriali della città. Il commercio e le attività imprenditoriali hanno infatti bisogno di garanzie giuridiche e politiche che assicurino i guadagni dalle mire del principe. Invece di introdurre il principato è dunque più saggio continuare la politica tradizionale, ovvero, come sottolinea in vari scritti del 1531, rafforzare la pressione sui comuni cittadini e rinsaldare la lealtà dei partigiani tramite la politica di favori. Secondo Guicciardini, è vano sperare che il regime possa ottenere il consenso dei comuni cittadini. Questi continueranno infatti a guardare i Medici come coloro che li hanno privati dei diritti che godevano con la repubblica. Nessuna politica di favori, per quanto generosa, potrà ricompensarli di tale perdita. La sola politica da seguire è quella di garantire a tutti un minimo di giustizia e scoraggiare qualsiasi tentativo di indebolire lo stato in nome degli ideali della repubblica. Lo stato dei Medici non è e non può essere lo stato di tutti. Per conservarsi ha bisogno di partigiani; e poiché i partigiani non nascono da soli, tocca al principe prendere l'iniziativa e saper vincere sospetti e incertezze''.
,. «Non è proposito accrescere la licenza, anzi più costo circumdarlo di vinculi, i quali però siano cali che acl nucum possino risolversi», Id., Discorso decimo, in Opere inedite cit., II, p. 380. "' «I savi nelle città solite a essere libere non hanno mai speme queste immagini: Augusto e gli altri Ce~ari in Roma, Bologna e Siena», Id., Discorso n:m'?, in Opere inedite cit., Il, p. 373. " «Né sdegnar di farsi loro incontro, perché loro scanno sospesi, non sapendo se sono voluti, ne ci sendo chi intrattenga gli uomini; e lo spavento che s'abbia a fare uno stato dison~sco gli tiene tanto più sospesi», Id., Dùcorso ottavo, in Opere ù·edite cic., Il, p. 360.
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L'arte di costruire una rete di partigiani presuppone un'abilità non comune di identificare le persone giuste che possono essere favorite con profitto. Il principe, osserva Guicciardini, deve essere capace di «fiutare gli umori» dei possibili candidati a diventare partigiani del regime.i. Una volta ammessi nello stato, essi sapranno di avere un obbligo verso il principe e saranno fedeli non tanto per riconoscenza, ma per paura che il crollo del regime comporti la perdita dei loro vantaggi. Lo stato è sicuro, sottolinea Guicciardini, solo fin quando la percezione dei vantaggi è accompagnat1 dalla paura'3 • La differenza fra la logica dello stato e quella della repubblica si rivela ancora una volta in tutta la sua chiarezza: la repubblica esalta la libertà, promuove la concordia, premia la virtù e incoraggia la giusta ambizione per la vera gloria"; lo stato esige la sottomissione alla volontà del principe, coltiva la divisione fra i cittadini che fanno parte dello stato e quelli che ne sono esclusi, incoraggia il sospetto e l'invidia, stimola la sordida ambizione e l'interesse personale. Due modi opposti di trattare le passioni, due opposte immagini dell'identità morale della città. Su un punto, tuttavia, stato e repubblica si identificano e si tratta, come accennavo, del dominio. Rispetto al dominio la repubblica è, come ogni altro stato, un potere illegittimo fondato sulla forza. Ed è significativo che l'unica volta in cui Guicciardini esorta i Medici ad agire come se si trattasse di una repubblica è quando parla della politica da seguire nei confronti del dominio. Tanto lo stato dei Medici quanto la repubblica devono sfruttare il dominio a vantaggio, l'uno, dei membri dello stato, l'altra, della città. La repubblica del 1527-1530 lo fece, indebolendo le comunità più forti e imponendo un duro regime fiscale sui sudditi. I Medici, sottolinea, devono fare altrettanto, avendo cura di includere nello stato i sudditi più ricchi e influenti per poi servirsene ai fini del loro dominio. Una politica liberale ~ei confronti del contado rafforzerebbe " Id., Discorso nono, in Opere inedite cit., II, p. 370. '' «Puossi f-,re fondamento in su quelli che sono scoperti amici, nel quale vivendosi così concorreranno dua cose: l'una, vedersi buono essere in questo modo di Governo; l'altra, il non potere sp~rare di salvarsi nella mutazione. Qualunque di queste mancassi, io non prometterei per persona, perché gli uomini amano più se stessi che alcri; ma congiunte insieme, mi pare faccino sicurtà intera a Nostro Signore, ché se lo Stato s'arà più a perdere, non perderà solo la Casa sua; questo io l'ho per certissimo, e anche a beneficio dello Stato desidero assai che Sua Santità lo creda», Id., Discorso ottavo, in Opere inedite cit., II, p. 364. "Felix Gilbert ha ricostruito con precisione il significato di «ambizione» in Guicciardini e nel milieu aristocratico di Firenze. Vale la pena sottolineare che Guicciardini si riferisce alla «vera ambizione», ovvero il desiderio di ottenere gloria con i servizi resi alla repubblica, non la bramosia di onori e superiorità e ancor meno di onori concessi da un principe per ,ervizi personali. F. Gilbert, Machiavelli a,1d Guicciardini. Politics and History in SixteenthCentury Florence, Princeton 1965, p. 97.
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il dominio a scapito dei fiorentini, con grande pericolo per la stabilità dello stato45 • «Tre cose - scriveva nei Ricordi - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di republica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutti e' barbari e liberato il mondo dalla tirannide di questi scelerati preti» 46 • Vide invece il trionfo definitivo dei Medici in Firenze, cui contribuì fra il settembre del 1530 e il giugno del 1531; fu testimone dell'ulteriore assoggettamento dell'Italia alle potenze straniere e assistette al rafforzamento del papato. Con l'ascesa al potere di Cosimo I scomparvero anche le ultime vestigia della repubblica e fu istituito, anche formalmente, nel 1537, il principato. Non era più tempo per la politica, ma tempo di leggere Tacito, per imparare come muoversi e sopravvivere in una tirannide". Come annotava nei Ricordi, è dovere di un buon cittadino restare vicino al tiranno per frenarne le passioni e impedirgli, per quanto possibile, di recare danno alla città; due compiti che richiedono una eccellente maestria dell'arte dello stato' 8• Sapeva bene, lo aveva scritto, che tutti gli stati nascono dalla violenza. Lo stato istituito dai Medici nel 1530 non faceva eccezione'9• Eppure bisognava accettarlo, mettendo da parte i sogni di restaurare la repubblica e con essi il linguaggio della politica. Guicciardini, seguendo le proprie massime, si accomoda ai tempi senza però celebrare lo stato e la sua arte. Anche se non scelse, come altri fecero in quegli stessi anni, di mantenere vivo e di rielaborare il linguaggio della politica, nei suoi scritti la percezione della differenza fra la politica e l'arte dello stato resta chiara. Sapeva, del resto, meglio di chiunque altro che cos'era lo stato e quanto fosse diverso da una repubblica libera e bene '' «Lo Stato passato, in ogni altra cosa imprudentissimo, in una sola ave. J forse giudicio, che era volto a dimagrare il Dominio, e accrescere gli abitatori e le entrate della città», Guicciardini, Discorso ottavo, in Opere i:,edite cit., Il, p. 366. "Id., Ricordi, serie B, n. 14, p. 800. "«Insegna molto bene Cornelio Tacito a chi vive sotto a' tiranni d modo di vivere e governarsi prudentemente, così come in: ,gna a' tiranni e' modi di fondare la tirannide», ibìd., serie C, n. 18, p. 732. '' «Credo che sia uficio di buoni cittadini, quando la patria viene in mano di tiranni, cercare d'avere luogo con loro per potere persuadere el bene e detestare el male; e certo èinteresse della città che in qualunque tempo gli uomini da bene abbino autorità. E ancora che gli ignoranti e passionati di Firenze l'abbino sempre intesa altrimenti, si accorgerebbero quanto pestifero sarebbe el governo de' Medici se non avessi intorno altri che pazzi e cattivi•, ibid., serie C, n. 220, p. 793. Cfr. anche la Massima n. 100, serie e, p. 757. "«Non si può tenere gli stati secondo coscienza, perché- chi considera la origine loro tutti sono violenti, da quelli delle repubbliche nella patria propria in fuora, e non altrove: e da questa regola, non eccettuo lo imperadore e manco e preti, la violenza de' quali e doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirit~ale», ibid., serie e, n. 48, p. ,42.
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ordinata. Era troppo cauto e conosceva troppo bene la realtà della politica internazionale e la sin1azione interna di Firenze per imbarcarsi in disperati tentativi di restaurare la repubblica. Le parole con cui De Sanctis, che accusava Guicciardini di non aver carattere e di essere incapace di elevarsi al di sopra del proprio «particulare», sono forse troppo dure '. Libertà, virtù, giustizia, patria erano per lui probabilmente qualcosa di più che fredde e vuote parole senza passione. I Ricordi rivelano una grande lucidità nel rendersi conto che i tempi della politica, i tempi dei grandi riformatori che risanano con le leggi il corpo della repubblica, erano finiti. Ma rivelano anche una profonda repulsione per la tirannide e per la licenza 51 • L'istituzione del principato segnò anche la fine della sua carriera politica. Le sue raccomandazioni, di procrastinare l'istituzione del principato e di conservare almeno le forme del governo civile, gli alienarono il favore del nuovo signore della città. Anche se ebbe una carriera molto più brillante del suo amico Machiavelli, finì anch'egli con lo scrivere di storia52 • La Storia d'Italia, cui si accinse nel 1536, non era tuttavia una raccolta di eventi. Nei punti cruciali della narrazione Guicciardini inserisce il suo giudizio politico. Parlando dell'ultima repubblica fiorentina, ad esempio, ritorna sui concetti che aveva già espresso nel Discorso di Logrogno e ribadisce la sua adesione all'ideale di una libera repubblica sostenuta e guidata dalla saggezza e dalla prudenza dei grandi. La generosità dei fiorentini nel resistere contro gli eserciti del papa e dell'imperatore, merita, scriveva, il più grande rispetto. Tuttavia non si può non rimproverare i governanti della repubblica per aver imposto uno scontro militare disperato, invece di placare i nemici con il denaro o dividerli con accorte manovre diplomatiche, come i fiorentini avevano fatto spesso. La fine della libertà fiorentina andava, dunque, impu-
'° «E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare "il suo particulare" a quello ch'egli ama e vuole: perché quelle cose che dice di amare e di desiderare, la verità, la gius[izia, la virtù, la libertà, la patria, l'Italia libera[a da' barbari, e il mondo liberato da' preti, non sono in lui sentimenti vivi ed operosi, ma opinioni e idee astratte, e quello solo che sente, quello solo che lo move, è il suo particulare», F. De Sanctis, L'uomo del Guicc:. ,rdini, in Sag~i critici, Napoli 1933, III, p. 143. " «La calcina con che si murano gli stati de' tiranni è el sangue de' cittadini. Però doverebbe sforzarsi ognuno che nella città sua non s'a. essino a murare [ali palazzi•, Guicciardini, Ricordi cit., serie B, n. 20, p. 801. "La biografia intellettuale di Guicciardini è stata descritta come un'evoluzione dalla politica alla storia da Vittorio de Caprariis, Francei.:o Guicciardini dalla pol'tica alla storia, Bari 1950 e F. Gilbert, Machiavelli and Guicci.ird'1i. Politics and History in Sixtee·,th-Cenuy Florence cit., p. 235 e soprattutto, p. 271. Per un'interessante analisi del lavoro di De Caprariis cfr. Sasso, Per Fr~··.c.esc J G11icciardini cit., p. 73. 127
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tata sia alla rapacità dei principi, sia anche alla poca avvedutezza dei repubblicani;3 • Sapeva come muoversi nel mezzo della corruzione politica e morale, ma dovette pagarne il prezzo. Servire persone che si disprezzano, non è affare piacevole. E Guicciardini, che disprezzava papi e preti, fu leale governatore e luogotenente papale. Odiava i signori che devono il loro potere ai favori e alla forza, e servì i Medici anche nella restaurazione del 1530, quando punì i suoi concittadini per i loro sentimenti repubblicani. Come Machiavelli, aveva capito che la retorica umanistica della politica non serviva ad affrontare le sfide dei tempi. E capì probabilmente, nei suoi ultimi anni, che l'arte dello stato impone a chi la pratica, anche ai più esperti, bocconi amari.
"Francesco Guicciardini, Storia d'Italia, XIX, 12, Bari 1929, v, pp. 266-7.
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DALLA POLITICA ALLA RAGION DISTATO
v. Gli ultimi bagliori della filosofia civile
Verso la fine del regime mediceo del 1512-27, il linguaggio politico repubblicano visse una fase di rinnovato vigore dovuto, in una cena misura, all'insegnamento dei Discorsi e dell'Arte della guerra di Machiavelli. Benché pubblicati solo nel 1531, le pagine dei Discorsi sulla restaurazione del «vivere politico» trovarono un pubblico attento fra i giovani fiorentini che partecipavano alle riunioni degli Orti Oricellari. Per tradizione cenacolo mediceo, gli Orti Oricellari erano diventati negli anni venti un centro di opposizione repubblicana. Oltre a Machiavelli, Antonio Brucioli, Donato Giannotti, Jacopo Nardi, Filippo e Lorenzo Strozzi animavano le discussioni sulla repubblica e sulla restaurazione del governo popolare in Firenze, con frequenti riferimenti alla comune tradizione culturale ispirata ai classici greci e romani. Fra gli assidui degli Orti Oricellari, l'esempio più tipico della compenetrazione fra ideali repubblicani e cultura classica era Antonio Brucioli. Nato nell'ultima decade del XV secolo, seguì le lezioni del neoplatonico Francesco da Diacceto e, dopo il fallimento della cospirazione antimedicea del 1522, cercò rifugio prima a Venezia poi a Lione, dove scrisse la sua opera maggiore, i Di.alogi della mora! filosofi.a, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1526. Tornato a Firenze nel 1527 dopo l'espulsione dei Medici, fu guardato con sospetto dal nuovo governo popolare per i suoi legami con gli aristocratici. Caduto il gonfaloniere moderato Niccolò Capponi dovette riprendere la via dell'esilio, questa volta per le sue simpatie verso la Riforma. Passò il resto della sua vita a Venezia, curando edizioni di testi classici e di opere teologiche. Nei Dialogi, Bruciali riprende il tema della politica come arte della repubblica e lo affronta in una prospettiva filosofica ed etica. Come spiega nell'epistola dedicatoria del 1526, l'arte di istituire e conservare buoni costumi e sacre ed inviolabili leggi appartiene alla filosofia, intesa come amore dell'amicizia e della saggezza, che sola può guidare 129
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l'uomo alla virtù'. La politica, ovvero l'arte di ben governare la repubblica, nacque dalla filosofia, per il bene dell'umanità. Il buon governo incoraggia gli uomini a vivere secondo la ragione, la componente divina dell'animo umano che ci rende simili a Dio e che ci apre la strada per tornare da dove siamo venuti. Argomento centrale dei Dialogi è quindi la «virtù politica»2, che è il fondamento della concezione aristotelica della politica intesa come l'arte di creare e conservare una comunità in cui gli uomini possono vivere una vita virtuosa. Il debito di Brucioli nei confronti di Aristotele è evidente fin dalla sua definizione di «repubblica», che riproduce fedelmente i diversi significati di politia. La repubblica, scrive, è una società o compagnia di molte famiglie, istituita «per causa di vivere bene e rettamente» 3• L'uomo è naturalmente incline a formare società civili, come si può inferire dal fatto che è il solo fra tutti gli animali a possedere la facoltà del linguaggio. E poco più oltre Gianiacopo, il portavoce di Brucioli, parla della repubblica, prima nel senso di costituzione della città e di ordinamento delle magistrature', poi in quello di vita etica, o di costumi, della città5• E si riferisce ad Aristotele anche quando parla del · vivere politico» come condizione necessaria per quella vita virtuosa cui l'uomo è destinato per sua natura 6• Nella comunità politica le leggi costringono gli uomini a conformare il loro comportamento alla giustizia e a non deviare dal sentiero della rettitudine. Passando dalla teoria generale all'analisi della forma di goYerno più adatt1 a sostenere il «vivere politico», Brucioli sottolinea che\ era repubblica è solo quella in cui rutti i cittadini.hanno il diritto di partecipare alle decisioni pubbliche, e dunque vera repubblica si ha solo nel governo popolare. Ogni altra forma di governo che consente di partecipare alla vita pubblica solo a una parte della città, sia essa un'oligarchia o un principato o una tirannide, non può essere considerata una repubblica'. ' Antonio Brucioli, Di.1logi, a cura di A. Landi, Napoli-Chicago 1982. Il testo si basa sull'edizione veneziana del 1544, Dialtgi della morale fi.1.>sofia. 'Jbid., p. 12. 'Jbid., p. 102. 'Jbid., p. 109. ' «E tutte queste diffinizioni bisoi;na che sieno circa alla virtù e al vizio della città e alla republica, perché la republica niente altro è che una certa vita della città•, ibi.i., p. 112. • «Perché l'uomo è il più nobile di tutti gli altri animali, se vorrà usare la virtù alla quale egli è naturalmnte inclinato, e il vivere politicamente più che cosa del mondo gli dimostra il modo, ma se quello da varie passioni deviato, senza alcuna legge e senza alcuna giustizia vive, il più pessimo fia ancora di rutti gli altri animali», ibid., p. 102. ' «Dico che quando certi di tutte le cose consultano, non vi avendo gli altri parte alcuna, questo essere lo stato de' pochi, il quale o di ottimati o di ricchi o del principe o ciel tiranno è costituito, che tante sono le specii de' pochi che regnano, e che noi dicemmo non essere del-
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Brucioli non sostiene che la partecipazione debba essere costante e permanente, ma consiglia piuttosto forme di rotazione e selezione dei magistrati secondo il modello del governo misto. La distinzione fondamentale è tuttavia fra lo «stato di pochi» e la repubblica, cui corrisponde quella fra la politica come arte della repubblica e la politica come arte dello stato, sia esso lo stato dei ricchi, dei nobili, del principe o del tiranno. Dopo aver chiarito i caratteri della vera repubblica, Brucioli affronta il problema di come rendere una repubblica perfetta e quindi capace di durare nel tempo, insistendo più sui costumi dei cittadini che sulla forma delle istituzioni. Del resto, ancora con Aristotele, la repubblica è una forma di vita, ovvero la vita secondo la ragione e la moderazione. Più di ogni altra sarà stabile quella repubblica che si compone di cittadini che non sono né troppo ricchi, né troppo poveri, e quindi né insolenti, né servili. Mentre i cittadini di reddito e di qualità medi sono più inclini ad imporre una regola alle passioni, chi è troppo ricco o possiede talenti straordinari assume spesso atteggiamenti sprezzanti nei confronti degli altri ed esige piaceri e onori smodati, oltrepassando i limiti della giustizia. Coloro che sono troppo poveri o troppo abietti o troppo deboli, per converso, non riescono a vivere secondo la ragione, tendono ad essere avari nelle piccole cose e orgogliosi e arroganti in quelle importanti. Poiché non hanno nulla, o quasi, da perdere, anch'essi tendono a travalicare i limiti della giustizia. Il ragionamento di Brucioli è schiettamente aristotelico: poiché il fine della repubblica è la vita autosufficiente e virtuosa, e poiché la virtù è mediocrità, la repubblica perfetta è quella che favorisce il modo di vita conforme al suo scopo, ovvero una repubblica di cittadini moderati che non eccedono, in un senso o nell'altro, la misura. La mediocrità è, d'altra parte, importante anche per permettere la rotazione delle cariche pubbliche. Solo dove regna la «mediocrità» può esistere quell'amicizia civile, «uno certo amicabile», che permette la pacifica rotazione 8• Perché la repubblica sia davvero perfetta, infine, è necessario che l'autorità del governo sia affidata a cittadini che si distinguono per la
virtù civile. Essi non possono essere, per Brucioli, mercanti o artigiani o contadini, perché tutte queste attività allontanano dalla virtù civile. I cittadini chiamati a governare devono avere tempo da dedicare agli affari pubblici e possedere una solida educazione in filosofia morale. Ad
la vera republica, ma rutti giudicare di tutte le cose appartiene al popolare stato, desiderando il popolo tale equalità•, ibid., pp. 126-7. • Ibid., p.114.
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essi, a chi è responsabile dell'amministrazione della giustizia e ai soldati, va riconosciuto il grado più alto di pubblica stima. Per essere certi di eleggere al governo della repubblica i migliori, i cittadini devono conoscersi fra loro. Per questo la repubblica deve essere modesta anche nelle dimensioni: né troppo piccola da essere incapace di difendersi, né così grande da rendere impossibile la conoscenza reciproca dei cittadini. Se i cittadini non hanno una lunga tradizione di vita in comune e di abitudini condivise, non solo non è possibile scegliere bene i più adatti al governo della cosa pubblica, ma non può neppure esistere una vera vita civile. Sul problema della dimensione ottimale di una repubblica, Brucioli tuttavia emenda il modello aristotelico con argomenti di diretta ispirazione machiavelliana. Machiavelli è del resto uno dei partecipanti al dialogo e Brucioli, con sottile ironia, gli affida il compito di difendere il modello veneziano, ovvero l'ideale di una repubblica capace di difendersi dagli attacchi esterni e al tempo stesso aliena da disegni di espansione; oltre ad essere sicura, una repubblica siffatta può godere i frutti della pace interna in quanto non ha bisogno né di estendere la cittadinanza agli stranieri, né di armare il popolo. Tocca all'aristotelico criticare gli argomenti del Machiavelli del Dialogo, sostenendone invece quelli dei Discorsi: il modello veneziano, che certo rappresenta «il vero vivere politico e la vera quiete della città», può funzionare solo se la repubblica riesce a conservare la dimensione ottimale senza cadere preda di una potenza straniera o essere costretta ad espandersi. Ma tale equilibrio, come dimostra l'esperienza, è assai difficile da mantenersi: anche nel caso, improbabile, non si debba far guerre, la pace sarebbe, nel lungo periodo, dannosa in quanto produrrebbe un rilassamento dei costumi e alimenterebbe le discordie civili. Invece di rimanere attaccato al modello del «vero vivere politico», il prudente legislatore, conclude l'aristotelico, deve modellare la costituzione della città in modo che essa sia in grado di difendersi e, se necessario, di espandersi tenendo i territori conquistati. Il modello non deve, dunque, essere la repubblica aristocratica senza armi proprie, ma la repubblica aperta ai forestieri, con proprie milizie, in cui le cariche pubbliche sono aperte a tutti i cittadini che lo meritano. L'inversione dei ruoli fra Machiavelli e l'aristotelico mostra che la distinzione fra l'interpretazione aristotelica e quella machiavelliana del vivere politico era nota ai lettori dei Dialogi. Delle due posizioni quella genuinamente machiavelliana sembra uscire vincente dal dialogo. Non per questo Brucioli abbandona il modello aristotelico della repubblica. Riconosceva solo che la repubblica piccola, di cui Venezia 132
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era l'esempio più chiaro, non era la sola forma possibile di vita politica. Come Machiavelli, Brucioli sottolinea che quel tipo di repubblica è destinato a vita breve perché poco adatto a resistere ad attacchi esterni o alla corruzione interna9• La repubblica deve dunque avere milizie proprie formate dai cittadini, dai residenti e dagli abitanti del contado e del dominio, imitando in questo l'esempio di Roma che riconosceva il diritto di cittadinanza agli abitanti dei territori conquistati. La vera vita politica esige dunque il riconoscimento della virtù e l'estensione della cittadinanza. Solo una comunità di cittadini liberi ed eguali può dirsi «politica», e vera arte della politica è quella che insegna a conservare tale comunità. L'arte di conservare il proprio stato («si servano in stato») 10 si identifica invece con la tirannide ed è l'opposto della politica. Brucioli ne riassume l'essenza in tre regole principali. La prima consiste nel debilitare lo spirito dei cittadini e ridurli ad uno stato di ignoranza e di abiezione che toglie la forza di ribellarsi. La seconda, nel distruggere i legami della fiducia reciproca fra i cittadini in modo da impedire loro di organizzzare piani comuni contro il tiranno. Infine, nell'impoverire i cittadini più eminenti per far sì che nessuno abbia le risorse sufficienti per combattere il tiranno". La politica del buon principe, al contrario, deve perseguire l'onestà e la rettitudine, premiare la virtù, cercare l'interesse della repubblica e ispirarsi alla saggezza e alla beneficenza 12 • La sua preoccupazione principale deve essere quella di matenere la concordia e la pace della città, guidando il vascello della repubblica lungo la retta via e respingendo con fermezza gli assalti dell'ingiustizia 13 • Come il princeps ciceroniano, il buon principe di Brucioli deve essere rector e moderator". Deve anche essere buon oratore, ma la sua eloquenza, ancora secondo l'insegnamento di Cicerone, non deve mai andare disgiunta dalla virtù. La capacità di persuadere i cittadini è una delle qualità più importanti che il principe deve possedere per svolgere con successo il proprio compito di moderatore, ma se l'eloquenza non procede di pari passo con la virtù essa di'lbid., p. 119; Per la posizione di Machiavelli cfr. Discorsi, 1, cap. 6. "Brucioli, Dialoghi cit., p. 267. "lbid., pp. 267-70. " lbid., p. 267. " «Perché, come il buono nocchiere vigila sempre per conservare la nave dalle tempestose onde marine, così debbe sempre l'intelletto del principe essere vigilante, tenendo il timone dell'equità sicuramente in mano, scacciando con forte animo ['impetuose onde della iniquità, acciò che la nave della sua mondana republica non sia dalle procelle dell'ingiustizia percossa e rotta», ibid., p. 214. " «Nessuno sia che di questo dubiti, perché niente altro è uno re che uno moderatore e correttore de' popoli, e chi tale opera non pensa o si diffida di potere fare fia il suo meglio che a un più atto di sé lasci il regno», ibid., p. 217.
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venta una causa di corruzione. Per moderare le passioni della città, il buon principe deve essere egli stesso moderato e civile. Con le parole e con la virtù, sottolinea Bruciali, il buon principe, come il buon medico, sa curare il corpo della repubblica dagli umori maligni che ne minacciano l'integrità';. Nel 1547, in esilio a Venezia, Bruciali completava la traduzione di Aristotele in italiano e nella dedica a Pietro Strozzi, uno degli ultimi oppositori dei Medici, ribadiva i concetti della filosofia civile. Solo la virtù e la generosità fanno del cittadino un vero principe in grado di governare la repubblica 16 • Quale che sia l'opinione corrente, sottolineava, il governo di un signore non ha nulla a che vedere con il governo di un vero principe sulla repubblica. Fra i due corre la stessa differenza che c'è fra il governo di uomini liberi su altri uomini liberi ed eguali e il governo di un padrone sui servi. Come Aristotele ha insegnato, la politica appartiene solo al primo. Per questo, essa è giustamente considerata la più utile fra le scienze pratiche e la più degna dell'uomo 17 , mentre la tirannide è un'arte ignobile che non merita lode alcuna 18• Tradurre la Politica di Aristotele, e più tardi il Somni::.m Scipionis 19, era per Brucioli il solo modo di continuare l'impegno per la libertà dopo la caduta della repubblica nel 1530. Lo fece celebrando la nobiltà della politica, quando è arte della repubblica, e difendendo il contrasto fra il vero politico e il signore. Il suo eroe rimase sempre l'uomo civile capace di redimere con le leggi la città corrotta. Più aristotelico che ciceroniano, il suo politico ideale doveva perseguire la riforma guardando al modello della repubblica retta e tenendo conto della vita concreta della città20 • "«Il principe nel vero niente altro è che uno medico della republica», ibid., p. 232. " «Et così il governo regio, et la Republica dimostrasse essergli accetti. Et perché questa invc.tigatore de gli ordini della natura, non vuole, che da altri siano amministrati questi due dominij, che da uomini liberi, e per virtù nobili e generosi, queste mie fatiche e vi9ilie, in simili studij consumate, statui di mandare a qualche Signore, o personaggio sopra gli altri notabile per egregi fatti, al quale si convenisse benissimo questo attributo di nobiltà, per la quale, secondo la sententia di Aristotile, fussi da essere posto nella dignità degli alti magistrati, et governi», Gli otto libri della repubblica che chiama·:o pJli,·:a di Aristati/e. l\'ucvam. ntc tradotti di Greco in vulgare italiano per Antor: ,.? Brucioli, Venezia 1547, p. 3. " «Perché come la dottrina de gli ottimi governi, è una lucerna necessaria a tutti i mortali, così anchora collocare si debbe in candelliere tanto eminente, che a tutti maravigliosamente risplenda», ibid. " «Et questa scientia non contiene in sé alcuna grandezza di lode o di gloria, l;'oiché quell_e cose che bisogna che il servo sappia fare, le medesime fa di mestiero che il signore oappia comandare», ibtd., I, 5. "Anronio Bruciali, Il sogno di Scipione di Marco Tullio Cicerone, cavato d.;l libro della Repubb',ca, Venezia 1539 e 1544. Oltre alla Politica, Bruciali tradusse anche La retori_-a di Aristotile, Venezia 1545, e opere di filosofia morale. Su Bruciali si veda G. Spini, Ti-a Ri·:!lscimcrito e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze 1940. " Gli otto {;!,ri della r,~.,ubblica cit., p. 4.
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Benché effimera, l'esperienza dell'ultima repubblica fiorentina ebbe effetti importanti sullo sviluppo del linguaggio della politica21 • I repubblicani ebbero un'ultima possibilità di usare il linguaggio della politica per costruire una repubblica, anziché filosofare o rimpiangere il passato. La dura lezione della sconfitta del 1512 aveva fatto capire che la concezione della politica come filosofia civile aveva bisogno di sostanziali integrazioni per competere con l'art-:: dello stato. Gran parte dei testi del 1527-1530 erano dedicati, comprensibilmente, all'analisi dei difetti politici e istituzionali che a,evano impedito alla passata repubblica di difendersi efficacemente dai nemici interni ed esterni. Il punto sul quale tutti insistevano era che essa non era stata in grado di soddisfare gli umori dei diversi gruppi di cittadini. Per questa ragione non solo i «grandi», ma anche i cittadini comuni non si sentirono amici della repubblica e non le assicurarono l'aiuto di cui aveva bisogno. Un altro difetto era costituito dall'incapacità di assolvere adeguatamente le tre funzioni del governo, ovvero il consiglio, la deliberazione e la decisione, con la conseguenza che la repubblica fu esitante tanto negli affari interni quanto, con rischi ancor più gravi, nella politica estera. Il compito più urgente che la nuova repubblica doveva affrontare era dunque quello di ridisegnare la costituzione in modo da soddisfare gli interessi di tutti i cittadini e assolvere efficacemente tutte le funzioni di g°' erno. I rimedi più caldamente raccomandati furono il governo misto e la figura di moderatore del politico, il quale, conoscendo il giusto ruolo delle diverse componenti della città, era in grado di frenare le inclinazioni di ogni gruppo ad imporre i propri interessi sulla città. La nuon generazione di repubblicani, infine, abbracciò senza riserve il principio, difeso dagli umanisti e da Machiavelli, che la libertà si difende con le armi dei cittadini e vide in una milizia ben disciplinata non solo una difesa contro gli «ambiziosi» che vogliono farsi tiranni della città e contro le minacce esterne, ma anche uno strumento essenziale per rinsaldare la virtù civile dei cittadini. Sia il tema del rafforzamento della coscienza civile che quello del governo misto occupano larga parte del Discursus de florentinae rei publicae ordinibus di Niccolò Guicciardini, nipote di Francescd2• Il fine delle leggi e delle isti" Sull'ultima repubblica fiorentina cfr. von Albercini, Firenze dalla repubblica al principato cit., pp. 104-78; C. Roch, The Last Flon ~tine Republic, London, 1925; J. N. Stephens, The Fallo/ the Florenti,:e Republic (1512-1530), Oxford 1983, pp. 203-55. "Niccoi', Guicciardini, Discursus de florentinae ret publicae ord··,ib1ts, in von Albertini, Firenze dalla repubblica al pr.'::cipato cic., pp. 391-407. Il Disc:irsus, scritto nel 1527, era indirizzato al gonfaloniere N1ccolò Capponi.
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tuzioni politiche, osserva, è di far sì che gli uomini agiscano bene e con prudenza2i. Per questo, il saggio legislatore deve modellare le istituzioni della città in modo che il governo della cosa pubblica sia affidato ai migliori escludendo gli audaci e i malvagi. Se la repubblica sa premiare chi serve con onore il bene comune, i buoni cittadini avranno un'ulteriore motivazione per servire la cosa pubblica. Essa deve essere inoltre organizzata in modo da assicurare ai diversi gruppi di cittadini il posto che ad essi spetta e da permettere un efficace sistema di controllo reciproco delle istituzioni e degli organi del governo 2'. Fin quando mantiene il buon ordine, la repubblica è al riparo tanto dalla tirannide quanto dalla licenza, e il buon ordine, sottolinea Guicciardini, viene dal governo misto composto da un Consiglio Grande, un senato e un gonfaloniere. Nell'istituire tale governo, il legislatore deve essere estremamente cauto, in modo da evitare i disordini causati dalla corruzione della passata repubblica, e precisamente l'esasperata autorità della Signoria, il mal costume delle «pratiche» e l'eccessivo potere dei magistrati. Tutti questi difetti indebolirono il corpo della repubblica e produssero la divisione e il malcontento che avviarono la repubblica alla dissoluzione. Nella sua argomentazione, Guicciardini ricorre al vecchio tema umanistico della virtù che può vincere la fortuna. Non c'è nessuna immutabile legge di natura, sottolinea, che prescriva che ogni città debba cambiare di frequente forma di governo, andando di male in peggio, e non è affatto vero che alla buona fortuna segue la cattiva e che tutte le cose umane siano soggette ad un ciclo inevitabile di progresso e di decadenza. Altre repubbliche hanno goduto della libertà più a lungo e più sicuramente e non vi è nessuna ragione perché Dio debba essere particolarmente ostile verso Firenze. Le cause dei mali della città sono note e possono essere corrette, se i fiorentini impareranno di nuovo l'arte di governare con giustizia e la pratica delle virtù. Il Discursus de florentinae reipublicae ordinibus di Guicciardini era un'esortazione a riscoprire la politica. Ma lo stesso Guicciardini, in un "«Tutte le leggi et ordini non hanno altro obiecto che di fare operare bene et prudentemente•, ibid., p. 391. "«Et come gli è impossibile che in una Repubblica non bene ordinata et che non cappia equalmente in tutti li sua membri, nè satisfacci a ogni sorte di cittadini et a ogni actione che in quella si ricerca, cioè di consiglio universale deliberazione et executione si mantenga, perché lo inclinare più in una parte che in una altra la fa variabile et corruptibile, così è impossibile che bene ordinata et in modo che l'uno membro riguardi, conrisponda et leghi l'altro, da sé medesima drento si corrompa: perché, non prevalendo ordine alcuno, non può risolversi in alcuno di quelli mezzi che la corrompono, o di Principe o di Governo di pochi o di plebe sola», ibid., p. 392.
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altro discorso scritto pochi mesi più tardi, spiegava che la mentalità commerciale e la corruzione rendevano impossibile una rinascita della politica25 • I fiorentini, scriveva, hanno completamente abbandonato l'esercizio delle armi e non si curano più degli affari pubblici, per dedicarsi interamente al commercio. La mancanza di virtù civile ha permesso ad un singolo cittadino, Cosimo de' Medici, di acquisire una posizione predominante e poi di imporre una tirannide sopra la città. E capovolgendo le idee di Francesco lamentava che il commercio e la finanza avevano estinto l'amore della libertà e della gloria e, con esso, la competenza nel governo della repubblica. Per ottenere favori, si sono piegati a servire i cittadini potenti. I veri responsabili della perdita della libertà sono dunque i fiorentini stessi: hanno dimenticato la politica, si sono ritrovati servi. Per combattere la corruzione politica, Niccolò Guicciardini non si appella al desiderio di sicurezza o all'interesse personale, ma alle passioni più nobili, prime fra tutte il desiderio di governarsi da soli e la grandezza d'animo, che spinge gli uomini a cercare la vera gloria. Anche se avessimo un buon principe, osserva, dovremmo preferire la repubblica. Sotto il governo di un principe, per quanto grande sia il contributo del popolo, tutta la reputazione e tutta la gloria che vengono dalle grandi imprese spettano al principe. Noi parliamo infatti della gloria di Alessandro o Mitridate o Antioco, ma nessuno ricorda i loro popoli. Nel caso di Roma, invece, parliamo della gloria dei romani. Non vedendo alcun interesse, né possibilità di gloria, i sudditi di un principe non hanno motivo di cercare la virtù; il governo libero, al contrario, li incoraggia a compiere grandi cose e a servire il bene comune. L'amore dei popoli verso il vivere libero nasce proprio dal loro desiderio di far risplendere la loro virtù e di ottenere reputazione e onore presso gli altri popoli. Ma tutto questo, conclude Niccolò Guicciardini, è possibile solo in una repubblica bene ordinata 26 • Il 6 novembre 1528, per iniziativa di Donato Giannetti, segretario dei Dieci, come lo era stato Machiavelli dal 1498 al 1512, la milizia civica fu reintrodotta nella Repubblica di Firenze. Si trattò di un evento im" Niccolò Guicciardini, Quemadmodum c0,itas optime gubernari possit et de monarchia, aristochratia et democratia discursus, in von Albertini, Firenze dalla r~pubblica al principato cit., pp. 407-12. " «Et per questo et per potere operare nel governarsi da sé in modo che la loro virtù si potessi conoscere, credo che e nobili animi de' popoli siano voluti vi, ere liberi et da' capi loro valorosamente habbino cacciato el giogo della servitù. Et in verità nel medesimo modo può stare sottoposto al governo d'un savio Signore uno sciocco quanto un valente uomo. Et la virtù consiste et conoscesi nel governarsi da sé et in modo che grande riputazione et potentia si acquisti», ibid., p. 412. 137
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portante che stimolò una rinnovata riflessione sulla virtù civile e sul significato della libertà. Come ho ricordato, tutti i sostenitori dello «stato» avevano sottolineato nei loro memoranda la necessità di disarmare i cittadini e di armare la guardia del principe. Per i repubblicani, l'esistenza e la buona disciplina della milizia, sotto l'autorità dei magistrati e delle leggi, era invece condizione essenziale della libertà della città. La milizia civica, scriveva Luigi Alamanni in una orazione pronunciata nel gennaio del 1529, è il fondamento della nostra libertà e della nostra sicurezza. Prima dell'istituzione della milizia, la nostra repubblica era mutilata e pronta ad essere ridotta in servitù 27 • Eravamo abituati a chiamare i tedeschi «barbari», mentre dovremmo seguire l'esempio delle città della Germania che hanno protetto con le armi la loro libertà. Quando entrano nella milizia, i cittadini devono mettere da parte ogni interesse e ogni lealtà privata per dedicarsi interamente al bene comune. La milizia civica è infatti al servizio delle leggi e della libertà e per questo esige la totale devozione dei cittadini in armi. Essere membro della milizia non dà alcuna immunità o licenza, mentre impone un obbligo ancora più forte ad obbedire alle leggi e rispettare i «coswmi politici» 18 • Anche se soldati, essi devono coltivare le stesse virtù che si richiedono al buon cittadino: la pietà, la carità, la fortezza, il rispetto e la religione. Pochi giorni dopo, in un'altra orazione, Piero Vettori elogiava la milizia come il necessario completamento della vita civile. Una milizia ben disciplinata è il sostegno del «vivere civile», la garanzia del buono, pacifico e tranquillo stato della città e il baluardo contro gli insolenti che disprezzano l'uguaglianza civile e vogliono acquisire una superiorità ingiustificabile. Essa è, infine, scuola di libertà, perché i cittadini abituati a servire nella milizia sono disposti ad obbedire solo alle leggi e ai magistrati. Pochi mesi prima della resa della repubblica alle truppe imperiali, il 3 febbraio del 1530, Bartolomeo Cavalcanti parlò alla milizia sottolineando, ancora una volta, che senza armi proprie la repubblica ha un corpo onesto ma fragile e che gli antichi avevano ragione quando affermavano che solo quelle comunità che si sanno difendere da sole meritano il nome di repubbliche 29 • Oltre a proteggere la libertà della
" Orazione di Lu;gi Alamam:: alla milizia fiorentina, in Orazioni politiche del Cinquecento, a cura di M. Francelli, Bologna 1941, p. 4. "Jbid., p. 7. "•Li antichi savi hanno giudicato il nome di città quelle non meritare, le quali, nell'altre parti loro bene ordinate, non sono per se stesse sufficienti, mancando delle proprie armi, a difendere la loro libertà•, Orazio·.e di Bartolomeo Cavalcanti patrizio fiorentino fatta alla 1•:ilitare ordinanza fiorenti.·:a, in Orazioni politiche del Cinquecento cit., p. 11.
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repubblica, la milizia rafforza la virtù civile, in quanto educa i cittadini-soldati a lasciare da parte ogni rivalità e inimicizia privata e incoraggia l'amore della libertà comune. Chi serve nella milizia deve diventare fiero e spietato con i nemici della repubblica, ma generoso e buono con i cittadini e soprattutto temperante e giusto nel rispetto delle leggi. La disciplina e il buon ordine della milizia sono dunque la base del buon ordine e del «bel temperamento» della repubblica)(). La teoria più compiuta della milizia come scuola e fondamento della vita politica si trova, tuttavia, in Donato Giannotti. In un discorso scritto fra la fine del 1528 e l'inizio del 152911 , Giannotti critica direttamente l'opinione che i cittadini armati acquistino costumi incompatibili con la vita civile e sottolinea che la milizia insegna, al contrario, ad obbedire alle leggi e ai capitani nominati dalla repubblica. Oltre ad essere necessaria, in quanto la repubblica non può permettersi di pagare truppe mercenarie per proteggere la propria libertà, la milizia è un mezzo efficace per rafforzare quella concordia e amicizia fra i cittadini che è la più sicura difesa contro i disegni di chi vuole imporre una tirannide sulla città. Proprio perché scuola di concordia, la milizia dovrebbe arruolare anche i sostenitori dei Medici, non solo per l'onore che essa comporta, ma anche perché essa è la migliore scuola per infondere sentimenti repubblicani. La milizia può sanare le inimicizie e trasformare vecchi nemici in cittadini devoti al bene comune facendo leva sull'onore, sull'interesse e sulla necessitàn. La repubblica deve infatti premiare con onori pubblici, mai con denaro, chi serve con dedizione e punire con il disonore e l'esclusione dalla milizia e dalla comunità chi non compie il proprio dovere. Le analisi di Giannotti sulla milizia si basano sul principio fondamentale che la repubblica deve cercare di incorporare quanti più cittadini possibile nelle istiruzioni e nella vita collettiva della città e distinguersi in questo dalla pratica dello «stato» che esige una inclusione selettiva (dei partigiani), accompagnata da un'esclusione permanente dei nemici dello stato. Lo stato, come ho messo in rilievo, esige che vi sia un numero sufficientemente grande di «amici» leali che desiderano più
di ogni altra cosa essere diversi dagli esclusi dallo stato. Come i criteri "!bid., p. 22. " Donato Giannotri, Discorso di ar:•:.::, la cittèt di Fire·zze fatto din,: :zi alli mag.ci signori e gonfaloniere di giustizia l'anno 1529, in Opere politiche, a cura di F. Diaz, Milano 1974, I, pp. 167-f0. " «E perciò io concludo, che le dette armi si debbino assolutamente dare a quelli ancora che hanno auto participazione alcuna con la tirannide; per fare una unione ed una fratellanza tra tuni i cittadini, e mettere in ciascuno grandissimo disiderio del bene comune», ibid., p. 173.
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di inclusione e distinzione, così anche i criteri di esclusione sono profondamente diversi: la repubblica esclude i cittadini che violano le leggi e operano contro il bene comune; lo «stato» punisce chi non vuole servire gli interessi del regime. Il segreto della politica consiste nell'infondere nei cittadini il desiderio di essere membri della repubblica. Per rendere l'identità collettiva del cittadino più forte del desiderio di distinzione, la repubblica deve affidarsi soprattutto ai simboli e ai costumi condivisi. Per questo essa deve avere il monopolio dei simboli militari e delle cerimonie pubbliche. Tutte le insegne d'armi private e le feste cittadine organizzate da privati cittadini, sottolinea Giannotti, devono essere abolite, perché indeboliscono la lealtà pubblica. Alla vigilia della vittoria definitiva dello «stato» sulla repubblica, il linguaggio della politica sembrava aver messo a fuoco gli strumenti intellettuali per combattere l'arte dello stato su ogni terreno. La teoria delle tre ambizioni e del governo misto era la risposta alla «politica delle amicizie»; la giustizia e l'eguaglianza erano la risposta alla «civiltà» del principe verso i cittadini comuni; la milizia era la difesa contro i nemici esterni ed interni e scuola di virtù civile; i simboli e le cerimonie pubbliche dovevano trasformare la lealtà privata in lealtà collettiva. Gli scritti di Giannotti rivelano una profonda continuità con le convenzioni del linguaggio della politica. Nella città di Firenze, scriveva ad esempio, nell'anno 1494, poi che i Medici furono cacciati dalla terra, non si potette indurre cosa alcuna politica: prima, perché non vi era chi avesse tanta autorità, di quanta avea bisogno uno introduttore di cose sì nuove, come furono quelle che allora si introdussero in Firenze: secondariamente, non vi era chi avesse pratica e scienza delle cose civili, tal che potesse considerare quello ch'era necessario nel riordinare una repubblica corrotta".
La «cosa politica», che fu poi introdotta, spiega Giannotti, grazie alla saggezza di Paolo Antonio Soderini e all'eloquenza di Savonarola, non era altro che la repubblica fondata su un Consiglio largo, investito dell'autorità di eleggere i magistrati. In ogni città, l'elezione dei magistrati è la prerogativa distintiva del potere sovrano e poiché in una repubblica tutti i cittadini sono ugualmente sovrani, tutti devono avere il diritto di eleggere i magistrati34. Come i fiorentini operarono politicamente quando istituirono la repubblica, così ogni altra città che " Donato Giannocti, Discorso sopra il riordinare la repubblica di Siena in Opere politi-
che cic., p. 446. " «E questo è il più vero e libero modo di eleggere i;li offici che si possa ero ,are: perché nelle ciccà libere cum i cittadini sono egualmente signon; e però a quella azione, la quale dimostra la superiorità e signoria, debbono tutti convenire», ibid., p. 451.
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voglia ritrovare la libertà ha bisogno di un vero uomo politico simile agli eroi di Plutarco: Solone, Licurgo, Bruto, Publicola, Timoleone. I maestri della politica, commenta Giannotti, sono però rari e se ancora ne sopravvivono bisognerà cercarli a Venezia. Se i fiorentini avessero seguito fino in fondo l'esempio veneziano, osserva nel libro Della repubblica dei Viniziani, sarebbero ancora liberi35 • Simile ad un corpo naturale, la repubblica raggiunge la sua perfezione quando ogni parte è in armonia con le altre senza che nessuna predomini, come avviene nella Repubblica di Venezia, dove il Consiglio Grande, il senato, il Collegio e il Doge si compenetrano mirabilmente come si conviene ad una perfetta opera politica36 • Fedele alla tradizione della filosofia civile, Giannotti esalta lo scrivere e il ragionare sulla politica come l'occupazione più degna di un animo nobile; 7• In una repubblica, dove hanno la possibilità di partecipare alla vita pubblica, i cittadini possono coltivare le loro qualità più elevate, mentre nella tirannide, forzati a restare lontani dalla vita politica, i sudditi discendono al livello dei brufr 8• Una vita pienamente umana esige dunque una repubblica bene ordinata, secondo l'esempio di Venezia, che non eguagliò Roma nelle conquiste, ma la superò nell'ordine interno39• Dopo la caduta della repubblica nel 1530, Giannotti fu imprigionato dal nuovo regime mediceo. Grazie alla protezione di amici influenti fu rilasciato nel 1531 e condannato all'esilio nella sua villa di Comeano, dove scrisse i quattro libri Della repubblica fiorentina, la sua opera politica più importante. Come scrisse nella dedica al monsignor Ridolfi, lo scopo principale dell'opera era delineare la nuova costituzio" «Sarìa stata, adunquc, cosa miracolosa che i nostri maggiori, sanza av :re esempio alcuno, avesseno nel riordinare la nostra Repubblica sapuco trovare ed introdurre sì bella, sì civile, sì utile ordinazione, come è questa del Gran consi,;lio•, Donato Giannotti, Della ripubblica de' Vinizù:ni, in Opere politid•e cic., p. 62. " «E perché tra loro è sempre certa proporzione e convenienza, sì come tra i membri di ciascuno altro corpo; chi non conosce questa proporzione e convenienza ch'è tra l'uno membro e l'altro, non può come fatto sia quel corpo comprendere•, ibid., p. 38. " «E veramente, niuno ragionamento può recare maggiore delettazione a' quegli animi ne' quali risplende qualche luce di generosità che quello dove si tratta di una Repubblica, se non in tutto_[ ... ], ~lme;10 nel(a mag1;ior parte rettam~nte ord\nata», ibid_., p. 113 .. ·' «Perc10cche egli non e dubb10 alcuno, che gh uomuu, dove eglmo non s1 truovano a trattare cose pubbliche, non solamente non accrescono la nobiltà loro, ma perdono ancora quella che hanno; e divengono peggio che animali, essendo costretti vivere sanza alcun pensiero avere, che in alto sia levato. La qual cosa agevolmente potrà comprendere chi andrà in quelle città che da tiranni, o da altri stati violenti sono governate: li quali hanno per oggetto l'abbassare e l'invilire in maniera gli uomini, che non sappino se in questo mondo vivono o dormono•, ibid., p. 49. " «Perciocché la felicità d'una repubblica non consiste nella grandezza dello imperio, ma si bene nel vivere con tranquillità e pace universale», ibid., p. 36.
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ne politica repubblicana che avrebbe dovuto, nelle sue speranze, sostituire il regime mediceo. Giannotti confidava nel fatto che i fiorentini non avrebbero tollerato a lungo la dissoluzione delle magistrature tradizionali e le maniere dispotiche del duca Alessandro, dimenticando che la magnanimità e la grandezza d'animo non erano più le passioni dominanti. L'approccio di Giannotti era meno astratto di quanto alcuni interpreti abbiano scritto'0 • Non partiva dai principi della politica, ma dall'analisi delle cause del crollo della repubblica del 1527-30, che riconduceva principalmente all'ostilità dei grandi che cospirarono contro la repubblica o fecero mancare ad essa ogni appoggio. Il punto centrale, ma anche più difficile, della sua argomentazione era persuadere i grandi, i mediocri e i cittadini comuni, che la repubblica avrebbe riconosciuto le loro legittime esigenze. La sua ripresa della teoria del governo misto non era dunque una esercitazione retorica, ma lo strumento teorico per combinare libertà e gerarchia di onori e per rassicurare i grandi che il regime repubblicano non era affatto una minaccia al loro status''. Le sue aspettative andarono tuttavia deluse. Dopo il 1531, i grandi si avvicinarono gradualmente al regime mediceo. I favori che lo stato poteva dispensare e la minaccia della vendetta popolare erano incentivi molto più potenti del disgusto verso la tirannide e dell'attaccamento alla tradizione della civiltà. Ma il fallimento del suo progetto politico non implica affatto che La repubblica fiorentina non avesse un preciso progetto politico ispirato ai principi repubblicani e modellato sulla realtà e sulla storia di Firenze. Come spiegava all'inizio dell'opera, non era affatto necessario iniziare dalla definizione della città e dalla distinzione fra governo pubblico e governo privato o governo familiare, per poi procedere a discutere i criteri di distribuzione degli onori pubblici e la forma di governo'2. Tutti sanno, osservava Giannotti, che una città è una comunità in cui vivono ricchi e poveri, nobili e cittadini comuni, uomini ambiziosi e uomini abietti. E non è neppure necessario definire che cos'è una repubblica e chi sono i cittadini, perché la questione è già stata de., È la tesi di Delio Canrimori accolta da Furio Diaz nella sua lntrod:tzione alle Opere politiche cit., pp. 10-1. Secondo Cantimori Della repubblica fiorentina è l'esempio della tendenza di Giannotti a evitare il confronto con i problemi politici concreti e a cercare invece rifugio nella teorizzazione filosofica nutrita di riferimenti classici. Cfr. D. Cantimori, Le idee religiose del Cinquecento, la storiografia, in Storia della letteratu1.i italiai:a. Il Seicemo, Milano 1967, pp. 61-4. " Donato Giannotri, Della repubblica fiorentina, in Opere politiche cir., I, p. 188. "Ibid., p. 191.
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cisa dai costumi della città. Il ragionamento di Giannotti parte dal problema della miglior forma di governo e dalla valutazione delle qualità che la città deve possedere per poter accogliere e conservare la miglior costituzione politica. Sul problema della miglior forma di governo, la risposta di Giannotti è, come ho sottolineato, in favore del governo misto, perché più atto a soddisfare le aspirazioni dei nobili, dei mediocri e dei cittadini comuni. Ogni gruppo ha una sua passione o umore distintivo: i grandi vogliono dominare, i mediocri desiderano la libertà e la partecipazione agli onori pubblici, i cittadini comuni e i più poveri cercano solo la libertà e vogliono che le leggi li proteggano dagli arbitri dei grandin. Questi umori sono presenti in ogni città, seppur con diversa intensità e proporzione. Poiché la repubblica è, per Giannotti, «modo» o «regola» o «ordinamento degli abitanti della città», il compito principale della politica sarà quello di trovare la giusta moderazione dei diversi umori che formano la città44 • Come l'arte dello stato, la politica deve introdurre ordine, dare una direzione alle passioni; ma mentre l'una vuole creare un'armonia cercando di soddisfare tutti gli umori, l'altra soddisfa solo una parte di essi. Mentre lo stato dei Medici traeva la sua forza dalla capacità di soddisfare quasi esclusivamente i grandi, la repubblica deve far sì che la città sia la città di tutti, che nessuna parte sia costretta a servire un'altra. Perché la città, ricorda Giannetti, vuol dire «una congregazione civile d'uomini liberi»';. Tanto le tirannidi quanto le repubbliche hanno bisogno di lealtà. La differenza, come sottolinea Giannetti, consiste nel fatto che la tirannide costruisce la propria lealtà distribuendo favori in modo selettivo e cercando di pacificare i cittadini comuni attraverso la civilità e la benevolenza' 6 • La repubblica deve generare una lealtà più estesa e profonda della tirannide perché maggiori e più frequenti sono le minacce, interne ed esterne, che deve affrontare. È dunque di vitale importanza che i cittadini siano pronti a difenderla con devozione e che la amino al punto da essere pronti a proteggerla come se fosse un loro bene privato pur rimanendo un bene pubblico' 7• '' «I poveri non si curano di comandare; ma, temendo l'insolenzia de' grandi, non vorriano ubbidire se non a chi sanza distinzione a tutti comanda, cioè alle leg 0 i; e però basta loro essere liberi, essendo quello libero che solamente alle leggi ubbidisce», ibid., p. 197. " •Questo modo o vero regola è quello che noi chiamiamo republica; la quale è una certa istituzione o vero ordinazione degli abitatori della città», ibid., p. 193. "lbid., p. 199. "Jbid., p. 219. "Jb,d., pp. 219-20.
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Dal punto di vista della lealtà, la repubblica aveva dunque uno svantaggio grave nei confronti dello stato. Mentre il signore non deve far altro che incoraggiare l'attaccamento naturale degli uomini a ciò che appartiene loro individualmente, la repubblica deve generare, contro le inclinazioni naturali, l'attaccamento ad un bene pubblico. Il compito della repubblica è reso ancora più difficile dal fatto che, come era ormai convinzione comune, il desiderio di vera gloria era a questo punto estinto. Se i grandi avessero ancora desiderio di gloria, commentava Giannotti, la repubblica sarebbe ancora viva. Ma invece di cercare il bene della patria e voler essere reputati come uomini saggi e valenti, i grandi cercarono solo il potere e la falsa gloria. La loro simpatia nei confronti della tirannide fu la conseguenza della brama di potere. Nulla sembrava ad essi più desiderabile che essere ammessi nella cerchia degli amici del tiranno, camminargli a fianco, parlargli o sedere ai suoi banchetti. Anche se tutto questo non era né gloria, né potere, ma piuttosto servitù, restava il fatto che la repubblica non aveva nulla di simile da offrire. Uomini così corrotti potevano sodddisfare le loro passioni solo nella tirannide. Per quanto difficile, la sfida con l'arte dello stato non poteva essere evitata. Rimpiangere l'antica virtù serviva a poco e ignorare le passioni reali degli uomini serviva ancora a meno. La sola strada da percorrere era quella della revisione della filosofia civile per elaborare una costituzione politica capace di neutralizzare, quando non poteva soddisfare, gli umori perniciosi al bene comune. Le ultime due repubbliche fiorentine, spiega Giannotti, non seppero garantire la libertà e per questo non poterono contare sull'appoggio dei cittadini. Il potere era in realtà ristretto nelle mani di pochi e i magistrati erano arbitri delle leggi, che non erano affatto troppo «larghe», ma troppo «strette»; non si può infatti chiamare popolare una repubblica dove pochi magistrati avevano di fatto il controllo assoluto sulla vita e sulla proprietà dei cittadini e decidevano degli affari pubblici. Il persistere di poteri privati sulle istituzioni pubbliche e l'arbitrio dei magistrati portarono alla perdita di prestigio delle magistrature cittadine. Quando un cittadino terminava il suo mandato, la sua reputazione era largamente compromessa. Mentre a Venezia le cariche pubbliche davano prestigio e onore, osserva Giannotti, a Firenze erano fonte di vergogna. Chi aspirava a veri onori pubblici era quindi ostile alla repubblica e guardava con favore al cambiamento di regime. La repubblica del 1527-30 aveva scontentato tutti. Ma il fallimento più serio era quello nei confronti dei «grandi», i veri arbitri, nel bene e nel male, della vita politica a Firenze. Anche se avevano molte responsabilità 144
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per il crollo della repubblica, rimanevano, nell'analisi di Giannotti, la sola forza capace di restaurare la libertà, come avvenne nel 1494 e nel 1527. Bisognava allora convincere i grandi che essi non avevano nulla da temere dalla restaurazione del «vivere universale e politico»'8• A condizione che fosse ben temperato, il «vivere politico» poteva rispondere alle loro esigenze, e a quelle delle altre componenti, meglio del regime mediceo. Della repubblica fiorentina è dunque uno sforzo per cercare una risposta alla sconfitta della repubblica, all'interno della tradizione della filosofia civile. Per evitare gli errori del passato, sottolinea Giannotti, bisogna istituire una repubblica mista con una prevalenza dell'elemento popolare. Se tutte le componenti della repubblica hanno il medesimo peso, come vuole Polibio, ognuna di esse cercherà di imporsi sulle altre creando uno stato di continua instabilità. Ma non è neppure possibile dissolvere i diversi elementi in un nuovo insieme. La soluzione migliore è assegnare un ruolo prevalente ad una delle diverse componenti, a condizione che essa offra garanzie che non userà la propria prevalenza per distruggere la libertà della città. E il solo gruppo al quale può essere affidata la tutela della libertà, conclude Giannotti sulle orme di Machiavelli, è il popolo. La tesi di Giannotti riprendeva idee che circolavano a Firenze e nelle altre repubbliche toscane. Un anno prima della composizione della Repubblica fiorentina, Luigi Alamanni aveva infatti sottolineato che nell'antichità i poveri avevano istituito le repubbliche e abbattuto le tirannidi perché si erano resi conto che senza la difesa delle leggi i ricchi li avrebbero ridotti in uno stato peggiore di quello delle bestie'9• Nel 1533 Giovanni Guidiccioni aveva indicato nei nobili e nei ricchi la causa principale della decadenza della repubblica di Lucca. Non contenti degli onori e delle ricchezze, i ricchi insolenti volevano imporre un dominio arbitrario. Perché superiori in ricchezza, volevano essere superiori in tutto. Ma come aveva detto Aristotele, il «gran moderatore del vivere politico», la repubblica si conserva solo fin quando i cittadini accettano l'eguaglianza civile e moderano i loro appetiti. Il più sicuro fondamento della repubblica sono dunque i poveri perché sono felici di vivere in pace sotto leggi uguali;0• L'esempio più efficace dell'interpretazione aristocratica della repubblica si trova invece in Francesco Guicciardini, che aveva sottoli-
"Ibid., p. 214. " Orazione di Lui6 i Alamanni alla milizia fiorentina cit., pp. 3-4. "' Orazione di Giovanni Guidiccioni alla Repubblica di Lucca, in Orazioni politiche del Cinquecento cit., p. 33.
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neato a più riprese che i grandi, infinitamente più saggi e più esperti negli affari pubblici, devono avere un ruolo prioritario. Per confutare le idee dei sostenitori della repubblica «stretta» o aristocratica, Giannotti si serve in primo luogo dell'argomento ciceroniano della correlazione delle virtù. Come quattro sorelle, scrive, le virtù vanno insieme; chi ne possiede una possiede probabilmente anche le altre. Poiché i cittadini comuni si distinguono per la loro moderazione e per la loro obbedienza alle regole del vivere civile, è lecito pensare che essi siano anche prudenti, e quindi idonei a deliberare sugli affari pubblici. I «grandi», al contrario, sono dominati da un'estrema ambizione che perverte la loro capacità di conoscere la verità e dare giudizi utili per il bene della città. Inoltre, e su questo punto Giannotti si affida direttamente alla Politica di Aristotele, i cittadini comuni, che sono più numerosi dei grandi, offrono un aggregato superiore di prudenza. Ma l'argomento fondamentale è quello del ruolo educativo dell'alternanza nelle cariche pubbliche, tratto anch'esso dalla Politica. Per governare bene bisogna prima imparare ad obbedire; i cittadini, abituati ad obbedire alle leggi e ai magistrati, hanno più titoli a governare dei nobili, usi solo a comandare e inclini a porsi al di sopra delle leggi e dei magistrati. La loro educazione e il loro modo di vita li rendono insolenti, e per questo rappresentano una minaccia costante per la libertà della città. Ripetendo quasi alla lettera le parole di Machiavelli, Giannotti conclude il suo argomento sottolineando che i «grandi», per la loro smodata brama di comando, sono i naturali nemici della libertà, mentre il popolo ne è il vero guardiano. I grandi, scrive, «desiderando comandare, non solamente non conferiscono al bene comune, ma lo distruggono: perché chi vuole comandare, vuole che gli altri siano servi, ed egli solo esser libero; e chi vuole avere gli uomini servi, vuole avere in potere suo la roba, la vita, l'onore degli altri, per poterne a suo piacere disporre»". I cittadini, al contrario, «desiderando vivere liberi» vogliono il bene comune, che poi non è altro che la giustizia e la libertà civile: poter godere delle legittime proprietà, disporre della propria vita, non temere per il proprio onore. Il ragionamento di Giannotti ruota, come si vede, attorno alla concezione della respublica come comunità di individui che vivono insieme sotto il governo della legge. Ogni cittadino può vivere sicuro senza timore di essere privato delle sue proprietà o offeso, fin quando la giustizia è assicurata a tutti e i magistrati sono al servizio delle leggi. Vivere sotto il governo della legge e di magistrati integri è un bene comune "Giannotti, Della repubblica fiorentina cit., p. 274.
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che permette a ciascun individuo di godere dei propri beni privati, primi fra tutti la vita, la proprietà e l'onore. La città, per Giannotti, è quindi un «bene pubblico», nel senso che è un bene che appartiene a tutti e a nessuno e permette a ciascuno di godere dei propri beni privati. Se il bene pubblico è corrotto, nel senso che alcuni individui riescono ad imporre il proprio interesse contro le leggi e a dominare sui magistrati, gli altri cittadini diventano loro servi; in questo caso non si può più parlare di città, perché città vuol dire, scrive Giannotti, una congregazione di uomini liberi istituita per il «ben vivere» degli abitanti. Una città in cui i grandi possono soddisfare i loro interessi contro il bene comune è invece una compagine di padroni e di servi, istituita per soddisfare i capricci di chi domina52 • Viene da chiedersi se le idee di Giannotti sul ruolo predominante del popolo, nel suo schema di repubblica bene ordinata, siano coerenti con l'intento di persuadere i grandi di Firenze a mettere da parte la loro ostilità nei confronti di una vita «libera e popolare». La risposta alle esigenze dei grandi avrebbe dovuto essere il senato, il Collegio (un corpo di consiglieri) e il gonfaloniere a vita, istituzioni di grande prestigio che potevano soddisfare il desiderio di gloria dei grandi. Il senato, in modo particolare, avrebbe offerto ai grandi il modo di mostrare la loro saggezza e la loro competenza nel governo della cosa pubblica, ottenendo in cambio meritati onori. Come egli stesso riconosceva, il suo argomento partiva dal presupposto che i «grandi» desiderassero la vera gloria che viene dal servire la repubblica più che la falsa superiorità che viene dal potere e dalle ricchezze. Si trattava, lo dimostrarono i fatti, di un'ipotesi ottimistica. Una volta istituita, confidava Giannetti, la repubblica avrebbe avuto la forza di contrastare ogni tendenza tirannica, in quanto qualsiasi componente della città che avesse voluto imporre il suo dominio sarebbe stata neutralizzata dalle altre. Gli umori maligni non sarebbero certo scomparsi, ma potevano essere sconfitti con le buone istituzioni e i buoni costumi. Amata dai cittadini, difesa dalla milizias3, affidata ai giovani, una repubblica bene ordinata sarebbe un ostacolo formidabile contro i nemici interni ed esterni. Con un entusiasmo che non poteva "!bid. " Secondo Giannetti l'istituzione della milizia civica è il fondamento del governo della legge e della libertà della città: «L'istituzione della milizia vuol dire regolare gli uomini, e renderli atti al potere difendere la patria da gli assalti esterni e dalle alterazioni intrinsichr, e porre freno a' licenziosi: li quali è neciessario che ancora essi si regolino, vedendo per virtù della ordinanzia ridotti gli uomini ad equalità, né essere autorità in persona, fuori che in quelli a chi è dato dalle leggi», Giannetti, Disco:so di armare la città di Firenze fatto dinanzi alli mag.ci si_Jnori e go·:faloniere di gi;estizia l'anno 1529 cit., p. 170. 147
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essere peggio riposto, Giannotti indulgeva addirittura al sogno di una repubblica fiorentina capace di irrùtare la grandezza romana5'. Era in fondo una propaggine della fede machiavelliana e umanistica sulla capacità di trasformare, per mezzo della politica, l'identità morale della città e guidarla verso la libertà e verso la gloria. Nonostante la sua diretta, e drammatica, esperienza politica Giannotti aveva dell'epoca un'opinione opposta a quella di molti suoi contemporanei, primo fra tutti Guicciardini, che avevano riconosciuto l'impossibilità della politica in un mondo dominato dalla corruzione e dalle basse ambizioni. Anche Giannotti vedeva la corruzione, ma non per questo volle abbandonare la politica per l'arte dello stato. Riteneva ancora possibile una transizione dallo stato dei Medici alla libertà, fondata su istituzioni ben temperate frutto della sapienza politica nella sua espressione più genuina. Riconosceva che un compito simile poteva essere realizzato solo da un uomo devoto alla libertà, desideroso di vera gloria, esperto della storia e della realtà della città, capace, infine, di affrontare qualsiasi sfida. Il protagonista della restaurazione di una repubblica bene ordinata poteva essere solo l'eroe politico della tradizione repubblicana. Dopo Machiavelli, non bastava però invocare un grande politico. Bisognava prendere posizione su quanto Machiavelli aveva scritto nei Discorsi sulla possibilità di restaurare il vivere politico per opera di un cittadino che conquista un potere straordinario con mezzi illeciti e usi poi bene quel potere mal conquistato. Un uomo che conquisti un potere assoluto con la violenza, osservava Giannotti, non è disposto ad abbandonare il suo potere, anche se la sua intenzione era conquistare il potere per restaurare il vivere politico. Un tiranno che, come Silla, si ritiri volontariamente dal potere, è un caso unico. Una volta raggiunto, gli uomini non lasciano il potere assoluto. Ugualmente improbabile, d'altra parte, è l'ipotesi di una transizione guidata da un cittadino che abbia ottenuto un potere assoluto senza ricorrere alla violenza o alla frode. Né è pensabile una restaurazione della libertà ottenuta semplicemente con l'uccisione del tiranno. Machiavelli, osservava Giannotti? ha_ sp~egato nel modo più chiaro possibile i rischi e i limiti delle cosp1raz1om. Restava solo l'ipotesi di una transizione diretta da un uomo politico nel senso classico, ovvero un principe legittimo, come fu Soderini " «E se la fortuna concedesse a questa Repubblica con le sue armi armata, una sola vittoria; acquisterebbe la nostra Città canta gloria e riputazione, che toccherebbe il cielo: e no saria maraviglia alcuna se Firenze diventasse un'altra Roma, essendo il subietto, per la frequenza e la natura degli abitatori, e fortezza del sico, d'uno imperio grandissimo capace», Id., Della repubblica fiorentina cit., p. 361.
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dal 1502 al 1512. Quando fu eletto gonfaloniere, Sederini poteva contare su un vasto consenso, che gli avrebbe permesso di introdurre le riforme necessarie a consolidare la repubblica. Fallì perché era impreparato ad un simile compito; era un uomo di straordinaria rettitudine ma non si considerò mai principe di una repubblica e perse quindi l'occasione propizia. Se Sederini può essere scusato, un futuro principe della repubblica, che compia lo stesso errore, non può esserlo. Come sottolinea nel Discorso sopra il riordinare la repubblica di Siena, la riforma della repubblica deve essere intrapresa subito, quando gli entusiasmi per la riconquista della libertà sono più forti degli umori maligni. Più è ritardata, più gli umori contrari alla libertà si rafforzano rendendone impossibile l'esecuzione. Per questo, molti riformatori rinunciano, scoraggiati dalla difficoltà dell'impresa5;. Per riordinare una città abituata a vivere sotto il tiranno, non bastano le parole di un cittadino saggio: è necessaria o un'autorità straordinaria come quella carismatica di Savonarola o la forza delle armi. Questa volta Giannetti accetta le idee del suo maestro Machiavelli. Riconosceva che la servitù corrompe fin nell'intimo la fibra morale della città e che per sradicarla erano dunque necessari trattamenti che ripugnano la coscienza di un vero uomo politico. Eppure, continuava, era ancora il tempo della politica. Rimase ostinatamente leale ai valori e al linguaggio della filosofia civile e continuò ad affermare fino alla fine il suo attaccamento agli ideali della libertà, anche quando molti repubblicani assumevano posizioni più accomodanti. Un suo dialogo del 1546 ci offre un ritratto interessante degli umori politici dei repubblicani della metà del secolo. Il protagonista, insieme allo stesso Giannotti, è Michelangelo Buonarroti, e il tema della disputa è uno dei luoghi classici del pensiero politico fiorentino, ovvero se sia da approvare la scelta di Dante di collocare i tirannicidi Bruto e Cassio nel fondo dell'inferno 56 • Ripetendo il tradizionale argomento repubblicano, Giannetti sottolinea che Dante si rese responsabile di un grave errore da attribuire, nell'ipotesi più benevola, a mera ignoranza: nei fatti, Cesare era un tiranno e chi uccide il tiranno per restaurare la libertà è universalmente onorato e celebrato. Bruto e Cassio avrebbero dovuto quindi trovar posto nel luogo più alto del paradiso' 7•
" Id., Discorso sopra il riordinare la repubblica di Siena cit., p. 446. "Id., Dialogi dei giorni che Da;zte consumò nel cercare l'Inferno e 'l Purgatorio, in Dialogi di Don..;to Giannotti, a cura di D. Redig de Campos, Firenze 1939. "Jb:·d., pp. 88-90.
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Michelangelo reagisce alle parole di Giannotti con uno sdegno che non ci si sarebbe aspettati in un vecchio repubblicano. Dante, ribatte, odiava la tirannide, come mostrano il XII canto dell'Inferno e l'omaggio che tributa a Catone. Mise però Bruto e Cassio all'inferno perché tradirono la maestà suprema, allora rappresentata in Roma da Cesare. Scelse Bruto e Cassio perché aveva bisogno di nomi famosi, ma non intendeva affatto giustificare la tirannide. E aggiungeva che opporre radicalmente libertà e tirannide, come face, ano i repubblicani, era una semplificazione eccessiva: nessuno può essere certo che dall'uccisione del tiranno nasca la libertà. In certi casi, era il messaggio politico di Michelangelo, è più savio accomodarsi alla tirannide, sperando che un giorno venga da essa un qualche bene, anziché cercare di restaurare la libertà con la violenza; 8• Il dialogo si chiude con Giannotti che si offre di accompagnare a casa lo stizzito Michelangelo. Un repubblicano intransigente e uno più conciliante potevano rimanere buoni amici. Con l'allontanarsi delle speranze di restaurazione repubblicana, le fiere divisioni ideologiche perdevano significato. La repubblica bene ordinata restava tuttavia l'ideale di Giannotti. E la ragione della sua lealtà era insieme la più semplice e la più forte: la repubblica, scriveva nella Repubblica fiorentina, è la forma di governo «sotto il quale ciascuno, così povero come ricco, nobile come ignobile, possa la vita che Dio e la natura li dona, felicemente passare» 5'. Giannotti fu una delle ultime voci del pensiero repubblicano fiorentino. Verso la seconda metà del Cinquecento, il linguaggio politico repubblicano sopravviveva a Venezia, una delle poche repubbliche rimaste, nonostante le difficoltà economiche e le sconfitte militari che avevano diminuito il suo prestigio politico e economico''°. Fu proprio un nobile veneziano, Paolo Paruta, a comporre una tarda celebrazione della politica come filosofia civile61 • Come spiega all'inizio dell'opera, intitolata significativamente Della perfettione della vita politica, il lavoro voleva essere una critica del modo prevalente di scrivere di filosofia civile. L'abbondante letteratura che ha per scopo di istruire principi e cittadini, osserva uno dei partecipanti al dialogo, non ha affatto aumentato la nostra conoscenza della «facultà civile»; non abbiamo
"Ibid., pp. 96-7. "Giannetti, Della repubblica fiorent'"'a cic., p. 192. " Cfr. W. J. Bouwsma, Venice and the Defence of Rep, blican Liberty, Berkeley - Los Angeles 1968, pp. 95-161. "Sulla carriera politica di Paruta cfr., ibid., pp. 199-201, 230-91.
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fatto alcun passo in avanti rispetto agli antichi e siamo ben lontani dal possedere una comprensione sufficiente della politica'''. Il libro ripercorre i luoghi tradizionali dei dialoghi politici umanistici, a partire dalla discussione sulla vita otiosa e la vita contemplativa, che si risolve con un'accorata perorazione della superiorità di quest'ultima. La vita dell'uomo, fa dire Paruta ad uno dei partecipanti al dialogo, è attività, e fra tutte le attività la più perfetta è quella che ha per fine il bene di molti. L'uomo che si dedica al servizio della repubblica persegue il tipo di vita più vero e nobile 63 • L'argomento di Paruta a difesa della politica si basa su ragioni morali e ragioni prudenziali. Da un lato, sottolinea che nella repubblica corrotta non è possibile vivere secondo la virtù, che è il vero fine dell'uomo, e quindi dobbiamo dedicarci al servizio del bene comune; dall'altro, osserva che lasciare il governo della repubblica ai corrotti e agli incompetenti significherebbe condannarla alla distruzione. Per questo, l'uomo prudente e saggio serve il bene comune con tutte le sue energie. Per quanto oneroso e difficile, non possiamo astenerci dalla politica, ma dobbiamo servire la repubblica per dovere e per interesse. Per dovere, perché «troppo grande è l'obbligo che habbiamo alla patria» 64 ; per interesse, perché fin quando la nostra patria resta libera possiamo godere tranquillamente le nostre proprietà e i nostri affetti domestici e coltivare la virtù. Siamo legati alla vita civile da vincoli di natura e di scelta; pretendere di scinderli significherebbe decadere al rango delle bestie. Nella prima parte del dialogo, Paruta si preoccupa di rispondere alla tesi di ispirazione stoica secondo cui servire la patria è anch'essa una forma di schiavitù che imponiamo a noi stessi difendendo il valore degli affetti e delle passioni. Ogni legame, come l'amicizia e l'amore, è una forma di servitù. Ma da questo non si può concludere che dobbiamo vivere una vita priva di affetti e di passioni. Dobbiamo piuttosto imparare a governare le nostre passioni con la pratica della virtù. Il nostro esempio deve essere Ulisse, il simbolo della saggezza, che accetta di bere dalla coppa che Circe gli offre, assaggia i piaceri, prova gli affetti, ma poi, consigliato da Mercurio, simbolo della prudenza, resiste alle passioni, sa porsi un limite e non si abbassa al livello delle bestie. La politica può essere paragonata al fuoco: dobbiamo sa"Paolo Panna, Dclla perfettio,:~ ddla 1·;·ta politica libri tre. Ne' -1u.li si ragio,.a de/;, virtù norali, e di tutto ciò che s'apparcie·L alla felicità c.: ·ile, Venezia 1582. " «Si dona ad una vera e felicisoima vita», ibid., p. 7. Il tema della città come comunità ordinata finalizzata alla vita virtuosa è sottolineato anche da Contarini in Della re~u'.·blica e magistrati di Venezia, Venezia 1678, pp. 17-8. ' "PanJta, Della perfetti:ne della -i,· ··a politica cit., p. 9. 151
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per stare alla giusta distanza: né troppo lontano, per non diventare freddi e pusillanimi; né troppo vicino, per non farci bruciare dalla brama degli onori e della gloria. L'obiezione più impegnativa che Paruta deve controbattere è l' argomento che una vita dedicata all'impegno pubblico è una vita più infelice della vita solitaria, fatta di studi e di meditazione. Se ne fa portavoce il giovane Francesco Morlino, a indicare che queste idee sono l'opinione corrente del tempo, in contrasto con i nobili ideali delle generazioni passate65. La risposta di Paruta, affidata al vecchio e autorevole ambasciatore Suriano, si basa ancora una volta sull'idea che la vita virtuosa, alla quale l'uomo è chiamato, è fatta di ragione e di passioni. Sospeso fra il ·cielo e la terra, l'uomo non puç> illudersi di diventare una creatura perfettamente razionale incontaminata dalle passioni, né deve scendere al livello delle bestie, abbandonando la ragione per gli istinti e gli appetiti brutali. La virtù vuole entrambe, la ragione e le passioni, perché non è distruzione, bensì moderazione delle passioni. La vera felicità è «felicità civile», soddisfazione de!ìa ragione e dei sensi. Vivendo nella città, possiamo soddisfare meglio i nostri bisogni materiali e affettivi e soprattutto possiamo coltivare la virtù. Se rutti gli uomini seguissero l'esempio di Anassagora e preferissero la vita solitaria alla vita civile, il mondo non avrebbe gli ornamenti che rendono la vita piacevole, il disordine regnerebbe ovunque, e gli uomini sarebbero ancora simili alle bestie. Dobbiamo quindi essere profondamente grati ai fondatori delle comunità politiche, che insegnarono agli uomini ad obbedire alle leggi e a coltivare le arti, e dobbiamo essere soprattutto grati a chi ha liberato il mondo dall'orrore della tirannide. Benché meno perfetta, la felicità civile è quella che meglio si adatta all'uomo. Con la pratica della virtù, infine, ci prepariamo alla beatitudine, all'eterna e perfetta felicità che ci aspetta nella vita futura. Paruta non si limita a difendere la dignità morale della politica, ma ne rivendica anche il valore filosofico. La scienza della vita ci·, ile e virtuosa, ovvero la politica nella sua forma più genuina, era giustamente definita da Cicerone «vera filosofia» 66 • «Filosofo» era detto solo chi conosceva e praticava la dottrina dei buoni costumi e Socrate, giustamente, chiamava Sparta «casa della filosofia», perché ai cittadini si insegnava a vivere secondo la virtù civile. Se non viviamo in una città libera e bene ordinata, è il messaggio di Paruta in difesa dell'impegno " «Questa maniera di vita, la quale voi con nome assai conveniente, politica, chiamar solete ... », ibid., p. 22 . .. Jb"d., p. 100.
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per il bene comune, non possiamo sperare di praticare la virtù che sola conduce alla vera felicità. Ne consegue che se vogliamo davvero vivere felici dobbiamo dedicare le nostre migliori energie a proteggere la libertà della città. Come spiega monsignor Grimano, quando un uomo è costretto a servire il volere di altri, cessa non solo di essere felice ma di essere una persona umana. Senza la libertà tutti gli altri beni perdono di valore67 • Paruta ripete la sua concezione della politica come arte della vita civile anche nei Discorsi politici, pubblicati nel 1599. Meno filosofici della Perfettione, che è in larga misura una difesa delle istituzioni della Repubblica di Venezia, i Discorsi sono in larga parte una giustificazione della sua politica, quasi una replica polemica alla celebrazione di Roma fatta da Machiavelli nei suoi Discorsi68 • Se il fine della città è la vita virtuosa dei cittadini, osserva Paruta, allora Roma non merita affatto di essere lodata come repubblica perfetta. Le sue istituzioni e le sue leggi erano infatti modellate in vista dell'espansione e della conquista. Nessuna legge incoraggiava i cittadini ad essere temperanti, giusti e a coltivare le altre virtù che sono alla base della felicità civile. Come scriveva Aristotele, la felicità civile è il premio che riceve chi agisce bene con i propri concittadini in tempo di pace, non un riconoscimento delle imprese militari contro il nemico. La repubblica romana negava dunque in pratica il fine ultimo di ogni buona repubblica69. Se dovessimo giudicare sulla base della giustizia e della concordia, dovremmo concludere che Roma non è affatto un modello da seguire. Ma la giustizia e la concordia, osserva Paruta in un altro discorso, non sono i soli criteri per valutare la condotta delle repubbliche. Accanto alla giustizia, ci sono i «termini di stato». Un'azione che appare ripugnante, se esaminata con il criterio della giustizia, può essere giustificabile e persino lodevole, se considerata dal punto di vista dello stato. Soprattutto in politica estera, il criterio da seguire non deve essere la giustizia, ma l'interesse dello stato. Come era del resto pratica costante della repubblica da lui tanto esaltata, la politica doveva cedere alla ragion di stato70 • Non era però facile conciliare le regole della ragion di stato con i comandi di Dio. Riflettendo su questo tema durante una
"Ibid., pp. 285-6. "Paolo Paruca, Discorsi politici. Ne i quali si considerano diversi fatti illustri, e memorabili di princip~ e di repubbliche antiche, e moderne, Venezia 1599. "Ibid., «Disurso primo: Quale fusse la vera, e propria forma del governo, co'l quale si resse la Repubblica di Roma; e s'ella poteva insieme havere il Popolo armato,e essere meglio ordinata nelle cose civili». "Ibid., II, discorso II.
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spinosa missione diplomatica presso il papa, Paruta concludeva che non si possono servire due padroni, Dio e il mondo, e dovendo scegliere bisogna optare per le regole del mondo, anche se contraddicono l'insegnamento cristiano. Non serve confondere le cose usando un «certo vano nome di ragion di stato»; bisogna riconoscere che i principi conservano i loro stati disobbedendo ai comandi di Dio' 1• La vita politica non conduce affatto alla felicità, come aveva sostenuto nella Perfettione. Per non pregiudicare, oltre alla felicità terrena, anche quella eterna, bisognerebbe forse ritirarsi da essa. Eppure troppi vincoli ci impediscono di ritirarci dalla vita civile, in primo luogo i doveri che abbiamo verso la patria, verso i figli e la famiglia, verso le nostre proprietà. O forse siamo troppo deboli per rescindere i vincoli sociali. Quale che sia la ragione, dobbiamo fare la nostra parte: aver cura della famiglia, amministrare saggiamente le proprietà, servire la patria. Solo Dio, con la sua saggezza e la sua benevolenza, potrà far sì che, servendo la nostra città terrena, ci prepariamo anche per quella eterna.
"Ibid., Soliloquio, p. 10. 154
VI.
Il trionfo della ragion di stato
Man mano che il secolo si avviava alla fine, il linguaggio della politica come filosofia civile mostrava segni sempre più evidenti di debolezza. La transizione dall'egemonia della filosofia civile a quella della rabion di stato si manifestò in modi diversi: il linguaggio dell'arte dello stato penetrò in misura sempre più rilevante nei libri dei consigli al principe; i dotti considerarono il vecchio linguaggio della politica come un linguaggio praticamente irrilevante; infine nacquero i nuovi concetti e i nuovi idiomi che formarono il linguaggio della politica come ragion di stato. Per gli scrittori politici del Seicento, la ragion di stato era un nuovo concetto che doveu essere definito rispetto al già familiare concetto di politica. Alcuni considerarono la ragion di stato l'opposto o la degenerazione delb politica e si opposero all'identificazione dei due concetti. Ma con il passare degli anni la distinzione fra politica e ragione di stato venne sempre più assottigliandosi fino a scomparire. La resistenza contro la ragione di stato sembrò più un'estrema resistenza di sopravvissuti che uno scontro fra due ideologie ugualmente vive e vitali. Un esempio dell'ascesa del linguaggio dell'arte dello stato è la nuova ondata di libri di consigli al principe che entrò in circolazione verso la metà del Cinquecento, soprattutto i testi dedicati a Cosimo de' Medici duca di Firenze'. In teoria, sottolinea Paolo Rosello, nel Ritratto
del vero governo del principe, il principe dovrebbe cercare di beneficiare i vecchi partigiani e tranquillizzare i nemici. Se questo non è possibile, può cercare partigiani più leali fra i suoi vecchi nemici cambiando il loro risentimento in devozione con l'appropriato uso di favori. Come Machiavelli aveva insegnato, gli amici hanno maggiori aspetta' Lucio Paolo Rosello, Il ri:ratco d. 1 ~-ero governo del pr'.· c;ne dall'essempio vh·, ,!:l gra:z Cosimo de' Medici, Venezia 1552, p. 156.
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tive e diventano ostili, se il principe non soddisfa le loro richieste. La politica di Cosimo era di unificare i sudditi attraverso una saggia distribuzione di benefici, a vantaggio dei cittadini che si erano distinti per la loro virtù e la loro competenza nell'amministrazione pubblica e in questo modo si era guadagnato la reputazione di liberalità, senza cadere nell'estremo della prodigalità. Seguendo ancora una volta l'esempio di Cosimo, il principe deve evitare tanto la crudeltà quanto la troppa clemenza; deve giudicare con «severa giustizia» i colpevoli e con clemenza gli altri. Più di ogni altra cosa deve evitare !'«infamia» di crudeltà, che lo renderebbe odioso tanto agli amici quanto ai nemici. Come direbbero i filosofi morali, il principe deve usare la crudeltà con i pochi per terrorizzare gli altri 2• I precetti dell'arte dello stato, soprattutto l'insegnamento di Machiavelli, emergono anche nel dibattito se sia meglio per il principe essere temuto o essere amato. Fin quando il principe riesce a farsi temere, non ha nessuna ragione di preoccuparsi dell'odio dei sudditi 3• Coloro che credono che il principe sia molto più sicuro se affida il suo potere alla paura, anziché all'amore, sottolineano giustamente che mentre il ricordo dei benefici è debole, la paura non abbandona mai l'animo degli uomini. Ma è anche vero che uno che teme molti è esposto ad un pericolo maggiore dei molti che temono solo uno. La miglior linea di condotta è dunque combinare l'amore, ottenuto tramite favori, con un'eguale giustizia temperata dalla pietà. Quando il principe non offende, non si impadronisce delle proprietà e fa tutto con buone ragioni, i sudditi che vogliono vivere in pace e sicurezza lo ameranno di vero cuore•. I filosofi classici, sottolinea Rosello, avevano ragione a indicare le quattro virtù cardinali come guida del principe, perché sono le virtù, non le ricchezze, a dare reputazione5• Se il principe segue la prudenza, la temperanza, la giustizia e la fortezza, non può mai errare. Poiché le virtù sono strettamente legate l'una all'altra, bisogna possederle tutte e dalle virtù viene non solo la sicurezza dello stato ma anche la felicità6• Ricorrendo al linguaggio dell'umanesimo, Rosello chiude Il ritratto 'Ibid. ' «Pur che temuto sia, poco mi curo I De l'odio altrui, che non mi può dar noia», ibid., p.16a. 'Ibid., p. 19. ' «Ma questo splendore apparente, per mio parere poco solle,·a il Prencipe, anzi direi, che lampeggiano più chiaramente i Prencipi, i quali con singolari virtù si mostrano al loro popolo superiori, perché la virtù è di questa natura che sospende gli animi a riputare più che umano colui, nel quale veggono alcuni raggi insoliti di giudicio e di virtù», ibid., p. 25. • Ciò che assicura la felicità, scrive Rosello, è «il regnare con onestà, che è opera d'animo virtuoso», i!,id., p. 30.
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con una esortazione alla virtù, il più alto fine dell'uomo, il solo che avvicina a Dio. Il premio più grande per il buon principe non deve essere la gloria, che può portare alla tirannide, ma la buona coscienza e Dio è felice di premiare chi governa con giustizia e compassione'. Nella seconda metà del XVI secolo, i libri di consigli al principe assumono una nuova forma. Anziché presentare regole di condotta offrono raccolte di storie, episodi, esempi più o meno legati al tema del governo: uno stile più vicino a quello di Guicciardini che non a quello di Machiavelli. L'arte del goYerno consiste di decisioni concrete legate a situazioni specifiche; formulare regole generali di condotta è dunque inutile e può anche essere controproducente. Un esempio del nuovo approccio all'arte dello stato sono gli Avvedimenti civili di Giovan Francesco Lottini di Volterra, pubblicati nel 1574, dopo la sua morte, dal fratello Girolamc8. Reggere stati, spiega Lottini all'inizio del libro, significa prendere decisioni in circostanze così diverse l'una dall'altra che nessun governante può sperare di fare esperienza diretta di tutte le possibili situazioni e acquistare in tal modo una perfetta conoscenza dell'arte dello stato. Anziché prendere a modello la vita di un principe, o immaginare un principe ideale, Lettini ritiene che la strada migliore sia quella di raccogliere pensieri e opinioni da varie fonti. Poiché le regole dell'arte dello stato non hanno ordine, non può darsi un'«arte» del governo basata su regole generali, ma solo una sorta di «uso», o conoscenza pratica9• Tutte le scelte pratiche sono particolari e le regole generali sono rilevanti solo in quanto ci danno indicazioni su come agire nel caso particolare 1°. L'uomo di stato, che ha dovuto affrontare molte volte situazioni difficili, sa riconoscere i particolari che rendono ogni situazione diversa da altre simili. L'unico consiglio di carattere generale che può essere offerto è che, per conservare lo stato e governare bene, il principe deve affidarsi a buoni consiglieri e assicurare giustizia a tutti i sudditi". Fin a quando è giusto con tutti, il principe si pone al riparo dall'odio dei sudditi e si presenta come personificazione della giustizia. Se invece '«Il vero premio de' nostri meriti è la buona coscientia, la quale non può essere da invidia, né da altro vicio macchiata», ibid., p. 83. 'Giovan Francesco Lottini, Av:iedimenti civili, Firenze 1574. 'Jbid., n. 291, p. 129. " «Quando convenga saper di una cosa, che s'abbia da adoperare, o l'ane o l'uso, cerchisi pur di saper l'uso, perciocché alla fine ['operazioni sono de'paricolari, e tanto si cien conto de gli universali in sirnil caso, quanto e possono insegnarci a panicolarmente operare•, ibid., n. 293, p. 130. "Ibid., n. 6.
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trascura la giustizia e persegue il proprio interesse, corrompe il principato trasformandolo nel più detestabile potere privato. Il detto «il Principe sia la legge viva» 12 non significa solo che il principe ha il potere e l'intelligenza di fare le leggi, ma anche che deve essere l'esempio dell'obbedienza alle leggi. Tanto più il principe è assoluto, tanto più deve adoperarsi per perseguire la giustizia, perché i principati sono stati istituiti per il bene dei sudditi. Il famoso principio secondo cui la volontà del principe è legge non si riferisce ai capricci, ma a ciò che il principe deve volereu. Come il calzolaio non può dare alle scarpe la forma che vuole o usare la pelle a suo capriccio, ma deve considerare le caratteristiche e il bene del piede, così il principe deve fare leggi che si adattino alla natura dei sudditi e si propongano il loro bene. In caso contrario non si tratterebbe di leggi, ma di ordini e il principe sarebbe solo una persona con potere. Il principe stesso, del resto, deve, senza con questo diminuire la propria autorità, imporre anche a se stesso alcune leggi. Quando vedono che anche il principe obbedisce ad alcune leggi, i sudditi sono felici e considerano il principe come uno di loro 1'. Nonostante l'enfasi sulle leggi e sulla giustizia, Lettini raccomanda che il principe non esiti ad usare le regole dell'arte dello stato anche quando queste contravvengano ai principi della giustizia. Per quanto riguarda le leggi civili e criminali, scrive Lottini, il principe può e deve obbedire alle regole della giustizia e agire come guardiano delle leggi. Ma per quanto riguarda le leggi che concernono la conservazione dello stato, la giustizia può essere lasciata da parte. Se necessario alla conservazione dello stato, gli onori e gli uffici possono essere distribuiti ai partigiani del principe anche se ci sono citt,1dini che meritano di più. Soprattutto nella fase di consolidamento del regime, il principe deve cambiare «le leggi dello stato» per assicurarsi che il potere sia saldamente nelle mani sue e dei suoi amici15 • Una volta consolidato, lo stato assicurerà giustizia a tutti, ma la fondazione richiede atti di arbitraria discriminazione.
"lbid., n. 16, p. 9. " «Quando si dice, che la volontà del Principe è la leg~e, non si dice, quanto ad ogni cosa, che gl_i venga voglia di volere, ma quanto a quello, che dee v::,lere», ibid., n. 36. "lb1d., n. 20. " «Io parlo di quelle leggi con cui gli stati propriamente si mantengono, perciocché quanto alle leggi, che hanno rispetto particolare alle cose private, acciò che il traffico, e la conservazione si possa mantenere con giustizia, elle sono quasi le medesime per cutto. Ma le leggi dello stato son fatte solamente per quelle persone, che sono confidenti allo stato. Onde a tali solamente si danno i Magistrati, e le cose pubbliche in governo, ancor che vi fossero nella città de gli altri, i quali per havere miglior qualità meritassero di governare più di loro», ibid., n. 42.
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Un altro esempio del graduale affermarsi di un nuovo linguaggio della politica è il libro di Francesco Sansovino De governo de i regni et delle repubbliche così antiche come moderne, pubblicato nel 1561 16 • Nel «Proemio», Sansovino spiega che intende trattare di «una nuova Politica» seguendo l'esempio di Aristotele e di altri filosofi che hanno scritto di principi e di repubbliche. Il lettore non troverà tuttavia le usuali definizioni e suddivisioni che caratterizzano i trattati di politica, ma descrizioni di repubbliche e principati tanto antichi quanto moderni. La vera prudenza necessaria all'arte di governo richiede infatti la conoscenza degli stati, delle leggi, dei costumi dei popoli: Omero aveva visto giusto quando aveva scelto a simbolo di un uomo «eccellentissimo e astutissimo nelle cose de maneggi del mondo», non un filosofo, ma un viaggiatore che aveva conosciuto molti popoli. Le storie e le descrizioni contenute nel libro, spiega Sansovino, sono «utili e necessarie al vivere civile»; sei anni più tardi, nella nuova edizione, scrive che il libro contiene informazioni « vtili e necessarie ad ogni huomo civile e di stato» 17 • Si tratta di un dettaglio significativo, che indica che i nuovi libri sull'arte del governo non sono più indirizzati all'uomo civile, ma anche all'uomo di stato. Benché sia ancora presente, nel libro di Sanso, ino, il vecchio linguaggio della politica sopravvive come linguaggio dell'utopia privo di qualsiasi rilievo pratico. Dopo aver descritto le leggi, le istituzioni e i costumi di vari regni e repubbliche, Sansovino conclude il suo lavoro con un sunto de l'Utopia di Tommaso Moro, presentato come un cittadino di Londra dalla vita impeccabile, retta dalla giustizia e dalla religione, mosso a scrivere la sua opera dal disgusto per la corruzione dei suoi tempi: parlò di una repubblica felice, retta da ottime leggi, affinché gli uomini potessero imparare dalla sua finzione la vera maniera di vivere bene e felici. Da un libro come l'Utopia, che tratta dell' op timo statu reipublicae, gli «uomini» di stato non avevano molto da imparare. Ma si trattava solo di un'appendice che non altera il senso dell'opera. Come l'uomo di stato, così l' «uomo nobile» non aveva più bisogno di imparare le regole e il linguaggio della politica. Ne! trattato sul-
1'educazione dell'umanista senese Alessandro Piccolo mini, la politica, " Francesco Sansovino, Del gcverno de i rcg'li et delle repubbliche così antic.~~ c:.,me moderne libri XVfll. Ne' quali si cor:cengono i magistrati, gli offici, et gli or.lini proprij cl,e s'osse,-.,ano ne'predetti Principati. Dove si ha cognitio·.c di molte histor.'e part'colar~ utili e necessarie al viver civile, Venezia 1561. "Id., Del governo de reg,:i et delle repubbliche antiche et r,oderne libri XXI. Ne' qu ;/i si contengono diversi ordi.'li, magistrat~ leggi, costumi, historie, et cose notabili, che so'lo utili e necessarie ad ogni huomo àv:'le e di stato, Venezia 1567.
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annunciata come parte essenziale dell'opera accanto alla morale e all'economia, viene lasciata da parte 18• L'assenza di una trattazione della politica è ancora più sorprendente in quanto Piccolomini stesso afferma che vivere in una città ben governata è un'importante condizione per la felicità, che viene dal vivere secondo la virtù. Il fine delle leggi è sempre stato quello di moderare gli appetiti di quegli uomini che non sanno moderarsi da soli. Le leggi sono dunque surrogati della ragione, che obbligano gli uomini a vivere virtuosamente, anche se questa non è ancora la vita virtuosa che assicura la vera felicità. Più delle leggi, conta l'educazione che instilla abiti virtuosi e ci insegna a vivere bene. Il fine principale dei legislatori non deve dunque essere l'espansione e la conquista, ma rendere i cittadini buoni e prudenti 19 • Il libro termina con la trattazione dell'educazione morale ed economica, come se per vivere bene fosse sufficiente imparare a governare noi stessi e la casa. Piccolomini sottolinea che la felicità viene dalla vita attiva, ma trascura il fatto che componente essenziale della vita attiva è la politica. Nello schema della lnstitutione, la politica non trova invece posto: se la città è libera non dobbiamo fare altro che godere della libertà con la nostra famiglia; se la città è serva, meglio rimanere lontani dalla vita pubblica e ritirarci entro la sfera della vita privata e familiare. Le celebrazioni della nobiltà della politica continuarono durante tutto il Seicento, ma si trattava di ripetizioni di convenzionali temi aristotelici20. Il secolare principio dell'eccellenza della politica cominciava tuttavia a tramontare; gli stessi testi di Aristotele, che Leonardo Bruni e altri umanisti citavano per proclamare la superiorità della politica, venivano interpretati come affermazioni della superiorità, rispetto alla politica, dell'etica e della teologia. Nella traduzione italiana dell'Etica nicomachea, apparsa nel 1550 e dedicata al duca di Firenze Cosimo de' " Alessandro Piccolomini, De la institutione di tutta la vita de l'homo nato nobile e in città libera libri X in lingua toscana, Venezia 1542. Il sottotitolo recita: «Dove e paripateticamente e platonicamente, incorno a le cose de l'Echica, Iconomica, e parte de la Policiu, è raccolta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita di quello. Nelle successive edizioni il sottotitolo è modificato; cfr. Alessandro Piccolomini, Della istitutione morale. libri Xli, Venezia 1560. "Ibid., p. 2. " «Di tutte le scienze - scrive Felice Figliucci - e tra cucci i precetti, che a la mora! filosofia s'appartengono, e con li quali l'humana vita al ben fare s'indirizza, e si istituisce; non ha dubbio alcuno, che il più degno, e lato luogo quella ritiene, che Politica è detta, la quale intorno à li governi de le Republiche, e à le istituzioni de le Città consiste e si essercita [... ]», M. Felice Figliucci, De la :politica overo scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, Venezia 1583, p. 2. Cfr. in mento R. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell'età della controriforma, Milano-Napoli 1982, 2 voli., I, pp. 53-67.
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Medici, Bernardo Segni, ad esempio, assicura i lettori che le parole di Aristotele sull'eccellenza della politica devono essere considerate vere solo nell'ambito delle scienze pratiche. Poiché la politica riguarda il bene comune, essa è la più nobile fra le scienze pratiche, ma è meno nobile dell'etica e della metafisica, che ci aprono la strada verso la felicità contemplativa, il bene di gran lunga più eccellente e divina2 1• La politica ci promette una felicità soltanto pratica, e presuppone una città bene ordinata come la Gerusalemme celeste 22 • Il famoso passo che chiude l'Etica nicomachea sulla necessità di completare la trattazione cieli' etica con quella della politica, osserva Segni, è giusta se si riferisce alla felicità civile o pratica, ma se abbiamo, come dovremmo avere, soprattutto a cuore la felicità speculativa non c'è alcun bisogno di integrare l'etica con la politica23 • Aristotele, spiega Segni ai lettori, avrebbe potuto risparmiarsi la seccatura di scrivere la Politica e li esorta a dare ad essa un'importanza minore di quanto avevano fatto i commentatori e i traduttori umanisti. D'altra parte, nell'età di Cosimo, la politica era diventata di fatto superflua; non serviva né al principe, cui bastava la ragion di stato, né ai sudditi, che non avevano più la possibilità di partecipare alla vita pubblica. Irrilevante per la condotta degli affari di governo, espunta dall'educazione dell'uomo civile, priva del titolo di più nobile fra le scienze, la politica perse gradualmente la propria identità. Verso la fine del Cinquecento non era più chiaro che cosa la politica, e l'uomo politico,
" •E molto più desiderabil cosa il procacciare e l'acquistare la felicità a un popolo, et a una gente che non è a procacciarla e ad acquistarla a un solo. o a pochi. Questa conclusione sarebbbe certamente vera se la felicità, di che considera questa Filosofia, fosse solamente l'attiva; ma perché la felicità, di che si tratta in questi libri dell'Echica è anchora la speculativa, ed è quella, che dell'acciva è senza alcun dubbio più nobile: però dico l'Echica, che tratta nell'ultimo del bene, e della felicità speculativa, che da un sol huomo, o da pochi, e forse non da molti può esser partecipata, viene per questa sola cagione ad esser più eccellente dell'altre; parendo nel vero che con questo rispetto ella tr~assi in Filosofia sopranaturale e divina», L 'Ethica di Aristotile tradotta in l::ngua vulgare fiorentina et commentata per Bernardo Seg,. :, Firenze 1550, Proemio, p. 13. Il libro è dedicato ali' «illustrissimo ec eccellencissimo il signore Cosimo de' Medici, duca di Firenze signore et padre mio•. «Dicasi adunche (salvando il detto del Filosofo) il fine della dottrina morale essere forse maggiormente nella Politica in quanto alla felicità attiva; conciosia che molto più desiderabil cosa e più nobile è da stimarsi, che una Città incera la possa conseguire, che un solo. Et che la Città incera possa conseguirla è forse possibile, benché difficile, nella Repubblica occirna, siccome io ho detto. Ma non si dica già, che ella sia più nobil dell'Echica in quanto all'ulcima vera felicità contemplativa; la quale è il fine ulcimo, che l'Echica s'ha proposto: ed è quella, che può esser partecipata da un'solo, o da pochi, e non mai da molti, né da una incera Ciccà; perché solamente porrà ella essere partecipata da cucci nella celeste Hierusalem, nella quale li cittadini vi saranno perfectamence felici•, ibid., x, 8, p. 536. " «Perché invero la felicità speculativa sebbene è nell'uomo, ella v'è pure con quella ragione ch'egli è più che huomo: e ha la sua perfezione in questo trattato», ibid., X, 9, p. 545.
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propriamente fossero. Nel dialogo Il segretario, scritto da Giovan Battista Guarini nel 1594, è solo dopo una lunga discussione che i partecipanti trovano l'accordo su idee che erano state per secoli luoghi comuni del linguaggio politico: la politica non è speculazione sulla perfetta repubblica, ma concreta arte di governoi., distinta dall'economia, che comprende la retorica come sua componente fondamentale2'. Accanto alle vecchie idee ne emergono tuttavia delle nuove, che rivelano la consapevolezza del mutamento intellettuale in corso. Il linguaggio politico, osserva uno dei partecipanti, è oggi dominato dalla «servile necessità»=· e i principi si irritano contro chi parla di giustizia o di leggi che limitino il loro potere. Essi non si considerano più custodi della giustizia, ma personificazione della legge27 • Il politico non è più l'uomo civile sottoposto alle leggi come ogni altro cittadino, ma il principe che esige obbedienza e reverenza. Nel dialogo sopravvivono solo vaghi echi aristotelici, senza alcun riferimento al principio dell'alternanza di governo, alla inconciliabile opposizione fra governo politico e dispotismo o al governo della legge come condizione essenziale di ogni politia. La nuova concezione della politica è tuttavia presentata come la più sicura garanzia della libertà. Il principe, sottolinea Guarini nel Trattato della politica libertà, protegge la pace e la libertà meglio di magistrati elettivi, che restano in carica per brevi periodi e sono vulnerabili a pressioni di ogni natura. I magistrati delle repubbliche temono che, una volta deposta la carica, i cittadini che essi hanno punito possano vendicarsi, con grave pregiudizio per l'autorità delle leggi. Il principe, che non ha nulla da temere dai sudditi, è invece in una condizione più favorevole per tutelare le leggi e amministrare la giustizia. Come mostra ampiamente la storia delle repubbliche italiane, il governo di un principe assoluto è il solo rimedio al disordine e alla discordia. Non sorprende dunque che tutte le repubbliche, o quasi, si siano convertite in principati28 • '' «Nel negozio [:>litico non solo s'ha d'haver cura di trovar la suprema e ottima forma di tutte l'alcre Repubbliche, ma quella ancora che si possa metter in uso, e che d'ogni altra più comoda, e opporruna à tutti riesca, e che da molti popoli agevolmente possa riceversi», G. Battista Guarmi, IL segretario. Dialogo 1:el quale non sol si tratta dell'ufficio del segretario
et del modo del compor lettere, ma sono sparsi molti concetti alla retorica. foica, morale, e politica pertinemi, Venezia 1600, p. 28. " «Il dicitore in quanto tale è figliuolo della Dialettica, in quanto cittadino è servo della Politica», ibid., p. 31. "Jbid., p. 99. "Jbid., p. 160. " G. Battista Guarini, Trattato della libertà politica, in Opere, a cura di M. Guglielminecti, Torino 1971, p. 867.
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.I: vero che i sudditi del principe sono privati dell' «uso» della libertà politica in quanto non hanno né il diritto di eleggere i magistrati, né di approvare le leggi, ma godono del «frutto» della libertà, che consiste nella tranquillità pubblica e privata. Il principato permette ai ricchi di curare i propri affari e di accumulare ricchezze, senza paura di essere espropriati; ai poveri assicura protezione dalle insolenze dei ricchi e lenimento alla miseria, attraverso lo sviluppo delle arti e la carità. Accettando di sottomettersi a un principe, i cittadini rinunciano saggiamente al vano e pesante esercizio della libertà per goderne i frutti. Solo un folle, conclude Guarini, potrebbe negare che i frutti della libertà siano meno importanti del suo esercizic2'. In una lettera del 1596, Guarini aveva invece sottolineato che in un principato assoluto non vi è difesa contro l'ambizione e l'invidia del principe. Per essere liberi bisogna servire: «ond'io conchiudo che, come chi le cose non mira al lume del sole, imperfettamente le mira, così chi vive in signoria, senza la dipendenza del suo signore, né contento né sicuro viver ci può»;o. Guarini, sostenitore del principato, illuminava le conseguenze della perdita della libertà politica meglio degli stessi repubblicani. Essere esentati dai doveri civili è un apparente sollievo che porta alla servitù. Essere un buon cittadino non è compito agevole; partecipare alle sedute del Consiglio è spesso noioso e fonte di preoccupazioni e pericoli, per non parlare degli incarichi di governo. Ma con gli oneri della cittadinanza se ne va, con l'onore, anche la libertà, nel senso più convenzionale del termine. I tempi erano maturi per riporre il linguaggio della politica negli archivi della storia ed elaborare un nuovo linguaggio, più adatto al contesto storico dei principati e delle monarchie. Un contributo fondamentale in questo senso fu la pubblicazione, nel 1589, dell'opera di Giovanni Botero Della ragion di stato. Grazie ad essa, il concetto di ragion di stato comincia ad assumere una legittimità intellettuale; non è più un argomento di cui si può parlare solo in circoli ristretti o in lettere riservate al principe, ma un tema che può essere discusso in pubblico. Come spiega nella dedica all'arcivescovo di Salisburgo Volfango Teodorico, il motivo principale che lo aveva spinto a scrivere Della ragion di stato era confutare il concetto di ragion di stato fino ad " «E per venir al punto decisivo e finale, la libertà ha due parti: l'una è l'uso, l'alcra il frutto, ch'è una medesima cosa col fine. Quanto all'uso, è vero che il cittadino soggetto al prencipe ha perduta la libertà; ma quantO al frutto, l'ha guadagnata. Non ha libero il voto, ma ben ha libero il godimento e possesso di quelle cose per cagione delle quali da chiunque ha sano intelletto si desidera, si combatte e si pregia la libertà•, ibid., pp. 875-6. " Lettera a Livio Passeri, in Pesaro (in Opere cit., p. 87).
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allora associato ai nomi di Machiavelli e Tacito3'. Non è tollerabile, sottolinea Botero, che uno scrittore politico empio come Machiavelli e ·un tiranno come Tiberio siano presi a modello nel governo degli stati. E soprattutto è scandaloso opporre la ragion di stato alla legge di Dio e osare dire che alcune azioni che la coscienza non può approvare sono giustificate dalla ragion di stato. La ragione di stato, spiega Botero, consiste nella conoscenza dei mezzi «atti a fondare, conservare e ampliare» uno stato, intendendo per «stato» «un Dominio fermo sopra popoli» 32 • I domini si distinguono in naturali o acquisiti; i primi si fondano sul consenso espresso o tacito del popolo; i secondi hanno origine dalla conquista o sono stati acquistafri. Come ha scritto Federico Chabod, Botero non ha inventato una nuova dottrina dello stato, in quanto per lui lo stato è ancora lo «stato del principe»i•. La sua dottrina della ragion di stato è una nuova versione dell'arte dello stato, ovvero l'arte di conservare il dominio assumendone l'esistenza come un dato di fatto indipendentemente dalla sua legittimità. Uno dei modelli di Botero, ed è un indizio significativo, è il prudentissimo Cosimo il Vecchio, il maestro riconosciuto dell'arte di tenere stati. Quella stessa arte, che ancora ai tempi di Machiavelli aveva un suono sinistro o sospetto, diventa con Botero, sotto il nome di ragione di stato, rispettabile. Dopo aver sopravvissuto per secoli all'ombra della politica, il linguaggio dell'arte dello stato poteva finalmente venire alla luce35. Dal punto di vista dei consigli pratici, la dottrina di Botero non si discosta dai precetti tradizionali dell'arte dello stato. Il più sicuro fondamento dello stato, sottolinea all'inizio del libro, è la virtù del principe36. Alcune virtù assicurano l'amore dei sudditi, altre danno reputazione. Fra le prime, la più importante è la giustizia, perché da essanascono la pace e la concordia. Il principe deve dunque essere giusto con i sudditi, non oberarli di tasse e distribuire i pubblici onori solo a chi li merita. Deve inoltre punire severamente crimini e frodi e vigilare sul-
" Giovanni Botero, Della ragion di stato. Con tre libri delle cause della grandezza delle Città, a cura di L. Firpo, Torino 1948, Dedica, p. 2. "Jbid., I, cap. 1. "Jbid., cap. 2. "F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, p. 325. Cfr. anche pp. 303-4, dove Chabod presenta la teoria di Botero come un prodotto dell'esaurimento della filosofia civile. " Cfr. quanto scrive Ludovico Zuccolo, Della ragione di stato, in Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce, Bari 1930, p. 33. " Cfr. Della ragion di stato cit., I, cap. 9: «Quanto sia necessaria l'eccellenza della virtù nel principe•.
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l'operato dei magistrati. Dai crimini non puniti e dai magistrati corrotti nasce infatti odio e desiderio di vendetta, che investono direttamente anche il principe3 7• Oltre alla giustizia, il mezzo più efficace per ottenere l'amore dei sudditi è la liberalità, soprattutto quando è diretta ad alleviare le sofferenze dei poveri e promuovere la virtù38 • Nella sua liberalità il principe deve, tuttavia, prestare attenzione a premiare solo coloro che lo meritano, essere sempre moderato, non concedere tutto subito, ma dare in piccole dosi e in tempi lunghi. Come regola generale è infatti meglio dare a molti con moderazione piuttosto che a pochi senza limitii 9• Le virtù che assicurano reputazione sono invece la prudenza e il valore. Per coltivare la prudenza il principe deve conoscere i costumi e le forme di governo dei diversi paesi, studiare la retorica, la filosofia naturale, la geografia e le leggi della generazione e corruzione dei corpi naturali. E deve soprattutto coltivare lo studio della storia; madre della prudenza è infatti l'esperienza e lo studio della storia gli permette di acquisire l'esperienza necessaria al governo dello stato senza dover lasciare il proprio gabinetto' 1• Un principe prudente regola sempre la propria condotta sulla base dell'interesse. In politica estera non deve mai impegnarsi in più imprese militari, né cercare nuove conquiste prima di aver consolidato le vecchie. Deve guardarsi dall'offendere un principe più potente; se invece riceve offesa da lui, è saggio volgere lo sguardo altrove. Se è circondato da vicini potenti, deve studiare di promuovere la pace fra di loro. Infine, deve porre la massima cura a non offendere una repubblica: mentre il risentimento di un principe muore con lui, le repubbliche non dimenticano. Negli affari interni, il suo obiettivo principale deve essere il mantenimento della pace, evitando qualsiasi tipo di innovazione non necessaria. Deve essere saggio nella scelta dei magistrati ed evitare di privilegiare troppo la nobilità a danno del popolo. Infine, non deve mai fidarsi di qualcuno che ha offeso in passato: significherebbe mettersi accanto un nemico pieno di risentimento che aspetta solo la prima occasione per vendicarsi' 1 • Dei due fondamenti del potere del principe, l'amore e la reputazione, il più sicuro è di gran lunga il secondo. La reputazione del principe consiste nel riconoscimento generale di una straordinaria virtù che ci sorprende e ci costringe a pensarci sopra (re-putare). Solo "Ibid., cap. 15. "Ibid., capp. 19-22. " Ibid., cap. 22. "Ibid., II, cap. 3. " I bid., cap. 6.
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le persone capaci di fare grandi cose ottengono reputazione e un principe che abbia reputazione è più sicuro di un principe che incute paura". Un dominio fondato sull'amore dei sudditi è invece saldo solo in apparenza. Poiché gli uomini sono insaziabili, nessun principe può conservare a lungo l'affetto dei sudditi. La paura è fondamento più sicuro, ma è difficile impedire che si trasformi in odiou. La reputazione è una combinazione di amore e di paura, ma la seconda ha un ruolo preminente. Un uomo di grande reputazione suscita soprattutto sottomissione, distanza, separazione, ovvero passioni e sentimenti che accompagnano la paura". L'arte di conservare stati consiste sopratrutto nell'abilità del principe di mantenere la reputazione sua e dello stato sia nei confronti dei sudditi che degli altri stati. La politica, sottolinea Botero, ha il compito di conservare e accrescere la reputazione' 5• Essa è dunque l'arte di conservare la separazione e l'ineguaglianza fra il principe e i sudditi e al tempo stesso di moderare le passioni dei sudditi con le regole del buon governo". Da un lato, Botero ripeteva le regole consuete dell'arte dello stato, dall'altro, preparava il terreno perché l'arte dello stato, emendata da connotazioni immorali, venisse identificata con la politica. Dall'ingresso della ragion di stato nel linguaggio pubblico all'identificazione della politica con la ragion di stato, il passo fu breve. Essa comincia a delinearsi già nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, del 1613. Il cambiamento di linguaggio non era sfuggito a William Vaughan, il curatore della prima edizione inglese, pubblicata a Londra nel 1626 con il titolo The New-found Politicke. Disclosiug the secret natures and dispositions as well of private persons as of Statesmen and Courtiers; wherein the Govemments, Greatnesse and Power of the most notable Kingdomes and Common-wealths of the world are discovered and censured. Il titolo New-found Politicke, spiega Vaughan, vuole sottolineare la «novità dello stile e del contenuto» del libro di Boccalini". Boccalini si allontana di proposito d1.llo stile convenzionale degli scrittori politici e tratta di politica e di morale in modo ironico " Botero, Della r.putazione cit., !, cap. 2.
"lb:d., cap. 3. " «Ma mi domanderà alcuno quale ha più parte nella riputazione: l'amore o'l timore. Il timore senza dubbio, perché, sì come il rispetto e la riverenza, così anche la riputazione sono per la eminenza della virtù, onde procedono spezie di timore anziché d'amore», ibid. " Cfr. Della r :gion di stato cit., l, cap. 11, dove Botero menziona la politica fra le virtù che danno reputazione. "lbid., ll, cap. 2: «la politica insegna a temrerare o secondare queste passioni, e gli effetti che ne seguitano ne' sudditi, con le regole de ben governare». "Traiano Boccalini, The ì:ew-found Politicke, a cura di W. Vaughan, London 1626.
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e allegro' 8• Scrive con ironia, ma vuole offrire un quadro realistico della realtà del tempo e condannare la onnipresente corruzione. È, però, una critica rassegnata. Vede nella politica solo l'arte che i principi usano per mantenere i loro stati, mentre la corruzione morale è penetrata così profondamente nel corpo della società che nessuna riforma appare possibile. I tempi della grande politica, che istituisce e riforma repubbliche, sono tramontati. Come Guicciardini aveva annotato nei suoi Ricordi, la sola cosa da fare è cercare di trovare la propria strada nella città corrotta .. Cercare la propria strada, aggiunge Boccalini, con molta circospezione e ironia: quando la politica cede davanti alla corruzione, l'ironia è una risorsa indispensabile. Boccalini inaugura una nuova era nel linguaggio della politica. Identificata con la ragione di stato, essa perde molto del suo splendore e può essere trattata con ironia. Il tono elevato delle opere sul «vivere politico» o sulla scienza civile mal si adatta alle trattazioni sull'arte di conservare stati conquistati e mantenuti con la forza o con il denaro. La nuova immagine della politica emerge fin dal primo Ragguaglio, dove Boccalini descrive l'emporio in cui la «Società dei Politici» vende ogni sorta di mercanzia utile ai virtuosi che abitano il Parnaso. Fra le merci in vendita, i «Politici» offrono matite che permettono ai principi di dipingere bianco per nero al popolo. Molto richiesti sono gli occhiali speciali che aiutano gli uomini accecati dalle passioni a distinguere l'onore dalla Yergogna, l'amico dal nemico, lo straniero dal parente, ad indicare come queste distinzioni siano diventate, nell'età della ragion di stato, più difficili. Si possono acquistare anche occhiali che nascondono alla vista le miserie del mondo. Preziosissimi sono, infine, gli occhiali inventati nelle Fiandre che i principi comprano in grande quantità per i loro cortigiani, perché hanno il potere di far , edere vicini onori e dignità che in realtà non raggiungeranno mai". Il mondo della politica è così repellente, che i cortigiani fanno largo uso di un olio che li aiuta a digerire i bocconi amari che devono ingoiare a corte. La nuova politica è simulazione, inganno, anrizia, ambizione, vanagloria, spirito servile. I «Politici» lo sanno e ne traggono profitto, offrendo a principi e cortigiani ciò di cui hanno bisogno. " «Delle cose Politiche, e morali seriamente hanno scritto molti be:;l'ingeni Italiani, e bene; con gli scherzi, e con le piace\ Jlezze niuno, ch'io sappia», Id., Ragguagli di Pt.maso. Centur ·., seconda, Venezia 1613. Cfr. la dedica al Cardinal Borghesi nei Ragguagli di Parnaso. Centur:a Prima, \'enezia 1612, dove Boccalini dice che ha scritto i Ra:;~uagli nel tempo libero, con l'intento di far: un'opera divertente. "Il id., cap. I, avvertimento l.
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Maestro della nuova politica è Tacito. Boccalini lo presenta come il simbolo della pura politica, che ha per scopo il potere e misura ogni cosa con il metro della ragion di stato, ma non gli risparmia la sua sferzante ironia50• Anche l'illustre storico incorre in disavventure che mettono a repentaglio la sua reputazione. Nominato principe dell'isola di Lesbo, si accinge a governare seguendo la massima di non modificare la politica dei suoi predecessori, se non per quegli aspetti che provocavano malcontento nel popolo. Agli ambasciatori spiega poi che i «precetti politici» devono essere trattati con un linguaggio oscuro per non diminuirne la reputazione e tenerli al riparo dalla gente comune. La pratica della ragion di stato è affare dei principi e dei suoi consiglieri. Se fosse rivelata ai sudditi, essi potrebbero chiedere di essere ammessi a gonrnare lo stato, ovvero di ritornare alla repubblica. Per evitare questo, Tacito impone subito ai nobili e al popolo di Lesbo di abbandonare la cura degli affari pubblici e l'esercizio delle armi. Inoltre, al fine di sradicare i cattivi costumi della libertà, Tacito cerca di soddisfare i sudditi con l'abbondanza e distrarli con spettacoli pubblici. Infine, si circonda di una guardia composta da soldati stranieri e costruisce ovunque fortezze affidate a suoi fidi. Sfortunatamente, i suoi pi:.i.ni sono frustrati da una cospirazione che lo costringe ad abbandonare l'isola e a ritornare alla vita privata in Parnaso. La pratica politica, confessa a suo nipote Plinio, è più distante dalla teoria della ragion di stato di quanto il cielo dista dalla terra e la neve è diversa dal carbone51 • Anche come maestro della ragion di stato Tacito ha vita difficile. Un giorno viene addirittura imprigionato dai principi e dai monarchi del Parnaso con l'accusa che gli Annali e le Storie sono occhiali politici che permettono al popolo di vedere che cos'è veramente la politica e li protegge dalla polvere che i principi cercano di gettare nei loro occhi52 • Ogni uomo di senno sa, spiega l'avvocato dei principi, che per conservare la pace nello stato, i principi sono spesso costretti a compiere azioni riprovevoli che giustificano in nome del bene comune. Gettare polvere negli occhi al popolo è quindi lo strumento più efficace escogitato dai politici esperti di ragion di stato. Gli Annali e le Storie impediscono ai principi di servirsi della loro arma più efficace, con grande pericolo per la stabilità degli stati. Dopo matura riflessione, Apollo, sovrano di Parnaso, decide di non bandire dalla circolazione gli Anna" «Gli uonùni affatto politici, come son io, i quali per fonùte di natura hanno l'ansietà di voler possedere cutta la donùnazione, e che ogni cosa vogliono misura~ con la loro ragione di Stato, nel}overno dei principati elettivi riescono infelicissimi», ibid., cap. I, avvenimento 29.
"Ibi . "Ibid., cap. Il, avvertimento 71.
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li e le Storie a condizione che Tacito si impegni solennemente a divulgare la propria dottrina solo ai principi e ai loro consiglieri, perché se i sudditi fossero a conoscenza degli arcana imperii diventerebbero sicuramente sediziosi e ribelli53 • Boccalini accetta l'idea che la politica non è altro che la ragion di stato di cui parla Botero, ovvero la conoscenza dei mezzi atti a fondare, conservare e allargare uno stato, anche se parla della ragion di stato come una «parte della politica» 5\ Nei Ragguagli, l'affermazione della nuova concezione della politica appare ormai come un fatto acquisito. Dal nuovo politico, l'uomo di stato, non ci si aspetta più che governi per il bene dei sudditi, ma per conservare il proprio potere. Il mondo è presentato come un grande mercato e scopo dei traffici è il guadagno; la politica non fa eccezione. I teorici della filosofia civile avevano elaborato il linguaggio della politica partendo dalla premessa, di derivazione aristotelica, che il dominio della politica è profondamente diverso da quello del governo della famiglia e dell'economia; la filosofia della ragion di stato annulla la differenza. Aristotele è del resto messo esplicitamente sotto accusa per aver distinto il tiranno dal politico. Infuriati contro l'autore della Politica, racconta Boccalini, alcuni principi del Parnaso strinsero d'assedio la sua casa con un gran numero di fanti e cavalieri, pronti ad aprire il fuoco con i cannoni. Informato dello spiacevole episodio, Apollo manda una schiera di esperti poeti satirici a placare i principi. Fallito questo tentativo, invia il duca di Urbino, uomo di lettere, a persuadere gli assedianti a desistere dai loro propositi. Alle richieste di spiegazione sul motivo della loro indignazione, i principi riferiscono al duca di voler punire Aristotele per aver definito tiranno il principe che governa avendo di mira il proprio interesse anziché quello dei sudditi. In base al principio di Aristotele, il pastore dovrebbe morire di fame e lasciare che le pecore ingrassino senza tosarle né mungerle. Una simile assurdità, sottolineano i principi, non è che un esempio delle assurdità che gli uomini di lettere dicono quando si immischiano in materie come la ragion di stato. La politica non possiede e non può possedere una teoria da applicare meccanicamente come se si trattasse
" L'ambivalenza dell'insegnamento di Tacito è sottolineata anche nell'avvertimento 17 della seconda Centuria. Nella Centuria I, 47, Machiavelli è chiamato «un Fiorentino, scellerato maestro delle politica», e Boccalini gli fa dire che Il Principe contiene solo «precetti politici» e «regole di stato»,riconoscendo, almeno iplicitamente, la differenza fra i due concetti. Cfr. in merito M. Sterpos, Boccalini tacitista di fronte al Machia:,elli, in Studi secenteschi, Xll, 1971, pp. 255-83. "Boccalini, Ragguagli di Parnaso cit., cap. n, a, ·:ertimento 89.
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di regole grammaticali. L'arte di governare gli stati si impara dai segretari dei grandi principi e nei gabinetti di stato, non dagli scritti dei filosofr 5• Il duca di Urbino riconosce che lo sdegno dei principi è pienamente giustificato: Aristotele è condannato a modificare la definizione di tiranno. Morto di paura, il filosofo si affretta a precisare che la definizione di tiranno si riferiva solo a certi uomini dell'antichità e ammonisce i litterati a dedicarsi agli studi senza immischiarsi nella ragion di stato56 • Secondo la ragion di stato i cittadini non hanno più il dovere di difendere la libertà della patria, ma solo quello di combattere agli ordini del principe, anche quando la patria non è minacciata. Per spiegare il cambiamento, Boccalini racconta un episodio che ha come protagonista Catone, uno dei simboli più illustri dell'etica politica repubblicana, cui era attribuito il famoso distico pro patria pugna. Com'era giusto aspettarsi, Catone intende riaffermare il proprio motto anche in Parnaso, e a questo scopo lo incide in lettere d'oro sul portale della propria casa. Qualche giorno più tardi decide di chiarire meglio il vero significato del distico e aggiunge nell'iscrizione la parola libera: non più pro patria pugna, ma pro patria libera pugna. Come Aristotele, anche il malcapitato Catone incorre nelle ire dei principi. Indignati, protestano con veemenza presso Apollo, spiegando che le parole di Catone potrebbero mettere a fuoco il mondo, perché insegnano alla plebe l'impertinente libertà. Il vecchio repubblicano deve essere quindi punito come sediziosc5'. Apollo convoca Catone e lo rimprovera severamente per aver provocato il legittimo risentimento dei principi. Catone ribatte che gli uomini virtuosi fanno ciò che la coscienza comanda loro di fare e non si curano delle minacce dei principi. Ho aggiunto la parola libera, ribadisce, per chiarire il vero significato del distico; senza quella parola, il motto potrebbe essere usato per convincere i cittadini comuni che è loro dovere sacrificare la vita e le sostanze per difendere la patria, come se questa appartenesse loro, mentre in re:i.ltà, in quanto sudditi di principi, non hanno alcun interesse in essa. La risposta di Apollo esprime nel modo più eloquente il principio della ragion di stato: il buon principe ha il potere di costringere i sudditi a combattere per difendere il suo stato ( «lo Stato del Prencipe» )'1 " Jbid., avvertimento 76. Il tema della tirannide è discusso nel cap. I, awercimento 18. Alla domanda se sia lecito uccidere il tiranno Apollo, profondamene-, offeso, risponde con le parole di Tacito «bonos imperatores votos expetere qualescumque tolerare». ,. Ibid., cap. I, avvertimento 79. "Ibid., cap. Il, a'. vercimento 31. "lbid. 170
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come se difendessero le loro sostanze. La parola «libera» è quindi superflua e pericolosa e come tale deve essere cancellata. Boccalini era, ad un tempo, osservatore e critico della nuova concezione della politica. Mette in luce la natura della ragion di stato; spiega che contro di essa non c'è nulla, o quasi, da fare, ma non glorifica affatto la nuova ideologia. Nella famosa Pietra del paragone politico fustiga impietosamente gli errori e i vizi dei principi del suo tempo;9. Apollo, che vuole che i sudditi siano ben governati, ha introdotto in Parnaso il lodevole costume di convocare una volta all'anno i governanti più importanti, affinché il loro operato sia giudicato dal «pubblico Censor delle Cose Politiche»'·0 • Nessuno sfugge alla critica, più o meno severa, del Censore. La corte papale è fustigata per l' eccessiva tolleranza verso le vergognose sedizioni e fellonie dei Colonna; l'impero per i disordini in Austria e in Germania, causati dalla negligenza dell'imperatore; la «bellicosa» monarchia francese per non saper frenare gli spiriti inquieti, impulsivi e furiosi dei francesi; la nobile e potente monarchia di Spagna per l'inumano dominio dei suoi nobili a Napoli, in Sicilia e a Milano; la monarchia polacca per non essere sufficientemente severa contro i nobili sediziosi; il ducato di Moscovia per l'ostilità verso le lettere e per la volontà di tenere il popolo in uno stato di vergognosa ignoranza al fine di mantenerlo docile; la «Libertà Veneta» per essere troppo permissiva verso l'insolenza dei giovani nobili; il duca di Savoia per essere troppo filo-spagnolo invece di rimanere, come dovrebbe, neutrale; il duca di Toscana per le sue provocazioni contro i Turchi; la Repubblica di Genova, perché tollera pratiche finanziarie che arricchiscono i nobili e impoveriscono la repubblica. Le accuse che investono più direttamente la ragion di stato sono quelle rivolte alla monarchia inglese e all'impero ottomano. La monarchia inglese, tuona il Censore Politico, ha commesso l'empia e detestabile follia di essersi distaccata dalla divina maestà di Dio e dalla divina supremazia del Papa: una follia dettata da una «certa ragione di stato», che gli antichi ignoravano e non osarono mai praticare per timore di offendere Dio. Alla dura, ma giusta, accusa di aver sottomesso la religione alla ragion di stato, la monarchia inglese scoppia in lacrime. L'impero ottomano, invece, non è neppure sfiorato dall'accusa di aver violato le regole della morale in nome della ragion di stato. Il costume di confiscare le proprietà dei ministri condannati a morte, aveva sentenziato il Censore Politico, è ingiusto e crudele; ci sono solo "Cfr. la Dedi•.:, ibid., m parte, ',"enezia 1615. "'Ibid., cap. II, avvertimento 31, p. 439. 171
_______ Virali, Dalla politica alla ragion di stato _______ due modi di preservare la pace dello stato, ribatte l'impero ottomano, ricompense senza misura e punizioni senza limiti. Le parole arroganti dell'impero ottomano, narra Boccalini, offendono profondamente i virtuosi abitanti del Parnaso. Sono parole, protestano a viva voce, indegne di un uomo che abbia un'anima. Ma l'impero non si scompone e sorridendo risponde: nei politici concetti coi quali altri governava i regni si aveva riguardo all'utilità: nei morali, che servivano per ben regolare i costumi, alla bontà, e che la quiete e la pace degli Stati dovevano essere preposte a tutti gli altri umani interessi". Anche se riconosce che non vi è nulla da fare contro la logica della nuova politica, gli eroi di Boccalini non sono i campioni della ragion di stato. La sola forma di governo che si salva dall'ironia dei Ragguagli è la «Libertà Veneta». Come i dotti del Parnaso riconoscono in un appassionato dibattito, l'eccellenza di Venezia è il risultato dell'applicazione di alcune fondamentali regole politiche, prima fra tutte quella che prescrive che sia un senato a vegliare sulla stabilità delle leggi e delle istituzioni, in secondo luogo quella che impone la virtù civile e la moderazione anche ai cittadini più illustri, infine l'aureo principio di porre la pace e la concordia al disopra dell'espansione. Una regola, quest'ultima, che ha reso la Repubblica di Venezia superiore alla stessa repubblica romana62 • Ma fra tutte le qualità della repubblica, osservano i partecipanti al dibattito, le più lodevoli sono l'imparziale giustizia con cui governa i nobili e i comuni cittadini e il rigido rispetto del segreto negli affari di stato. Dopo aver ascoltato in silenzio le opinioni dei saggi di Parnaso, la repubblica veneta chiude la discussione sottolineando che il vero fondamento della libertà è la virtù civile e la moderazione dei cittadini e della stessa nobiltà63 • Simili costumi esistono solo a Venezia e laddove mancano è folle pensare di instaurare una repubblica. Il mondo è troppo corrotto per ospitare la libertà ed è vano sperare di riformarlo: fin quando ci saranno uomini, lo aveva detto Tacito, ci saranno vizi6'. Anziché sognare un impossibile ritorno della libertà è più saggio imparare a convivere con la corruzione, come fanno benissimo principi e monarchi, applicando i precetti della ragion di stato. Dalle pagine di Boccalini emerge con tutta evidenza che l'affermazione del linguaggio
"lbid., cap. III, 27, p. 92. "Cfr. anche ibid., cap.1, 79. "Ibid., 39. " «Vitia erunt, donec Homines», Tacito, Storie, in Gli annali, trad. G. Dati, Venezia 1563, cap. I, 77.
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della ragion di stato segue e sostiene la convinzione che il mondo è destinato a rimanere corrotto. La speranza di poter cambiare l'identità morale di un popolo, che aveva fatto da sfondo all'affermazione della concezione della politica come arte della repubblica, sembrava appartenere al passato. L'espressione «ragion di stato» e i suoi equivalenti divennero rapidamente popolari. Perfino i pescivendoli nelle piazze, ironizzava Boccalini, si immischiano in discorsi di politica e parlano di ragion di stato 65 • Era probabilmente un'esagerazione che dà tuttavia l'idea della profonda trasformazione intellettuale e ideologica prodotta dall'affermazione del linguaggio della ragion di stato. Il contrasto fra la ragion di stato e la vecchia concezione della politica come sapienza o filosofia civile, già evidente nel Dialogo del reggimento di Firenze di Guicciardini, emerge con tutta evidenza anche nella famosa Orazione di monsignor Giovanni Della Casa, indirizzata all'imperatore Carlo V, sulla restituzione della città di Piacenza. L'espressione «ragion di stato» è usata infatti in contrasto con «ragione civile», ovvero la giustizia, che era il fondamento della vecchia concezione della politica. Restituire Piacenza al suo legittimo governante, il duca Ottavio Farnese, sarebbe, esorta monsignor Della Casa, un atto conforme ai precetti della «ragion civile»; rifiutare di restituirla sarebbe invece conforme alla «ragion degli Stati», che ignora i dettami della giustizia e della morale cristiana e umana66 • Oggi chiamiamo volgarmente «ragione di stato», scriveva Tommaso Campanella nel 1631, ciò che una volta si usava chiamare «ragione politica» («Ratio demum politica»). Chiamiamo ragione di stato, scrive ancora nel medesimo anno, quella «ragione politica» («ratio politica») che era in passato identificata con l'equità e con la giustizia. La ragion di stato, sottolinea Campanella, è la falsa politica, la degenerazione della vera politica («falsam illam politicam, quam vocatis de statu rationem» )67.
" «Fin nelle piazze, i pescivendoli s'insinuano ne' discorsi di politica, schiaffeggiando alla peggio la Ragion di Stato» da una lettera di Traiano Boccalini a Benedetto Cantoni, Parigi, 1° novembre 1616. Cito da R. De Mattei, Il problema della «ragion di stato» nell'età della Controriforma, Milano-Napoli 1979, p. 25. La stessa osservazione è ripetuta da Ludovico Zuccolo: «non pure i consiglieri delle corti e i dottori nelle scuole, ma i barbieri eziandio, e gli altri più vili artefici nelle botteghe e nei ritrovi loro discorrono e questionano della Ragion di Stato, e si danno a credere di conoscere quali cose si facciano per Ragion di Stato e quali no», Della ragione di stato cit. " «Et perché alcuni accecati nella avarizia e nella cupidità loro affermano che Vostra Maestà non consentirà mai di lasciar Piacenza, che che disponga la ragion civile, conciosiaché la ragion degli Stati noi comporta, dico che questa , oce non è solamente poco cristiana, ma ella è ancora poco umana», De Mattei, Il problema della «ragion di stato» nell'età della Controriforma cit., p. 13, n. 34. L'Oratione fu scritta nel 1547. "Tommaso Campanella, Quod reuiniscentur, Padova 1939, p. 62.
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Come spiega negli Aforismi politici, non si può confondere la ragione politica degli antichi con la moderna ragion di stato («Ratio status hodierna» ). La prima consiste nell'equità («aequitas») e autorizza la violazione della lettera, ma non dello spirito della legge, in nome di un più alto bene; la seconda è una invenzione dei tiranni («inventio tyrannorum») che giustifica la violazione delle leggi civili naturali e divine, nell'interesse di chiunque sia al potere'~. Campanella espone la sua convinzione, che un nuovo e falso concetto di politica avesse sostituito quello vero, nell' Atheismus triumphatus, scritto fra il 1604 e il 1608. In questo scritto, Campanella si lancia in un deciso attacco contro le idee, propagate dall' «ignorantissimo Machiavelli», che studiò la politica non da un punto di vista scientifico, ma da quello di un uomo pragmatico e astuto. Gli ammiratori di Machiavelli sostengono che gli antimachiavellici non intendono che cosa sia la politica e la confondono con l'etica e con la teologia. È assurdo credere, sostengono i «machiavellici», che la politica abbia quale fine solo la perfetta repubblica. Il compito della politica è indicare i mezzi più efficaci per conservare tanto le buone quanto le cattive costituzioni politiche, compresa la tirannide69• Gli studiosi di politica che condannano Machiavelli perché ha detto che il principe può fingere di essere religioso senza in realtà esserlo, non appartengono alla scuola dei politici («est a Polititica [sic!) schola alienum» ). E non è neppure giusto dire che il principe crudele pecca contro la politica («non peccat in politicam» )'°. Scopo della politica può benissimo essere quello di conservare la tirannide (ad Politicam vero servare); condannarla è semmai compito dell'etica71 • A questa concezione della politica, intesa come l'arte di preservare ogni stato con ogni mezzo, Campanella oppone la vecchia e declinante idea della politica come arte del buongoverno. Il filosofo che raccomanda al principe di essere buono non fuoriesce affatto, per Campanella, dai confini della politica; la politica machiavellica che insegna al tiranno le vie per soddisfare la sua sete di potere non è affatto prudenza politica bensì astuzia malvagia. Non è neppure un'arte, poiché nessuna arte può insegnare il male 72 • L'arte consiste nell'uso della retta ragione nelle cose pratiche e ha per fine il bene. Dire che la politica è "Id., Aforismi politici, a cura di L. Firpo, Torino 1941, p. 163. "Id., Atheis:nus c,iumphatus, Parigi 1636, p. 240. "Ibid., p. 241. " Ibid., p. 242. n «Ergo cum sit mala ista sua Politica pernitiosaque, Ars non est, nec conservationem mali docere potest ex arte», ibid., p. 243.
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l'arte della tirannide è come dire che la medicina è l'arte di prendere e di tenersi la sifilide. La vera arte della politica («vera ars politicae») può essere solo l'arte di distruggere o di riformare la tirannia 73 • La vera etica e la vera politica non possono mai entrare in conflitto, in quanto la verità non può contraddire un'altra verità, ma solo l'errore. Né è lecito affermare che condannare la tirannide è affare dell'etica e non della politica. Poiché l' «etica» insegna a governare l'individuo e la politica a reggere la città e poiché il giudizio sulla parte è il medesimo che sul tutto, è assolutamente legittimo condannare la tirannide dal punto di vista dell'arte della politica («omnes ruinosas formas politiae detestantur ex arte»)". Campanella non era il solo a lamentare la confusione fra politica e ragion di stato. Alcuni, scriveva ad esempio Ludovico Zuccolo, identificano a torto la politica con la ragione di stato, altri si limitano ad affermare che la prima è solo una componente della seconda, senza dire nulla di più';. Secondo l'opinione comune, tuttavia, la politica tende al bene comune, mentre la ragion di stato cerca l'interesse di chi governa· 6 • Un altro esempio della diffusa percezione della differenza fra la politica e la ragion di stato è il Ciro politico (1647) di Filippo Maria Bonini. La politica, scrive Bonini, è figlia della ragione e madre delle leggi; la ragion di stato è madre della tirannide e sorella dell'ateismo. La politica indica al principe la giusta via per governare, reggerç e difendere il suo popolo, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra; la ragion di stato è irn ece la conoscenza dei mezzi - giusti o ingiusti - atti a preservare qualsiasi stato. Per questo, la politica è l'arte del principe e la ragion di stato è l'arte dei tiranni". "Ibid., p. 247. "Ibid., p. 251. '' Ludo. ico Zuccolo, Considerazioni politiche e mora'· sopra cento oracoli d'il:ustri p,:rsonaggiantichi, Venezia 1621, p. 55. " Id., Della ragiJn di stato cit., p. 26. " «La Politica è figlia della ragione e madre delle leggi, la Ragion di Stato è maestra delle tirannidi e germana dell'ateismo. La Politica, infin . è una pratica cognizione di tutti que' precetti che insegnano a' Principi il, ero modo di rettamente governare, regg~re e difendere così in pace come in guerra i suoi popoli. La Ragion di Stato è una intelligenza e cognizione di tutti quei mezzi che in qualsivoglia modo, o siano giusti o ingiusti, sono istrumenti a conservare e mantenere chi regna nello stato presente. Per questo la politica è propria de' principi, la Ragion di Stato de' tiranni», Filippo Maria Bonini, /[ Ciro politico, Genova 1647, Proemio. La distinzione fra la politica e la ragion di stato è sottolineata anche da Tommaso Tommasi, che sottolinea che la seconda è molto più atta a soddisfare la curiosità dei principi. Un principe può tronre •massime politiche», nel De regir.iine principu:-i di San Tommaso e nelle opere di Egidio Romano, ma troverà molto più interessanti i libri di Machiavelli, Nua e B..ldin, do. e le massime della ragion di stato sono spiegate con tutta chiarezza. Cfr. D. Tommaso Tommasi, Il principe stuaioso nato ai serv'gi ael serenissimo Cos,mo gr.m p,.-~cipe di Toscana, Venezia 1642, pp. 106-7.
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Intesa come arte del buongoverno, la politica era ancora per Bonini la più alta fra le discipline umane, in quanto ha come fine combattere l'ingiustizia. Questa elevata concezione della politica non era un prodotto originale del pensiero politico del Seicento, ma una ripetizione di temi aristotelici che circolavano fin dalla fine del XIII secolo. Come altri scrittori politici del Seicento, Bonini celebrava la vecchia e declinante concezione della politica, minacciata dalla nascente ragion
di stata78• In altri casi, come in quello di Gregorio Leti nei Dialoghi politici, la celebrazione della politica era palesemente ironica. La parola «politica», scriveva, è così dolce che tutti cercano di appropriarsene. Anche il basso popolo, che non può praticare la politica, vuole almeno parlarne79 • Voleva dire che era diventato costume usare la parola «politica» in modo improprio, per mascherare le nefaste pratiche del malgoverno. La sua celebrazione era in realtà una critica della politica così come i suoi contemporanei la intendevano e praticavanc8°. I nomi delle cose sono cambiati: i principi sono riusciti a bandire l'inquietante parola «tirannide» e l'hanno sostituita con «politica» 81 , con la conseguenza che mentre gli antichi chiamavano la tirannide con il suo nome noi la chiamiamo «politica». Il cambiamento di significato e la perdita di prestigio della politica emerge anche da Il principe cristiano pratico di Giovan Battista De Luca. Gli scrittori politici moderni, osserva De Luca, non intendono per politica il buon governo e la buona amministrazione, ma la conservazione e l'espansione del potere di una persona o di una famiglia. Nell'opinione comune, la politica non è altro che menzogna, inganno, complotto, simulazione per perseguire il proprio interesse e soddisfare la propria ambizione. Solo i folli credono ancor oggi che la politica sia verità e onore82 • La conseguenza di questa rivoluzione ideologica e "Filippo Maria Bonini, Il Ciro politico, Venezia 1668, p. 142. " Gregorio Leti, Dialoghi politici, o vero la politica che usano in questi tempi, i Prencipi, e le Repubbliche Italiane, per conservare i loro Stat~ e Signorie, 2 voli., Genova 1666, I, p. 72 10 «Se s'uccidono gl'innocenti, i Prencipi, o vero i loro Ministri, coprono la crudeltà col dire la Politica lo vuole, Se si bandiscono gli Huornini più necessari al Regno, quelli che regnano dicono subito, la Politica lo 'C!uole, Se si mandano de' Capitani men valorosi, all'impresc più difficili, non per altro che per farli perdere la vita, acciò non ponassero ostacolo alcuno alla nascente fonuna del Privato, si dirà incontinente, la Politica lo vuole, se s'impoveriscono i più ricchi, la Politi;a lo vuole, se si demoliscono le Chiese, e si distruggono gli Altari, la Politica lo vuole, se s'imprigionano senza causa e senza autoriù da poterlo fare gli Ecclesiastici maggiori, la Politica lo vuole, Se s'aggravano i Popoli di gravezze insopponabili, la Politica lo v:,ole, Se si minano !'intere Famiglie, la Politica lo vuole, se si lascia di trattar la pace, la Politica lo vuole, e in somma non si fa alcun male nel Prencipato, che la Politica non lo canonizi per un bene, e nicessario di più», ibid., Il, pp. 74-5. 11 Jbid., I, pp. 69-70. u Giovanni Battista De Luca, Il principe cristiano pratico, Roma 1680, p. 44.
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linguistica era che «politica» non era più, come era stata per secoli, una parola nobile e piacevole. Il Seicento non fu, come è stato detto, il secolo della riscoperta, ma il secolo della decadenza della politica8i. Mentre i critici affermavano che la ragion di stato era una degenerazione della politica, i sostenitori si industriavano a cercare precedenti illustri fra i classici. L' «arte civile» inventata da Platone, spiegava Federigo Bonaventura, non è altro che la ro.gion di stato84. Ciò che i greci intendevano per «Politica», sottolineava Ludovico Zuccolo nelle Considerazioni politiche e morali sopra cento oracoli d'illustri personaggi antichi del 1621, è «ogni specie di Ragione di Stato»85 • Anche i romani, conferma Alberto Fabri nei Politica arcana conoscevano e praticavano benissimo la ragione di stato sotto il nome di «ius necessitatis». La ragion di stato nasce con i governi e fin quando ci saranno governi ci sarà ragion di stato86 • Anche autorevoli studiosi contemporanei hanno accettato l'idea di una sostanziale continuità fra la moderna ragion di stato e la ratio publicae utilitatis (o ratio necessitatis, ratio status, ratio regis, ratio Ecclesiae) che i giuristi e i canonisti medievali e gli scolastici avevano elaborato sulla base del diritto romano e delle opere di Cicerone87 • La ra" Cfr. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell'età ddla Controriforma cit., I. Le celebrazioni della politica nel XVII secolo, scrive De Mattei, continuano una tradizione che risale a San Tommaso e a Egidio Romano, e aggiunge che fra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo la politica divenne una disciplina largamente coltivata e discussa da laici e religiosi. Il XVII secolo deve dunque essere considerato come una salutare reazione contro l'atteggiamento meramente speculativo dell'umanesimo, in nome dell'utilità, della bellezza, della partecipazione intellettuale e pratica alla vita pubblica (p. 48). Trovo difficile credere che in un'epoca in cui gran parte dell'Italia era sotto la dominazione straniera, diretta o indiretta, o ~overnata da principi e tiranni la politica fosse una pratica diffusa e fosse considerata come il necessario completamento di una vita veramente umana. Anche l'ossenazione di De Maccei sull'umanesimo è corretta solo se si esclude l'umanesimo civile, che esaltò la politica come la più nobile delle attività pratiche; ma escludere l'umanesimo civile non è limitazione di poco conto. " «(Platone] intende la vera Arte Civile che noi domandiamo Ragion di Stato; veramente la più retta e più eccellente cosa che sia nella repubblica, come quella che è principalissima cagione di conser. arie la beatitudine•, De Mattei, Il problema della « Ragion ai Stato» nell'età della Controriforma cit., p. 41. "«Né fa caso che gli antichi non avessero nome proprio da isprimerla, poiché non l'abbiamo ancor noi; e però la circoscriviamo con questi due termini Ragione di Stato, come la circoscrissero eglino con altri che pur denotavano il medesimo, valendosi quando delle voci vis dominatio'!is o arca"!a imperii, quando di quel modo di dire est, ve! non est de Republica, che però s'intende in più d1 un sentimento, e quando d'altri tali. Così fecero pur ancor i Greci, che denotarono con più parole quello che non seppero con una sola esprimere, o pur ampliando il significato della voce Politica, compresero anco con essa ogni specie di Ragione di Stato•, ibid., p. 43. "Ibid., pp. 45-6. "Cfr. G. Post, Studies in Medieval Lega! Thought. Public Law and che State, 1100-1322, Princeton 1964, pp. 253-69. I passi di Cicerone J?iù spesso citati erano dal De oratore, 1, 46, 201: «oratori iuns civilis scientia necessaria est: sic in causis publicis iudiciorum, concionum,
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gion di stato medievale, è stato sostenuto, era la retta ragione, ovvero la retta ragione che guida il sovrano nella scelta dei mezzi migliori per proteggere lo stato e il popolo, rispettando le leggi di Dio e le leggi naturali88. Anche nel significato più ristretto di ratio status regis o ratio status regni (la ragione o l'interesse del re o del regno), la ragion di stato medievale era subordinata ad una più alta ragion di stato, ovvero la ragione, nel senso di diritto o di interesse, della comunità politica intesa come comunità naturale approvata da Dio e dalla legge di natura per realizzare la finalità politica e sociale dell'uoma89• Se si guarda alle prime formulazioni moderne emerge invece, con tutta evidenza, che il concetto rinascimentale di ragion di stato ha un significato diverso dalla ragion di stato classica e medievale. Quando Cosimo de' Medici diceva che gli stati non si tengono con i patemoster in mano, o Bernardo Del Nero ammoniva, nel Dialogo del reggimento di Firenze, chi regge stati di essere pronto a violare le norme della religione cristiana, o quando Giovanni Della Casa contrappone la ragion di stato alla «ragione civile», intendevano in effetti contrapporre la ragion di stato alla concezione della politica intesa come arte del buongoverno, derivata da fonti classiche. Il concetto moderno di ragion di stato venne elaborato per giustificare la deroga alle leggi e alla giustizia in nome dell'interesse dello stato rappresentato dalla persona pubblica del principe. I giuristi e i canonisti medievali avevano certo discusso della necessità di derogare alle leggi in nome di un bene superiore - il regno o la chiesa - la cui esistenza è giustificata dalle leggi naturali e divine'°. Quando usano il termine ragion di stato, i teorici rinascimentali, in particolare Guicciardini, intendono una cosa ben diversa, ovvero la deroga alle leggi naturali e divine per conservare stati la cui legittimità risiede solo nella forza o nel denaro. Botero lasciava ampio spazio alla violazione delle norme della religione e della giustizia. La sua definizione di ragion di stato parla semplicemente di «mezzi atti» e non chiariva, obbiettavano i critici, se per «stato» intendeva il principe o il territorio. Per questa ragione, Botero Senacus, omnis haec et amiquicatis memoria, ec publici iuris auccoritatis et regendae reipublicae ratio ac sciemia, tanquam aliqua materias, eis oratoribus, qui versantur in republica, subiecta esse debenc»; e De offic:is, 3, 11, 46-7: «Sed utilitatis specie in re publica saepissime peccacur, ut in Corimbi discurbatione nostri». Per una diversa interpretazione cfr. H. Miinkler, lm Namen des Staates, Frankfurt 1987, che sottolinea (pp. 165-207) che la ragion di stato era incesa come un nuovo concetto di politica. Cfr. anche M. Scolleis, Arcana imperii und ratio status: Bemerkungen zur po.'itischen Theorie des fruhen 17. jahrhunderts, Gottingen 1980. "G. Post, Studies in Medieval Legai Thought cit., p. 303. "Ibid. "lbid., pp. 253-90.
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fu considerato responsabile della rottura rispetto alla concezione tradizionale della politica e accusato di essere sostenitore di pratiche nefande, proprio come il suo avversario Machiavelli9'. Dopo la pubblicazione della Ragion di stato, filosofi, storici, giuristi e teologi si misero al lavoro per emendarne la dottrina al fine di renderla pienamente compatibile con le leggi naturali e divine e distinguerla dalle pratiche del malgoverno. Scipione Ammirato, per citare uno dei più influenti revisionisti della dottrina di Botero, elaborò una nuova definizione di ragion di stato in base al principio giuridico della deroga. «La ragion di stato», sottolinea Ammirato, «altro non essere che la contravvenzione di legge ordinaria, per rispetto di pubblico beneficio, ovvero per rispetto di maggiore e più universale ragione» 92 . Il concetto di deroga permette di distinguere fra buona e cattiva ragion di stato: la buona ragion di stato consiste nella deroga alla legge per il bene comune; la cattiva nella deroga per favorire interessi particolari. La buona ragion di stato, spiegava Ammirato, è l'opposto del privilegio, ovvero della correzione della legge per fini privati; né si deve dimenticare che la ragion di stato autorizza la deroga alle leggi civili, ma riconosce l'autorità della legge morale e della religione. Anche se presentata come diritto di violare le leggi ordinarie per il bene comune, la dottrina della ragion di stato segnò una trasformazione sostanziale del linguaggio della politica. Come scriveva Ammirato, lo stato non è altro che un regno, un impero o qualsiasi forma di dominio93. La ragion di stato è dunque la ragione di chiunque eserciti dominio e consiste di leggi segrete e di privilegi («arcana imperii») che mirano alla conservazione di quella particolare forma di dominio. Anche se gli arcana imperii devono essere tenuti distinti dalla cattiva ragion di stato ( «dominationis fl,agitia» ), resta il fatto che la persona del principe rappresenta lo stato e spetta a lui decidere quali siano le leggi e quali le eccezioni e i pri\ ilegi che compongono la ragion di stato. Soggetto soltanto alle leggi di Dio e della natura, solo rappresentante dello stato, il principe che governa secondo la ragion di stato non ha
pressoché nulla in comune con l'uomo politico repubblicano. Anche se i teorici della buona o rispettabile ragion di stato proclamavano che
" De Maccei, Il problema della «ragion di stato» nell'età della Controrifor"'la cic., pp. 65-89. " !bi.!., p. 92. " Scipione Ammirato, Dissertationes politiue sive discursus in C. CorneL ·