Cos'è una tragedia attica? 9788835035572


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Cos'è una tragedia attica?
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Ulrich von Wilamowitz­ Moellendorff

Cos'è una tragedia attica?

EDITRICE

LA SCUOLA

Ulrich von Wilamowirz-Moellendorff pubblicò nel1889 un monumentale com­ mento all'Eracle di Euripide, che nella prima parte comprendeva anche un'in­ troduzione generale alla tragedia greca. Quella sezione (Cos'è una tragedia attica?, Was ist eine attische Jì·agodie?) viene ora proposta autonomamente, per il suo valore particolare, in quanto ex­

cursus appassionato c approfondito sulla parabola della tragedia greca, dalla dibattuta questione delle origini al raggiungimento della forma classica nel

V secolo a.C. J l testo può essere letto anche come una replica matura, interamente condotta sul filo della "tìlologia storica", alla Nascita della tra gedia di Nictzsche, la cui pubblicazione, nel 1872, aveva visto i due, ancora acerbi, studiosi duellare in un'aspra polemica.

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931) fu docente di Filologia clas­ sica nelle università di Greifswald, Gòttingen e Berlino. Le sue opere hanno costi­ tuito, e costituiscono tuttora, un punto di riferimento per gli studiosi di antichistica.

Gherardo Ugolini è professore di Filologia classica all'Università di Verona. Ha

Guida alla lettura della "Nascita della tragedia" di Nietzsche }acob Bernays e l'interpretazione medica della catarsi tragica

pubblicato, tra l'altro, (Laterza, 2007).

(Cierre Grafica, 2012).

ISBN 978-88-350-3557-2

l l l Il

9 788835 035572

€ 13,00

SAGGI 47

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff

Cos'è una tragedia attica? Introduzione, traduzione e note di Gherardo Ugolini

E D I T R I C E

LA SCUOLA

Titolo originale dell'opera: Was ist eine attische TragOdie? (in Euripides. Herak/es, erklart von U. von W ilamowitz-Moellendorff, vol. 1, Ein/eitung in die attische Tragòdie, Weidmann, Berlin 1889, pp. 43-119)

In copertina: Pittura vascolare a figure rosse, particolare del Vaso di Pronomos (fine V secolo a.C.) , Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

La collana è peer reviewed

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm) , sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 1 5% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1 94 1 , n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o com­ merciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autoriz­ zazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 1 08, Milano 201 22, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org ©

Copyright by Editrice La Scuola, 201 3

Stampa Officine Grafiche «La Scuola», Brescia. ISBN 978 - 88 - 350 - 3557 2 -

Avvertenza

Was ist eine attische Tragiklie? («Cos'è una tragedia attica?») è il titolo del secondo capitolo della Einleitung in die attische Tragiklie («Introduzione alla tragedia attica»), pubblicata per l'editore berlinese Weidmann da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff nel 1889 quale primo volume della sua memorabile edizione dell'Eracle di Euripide, di cui forniva nel secondo volume il testo critico e il commento. A partire dal 1907 Wilamowitz ha pubblicato il testo della Einleitung - con un cambiamento d'aggettivo da "attica" a "greca" - come opera a sé stante (Einleitung in die griechische Tragiklie. Unveranderter Abdruck aus der ersten Auflage von Euripides Herakles, vol. 1, Kapitel l-IV) con successive ristampe (1910 sempre per Weidmann; 1959 per Akademie Verlag di Berlino Est; 1959 e 1981 per Wissenschaftliche Buchgesell­ schaft di Darmstadt) . La ragione per cui è parso opportuno pubblicare ora in versione italiana il capitolo Was ist eine attische Tragiklie? risiede nel valore specifico e in fondo autonomo di questa parte, che risulta del tutto slegata dal contesto dell'edizione dell'Eracle, e che si risolve in un excursus, tanto rapido ed essenziale, quanto appassionato e vibrante, sulla parabola del­ la tragedia greca, dalla dibattuta questione delle sue origini al raggiungi­ mento della forma classica nel V secolo a.C. Per agevolare la lettura del testo si è provveduto a fornire tra pa­ rentesi quadre la traduzione italiana delle parole e della frasi citate da Wilamowitz in greco o in latino. Le note del curatore, contrassegnate con asterischi, sono concepite innanzi tutto per fornire al lettore sem­ plici informazioni e chiarimenti in merito a concetti o nomi riportati nel 5

Avvertenza

testo. Quando necessario si è, inoltre, provveduto, a rendere espliciti i riferimenti bibliografici che nel testo originale sono indicati in modo sommario o alle volte impreciso. Berlino/Verona, giugno 2013 Gherardo Ugolini

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Introduzione

Gherardo Ugolini

Wilamowitz e i tragici greci

«lch verstehe die Sprachen nicht, aus denen die zur­ zeit beliebten Worter, Tabu und Totem, Mana und Orenda, entlehnt sind, halte es aber fiir einen zulas­ sigen Weg, mich an die Griechen zu halten und iiber Griechisches griechisch zu denken>>1• (U. von Wilamowitz-Moellendorff, Der Glaube der Helfenen, Weidmann, Berlin 1931, vol. 1, p. 10)

La tragedia greca al tempo della scuola di Pforta

Quando nel 1889 esce la «Introduzione alla tragedia attica» (Einlei­ tung in die attische Tragbdie) , quale primo volume dell'edizione commenta­ ta dell'Eracle di Euripide2, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff aveva compiuto 41 anni ed era già un affermato studioso di fama internazio­ nale. Da sei anni ricopriva la cattedra di fùologia classica nell'ateneo di Gottinga, dopo essere stato professore della medesima disciplina dal 1877 al 1883 a Greifswald, sulle rive del Baltico. Di li a poco la sua pa­ rabola professionale si sarebbe completata con la chiamata all'univer­ sità di Berlino, dove prese servizio nel 1897 per restarvi fino al pen­ sionamento nel 1921. Nel ventennio tra la maturità conseguita presso la scuola di Pforta e la pubblicazione dell'Eracle, si assommò una gran 1 «Non capisco le lingue da cui derivano parole tanto amate oggigiorno quali totem e tabù, mana e orenda, ma considero una strada praticabile quella di attenersi ai Greci e di pensare ai fenomeni della cultura greca in termini greci». 2 Euripides Herakles erkliirt von Ulrich von Wilamowitz-Moellendoiff, vol. 1, Einleitung in die attische Tragiidie; vol. 2, Text und Kommentar, Weidmann, Berlin 1889. A partire dalla ristampa del 1907 come opera sé stante, il titolo è divenuto Einleitung in die griechische Tragiidie («> e mostra di aver compreso quello che sei decenni prima gli era sfuggito:

Fritsch, Leipzig 1872; rist. in Der Streit um Nietzsches , cit. pp. 65-111; tr. it. Filologia deretano. Per chiarificazione delpamphlet > 92, Olms, Hildesheim-Ziirich-New York 2003, pp. 51-86. 26 Excurse zu Euripides Medeia, in «Hermes», 15 (1880), pp. 481-523; Excurse i!' Euri­ pides' Herakliden, in «Hermes», 17 (1882), pp. 337-364; Die beiden Elektren, in «Hermes», 18 (1883), pp. 214-263; Phaethon, in «Hermes», 18 (1883) , pp. 396-434. 27 Euripides Herakles als Manuskript gedruckt, Weidmann, Berlin 1879. 28 Euripides Herakles erkliirt, vol. 1, Einleitung in die attische Tragoaie; vol. 2, Text und Kommentar, Weidmann, Berlin 1889.

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Gherardo Ugolini

bale della civiltà greca antica, da conseguire col concorso di tutte le di­ scipline necessarie, da lui sempre costantemente teorizzato e persegui­ to29 . Non è un caso, dunque, che quest'opera abbia avuto una fortuna straordinaria nel campo degli studi sul teatro tragico greco antico, non solo per essere stata ristampata più volte nel corso dei decenni (anche in forme differenti rispetto a quella originale?0, ma soprattutto per essersi imposta come modello di riferimento paradigmatico per le successive generazioni di studiosi. Molti filologi hanno celebrato la novità metodologica e l'esemplarità dell'Herakles di Wilamowitz, ma le considerazioni più lucide e pertinenti mi paiono quelle che espresse Giorgio Pasquali nelle pagine che scrisse per il necrologio del maestro tedesco31 • Pasquali innanzi tutto dichiara il proprio debito verso quell'opera letta nel corso del primo anno di studi universitari («Da nessun libro io ho appreso tanto di greco e sullo spiri­ to greco»3�. Quindi sottolinea - non senza una punta di esagerazione­ la carica innovativa portata da Wilamowitz rispetto all'approccio tradi­ zionale della cosiddetta filologia "formale": «< filologi maggiori avevano

29 H. Gorgemanns, Wilamowitz und die griechische TragOdie, cit., p. 139. Sulla conce­ zione della filologia classica di Wilamowitz come sintesi e superamento delle contrap­ posizioni precedenti cfr. H. Patzer, Wilamowitz und die klassische Philologie, in Festschrifl Franz Dornseiff zum 65. Geburtstag, hrsg. v. H. Kusch, Bibliographisches Institut, Leipzig 1953, pp. 244-257 e soprattutto M. Landfester, Ulrich von Wilamowitz-MoeJJendorff und die hermeneutische Tradition des 19. Jahrhunderts, in Phiiologie und Hermeneutik im 1 9. Jahrhundert. Zur Geschichte und Methodologie der Geisteswissenschaften, hrsg. v. H. Flashar, K. Grunder, A. Horstmann, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1979, pp. 157-180. ·'0 Nel 1895 uscì una seconda edizione, sempre in due volumi (Euripides Herakles, zweite Bearbeitung, 2 voll., Weidmann, Berlin 1895) con una nuova prefazione e una totale ristrutturazione della prima parte da cui scompare la Einleitung in die attische Trago·­ die salvo i capitoli riguardanti la saga di Eracle e la sua rielaborazione drammatica. Nel 1907 Wilamowitz pubblicò il testo della Einleitung (con un cambiamento dell'aggettivo "attica" in "greca") come opera a sé stante (Einleitung in die griechische TragOdie. Unveran­ derter Abdruck aus der ersten Auflage von Euripides Herakles, vol. 1, Kapitel I-IV, Weid­ mann, Berlin 1907). La Einleitung ha quindi avuto successive ristampe: nel 1910 sempre per Weidmann; nel 1959 per Akadernie Verlag di Berlino Est; nel 1959 e nel 1981 per Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt. 31 G. Pasquali, Uirico di WilamowitzMoeJJendorff, in «Pègasm>, gennaio 1932. Cito dalla ristampa in Id. Pagine stravaganti di un filologo, a cura di C. F. Russo, Le Lettere, Firenze 1994, vol. 1, pp. 65-92. 32 !bi, p. 75.

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sino a lui pubblicato testi, emendato passi guasti, tutt'al più interpretato luoghi difficili quasi sempre con l'intenzione di mostrare che essi erano sani; avevano quindi messo l'interpretazione al servizio della critica dei testi, mentre dev'essere il contrario»33• Infine esplicita la formula della metodologia praticata da Wilamowitz riferendosi al concetto, appunto, di "totalità": > dentro cui si inserivano le gare drammatiche. Nella sua impostazione il legame con la dimensione spirituale della reli­ giosità dionisiaca appare defmitivamente spezzato. Rispetto alla Nascita della tragedia, in cui il dionisiaco esprime un momento di vitalità dirom­ pente e permette il raggiungimento dell'estasi, qui tale fenomeno è del tutto depotenziato di ogni dimensione metafisica, e svolge una funzione di semplice sfondo istituzionale. Mancano anche altre categorie che la tradizione esegetica da Aristotele in poi ha elevato a punti di riferimento fondamentali. Wilamowitz spie­ ga che nella sua definizione non entrano eleos e phobos, "pietà" e "paura", le due sensazioni che nella visione aristotelica dovevano venir scatenate e quindi "depurate". Il fùologo motiva l'esclusione in base al fatto che le tragedie in nostro possesso potevano suscitare anche molte altre passio­ ni, quali per esempio il sentimento patriottico, o l'entusiasmo religioso, rispondenti a finalità del tutto diverse42• Volendo dare una descrizione che tenga conto di tutti i testi conservati dalla tradizione e delle condi­ zioni della prassi teatrale, preferisce rinunciare a individuare elementi strutturali specifici. Questo vale anche per altre categorie aristoteliche quali la katastrophé, la hamartia, o il rovesciamento dalla buona alla catti­ va sorte: ci sono drammi con finale positivo che inficiano la possibilità di generalizzare tali concetti inserendoli in una definizione. Allo stesso modo respinge l'impiego di categorie moderne, ignote alla sensibilità dei Greci antichi, come per esempio la tensione tra libertà e necessità, libero arbitrio e destino predeterminato, colpevolezza e innocenza.

42 Einieitung in die Attische Tragiidie, cit., pp. 109-110; tr. in.fra, p. 126.

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Gherardo Ugolini

Come si è capito, il ragionamento di Wilamowitz dimostra in questa parte un'estrema indipendenza rispetto all'autorità di Aristotele - un tratto che paradossalmente lo accomuna a Nietzsche - benché allo Sta­ girita siano formalmente riconosciuti qua e là grandi meriti (per esem­ pio per la questione delle origini, come si è detto) . Un punto cruciale riguarda il mito, termine che Wilamowitz rende preferibilmente col te­ desco Sage («saga») o Legende («leggenda») . Nella concezione aristotelica sembra che il poeta tragico inventi di volta in volta una trama nuova per la messinscena arricchendola con situazioni e personaggi. Ma all'epoca di Eschilo, Sofocle e Euripide, il mito non era affatto morto, anzi con­ servava una grande vitalità, espressione della memoria collettiva del po­ polo. Il problema che si pone Wilamowitz è quello del grado di libertà creativa che potevano permettersi i tragediografi rispetto al patrimonio di saghe e leggende prestabilito e conosciuto dal pubblico. Il soggetto di un dramma doveva sempre inevitabilmente essere percepito come segmento di una saga mitica più ampia con la conseguenza della ne­ cessità di rispettare l'andamento degli eventi, ma anche la possibilità di collegare tra loro un segmento mitico con un altro appartenente ad un'altra saga (questione che si riscontra sovente analizzando i finali dei drammi) . Poiché i contenuti erano già conosciuti, il margine concesso al tragediografo di creare una sua rivisitazione drammaturgica era minimo. Il lavoro del fùologo è quello di comprendere e ricostruire quanto un poeta sia riuscito con la sua specifica individualità artistica a raggiungere l'effetto che si prefissava utilizzando i mezzi a disposizione e tenendo conto delle condizioni di composizione e rappresentazione. È un modo per far rivivere i testi dei tragediografi antichi nel presente. Nella parte finale di Was ist eine attische Tragbdie? si riscontrano vari spunti di riflessio­ ne metodologica sul compito della fùologia storica, considerata l'unica disciplina che consente, se ben applicata, di capire veramente i prodotti della cultura letteraria dell'antichità: «Poesia e fùosofia non potranno giammai fare a meno del fùologo, perché egli è il solo a possedere le chiavi che danno accesso alla tragedia attica, come del resto anche quelle che danno accesso a molti altri tesori»43•

43 Einleitung in die attische Tragbiiie, cit., p. 119; tr. infra, p. 139.

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Wilamowitz e i tragici greci

Wilamowitz traduttore della tragedia Dopo la pubblicazione del commento all 'Eracle l'interesse di Wila­ mowitz per la tragedia si mantenne intenso e costante, come dimostrano le molte pubblicazioni in forma di monografia o di articolo su rivista, ma anche la scelta di temi inerenti la tragedia (molto spesso Euripide, meno frequentemente Eschilo, assai di rado Sofocle) come oggetto di trattazione nei seminari e nei corsi che svolse lungo 55 anni di attività di docenza nei tre atenei in cui ebbe la cattedra (Greifswald. Gottinga e Berlino)44• Tale interesse assunse, tuttavia, un'accentuazione specifica in due nuove direzioni di lavoro: la dimensione della messinscena e la traduzione dei testi in lingua moderna. Sono elementi su cui vale la pena soffermarsi perché completano e arricchiscono la personalità di uno studioso da sempre celebrato come "principe dei filologi", ma forse non abbastanza apprezzato per i tratti di innovazione e modernità del suo lavoro. Per quanto riguarda l'attenzione rivolta agli aspetti scenici si pos­ sono ricordare alcuni saggi sul teatro di Eschilo come quello del 1 886 esplicitamente centrato sulla "scena" degli spettacoli drammatici45, ma anche l'inserimento di brevi note sulla resa drammatica inserite a piè di pagina sotto l'etichetta ''Actio" nell'edizione completa dei drammi eschilei46• La medesima prospettiva che guarda alla tragedia greca come teatro vivo, alle possibilità di realizzazione e agli effetti dell'azione sceni­ ca, al tragediografo come artigiano della messinscena - tutti punti di vi­ sta per nulla scontati all'epoca, ma che fecero presa su allievi quali Wolf­ gang Schadewaldt e Karl Reinhardt - la si ritrova nel capitolo sull'Edij>o a Colono che Wilamowitz inserì nell'incompiuta monografia sofoclea del figlio Tycho, caduto in guerra47• In questo contesto lo studioso adotta 44 Un elenco completo di tutti i corsi e i seminari tenuti da Wilamowitz senza in­ terruzioni tra il semestre invernale 1874/75 e il semestre estivo del 1929 è pubblica­ to in Ulrich von Wilamowitz-Moellendoiff Bibliograpf?y 1867-20 10, cit., pp. 171-182. Tra le numerose tesi di dottorato assegnate nel corso della sua carriera almeno sei riguarda­ no argomenti riconducibili alla tragedia: cfr. l'elenco completo in H.-U. Berner, lndex dissertationum Udalrico de Wilamowitz-Moellendoiff promotore conscriptarum, in «Quaderni di Storia», 15 (1982), pp. 227-234. 45 Die Biihne des Aiscf?ylos, in c; [ditirambo] equivale a forme quali out6A.ta, �taom'l­ ptov, �llCÉ'tac; (cioè �JllKÉtac;) . L'accusativo metaplastico ot9UpaJ.LJkx, che si trova nel

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vitore quando si è riempito di dio26• La patria del ditirambo può essere individuata con certezza quasi assoluta nell'isola di Nasso, il centro del culto dionisiaco sulle isole27• Sappiamo inoltre che Arione di Metimna ­ una città con un vivace culto dionisiaco e una popolazione per nulla affatto esclusivamente eolica28 - presso la corte di Periandro ha trasfor­ mato questo canto del vino che veniva eseguito da un singolo bevitore avvinazzato, in un canto corale, e che gli abitanti di Corinto erano assai fieri di questo genere che era nato a casa loro, benché non per opera loro29• Sappiamo anche che in effetti da principio il ditirambo fu accolto

frammento 86 di Pindaro, non ci aiuta per nulla. Per quanto concerne il significato va inteso come dtòç ÈyKÉlìia sia rappresentata in forma di menade. Nessuno comunque può dire che cosa pensasse Pindaro perché non sappiamo chi sia "colui che sospinge il toro". Gli scoli narrano di un toro come premio per la vittoria: ma i Dori non conoscono gare di questo tipo. Simonide sembra aver usato J3oucjl6voç [che uccide buoi] nel medesimo significato (cfr. Cameleonte apud Ateneo X, 456 c), ma anche questo passo resta oscuro. L'ipotesi che fosse stato Laso ad inventare il ditirambo veniva respinta come erronea già nell'anti­ chità: cfr. lo scolio ad Aristofane, Uccelli, 1 403. Forse Eufronio, che ha commesso tale errore, credeva di essere in possesso di testi poetici di Laso e li considerava i più antichi rimasti. - [* Friedrich Gottlieb Welcker, Alte Denkmiiler, III (Griechische Vasengemiilde), Gottingen 1 854, p. 1 25] . 30 Nessun grammatico conosce i componimenti di Ariane. Quello conservato in Eliano è scritto in dattilo-epitriti snaturati, quali erano tipici del ditirambo di IV secolo, al quale per altro ben si addice l'etopea anche senza intenzioni di falsificazione. Clearco e Eraclide pensavano di avere ancora qualcosa di Laso (cfr. Ateneo, X, 455 e XIV, 624), ma Aristofane di Bisanzio (apud Eliano, Historia animalium, VII, 47) lo cita in forma du­ bitativa. Poi è sparito. Senocrito di Locri rimase nella memoria della storia della musica, ma neppure si sapeva con certezza quando avesse vissuto; benché gli si attribuissero ditirambi per la convinzione che i suoi testi poetici avessero avuto contenuto eroico (cfr. Plutarco, De musica, 1 0, di provenienza incerta), il ditirambo tardo creava confu­ sione. Cleomene di Reggio (Ateneo, IX, 402 b) ha tutta l'aria di essere un falso e inoltre potrebbe coincidere con il rapsodo Cleomene del V secolo (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 63) . Dello stesso Simonide, che di certo ha eseguito ditirambi per lo meno a Cos e ad Atene, non è rimasto nessun frammento che si possa rapportare a lui. Quello che si legge in Strabone, 728, ovvero 'tacjl�vat oÈ Aiye'tat MÉJ.LVOlV 1tEpÌ llaÀ.'tOV 'taç :Eupiaç 1tapà BalìO:v 7tO'taJ.L6v, IDç EipTJKE :EtJ.LrovilìTJç Èv MÉJ.Lvovt lìt9upaJ.L�q> 1:rov dTJÀ.taKrov [Si racconta che Memnone sia stato sepolto presso Palto in Siria, sulle rive del fiume Bada, come afferma Simonide nel Memnone, uno dei suoi ditirambi delici] non è solo incomprensibile, ma irreparabilmente corrotto. Simonide non poteva averlo riferito e le parole conclusive non hanno proprio senso: dunque non è il caso di fare troppo affidamento neppure sul tema eroico indicato nel titolo del ditirambo.

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ditirambi non si differenziano in nulla dagli altri canti corali se non per una certa libertà metrica. A quell'epoca la tragedia, accanto al ditirambo, aveva già una sua forma autonoma, ed è evidente che da un lato non disponeva affatto eli una simile licenza metrica e dall'altro risultava affi­ ne agli altri canti corali in contrapposizione al ditirambo. Del resto è del tutto evidente che la tragedia, nella misura in cui è un canto del coro, per quanto riguarda la lingua e la metrica va inquadrata insieme con gli altri canti corali. Qui dunque si presenta un punto d'appoggio. Se non cono­ sciamo più la specie a cui si riferisce Aristotele è bene prendere in consi­ derazione il genere. Dobbiamo prenderla un po' alla larga: si tratta eli un percorso abbastanza tortuoso, ma non già eli un sentiero senza mèta. Formazione della nazione ellenica in Asia La migrazione eli popoli aveva in parte sottomesso e in parte caccia­ to dalla loro terra etnie locali che avevano raggiunto un livello eli civiltà elevato. Chi era rimasto diventò sottomesso e suddito; uno sviluppo autonomo gli era precluso. I padroni, ancora quasi del tutto barbari, avevano molto da imparare dai sottomessi, ed impararono moltissimo fin tanto che non ebbero raggiunto la piena evoluzione della propria natura. Ci vollero secoli perché gli elementi eli contrasto si fondessero in una nuova identità eli popolo. Il risultato eli tale processo fu eli preparare il terreno per accogliere la cultura che rifluiva da oriente. E tutto ciò riguardò solo una piccola parte dell'Ellade. L'intera costa occidentale è rimasta eli fatto perduta per la civiltà. Ma i pochi territori nei quali la vecchia popolazione si era affermata - l'Eubea, l'Attica, la costa driopi­ ca e saronica dell'Argolide - che un tempo erano stati le tappe dell'emi­ grazione, ora ritornavano ad avere quella funzione eli mediazione che gli spettava. Solamente li si poteva trovare un luogo in cui tutti gli elementi vitali della civiltà si incontrassero, si riunissero e si elevassero verso una civiltà superiore e veramente nazionale. Nelle nuove secli della splendida costa asiatica, conquistate a costo eli difficili lotte, i vari frammenti eli tribù e popoli che erano stati scacciati crebbero insieme formando nuove comunità etniche più ampie. Lì si co­ minciò ad avvertire, alimentato dal contrasto con i barbari, il sentimento eli appartenenza allo stesso popolo da parte dei membri più distanti tra 67

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loro. Tale sentimento poi lo si elevò pian piano fino all'elaborazione del concetto di un ellenismo unitario di razza e civiltà. Nell'epoca della qua­ le per la prima volta siamo in grado di farci un'idea abbastanza precisa, vale a dire circa l 'VIII secolo, l'etnia dominante è quella ionica: a partire dai suoi centri sulla costa della Misia, della Udia e della Caria, non solo si estendeva verso nord e verso sud, ma grazie alle sue colonie occupava già la Propontide e lidi ancor più lontani. Le isole doriche del sud hanno già avviato il processo di ionizzazione interna fungendo da modello per la madre patria. Ma anche gli Eoli sono già in fase di declino, per­ dono alcuni territori sulla costa31 e in fatto di civiltà hanno ormai solo un ruolo passivo. Però possiamo constatare che un tempo accadeva il contrario: l'epica, infatti, che rappresenta l'espressione vivente della su­ premazia ionica, reca nelle forme e nei contenuti tracce evidenti delle sue origini eoliche. Ma evidentemente gli Ioni col loro spirito hanno dato all'epica nuova vita. Ormai solo lo sguardo agguerrito dello stu­ dioso è in grado di cogliere i rari tratti stranieri. E solo in quanto opera ionica, opera di Omero, l'epica ha intrapreso la missione civilizzatrice di riguadagnare la madre patria alla causa della grecità. L'Eolia è entrata da sé nel fascino dell'epica ionica. Esiodo (probabilmente intorno al 700 a.C.) , che proveniva da una famiglia eolica e quando serviva come con­ tadino ad Ascra, in Beozia, era diventato poeta, dipende completamente dai poemi omerici. Il suo più fiero ricordo è quello del premio che aveva 31 Si è supposto, in base al suo dialetto, che anche Chio fosse originariamente eoli­ ca. Ma per questa ipotesi non vi è alcun elemento di sostegno né nella storia, né nella leggenda. Le conclusioni desunte dalla lingua si poggiano su un'errata conoscenza del processo storico. Le nuove popolazioni non erano mai state là prima; sia gli Eoli che gli Ioni si formano progressivamente sotto l'incalzare di particolari fattori storici. In primo luogo il grado di mescolanza della popolazione era dappertutto differente, così come differenti erano i fattori storici; di conseguenza dapprima si formarono tipologie etniche e linguistiche assai eterogenee. Non esisteva ancora un confine linguistico che separav.a l'eolico dallo ionico. Un confine fu tracciato solo quando la fusione di confe­ derazioni di città coinvolse determinati àmbiti. È certo che a Lesbo e a Chio si insedia­ rono più famiglie imparentate tra loro di quanto non sia avvenuto a Lesbo e Mileto. E ugualmente a Lesbo non si è insediata solo una popolazione di persone imparentate tra loro. Tutto ciò lo si percepisce nei dialetti. Gli abitanti di Chio sarebbero potuti diventare Eoli sotto il dominio degli abitanti di Mitilene oppure formando un'unica comunità sta­ tale con loro. All 'interno della comunità pan-ionica sono diventati invece Ioni. Ma que­ sto non è il risultato di un atto di violenza, bensì di uno sviluppo pacifico e organico.

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vinto ai giochi funebri in onore di un principe nella ionica Calcide. E verso il 600 a.C. la sua poesia è popolare a Mitilene.

L'epica ionica migra in Grecia L'epica ionica si trovava nelle mani di cantori o meglio di recitatori professionisti. Come ogni altra arte greca, anche lo stile omerico era il risultato di una lunga pratica artigianale, e per poterlo esercitare biso­ gnava prima impararlo bene. L'arte di comporre versi e quella di recitarli non erano due mestieri distinti. I contenuti delle composizioni rimane­ vano comunque di tipo popolare, e, infatti, anche gli elementi presi in prestito dagli Eoli lo erano diventati da tempo. Furono i cantori a por­ tare Omero nella madre patria come novità dal punto di vista del conte­ nuto e della forma, una novità che tutt'al più era stata un po' preparata dalla leggenda propagatasi di bocca in bocca. L'epica giunse attraverso il mare, proprio come accadde con altre merci ioniche. I rapsodi che emi­ gravano si guadagnavano il pane vendendo questa mercanzia. Dobbia­ mo ritenere che tale circolazione sia iniziata assai presto, ben prima che il figlio di un contadino ad Ascra abbia potuto dedicarsi di propria ini­ ziativa al mestiere di poeta componendo nelle forme a lui estranee. E la ricettività degli ascoltatori doveva essere molto forte, visto che non solo sono riusciti ad appropriarsi di questa poesia straniera, ma su di essa hanno anche costruito la propria poesia. Le nuove popolazioni - forma­ tesi nella madre patria dalla mescolanza tra dominatori arrivati da fuori e sottomessi e servitori li residenti da molto tempo - possedevano cer­ tamente già un ricco patrimonio di tradizioni nazionali, ma ancora non avevano una propria poesia forte e vitale. C'era il contenuto, ma manca­ va il recipiente. Ed ecco che un recipiente arrivava già ben confezionato dalla Ionia. Non costò troppa fatica versarci dentro il nuovo vino della leggenda continentale. A loro volta furono riprese anche le leggende che avevano costituito il contenuto dell'epica importata, le quali agi­ rono come un potente fermento per la formazione della nuova poesia epica pur dovendo subire a causa di questo trattamento diversi rima­ neggiamenti. La forma artistica, la metrica, la lingua e lo stile rimasero gli stessi; i cambiamenti avvennero in modo spontaneo e inconsapevole. 69

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Così l'epica america conobbe nella madre patria una nuova fioritura nel corso dei secoli tra il 750 e il 550 a.C., mentre nella propria patria continuava a regredire. Anche la leggenda dei Peloponnesiaci e di vari popoli delle anfizionìe si fissò in forma epica. Soltanto nelle colonie occidentali non è più approdata l'epica. Sono soprattutto gli ambienti culturali di Calcide, Delfi, Corinto e Argo quelli che coltivano l'epos. Tra l'altro l'arte poetica rimane totalmente nelle mani dei cantori di mestiere. Gli abitanti del Peloponneso dovevano percepire in maniera ancora più forte degli Ioni la difficoltà di appropriarsi di un dialetto e di un modo d'esprimersi stranieri per presentare ai compatrioti le gesta degli ante­ nati e le immagini ideali della propria fantasia. E secondo noi chiunque provi a fare qualcosa del genere è destinato a perdere un bel po' della sua nazionalità originaria a vantaggio della maniera internazionale della po­ esia america o esiodea: lo stesso Esiodo in fondo appare quasi come un omèrida. Questa circostanza ha forse in parte contribuito a determinare il fatto che la società dominante, i cavalieri dorici o calcidici, non si sono curati di praticare l'epica. Ma c'è un altro fattore ancor più efficace che l'ha impedito: il sentimento di casta. C'era una distanza abissale tra un nobile possidente e un aedo itinerante, che egli assoldava perché raccon­ tasse davanti ai convitati una bella storia su Ilio o su Tebe, o meglio su Eracle e Cicno, oppure sul ritorno a casa di Medea o ancora sulle impre­ se del nobile Egimio*. L'aedo non poteva certamente diventare nobile di nascita, né il signore poteva fare di più per la poesia, se non raccontare al poeta le storie dei suoi antenati e del suo popolo e pagargli un buon salario affinché quello trasponesse in versi omerici i racconti ricevuti e incorporasse, per esempio, una Mecionice** nella sequenza delle sublimi compagne degli dèi che avevano messo al mondo, a partire da un seme celeste, gli avi di casate illustri. L'epica nella madrepatria ha avuto un'in­ fluenza decisiva per la conservazione dei temi trattati; ma ha soltanto preparato il terreno per una vera e propria poesia nazionale. In sé è sem­ pre rimasta un elemento mezzo straniero e, vorrei dire, mezzo libero.

[* Mitico re dei Dori. Dai suoi figli Panfùo e Dimane, e dal figlio adottivo Ilio (fi­ glio di Eracle), sarebbero derivate le tribù doriche dei Dimani, Illei e Panfili.] [** Figlia di Eurota e amante di Posidone, da cui generò Eufemo. Ne parlava Esio­ do nel Catalogo delle donne (fr. 253 Merkelbach-West = Scolio a Pindaro, Pitiche, IV, 36 c).] 70

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Giambo e elegia Fu proprio nei secoli VII e VI a.C. che nella Ionia si compì un enorme sconvolgimento di tutti i ceti sociali e culturali. La nobiltà andò distrutta per opera della borghesia dei grandi centri urbani commerciali. Anche se sotto il nome di democrazia, quella che si affermò nettamente fu una classe privilegiata, la quale coniugava la più grande ricchezza con la più elevata cultura. È vero che una linfa vitale sempre nuova veniva continuamente infusa dal basso nei circoli privilegiati. Tuttavia, ogni creazione intellettuale rimase appannaggio esclusivo di quei circoli; la pratica artigianale della poesia omerica perdurò, ma divenne sempre meno produttiva e sempre meno apprezzata. Soffiava un vento intenso in quell'epoca. Le navi correvano lontano nel mare, i pensieri corre­ vano ancora più lontano verso l'incommensurabile. Dal profondo del popolo lavoratore emersero uomini spietati e temerari che giunsero ad occupare posizioni importanti grazie alla loro forza fisica e intellettuale, domarono i poteri vigenti, liberarono il loro popolo, lo oppressero e lo misero sotto tutela. Dal profondo dei cuori umani uscirono fuori i sentimenti eterni: le immensità dell'anima nella gioia e nel dolore, i tor­ menti della mente nelle domande senza risposta circa gli eterni enigmi del mondo. L'uomo che primeggiava nel Consiglio sulla piazza del mer­ cato si presentava davanti al popolo ovvero nell'àmbito ristretto dei suoi sodali; lo faceva negli spazi del mercato, sui gradini del tempio, nella sala del banchetto; parlava loro col cuore in mano e sotto la propria diretta responsabilità. Non raccontava storie di giganti e di antenati ammazzati molto tempo addietro, ma di attualità. Rimproverava la disinvoltura dei cittadini, li metteva in guardia dai pericoli, lanciava invettive contro i nemici. Oppure diceva quello che aveva ricavato dalle sue riflessioni su come si era formato il mondo, sul valore della vita e pronunciava mille parole di saggezza. La forma espressiva usata fu presto quella del giam­ bo, desunta dal più antico fondo del popolo e assolutamente popola­ re; oppure la strofa elegiaca derivata artisticamente dall'epica. Ma anche in quest'ultimo caso la lingua contemporanea dominava l'antica base linguistica, divenuta estranea. Intorno al 550 a.C. si compì poi l'ulti­ mo passo necessario, ci si liberò dell'ultimo impaccio, ossia della versi­ ficazione. 71

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Il rapsodo riprendeva ciò che il poeta elegiaco o il giambografo ave­ va cantato nella sua cerchia ristretta, così come era accaduto con l'epica. In tal modo anche questo tipo di poesia approdò nella madre patria, dove però il terreno non era ancora maturo per lo sviluppo di una sif­ fatta soggettività. Fu solo ad Atene, la polis cui apparteneva per origine, che il fondatore della costituzione s'impossessò della poesia usandola come arma per condizionare la pubblica opinione. Il commerciante So­ Ione, che aveva viaggiato in vari paesi e tra diversi popoli, riuscì dunque a realizzare un'impresa di cui non era stato capace il nobile chiuso nella sua fortezza o seduto al tavolo con i suoi contubernali. Certo, Sparta, che ormai era divenuta la capitale politica del Peloponneso, accolse l'ele­ gia perché la nobiltà non aveva mai avuto la minima sintonia con una poesia tanto colorita e ricca d'immagini qual era quella america. Vice­ versa ai nobili spartani piacquero le forme gradevoli dell'elegia ionica, così comprensive e comprensibili: in esse trovarono uno specchio in cui riflettere quelle virtù a cui venivano educati in forza del senso dell'onore e del loro rango sociale. Ma in questa esperienza andò perduto proprio quell'elemento che aveva segnato il progresso dell'elegia sull'epica, ov­ vero il senso dell'individualità. Secondo la tradizione dominante l'unico poeta fu un emigrante dalla Ionia. Vera o falsa che sia32, tale notizia dimostra che non si reputava

32 Non si riesce a venire a capo del dilemma che si trova formulato in modo corret­ to in Apollodoro (Strabone, 362): se Tirteo era ateniese, non può aver scritto l'Eunomia; se l'ha scritta, allora era un lacedemone. L'espediente di fargli attribuire la cittadinanza, al quale ricorre già Platone (Leggi, 629 a), non regge di fronte all'orgoglio per le proprie origini che nutrivano gli abitanti della tetrapoli dorica. E l'autore dell'Eunomia è stato capo dell'esercito contro i Messeni: questa circostanza figurava nelle elegie. Non si tratta di una funzione che si affida tanto facilmente ad uno straniero. Qui abbiamo dun­ que sicuramente a che fare con una personalità importante: ma per attribuirgli tutte le esortazioni al coraggio, che sono formulate in modo generico, ci vorrebbe una fiducia cieca, rispetto alla quale ci dovrebbero mettere in guardia i nomi di Omero, Esiodo, Orfeo, Teognide, ed anche di Saffo e Anacreonte. L'elegia spartana, così com'era, fini con l'essere tutta attribuita a quel nome famoso. La tradizione secondo cui Tirteo era ateniese è più antica della celebre storiella del maestro di scuola zoppo: una parodia della spedizione di Cimone in aiuto a Sparta, come oggi si tende ad ammettere. Altrove compare come patria di Tirteo la città di Mileto (Suda, s. v.) , ma non se ne può discutere giacché la fonte di tale notizia è sconosciuta. Il nome non suona attico: rimanda piut­ tosto a Tup'taJ.wç [firtamo] . Soltanto in casi sporadici si è conservata anche ad Atene 72

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plausibile che un poeta di tal genere provenisse dalla realtà politico­ culturale della Laconia. E in effetti nella maggior parte delle poesie che andavano sotto il nome di Tirteo non parla la voce di un singolo uomo, ma quella di un ceto sociale. I circoli culturali di Corinto e di Argo, di Tebe e di Calcide, si limitavano a questa poesia. La quale procede poco verso occidente proprio come l'epica. Infatti, quando Teognide compo­ ne le sue poesie nelle due Mègara, Atene è già diventata molto più in­ fluente di Corinto. Il giambo, fratello dell'elegia, più popolare e vigoro­ so di quella, è rimasto interamente limitato ad Atene. Il fatto che Salone lo abbia introdotto in quella città produsse tuttavia i frutti più inattesi. Il canto

Il canto che non riecheggia per la massa ottusa incapace di apprez­ zarlo, quello che il poeta non esegue per migliorare e convertire la gente, e neppure per dilettarla e intrattenerla, ma che il poeta esegue soltanto per la Musa o forse per l'amata: il vero canto è quello che riecheggia da Lesbo e soltanto da Lesbo. Esso riecheggia come il canto del cigno della morente civiltà eolica. Saffo si staglia come figura particolare in tutta la maestosa storia dello spirito greco. E se non fosse un fenomeno del tutto naturale, ci apparirebbe incomprensibile. Il principio in base al quale solo il meglio sopravvive vale per il genere della lirica in senso stretto, più che per la poesia in generale. Di sicuro i contemporanei s'in­ gannano completamente circa il valore del canto che tutti al momento hanno sulle labbra. In compenso i posteri sono tanto più spietati. Ed è questa la ragione per la quale risulta sempre molto difficile riconoscere le fasi di transizione. Nonostante il silenzio della tradizione nessuno mette in dubbio che accanto all'usignolo di Lesbo anche nella Ionia ab­ biano cinguettato e fischiettato diversi uccellini, ciascuno ammirato nel suo boschetto. E senz'altro anche le ragazze della Locride e quelle del Peloponneso hanno cantato, mentre lavoravano al fuso o portavano ac-

la lettera t davanti a u: Tup!Jrioat [firmide] indica un demo ed era senza dubbio una stirpe. E accanto a 1tOÀ.uxpucrou !J.ÉÀ.À.Et [Non m'importa di Gige ricco d'oro] si tratta di parole proprie del carpentiere Caronte che esigevano una perfetta etopea. La conclusione doveva produrre un effetto forte, come nell'i­ mitazione oraziana, o addirittura più forte, nella misura in cui Archiloco supera Orazio in impertinenza. Il fatto che il recitatore si sia travestito da capro probabilmente rese da principio più semplice il passaggio. Ad ogni modo la sua relazione rispetto al rapsodo dei giambi era esatta­ mente la stessa che intratteneva il coro di capri rispetto al tradizionale coro dionisiaco. Che anche il recitatore fosse un capro deriva dal fatto che il dramma satiresco ha un satiro come attore accanto al coro - ele­ mento conservatosi fino a Euripide -, e questo padre dei satiri è rimasto in linea di massima un personaggio fisso tanto quanto il coro dei satiri. La saldatura tra poesia ionica e dorica era così compiuta; e si era rea­ lizzata in un luogo terzo, dove entrambe avevano accoglienza e nessuna 95

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delle due era veramente di casa. Inoltre l'una e l'altra si presentavano come qualcosa di definito e non si fusero mai completamente. Fintanto che sono state composte tragedie, il poeta ha dovuto comporre i versi recitati in un dialetto e quelli cantati in un altro: entrambi non erano né quelli della sua patria, né dei suoi cantanti, e neppure dei suoi ascolta­ tori. Il dialetto attico, che era comune a tutti loro, ha tuttavia pian piano esercitato un influsso sempre più forte su tutte le parti della tragedia ri­ ducendo così l'opposizione originaria tra le due forme espressive. I dia­ letti ripresi dagli Ateniesi non erano comunque già di per sé puri; e le differenze non sono mai sparite del tutto, se non con la commedia nuo­ va che però perse anche il coro e con esso il carattere solenne-religioso. Fu solo con la Commedia Nuova che l'elemento drammatico pre­ valse definitivamente. Nel VI secolo a.C. non ce ne doveva essere alcuna traccia, e Tespi non poteva neppure sognare quale sarebbe stata la porta­ ta della sua invenzione. Ma la prima pietra era stata posata; si procedette un passo alla volta e presto anche con grandi balzi in avanti. Ci vollero una quarantina d'anni: pochi rispetto all'importanza dell'impresa che si compiva. Si aveva dunque il coro di satiri e con l'aggiunta di un altro personaggio si ebbe un È1tEt>) e Epimeteo (letteralmente: «colui che riflette tardi») .] -

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singolo poeta, sulla comprensione da parte di coloro che sono in grado di meditarci sopra. È nostra intenzione fare un tentativo in questo senso a proposito della saga di Eracle. È difficile, invece, cogliere il rapporto che lega la leggenda agli dèi e alla religione, tanto più che l'insopportabile parola "mitologia" abbrac­ cia l'intero luxe de crqyance �usso della fede] * che un popolo si permette con i suoi dèi, eroi, mostri, le loro nascite, combattimenti, morti; una parola che in effetti può essere usata soltanto da coloro che sono lieti di non dover più sostenere i costi di un tale lusso. Quando la leggenda pa­ radigmatica introduce divinità o dèmoni, lo fa in un modo non diverso da quello con cui ricorre a uomini o animali. Utilizza tutti i mezzi che ha a disposizione, ma è necessario che tali mezzi siano già presenti. Nel farlo può agire in modo creativo, senza restrizioni, secondo il principio dell'analogia. Soprattutto ha elevato personificazioni al rango di divini­ tà, incidendo in tal modo sulla formazione del pensiero teologico, visto che le creazioni dell'immaginazione sono ben capaci di divenire potenze religiose. Eros, per esempio, non è altro che una creazione poetica. Ma è chiaro che già da prima dovevano esistere dèi e dèmoni, e quegli dèi che avevano un'esistenza reale nella fede e nel culto non vengono mai più spiegati in questo modo. Certo, se il razionalismo avesse ragione e la religione non fosse altro che una cosa che qualcuno una volta ha esco­ gitato, o se avesse ragione l'evemerismo e gli dèi fossero un tempo real­ mente esistiti in carne e ossa, o ancora se avesse ragione il simbolismo naturalistico e la religione non fosse altro che meteoroleschia [chiacchiera sulle nuvole] ** trasposta metaforicamente, allora gli dèi sboccerebbero nella leggenda e le loro azioni sarebbero tanto antiche quanto i perso­ naggi, se non addirittura più antiche dei personaggi. Ma tutto questo non significa nulla, o tutt'al più è una faccenda puramente esteriore. La divinità non ha altra dimora che il cuore degli uomini, e quand'anche si manifesta nell'elemento che essa ancora riflette nella maniera più pura, non si tratta affatto della sua vera forma, così come quando lo spirito

[* In francese nel testo. L'espressione ricorre in una delle Massime e riflessioni di Goethe. Cfr. J.W. Goethe, Kunsttheoretische Schriften und Obersef:(flngen, Berliner Ausgabe, vol. 1 8, hrsg. von S. Seidel, Ber!in 1 984, p. 604. * [** Dal greco J.!EtEropoÀ.É>*. Lessing ci arriva solo col ragionamento, ma comunque ci arriva. I veri poeti giungono alla rivelazione direttamente. - [* Citazione dal dramma Nathan der Weise di G.E. Lessing (Atto I, scena II).] '

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la a che fare con la leggenda, ed è per questo che la religione ha così tanto e così poco da imparare dalla storia degli dèi - che nondimeno esiste - quanto ne potrebbe avere da una qualunque teologia. Leggenda e religione procedono l'una accanto all'altra. La religione è destinata a penetrare la leggenda, come accade con ogni altra cosa; ma se accade viceversa che la leggenda entra nella religione, essa finisce col diventare un corpo estraneo. La commistione è pericolosa, diventa alla fine dele­ teria, anche se in verità è inevitabile. Infatti, un popolo così come cerca di crearsi una rappresentazione della propria storia, del proprio stato e del proprio diritto, fa lo stesso a proposito della propria religione; e lo fa escogitando una storia che racconta il divenire e l'agire degli dèi. In questo senso è proprio vero che Omero ed Esiodo hanno dato ai Greci la loro 8eoyovi11 [teogonia] . Come tutte le altre leggende, anche queste rimangono immerse in un flusso continuo conformemente ai muta­ menti dell'ideale etico e alla crescita del sapere empirico. E nel mentre la yot 1tOÀÀOt 'tE lCOÌ YEÀOtOt, ffiç ÈJ.LOÌ at VOV'tat, EÌcrt V [Ecateo dice così: scrivo queste cose come mi pare siano vere: infatti, le storie dei Greci, così come mi si presentano, sono molte e risibili] **. E un terzo, ancora, rigetta i vecchi dèi ed i loro profeti, ossia i poeti epici, spiegando che i personaggi della leggenda sono 1tÀacrJ.La'ta 'trov 1tpO'tÉprov [inven­ zioni degli antichi] ***. È giunto il momento in cui la Ìcr'topiTJ e la tÀo­ croia del singolo sostituiscono quelle del popolo, mentre la scienza rileva la leggenda. Questa era la situazione in Ionia al tempo di Eschilo. Atene si trova a metà strada tra la Ionia e i Dori. Salone e i tiran­ ni avevano spostato verso est il fronte dello stato, che in precedenza era tutto diretto verso ovest. Salone e Clistene hanno rotto il giogo delle forme sociali deteriorate. Si è così liberata la forza viva di una popolazione urbana destinata a diventare consapevole dei propri mezzi e ad autogovernarsi entro un quadro di libertà garantita dalle leggi. Le incombenze più belle vengono affidate al popolo al momento giusto e vengono assolte; nuovi traguardi ancor più elevati si aprono all'oriz­ zonte. È in questa atmosfera che Eschilo creò la tragedia diventando un novello Omero. Il popolo nella sua vasta moltitudine viveva ancora nel mondo della leggenda, e la democrazia respinse sia la soggettività tiran­ nica degli Ioni che quella oligarchica di Pindaro. Ma il popolo pretende­ va di sentir risuonare nella leggenda i propri sentimenti veri e profondi, e voleva anche contribuire al culto religioso. Il popolo era pio e serio; nel suo cuore si agitavano i sentimenti più elevati e profondi. Esigeva che il [* Eraclito, 22 B 1 0 1 DK.] [** Incipit dell'opera storica di Ecateo di Mileto (FGrHist [*** Senofane, 21 B 1 , 22 DK.]

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1).]

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poeta desse forma, colore e suono a tali sentimenti. Esigeva: che il poeta divenisse suo maestro ed educatore e che lo conducesse fino a dio. Dunque, per Atene, per la città che aveva vinto a Maratona e a Sa­ lamina, poteva bastare una sola forma di poesia, una poesia che restas­ se oggettiva e popolare come quella epica, e nella quale la personalità soggettiva del poeta si ritirasse. Doveva trattarsi di una poesia seria e sublime (