Cinema ed estetica. L'evocazione del sacro nel cinema religioso 8887781362, 9788887781366


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Cinema ed estetica. L'evocazione del sacro nel cinema religioso
 8887781362, 9788887781366

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collana filosofia

Dedicato a p. Enrico Bagagli

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Mario Germinario

CINEMA ED ESTETICA L’evocazione del sacro nel cinema religioso

Stilo Editrice

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Proprietà letteraria riservata ISBN 88-87781-36-2 EAAN 9788887781366 © 2005 STILO EDITRICE Viale Unità d’Italia 22/a 70125 Bari tel. 080/5574849 - fax 080/5575251 e-mail: [email protected] - http://www.stiloeditrice.it

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SOMMARIO

PRESENTAZIONE INTRODUZIONE

9 11

I CAPITOLO

CINEMA ED ESTETICA 1. Il cinema elevato a concetto di arte 2. Lo “specifico” del cinema 3. Il film come godimento estetico e il film come semplicemente piacevole 4. Il cinema come spettacolo 5. Il cinema come fatto commerciale 6. Il cinema come “arte” 7. Il soggettivismo del giudizio estetico 8. Forma e contenuto nel film 9. Il film documentario 10. Il film a soggetto 11. Il film a tema 12. Il film a tesi 13. Elementi costitutivi del film d’arte 14. Cinema e televisione

17 19 24 27 29 31 32 37 40 43 45 52 55 61 81

II CAPITOLO

L’EVOCAZIONE DEL SACRO NEL CINEMA RELIGIOSO 1. Il “sacro” tra evocazione e mistero 2. L’evocazione del sacro in Dreyer 3. L’evocazione del sacro in Bresson 4. L’evocazione del sacro in Bergman

85 87 91 94 96

III CAPITOLO

LA FIGURA DI CRISTO NEL CINEMA Jesus Christ Superstar di Norman Jewison Il Re dei re (King of Kings) di Nicholas Ray

103 105 107

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La più grande storia mai raccontata di George Stevens Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini Il Messia di Roberto Rossellini Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli La passione di Cristo di Mel Gibson

109 112 116 120 125

I FILM PIÙ CITATI E COMMENTATI

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INDICE DEI NOMI

133

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PRESENTAZIONE

Questo libro è un “saggio” non esaustivo sul tema dell’estetica nel cinema, è un’introduzione al tema-problema del rapporto fra cinema ed estetica. Si tratta di un lavoro inteso a facilitare gli appassionati del cinema affinché, nella visione dei film, sappiano meglio regolarsi nella formulazione dei giudizi che inevitabilmente daranno. E anche perché, fra tanti film che invadono il mercato del cinema, sappiano regolarsi nella scelta che fanno. Vuole essere un sussidio per coloro che amano il film d’arte, che abbia valore estetico e non sia omologabile fra i tanti film che meritano veramente poco di essere visti. Il testo si divide in tre parti. La prima parte, Cinema ed estetica, analizza il problema dell’estetica nel linguaggio del cinema e indica gli elementi per poterne rilevare il valore d’arte. In questa prima parte si discute non solo del rapporto fra cinema e televisione, ma anche delle condizioni per le quali anche il linguaggio televisivo può assurgere a livello di linguaggio estetico. La seconda parte, L’evocazione del “sacro” nel cinema religioso, si sofferma prima a stabilire la differenza fra il concetto di religioso e il concetto di sacro, quindi a rilevare come non tutti i film impegnati a raccontare il “religioso”, film che hanno trattato figure e fatti biblici, e specialmente la figura di Cristo, sono riusciti a “evocare” il sacro. Infine vengono passati al vaglio della critica alcuni autori, come Dreyer, Bresson, Bergman, Rossellini, Pasolini ed altri registi che hanno trattato soggetti religiosi.

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La terza parte, La figura di Cristo nel cinema, passa in rassegna i più noti film interessati alla figura di Gesù: il musical Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, Il Re dei re di Nicholas Ray, La più grande storia mai raccontata di George Stevens, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Il Messia di Roberto Rossellini, Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, La passione di Cristo di Mel Gibson.

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INTRODUZIONE

Non vi è chi possa ancora dubitare che il cinema, fin dal suo nascere, abbia mostrato le credenziali per essere annoverato fra le arti belle e si sia collocato nel consesso delle discipline di cui si interessa l’estetica. Si parla di un bel film nello stesso modo in cui si ritiene bello un dipinto, bella una sinfonia, una scultura, un romanzo, una poesia. Insieme alla fotografia, anche il cinema si è aggiunto alle classiche arti belle della pittura, scultura, musica, poesia, danza, architettura ed eloquenza, che costituivano le classiche sette arti. Distinte e diverse dalle arti tecniche, che invece erano dirette alla produzione dell’utile artigianale. Le sette arti sopra menzionate erano ritenute “arte” in ragione del fatto che esse erano piacevoli, come dirà Vico1, eleganti, come dirà Harris2, belle, come volle che si definissero Charles Batteux3. Il termine aggettivato della bellezza fu quello che consacrò le sette arti, termine che in realtà traduceva in senso estetico sia la piacevolezza di Vico che l’eleganza di Harris4. Il cinema e la fotografia, annoverate anch’esse fra le arti belle, non ebbero però un facile accesso e riconoscimento nella teoria dell’estetica. La fotografia trovò grande difficoltà a essere ritenuta produzione artistica. Non la si considerò arte, perché opera originaria 1. G. VICO, Scienza nuova, 1744. 2. J. HARRIS, Three Treatises, 1744. 3. C. BATTEUX, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris 1746. 4. P. O. KRISTELLER, The Modern System of the Arts, 1951.

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non dell’uomo ma della macchina: è la macchina che si ferma sull’immagine e ne ritrae la forma. Si stentava a pensare che la macchina fotografica fosse per il fotografo ciò che il pennello diventava nella mano del pittore. Non si avvertiva che, se è proprio della macchina ritrarre l’intero dell’immagine fotografica, la stessa immagine non è solo differente, ma diversa a seconda che sia adoperata da uno o da un altro fotografo. La macchina fotografica ritrae e impressiona la pellicola, ma il risultato dell’immagine dipende totalmente dal gusto estetico del fotografo che sceglie l’angolazione, il tono della luce, la prospettiva, l’espressione dell’immagine che ritiene necessari per ottenere non una foto commemorativa, ma una foto che sia arte. Il cinema non solo presentava la stessa difficoltà di “valorizzazione” della fotografia, ma anche quella di proporsi come linguaggio di immagini in movimento. Il cinema non sorgeva infatti come giustapposizione di immagini fotografiche, poste l’una accanto all’altra, come si può notare in un comune album fotografico. Esso sorgeva come un nuovo linguaggio. Il suo specifico era di presentarsi come linguaggio di immagini in movimento. Ma, proprio perché, come nella fotografia, era la cinepresa a realizzare l’intera ripresa cinematografica, si stentava a pensare che il cinema potesse produrre arte, anche perché non si capiva chi dovesse essere ritenuto l’artista, se il regista, l’operatore, gli attori, lo scenografo. In effetti il cinema, nel suo inizio, come tutte le forme di arte, presentava la difficoltà della sua struttura tecnica. Riusciva a destare meraviglia e stupore; stimolava interesse e suscitava discussioni. Ma, ovviamente, non poteva produrre opere che potessero immediatamente generare godimento estetico. Per questo, come nuova forma d’arte, ingenerava forti sospetti. L’arte di cui tratta l’estetica, infatti, è solo ciò che, nelle sue finalità e nella sua natura, mira a produrre bellezza e a generare godimento estetico. I primi filmati restano alla soglia della meraviglia e dello stupore. Il godimento della visione del film si fermava alla meraviglia e allo stupore che generava nell’animo degli spettatori. 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

CINEMA ED ESTETICA

Nonostante i suoi difficili inizi, non passò molto tempo che il cinema mostrò di procedere oltre lo stupore e la meraviglia, che pure presentano i sintomi di una possibile bellezza artistica. Ma si intravidero immediatamente le possibilità di suscitare esperienze estetiche. Nella sua capacità di suscitare esperienze estetiche, il cinema poneva le ragioni di un suo innesto non sospettabile nella definizione dell’arte. Se era capace di generare piacere contemplativo, ciò significava che aveva la possibilità di introdurre a delle reali esperienze di bellezza. E perciò, se riusciva a suscitare esperienze estetiche, esso poteva entrare di diritto nel novero delle discipline estetiche. Il cinema, infatti, non solo è una attività umana, ma, prescindendo dalla questione di chi si debba ritenere l’autore principale dell’opera filmica, produce bellezza, riproduce la realtà, dà forma all’informe, è espressione di pensiero e fantasia, suscita emozioni, genera esperienze estetiche, dà particolare forma a un contenuto. In qualunque modo si volesse definire l’essenza dell’arte estetica, il cinema si presentava con tutte le capacità di verificarne il concetto. Se bello è ciò che piace nella sua apprensione, la definizione della bellezza artistica si addiceva a pieno titolo al linguaggio filmico. Il cinema, in quanto linguaggio, poteva essere arte. Era la cosa più interessante e nuova che al linguaggio filmico si doveva riconoscere: capacità non solo di registrare fatti ma anche di generare godimento. Anche se con difficoltà, specie agli inizi, il cinema ebbe il suo riconoscimento di nuova forma d’arte. Nuova forma d’arte che veniva ad aggiungersi a quella dell’arte fotografica. Anzitutto per le finalità di coloro che confezionavano il materiale cinematografico, mediante la registrazione delle immagini in movimento. I primi filmati, infatti, sorsero per registrare la realtà e renderla movimentata nelle immagini. Cosa che non era possibile realizzare nella fotografia che, una volta prodotta, rendeva statica l’immagine. Il cinema dimostrava una finalità non necessariamente estetica, ma esprimeva la novità dello specifico proprio: si trattava, 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Mario Germinario

infatti, di un nuovo modo di esprimere e di comunicare. Nasceva un nuovo linguaggio, un modo differente di registrare fatti e comunicare conoscenze. Anche la fotografia riproduceva immagini, ma, rispetto al disegno o alla pittura, il cinema mostrava il suo specifico nel fatto che riproduceva non una similitudine, ma una immagine. Immagine che poteva anche presentare i segni di una interpretazione, ma che tuttavia restava immagine e non similitudine. La similitudine infatti fa rassomigliare due cose simili; l’immagine invece ripropone l’identità di se stessa. L’immagine propone me stesso; la somiglianza invece mi rende simile ad altro. Louis Lumière – scrive il critico Edgar Morin – ebbe la geniale intuizione di filmare e proiettare come spettacolo ciò che spettacolo non è: [...] Ciò che attirò le prime folle non fu un’uscita dalla fabbrica, un treno che entra in stazione (sarebbe stato sufficiente andare alla fabbrica o alla stazione), ma una immagine del treno, una immagine dell’uscita dalla fabbrica. Non era per il reale, ma per l’immagine del reale che si faceva ressa alle porte del Salon Indien5.

Il cinema manifestava la novità nel fatto che, insieme alle caratteristiche e specificità della fotografia, poteva usufruire della registrazione del movimento delle immagini; cosa che, indiscutibilmente, era fenomeno d’eccezionale interesse. Novità tecnica che consentiva di introdurre nel filmato delle possibilità cooptative d’impressione e suggestioni che erano impreviste nella registrazione delle immagini stesse. Ora, tutto questo non significava che la registrazione delle immagini in movimento fosse di per sé opera d’arte. Poteva, infatti, trattarsi di documentazione, di riproduzione o anche di semplice curiosità, passatempo e divertimento. Ma era interessante il fatto che si trattava di un linguaggio nuovo, di un tipo di comunicazione che poteva dare forma espressiva specifica. Poteva generare prodotti che non fossero necessariamente di 5. E. MORIN, Il cinema e dell’immaginario, Silva, Milano 1962.

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CINEMA ED ESTETICA

semplice utilità d’uso. Il cinema non solo poteva stupire e meravigliare, poteva destare godimento estetico. Il nuovo linguaggio cinematografico aveva dunque tutte le possibilità di esprimersi in forma d’arte, solo che gli operatori avessero avuto l’intenzione e la coscienza di elevare a forma estetica quel nuovo modo di comunicare. Quando lo strumento del cinema sarà utilizzato dagli artisti, dagli esteti del cinema, esso diventerà arte.

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I CAPITOLO CINEMA ED ESTETICA

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1. Il cinema elevato a concetto di arte L’attuale punto di arrivo della complessa storia della definizione dell’arte non ha ancora trovato la sua definitiva conclusione. Dal momento in cui il filosofo Hegel predisse l’inevitabile «morte dell’arte», molti furono e sono quelli che ne paventano la dissoluzione. Molti degli stessi artisti d’avanguardia affermano di voler operare contro il bello dell’arte e l’arte stessa. Ma, negata all’arte la proprietà di generare il bello, l’arte in sé ha finito per sistemarsi in tutt’altra collocazione. Il termine “arte” non ha più una sua definizione univoca. In ogni modo, se ci si vorrà riferire a un concetto di arte, che ancora persiste nel senso comune degli operatori e dei fruitori del bello, l’arte resta consolidata nella definizione di sempre: essa è «riproduzione di cose o costruzione di forme o espressione di esperienze, ma soltanto di quelle capaci di destare meraviglia, commuovere, scuotere»1. È in base a questa definizione dell’arte estetica che noi stiamo esaminando le ragioni per le quali il cinema è, o può essere, una forma d’arte. Si è detto che può esserci arte se negli operatori vi è, oltre la capacità acquisita e l’attitudine, l’intenzione di creare bellezza. Ma il cinema può essere forma d’arte anche ed essenzialmente in riferimento agli effetti che produce nei fruitori delle opere realizzate. All’inizio, nei suoi primi passi, il cinema poteva impegnarsi solo progredendo nell’uso della sua tecnica. Ma non appena ci si è resi padroni del mezzo, il cinema ha subito dimostrato di potere produrre opere piacevoli, cioè godibili sotto l’aspetto estetico. Ci si è accorti che il linguaggio filmico poteva diventare un potente mezzo non solo di divertimento e curiosità, ma anche di cultura e di godimento estetico.

1. W. TATARKIEWICZ, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1993, p. 69.

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Non solo nelle intenzioni degli operatori, ma anche per gli effetti del nuovo linguaggio, il cinema era capace d’apprensione estetica, di suscitare emozioni, oltre che commozioni, di piacere nella sua stessa apprensione. Il cinema poteva divertire, incuriosire, ammaestrare, informare, registrare, turbare, impaurire e anche commuovere. Realtà tutte che non possono di per sé reclamare il riconoscimento dell’arte, ma che potevano anche destare ammirazione, dilettare, generare estasi e godimento, cioè suscitare delle esperienze estetiche, produrre effetti d’arte, solo che fossero nelle capacità e attitudini di veri esteti. Anche dal punto di vista dei reali prodotti cinematografici, il cinema non si limitò a divertire, a incuriosire, a informare e registrare. Tradusse in termini di realtà operative quello che era nelle premesse della sua possibilità estetica. Fin dall’inizio, non vi fu tematica in cui il cinema non si impegnò con intendimenti d’arte. Nella commedia vi fu La febbre dell’oro di Charles Chaplin (1925); nel dramma Sergej M. Ejzenstejn firmò Sciopero (1924); nell’epica vi fu il grande affresco dello stesso Ejzenstejn Aleksander Nevskij (1938), con il sincronismo sonoro delle stupende musiche di S. Prokofiev. David W. Griffith, con il suo lungometraggio Nascita di una nazione, impose il genere della commemorazione; il naturalismo estetico trovò in Erich von Stroheim il suo migliore interprete con il film Rapacità (1924); la narrativa storica si tradusse in film d’arte con La fine di San Pietroburgo del grande Vsevolod Pudovkin, mentre si faceva arte anche il genere della comicità con Io... e la scimmia di Edward Sedgwick, interpretato da Buster Keaton nel 1928; il documentario trovava la sua massima espressione in L’uomo di Aran di Robert Flaherty (1934), mentre il realismo si avvaleva della maestria di Marcel Carné de Il porto delle nebbie (1938). Infine, cosa che sembrava impossibile e impensabile, anche la storia del West americano trovò in Ombre rosse di John Ford (1939) il film che certamente sarà ricordato come uno dei capolavori dell’arte della storia estetica del cinema. 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

CINEMA ED ESTETICA

Insieme ai film citati, l’arte del cinema può ancora annoverare delle opere che certamente hanno incontrato il favore della critica estetica e che certamente saranno ricordati in ogni storia del cinema: CHARLES CHAPLIN: Il circo (1928), Le luci della città (1931), Tempi

moderni (1936), Il grande dittatore (1940), Luci della ribalta (1952). SERGEJ M. EJZENSTEJN: Sciopero (1924), La corazzata Potemkin (1925), Ottobre (1927), Que viva Mexico! (1930), Ivan il Terribile (1944-48). VICTOR SJOSTROM: I Proscritti (1917), Il carretto fantasma (1920). MAURITZ STILLER: Il tesoro di Arne (1919). CARL THEODOR DREYER: La passione di Giovanna d’Arco (1928), Il Vampiro (1932), Dies Irae (1943), Ordet (1955), Gertrud (1964). ALEKSANDR DOVZENKO: Arsenale (1929), La terra (1930). ROBERT FLAHERTY: Tabù (1931), L’uomo di Aran (1934). JOHN FORD: Il cavallo d’acciaio (1924), Ombre rosse (1939), Furore (1940). GEORG WILHLEM PABST: Lulù o Il vaso di Pandora (1928), Westfront (1930), La tragedia della miniera (1931). LUIS BUNUEL: L’âge d’or (1930), I figli della violenza (1950), L’angelo sterminatore (1962), La via lattea (1968), Il fantasma della libertà (1974). JOSEF VON STERNBERG: L’angelo azzurro (1930), Una tragedia americana (1931). EDMUND GOULDING: Grand Hotel (1932). FRITZ LANG: Il dottor Mabuse (1922), I Nibelunghi (1923), Il mostro di Dusseldorf (1931), Furia (1936), La bestia umana (1954). JEAN RENOIR: Toni (1934), La regola del gioco (1939). MARCEL CARNÉ: Il porto delle nebbie (1938), Alba tragica (1939), Les enfants du paradis (1945). RENÉ CLAIR: Un cappello di paglia di Firenze (1927), A me la libertà (1931), Il silenzio è d’oro (1947), Le grandi manovre (1955). ORSON WELLES: Quarto potere (1941), Otello (1952), L’infernale Quinlan (1958), Il processo (1962). DAVID LEAN: Breve incontro (1945), Il dottor Zivago (1965). ROBERTO ROSSELLINI: Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1948), Francesco giullare di Dio (1950), Europa ’51 (1952), Il generale della Rovere (1959). 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Mario Germinario

VITTORIO DE SICA: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Mira-

colo a Milano (1951), Umberto D (1952), La ciociara (1960). LUCHINO VISCONTI: La terra trema (1948), Senso (1954), Rocco e

i suoi fratelli (1960), Morte a Venezia (1971). ELIA KAZAN: Un tram che si chiama desiderio (1951), Fronte del

porto (1954). AKIRA KUROSAWA: Rashomon (1950), I sette samurai (1954), Dersù

Uzalà (1975). FEDERICO FELLINI: La strada (1954), La dolce vita (1959), Otto e

mezzo (1963), Amarcord (1973), Prova d’orchestra (1978). JUAN ANTONIO BARDEM: Calle mayor (1956). ANDRZEJ WAJDA: I dannati di Varsavia (1956), Ceneri e diamanti

(1958). SATYAJIT RAY: L’invitto (1957). STANLEY KUBRICK: Orizzonti di gloria (1957). MICHELANGELO ANTONIONI: L’avventura (1960), La notte

(1960), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964). ALAIN RESNAIS: L’anno scorso a Marienbad (1961). JEAN-LUC GODARD: Una donna sposata (1964), Crepa padrone,

tutto va bene (1972). ANDREJ TARKOVSKIJ: L’infanzia di Ivan (1962), Andrej Rublev

(1971), Solaris (1972). MIKLOS JANCSÒ: L’armata a cavallo (1967), Silenzio e grido (1968). ROBERT BRESSON: Il diario di un curato di campagna (1951), Un con-

dannato a morte è fuggito (1956), Il processo di Giovanna d’Arco (1962), Così bella, così dolce (1969), Lancillotto e Ginevra (1974), Il diavolo probabilmente (1977). INGMAR BERGMAN: Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della Vergine (1959), L’occhio del diavolo (1960), Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1961), Il silenzio (1963), Persona (1966), Sussurri e grida (1972), Dopo la prova (1984). ROBERT ALTMAN: Nashville (1975). THEODOROS ANGELOPOULOS: La recita (1975). ERMANNO OLMI: Il tempo si è fermato (1960), Il posto (1961), L’albero degli zoccoli (1978). PIER PAOLO PASOLINI: Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il Vangelo secondo Matteo (1964).

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CINEMA ED ESTETICA

Dalle sue origini (1894) fino ai nostri tempi, il cinema ha così dimostrato di meritare a pieno titolo l’ingresso fra le arti. Infatti, in sì breve tempo, ha prodotto tante opere d’arte quante, in proporzione, ne hanno prodotte altre forme di espressioni artistiche nel corso di un tempo secolare, dalla letteratura alla pittura, dalla scultura all’architettura, dalla musica alla poesia. Questo nostro studio non è interessato ad approfondire altro che l’aspetto estetico del nuovo linguaggio. La nostra risposta è riferita alla domanda: quando e perché noi possiamo definire opera d’arte un film? In base a quali criteri di valutazione estetica noi abbiamo, per esempio, definito film d’arte opere come Luci della ribalta di Charles Chaplin, Ordet di Dreyer e La terra trema di Visconti, e di pochi pregi estetici film come Alle soglie della vita di Ingmar Bergman, Agente 007- Missione Goldfinger di Guy Hamilton e Eroe per caso di Stephen Frears? Film che hanno anche avuto una larga partecipazione di pubblico e che sono firmati da valenti registi. Il nostro intento è d’introdurre a una lettura del linguaggio cinematografico che renda idonei a giudicare quando e perché un’opera filmica merita il più chiaro consenso di critica estetica e quando, invece, un film, malgrado la grande partecipazione di pubblico, si ritiene che non abbia credito estetico per essere citato in una storia del cinema d’arte. Come ogni altra espressione artistica, il cinema ha certamente registrato molte e insigni opere d’arte, alcune delle quali sono state da noi citate. Ma moltissimi sono i film che certamente non saranno mai citati nella storia estetica del cinema e che saranno depositati nel dimenticatoio come opere destinate al puro consumo e a sollecitazioni che niente hanno a che fare con il bello dell’arte. Ne conseguono i seguenti interrogativi: Cosa fa che un film assurga a livello d’arte? Quali sono le qualità che conferiscono valore estetico a un film?

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Quali elementi espressivi costituiscono il presupposto per il quale un film possa avere pretesa d’arte? Quale il criterio normativo che induce a definire estetica un’opera cinematografica? Si tenterà di stabilire precisamente il criterio di valutazione estetica di un film.

2. Lo “specifico” del cinema Il “cinema” è un linguaggio, cioè “dice” qualcosa in un modo che gli è specifico. La stessa cosa si afferma della pittura, dell’architettura, della scultura, della narrativa, della poesia, della danza e dell’oratoria. Ogni forma di arte ha un modo “specifico”, per il quale la pittura non si esprime come la scultura, la scultura non si esprime come la narrativa e la poesia, la danza come l’oratoria. Ci si domanda perciò, quale sia l’elemento specifico che rende il linguaggio cinematografico altro dalle altre forme di arte. La prima cosa che coglie l’esperienza è che il cinema è un linguaggio di immagini. Ma anche la fotografia lo è, così come lo è la pittura, la scultura e la stessa danza. Dicendo perciò che il cinema è linguaggio di immagini definisce il genere del linguaggio, ma non lo specifica, cioè non dice ciò che è proprio del cinema e non lo è delle altre forme del linguaggio artistico. È dunque necessario che il genere del linguaggio sia specificato. E perciò si aggiunge che il cinema è linguaggio di immagini in movimento. Infatti è nel movimento delle immagini o nelle immagini in movimento che il cinema esprime il suo linguaggio. E dunque il cinema può essere così definito: linguaggio di immagini in movimento. “Cinema” infatti deriva dal greco: K nhma , che significa appunto movimento. Chi registra su di una pellicola un filmato, registra infatti delle immagini in movimento. Ma è cinema anche se è in movimento la cinepresa mentre registra delle immagini fisse. È dunque cinema se la cinepresa è fissa e registra immagini in movimento, ma 24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

CINEMA ED ESTETICA

è anche cinema quando le immagini registrate sono ferme e a muoversi è la cinepresa. Che siano in movimento le immagini, o che sia in movimento la cinepresa, il filmato registrato e quello proiettato riferiscono sempre un movimento di immagini. E dunque si fa cinema quando si registrano o si proiettano immagini in movimento. È cinema la registrazione di un albero le cui foglie sono mosse dal vento, di leoni che inseguono una preda, di una mandria che attraversa un fiume, di operai che escono da un’officina, di bambini che giocano in riva al mare, della neve che fiocca o della pioggia che cade. Una cinepresa che avesse fissato il suo obiettivo su di una casa, stando ferma e neanche aggirandosi intorno ad essa, non farebbe perciò cinema, anche se registra e poi proietta immagini, così come non è cinema una fotocamera che, per ragioni di sicurezza, resta ferma a registrare l’interno di un negozio alimentare o di una oreficeria per scoraggiare i ladri. Tuttavia ci sono anche dei filmati che sembrano contraddire la definizione del cinema come linguaggio di immagini in movimento. Abbiamo detto che cinema non è solo e necessariamente filmato di immagini in movimento. Infatti è anche cinema un filmato che ritrae immagini statiche, non in movimento, se è la cinepresa che si muove attorno alle immagini, girando loro attorno o anche solo zumandole. In ogni modo il filmato, nell’uno come nell’altro caso, proietta comunque movimento di immagini o immagini in movimento. È stato proposto da alcuni cineasti russi un caso eccezionale, che ha sconvolto la definizione del cinema come immagine in movimento. Un lunghissimo film era stato registrato dal regista russo Sergej Ejzenstejn nel 1937, Il prato di Bezin (Bezin lung). Narra del giovane Stepok, pioniere di una comune agricola sovietica, che denuncia il padre, sostenitore dei kulak, quale responsabile di un incendio provocato per sabotare il raccolto del grano del kolkoz. La chiesa ortodossa dove si barricano gli incendiari in fuga viene profanata dai contadini progressisti; Stepok viene ucciso dal padre con una fucilata. 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il film, per ragioni politiche, non piacque alle autorità sovietiche a causa della sua “impostazione formale e ideologica”. Perciò, interrotto e ripreso per due volte, venne proibito e lasciato interrotto per sempre. Come era costume di allora sotto la dittatura sovietica, l’autore fu costretto ad una “autocritica”. L’intero materiale filmato fu messo da parte. Durante i bombardamenti, molti negativi del film andarono persi. Gli spezzoni restanti furono trovati e raccolti da Sergej Jutkevic. Costui operò una ricostruzione parziale del film – trenta minuti contro migliaia di metri di pellicola girata – fatta con fotografie di scene, schizzi, fotogrammi, didascalie, secondo un criterio che tenta di avvicinarsi alle intenzioni di Ejzenstejn. Questo scarso materiale reperito costituisce, per il cinema come arte e come cultura, un fatto di insolita, larga portata: equivale ai residui di una statua antica riemersi da scavi, ai frammenti di un capolavoro letterario perduto, alle pagine inedite di un grande poema ritrovato dopo anni di ricerche2.

Si tratta di un filmato di immagini fisse, giustapposte da un attento montaggio. Giudicato da queste immagini ferme rigorosamente montate, il film ricostruito Il prato di Bezin è piuttosto un “fotofilm”. E tuttavia è vero “cinema”. Un’opera cinematografica che raggiunge l’apice della produzione artistica e che nella storia del cinema è annoverata fra le opere d’arte più significanti. È un film che, tuttavia, per la sua originalità e anomalia, va contro ogni canone del linguaggio cinematografico classico: si assiste a un filmato che si snoda in fotogrammi giustapposti, in immagini ferme montate l’una dopo l’altra, che comunque costituiscono sequenze. È dunque assente lo specifico del linguaggio filmico del cinema che si vuole consistere nelle immagini in movimento o nel movimento della cinepresa sulle immagini. Qui tutto è operato dal “montaggio” delle fotografie di scene, dai fotogrammi, dalle didascalie composte e montate. 2. G. ARISTARCO, Guida al film, Fabbri, Milano 1979, p. 46.

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E dunque se un film è linguaggio cinematografico anche senza le immagini in movimento, significa che non nelle immagini in movimento è da individuare lo specifico del cinema, ma nel montaggio delle immagini filmate. È il ritmo delle immagini montate che dà movimento alle immagini, anche quando esse restano ferme. Fu infatti provato che se al fotogramma di un carro funebre si accosta quello del volto inespressivo di una fanciulla, quel volto per sé inespressivo esprime per lo spettatore tristezza; se invece quello stesso volto è accostato alla scena di un matrimonio, lo stesso volto esprime un sentimento differente. E dunque è il montaggio delle immagini e non soltanto le immagini in movimento lo specifico del linguaggio cinematografico.

3. Il film come godimento estetico e il film come semplicemente piacevole Una prima distinzione va fatta fra un film che è “piacevole” perché è distensivo o interessante, e un film che è “bello” perché suscita godimento estetico. Il che fa supporre che il film bello è piacevole, ma che non ogni film piacevole è bello di bellezza estetica. “Piacevole” è quel film che è gustato per la sua indole di attrazione, per il divertimento, per interesse storico e culturale. È il film che “piace”, che interessa, alla cui proiezione si assiste con godibile partecipazione, sia per il soggetto che narra, per il tema che tratta o anche per la tesi che cerca di dimostrare. Molti sono i film che la storia registra come opere che da sempre hanno goduto la partecipazione di pubblico e che il pubblico stesso ha visto e rivede con interesse e piacere3. Il film che noi definiamo “piacevole” è quello che è godibile per il tema che tratta o per il modo in cui un soggetto è narrato o anche per la forma con cui si dimostra una tesi. 3. Possiamo citare quei classici film annoverati nella storia del cinema e che molti spettatori amano rivedere: Via col vento, Ben Hur, Il Re dei re, 2001 Odissea nello spazio, Il Padrino, Dottor Zivago, Cantando sotto la pioggia, La Bibbia, La stangata, Titanic, Ballando ballando e moltissimi altri.

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Non vi è dubbio che il film d’arte trova godimento ed è piacevole e, perciò, può diventare anche interessante per lo spettatore. Ma la piacevolezza e il godimento che genera il film d’arte è di differente genere rispetto al godimento e al piacere che genera il film interessante e godibile, ma che certamente non sarà registrato in una storia estetica del cinema. Il godimento e la piacevolezza del film d’arte sono di tutt’altro genere. Nel caso del film d’arte, la godibilità e la piacevolezza attingono ciò che noi rileviamo come esteticità, al cui rilievo presiede una forma di valutazione e di coscienza che va sotto il nome di “gusto” estetico. Il quale presiede al rilievo della “bellezza”, come ciò che piace di piacere estetico nella sua stessa apprensione. Si tratta di quel godimento che attinge l’estatico, che si informa del rilievo della perfezione formale che si accosta all’interesse del contenuto; lì dove l’attrazione non è solo generata dall’interesse culturale, dalla spettacolarità, dall’interesse storico, dalla novità della tecnica cinematografica, dal piacere che si sperimenta per la commozione emotiva o per il comune divertimento o distensione per il quale il film piace. Noi riteniamo che film come Via col vento di Victor Fleming o come Shining di Stanley Kubrick o come The Passion di Mel Gibson continueranno a riscontrare l’interesse e il piacere del grande pubblico, né vi è dubbio che tali film, per il loro valore intrinseco, troveranno posto in una normale storia del cinema. Ma non vi è dubbio che il loro interesse e il godimento che generano non impegnano il senso del gusto estetico che presiede al rilievo della profondità, di cui si appropriano opere che inducono alla meditazione, all’attrazione estatica, a quel godimento generato da ciò che piace, senza la condizione di qualsiasi puro e semplice divertimento, piacevolezza emotiva, interesse culturale o spettacolare, o altri elementi in base ai quali si dice che il film piace. Altro è il piacere e il godimento estetico che genera la visione di opere come Ladri di biciclette di De Sica, Metropolis di Lang, Que viva Mexico! e Alexander Nevskij di Ejzenstejn, Riccardo III o Amleto di Olivier, Quarto potere di Welles, Luci d’inverno 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di Bergman, Ombre Rosse di Ford, Roma città aperta di Rossellini, La strada e Amarcord di Fellini, La terra trema di Visconti, La febbre dell’oro di Chaplin, Ordet di Dreyer, L’uomo di Aran di Flaherty, Il porto delle nebbie di Carné, L’invitto di Ray, L’anno scorso a Marienbad di Resnais, L’angelo sterminatore di Bunuel, Andrej Rublev di Tarkovskij, L’albero degli zoccoli di Olmi, e tante altre opere di cui è arricchita la storia estetica del cinema.

4. Il cinema come spettacolo Ogni espressione è un linguaggio. È linguaggio l’espressione della poesia, quella del disegno e della pittura, quella della musica e della danza, della scultura e di ogni altra forma di comunicazione. Molte sono le definizioni che si danno dell’arte e tutte sono attualmente contestate e sottoposte a una critica parziale o radicale. Insieme al concetto dell’arte, è anche contestata ogni forma d’arte. Adorno osserva come l’arte si chiude oggi ad ogni definizione: «È incerto se l’arte sia ancora possibile; è incerto se essa, dopo la sua completa emancipazione, non si sia tagliata alle spalle i propri presupposti e non li abbia perduti»4. Ma la crisi più grave che annota l’estetica è il tentativo di voler scollare dall’arte il concetto stesso di bello. Al contempo, non si avverte alcun dissenso sul fatto che ogni forma d’arte si traduce in un preciso linguaggio: e pertanto la prima verità sul fenomeno cinema è che esso sia, al pari di ogni altra forma d’arte, un linguaggio, e perciò una comunicazione. Offre documentazioni, narra dei fatti, comunica idee, genera impressioni, suscita emozioni, intrattiene, fa spettacolo, coinvolge, compromette, come nessun’altra forma d’arte è capace di fare5. 4. T. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 4. 5. M. PEZZELLA, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna 1996.

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Per quale ragione al cinema è consentito di incidere in siffatto modo che ad altre forme d’arte non è consentito, o, per lo meno, non è consentito così come è consentito al cinema? Qual è lo specifico del fenomeno cinema che fra le altre arti lo pone in una tale capacità di incidenza e di partecipazione? L’elemento o la condizione che rende nuova e straordinaria l’esperienza del cinema è che si basa sul linguaggio delle immagini, così come la pittura e la fotografia; ma, se il cinema si fermasse a riproduzioni di immagini proiettate sullo schermo, che però restassero fisse, esso non avrebbe portato novità alcuna: sarebbe una riproposta non interessante della fotografia e del disegno. Il cinema ha come propria specificità di essere «linguaggio di immagini in movimento». Movimento di immagini che è dato piuttosto dal montaggio che opera sulle immagini ferme, cosa che non è consentita alle altre forme di comunicazione. È nelle immagini in movimento che il termine “cinema” si definisce. E pertanto la forza cooptativa del cinema sui suoi fruitori necessariamente si traduce in spettacolo. Cosa che è certamente peculiare dell’arte teatrale e musicale, ma che non è certamente della pittura o della scultura, della poesia e della letteratura in genere, le quali certamente sorgono, si elaborano e si formano senza intenzione o pretesa di fare spettacolo. Il cinema è per sua natura spettacolare, anche se nei suoi produttori dovesse mancare la volontà di renderlo tale; ché, se così fosse non farebbero “cinema”. Coloro che si propongono di usare il linguaggio cinematografico per comunicare sanno che tale linguaggio è, per sua natura, finalizzato alla “moltitudine”. E se così è, non può che fare spettacolo. Quando i fratelli Auguste e Louis Lumière presentarono, nel 1895, la registrazione filmica de La sortie des usines (Uscita dalle officine dello stabilimento), essi non intesero riprodurre la realtà o la vita, come affermarono gli stessi fratelli Lumière, ma, come è stato rilevato dal critico d’arte Edgar Morin, solo una immagine del reale.

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5. Il cinema come fatto commerciale Altra condizione è che il cinema è anche un fatto commerciale. Non vi sono liberi professionisti del cinema: ciò è stato possibile agli albori del cinema. Esso nacque infatti dalle sperimentazioni di due professionisti fotografi, quali erano i fratelli Lumière. La sortie des usines, infatti, fu presentato il 22 marzo 1895 per illustrare una conferenza sull’industria fotografica in Francia. Costituiva una prova dello sviluppo che essa aveva raggiunto. Ma subito ci si accorse che il cinema aveva bisogno di capitali di una certa consistenza per produrre, di sale cinematografiche per proiettare, di ampia pubblicità per essere divulgato e conosciuto. Inoltre, per la natura stessa del nuovo linguaggio, il cinema era fortemente legato allo sviluppo della tecnica, così come lo stesso sviluppo tecnico del cinema era richiesto dalla spettacolarità che esso imponeva. Vi è da aggiungere che la produzione cinematografica richiama la necessità di molteplici fattori che concorrono a generarla: registi, attori, tecnici della fotografia, della luce, scenografi e scenografie, grande riserva di “comparse”, a seconda del soggetto filmico, spostamenti di luoghi di riprese, pubblicità e necessità di grande quantità di pellicola sulla quale sono riprodotte le copie che saranno distribuite per le sale di proiezione. E, poiché si ritiene che il cinema mantiene la sua divulgazione sulla continua novità e spettacolarità del suo prodotto, esso non può fare a meno della sollecitazione delle nuove tecniche. Ma con questo accade che il cinema, nella massima parte delle sue produzioni, non può che essere anche un fatto spettacolare e commerciale di notevole interesse. Ora che il cinema si avvale anche di effetti speciali che richiedono mezzi tecnici e scenografici di altissimo costo produttivo, la legge del commercio si impone con inevitabile prepotenza. Poiché sono pochi i registi che possono essere liberi dalla richiesta dello “spettacolo”, e ancor meno quelli che possono sottrarsi a quella del commercio, il cinema, specie nel nostro tempo, diventa inevitabilmente un fatto spettacolare e commerciale nel con31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tempo. È la commercialità che richiama la necessità della spettacolarità.

6. Il cinema come “arte” Non è escluso che un film spettacolare, o anche se prodotto a fine commerciale, possa essere opera d’arte. Aleksander Nevskij di Ejzenstejn, come I sette samurai di Akira Kurosawa, sono opere spettacolari e al tempo stesso commerciali. Ma non sono opere d’arte per la loro spettacolarità o per il favore commerciale che hanno ricevuto. Qualunque sia il genere di un film, compreso il documentario, diventa arte se a generarlo c’è un artista. E dunque non è il contenuto di un film che di per sé lo rende arte. I contenuti infatti possono essere elaborazione dello stesso regista, così come sono i film di Charles Chaplin, ma possono essere prelevati da opere letterarie di altri autori, così come è stato per Luchino Visconti, la cui opera La terra trema, riuscì ad adeguare il valore artistico del romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga. Non solo, ma da opere letterarie scadenti possono essere tratte opere cinematografiche eccellenti, così come accadde con Il ponte sul fiume Kuwai; come da opere letterarie eccellenti possono essere tratte opere cinematografiche scadenti, come è toccato al film I promessi sposi. Le opere cinematografiche sono prodotte in quantità enorme, in ogni parte del mondo e in ogni cultura; un prodotto che trova ovviamente acquirenti e spettatori. Molti film sono proiettati in sale cinematografiche e moltissimi altri sono visti in televisione. Il che significa che il cinema è un prodotto che comunemente viene confezionato per intrattenere il pubblico, per divertirlo, per interessarlo. E comunque, come avviene per la legge del mercato, il film è inteso per la massima parte a soddisfare le necessità comuni e primarie; dunque diventa più raro che il film sia prodotto con finalità puramente estetiche. Fra tantissimi film che si producono, pochi sono quelli che vanta32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no pregi estetici, e fra questi ancora meno sono quelli che saranno annoverati in una storia del cinema d’arte. La ragione sta nel fatto che gli stessi registi, specie nella cultura occidentale, in gran parte sono informati della scienza-tecnica che, come in tutte le altre arti, in certo modo tarpa le ali del pensiero, dell’interiorità, della meditazione, dell’approfondimento e della poesia. Anche il cinema, come ogni altra forma di linguaggio, risente di quella decadenza che sempre si accompagna allo spirito nichilista che, nei nostri tempi e nella nostra cultura, è anche del pensiero riflesso, della filosofia, della letteratura, dell’antropologia filosofica, e di ogni altra forma di linguaggio. Prova ne è che nelle Mostre nazionali e internazionali del cinema si stenta a trovare opere d’arte da premiare. E quand’anche si riesce a trovarne alcune di valore, esse non pareggiano il valore artistico di tante opere del passato che, con altri pregi e valori, sono registrate nella storia del cinema d’arte. Se mancano perciò i grandi film d’arte, è perché diventano rari i grandi registi. Ma chi decide dell’esteticità di un film e quali sono i criteri per annoverare un regista fra i veri creatori di arte? Su quali basi si fondano i valori d’arte che si attribuiscono ad alcuni film, che ad altri sono invece negati? Si ripropone qui l’antica e vessata questione della soggettività del giudizio estetico. Questione ancora irrisolta perché ancora non risolto è il problema della definizione della “bellezza estetica”, la quale soffre ancora dell’antinomia dell’oggettività e/o soggettività del giudizio estetico. Antinomia che investe ogni giudizio di valore estetico che si rapporta a qualsiasi opera d’arte, nella letteratura come nella pittura, nell’architettura come nella scultura, nella musica come nella poesia. Ma di fronte a questa irrisolta antinomia, resta il fatto che molte sono le opere che, nella letteratura come nella pittura, nell’architettura come nella scultura, nella musica come nella poesia, e anche nel cinema, si sono imposte e ancora si impongono al riconoscimento del loro indiscusso valore esteti33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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co, e si annoverano fra le opere di cui si arricchisce la storia dell’estetica. Opere come La febbre dell’oro di Chaplin, Que viva Mexico! di Ejzenstejn, I proscritti di Sjostrom, La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, Lulù di Pabst, L’âge d’or di Bunuel, Il mostro di Dusseldorf di Lang, L’uomo di Aran di Flaherty, Il porto delle nebbie di Carné, Ombre rosse di Ford, Quarto potere di Welles, Breve incontro di Lean, Roma città aperta e Germania anno zero di Rossellini, La terra trema di Visconti, Fronte del porto di Kazan, I sette samurai di Kurosawa, La strada di Fellini, Calle Mayor di Bardem, I dannati di Varsavia di Wajda, Aparajito di Ray, Orizzonti di gloria di Kubrick, L’année dernière à Marienbad di Resnais, Luci d’inverno di Bergman, Andrej Rublev di Tarkovskij, L’armata a cavallo di Jancsò, Un condannato a morte è fuggito di Bresson, Aguirre, furore di Dio di Herzog, Duel di Spielberg, Gli occhi bendati di Kovacs, Nashville di Altman, L’albero degli zoccoli di Olmi, e tante altre opere che hanno preceduto e seguito quelle da noi citate, non solo sono andate ad arricchire la storia del cinema, ma ancora oggi trovano il consenso di gran parte della critica cinematografica. Perché? In ragione di cosa si assicura il loro valore d’arte? Come tali opere si sono strutturate, sono state pensate, elaborate e filmate, da potere essere annoverate e citate come opere esemplari dalla critica d’arte cinematografica? È qui evidente che non sono state le evoluzioni della tecnica cinematografica che hanno inciso sul valore estetico delle opere citate. Opere di alta qualità estetica sono state prodotte anche quando la macchina da presa era appena abbozzata, non erano possibili zumate, né il filmato poteva usufruire della voce e dei suoni che accompagnavano le immagini. Suoni e voci che in seguito hanno certamente arricchito il linguaggio cinematografico, ma che non sono stati elementi indispensabili alla sua resa estetica. Suoni, voci e movimenti della cinepresa che certamente hanno dato maggiori possibilità di linguaggio al cinema, ma che si è dimostrato non essere assolutamente necessari per la resa cinematografica sotto il profilo estetico, proprio perché il 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cinema ha conservato il suo specifico, che resta quello di essere linguaggio di immagini in movimento. La voce, i suoni, la tecnica della macchina da presa hanno certamente reso possibile la registrazione filmica di opere che altrimenti non sarebbe stato possibile produrre, che si sono dimostrate necessarie per la perfezione del linguaggio che si voleva produrre, ma che non hanno affatto dimostrato la loro necessità per la resa di un linguaggio estetico. Non vi è dubbio che senza voci, suoni e movimenti della macchina da presa non sarebbe stato possibile produrre opere quali Il flauto magico di Ingmar Bergman, Otello di Orson Welles, Riccardo III e Amleto di Lawrence Olivier. Ma, con altrettanto valore estetico, sono state prodotte durante la stagione del cinema muto opere povere di mezzi espressivi, quali: La febbre dell’oro di Chaplin, Il vecchio e il nuovo di Ejzenstejn, La nascita di una nazione di Griffith, La fine di San Pietroburgo di Pudovkin. Quello che si vuole sostenere è che è possibile produrre opere d’alta qualità estetica anche con povertà di mezzi, e che l’uso della voce, dei suoni e dei mezzi espressivi cinematografici più evoluti non è assolutamente necessario a rendere arte il linguaggio delle immagini. Si è creduto, anzi, che la voce ed il suono fossero elementi che nel linguaggio cinematografico imbrigliassero l’immagine e che quindi si dovesse liberarla dalla parola. È lo scopo del “cinema di avanguardia”: La storia del film di avanguardia è assai semplice. È una reazione diretta contro il film con sceneggiatura e attori. È la fantasia e il gioco opposti all’ordine commerciale degli altri. Non è tutto. È la rivincita dei pittori e dei poeti. In un’arte come quella in cui l’immagine dovrebbe essere tutto e invece è sacrificata a un aneddoto romanzesco, bisognava difendersi e provare che le arti d’immaginazione, relegate fra quelle accessorie, potevano, da sole, con i loro propri mezzi, creare dei film senza sceneggiatura considerando l’immagine mobile come il personaggio principale6. 6. F. LEGER, Fonction de la peinture, Gonthier, Paris 1965.

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Noi non siamo così radicali, proprio perché riteniamo che per ciò che si vuole esprimere è necessario che ci siano strumenti adeguati. Ma per quanto concerne l’arte è solo necessario che siano artisti capaci di produrla. Neanche lo stato di assoluta dipendenza dal potere politico o di qualsiasi altro potere impedisce, a chi è liberato dentro, di produrre opere di altissima qualità estetica, così come è accaduto a Ejzenstejn per il cinema, a Prokofiev per la musica. Ora, se molti registi del cinema hanno prodotto opere d’arte, in tempi diversi e in condizioni differenti, in libertà o in assoluta dipendenza, all’inizio della storia del cinema, come ai nostri tempi, con mezzi appena funzionali e con strumenti tecnici evolutissimi come ai nostri tempi, ciò significa che lo sviluppo tecnico del linguaggio cinematografico non è determinante per la produzione cinematografica di un’opera estetica. Se gli artisti del cinema hanno potuto produrre differenti opere d’arte in differenti condizioni, significa che il bello del film va cercato con altri criteri e per altre ragioni. Il bello dell’arte cinematografica, così come di ogni altra forma d’arte, ha una sua precisa definizione: è ciò che piace per il godimento estetico che riesce a produrre. E dunque belle, di una bellezza estetica, sono quelle opere che piacciono nella loro apprensione; che piacciono perciò non solo perché stimolano l’interesse, il divertimento e quindi il godimento. Si tratta di quel genere di bellezza che genera il godimento estetico, che si gusta perché genera estasi, invaghimento dello spirito, sosta dell’anima in una pura contemplazione. Stato d’animo che si esprime alla lettura di opere come l’Iliade di Omero, l’Antigone di Sofocle, il Mosè di Buonarroti, i Concerti brandeburghesi di Bach, i Promessi sposi di Manzoni, e di innumerevoli altre opere del passato e del presente che arricchiscono la storia dell’arte.

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7. Il soggettivismo del giudizio estetico Si potrà affermare che i capolavori citati non a tutti piacciono, non da tutti sono ammirati, non a tutti generano commozione estetica. E questo perché, come comunemente si dice, de gustibus non est disputandum, ognuno ha i suoi gusti, ognuno esprime il proprio giudizio di valore estetico. E per questa ragione, film come Nashville di Altman, come Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, come La passeggera di Munk o Il sacrificio di Tarkovskij, possono da alcuni essere ritenuti opere d’alto valore estetico, da altri invece opere appena dignitose. E dunque si torna a rimettere in questione l’oggettività del bello estetico, con la conseguenza di rilevare l’impossibilità di rendere comune il rispettivo giudizio di valore sull’opera d’arte. Non è così. Anzitutto perché l’adagio sul gusto non si può disputare, va riferito nel suo significato originario, che concerne il gusto sensitivo del palato. Qui si tratta del “gusto” estetico, che è altra cosa, non è una facoltà sensitiva, né una facoltà “conoscitiva”, com’è quella dei sensi che percepiscono il gustabile, il visibile, l’udibile, l’odorabile, il tangibile o il palpabile. Il “gusto” neppure è una facoltà conoscitiva dell’intelletto, che si porta alla conoscenza essenziale delle cose, conoscendole nella loro essenza o nel loro concetto. Il “gusto estetico” è altro e va oltre la “conoscenza” che è finalizzata alla moltiplicazione del sapere. Il “giudizio estetico” che si dà a un’opera d’arte non è un giudizio conoscitivo. Non è affatto una “facoltà conoscitiva” che ci fa conoscere ciò che non ancora conosciamo e che serve ad aumentare la nostra esperienza delle cose. È una ”facoltà apprensiva”: una speciale facoltà dello spirito che presiede al “rilievo” della bellezza delle cose, sia che si trovi in natura sia che venga prodotta nell’arte. È dunque una facoltà speciale dello spirito umano che, se anche dobbiamo supporre essere presente in tutti, non tutti la pongono in atto, non tutti la coltivano, non tutti si esercitano in essa. In realtà solo chi ha in atto e si esercita nel gusto estetico è in grado di cogliere il “bello estetico” dell’arte così come della natura. 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il “gusto estetico”, in quanto facoltà apprensiva del bello, è presente in alcuni in forma embrionale, in altri è più sviluppato, in altri ancora più progredito e in altri è presente in forma accentuata. È una facoltà che proviene dalla sensibilità, dalla predisposizione, dalla cultura, dall’interesse e anche dall’intelligenza astrattiva che si possiede. Si dice, infatti, di chi non riesce a cogliere la bellezza estetica delle cose della natura o delle opere dell’arte, che “non ha gusto”, non possiede quella specifica facoltà dello spirito che presiede al rilievo della “bellezza”. Dunque non si può parlare della “soggettività del bello” come se la bellezza non fosse una proprietà delle cose. Altro è che della bellezza se ne dia un giudizio di valore soggettivo, altro è che la bellezza stessa delle cose sia soggettiva. Se due persone danno giudizi estetici su una medesima opera, non vi è dubbio tuttavia che entrambe ritengono che il proprio giudizio soggettivo si riferisca a una oggettiva qualità dell’opera che giudicano. Chi sostiene che la Fornarina di Raffaello è bella, non ritiene che sia bella perché è da lui ritenuta tale, ma sostiene che è veramente bella in sé. Così si dica di chi ritiene che la stessa Fornarina non è bella, la ritiene non bella perché è in sè che non è bella. Il che sta a dire che il proprio giudizio di valore estetico soggettivo lo si ritiene “oggettivo”. Il che sta ancora a indicare che il criterio di discernimento della presenza oggettiva della bellezza in un’opera estetica dipende dal “gusto estetico”, cioè da quella facoltà apprensiva dello spirito che si chiama “gusto”. Che se anche può variare nel cogliere elementi di bellezza sotto differenti aspetti, non può errare quando si pronuncia sul valore oggettivo della bellezza presente in un’opera d’arte veramente bella. E dunque la facoltà del “gusto” presiede al rilievo dell’oggettività del bello. Che se tale bellezza non si riesce a rilevarla, non è perché manchi nell’oggetto, ma perché si è privi di quello strumento di rilievo che è il gusto estetico. Anche grandi artisti si sono vicendevolmente contestati, e hanno dato giudizi di valore estetico negativo sulle rispettive opere. Ma se si va al fondo delle motivazioni, si avverte che i loro giudizi riflettono stati d’animo niente affatto estetici, ma 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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generati da visioni prospettiche d’indole filosofiche, da risentimenti, da gelosie e pregiudizi. Se il Bernini nega il Borromini, e questi nega l’opera del Bernini, è chiaro che i loro rispettivi giudizi provengono da risentimenti reciproci, e perciò non sono giudizi di valore estetico. Se Hegel e Croce negano che nella natura ci sia bellezza e che questa si trovi solo nelle opere dell’arte, ciò dipende da una loro mancata concezione della bellezza, mortificata dal fatto che non è la loro filosofia che deve cogliere la bellezza che è nelle cose, ma è la bellezza che, per essere tale, deve rispondere al loro sistema filosofico che vuol dettare norme all’estetica. Chiarita questa premessa, noi continuiamo a sostenere che il bello è proprietà oggettiva dell’opera d’arte. La bellezza non è un trascendentale dell’ente, che esiste cioè in ogni ente, ma una categoria dell’ente, cioè una qualità dispositiva di quell’ente che la possiede. Bellezza oggettiva che, quando c’è, è rilevabile. E che se non è rilevata è perché chi non riesce a rilevarla manca della facoltà necessaria per poterla rilevare, cioè del “gusto estetico”. E perciò riproponiamo la domanda: Cosa è necessario perché un’opera cinematografica, un film sia ritenuto opera d’arte? Per quali elementi l’opera ha pregi estetici e la si annovera nella storia del cinema d’arte? Per rispondere non vi è che assumere un criterio di orientamento: esaminare un’opera già consolidata, già comunemente ritenuta opera estetica, già presente nella storia del cinema, e che sia datata, tale che il tempo trascorso non ne abbia modificato il giudizio.

8. Forma e contenuto nel film Come in ogni opera d’arte, anche nel film può essere distinto un contenuto, ciò che il film dice, ed una forma, il modo con cui viene detto. “Contenuto e forma”, insieme a “oggettività e sog39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gettività” rappresentano una delle antinomie della teoria estetica dell’arte7. L’antinomia significa infatti contraddizione, opposte interpretazioni, contrasto fra affermazione e negazione. Noi riteniamo, con un comune senso della critica d’arte, che, per certi contenuti, è necessaria una forma appropriata. Da alcuni si ritiene che l’opera d’arte è tutta nella sua forma, cioè nel modo con il quale il contenuto è espresso; per altri è il contenuto, cioè ciò che si dice che in sé è informato di bellezza; per altri ancora lo stesso contenuto si risolve ed è nella sua forma, è la forma il vero contenuto dell’opera; per altri infine, ed è la nostra posizione, ogni contenuto richiama la sua forma, domanda cioè un preciso modo di essere espresso, così che l’opera d’arte è il risultato di un contenuto adeguatamente espresso da una forma che gli si addice. Principio che riteniamo valido sia che si tratti di documentari, sia che si tratti di film a soggetto, sia che si tratti di film a tema o a tesi. Nel linguaggio comune il contenuto di un’opera d’arte viene inteso per lo più come tutto ciò che viene in essa rappresentato: argomenti, materie, esperienze vissute, significati, sentimenti ecc.8

La “forma” è invece il modo con il quale il contenuto viene espresso, sia nella pittura che nella scultura, sia nella musica che nella letteratura, sia nella narrazione storica che nella favolistica. Comunemente si dice “forma” l’espressione o la descrizione del soggetto narrato o dipinto o musicato, o scolpito o anche filmato. La fuga in Egitto della Sacra Famiglia, per esempio, è un soggetto di cui si servono la pittura, così come si serve la poesia, la scultura e la stessa musica descrittiva. Ma se quel soggetto specifico vorrà essere narrato non solo per raccontare

7. M. GERMINARIO, Le antinomie dell’estetica, IDC Press, Cluj-Napoca 2001. 8. S. VELOTTI, Dizionario di Estetica, s. v. Contenuto, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 66.

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o per edificare, ma anche per generare godimento estetico, la pittura, come la poesia, la narrativa, la scultura e la musica, dovranno servirsi di una loro specifica forma espressiva. Non vi è dubbio che i sentimenti estetici animeranno la forma pittorica con la quale il quadro è stato dipinto, la composizione dei versi con cui il poeta ha poetato, la struttura e l’andamento del racconto con il quale lo scrittore lo ha presentato, la raffigurazione con la quale lo scultore ha scolpito la sua statua. Se un regista sceglie di produrre un film a tesi, infatti, è inevitabile che debba scegliere una forma espressiva che renda possibile la dimostrazione di quella tesi. Se dunque è il soggetto cinematografico che protende a una sua adeguata forma espressiva, significa anzitutto che non ci sono contenuti o soggetti filmici per loro natura “estetici”. Ogni contenuto o soggetto filmico può acquisire “contenuto estetico” solo se l’artista saprà conferirgli una forma, un andamento espressivo adeguato. Ché se quel contenuto, per quanto nobile sia e per quanto interessante si dimostri, non troverà chi gli dia forma adeguata, esso resterà un soggetto senza alcun valore estetico. È, inoltre, per la forma espressiva che si avvera il paradosso per il quale se anche in natura c’è qualcosa che deve essere ritenuto non bello, anzi, decisamente ripugnante, diventa bello estetico se una forma d’arte interviene a trasformarlo e ad elaborarlo. È il caso del Tersite dell’Iliade di Omero, del Quasimodo di Notre Dame di Victor Hugo, di Farinata della Divina Commedia di Dante, dei Demoni infernali della Cappella Sistina di Michelangelo. Che è poi quanto aveva già teorizzato Aristotele nella sua Poetica, sulla possibilità che l’arte ha di far sì che […] cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come per esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri9.

9. ARISTOTELE, Poetica 4, 1448 b10.

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Se si vuole produrre un film epico, che racconti per esempio la caduta di Troia, non si può che servirsi di una precisa scenografia, di una certa spettacolarità, di un determinato ritmo di racconto; ma se si vuole invece trattare un tema a soggetto religioso che evochi il sacro, tale tema potrà essere trattato solo mediante un linguaggio che eviti la spettacolarità e adoperi i necessari primi piani delle immagini che esprimano pensamento, interiorità e riflessione. Come vedremo in seguito, una delle critiche fatte a Mel Gibson, per The Passion, è quella di essersi eccessivamente e spropositatamente servito di effetti speciali, che solitamente vengono adoperati per “truccare” l’immagine, e che si usano per sbalordire o intimorire o anche meravigliare, per produrre mondi fantastici o esperienze oniriche. Ma Stanley Kubrick non avrebbe potuto esprimere la sua metafora sul destino del rapporto tra l’uomo e la scienza tecnica in 2001 Odissea nello spazio, così come lo ha fatto, se non servendosi a piene mani di quegli effetti speciali. E dunque se è sempre la natura di un contenuto o soggetto filmico che richiede la sua adeguata forma, è tuttavia sempre la forma che informa quel dato contenuto e gli consente di elevarsi a espressione estetica.

9. Il film documentario Il film “documentario” parte da un preciso intento: vuole, appunto, documentare. Ma si può documentare filmando un fatto di cronaca, per trasmetterlo in un cinegiornale. È ovvio che in questo caso il filmato assume un interesse funzionale: si vuole semplicemente informare. Non si parte da preoccupazioni estetiche. E dunque di proposito il filmato non vuole deliziare, non ha intenzione di generare godimento estetico. La forma espressiva è contenuta nel repertorio della semplice informazione quanto più esatta e completa dei fatti. La storia del cinema ci presenta anche dei film che, partendo 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dall’intenzione di “documentare” e di informare, vanno oltre la semplice registrazione di immagini documentarie. Ciò che è documentato diventa “tema”, cioè si fa emergere dal documento non solo ciò che esso dice come fatto, ma ciò che il fatto nella sua narrazione evoca. E l’evocazione che emerge dalla narrazione del fatto diventa “tema”, cioè svolgimento narrativo, in cui le parti si connettono in funzione di una unità narrativa. E dunque, è il modo scelto per la narrazione del fatto documentato che può informare di bellezza estetica ciò che potrebbe restare nella sua nuda e semplice documentazione. Se ciò che documenta lo si riveste di forma narrativa che, oltre all’intenzione di documentare ed informare, ha anche quella di produrre godimento estetico, allora il documentario è “narrato”, cioè cessa di essere fatto documentato e diventa “tema” svolto nella narrazione del fatto. La differenza fra un semplice documentarista cinematografico e un regista documentarista che diventa artista del filmato, sta nel fatto che il primo non riesce ad elevare a livello di “tema” il suo documentario, lasciandolo nella nuda esposizione dei fatti, mentre il secondo, cogliendo nei fatti i loro significati, li rende eventi, cioè li eleva a livello di tema, cioè a livello di soggetto, di argomento. E dunque non solo documenta fatti, ma ne coglie il senso, tematizza il documentato, investendolo di una forma espressiva, di un linguaggio formale che diventa così ciò in cui il fatto stesso narrato si risolve. E dunque, il semplice documentarista non ha altra finalità che di esporre la narrazione dei fatti, mentre l’artista si propone di narrare gli stessi fatti, ma ciò che più gli interessa è il modo in cui i fatti debbano essere narrati, perché gli spettatori, attraverso ciò che viene documentato, abbiano godimento estetico, siano attratti, più che dal documento dei fatti, dalla loro contemplazione. Esempio classico di un film “documentario” di valore artistico è Man of Aran (L’uomo di Aran) prodotto dal regista Robert J. Flaherty. Il film documenta la vita quotidiana di una famiglia in una piccola comunità su un’isola dell’arcipelago di Aran, a largo dell’Irlanda. Non c’è un vero e proprio soggetto cinematografi43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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co, né è narrata una storia. Si documenta una vita di pescatori che devono lottare contro l’aridità della terra da coltivare, contro le forze titaniche e burrascose del mare che ostacolano la pesca che, in quel lembo di terra, è l’unico raccolto che può sostenere in vita la famiglia. La lotta contro il mare, i campi costruiti con la terra raccolta negli anfratti degli scogli, la pesca e la cattura dello squalo costituiscono le uniche sequenze del film. Un film con attori non professionisti, ma professionisti nel loro mestiere di pescatori. In seguito è stato aggiunto al filmato la parola sincronizzata. Ma si tratta di un’aggiunta non determinante alla comprensione del documentario. Il film poteva restare, nella sua composizione originaria, “muto”, senza nulla perdere del suo valore artistico. Si tratta di un documentario di alto valore poetico. Come annota lo stesso Flaherty, la struttura del film è lirica più che prosa. La musica sincronizzata che accompagna le immagini aggiunge certamente ulteriori sensazioni ed emozioni al film. Ma il lirismo del film è tutto nella bellezza delle sue immagini, nel modo secco e immediato in cui sono montate, nel ritmo con il quale le sequenze si susseguono, nella essenziale scenografia con la quale l’uomo lotta con la natura. La bellezza dell’opera è esclusivamente visiva. C’è nel filmato una certa imperfezione tecnica, dovuta al fatto che tecnicamente non c’era verso che potesse essere filmato altrimenti. Ma anche tale imperfezione dell’uso tecnico nulla toglie alla perfezione che invece sostiene l’intera impalcatura narrativa e scenografica dell’opera. L’uomo di Aran è la dimostrazione che nessun contenuto è refrattario alla sua narrazione estetica. Non ci sono contenuti che possono essere espressi in forma d’arte, contro altri che di tale arte non possono essere informati. Ogni contenuto o soggetto filmico può diventare arte. L’importante è che si trovi l’artista capace di dargli forma espressiva, che lo investa di bellezza estetica. Come in ogni opera d’arte, ne L’uomo di Aran la forma adegua il contenuto; niente manca e nulla è superfluo. Non vi è sbavatura di linguaggio e le sequenze, varie e ritmate, procedono nell’unità dell’espressione e della narrazione. Il criterio della 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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creatività estetica è applicato all’intera composizione. Il godimento è veramente e totalmente estetico.

10. Il film a soggetto Si chiama “film a soggetto” quello che è registrato con l’intento di “narrare” un fatto umano accaduto o verosimile. È il film in cui viene svolta una “trama”, un racconto, così come avviene in un romanzo. Ma anche in questo caso, il racconto può essere filmato solo per raccontare. E dunque ci si serve di attori, si sceglie una scenografia, si adopera un canovaccio, si narra una storia. Il regista svolge il suo “mestiere” di tradurre in termini di immagini in movimento, con sequenze narrative giustapposte, secondo la regola del montaggio. A volte il “soggetto” è scritto dallo stesso regista, a volte ci si serve di racconti già elaborati da altri scrittori e romanzieri. Si tratta comunque di “soggetto” cinematografico che ha una propria struttura narrativa che tende e intende “narrare”. Ma come in ogni altro linguaggio, il soggetto può essere perfettamente narrato, aderendo al testo o anche parzialmente scostandosi da esso. È il caso, per esempio, del celebrato Via col vento di Victor Fleming, del 1939. Sullo sfondo della guerra di secessione l’avvenente ed egoista Rossella O’Hara passa prima dalla ricchezza alla povertà e poi dalla povertà alla ricchezza, vanamente infatuata del gentiluomo Ashley Wilkes legato alla dolce cugina Melania Hamilton. Dopo due matrimoni contratti per capriccio e per interesse, si accorge di avere sempre amato il suo terzo sposo, l’avventuriero Rhett Butler che ha sempre avuto per lei un sentimento profondo. Ma la presa di coscienza giunge troppo tardi: Rhett, ormai stanco, l’abbandona; e Rossella tornerà alla piantagione paterna con il proposito di riconquistarlo. Si tratta di un “soggetto” a largo respiro che, incastonato nella vicenda storica della guerra di secessione americana, si risolve in un magistrale melodramma, dove musica, scenografia, recitazio45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne, ritmo del racconto, interesse storico si intrecciano in un ampio affresco che ha interessato milioni di spettatori che, anche se si tratta di lungometraggio fuori del comune, ne hanno assaporato il godimento, nella commozione e nella gioia, godendo e patendo la vicenda. E dunque era inevitabile che nel racconto si adoperasse il colore che si adegua alla spettacolarità del racconto. Come osserva Ercole Patti: Via col vento è un’azione dimostrativa, un virtuosismo di quattro ore sostenuto per dimostrare di saper tenere desta l’attenzione per tanto tempo, senza che ce ne sia una vera necessità10.

Ovviamente il film non è solo questo. Tratto dal romanzo di Margaret Mitchell, è certamente un grande affresco, in cui il “soggetto” filmico si snoda con sicuro mestiere e dosaggio di mezzi espressivi. Ma come osserva il critico Claudio Varese: […] la preoccupazione illustrativa ha impedito qualsiasi libertà cinematografica, qualsiasi originalità, e il technicolor ricopre tutto con la pasta morbida e dolciastra11.

Come la Nascita di una Nazione di Griffith, anche Via col vento è un “monumento di celluloide”, secondo la definizione di Ejzenstejn, anche se il valore del film supera quello del romanzo donde è tratto. E non vi è dubbio che l’intento del dramma si risolve in un decadente melodramma. C’è un “soggetto”, ma non si riesce a cogliere il “tema”. Avrebbe potuto trattarsi del “tema della donna”, ma è assente la profondità e l’indagine psicologica. E tutto si risolve in una spettacolarità lussureggiante che ha richiamato e ancora richiama grandissima adesione di pubblico. Cosa che ci induce a negare che sia il giudizio del pubblico il metro del valore d’arte di un film. 10. E. PATTI, «L’Europeo», 27 marzo 1949. 11. C. VARESE, Cinema, arte e cultura, Marsilio, Padova 1963.

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Il consenso del pubblico, e l’incasso di bottega che ne consegue, sanciscono il risultato di un film, ma non sempre il massiccio consenso del pubblico è garanzia del valore estetico di un film. Proprio perché, come rilevava Bresson, il vero film d’arte è linguaggio e non spettacolo. Può anche essere spettacolo, ma non è mai opera d’arte se nel suo proposito c’è quello di solleticare il divertimento spettacolare o la commozione melodrammatica. Film come La febbre dell’oro possono anche divertire, e anche commuovere come Il monello, o anche godere dell’ironia profusa con grande intelligenza e spettacolarità come ne Il dittatore di Chaplin. Ma i valori estetici profusi in tali opere non stanno nel divertimento, nella commozione suscitata o nell’ironia compiacente di tali film. Il valore d’arte di tali opere dovrà essere rilevato per altre ragioni. Parlando del “film a soggetto”, ci siamo riferiti ad un’opera come Via col vento, per dire quanto in esso è manchevole per assurgere a livello di opera estetica. Ci siamo riferiti a Via col vento, ma dobbiamo constatare che moltissimi altri film rivelano gli stessi limiti, pur trovando ampio consenso di pubblico e, a volte, anche di critica giornalistica. Cerchiamo ora di citare un film a soggetto che la critica estetica ha da tempo annoverato fra le opere d’arte cinematografica: La terra trema di Luchino Visconti del 1948. È uno dei capolavori del neorealismo italiano del dopoguerra. Carlo Levi lo ritiene «il risultato espressivo più compiuto del neorealismo»12. Anch’esso in bianco e nero e girato con mezzi appena abbordabili e, ovviamente, senza attori professionisti. Il soggetto: ad Aci Trezza, centro peschereccio nei pressi di Catania, il pescatore ‘Ntoni Valastro tenta di lottare contro i grossisti del pesce che sfruttano tutta la comunità. A tale scopo, egli cerca la solidarietà dei compaesani, ma rimane isolato, e così ipoteca la casa per poter comperare una barca e lavorare in proprio. Dopo i primi limitati successi, la barca si schianta in una tempesta. La famiglia Valastro torna in miseria 12. C. LEVI, «Cinema nuovo», n. 74, 10 gennaio 1956.

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più di prima, si sgretola, è costretta anche ad abbandonare la casa. ‘Ntoni torna a cercare lavoro a giornata, ma non è un vinto: ha preso coscienza degli errori compiuti, e sa cosa resta da fare per mutare le condizioni di vita di tutto il paese. Si tratta di un film, il cui soggetto è ovviamente tratto dal romanzo capolavoro di Verga, I Malavoglia. Il film di Visconti è portato a esempio di come un’opera cinematografica possa eguagliare il valore d’arte di un’opera letteraria. Risultato che non è toccato alla trasposizione dei Promessi sposi del Manzoni, anche se molti film hanno tentato di trasporre l’opera narrativa nel linguaggio cinematografico. Perché La terra trema è un’opera che la storia del cinema d’arte annovera fra i suoi capolavori? Perché il contenuto è espresso con perfetto linguaggio cinematografico, perché al contenuto drammatico della vicenda narrata il regista ha saputo dare una forma narrativa adeguata, perché alla realizzazione del film ha presieduto un preciso intento estetico, perché niente è concesso alla spettacolarità, perché il soggetto filmico è stato prelevato nel suo tema, perché narrando un fatto particolare di una semplice famiglia di pescatori, quello stesso fatto narrato si riveste di significati universali, perché ogni sequenza, ogni immagine, ogni rumore e parola, la cadenza della stessa voce dialettale, ogni singolo oggetto rilevato dalla macchina da presa si adegua al tutto della narrazione, perché niente è filmato di ciò che è superfluo e niente manca di ciò che era necessario che ci fosse. Del film, così scrive il critico Guido Aristarco: La composizione pittorico-epica oltrepassa nettamente il decorativismo fine a se stesso e la “calligrafia”, pur nel formalismo riscontrabile negli elementi compositivi delle singole inquadrature, perché nel film gli eventi umani vengono sviluppati storicisticamente e approfonditi sia sul piano psicologico che sul piano sociale, mentre sentimento e riflessione raggiungono una loro intima sintesi13. 13. ARISTARCO, Guida cit., p. 144.

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L’Aristarco, infatti, annota come pregio dell’opera il fatto che il regista non abbia tralasciato di elevare una storia particolare a livello “sociale”, storicisticamente sviluppato e approfondito sia sul piano psicologico che sul piano sociale. Secondo il critico, il Visconti supera addirittura il Verga per il fatto che, contrariamente a I Malavoglia, La terra trema, «piega alle proprie esigenze espressive e ideologiche il testo di avvio per esprimere un contenuto più ampio e significativo». In ottemperanza all’estetica marxista, il critico rileva la superiorità del film nel fatto che il contenuto si snoda e si sviluppa secondo la norma della dialettica e della contrapposizione; dialettica riportata sia nei fatti narrati che nel montaggio delle sequenze. Per Aristarco il film è compiuto esteticamente perché ‘Ntoni, personaggio del film, non si abbandona come lo zio Vanni, personaggio del romanzo, alla rassegnazione, lotta non per evadere dalla vita ma per abbandonare una vita degradata e degradante. E dunque l’opera del Visconti, secondo l’Aristarco, non avrebbe avuto quella perfezione che ha, se fosse mancato uno sviluppo storicistico e se non fosse stata approfondita, oltre che la dimensione psicologica, anche quella sociale. Ma ritenendo necessari nell’opera d’arte lo sviluppo storicistico e il piano sociale, l’Aristarco si attiene a una concezione estetica fortemente ideologizzata, a quell’estetica marxiana ed engelsiana, secondo la quale l’arte dovrà essere, per costituirsi come vera arte, realista, e dunque interessata al sociale. Così infatti annota l’Aristarco: Si può dunque dire che La terra trema è un’opera “realistica” nell’accezione propria dell’estetica marxista (lukàcsiana): i personaggi sono uomini vivi, dotati di una fisionomia non superficiale ma approfondita con cura, e ben analizzato è il rapporto che unisce e lega la vita degli uomini ai fenomeni sociali. Visconti ottiene tale risultato ricercando le cause e l’essenza dei fenomeni umani e sociali, narrando e partecipando, seguendo l’esempio dei grandi narratori dell’Ottocento

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(si ricordi che Marx ed Engels indicarono nello studio dei classici della letteratura il metodo per mettere a fuoco il problema del realismo nell’arte)14.

L’argomentare dell’Aristarco, che peraltro è un eccellente critico d’arte, è dunque viziato da un fondamentale presupposto: che l’arte dovrà essere “realista”, che il “realismo” dell’arte non può manifestarsi che nei termini della “dialettica”, e che la dialettica non può essere intesa che nella contrapposizione storicistico-socialista. La concezione estetica di Aristarco, elaborata in termini di dialettica marxista, aggiungendo ai termini definitori dell’arte le categorie della storicità e del sociale, cioè del “realismo”, non fa che estendere i termini definitori della bellezza, contraendone la possibilità dei suoi riferimenti. Così che se alla definizione della bellezza estetica si aggiunge come necessaria la categoria del “realismo dialettico”, si introduce un arbitrio ideologico, così che la bellezza non è più lasciata nella sua pura definizione: «belle sono quelle cose che piacciono nella loro apprensione», ma «belle sono quelle cose che devono piacere solo se si esprimono in termini di realismo dialettico». Definizione che è ovviamente “ideologica” ed è perciò arbitraria e preconcetta. È per questi criteri e pregiudizi estetici che Alberto Moravia giudicherà bigotto e retorico L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi15. E Luigi Lombardi Satriani stroncherà il film di Olmi, perché «alla presenza padronale i contadini non oppongono altro che rassegnazione, rifugiandosi […] in una dimensione intimistica e religiosa»16. Il giudizio critico di Aristarco su L’albero degli zoccoli sarà ancora più acerbo e violentemente negativo. Ma è qui evidente che la negatività del giudizio estetico è di esteti marxisti, che non sopportano che sia vera arte cine-

14. Ibid. 15. A. MORAVIA, «L’Espresso», 22 ottobre 1978. 16. L. LOMBARDI SATRIANI, «L’Unità», 7 settembre 1978.

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matografica quella che tratta temi e soggetti filmici che si mantengano nella pura relazione fra contenuto e forma. È, infatti, per lo stesso motivo che l’estetica marxista negherà valore estetico ad opere come Grand Hotel di Goulding, L’Uomo di Aran di Flaherty, Ombre rosse di Ford per la sua tendenza moraleggiante, Europa '51 di Rossellini, Fronte del porto di Kazan, per essere un “film-manifesto” della reazione anticomunista a Hollywood, La strada di Fellini perché «è privo di impegno civile ed il risultato del regime conservatore democristiano», I dannati di Varsavia di Wajda, perché hollywoodiano, L’anno scorso a Marienbad, perché “per nulla progressista”, La ballata di Cable Hogue di Sam Peckinpah, perché diventa epopea della frontiera americana, Duel di Steven Spielberg. Questo per dire quanto valga ad adulterare il significato del bello estetico il pregiudizio ideologico! Noi siamo di diverso avviso, perché il concetto di bellezza estetica lo risolviamo in una comprensione minima dei termini definitori, proprio perché la bellezza, quando c’è, la si trova anche nella mistificazione storica, nel pessimismo o nell’ottimismo più radicale, nel film tematico così come nel film a tesi, nel film che non ha costrutto sociale, in quello idealistico così come in quello realistico, nel film religioso come quello di Dreyer, così come in quello ironico e beffardo di Bunuel, nel cinema dialettico marxista russo, come quello di Aleksandr Dovzenko, così come nel cinema spettacolare della società capitalistica come quello di Ford. E perciò, se vera arte la si può trovare in film a forte tinte ideologiche come quelli di Ejzenstejn, essi non saranno arte perché è presente l’ideologia. Così come se vera arte la si troverà in film intimisti e religiosi come quelli di Dreyer, non saranno arte perché, appunto, intimisti e religiosi. Saranno arte perché i registi avranno saputo dare godimento estetico a soggetti, a temi, a tesi che in sé sono indifferenti, ma che diventano soggetti, temi e tesi di alta produzione estetica, quando gli autori del film danno forma estetica a quegli stessi contenuti.

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11. Il film a tema Il “film a tema” è quello che si propone di rilevare, all’interno di un racconto o soggetto filmico, un “tema”. Il tema è un “argomentare” mediante una storia o la narrazione di un fatto. Il film a tema non è interessato a narrare semplicemente una storia, ma a far rilevare, nella storia narrata, ciò che si vuol significare. Il tema è infatti lo svolgimento di una verità, di un concetto, di un valore attraverso un soggetto filmico. E dunque dice altro e più del semplice soggetto che viene narrato. Fra i film a tema scegliamo Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij, del 1966. Il film si snoda raccontando. Ma si tratta di un racconto che è preso a pretesto per svolgere un tema, per esprimere un contenuto concettuale. Il soggetto del film: il monaco Andrej Rublev, maestro della pittura russa del XV secolo, discute con il vecchio pittore Teofolo il Greco sulla funzione dell’arte: mentre questo vede nell’uomo il peccato e in Dio la vendetta e il castigo, egli crede in un’arte che aiuti l’uomo, che lo consoli nelle tristezze e nelle difficoltà della vita. Le terribili sciagure che si abbattono sulla Russia tolgono ad Andrej la fiducia nel suo lavoro. Soltanto il felice esito della costruzione di una campana, a cui ha contribuito tutto il popolo sotto la direzione di un ragazzo, fa ritrovare all’artista una valida ragione per continuare la sua opera. Su questo soggetto viene elaborata la concezione antropologica e teologica di Rublev, che è poi la stessa di Tarkovskij. E dunque emerge dal film il tema, il contenuto concettuale del regista. Che può così essere espresso: il “popolo”, la gente che si tiene legata alla natura e alla terra, e non quello che si costituisce in “classe sociale” progressista e rivoluzionaria, è il vero possessore della saggezza; è l’umanità contadina che è “padrona del segreto della natura”. Ogni volta che si costituisce una “cultura dominante”, essa introduce i semi della corruzione e della decadenza. È solo dalla religiosità popolare che si perviene alla vera vicinanza con Dio. Un Dio che viene espresso e rivelato dalla “natura”, e non da chi vuole imporre forzatamente una fede astratta. E dunque 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la stessa arte pittorica viene interpretata come ispirazione divina, e l’artista è sempre un aristocratico dello spirito, un vate che si esprime ponendo in atto il proprio talento ricevuto da Dio. E dunque solo l’arte può dare al popolo la speranza di un futuro migliore. In tutto il film è la “funzione redentiva” dell’arte che viene tematizzata. “Tema” del film è il valore redentivo della bellezza. Il “tema” è enucleato nel concetto che solo dal legame alla natura il popolo si costituisce in una vera religiosità. Come altri film di Tarkovskij, anche Andrej Rublev non ha trovato il consenso della critica marxista. Il limite del film è indicato nel fatto che Tarkovskij esprime concetti di popolo, storia, natura che somigliano a quelli del passato nostalgico, come nei romanzi di Tolstoj. Il “popolo” non si presenta nel film con i connotati di una classe sociale definita storicamente, si identifica invece con un’umanità contadina che è “padrona del segreto della natura”17.

Con l’indicazione di tali limiti, peraltro rilevati in ordine ad una ideologia scomposta, al film sono riconosciute straordinarie qualità formali, per le quali il linguaggio è sempre adeguato al contenuto concettuale dell’opera. È appunto l’adeguamento del linguaggio formale al contenuto tematico che fa dell’opera un capolavoro della letteratura cinematografica. Può anche essere vero che Tarkovskij non addita al “popolo” concrete prospettive sociali per superare le tristi condizioni della sua vita, e non le propone alla gente, saldamente legata alla natura della terra, «perché vede elementi positivi in sentimenti e capacità irrazionali primigenie, non in una concreta presa di coscienza». Ma se al film possono essere riconosciuti limiti d’indole sociologici e politici, tali limiti sono estrinseci all’opera d’arte, il cui valore estetico va visto in ordine alla sua “veri-

17. ARISTARCO, Guida cit., p. 200.

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tà estetica”, che consiste precisamente nel modo in cui l’autore esprime ciò che tematizza. È dunque ciò che l’autore tematizza, che è poi il contenuto del film, la base sulla quale si esercita la critica estetica. Il tema del film è altamente ideale, e quindi spirituale. Si tratta di una meditazione su una particolare visione del mondo. E dunque il linguaggio cinematografico non può che essere a ritmo lento, modulato fra primi piani del volto umano e le sequenze di campi lunghi che, pur nel silenzio delle immagini, danno parola alla natura. Pur trattandosi di un’opera poetica e pur essendo un affresco pittorico dell’ambiente e della società popolare che l’abita, il film predilige il bianco e il nero, mentre riserva il colore alla parte finale, quando Andrej Rublev ci mostrerà il suo affresco, in cui vi troneggia un Cristo, che per quanto dotato di sguardo umano, è suprema divinità, perenne miracolo del mondo, espresso nella cessazione di ogni parola, musica e rumore, quasi a voler marcare una trascendenza a cui l’uomo può riferirsi contemplandola, ma non riducendola nei limiti della propria storia. «Allo stesso modo – annota l’Aristarco – i piani-sequenza ricreano il tempo, il ritmo che è proprio della natura, un tempo che non è quello della prassi, ma quello della vita “interiore” dell’uomo». Così come si è osservato per i capolavori esaminati prima, anche in questa opera d’arte, niente vi è che meriterebbe di essere eliminato come esorbitante, niente chiede di essere aggiunto perché manchevole. Ma allo spettatore che mal sopporta l’impegno della meditazione e non è introdotto alla contemplazione della bellezza estetica, e dunque è sfornito del gusto estetico, sembrerà un film appesantito, perché poco concede allo spettacolo e niente affatto al riposo della mente. E perciò ritorna il principio che non può essere il soggetto singolo il metro di giudizio sull’esteticità del film, se tale soggetto è sprovvisto del gusto e di una cultura estetica.

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12. Il film a tesi Tesi è un termine greco che significa “argomentare per dimostrare”. Antitesi è invece un argomentare che contraddice ciò che la tesi tende a dimostrare. Chi pone una “tesi”, usa argomenti e adopera un linguaggio che tende a dimostrare un assunto. Il film a tesi è dunque principalmente una dissertazione su di un teorema, su una verità che però necessita di essere dedotta. Ci si serve di un soggetto e quindi di una storia che viene raccontata. Ma la finalità del film a tesi è che l’autore vuole convincere gli spettatori di un principio, di una verità, di un assunto, che è “teorema” per l’autore, ma che non lo è ancora per gli spettatori a cui è diretta la visione del film. E dunque il “film a tesi” vuole dimostrare una tesi che sta a cuore al regista. Data la finalità del film a tesi, che è quella di convincere argomentando, è molto difficile che si risolva in opera estetica. Il regista infatti, per avvalorare la sua tesi, deve disporre di un linguaggio per sua natura logico e dimostrativo; deve convincere modulando il racconto e argomentando. E dunque dovrà poco indugiare sulla forma dell’esposizione per non inceppare il rigore e la forza della dimostrazione. Molti sono i film che si son proposti di dimostrare e convincere, ragionare e indurre alla persuasione. Ma veramente pochi di quei film vantano pregi estetici, tali da essere annoverati in una seria storia del cinema d’arte. Ma anche con le difficoltà accennate, non sono mancati registi che hanno dato grande spessore estetico ai loro film, concepiti e realizzati proprio per veicolare una tesi18. 18. Altri registi sono stati e sono grandi, come Sjostrom, von Stroheim, Pudovkin, Pabst, Keaton, Bunuel, Dovzenko, Lang, Flaherty, Carné, Clair, Ford, Renoir, Welles, Rossellini, De Sica, Visconti, Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, Fellini, Waida, Ray, Kubrick, Antonioni, Resnais, Munk, Bergman, Godard, Tarkovskij, Jancsò, Bresson, Lumbitsch, Hitchock, Olivier, Tati, Wilder, Truffaut, Herzog, Spielberg, Altman, Allen, Olmi e altri. Ma rispetto a Charles Chaplin e a Sergej Ejzenstejn, gli altri grandi si dispongono rispettosamente in fila.

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Esempio classico è Aleksander Nevskij di Sergej M. Ejzenstejn che, insieme a Charles Chaplin e a Carl T. Dreyer, è il massimo esponente dell’arte cinematografica. L’uno e gli altri due sono, come scrive Flaubert, «maestri dei maestri». Conveniamo con il giudizio dato sul film Aleksander Nevskij: sta alla storia del cinema, come l’Iliade di Omero sta alla storia della letteratura. Non ovviamente per il contenuto della narrazione epica che tratta, né per l’intento di rievocare e giustificare il dittatore Stalin, in omaggio al quale viene celebrato il Principe Nevskij. Ma per la potenza, la forza e la bellezza che investe l’intera opera cinematografica. La storia: è ambientata nell’anno 1242. I Cavalieri dell’Ordine Teutonico invadono da Ovest la Russia già sconvolta dalle incursioni e dalla devastazione mongole. Il principe Aleksander Nevskij viene chiamato dal popolo a organizzare l’esercito che dovrà arrestare i germanici. Nevskij, il popolo di Novgorod e di altre città, i contadini poveri delle campagne, sbaragliano il nemico comune sul lago Peipus, ricacciando gli invasori. Obbedendo agli schemi dell’ideologia comunista imperante, Ejzenstejn dovrà celebrare non solo la rivoluzione popolare del popolo sovietico, ma (è questa la tesi) deve anche proporre la necessità che il popolo sia diretto da un partito e che questo debba essere necessariamente condotto da un dittatore. Il film dovrà dunque trattare temi rivoluzionari, anzitutto predicando la necessità che una “rivoluzione” sia necessaria. E la necessità della rivoluzione è negli antefatti del film: la devastazione operata dalle forze mongole e l’invasione in terra russa degli eserciti germanici. Le forze plutocratiche dei ricchi mercanti, pur di salvare i loro privilegi e le loro ricchezze, sono disposte ad aprire le porte delle città al nemico. Su di essi quindi non si può contare. Sarà lo stesso popolo dei pescatori e contadini a prendere coscienza che solo da se stesso può venire la salvezza. Perciò dovrà trattarsi di un film corale e, quindi, epico celebrativo. Anche se ci saranno deliziose sequenze di intrecci di 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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amori, tutto dovrà rientrare nel processo unitario di evidenziare ed esaltare l’epopea corale di tutto il popolo. Ma anche se il popolo è riunito nella forza d’urto rivoluzionaria, partecipe nell’unità di intenti, non potrà mai abbattere le forze organizzate del nemico che, nel proprio intento, è preparato alla guerra e non alla pace. E perciò è necessario che il popolo sia rappresentato con i propri capi e che i capi siano diretti da un principe che li guidi. È evidente qui l’allusione ai gerarchi affinché guidino il partito, e al partito affinché sia diretto da una forza eminente, unica e assoluta, cioè da un dittatore. E dunque si stabilisce l’identità dell’immagine fra il principe Nevskij e il dittatore Stalin. Si tratta dunque della contestazione di uno stato di fatto che è quello della conduzione dittatoriale di Stalin sul popolo russo: dittatura che va dimostrata come necessaria. Non in sé, ma nel fatto che è necessaria per stabilire la forza del popolo stesso. Infatti le vicende dirompenti nell’Aleksander Nevskij non sono costrette nella figura del principe, bensì generalizzate a un intero popolo di cui il principe non è il signore ma parte omogenea19.

La contestazione del potere dittatoriale del principe Nevskij è possibile solo se le forze in campo si connotino in un’aspra dialettica fra il Bene e il Male. Il Bene è rappresentato dal popolo che cerca di scrollarsi dal potere tirannico che, ovviamente, è il Male. E dunque la inevitabilità di una titanica contrapposizione dialettica fra il Bene e il Male. Contrapposizione dialettica di cui Ejzenstejn informa tutta la struttura del film: dalla conformazione fisiologica dei volti dei contendenti alla foggia dei vestiti; da una parte la barbarie che si ammanta di gioielli e broccati e lussuosa bordatura dei mercanti e dei prelati, dall’altra la classe dei poveri sfruttati vestita di stracci; da una parte le immagini di cavalieri protervi, superbi e corruc19. ARISTARCO, Guida cit., p. 49.

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ciati, dall’altra semplicità di vita, gioia di vivere, approcci di sereni innamoramenti; da una parte le armature forgiate da una tecnica elaborata, ma fredda e spersonalizzata, dall’altra spade forgiate al fuoco del fabbro anch’esso guerriero, forconi, asce, brandi, lance e pesanti paletti, utili solo se a manovrarli c’è la forza del braccio. Realizzato nel 1938, alla vigilia dell’invasione tedesca, Ejzenstejn si serve per la prima volta del sonoro. Come è stato notato: il passaggio dal cinema muto al fonofilm non fu per Ejzenstejn, come invece per la maggior parte dei registi, una piatta applicazione della nuova tecnica alle immagini, bensì il frutto di quella ricerca teorica e creativa che egli aveva già avviato nel 1928 con la pubblicazione, insieme con Pudovkin e Aleksandrov, del “Manifesto sul cinema sonoro”20.

Perché il missaggio musicale avesse forma e fosse applicato nel senso della contrapposizione dialettica del film, Ejzenstejn scelse un musicista intelligente che entrasse nella totale comprensione di ciò che intendeva porre in atto. Scelse Serghei Prokofiev, da tutti considerato come il maggiore musicista sovietico del tempo, anch’egli sottoposto varie volte alla censura del regime. La partitura aderì in pieno alla struttura del film e in certo modo ingigantì l’efficacia dialettica dell’intera opera. Sembrò che la musica di Prokofiev non fosse stata aggiunta alla narrazione del film, ma fosse scaturita dal film stesso. Immagini e musica procedono con un sincronismo visivo-sonoro mai più ripetuto nella storia del cinema. Del fatto riferirà lo stesso Ejzenstejn: «Il suono non si era introdotto nel cinema muto: ne era venuto fuori, prodotto dal bisogno che spingeva il muto a superare la pura espressione plastica». Si dà il caso di un’opera in cui la musica non si aggiunge all’immagine, ma è immagine essa stessa; e in cui l’immagine si riveste di musicalità. E dunque è una creazione artistica concepita come una grande opera visiva e musicale, un grande affresco in cui non si riesce a distin20. Ibid.

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guere se sia l’immagine a dar prestigio alla musica o la musica a rendere pittorica l’immagine. Immagine e musica sono così intimamente connesse che sarebbe impossibile pensare un Aleksander Nevskij senza quella musica e quelle cantate, e cantate e musica che non fossero di quelle immagini. Senza dubbio si tratta di uno fra i dieci migliori film che il cinema abbia prodotto in tutta la sua storia. Un’opera d’arte di altissimo valore. Eppure si tratta di un film chiaramente a tesi. Chiesto dalle autorità sovietiche perché si dimostrasse una tesi e prodotto dal regista perché quella tesi trovasse il compiacimento delle autorità che gli affidavano l’esecuzione dell’opera. Era la tesi del film quella stessa che era nell’animo del regista? Credeva Ejzenstejn nella necessità che la rivoluzione di un popolo dovesse tradursi in dittatura e nel culto della personalità del dittatore? A ben considerare la domanda, al critico d’arte non dovrebbe interessare tanto ricevere una risposta. Il critico d’arte non può fermarsi a considerare la verità storica della tesi del film. Perché l’unica verità che interessa il critico d’arte è la verità stessa dell’arte, che a prescindere dai fatti narrati e dalla verità della tesi, si realizza nella stessa arte. Se un falso storico è nella narrazione filmica di Aleksander Nevskij e una presunzione di principio privo di fondamento, ciò va a danno della tesi che si è voluto dimostrare, ma non alla stima verso l’opera estetica realizzata dal regista. Si può anche non essere d’accordo sulla tesi difesa dal film, e quindi non amare il film per quello che dice; ma si dovrà necessariamente essere d’accordo sul valore estetico con cui il linguaggio filmico esprime quella tesi, e quindi non si potrà non stimarlo. Posso non amare la tesi di un film, e tuttavia stimarne il pregio estetico; così come posso non stimare il pregio estetico di un film e tuttavia amare la tesi che propone. Ma se invece il critico d’arte vorrà dare un giudizio di valore che gli compete, il giudizio di valore dovrà essere puramente estetico. Flaubert diceva: «Bisogna saper ammirare ciò che non si ama». E Gramsci scriveva: «Io penso che una persona intelli59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gente e moderna deve leggere i classici in generale con un certo “distacco”, cioè solo per i loro valori estetici, mentre l’“amore” implica adesione al contenuto ideologico della poesia: si ama il “proprio” poeta, si “ammira” l’artista in genere»21. Il film Aleksander Nevskij non è grande per la tesi errata che cerca di dimostrare, ma è ineguagliabile sotto il profilo estetico perché a quella errata tesi ha saputo dare verità estetica. Ci si arrovella nella questione se un’opera d’arte possa essere amata e non ammirata, o ammirata e non amata, o anche ammirata perché amata o amata perché ammirata. Noi ammiriamo tutto il film, perché riteniamo che non si può scindere l’amore dall’ammirazione. Se infatti l’ammirazione per un’opera estetica va all’estetica che la pervade, la stessa tesi è necessariamente amata in ciò che di estetico la informa. Non interessa che l’Aleksander Nevskij sia stato costruito in obbedienza all’estetica marxiana. Interessa invece che sia stato elaborato da artisti del calibro di Ejzenstejn e di Prokofiev. I quali, come artisti, non interessano per l’elaborazione della teoria estetica che condividono e da cui nascono le loro opere, ma perché le opere da loro nate piacciono e generano godimento estetico.

21. A. GRAMSCI, Lettera alla moglie Giulia, 1° giugno 1931.

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13. Elementi costitutivi del film d’arte Dopo aver passato in rassegna film di cui comunemente si attestano i meriti estetici, possiamo ora tentare di enucleare quali debbano essere le condizioni perché un film sia esteticamente compiuto e possa dirsi film d’arte, come quelli da noi esaminati.

A – I film d’arte possono farli solo i veri artisti, chi possiede in grado elevato il “gusto” estetico. È inutile che un regista si proponga di realizzare un film d’arte, se non ha gusto estetico, se non è egli stesso un artista. Moltissimi sono i registi mestieranti, quelli che filmano perché in possesso di una macchina da presa. Molti sono quelli che riescono a produrre film appena dignitosi. Questi possono anche incontrare il favore del pubblico, come nel caso di Via col vento, Ben Hur (edizione del 1959), I dieci comandamenti, Mary Poppins, Il giro del mondo in 80 giorni, Cleopatra, West Side Story, My fair lady, Goldfinger e naturalmente gli ultimi: Titanic e The Passion. Sono film che hanno raggiunto incassi favolosi e vantano una massiccia partecipazione di pubblico. Perciò non annoverare questi film fra le opere d’arte è uno scandalo per molti, anche fra i critici del cinema. Perché, si dice, è il pubblico che decide quali film debbano essere considerati arte. È questa tesi la meno idonea a discettare sul valore estetico di un film. E perciò non la prendiamo neanche in seria considerazione. La sovranità del pubblico proposta come criterio di giudizio sul film d’arte è una di quelle cretinerie che ancora oggi domina la persuasione di molti registi che, bruciati dalla critica, si sono appellati al pubblico, non solo per accreditare l’interesse, la piacevolezza o anche il divertimento dei loro film, ma anche per affermare il valore estetico della loro opera. Bisogna inoltre riconoscere che molti critici cinematografici, di riviste, gior61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nali e settimanali di vario interesse, hanno dato fumo a certi film che non hanno potuto poi avere l’onore di essere menzionati su riviste specializzate. E le ragioni per cui simili film trovano spesso la critica compiacente non staremo qui ad esaminarle. Ma una considerazione ci è lecito fare: che molti critici presumono essi stessi di essere competenti, solo perché molti giornali, riviste e settimanali concedono loro di abbozzare giudizi estetici sul film. E dunque, come diceva Benedetto Croce di molti libri, che sarebbero stati più utili se non fossero stati mai scritti, così tanta di tale critica sarebbe stato meglio non averla mai fatta. La stessa cosa avviene nelle mostre cinematografiche, che ormai si contano a bizzeffe. Se si escludono alcune mostre cinematografiche internazionali legate al rigore del giudizio, molte altre si fondano sulla sponsorizzazione delle grandi case di produzione cinematografica, nate appunto per avvalorare e pubblicizzare i loro prodotti. Ci sono film che hanno incontrato il favore del grosso pubblico e della critica, e che hanno introitato ingenti somme, come Il dottor Zivago, Il Padrino e il Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Film che certamente possono vantare anche un certo valore estetico per come hanno saputo scegliere il soggetto, trattare un tema, dare forma all’intera intelaiatura del loro racconto. Film certamente dignitosi e anche se interessati alla narrazione di storie di largo respiro storico, sono stati elaborati non solo con l’uso adeguato degli elementi scenografici e da una magistrale recitazione degli attori, ma anche da un rigore stilistico che ha mostrato certamente cultura, mestiere, senso artistico negli autori che li hanno realizzati. Gli autori sono appunto della stazza di un Lean, di un Coppola e di un Zeffirelli. E tuttavia sono opere di buoni registi, che hanno avuto in animo di non escludere l’arte dalla loro produzione, che anzi l’hanno cercata e in un certo modo ottenuta. Ma non sono veri e compiuti “maestri del cinema”. Non sono cioè registi indiscutibili, ma registi che non hanno saputo elevare i loro film a una perenne attualità culturale, fermi come restano ad essere 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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prodotti di un tempo che non varcherà mai l’orizzonte della perennità. Che, per dirla in modo più chiaro, non troveranno posto nella storia del cinema d’arte, se non per dire di essi che qualcosa della genialità è mancata. E dunque non ci resta che ribadire il concetto: la prima condizione che si pone nella produzione di un film d’arte è che i registi che lo realizzano siano dei veri artisti, nell’intelligenza, nella cultura, nella professionalità, nell’esperienza, nella sensibilità e nello spirito.

B – Ogni soggetto filmico, ogni contenuto del film dovrà adoperare quella forma o quel tipo di linguaggio che gli conviene. Si è detto prima che il contenuto è indifferente alla realizzazione di un film d’arte nel senso che ogni contenuto che voglia tradursi in linguaggio filmico non pone difficoltà a che lo si possa informare di bellezza estetica. Non è il racconto epico o quello intimista, quello religioso o profano, quello storico o romanzato, quello che è tratto dal passato, quello attuale o quello che si proietta nel futuro. La storia del cinema ha saputo trarre opere d’arte da vari e molteplici contenuti. Abbiamo un film epico come Aleksander Nevskij, intimista come Il curato di campagna, religioso come Ordet, profano e irriverente come L’angelo sterminatore, storico come Novecento, romanzato come Il Gattopardo. Abbiamo film che trattano storie del passato come La passione di Giovanna d’Arco, del presente contemporaneo come Nashville, e che si lanciano nella predizione del futuro come 2001 Odissea nello spazio. C’è inoltre una interminabile serie di film documentari, alcuni dei quali, come abbiamo visto ne L’uomo di Aran, raggiungono forma d’arte eccezionale. Dunque ogni contenuto può diventare soggetto di film d’arte. Ma diverrà film d’arte quel contenuto a cui il regista saprà conferire un’adeguata forma espressiva che lo invera in termini estetici. Noi sosteniamo infatti che se la bellezza non è data 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dal contenuto, non è data neanche da qualsiasi forma. È data dal modo pertinente con il quale una data forma investe il contenuto che di sé informa. Perciò il film può anche essere definito come un sinolo di aristotelica memoria. E dunque come ogni materia è specificata dalla sua forma, sì che mutata la forma muta anche il contenuto, così il film non nasce da un contenuto filmico o da una forma filmica. Il contenuto è filmico quando è informato da una forma, che è filmica quando, e solo quando, si accosta al suo contenuto. E così, come ogni contenuto richiede una propria forma, così ogni forma si modula rispetto al proprio contenuto o soggetto filmico. Se un racconto epico vuole tradursi in linguaggio cinematografico dovrà necessariamente informarsi di grandiosità, di ampie scene, di ritmo accellerato, di masse e lunghi piani, in una scenografia in cui l’epopea possa essere letta. È il caso del classico La corazzata Potemkin o di Ottobre dello stesso Ejzenstejn. Se invece il racconto romantico Lancillotto e Ginevra, che pure potrebbe essere scelto come film a largo respiro storico per il riferimento alla Tavola rotonda dei cavalieri del Graal, lo si vuole invece utilizzare in chiave tematica, per celebrare appunto il senso di un oscuro presentimento, della maledizione di Dio, dell’amore impossibile, allora il contenuto sarà informato da una scenografia più funzionale, da una recitazione più intima, da un suono dimesso, da una partecipazione di masse ridotta all’essenziale. Se, infine, si vorrà dare il senso dell’imperversare della morte e del pericolo che incombe su ogni esistenza, pericolo non decifrabile, ignoto nelle sue cause, dell’angoscia onirica che investe ogni esistenza, incapace di modificare gli eventi, come nel film Duel, allora è la narrazione di fatti che si susseguono che deve proporre un’adeguata scenografia, una recitazione psicoide, un ritmo concitato, una fotografia indefinita, un colore sfumato. Non vi è chi, come Charlie Chaplin, ha saputo con mezzi approssimativi dare a ogni contenuto diverso forma diversa, non solo di scenografia ma anche di recitazione, ritmo e senso delle immagini. 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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La febbre dell’oro è insuperabile per come, alle differenti sequenze del film, viene data differente recitazione, differente scenografia, ritmi differenti. Il film non è un susseguirsi di comiche, una rappresentazione bozzettistica. Come scrive Aristarco: Chaplin non ha bisogno di effetti speciali o di inquadrature eccezionali: l’effetto è ottenuto con la recitazione del protagonista, che in ogni momento è al centro della scena a mostrare una realtà crudele22.

Quello che si è detto per La febbre dell’oro lo si dice di tutte le opere di Chaplin. Quando invece la forma non si adatta al contenuto e lo sovrasta, o il contenuto non trova la forma adeguata perché diventa, in quanto contenuto, forma di se stesso, allora si hanno film scadenti, o perché è decadente la forma, o perché è ipertrofico il contenuto.

C – Il soggetto filmico dovrà avere l’appropriata scenografia. Nella narrativa la scenografia, cioè il contesto ambientale in cui si svolge la narrazione del film, non ha grande rilevanza. Le opere teatrali di Shakespeare, per esempio, restano poderose, e anche solo nella lettura del testo si coglie tutta la tragicità che l’autore vuole descrivere. La potenza è nell’intreccio dei fatti, nella tragedia dei personaggi, lì dove l’elemento indispensabile e risolutivo è la parola, il verso poetico, la frase, il discorso. Ma se il testo lo si vuole rappresentare su di un palcoscenico, alla recitazione del testo, agli abiti indossati dagli attori, deve unirsi una scenografia aderente. Una scenografia che, se anche fissa e immobile, così come richiede la natura di una rappresentazione teatrale, dovrà esprimere un ambiente pertinente, 22. ARISTARCO, Guida cit., p. 15.

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creare un’atmosfera che favorisca lo snodo della narrazione teatrale. Se l’Otello di Shakespeare vorrà essere recitato in teatro, la scenografia deve riportare i costumi del tempo, la scena dovrà essere ambientata nel tempo in cui si svolge la narrazione, i personaggi reciteranno in termini di declamazione tragica. Un regista che vuole riportare ai nostri tempi l’Otello originario, e vorrà tradurre il senso antico della tragedia in fatti contemporanei, potrà farlo. Potrà anche avere risultati sorprendenti e di spessore artistico indubitabile. Ma dovrà usare altra scenografia e altro linguaggio, e tuttavia non sarà più l’Otello di Shakespeare. Ora, se la scenografia è importante per la trasposizione teatrale di una composizione letteraria, tanto più lo è se un dramma, una tragedia, una commedia, un’opera comica o musicale la si vorrà tradurre in termini di linguaggio cinematografico. Qui infatti, proprio in ragione del fatto che la narrazione cinematografica non si svolge su di un palco, ma in un ambiente più aperto e in sequenze varie che dovranno poi essere montate secondo la legge propria del linguaggio cinematografico, la scenografia delle varie sequenze dovrà connotarsi nella varietà ed unità del racconto filmico. Non si può scegliere, per un Otello ripensato in tempi moderni, una scenografia che è adatta alla trasposizione dell’Otello originario. Così si dica del contrario. La scenografia di Cabiria di Pastrone e quella mastodontica e spettacolare di La nascita di una nazione di Griffith, quella di Metropolis di Lang e quella di Porto delle nebbie di Carné non è affatto una variante indipendente per la resa d’arte dei film. Si direbbe che gran parte del risultato estetico di quei film sta nella scenografia che lo ha reso possibile. Senza quelle scenografie i film stessi non sarebbero esistiti. E perciò, subito dopo l’importanza del regista, viene quella dello scenografo che, in un preciso e attento uso scenografico, insieme al regista dà forma estetica all’intera struttura del film. Gran parte dei film di De Sica, da I bambini ci guardano a Sciuscià, da Ladri di biciclette a Umberto D e Il giudizio universale, 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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devono il loro risultato alla scenografia di Cesare Zavattini che può essere ritenuto il co-autore dei film di De Sica. Gran parte dei film appena mediocri anche dal punto di vista estetico lo sono perchè la scenografia è inadeguata o completamente inesistente.

D – Nella sequenza del film, gli oggetti, i piani lunghi o i primi piani che vengono ripresi dovranno essere funzionali alla scena, al ritmo, a ciò che si vuole esprimere. Il primo o primissimo piano della fotografia ha una precisa funzione nella sequenza. La si adopera in termini strettamente funzionali. Così, l’uso di una macchina da presa che si attarda a filmare oggetti particolari, deve trovare in quegli oggetti filmati la necessità di farlo. La ripresa di oggetti particolari deve rispondere a una rigorosa necessità. I singoli oggetti e i singoli rumori, nell’economia del filmato, sono veri e propri “gesti” espressivi. I gesti con i quali la persona articola i moti del proprio corpo devono rispondere all’espressione che attraverso quei gesti si vuole offrire. I gesti non sono per articolare la fisiologia del corpo, ma devono corrispondere alla parola che si dice e all’espressione del volto che quella parola pronunzia. «Come hanno notato fin dall’inizio i maggiori critici dell’arte cinematografica, il gesto è la cellula elementare del movimento che si svolge nel tempo filmico e quasi il suo fondamento fisiologico e fisiognomico»23. Nel corso del racconto filmico, non si riprende un oggetto, come un orologio, una stufa, una scarpa, un albero, un primo piano o un’immagine in lontananza che non sia in funzione del racconto filmico. È noto come l’abuso del primo piano in Griffith abbia creato nei suoi film una certa discontinuità narrativa. Il primo piano di un volto lo si adopera per esprimere un particolare stato d’animo, perché il volto abbia una valenza simbolica. 23. M. PEZZELLA, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna 1996, p. 8.

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Il volto in primo piano ha una valenza espressiva che allontana per un istante lo spettatore dal racconto, per trasformare il personaggio stesso in emblema di una particolare condizione interiore o sociale24.

Altrimenti diventa esercitazione calligrafica. Così si dica dei rumori, della voce e dei dialoghi che non siano in funzione di ciò che si vuole esprimere. Il termine “ritmo” è greco, e significa susseguirsi armonioso di un suono. Applicato al linguaggio cinematografico, il ritmo è proprio della cadenza delle registrazioni delle immagini. C’è il ritmo lento che è necessario nelle sequenze dei film in cui è predominante il discorso dialogico, in cui ha grande significato il senso di ciò che viene detto, in cui si fa grande uso del primo piano, perché attraverso l’inquadratura del volto si esprimono lo stato d’animo, il pensiero, l’ansietà o la paura, la meditazione o anche la memoria. Tutto ciò che nel film non trova la parola per essere detto, lo si dice con l’insistenza su di un’immagine. Gran parte dei film di Bresson o di Bergman si serve di un ritmo lento di narrazione, perché non è tanto la narrazione che interessa, ma ciò che dalla narrazione vuole essere evocato. E ciò è possibile solo attraverso un racconto che si muove in cadenze ritmiche adeguate. È il ritmo che si dà alla narrazione che diventa forma della narrazione stessa, oltre che la natura delle immagini e la scenografia, insieme alla recitazione. Per un dialogo che non investe un discorso pensato, che non è fulcro del tema o problema del film, il ritmo lento è improprio, e diventa aritmico e quindi disarmonico. Un film che vuol tradurre in linguaggio cinematografico un’opera teatrale o un romanzo non può molto scostarsi dal ritmo narrativo che gli autori del romanzo o dell’opera teatrale hanno dato alla loro opera. Scostandosi dal ritmo narrativo dell’opera letteraria, il film dà altra forma al linguaggio. Il regista può farlo, ma darà altro e si creerà altra cosa.

24. P. BERTETTO, Introduzione alla storia del cinema, UTET, Torino 2002, p. 19.

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Si è detto del ritmo richiesto da un film che vuole svolgere un tema ad alta concentrazione interiore, intima, quale può essere Un condannato a morte è fuggito di Bresson o Morte a Venezia di Visconti. Ma altro ritmo fra le sequenze e all’interno della stessa sequenza va dato quando quello che interessa non sono i tempi psicologici, ma la semplice narrazione di fatti il cui senso è nei fatti stessi. Qui il ritmo dovrà avere la sua misura adeguata al fatto stesso che si sta raccontando. Il ritmo del racconto cinematografico non deve appesantire, non indurre alla riflessione, non stancare ed essere sciolto. Ci si può riferire a La corona di ferro di Blasetti o a Il giudizio universale di De Sica. Ritmo appropriatamente accelerato lo troviamo nei corto e medio metraggi di Chaplin e quasi in tutti i suoi film. Lì non si vuol far pensare, ma ridere e divertire.

E – Se si ritiene necessario l’uso del sonoro, la parola, il suono o i rumori dovranno anch’essi essere strettamente funzionali. Dai primi decenni il cinema ha fatto a meno del suono, sia della parola che della musica. Non per questo il cinema non ha prodotto opere d’arte; in quel periodo l’arte cinematografica possiamo dire che ha raggiunto vertici espressivi impressionanti. Fatto che ha confermato che la peculiarità del cinema sta nel fatto che esso è “linguaggio di immagini in movimento” o, meglio, movimento di immagini. Appartengono a questo periodo film come La donna di Parigi, il primo film muto che Chaplin costruì per esprimere ironia e psicologia. Dello stesso autore vanno citati La febbre dell’oro, Charlot soldato, Il monello, Il circo. Al cinema muto appartengono molti capolavori di Ejzenstejn, I proscritti di Sjostrom, La terra di Dovzenko, La fine di San Pietroburgo di Pudovkin, Faust di Murnau, L’âge d’or e Un chien andalou di Bunuel, I Nibelunghi e Metropolis di Lang, Le avventure di Mr. West nella terra dei bolscevichi di Kulesov, La madre di Ilarionovic, Pagine dal libro di Satana, La passione di 69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Giovanna d’Arco, Vampyr di Dreyer. Perciò, nel cinema, opere d’arte possono essere realizzate senza il suono e senza la parola. È l’immagine in movimento che dovrà esprimere, anche senza il bisogno della didascalia, ciò che vuole narrare. Questo si è potuto fare perché a maneggiare la macchina da presa c’erano degli artisti. Inoltre ci sono artisti che hanno realizzato opere pregevoli, continuando a filmare con il muto, anche dopo l’invenzione del sonoro. Il sonoro, la parola e la musica, non sono giunti come elementi giustapposti al filmato ma, come si è detto, sono emersi dallo stesso linguaggio cinematografico. Erano nelle premesse del film stesso. Il film, infatti, nasce senza sonoro, e dunque il sonoro continua ad essere non strettamente necessario per la definizione di cosa sia il cinema. Dipende però da quale soggetto cinematografico s’intende realizzare. Vero è che il “cinema” non ha il sonoro come termine definitivo di cosa esso sia come linguaggio. Ma è anche vero che se il cinema fosse restato solo linguaggio di immagini, senza parola e senza suono, si sarebbe precluso ogni altra possibilità di trattare altri soggetti, temi e tesi che solo nell’aggiunta della parola e della musica potevano essere trattati. Cosa sarebbe stato Aleksander Nevskij senza il discorso politico finale del principe e senza la musica di Prokofiev con la stupenda cantata finale della donna che si aggira tra i morti sul lago Peipus? Quale risultato avrebbe avuto Riccardo III di Lawrence Olivier senza il missaggio della musica e della parola che ha reso possibile la recitazione del dramma shakespeariano? Non sarebbe mancato alla storia del cinema l’affresco della società contemporanea di un film come Nashville di Altman, capolavori come Il flauto magico di Bergman, Ombre rosse di Ford, e tanti altri che, dopo il muto, sono stati prodotti, e che senza il sonoro non sarebbe stato possibile produrre? Il sonoro ha dunque arricchito il linguaggio cinematografico e si è anche dimostrato indispensabile. Ma si può dire che anch’esso non sia una variante indipendente e in certo modo costitutiva dell’estetica del cinema. Si sa che la musica unita 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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all’immagine ne aumenta il potere evocativo. Si pensi all’apporto evocativo che la musica ha nel film L’eternità è un giorno di Theo Angelopoulos. Si tratta perciò di saperlo adoperare nei termini della sua giusta e necessaria funzionalità. Il sonoro, sia nella parola che nella musica, deve costituire esso stesso “forma” che informa di esteticità la struttura del film. E perciò deve essere calibrato in una rigorosa composizione visivo-sonora fra immagine e suono, parlato o musicale che sia. Ma se il sonoro, parola o musica, soverchia nella struttura della narrazione filmica, e non si adatta al soggetto o al discorso del film, esso diventa ingombrante e fastidioso. Prendiamo ad esempio due film che, nel rapporto visivosonoro, hanno sortito effetti differenti. Il primo è il già citato Ombre rosse che, anche se del genere western, rappresenta il film tipico in cui il crescendo ritmico delle sequenze è magistralmente espresso nella corsa della diligenza e l’inseguimento degli indiani. È un film western, ma non per celebrare l’epica della conquista americana. Il giudizio negativo che l’Aristarco dà dell’opera è chiaramente di parte e sorretto da pregiudizi ideologici verso tutto ciò che è americano e hollywoodiano. Si sa che Aristarco è stato un critico d’arte bene informato sui canoni del cinema estetico; ma quando ha fatto critica del cinema, ha contraddetto se stesso, adoperando quei criteri di giudizi che, nella teoria, egli aveva ritenuto non appartenenti a una seria critica d’arte. Differente è il giudizio che del film dà Umberto Eco: Se dovessi consigliare agli storici del futuro un esempio di cosa sia il cinema di oggi […] sceglierei il film Ombre rosse. In questo film abbiamo il cinema in tutte le sue coordinate essenziali: abbiamo il racconto cinematografico capace di immobilizzare gli spettatori di una sala semibuia dipanando di fronte a loro il fatto tragico25. 25. U. ECO, in Cinema e televisione: influenze reciproche, Bianco e Nero, Roma 1963.

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A parte il giudizio estetico sul film, quello che a noi interessa rilevare è il modo con cui nel film è stato accostato l’elemento musicale al ritmo del racconto filmico. Come in Aleksander Nevskij, anche se a differente livello, anche in Ombre rosse la musica assume valore estetico ed informa di sé l’intera struttura del film. Si pensi alla musica che accompagna le sequenze della diligenza durante il viaggio e, veramente magistrale, quella che, in un’aderenza di contrapposizione dialettica, mostra al piano il pianista del saloon in attesa della sfida finale. Diverso è il risultato del rapporto fra musica e immagine nel film di Carlo Saura Tango. Qui non è la musica che soverchia l’immagine. È il contrario. Qui è l’immagine e il parlato che sproporzionatamente e in modo sbavato si alternano con la danza e la musica che l’accompagnano. È dunque un film che poteva reggersi con il solo montaggio della danza musicata, ma che registra anche una narrazione di incontri futili e stucchevoli dialoghi che rendono decadente tutto il film. Proprio perché nell’economia del racconto, musica e immagine si rapportano con insistente indifferenza. Si ricordi infine il modo pertinente e allusivo con il quale Bergman adopera parole, suoni e rumori nei suoi film: dai tocchi del pendolo al sibilare del vento nella foresta, dal rumore tumultuoso del fiume al funereo grido della cornacchia, lì dove anche il profondo silenzio diventa parola e linguaggio.

F – Ci sono film che vanno recitati da attori non professionisti, altri che invece richiedono capacità recitativa. Molti registi si sono serviti di attori non professionisti, specialmente nei film epici del muto e in quelli del neorealismo italiano: La terra trema, Umberto D, Ladri di biciclette e Il vangelo secondo Matteo. Il risultato è stato in molti casi positivo per la resa del soggetto filmico. Ma anche se “presi dalla strada”, i protagonisti li si è fatti ugualmente “recitare”. Hanno 72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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recitato da non attori professionisti e, proprio per questo, sono diventati più malleabili alla resa recitativa che il regista si era proposta. Non hanno recitato, ma hanno certamente interpretato, in modo tale che attori professionisti non avrebbero potuto. Ma proprio in questo sta la resa estetica di quei film. Gli attori hanno interpretato non un personaggio ma se stessi. Che era proprio ciò che i registi volevano. Gli attori professionisti avrebbero recitato meglio, ma avrebbero interpretato peggio. È stato John Wayne che più volte ebbe a dichiarare che, lavorando in Ombre rosse, non gli sembrava mai di recitare, ma semplicemente di vivere se stesso. Per questo Mario Soldati scrisse: «E ciò che ricordiamo di lui, in Ombre rosse ed in altri film, è appunto la straordinaria, irresistibile, quasi magica identificazione di se stesso col protagonista: non gli sembrava mai di recitare»26. C’è dunque differenza fra la recitazione di una parte e l’interpretazione di un personaggio. Gli attori non professionisti possono certamente recitare e, in alcuni casi, la loro recitazione si risolve in una vera e fedele interpretazione. L’attore non professionista non può invece recitare, può solo interpretare. Quando invece recita si risolve in vero e proprio disastro. Quando perciò la recitazione è magistrale si risolve in interpretazione. Quando invece non interpreta, è la stessa recitazione che diventa impedimento alla resa artistica del personaggio che si vuole interpretare. Anche in questo caso, prendiamo due esempi che valgono a chiarire il concetto. Il primo è riferito alla recita-interpretazione che Lawrence Olivier dà nel suo film Riccardo III, di cui è attore e regista. Il testo è di Shakespeare. Si tratta di un’opera teatrale che il regista traduce nel linguaggio cinematografico. La parte del testo dovrà dunque essere recitata.

26. M. SOLDATI, «Corriere della sera», 13 giugno 1979.

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Dovrà però essere recitata in una interpretazione che faccia rivivere il personaggio tragico dell’opera shakespeariana. L’Olivier non è solo grande artista teatrale, e quindi grande attore, ma anche un maestro del cinema. Nel Riccardo III la recitazione è sublime interpretazione. Interpretazione che non può inverarsi che in una perfetta recitazione. Si tratta di uno di quei casi in cui la bellezza del linguaggio cinematografico pareggia quella del testo teatrale da cui il film è ricavato. Lì dove la scenografia, il ritmo narrativo, il costume, i primi piani e quelli a lunghi e larghi spazi, la recitazione e l’interpretazione degli attori costituiscono la forma di cui s’informa l’intera struttura del film. Il risultato non è solo spettacolare, teatrale, attraente, ma cinematografia pura. Il secondo caso lo prendiamo dalla recitazione con la quale l’attore Michele Placido interpreta il personaggio di Padre Pio. C’è solo recitazione, e non delle migliori. Completamente assente l’interpretazione. Il film potrà anche essere stato visto da milioni di spettatori (che dalla trasmissione televisiva sono rimasti certamente edificati), ma l’attore ha creduto che recitando si potesse interpretare. I fatti narrati potevano anche essere aderenti alla storia di Padre Pio. Ma è il personaggio interpretato che ne è uscito malconcio. Totalmente assente l’evocazione del sacro che solo i grandi registi e i grandi attori riescono a trasmettere.

G – Non c’è film d’arte quando non si adatta la tecnica al contenuto, al soggetto, al tema o alla tesi del film, ma invece si pensa il contenuto, il soggetto, il tema o la tesi per adattarlo ai ritrovati tecnici. Si dice che non è la macchina da presa che fa il fotografo. Ci sono stati fotografi che hanno realizzato stupende immagini fotografiche con macchine da presa rudimentali. La stessa cosa si è detto dei cineasti alle prese con strumenti cinematografici

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approssimativi. Ora la tecnica ha raggiunto una straordinaria perfezione negli strumenti cinematografici. Si possono ottenere effetti speciali, visivi e sonori una volta inimmaginabili. Ma che ne è se i registi si fanno soggiogare da tali strumenti? Non vi è dubbio che la scienza-tecnica più evoluta, applicata al linguaggio cinematografico, può portare innegabili vantaggi all’estetica del cinema. Certamente ne porta al cinema come linguaggio di immagini. Ma poiché tali strumenti altamente sofisticati sono prodotti della scienza-tecnica, succede che chi li usa soggiace alla determinazione che è propria della scienzatecnica. La quale, come avviene nella nostra cultura contemporanea, da oggetto-strumento che era, si è fatta soggetto che assoggetta, struttura che struttura. E dunque è inevitabile che la scienza-tecnica applicata al cinema non darà al regista ciò che egli domanda, ma al regista domanderà che approfondisca sempre più in tutto ciò che essa può offrire. E dunque non sarà il pensiero o la creatività del regista che presiederà all’uso degli strumenti perché traduca quel pensiero e quella creatività, ma saranno quegli strumenti soggioganti che presiederanno alla modulazione del pensiero e della creatività. E perciò il regista diventa sempre meno creatore di immagini e pensieri, e sempre più tecnico dell’uso di effetti speciali. Per quanto si sappia, non è ancora stato proiettato un film di grande valore estetico che sia stato costruito dall’alta tecnologia. Ed è perché i registi sono stati soggiogati dal fascino degli “effetti speciali”, dalla spettacolarità che quegli strumenti promettono di offrire, dove tutto è abbagliante, si affoga nella meraviglia, si è avvinti dal sensazionale, si è ottusi dalla vertigine. Né è un caso che simili produzioni cinematografiche non hanno temi o problemi seri da trasmettere, ma si proiettano in spazi surreali dove l’unico interesse che lo spettatore mostra è quello di stupirsi, divertirsi, diluirsi in uno stato quasi ipnotico in cui la coscienza critica definitivamente si ottunde. Registi soggiogati da tali strumenti hanno molto da dare e poco o niente da dire.

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Per quanto io ne sappia, un solo film fa eccezione: si tratta del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, regista di film noti al grosso pubblico, come Orizzonti di gloria, Spartacus, Lolita, tratto dal romanzo di Nabokov, Il dottor Stranamore, Arancia meccanica e Barry Lyndon. Si tratta di un regista che non può essere definito un “maestro”, ma che certamente la storia del cinema includerà nel catalogo degli “autori” originali, estrosi, versatili e che hanno sempre qualcosa da dire. In 2001 Odissea nello spazio, Kubrick tratta un tema, della necessità dell’esplorazione nello spazio che è connaturale all’uomo, così come nell’omerico Ulisse sono ravvisate tutte le forze fisiche, quelle dell’astuzia, dell’intelligenza e della ragione per dominare le avversità della sorte e della natura. Ma c’è una vistosa differenza fra l’Ulisse della Odissea omerica e quella dell’uomo della civiltà tecnica dell’Occidente contemporaneo. L’Ulisse di Omero lotta per tornare a casa, recuperare i valori della propria cultura, trovare la propria moglie e abbracciare il proprio figlio. La scienza-tecnica contemporanea lancia l’uomo nello spazio per allontanarsi sempre di più, conquistarlo, esplorarlo e servirsene, abbandonando la terra. L’uomo lanciato nello spazio non mostra desiderio di tornarvi, non ha rimpianti, non ha affetti umani da ritrovare. Non lotta contro la natura per liberarsi da un’aggressione, ma lotta per dominarla, asservirla, impadronirsene. Ma per proiettarsi nello spazio, l’uomo avrà bisogno di strumenti scientifici ad alta perfezione, sofisticati, con l’assoluta garanzia della loro precisione e fedeltà. Tali che in essi sarà assolutamente esclusa la possibilità dell’errore. E perciò il prodotto più idoneo che accompagna l’uomo nella sua avventura nello spazio è la massima perfezione concentrata in un robot. Ma dotato della massima perfezione tecnica, il robot finisce per avvertire in sé una coscienza psichica. Una coscienza non etica né umana, ma una coscienza meccanica che le consente di avvertire quando è dall’uomo sospettato e rifiutato. Quando infatti il robot si accorge che l’uomo sta per eliminarlo, scattano in esso i 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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meccanismi dell’autodifesa. Quando l’uomo esce dalla navetta per regolarla, il robot gli taglia il cavo che lo tiene legato alla navicella e lo proietta negli spazi dove si disintegrerà. Il film esprime una metafora: quando l’uomo porta alla massima perfezione lo strumento scientifico non per conoscere la natura, ma per dominarla, si arriva al punto limite, e quindi al punto critico, in cui non è più l’uomo che domina la scienza tecnica, ma è la scienza-tecnica che finisce per dominare l’uomo. Parabola già annunciata nell’Apprendista stregone, non più capace di dominare lo strumento della sua stregoneria. E dunque è indotto al suicidio dallo strumento stesso della sua invenzione. È questa verità che Kubrick vuole svelare alla società contemporanea, all’apice del progresso scientifico, ma anche radicalmente informata di nichilismo e, quindi, prostrata in una totale decadenza. Con una trasposizione di significati, possiamo riferire il senso della parabola al rapporto che intercorre fra il regista e la supertecnica adoperata. Kubrick ha saputo servirsi degli stessi strumenti scientifici che egli critica nel suo film. Ma è riuscito a servirsene senza essere da essi asservito. Per produrre il suo film, Kubrick ha dovuto servirsi di quegli strumenti d’alta tecnologia, spiegandoli a piene mani in tutta la struttura del film. Ma quegli strumenti li ha dominati, perché proprio su di essi aveva qualcosa da dire. Il pensiero e l’arte hanno conservato il loro dominio sullo strumento. Ma quanti altri riescono a resistere al fascino della scienza-tecnica, sì da essere capaci di dominarla come “oggetto” da adoperare e non essere piuttosto da quella fascinosa tecnica dominati? Con gli “effetti” d’alta specializzazione voluti e adoperati nel cinema, il cinema sembra che non trovi più artisti che gli conservino la dignità e gli forniscano poesia. È per questo che la crisi che investe ogni altra forma d’arte, più di ogni altra forma d’arte investe il cinema. Ci sono nel cinema sempre più tecnici del mestiere e sempre meno poeti dell’immagine.

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H – Il film d’arte, nell’atto di essere pensato e realizzato, procede con il solo intento di creare bellezza estetica. Il film è pensato nella mente del regista prima che entri nella fase di esecuzione. Croce direbbe che l’opera d’arte è già compiuta nella mente dell’artista. È pensata nel soggetto che dovrà essere raccontato, nel tema che vorrà trattare, nella tesi che vorrà sostenere. In certo modo se ne prevede la scenografia, di cui il regista dovrà dare l’appalto agli scenografi specializzati, si scelgono quindi gli attori che dovranno interpretare i personaggi previsti dal copione. Del regista è dunque il film, e al regista se ne dà la paternità, la responsabilità della buona o cattiva riuscita dell’opera. Scenografi, costumisti, tecnici del suono e della fotografia, attori e quant’altri partecipano alla realizzazione del film. Tutti sono responsabili della parte che loro compete, il regista è responsabile di tutti e di ogni cosa. Il produttore o la società produttrice, anche se indispensabile alla realizzazione dell’opera, è quanto di più estraneo ci sia alla confezione del film. E tuttavia diventa anche ciò che più di ogni altro può determinare la “dipendenza” del regista. Se infatti il regista è libero nel pensare la sua opera, non gode della stessa indipendenza quando il film dovrà essere realizzato. Solo il produttore che è anche un mecenate, un innamorato della cultura e dell’arte, può consentirsi di lasciare libero il regista di realizzare la sua opera in assoluta autonomia e libertà. Nella massima parte dei casi il produttore è interessato anzitutto al guadagno che dovrà derivare dal film che produce, avendo stanziato i fondi necessari per realizzarlo. Tutte cose che trovano comprensione sotto il profilo commerciale. Ma che certamente sono condizioni dure per chi vuole realizzare un’opera d’arte. I registi cinematografici si contano ormai a miriadi, e molti sono persuasi di poter realizzare un film che s’imponga all’attenzione della critica. Ma come sono pochi i veri pittori, i veri musicisti, architetti e scultori, così pochi sono i registi che possano imporsi e farla da “maestri”. Sono quelli che la natura ha 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dotato di speciali talenti, i poeti dell’immagine, i cultori della bellezza estetica, gli artisti che, se creano, creano per se stessi; e, proprio perché creano per se stessi, non dagli altri attendono il consenso, ma agli altri impongono la loro arte. Chi possiede il “gusto estetico”, è a tale gusto che obbedisce e da esso si fa dirigere. È solo in tale libertà interiore che l’artista trova il criterio che regola le sue fatiche. Parliamo di “libertà interiore” dell’artista, cioè di quella libertà che si possiede quando si è “interiormente liberati”. E il regista interiormente liberato, anche se effettivamente non libero, crea “libera” la sua opera. Sono “opere libere” quelle dei grandi artisti, anche quando devono sottostare alle condizioni poste dai padroni. Non ci riferiamo solo agli esempi classici di autori come Michelangelo. Ci riferiamo a musicisti come Prokofiev e a cineasti come Ejzenstejn che hanno dovuto varie volte modificare contenuto e forma delle loro opere. Opere in un modo preciso concepite e poi riviste e mutate nel contenuto e nella forma, secondo i criteri dettati. E tuttavia magnifiche sono le musiche di Prokofiev e capolavori sono i film di Ejzenstejn. Non manca dunque al regista del film di portare a compimento opere che egli intende che siano arte, indipendentemente che siano ostacolate dalla censura staliniana, come accadde a Ejzenstejn, o che abbiano avuto il compiacimento del regime hitleriano come accadde alla documentarista tedesca Leni Riefensthal in Olympia. È però indispensabile che il regista sia un “artista”, cioè un esteta, un uomo che è posseduto dalle ragioni della bellezza, perché se gli mancano il gusto e la passione dell’arte, ogni tentativo risulterà inutile; che inoltre possieda il mestiere, che abbia idee e cultura, che voglia impegnare se stesso nel creare bellezza, che crei i suoi film assecondando la propria ispirazione, che non si prostituisca alla stoltezza della moda, che mai si appaghi dei risultati raggiunti. Perché, quando questo avviene, inizia anche nei più grandi maestri il processo della decadenza. Non si producono infatti grandi opere se non si è capaci di affrontare grandi temi. Non è il grande soggetto, ma il tema che si evoca dal soggetto che 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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costituisce il materiale di un grande film. Altrimenti è decadenza. Non c’è un grande film che non tratti un grande tema. Decadenza che anche nei migliori registi si avverte quando viene a mancare il pensiero o l’idea, quando il soggetto particolare non veicola più concetti universali, quando i contenuti non trovano più la loro forma, quando la voce surclassa la parola, quando il rigore dell’espressione è sostituito dalla compiacenza dell’impressione, quando la fantasia inventiva non ha più nulla da dire, perché tutto quello che resta di ancora dicibile si è esaurito nel già detto. Decadenza che è stata avvertita finanche nel “maestro dei maestri” Charles Chaplin di La contessa di Hong Kong, in Roberto Rossellini di Europa '51, di Era notte a Roma, Viva l’Italia e Vanina Vanini, nel grande Bergman di L’ora del lupo, Passione, La vergogna e Fanny e Alexander, in De Sica di Stazione Termini, Matrimonio all’italiana, Una breve vacanza, Il viaggio, e, per finire, nel celebrato Fellini di La città delle donne, Roma e Casanova. Quando ci si smobilita dal proposito artistico e la vanità, la leggerezza, la volontà di stupire, d’essere alla moda e di ricevere plauso e consenso si sostituiscono alla meditazione, all’idea, al pensiero pensato, è allora che nel regista si avverte lo sfaldamento del rigore estetico. Lo stesso si dica dello spettatore che assiste alla proiezione del film. Se si va al cinema per divertirsi, distendersi, passare il tempo, come si suol dire, è allora inutile che si scelgano film d’arte. A film come La febbre dell’oro, Grand Hotel, Breve incontro, Fronte del porto, I sette samurai, La ballata di un soldato, L’angelo sterminatore e molti altri, si può assistere divertiti, interessati, compiacenti, commossi e rilassati. Ma se si vuol cogliere la bellezza che il regista ha tentato di esprimere, non è solo con gli occhi che dovrà essere visto il film, ma con il cervello e la partecipazione della ricchezza culturale. Che non è quella del sapere, ma quella del “gusto” estetico, se c’è. Se lo spettatore assiste a Tempi moderni, a L’emigrante o a Il circo di Chaplin, potrà divertirsi e cogliere nell’iperbole della comicità 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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il valore e il senso del film. Invece quelli sono film “seri”, di assoluta serietà, perché quella comicità non è fine a se stessa. È l’involucro di un tema serio, la proiezione comica di un soggetto drammatico, la tragedia evocata in una commedia. Se lo spettatore ha assistito al film, e non ha colto il senso che nel racconto visivo-sonoro il regista ha voluto dire, si sarà certamente divertito, ma poco o nulla ha compreso del valore estetico del film. Sono stati indicati alcuni film di Charles Chaplin, ma la stessa osservazione può esser fatta per molti altri film e di molti altri registi. I quali hanno confessato di essere stati spesso bene accolti, ma anche poco o niente affatto compresi.

14. Cinema e televisione Per certi aspetti cinema e televisione convergono, per altri differiscono. Convergono perché sia il cinema che la televisione proiettano immagini. Sia il cinema che la televisione si riferiscono a spettatori, senza dei quali sia l’uno che l’altra diventano strumenti inutili. Cinema e televisione convergono inoltre nel fatto che, oltre ad essere linguaggi, si servono degli stessi strumenti operativi: la cinepresa o macchina da presa. Cinema e televisione convergono ancora nel fatto che sia l’uno che l’altra sono linguaggi di immagini in movimento. Non c’è cinema se la cinepresa si ferma statica su di un soggetto immobile; non c’è televisione se la macchina da presa resta ferma ad inquadrare ambienti fissi. Ma già nei nomi, il cinema e la televisione mostrano le loro differenze. Il termine “cinema” fa diretto riferimento all’immagine in movimento, “televisione”, invece, nel suo significato nominale, direttamente rimanda a una “visione”, un vedere, un osservare, un percepire coi sensi ciò che non può essere visto immediatamente e direttamente. E perciò, mentre il cinema si riferisce immediatamente alla visione di immagini in movimento, la televisione si riferisce immediatamente a ciò che è lontano, a ciò che direttamente non può esse81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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re visto dai sensi. La distinzione non è di interesse irrilevante. È infatti la differenza del significato dei termini che presiede anche alle rispettive differenze delle finalità e funzioni. Un’altra sostanziale differenza sta nel fatto che mentre il filmato può solo essere proiettato su di uno schermo mediante il “proiettore” che proietta immagini già registrate su pellicola (e ora anche mediante elementi digitali, realizzati completamente al computer anche nella fase di ripresa, cosicché ci sono film che saranno direttamente inviati nelle sale attraverso il sistema satellitare abolendo così del tutto la pellicola), la televisione, proprio perché ha la possibilità di rendere immediatamente vicino ciò che è lontano, presente ciò che è immediatamente assente, accorcia la distanza fra ciò che accade in un luogo e ciò che viene visto in un altro, rende simultanee la presa e la visione, elimina la registrazione dei fatti, i quali vengono dati immediatamente alla visione degli spettatori. Proprio perché ciò che principalmente interessa allo strumento televisivo è l’immediatezza, la contemporaneità, la diretta della notizia o del fatto di cui si vuole informare lo spettatore. Contrariamente alla registrazione di un film, la televisione non prevede una data scenografia adeguata a un proprio soggetto. La televisione infatti non ha in sé lo scopo di “narrare” accadimenti, fatti o eventi in un soggetto filmico già confezionato, per il quale si richiede un’adeguata scenografia. La televisione risponde piuttosto alla funzione dell’occhio umano che coglie, nella sua immediatezza, ciò che accade, senza previsione o programmazione. Che se anche sullo schermo televisivo viene trasmesso ciò che è già registrato dalla macchina da presa o da altro strumento, allora si tratta sempre di “un filmato” che viene dato per televisione, non di uno “specifico” televisivo che è proprio della televisione. Molte osservazioni potrebbero essere ancora fatte sulla differenza del linguaggio cinematografico e quello televisivo. Ma ci limitiamo a quanto abbiamo sopra osservato per porci subito la domanda: può il linguaggio televisivo vantare una sua capacità di creare opere d’arte, di realizzare trasmissioni che si infor82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mano di godimento estetico? Può la televisione, nel linguaggio che le è proprio, essere trasmissione estetica, creare “arte”? La risposta è nel semplice fatto che la televisione ha offerto molte trasmissioni che possono vantare una resa estetica presso gli spettatori. Non parliamo di quelle opere che sono state cinematograficamente registrate per essere poi televisivamente proiettate. Molti film sono stati girati non solo per interesse delle case produttrici televisive, pubbliche e private, ma anche per essere direttamente trasmesse per televisione. Si ricordi fra tutte una delle opere più complesse del cinema tedesco del dopoguerra, la saga familiare di Heimat 1 e 2 del regista Edgar Reitz, che nasce come prodotto televisivo. Ma anche se nate come prodotti televisivi, Heimat e moltissime altre opere, se presentano valori estetici di un certo interesse, non è in ragione della loro immediata finalità di essere prodotte e trasmesse come opere della televisione che possono vantare valori estetici. Si tratta infatti di filmati, di vere e proprie realizzazioni cinematografiche, registrate con lo specifico cinematografico come linguaggio di immagini in movimento. Se possono vantare valori estetici, è perché sono anzitutto opere cinematografiche prodotte dalla e per la televisione. Ma ci sono anche opere di interesse estetico che non nascono soltanto come filmati cinematografici trasmessi alla televisione. Si tratta di trasmissioni televisive che, nel rispetto dello specifico del linguaggio televisivo, sono opere di valore estetico. Si pensi, per esempio, alle celebrate trasmissioni televisive delle opere teatrali di Zeffirelli e di altri registi che hanno registrato opere televisive d’alto livello. Tipico è il modo in cui il direttore d’orchestra Herbert von Karajan ha registrato le trasmissioni televisive dei suoi concerti. Lì la perfezione delle sue esecuzioni orchestrali è magistralmente unita a quella della trasmissione televisiva, in un perfetto equilibrio visivo-sonoro. Insieme al godimento estetico dell’esecuzione musicale vi è anche la godibilità della regia televisiva, in un sincronismo visivo-sonoro che certamente informa di godimento estetico sia l’esecuzione del concerto che l’immagine visiva con cui viene tra83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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smesso. È arte l’esecuzione musicale, ma è altrettanto arte la trasmissione televisiva. Si tratta ovviamente di una speciale trasmissione televisiva, in cui tutto è preparato da una regia accorta e anch’essa dotata di “gusto estetico”. Tutto questo per dire che, quando lo strumento televisivo è adoperato da chi è artista e si propone una trasmissione artistica, la televisione, proprio nel suo “specifico”, è capace di produrre opere d’arte. E dunque avviene per la televisione quello che accade per il cinema: se la televisione si propone intenti estetici e viene utilizzata da artisti, genera opere d’arte; ma se si escludono, per diverse ragioni, finalità estetiche e il mezzo televisivo è posto nelle mani di artigiani o tecnici mestieranti, la televisione resta nella sola sua natura di semplice strumento di informazione di avvenimenti.

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II CAPITOLO L’EVOCAZIONE DEL SACRO NEL CINEMA RELIGIOSO

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1. Il “sacro” tra evocazione e mistero Il termine “evocare” è latino: significa “venir fuori”, chiamare un’assenza perché si faccia presenza. “Evocare” significa svelare e rendere manifesto ciò che non si vede né può essere detto o raccontato. Significa anche, nell’accezione più larga, ricordare il dimenticato. Nel suo significato nominale il termine “evocare” fa sempre riferimento a una assenza che si vuole presenza, a un nascosto che si vuole in evidenza, ad un indicibile che si vuole detto, ad un noumeno che si vuole fenomeno, a un trascendente che si vuole immanente, ad un mistero che si vuole svelato. Si “evoca” infatti ciò che non appare, ma di cui si è certi che esiste; si “evoca” ciò che è assente, ma di cui in certo modo si avverte la presenza. E perciò il termine evocare ha un’indole religiosa, proprio perché il trascendente lo si vuole immanente, l’indicibile lo si vuole detto, l’invisibile visibile, il mistero in certo modo rivelato. Quando sant’Anselmo d’Aosta volle evocare il Dio assente, perché si rendesse presente scrisse: «Signore, se non sei qui, dove cercherò la tua assenza?». Era un domandare, ma anche un evocare la presenza di un Dio che restava assente, ma di cui si cercava una presenza. “Il sacro” appartiene infatti a ciò che c’è, ma che non dichiara la propria presenza, si nasconde, perché non ci sono parole con le quali lo si possa definire né immagini con le quali manifestarlo. Lo si può perciò soltanto “evocare”, rilevarlo, coglierne le tracce, avvertirlo, prospettarlo, intravederlo come oltre e altro. Quando si dice che il “sacro” lo si può solo evocare, cioè tirar fuori, non si intende in termini fisici, come se, tirato fuori, esso si manifesta e si fa presenza come un contenuto che esce da un vaso che lo contiene. Il “sacro” lo si può solo intuire. Se ne può avvertire la presenza, ma sempre in una apprensione interiore. La “sacralità” infatti appartiene alla natura di Dio che nessuno ha mai visto, ma di cui si intravedono le orme, se ne può cogliere la presenza. Solo Dio è “sacro”, a prescindere da ogni suo rapporto con gli uomini. 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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In questo nostro studio distinguiamo perciò il “sacro” dal fenomeno della religiosità. Diciamo “religioso” qualsiasi rapporto che l’uomo ha con il Trascendente, con l’Assoluto, con Dio. Rapporto “religioso” che si evidenzia nella fede, nella preghiera, nel sacrificio, nell’offerta, nella partecipazione liturgica comunitaria, nella partecipazione ai riti. Quando la religiosità si manifesta in un rapporto con il divino e con il trascendente, tale rapporto lo definiamo “religioso”. E dunque, mentre la religiosità si manifesta negli atteggiamenti degli uomini, ed è rilevabile come fenomeno, la sacralità, che è proprio la connotazione di Dio e della sua presenza misteriosa, è altro e va oltre il fatto religioso. Le Scritture, i Vangeli, per esempio, possono essere letti come fatti religiosi; così come fatti religiosi si interpretano gli atteggiamenti di fede e di culto dei credenti. Ma non è detto che, sol che si resti nell’ambito della religiosità, sol che si rilevino fenomeni religiosi, in essi necessariamente si riesca a cogliere il sacro, si percepisca il mistero, si avverta la presenza del divino, che è altro e che va oltre i fenomeni religiosi stessi. Nel fenomeno religioso, va intuito l’oltre e l’altro del fenomeno stesso. Ma è intuibile solo se in certo modo è prospettato nel fatto o fenomeno religioso. Nei Vangeli, per esempio, c’è la narrazione di fenomeni religiosi, ma proprio perché scritture ispirate, il “sacro”, la presenza di Dio e il senso del mistero sono intuiti e avvertiti. Ma solo se si possiede la capacità percettiva di avvertirlo e intuirlo. Non solo, ma è avvertito e intuito proprio perché il senso del “sacro” c’è, è presente, sottostà ai fatti, e perciò può essere “evocato”. Non da tutti, ma solo da chi, come dice Paolo, è posseduto da ea quae sunt spiritus. Infatti homo animalis non percepit ea quae sunt spiritus, chi vive solo di vita naturale ed esclude che oltre i fenomeni c’è l’oltre e l’altro, non può intuire il sacro. In molte opere artistiche, nella poesia come nella pittura, nella letteratura come nel dramma, nell’architettura come nella scultura, è presente un “soggetto religioso”. Ma anche se tutte le arti si sono esercitate nella narrazione di un soggetto 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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religioso, non tutte sono state capaci di evocare il sacro, di farlo intuire e sentire oltre la narrazione religiosa stessa. Molta musica è stata composta per celebrare eventi religiosi, ma poca è riuscita a evocare il sacro, a fermare l’uditorio nell’evocazione del mistero. J. Sebastian Bach è sublime non solo per l’arte profusa a piene mani nelle sue opere, ma perché nessun altro come lui è riuscito a “evocare” il sacro, il mistero, la deità, nelle sue opere religiose, nei suoi Oratori, nelle sue Cantate, e specialmente nella sua Passione secondo Matteo. Ora, il cinema che vuol trattare del “sacro” si assume una grande responsabilità: quella di doverlo evocare. Dovrà avere anche un grande coraggio e una chiara coscienza di essere capace di farlo. Molti sono i registi che si sono impegnati su soggetti e temi religiosi. Rari quelli che da un soggetto religioso hanno saputo “evocare il sacro”. La difficoltà non è solo nella capacità dei registi. È nella natura stessa dell’evocabilità del sacro. Evocare il sacro è un’operazione consentita solo a chi il sacro lo possiede e in certo modo l’avverte oltre e altro dai fenomeni religiosi. Due sono i registi che hanno saputo trattare il sacro e il religioso nei loro film. Essi ovviamente non potevano essere che grandi maestri del cinema: Dreyer e Bresson. Tutti gli altri, compreso il grande Bergman, si sono fermati alla trattazione del soggetto, del tema o problema d’indole religiosa. Ma come è difficile evocare il sacro da parte di registi che trattano temi e soggetti a carattere religioso, così è altrettanto difficile intuire il senso del sacro da parte degli spettatori che, nella loro intelligenza, intuizione e capacità percettiva mancano della capacità evocativa. Proprio per questa sprovveduta capacità di cogliere il senso del mistero, il trascendente, l’oltre e l’altro di ciò che si ode o si vede nel film, di saper distinguere il soggetto religioso da ciò che è evocativo del sacro, molti spettatori confondono una cosa e l’altra e si lasciano andare a giudizi superficiali. Film a “soggetto religioso” sono stati prodotti in gran quantità. Molti registi si sono impegnati a tratteggiare la figura di Cristo e a raccontare le storie bibliche del 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Vecchio come del Nuovo Testamento. Alcuni hanno cercato di tenersi fedeli alla verità storica dei racconti, altri li hanno manipolati a proprio piacimento, altri ancora si sono serviti della figura del Cristo e di altri personaggi biblici per ideologizzarne il messaggio, altri infine per demitizzarne la figura in una trasposizione di significati volutamente blasfemi. Ma esaminiamo alcuni di questi film tipici molto noti al pubblico, a cui ci si riporta per la trattazione del sacro nel cinema. È con I dieci comandamenti del 1923 che Cecil De Mille apre il filone biblico-religioso, basato sul gigantismo scenografico. Una nuova versione dei Dieci comandamenti si avrà nel 1957. Lo stesso regista firmerà opere come Il Re dei re del 1927, Il segno della croce del 1932 e Sansone e Dalila del 1949. Classici film hollywoodiani in cui […] il regista affronta il soggetto religioso in una narrazione ad incastro, […] in modo da fustigare, a livello di intreccio, vizi di ogni sorta e sfrenatezze sessuali decisamente orgiastiche che, tuttavia, a livello di messa in scena e rappresentazione, vengono espresse con audacia e spettacolarità1.

Insieme a I dieci comandamenti, va ricordata La Bibbia di Huston, nello stesso stile hollywoodiano. Oltre a Sansone e Dalila, molti altri personaggi della Bibbia veterotestamentaria hanno avuto celebrazione nel cinema: Adamo ed Eva nell’episodio de La creazione di Olmi, Caino e Abele, Noè, Abramo, Giuseppe, Mosè, Giosuè, Davide e Salomone, Sansone, Giuditta e I Maccabei. Storie tratte dalla Bibbia, ma che si informano superficialmente del loro significato biblico-religioso. Prevale l’interesse storico e mitico dei personaggi. L’evocazione del sacro è decisamente assente. Si tratta del classico esempio di quanto i cineasti approfittino delle storie e dei personaggi biblici per 1. P. BERTETTO, Introduzione alla storia del cinema, UTET, Torino 2002, p. 80.

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utilizzare scene di masse, applicare i nuovi strumenti tecnici, generare spettacolarità, assicurarsi la frequenza del pubblico. Non vi è dubbio che alcuni di quei film restano “grandi film”, ma che certamente non sono opere d’arte e tanto meno possono essere citati nella storia del sacro nel cinema.

2. L’evocazione del sacro in Dreyer Nessun regista, fino ad ora, ha saputo e potuto darci una figura del Cristo biblico che, in certo modo e in una forma approssimativa, ne potesse pareggiare la figura. Un tentativo era nella volontà di Dreyer, che del Cristo aveva abbozzato una sua storia. Avremmo avuto un film che, anche se nello spirito protestantekierkegaardiano, sarebbe stato un grande film d’arte, ma anche un film che avrebbe certamente dato alla storia del cinema quella evocazione del sacro che ha saputo dare al suo capolavoro Ordet, un film che fra i capolavori della storia del cinema d’arte trova riscontro solo in quelli di Ejzenstejn e Chaplin. La Guida al film di Aristarco, che pure commenta di Dreyer tre film, esclude Ordet; cita invece La passione di Giovanna d’Arco, per dire che il personaggio è smontato di ogni aura sacrale, Il vampiro, per dirci che «questa vicenda di vampiri si configura così come un’incursione nelle tenebre dell’anima umana in lotta contro il demonio di false sicurezze di un positivismo borghese sicuro e dominante», Gertrud, apprezzato perché non è, come Ordet, un film religioso, e «perché esprime il desiderio della carne e l’irrimediabile solitudine dell’anima». Giudizio che è dello stesso Dreyer e dal quale non dissentiamo. Ma recriminiamo il fatto che la Guida al film di Aristarco abbia escluso di misurarsi con un film come Ordet, che è uno dei rari film che abbiano saputo evocare il sacro e che si sia imposto come uno dei capolavori che il cinema abbia mai prodotto. Dreyer è la tipica espressione della cultura religiosa protestante della Danimarca. Alla luce della filosofia del suo conter91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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raneo Kierkegaard, introduce la sua filosofia e religiosità nelle sue opere. Per Dreyer non vi è scampo per eludere la solitudine ontologica dell’uomo, che è angoscia e perdizione, e che si riassume nella constatazione che Dio si è assentato e che “il credere in Dio non accade più”, e perciò fra gli uomini si celebra “il lutto di Dio”. Perciò Dreyer non spera in altro che nell’attesa che Dio si renda presente nella forma scandalosa del “miracolo”; che l’assurdo, l’inaudibile, l’impensabile, l’indicibile della cultura illuminista e positivista dei nostri tempi si faccia presente. Ordet, che significa la Parola, il Verbo, il Logos, narra di una famiglia benestante e religiosa, in continua lite con un’altra famiglia, che dà differente interpretazione della fede protestante. E poiché i rispettivi figlio e figlia sono fra loro innamorati, la rivalsa dei rispettivi genitori si ripercuote sui due innamorati. Il padre del ragazzo di nome Anders ha con sé un altro figlio, il più grande, Mikkel, sposato con Iunger una donna che ha già una bambina, Karen, e che attende da un giorno all’altro di dare alla luce un altro figlio. Iunger è una ferma credente, mentre il marito Mikkel è in seria crisi di fede. In questa famiglia, come a turbare l’equilibrio della normalità, vive anche un altro figlio, il secondo Johannes, un giovane di 37 anni. Non è più una persona normale. Soffre di allucinazioni mistiche, è un alienato, immerso in pensieri e visioni religiose, che dispensa funerei messaggi e profetizza eventi luttuosi. Il suo turbamento, si dice, lo si deve alla frequenza delle letture di Kierkegaard, il famoso filosofo danese. Crede di essere l’incarnazione del Messia. Non è pericoloso, anzi, è così mite che la nipotina Karen ama dialogare con lui e stare in sua compagnia. Il padre è avvilito per la condizione del figlio Johannes. Per questo la sua fede è sottoposta a una dura prova. Iunger lo esorta a sperare e ad avere fiducia che Johannes riacquisti la ragione. Solo un miracolo potrebbe guarirlo. Ma, dice sconsolato il padre, i miracoli non si fanno più. 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ciò che è impossibile agli uomini, risponde Iunger, è possibile per Dio.

In un momento critico della vita della famiglia, Johannes annuncia che essa sarà subito visitata dalla morte. Durante il parto infatti Iunger muore, lasciando nella disperazione e nel profondo sconforto i componenti della famiglia. L’unica a mostrare serenità è l’innocente Karen che si rivolge allo zio Johannes perché risusciti la mamma, certa che egli solo può compiere il miracolo. Mentre tutti sono accanto al catafalco nel quale è deposta la salma di Iunger, disperati e afflitti, portato per mano dalla nipotina, entra Johannes che, dopo aver ripreso i presenti della loro poca fede, chiama la defunta dal sonno della morte e la risuscita. Questo il racconto del film Ordet di Dreyer. Soggetto non originario, perché tratto da un lavoro teatrale già dato sulle scene e, quindi, rivisitato dal regista. Il quale esprime nel film una personale visione della vita: la cultura contemporanea ha eclissato Dio e ha emarginato il mistero; e perciò in una visione illuminista sostiene la non-possibilità dell’impossibile. Ma la fede, anche se scandalo per la ragione, resta nell’uomo l’unica possibilità possibile, compresa l’impossibilità del miracolo. Noi riteniamo che Ordet sia l’opera cinematografica in cui il “sacro” sia stato evocato come meglio non si poteva. Perché, anche se introduce a una religiosità non ecclesiale e in certo modo in contrasto con il cristianesimo della cristianità, tanto criticata da Kierkegaard, rappresenta il rifiuto di un umanesimo senza fede, attraverso una dura polemica contro il positivismo e la razionalità illuminista. La “evocazione del sacro”, infatti, non avviene nel “rifiuto del mistero”. Solo chi accetta il mistero riesce a evocare il sacro. E dunque solo chi ha la fede ed è credente, come lo era Dreyer, poteva arrischiarsi in un tema e in una tesi così ardua, delicata e compromettente. La critica, specialmente quella d’ispirazione marxista, ha insistito sul rifiuto nel film di una realtà storico-religiosa: un film il cui tema e la cui tesi si abbandonano piuttosto ad una 93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rivalsa mistica. Ma ne ha riconosciuto i grandissimi meriti artistici, considerando il regista un “autentico maestro”. Il critico Aristarco, a cui spesso noi abbiamo fatto riferimento, scrive a proposito dei meriti artistici dell’opera: Autentico maestro, Dreyer ha fatto dello stile cinematografico una “scrittura”, influenzando – attraverso la tecnica dei primi piani dilatati, le sue scene lente, senza stacchi, di campi medi e lunghi – autori come Bresson, Antonioni e Bergman2.

3. L’evocazione del sacro in Bresson Anche a Bresson (undici film in quarant’anni di attività) è toccata la stessa sorte di Dreyer. La Guida al film di Aristarco annota due dei suoi capolavori: Così bella, così dolce e Lancillotto e Ginevra. Non ha creduto che meritasse una critica estetica Il diario di un curato di campagna, limitandosi a un accenno del film lì dove parla dell’autore. Del film si rileva l’acuta rappresentazione di un dramma umano, pieno di sofferenza incompresa e “privo di ribellione”. Molto poco. E poiché la Guida al film vuole essere un’opera di critica estetica del cinema, genera sospetto che si sia accorta di Lancillotto e Ginevra, di Così bella, così dolce, e abbia trascurato la critica al Diario di un curato di campagna che, insieme a Ordet di Dreyer, rappresenta quanto di meglio abbia espresso il cinema religioso, anche dal punto di vista estetico. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Bernanos, così come dallo stesso Bernanos è tratto il film Mouchette dello stesso regista. Tratta di un giovane prete, malandato in salute e in preda all’alcolismo. Tanta è la sua malferma salute fisica, quant’è la sua formazione spirituale e la sua fede religiosa. Viene mandato dal suo vescovo a dirigere la parrocchia di un piccolo paese isolato. Non ha una forte personalità, è modesto e 2. G. ARISTARCO, Guida al film, Fabbri, Milano 1979, p. 290.

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umile, ma informato da una forte volontà di salvaguardare dal male le anime a lui affidate e portarle a Dio. E perciò, anche in ragione della sua indole e del male che gli cova dentro, vive la sua missione con grande difficoltà, sia nei confronti della comunità dei fedeli che della Chiesa. Frequenta la casa di un conte che inganna la moglie con sofferenza della figlia ribelle al cinismo dei genitori. Malgrado il suo impegno pastorale, egli non riesce a scalfire la diffidenza della gente. Solo, malato di cancro, va a morire nella casa di un compagno seminarista che si era spretato. È da questi che riceve l’ultima assoluzione. All’ex-prete, che lo commisera perché non ha potuto essere assolto nemmeno da un sacerdote in comunione con la Chiesa, mentre muore, risponde con estrema serenità e fiducia in Dio: «Che importa. Tutto è grazia». A parte il valore estetico del film, di estremo rigore formale, dietro i personaggi ieratici, si agitano alcuni dei grandi problemi della vita dell’uomo d’oggi: la fede religiosa, la fedeltà coniugale, le angosce, le insicurezze, le paure, il tema-problema della identità del prete, la sua missione. Tutto espresso nello stile del grande maestro francese, che nulla concede alla spettacolarità, ma che ogni cosa affida alla penetrazione dell’anima. Nell’opera di Dreyer l’evocazione del sacro esclude ogni presenza della Chiesa e tutto si affida alla dimensione personale della fede, in un rapporto con Dio che si consuma all’insegna della religiosità pura. Se nel racconto di Ordet, si affaccia la figura del pastore, è per rilevarne la poca fede e l’acquiescenza a una assuefazione alla vacuità e all’insignificanza. Il pastore e la Chiesa in Ordet non contano. Se li si rende presenti è per dire, così com’è nel pensiero di Kierkegaard, che veramente il loro cristianesimo si è concluso nella decadenza della cristianità. Rappresentano il “sacro”, ma non lo evocano. Del film così scrive uno storico e critico d’arte: [un film] in cui la vita quotidiana di un prete “senza qualità”, in lotta con i propri tormenti interiori, è rappresentata in lun95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ghe scene dal carattere austero e contemplativo, senza alcun compiacimento formale, una recitazione sommessa e un dialogo ridotto all’essenziale3.

Nel Diario di un curato di campagna, Bresson offre tutt’altra visione. Il “mistero della Chiesa” è evocato in tutta la struttura del film. E i fatti narrati hanno comprensione tematica nella prospettiva di un sacerdozio che, se anche non è mai purificato nei preti che lo interpretano, resta tuttavia l’imprescindibile e l’invalicabile per l’uomo che vuole mettersi in rapporto salvifico con Dio. Il prete del Diario di un curato di campagna è della Chiesa e nella Chiesa, anche se l’apparato ecclesiale pensa che la rappresenti male. Ma è in questo prete, e molto meno in altri, che il sacro viene evocato. Nel film i personaggi raccontano la loro storia di debolezze e povertà, dal primo all’ultimo. Ma in tale racconto di povertà e debolezza, resta saldo il perno della religiosità e della fede, che ogni cosa, pensieri, detti e fatti connette alla “grazia”. Che è sempre presente, anche se a doverla dare è un prete che sembra fuori la comunione dei santi.

4. L’evocazione del sacro in Bergman La poetica di Bergman si concentra sulla tesi che la domanda posta a Dio e su Dio non riceve risposta, e perciò l’esistenza dell’uomo non può che essere vissuta nell’angoscia, nella solitudine ed abbandono dell’anima. Come Dreyer, anche Bergman è suggestionato dal pensiero di Kierkegaard, e afferma, come il filosofo, che ogni uomo vive in un incognito totalmente impenetrabile ad altri uomini, imperscrutabile a ogni forza umana. Il “problema teologico” e quindi “antropologico” di Bergman è nella mancata risposta alle domande del cavaliere Bloch del Settimo sigillo del 1956: Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? 3. BERTETTO, Introduzione cit., p. 186.

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Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto, e voglio che mi parli… Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza…

Ma più difficile diventa l’evocazione del sacro, quando si avverte che l’unica presenza che Dio offre all’uomo è il “suo silenzio”, “il silenzio di Dio”. Il silenzio di Dio è avvertito in Luci d’inverno del 1962, che sembra essere il più drammatico e il più meditato fra tutti i film di Bergman. È il film in cui si narra di un pastore d’anime, Tomas Ericsson, che non riesce a dare risposta alla crisi di Jonas Parsson, avvilito e in preda a una volontà suicida, angosciato dalla prospettiva di una conflagrazione mondiale capace di coinvolgere la vita del figlio che sta per nascere. E non dà risposta perché la sua crisi di fede è molto più profonda di quella dell’uomo a cui dovrebbe dare risposta. La crisi del pastore protestante, e la sua mancata risposta, contribuiranno infatti alla messa in atto del suicidio di Jonas. Il tema del “silenzio di Dio” è ancora presente in Come in uno specchio del 1961. Dio si fa presente solo nella fase di una profonda alienazione della psiche di Karin, una moglie amata dal marito Martin, curata dal fratello Minus, seguita dal padre scrittore David, che si interessa al caso solo perché dalla malattia della figlia possa ricavarne un resoconto per la sua attività di scrittore. Quando Karin è in preda a una profonda depressione e in uno stato di critica allucinazione, Dio si fa presente. Ma la sua presenza è minacciosa e per nulla confortante. Dio le viene incontro sotto forma di un orrendo e mostruoso ragno nero. Quando il marito e il padre ritornano, ella riprende la via del manicomio. È il fratello Minus il più scioccato dal fatto. Quando finalmente può parlare con il padre, fino a quel momento incredulo e scettico, egli confessa al padre la sua paura “perché tutto può accadere”; e perciò conclude che in questo mondo 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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non si può vivere: Sì che si può, risponde il padre, se hai qualcuno su cui sostenerti. Su chi? Su Dio? Dammi una prova dell’esistenza di Dio, aggiunge il figlio.

Il padre non può dare una prova dell’esistenza di Dio, ma è certo che Dio è dove c’è amore. Non sa se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o sia Dio stesso. Ma il pensiero che Dio sia amore è l’unico conforto che toglie l’uomo dalla miseria e disperazione della vita. Papà, conclude Minus, se è come dici, Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo? Penso di sì, risponde il padre.

Il senso religioso del film è tutto nel succo del dialogo finale fra il padre e il figlio. Il tema dell’esistenza di Dio si risolve però nella tesi che, se Dio c’è, egli si risolve nell’amore. Dio è amore, e, dove si sperimenta l’amore, si sperimenta la presenza di Dio. Ma la tesi è ambigua e, in sostanza, inconcludente. Perché, alla domanda del figlio, se Dio si annunzia in ogni genere di amore, il padre risponde affermativamente. Se così fosse l’esistenza di Dio non sarebbe un problema. L’ultimo film di Bergman, nel quale si affronta il problema di Dio, è La fontana della vergine del 1959. Narra di Karin, la giovanissima figlia di Tore, un ricco possidente terriero. Un mattino ella si reca in visita a un santuario mariano e viene violentata e uccisa da due pastori, alla presenza del terzo fratello più piccolo che assiste inorridito al delitto dei fratelli più grandi. L’odio e la vendetta scoppiano con violenza allorché Tore riconosce nei tre pastori, che ignari avevano chiesto ospitalità, i 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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barbari uccisori di sua figlia. Egli li uccide tutti e tre. Si porta con tutta la famiglia sul posto dove giace morta la vergine fanciulla. Mentre solleva da terra il corpo della figlia, scorge una sorgente di acqua miracolosa. Ma Tore non comprende come Dio abbia potuto assistere a tanta tragedia senza intervenire. Solleva fra le sue braccia il corpo inerme della vergine fanciulla, ed elevando verso il cielo, grida il suo lamento: Tu vedevi, Dio. Dio tu vedevi quando uccidevano mia figlia innocente. Vedevi anche la mia vendetta e come essa si estendeva fino all’uccisione dell’innocente, del più piccolo dei fratelli! E non lo hai impedito? Non ti capisco, Dio! Non ti capisco. Eppure adesso chiedo il tuo perdono. Non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mani. Non conosco altro modo per vivere.

Qui non si pone in dubbio l’esistenza di Dio. Si tratta infatti di un credente, che ha fede e che vive di fede. Ma, come il Giobbe biblico, non riesce a comprendere l’assenza di Dio quando si consumano le tragedie umane. “Tu vedi, Dio! Vedi e non intervieni”. È questa l’inquietudine del credente di tutti i tempi: Dio non impedisce il male potendolo, e preferisce eclissare la sua presenza. Si tratta di un interrogativo che pone la ragione che interpella la fede, ma che è anche l’interrogativo della fede, che crede nella giustizia e nell’onnipotenza di Dio, ma nel comportamento di Dio non trova risposta. Il settimo sigillo, La fontana della vergine, Come in uno specchio e Luci d’inverno, sono i film in cui Bergman elabora le sue tematiche religiose. Ma sono temi che si risolvono tutti in problemi. E dunque Bergman ama il tema religioso, ma lo elabora come problema. Un problema per il quale non c’è soluzione, e l’unica possibilità che è data all’uomo è quella di relegare nel mistero il suo rapporto con Dio. Non vi è dubbio che, dopo Dreyer e Bresson, non vi è altro regista nella storia 99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del cinema che meglio di lui abbia impostato e trattato il tema religioso. Opere che vantano una perfezione di linguaggio, un valore estetico insuperato, che le inserisce di forza nella storia del cinema religioso ed in quella del cinema estetico. Le principali opere di Bergman, specialmente quelle a sfondo tematico religioso da noi esaminate, ci assicurano tre cose: 1. non ogni film che ha come soggetto narrativo un racconto biblico diventa perciò stesso un film a tema religioso. Tanti film sulle tante vite di Cristo e tanti personaggi biblici non hanno nessun interesse religioso. Approfittano della spettacolarità e, a volte, dell’interesse storico che richiamano. Fanno eccezione Il Messia di Rossellini e Il vangelo secondo Matteo di Pasolini, che pure un tema-problema religioso mostrano di volerlo trattare; 2. un tema-problema religioso può diventare quanto di più adatto ad una trasposizione filmica, cioè ad una narrazione filmica che, in mano a veri artisti, diventa eccellente opera d’arte. Il caso di Bergman ci dice che le migliori opere della sua lunghissima produzione cinematografica sono quelle che hanno affrontato tematiche religiose. Così come arte sono i migliori film di Dreyer, Il Messia e Francesco giullare di Dio di Rossellini, Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini; 3. un film a tema o tesi religiosa può raggiungere una perfezione narrativa, può attingere un’alta vetta di valore estetico, essere annoverato fra i migliori film a tema spirituale-religioso, e tuttavia non essere un film religioso capace di “evocare il sacro”. Film che sono ritenuti perfetti per come hanno trattato temi e problemi religiosi, ma non presentano alcuna traccia di evocazione del sacro, cioè del trascendente, del mistero, dell’oltre e dell’altro che il sacro inevitabilmente dovrà richiamare. Per queste opere, come si è detto, non ci sono autori a cui far riferimento, tranne Dreyer e Bresson.

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Bergman lambisce il sacro, ma non è dal sacro informato. Non lo ha tematizzato, ma ha solo problematizzato il rapporto fra Dio e gli uomini.

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III CAPITOLO LA FIGURA DI CRISTO NEL CINEMA

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JESUS CHRIST SUPERSTAR di Norman Jewison Si tratta di un film atipico nell’ambito della cinematografia interessata alla vita di Gesù. Non ha l’intenzione di proporre la vita del Nazareno, non ha alcuna finalità religiosa, didascalica, storica o pedagogica. Si tratta di un recital filmato ed elaborato certamente con intenzioni e strumenti cinematografici. Un film che originariamente ed originalmente è stato pensato come opera teatrale, ma che poi, per convenienza, è stato tradotto in linguaggio cinematografico. Il testo scelto sulla vita di Gesù si è dimostrato eccezionalmente efficace e produttivo per un recital che, nella musica, nel canto, nella scenografia e nella danza ha certamente trovato un’ampia possibilità di espressione artistica. È sostanzialmente rispettato il soggetto religioso e, nell’adesione ai più generali principi estetici di un recital, in certo modo è rivoluzionario non solo per il soggetto e il tema scelto, ma anche per la forma espressiva. Nato nel 1970 solo come LP, divenne nel '72 un musical e nel '73 fu tradotto in film dal regista Norman Jewison.

JESUS CHRIST SUPERSTAR

Si sa che Dreyer ha abbozzato una vita di Cristo da portare sullo schermo e che ha anche tracciato una scenografia. Peccato che non abbia portato a termine il suo lavoro, perché ritengo sia l’unico regista che avrebbe veramente prodotto un’opera d’arte e l’unico capace di evocare il sacro da un soggetto religioso. Abbiamo tuttavia delle opere cinematografiche sulla vita di Cristo, sulle quali è possibile esercitare la nostra riflessione e critica sia per quanto attiene il loro valore estetico che per quello dell’evocazione del sacro.

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JESUS CHRIST SUPERSTAR

Si tratta di un’opera interessante, gradevole, spettacolare, ben congegnata nella sua struttura anche cinematografica. Un film definito eccezionale specialmente per aver rivoluzionato la scenografia della danza, i canoni della danza tradizionale, il genere di musica. Sono 103 minuti di vero godimento artistico e di vera e nuova spettacolarità cinematografica. Il film può riguardare la sociologia della religione e far riflettere sul perché avviene la scelta di un soggetto religioso – qual è la storia di Cristo – per un recital diretto ai giovani. Ma per quanto concerne il nostro scopo di rilevare nei film sulla figura di Gesù un originale apporto al tema-problema dell’evocazione del sacro, Jesus Christ Superstar non presenta un grande interesse.

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Nato come opera cinematografica già nel 1927, King of Kings conosce una nuova versione nel 1961 dal regista americano Nicolas Ray che, già impegnato in lavori teatrali, aveva mostrato molto interesse per l’architettura della scenografia, essendo egli stesso architetto. Nel 1954 Ray aveva lanciato il mito di James Dean con Gioventù bruciata, problema culturale di tutt’altro interesse. Anche se con minori pretese di un gigantismo scenografico demilliano e con più contenuta magnificenza, il film di Ray è hollywoodiano: grandi scene di masse, ricca scenografia, grandi attori ed attrici star, e tutto in super techniramatechnicolor. Oltre che la narrazione della vita di Cristo, Re dei re, la struttura narrativa del film introduce elementi storici, eventi collaterali e una intelligente dose di caratterizzazione dei personaggi storici, sia della Roma imperiale che della Sinagoga giudaica. È dunque un film dignitoso, niente affatto decadente, e sostanzialmente fedele nella narrazione storica di Cristo, visto come Re dei re, il cui regno è annunziato non in termini politici ma religiosi. Il Cristo è dichiarato nella reale dimensione della sua divinità, uomo della pace che, anche se sconfitto nella sua passione e morte, è poi il Risorto capace, come narra la Sua vita, di porsi in reale contrasto con i Romani e i Giudei ribelli desiderosi di sovvertirne il potere. La vita di Gesù è sostanzialmente salvata nella narrazione storica dei Vangeli. Poiché il film non ha il proposito di celebrare la figura di Cristo come personaggio religioso, resta tuttavia l’argomento religioso del film. Esso stesso diventa occasione per essere ampiamente romanzato e raccontato perché possiede una spettacolarità in cui è possibile travasa-

IL RE DEI RE (King of Kings)

IL RE DEI RE (King of Kings) di Nicholas Ray

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IL RE DEI RE (King of Kings)

re l’intero apparato delle costruzioni hollywoodiane: bellezza coreografica tutta americana dei personaggi, dal Cristo alla Madonna, dal fascino delle comparse femminili, come la Salomé e figlia, la moglie di Pilato, alla Maddalena e al resto del cast. Sostanzialmente fedele alla narrazione dei Vangeli, il regista prende spunti dagli stessi personaggi evangelici per romanzare la storia di Gesù, introducendo fatti ed eventi nuovi, fantasticando sulla storia di Barabba e sulla sua dimensione politica, caricando di spettacolarità battaglie e singoli personaggi, come Giuda, Pilato, Erode padre ed Erode Antipa. Tutto nella composizione di una regia attenta, certamente spettacolare ma non esorbitante, con dosaggio appropriato di ritmo narrativo, recitazione, scenografia, colore e musica. Grande spettacolo dunque, ma anche edificazione di una narrazione che sostanzialmente si attiene al soggetto religioso del racconto. Il film, tuttavia, non ha pretese estetiche che vadano oltre la fruizione godibile dello spettacolo e l’edificazione della narrazione. Può essere citato nella storia del cinema. Lo sarà meno in una storia del film d’arte e ancor meno quando si vorrà trarre motivi di interesse che concernono l’evocazione del sacro nella storia del cinema. È un film certamente interessato a un soggetto religioso, ma totalmente privo di riflessione teologica. La teologia del Cristo è appena e superficialmente presentata nei discorsi di Gesù e nei suoi atteggiamenti di serenità e di pace. Il Cristo è un uomo singolare per quel che dice e per quello che opera: discorsi evangelici abbondanti e miracoli profusi a piene mani. Ma la recitazione e l’espressione del personaggio, il suo volto e i suoi gesti non superano i confini della bellezza umana, senza che nulla riferiscano ed evochino del mistero che informa l’intera figura del Cristo della storia e della fede. Resta una figura umana, troppo umana; un personaggio hollywoodiano, e dunque un volto bello americano che molto offre alla commozione, ma poco offre di veramente evocativo, perché da esso emerga il senso misterioso del sacro. 108

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Non molto dopo Il Re dei re, nel 1965 esce il film La più grande storia mai raccontata di George Stevens, anch’egli americano. Siamo agli albori della New Hollywood della storia del cinema americano. E dunque è stato abbandonato il colossal demilliano dalle enormi partecipazioni di massa e dalla scenografia lussureggiante e mastodontica. Siamo nel tempo in cui si presta meno attenzione ai film biblici e ci si cimenta più con temi a carattere politico-sociale. Sono gli anni in cui si producono film come Il laureato (1967) di Mike Nichols, Gangster story (1967) di Arthur Penn, Easy Rider (1969) di Dennis Hopper. Sono ormai venuti meno i western alla John Wayne o alla Gary Cooper, rimpiazzati dal gangsterismo della malavita mafiosa. Film che ovviamente si avvalgono di altri criteri espressivi, di nuovi contenuti narrativi, di altre tematiche e altro linguaggio. Lo stesso Stevens, alcuni anni prima, si era già intrattenuto sul problema sociale classico dello scontro tra agricoltori e allevatori nel film I cancelli del cielo. Tuttavia pensa di portare sullo schermo la vita di Gesù che già con Il Re dei re aveva avuto un grande successo di pubblico e, ovviamente, anche di cassetta. La più grande storia mai raccontata riceve anch’esso uno strepitoso successo di pubblico e supera Il Re dei re negli incassi. Il film costò alla casa produttrice venti milioni di dollari, a quel tempo considerata una somma enorme. Anche accostato al successo de Il Re dei re, il film, oltre che il successo di pubblico, riscosse anche il favore della critica. Fu premiato con cinque nomination agli Academy Awards e considerato la più spettacolare trasposizione cinematografica

LA PIù GRANDE STORIA MAI RACCONTATA

LA PIÙ GRANDE STORIA MAI RACCONTATA di George Stevens

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LA PIù GRANDE STORIA MAI RACCONTATA

di un soggetto biblico. Anche nel tempo della proiezione, superò tutti gli altri con 194 minuti di spettacolo. Resta tuttavia che il suo massimo pregio sia la spettacolarità, in ciò accostandosi al precedente Il Re dei re, e riproponendone non solo la storia del soggetto trattato, ma anche l’andamento narrativo e i criteri espressivi. Se si eccettua la prestazione veramente eccellente di Max von Sydow, sia nell’espressione del volto che nella recitazione, e il tempo molto più lungo di proiezione, rispetto al primo film su Cristo, questo secondo non aggiunge altro valore artistico e maggiore spessore tematico al soggetto religioso. È un racconto religioso, ma anch’esso privo di spessore teologico. La vita di Cristo è disegnata ampiamente nelle linee della narrazione evangelica, dalla nascita di Cristo alla sua resurrezione, con ampia descrizione di fatti e miracoli, e con un’abbondante predicazione del Messia, sia agli apostoli che alla gente che va ad ascoltarlo. Anche se l’amplificazione degli strumenti tecnici e dell’artificio è più contenuta, abbondano tuttavia la teatralità e la retorica. Alle tentazioni di Cristo nel deserto il regista concede molta più narrazione di quanto converrebbe, con il fastidio di caratterizzare il Cristo come un acrobata costretto ad arrampicarsi su dirupi e montagne che sono del Canyon americano e meno che mai della terra della Palestina. I discorsi di Cristo, anche se abbondanti e ben recitati, vengono vistosamente rimaneggiati. Insieme a godibili sequenze come la vocazione di Matteo, la guarigione dello storpio, la visita alla casa di Lazzaro, ci sono sequenze banali, mentre spesso l’evocazione del Cristo Messia è affidata a un fraseggiare, a volte pacato ma più spesso solenne. Manca la narrazione della flagellazione del Cristo e la sua via crucis è ridotta all’essenziale. Ma un vero riscatto dell’intera opera restano gli ultimi istanti di Cristo sulla croce, in cui il volto, l’espressione e la recitazione di Max von Sydow raggiungono un’efficacia recitativa e un’interpretazione teatrale mai più registrata. Il film risulta un’opera degna di essere vista e interessante 110

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LA PIù GRANDE STORIA MAI RACCONTATA

anche sotto il profilo della sua godibilità estetica. Ma non va oltre. Sarà citato nella storia del cinema religioso per il soggetto trattato, ma è difficile che sia menzionato in una storia d’arte del cinema. Resta il valore storico della sua narrazione, l’edificazione che suscita fra i credenti cristiani, la godibilità di uno spettacolo affascinante e spettacolare. Gli manca però lo spessore della riflessione teologica e, come nel precedente Il Re dei re di Ray, la spettacolarità della narrazione biblica non riesce a compensare l’evocazione del sacro di cui è totalmente priva.

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IL VANGELO SECONDO MATTEO

IL VANGELO SECONDO MATTEO di Pier Paolo Pasolini

Di tutt’altro spessore artistico e religioso è il film di Pier Paolo Pasolini del 1964. Film che richiamò l’interesse dei critici e una buona partecipazione di pubblico. La stampa, anche quella cattolica, ne rilevò il merito di essere «riuscito a restituire fedelmente la violenza e la bellezza della parola del Vangelo». Lo stupore della critica e della stampa sorgeva dal fatto che a narrare la storia di Cristo fosse un pensatore e scrittore come Pasolini, dichiaratamente marxista, (anche se informato di un marxismo “pasoliniano”) e dunque inviso ai cattolici e fortemente sospettato dalla Chiesa. E tuttavia il film ebbe non solo il riconoscimento della XXV Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il premio Cineforum e quello della Città di Imola, il premio Unione Internazionale della Critica, ma anche, e per la prima volta dato a un film italiano, il premio dell’Office Catholique International du Cinéma. Il marxismo di Pasolini è infatti, sempre secondo l’Aristarco, singolare e sui generis, privo di fiducia nella lotta di classe e nella storia, sostanzialmente fermo a un livello di un populismo umanitaristico, ove si incontra felicemente con il dato religioso, cristiano1.

Già prima di aver girato Il Vangelo secondo Matteo, e dopo aver prodotto Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), in cui è chiara la sua posizione ideologica proletaria e antiborghese, firma il film La ricotta, nel quale si mostra aspramente e rabbiosamente critico della religione cattolica, che egli vorrebbe ripristinare nei suoi valori e modelli originari. 1. G. ARISTARCO, Guida al film, Fabbri, Milano 1979, p. 151.

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Le immagini ispirate alla tradizione figurativa del tre-quattrocento italiano e la scelta delle musiche ricreano in modo suggestivo l’Annunciazione alla Vergine Maria, il suo matrimonio con Giuseppe e la nascita di Gesù a Betlemme. Poi le vicende di Cristo divenuto adulto, le tentazioni nel deserto, la predicazione della Buona Novella, il tradimento di Giuda Iscariota, la crocifissione e infine la resurrezione che conclude la vita terrena del Redentore.

Né mancano i miracoli a suggellare la fedeltà nella trascrizione storica del Vangelo, compreso quello della resurrezione di Cristo che ne dichiara la natura e la missione soprannaturale. Pasolini è un provocatore della cultura, ma è egli stesso un uomo di cultura, un letterato, un poeta, potremmo dire un raffinato anche quando, con rabbia, propone la sua ideologia a contrastare le altre che la negano. E dunque era inevitabile che un soggetto così impegnativo qual è la vita di Cristo lo impegnasse in uno stile di narrazione che ne adeguasse il valore, sia

IL VANGELO SECONDO MATTEO

Ne La ricotta, in cui ci si ferma solo alla scenografia e al racconto fabuloso e oleografico della crocifissione di Cristo, è assente ogni dimensione religiosa. La quale sarà invece proposta nella vita di Cristo del Vangelo di Matteo. Ma ne La ricotta, superando i criteri espressivi dei film precedenti, e diversamente dai film che seguiranno, come Uccellacci e uccellini, Edipo re, Teorema, in cui si sposta l’interezza da una visione marxista verso una visione psicoanalitica freudiana, sono presenti tutti quegli elementi espressivi della poetica cinematografica di Pasolini. La narrazione, come sintetizza l’apposita scheda-guida curata dalla San Paolo, si mostra sostanzialmente fedele al racconto evangelico di Matteo. La vita di Cristo è narrata tutta e in ogni parte. Il Cristo nasce e si fa uomo nel seno di una Vergine. Si incarna per salvare l’uomo con la sua vita, la sua morte e la sua resurrezione.

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IL VANGELO SECONDO MATTEO

nella narrazione del soggetto filmico che nella forma espressiva del linguaggio. Il film non si serve del colore, ma preferisce la morbidezza del bianco e nero, in cui è reso possibile all’immagine di evocare l’oltre e l’altro che sottende l’immagine stessa. Il racconto inizia con stupende immagini della Vergine e di Giuseppe. Mancano le parole, ma sono i volti che danno parola e senso ai silenzi. Il godimento estetico è grande; i personaggi dell’intero film sono caratterizzati da volti proletari e popolari che, anche se funzionali a ciò che il regista vuole esprimere, hanno il limite di non esprimere nel loro volto quello che di fatto dicono. Mancando la recitazione, è evidente l’asimmetria tra la parola e l’immagine che la declama. Ma è evidente che la scelta del regista ha tenuto in conto che una simile asimmetria fosse in funzione del rilievo che andava dato alla scelta di quei volti solcati dalla sofferenza, dalla povertà, dall’emarginazione, che bene rappresentano la scelta dei poveri del Cristo di Matteo. Pasolini, infatti, non ha scelto di trascrivere in linguaggio cinematografico la “vita di Gesù” di Marco, di Luca o di Giovanni. Narra invece di Gesù, così come è narrato da Matteo, perché di Matteo poteva cogliere quegli elementi che meglio potessero avvalorare la sua ideologia. Infatti il film, anche se fedele alla lettera del vangelo di Matteo, resta un racconto ideologico, laddove l’elemento umano del Cristo è più caratterizzato e prevalente. Il Vangelo secondo Matteo esprime molto bene la dimensione della sua indole antropologica e sociale. Manca nel film un’adeguata riflessione teologica, anche se nulla toglie al suo valore estetico. Ma è interdetta tuttavia la possibilità di una possibile evocazione del sacro che vada oltre il religioso. Proprio perché ideologica, la vita del Cristo si snoda in un fraseggiare violento e provocatorio. I discorsi di Cristo, affidati alla voce di Enrico Maria Salerno, quando dicono le “cose nuove” dell’evangelo, si informano di una pacata intensità, interiorità e densa saggezza spirituale, ma quando sono rivolti agli uomini, specialmente ai potenti, si 114

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IL VANGELO SECONDO MATTEO

fanno rabbiosi e spesso sconnessi dal significato del discorso evangelico. Non solo per questi limiti, ma per tutto l’andamento della narrazione, la scelta ideologica dell’autore è palese e dichiarata. Giustamente il critico cinematografico Lino Micciché definirà Il Vangelo secondo Matteo «un bellissimo film “ideologico”, una rispettosa rievocazione laica ma non irreligiosa». Con il limite di un giudizio di valore religioso, il film resta una delle trasposizioni cinematografiche che certamente sarà registrata nella storia del cinema in genere, ma anche nella storia dell’arte cinematografica ed in quella del cinema religioso. Per terminare, va sottolineato il gusto estetico che l’autore manifesta nella scelta dei brani musicali, tratti dalla Passione secondo Matteo di Bach, dall’Aleksander Nevskij di Prokofiev, di Mozart e di Webern, proposti intercalati da brani della Missa luba con i suoi ritmi e cadenza africani. Immagini, molte delle quali chiaramente estratte dal repertorio del russo Ejzenstejn, sequenze e ritmo narrativo che in modo godibile, ed esteticamente appropriato, si uniscono in un sincronismo visivo-sonoro di rara maestria. Dunque un film da vedere e gustare, e in certo modo anche edificante. Ma con tutti i meriti riconosciuti, il tema religioso resta impantanato nella sua visione ideologica della vita di Cristo. Il significato religioso sembra nascosto e privo di spiritualità. Non è evocato il trascendente, che è definitivo della figura del Messia; e perciò il tema religioso non traduce l’evocazione del sacro che chiaramente il credente avverte da una lettura del Vangelo secondo Matteo, quando la lettura va oltre ed è altra da quella letterale e cinematografica del testo.

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IL MESSIA

IL MESSIA di Roberto Rossellini

Nel 1975 esce il film di Rossellini, Il Messia, con il titolo originale francese Le Messie. Un’opera che annuncia nel significato del titolo una prospettazione della vita del Cristo sotto l’angolatura della sua messianicità. Si tratta della trascrizione cinematografica della vita del Nazareno, così come altre ce n’erano state. Ma questa volta è chiaro che l’autore assume la categoria prettamente biblica della “messianicità”, nella quale l’autore pone il significato fondamentale dell’intera vita di Cristo. Fra le opere del cinema internazionale, Aristarco cita di Rossellini solo Europa '51, per criticarlo aspramente in ragione della sua irrazionalità epifanica. Perché, secondo il critico, il film non si ferma ai fatti e al commento razionale dei fatti, ma è incline all’evocazione dell’oltre e dell’altro. Eppure quello che il critico marxista ritiene tendenza “irrazionalistica” del neorealismo italiano, per noi è un pregio di Rossellini. È quella poetica che gli consente appunto di staccarsi da altri cineasti neorealisti, e che fa in modo che il suo sia neorealismo aperto, versatile e suscettibile di ulteriori sviluppi. Aristarco scrive: Roberto Rossellini è uno dei pochissimi registi del neorealismo che non si sia limitato alla registrazione cronachistica di eventi più o meno “veri”, ma abbia ricercato di tali eventi l’ “oltre”, la “realtà seconda”, ossia l’essenza, peraltro individuandola più nel “divino” che nell’ “umano” in senso marxista. L’elemento religioso, mistico, irrazionale, infatti, è già presente nei suoi film (la trilogia sulla guerra), e diventa nelle opere successive sempre più evidente ed essenziale.

Ma è proprio questo andare “oltre” e significare “altro” 116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

IL MESSIA

che, a nostro parere, rende capace Rossellini di affrontare Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, Stromboli terra di Dio, Francesco giullare di Dio, Il Messia. Cosa che ad altri registi italiani non sarà possibile. La maestrìa e la profondità dell’artista stanno proprio nella sua capacità di andare oltre e di cogliere l’altro nella narrazione dei fatti che, altrimenti, resterebbero nella mera fattualità senza senso ulteriore. Cosa infatti sarebbero le opere di Bresson, di Dreyer, di Tarkovskij, di Bergman e, per alcuni casi, dello stesso Fellini e Antonioni, se mancasse loro la capacità di evocare l’oltre? Rossellini, oltre ad essere un uomo colto e un cineasta di mestiere, è anche un credente e un cristiano. Era dunque inevitabile che la sua visione storica e antropologica fosse informata dall’oltre e dall’altro del senso religioso della vita. E dunque è nella stessa natura del credente che i fatti siano interpretati in una visione che non può essere detta irrazionale o mistica, solo perché evocativa del trascendente. Importante è che se tale trascendente lo si avverte come dimensione propria dell’immanente, esso sia percepito e trascritto in termini di arte poetica. Ed è precisamente quello che si riscontra in molti film di Rossellini, in Roma città aperta come in Germania anno zero, in Francesco giullare di Dio e ne Il Messia. Il Messia è l’ultima opera di Rossellini. È certamente fuori della scelta tematica e stilistica del neorealismo, del quale, insieme a Visconti, è considerato il promotore e il maestro. Ma la scelta stilistica è la medesima: per il rigore narrativo, rifiuto della spettacolarità, stringatezza, essenzialità delle immagini, ritmo pacato e sempre calibrato sul contenuto della narrazione. È per questo che la sua esposizione è da alcuni ritenuta una “visione distaccata” dai fatti, anche se aderente in forma partecipata agli stessi. Il Messia ha la durata di 140 minuti ed è una fedele e compiuta narrazione della vita di Cristo. Alla narrazione della storia di Gesù fa precedere una breve introduzione nella quale si annota la preistoria dei fatti evangelici, per spiegare 117

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IL MESSIA

come il popolo di Israele si trovasse nella terra della Palestina. Ma, più che interessarsi alla narrazione scenica e cinematografica dei fatti, gli avvenimenti sono narrati attraverso racconti e dialoghi nella comunità israelita. Il preambolo si conclude con la narrazione della divisione del popolo israelita che, comunque non ha mai cessato di attendere il Messia, il capo che avrebbe risollevato e condotto il suo popolo. Il racconto evangelico si snoda quindi con la narrazione sobria della natività del Signore, la visita dei magi, la strage dei bambini innocenti, la morte di Erode, e quindi la vita pubblica di Gesù Nazareno. Il quale si annunzia come colui che era stato annunciato dai Profeti e atteso dal popolo d’Israele. Ma – scelta singolare – il racconto sulla vita del Messia, più che delle immagini si serve dei discorsi, più che della “parola”, dei gesti, che sono essenziali e sobri, anche se in molte raffigurazioni densi di particolare significato. Anche se la scenografia non è affatto quella colossale dei film hollywoodiani, è estremamente aderente e adeguata alla geografia dei luoghi. Fa difetto non solo la figura del Battista, ma anche la sua recitazione gridata. Difetto che si ripete nella recitazione di tutti gli altri personaggi, compresa quella di Cristo; è qui che più che la vera narrazione cinematografica traspare l’istinto documentaristico del regista. Per questo si è parlato, da parte dei critici, di una certa “freddezza stilistica”. Il Messia, oltre al rifiuto della magnificenza de Il Re dei re e de La più grande storia mai raccontata, è anche libero dall’ideologia e dal populismo del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, del quale pareggia il valore estetico, ma che più aderisce allo spirito del Cristo dei vangeli e alla sua storia. Quest’ultima oltre ad essere efficacemente didattica, come lo erano le sue precedenti opere su Socrate, Pascal, Agostino d’Ippona, Cosimo dei Medici, resta, insieme agli Atti degli Apostoli, un’opera catechetico-educativa, che corrisponde a ciò che l’autore stesso confessa di essersi proposto in tutte le sue opere. 118

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IL MESSIA

Il Messia di Rossellini resta dunque un’opera dignitosa, godibile anche se non esaltante, fedele e onesta nell’affrontare un soggetto religioso qual è la narrazione della vita del Messia. Ma proprio perché non più tema aderente a una tematica e a uno stile neorealista, in cui Rossellini profuse le sue migliori creazioni artistiche, del film Il Messia non si può dire molto di più. Non si va oltre la registrazione cinematografica di un “soggetto religioso” onestamente narrato ed appena sufficiente sotto il profilo del valore estetico. Anche Il Messia non ha spessore teologico. Il “senso” teologico e sacro della figura di Cristo è appena evocato dai discorsi e dalle parole, più che dal linguaggio filmico dell’opera. Distinto dagli altri film sulla figura del Cristo, poco aggiunge di nuovo che non lo renda omologabile all’ovvietà e alla normalità degli altri film. È comunque un’opera che chiude degnamente l’arco operativo di un regista che resta un vero “maestro” del cinema.

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GESÙ DI NAZARETH di Franco Zeffirelli

GESù DI NAZARETH

È il film più noto, e forse più visto, su Gesù. È del 1977 e ha la durata di sei ore. Il commento al film, nella guida alla visione, della “San Paolo audiovisivi”, inizia con queste parole: In qualche modo, l’uomo ha sempre bisogno di vedere. Anche quando questo è un aspetto fondamentale del misterioso cammino di fede. E la comunità cristiana, fin dai suoi inizi, ha fatto tesoro delle varie forme espressive per “far vedere” Gesù, per documentare, attualizzare, rendere presente la storia e il messaggio evangelico.

Era dunque da attendersi che Franco Zeffirelli, già attore e poi impegnato nell’opera teatrale e, quindi, in quella cinematografica, intendesse impegnare la sua arte in una “nuova” edizione della vita di Gesù, già ampiamente rivisitata. Se Zeffirelli si fosse fermato alla narrazione integrale della vita e della figura di Gesù dei Vangeli, di un film su Gesù non se ne sarebbe sentita l’efficacia né l’utilità. Ma non è solo la narrazione integrale della vita di Gesù così come si coglie nei Vangeli che rende “nuova” l’edizione di Zeffirelli. Il suo proposito non si ferma all’integralità della narrazione, ma va oltre e si prefigge la fedeltà. E la fedeltà ai Vangeli è possibile solo se la narrazione della vita di Cristo è integrale, se nulla si omette e nulla si aggiunge da parte del regista. Il regista potrà anche interpretare i fatti, perché è mediante l’interpretazione che si colgono il senso e la significazione dei fatti; ma diventa già un’interpretazione ambigua quando qualcosa si aggiunge o si omette dei fatti stessi. Zeffirelli ha dunque scelto di essere fedele alla narrazione 120

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[…] ha intuito benissimo in che consiste il segreto della struttura dei Vangeli, dove il piano narrativo serve essenzialmente da piattaforma alla trasmissione delle parole di Gesù, e dove questi scrittori così poco ambiziosi che sono di norma gli evangelisti, cercano d’essere dei narratori neutri e quasi anonimi e hanno uno scatto nel senso della qualità non appena riferiscono le parole proprie di Gesù. Zeffirelli ha avuto il merito di situarsi nella prospettiva stessa dei quattro evangelisti, i quali mirano in primo luogo alla testimonianza e alla trasmissione della parola di Gesù: la tramandano, non la spiegano, non vi si sovrappongono, non la reinventano. La lasciano campeggiare attuandola semplicemente e quanto più fedelmente offrendola aperta alla nostra interpretazione.

Gesù di Nazareth di Zeffirelli è un film, e come tale è immagine data. Lo spettatore la riceve. E dunque non può riceverla che in una interpretazione che ne dà il regista. Se il film è una realtà, resta che sia sempre una realtà dell’immagine e non la realtà. E dunque rimanda a un’interpretazione, a un’evocazione, a un richiamo dell’oltre e dell’altro. Se si vuole perciò riportare sullo schermo la vita di Gesù, questa non potrà essere che aderente alla storia dei Vangeli. È infatti il Gesù dei Vangeli, e non altro, che il regista cercherà di proporre. Egli farà un’opera valida, se oltre la fedeltà alla narrazione evangelica, saprà evocare ciò che dalla struttura del racconto non può emergere, ma può essere solo svelato, interpretato, intuito. E ciò che di Gesù deve essere evocato è la sua dimensione trascendente, l’essere stato Verbo del Padre, il suo essere oltre ed altro pur essendo lo stesso, il convogliare in pienezza la sua umanità nella quale si manifesta, traspare, si rivela la divinità. È solo in questo senso che si può parlare di un soggetto religioso, come ce n’è tanti, che si traduce in

GESù DI NAZARETH

evangelica, cogliendo i fatti così come gli evangelisti li hanno visti e trascritti. Il pregio del film è colto, dallo scrittore Mario Pomilio, nel fatto che Zeffirelli

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GESù DI NAZARETH

evocazione del sacro e del mistero, come ce n’è pochi. È questo il tentativo di Zeffirelli: tradurre il Vangelo in immagini cinematografiche e far emergere, come nei Vangeli, il sacro, cioè il mistero e la trascendenza dell’Uomo-Dio Gesù Cristo. Per far questo non è sufficiente il solo riferimento ai detti e discorsi dello stesso Gesù e alle confessioni dei suoi discepoli. Per evocare il sacro non è sufficiente che siano riportati miracoli e descritti fatti strabilianti. Non è dai di-scorsi dalle affermazioni e dagli stessi eventi miracolosi narrati che scaturisce necessariamente l’evocazione del sacro. Si richiedono una capacità ulteriore, una forza d’intuizione, una capacità evocativa che proviene dall’arte, ma che è già predisposta nell’anima del regista, e perciò nell’animo di un credente, quale è possibile trovare in scrittori credenti come Manzoni e Bernanos, in registi come Bresson e Dreyer. Gesù di Nazareth fu prodotto dalla RAI-Radiotelevisione Italiana ITC-Incorporated Television Company. Al regista venne affidata la realizzazione dell’opera, ma è evidente che nell’intento del produttore vi fosse anche una finalità didattica. Cosa che, in certo modo, introduce nelle possibilità del regista un limite di creatività. Limite di creatività che i registi, quando si tratta di autentici artisti, riescono anche ad eludere e superare. Resta però il fatto che una finalità didattica preposta alla creazione artistica condiziona l’opera d’arte stessa. Nel caso di Gesù di Nazareth, non si è badato al risparmio, e ogni mezzo è stato assicurato perché l’opera risultasse la migliore possibile, sia per il vasto pubblico a cui era diretto, sia anche per la critica cinematografica dalla quale poteva anche dipendere il buon esito tra gli spettatori. Oltre all’interprete principale Robert Powell, parteciparono attori ed attrici al massimo livello di notorietà, quali Olivia Hussey, Peter Ustinov, Claudia Cardinale, Anthony Quinn, Lawrence Olivier, Fernando Rey, Rod Steiger, James Mason, Ernest Borgnine e altri, che certamente componevano un cast eccezionale ed un richiamo di pubblico assicurato. Lo stesso nome di Zeffirelli, noto nel mondo del teatro e notissimo nel 122

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GESù DI NAZARETH

mondo del cinema, in certo modo assicurava la riuscita dell’opera. Si tratta inoltre di un regista che apertamente dichiara la sua fede cristiana e che anche sul Gesù della fede impostava la sua narrazione. Ma il “Gesù della fede” si esprimeva nel tessuto storico della sua vita, dei suoi miracoli, dei suoi discorsi, dei suoi detti e delle sue relazioni. E dunque la riuscita del film era garantita non solo dalla fedeltà storica della narrazione, dalla scelta di non fare riferimento ad alcuna ideologia sociale o politica, così come era avvenuto nel Gesù di Pasolini, ma anche dall’intento artistico che non poteva mancare in un regista come Zeffirelli. Ne è uscito un film di grande valore religioso, un film di grande spessore architettonico, un film storico-religioso apprezzabile, un’opera che sarà ampiamente citata non solo nella storia del cinema religioso, ma anche in quella del cinema spettacolare. Ma anche la storia dell’estetica del cinema ritengo che potrà citarlo senza riserve. Ha ovviamente dei limiti. Non in qualcosa che è stato omesso o in qualcosa che è sembrato soverchiante. Il limite è all’interno della stessa struttura del film. Non nel contenuto ma nella forma dalla quale Zeffirelli non poteva liberarsi: l’estetismo. Zeffirelli non è un profondo uomo di fede, sufficientemente inoltrato nella comprensione del “mistero” dell’uomoDio per essere capace di evocare il sacro dalla narrazione religiosa. È un intelligente uomo di cinema, un umanista colto e inventivo, un personaggio che serba in sé, come in una sintesi, doti di regista di opere teatrali e di opere musicali, che è versato nella composizione scenografica, esperto nell’arte della recitazione, attore egli stesso, noto polemista e critico d’arte. Egli ha voluto portare a termine un’opera cinematografica sulla vita di Gesù. Ne è uscita un’opera dignitosa e, in certo senso, anche di un forte spessore religioso. Ma Zeffirelli è anche un uomo di spettacolo, che proviene da esperienze artistiche in cui lo spettacolo è di rigore. Zeffirelli non ha in serbo la secchezza narrativa e la semplicità espressiva di un Rossel123

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GESù DI NAZARETH

lini, non ha nella sua cultura l’intimità e la profondità di un Bresson; tanto meno è informato di una tematica religiosa e di una problematica della fede di un Dreyer. È un artista, un uomo di cinema che deve farsi sentire, che vuole che la sua opera sia vista dal grande pubblico, che sia possibilmente ammirata dalla critica. Un uomo di cinema, ma anche di spettacolo. Non è detto che la spettacolarità nuoccia all’opera estetica. Non la spettacolarità della scenografia o della partecipazione delle masse, né la recitazione curata ed accurata degli attori, né la preoccupazione di provocare, insieme al gusto estetico, la godibilità di un’opera che sia anche spettacolo. Ma nel Gesù di Zeffirelli l’estetismo è intenzionale, ricercato e in certo modo esorbitante; così la spettacolarità. Non che ciò abbia alcun riflesso negativo nella tessitura dell’intera opera. Ma non v’è dubbio che sia la spettacolarità che l’esercizio calligrafico della cura delle immagini e della scenografia non aiutano al rigore di una narrazione religiosa che protenda a una evocazione dell’oltre e dell’altro la narrazione stessa. È tematico il significato religioso del film; resta invece problematica l’evocazione del sacro che emerge a sprazzi, più nei discorsi e nei detti del Cristo, che sono prestiti dei Vangeli, che nella narrazione filmica dell’opera. In ogni modo, resta che Gesù di Nazareth è il film più conosciuto, il più ripetutamente visto, il più commentato e quello che più degli altri resta nella memoria degli spettatori.

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È l’ultimo dei lavori cinematografici che si è interessato alla figura del Gesù di Nazareth. Anche questo film nasce con intento edificante. Il regista si professa cristiano e, come ha dichiarato ai giornalisti, ha avuto la preoccupazione di dare senso alla “passione” di Cristo, uomo-Dio che tutto sottomette, anche la sua terribile passione alla volontà del Padre. La passione di Cristo come obbedienza redentiva alla volontà del Padre. Ne è nata un’opera cinematografica originale che nettamente si distacca da tutti gli altri film che hanno voluto narrare la vita di Cristo. Infatti l’autore dichiara di non aver voluto narrare la vita di Cristo, così come è narrata nei Vangeli, pur dichiarando di non aver voluto distaccarsi dai Vangeli. Ma, come è annunziato dal titolo del film, La passione di Cristo, egli si limita a narrare le ultime 12 ore della vita terrena di Gesù. La proiezione del film nelle sale è stata preceduta da una massiccia pubblicità. Una pubblicità subito e diffusamente recepita dal grosso pubblico non solo americano, ma dell’Europa e di altri paesi del mondo. Del film, già prima che uscisse nelle sale cinematografiche, e grazie all’accurata regia propagandistica dell’apparato hollywoodiano, si sapeva tutto. Di come e dove era stato girato, degli attori e attrici e delle emozioni provate durante la recitazione delle loro parti; dei commenti dei critici, dei giudizi dei teologi e biblisti, delle reazioni di quegli spettatori che avevano potuto partecipare alle prime proiezioni private. Le dichiarazioni del regista, degli attori e delle attrici, i commenti della critica, i giudizi dei teologi e dei biblisti, le reazioni degli spettatori furono abilmente, a loro volta, pubblicizzati in quasi tutti i

LA PASSIONE DI CRISTO (The Passion)

LA PASSIONE DI CRISTO (The Passion) di Mel Gibson

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media, radio, televisione, giornali e riviste cinematografiche. A tutto questo si aggiunse anche la polemica, a sua volta anch’essa molto e abilmente pubblicizzata, introdotta dalla protesta degli ebrei, che avvertivano nel film di Gibson un tentativo, aggiunto ad altri, di screditare gli ebrei, riproposti ancora una volta come la causa dell’efferato delitto contro l’innocenza di Cristo. Si aggiunga anche che molto contribuirono alla propaganda del film i giudizi benevoli che insigni teologi della Chiesa cattolica in primis, e quindi delle altre Chiese cristiane, davano del film. Quando poi la proiezione del film fu data in tutte le sale cinematografiche del mondo, la partecipazione del pubblico fu enorme e gli incassi del botteghino registrarono somme da capogiro. Quali i meriti del film? È chiaro che doveva averne se l’afflusso del pubblico non si fermò solo alle prime proiezioni ma durò per lungo tempo in ogni parte del mondo. Il primo merito è del regista che, distaccandosi dagli altri che avevano raccontato la vita di Cristo, quali Nicholas Ray nel Re dei re, George Stevens ne La più grande storia mai raccontata, Pier Paolo Pasolini nel Vangelo secondo Matteo, Roberto Rossellini nel Messia, Franco Zeffirelli in Gesù di Nazareth, non volle raccontare l’intera vita di Gesù, ma fissò la sua narrazione – come già detto – sulle ultime dodici ore della sua vita terrena: Gesù è dunque narrato nella sua passione e morte. A parte i meriti personali relativi alla professionalità del regista, in quanto regista di cinema, che chiaramente si notano nella struttura narrativa del film, c’è un merito personale che va evidenziato a prescindere dal valore artistico della sua opera: è quello di non aver eluso il significato religioso e teologico che doveva pur risultare in una narrazione che si fermava alla sola “passione” di Cristo. Per cui, come vedremo, il film va oltre la spettacolarità, le emozioni e le impressioni scioccanti che inevitabilmente ingenera la narrazione visiva delle sofferenze e torture inflitte in due ore di trasmissione. 126

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A parte il pregio della scenografia, il ritmo concitato della narrazione, la musica e la fotografia, non vi è dubbio che un apporto consistente al pregio dell’opera è stato dato dalla prestazione degli attori e attrici, alcuni già molto noti al pubblico, e specialmente la recitazione fortemente e altamente sofferta del Cristo dell’attore Jim Caviezel, definita dalla critica “ispirata”. Così che parte della stessa critica, oltre che definire il film “nuovo e coraggioso”, l’ha anche ritenuto, a livello stilistico, “superbo e rigoroso”. Proprio perché il film presenta riconosciuti meriti artistici, e anche perché lo stesso regista ha molte volte dichiarato di non essere mai stato tentato di pensare ad una responsabilità del popolo ebraico per la morte di Cristo, ma di aver voluto solo narrare la “passione di Cristo” come viene raccontata nei Vangeli, e così come egli l’ha letta nei particolari narrati dalle rivelazioni private della mistica tedesca, la beata Anna Katharina Emmerick. E dunque a chi assiste alla proiezione del film con intelligenza e senza pregiudizi, la responsabilità degli ebrei per la passione e morte di Cristo è contenuta nel suo significato storico-teologico. E cioè è vero che sono stati i capi ebrei e parte del popolo a volere la condanna a morte di Cristo, ma anche Pilato è fortemente giudicato nella sua reale colpevolezza, e gli stessi soldati romani sono descritti nella loro rozza e crudele ferocia. Ma detto questo, emerge da tutta la narrazione della crudele passione e morte di Cristo come all’origine di tutto stia il mistero della volontà del Padre che vuole la redenzione degli uomini mediante la passione e morte del Figlio. È il mistero della volontà del Figlio che, nell’obbedienza al Padre, accetta di caricarsi dei peccati di tutti gli uomini, compiendo la “redenzione” e, come dirà alla madre Maria, rendendo nuove tutte le cose. Non vi è dubbio che il film di Gibson, oltre ai pregi artistici e spettacolari riconosciutigli, non fa difetto nella sua narrazione religiosa e nella ortodossia teologica. Su questo punto non ci sono stati rilievi e prese di posizione critiche negative. 127

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Ma oltre ai meriti sopracitati vanno attribuiti al film The Passion di Gibson molti e rilevanti limiti e demeriti i quali, a nostro parere, fanno sì che il film sia ricordato solo per il suo interesse spettacolare e per le emozioni e le forti impressioni suscitate tra gli spettatori. Sarà ricordato nella storia del cinema religioso, ma non riteniamo che la storia del cinema lo citerà nel catalogo tra i film d’arte; tanto meno potrà essere indicato come un’opera tipica religiosa, capace di evocare il “sacro”. Resterà un film a carattere religioso per il soggetto che sceglie, ma nel soggetto religioso trattato non vi sono elementi capaci di evocare l’oltre e l’altro, cioè la presenza evocativa del trascendente che va oltre, ed è altro lo stesso soggetto a carattere religioso. Mel Gibson, anche se compreso della figura umano-divina del Cristo che ha voluto portare sullo schermo, non ha profondità e meno ancora interiorità capace di far meditare sulla figura del Cristo dei Vangeli e della fede. Se dal film si escludono i discorsi del Cristo tratti dai Vangeli ed in parte fedeli agli originali, viene solo narrata la “passione” di Cristo per quella che è stata o per quella che a lui è sembrata dover essere, fidandosi delle rivelazioni private della Emmerick. Tuttavia non è insistendo sugli orrori e crudeltà di quella “passione” appassionatamente narrata che si può rilevare in compiutezza e completezza il significato trascendente della figura del Cristo uomo-Dio. Gibson ha preferito ridurre alla sola “passione” di Cristo la narrazione della vita di Gesù. Ma proprio in questo si rileva il primo punto debole dell’opera. Se la figura del Cristo la si vuole raccontare e, nel contempo, si vuole cogliere il senso e il mistero della sua missione divina, non si può sezionare una parte della sua vita. È nel tutto della sua vita, dall’Annunciazione della sua nascita fino al mistero della sua morte, che è possibile cogliere gli elementi evocativi del significato trascendente della sua incarnazione e del senso redentivo del suo sacrificio. È tanto vero che lo stesso Gibson ha creduto di dover rimediare inserendo nel racconto coloratissimi bozzetti della fanciullezza e giovinezza di Gesù. Flashback deli128

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ziosi che danno respiro alla visione raccapricciante di sangue e torture con cui prosegue ed insiste il film, ma che si nota essere rimedio e correttivo alla narrazione stessa. Gli stessi pochi bozzetti della fanciullezza e giovinezza di Cristo con Maria sua madre, hanno senso non in riferimento alla vita di Cristo ma in relazione alla tortura e alla violenza che Cristo sta subendo. Anche una certa forzatura storica viene a limitare il valore dell’opera. Vada per la pervicacia e l’odio del sinedrio per Cristo che si proclama Dio. Ma i soldati romani sono veramente stati così come sono raffigurati? Sono stati così rozzi, violenti, assetati di sangue e belve feroci, così come il regista insiste nel descriverli? Il codice romano imponeva che il condannato alla fustigazione subisse la pena dei 40 colpi meno uno, cioè di 39 fustigate, perché non si esorbitasse e si eccedesse. Non più di tale e tanta pena penso che i soldati romani abbiano inflitto al condannato. Ma Gibson ha creduto di attenersi alle rivelazioni private della mistica Emmerick. E dunque non solo le fustigate dei soldati diventano 35 con gli strumenti normali di tortura, ma se ne aggiungono altre innumerevoli con strumenti che lacerano la carne, date dai soldati con ferocia inaudita. La stessa ferocia inaudita che viene riproposta per tutto l’arco della via crucis, della quale il regista sembra compiacersi: compiacenza ovviamente riservata alla forma e alle sequenze narrative, e tuttavia il regista non fa niente perché la narrazione dei fatti non si risolva nella forma dell’horror. È tale compiacenza avvertita nella forma inarrestabile della violenza scenica che genera disgusto. Altre opere d’arte hanno dimostrato come il male, la cattiveria e la stessa violenza possono assumere una forma estetica, nella letteratura come nella pittura, nella scultura come nel cinema. Ma in quelle opere era la forma estetica che redimeva il contenuto, che diventava estetico esso stesso in virtù della forma. Nel nostro caso è tutta la narrazione della pas129

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sione che pone la forma a servizio del contenuto. E perciò è la stessa forma come linguaggio, è la stessa narrazione che sembra avere l’unico intento di far rabbrividire, di raccapricciare, di ingenerare disgusto, di drogare lo spettatore e portarlo al massimo della sopportazione. In The Passion è il contenuto della violenza senza limiti che diventa la sua stessa forma. Così che il contenuto dell’intera passione di Cristo è come annullato nella sua forma. È in questa sproporzione fra contenuto e forma che noi ravvisiamo un certo decadentismo espressivo. Gibson è un uomo di cinema. Ma anche altri artisti che si sono misurati con la figura di Cristo lo erano. Lo sono stati Pasolini, Rossellini e Zeffirelli. Ma Gibson è anche hollywoodiano, come lo sono stati Stevens e Ray. Gibson, in più, ha potuto servirsi di effetti scenici e strumenti di tecnica espressiva che ai suoi colleghi non erano consentiti. Effetti scenici e strumenti di tecnica espressiva, che quando non sono adoperati da veri esteti, entrano con forza a modellare la tessitura del racconto filmico, e non danno scampo alla possibilità di raccogliersi nell’interiorità, nella meditazione, nello svelamento del senso, nella proposta dell’evento, nella raffigurazione del sacro. È questo il motivo per cui, se l’opera di Gibson è appena valida per la raffigurazione della narrazione religiosa, visto che si intrattiene su di un soggetto religioso, essa non troverà posto nella storia del cinema d’arte, e tanto meno potrà essere citato insieme a quei pochi film a soggetto religioso che sono stati capaci di evocare il “sacro”.

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I FILM PIÙ CITATI E COMMENTATI

Jesus Christ Superstar Il Re dei re La più grande storia mai raccontata Il Vangelo secondo Matteo Il Messia Gesù di Nazareth La Passione di Cristo L’uomo di Aran Ombre rosse Ordet La terra trema Via col vento Alexander Nevskij Andrej Rublev 2001 Odissea nello spazio Il diario di un curato di campagna Luci d’inverno Come in uno specchio La fontana della vergine

p. 105 p. 107 p. 109 p. 112 p. 116 p. 120 p. 125 p. 44 p. 71 p. 92 p. 48 p. 45 p. 56 p. 52 p. 76 p. 96 p. 97 p. 97 p. 98

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INDICE DEI NOMI

Adorno Th.W., 29, 71. Aristarco G., 26, 48-50, 53, 57, 65, 71, 91, 94, 112, 116. Aristotele, 41. Bach J. S., 36, 89, 115. Batteux Ch., 11. Bernanos G., 94, 122. Bertetto P., 68, 90, 96. Croce B., 39, 62, 78. Eco U., 71. Gramsci A., 59-60. Germinario M., 40. Hegel G. F., 19, 39. Kierkegaard S., 92-93, 95-96. Kristeller P. O., 11. Harris J., 11. Leger F., 35. Levi C., 47. Manzoni A., 36, 48, 122. Moravia A., 50-51. Morin E., 14, 130. Omero, 36, 41, 56, 76 Patti E., 46. Pezzella M., 29, 67. Satriani L., 50-51. Sofocle, 36. Soldati M., 73. Tatarkiewicz W., 19. Varese C., 46. Velotti S., 40. Vico G. B., 11. Verga G., 32, 48-48.

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stampa aprile 2005 Pubblicità & Stampa Via dei Gladioli, 6 - 70026 Modugno

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