Hollywood. La mecca del cinema


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Italian Pages 126 Year 1989

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Hollywood. La mecca del cinema

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IL LABIRINTO

Blaise Cendrars

Hollywood la mecca del cinema prefazione di Fernaldo Di Giammatteo

Lucarini

Nella stessa collana 1. Frank Wedekind, Fuochi d’artificio W. Somerset Maugham, La resa dei conti 3. Leonid N. Andreev, I sette impiccati 4. August Strindberg, Il prezzo della virtù 5. Massimo Bontempelli, Èva ultima 6. Adolfo Bioy Casares, L’altro labirinto 7. Doris Lessing, Pianeta 8 Ambrose G. Bierce, Possono accadere queste cose?

2.

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IL LABIRINTO

Blaise Cendrars

Hollywood la mecca del cinema prefazione di Fernaldo Di Giammatteo

Lucarini

Titolo originale: Hollywood, la Mecque du Cinéma Traduzione di Emanuela Stella

International Standard Book Number 88-7033-315-9 © 1937 Editions Grasse! © 1989 by Lucarini Editore s.r.l. 00135 Roma - via Trionfale 8406

Indice

Introduzione Hollywood la Mecca del Cinema Prefazione Hollywood 1936 La città proibita La Mecca del cinema La nuova Bisanzio Mistica o «sex-appeal» Il grande mistero del «sex-appeal» Hollywood la nuit

VII 1 3 9 19 41 51 75 83 97

La fabbrica e il viaggiatore

Ci arrivò come inviato speciale di «Paris-soir», nel gennaio del 1936. Ci rimase due settimane. Poco, per essere esauriente. Il necessario, per capire. Poi, se ne venne via, deluso e irritato, imbarcandosi a San Pedro per un lungo viaggio attraverso il ca­ nale di Panama. «Blaise è sazio di Hollywood. Non attende Fu­ sata del film ricavato da L’or. Preferisce sparire»: così la figlia Miriam, nella fluviale biografìa pubblicata nel 1984 presso Balland. Sono tempi di crisi, in tutto il mondo, e Cendrars vaga in­ quieto fra Spagna e Francia. Ha un mestiere solo e autentico: quello del viaggiatore. E anche poeta, e romanziere, e cineasta, ma sembrano — per lui e a lui — mestieri secondari. «Ho il gusto del rischio — scriverà due anni dopo, in apertura della novella “La femme aimée” che completa la raccolta La vie dangereuse (Grasset, 1938) — Non sono tipo da scrivania. Non ho mai saputo resistere al richiamo dell'ignoto. Scrivere è la cosa più contraria al mio temperamento. Soffro come un dan­ nato a star chiuso fra quattro mura per scarabocchiare fogli di carta, mentre fuori ferve la vita: sento i clacson delle auto per strada, il fischio delle locomotive, la sirena dei piroscafi, il ron­ zio dei motori d'aereo, e penso a città esotiche piene di stupende botteghe, a paesi che ancora non conosco, a tutte le donne che potrei incontrare e con le quali mi piacerebbe perder tempo, agli uomini che forse mi aspettano, pronti a spiegarmi la loro attività e a farmi guadagnare un mucchio di soldi». Ma nei versi è ancora più chiaro (e i versi vanno lasciati in originale):

VII

]e connais tons les horaires Tout les trains et leurs correspondences L'heure d'arrivée l'heure de depart Tons les paquebots tous les tarifs et toutes les taxes.

Del resto, quel 1936 sarà davvero un anno sfortunato per Cen­ drars. E per quella Hollywood «assaggiata» al volo e messa a nu­ do, in poche pagine folgoranti, quasi che il viaggiatore ne avesse scoperto il segreto per magia. Arriva e trova i giornali di Los An­ geles sommersi dai pettegolezzi sulla morte — suicidio, omici­ dio? Più probabile omicidio — dell'attrice Thelma Todd, una bionda trentenne che s'era fatta notare simpaticamente (era quasi una diva) in molte commedie d'un certo pregio, fra l'altro dando la replica a Laurei e Hardy in Devil’s Brother (Fra Diavolo, 1933) e in Bohemian Girl (Noi siamo zingarelli, 1933). Il de­ litto è avvenuto qualche giorno prima (il 16 dicembre). Cendrars vi accenna nella prefazione, riprendendo — ma non sviluppan­ do, per una sorta di fastidio, se non di pudore — il vecchio di­ scorso sulle «extravagances sexuelles» che i moralisti deprecano da quando Hollywood è nata. C'è qualcosa di più personale in questo 1936. Tornano a galla le traversie antiche del romanzo più noto di Cendrars: L’or. È la storia di uno svizzero cocciuto, Johann August Suter, che fece fortuna nella California dell'ottocento e che fu travolto — lui agricoltore — dagli avventurieri alla caccia dell'oro. Svizzero di Rùnenberg, ma di origine tedesca (ed esule dalla Germania per ragioni politiche), il Suter della storia, e del romanzo, si portò appresso — come quest'altro svizzero (di La-Chaux-de-Ponds) che ne narra l'odissea — un carico di entusiasmo, di ribellioni, di follie e di sconfitte degne di una epopea cinematografica. E l'epopea ci sarà. Doppia. E, per Cendrars, amarissima. Ci avevano pensato in due contemporaneamente. Cari Laemmle, il padrone della Universal, con regolare contratto. Luis Trenker, in Germania, senza citare la fonte (ignorandola, anzi, e rifacen­ dosi alle cronache).

Vili

Quando Cendrars giunge a Hollywood, il film americano sta per uscire. Si intitola Sutter’s Gold (in Italia si chiamerà L’ebbrez­ za dell’oro), è interpretato da Edward Arnold, ha la regìa di un abile confezionatore di western, James Cruze. Ma è costato trop­ po per quel che contiene, e mostra. Sutter-Suter non appassiona con i suoi sforzi e le sue battaglie legali per respingere l’assalto dei «gold diggers» che hanno invaso le terre aride da lui trasfor­ mate in una specie di paradiso. E un disastro, che travolge Laemmk e la Universal. La società fallisce, il vecchio produtto­ re, che nel 1930 aveva trionfato con il nobile All Quiet on the Western Front (All’Ovest niente di nuovo) di Lewis Milesto­ ne, non si riprende più: morirà tre anni dopo, a 12 anni. E un «oro» proprio maledetto. Se si pensa che Cendrars nel 1929 era stato in trattative con Ejzenstejn a Parigi, e che poi aveva ac­ cettato malvolentieri il suggerimento Universal di inventare una storia d'amore per il suo Suter, si può comprendere il furore che lo colse quando scoprì — ottobre ’36, a Parigi di nuovo, dopo un soggiorno nella Spagna sconvolta dalla guerra civile — che il regista tirolese non solo aveva dedicato un film al suo eroe, intitolandolo Der Kaiser von Kalifornien (L’imperatore della California), ma era anche andato a vincere la Coppa Mussolini alla Mostra di Venezia, mentre il premio per il miglior film ita­ liano toccava a Squadrone bianco di Augusto Genina. A tutti il cinema sorrideva, meno che a lui, svizzero evidentemente sfor­ tunato come il suo protagonista. Ilfurore genera una serie di azioni giudiziarie, tra Francia e Ger­ mania, che vedono coinvolti Cendrars, Veditore Grasset, un paio di avvocati, la Universal e perfino un altro plagiario (tedesco an­ ch’egli) cui L’or aveva ispirato un dramma teatrale. Non se ne cava nulla. Solo spese. Passano gli anni. «L affaire — commen­ ta Miriam Cendrars — è affondato nelle sabbie mobili dei tribu­ nali. La pista dei plagiari di L’or ci porta alle giornate del 29 e 30 settembre 1938, quando Hitler, Mussolini, Daladier e Chamberlain sottoscrivono gli accordi di Monaco». Occorre dire IX

che ilfilm di Trenker era confuso e affannato, poco interessante, zeppo di simboli: a differenza del precedente Der verlorene Sohn (U figlio! prodigo, 1934), nel quale il regista, narrando un'altra storia a cavallo tra le Alpi e l'America, aveva trovato accenti sinceri e un vigore autentico nel disegnare la figura di un emigrante afflitto dalla Sehnsucht (oltreché da un oscuro com­ plesso di colpa, il tema trenkeriano per eccellenza). Attore mo­ nocorde e legnoso, qui era persuasivo. Là, nei panni di Suter, era quasi ridicolo. La rivista letteraria marsigliese «Sud» raccoglie (settembre 1988) gli atti del convegno Modernités de Blaise Cendrars che si ten­ ne dal 20 al 30 luglio 1987 presso il Centre Culturel Internatio­ nal di Cerisy-la-Salle. Occupandosi degli infelici amori cinema­ tografici dello scrittore, Philippe Pilard non resiste alla tentazio­ ne del chiasmo e ricama su «cinema de rève, rève de cinema». La sfortuna si accanisce su Cendrars. Vogliamo ripercorrere le sue sconfìtte (o le sue finte vittorie)? Fu assistant di Abel Gance per J’accuse (Per la patria, 1919) e La roue (La rosa sulle ro­ taie, 1922). Nel 1921, a Roma, diresse — sembra — Venere nera, film interpretato da una danzatrice hindu: non dovette es­ sere una esperienza piacevole (l'Italia stava per cedere alla vio­ lenza delle squadre fasciste) se fuggì non appena possibile ed evi­ tò sempre di rievocare l’episodio. Il resto è un disordinato inse­ guimento del «rève» maledetto: un dossier critico (ABC du cine­ ma), alcuni soggetti finiti in cattive mani, e di cui riesce diffìcile rintracciare il percorso, la revisione dei dialoghi di L’Atalante (1934) di Jean Vigo e questo reportage sulla «mecca del cinema». Amore? Rabbia? Disprezzo? Tutto questo, e tutto insieme. Ma, nel fondo, c'è ben di più. Il cinema è stato, sì, un «rève», ma è stato anche, nel viaggiatore, una chiave per intendere — me­ glio, più nitidamente — il mondo (del capitale) e gli uomini (della modernità). Il 1936 è l'anno di Modem Times (Tempi moderni). Il viaggia­ tore cerca Chaplin, ma Chaplin è in ansia per il film e non ha

tempo (o voglia) di riceverlo. Una battuta, colta alla radio: «Mi sento a disagio come sulla sedia elettrica». Dieci anni prima Cen­ drars aveva scritto un articolo penetrante: «Naissance de Char­ iot». La «persecuzione» cinematografica metteva radici e, di pas­ so in passo, apriva la mente. Ora, ecco il viaggiatore a Holly­ wood — Hollywood USA, tempio del capitale — proprio nelle settimane in cui compare sugli schermi la maligna radiografia del capitale che Chariot ha eseguito pazientemente e accuratamente, dopo cinque anni di silenzio: l'ultimo suo film — City Lights (Le luci della città) — risale al 1931. Queste tempre di anarchi­ ci si ritrovano e si riconoscono al buio. Chaplin individua negli ingranaggi mostruosi di una macchina-feticcio il senso del lavoro cui nessuno può sfuggire. Cendrars entra in uno studio ed esami­ na la struttura dell'officina di cui quella macchina è il prodotto, l'espressione e l'emblema. C'è anche, va notato, un pregiudizio — come dire? — tecnico. I due provengono dal cinema muto, amore sconfinato e ormai perduto. E ne conservano un ricordo quasi fiabesco (son trascorsi solo pochi anni, pare incredibile), come se all'epoca delle imma­ gini silenziose la libertà fosse assicurata e l'artista potesse davvero affermare i suoi diritti di individuo. Si capisce, il suono ha com­ plicato la vita e, quindi, anche i processi di lavorazione del film. Il controllo — finanziario, organizzativo, tecnico e burocratico — si fa più rigoroso. Ed è per questo che gli uomini del muto soffrono. Chaplin ha esitato a lungo prima di misurarsi nuova­ mente con la macchina-cinema. Ma ora rivela, oltre alla scontata (e cocente) nostalgia per il buon tempo antico, un 'acutezza so­ ciologica che non molti possiedono nell'America rooseveltiana di un New Deal privo di ideologia ma ricco di propositi rifor­ mistici. Cendrars, fiero dei suoi trascorsi di regista (o simili) ai tempi del muto, esegue anch'egli la sua radiografia di uno stabilimento che sforna non soltanto prodotti da collocare sul mercato ma anche idee da diffondere tra le masse. Non ci si lasci illudere, consiglia,

XI

dalla confusione pittoresca del set, che può persino suscitare stupore o simpatia. Spiega, in alcune pagine esemplari (per vi­ vezza di immagini e per capacità di analisi), come si sviluppa nelle diverse fasi e nei luoghi stabiliti la fabbricazione del film, come si realizza l'interazione fra l’uomo e le macchine e co­ me, in definitiva, si applichi sul campo — il campo è magari la ripresa del banalissimo primo piano di un bacio — il princi­ pio della divisione del lavoro. Come tutti i non-ideologi, Cen­ drars cava dalla realtà non solo lo schema ma anche la sostanza del sistema che analizza: la descrizione dell'assembramento della troupe intomo al regista (ognuno bada ai fatti suoi e solo a quel­ li), dell'atmosfera senza gioia che regna nello studio, dell’affaccendarsi di cinquanta persone davanti, dietro e sopra i due attori che debbono baciarsi, vale un trattato di sociologia e di psicolo­ gia industriale. Non manca, d’accordo, l’osservazione giornalisticamente ovvia sulla cinica inaffidabilità degli uffici soggetti che non leggono nulla e restituiscono regolarmente ai mittenti i testi pervenuti, sicché tu uomo qualunque puoi anche aver avuto uno spunto ge­ niale per un film ma Hollywood altro non sa fare che ignorarlo. Questo, però, serve a Cendrars per introdurre il discorso, al tem­ po stesso esatto e irridente, dei 68 departments che rappresenta­ no l’ossatura della società di produzione. Sembra uno scherzo, o l’incubo di un cinefilo pazzo, ed è la semplice trascrizione — con qualche forzatura verbale — degli organigrammi in vigore nella Hollywood degli anni d’oro, a cavallo della seconda guerra mondiale. Se il filosofo antico diceva che le idee son fatte per essere pensate e non vissute, la nuova Bisanzio che è la «mecca del cinema» può a buon diritto fregiarsi del titolo di capitale dei tempi moderni perché — conclude Cendrars — ha creato una industria che di idee vive e di idee fa vivere il mondo. Il parados­ so è divenuto realtà. Non per capriccio di scrittore ma per neces­ sità della storia. Come ogni merce, le idee sono (possono essere) un prodotto.

XII

Semmai, paradossale era nel 1936 il suggerimento di imitare i so­ vietici e i loro piani quinquennali, ma non allo scopo di organiz­ zare il lavoro bensì i «loisirs», il tempo libero. Ciò equivaleva a trasferire Hollywood, e la sua filosofia, nella società. Senza mediazioni, e senza pentimenti. Pensare una cosa simile era, a quel tempo, quasi rivoluzionario. Lo potevano soltanto i «francofortesi» emigrati in America (Adorno in special modo, con la sua sensibilità per l’influenza dello spettacolo sulla vita indivi­ duale), e in maniere ancora elitarie. O lo potevano, in via provo­ catoria, i governanti