Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo 8857563367, 9788857563367

Si può ancora parlare di “cinema d’impegno” in epoca post-moderna? Qual è il ruolo di questo cinema nell’età della disgr

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Italian Pages 280 [289] Year 2020

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo
 8857563367, 9788857563367

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IL SISTEMA DELL’IMPEGNO NEL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO A CURA DI DOM HOLDAWAY E DAULA MISSERO

MIMESIS /CINEMA

Il presente volume viene pubblicato con un contributo del Dipartimento delle Arti dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna” ed il logo dell’università di Bologna.

© 2020 - Mimesis Edizioni (Milano - Udine) Isbn: 9788857563367 Issn 2420-9570 Collana: Cinema, n. 91 www.mimesisedizioni.it Via Monfalcone, 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 E-mail: [email protected]

INDICE

Prefazione Dom Holdaway e Dalila Missero

9

PROSPETTIVE SULL’IMPEGNO

Il sistema dell’impegno nel cinema

italiano

CONTEMPORANEO

17

Dom Holdaway e Dalila Missero

Gli

ultimi nemici. L’impegno e gli Intellettuali in Italia NEL PRISMA DEL SESSANTOTTO

37

Peppino Ortoleva

Il tatuaggio di Maradona (e dell’impegno) Giacomo Manzoli

il cortocircuito

Tra girotondi e vaffanculo. C’eravamo tanto Luca Mastrantonio

55 impegnati

67

L’engagement della forma/la forma dell’engagement Vito Zagarrio 79

L’IMPEGNO COME CAPITALE CULTURALE I MESSAGGI SI MANDANO PER POSTA

101

Mariarosa Mancuso

Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ricezione, LEGITTIMAZIONE, POLITICIZZAZIONE DI UN FILM

107

Roy Menarini

La postura del critico davanti a La Fabio Andreazza

bocca del lupo

117

Il cinema di Claudio Caligari e Non essere cattivo. Impegno e legittimazione postuma nel sistema CINEMATOGRAFICO ITALIANO

Gabriele Rigola

129

LA PRODUZIONE DELL’IMPEGNO Galateo dell’impegno Fabio Bonifacci

e del disimpegno

143

e l’industria culturale. IL CASO DE "I-TlGl” DI DANIELE DEL GIUDICE E MARCO PAOLINI

La ricerca come work in progress

149

Francesco Farinelli Le catene dell’impegno e della creatività Marco Cucco

163

L’impegno di stato. Il finanziamento pubblico del cinema ITALIANO NEI TESTI DELLE DELIBERE DELLE SOTTOCOMMISSION1

MINISTERIALI

Andrea Minuz Equality Illusions. Finanziamento

177 pubblico del cinema e

POLITICHE DI "GENERE”

Mariagrazia Fanchi

187

1 GENERI DELL’IMPEGNO

Fa

la cosa giusta? La tradizione radicale nera e la crisi dell’impegno politico nell’età globale

Raffaele Laudani Ora o mai più. l’impegno Catherine O’Rawe

Commuoversi

207 e ilteen film

con impegno. NEL CINEMA ITALIANO

Louis Bayman

217

Emozione

e pensiero politico

231

Vincere e Qualunquemente. Letture politiche e sessuali dell’anti berluscon ismo Valerio Coladonato 245

“This is not an argument for trendy boys”. Memoria della Shoah e impegno postmoderno in This Must Be the Place Damiano Garofalo 257 Forme del politico e palinsesti del reale. Il mio paese di Daniele Vicari Pierpaolo Antonello 273

PREFAZIONE Dom Holdaway, Dalila Missero

Questo volume nasce a partire dai lavori del convegno “Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo. Finanziamento, produzione e gusto” che abbiamo curato insieme a Claudio Bisoni e che si è tenuto il 15-16 febbraio 2016 presso il Dipartimento delle Arti dell’università di Bologna. In quell’occasione abbiamo avuto l’opportunità di riunire un gruppo di studiose, studiosi e profes­ sionisti che ci hanno permesso di considerare il tema dell’impegno politico nel cinema contemporaneo da prospettive disciplinari di­ verse (film studies, sociologia, storia culturale, critica cinemato­ grafica, studi dell'industria e della produzione) ed esperienze sul campo concrete, come l’organizzazione e la promozione culturale. Le due giornate ci hanno quindi ispirato a continuare quello scam­ bio, e perlustrare quelle che il convegno aveva già delineato come possibili aree di indagine. In particolare, pensiamo al confronto con l’eredità storica e culturale del cinema d’impegno; le modalità con cui questo cinema viene prodotto e sostenuto economicamen­ te da soggetti privati e pubblici; i modi in cui il film d’impegno è riconoscibile e viene riconosciuto dal pubblico e quali discorsi critici produce. Il volume, quindi, approfondisce questi temi, su cui intende offrire una visione d’insieme complessa e articolata, attraverso un gruppo di saggi che dà conto di approcci metodo­ logici e analitici diversi. In altre parole, non intendiamo proporre un paradigma statico per analizzare le forme d’impegno politico nel cinema italiano contemporaneo, quanto intervenire in un di­ battito composto da numerose voci e mettere in questione quelli che sembrano essere i suoi punti fermi. I capitoli, alcuni dei qua­ li sviluppano gli interventi al convegno mentre altri sono inediti, mescolano prospettive di studiosi provenienti dall’accademia ita­ liana e straniera con quelli di giornalisti, critici e professionisti che lavorano nel cinema.

10

Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Il nodo tematico del volume, e il contributo che vorrebbe offrire a questo dibattito, è il concetto di “sistema” dell’impegno. Tramite questa nozione, intendiamo studiare l’impegno nella cultura ci­ nematografica italiana non tanto - o non solo - come un singolo elemento testuale o autoriale, ma in quanto parte di un sistema culturale molto più ampio, aperto a una serie di tensioni e impul­ si culturali (dalle condizioni di produzione a quelle di ricezione). A partire da questa prospettiva, i contributi danno vita a quattro aree tematiche - anche se con numerosi punti di incontro tra di loro - che definiscono le quattro parti di questo libro: prospetti­ ve sull’impegno; l’impegno come capitale culturale; la produzione dell’impegno; e i generi dell’impegno. Anche se il focus principale è inevitabilmente il cinema italiano, i saggi evitano di restringere la definizione d’impegno a esso, includendo il confronto con altri media (dalla stampa al teatro) e altri contesti nazionali. L’obiettivo della prima parte, “Prospettive sull’impegno” è di raccogliere un gruppo di riflessioni sulla natura dell’impegno, dal suo ruolo culturale alla sua forma. Apriamo la collezione con un nostro contributo di carattere introduttivo, che cerca di perlu­ strare il potenziale dell’approccio "sistemico” all’impegno. 11 sag­ gio arriva a questa proposta tramite una visione prospettica di ca­ rattere storico sugli sviluppi del concetto d’impegno nel cinema italiano, ponendo perciò le basi e alcune premesse interpretative ai temi sviluppati dagli altri autori. Il saggio che segue è di Peppino Ortoleva e percorre i mutamenti del ruolo e dei modi di azio­ ne culturale degli intellettuali italiani. L’autore pone al centro i cambiamenti sociali portati dal Sessantotto in Europa e fornisce un punto di partenza contestuale al volume, in cui si introduce nello specifico il tema dell’impegno. I saggi successivi, di Giaco­ mo Manzoli e Luca Mastrantonio, si occupano il primo della fun­ zione “liberatrice” del disimpegno (a partire dalla figura di Die­ go Maradona, e il suo rifiuto celeberrimo dell’impegno che ci si aspetta dai professionisti dello sport), il secondo di rintracciare, in un percorso tra letteratura e cinema, le costruzioni dell’imma­ gine dell’autore e dell’intellettuale e il ruolo dell’impegno civile nel dibattito pubblicò italiano. Infine, nel saggio “L’engagement della forma/la forma dell’engagement”, Vito Zagarrio analizza le varie modalità e tematiche del cinema italiano contemporaneo

D. Holdaway, D. Missero - Prefazione

11

per comprendere la tensione storica tra forma e contenuto nella creazione politica. La seconda sezione, “L’impegno come capitale culturale”, ospi­ ta quattro saggi che si concentrano sulle produzioni discorsive generate dal consumo e dalla ricezione dell’impegno, soprattutto in ambito della critica, valutandone gli effetti sul piano della rico­ noscibilità e codificazione sul piano culturale in senso più ampio. Nel primo intervento, Mariarosa Mancuso offre una prospettiva “dall’interno” su come, nel suo mestiere di critica cinematogra­ fica, debba continuamente tenere conto dell’impegno come vero e proprio sistema che non solo mette in atto determinate dina­ miche di “potere" attorno a certi registi e attori, ma anche come generatore di discorsi critici che ne riproducono lo status. Nel suo “Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot”, Roy Menarini, ricostruisce la ricezione del film di Mainetti e la sua interferenza con dibattiti sul valore politico e culturale del film inteso come portatore di critica sociale. Nella stessa direzione, Fabio Andreazza, attraverso la nozione di “postura”, analizza i fattori che struttu­ rano il giudizio espresso dal critico cinematografico in relazione all’orientamento politico della testata su cui scrivono. 11 saggio di Gabriele Rigola si concentra invece sul ruolo e la costruzione della figura del regista attorno al concetto d’impegno. Attraverso il caso di Non essere cattivo di Claudio Caligari, l’autore analizza come io statuto di film impegnato si costruisca attraverso determinati discorsi elaborati dalla critica e alle pratiche di circolazione della pellicola. Nella terza sezione, “La produzione dell’impegno”, i contributi di Fabio Bonifacci, Francesco Farinelli, Marco Cucco, Andrea Minuz e Mariagrazia Fanchi si focalizzano sui diversi modi in cui il concetto d’impegno si articola sul piano economico, istituzionale e legislativo, e sulle relative ri percussioni che si producono sulle scelte creative. Bonifacci ripercorre la sua carriera di sceneggia­ tore se si interroga circa “Futilità” del cinema d’impegno nel suo lavoro, e come i film che ha scritto abbiano giocato continuamente con questa nozione anche attraverso l’uso del genere commedia, che gli ha permesso di rimanere in contatto con modelli popolari d’intrattenimento. Francesco Farinelli si occupa del teatro civile

12

Il sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

di Marco Paolini, in particolare dello spettacolo sulla tragedia di Ustica, illustrando come le modalità di diffusione del prodotto (la messa in onda televisiva, la distribuzione in home-video), abbiano determinato i modi in cui sono state messe a disposizione le infor­ mazioni contenute nel testo. Marco Cucco analizza invece nel det­ taglio come i meccanismi di finanziamento pubblico previsti dal "decreto Urbani”, attorno al concetto di “bene meritorio” abbiano promosso una politica culturale che supportava e alimentava una determinata concezione di impegno con riflessi evidenti sui generi e tipi di film prodotti. A simili conclusioni giunge anche il saggio di Andrea Minuz, che analizza i pareri espressi dalle commissio­ ni che assegnavano i contributi statali per la produzione cinema­ tografica, sempre sotto il quadro legislativo del decreto Urbani. Minuz si sofferma in particolare sui criteri che hanno portato al finanziamento dei film, espressi sulla semplice base della loro sce­ neggiatura, e come il giudizio sul contenuto e sulla loro supposta funzione di "denuncia sociale”, che spesso si poggiava sul criterio del realismo, fossero legati a un preciso concetto di "impegno”. Questo meccanismo avrebbe favorito alcuni progetti a scapito di altri, senza alcuna valutazione di fattibilità economica del film. Attraverso lo studio dell’assegnazione dei contributi pubblici de­ stinati ai film, Mariagrazia Fanchi, invece, sottolinea come i criteri della loro assegnazione abbia continuato a riprodurre discrimina­ zioni di genere già presenti nelle industrie creative, e non abbia invece in alcun modo aiutato a riequilibrare la situazione. Come questo gruppo di saggi dimostra, ‘Timpegno” agisce come fattore discriminante anche sul piano della produzione, definendo e le­ gittimando le modalità di allocazione delle risorse pubbliche e le politiche culturali statali, ma anche determinando e producendo scelte e modalità creative. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentrano i saggi raccolti nell’ultima sezione, “I generi dell’impegno”, che indagano da di­ verse prospettive come "l’impegno” privilegi o rifiuti determina­ te forme e modalità creative. Nel primo contributo della sezione, Raffaele Laudani estende le coordinate del nostro discorso oltre lo specifico caso italiano attraverso il caso di Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, in cui si rintracciano i caratteri della critica sociale e l’influenza dell’attivismo afroamericano. Nel saggio successivo,

D. Holdaway, D. Missero - Prefazione

>3

Catherine O’Rawe si concentra sulla ricezione critica del teen mo­ vie Ora o mai più, e su come i discorsi legati all’impegno solita­ mente rigettino produzioni specificatamente pensate per un pub­ blico giovanile. O’Rawe ne analizza sia le implicazioni relative al suo statuto di film di genere, sia i modi in cui l’impegno si pone come forma maschile e normativa, che esclude dalla sua area d’in­ teresse tutta una serie di temi e forme di racconto che implicano l’espressione della dimensione emotiva e sentimentale. Proprio sul ruolo dell’emozione nel discorso politico contemporaneo si soffer­ ma invece Louis Bayman, che attraverso alcuni film usciti negli ultimi dieci anni, traccia un percorso in cui l’emotività diviene la chiave di lettura per la messa nuove forme d’impegno. 1 successi­ vi saggi di Valerio Coladonato e Damiano Garofalo si focalizzano su un gruppo ristretto di pellicole, all’interno di due tematiche centrali alla cultura cinematografica politica in Italia negli ultimi decenni. Il focus di Coladonato è l’anti-Berlusconismo, e ricostru­ isce le ricorrenti sovrapposizioni tra le figure di Silvio Berlusconi e Benito Mussolini presenti nel film di Marco Bellocchio Vincere e attribuite al noto personaggio Cetto La Qualunque, interpreta­ to da Antonio Albanese in Qualunquemente. In entrambi i casi, è stata proprio questa “coincidenza" a farli recepire come film impegnati, etichetta da cui Bellocchio e Albanese si sono ambi­ guamente discostati a seconda delle occasioni. Garofalo invece si sofferma sul film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, per analizzare come il genere dell’Ho/ocaustfilm diventi una categoria funzionale al regista per prendere le distanze e allo stesso tempo integrarsi nel sistema dell’impegno, in particolare dal punto di vi­ sta del capitale culturale che ne deriva. In questo caso, infatti, la specificità formale dell’Ho/ocaust film, pur essendo perfettamente rintracciabile nella struttura narrativa, ha la funzione di attivare la "categoria” d’impegno in un film che apparentemente vuole dire “altro”. Il volume si conclude con il saggio di Pier Paolo Antonello, uno dei maggiori teorici dell’impegno “postmoderno” del contesto contemporaneo. Il suo contributo al volume si focalizza invece sul caso di II mio paese di Daniele Vicari e sulla forma dell’essay film, dimostrando come metta in opera un processo di ripensamento e di rinnovata consapevolezza riflessiva e progettuale dell’impegno, inteso come intervento civile e politico.

14

// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Ringraziamenti

I curatori desiderano ringraziare il Dipartimento delle Arti dell'università di Bologna per averci dato la possibilità di organiz­ zare il convegno che ha dato vita a questo progetto, oltre per il so­ stegno che ne ha permesso la pubblicazione. Ringraziamo inoltre La Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Il Centro di Promozione teatrale "La Soffitta” e Cronopios per il supporto all’organizzazione del convegno. Un ringraziamento anche a Claudio Bisoni e Giaco­ mo Manzoli per la collaborazione e l’aiuto, e per l’importantissimo contributo alla concezione teorica del progetto. Desideriamo inol­ tre ringraziare Roy Menarmi per il suo sostegno al progetto edito­ riale, e tutti gli autori per la qualità e ricchezza dei loro contributi. Un ringraziamento particolare va a Damiano Garofalo e Valerio Coladonato per i dialoghi e il confronto sulle questioni trattate in questo libro, in particolare per il primo capitolo.

PROSPETTIVE SULL’IMPEGNO

1.

IL SISTEMA DELL’IMPEGNO NEL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO Dom Holdaway, Dalila M isserò'

i. Le rovine del cinema d'impegno civile Alla fine del 2018, con l’uscita del documentario Santiago, Italia, la versione italiana della rivista “Wired” pubblica un articolo inti­ tolato “C era una volta il cinema di impegno politico”1 23 . Se, secondo l’autore, l’ultimo film di Nanni Moretti “rispolvera un genere sempre meno praticato dal nostro cinema, il film politico", lo fa “con stili e punti di vista così classici da suonare, per Moretti in primis, come pura nostalgia”’. Come esplicita il titolo, il cinema impegnato sem­ bra una forma appartenente al passato, e infatti il film “non fa che ricordarci come un certo tipo di cinema sia definitivamente morto a meno che non guardi indietro, sia ambientato nel passato, racconti lotte e ideali passati”4. Come suggerisce questa scelta di parole, non si tratta di uno sguardo obiettivo sul passato, ma di una chiara posi­ zione ideologica. E infatti l’autore stabilisce dei paragoni tra il modo in cui il film “ricorda con dolcezza e tenerezza l’utopia comunista” e le narrazioni del contesto politico attuale in Italia (tema al centro del lavoro di Moretti da sempre), ma anche “tutta una stagione d’im­ pegno che vedeva il cinema in prima linea e che oggi non c’è più”5. La stagione di cui parla l’autore dell’articolo - nel contesto ita­ liano, ma anche europeo generale - è fermamente legato a una serie di personaggi e dibattiti canonici sull’etica della cultura en­ 1 2 3 4 5

L’introduzione al libro è stata concepita e progettata dall’autrice e l’autore insieme, ma si specifica che i paragrafi 1, 2 e 5 sono da attribuire a Dom Holdaway, e i paragrafi 3 e 4 a Dalila Missero. G. Niola, Cera una volta il cinema di impegno politico, su “Wired.it", 12/12/2018, online: https://www.wired.it/piay/cinema/2018/12/12/cinemaimpegno-politico-moretti/ [ultimo accesso: 8 giugno 2019]. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

18

II sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

gagé. In Italia, ciò evoca i dibattiti politico-culturali della sinistra del secondo dopoguerra, attorno a figure come Elio Vittorini, Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini, nonché il pensiero di Gramsci, sem­ pre più centrale a partire dagli anni Cinquanta, e i dibattiti sulle riviste II Politecnico (dal 1945) e // Menabò (dal 1959)6. Si tratta di una declinazione locale di una tendenza più ampia a livello eu­ ropeo, legata per lo più alla sinistra e alla critica marxista, tra cui gli esempi più famosi sono Jean-Paul Sartre, il lavoro della Scuola di Francoforte, e le idee influenti sul realismo e la letteratura di Gyòrgy Lukacs7. Per quanto riguarda il cinema italiano, invece, l’a­ pice del "cinema politico” si trova tra gli anni Sessanta e Settanta, quando una serie di personalità, come Francesco Rosi, Elio Petri e Gian Maria Volonté, danno vita a una forma molto ricca e di suc­ cesso di cinema. Nonostante all’epoca, come nota Risoni, la spet­ tacolarizzazione dei loro film abbia portato a forti critiche da parte della stampa marxista8, l’inserimento delle stesse figure in circoli di intellettuali di sinistra, nonché le interpretazioni dei loro lavori in una chiave marxista, ha storicamente permesso la loro legitti­ mazione come i “maestri” del cinema d’impegno9. 6

7

8

9

Coscienti del bisogno di essere concisi, per motivi di spazio ma anche perché si tratta di un discorso ampiamente studiato altrove, ci limitiamo a rimandare ad alcuni studi che hanno indagato il dibattito su cultura e impegno politico nel dopoguerra: N. Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1938, Editori Laterza, Bari 1979; S. Gundle, / comunisti italiani tra Hollywood e Mosca: la sfida della cultura di massa: 1943-1991, Giunti, Firenze 1995; J. Burns, Fragments of Impegno: Interpretations of Commitment in Contem­ porary Italian Narrative, 1980-2000, Northern Universities Press, Leeds 2001; D. Ward, Intellectuals, Culture and Power in Postwar Italy, in “The Italianist", v. 21, n. 1, 2001, pp. 291-318. Cfr. J. P. Sartre, Qu’est-ce que la littérature, Gallimard, Paris 1948: F. Ja­ meson, Marxism and Form, Princeton University Press Princeton 1974: I. Aitken, Lukdcsian Film Theory and Cinema: A Study ofGeorg Lukdcs’ Wri­ ting on Film, 1913-71, Manchester University Press, Manchester 2012. C. Bisoni, Gli anni affollati: La cultura cinematografica italiana (1970-79), Carocci, Roma 2009, pp. 89-94. In un certo senso, è anche paradossale connettere Nanni Moretti a questo mondo, come fa l’articolo di “Wired”, considerando, come osservano An­ tonello e Barotsi, come il suo cinema si sia sempre distanziato da questa tendenza. Cfr. P. Antonello e R. Barotsi, The Personal and the Political: The Cinema of Nanni Moretti, in Postmodern Impegno: Ethics and Commit­ ment in Contemporary Italian Culture, a cura di P. Antonello e F. Mussgnug Peter Lang, Oxford-New York 2009, pp. 189-212, (p. 193-194).

D. Holdaway, D. Missero - Il sistema dell’impegno

‘9

Il tipo di nostalgia che appare nell’articolo di "Wired” - quello che Pierpaolo Antonello ha chiamato un “narcisismo prospettico”10li - prevale nelle discussioni del cinema politico italiano. Un esem­ pio paradigmatico è il paragone apparso sulla stampa italiana tra i successi di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino al Festival di Cannes ne) 2008 e la Palma d’oro condivisa tra Francesco Rosi e Elio Petri nel 1972", un paragone che tiene poco conto dei cambiamenti stori­ ci, culturali, sociali, industriali dei 36 anni trascorsi tra i due eventi. Come altro esempio, possiamo aggiungere le diverse occasioni in cui uno degli stessi grandi maestri del cinema d’impegno, Fran­ cesco Rosi, abbia esplicitamente ricordato come non vorrebbe più fare cinema politico, considerata la rilevanza e l’attualità ancora del suo cinema del passato, in quanto i suoi film sono ancora rilevanti. Quando, nel 2012, ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, e gli è stato chiesto se avesse intenzione di tornare sul set, la risposta di Rosi fu: “No, perché dovrei? Per rifare Cristo si è fermato a Eboli, Le mani sulla città, Il caso Mattei? 1 miei film sono ancora attua­ lissimi: aiutano il pubblico a capire in che condizioni amare versa ancora questa nostra Italia”1213 . La stessa retorica si trova nella lunga intervista a Rosi con Giuseppe Tornatore, pubblicata con il titolo Io lo chiamo cinematografico, sempre nel 2012, che include una serie di considerazioni sul cinema impegnato. Sull’argomento, Tornatore sostiene che “il vero racconto sull’Italia di oggi [dovrebbe] essere un film su Berlusconi”; e Rosi risponde: “Te lo immagini Gian Ma­ ria col suo sorriso spocchioso che suona il pianoforte sulle navi e poi diventa padrone d’Italia? Solo Gian Maria avrebbe potuto farlo. Ma io il mio film su Berlusconi l’ho già fatto: Le mani sulla città"'*. 10

11 12

13

“Formato da un particolare punto di vista generazionale, da un paradigma ideologico di un certo tipo". P. Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettua­ li e impegno nell’ita Ha contemporanea, Mimesis, Milano 2012, p. 125. Cfr. A. G. Mancino, Politico/Politico-Indiziario, in "Cinema e generi", a. 2009, pp. 42-57, e P. D’Agostini, "Matteo e Paolo mi ricordano l’abbraccio fra me e Petri", in “La Repubblica", 27/05/2008, p. 39. Originariamente pubblicato in un’intervista a II Messaggero non più di­ sponibile, il brano è citato altrove, per esempio in Anon., Rosi: “Ai giovani dico, guardate la realtà", su “Cinecittà News", 11/05/2012, online: https:// news.cinecitta.com/lT/it-it/news/53/49933/14-13-rosi-ai-giovani-dicoguardate-la-realta.aspx. E Rosi, Io lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore, Mondadori, Milano 2012, pp. 421-422.

20

il sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

Articoli e commenti come questi pongono una domanda senz'altro rilevante: che forma ha, oggi, il cinema impegnato? La risposta di questi contributi è, tuttavia, piuttosto contraddittoria, in quanto ignora sia la presenza di un’enorme varietà di cinema politico oggi, sia una serie di mutamenti importanti del contesto storico-culturale e dell’industria cinematografica. E tutto ciò a favore della creazione di legami nostalgici e legittimanti con una parte, molto specifica, della cultura cinematografica del passato. Se l’enfasi su figure di grande importanza quali Rosi permette la giusta ricognizione del loro contributo, la stessa enfasi rischia contemporaneamente di restringere le nostre possibilità di defi­ nizione del cinema impegnato. Tramite il desiderio di ricreare il passato, si rischia, infatti, di escludere ciò che non è compatibile con una definizione ormai datata del regista impegnato: un au­ tore intellettuale, implicitamente uomo, bianco e di sinistra (una sinistra italiana nostalgica e imborghesita).

2. Problemi di definizione Per affrontare meglio queste contraddizioni, dunque, ci convie­ ne prima di tutto chiarire la nostra terminologia: anche perché, comesi vede già nell’articolo di “Wired”, i termini “cinema politico” e “cinema di impegno” sono scivolosi e spesso si sovrappongono. Tentando di definire il cinema politico italiano tramite una prospettiva storica, Christian Uva e Giancarlo Lombardi con­ cludono come trovare una singola definizione sia impossibi­ le: piuttosto, osservano, conviene mirare alla politicità dei film, cosa necessariamente fluida e che muta in base a tre elementi. La politicizzazione del cinema”, scrivono, “è una questione che pertiene allo stesso modo sia alla forma, al contenuto che al sistema produttivo in chi i lavori analizzati sono inseriti”14. L’unica cosa a cui ci possiamo aggrappare è un filo che interseca tutto il cinema politico: ovvero, citando le parole di Maurizio Grande, una “te-

14

G. Lombardi e C Uva, Italian Politicai Cinema: Definitions and Goals, in Italian Politicai Cinema: Public Life, imaginary, and Identity in Contempo­ rary Italian Film, a cura di Id., Peter Lang, Berna 2016, pp. 3-13 (p. io).

D. Holdaway, D. Missero - // sistema dell’impegno

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matica definita o un'attitudine pragmatica alla politica”'5. L’enfasi qui sull’attitudine, in realtà, ci avvicina alla tematica dell’impe­ gno, più connessa a una missione etica personale che a una pre­ cisa idea di obiettivo politico. Come si capisce già dall’uso molto diversificato del termine "im­ pegno” da parte della critica cinematografica italiana, anche que­ sta definizione è piuttosto scivolosa. Nella critica online dell’ulti­ mo anno, vediamo il termine applicato al cinema autoriale di Mike Leigh, al cinema Hollywoodiano middlebrow che tematizza la raz­ za (compreso il vincitore dell’Oscar al miglior film nel 2019, Green Book) e all’attore comico (diventato drammatico) Steve Carrell; e, in Italia, ai registi Marco Tullio Giordana e Lina Wertmuller, all’attore comico Claudio Bisio, al politico-regista Walter Veltroni, e in un ag­ giornamento specifico alla pagina Wikipedia di Gian Maria Volonté. In breve, non intendiamo sostenere che questa nozione sia priva di significato, ma sottolineare come venga usata come sineddoche per intendere un più ampio senso di responsabilità nell’ambito della creazione culturale, che si leghi a un personaggio, che spesso coin­ cide con il regista o un attore specifico, o che sia applicabile a forme cinematografiche e contesti storici e culturali del tutto variabili. Si può interpretare questa flessibilità alla luce di alcuni studi sull’impegno nella cultura italiana, considerata in senso più am­ pio. Partendo dal presupposto che abbiamo bisogno di “apprezza­ re il termine al di fuori dalle sue associazioni istintive con un tipo di letteratura politica piuttosto opprimente, associata al neoreali­ smo e al realismo sociale sovietico”'6, Jennifer Burns, nel suo volu­ me sull’impegno nella letteratura italiana, evita strategicamente di fornire una definizione stabile, preferendo invece l’esplorazione di ciò che le scrittrici e gli scrittori fanno nelle loro opere. Come risultato di questo approccio, Burns rintraccia la frammentazio­ ne progressiva del concetto “monolitico” di impegno in progetti di micro-politica, dei “frammenti” del tutto slegati dalla cultura di sinistra del dopoguerra. Questo processo accompagna tutti i cam­ biamenti sociali avvenuti in Italia dagli anni Cinquanta in poi.* 15

16

Enfasi nostra. G. Lombardi e C. Uva, “Italian Political Cinema”, cit., p. 11, e la citazione dentro il loro testo è di M. Grande, Eros e politica: sul cinema di Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci, P. e V. Taviani, Protagon, Siena 1995, p. 16. J. Burns, Fragments ofImpegno, cit., pp. 4-5.

22

Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Un simile processo di decostruzione della base ideologica della cultura politica avviene anche in un contesto più transnazionale. Già nel 1966, Stuart Hall riassume una serie di fattori che condi­ zionano in modo decisivo il politicai engagement nell’occidente: dai cambiamenti rapidi del contesto economico e politico della società e la trasformazione delle “grandi ideologie del passato” alla divisione del mondo sulla base di nozioni come potere, eco­ nomia e ideologia, secondo le due grandi chiese allineate ai due lati della Cortina di Ferro'7. Due di questi fattori assumono parti­ colari riflessi in ambito culturale. Prima di tutto, l’emergere di una serie di “nuove” problematiche e gruppi (come i movimenti per i dritti civili, e i gruppi giovanili) che, come nota Hall, “appaiono, falsamente, come ‘non-politici’; o non possono essere interpreta­ ti come insorgenze dirette prodotte dalla scontro con gli interessi sociali tradizionali”17 1819 . Le analisi di Burns vanno di pari passo con questa osservazione, nella misura in cui i “frammenti” di impegno che identifica sono spesso legati alla “micro” politica, come nell’e­ sempio delle scrittici migranti. In secondo luogo, Hall sottolinea l’arrivo della “ideologie della fine-delle-ideologie”, ovvero, the belief that there is something inherently wrong in seeking ideological models and explanations at all: that modern technological society renders all ideology obsolescent. Within this framework of thinking, ideologies are always described as holistic, millenarian, violent, apocalyptic: whereas politics is practical, pragmatic, middleranged, the art of the possible.1’

Una delle conseguenze più pericolose di questo modo diffuso di pensare è l’emergere di un clima intellettuale in cui cresce lo scet­ ticismo nei confronti della politica, che è “eviscerata e castrata per­ ché presentata sempre come una forma di indagine sociale” (e non di ideologia). Al posto della politica, secondo Hall, diventano prio­ ritari i fatti, una considerazione che lo porta a presagire non solo il cosiddetto periodo del riflusso in Italia, ma anche l’epoca di Trump:

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18 19

S. Hall, Political Commitment, in Selected Political Writings, a cura di S Davison, D. Featherstone, M. Rustin e B. Schwarz, Duke University Press, Durham 2017, pp. 85-106, (p. 86). Ibidem. Ivi, p. 87.

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what seems to reign as a dominant mood in the whole intellectual climate just at present is a spurious search for “objectivity”, a bogus pseudo-scientism. Such an intellectual climate - especially when mediated to an even wider public by the press and the journals - is one covertly hostile to politics.2021

È chiaro come, in questo contesto, l’impegno politico abbia do­ vuto adattarsi: seguendo il trend e pretendendo la possibilità di ricreare fatti “obiettivi” per fare politica, oppure abbandonando il mainstream e mirando invece a processi di creatività politica e spinte “micro”, resistendo nello spazio conflittuale in cui continua­ re ad esistere. Dal momento in cui la società inizia ad attraversare l’epoca postmoderna, il pensiero critico comincia a decostruire anche le stesse possibilità di riprodurre forme di macro-ideologia (e per­ sino il fatto stesso, l’oggetto delle critiche di Hall, viene sempre più messo in dubbio). La nozione d’impegno si evolve contestual­ mente. Affrontando la questione della cosiddetta “estinzione degli intellettuali”, Pierpaolo Antonello propone non tanto di rimpian­ gerli, quanto di considerare questa sparizione un’opportunità di emancipazione per il presente, da cui promuovere nuove modalità di attività intellettuale”. Questa modalità è riassumibile nel con­ cetto coniato da Antonello stesso e Florian Mussgnug, di “impegno post-egemonico”, vale a dire, “una posizione etica o politica, inca­ nalata in attività culturali e artistiche specifiche, contro qualsiasi pilastro ideologico” - compreso il “pilastro ideologico” della sini­ stra italiana degli anni Quaranta e Cinquanta. In tale applicazione, il termine gramsciano di “egemonia” viene posto sotto sforzo dai due autori, e quindi ribaltato. Se le radici dell’ideologia della cul­ tura politica italiana del dopoguerra vengono, come abbiamo de­ scritto, da un’opposizione da sinistra al fascismo, e successivamen­ te alla Democrazia Cristiana, queste erano evidentemente fondate su un’urgenza contro-egemonica, a favore della classe lavoratrice. Inserita, però, nel contesto postmoderno di esaurimento stori­ co, quello della fine delle meta-narrazioni, quella stessa urgenza contro-egemonica si distacca non tanto dall’ideologia (che rimane una possibilità, tra tante) quanto dal suo contesto storico-cultura­ 20 21

ivi, p. 88. Cfr. P. Antonello, Dimenticare Pasolini, cit., in particolare pp. n-13.

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le. Ne rimane, pertanto, un processo culturale “top-down”. Di con­ seguenza, l’arte impegnata postmoderna “non si definisce come la lotta per una nuova affermazione egemonica - la trasformazione di una pluralità in un nuovo habitus - ma come la sfida a ogni forma di egemonia”21; si tratta, quindi, di ripartire da un approccio alla cultura politica “bottom-up”, che inizi da progetti etici a livello “micro" e che tragga ispirazione direttamente dal “popolo”, dalla ricezione e l’interpretazione di testi25 invece che dalla ripetizione di certe pratiche e forme.

3. Dalle continuità storiche al posto del cinema d’impegno nelle dinamiche partecipative contemporanee

A partire da queste riflessioni, il nostro contributo si pone l’o­ biettivo di circoscrivere e relativizzare la portata del cinema d’im­ pegno sia nell’ambito della storia del cinema italiano sia in quello della polverizzazione e moltiplicazione delle forme d’intervento politico contemporanee, incluso quello del cosiddetto "cinema di Stato” di cui parleremo in modo più esteso in uno dei prossimi pa­ ragrafi. Con questo volume intendiamo dunque gettare le basi per un’interpretazione del cinema impegnato in quanto pratica politi­ ca, come forma d’intrattenimento mainstream e come portatore di valori simbolici e materiali. Questo tipo di cinema, come si è detto, si distingue per un rap­ porto molto stretto con la cultura cinematografica del passato. Tuttavia, aldilà di questo carattere riflessivo e nostalgico, i film im­ pegnati contemporanei dimostrano una capacità di adattamento notevole nei confronti delle evoluzioni più recenti nel rapporto tra media e partecipazione politica. In questa sezione ci soffermere­ mo proprio su questi aspetti di dinamicità e adattamento, tenen­ do ferme le premesse storiche e quindi le difficoltà definitorie che abbiamo già enunciato, a partire dalle categorie di impegno post­ egemonico, partecipazione e politiche bottom-up.22 * 23 22 23

P. Antonello e F. Mussgnug, Introduction, in Postmodern Impegno: Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, a cura di Id., Peter Lang, Oxford 2009, pp. 1-29, (p. 11). Cfr. J. Burns Re-thinking Impegno (Again): Reading, Ethics and Pleasure in Postmodern Impegno, cit., pp. 61-80.

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3.1 Dinamiche participative e allargamento del politico: il posto del cinema d'impegno contemporaneo

Negli ultimi decenni, le categorie tradizionali mobilitate dall’impegno civile, come quelle di partecipazione e cittadinan­ za, hanno conosciuto dei profondi mutamenti, dettati non solo dalla situazione geopolitica attuale, ma anche da importanti in­ novazioni nelle sfere della comunicazione e dei media. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la storia del cinema im­ pegnato in Italia inizia in coincidenza con la nascita della demo­ crazia e con la diffusione di nuove concezioni di cittadinanza, partecipazione e comunità nazionale. A questo processo ha con­ tribuito in modo determinante il fenomeno di occidentalizzazio­ ne delle industrie culturali italiane che, per quanto contrastato e difficile, ha portato nel Paese nuove forme di comunicazione e costruzione dell’opinione pubblica24. Avvicinandoci alla fine del Novecento, la globalizzazione ha permesso alle industrie cultu­ rali di assumere un carattere globalizzato e transnazionale, che agisce di fatto in modo destrutturante rispetto alle tradizionali categorie di appartenenza nazionale e politica. Siamo di fronte alla formazione di comunità transnazionali di pubblici e utenti il cui rapporto sempre più interattivo e relazionale con i media ha diffuso nuovi sentimenti di appartenenza basati per lo più sulla condivisione e il consumo culturale e non più su elementi identitari tradizionali25. Un simile processo ha di fatto cambiato anche i connotati dell’agire politico, che si è visibilmente esteso a prati­ 24

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Come giustamente hanno sottolineato David Forgacs e Stephen Gundle, sarebbe errato postulare una cesura netta nel passaggio tra regime fasci­ sta e democratico dal punto di vista sia delle forme di produzione che di circolazione culturale. Tuttavia, per quanto siano importanti gli aspetti di continuità, la nascita dell’impegno cinematografico appare come un feno­ meno sostanzialmente nuovo e caratteristico dei decenni successivi alla guerra. Cfr. D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana >9361934, Il Mulino, Bologna 2007. Tale constatazione ha portato, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, all’utilizzo della nozione di cultural citizenship e di network so­ ciety. J. Hermes, Cultural Citizenship and Popular Fiction in K. Brants, J. Hermes and L. van Zoonen (a cura di), The Media in Question, Sage, Lon­ dra 1998, pp. 157-67; N Stevenson, Culture and Citizenship, Sage, Londra 2002; M. Castells, The Rise of the Network Society, Blackwell, Oxford 1996.

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che un tempo considerate alienanti e distanti dall’impegno, come il consumo e il lifestyle16. Si potrebbe altresì affermare che siamo di fronte a una proliferazione e “alleggerimento” delle pratiche di partecipazione politica, in connessione al suddetto fenomeno di iper-mediatizzazione della cultura tipico dell’era globale. Grazie alle tecnologie digitali e all’avvento del web 2.0 e 3.0 questi feno­ meni hanno assunto dimensioni sempre più importanti26 2728 . Dalle petizioni sul sito change.org, sino alla modifica della foto profilo di Facebook, o all’uso degli hashtag, la condivisione su strumenti social è diventata ormai un vero e proprio strumento di pressione sull’agenda politica di partiti e altre associazioni di tipo tradi­ zionale, sostituendole e talvolta agevolandole nei loro compiti di propaganda e partecipazione18. Questa compenetrazione tra pratiche politiche off e on-line si lega a un altrettanto importante fenomeno della contempora­ 26

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Sulla relazione tra cultura, media e partecipazione politica si rimanda a N. Couldry, Culture and Citizenship: The Missing Link, in “European Journal of Cultural Studies”, a. IX, n. 3, 2006, pp. 321-339. Per quel che riguarda più nello specifico i media si veda invece: T. Lewis, Smart Liv­ ing: Lifestyle Media and Popular Expertise, Peter Lang, New York 2008 e H. Jenkins, Textual Poachers: Television Fans and Participatory Cul­ ture, Routledge, New York-London 2013. Questi fenomeni sono sempre più pervasivi tanto da essere pratiche assimilate anche dall’attivismo radicale, cfr. L. Portwood-Stacer, Lifestyle Politics and Radical Activism, Bloomsbury, New York 2013. Per descrivere questi cambiamenti sono state messe in campo nozioni come quelle di digital citizenship e digital public sphere, usate in ambito accademico per lo più per sottolineare i benefìci, in termini di indusività, offerti dalla partecipazione politica online. L Hacker, J. van Dijk (a cura di), Digital Democracy: Issues of Theory and Practice, SAGE, Londra 2008; K. Mossberger, C. J. Tolbert, R. S. McNeal, Digital Citizenship: The Internet, Society, and Participation, MIT Press, Cambridge, MA 2008. La “disaffezione” rispetto alla “politica tradizionale” è un fenomeno stori­ co-culturale complesso e certamente non riconducibile alla sola emersio­ ne dei media digitiali e alla mutata idea di comunità nata a partire dal web 2.0. Fenomeni come il qualunquismo e il populismo sono stati variamente oggetto di analisi sociologiche, storiografiche e filosofiche, che indicano non solo la continuità di certe tendenze ma anche la specificità del con­ testo nazionale italiano. Su questo ci limitiamo a segnalare due contributi focalizzati sull'Italia: P. Ignazi, Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni Sessanta a oggi, Laterza, Bari-Roma 2001; A. Millefiorini, La parte­ cipazione politica in Italia. Impegno politico e azione collettiva negli anni Ottanta e Novanta, Carocci, Roma 2002.

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neità: la crescente stratificazione della sfera pubblica. Di questo cambiamento si era resa conto, già agli inizi degli anni Novanta, la filosofa Nancy Fraser, che faceva notare come le classiche defini­ zioni habermasiane e gramsciane di sfera pubblica e di egemonia non fossero più sufficienti a descrivere le modalità di produzio­ ne e riproduzione del dibattito pubblico contemporaneo19. Fraser sostiene che le sfere pubbliche siano molteplici, e che di conse­ guenza vi siano numerosi ambiti in cui emergono pratiche ege­ moniche e contro-egemoniche tra loro concorrenti, e non per for­ za esclusive. In altre parole, nel contesto contemporaneo siamo di fronte non solo una moltiplicazione delle pratiche impegnate, ma anche al ridimensionamento dei loro obiettivi. Il soggetto im­ pegnato, oggi, può considerarsi tale anche quando si appassio­ na a una sola causa molto specifica, senza che gli sia richiesto di aderire a un progetto di cambiamento radicale e totalizzante del presente. Il cinema d’impegno contemporaneo, come catalizzatore di discorsi estetici, storici e critici s’inserisce in questo mosaico come una delle pratiche d’intervento politico possibili, e che si qualifica come tale per i suoi caratteri comunitari, riflessivi e so­ ciali. Allo stesso tempo, l’impegno che questo cinema produce, sia in senso puramente retorico che in termini di pratiche, assu­ me le caratteristiche tipiche della cultura partecipativa contem­ poranea. Si tratta di un cinema che si pone come aggregatore di comunità produttive e di consumo, ed è frutto di premesse e fina­ lità circoscrivibili, che hanno sostanzialmente perso ogni affiato contro-egemonico, in conformità con le tendenze già individuate da Antonello e Mussgnung, e in buona sostanza anche con il con­ cetto di "frammentazione” formulato da Burns. Di conseguenza, appare evidente come il cinema impegnato italiano, oggi, si deb­ ba necessariamente rivolgere a un pubblico specifico, impiegan­ do delle formule narrative e produttive collaudate e riconoscibili, coinvolgendo certi attori economici e non altri, ma soprattutto rendendo esplicita la sua rinuncia a incidere sul presente o a cam­ biare il futuro se non, appunto, nell’ambito totalmente parziale e provvisorio di lavorio culturale in relazione - ma non necessaria­ mente - con altre pratiche impegnate. I film che vengono consi-29 29

N. Fraser, Rethinking the Public Sphere: A Contribution to the Critique of Actually Existing Democracy, in “Social Text”, n. 25/26,1990, pp. 56-80.

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derati impegnati oggi, come vedremo, hanno ancora la capacità di creare una dimensione comunitaria e partecipativa, ma lo fanno coscientemente da una prospettiva circoscritta, identitaria e ubi­ cata in un contesto più ampio d’interpretazione della società e d’intervento politico tipico del nostro paese.

4. Quali soggetti e quali obiettivi?

In Italia, il cinema continua ad essere la forma più amata d’in­ trattenimento fuori casa (secondo le statistiche culturali 1STAT del 2018, il 52% degli italiani si reca almeno una volta all’anno al cinema, 1STAT) e la quota di mercato del cinema nazionale si ag­ gira, ancora dati del 2018, attorno al 22%, con una quota america­ na tre volte più consistente (60%) e una presenza in sala maggiore nelle fasce d’età giovanili (11-24 anni). Lungi dal voler fornire una stima o “fisionomia" del pubblico del cinema d’impegno, questi dati stimolano alcune riflessioni attorno al cinema in quanto for­ ma d’intrattenimento, che si qualifica senza dubbio come preva­ lentemente giovanile e familiare. In secondo luogo, queste cifre consentono di circoscrivere la produzione cinematografica nazio­ nale a un ambito piuttosto ristretto del consumo culturale in Ita­ lia. Date queste premesse, la visione di un film impegnato italiano si pone come una pratica oppositiva rispetto ai tratti prevalenti del consumo cinematografico. Tuttavia, ritenere questi film degli esempi di resistenza culturale rappresenterebbe una distorsione incapace di tenere conto di dati oggettivi e in parte contrastanti quali la legittimità produttiva e culturale di queste produzioni. I film impegnati hanno ormai assunto un carattere rassicurante nei confronti non solo del loro pubblico ma anche di coloro che li producono, li girano e interpretano. I motivi risiedono sia in aspetti testuali (strutture narrative, di genere, delle rappresenta­ zioni), ma anche in aspetti sistemici relativi ai modi di produzio­ ne e consumo, che ruotano attorno all’idea ben più scivolosa di partecipazione politica. Una piccola riflessione attorno a Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (2018) può meglio aiutare a comprendere la complessità degli elementi in gioco. II film racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, morto il 22 settembre 2009 in circostanze sospette

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dopo essere stato fermato ed arrestato da agenti delle forze dell’or­ dine che lo accusavano di spacciare droga. La morte di Cucchi ha stimolato un lungo e animato dibattito sulla violenza delle forze di polizia e le condizioni dei detenuti in Italia, che ha visto spesso in contrapposizione la sorella di Stefano, Ilaria, e alcuni esponenti politici e delle istituzioni. Il film, presentato al Festival del Cinema di Venezia, ha comunque goduto del finanziamento del Ministero dei Beni Culturali, ed è stato anche premiato ai David di Dona­ tello. Tuttavia, nonostante il plauso di alcuni settori istituzionali dell’industria cinematografica italiana, Sulla mia pelle ha avuto di­ versi problemi in sede distributiva, del tutto slegati da questioni eminentemente politiche. Il film, infatti, sarebbe stato reso dispo­ nibile sulla piattaforma Netflix nella stessa data dell’uscita in sala, e in virtù di questa scelta distributori ed esercenti avrebbero boi­ cottato il film. Il pubblico ha reagito organizzando proiezioni au­ togestite dalla piattaforma di streaming in spazi pubblici di tutta Italia. Questi eventi, nati per supplire alla mancanza di occasioni di visione collettiva, hanno di fatto scavalcato di un solo colpo la distribuzione ufficiale, le norme sul copyright e le modalità di uti­ lizzo convenzionali, domestiche e personalizzate per cui è pensata Netflix stessa. In questo modo, la dimensione dell’impegno civile, già ampiamente evocata dal progetto del film in sé, si è trasforma­ to, più o meno volontariamente, in una sorta di critica sistemica a un anello specifico dell'industria cinematografica italiana. Il dinie­ go di esercenti e distributori alla circolazione in sala è stato di fatto letto come l’ennesimo ostacolo all’ottenimento della giustizia per Stefano Cucchi3031 . Insomma, oltre a essere un film difficile, Sulla mia pelle è stato oscurato dalle istituzioni cinematografiche, che ne hanno impedito la circolazione e la visione collettiva3'. Que­ sta retorica è giunta a un’iperbole quando Facebook ha deciso di 30

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Di questa lettura è piuttosto indicativa l’analisi proposta sul sito di Radio Onda D’Urto, che fa riferimento ad alcuni spazi sociali lombardi. S.n., Sulla mia pelle proiezioni gratuire in tutta Italia. La reazione di Netfiix, su “Radio Onda D’Urto”, 4 settembre 2018, http://www.radiondadurto. org/2018/09/04/sulla-mia-pelle-proiezioni-gratuite-in-tutta-italia-la-reazione-di-netflix/. Ultima consultazione: 2/4/2019. Di seguito un riassunto efficace delle polemiche politiche (e non solo) at­ torno a questo film L. Benz, Il film su Stefano Cucchi ha già fatto incazzare la polizia, in “VICE Italia” 30 agosto 2018, https://www.vice.com/it/article/a3qb3b/film-stefano-cucchi-polizia. Ultima consultazione: 2/4/2019.

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oscurare gli eventi che pubblicizzavano le proiezioni "illegali” del film, in ottemperanza alle leggi italiane in materia di copyright31. La risposta a questo provvedimento che ha colpito un evento orga­ nizzato dal collettivo studentesco "Sapienza Clandestina” è piut­ tosto sintomatica delle contraddizioni e problematicità messe in moto dal film: FACEBOOK CENSURA STEFANO CUCCHI! Non un passo indietro, la proiezione del film Sulla Mia Pelle SI TERRA UGUALMENTE il 14 settembre. [...1 Parlano di voler riaccendere i riflettori sulla faccenda ed è cosi che credono di farlo? Boicottando una iniziativa gratuita e SENZA ALCUN FINE DI LUCRO, alla quale avrebbero partecipato potenzial­ mente migliaia e migliaia di studenti?32 33

Le contraddizioni sul piano discorsivo, ma anche eminente­ mente politico, sono molteplici. Da un lato, come si è detto, Sulla mia pelle ha goduto di un finanziamento statale e di una vetrina istituzionale molto prestigiosa, dall'altro il suo essere film impe­ gnato ha incoraggiato il pubblico a utilizzare "impropriamente” una piattaforma proprietaria americana (Netflix) per fare uno sta­ tement di carattere “anti-sistemico” nei confronti dell’industria cinematografica italiana, in quanto emblema dell’ostruzionismo istituzionale nella vicenda Cucchi. La retorica "anti-istituzionale” attorno a Sulla mia pelle produce esiti contraddittori, che eviden­ ziano una strana convivenza tra modalità di produzione e discor­ so critico convenzionali (finanziamento statale e presentazione ai festival) e l’utilizzo disinvolto (e poco consapevole) di piattaforme proprietarie come luoghi di manifestazione dell’antagonismo po­ litico attraverso una pratica legittima di consumo. Questo caso di­ mostra inoltre come l’impegno rappresenti ancora una vetrina pri­ vilegiata per il cinema nazionale, che tuttavia si fa portatore di un afflato partecipativo legato in maniera indissolubile ad altre prati­ che “mediatizzate” di intervento politico, come ad esempio i post 32

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V. Tiani, Perché le proiezioni del film su Stefano Cucchi stanno scompa­ rendo da Facebook, su “Motherboard", 12 settembre 2018, https://motherboard.vice.com/it/article/xwp89d/proiezioni-film-stefano-cucchi-sullamia-pelle-netflix-cancellate-facebook. Ultima consultazione 2/4/2019. Pagina Facebook “Sapienza Clandestina", post del 7 settembre 2019. https://www.facebook.eom/sapienza.clandestina/photos/a.9697499297o 8i32/2432Ó595934i7i5i/?type=3.

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sui social media. La polemica attorno a Sulla mia pelle e le risposte scomposte non solo a livello della politica istituzionale ma anche da parte degli organizzatori delle proiezioni autogestite dimostra­ no come questo tipo di film siano ancora capaci di aggregare una comunità non tanto in virtù della passione cinematografica ma di quella civile e politica. Tuttavia, film come questo, che catalizzano sia iniziative top-down (come la produzione del film stesso) che bottom-up (le proiezioni autogestite) presentano un’ambiguità di fondo rispetto agli obiettivi politici effettivi e ai soggetti parlanti e destinatari di riferimento. Il cinema impegnato contemporaneo di oggi è un cinema ad autorialità debole, spesso fatto di opere pri­ me, e dal pubblico circoscritto ma al tempo stesso non misurabile. L’approccio sistemico che proponiamo si pone proprio l’obiettivo di tirare le fila di queste complesse trame discorsive, a partire dalla messa in campo di una serie di strumenti storiografici, metodolo­ gici e analitici.

5. L'impegno come sistema Il caso Cucchi e l’attivismo online di comunità politiche di­ mostrano l’importanza e la rilevanza della teoria di impegno postmoderno sviluppata da Antonello e Mussgnug, ma anche l’insieme di corto-circuiti che s’innescano sul piano della produ­ zione e di un più complesso insieme di apparati simbolici legati al consumo culturale. Lo scenario in cui ci muoviamo è infatti ancor più articolato, perché le forme d’impegno post-egemonico convivono con, e al tempo stesso si nutrono di, pratiche impe­ gnate, per così dire, “vecchio stile”, che rimandano cioè a quella lunga tradizione storica di impegno civile a cui abbiamo fatto più volte riferimento. La produzione cinematografica odierna si caratterizza, come nota Giacomo Manzoli, per “una forbice fra cinema di intratteni­ mento e cinema - per così dire - di impegno”54. Questo modello trova un suo riscontro nel box office italiano di questi giorni. Per esempio, Il traditore di Marco Bellocchio, film apertamente politi-34 * 34

G. Manzoli, Politica e mercato nel cinema italiano, in “The Italianist", v. XXX11I, n. 2, 2013, pp. 261-269 (p. 266).

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co che segue una tendenza ben radicata del cinema italiano impe­ gnato, biografico e a tematica anti-mafia35, è rimasto saldamente tra i primi dieci incassi italiani da fine maggio a luglio 201936. Se il film di Bellocchio è un’eccezione dal punto di vista produttivo - si tratta di un quality film girato da un regista importante e con una star di rilievo (Pierfrancesco Favino), presentato al Festival di Cannes, con un budget significativo e un investimento in termi­ ni di marketing ancora più consistente - gli altri film italiani che condividono i primi posti del box office confermano la tenden­ za identificata da Manzoli: da un lato troviamo diversi film decli­ nabili come impegnati, come A mano disarmata, Selfie, Bangio, e Fiore gemello, e dall’altro, all’altro rebbio della forbice, alcune commedie mainstream, come II grande salto e L’uomo che comprò la luna (tutti, prevedibilmente, con incassi decisamente inferiori ai blockbuster americani dell’estate). È chiaro che il lato “impegnato” ha dei tratti ironici e si riferisce più alla percezione del film all’interno del contesto produttivo e distributivo che a una qualsiasi autenticità politica dei film. A pro­ posito del loro successo o insuccesso al botteghino, Manzoli pone una domanda non irrilevante (che evoca quanto nota Hall sul cre­ scente scetticismo verso l’ideologia), ovvero quanto “il loro appeal commerciale decrescente corrispondfe] alla percezione diffusa che il loro potenziale sociale è oramai praticamente nullo’’37. E, ancora più rilevante, se è possibile davvero dividere questi due ambiti a partire dalla loro politicità: il vero cinema "politico” - ovvero il cinema capace di rispondere in termini di riflessività a esigenze di carattere simbolico e identitarie, cioè di trattare conflitti reali che investono la sfera pubblica e privata trac-

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Si veda M. Marcus, In Memoriam: The Neorealist Legacy in Contemporary Sicilian Anti-Mafia Film, in Italian Neorealism and Global Cinema, a cura di L. E. Ruberto and K. M. Wilson, Wayne State University Press, Detroit 2007, pp. 290- 306. Al momento in cui scriviamo il film ha incassato «4,2m, per 650.000 pre­ senze, a distanza di un mese dalla sua prima uscita. Cfr. i dati disponibili a: Anon., Periodo dal 20/06/2019 °l 23/06/2019. Il Professor Depp vince gli in­ cassi, su Cinecittà News, 23/06/2019, online: https://news.cinecitta.com/ IT/it-it/news/56/79055/il-professor-depp-vince-gli-incassi.aspx [ultimo accesso: 26/06/2019]. G. Manzoli, Politica e mercato, cit., p. 266.

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dando i vettori di cambiamento della società italiana, con tutti i traumi e le ambivalenze del caso - è in realtà il cinema “commerciale", fatto soprattutto di commedie “leggere” o “volgari”?3*

Da un lato, dunque, è molto liberatorio riconoscere non solo il ruolo del cinema di massa nella creazione di un’immagine neces­ sariamente politica, ma anche il forte ruolo del pubblico di questi stessi film, ovvero come decide di rispondere e quindi di impe­ gnarsi. Dall’altro, continua ad esserci il “cinema d’impegno” (e usiamo le virgolette per indicare che non si parla necessariamente della politicità, quanto dell’etichetta). In alcuni casi, i film politici si fanno, nonostante l’evoluzione della società e della creatività politica, proprio nei termini dell’ “impegno di una volta”: top-down, egemonico, e con rimandi alla sinistra del passato. Paradigmatico in questo senso è il film / cento passi di Mar­ co Tullio Giordana, che riproduce la scena di chiusura de Le mani sulla città in un commento poco ironico e molto autoreferenziale, indicando che “i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”, con­ fermando in questo modo la tesi di Rosi che, almeno nel 2000, i suoi film erano davvero ancora rilevanti. Questo esempio - come tanti altri citati nei saggi di questo volume, tra cui spicca la commedia di Carlo Verdone L’abbiamofatta grossa citata nel saggio di Maria Rosa Mancuso - sottolinea come l’egemonia dell’impegno co-esista con le nuove forme “frammentarie" post-egemoniche. Non solo esiste, ma viene molto spesso legittimato tramite cer­ te dinamiche di produzione e distribuzione, ricezione e critica. Come ha notato Fisher, infatti, l’etichetta del "cinema politico” può servire a rinforzare il capitale culturale di un film, piuttosto che perseguire un obiettivo puramente descrittivo’9, e se il suo fo­ cus è la carriera di Damiano Damiani, è facile capire come questo si applichi ripetutamente al cinema del presente. Nel caso sempre molto attuale di A mano disarmata, uno dei film in sala nell’estate del 2019, il marketing del film costruisce un “caso” politico anche transmediale, insieme al libro di Federica Angeli, sui cui - chiara­ mente seguendo un “modello Gomorra" - il film è basato (anche in38 39 38 39

Ivi, pp. 266-267. A. Fisher, Impegno, Cultural Capital, and the Politics of Confusion, in “The Italianist", v. XXXIII, n. 2, 2013, pp. 300-304 (p. 300).

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questo caso, la presenza di una star, Claudia Cerini, è decisamente centrale). 11 film ha trovato un’ulteriore legittimazione pubblica quando ha ricevuto il Nastro di Argento della legalità, iniziativa che mira a “sottolineare il valore di denuncia di quel cinema di impegno civile che ha ritrovato una nuova stagione di vivacità”. Non a caso, Laura Delfi Colli, la presidente del Sngci, a nome del direttivo del premio associa il film alla “migliore tradizione di im­ pegno civile”40. Come dimostrano alcuni degli interventi nella parte centrale di questo volume, le modalità con cui si producono i film in Italia hanno un ruolo molto importante. Il finanziamento pubblico al cosiddetto “cinema di Stato” ha continuato a sostenere questo tipo di produzione, legittimandola con l’etichetta di “cinema di inte­ resse nazionale" - almeno fino al cambiamento più recente di le­ gislazione4’. In termini di numeri, come notano Manzoli e Minuz, si percepisce una correlazione tra generi e modalità legati al film impegnato: la produzione sostenuta direttamente dallo Stato è co­ stituita, per una notevole maggioranza, da una scrittura realistica; in termini di genere, si tratta per lo più di film drammatici, sopra­ tutto drammi sociali42. L’azione dello Stato, pertanto, s’inserisce in una tradizione alla legittimazione e al finanziamento di film che

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Anon, Il Nastro d’argento della legalità a A mano disarmata sulla storia di Federica Angeli, in “La Repubblica”, 04/06/2019, online: https://www. repubblica.it/spettacoli/cinema/2019/06/04/news/il_nastro_d_argento_della_legalita_a_a_mano_disarmata_sulla_storia_di_federica_angeli-227945738/ [ultimo accesso: 22 giugno 2019]. Cfr. Manzoli, Politica e mercato, cit.; G. Manzoli e M. Cucco (a cura di), Il cinema di Stato: Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2017. Con il cambiamento del sistema di incentivazione in base, in parte, agli incassi dei film precedenti, introdotto nella legge cinema 2016, il sistema di produzione italiano potreb­ be allontanarsi finalmente dai film di impegno a basso incasso. Detto que­ sto, da un lato, la legittimazione in forma di premi (come il Nastro d’Argento alla legalità) rimane una forma di incentivo; dall’altro, come osserva Cucco, questi film sono spesso prodotti da diversi fonti di fondi pubblici - che non sono stati sottoposti a cambiamenti legislativi. Cfr. M. Cucco, L’industria e le leggi del cinema in Italia (2000-2015), >n Cinema di Stato, cit., pp. 33-83; cfr. anche il saggio di Cucco in questo volume. G. Manzoli e A. Minuz, Le forme simboliche: sintassi, semantica e pragma­ tica dell’interesse culturale, in G. Manzoli e M. Cucco (a cura di), Cinema di Stato, cit., pp. 171-236, (pp. 220-222).

D. Holdaway, D. M isserò - Il sistema dell’impegno

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sono compatibili con il cinema d’impegno politico, definendoli come rappresentanti ufficiali della cultura italiana. Lo scenario che abbiamo descritto finora è certamente comples­ so: da un lato, la teoria dell’impegno è giunta a un approccio bottom-up e post-egemonico seguendo una serie di forti cambiamen­ ti sociali, che si presta alle interpretazioni di politicità in testi di svariati tipi (dai film indipendenti a quelli commerciali); dall’altro, il contesto produttivo, della distribuzione e della critica in Italia promuove pratiche che sembrano simulare, con diverse forme di legittimazione, lo stesso modello d’impegno citato in apertura. Un cinema d’impegno del tutto “egemonico”, almeno in forma e sopra­ tutto nella sua promozione, che però co-esiste all’interno di un si­ stema più ampio con una tipologia eterogenea di altri testi politici. A partire da questa consapevolezza, attraverso i saggi raccolti in questo volume proponiamo quindi un approccio “sistemico” all’impegno cinematografico contemporaneo. L’obiettivo non è identificare l’impegno oggi, né ri-produrre gerarchie in base alla politicità dei film. Il nostro fine è quello d’indagare le dinamiche e i processi pragmatici che il concetto d’impegno è in grado di at­ tivare in campo culturale, e più specificatamente cinematografico, analizzando le sue diverse forme, dall’egemonico al post-egemonico. Seguendo i processi storici e sociali tracciati qui sopra, vorrem­ mo partire dal presupposto che l’impegno possa esistere come un sistema privilegiato all’interno dell’industria cinematografica con­ temporanea: un sistema basato sulla produzione, la legittimazio­ ne culturale-sociale e di gusto, autoreferenziale e autosufficiente. Così facendo, vorremmo spostare l’analisi dal testo stesso ai pro­ cessi e alle tendenze sociali che caratterizzano la sua produzione, il suo consumo, la sua ricezione.

2.

GLI ULTIMI NEMICI L’impegno e gli intellettuali in Italia nel prisma del Sessantotto Peppino Ortoleva

“Gli intellettuali sono gli ultimi nemici della borghesia e al tempo stesso gli ultimi borghesi”': questa notazione dei Minima moralia di Adorno può costituire un utile punto di partenza per una riflessione sul tema dell’impegno nella cultura italiana, in particolare con riferimento a quel periodo cruciale che furono gli anni Sessanta, prima durante e dopo la rivolta giovanile che con­ venzionalmente è chiamata con una data, il Sessantotto. È singo­ larmente adeguata al caso italiano per il complesso rapporto che nel nostro paese più che in molti altri il dibattito sulla condizione dell’intellettuale stabilì almeno negli anni Sessanta-Settanta con la riflessione francofortese, per influsso tra l’altro di figure impor­ tanti, largamente dimenticate, e difficilmente classificabili come Renato Solmi: rapporto che si fece sentire anche nella prima fase, quella più specificamente studentesca, del movimento giovanile italiana, anche nel suo dialogo a distanza con il movimento tede­ sco e con figure come Hans-Jùrgen Krahl che dai francofortesi fu più direttamente influenzato. Ma lo è anche e soprattutto perché coglie con chiarezza una contraddizione che attraversava tutta la vita culturale in particolare della sinistra, da un lato svelandone le fragilità e (usiamo pure questo termine) gli aspetti di falsa coscien­ za, ma dall’altro animandola, proponendole sfide sempre nuove: come la critica auto-ironica di un Bianciardi al “lavoro culturale” o la ricorrente progettazione di una professionalità alla rovescia, tra l’urbanistica utopica, l’anti-psichiatria, il diritto "democratico”. La contraddizione segnalata dalla frase di Adorno fu anche al centro del rapporto che il movimento giovanile dei tardi anni Sesi

T. W. Adorno, Minima Moralia: Reflexionen aus dem beschàdigten Leben, tr. it. di R. Solmi, Minima moralia: meditazioni delia vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 20.

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santa (destinato in Italia a più lunga durata e più vasta risonanza sociale che altrove) ebbe con il ruolo degli intellettuali. La mia tesi è che la kulturpolitik del Sessantotto ha, insieme, rappresentato il culmine e la fine dell’idea di impegno propria degli anni preceden­ ti, anche per averne fatto emergere le aporie. Dopo una rapida pre­ messa sull’emergere di quell’idea nel dopoguerra e in particolare negli anni Sessanta, mi soffermerò sulla dissoluzione appunto nel Sessantotto non solo del modello precedente di rapporto tra in­ tellettuali e politica, ma anche del concetto stesso di intellettuale. Per poi, ancora più rapidamente, introdurre qualche suggerimento finale sulle conseguenze volontarie e involontarie di quella crisi. Tutto questo implica una lettura del Sessantotto che esce dall’op­ posizione stereotipata tra l’interpretarlo come fase, complessiva­ mente inconcludente, della storia politica, e lo schiacciarlo a puro fenomeno di costume, magari anticipatore, ma inconsapevole di tendenze importanti. Nella mia proposta interpretativa (enuncia­ ta fin dal mio volume dei tardi anni Ottanta1) la rivolta giovanile fu un segnale di cambiamento importante e profondo, che va letto con gli strumenti dell’antropologia e della storia delle mentalità. E questo vale anche per il suo rapporto con la vita culturale.

i. Verso il Sessantotto In verità, il tema del possibile coinvolgimento degli intellettuali nell’azione politica, e d’altra parte il rifiuto di quella che con me­ tafora molto consunta quanto a quel che sembra immortale veni­ va chiamata “torre d’avorio”, ha attraversato l’intero dopoguerra, a cominciare ovviamente da quel partito dazione che per composi­ zione dei suoi aderenti e per progetto politico si presentò come il più esplicito punto d’incontro tra politica e cultura; per continuare nel corso dei ventanni precedenti nella militanza di una parte si­ gnificativa del mondo accademico ed editoriale italiano entro le file dei partiti della sinistra. Per quanto riguarda il PCI, la scelta di Togliatti, espressa anche nella gestione del settimanale “Rinascita", fu di mantenere per così dire un secondo livello di discorso, oltre2 2

Cfr. P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.

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quello propriamente partitico, invitando a dialogare su temi di let­ teratura, arti, cinema anche molti intellettuali non riconducibili alla militanza comunista, e neppure riducibili alla figura classicamente staliniana dei "compagni di strada”, cosa che aiutò tra l’al­ tro a evitare una frattura insanabile dopo i fatti di Ungheria. Per quanto riguarda il PSI, la presenza di intellettuali entro o vicino alle sue file fu più variegata come del resto lo erano le anime di quel partito: dall’intransigenza che con termine successivo si può definire "operaista” di Raniero Panzieri, alle ricerche economiche di Franco Momigliano, all’urbanistica tra l’utopico e il tecnocratico di Roberto Guiducci. Di impegno, in senso ampio, si può quindi parlare per tutta la cultura italiana dopo il 1945. È però all’inizio degli anni Sessanta che il tema emerge come oggetto specifico di dibattito, in parte nel dialogo con la cultura francese che ebbe in quel periodo un considerevole peso in quella italiana (e basta scorrere l’elenco dei partecipanti a riviste come “Ragionamenti” o "Nuovi argomenti”), e con il concetto di engagement allora molto dibattuto oltralpe, in parte in connessione con alcuni fatti, in parte oggi dimenticati, ma che ebbero al tempo un peso considerevole. Voglio citare per prima la pubblicazione presso un editore di si­ nistra, Feltrinelli, del Lungo viaggio attraverso il fascismo di Rug­ gero Zangrandi, nel 1962. Si trattava in realtà di una seconda edi­ zione: la prima era uscita nell’immediato dopoguerra, non molto notata. In parte testimonianza autobiografica, in parte riflessione critica, in parte anche denuncia, era il libro di un intellettuale di parte comunista che aveva negli anni Trenta avuto un ruolo nel­ la politica cinematografica di regime vicina a Vittorio Mussolini. Venne letto da destra come il venire alla luce degli scheletri nell’ar­ madio di tanti intellettuali “socialcomunisti’’ i cui precedenti ve­ nivano ricordati con nomi e cognomi. A sinistra mise in moto una riflessione rimasta irrisolta. Come era stato possibile che la quasi totalità dell’intellettualità italiana avesse aderito a un regime che, tra l’altro, ì’intellighentsija azionista nella persona di Bobbio ac­ cusava di non avere voluto o potuto elaborare una propria cultu­ ra? La storia raccontata da Zangrandi dimostrava non solo che il sapere non era una garanzia contro il rischio di conformismo, ma che gli intellettuali in quanto tali potevano dimostrarsi più sensi­ bili di altre categorie alle sirene del potere, anche per difendere i

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propri privilegi. Gli esiti di quel dibattito restarono contraddittori. Da un lato emergeva l’imperativo morale di una scelta, e il non ac­ cettare un passato di asservimento sembrava richiedere una presa di posizione dichiarata in nome dell’antifascismo prima di tutto, un’esigenza che si faceva tanto più forte in quanto proprio negli stessi anni emergeva tutta la mostruosità dei crimini nazisti di cui il fascismo si era fatto complice. Dall’altro però restava il dubbio se un “impegno” preso in democrazia garantisse scelte più difficili e coraggiose in situazioni diverse; anzi se non celasse esso stesso un ipocrita conformarsi alla parte in quel momento egemone. Dubbio che per esempio attraversò tutta la riflessione di Franco Fortini e la sua critica (ispirata anche da Giacomo Noventa) dell’antifascismo. Un secondo tema che attraversò il dibattito intellettuale del do­ poguerra, e più specificamente gli anni Sessanta, era quello del rapporto degli intellettuali con le masse popolari, in particolare con quelle, difficilmente definibili in termini tradizionalmente di classe, del meridione italiano. Chiusa la fase di peculiare “anda­ ta al popolo” che era stata alla base dell’esperienza neorealistica, si aprivano diverse strade che avrebbero segnato le vicende del­ la sinistra italiana nei decenni successivi. Una era il tentativo di tenere ancora vivo il neorealismo, con il cinema ma anche con esperimenti mediali di diverso genere, come quelli che Zavattini produsse dagli anni Cinquanta (il libro Un paese con il fotografo Paul Strand3, nato da una collaborazione iniziata nel 1953) ai tardi anni Sessanta (i Cinegiornali della pace). Sul versante opposto, vi era la contrapposizione intransigente tra "classe” e “popolo” so­ stenuta da Asor Rosa, in un libro che fece scalpore e che per la prima volta in Italia usò polemicamente la categoria del populi­ smo4, e poi da Mario Tronti5. Mentre dalla parte del “sottoprole­ tariato meridionale” si schierava Pasolini, tra la rappresentazione quasi letteralmente eristica in La ricotta di un lumpen dal nome simbolico “Stracci”, il tentativo di interpretazione di un’Italia in cambiamento in Comizi d'amore dove le categorie marxiste prese alla lettera da lui, Moravia, Musatti continuavano a svelarsi fragili, 3 4 5

P. Strand, C. Zavattini, Un paese, Giulio Einaudi Editore (Collana “Italia mia”, n. 1), Torino 1955. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo: il populismo nella letteratura italiana con­ temporanea, Samonà Savelli, Roma 1965. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

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fino alla lettura "classista” degli scontri tra poliziotti e studenti. E ancora, il progetto di comprensione del sud intrapreso da De Martino servendosi degli strumenti di un’antica/nuova scien­ za sociale, l’etnologia, incrociata con il marxismo ma anche con ampi riferimenti al crocianesimo, in sostanza, se la domanda era: impegno, ma a favore di chi? La risposta rimase per tutto gli anni Sessanta frastagliata e incerta. Terzo. Uno dei fenomeni più peculiari dell’epoca deH’impegno fu l’imporsi della televisione come presenza maggioritaria (fin dal 1961) e poi ben presto generalizzata, nelle case degli italiani. Dopo una fase di preoccupazione-ostilità, in campo cattolico, a cominciare dall’omelia di Pio XII contemporanea al debutto delle trasmissioni, e in campo comunista, l’attenzione al mezzo, alle sue caratteristiche e alle sue potenzialità, scemò rapidamente, e rimase pressoché isolato il tentativo di Paolo Gobetti di fondare una critica televisiva colta e rigorosa sulle pagine di Cinema nuo­ vo. Negli anni Sessanta, a dominare il dibattito fu la riflessione ge­ nerale sulla cultura di massa, da Lo spettatore senza libertà (1962) di Cesare Mannucci ad Apocalittici e integrati di Umberto Eco (1964), che proponeva alcune possibilità di un’apertura a prodotti fino ad allora esclusi dai canoni della Cultura, a cominciare dal fumetto, ma significativamente dedicava scarso spazio alla tele­ visione in quanto tale. Solo che, in quello stesso periodo, la RAI guidata dal democristiano Ettore Bernabei sceglieva la strada di una progressiva cooptazione di un grande numero di intellettuali, anche di sinistra, all’interno dell’azienda e con i numerosissimi contratti di collaborazione temporanea (fino a 20.000 in un anno sul finire del decennio). A ricordare la complessità dei rapporti tra una cultura egemonizzata dalla sinistra e un sistema di potere dove i comunisti erano esclusi e non vi era alcun ricambio nel partito dominante.

2. Il Sessantotto tra critica degli intellettuali ed estremizzazione dell’impegno

Ci sono diversi elementi di continuità tra l’avvio del Sessantotto italiano e la precedente fase dell’impegno degli intellettuali: basta ricordare il ruolo di alcune riviste, tra cui “Quaderni piacentini” e

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“Classe e stato”, nellbspitare le prime riflessioni del movimento; e l’assunzione come riferimento politico oltre che culturale di alcu­ ni dei protagonisti di quella stagione, da Franco Fortini a Grazia Cherchi e Goffredo Fofi. Per certi versi, si può leggere la politica del movimento come l’applicazione portata fino in fondo, da parte di una nuova gene­ razione, delle dichiarazioni d’intenti implicite nell’engagement. A chi vi partecipava il movimento chiedeva, fin dall’inizio, un im­ pegno, ma ancora più radicale: la disponibilità allo scontro fìsico con polizia e carabinieri, e all’incriminazione, possibilmente alla prigione; la scelta di dedicare all’azione politica non una parte del proprio tempo ma tutti i momenti del vivere (a cominciare dal tempo pieno delle occupazioni universitarie); il collegamen­ to diretto, non il semplice appoggio verbale o economico, con le agitazioni operaie. Ma per altri versi, forse ancora più fortemen­ te, la rivolta giovanile segnò la chiusura della fase dell’impegno: la denuncia della condizione stessa dell’intellettuale come fonte di potere e privilegio, delle posizioni “a sinistra” dichiarate dalle precedenti generazioni come ipocrisia e mistificazione. E segnò l’avvio verso una fase successiva nel rapporto tra cultura e società, che in parte è quella che tuttora viviamo.

2.1. Basta con gli intellettuali? Una critica non solo dell’istituzione universitaria ma anche del­ la condizione, e insieme del privilegio e del potere, dell’intellettua­ le (e una ricerca, ma essa stessa contraddittoria, di un modo “altro" di esserlo, potremmo dire di un impegno fino in fondo) era carat­ teristica infatti non di tutto il Sessantotto internazionale ma più fortemente di quello di alcuni paesi, tra questi l’Italia e in misura forse ancora maggiore la Germania. Era una critica che metteva in discussione l’“intellettuale di sinistra” emerso nel post-fascismo ma poneva un dubbio più radicale: se il ruolo della persona che vive di cultura fosse compatibile con un progetto di cambiamento radicale del mondo; se l’imperativo dell’undicesima glossa a Feuer­ bach di Marx, per cui il ruolo dei “filosofi” non è interpretare il mondo ma trasformarlo, potesse essere fatto proprio dagli intellet­ tuali quali erano stati fino ad allora, o non richiedesse un sovverti­ mento di quella figura.

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Prenderemo le mosse da tre aspetti di questa critica: i. la defini­ zione della condizione dell’intellettuale come privilegio “di classe”, che emerge chiaramente in uno dei testi-chiave di quegli anni, la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana; ii. l’opposi­ zione a chi usava, o si supponeva usasse, le proprie dichiarate posi­ zioni politiche di sinistra come legittimazione di fatto di un ruolo di potere; iii. il rifiuto di ogni distinzione tra vita culturale e siste­ ma capitalistico. A partire da questa triplice critica in effetti il Ses­ santotto italiano, in particolare nelle espressioni che gli vennero date da alcuni movimenti locali (Trento, Pisa, Torino soprattutto) promosse una sorta di aut aut nei confronti degli intellettuali, che intimava loro o di riconoscere la propria subalternità al “sistema”, oppure di uscirne fino in fondo passando dall’impegno alla mili­ tanza, dentro o fuori il lavoro professionale. i. La Lettera a una professoressa, pubblicata da una piccola casa editrice, la Libreria Editrice Fiorentina, diventò rapidamen­ te un caso politico dentro e fuori del mondo cattolico. Il testo tipicamente veniva presentato come frutto di un collettivo, “I ra­ gazzi di Barbiana", a negare la figura di un singolo autore sebbe­ ne dimostrasse uno stile chiaramente molto personale, quello di don Lorenzo Milani. Si basava su una contrapposizione lineare: chi sa (dalla professoressa del titolo al dottore padre di Pierino) sa senza meriti, esclusivamente per l’iniquità del sistema sociale; chi non sa deve appropriarsi del sapere ma per mezzo di una con­ quista e di un conflitto. Tutte le gerarchie erano anche disparità di sapere (fino ai due atti di Dario Fo significativamente intitolati “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone”), e tutte le disparità di sapere producevano oppres­ sione. Allora la scrittura nitida e giudicante, l’analisi di classe ra­ dicale e semplificata come alcune massime di Mao, appariva (e sarebbe sembrata a lungo) quasi inoppugnabile come lo sguardo “dal basso” che propugnava. Difficile trovare un testo che abbia più nettamente messo in di­ scussione il diritto stesso a fare della conoscenza come mestiere. 11 punto di vista della Lettera a una professoressa era chiaro: se il sapere era un privilegio, il dovere di chi ne godeva era la rinuncia evangelica; se il sapere era diseguaglianza, si doveva procedere a recuperare la parità. Una premessa cristiana più che marxista. In questa chiave, il vero dovere dell’intellettuale era andare verso la

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propria soppressione come figura sociale distinta, e in quanto tale inevitabilmente prodotto dell’iniquità sociale. In questa chiave, il rifiuto dei voti e dei premi non era, come sarebbe stato rappresentato poi, banale ostilità allo studio, ma espressione di una volontà di uguaglianza come tabula rasa, rifiu­ to di una selezione che era inevitabilmente conferma della diffe­ renza sociale. In questa chiave, si comprende anche la scelta "asce­ tica” di molti artisti di quegli anni: la rinuncia alla complessità e alla sofisticazione del linguaggio, incluso quello delle avanguardie (che proprio nella sua astrusità rischiava di dimostrarsi elitario) in favore di un grado zero dell’espressività. Povero, e volutamente. ii. Non esisteva una via diversa, per l’intellettuale di sinistra, per l’intellettuale che negli anni precedenti si era cominciato a definire “impegnato”? Non bastava lo schierarsi apertamente dalla parte degli oppressi, e il contribuire con le sue prese di posizione pubbli­ che, a riscattare la sua condizione di oggettivo privilegio? In fondo questo era stato lo scambio proposto nei decenni precedenti dai partiti dalla sinistra: rendendosi utile, l’intellettuale poteva alline­ arsi a una classe a cui non apparteneva; per converso, i partiti stessi rinunciavano a criticare il sistema di potere proprio delle istituzio­ ni culturali, giudicando professori o editori solo sulla base delle scelte politiche, indipendentemente dal reddito o dall’uso che fa­ cevano delle gerarchie. La linea adottata dai movimenti giovanili era molto diversa: non solo l’essere politicamente "rosso” non riscattava un uomo di po­ tere dall’essere tale, ma al contrario, era una prova di ipocrisia (e l’ipocrisia era uno dei peccati maggiori per un movimento che si voleva liberatorio su tutti i piani) e dimostrava la capacità del "si­ stema” di integrare anche le idee che si volevano sue nemiche. Una scritta sui muri dell’università di Torino, “no ai baroni neri, rossi, a pallini” esprimeva, nel linguaggio ironico che fu proprio del mo­ mento culminante della rivolta giovanile, la convinzione di fondo secondo cui ciò che contava non era il colore politico della persona ma il ruolo occupato. Era una posizione per certi versi classicamente marxista (‘Tessere precede la coscienza”), per altri legata a una convinzione profonda del movimento: che ovunque, quindi anche nell’università, si dovessero distinguere e contrapporre op­ pressi e oppressori, e che tale opposizione dipendesse non dalle parole, quali che fossero, ma appunto dal potere.

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Compito del movimento, in questa situazione, era demistificare (altra parola chiave del tempo), con comportamenti che spesso an­ davano dall’azione diretta allo sberleffo: svelare le complicità tra­ sversali che l’ideologia nascondeva, sfidare le persone a dimostrar­ si coerenti con le loro parole. Ed estendere al mondo del sapere un conflitto che si presentava ovunque come “di classe”, per quanto vago fosse questo riferimento. 11 che implicava un altro passaggio essenziale: il riconoscimento della cultura come parte essa stessa, anzi parte sempre più centrale, del “sistema". iii. Tutto questo si legava con altri due temi caratteristici del mo­ vimento giovanile in particolare nel periodo 1967-69. Il primo era la critica di ogni pretesa posizione “neutrale” o anche semplicemente distinta rispetto ai conflitti. La politica della sinistra verso gli intellettuali impegnati aveva a lungo fatto assegnamento sulla duplicità della loro posizione: il loro schierarsi era tanto più utile sul piano propagandistico e non solo in quanto veniva da persone a cui era attribuita una competenza, e quindi una capacità di giu­ dizio, non solo di parte. Per il Sessantotto una simile presunta ca­ pacità era in sé una mistificazione: l’intellettuale doveva non solo riconoscere la sua concreta collocazione nei conflitti, ma condurre una critica approfondita della propria posizione. E farlo in un dia­ logo continuo: con i suoi pari, e con gli oppressi nel loro insieme. II sapere nasceva nel conflitto, e questo demistificava il finto sapere. L’ultimo tema era evidente in particolare nelle riflessioni del­ la Kritische Università! tedesca, di Hans-Jiirgen Krahl e in parte di Rudi Dutschke, ma anche in alcuni documenti del Sessantotto italiano: il capitalismo non era soprattutto un sistema materiale di produzione, rispetto al quale la cultura era marxianamente “sovra­ struttura”, per quanto certo condizionata dai rapporti di forza con­ creti nell’economia; la conoscenza era sempre più direttamente integrata nella produzione di ricchezza, l’intellettuale era sempre più al bivio tra diventare parte della tecnostruttura capitalistica e il diventare semplice “forza lavoro”. Insomma, secondo questa con­ cezione (influenzata in parte dalla sociologia del post-industriale, in parte dalla rappresentazione di un capitalismo pianificante e onnipresente) il lavoro culturale era finito come realtà distinta dal lavoro degli operai e dei contadini, il contributo critico dell’in­ tellettuale doveva essere non solo marxianamente trasformare il mondo, ma anche cambiare sé stesso.

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2.2. Una politica della cultura

Da tutto questo derivava la convinzione diffusa che le istituzio­ ni culturali e la vita culturale fossero e dovessero essere terreni in quanto tali di un conflitto per molti aspetti analogo a quello tra operai e capitale. La condizione stessa dello studente era vista come parte inte­ grante del processo produttivo, “forza-lavoro in formazione” se­ condo le Tesi della Sapienza dell’Unione Goliardica Italiana (1967), o in termini che si volevano meno astratti, oggetto di fabbricazio­ ne non meno delle merci fisiche. Una citazione (mi scuso per la lunghezza) di un documento del movimento studentesco trenti­ no, 1968, dà una rappresentazione quasi plastica di questa inter­ pretazione dell’università. L’università è uno dei sistemi produttivi dell’attuale sistema mer­ cantile... Essa produce un tipo particolare di merce: l’uomo appunto come merce, come forza-lavoro qualificata o in via di qualificazione, come laureando o come laureato. Scopo di tale istituto produttivo (università) è collocare tale merce (studente-laureato) sul mercato del lavoro affinché vi sia venduta, e inserirla nel ciclo complessivo di riproduzione sociale affinché vi sia consumata... La nostra pre­ parazione professionale è un capitale sociale che non ci appartiene, perché può soltanto venire utilizzato in una organizzazione azien­ dale burocratica che non siamo politicamente e professionalmente preparati a controllare. L’università come struttura di potere serve dunque a preparare degli esecutori politicamente disarmati e profes­ sionalmente limitati. All’università si impara soprattutto a comanda­ re e obbedire.6

In questa chiave, il mestiere del professore e dell’intellettuale in generale perdeva ogni valore specificamente cognitivo e culturale, e ogni prestigio legato alla reale o presunta autonomia di giudizio: si riduceva ad anello di una catena produttiva. In questa chiave, la pretesa del professore di assumere un ruolo critico era schiacciata dal ruolo effettivo, indifferente in realtà ai contenuti da lui/lei ela­ borati e insegnati. 6

“Progetto di Tesi del sindacato studentesco”, conservato nell’originaria versione dattiloscritta nell’Archivio Storico dell’università di Pisa, cartella “Occupazioni 1967-’68", fascicolo “Pratica provvedimenti disciplinari".

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Se l’università era luogo di scontro, il compito dello studente era rovesciare i rapporti di potere vigenti. Tra il docente e lo studente non c era possibilità di collaborazione a meno che il docente non mettesse radicalmente in discussione la sua collocazione e la sua funzione. Il paradosso, va aggiunto, è che questa rappresentazione dell’istituzione accademica e in generale del lavoro intellettuale fu tanto radicale quanto effimera, ben presto nel movimento si sa­ rebbe affermata la convinzione che i luoghi che contavano, nello scontro sociale, fossero altri, a cominciare dalla fabbrica, e che l’u­ niversità fosse una realtà comunque secondaria. Quali erano le condizioni per produrre una conoscenza che fosse insieme dalla parte degli oppressi e utile alla comprensione approfondita e reale della società? Tra gli aspetti essenziali della rappresentazione di sé dei movimenti giovanili vi era il legame in­ scindibile tra sapere e conflitto: questo comportava alcuni princì­ pi. Oltre alla regola già ricordata della non neutralità, per cui ogni conoscenza era di parte, altrettanto importante era quella del “par­ tire da sé”, per cui la produzione del sapere ribelle era strettamente legata con la consapevolezza di sé del soggetto, doveva cioè avere sempre carattere riflessivo. Ciò significava evidentemente che nes­ suno poteva e doveva parlare in nome di altri: una critica radicale all’idea di un intellettuale che assumesse posizione politica sem­ plicemente esprimendo una linea ideologica in favore di un ceto a cui non apparteneva. Una terza regola sottolineava la necessità di un’elaborazione collettiva, mai strettamente individuale. Tut­ te queste linee emersero con la massima evidenza ma anche con la loro fragilità in alcuni degli esperimenti più ambiziosi del ’68 internazionale: T'università critica” (KU) tedesca, i contro-corsi di alcune università italiane. Esperimenti di breve durata, dopo i quali il progetto di una produzione davvero autonoma di sapere “liberato” apparve difficile da prolungare. Nell’insieme, quella che possiamo chiamare la politica della co­ noscenza dei movimenti giovanili si dimostrò più articolata, e in­ novativa, nella sua pars destruens, nell’azione di disvelamento dei meccanismi di potere nascosti nelle istituzioni culturali e di critica della contraddittorietà della figura dell’intellettuale, in particolare “di sinistra”, che non in quella costruens, nella sperimentazione di alternative possibili. Alla fine, il movimento si trovò a porre agli uomini di cultura tre possibilità:

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- la prima era semplicemente riconoscere il loro ruolo di parte della classe privilegiata e del sistema dominante, rinunciando a un “impegno” che non poteva essere se non contraddittorio e ipocrita; - la seconda era fare un salto ulteriore, passare dall’impegno alla militanza (un passaggio che avrebbe acquistato senso soprattutto nella fase successiva dei gruppi extra-parlamentari); mettersi deci­ samente al servizio dei lavoratori, spesso dimostrando umilmente la propria volontà di rinunciare a una condizione privilegiata con l’accettare compiti manuali se non con l’impoverire dichiaratamente il proprio linguaggio; -c’era poi una terza possibilità, che merita una ricostruzione storicamente più articolata di quanto si sia fatto finora: quella del contro-sapere, dell’applicazione delle competenze professionali in funzione “rivoluzionaria”. L’esempio più chiara, soprattutto in Italia, è rappresentato dall’anti-psichiatria nelle sue varie correnti. Ma ci sono casi simili in altre aree professionali: molti non ricorda­ no ad esempio che questo è stato uno degli stimoli alla base di Ma­ gistratura Democratica, o dei collettivi di medici democratici, ecc. 2.3. Fattori di dissoluzione

Uno degli esiti di lungo periodo più rilevanti della politica culturale del Sessantotto (e più sottilmente, dei cambiamenti di mentalità che questa portò con sé) fu il dissolvimento della figu­ ra stessa dell'intellettuale. Citeremo qui, rapidamente, tre punti di vista: i. la caduta dell’opposizione tra alta e bassa cultura, che implicava la crisi dei canoni in tutte le arti, quelle nuove come il cinema e il fumetto ma anche quelle classiche come la letterature, e la crisi anche del ruolo di custodi dei canoni che è stato per secoli uno dei compiti principali degli intellettuali di area umanistica; ii. l’estensione dell’opposizione tra oppressore e oppresso a tutte le aree del vivere, che comportava il generalizzarsi di una cultura del sospetto, critica non solo di qualsiasi neutralità ma anche di qual­ siasi spazio specifico e separato per la conoscenza; iii. il passaggio alla rappresentazione di ogni società come somma di diversità ir­ riducibili, al prevalere della nozione etnologica di culture su quella classica e poi illuministica di cultura. i. In realtà, la critica dell’opposizione alta/bassa cultura era emersa già nei dieci-quindici anni precedenti il Sessantotto: con

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il gusto camp, i cui caratteri erano stati colti molto lucidamente già da Susan Sontag nel 1966; con la cinefilia che aveva rivalutato il cinema di genere; con le già ricordate aperture di Eco ma pri­ ma di lui di alcuni intellettuali americani nei confronti di media fino ad allora largamente disprezzati come il fumetto. Ma questo riorientamento del gusto assunse con i tardi anni Sessanta e con i movimenti giovanili alcune caratteristiche nuove. Prima di tut­ to, in origine non privo (anzi spesso carico) di snobismo, e quindi volutamente minoritario, si allargò poi a influenzare i consumi e le scelte di un’intera generazione, incontrandosi con un altro fe­ nomeno del periodo, questo a carattere più specificamente gene­ razionale, lo sviluppo del rock, di una “musica leggera” innovativa nei testi e nelle musiche: all’opposizione tra alta e bassa cultura si sovrappose così quella tra una cultura riconosciuta anche antropo­ logicamente come propria e una estranea, per quanto autorevole. Era l’inizio del processo che avrebbe portato ben presto ai fenome­ ni detti “di culto” e a una nuova forma fandom. In secondo luogo, il rifiuto della distinzione tra alta e bassa cul­ tura aveva o almeno dichiarava di avere una connotazione “di clas­ se”: il rifiuto di dequalificare quello che era amato e capito dalle grandi masse in nome di criteri che non potevano essere capiti se non da un ceto ristretto di chierici. In terzo luogo, il riorientamento del gusto assunse ben presto il carattere di un rovesciamento delle gerarchie costituite, la sop­ pressione di un canone che era assunto a simbolo non solo dell’élitarismo di una cultura per definizione borghese, ma anche del sistema universitario del sapere. Il "sottoproletario” Totò contro il cinema degli autori idolatrato dalla critica ufficiale e dai primi accademici della disciplina, la poesia di Dylan contro quella che si studiava a scuola. Il rovesciamento del canone sarebbe durato giusto il tempo per le discipline accademiche di riassorbire oggetti in precedenza emarginati, anche se ci sarebbero voluti quasi cinquant’anni per il Nobel a Dylan. Ma avrebbe ridotto o soppresso un compito fino ad allora essenziale dell’intellettuale umanista in particolare, quello di fare da giudice, di distinguere il grano dal loglio, in nome e per conto della cultura nel suo insieme. ii. Presa nel suo insieme, la cultura del Sessantotto intesa in senso etnologico può essere vista sotto il duplice segno della ribellione e

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del sospetto. Della ribellione, in quanto mirava a individuare in ogni situazione, dalla fabbrica alla scuola, fino al rapporto interpersonale (a cominciare dalla famiglia e dalla coppia) e all’interno stesso della persona, un conflitto, dichiarato o inconsapevole, tra soggetti op­ pressi e soggetti oppressori: padrone/operaio, professore/studente, padre/figlio, maschio/femmina, superego/es e a privilegiare il sog­ getto “subalterno” nella sua insorgenza contro la propria condizio­ ne. Era un modello semplificante e ripetitivo, ma anche per questo di grande presa; un modello tutto centrato sul soggetto e sulla rivol­ ta, rispetto al quale l’autorità era sempre sospetta di autoritarismo, le situazioni di pace erano sempre sospette di nascondere l’oppres­ sione, anzi peggio di favorire la loro accettazione. In questo conte­ sto, la parola stessa riforma divenne per diversi anni sintomo della volontà del potere di recuperare, o “integrare” il dissenso. Questo aggiungeva un motivo più profondo, di ordine antropo­ logico, alla critica contro le istituzioni del sapere. Ogni ricerca di verità condivise era per principio sospetta di ipocrisia (da parte di chi deteneva potere) e di complicità (da parte di chi fosse di­ sposto a riconoscerne la legittimità). In un simile contesto, non c era spazio per una figura di intellettuale per quanto impegnata e per quanto ripensata. Ancora una volta: solo la rinuncia, ai propri privilegi, al proprio potere, alla propria diversità, rendeva l’intel­ lettuale degno di partecipare al conflitto. iii. Nato come movimento generazionale, e quindi fondato su una differenza (quella di età) che la sinistra in precedenza non ave­ va mai considerato cruciale, il Sessantotto, italiano e internazio­ nale, si chiuse con la scoperta e l’insuperabilità di altre differenze, a cominciare da quel movimento nero americano che esercitò una considerevole influenza anche fuori del paese d’origine. La diver­ sità come identità e come ricchezza, il rovesciamento della ricerca pura e semplice di eguaglianza in una valorizzazione di ciò che non potrà mai essere uguale, avrebbero poi accompagnato l’emergere di movimenti, dal Quebec al paese basco, centrati sulla separazio­ ne, anche ma non solo politica, centrati sull’etnia come diversità insuperabile. Fino al passaggio-chiave, l’emergere della coscienza di genere, che fu l’esito più universale dei movimenti giovanili e ne segnò ovunque la fine. 11 Sessantotto, primo movimento politico a carattere origina­ riamente e spontaneamente planetario, fu anche quello che se­

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gnò la crisi dell'idea stessa di universale umano. L’egittologo Jan Assmann può aiutarci a capire il passaggio servendosi di alcuni concetti ripresi (e fortemente rielaborati) dai testi del pensatore Eric Santner, e contrapponendo il classico “universalismo" al nuo­ vo “globalismo”: Universalismo, nella visione comune, significa “validità universale di un concetto riconosciuto come verità assoluta” Il XVIII secolo, l’età illu­ ministica, fu un’epoca di universalismo. La ragione, la natura, la dignità e i diritti dell’essere umano furono proclamati verità universali. L’uni­ versalismo illuministico si scontrò con quello religioso, poiché entrambi ritenevano di basarsi sulla verità universale [...]. Definisco questo tipo di universalismo “esclusivo” perché la Verità [...] di cui esso promuove il valore universale non accetta compromessi. 11 globalismo, invece, è basato sull’idea che la Verità sia nascosta, ma che la sua ricerca accomu­ ni tutte le società e le culture umane, e che le differenze esteriori siano irriducibili ma traducibili.7

Questo passaggio cruciale ebbe inizio quando la componen­ te nera della nuova sinistra americana, dopo le grandi rivolte dei ghetti urbani (1964-67), dichiarò quella richiesta di diventare come tutti gli altri che era ancora leggibile nel celeberrimo “sogno” di Martin Luther King, sottolineando non solo la propria volon­ tà di autogoverno ma il proprio bisogno di valorizzare, in termini culturali politici e anche strettamente etnici, la propria diversità; quando dal “vogliamo essere come voi” si passò all’opposto, al "non vogliamo assolutamente essere come voi”. Fino all’esaltazione della differenza come principio politico, a cominciare dal femminismo. Da allora, l’universalismo illuministico e la tolleranza sono divenu­ ti anch’esso oggetto di sistematico sospetto, come la figura che ne incarnava gli ideali: l’intellettuale laico e capace di accogliere in sé la sofferenza ma anche la ricchezza culturale degli oppressi. Da allora, il ruolo dell’intellettuale come giudice, come capace di elaborare verità che andavano oltre la sua persona, come difen­ sore di soggetti altri da sé, che aveva accompagnato due secoli di storia europea, è venuto a perdere progressivamente, non solo di legittimità ma anche di senso. 7

J. Assman, Of Gods and Gods: Egypt, Israel, and the Rise of Monotheism, The University of Wisconsin Press, Madison, 2008, tr. it., Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, Bologna 2009, p. 82.

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3. Cinquantanni dopo Come molti momenti di passaggio storico di grande portata, il Sessantotto può essere paragonato a un punto in cui vengono a in­ crociarsi fino ad apparire quasi inestricabili, molti fili provenienti da momenti diversi del passato, e dal quale vediamo partire fili spesso irriconoscibili rispetto a quelli che vi sono confluiti, per­ ché diversamente intrecciati o apparentemente del tutto nuovi. In quest’ultima parte, molto sinteticamente, indicheremo tre dei "fili” che hanno attraversato la cultura e la questione degli intel­ lettuali, in particolare ma non solo nel nostro paese, nel periodo successivo alla fine degli anni Settanta. E che sono ancora con noi. i. Tra il dopoguerra e gli anni Ottanta, il peso degli intellettuali nella politica italiana non è stato certo ristretto al fenomeno, per quanto importante, dell’impegno e alla sua crisi nel Sessantotto. Il sistema dei partiti (quelli cosiddetti “di massa” ma anche quelli minoritari, dai liberali ai repubblicani) era radicato, nel paese e nei singoli territori, anche grazie a una serie di figure di media­ zione, che godevano di autorità per la loro capacità di aggregare e rappresentare interessi e realtà sociali, ma generalmente anche per un livello culturale superiore alla media. Era il ceto politico fatto di giornalisti, docenti, professionisti, bibliotecari, che costituiva l’innervazione territoriale della DC come del PCI o del PSI (ma mutatis mutandis anche del MSI), e dal quale venivano estratti i consiglieri e amministratori degli enti locali, i parlamentari, gli stessi ministri. A parte alcune ricorrenti tentazioni demagogiche, della destra ma anche di tanto in tanto della sinistra comunista, non esisteva in Italia, come del resto in generale in Europa, un fe­ nomeno paragonabile a quell’“anti-intellettualismo” che ha attra­ versato la cultura statunitense per secoli e che è stato descritto con la consueta lucidità da Richard Hofstadter in un libro uscito da noi proprio nel 19688. Le cose sono cambiate con ogni evidenza nel corso di quello che altrove ho definito “un ventennio a colori”9, quel periodo di incu­ 8 9

R. Hofstadter, Anti-lntellectualism in American Life, Knopf, New York, 1963; tr. it. di P. Bernardini Marzolla, Società e intellettuali in America, Ein­ audi, Torino 1968. P. Ortoleva, Un ventennio a colori: televisione privata e società in Italia (I975~95)> Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 1995.

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bazione dell’Italia berlusconiana che va da metà anni Settanta a metà anni Novanta. È in quegli anni che in un paese sempre più istruito si è diffusa la convinzione di non avere più bisogno di in­ tellettuali, e neppure di studiare ancora; che la pretesa superiorità delle persone di cultura fosse insieme elitaria e fasulla. E ha co­ minciato a serpeggiare l’idea, che è diventata senso comune con il nuovo millennio, secondo cui troppa istruzione servisse a ben poco: a "fabbricare disoccupati” che invece avrebbero imparato cose ben più utili dandosi da fare con le mani o con il commercio. C’è una continuità fra questo modo di pensare e la critica dell’in­ tellettuale che abbiamo visto espressa nel Sessantotto a comincia­ re dal testo di don Milani, oggi del resto oggetto di una curiosa “riscoperta”? Sono state dette diverse stupidaggini su Berlusconi “figlio del Sessantotto” e simili: la storia non procede in questo modo. Ma è vero forse che agli intellettuali accade oggi quello che secondo Tocqueville accadde all’aristocrazia francese: diventare oggetto di ostilità e dileggio proprio quando hanno perso il potere politico che avevano in precedenza; e proprio di questa perdita di potere abbiamo visto gli inizi nel paragrafo precedente. Nell’Italia attuale ne pagano il prezzo i ceti colti, a cominciare dai docenti delle elementari e medie. ii. In parte diverso il discorso per quanto riguarda l’università come istituzione: che dopo il Sessantotto ha visto una considerevo­ le crescita nei numeri (degli studenti, dei docenti, degli stessi ate­ nei) prima di essere vittime di una politica restrittiva che è troppo di attualità per soffermarci ora sul tema; senza subire quasi per niente i cambiamenti che i movimenti giovanili proponevano e minaccia­ vano. I baroni, neri, rossi e a pallini, hanno continuato a fare i ba­ roni; inclusi quelli di un colore tutto loro che vengono direttamen­ te dal Sessantotto e dai movimenti successivi. Perché l’istituzione nella quale i movimenti sono nati sia sopravvissuta al loro urto più di altre apparentemente più distanti, perfino l’esercito, è comples­ so anche se interessante da spiegare: non da ultimo perché come si è detto nella politica culturale del movimento la pars destruens prevaleva sulla costruens; ma anche per una politica di cooptazione operata dalle università (con particolare spregiudicatezza da quella italiana) nei confronti di una parte dei movimenti stessi. Ma la salvezza del sistema universitario è stata, almeno in parte, solo apparente. Uno dei processi che si sono imposti, soprattutto

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negli ultimi trent’anni, è quella che viene chiamata pomposamen­ te “crisi delle humanities”, ma che nei fatti è una progressiva perdi­ ta di rilevanza di quella parte del mondo degli studi, e che è l’altra faccia della perdita di autorità dei suoi esponenti. La dissoluzione dell’idea di una verità condivisa, la moltiplicazione dei soggettivi­ smi identitari, non sono prive di costi. Il che non deve essere causa di un atteggiamento nostalgico, ma di una riflessione critica. iii. Uno dei fenomeni più sorprendenti che stanno caratteriz­ zando la cultura umanistica negli ultimi decenni è il tono accen­ tuatamente etico, ancor più che propriamente politico, che viene assunto dai dibattiti. Più che di impegno si dovrebbe parlare di dichiarazioni di valori: una tendenza che è emersa chiara nella cultura comunista italiana negli anni Ottanta, con la scelta di af­ fidare l’identità del partito alla presunta diversità, morale appun­ to, rispetto alla corruzione che avrebbe caratterizzato l’alleanza di potere DC-PSI. Da allora gran parte dell’intellettualità di sinistra italiana ha assunto come elemento distintivo una pretesa superio­ rità di valori, dimentica del rischio di ipocrisia che pure (in questo la denuncia dei movimenti giovanili resta valida) è sempre in ag­ guato, negli atteggiamenti moralistici ancor più che nell’impegno. E dimentica di quanto sia facile, come denunciò a suo tempo da Rousseau, sentirsi a parole dalla parte del giusto per chi si limita a fare da spettatore. Anche nel dibattito internazionale il prevalere del giudizio etico sul ragionamento politico si fa pesantemente sentire in molta della riflessione umanistica: senza ripercorrere l’uggiosa polemica contro il cosiddetto “politically correct”, è innegabile il prevalere nei cul­ tural studies di interpretazioni che si vogliono sempre dalla parte dei più oppressi, non in nome di un progetto politico o dell’effettivo impegno in un conflitto ma della dichiararsi puramente e semplicemente contro l’oppressione. Il rovesciarsi della critica materialistica dell’intellettuale in legittimazione moralistica del post-intellettuale contiene forse, come le favole, una sua morale.

3IL TATUAGGIO DI MARADONA (E IL CORTOCIRCUITO DELL’IMPEGNO) Giacomo Manzoli

Non sappiamo se fu battezzato Numero Dieci già nel momento in cui venne alla luce, all’Evita Hospital di Lanùs, in un sobbor­ go di Buenos Aires, ma nella favela di Villa Fiorita capirono ben presto che il piccolo Diego Armando sarebbe diventato un grande calciatore. La leggenda narra che già a 12 anni deliziasse gli spet­ tatori della gloriosa squadra degli Argentines Juniors durante l’in­ tervallo della partita. Al posto delle classiche cheerleaders, bastava mandare al centro del terreno quel giovanissimo fenomeno e farlo palleggiare. I tifosi sugli spalti restavano esterrefatti e i quindici minuti della pausa passavano in un attimo. Questo per dire che quel ragazzino basso, magrissimo, con le gambe corte e tozze, era naturalmente dotato per il calcio in un modo che molti avrebbero definito sovrumano. Le acrobazie più impensabili gli riuscivano con una facilità disarmante. Proprio la facilità e la naturalezza erano il tratto distintivo del suo gioco e c’era da giurare che non avesse mai avuto bisogno di allenarsi. Cioè di dedicarsi, con fatica, perseveranza, disciplina, ad irrobustire il fìsico, diventare più agile, più resistente, migliorare la sensibilità, affinare il tocco, la precisione, come fanno tutti i giovani calcia­ tori del mondo, per i quali il talento è un prerequisito da affinare col tempo e la ferrea volontà (basta vedere Cristiano Ronaldo...). Maradona era Maradona e basta. Era più che sufficiente per essere considerato un predestinato. Le cose gli riuscivano come a nessun altro al mondo, senza nessun bisogno di impegno. Maradona gio­ cava, e tanto bastava. A tal punto che - dopo il trasferimento a Barcellona - in una celebre partita contro l’Athletic Bilbao, all’ennesima azione in cui l’attaccante argentino portava a spasso l’intera difesa avver­ saria, il roccioso terzino basco Andoni Goikoetxea si lanciò col piede a martello contro la caviglia del malcapitato, fratturandola

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in tre punti. Era il 24 settembre 1983 e il principio di realtà face­ va irruzione nella vita calcistica di questo folletto sudamericano, costretto per la prima volta a impegnarsi in una lenta e dolorosa rieducazione per poter tornare ai livelli di eccellenza precedenti airinfortunio. Sarebbe stata una parentesi, perché Diego Armando proprio in quel periodo iniziava quella carriera parallela di vizioso che avrebbe proseguito dopo il trasferimento a Napoli, tra cocaina, festini, amanti, amicizie pericolose e eccessi di ogni genere, che non gli impediranno di vincere due scudetti e un mondiale, gua­ dagnando contemporaneamente la reputazione di giocatore più bravo e meno disciplinato al mondo. Il suo corpo, chiaramente in sovrappeso, era la forma plastica della facilità con cui il talento può avere la meglio sull’impegno e avrebbe funzionato per circa un de­ cennio. Un decennio nel quale Maradona dette prova di praticare il disimpegno in tutte le sue forme. Disimpegno etico, segnando un celebre gol con la mano e festeggiandolo con iperbolica con­ tentezza; disimpegno politico, coltivando una sinistra amicizia col Presidente argentino Carlos Saùl Menem, che dopo aver festeg­ giato assieme al Pibe l’elezione del proprio delfino Fernando de la Rùa, darà un contributo fondamentale alla bancarotta del proprio paese. Erano gli anni dell’euforia economica, della parificazione fra il peso e il dollaro, dei celebri titoli argentini, che avrebbero ro­ vinato i risparmi di incauti investitori in giro per il mondo, attirati dal miraggio di soldi facili, soldi che arrivavano senza alcun impe­ gno come nel celebre episodio di Pinocchio. Ancora, è celebre il di­ simpegno fiscale di Maradona (condannato in Italia per evasione), il suo disimpegno nei confronti degli obblighi matrimoniali (con ripetuti flirt con varie attrici e soubrette) e di quelli paterni (nei confronti dei figli illegittimi, palesemente suoi e riconosciuti solo a seguito di sentenze del tribunale). Ebbene, ciò che rende questa storia esemplare è la sua magni­ fica ambiguità. Perché Maradona, nonostante tutto questo, viene descritto e interpretato - praticamente da subito - come eroe pe­ nalista, una sorta di simbolo naturale del riscatto dalla povertà, del Sud derelitto che si prende una rivincita sul Nord ricco e in­ dustrializzato, del Terzo Mondo che allunga la mano per ripren­ dersi ciò che i colonialisti cattivi avevano usurpato con l’arrogan­ za delle armi (le isole Falkland/Malvinas). Così, allo scadere del nuovo millennio, un Maradona stanco e malato, decide finalmente

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di smettere di lottare con questo stereotipo e di percorrere fino in fondo la strada della santità politica, forse nell’impossibilità di poter continuare a dare il cattivo esempio. Si fa tatuare sulla spalla l’effigie di Che Guevara, tuona contro la deriva commerciale della federazione calcistica internazionale (i suoi duelli con la sua ne­ mesi, il grande vecchio svizzero Sepp Blatter, segnano un decen­ nio), denuncia l’imperialismo americano di Kissinger in tutte le occasioni, si fa ricoverare a Cuba dove intraprende una fortissima amicizia con Fidel Castro e diventa infine ambasciatore nel mondo delle politiche socialisteggianti del bizzarro presidente venezuela­ no, il marxista Hugo Chavez. La metamorfosi è compiuta, e il processo di beatificazione trova momenti celebrativi di risonanza mondiale in alcuni oggetti che hanno una notevole circolazione nell’industria culturale globa­ le, dalla famosa canzone che lancia il cantautore spagnolo Manu Chao (Santa Maradona) al film del più famoso e controverso re­ gista serbo Maradona by Kusturica (2008), accompagnati da una serie innumerevole di omaggi musicali, letterari e televisivi. Non è certamente questo che intendevano con l’espressione “postmodern impegno” Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug', ma la parabola di Maradona in quanto icona-pop ha certamente una componènte postmoderna molto forte, la stessa che caratterizza la circolazione incontrollata di persone, prodotti culturali e discorsi, la cui biografìa culturale scivola dal frame dell’impegno a quello del "puro intrattenimento”, e viceversa, senza soluzione di continuità. Gli appassionati della versione italiana di X-Factor sanno bene quante volte uno dei giudici, il “cantautore impegnato” Manuel Agnelli, abbia stigmatizzato concorrenti colpevoli di fare musica commerciale o "fine a se stessa”, priva di impegno musicale o civi­ le, all’interno di un contesto che avrebbe dovuto mandare in crisi definitivamente la celebre distinzione fra "canzonetta” e "canzone intelligente” che aveva fino a qualche tempo fa mobilitato istitu­ zioni alternative, che si spartivano il palco in diretta contrappo­ sizione come Sanremo e il Premio Tenco1. E non è un caso che,12 1 2

Si veda l'introduzione del volume a P. Antonello, F. Mussgnug (a cura di), Postmodern Impegno: Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Peter Lang, Oxford-New York 2009, pp. 1-29. Si veda al riguardo il bel libro di Marco Santoro dedicato a questa istituzione, L'effetto Tenco: genealogia della canzone d’autore, Il Mulino, Bologna 2010.

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proprio sul palco di Sanremo, si sia consumata la conversione a personaggio "nazional-popolare" di un sofisticato comico toscano che risponde al nome di Roberto Benigni, il quale solo un decen­ nio più tardi avrebbe invertito la parabola per tornare ad essere il divulgatore della cultura impegnata, tra Lecturae Dantis in prima serata, interpretazioni in film d’autore e commedie impegnatissi­ me Sull’Olocausto, premiate con l’Academy Award. Infatti, uno dei più acuti e sensibili cantori della cultura dell’intrattenimento ita­ liani, il compianto Edmondo Berselli, lo inseriva fra le personalità di un milieu culturale italiano che aspirava ad essere radical-chic senza mai riuscire ad esserlo fino in fondo, condividendo il ruolo con figure come quella di Nanni Moretti (nato “nuovo comico’’ as­ sieme a Verdone o Troisi, e diventato punto di riferimento di una rinascita della "società civile” contro il degrado morale dell’Italia berlusconiana)’. E il discorso potrebbe continuare, convocando esempi a volon­ tà. L’impegno di Roberto Saviano, il giovane giornalista perse­ guitato dalla criminalità organizzata che finisce predicatore nelle messe che celebrano l’obsolescenza programmata di una sinistra nostalgica, condotte da Fabio Fazio, per poi diventare punto di ri­ ferimento dei talent show di Maria De Filippi, secondo un percor­ so che può stupire solo chi non si fosse reso conto che Fazio era prodotto dalla stessa Endemol del Grande Fratello. Del resto, un regista iconoclasta come Pablo Larrain aveva nel frattempo fatto pervenire una provocatoria lettura degli eventi che avrebbero por­ tato alla fine della dittatura di Pinochet, uno dei grandi bersagli della cultura dell’impegno italiana degli anni Settanta (e alla no­ stalgia di quella esperienza, non a caso, si è dedicato Moretti con il documentario Santiago, Italia). In pratica, in No - I giorni dell’ar­ cobaleno (2012), si sostiene che a indurre i cileni a votare contro il referendum che intendeva trasformare il dittatore in legittimo governante non sarebbero stati i richiami alle atrocità commes­ se e l’appello alla coscienza democratica (l’impegno della sinistra tradizionale), bensì una campagna pubblicitaria orchestrata da un giovane creativo cresciuto tra New Hollywood e MTV, il qua­ le spiega al suo popolo che Pinochet, negli anni Ottanta, sarebbe 3

E. Berselli, Venerati maestri. Operetta immorale sugli intelligenti d’Italia, Mondadori, Milano 2006.

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stato soprattutto vecchio e noioso e avrebbe costituito un freno alla modernizzazione del paese in senso commerciale e culturale. Ipo­ tesi non necessariamente vera ma tragicamente convincente, che si può leggere in due modi: uno apocalittico (il Cile rifiuta la ditta­ tura tradizionale per la dittatura del mercato, avendo completato la mutazione antropologica della maggior parte dei suoi cittadini) e uno integrato (la Coca-Cola, alla fine, propone un mondo più piacevole e allegro di quello di una sinistra impegnata che sa essere solo “triste e rompicoglioni”, come dice Checco Zalone col solito registro fra paradosso e verità che è la versione contemporanea del “ridendo castigo mores"). Ma, siccome tutto questo trova vasta eco nelle analisi di polemi­ sti e storici autorevoli, dal già menzionato Berselli che ha scritto un’ode alla bellezza dell’Italia pre-sessantottina4 a Marco Gervasoni, che invece ha spiegato come l’Italia del craxismo e dell’edo­ nismo reganiano sia stato tutt altro che un paese mancato, ma un luogo di fermenti creativi e un laboratorio di modernizzazione5, vale la pena recuperare i fili del discorso e provare a tratteggiare una sintetica genealogia dell’impegno nel campo culturale, pro­ vando a soffermarsi su come il sotto-campo cinematografico abbia cercato di adattarsi alle dinamiche in atto.

11 sociologo americano Paul DiMaggio ha ampiamente dimo­ strato come e perché, ad un certo punto dello sviluppo sociale di un Paese, si manifesta l’esigenza di elaborare delle forme cul­ turali alte - che richiedono competenza e sacrificio non comuni - e di creare tutte le istituzioni connesse6. In pratica, come una società diventa affluente, cioè sufficientemente ricca da garan­ tire una stabilità alle proprie classi sociali, l’aristocrazia econo­ mica, i ricchi, avvertono il bisogno di elementi distintivi che si­ ano capaci di legittimare la loro posizione anche sotto il profilo simbolico, in modo che il loro essere privilegiati (o dominanti che dir si voglia) diventi un habitus, per loro stessi ma soprat­ 4 , E. Berselli, Adulti con riserva. Com'era allegra l’Italia prima del Sessantotto, Mondadori, Milano 2007. 5 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010. 6 P. DiMaggio, Organizzare la cultura: imprenditoria, istituzioni e beni cul­ turali, 11 Mulino, Bologna 2009.

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tutto per coloro che si trovano nella poco appetibile posizione di svantaggiati o dominati. Naturalizzare la distinzione: a questo servirebbero le orchestre filarmoniche dove si esegue musica ve­ tusta o interminabili opere wagneriane. Per questo si studiano lingue morte e materialmente inutili78come il greco antico e il latino (per segnalare la distanza dal bisogno) nei college dell’Ivy League e per questo si fondano filodrammatiche che finalmente recitano Shakespeare per intero, restaurando quel gusto e quella lingua elisabettiani che suonano incomprensibili e noiosissimi per quella massa di spettatori che non possiedano gli strumenti e la disposizione necessarie ad assorbirli, gli stessi che godevano dei digest shakespeariani, i mash up di “essere o non essere” e “perché sei tu, Romeo" che potevano essere apprezzati perfino dai frequentatori dei saloon del selvaggio West® Stiamo esagerando, per ragioni di sintesi, ma ciò che Di Mag­ gio racconta, analizzando la nascita di teatri e musei in città come Boston, Chicago e Philadelphia, in parallelo alla nascita delle ri­ spettive aristocrazie, sembra dimostrare una dinamica che in Eu­ ropa aveva impiegato secoli a delinearsi con tanta chiarezza e che si sarebbe manifestata in modo molto irregolare a seconda dei di­ versi contesti nazionali e delle traumatiche relazioni fra Stati. In generale, la contrapposizione che sia negli USA sia in Europa si manifesta fino all’avvento su scala globale della cultura di massa, è inscrivibile nello schema del rapporto bourdesiano che da sempre la cultura alta intrattiene con quella bassa o popolare, e la questio­ ne dell’impegno come lo conosciamo appare poco rilevante o del 7

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Siamo perfettamente consapevoli che c’è una vasta scuola di pensiero in base alla quale lo studio di queste lingue avrebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo e culturale degli studenti, secondo la celebre sen­ tenza secondo cui "aprono la mente”. Ma, a parte l’esperienza diretta di chi scrive, non vi è alcuna prova scientifica minimamente sensata che lo studio del latino e del greco "apra la mente” più dello studio del tedesco, del russo e del cinese. Siamo quindi costretti - fino a prova scientifica contraria - a rubricare queste argomentazioni fra la superstizione e la propaganda dei depositari della cultura classica. In pratica, sono discorsi che partecipano del processo di legittimazione e di riproduzione dell'ordine simbolico e sociale esistente nel quale rientra lo studio di queste stesse lingue. Al riguardo, in campo cinematografico, si veda l’ottimo W. Uricchio e R. Pearson, Reframing Cultures. The Case of the Vitagraph Quality Films, Princeton University Press, Princeton 1993.

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tutto secondaria, perché definisce l’impegno concreto dell’appren­ dimento di strumenti specifici di comprensione di linguaggi obso­ leti (la cultura classica) o dotati di un altissimo livello di astrazione (le avanguardie: del resto a nessuno sarebbe venuto in mente di definire Man Ray un artista impegnato). Le cose cambiano con il coincidere di due eventi correlati: l’av­ vento dell’industria culturale moderna e quello delle comunica­ zioni di massa, che è uno dei presupposti del primo fenomeno. 1 minatori ci sono sempre stati, ma quando Stork e Ivens ripren­ dono semiclandestinamente le miserabili condizioni di vita del Borinage e Pare Lorenz quelle dei contadini del Midwest, quelle immagini fanno il giro del mondo e producono delle conseguenze. In parole povere, sono influenti, ma lo sono perché si vendono, sono capaci di “bucare lo schermo” e farsi strada nel rumore di fondo altissimo che la produzione sterminata di immagini stava iniziando a determinare. Era già accaduto con le immagini della Rivoluzione d’ottobre veicolate da Vertov, Ejzenstejn e compagni e sarebbe accaduto a maggior ragione con il Neorealismo. Ogni povertà e ogni dramma satura in fretta la sensibilità degli spetta­ tori e deve essere rimpiazzata da altre vittime, ma almeno per un periodo può avere la capacità di imporre la propria carica sensibile alla società dello spettacolo. E se già Carlo Emilio Gadda ammoni­ va contro il registro plumbeo e il tono “asseverativo" del Neoreali­ smo9, è pure vero che quelle immagini dimostrano neH’immaginario collettivo di intere generazioni di spettatori globali “l’esistenza dell’Italia” (come ebbe a dire Fredric Jameson10). Aggiungiamo il successo delle formulazioni teoriche di Adorno e Horkheimer, perfette per offrire un palliativo al trauma di una trasformazione antropologica effettivamente in atto, ed ecco che l’impegno inizia a manifestarsi con tutta la sua potenza riparativa. A mano a mano che aumenta la percentuale di popolazione che gode dei benefici del benessere e che la società del Paese si trasfor­ ma sempre più nella direzione del cosiddetto “imborghesimento” (e la accezione negativa con cui il termine viene comunemente 9 10

C.E. Gadda, in C. Bo (a cura di), Inchiesta sul neorealismo, Medusa, Torino 1951, pp. 49-50. F. Jameson, Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, Donzelli, Roma 2003.

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usato persiste ancor oggi, con straordinaria tenacia"), sembra che emerga sempre più prepotente sia la necessità di distinguersi dal famigerato “uomo medio” sia di sentirsi buoni, di avere la coscien­ za pulita a fronte della palese ingiustizia di trovarsi nella parte pri­ vilegiata del contesto sociale nazionale e di quella superprivilegia­ ta della popolazione mondiale. Insomma, l’impegno sembra essere una commodity simbolica di prima necessità, e l’industria culturale se ne appropria con la consueta intelligenza e cinismo, realizzando una serie di cortocir­ cuiti semplicemente strabilianti. Parliamo di Gianni Morandi che - dopo essersi fatto mandare dalla mamma a prendere il latte ed essersi prostrato in ginocchio da te - tuona contro la guerra del Vietnam. Di Caterina Caselli che - dopo aver candidamente di­ chiarato di essere bugiarda - interpreta la prima versione di Dio è morto, producendo un paradosso talmente stridente che la canzo­ ne viene immediatamente riposizionata su interpreti e arrangia­ menti più credibili (la barba di Guccini rispetto al caschetto della simpaticissima cantante). Ma parliamo di tutte quelle manifesta­ zioni della moda dell’impegno che segnano in modo determinante il periodo post-sessantottino, che si apre con un inno all’anarchia e al disimpegno (“la fantasia al potere”, gli strawberry fields e gli yel­ low submarines...) e si trasforma negli eskimo, nelle classi operaie che devono andare in paradiso, nella lotta armata che avrebbe do­ vuto portare un paese che si struggeva per Raffaella Carrà, Renzo Arbore, Renato Zero e Kabir Bedi alla rivoluzione proletaria. La storia è nota ed era già stata ampiamente individuata da Eco ai tempi di Apocalittici e integrati. Come tutto ciò che finisce nel geniale frullatore dell’industria culturale - dal quale nessuno può sfuggire, pena l’irrilevanza - anche l’impegno subisce quel proces­ so di progressivo spostamento verso il centro del campo che ne mina le basi dalle fondamenta. Dovendo parlare di postmoder­ nità, difficile non includere gli esperimenti formidabili di gente come Francesco Rosi o Gillo Pontecorvo. Ma non era tanto il parla­ re di mafia, di camorra, di stragi di Stato, di colonialismo, quanto il modo di farlo a rendere il gesto pregnante e l’impegno efficace. Opere aperte, canoni sospesi, gesti avanguardisti, finzione e realn

D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia: 1860-1989, Laterza, Bari-Roma 1991.

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tà fuse assieme, pretesa di oggettività e tendenziosità, estetismi spudorati ma geniali, capacità di clamorose aperture spettacolari e utilizzo dei generi in chiave fortemente innovativa. Le ragioni per cui sono stati “film impegnati” oggi è difficile perfino ricordarle: resta il piacere di guardarli perché sono film bellissimi. Come del resto i film della cosiddetta nouvelle vague finché si è considerata un'avanguardia di cui era difficilissimo trattare le coordinate poli­ tiche. Non così quando si sono precisate e hanno preteso di entra­ re nell'agone dell’impegno, sortendo effetti a dir poco deludenti e film che oggi possono essere usati solo per introdurre le procedure distintive di cui si è detto anche nel campo cinematografico (come ha ampiamente chiosato Michel Hazanavicius nella graffiarne commedia II mio Godard (Redoubtable, 2017), dove viene ritratta una figura che oscilla costantemente tra genialità e cialtroneria ogni volta che decide di passare dalla coltivazione del proprio ta­ lento a improbabili istanze etiche e politiche.

Che poi l’impegno diventi un fatto significativo in campo ci­ nematografico è un paradosso nel paradosso, se è vero, come am­ piamente affermato da Adorno stesso, che si tratta del luogo per eccellenza di affermazione strutturale dell’ideologia dell’industria culturale, delì’instupidimento, del crollo di tutte le barriere fra in­ telligenza e idiozia, fra cose serie e cose frivole che contraddistin­ gue l’epoca che da oltre mezzo secolo definiamo postmoderna. Ma è un paradosso facilmente comprensibile se proviamo a te­ nere assieme le considerazioni precedentemente esposte. Meno l’impegno diventa impegnativo, meno strumenti e meno sacrifici comporta, più può essere serenamente speso con facilità a X-Factor o ad Amici di Maria De Filippi, due contesti di geniale applica­ zione di tutti gli strumenti più sofisticati dell’industria culturale contemporanea (dove tutti sono estremamente impegnati a realiz­ zare un prodotto di grandissimo appeal, dunque efficace). Letta in questa chiave, la persistenza e la resilienza del concetto di impegno in ambito artistico farebbe perfino simpatia, legandosi alla necessità di giocare le carte che si hanno in mano da parte di piccoli campi sempre più marginali e autoreferenziali (che lo usa­ no per giustificare la propria sopravvivenza, legata in genere a isti­ tuzioni e finanziamenti pubblici che devono pur sempre avere un alibi pur essendo evidentemente un fatto clientelare) o di grandi

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conglomerati che lo usano come un ingrediente placebo, un anti­ doto a quello che rischia a volte di essere percepito dagli spettatori come un surplus di frivolezza e “intrattenimento" Quello che preoccupa è la dimensione culturale e politica del fenomeno. Da una parte, la concatenazione di una serie di equiva­ lenze che proveremo a spiegare in maniera estremamente sintetica per dar conto delle conseguenze politiche del problema: l’impe­ gno è cultura, l’impegno è gravità, l’impegno è distinzione. Ergo, l’impegno è tipica espressione paternalista, noiosa, elitaria, di chi ritiene di avere una missione, di poter salire su una cattedra e spie­ gare - nel migliore dei casi con l’esempio, nel peggiore a parole, con la forza apotropaica delle intenzioni - come salvare il mondo, presupponendo di conoscere le cause dei mali e le loro soluzioni. Un’infinità di discorsi sono stati spesi su questi temi, e il cinema ne è stato certamente un veicolo privilegiato, da Sullivan’s Travel alle Vacanze intelligenti, passando per il già citato Checco Zalone fino al Maccio Capatonda di Italiano medio, il cui protagonista ingerisce una pillola che gli consente di usare solo una porzione minima del proprio cervello e riscatta una vita di isolamento e fru­ strazione, arrivando a conquistare una infinità di traguardi prima negati. Ma anche fino al Dov’è Mario? di Corrado Guzzanti, la mi­ niserie con cui il talentuoso autore di Fascisti su Marte imperso­ na il prototipo dell’intellettuale di sinistra colpito da una forma di schizofrenia che lo conduce - dal proprio lussuoso salotto e dal proprio pulpito - ai palcoscenici della comicità più becera, dove si appaga la cosiddetta “pancia del paese”. Ancora, ovviamente, non possiamo non citare uno dei maggiori successi della stagione cinematografica 2018, Come un gatto in tangenziale, di Riccardo Milani, nel quale Antonio Albanese interpreta il prototipo dell’in­ tellettuale politicamente e socialmente impegnato nel recupero architettonico e sociale delle periferie, il quale va in cortocircuito quando la figlia adolescente si innamora di un ragazzino che non condivide le frequentazioni parioline e le vacanze a Capalbio ma vive in un quartiere degradato e ne condivide i valori e le manie­ re. Costretto a scendere a patti con la disposizione e le pratiche di quella misere du monde (per dirla alla Bourdieu) che si era im­ pegnato a “riscattare”, il personaggio in questione dovrà abban­ donare le proprie pose e il proprio idealismo, dopo aver dovuto ammettere che il proprio impegno era soprattutto una questione

G. Manzoli - Il tatuaggio di Maradona

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di design (secondo la definizione di Fedez e J-Ax, contenuta in una canzone che può essere considerata una sorta di manifesto per il superamento del concetto di impegno e del sistema che ne deriva: Comunisti col Rolex). ^Nonostante tutto questo e molto altro ancora, il sistema dell’im­ pegno non sembra aver definitivamente esaurito il proprio poten­ ziale economico e sociale, e continuano a scattare, nella mente di numerose tipologie di soggetti, riflessi condizionati legati a diffe­ renze antropologiche di gusto, a pretese di superiorità ontologiche fra diverse serie culturali, a superiorità morali di vario tipo, legate a pratiche apparentemente distinte e in realtà del tutto assimila­ bili, a meccanismi di profilazione dal quale nessuno dei moderni consumatori culturali può ritenersi estraneo, per quanto ritenga di esercitare un libero arbitrio assoluto nelle proprie scelte e di es­ sere il sovrano del proprio “senso critico”. Invece, a dispetto della frequenza con cui questo principio viene chiamato in causa, l’at­ titudine a smontare i processi, guardarci dentro e farli scorrere su binari differenti sembra essere ancora assai poco praticata in un paese che ha inventato Gramsci, lo ha lasciato morire in carcere e quindi ne ha fatto un feticcio ideologico, laddove in altri contesti hanno cercato di usarlo per costruire sistemi culturali che - nelle politiche pubbliche e nelle relazioni - si sono impegnati a pren­ dere un po’ meno sul serio questa vuota retorica e questa dittatura dell’impegno. Naturalmente, come detto, le cose sono più complesse di così: non sono affatto mancati, anche a sinistra, coloro che hanno pro­ vato ad andare oltre, rivalutando il disimpegno, la trasgressione, separando il concetto di emancipazione dalla gravità cui l’abbrac­ cio mortale del retaggio religioso lo ha ancorato. Né sarebbe giusto restringere il discorso all’Italia, laddove un po’ in tutti i paesi, a vario livello, agiscono meccanismi assimila­ bili, dal Kulturstaat tedesco ai finanziamenti pubblici stratosfe­ rici che i paesi del Nord Europa, in primis la Francia, attribuisco­ no al cinema e alla produzione artistica in genere, considerata a volte come un surrogato del welfare12. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. 12

D. Haselbach, A. Klein, P. Knùsel, S. Opitz, Kulturinfarkt. Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura, Marsilio, Venezia 2012.

TRA GIROTONDI E VAFFANCULO CERAVAMO TANTO IMPEGNATI Luca Mastrantonio

Il mio intervento percorre in entrambi i sensi un binario, forse morto, forse solo messo male. Gli intellettuali al cinema e il ruo­ lo dei registi nella cosiddetta società civile. Come vedete, siamo già in zona Nanni Moretti - o Gigi Marzullo, scegliete voi. Scrivo “cosiddetta” società civile perché di civile trovo molto poco in una società a irresponsabilità illimitata fatta da intellettuali e altri "in­ fluencer” che solleticano la pancia di una folla digitale e non solo. Ho in mente una carrellata di scene dentro e fuori lo schermo che possono fotografare quella che definirei la nostalgia isterica che oggi abbiamo per il ruolo degli intellettuali del passato. O l’idea che ce ne siamo fatti. Pier Paolo Pasolini su tutti. Intellettuale che nell’opinione comune, tra volumi sussiegosi e dibattiti sui social network, aveva previsto praticamente tutto. In realtà, a sentire chi lo ha studiato approfonditamente, come Walter Siti, il poe­ ta friulano non azzeccava le sue profezie: siamo noi che, ex-post, abbiamo adeguato al massimo la realtà alle sue analisi. I profeti, i predicatori ci piacciono, finché non ce ne stanchiamo. Dentro di noi abbiamo un deserto. Nel deserto ci sono i profeti, ci fanno sentire meno soli. Chiariamo subito una cosa. Non rimpiango la torre d’avorio (che oggi sarebbe buona per un bed&breakfast radicai chic) e da giornalista e curatore di pagine culturali, dai tempi del Riformi­ sta al “Corriere della Sera”, dove dal 2011 al 2015 ho lavorato alla progettazione e realizzazione della Lettura, l’inserto culturale del­ la domenica, sono spesso stato un canale di committenza per gli intellettuali che animano i dibattiti sui giornali. Ho lavorato un paio di anni ai Commenti, al primo piano di via Solferino, il piano cosiddetto nobile dell’edificio storico del Corriere della Sera. Dalle scale dell’ingresso al corridoio vicino alla direzione, si squaderna un album di foto di illustri collaboratori: ecco, qui dopo lo sguardo

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indagatore di Pasolini mi rifugio nel viso pacioso di Ennio Flaiano, c’è invece un Italo Calvino che fa un safari con delle luci e del­ le ombre da David Lynch. Negli anni precedenti al mio arrivo al Corriere, ho lavorato a un libro che è un docu-film di denuncia, Intellettuali del piffero, un titolo che è già un programma, ma in realtà il programma non l’ho scelto io, l’hanno firmato col sangue e svolto molti degli intellettuali italiani attivi nel ventennio a cavallo del millennio, dagli anni Novanta a quelli Zero e i primi degli anni Dieci'. La tesi, in estrema sintesi, è che il ruolo degli intellettuali sia stato recentemente quello di ritagliarsi un ruolo. 11 loro scopo è vivere, anzi, sopravvivere. Poi, fare filosofia. Perché? In assenza di vecchie strutture e committenze come i partiti o certe istituzioni, che davano all’intellettuale j mezzi di sostentamento e di comunicazione per esercitare il suo/ruolo - un ruolo più o meno organico, una organicità su cui scherzava Leo­ nardo Sciascia, che fa pensare al letame, diceva - l’accesso a questi mezzi è diventato il fine di molti intellettuali senza più chiesa. Il mezzo dunque è il fine. Accedervi per esistere. Alcuni intellettuali di oggi, in realtà di ieri e dell’altro ieri, sono dinosauri che vogliono sopravvivere alla loro estinzione, resistere un secondo in più del loro ex-padrone (sia l’Università che li manda in pensione, sia Ber­ lusconi editore, ma non apriamo questo vaso di Pandora, che poi diventa la notte della Repubblica in cui tutte le vacche son nere). Altri, più giovani, sono anfibi, e non necessariamente migliori di quelli che li hanno preceduti. Basti un nome su tutti: Diego Fusaro, che ha fatto così tante capriole da far impallidire Aldo Palazzeschi, che però definiva il poeta come saltimbanco non per incensarne le doti ginniche, ma quasi per elevarne l’umiltà imprevedibile al ser­ vizio dell’anima. Fusaro mette la sua anima al servizio di un pen­ siero che con il governo Cinque Stelle-Lega è dominante. E pure Mauro Corona, l’alpinista-scrittore che strizza l’occhio a Matteo Salvini, poi prende le distanze, e per qualche anno ha convissu­ to in tv con Bianca Berlinguer inscenando siparietti da commedia dell’arte. Ma torniamo allo specifico filmico dell’intellettuale. Non si può non citare l’intellettuale interpretato da Stefano Sat­ ta Flores in Ceravamo tanto amati, del 1974, di Ettore Scola - un 1

L. Mastrantonio, Intellettuali del piffero: come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Marsilio, Venezia 2013.

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imbalsamatore di tipi umani, da salotto e terrazze, come appunto gli intellettuali. Nicola, uno dei tre amici che si reinseriscono nella vita civile dopo l’esperienza partigiana, torna a fare il professore al liceo di Nocera Inferiore. Gioca sul nome, “inferiore”, dice che si chiama così per i suoi concittadini, appunto inferiori. Lui, invece, si ritiene la voce critica, la coscienza di questa comunità - ovvia­ mente l’ha deciso lui, secondo quel tipico meccanismo intellettua­ le dell’auto-incensamento. Per fortuna, diciamo con un cinismo comunque inferiore al suo, c’è la censura democristiana. E lui può diventare un intellettuale scomodo, venendo cacciato per i suoi ci­ nefonim sui film neorealisti, come Ladri di biciclette (1948). I pan­ ni sporchi, com’era? Si lavano in famiglia, diceva Giulio Andreotti, prima di venire centrifugato dal Toni Servillo ne II Divo (2008) di Paolo Sorrentino. Il film Ladri di biciclette, che Nicola conosce alla perfezione, se­ gnerà anche il fallimento del suo riscatto nazional-popolare, quan­ do partecipa a Lascia o raddoppiai e si perde in digressioni assurde al posto di rispondere semplicemente sulla pellicola (che quindi la De non vedeva di buon occhio ma nei quiz veniva riesumato). Ma veniamo alla tirata isterica di Nicola sull’intellettuale, su quello che rivendica di essere. Forse la citazione più celebre che da quel film si può ricavare sul tema degli intellettuali. A Roma, Nicola incontra Antonio, interpretato da Nino Manfredi, e gli urla: "No, tu non puoi essere d’accordo con me, non basta essere proletari, l’intellettuale è più avanti, è più su, è più giù, egli è irraggiungibile, egli è più oltre”. E Antonio, con il nichilismo ornano già cronico allora, lo irride: "Oh... a più oltre! Che sei venuto a Roma per litiga­ re?”. Peggio si sente Nicola: “Guai a chi mi dà ragione!”. E Antonio chiude: “Ma chi te la dà! Guai ai matti, dico io”. Ecco, l'intellettuale dovrebbe sapere difendere le ragioni di chi ha torto. Perché? Per­ ché in genere le sedie della ragione vengono tutte occupate. Ma teniamo questa buona espressione dal retrogusto cripticamente sgrammaticato. Perché l’intellettuale si sente migliore degli altri, migliore persino dei migliori - come Elio Vittorini si sentiva e certo intellettualmente era migliore del Migliore, quel Togliatti con cui polemizzò rivendicando di non voler suonare il piffero alla rivoluzione. E dunque l’intellettuale si sente più migliore. Che no si può dire, non tanto per la grammatica, ma perché davvero poi George Orwell scotenna ancora i maialini della sua Fattoria degli

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animali. Anche perché in Italia piace il profeta, forse per retaggio cristiano-cattolico. L’intellettuale è un piùioltrista. Uno degli "piuoltristi" per eccellenza è stato Pasolini, soprattutto nella visione che gli altri hanno avuto di lui. Qui rubo la citazione di Adorno dal saggio di Peppino Ortoleva, perché può forse rappresentare come l’intellettuale, Pasolini, fosse “nemico” della borghesia, ma in fondo fosse uno degli “ultimi borghesi”2. Penso ai celebri jeans Jesus con­ tro cui sul Corriere della Sera si scagliò lo scrittore. In quell’articolo Pasolini inizia, difendendola di fatto, con la stroncatura de "L’Os­ servatore Romano” nei confronti di questa pubblicità che faceva mercimonio di un comandamento. Lui parte quasi difendendo il linguaggio sacrale che viene profanato dalla pubblicità. Però poi nei servizi giornalistici lo vediamo in un total Gucci, in posa in un sa­ lotto borghese. Contraddittorio? Certo, lui contiene moltitudini. La scissione dell’io junghiana... Abbassiamo il ditino e mettetevi in fila, e il capofila è Pasolini, sempre consapevole del suo contraddirsi. Pubblicamente Pasolini prendeva delle posizioni sorprendenti, spiazzanti, anche allucinanti se vogliamo dirla tutta. Di fatto, oc­ cupava con grande istinto di auto-valorizzazione uno spazio libe­ ro. In un certo senso, si posizionava molto bene, in termini di mer­ cato. Anche se molte di queste posizioni erano da conservatore, se non reazionario: come il suo no all’aborto e al divorzio, o la famosa poesia in difesa dei poliziotti proletari, vero e proprio manganel­ lo poetico dato in mano alla destra. Ma la posizione che Pasolini occupava era frutto del suo lavoro culturale e artistico: oggi non è così, alcuni facendo gli intellettuali impegnati non mettono in pegno il valore delle loro modeste opere, ma ottengono un credito di attenzione a perdere, che spesso non ripagano. Anzi, producono cattiva letteratura, cattivo cinema, godendo dell’indulgenza che il loro impegno produce. Tutto questo si è perso negli ultimi anni, con la crisi economica e con il fallimento di un’intera classe intel­ lettuale che ha difeso in maniera grottesca quel criminale comune, poi politicizzatosi, di Cesare Battisti, elevandolo a rango di intel­ lettuale, lui e quei suoi libracci che ha scritto per mitologizzare la sua carriera di bandito. 2

Cfr. il saggio di Peppino Ortoleva, infra; T. W. Adorno, Minima Moralia: Reflexionen aus dem beschàdigten Leben, tr. it. di R. Solmi, Minima mora­ lia: meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 20.

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Il posizionamento, sui mass media di ieri come sui social di oggi, spesso vasi comunicanti, è fondamentale per gli intellettuali oggi. Anzi, il riposizionamento. Cito due esempi dello scorso ven­ tennio. Gianni Vattimo. È diventato comunista dopo che è caduto il Muro di Berlino, come ha scritto in Ecce comu\ Perché? Ecco, si erano liberate le sedie del comunista, per i talk show, e lui doveva sedersi. Semplicistico? Din-don, siamo a Porta a Porta? No, ma poco ci manca, il manuale Cencelli dentro e fuori la tv ha pagato a lungo (forse paga tuttora). Un altro caso interessante è Pietrangelo Buttafuoco che, quando intervista Norberto Bobbio - in un articolo molto bello uscito sul Foglio nel 1999 - si trova a rispondere a una domanda dell’intervistato: "Ma Lei, perché Lei è fascista?”, e Buttafuoco gli dice “ma, se io devo dirgliela confidenza per confidenza, non è che sono fa­ scista”. E fa capire che il suo è un siciliano gioco delle parti, per stanare i pregiudizi. Insomma, se non vi piace Luigi Pirandello di­ ciamola con Jessica Rabbit: non è colpa mia se mi disegnano così. Vattimo e Buttafuoco, è chiaro, usano con diverse intelligenze e furbizie le rovine dei grandi racconti caduti per costruirsi nuovi altarini personali. Serve un comunista gay? Benissimo. Manca un intellettuale pro-Castro? Ecco, Vattimo, aggiudicato. Obiezione: ma Castro perseguita i gay! Sì, ma non le star. E poi Vattimo è tol­ lerante verso gli omofobi, se gli torna comodo. E ancora: serve uno di destra dopo che sono stati sdoganati gli ex fascisti? Colto, che magari ha anche un apertura verso il mondo islamico? Buttafuoco! L’abilità logistica è importante. La fortuna di Pasolini intellet­ tuale è stata proprio nell'abilità di sguazzare nelle contraddizioni, spiazzare gli avversari. Ad esempio: scrivere sulla stampa borghese pezzi contro la cultura borghese. Ma fondamentale era anche la mitopoiesi del suo stile: il “palazzo” come metafora del potere che piace tanto oggi agli anti-casta, o la “scomparsa delle lucciole” per indicare un tempo che non c’è più, un tempo e un luogo, l’Italia edenica prima dell’industria e dello smog, i cui prati più o meno incontaminati frequenterà con spericolatezza, fino all’epilogo in tragedia, a Ostia. Quanto nel 2009 Beppe Grillo se la prende con gli intellettuali contemporanei, cita come grande del passato Paso­ lini, di cui posta anche un file audio - la voce ipnotica di Pasolini, 3

G. Vattimo, Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era, Fazi, Roma 2007.

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assieme al volto scarnificato, uno degli elementi che lo fa apparire "profetico” - e dice che Pasolini avrebbe fatto a pezzi con un suo articolo Berlusconi, che chiama “psiconano”, perché ha una sua particolare mitopoiesi anche Grillo. Mi rendo conto che è subdola questa mossa obliqua su Pasolini. Ma non puoi prenderlo frontalmente, stroncarlo impunemente. È un santino di laici e cattolici, comunisti e non, omosessuali ed etero. C’è poi chi sceglie il giorno e il canale sbagliato e fa il kamikaze, come Gabriele Muccino, che per i 40 anni dell’omicidio Pasolini ha scritto delle parole pesanti come un SUV sul martoriato e imbalsa­ mato cadavere dello scrittore. Ecco Muccino il 3 novembre 2015 su Facebook. Sa di scrivere qualcosa che "suonerà impopolare e forse chissà, sacrilego? Ma per quanto io ami Pasolini pensatore, giorna­ lista e scrittore, ho sempre pensato che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un ‘non’ regista. Uno che usava la mac­ china da presa in modo amatoriale, senza stile, senza un punto di vista meramente cinematografico sulle cose che raccontava, in anni in cui il cinema italiano era cosa altissima, faceva da scuola di po­ etica e racconto ‘cinematico’ e cinematografico in tutto il mondo”. Si può condividere o meno il giudizio di Muccino. Ma almeno ha il merito di portarci al punto. Quale? Quello del valore vero del “re­ gista impegnato”. Ho cercato, se c’era nei trend di Google, la locu­ zione "regista impegnato”, e latita. Abbonda invece nei libri, scritti da autori impegnati, ovviamente dagli anni Sessanta a oggi - anche se, diciamo, in maniera altalenante, il calo dopo l’ingresso negli anni Ottanta è abbastanza evidente. Ma in realtà anche l’etimolo­ gia dell’“impegno” che viene dal francese, engagé, che è l’ingaggio, in italiano. È l’ingaggio, che è la paga del soldato, che l’ingaggiarsi o l’impegnarsi, venire impegnato. Qui serve un salto indietro nel tempo, ma fondamentale. E appunto, quando nasce l’intellettuale moderno, nel 1898, quando Émile Zola scrive il famoso “J’Accuse!” su L’Aurore per denunciare il complotto ai danni del militare ebreo Dreyfus. Periscano le mie opere, dice, se Dreyfus, è colpevole. Ecco, questo è il nocciolo dell’impegno: mettere in pegno il valore delle tue opere, che devono dunque avere un valore, a garanzia di quello che dici fuori dal tuo settore di pertinenza. In questo momento primigenio dell’intellettuale, direi aurorale, è che si palese l’altra caratteristica, fraintesa, dell’intellettuale. Con Zola, scrittore che si dedica a un caso giudiziario-politico, nasce

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l’intellettuale moderno come colui che si occupa di altro, quasi estraneità dell’intellettuale fosse la garanzia maggiore della libe­ ralità del suo pensiero, della sua posizione: se non ha secondi fini, di visibilità o di interessi specifici, è più libero, onesto, credibili: erano altri gli scrittori che in difesa di Dreyfus studiavano le carte, come direbbe Roberto Saviano, nell’“io so, io ho le prove” che ha creato una sorta di evoluzione di quel celebre articolo “Il romanzo delle stragi” di Pasolini (uscito sul Corriere della Ser), che però lo scrittore campano ha aggiornato focalizzando sulla testimonian­ za, facendo credere, in una auto-fiction letteraria, di essere addi­ rittura testimone diretto di quello che racconta. E allora. Che film mettono in pegno i registi impegnati di oggi? Nanni Moretti oggi mette in pegno La stanza del figlio (2001)? O II Caimano (2006)? Davvero, quanto valgono rispetto a Ecce Bombo (1978), Bianca (1984), Palombella rossa (1989) e soprattutto Cario diario (1994)? Aprile (1998) sembra un sequel, ma questo lo devo­ no dire i critici cinematografici, lo posso annotare che ad un certo punto Moretti ha disaccoppiato la sua visione, che prima era più efficace nel mescolare privato e pubblico, personale e politico: ora ciò che è personale e intimista è da una parte, dentro i film, e ciò che è politico ha avuto sfogo in piazza con i giro-giro-tondi, casca il mondo, casca la terra e casca il centro-sinistra. Del Caimano vale la pena ricordare che la parte migliore del film, il finale, quando Moretti tira fuori il suo odio per Berlusconi e gli dà livido corpo interpretandolo, preconizzava una rivolta al palazzo di Giustizia per una condanna a Berlusconi. Ma non è andata così. E il proble­ ma non è se Moretti ci abbia preso o no, a livello narrativo - allo­ ra il suo sceneggiatore Francesco Piccolo con il pontefice che dà le dimissioni in Habemus papam (2011) ben prima della scelta di Raztginer è un mago! - ma quanto valore all’impegno politico può dare a Moretti II caimano? Questo è stato comunque un momento topico di questo percor­ so dell’impegno “oltre”. Facciamo una prova del nove. Chi ricorda una frase tratta dai film di Moretti successiva a Caro diario o Apri­ le? Non molti, credo. Mentre è facile ricordare le frasi di Moretti nell’intervento a Piazza Navona, quasi un “meme”, si dice oggi, fra­ si tormentone, virali. “Non vinceremo mai con questa classe diri­ gente" e “non perdiamoci di vista”, per esempio, sembrano uscite dei suoi primi film dove “le parole - sapete già cosa dirò - sono

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importanti” Ecco, ho l’impressione che Moretti ha scaricato la sua vena politica-linguistica in piazza più che in macchina da presa­ curioso. Dopo il discorso di Piazza Navona, del 2002, sceso dal palco, Moretti si trova incontro un uomo che praticamente fa una fan fiction e lo rimprovera: “Bene, bene, facciamo come Tafazzi, facciamoci del male”. Insomma, chi di morettismo ferisce, di morettismo perisce. Anche perché i leader indicati da Moretti sono andati malissimo. Poi, i ripensamenti. Piazza Navona, come altre piazze, verrà presa dalla società incivile, dei vaffanculo, a completare la regres­ sione delle persone che dovrebbero guidare il popolo verso sorti migliori di quelle attuali. A Roma nel 2013 in piazza Giovanni c’è l’apoteosi del grillismo. Se Berlusconi, come è stato detto prima, ha messo a frutto e ha colto una eredità del Sessantotto - c’è un libro di Magrelli, il Sessantotto realizzato da Mediaset, uscito da Einaudi, che racconta bene come alcuni obiettivi del ’68 abbiano trovato la loro piena realizzazione nella stagione televisiva, non politica, berlusconiana - Grillo sembra mettere a punto un al­ tro passaggio: quello dalla satira all’informazione, dalla comicità all’impegno4. Come Marco Travaglio, che nel 2001 presenta L’odo­ re dei soldi contro Berlusconi da Daniele Luttazzi, in Rai, e i due si scambiano quasi di ruolo, certo invertono il registro: il giornalista fa battute ed è antifrastico, il giullare coprofìlo si fa serio. Come Berlusconi era re e giullare, Grillo è viceré e clown. Nel nome dal sapore chiaramente anti-pinocchiesco, e nel come lo interpreta, cantando come una cicala atomica, Grillo è la nemesi del tipo di intellettuale sognato per decenni dagli intellettuali organici ita­ liani, come Alberto Asor Rosa. L’intellettuale dal nome palindromo, e non solo, ne parla ne II grande silenzio degli intellettuali5. Un interessante e un po’ parados­ sale libro-intervista uscito da Laterza nel 2009 e scritto da Simo­ netta Fiori in 140 pagine. Sì, un silenzio di 140 pagine. Rumoroso no? Chiaro, si voleva far sentire. Asor Rosa dice - come ha detto più volte anche Umberto Eco, tutti grandi maestrini di coscienze 4

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V. Magrelli, // sessantotto realizzato da Mediaset: un dialogo agli inferi, Einaudi, Torino 2011. A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Laterza, Roma-Bari 2009.

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altrui - che l’intellettuale è come il Grillo parlante dice le cose sco­ mode, parla contro il potere, che ha una funzione pedagogica, che non lecca i piedi. Capito? Asor Rosa, noto rivoluzionario di strada, verrebbe da ironizzare, viste le celebri lotte intestine all’università la Sapienza che lui ha animato e hanno rovinato la Facoltà di Lette­ re e Filosofia. Ma anche altri, più giovani, e già tromboni, lasciano i giornali, con cui dicono di non voler collaborare perché i giornali informano, se va bene, mentre loro vogliono formare gli italiani. Meglio la scuola, dove parli dalla cattedra naturalmente. A me la cosa inquieta, perché informare bene è così difficile sui giornali, soprattutto oggi con la disintermediazione dei mezzi: l’idea di vo­ lere anche formare mi fa rabbrividire. Comunque, il Grillo parlante, ahinoi, è arrivato, il Beppe Gril­ lo urlante, alla guida di un esercito di locuste con citazioni cine­ matografiche che non vanno dimenticate, perché in fondo è una grandissima storia d’amore, di un transatlantico che sappiamo tutti com’è andata. È qui citerei Dino Risi: c’è una bella intervista del 2007, sul film Scemo di guerra (1985), dove recitano tra gli al­ tri Grillo e Coluche, il comico francese che scenderà in politica e, probabilmente, ha ispirato Grillo. Risi, al “Corriere”, racconta di un Grillo che recitava malissimo, nel film, mentre gli sembra che il Grillo politico “ora recita benissimo”, perché ai tempi “non era mai interessato a questi temi”6. Cambiare idea va benissimo, i com­ puter ieri erano il male assoluto oggi sono il bene assoluto: però insomma questa assenza di linea politica gli permette di cambiare posizione e opinione su tutto, raccogliendo gli scontenti di vari ba­ cini elettorali, da sinistra a destra. Passiamo all’attore impegnato? Direi di tralasciare gli attori italiani che in attesa del prossimo casting, o con il film in uscita, firmano appelli, gridano contro il potere dai palchi del nuovo po­ tenziale potere o ritirando un premio, fa molto chic. Sto un po’ ge­ neralizzando, ma si sentono davvero un po’ troppo tutti come Jean Marie Volonté, anche se non hanno avuto ruoli e non hanno un talento interpretativo come l’attore francese. Parliamo allora di un 6

A. Frenda, Dino Risi: Il film con Beppe? Era scarso in “Corriere della sera", 19 settembre 2007, online: https://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2oo7/o9_Settembre/i9/frenda_dino_risi_beppe_grillo.shtml [ultimo accesso: 30 giugno 2019].

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grande attore americano e di una grande figuraccia globale, recen­ temente. Di recente abbiamo visto cosa può produrre una cattiva interpretazione dell’impegno, o forse nuda e cruda ci è stata mo­ strata la vanità di chi crede che per il semplice fatto di impegnarsi in qualcosa ci si possa definire un attore impegnato. Sean Penn. L’attore americano - uno che ha suonato il piffero alla rivoluzione di Hugo Chàvez come il nostro Gianni Vattimo e altri che non ve­ dono i disastri del socialismo in Venezuela - era convinto di poter contribuire alla lotta al narcotraffico e ai luoghi comuni andando a intervistare il latitante El Chapo, un tipo non proprio con le mani pulite, per "Rolling Stone”. Umanizzandolo, in realtà, perché gli fa da domande personali, gli stringe la mano, fa la photo opportunity. Risultato? Grandi polemiche e molta visibilità. Ne ha avuta tan­ ta Sean Penn, e tanta El Chapo. Chi ne ha avuta di più? Chi ci ha guadagnato? Di sicuro l’azienda della camicia che aveva addosso El Chapo, ha venduto moltissimo. Jorge Volpi, uno scrittore mes­ sicano, ha scritto che Sean Penn si è prestato al fotoromanzo di E1 Chapo, l’ha umanizzato, sfamando la sua vanità. Debolezza che, per altro, ha portato poi all’arresto del boss che aveva contattato produttori, registi e attori per far fare un film sulla sua vita. Agio­ grafico, ovvio. Ognuno in queste storie ci trova quello che cerca. Saviano, per esempio, su Facebook ha scritto: ‘‘Colleghi messicani mi hanno detto che c’era una copia di Zero zero zero nella stanza dove c’era El Chapo, e forse lo stava leggendo perché voleva sa­ pere cosa io avessi scritto di lui”. Nel fotoromanzo del Chapo c’è spazio dunque anche per il product placament. Ecco una variante esistenziale dell’impegno Saviano è sempre un intellettuale impe­ gnato, anche quando dice quanto gli piace la mozzarella di bufala. Perché ha messo in pegno la sua vita, andando contro i poteri cri­ minali della sua terra. Per la verità delle sue parole garantiscono le minacce che ha ricevuto. L’intellettuale impegnato, lo scrittore impegnato, il regista im­ pegnato, lo scrittore impegnato - declinate pure al femminile se preferite: la intellettuale impegnata... Ma quelli che non hanno granché da mettere in pegno? Cosa fanno allora? Speculazione. Rapine. Figuracce. E qui chiuderei con una scena de I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli - sto citando solo commedie, un moti­ vo ci sarà? Sono un comico? Sono impegnato anch’io? La scena della rapina di Cosimo al monte dei pegni è eloquente riguardo il

L. Mastrantonio - Tra girotondi e vaffanculo

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concetto di impegno, il “mettere in pegno”. C’è Cosimo che va a ra­ pinare la banca con una pistola sotto il giornale e quando la fa sbu­ care, sigaretta in bocca, aria da gangster dice: “La conosci questa?” La pistola è lo strumento della rapina, ma l’impiegato non capisce l’antifona e prende tutto alla lettera: "Sicuro che la conosco, è una pistola Beretta, ma in cattivissime condizioni” e gli propone mille lire. Cosimo trasecola. Lo strumento della rapina, con cui vorreb­ be ottenere più di quello che può avere, i soldi, diventa oggetto, al ribasso, di un pegno. Interdetto, Cosimo se la riprende e se ne va. Si tratta di una gag involontaria, ma che rappresenta bene, cre­ do, la confusione tra impegno e valore, tra mezzo e fini, tra espres­ sione e ricezione: quante battute sono prese per profezie? Quante profezie hanno poi fatto ridere? In questi vent’anni più che una so­ cietà civile abbiamo avuto una società dell’avanspettacolo, ripeto, una società a irresponsabilità illimitata, perché i danni culturali, etici e morali degli arlecchini al potere sono stati enormi. Poi, cer­ to, c’è chi si è divertito, e tanto, in questo teatro da avanspettacolo, in questo cabaret. Il Cabaret Zola. Ah. Ricordate come finisce il film I soliti ignoti? La banda è ormai allo sbando, si dileguano tut­ ti, nella folla, e Giuseppe (Vittorio Gassman) e Capannelle (Carlo Pisacane) si mescolano a dei disoccupati in cerca di lavoro giorna­ liero, per sfuggire ai carabinieri: Capannelle fa in tempo a dire a Beppe di non andare, che lì è pericolo, perché “lì ti fanno lavorare sai?” Ecco, a volte fare l’intellettuale impegnato è sempre meglio che lavorare (non vale solo per i giornalisti questo detto snob).

5L’ENGAGEMENT DELLA FORMA/ LA FORMA DELL’ENGAGEMENT Vito Zagarrio

L’intento di questo saggio è di ragionare sulle molteplici possi­ bili declinazioni della nozione di “impegno" nel nuovissimo cine­ ma italiano. Un impegno che sta in alcune tematiche ricorrenti, da quella deH’immigrazione a quella della diversità, da quella del gender a quella della periferia; un impegno che sta nel cosiddet­ to “cinema del reale”, che sta in uno “sguardo” e in una posizione morale dei cineasti; un impegno che sta nella ricerca di un’“etica dell’estetica” nel nuovo millennio, quella che io ho definito in più occasioni, con un omaggio a Truffaut, una “certame tendance” del cinema italiano. Vorrei partire da una serie di riflessioni che ho fatto in un’occa­ sione recente. Mi sia consentito di riferirmi al Roma Tre Film Festi­ val: alcuni suoi fili rossi portano a pensare proprio al tema propo­ sto in questo saggio, declinabile in modi molto diversi'. Vediamoli: Un discorso sulle migrazioni, nell’ambito di una “call4ideas” dell’Ateneo Roma Tre; il ricordo di un Maestro scomparso; l’omag­ gio a un grande, anziano regista; le master classes di due cineasti emergenti o emersi dalla fucina del nuovissimo cinema italiano. Questi fili rossi erano volutamente costruiti per coniugare infor­ mazione e spettacolo, per indagare sulla politicità del cinema e le sue possibili declinazioni. “Immaginari della migrazione globale: identità, cittadinanza, interculturalità, intermedialità” è il titolo del progetto biennale che ha avuto nel festival il suo incipit e che ha proposto appunta­ menti importanti: convegno, tavole rotonda, proiezioni, incontri con gli autori. La tavola rotonda (il titolo “Sono forse io il custode di mio fratello?” è una citazione dalla Bibbia) ha visto come magi

Giunto alla sua XIV edizione (Roma, 6-12 maggio 2019), il RM3FF, da me ideato e diretto, e si svolge al Teatro Palladium.

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giore protagonista Daniele Gaglianone, di cui si è potuto vedere il film Dove bisogna stare (2018). I film presentati, oltre a quello di Gaglianone, sono stati A me resta la speranza! di Virgini Bar­ ret (2018), La libertà non deve morire in mare di Alfredo Lo Piero (2018), e Ibi (2017), recente documentario di Andrea Segre, uno dei filmmaker più rilevanti del panorama cinematografico italiano in genere, e in particolare di quel “cinema del reale” che ritiene in­ dispensabile una riflessione sulle grandi migrazioni, insieme a un tentativo di impegno militante nella società. Il titolo del film di Gaglianone, firmato con Stefano Collizzolli, è una chiara dichiarazione di intenti: da che parte deve stare il cinema, da che parte dovremmo stare noi, spettatori spesso in­ differenti di fronte ai drammi universali che ci si prospettano? Co-prodotto dalla ZaLab di Segre, è la storia di quattro donne ita­ liane impegnate nell’accoglienza dei migranti in varie parti d’Ita­ lia, al Nord come al Sud: Lorena, pensionata di Pordenone, che aiuta un gruppo di pakistani nascosti in rifugi di fortuna, Elena, in un paese vicino della Val di Susa, che ospita un ragazzo che ha attraversato a piedi nudi sotto la neve la frontiera, Jessica, che è tra i responsabili di centro sociale a Cosenza, ed Elena, a Como, che fornisce informazioni pratiche agli immigrati e cerca lavoro e ospitalità per loro. È un film che pedina la vita quotidiana di queste quattro donne di varia estrazione, collocazione geografica ed età, con la camera che cerca il più possibile di scomparire per offrire scampoli di vita “reale". Il film di Segre è un’operazione molto interessante, leggibile sot­ to molti registri, che racconta la storia di Ibi, una donna del Benin approdata in Italia, dove viene arrestata per essersi prestata a fare il corriere della droga, e in carcere impara l’arte della fotografia. Da qui la nascita di un talento e di un mestiere che vede Ibi impegnata a fotografare le varie comunità, a inventare fotomontaggi, a diven­ tare personaggio noto nelle chiese di varia fede, dalla cristiana alla musulmana. Il tutto nello sfondo di Castel Volturno, in Campania, un luogo ricorrente dei film italiani contemporanei; una location ormai mitica e simbolica, evidentemente perché ricca di senso e di esperienze umane. Ma soprattutto Ibi diventa una bulimica del video, riprende e si riprende, colleziona ore ed ore di home movies. E alla fine si ammala, e muore. La festosa ricostruzione di un per­ sonaggio amato precipita nel dramma, che viene rivissuto emoti­

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vamente dal nuovo compagno della protagonista. Ci sono, come si vede, tutti gli ingredienti di una piccola ma intensa opera che mescola film civile con melodramma, metalinguaggio e reportage, film su uno spaccato sociale e film di gender, storia, cornò, di una donna forte e divertente, talentuosa e irriverente. Segre e i suoi collaboratori (soprattutto il direttore di fotografia/operatore Mat­ teo Calore, che co-firma anche l’idea) hanno buon gioco a mettere le mani sullo sterminato materiale filmato da Ibi. Nell’ambito della stessa linea di discussione - seppur molto di­ verso esteticamente - è A me resta la speranza!, il docufilm scritto e diretto da Barrett e un crudo reportage sugli sbarchi e sulle morti dei migranti nel canale di Sicilia. 11 cortometraggio usa a piene mani materiali della polizia di stato sui salvataggi - o i mancati sal­ vataggi - dei migranti al largo delle coste siciliane. Il foundfootage abbonda di cadaveri, di immagini strazianti di pianto e di sangue. 11 filo di fiction, invece, è dato da un lungo monologo di una don­ na africana (interpretata da Marcia Sedoc), che recita i momenti drammatici vissuti sul barcone maledetto. Terribile l’immagine che chiude il film, con una turista che fa jogging tra i cadaveri. For­ se noncurante, forse indifferente, forse inconsapevole o semplicemente non in grado di cambiare passo, di fermare la sua corsa, di pensare per un attimo. Anche la docu-fiction di Lo Piero, La libertà non deve morire in mare, si muove su terreni simili. Si basa su tre fili narrativi: una sorta di linea poetica, con voce fuori campo recitata dallo stesso regista, che segue i passi di Giacomo, un vecchio pescatore di Lam­ pedusa; una serie di interviste a personaggi lampedusani (com­ preso il dottor Bartolo già protagonista Fuocoammare di Rosi e Eurodeputato dal 2019) sui drammi dei migranti; e un vasto mate­ riale documentario, sia di repertorio che girato dal filmmaker, sui salvataggi in mare. Il film di Lo Piero si propone dichiaratamente come l’anti-Fuocoammare (che viene citato da Bartolo nel filma­ to), attaccando l’uso strumentale - e autoriale - fatto da Rosi su immagini e problematiche che andrebbero trattate - secondo il regista - in modo politicamente più corretto. Certo che dal punto di vista della "forma della messa in scena”, il film di Rosi, pluripremiato nel mondo, non ha paragoni con il docu-fiction di Lo Piero, o con operazioni similari, se si accetta - come io accetto - l’ibrida­ zione tra messa in scena e film di documentazione. È proprio sulla

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linea estetica, e su quella autoriale, che vanno secondo me fatte le distinzioni valoriali. Ma il problema è complesso, a seconda che lo si veda dal punto di vista della correttezza rispetto al soggetto migranteo dal punto di vista del senso e dell’emozione. Rientra in questo filo rosso di riflessioni sulla grande migrazione il documen­ tario di Claudio Giovannesi Fratelli d’Italia (2009), che ha segna­ lato il giovane regista prima del successo di Ali ha gli occhi azzurri (2012), Fiore (2016) e La paranza dei bambini (2019). Un film e che parla di immigrati della seconda generazione e che ha costituito l’incipit ad Alì. Si tratta, come si vede, di esempi diversi di come si può interve­ nire sui materiali dell’immaginarìo, se la parola “rappresentazio­ ne” può oggi dare fastidio. Materiali dove il “femminile” emerge con forza, nella storia delle quattro donne di Gaglianone, o nella fotografa sui generis di Segre. Certamente “al femminile” è rincontro che il festival ha propo­ sto con Laura Bispuri, una delle registe emergenti del panorama italiano contemporaneo, già autrice di Vergine giurata (2015), oltre che di cortometraggi vincitori di David di Donatello e di Nastri d’argento. Il suo secondo film, Figlia mia (2018), è un film forte­ mente “politico”. Lo è nei contenuti e nella forma. È la storia di due donne, Tina (Valeria Golino) e Angelica (Alba Rohrwacher), che si contendono una figlia; adottata e cresciuta dalla prima, ma partorita dalla seconda. Due madri e una figlia che si contendono una bambina, in una sorta di duello rusticano sullo sfondo di un altro paesaggio-personaggio, quello di una Sar­ degna forte e deserta. L’idea del duello porta a pensare al western, che infatti è una dei generi che - forse inconsciamente - emerge dal film (che comincia ad esempio con un significativo rodeo); il western si mescola col melodramma e il film civile, visto che l’ambiente sociale è quello delle classi sociali più basse, e a volte di un lumpenproletariat (di cui fa parte Angelica, che campa di espedienti, facendo lavoretto al mercato del pesce). Forte presen­ za del paesaggio e ruvida recitazione al femminile sono certamen­ te le connotazioni importanti di un film attento alla realtà socia­ le. Ma l’elemento “politico” del film irrompe soprattutto nell’uso della macchina da presa: l’uso del piano sequenza, ad esempio, che impone una riflessione sul linguaggio cinematografico e sul valore etico dell’inquadratura. Una capacità di framing che Laura

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Bispuri sembra avere connaturata, e che permette alle tre attrici (le due madri e la bambina) di muoversi liberamente nello spazio, provocando emozioni. Una forte posizione politica, che torna anche nello stile del sopra citato Giovannesi. La master class del regista de La paranza dei bam­ bini, premiato per la sceneggiatura a Berlino 2019, dimostra quanto la consapevolezza della retorica filmica sia importante per una posi­ zione del regista rispetto al cinema e alla società. Si vedano i lunghi piani sequenza di Ali ha gli occhi azzurri e di Fiore, che permettono all’autore di ragionare sullo spazio e sul tempo filmici, e allo spetta­ tore di compiere un proprio viaggio all’interno della scena. Come si vede, una politicità della messa in scena caratterizza la nuova generazione del cinema italiano. Ma il festival ha proposto il confronto coi Maestri delle generazioni precedenti: Bernardo Bertolucci, da poco scomparso, e Citto Maselli, veterano di tante battaglie ideologiche. Di Bertolucci si è parlato a lungo, in occasione di una proiezione in pellicola di Strategia del ragno (1970); poche settimane prima si era potuta vedere al cinema Palladium di Roma una copia di Prima della rivoluzione (1964). Due film che non hanno bisogno di ulte­ riori spiegazioni sulla politicità del cinema del regista di Parma, dal punto di vista del plot, dal punto di vista della Storia e da quello del racconto filmico, del directorial work. Citto Maselli, invece, è un veterano del cinema e della politi­ ca: collaboratore di Antonioni e di Visconti, ha esordito con film come Gli sbandati (1955), / delfini (i960), Gli indifferenti (1964); ha consegnato alla storia opere come II sospetto (1975), che ha avuto il coraggio di riflettere sul comuniSmo e sulle sue ambiguità. Ha firmato piccoli capolavori come Storia d'amore (1986), film che ra­ giona su ceti sociali e su personaggi (quello femminile della giova­ nissima Valeria Golino su tutti). Ha realizzato, ormai in tarda età, film “giovani" come Cronache dal terzo millennio (1996) e Le om­ bre rosse (2009), lucide analisi delle mutazioni ideologiche nell’e­ tà del postmoderno. A omaggiarlo, al teatro Palladium, cera molto cinema italiano, a partire Paolo Taviani, un regista che di “cinema politico" se ne intende. In onore di questo anziano combattente vorrei aggiungere un titolo: 25 Ottobre 2014, un film collettivo ideato e coordinato da Maselli, un documentario realizzato in occasione della grande

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11 sistema dell’impegno nel cinema italiano con temporaneo

manifestazione organizzata dalla CGIL il 25 ottobre del 2014, ap­ punto, contro il "Jobs act” proposto dal governo Renzi2. Una ma­ nifestazione cui partecipa un vasto pubblico, non solo quello che si identifica col "sindacato”, e con quello storico sindacato della sinistra. Nonostante l’inevitabile rischio di retorica, il film messo insieme dal gruppo di "Cinema per il cambiamento” tocca delle corde profonde, anche per il modo sapiente della sua messa in sce­ na: un montaggio ben fatto che costruisce una storia, l’uso della musica che fa della manifestazione di piazza una sorta di musical della sinistra, il ricorso a slogan estetico-ideologici inediti. Ope­ razione nostalgica vetero-comunista o esempio di “impegno post moderno”3 paradossalmente declinato da un esperto navigatore della Politica?

Forma vs contenuto Ragionare suir“impegno” impone di ragionare sull’estetica. Se dovessi schierarmi oggi di fronte alla vecchia querelle tra "forma” e "contenuto”, sarei senz’altro a favore della "forma”. La tesi di questo saggio, dunque, è che il cinema sia tanto più “politico” quanto più è alto il suo progetto estetico-stilistico. Sto provando a dimostrar­ lo prendendo come area di studio il cinema italiano contempo­ raneo, prodotto da generazioni diverse. Mi permetto - anche in questo caso - di riferirmi qui a due volumi in cui sono intervenuto con due saggi sul tema Cinema & Politica. Uno è il libro curato da De Biasio e Viganò e dedicato ai Film Studies, l’altro è quello curato da Lombardi e Uva dedicato all’ Italian Politicai Cinema4. Si tratta 2

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11 documentario è prodotto da "Il cinema per il cambiamento", ed è diretto da Giorgio Arlorio, Gioia Benelli, Giovanna Boursier, Marco Dentici, Sa­ bina Guzzanti, Fabiomassimo Lozzi, Cecilia Mangini, Tomaso Mannoni, Francesco Maselli, Sara Olivieri, Moni Ovadia, Enzo Rizzo, Nino Russo. P. Antonello, F. Mussgnug (a cura di), Postmodern Impegno: Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Peter Lang, Oxford-New York 2009. Cfr. V. Zagarrio, Cinema e Politica, in E. De Biasio, A. Viganò, (a cura di), / film studies, Carocci, Roma 2013, pp. 159-173; Id., The “Great Beauty” or Form is Politics, in G. Lombardi, C. Uva (a cura di), Italian Political Ci­ nema. Public Life, Imaginary, and Identity in Contemporary Italian Film, Peter Lang, Berna 2016, pp. 119-130.

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di una relazione complessa, in cui gli stessi due concetti di base ("cinema” e "politica”) sono tutti da ri-definire, alla luce delle mu­ tazioni del nuovo millennio. Se le parole “cinema” e "film” devono essere ridiscusse sulla base delle grandi rivoluzioni del digitale e dell’immaginario, anche la parola “politica” è ambigua. Che vuol dire, applicata aH’immagine in movimento? Vuole significare una lettura politica e ideologica del film? Vuole allargare la nozione alla politica culturale e ai modelli produttivi-ideologici in una data epoca? Vuole concentrarsi, come sembra tornare alla moda negli studi teorici, sullìmpegno, sulla militanza, come facevano gli in­ tellettuali engagés degli anni Sessanta-Settanta (ma già anche, pur in schieramenti opposti, negli anni Trenta e Quaranta)? Oppure Politica significa, rispettando l’etimo e tornando ad Aristotele, un più ampio rapporto con la società che porta a dire che tutto è “po­ litico”, poiché riguarda il cittadino e l’essere umano? Sono politici i prodotti audiovisivi che trattano un tema sociale? Oppure lo sono anche opere che possono essere interpretate (ma solo dal punto di vista soggettivo dell’analista) come fatti politici o eventi capaci di influenzare la società e la politica stessa, seguendo le teorie dei rapporti tra cinema e storia? Vale la pena, pur nel nuovo millennio, rileggere ancora le osser­ vazioni di Gramsci, quando sosteneva che un’opera d’arte, quan­ do è davvero arte, è sempre “rivoluzionaria”5. Si tratta, è vero, di categorie oggi discutibili: che vuol dire “arte”, che vuol dire “vera” arte, che vuol dire “rivoluzionario”? La formula di Gramsci rischia la semplificazione di una lettura crociana di superfìcie, ma l’idea è molto chiara: quando un testo tocca una corda artistica, quando fa scattare quel misterioso “declic” che fa fare i conti - ad analista e spettatore - con il concetto di "bello”, ebbene lì accade un momen­ to di "rivoluzione”. Parafrasandola, dico che l’Arte (quando è tale, e qui si apre evidentemente una questione sull’estetica che ci por­ terebbe lontano) è sempre “politica”, influisce - anche a dispetto dell’Autore o del Sistema produttivo - sulla società, sulla cultura, suH’Immaginario, sulle coscienze e sulle intelligenze. Erano, del 5

Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007. Si veda anche A. Gramsci, Critica letteraria e linguistica, Lithos, Roma 1998, e le osservazioni di Marx e specialmente di Engels: cfr. K. Marx, F. Engels, Scritti sull'arte, Pgreco, Roma 2012.

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resto, osservazioni che faceva già Ejzenstejn a proposito dell’in­ quadratura fìlmica, o del montaggio conflittuale6, le cui rivoluzio­ ni linguistiche vanno di pari passo con la rivoluzione sociale. E c’è poi una rivoluzione tecnologica (quella auspicata e intuita dallo stesso Ejzenstejn), quella oggi rappresentata dal digitale, che per­ mette di postulare un contro-uso della tecnica rispetto alle con­ venzioni acquisite e sedimentate. Mi tornano in mente, ad esempio, le parole di un vecchio Ma­ estro del cinema, Vittorio De Seta che, presentando il suo ultimo film, Lettere dal Sahara (2004), teorizzava la scelta del digitale come presa di posizione contro l’ideologia dominante, rappresen­ tata dai codici e dai modi di produzione in qualche modo “imposti" dall’industria hollywoodiana. Quell’ultimo film di uno dei grandi Autori del documentario è un film ideologico in quanto dedica­ to allo “sguardo dell’Altro”, la rappresentazione dell’immigrato da parte del cinema contemporaneo, ma è anche uno statement im­ portante su come un linguaggio “altro” (sia dal punto di vista della grammatica che della tecnologia) sia anch’esso fortemente “poli­ tico”: la macchina leggera, il low budget e la low definition sono una risposta decisa a codici sedimentati, a loro volta “imperialisti­ ci”. Chi ha detto che carrello, dolly, establishing shot, master shot, campo/controcampo e coperture relative siano l’unica soluzione grammaticale, solo perché è la sintassi che ha vinto storicamente? E questa la provocazione di De Seta, che il sopra citato Ejzenstejn avrebbe senz’altro condiviso.

Il “visionarismo” come posizione politica

Il cinema italiano degli anni duemila ha prodotto alcuni testi “inquietanti”, capaci di toccare alcune corde della società contem­ poranea - e dei conflitti dell’animo umano oggi - anticipando gli eventi della Storia. Lo ha fatto attraverso quelle geniali intuizio­ ni che spesso hanno i geni e gli artisti, o magari solo per qualche fortuito capriccio del caso; ma in tutti i modi il cinema è riuscito a “prevedere” gli eventi della società e della politica. Il Caimano 6

Cfr. Antonio Somaini, Ejzenstejn, Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011.

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(2006) di Moretti anticipa la condanna definitiva di Berlusconi; Habemus Papam (2011) dello stesso Moretti anticipa in modo sor­ prendente le dimissioni di Papa Ratzinger; Viva la libertà (2013) di Andò esce in contemporanea con - ma la sua ideazione e pro­ duzione evidentemente anticipano - il vuoto di potere del PD e con la sua vocazione allo hara-kiri politico. Si tratta di tre film che intuiscono, con quel misterioso rovello dell’arte, lo “stomaco” della società italiana, ne tastano il polso e ne colgono prima degli osser­ vatori specializzati le profonde contraddizioni. Insisto sull’idea di “anticipo". Non si tratta di film che documen­ tano o denunciano la situazione in atto, come molti film "civili” degli anni novanta e duemila: penso a seri Autori, soprattutto della generazione più anziana, come Ferrara (Guido che sfidò le brigate rosse, 2007) o Montaldo (L'industriale, 2011); a registi di generazioni più e meno giovani che hanno spesso "civettato” - per usare il termine marxiano - con la rappresentazione della politica e dell’ideologia, come Placido (Il grande sogno, 2009) o persino Muccino (Come te nessuno mai, 1999); ma anche ad altri film dello stesso Moretti (come La cosa, 1990, ed Aprile, 1998). Alcuni film piuttosto geniali, invece, “prevedono” la Storia, la prefigurano, la mettono in scena con inquietante - appunto - verosimiglianza. Una veridicità che si può solo misurare ex post. Ebbene, sono testi che riescono in questo paradossale anticipo della Storia grazie alla loro "visionarietà”. De II Caimano ho già scritto in varie occasioni che l’elemento che lo rende atipico ed intrigante - ed alla fine premonitore - è proprio l’elemento onirico7. Il film non è (solo) un film su Berlu­ sconi, né è (solo) un film “civile”. Certo, Berlusconi ne è il prota­ gonista assoluto, e viene rappresentato con ben tre personaggi che ne assumono il ruolo; e certo il film è una satira feroce Sull’Era di Berlusconi e sul suo “geniale” inventore (inquietante la scena in cui una valigia zeppa di soldi “cade dal cielo”). Ma II Caimano è qual­ cosa di più. È un film visionario, che non concede allo spettatore di seguire una "logica” narrativa, che procede per ellissi e pergiustap7

Rimando a V. Zagarrio, L'incubo, ilfilm nelfilm, in “Il Ponte”, n. 7, 2006, pp. 149-152; Id., Il cinema italiano esiste. E non versiamo lacrime di Caimano, in “Il Ponte”, n. 12, 2006, pp. 131-137; e Id., (a cura di), Lo sguardo morale. Nanni Moretti, Marsilio, Venezia 2012.

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posizioni a volte forzate di toni e di situazioni. È un film sul sogno, anche se esso slitta facilmente nell’incubo. È un film sul cinema, una riflessione sui suoi generi e sulle sue capacità mitopoietiche. Un film sul “perturbante”, soprattutto per il suo impianto onirico, per la sua sceneggiatura apparentemente fratta, ellittica, un testo che punta sull’irrealismo, o meglio sull’iperrealismo, se non sulla favola pura. Il film appare genialmente anticipatore dopo la con­ danna di Berlusconi da parte della Cassazione nell’estate del 2013. Quella donna che incarna la Boccassini assomiglia terribilmente alle giudici-Erinni che condannano il Cavaliere per Vaffaire Ruby. E d’altra parte quella scena del presidente della giuria (interpretato dallo sceneggiatore Stefano Rulli) che scivola sulle scale del tri­ bunale, minacciato dalla folla dei manifestanti pro-Caimano, l’ab­ biamo vista in qualche modo ri-messa in scena nella protesta dei parlamentari forzisti contro i magistrati sulle scale del tribunale di Milano. Nel caso di Habemus Papam, la preveggenza è ancora più radicale: come aspettarsi una mossa senza precedenti moderni come le dimissioni di Benedetto XVI dal ruolo di Pontefice? Mo­ retti, evidentemente, ha colto un disagio della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; ha sentito, con l’intuizione dell’artista, il vuoto che la soglia pontificia vacante ben simboleggia, e che gli studio­ si hanno largamente interpretato in senso psicanalitico. Il geniale regista, dunque, ancora più provocatoriamente di quanto abbia già fatto in Caro diario (1994) e Aprile, fotografa con lucidità l’Italia di oggi: non solo il Potere “cattivo” - nel caso de II Caimano - ma anche the people, l’identità dell’italiano colto nei suoi lati più vol­ gari e più opportunisti, il “popolo delle scimmie” di cui parlava Gramsci e che ha creato il Fascismo. Non solo la storia paradossale di un uomo “ignavo” - nel caso di Habemus Papam - ma una para­ bola sulle responsabilità, sulla libera scelta individuale, sulle scelte tra dovere e piacere; ed anche una riflessione di psicanalisi collet­ tiva della cultura occidentale8. In questo senso, osservazioni simili si potrebbero fare per Palombella rossa (1989, dello stesso Moret­ ti), che riflette sulle crisi della sinistra, ma lo fa in modo onirico (valga per tutti la scena finale del "sol dell’avvenire”) e irrealistico, lasciando ampio spazio alle metafore psicanalitiche. 8

Si veda R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pelle­ grini, Cosenza 2011.

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Altro film a suo modo visionario, dicevo, è Viva la libertà di Ro­ berto Andò. Il regista palermitano era legato a una cifra autoriale raffinata e colta, a volte contrassegnata da certe atmosfere del noir; ora, invece, firma questo film, tratto da un suo proprio romanzo, che si basa su uno stile differente: un film politico e “civile", ma anche una favola alla Frank Capra, una commedia all’insegna del “doppio”, e infine un sottile dramma psicologico e sentimentale. Un film di ibridazioni, dunque, il cui plot è basato sullo scambio dei personaggi, un meccanismo classico da Plauto alla Mandrago­ la, da Don Giovanni alla screwball comedy: un immaginario can­ didato premier del Partito Democratico entra in crisi da stress e fugge a Parigi, da una sua ex fidanzata; il suo valente collaboratore si inventa l’escamotage di sostituirlo con un suo fratello gemello, di cui la gente non ha notizia e che è stato per anni in una clinica per malattie mentali. 11 plot è presto fatto: il leader vero, malinco­ nico e destinato a perdere, viene sostituito da un "pazzo", che però ha tutte le intuizioni e la creatività un po’ folle, appunto, che ridà speranza alle masse degli elettori. E in una bella scena “all’ameri­ cana”, il nuovo leader (pazzo o finto pazzo) convince la folla con un saggio richiamo alla passione civile e alla voglia di cambiamento. Si tratta dunque di una metafora sulla politica e sulla vita, ed anche una spietata analisi sul centro-sinistra italiano e sulle sue vocazio­ ni masochiste. Non è un caso che il film esca vicino alle elezioni che la coalizione di centro sinistra rischia di perdere dopo averle avute già in tasca. Anche in questo caso, è la “forma” che fa sì che il film anticipi, intuisca, prefiguri. E che usi in modo alto i codici del “genere”. È nella nuova commedia italiana, infatti, che si trovano casi interessanti di film che toccano temi della politica manipolan­ doli con un uso sapiente delle convenzioni classiche. Un altro film alla maniera di Frank Capra, ad esempio, è Benvenuto Pre­ sidente di Riccardo Milani (2013). Anche qui, come in Viva la libertà, il protagonista è una sorta di saggio naif à la Oltre il giardino (Hai Asbhy, 1979): in questo caso, il Peter Sellers della situazione è Claudio Bisio, nel ruolo di un ingenuo professore/montanaro che viene, nominato, per un equivoco, Presiden­ te della Repubblica. Ma qui emerge proprio la voluta citazione (fatta dal soggettista e sceneggiatore Bonifacci) dei classici film di Capra: come l’ingenuo Mr. Deeds di Mr. Deeds Goes to Town

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(1936), come l’ingenuo Mr. Smith di Mr. Smith Goes to Washing­ ton (1939), anche in questo caso il protagonista viene eletto Presidente perché si chiama Giuseppe Garibaldi e le forze po­ litiche, incapaci di mettersi d’accordo, hanno deciso di votare, provocatoriamente, per il Padre della Patria, causando l’invo­ lontaria scelta. Ma, come prevedibile, l’ingenuo professore si fa furbo poiché attinge ai suoi valori montanari e tiene sotto scacco i cattivi politici di tutte le sponde, qui accomunati da una su­ perficiale e generalizzante messa in berlina. Non solo, ma alla fine seduce con le sue doti di saggezza e di verità anche la bella responsabile del cerimoniale, che finisce per tifare per lui e per le sue scombiccherate uscite. Come si vede, i meccanismi di Viva la libertà e di Benvenuto presidente sono molto simili, e simili i codici della commedia classica che adoperano. Dal mondo della nuova commedia mainstream italiana arrivano testi interessanti. A volte si tratta di prodotti che vanno a rimor­ chio della cronaca politica, e che arrivano quando in ritardo, ri­ schiando di “non far ridere”. È il caso dei film basati sulla maschera di Antonio Albanese (Qualunquemente, 2011 e Tutto tutto niente niente, 2012), due film che vorrebbero essere a loro modo “politici” ma si rivelano non esserlo affatto, anticipati come sono, invece, dai fatti della politica vera e dall’incedere veloce della Storia. Pre­ ferisco l’irridente e geniale lettura della “prima repubblica” fatta dal fenomeno Checco Zalone in Quo vado? (2016). A volte, invece, si tratta di prodotti che, senza toccare vette d’autore, colgono in modo ironico alcune verità della politica e della società: penso a Diverso da chi? di Umberto Carteni (2009), che affronta temi come le ambiguità del Partito Democratico (diviso tra cattolici e laici, conservatori e progressisti), ma anche la sessualità: il protagonista è un aspirante sindaco gay (anche in questo caso viene portato alle elezioni dai leader del partito per un equivoco) che ha una storia con una cattolica militante - seppur "di sinistra” - con tutte le pre­ vedibili conseguenze del caso. Film tutti, quelli citati, utili a definire una "identità” italiana, a ri­ flettere, come suggeriva Maurizio Grande, i "caratteri” degli italiani9. 9

M. Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni, Roma 2002. Si veda anche Ilaria De Pascalis, Commedia nell’Italia contemporanea, Il Castoro, Mi­ lano 2012.

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L'impegno della forma

Ragionando dei rapporti con la politica - o meglio con l’ide­ ologia - non si può non affrontare l’enorme problema di come il cinema abbia rappresentato, in questo ultimo decennio, i temi emergenti della nuova società italiana: l’immigrazione, il gender, la sessualità, la “diversità”, la crisi della famiglia, la vio­ lenza contro la donna, il terrorismo, la criminalità organizzata, la prostituzione, la miseria, la Crisi. Spesso questi temi sono mescolati e ibridati: basti pensare a Saimir di Francesco Munzi (2004), Good Morning Aman di Claudio Noce (2009), Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, Las-bas di Guido Lom­ bardi (2011), Riparo di Puccioni (2007), La bocca del lupo di Pietro Marcello (2009), o Sangue di Pippo Delbono (2013), che riflette sulla morte partendo da due storie, quella della propria madre e quella del fratello del “pentito” Peci, ucciso dal briga­ tista Senzani. La rosa di film che, con codici diversi, mettono in scena i con­ flitti della società è ampio. Si tratta spesso di film eccellenti e legati a una nuova generazione di filmmaker, ma a volte anche di prodotti esteticamente mediocri che diventano magari “cult movies” e oggetti di studi all’estero solo grazie al loro contenu­ to, ai loro contenuti che non sempre corrispondono a un’altezza estetica. Perché - è la mia posizione - non basta "rappresentare” la società, o in qualche modo “denunciarne” le contraddizioni, per fare di un prodotto audiovisivo un film “politico”. Perché allora sono “politici” tutti i film, di tutti i generi, che in qual­ che modo partono dall’osservazione della società. Quale deve essere il segno di una nuova forma di "militanza”, di “impegno postmoderno”, per dirla con la fortunata formula di Antonello e Mussgnug10? Non basta parlare di politica, o trattare temi sociali, per fare di un film un testo “politico”. La terra trema non è un “capolavoro” perché parla dei pescatori di Aci Trezza sfruttati dai cattivi grossi­ 10

E Mussgnug, P. Antonello (a cura di), op. cit. Cfr. anche il saggio di France­ sco Crispino, in Elisa Battistini, Anna Maria Pasetti (a cura di), Il volto del potere, Feltrinelli, Milano 2013 - un volume (con Dvd) dedicato al film II ministro - L’esercizio dello stato di Pierre Schoeller (2011), con prefazione di Walter Veltroni.

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sti (come suggeriva l’impianto documentario della committenza), ma perché assurge a dramma universale, usando stilemi altissimi per descrivere bassi eventi di quotidiano dolore. È vero che i migliori esempi di una relazione tra cinema e poli­ tica sono quando i due elementi della discussione, “forma” e “con­ tenuto”, si sposano. Si è parlato molto, ad esempio, di alcuni testi “politici” d’Autore, come 11 divo o Gomorra, entrambi del 2008". Due film che parlano di politica, certo: il film di Sorrentino parla addirittura di un Grande Politico, Giulio Andreotti, e di un’intera era della politica italiana; il film di Garrone affronta uno dei gan­ gli storici della criminalità organizzata nelle sue collusioni con la politica, e proviene da un libro di denuncia politica come quello di Saviano. Ma l’essere “politici” di questi film va ben oltre il fatto che trattano personaggi politici o fatti legati alla politica: diven­ tano politici per il loro impianto formale, per la carica linguisti­ ca, per il coraggio visionario, per l’attenzione a un’“estetica” che, come ai tempi del Neorealismo, diventa “etica”. La “politica” sta nel linguaggio, nella grammatica filmica, nel graffio che non è mera “denuncia”, nello stile, che va dal grottesco all’onirico, nell’uso dei generi e del mix-genre. I due film accomunati dal doppio premio della giuria del festival di Cannes 2008 sono firmati da registi appartenenti alla nuovis­ sima generazione, alla “meglio gioventù” del nostro cinema; due film accomunati dallo stesso attore (Toni Servillo); due film acco­ munati anche della stessa voglia di lavorare, oltre che sull’ideolo­ gia, sulla forza delle immagini (lo ha dichiarato lo stesso Sorren­ tino a Cannes). Questo spiega perché Gomorra non sia (solo) un film “di denuncia”, un film di “messaggio sociale” alla maniera del cinema civile degli anni Sessanta e Settanta. È piuttosto un film incubico, una metafora sull'Italia di oggi e sui destini dello stesso cinema, sospeso tra autorialità e genere. Ed è anche un esercizio di stile sulla struttura narrativa, che qui esplode nell’intreccio delle storie; sulla rappresentazione della realtà; sulla percezione di un nuovo universo iconico nella postmodernità. Si tratta di un film potente, dalle immagini cariche di senso, dove bisogna lasciarsi andare al flusso di immagini (e di suoni: il dialetto napoletano che 11

Qui riprendo alcune cose già dette in V. Zagarrio (a cura di), Gli invisibili. Esordi italiani del nuovo millennio, Kaplan, Torino 2009.

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viene sottotitolato, le canzoni popolari, gli spari, i suoni diegetici) del film come in un lungo incubo. A sua volta II Divo è un affresco potente dell’Italia di oggi e di ieri, un apologo del Potere, dedica­ to com’è alla figura di Giulio Andreotti. Fare un film del genere è certamente un progetto coraggioso, non solo perché è pericolo­ so fare un film su una delle figure più discusse della storia patria, ma anche perché è rischioso imbarcarsi in un film che deve fare i conti col "cinema civile” e può scivolare nello stereotipo del “ci­ nema di denuncia”. Invece, la forza del Divo sta nel suo stile di film “metafisico”, che parte sì dalla vicenda “reale” di Andreotti, apparentemente al centro di tutte le trame più misteriose dell’Ita­ lia dagli anni Sessanta a oggi, ma costruisce una grande metafora del potere, ed anche un ritratto collettivo del nostro Paese. Più che il "messaggio”, a Sorrentino interessa la messa in scena, il senso dell’inquadratura, il movimento della macchina da presa. Perché il regista dimostra qui il suo grande talento nell’uso del mezzo, ed ha un grande mestiere anche nell’uso degli attori e nella recitazione. Il divo Andreotti diventa, interpretato da un grande attore come Servillo, un personaggio shakespeariano, una specie di Macbeth (con relativa Lady), verso cui non possiamo non provare empatia. La tragicommedia umana incarnata in Andreotti è talmente uni­ versale che non possiamo che identificarci in Lui. Ma nel caso de La grande bellezza (2013), altro film di Sorren­ tino, la faccenda si complica. È volutamente una riflessione sulla Forma, ma ambisce ad essere anche "politico” nella sua rappresen­ tazione di uno spaccato dell’Italia da Basso Impero. Si tratta cer­ tamente di un film di grande spessore, che conferma l’autorialità del regista, un film ambizioso che si misura col Fellini di Roma (1972) e de La dolce vita (i960), un film girato con maestria: già la sequenza iniziale, in cui un turista giapponese muore d’infarto guardando il panorama di Roma, metaforicamente folgorato dalla sua “grande bellezza", fa sfoggio di movimenti di macchina moz­ zafiato, stupisce Io spettatore con le acrobazie della macchina da presa, che vola con la steady cam sulle acque del Fontanone. Per le stesse ragioni che lo fanno ammirare, La grande bellezza può ap­ parire anche compiaciuto, narciso, autoreferenziale; come è com­ piaciuto e narciso il protagonista, Jep Gambardella (interpretato da quel Toni Servillo che è diventato un’icona di Sorrentino e di molto altro cinema nazionale), un personaggio verso cui non si ha

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“empatia” e che pure intriga. Certo che La grande bellezza non ha la profondità di sguardo de Le conseguenze dell’amore (2004). Ad esempio - insisto nella mia tesi - trovo assolutamente “politico” il lunghissimo, magistrale piano sequenza di quest’ultimo film, quando Titta Di Girolamo (ancora Servillo) viene condotto al co­ spetto del capo mafioso, e Sorrentino alterna oggettiva, soggettiva e falsa soggettiva in un gioco intrigante di sguardi. Una scelta este­ tica che rivela la maestria del regista (il piano sequenza è da sem­ pre un biglietto da visita dell’Autore), ma che contiene in sé anche quello “sguardo”, quella “posizione” etica che dicevamo.

Letica dell’estetica Qui si entra ovviamente nel terreno scivoloso della soggettivi­ tà dell’analista e del fruitore. Sono convinto, però, dell’assunto di fondo: che la vera Politicità stia nella Forma, che un’opera d’ar­ te tanto più abbia capacità di incidere nella società e sulla Storia quanto più alta sia la sua rivoluzione formale, l’altezza della sua cifra stilistica. Provo a fare una mia proposta di film in cui è "po­ litica” la Forma: sia quando i film non sono direttamente politici o politicizzati; sia quando affrontano duri temi della Storia e della Società, ma lo fanno in modo “stra-ordinario”. Alcuni testi sono quelli di vecchi Maestri delle generazioni del Novecento: Ad esempio, Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani (2012) è un film che sposa la forza del tema (il carcere), quella della teoria (la riflessione metalinguistica sul teatro dentro il ci­ nema) con i modelli produttivi e stilistici utilizzati: l’adozione del digitale, scelta che accomuna gli anziani registi toscani al vecchio “documentarista” De Seta. Io e te di Bernardo Bertolucci (2012) è un film in cui un Autore pur famoso per i suoi testi ideologici (da Strategia del ragno a II conformista, da Novecento a The Dreamers) mette in campo una sua strategia estetica intrigante, riuscendo a fare della cantina inventata da Ammaniti per il suo romanzo un labirinto linguistico e psicanalitico che riflette sul mondo occiden­ tale del nuovo millennio molto più di un film più superficialmente “civile”. Vincere (2009) e Buongiorno, notte (2003) di Marco Belloc­ chio, due film che coniugano la politicità del tema (il fascismo e il terrorismo) alla politicità della forma: penso a sequenze del tutto

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oniriche come la scalata della cancellata del manicomio da parte di Giovanna Mezzogiorno/Dalser, o la utopica passeggiata all’alba, fuori dal suo carcere, di Roberto Herlitzka/Moro. Questo per quanto riguarda le generazioni dei registi ormai en­ trati nella storia del cinema italiano. Ma molti sono i film della nuovissima generazione, quelli più invisibili e meno mainstream, che cercano di elaborare un linguaggio diverso, atipico sia rispetto ai canoni cine-televisivi ampiamente accettati, sia dai codici tra­ dizionali della grammatica filmica: Sette opere di misericordia dei gemelli De Serio (2011), Il vento fa il suo giro di Diritti (2005, e non i suoi film successivi, più direttamente “ideologici”), Il dono (2003) di Michelangelo Frammartino (ed anche il suo successivo Le quattro volte, 2010). Gli studi di caso più interessanti sono i “film” (ma la nozione, come ho detto, necessita una sua messa in discussione) che ibridano spesso documentario e film "narrativo” (altro aggettivo da ridiscutere). È il caso di Terramatta di Costanza Quatriglio (2012), un “documentario” sui generis che confina con la sperimentazione pura e la video arte. Tratto dal romanzo-dia­ rio di Vincenzo Rabito, è un film che dimostra quanto siano labili ormai i confini tra quella che una volta si chiamava “cinema nar­ rativo" e “documentario”. Invece è un’opera di grande narrazione, come del resto il testo di Rabito che le ha dato l’ispirazione. Qua­ triglio ricostruisce la storia di Rabito giocando da un lato su una voce over aftabulante come quella di un attore come Roberto No­ bile, dall’altro giocando sui materiali di repertorio (il film, per que­ sto, è coprodotto dall’istituto Luce, grande fonte dei cinegiornali nazionali), che accompagnano la riflessione naive di Rabito sulla storia nazionale. Grande Storia e microstoria si intrecciano, in un romanzo visivo di grande fascino, che ricorda a volte certe opere di Yervant Giannikian e Angela Ricci Lucchi (il film, ad esempio, dedicato a Luca Comerio, pioniere dei filmati di guerra). Il tut­ to ricamato in maniera elegante (non è un caso, forse, che il film sia fatto dalla sensibilità di due donne, la regista e la produttrice), usando lo stesso testo originale del semi-analfabeta siciliano. La camera di Quatriglio, usando obiettivi macro particolari, “entra" dentro le pagine stesse del diario di Rabito, ancora prima della sua pubblicazione a stampa. Quelle pagine commoventi, scritte con la macchina da scrivere, quelle frasi inventate da un semi-analfabeta, con la punteggiatura dopo ogni parola, quella sorta di papiri o di

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iscrizioni preistoriche che diventano a volte partiture musicali, e che nelle mani della regista assumono ritmo e velocità, sino a di­ ventare strade in cammino, binari addirittura (bella la sequenza di montaggio e di effetti speciali in cui le pagine diventano i bi­ nari del treno) di un immaginario viaggio nel tempo. Il film slit­ ta spesso nella video-arte, nell’arte elettronica pura, aiutato dalle tecniche del digitale che ne fanno un’opera sperimentale là dove avrebbe potuto essere un prodotto “provinciale”. Evita il rischio della “ricostruzione” alzando il tiro e confezionando un prodotto a suo modo "politico” che ambisce a essere giocai e internaziona­ le. Le parole di Rabito volano sui muri, dissolvono in trasparenza (con belle invenzioni tecniche) sui volti e sui paesaggi iblei, ieri e oggi, mescolando passato e presente, mentre la macchina da presa vaga lungo le strade iblee, dall’alto di un camera-car ieratico, come a fissare il territorio di una storia personale e di una Storia univer­ sale dell’uomo. Le immagini del film, le sue continue invenzioni, il patchwork linguistico tra materiale Luce, insistenza sui detta­ gli delle parole, camera-car sul paesaggio, “volo” della scrittura su corpi e cose, lente di ingrandimento sulle stesse pagine, restano nella memoria, confermano la mano e il talento della giovane re­ gista. E invitano a pensare a un “politico” che sta, in questo caso, in una tripla riflessione: quella filologica sulla "lingua” del vecchio analfabeta, quella sulla memoria e sulla Storia (pubblica e privata), e quella sulle stesse possibilità del linguaggio audiovisivo. Non uso di proposito il termine “film di finzione” anche riguar­ do a un’altra sorprendente opera di Quatriglio: 87 ore (2015), che è ben più di un documentario. Un film di denuncia, un dramma commovente, ma a volte addirittura un’opera di “arte elettronica”, una “videoinstallazione” basata sugli split screen e sulle visioni multiple. Usando le telecamere di sorveglianza di un reparto psi­ chiatrico (quello di Vallo della Lucania), la regista realizza questo film anomalo sul caso di un insegnante elementare di Castelnuovo Cilento (Francesco Mastrogiovanni) sottoposto a TSO, rinchiuso nell’ospedale psichiatrico per ottantasette ore, appunto, e lasciato morire lì nell’indifferenza di medici e infermieri. Avrebbe potuto essere un documentario militante vecchia maniera, e invece que­ sto materiale visivo incandescente diventa nelle mani di Quatri­ glio (anche) un esercizio di stile, una testimonianza ma al tempo stesso una riflessione metalinguistica sull’apparato audiovisivo (il

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ruolo della surveillance) ed un ripensamento sullo stesso sguardo del cinema, dove lo spettatore diventa voyeur di uno snuff"movie suo malgrado. Si vedano ancora altri testi di riflessione sperimen­ tale di Quatriglio: Con il fiato sospeso (2013), con Alba Rohrwacher, o Triangle (2014), altro chiaro esempio di "impegno postmo­ derno”, che mescola i materiali e le dimensioni temporali. Opere ibride, contaminazioni tra varie tecniche come queste opere della Quatriglio danno bene l’idea di dove porti la tendenza di questi anni. Gli esempi più interessanti vengono proprio dal cosiddetto cinema del reale, un cinema che non è più puro documentario, ma mescola fiction e reportage (diario e cronaca, usando spesso i ma­ teriali di repertorio, il found footage, gli archivi - che siano quelli dell’istituto Luce o degli home movies). Molti sono i documentari che fanno capire l’importanza di questo nuovo prodotto ibrido tra docu e fiction che restituiscono l’immagine di un Paese contraddittorio ma anche pieno di ele­ menti di fascinazione. Ad esempio, Sacro GRA (2013) e Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi, portavoce supremo della nuova ibridazione tra documentario e film di finzione del cinema ita­ liano contemporaneo; o a Tir di Alberto Fasulo (2013), vincito­ re del premio speciale della regia al festival di Roma nello stesso anno, che ri-legittimano l’ibrido documentario italiano e danno un’immagine inedita dell’Italia nel nuovo secolo. Quest’ultimo documentario, in particolare, è in realtà un’opera che fa implode­ re l’idea documentaria stessa11: in questo caso la base di partenza è un lavoro sul reale, che comporta cinque anni di ricerche sul campo, ma poi il regista sceglie di girare tutto con un attore pro­ fessionista e gioca con la finzione, seppur declinata con le regole del documentario, per raccontare la storia di un camionista che gira per le strade d’Europa. Che tipo di prodotto è dunque un film come Tir? È un documentario o un film di finzione? Uno studio antropologico o un film on the road? E, soprattutto, quale aspetto del reale racconta? Che rapporto ha con il realismo? Ma quel che mi importa è Io stile del film di Fasulo, con la sua camera leggera sempre attaccata al corpo del protagonista; un film che concede pochissimo allo spettacolo e che fa emergere un "perturbante”, il12 12

M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008.

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malessere del personaggio come metonimia di una società. Com­ plementare a questi percorsi è il caso di Leonardo Di Costanzo che, dopo l’esperienza di apprezzato documentarista (su tutti Ca­ denza d'inganno, del 2016), si cimenta con il lungometraggio di finzione, L’intervallo (2012), claustrofobica storia di due ragazzi costretti dal mondo della camorra a passare una giornata insieme: un “intervallo” dalla brutta vita di tutti i giorni cui li costringono le famiglie e la società. Un film "di finzione” a sua volta fortemente influenzato dalla tipologia del documentario, dove i limiti tra nar­ razione documentaristica e finzionale si assottigliano fortemente. Così come avviene ne II cratere di Luca Bellino e Silvia Luzi (2017), la cui politicità sta proprio nell’uso della macchina da pre­ sa, con quei suoi fuori fuoco e l’obiettivo sempre puntato sul primo piano. O in Kobarid (2019) di Christian Carmosino, un film su Caporetto in cui il regista, provocatoriamente, impone allo spettatore lunghi minuti di fotogramma nero con una voce fuori campo che legge lettere di soldati italiani nei giorni della disfatta; chiedendo a chi guarda una forte reazione del corpo e dei sensi. Sono tutti, questi ultimi, film “fuori norma”, per usare un’espres­ sione felice di Adriano Aprà,}. Fuori formato, fuori dalle norme, fuori dalle regole e dalle convenzioni dell’immagine in movimento italiana (non uso volutamente la parola “film”). Sta forse qui l’ulti­ ma frontiera del “politico”.

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A. Apra (a cura di), Fuori norma. La via sperimentale del cinema italiano (2000-2012), Marsilio, Venezia 2013.

L’IMPEGNO COME CAPITALE CULTURALE

6. I MESSAGGI SI MANDANO PER POSTA Mariarosa Mancuso

“I messaggi si mandano per posta” è una frase rubata a Samuel Goldwyn, produttore noto per i suoi film e per i “goldwynism”, motti di spirito e svarioni paragonabili alle frasi che Ennio Flaiano metterà nel suo “Catalogo di Peppino Amato”, esempio nostrano di produttore geniale quanto ignorante. Samuel Goldwyn era bravis­ simo, nel suo mestiere. E ignorantissimo, fuori dal suo mestiere. Capitò che i suoi collaboratori comprassero i diritti di un romanzo scritto da Radclyffe Hall - // pozzo della solitudine, 1928 - senza ac­ corgersi che la protagonista era lesbica. Quando Samuel Goldwyn venne a saperlo, rispose “non importa, ne faremo un’americana”. Incolto, ma nel suo mestiere bravissimo, era convinto del fatto che “I messaggi si mandano per posta” (Goldwyn diceva la We­ stern Union). L’ho scelto come titolo per chiarire subito che im­ pégno e cinema sono due parole che per me fanno a pugni. Un film deve essere giudicato non perché manda un messaggio - per questi c’è la buca delle lettere - ma per come è diretto, scritto, re­ citato. Purtroppo in Italia l’impegno è un fiore all’occhiello, una medaglia, un cenno d’intesa. Ci si riconosce, si esce dal cinema dicendo “abbiamo fatto il nostro dovere, ci siamo indignati, ora dove andiamo a cena?" Il film Gabbiamo fatta grossa (2016) di Antonio Albanese e Carlo Verdone ha una frase prima dei titoli di coda: “I personaggi della storia sono inventati, è autentica la realtà che li produce”. Vuol dire che l’impegno ha vinto. È una commedia non particolarmente ri­ uscita: la coppia comica Albanese-Verdone molto semplicemente non funziona: sono troppo simili nel fisico, e sono anche troppo simili come tipo di comicità in quel film. Ma sente il bisogno di dire - in una storia che parla di un furto di una valigetta con un milione di euro - che dietro a quella valigetta ce il malcostume

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italiano. C’è la casta che ruba. Ci sono i politici corrotti. Hanno sentito il bisogno di mettere in fondo a un film comico (peraltro, ripeto, non riuscito benissimo) una conclusione da Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi. Riflettendo sul concetto di impegno mi sono sentita Franti l’in­ fame che sorride nel racconto di De Amicis: tutti onorano la ban­ diera, e lui ride. Franti, perché sono appena tornata da Berlino dove ho visto il film di Gianfranco Rosi Fuocoammare (2016): piaciuto a tutti, salutato da tutti come un grande film d’impegno, un commo­ vente film sui migranti, un capolavoro che meritatamente ha vinto l’Orso d’oro, portando nel cuore della Germania un film che parla dei migranti, mentre dall’altra parte la politica cercava di convince­ re l’Europa che gli immigrati non sono un problema solo italiano. Fuocoammare non è un bel documentario. Non avevo amato molto neanche Sacro GRA (2013), secondo me aveva dei difetti: per esempio, si notava che i personaggi recitavano male la loro parte. Qui i difetti sono clamorosi, e se uno spettatore o un critico non si fa prendere dalla faccenda dei migranti - certo, è una grande trage­ dia e tutti possiamo versare le nostre lacrime - li vede chiaramente. Non penso che sfruttare - e uso di proposito la parola “sfruttare” - la tragedia per costruirci un film da Orso d’oro sia un comportamento etico. Capita che un film riesca male, si possono avere le migliori intenzioni e il risultato delude. Ma Fuocoammare, secondo me, è frutto di un preciso calcolo. Faccio un film con l’etichetta migranti, girerà il mondo, si vergogneranno a non considerarlo un capolavoro. Vale per la critica italiana, e anche per la critica straniera, e per chi ha deciso di votarlo candidato dell’Italia agli Oscar. Adesso sono i migranti al centro dell’attenzione. Ma le ondate dell’impegno variano. C’è stata la stagione del cormorano con le ali appiccicose di petrolio, forse la ricordate, e poi c’è stata la stagione dell’anti-Berlusconismo, durata tantissimo. Poi c’è stato Sarajevo. Tutti giravano film a Sarajevo, o mettevano in scena spettacoli a Sarajevo. Poi c’è stata la guerra del Golfo. Poi c’è stata la crociata contro la TV. Per inciso: quando vedo un collega che esce da un film e dice: televisivo”, vorrei attaccare subito briga. “Televisivo”, con le meraviglie che si vedono nelle serie, non dovrebbe essere un insulto, meno che mai sinonimo di sciatteria (che invece devasta il cinema italiano). Dove avete vissuto negli ultimi quindici anni, se dite “televisivo” come un insulto?

M. Mancuso - / messaggi si mandano per posta

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Perché i migranti? Perché si continua a scavare un fossato tra intrattenimento e impegno. Se mi diverto allora non può essere niente di serio, dimenticando che la comicità è un meccanismo precisissimo, a orologeria. So benissimo che se faccio vedere i ca­ daveri dei migranti che sbarcano a Lampedusa - non è un esempio astratto, è esattamente quel che fa Gianfranco Rosi - tutti versia­ mo una lacrima. Facile. E invece guardate qualsiasi film fatto su uno stand-up comedian: far ridere è difficilissimo. C’è sempre la scena del comico che sale sul palcoscenico e nessuno ride, e il po­ veretto vorrebbe sprofondare nella botola. L’impegno in Italia ha tante forme. Per esempio, la formula: “prendo un grande classico, o un grande personaggio della lette­ ratura e lo metto al centro del mio film". L’hanno fatto i fratelli Taviani con il Decamerone, sul risultato vorrei stendere un velo pietoso, era davvero imbarazzante. Non si può fare arrivare nelle sale, al pubblico, un film come Maraviglioso Boccaccio (2015) sen­ za che qualcuno abbia detto, in corso d’opera, “no, guarda, no, fer­ miamoci, riscriviamo la sceneggiatura, facciamo ripetere le scene venute male, cambiamo gli attori scarsi”. Ho trovato brutto anche il film su Leopardi, Il giovane favoloso di Mario Mattone (2014), e spiego perché. Cavalca Leopardi, e anche qui c’è un calcolo (non che calcolare il pubblico potenziale sia sbagliato, fa strano che lo Jacciano i registi che parlano di Arte con la maiuscola). Dunque: le professoresse ci portano gli studenti, che saltano una mattina di scuola e son felici. Leopardi già dice “impegno”, e Mario Martone promette una lettura originale: basta con Leopardi il gobbetto, in­ felice in amore. Gira il film, da cui si evince che Leopardi era gobbo - l’ingobbimento di Elio Germano dal punto di vista cinematogra­ fico grida vendetta, non ci si può credere - e per questo infelice in amore. Può bastare, per la categoria. Altro tipo di impegno, quel che il teatro riverbera sul cinema. Facciamo i nomi: Pippo Delbonoe Emma Dante. Ricordo la rabbia provata guardando Via Castellana Bandiera di Emma Dante - due macchine in una stradina di Palermo, nessuna vuole indietreggia­ re per cedere il passo. Il vicolo - via Castellana Bandiera, appun­ to - man mano che il film procede diventa sempre più largo. Alla fine è un’autostrada. C’è una bellissima frase di Ballard, rivolta a chi gli aveva chiesto perché preferiva il cinema al teatro, e Ballard rispose “Al cinema un cespuglio è un cespuglio, a teatro è sempre

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qualcos’altro”. Via Castellana Bandiera funziona esattamente così. A teatro magari il giochino funzionava (un po’ facile, ma saranno i critici teatrali a giudicare). Al cinema non ha senso mostrare un vicolo che poi diventa un’autostrada. Vogliamo metterci anche i film di Walter Veltroni, tra gli impe­ gnati? I bambini sanno di Walter Veltroni (2015) racconta piccoli mostri che a 12 anni decidono che i loro cantanti preferiti sono Janis Joplin e Jimi Hendrix: giusto la musica che piace al papà. Io non credo ai dodicenni che ascoltano Janis Joplin e Frank Zappa e Jimi Hendrix. Guardo con sospetto a bambini nell’età del con­ formismo che celebrano le differenze e le unioni civili tra persone dello stesso sesso, o che parlano di matrimonio come se fossero adulti. Mi sono un po’ stupita, a essere sincera anche un po’ sec­ cata, per il coro di lodi che tutti questi film ricevono. Alla fine ci si stanca a essere l’infame che sorride, o l’unico critico che stronca: sembra di puntare alla notorietà facendo le pulci a un film di cui tutti parlano bene. Dei film di Veltroni non si può parlare male. Non si può parlare male dei fratelli Taviani. Non si può parlare male di Marco Belloc­ chio, quando fa un film su Eluana Englaro. Tipico film che - per ru­ bare una formula ai comici americani, sempre più seccati, perché ormai non si possono fare più battute su niente - hanno inventato una parola che mette insieme applausi e risata: “clapter”. Clapter è l’applauso che arriva non perché ti ho fatto ridere, non perché ho detto qualcosa di spassoso, ma perché sono d’accordo con te. Il film di Bellocchio su Eluana Englaro era esattamente un film da “clapter”, con le lacrime al posto della risata. Capita che alla fine di una proiezione un film venga distrutto con feroci battute, e che il giorno dopo le recensioni siano tutte elogiative (è il metodo critico: "la notte porta consiglio”). Poi gli stessi critici, serissimi, partecipano a convegni sul tema: "La morte della critica. Come e perché”. Si organizzano convegni per deplo­ rare il fatto che le pagine degli spettacoli ospitano sempre più ar­ ticoli di costume e di colore. O “anticipazioni”, vale a dire soffietti pubblicitari. Ci si lamenta perché spazio per i critici si restringe. Dovremmo chiederci invece: se non siamo credibili, se i lettori non si fidano, in nome di che cosa pretendiamo più spazio? Se io ti consiglio un film, e il film non ti piace, tu torni e ti la­ menti: “cosa mi hai mandato a vedere?”. La prossima volta non ti

M. Mancuso - / messaggi si mandano per posta

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fiderai più, il consiglio lo chiederai a qualcun altro. La fiducia si incrina già se a me il film era piaciuto davvero, e quindi il consiglio era dato in buonafede. Figuriamoci se il consiglio era stato dato in malafede. Abbiamo davanti una critica che procede con tremende sopravvalutazioni - è possibile che i registi italiani girino solo ca­ polavori? Non è possibile. Come non è verosimile trovare difetti su difetti in film che sono scritti e girati benissimo - molto divertenti, oppure molto tragici, comunque riusciti. Ma quei registi vivono lontano, a Hollywood o a New York. Li posso impunemente criti­ care, posso affinare, come si diceva una volta, “le armi della critica”, e nessuno verrà a lamentarsi. Se stronco Marco Bellocchio, o se dico qualcosa di non gradito a Sergio Castellitto, Sergio Castellino in un’intervista dichiara che mi devono ritirare il patentino (e l’intervistatore neanche gli chie­ de “ma perché?”). Oppure sostiene che recensisco il film senza ve­ derli. Tutto questo per una recensione che, riconosco, era perfida. Avevo scritto più o meno: “Ho deciso di non vedere l’ultimo film della coppia Castellitto-Mazzantini, perché ho visto gli altri e non mi sono piaciuti; se non lo vedo, magari questo mi piacerà”. Perfi­ dia, si tratta di un artificio retorico (e doverlo spiegare imbarazza anche un po’). Chiudo ricordando il caso di Checco Zalone, visto che ai festival vige quello che chiamo "la regola dei trent’anni”. 1 film che non vengono invitati in concorso - perché sono considerati frivoli, leg­ geri, privi di impegno - li ritroviamo trent’anni dopo nelle retro­ spettive. È successo a Totò, e perfino a W la foca di Nando Cicero (1982), che fu invitato alla Mostra di Venezia con tanto di dibatti­ to. Sarebbe bello interrompere questo circolo vizioso. Prendendo atto, per esempio, che Quo vado? (2016) è un grandissimo film satirico, che corre spedito e se la piglia con tutti.

7STORIA EROICOMICA DI LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT Ricezione, legittimazione, politicizzazione di un film Roy Menarini

Cafonalino stracult - I nostri intelligentissimi produttori gli sbattono la porta in faccia? 'sticazzi! Gabriele Mainetti si fa Jeeg Robot tutto da solo. Risultato? Un film divertentissimo e nuovo, con Santamaria e Marinelli da urlo, che per effetti speciali non sfigura con i blockbuster di Hollywood'.

Questo irrituale “occhiello”, datato 26 febbraio 2016, è compar­ so sul sito “Dagospia”, forse il luogo di giornalismo anti-istituzionale più celebre di questi anni, le cui sezioni dedicate al cinema sono curate da Marco Giusti (di qui, probabilmente, il riferimen­ to alla categoria fondata dal medesimo Giusti, lo stracult*, che dà il titolo anche a una trasmissione di RaiDue). 11 segnale è in­ dicativo: alla sua uscita l'esordio al lungometraggio di Gabriele Mainetti è già atteso a un destino di cult. Gli analisti sono in quel momento dubbiosi solamente del bacino di utenza spettatoriale: diventerà un film di riferimento per i romani o sfonderà in tutta Italia? Cinque milioni di euro dopo, possiamo legittimamente af­ fermare che Lo chiamavano Jeeg Robot ha funzionato dappertut­ to, generando un passaparola molto positivo e resistendo anche in profondità (che in questi anni significa per lo più arene estive e multiprogrammazione, più che sale di seconda a terza visione, pressoché scomparse).

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Anon., Cafonalino stracult, “Dagospia”, 26/02/2016, consultabile all’indi­ rizzo: https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/cafonalino-stracult-nostri-intelligentissimi-produttori-sbattono-119415.htm. M. Giusti, Dizionario dei Jilm italiani Stracult, Sperling & Kupfer, Milano 1999.

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Flashback Il motivo per cui Lo chiamavano Jeeg Robot era atteso a buoni ri­ sultati va cercato nel successo sorprendente al momento della sua presentazione alla Festa del Cinema di Roma, dove è stato proiet­ tato in anteprima il 17 ottobre 2015. Alle reazioni del pubblico, a dir poco euforiche, si è presto affiancata la benevolenza della critica. In un articolo che si intitola significativamente “E chi se lo aspet­ tava!”, per esempio, l’inviato di “Best Movie” Giorgio Viaro scriveva il 17 ottobre stesso: “Oh mamma mia: allora era possibile... Fare un film di supereroi in Italia. Che rispetta tutte le regole del genere, ma non è un furto di idee altrui. Che ha le nostre facce, la nostra musica, i nostri luoghi, eppure è appropriato. Eppure è un film di supereroi...”5; mentre Gabriele Niola, su “MyMovies”, aggiungeva elementi linguistici in grado di valorizzare appieno l’operazione: Quello di Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produt­ tiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un’opera che si fa portatrice di una visione di cinema d’intrattenimento priva di boria intellettuale, una boccata d’aria fresca per come afferma che il meglio di quest’arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma (da cui tutto il resto discende). Nonostante un budget evidentemente inadeguato al tipo di storia Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di movimenti interni alle inquadrature, di trovate ironiche e invenzioni visive, un tour de force di montaggio creativo e fotografìa ispirata (per non dire di effetti digitali a costo contenuto), tutto ciò che serve per raccontare un mito senza cre­ derci troppo e divertendosi molto.3 4

Quando “Dagospia” e Mainetti affermano di esserselo prodotto da solo, ovviamente, intendono che la Goon Films di proprietà del

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G. Viaro, E chi se lo aspettava! Al Festival di Roma ovazione per Lo chiama­ vano Jeeg Robot, cinecomic tutto italiano, “Best Movie", 17/10/2015, consul­ tabile all'indirizzo: http://www.bestmovie.it/news/e-chi-se-lo-aspettavaal-festival-di-roma-ovazione-per-lo-chiamavano-jeeg-robot-cinecomictutto-italiano/420747/. G. Niola, Lo chiamavano Jeeg Robot, “MyMovies”, 18/10/2015, consultabile aH’indirizzo:http://www.mymovies.it/fìlm/20i5/lochiamavanojeegrobot/.

R. Menarmi - Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot

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cineasta ha fiinto da produttore e da recettore di finanziamenti5. Il film - finanziato (dopo un primo diniego dovuto alla solita diffidenza nei confronti del genere fantastico e antirealista della nostra filosofia ministeriale6) - è stato riconosciuto come di interesse culturale nazio­ nale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, realizzato con un budget di circa un milione e settecentomila euro e prodotto da Goon Films, in collaborazione con Rai Cinema, oltre che in associazione con Banca Popolare di Bari (grazie al tax credit). In verità, il film è sta­ to sostenuto anche dalla Regione Lazio, come ironicamente ricorda­ to anche da Mainetti durante la premiazione dei David di Donatello 2016, dove il regista ha commentato i ritardi nell’erogazione dei fondi da parte delle istituzioni locali, ancora attesi dopo mesi dall’uscita del film nelle sale, e paradossalmente ancora dopo i premi vinti in quella serata (miglior regista esordiente, miglior produttore, miglior mon­ taggio, e le quattro categorie - maschili e femminili - per i migliori attori e attrici, protagonisti e non protagonisti). Dopo le vicissitudini produttive e la scelta della Festa del Cine­ ma di Roma per ovvii motivi geopolitici, insomma, il film decol­ la. La distribuzione, avvenuta a febbraio dell’anno successivo (e irrobustita da una seconda riproposta dopo la vittoria ai David), conferma l’interesse suscitato al festival. Oltre all’incasso - mol­ to positivo per la natura indipendente del film, per l’atipicità del prodotto, e per la tipologia del pubblico che ha movimentato - si riconferma poi l’appoggio della critica, pressoché unanime. 5

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Mainetti, intervistato da “Cineuropa”, dimostra una vena cinefila e storio­ grafica quando dice: “I produttori continuavano a non crederci. È stato faticoso cercare di sconfìggere l’incredulità verso qualcosa di nuovo e di­ verso, che tuttavia aveva radici tutte italiane: negli anni '60-70 abbiamo fatto di tutto, non ci fermava niente, non di certo il budget, il cinema di genere si faceva con pochissimo. Alla fine me lo sono prodotto da solo e sono felice che sia andata cosi”. V. Scarpa, Gabriele Mainetti. Regista, “Ci­ neuropa”, 19/02/2016, consultabile all’indirizzo http://cineuropa.org/it.as px?t=interview&l=it&did=3O5529. Rimandiamo a questo proposito il contributo di Andrea Minuz interno al presente volume. Recuperiamo dal suo testo, per gentile concessione dell’autore, solo un brano indicativo della delibera del 2 ottobre 2012: “Uno script per un film dazione - attraversato da una diffusa tendenza all’inve­ rosimile ed alla caricatura - che porta ad una visione della vita cruda, su­ perficiale e cinica. Indebolito da alcune determinanti perplessità dal punto di vista produttivo, a fronte di una valutazione comparativa, il progetto viene superato da altri ritenuti più meritevoli".

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Istituzionalizzazione Il Dizionario dei Film del 2017 di Paolo Mereghetti asse­ gna a Lo chiamavano Jeeg due stelle, confermate nell’edizione 2019, mediando tra la fan base e la valutazione gerarchizzante dell’approccio enciclopedico7. Citiamo il celebre dizionario non tanto per aggiungere una voce al coro già consistente dei sostenitori (visto che in questo caso il giudizio è meno entusia­ sta), quanto come approdo "storicizzante” della ricezione del film. Ma a Lo chiamavano Jeeg Robot serve davvero una istitu­ zionalizzazione? Per la sua natura di prodotto semi-indipendente, il film di Mainetti costruisce una narrazione produttiva anti-sistema e ha buon gioco a dimostrarsi outsider in varie direzioni: quel­ la realizzativa, quella tematica, quella distributiva e persino quella crossmediale (l’uscita contemporanea del fumetto omo­ nimo, il rapporto con la fan culture del web, il sito ufficiale molto interattivo con gif animate e scritte in giapponese, e così via). Il fatto che la fantascienza sia di stampo “borgataro” e che il film esca nella stessa stagione di Non essere cattivo di Clau­ dio Caligari, con cui condivide anche il carismatico protagoni­ sta Luca Marinelli, ne fa un film ovviamente gestito secondo le logiche di genere e di “do it yourself” ma non del tutto impos­ sibilitato ad accedere a categorie di impegno, sia pure inizial­ mente impreviste. 11 trionfo dei David di Donatello, giunto a fine stagione cinema­ tografica 2015/2016, mostra in verità come Lo chiamavano Jeeg Ro­ bot abbia nel frattempo scalato posizioni di legittimazione cultu­ rale, nel contesto di una serata che ha visto pesantemente sconfitto proprio Caligari, spazzato via - potremmo dire con uno slogan dalla sua versione fumettistica.

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P. Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017, Baldini & Castoldi, Milano 2016, p. 2439. Mereghetti, pur riconoscendo che “a funzionare è so­ prattutto il confronto che l’improvvisato supereroe deve fare con le proprie miserie esistenziali...", poi controbilancia con una notazione quasi filolo­ gica: “La struttura del racconto guarda più all'origin movie da supereroe americano che a quella della celeberrima saga anime di Go Nagai che il titolo esibisce".

R. Menarini - Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot

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Politicizzazione

L’impegno, tenuto fuori dalla porta, rientra dalla finestra, ma non perde la sua candidatura anti-establishment. Accade infatti che proprio nella primavera del 2016, all’acme del successo del film e dei suoi processi di istituzionalizzazione spontanea, Lo chiama­ vano Jeeg Robot viene utilizzato anche nella veemente battaglia politica per le elezioni a sindaco di Roma. In un articolo dal titolo Virginia Raggi comincia da Jeeg Robot, si legge che la sindaca, nel primo giorno di lavoro, ha puntato sul quartiere di Tor Bella Monaca, il quartiere di Claudio Santamaria nel celebre film sulla Roma dolente. Quindi, periferie e spazzatura è il mix del primo giorno di lavoro vero e proprio sul campo del neo sindaco di Roma. Ma ci sono anche multe e (altri) bambini. Nel senso che di buon mattino Raggi va a Tor Bella Monaca, dove è stato girato un video diventato virale sul web in cui i bambini contano quanti topi ci sono intorno ai cassonetti della spazzatura traboccanti d’immon­ dizia. Ed è da questo quartiere che il primo cittadino dichiara guerra ai dirigenti Ama ma anche ai cittadini che non rispettano le regole. Così un altro bambino, dopo il suo figlioletto fatto sedere sullo scranno del sindaco, finisce al centro dell’azione del sindaco: “Mi aspetto anche il tuo impegno per la raccolta differenziata”.8

Il riferimento non deve sorprendere, visto che proprio a maggio l’attore principale del film, Claudio Santamaria, si era schierato con il Movimento 5 Stelle e a sostegno della candidatura Raggi, permettendo facilmente titoli e articoli come il seguente, uscito sulla stampa locale romana, dal titolo inequivocabile (invertito rispetto al precedente) Jeeg Robot sceglie Virginia Raggi. È il 28 maggio 2016 e si legge: Claudio Santamaria sarà sul palco di Virginia Raggi il prossimo 3 giu­ gno a Piazza del Popolo, per la manifestazione di chiusura della campa­ gna elettorale del Movimento 5 stelle. L’attore, che aveva già esternato la propria simpatia per la candidata grillina, appoggia la corsa penta­ stellate alle prossime elezioni comunali di Roma. (...) La partecipazione

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G. Cerami, Virginia Raggi comincia da Jeeg Robot, dichiara battaglia all’Ama sull'emergenza rifiuti. Sullo sfondo l'irrisolto nodo nomine, “Huffington Post”, 7/07/2016, ora consultabile all’indirizzo: http://www.huffingtonpost.it/2oi6/o7/n/raggi-rifiuti-nomine-olimpiadi_n_io928356.html .

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo dell’attore, reduce dal grande successo della pellicola Lo Chiamavano Jeeg Robot che ha sbancato ai David di Donatello, assume un particola­ re significato proprio alla luce dell’ultimo ruolo interpretato sul grande schermo: quello di un supereroe che si muove sullo sfondo di una capi­ tale corrotta e in mano alla criminalità.910 11

Lo stesso pezzo poi sottolinea come il film sia stato citato anche dal candidato del Partito Democratico: Ci sarà forse rimasto un po’ male Roberto Giachetti, che all’inizio della sua campagna elettorale si era recato sul Tevere, proprio lì dove Santamaria nel film acquisisce i suoi poteri, e aveva dichiarato in un vi­ deo: “Per fare bene il sindaco di Roma ci vorrebbero i superpoteri. Come quelli che scopre di avere Claudio Santamaria nello straordinario film di Mainetti dopo aver fatto un bagno proprio qui. Ma forse no”.'9

A questo punto, deve intervenire Claudio Santamaria, su pro­ babile suggerimento della produzione del film, per smentire ciò che i titoli dei giornali (più che degli articoli) fanno supporre, l’i­ dea cioè di un film grillino, giovanilista, anti-governativo e contro i poteri forti. Su “La Repubblica”, il i giugno 2016, compare infatti un’intervista a Santamaria, dal titolo Giù le mani da Jeeg Robot, in cui l’attore romano spiega: “Mi fa piacere quando Jeeg viene pre­ so come simbolo da movimenti sociali. Ma la politica deve starne fuori. Sono io, Claudio, che sostengo la campagna elettorale di Vir­ ginia Raggi, non mi piace chi, anche in questo caso, ha tirato fuori Jeeg Robot”, sorridendo anche al soprannome che intanto ancora Giachetti si era dato, ovvero “Jeeg Rob蔓. Tornando al periodo successivo alla vittoria della Raggi, i media non smettono di tirare per la giacchetta il personaggio di Mainetti. In un approfondimento comparso su “Il Corriere della Sera” il 12 9

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V. Renzi, Comunali Roma: Jeeg Robot sceglie Virginia Raggi, “Roma Fan Page”, 28/05/2016, ora consultabile all’indirizzo: http://roma.fanpage.it/ comunali-roma-jeeg-robot-sceglie-virginia-raggi-daudio-santamariasul-palco-del-m5s/. Ibid. A. Finos, Claudio Santamaria: “Giù le mani da Jeeg, sono io e non lui a sostenere il M5S”, in “La Repubblica”, 01/06/2016, p. 47, ora consultabi­ le all'indirizzo: http://www.repubblica.it/spettacoli/people/2016/06/01/ news/daudio_santamaria_giu_le_mani_dajeeg_sono_io_e_non_lui_a_ sostenere_il_m5s_-i4io87445/

R. Menarini - Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot

luglio 2016, dal titolo La lezione degli outsider, Pierluigi Battista (commentatore certamente non avvicinabile agli umori penta­ stellati) mette insieme Appendine, Raggi, Jeeg Robot, Portogallo (vittorioso agli Europei di Calcio) e Brexit nell’insieme dei movi­ menti imprevedibili e anti-sistema, che trionfano a dispetto delle previsioni e dei calcoli sportivo-elettorali. Dopo aver - in largo an­ ticipo - inserito anche la corsa di Donald Trump tra gli “sfavoriti vincenti”, Battista scrive: Nello sport. Nella politica. Con la vittoria di Brexit tutti i pronostici sono stati divelti, e anche con la vittoria a sindaco di Londra del musul­ mano Sadiq Khan un outsider fa un salto che qualche anno fa sarebbe stato impensabile: l’anno dell'underdog. E anche nella comunicazione, nell’arte, nel cinema. In Italia i mostri sacri sono un po’ in apprensione perché nelle sale trionfano him partiti senza la strapotenza dei grandi apparati come Lo chiamavano Jeeg Robot di Daniele [sic] Mainetti o Per­ fetti sconosciuti di Paolo Genovese. Per Davide, contro Golia, nel 2016 sarebbe stato tutto molto più facile.'1

Ma pochi giorni prima - nell’estate calda della politica roma­ na - c’era stata anche la questione del “No” alle Olimpiadi, forte­ mente voluto dalla solita Raggi e dal suo partito. In un’intervista - sempre su “11 Corriere della Sera” comparsa il 13 giugno, dal titolo Jeeg Robot? Lui non andrebbe a votare. Ma ai Giochi direbbe si - il regista Mainetti riposiziona ulteriormente il personaggio del suo film. Questa volta, da sospetto grillino il supereroe proletario vie­ ne più cautamente inserito nel novero degli astensionisti. Mainetti afferma: "Per essere fedele al personaggio di Enzo Ceccotti, pro­ babilmente non andrebbe a votare [...]. A Claudio Santamaria ho detto ‘tu fai quello che vuoi, e fai bene a impegnarti nelle cose in cui credi, sei libero. Però chiarisci che Jeeg Robot non c entra nulla’. Lui non è il personaggio"1’. 12

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P. Battista, Cuore, umiltà, destino benevolo. La lezione degli outsider, “Il Corriere della Sera”, 12/07/2016, ora consultabile all’indirizzo: http://www. corriere.it/cronache/16_luglio_12/cuore-umilta-destino-benevolo-lezione-outsider-f7b273d2-47a8-iie6-af4e-i5bff4eo9cf7.shtml L. Mastrantonio, Jeeg Robot? Lui non andrebbe a votare. Ma ai Giochi di­ rebbe sì, “Il Corriere della Sera", 13/06/2016, p. 15, ora consultabile (con un titolo leggermente diverso) all’indirizzo: http://www.corriere.it/amministrative-2oi6/notizie/mainetti-jeeg-robot-non-voterebbe-ma-olimpiadiroma-direbbe-si-873i9bc6-3odb-ue6-9fca-ee7ao8dfacf4.shtml

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Curiosamente, dopo aver separato il film dalla politica, e il per­ sonaggio dalla militanza, Mainetti poco dopo non resiste a schie­ rare nuovamente Jeeg Robot (il nome della creatura degli anime viene ormai sostituita a quella del personaggio del film, Enzo), questa volta addirittura su sponda opposta a quella dei ^Stelle: “Se [le Olimpiadi] ci mettono tanta luce addosso, credo che qualcosa di buono la dobbiamo fare. Per me sarebbero meravigliose. E an­ che per Jeeg Robot”*4. La vicenda non si conclude con l’estate, se è vero che - sia pure più sfumatamente - il film viene nuovamente ricollocato nei con­ testi dell’opposizione, approfittando di un’altra campagna, quella referendaria costituzionale del 2016. Alla festa de “11 Fatto Quoti­ diano” a Roma, gli ospiti non a caso sono le due allora neosindache di Roma e Torino, e il cast di Lo chiamavano Jeeg Robot. Il titolo dell’articolo di lancio è indicativo: “11 Fatto a Roma: Raggi, Appen­ dine e anche Jeeg Robot” e all’interno si può leggere il programma della giornata'5. Se il palinsesto, come sappiamo, conta qualcosa, non c’è dubbio che la politicizzazione del film sia nelle intenzioni degli organizzatori. Leggiamo infatti: La festa del Fatto continua anche domenica con il primo confronto, alle 18.30, tra le “sindachedi opposizione": le due del Movimento Cinque Stelle, Chiara Appendine, eletta a Torino, e Virginia Raggi, che ha preso Roma per poi trovarsi sotto la pressione di giornali e gruppi di potere della Capitale [...]. Dopo la politica, un po’ di cinema: alle 20 la festa prosegue con “Il Jeeg Robot che non abbiamo ancora visto". Daniele [sic] Mainetti, regista del film italiano più premiato dell’ultimo anno, che ha messo d’accordo critica e botteghino, presenterà i contenuti speciali di Lo chiamavano Jeeg Robot, con molte nuove scene che non erano state incluse nella versione al cinema [...]. Il gran finale, alle 21.30, è lo spetta­ colo Perché No: tutte le bugie del Referenzum di e con Marco Travaglio.'6

E da settembre parte poi la battaglia di Claudio Santamaria per il No al referendum, ma questa volta la separazione dell’attore dal personaggio sembra finalmente avvenuta; o forse - più semplice14 15 16

Ibid. Redazione, IIFattoa Roma: Raggi, AppendinoeancheJeeg Robot, “Il FattoQuotidiano", 24/08/2016, consultato direttamente su: http://www.ilfattoquotidiano. it/premium/articoli/il-fatto-a-roma-raggi-appendino-e-anche-jeeg-robot/. Ibidem.

R. Menarini - Storia eroicomica di Lo chiamavano Jeeg Robot

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mente - non c’è più spazio per una presenza di Jeeg Robot all’in­ terno del dibattito politico, una volta che il film (come detto) si è istituzionalizzato e dopo che il tempo trascorso ha attenuato l’in­ treccio tra sceneggiatura e urgenza del degrado romano.

The End Da questa breve storia di ricezioni giornalistiche forzate non possiamo certamente trarre conclusioni affrettate. Alcune consi­ derazioni, però, si possono fare. Per esempio, anche in epoca post­ ideologica (sempre che la categoria sia ancora credibile), sembrano non mancare affatto rivendicazioni di appartenenza politica attra­ verso i film. E una storia cinematografica di indipendenza produt­ tiva e lotta (vinta) contro il sistema ministeriale viene - per motivi estemporanei (Roma come centro delle “narrazioni” cinematogra­ fiche ed elettorali) - accostata alla politica, da cui si fa appropria­ re volentieri, non fosse altro che per la casuale e contemporanea azione militante dell’attore protagonista. Emerge dunque forte la tentazione di riorganizzare le polarità partitiche sul cinema italia­ no contemporaneo. Se Checco Zalone, con il suo maggior successo (Quo vado?) aveva solleticato umori anti-sindacali e secondo al­ cuni commentatori “renziani”,'7 la vicenda di Lo chiamavano Jeeg Robot potrebbe essere invece posizionata sull’universo 5 Stelle. Curiosamente, nell’area istituzionale intorno al PD, si trovano sia il cinema popolare sia il cinema d’autore più esibito, se è vero che anche Paolo Sorrentino - prima con la cena alla Casa Bianca in compagnia del premier, poi attraverso l’appoggio alla campagna del Sì al referendum - era stato iscritto nelle truppe del governo >7

Cfr. F. Geremicca, Renzi: niente diktat Ue Sull'Uva, “La Stampa’, 04/01/2016, pp. 2-3. Nell’articolo Matteo Renzi, dopo aver esaminato le questioni ita­ liane ed europee, chiamato a un giudizio sul campione di incassi, afferma: “Sorrido di fronte a certi cambi di atteggiamento: fino a ieri era un reietto, volgare, snobbato da certi intellettuali [...]. Dico che Zalone è un uomo molto intelligente, e che l'operazione di lancio del film è un capolavoro, geniale. In sala cera gente normale, che si è divertita. E i professionisti del radical-chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere” Ora consultabile all'indirizzo: http://www. lastampa.it/2016/01/04/italia/p0litica/renzi-niente-diktat-ue-sullilvaFgRQKqOslSeWWv46oNqF4N/pagina.html.



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nell’autunno del 2016. Anche se tutto questo sembra in parte su­ perato dai successivi avvenimenti politici (le elezioni del 2018 e il conseguente accordo di governo tra 5 Stelle e Lega), la vicenda rimane esemplare. Dunque, se è poco interessante per gli studiosi decidere che Lo chiamavano Jeeg Robot sia di destra o di sinistra (oppure, con cate­ gorie più recenti, elitario o populista), rimane invece propizio alla ricerca sondare la fortuna critica dei fenomeni più recenti per trar­ ne nozioni utili alla riflessione sull’impegno e Yengagement nella cultura cinematografica italiana.

8. LA POSTURA DEL CRITICO DAVANTI A LA BOCCA DEL LUPO Fabio Andreazza

Tra i più recenti membri italiani deir'antica e onorevole Com­ pagnia dei critici della società”* si può tranquillamente annovera­ re Pietro Marcello. Al centro dei suoi film - dal Passaggio della li­ nea (2007) a Bella e perduta (2015), passando per La bocca del lupo (2009) - si trovano aspetti che l’ordine sociale tende a nascondere. La bocca del lupo, commissionato dalla Fondazione San Marcelli­ no (un ente religioso che si occupa di persone senza fissa dimora), racconta la storia d’amore nata in carcere fra un sottoproletario siciliano condannato a una lunga pena e una donna transgender romana di origine borghese, fuggita molti anni prima nel capo­ luogo ligure. La città, coprotagonista dell’opera, è presentata dal regista anche attraverso immagini d’archivio che ne ricordano il passato industriale. Nelle note di regia pubblicate nel pressbook Marcello scrive che l’intento era di raccontare non tanto l’attività della Fondazione quanto il mondo a cui questa si rivolge, le persone e la città. (...] Ho vissuto in una zona, l’area dell’angiporto, dove - come nella maggioranza delle città del nord - sempre più si estingue il tessuto sociale, dove la memoria è im­ pressa nelle pietre di Sottoripa. Ho provato a rappresentare il presente intomo a me, quei residuali che vengono da un mondo passato, mentre la nostalgia del Novecento è rappresentata attraverso i repertori, fìlmini amatoriali e non, realizzati da genovesi di lunga generazione.112

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M. Walzer, The Company of Critics: Social Criticism and Political Com­ mitment in the Twentieth Century, Basic Books, New York 1988, tr. it. di E. Cavani Hailing, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, il Mulino, Bologna 1991, p. 19. II pressbook è disponibile sulla pagina di MyMovies del film: http://www. mymovies.it/film/2oo9/laboccadellupo/pressbook/ [ultimo accesso io agosto 2019].

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li regista ha puntato la macchina da presa sul sottoproletariato che popola la zona degradata del centro storico, in cui è vissuto con lo spirito dell’antropologo urbano - durante la preparazione del film. Le persone che si vedono sullo schermo sono i soprav­ vissuti alle trasformazioni economiche che la città ha attraversato negli ultimi decenni. È in questo strato sociale che si mantiene vivo un senso di comunità, anche se in via di estinzione, come più generalmente nelle città settentrionali. Le immagini d’archivio mostrano un’età dell’oro, da guardare con nostalgia: l’epoca della Genova industriale in cui gli operai occupavano una posizione cen­ trale nella società. Smantellate le fabbriche e disgregata l’identità di classe, solo nella fascia economicamente più subalterna sono rimasti dei legami collettivi, un senso di connessione reciproca. Nelle recensioni ci sono tracce di quanto dichiarato nel pressbook: i critici erano consapevoli delle intenzioni autoriali sin dalla prima mondiale della Bocca del lupo al Torino Film Festival del novembre 2009, dove ha ottenuto il premio come miglior film (seguito dal pre­ mio Caligari alla Berlinale del febbraio seguente). Nel loro orizzonte d’attesa c’era un’opera di critica sociale: per questo motivo la sua ri­ cezione costituisce una cartina al tornasole per osservare le posture3 *5 assunte dai critici militanti nei confronti del cinema impegnato. 3

Questo concetto è stato sviluppato in ambito letterario prima da Alain Viala e in seguito da Jerome Meizoz. Viala lo definisce “un modo di occu­ pare una posizione" nel campo letterario (“si può, per esempio, occupare modestamente una posizione vantaggiosa, o occupare con grande cla­ more una posizione modesta”) e lo considera uno degli aspetti del modo di essere scrittori (A. Viala, Eléments de sociopoétique, in Id., Georges Molinié, Approches de la réception. Sémiostylistique et sociopoétique de Le Clézio, Presses Universitaires de France, Paris 1993, pp. 216-217). Mei­ zoz si spinge oltre, dando alla nozione di postura un senso più ampio: essa “è da una parte la presentazione di sé, le condotte pubbliche in un contesto letterario dall’altra, l’immagine di sé costruita nel discorso e attraverso di esso, ciò che la retorica definisce ethos" (J. Meizoz, Postures littéraires. Mises en scène modernes de lauteur, Slatkine, Genève 2007, p. 21). È quindi da un lato la messa in scena sociale dello scrittore e dall’altro l’immagine di sé che comunica nel testo, vale a dire l’ethos, un concetto retorico che ha una lunga storia (R. Amossy, La présentation de soi. Ethos et identité verbale, Presses Universitaires de France, Paris 2010). Qui pren­ derò in considerazione la seconda dimensione della postura, dal momento che il critico crea la propria immagine attraverso le parole che usa nelle recensioni; solo in casi eccezionali mette in scena il suo corpo. (Dove noti diversamente indicato, le traduzioni sono di chi scrive).

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Critica militante, critica sui quotidiani Che cosa intendiamo per critica militante? In un certo sen­ so, il suo raggio d’azione può essere molto esteso. In un saggio su Benedetto Croce, Luigi Russo afferma che "se egli ha scritto che tutta la storia è storia contemporanea, si può analogamen­ te affermare che tutta la critica, quella degna del nome, è sem­ pre critica militante”4. Non è quindi militante perché si rivolge a opere contemporanee e si pubblica sui giornali: lo è perché interroga l’arte muovendo dagli interessi del presente. Questa accezione è condivisibile, ma se si adotta una prospettiva socio­ logica è più produttivo mantenere la ripartizione tradizionale, perché la critica cinematografica è un “campo”, secondo la no­ zione di Pierre Bourdieu, vale a dire uno spazio sociale dotato di una storia, di specifiche modalità di funzionamento, poste in gioco e confini, per quanto fluidi5. È insomma uno spazio strut­ turato e diversificato al suo interno e, benché siano frequenti le sovrapposizioni fra critica accademica e critica militante (non è rara la collaborazione di docenti universitari con riviste specia­ lizzate non accademiche), i due sottocampi sono di norma per­ cepiti come ambiti separati. A loro volta, questi sottocampi sono internamente differenziati. Per quanto riguarda la produzione militante, la critica sui quotidiani non è pienamente assimila­ bile a quella esercitata sulle testate specializzate (sia cartacee che web), perché la collocazione in un organo di stampa la cui principale funzione è di informare sull’attualità, soprattutto po­ litica, la rende più facilmente permeabile da istanze eteronome. Per questa ragione è una tipologia interessante al nostro scopo: permette di saggiare meglio le relazioni fra critica e dimensione politica, fra critica e impegno6. 4 5

6

L. Russo, La critica letteraria contemporanea, Sansoni, Firenze 1967 (i4 ed.: Laterza, Bari 1942), p. 107. Cfr. P. Bourdieu, Les règles de l’art. Cenèse et structure du champ iittéraire, Seuil, Paris 1992, trad. it. di A. Boschetti, E. Bottaro, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano 2005. Ciò non significa che nelle riviste specializzate non possa entrare in gioco la politica. È accaduto soprattutto nei periodi in cui l'impegno politico era molto diffuso, come negli anni Settanta (cfr. C. Bisoni, Gli anni affollati. La cultura cinematografica italiana 6970-1979), Carocci, Roma 2009).

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II sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

Ciò è particolarmente vero in Italia. In un influente studio com­ parato sul giornalismo di Daniel C. Hallin e Paolo Mancini, la stampa italiana - da intendersi soprattutto come quotidiana - è annoverata, assieme a quella delle altre nazioni dell’Europa meri­ dionale (Grecia, Portogallo, Spagna e, in misura minore, Francia), nel modello “pluralista-polarizzato”7. In questi paesi le istituzioni liberali, il sistema capitalistico e la democrazia politica si sono dif­ fusi più tardi rispetti all’Europa settentrionale. Questa “tardiva e travagliata transizione alla democrazia nella regione mediterranea dell’Europa occidentale ha prodotto specifici modelli di relazione fra i media e il mondo politico”8. In quest’area geografica, infatti, “i giornali tendono a rappresentare distinti orientamenti politici e questo trova una corrispondenza negli atteggiamenti politici dei loro lettori”9. Questa condivisione identitaria è particolarmente diffusa in Italia, dove secondo Carlo Sorrentino la “forte politiciz­ zazione” è “la principale peculiarità del giornalismo”"’. Se prendiamo in considerazione l’Italia contemporanea, regi­ striamo un’estremizzazione di tale fenomeno nel 2009, durante il quarto governo Berlusconi (2008-2011), quando ha preso l’av­ vio un “bipolarismo muscolare” della stampa". “Ciò che è acca­ duto in politica, la radicalizzazione dei due maggiori partiti po­ litici (Il Popolo della Libertà e Partito Democratico], - afferma Marcello Sorgi - è avvenuto anche nel giornalismo, con ‘La Re­ pubblica’, ‘Il Fatto Quotidiano’ e TUnità’ da una parte, e ‘Il Gior­ nale’ e ‘Libero’ dall’altra”'*. Il 'Corriere della Sera’ e ‘La Stampa’, avendo lettori di entrambi gli schieramenti, hanno subito meno questa radicalizzazione'3. 7

8 9 10

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12 13

D. C. Hallin, P. Mancini, Comparing Media Systems: Three Models of Me­ dia and Politics, University of Cambridge, Cambridge 2004, trad. it. di S. Marini (ed. ridotta), Modelli di giornalismo. Mass media e politica nelle democrazie occidentali, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 79-126. Ivi, pp. 80-81. Ivi, p. 88. C. Sorrentino, L'ampliamento del campo giornalistico, in Id. (a cura di), Il campo giornalistico. I nuovi orizzonti dell’informazione, Carocci, Roma 2006, p. 22. Cfr. F. Gugliano, J. Lloyd, Eserciti di carta. Comesifa informazione in Italia, Feltrinelli, Milano 2013, p. 89. Ivi, p. 100. Ibid.

F. Andreazza - La postura del critico davanti a La bocca del lupo

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In questo quadro giornalistico è uscito La bocca del lupo. Per quanto non si possa sostenere che i recensori ne abbiano risenti­ to in modo particolare, si deve tuttavia sottolineare che i giornali non manifestano la propria visione politica solo negli editoriali e nelle pagine di cronaca parlamentare, ma anche nella discussione di oggetti culturali*4.

Posture critiche Nella Tabella i compaiono i principali quotidiani d’opinione1*, il loro orientamento politico, i nomi dei critici e le loro posture assunte rispetto alla nozione di impegno.* Critico

Postura

“Corriere della Sera” Centro

Paolo Mereghetti

Moderatamente impegnata

"Il Fatto Quotidiano”

Sinistra

Federico Pontiggia

Impegnata

“Il Foglio”

Centro-destra

Mariarosa Mancuso

Disimpegnata

“Il Giornale"

Centro-destra

Maurizio Cabona

Disimpegnata

“il manifesto”

Sinistra

Roberto Silvestri

Impegnata

“Il Messaggero”

Centro

Fabio Ferzetti

Impegnata

“La Nazione” "Il Resto del Carlino” "Il Giorno”

Centro-destra

Silvio Danese

Disimpegnata

Quotidiano

14

15

Orientamento politico

“Attraverso l’informazione e la divulgazione culturale, infatti, si rivela­ no scelte fondamentali del giornale e magari con chiarezza maggiore di quanto si palesi nelle pagine più direttamente politiche”. N. Tranfaglia, Ma esiste il quarto potere in Italia? Stampa e potere politico nella storia dell’I­ talia unita, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005, pp. 37-38. Questa consi­ derazione svolta per le pagine culturali si può estendere alla recensione cinematografica, nonostante sia di norma collocata in uno spazio, quello degli spettacoli, dai contenuti assai eterogenei. Non mi risulta che “Libero” abbia recensito il film.

It sistema dell’impegno net cinema italiano contemporaneo

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“La Repubblica”

Centro-sinistra

Paolo D'Agostini

Moderatamente impegnata

"Il Sole 24 Ore”

Centro

Goffredo Fofi

Impegnata

“La Stampa"

Centro

Lietta Tornabuoni

Moderatamente impegnata

“Il Tempo"

Centro-destra

Gian Luigi Rondi

Disimpegnata

“l’Unità"

Centro-sinistra

Gabriella Gallozzi

Impegnata

Tabella i: I critici del quotidiani principali e le loro posture rispetto alla nozione di impegno

La postura impegnata è rappresentata da Goffredo Fofi ("Il Sole 24 Ore”), uno dei più noti intellettuali italiani di sinistra, Gabriella Gallozzi (TUnità”) e Roberto Silvestri (“il manifesto”). Fofi definisce La bocca del lupo “un poema sul tempo che passa, sulla fine della Genova della modernità, che anche di qui pre­ se vita (da Colombo, indirettamente evocato - le navi a vela, il monumento - alla morte e distruzione delle vecchie fabbriche, alla fine del proletariato), e sull’avvento di un’inquietante post­ modernità”'6. La nostalgia dell’assetto socioeconomico del secolo scorso (accennato dal regista nel pressbook) nel quale l’operaio aveva un ruolo ben definito, e lo smarrimento di fronte alla dein­ dustrializzazione, che ha marginalizzato il lavoro umano e dis­ solto l’identità di classe, sono al centro dell’opera, che obbedisce a una logica profonda: “colpisce un disegno soggiacente a questo film e a quello precedente (...) che possiamo interpretare, con qualche piccola forzatura, come una sorta di ‘elogio del sotto­ proletariato’”. Un gruppo sociale spesso “condizione di nascita", ma che “può anche essere il rifugio di chi fugge (come è proba­ bilmente accaduto alla Mary del film) dalle chiusure, dai perbe­ nismi”, uno spazio sottratto al "dominio di una piccola borghesia livellatrice di ogni altro strato sociale”'7. Il film presenta delle vit­ time (“un elemento decisivo - secondo Franck Fischbach - che permette a un film di possedere e di esercitare una funziorie di 16 17

G. Fofi, In bocca al lupo, sottoproletari, in “Il Sole 24 Ore”, 22 novembre 2009. Ibid.

F. Andreazza - La postura del critico davanti a La bocca del lupo

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critica sociale”'8), ma di queste vittime esalta il ceto, perché por­ tatore di un senso di appartenenza collettiva altrove scomparso. Su questa linea sono le reazioni al film di Gallozzi, che parla di “sguardo ‘sovversivo’ di un cinema non allineato”’9, e di Silvestri, che definisce il lavoro di Marcello un cinema "di combattimento”, “dedicato agli outsider insorgenti di oggi che danno ancora un’a­ nima al nostro quotidiano esanime”18 20. 19 La postura impegnata, in ultima analisi, contraddistingue chi valorizza nell’opera d’arte la critica all’esistente e la ricerca di nuove prospettive politiche e sociali, ed è assunta anche da Fabio Ferzetti (“Il Messaggero”) e Federico Pontiggia (“11 Fatto Quoti­ diano”), sebbene per interposta persona e quindi in modo più blando. Quest’ultimo riporta - e di fatto fa proprie - le dichiara­ zioni politiche del regista: “dopo la grande storia del Novecento, bisogna andare avanti, partire dalla realtà per modificarla, come fa il cinema”21, mentre Ferzetti riferisce le parole di padre Nicola Gay (cofondatore della Fondazione San Marcellino), secondo il quale il film mostra la possibilità di eliminare l’emarginazione22. La postura moderatamente impegnata è incarnata da Paolo D’A­ gostini (“La Repubblica”), Paolo Mereghetti (“Corriere della Sera”) e Lietta Tornabuoni (“La Stampa”). D’Agostini descrive La bocca del lupo come una “struggente storia d’amore tra un ex galeotto e un travestito [sic] nel ventre fatiscente della vecchia Genova, storia di reietti ed esclusi”23; Mereghetti come “una storia d’amore e il ritratto di una condizione sociale, la metamorfosi di una città e il susseguirsi del tempo”, in cui il regista “mostra i cambiamenti che hanno trasformato il volto di Genova, non più il mondo poetico e romantico dei ‘carugi’ cantati da De André ma nemmeno quello

18 19

20

21

22

23

F. Fischbach, La critique sociale au cinema, Vrin, Parigi 2012, p. 96. G. Gallozzi, L’amore, la trans e l’assassino alla conquista di Torino, in “l’Unità”, 17 novembre 2009. R. Silvestri, Amori rivoltosifra i vicoli genovesi, in “il manifesto", 17 novem­ bre 2009. F. Pontiggia, Festival di Torino: Novecento, quanta nostalgia, in “Il Fatto Quotidiano”, 17 novembre 2009. Cfr. F. Ferzetti, Il coraggio dei gesuiti: "Basta che sia amore”, in “Il Messag­ gero”, 23 novembre 2009. P. D’Agostini, Torino sforna sorprese. Ecco un film-gioiello costato ^ornila euro, in “La Repubblica”, 23 novembre 2009.

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

industriale e produttivo che costruiva giganteschi transatlantici”24. La rappresentazione del passato si carica di pathos in Tornabuoni, che evoca "i mutamenti imposti dal tempo a Genova”, “la nostal­ gia del Novecento”, il “rimpianto e [l’jamore per la bellezza che non c’è più”,25 nonché da D’Agostini, che accenna a una “Genova già orgogliosamente industriale”26. La presenza di questi temi non induce i critici a rinvenire nel film una carica sovversiva, un elogio del sottoproletariato, un desiderio di trasformazione della società. Anzi: Tornabuoni constata con sollievo “buone volontà sociopoli­ tiche zero”2728 , Mereghetti afferma che Marcello ha lavorato “senza mascherare la miseria della realtà ma riscattandola con la passione dei sentimenti”23 e D’Agostini vede nella "ruvida tenerezza” della coppia “il riscatto da un panorama di macerie”2930 . La bocca del lupo descrive una realtà di miseria priva di prospettive, uno stato di de­ solazione che solo la forza dei sentimenti può trasfigurare in una vita qualitativamente superiore. Per i critici che rivelano un impe­ gno temperato, insomma, questo film documenta problemi della società senza risvegliare desideri di cambiamento, propendendo invece per un rifugio nel privato, per le consolazioni dell’amore. È una funzione artistica, quella consolatoria, legittima in un’epoca in cui l’impegno politico non è più, a differenza di qualche decennio fa, l’unica condotta intellettuale davvero degna di cittadinanza. Infine la postura disimpegnata, impersonata da Maurizio Cabona (“Il Giornale”), Silvio Danese (“La Nazione”-"!! Resto del Carlino”-"!! Giorno”), Mariarosa Mancuso (“Il Foglio”) e Gian Lui­ gi Rondi (“Il Tempo”). Quest’ultimo accenna ai “quartieri più mi­ seri della città” in cui vivono i protagonisti e all’uso di immagini d’archivio "per evocare un clima, ricostruire degli ambienti”’0. Per lui si tratta di materiale meramente decorativo, privo del valore politico che si potrebbe cogliere grazie al gioco contrappuntistico 24

25 26 27 28 29 30

P. Mereghetti, Sorpresa italiana: carcerato e trans in un film di poesia, in “Corriere della Sera”, 16 novembre 2009. L. Tornabuoni, In difesa degli ultimi, in “La Stampa”, 16 novembre 2009. P. D’Agostini, op.cit. L. Tornabuoni, op. cit. P. Mereghetti, op. cit. t P. D’Agostini, Enzo e Mary, un po’ angeli un po’ naufraghi della vita, in “La Repubblica”, 15 febbraio 2010. G. L. Rondi, L'amore dietro le sbarre, in “Il Tempo”, 20 febbraio 2010.

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che trasmette uno iato fra il glorioso passato industriale e l’incerto presente. "Al centro però - continua il critico - ci sono soprattutto i due protagonisti, ora presentati da una voce narrante - asciutta, mai letteraria - ora ascoltati mentre ci dicono di sé, del loro pas­ sato, dei loro sentimenti reciproci, delle loro piccole aspirazioni per un futuro in cui si vedono finalmente riuniti in una casetta in collina da cui, però, sia possibile vedere il mare”3'. La bocca del lupo sembra essere, in sostanza, la narrazione delle tranquille vicende coniugali di una coppia, la quale anziché identificarsi con il fofiano sottoproletariato che sfugge al livellamento piccolo-borghese, di tale livellamento è un’esemplare personificazione. Il risalto dato alla dimensione sentimentale e l’annullamento della profondità storica e delle istanze sociali caratterizzano anche la recensione di Danese: “Dagli scogli di Quarto e dell’angiporto ai caffè perenni, Marcello inserisce in un tempo da epifania la duratura passione tra due ex detenuti, l’introverso Enzo ‘faccia da mitra’ e 1’accogliente Mary, a partire da un epistolario che cuce biografìa ed emozioni”31 32. Mancuso, invece, elenca gli aspetti storico-sociali ("Genova com’e­ ra e come non sarà più”, “sguardo sull’emigrazione e sulla malavita di qualche decennio fa”, “nostalgia per la vita comunitaria attor­ no al porto”), ma li liquida insieme alle immagini d’archivio (“non sempre si legano al resto, e danno l’impressione di un riempitivo”) e aggiunge: “Meglio, molto meglio, la storia passionale tra il sici­ liano Enzo e la transessuale Mary”33. Se a queste considerazioni sommiamo il biasimo di Cabona per la “vena edificante”34 del film, abbiamo un quadro completo della postura disimpegnata: quella di chi chiede a un film intrattenimento e sentimento (purché non sia sentimento della politica), mentre rifiuta i tentativi di critica sociale e i propositi pedagogici35. 31 32

33 34 35

Ibid. S. Danese, Genova quasi pasoliniana, “La Nazione”-“ll Resto del Carlino”“11 Giorno”, 26 febbraio 2010. M. Mancuso, La bocca del lupo, in “Il Foglio”, 23 febbraio 2010. M. Cabona, La “favola"di due simpatici infelici, in “Il Giornale", 19 febbraio 2010. La rilevanza sociale dei temi e la funzione pedagogica dell'arte sono i consueti bersagli di chi mette alla berlina i gusti del ceto colto di sinistra (cfr. F. Abbate, Sul conformismo di sinistra, Gaffi, Roma 2005, pp. 33-37: E. Berselli, Venerati maestri. Operetta immorale sugli intelligenti d’Italia, Mondadori, Milano 2006, p. 6).

I2Ó

// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Rapporti di omologia fra critici e quotidiani Le tre posture, come si può vedere nella Tabella i, corrispon­ dono grosso modo agli orientamenti politici dei quotidiani*6: po­ stura impegnata/sinistra e centro-sinistra, moderatamente impegnata/centro e centro-sinistra, disimpegnata/centro-destra. Questa omologia fra testate e critici si ritrova anche fra critici e lettori. "Secondo la legge che vuole che non si predichi che ai convertiti - scrive Bourdieu -, un critico può avere ‘influenza’ sui suoi lettori nella misura in cui essi gli concedono questo potere in quanto strutturalmente conformi a lui nella visione del mondo sociale, nei gusti e nell’habitus”*7. È questo fenomeno a creare la complicità fra critico e lettori, i quali, come si è visto, in Italia si identificano intensamente nei quotidiani abitualmente acquista­ ti. Questi ultimi reclutano critici conformi alla propria visione della società, riproducendo in tal modo le loro logiche nel cam­ po della critica, la quale manifesta un’autonomia molto relativa. Per individuare la forma di impegno più prestigiosa nella critica quotidianista bisogna pertanto stabilire le posizioni dominanti nel campo giornalistico. Poiché esse sono occupate dal “Corrie­ re della Sera” e dalla "Repubblica’’*8, la postura più rispettabile 36

37 38

Per spiegare in modo esauriente questi rapporti di omologia e di diffor­ mità bisognerebbe analizzare la traiettoria sociale di ogni critico e la sua posizione all’interno del giornale in cui scrive. Limitiamoci a un cenno al caso più anomalo, quello di Fob, che esibisce una sensibilità politica molto lontana da quella del quotidiano di Confindustria. La notorietà del critico (e della sua idea di società) è tale che il lettore lo riconosce imme­ diatamente come un corpo estraneo; lettore che può tuttavia apprezzare la scelta, riconducendola alla cultura liberale che informa il giornale. Quanto al disinteresse di Fob per il datore di lavoro - si tratta sempre di “vendere la propria forza-lavoro (diciamo, più volgarmente, ‘il culo’) a un padrone (e perciò si fa lutti, cioè i miliardi di subalterni, ‘il gioco del capitale’)” -, cfr. L. Mastrantonio, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell'impegno, Marsilio, Venezia 2013, pp. 160-161. La cita­ zione è tratta da G. Fob, L'anima e il culo, in “l’Unità”, 23 maggio 1990. P. Bourdieu, La distinction. Critique sociale du jugement, Minuit, Paris 1979, p. 267. Questa frase non è presente nell’edizione italiana del libro. “Il ‘Corriere della Sera’ è il quotidiano più diffuso e autorevole oscillando intorno alle settecentomila copie al giorno seguito dalia ‘Repubblica’” (N. Tranfaglia, op. it., p. 302). Sulla coincidenza, tutta italiana, di autorevolez­ za e popolarità nei quotidiani, si veda G. Valentini, Media village. L’infor­ mazione nell’era di internet. Donzelli, Roma 2000, pp. 81-84. Rientrano nel

F. And rea zza - La postura del critico davanti a La bocca del lupo

127

risulta essere quella moderatamente impegnata. È la postura di critici sensibili ai problemi della società, perché formatisi in un contesto culturale egemonizzato dalla sinistra’9 e dominato dall’etica dell’impegno - Mereghetti (1949) in gioventù è stato condirettore di un periodico della “nuova sinistra”, "Ombre ros­ se”; D’Agostini (1952) lavora nel quotidiano progressista romano fin dalla fondazione - ma che (oggi) sono orientati a vedere in un film come La bocca del lupo i sentimenti che sublimano la mise­ ria piuttosto che l’energia politica. “Impegno” è la traduzione della parola d’ordine di Sartre engage­ ment e iniziò a circolare in Italia attraverso un articolo del filosofo francese pubblicato nel gennaio 1946 sul “Politecnico”40, la rivista fondata da Elio Vittorini4’. Quest’ultimo qualche mese prima, nel settembre 1945, aveva aperto il primo numero del periodico con un editoriale-manifesto che iniziava così: "Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle soffe­ renze, che le combatta e le elimini”41. Vittorini propugnava un’idea di cultura che, in autonomia rispetto alle linee guida dei partiti di sinistra (PCI anzitutto), contribuisse alla critica e al progresso sociali, lasciandosi alle spalle il concetto crociano - fino ad allo­ ra più rinomato - di arte pura, svincolata da preoccupazioni pra­

39

40 41

42

noverodei “maggiori quotidiani italiani” degli anni Duemila anche “Il Sole 24 Ore”, “La Stampa", “Il Messaggero” e “Il Giornale” (cfr. P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano. Dalle gazzette a internet, il Mulino, Bologna 2014, p. 314), che però vendono molte meno copie. Cfr. N. Ajello, Il lungo addio, intellettuali e Pei dal 1958 al 1991, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 3-120; F. Attal, Histoiredes intellectuels italiens au XX' siècle. Prophètes, philosophes et experts, Les Belles Lettres, Paris 2013, pp. 411-442. Jean-Paul Sartre, Una nuova cultura come “cultura sintetica ", in “Il Politec­ nico”, a. II, n. 16,12 gennaio 1946, poi in M. Forti, S. Pautasso (a cura di), Il Politecnico [antologia], Rizzoli, Milano 1975, pp. 73-77. Naturalmente non è a partire da questo momento che in Italia letterati, filosofi e scienziati si interessano attivamente alla vita civile. Le origini di questo fenomeno si possono rintracciare nel Quattrocento, in età umani­ stica (cfr. E. Garin, Intervista sull’intellettuale, a cura di N. Ajello, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 4), ma è agli inizi del Novecento che gli intellettuali si autorappresentano come gruppo deputato a intervenire sulla realtà politi­ ca e sociale del paese (cfr. F. Attal, op. cit., p. 8). E. Vittorini, Una nuova cultura, in “Il Politecnico", a. I, n. 1, 29 settembre *945- poi in M. Forti, S. Pautasso (a cura di), op. cit., p. 55.

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tiche. Questa polarizzazione ha attraversato la vita culturale dei decenni successivi fino a oggi. Nella produzione cinematografica la nozione di impegno è tuttora espressa dai film che discendono dalla stirpe neorealista, come La bocca del lupo. L’analisi della sua ricezione ha mostrato come, nonostante le istruzioni dell’autore, l’opera si sia prestata a letture anche assai divergenti, che rappre­ sentano - e i certi casi cercano di accogliere in sé - quella polariz­ zazione, e offrono indicazioni sui principi di classificazione vigen­ ti nel campo della critica, uno spazio dai confini, come si è visto, molto permeabili.

9IL CINEMA DI CLAUDIO CALIGARI E NON ESSERE CATTIVO Impegno e legittimazione postuma nel sistema cinematografico italiano Gabriele Rigola

Negli ultimi decenni i contorni, le strategie, i contenuti e le strutture dell’industria culturale e del sistema cinematografico nel nostro Paese si sono ampiamente modificati, problematizzati e resi fluidi. Il problema dell’impegno, della rappresentazione socia­ le e delle istanze civili, in questo frangente, continua ad essere uno dei nodi più indicativi tanto a livello di decifrazione del presente, quanto di costruzione di un immaginario. Questo contributo assume come linee metodologiche portanti l’apporto di una rinnovata storiografìa che vede in una pragma­ tica dell’impegno gli stimoli più pertinenti per ragionare sul si­ stema culturale odierno, cinematografico e non solo'. Da un lato si riconoscono come essenziali le nuove prospettive sui rapporti tra politica, impegno civile e contesti culturali della contempo­ raneità; dall’altro si intende come fruttuosa una definizione pro­ blematica ma estesa della nozione di impegno. Una nozione di impegno, secondo un dibattito rinvigorito dai recenti contribu­ ti nell’ambito degli Italian studies1, che si adatti all’evoluzione dell’industria culturale e dei nuovi media, priva di un intentoi2 i

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Facciamo riferimento ai contributi di J. Burns, Fragments of impegno: Interpretations of Commitment in Contemporary Italian Narrative 19802000, Northern University Press, Leeds 2001; P. Antonello, F. Mussgnug (a cura di), Postmodern Impegno: Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Peter Lang, Oxford-New York 2009; sul cinema italiano contemporaneo: G. Lombardi, C. Uva (a cura di), Italian Political Cinema. Public Life, Imaginary, and Identity in Contemporary Italian Film, Peter Lang, Oxford-Berna-New York 2016. Rispetto alla dimensione prettamente politica si rimanda a C. Uva (a cura di), Schermi politici. Storia, identità e ideologia nel cinema italiano, “Rivi­ sta di Politica", n. 1, 2014.

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“egemonico” e “ideologico”5, con una forte propensione melo­ drammatica e in stretto legame con altri agenti che ne dilatino la portata, a partire dal pubblico345. Nello specifico ci si concentrerà sull’influenza che le diverse dinamiche dell’impegno e del politi­ co hanno sulle pratiche industriali, produttive e di legittimazio­ ne culturale nel cinema italiano contemporaneo. In questo contesto metodologico appena tratteggiato, si vorreb­ be studiare un caso di riferimento, particolarmente esemplificati­ vo: le vicende produttive dell’opera di Claudio Caligari, documen­ tarista e autore di soli tre lungometraggi, ritornato qualche tempo fa al centro dell’attenzione per l’uscita del suo ultimo film e per la sua prematura scomparsa5. Nato nel 1948, esordiente tardivo verso la fine degli anni ’70, Ca­ ligari all’inizio della sua carriera realizza opere volutamente under­ ground, ai confini del filmabile, come Perché droga (1976), Lotte nel Belice (1977), e soprattutto La parte bassa (1978), realizzato con Franco Barbero, che descrive il movimento settantasettino a Mila­ no, documentario girato con un videoregistratore portatile "open ree!” e poi trasferito su pellicola 16 mm grazie al vidigrafo inventa­ to da Alberto Grifi. Si tratta di veri e propri documenti civili, che appartengono al circuito quasi invisibile del cinema italiano dei tardi anni ’70, e che nella sua produzione rappresentano le prime rivendicazioni di un filmare politico, tanto da un punto di vista tematico quanto formale. Il primo lungometraggio, Amore tossico (1983), segna l’esigenza di indirizzarsi ad un pubblico più ampio: a differenza di Perché dro­ ga, il progetto di Amore tossico esprimeva la necessità di orientarsi verso nuovi parametri, anzitutto commerciali, pur ritornando su tematiche simili, che fanno del primo lungometraggio caligariano un oggetto ambiguo e fuori dal comune. Il taglio documentaristi3 4

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Su tali questioni, pur riflettendo su prodotti che rileggono un periodo sto­ rico preciso come l’antifascismo, discute G. Manzoli, Postmodern antifa­ scismo, in “Cinema e storia”, IV, 2015, pp. 117-130. A. O’Leary (a cura di), The Politics of Italian Cinema: Genres, Modes and Scholarship. A Roundtable, in “The Italianist”, a. 33, n. 2, giugno 2013, pp. 236-320. L’attenzione ha coinciso con l’uscita del primo libro su Caligari, anche se non particolarmente utile ai fini del nostro saggio: E Zanello (a cura di), Il cinema di Claudio Caligari, Edizioni II Foglio, Piombino 2016.

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co, l’articolata e lunghissima preparazione che precede le riprese, lo stile da film-inchiesta, sono però da mettere in relazione con la fiction: gli attori sono ex tossicodipendenti che, malgrado la forte aderenza dei dialoghi e delle vicende con la loro vita reale, recitano una parte. Lo stesso linguaggio del film, pur essendo un “gergo po­ polaresco riprodotto con un’aderenza mimetica al vero a dir poco impressionante, frutto di un lavoro strutturale e millimetrico sui codici del linguaggio e le sue applicazioni più viscerali”,6 è in grado di inventare un modello linguistico trasfigurato, al contempo ade­ rente al parlato e anti-realistico7. L’unicità del film e i suoi aspetti specifici ci condurrebbero in altre direzioni rispetto al nostro discorso principale: quello che qui interessa considerare è che Amore tossico va valutato come primo episodio in cui si sviluppa la caratteristica principale - in termini produttivi - della carriera di Caligari: la difficoltà di ottenere atten­ zione e finanziamenti da un lato, e gli intoppi di carattere organiz­ zativo e produttivo dall’altro. In particolare, il piccolo produttore inizialmente coinvolto rinuncia, il film si blocca e solo in un suc­ cessivo momento, anche grazie all’interessamento del regista Mar­ co Ferrari (che difende il film in più sedi, presentandolo anche alla Mostra di Venezia del 1983), viene prodotto dalla Iter International e da Giorgio Nocella, e poi distribuito dalla Gaumont. Amore tossico, svolta commerciale nella carriera di Caligari, pur ancorata alla descrizione sociologica8 del mondo della tossicodi­ pendenza nelle borgate romane9, per le vicissitudini qui riassunte rappresenta un precedente, un cortocircuito tra istanze autoriali e difficoltà produttive, per il contesto industriale specifico in cui il film viene realizzato, ma anche per specifici eventi extra-cinema­ 6 7 8 9

D. Stanzione, Un'appropriazione indebita del “pasolinismo”?, in F. Zanelle (a cura di), op. cit. (p. 33). Sui gerghi si veda M. Trifone, Aspetti linguìstici della marginalità nella pe­ riferia romana, Guerra edizioni, Perugia 1993. II primo collaboratore del regista, nonché co-autore del soggetto e delle diverse versioni della sceneggiatura, è Guido Blumir, sociologo ed esperto di tossicodipendenze. Citiamo di sfuggita che, come molta letteratura ha riconosciuto, il film (e l’intero percorso di Caligari) deve molto all’opera di Pier Paolo Pasolini, tanto da ambientare una delle sequenze più disturbanti, quella della morte di Michela, proprio a cospetto del monumento in ricordo del regista, all’i­ droscalo di Ostia dove Pasolini è stato trovato morto.

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tografici. Malgrado ciò il film, dopo la burrascosa presentazione a Venezia, riesce a ritagliarsi un ruolo non scontato nei dibattiti dell’epoca, a diventare un fenomeno di costume e a trasformar­ si in breve tempo in film di culto per più generazioni. Il film in particolare penetra nel dibattito socio-culturale sulla droga e la tossicodipendenza, per i modi in cui il tema viene trattato nella pellicola. Citiamo soltanto un episodio, tra i diversi, per rendere conto di tale questione: Caligari viene invitato a presenziare ad un convegno organizzato alla Camera di Commercio di Venezia il 17 dicembre 1988, vari anni dopo l’uscita del film, sul tema della droga nel cinema. Gli atti del convegno10*12 , raccolti nel 1991, dimo­ 13 strano l’importanza del film, e dei suoi metodi di realizzazione, in un periodo di ampia riflessione sul tema delle tossicodipendenze, dell’eroina e dell’AIDS. Dopo Amore tossico la maggior parte dei progetti che il regista piemontese concepisce o a cui s’interessa si arena, viene bloccata, va incontro a difficoltà: è il caso di due progetti importanti, anni di lavoro poi non concretizzato. Il primo, in realtà successivo alla realizzazione del secondo lungometraggio, riguarda il tentativo di adattare il romanzo dell’antropologo Emilio Quadrelli, Andare ai resti, sulla criminalità degli anni Settanta11. Andare ai resti si col­ loca in un periodo e in uno scenario in cui la criminalità risulta un tema apertamente sfruttato da letteratura, cinema e sistema mediale per ripescare eventi torbidi della storia nazionale, riflet­ tere sul passato e sul presente: basti citare il successo di Romanzo criminale (romanzo e film, prima della serie1*), o operazioni suc­ cessive ma sempre appartenenti a questa filiera tematica e discor­ siva, come ad esempio i romanzi di Simone Sarasso (uno su tutti, Settanta)'*. 10

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N. Furlan, I. Serra (a cura di), La cultura della perversione. Droga al ci­ nema, Edizioni Cinit Cinefonim Italiano, Venezia 1991. Nel testo citato compaiono i risultati di un corso di aggiornamento tenuto a Treviso nel 1989 sulla lettura del film di droga, e soprattutto la sceneggiatura di Amore tossico, diverse analisi sul film e uno scritto del regista, Sintesi di un dibat­ tito su Amore tossico. E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nelHtalia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004. G. De Cataldo, Romanzo criminale, Einaudi, Torino 2002; il film, tratto dal romanzo, uscì nel 2005 con la regia di Michele Placido. S. Sarasso, Settanta, Marsilio, Venezia 2009.

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Il secondo progetto irrealizzato riguardava lo sviluppo della criminalità maliosa nel nord Italia, e avrebbe dovuto intitolarsi Anni rapaci: il progetto ottiene anche il contributo ministeriale, ma ancora una volta tutto si arena e non si concretizza. L’interesse civile di Caligari, in questi anni, s’indirizza dunque alla cronaca, alla reinvenzione delle ombre della storia patria per raccontare con nuova linfa il presente, alla micro-criminalità, all’isolamento delle borgate, luogo d’elezione tematico e poetico, “periferia come con­ dizione deH’anima”M. Non è un caso che il secondo lungometraggio di Caligari, pro­ getto che vede la luce dopo anni di inattività, sia tratto da un altro romanzo-verità'5 (questa volta del giornalista Dido Sacchettoni) e soprattutto da un’ispirazione reale, le gesta criminali della co­ siddetta Banda dell’Arancia meccanica: quindici anni dopo Amore tossico esce L’odore della notte (1998), prodotto da Marco Risi e Maurizio Tedesco. In questo caso il regista si appoggia a una pro­ duzione maggiore, sceglie attori professionisti (in particolare Va­ lerio Mastandrea, Marco Giallini e Giorgio Tirabassi), e realizza una vicenda di pura fiction prendendo spunto da fatti realmente accaduti: da questo punto di vista, da Amore tossico in poi, Ca­ ligari riequilibra via via la necessità di racconto di istanze “civili” adattandola ad un contesto in mutamento, riattualizzando alcu­ ni elementi del cinema politico dei decenni precedenti, ma anche generi cinematografici come il poliziesco italiano. Il film negozia anche da più punti di vista l’impegno con le forme del popolare, mostrando sovente lati del costume nostrano (la sequenza cult in cui il cantante Little Tony è costretto, durante una rapina, a into­ nare Cuore matto). Possiamo a questo punto cominciare a domandarci perché la carriera di Caligari, più di altre, sia stata contraddistinta da dif­ ficoltà, inciampi, incomprensioni. Prima di affrontare il caso de­ cisivo del suo ultimo film, per molti aspetti rivelatore, affidiamo­ ci direttamente alle parole del regista. In un’intervista rilasciata a Christian Raimo, comparsa su “Internazionale” nel novembre 14 15

C. Raimo, C’avevano ragione Caligari e Mainetti, in ‘minima&moralia” online: http://www.minimaetmoralia.it/wp/cavevano-ragione-caligari-emainetti/, 23 marzo 2016 [ultima visita 15 settembre 2016j. D. Sacchettoni, Le notti di “Arancia meccanica”, Pironti, Napoli 1986.

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2014, alla domanda "Perché da un film di successo [Amore tossi­ co] non è cominciata una carriera fulminante?”, Caligari rispon­ de: "Perché l’establishment era contro. Quando esce un film e va bene non possono dire: sei un cretino, non vali niente. Ma quando vai dai produttori a cercare i soldi, è lì che ti fermano, tagliando i finanziamenti"'6. E ancora, a proposito del tentativo di acquisire i diritti del libro Romanzo criminale, afferma: Riccardo Tozzi [della Cattleya) mi fece intendere che loro non faceva­ no film del genere, su personaggi così negativi. Ma un anno o due dopo fece Romanzo criminale. In realtà credo che non vogliano, tutti i pro­ duttori non solo la Cattleya, un approccio autoriale, un segno forte, sia pure commercialmente veicolabile. Gli basta una medietà espressiva.16 17

Da questo punto di vista i progetti irrealizzati del regista, che si moltiplicano negli anni, non sarebbero appetibili perché eccezioni in un sistema di “medietà espressiva”. Caligari così sembrerebbe essere fuori luogo perché autore, perché portatore di un’istanza personale e di un timbro autoriale, anche se - come detto - va­ riamente miscelato con esigenze di tipo commerciale. Quello ch^ sembra mancare più di tutto è l’inserimento in un'industria cul­ turale che motivi l’equilibrio tra "approccio autoriale”, istanza di racconto politico, richiesta produttiva, commerciabilità e dissemi­ nazione di un prodotto culturale. L’ultimo film di Caligari, con tutte le sue caratteristiche e i suoi pa­ radossi, può dire qualcosa di più preciso intorno a questa questione.

Non essere cattivo,/i/m politico e film-testamento Per ricostruire la genesi e la realizzazione dell’ultimo progetto portato a termine da Claudio Caligari si può procedere a tappe. Una delle prime questioni riguarda l’apporto di Valerio Mastan16

17

C. Raimo, Caligari, due film bellissimi in trentanni. E il terzo?, in "Inter­ nazionale”, online: http://www.intemazionale.it/opinione/christian-raimo/2oi4/n/i5/caligari-due-film-bellissimi-in-trent-anni-e-il-terzo , 15 no­ vembre 2014 [ultima visita 15 settembre 2Oi6|. Ibid.

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drea affinché il film si realizzi, a partire da una lettera (pubblicata sul “Messaggero” il 3 ottobre 2014)'8 indirizzata al regista Martin Scorsese, per chiedere un aiuto produttivo ad uno dei registi più ispiratori per Caligari (la lettera inizia con “caro Martino”), ma so­ prattutto per lanciare una trovata pubblicitaria che serva al film e a far circolare alcuni interrogativi indirizzati al sistema cultura­ le italiano, che riescano a riportare attenzione sull’isolamento di Caligari. Scorsese non risponde, ma la stampa inizia ad occuparsi nuovamente del regista e del suo progetto, fino all’annuncio - il 20 febbraio 2015 - dell’inizio delle riprese di Non essere cattivo, a Ostia, Torvaianica e Fiumicino, in luoghi non dissimili da quelli di Amore tossico. 1 finanziamenti vengono ottenuti da un insieme di produttori, di statura e autorità differente: Rai Cinema, Taodue, Leone Film Group, Kimerafilm, società di produzione nata nel 2009 (Mastandrea stesso fa parte della produzione), oltre al con­ tributo MiBAC18 19. Nel giro di poche settimane, per l’esattezza 1’8 aprile 2015, si annuncia la fine delle riprese di questo film che, nelle intenzio­ ni, avrebbe dovuto raccogliere molte delle suggestioni di alcuni progetti irrealizzati, e soprattutto chiudere un cerchio temati­ co, raccontare una “storia degli anni Novanta” focalizzata su due personaggi e sulle “opposte scelte che fanno”2021 ; la borgata è an­ cora una volta teatro narrativo, questa volta sullo sfondo della diffusione della droga a metà degli anni Novanta. L’attenzione della stampa accoglie la fine delle riprese con un tono sostan­ zialmente uniforme, di segnalazione dei ritardi della cultura ita­ liana nel salvaguardare i propri talenti, di rammarico o indigna­ zione, di rivalsa verso le miopie produttive2', di attesa e curiosità 18 19

20 21

V. Mastandrea, Lettera a Martin Scorsese, in “Il Messaggero” 3 ottobre 2014. Intorno ad alcune acquisizioni preliminari sul contributo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ai cinema italiano contemporaneo, cfr. G. Manzoli, Il film MiBAC: apparato e forme simboliche nel cinema ita­ liano contemporaneo, in “Luci e ombre”, a. II, n. 1, 2014. Si veda anche M. Cucco, G. Manzoli (a cura di), il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2017. C. Raimo, Caligari, due film bellissimi in trent’anni, cit. Basti citare un’intervista a Mastandrea, apparsa sul "Fatto Quotidiano” in quei giorni, in cui, alla domanda “Perché così tanto tempo per far usci­ re il film?”, l’attore e produttore risponde: “Perché negli ultimi ventanni

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

nei confronti dei progetto di un regista ammirato anche se in parte dimenticato, e di un’opera percepita come impossibile da realizzare fino a poco tempo prima. A questo punto vi è un’altra questione da trattare, essenziale per definire quella legittimazione cui Non essere cattivo e il corpus caligariano vanno incontro: il 26 maggio, un mese e mezzo dopo la fine delle riprese, Claudio Caligari muore per un cancro, a 67 anni. Negli ultimi mesi gli articoli sul film e sulle riprese hanno accom­ pagnato quelli sulla malattia del regista, sul coraggio di lavorare alacremente pur nell’ultima parte della sua vita. Inevitabilmente Non essere cattivo prende i connotati di un film testamentario (vissuto, appunto, come il nuovo Amore tossico, l’agognato ulti­ mo progetto portato a termine), ed è soprattutto Caligari ad essere protagonista di una legittimazione postuma, che prende ben pre­ sto le sembianze di un risarcimento. Il film viene presentato come evento speciale alla Mostra di Venezia, vince diversi premi11 e vie­ ne inoltre selezionato nella rosa di film candidabili all’Oscar come Miglior film straniero, anche se non passerà la selezione definitiva per la candidatura ufficiale. Come ogni fenomeno mediale contemporaneo, accanto ai rico­ noscimenti ufficiali nei circuiti istituzionali, sono da considera-

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l’attenzione al cinema come strumento di diffusione e approfondimento culturale, da parte di chi poteva gestire le risorse e del pubblico, è cambiata molto [...). Un’opera come Non essere cattivo può aiutare, in questi tempi bui, chi nei confronti della cultura ha un sentimento di stimolo continuo e di ricerca”, L. Pisapia, Non essere cattivo: Mastandrea, missione compiuta, il nuovo Amore tossico è realtà, “Il Fatto Quotidiano”, 10 aprile 2015. Riassumiamo qui le svariate tipologie di premi vinti da Non essere cattivo, per mostrare la trasversalità del successo e del parallelo fenomeno di legit­ timazione: nel corso del tempo il film ottiene diversi premi alla Mostra del cinema di Venezia (tra cui il premio Pasinetti) e al Bari International Film Festival, ben sedici candidature ai David di Donatello (a) pari di un altro caso cinematografico, Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, vincendo il David come Miglior sonoro); vince quattro Nastri d’argento (tra cui quello per il Film dell’anno), il Gobbo d’oro per il miglior film al Bobbio Film Festival (e i premi ex-aequo come miglior attore vanno a Luca Marinelli e Alessandro Boighi), viene inserito nella lista di film in concorso per gli European Film Awards 2016, ma ottiene anche premi di nicchia come il Premio Amidei agli sceneggiatori Francesca Serafini e Giordano Meacci, o riconoscimenti in festival di parziale risonanza mediatica, come la vittoria alla quarta edizione del Sorridendo Film Festival 2016 come Miglior film.

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re le ricadute in termini di accoglienza e dibattito, e le dinamiche extra-filmiche che il film genera o in cui s’inserisce1J. Da un lato, è almeno da ricordare la partecipazione, il 12 novembre 2015, all’undicesima edizione del Cinema Italian Style di Los Angeles, insieme alla casa di produzione Kimerafilm, evento anch’esso in parte uffi­ ciale, ma al contempo prima presentazione in chiave glamour del film fuori dai circuiti cinematografici nazionali. Successivamente, dall’altro lato, il film è l’evento di punta della Festa Kimerafilm, il 9 gennaio 2016, svolta all’Ex Dogana ferroviaria di San Lorenzo, a Roma, con proiezione e incontro con il cast e i produttori. Da qui in poi saranno svariate le iniziative collaterali e le occasioni per parlare del film, di Caligari, dell’eredità del regista, sotto for­ ma di eventi, feste a tema, incontri, omaggi, conferenze, concerti. Due catturano l’attenzione più di altre: da una parte un evento dal titolo inequivocabile, in questa strategia cross-mediale di legitti­ mazione postuma, Montare un film testamento, che si svolge 1’8 luglio 2016 allìsola Tiberina di Roma e che consiste in un incontro con Mauro Bonanni, montatore del film. Ancora prima del titolo del film, ormai dato per scontato (soprattutto nei nuovi circuiti di diffusione cinematografica romana), si evidenzia la natura testa­ mentaria di Non essere cattivo, la sua valenza esemplificativa nel sistema cinematografico contemporaneo. L’altra questione riguar­ da la produzione e vendita di un ampio materiale di merchandi­ sing legato al film (magliette, gadget, spille, borse che ritraggono l’orsacchiotto della piccola protagonista Debora, ecc.), messo in commercio in alcune specifiche occasioni per raccogliere fondi a favore dell’AIRC, l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro: il film si presta ad essere oggetto di riuso strategico per la sua ac­ quisita legittimità, garante della permeabilità delle forme dell’im­ pegno non solo nei meccanismi industriali ma anche nei diversi spazi sociali e culturali. Se queste tappe del percorso qui riassunto operano come atte­ stazione del successo del film, in grado di ridisegnare i rapporti tra autorialità (anche nei suoi risvolti autolegittimanti), contenu­ to politico, culture di gusto, più in generale esse mostrano alcuni elementi di un modello appartenente al sistema cinematografico 23

Sull'era della convergenza si rimanda a E Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico, Mimesis» Milano-Udine 2012.

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Il sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

italiano e non solo, che rivela le strategie, le modalità esecutive e gli usi sociali dei temi d’impegno. Tale modello semio-pragmatico ingloba aspetti produttivi, narrativi, di accoglienza e consumo14, forme di interazione con il paesaggio sociale, o forme di finanzia­ mento e legittimazione più complesse (ad esempio il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali o il riconoscimento come film d’interesse culturale)15.

La condizione dell’autore: conclusioni provvisorie

Tenendo conto di quanto fin qui scritto, e delle coordinate di questo modello strategico nel sistema cinematografico italiano, in conclusione si potrebbe considerare più da vicino la nozione di impegno, a partire da un paradosso. In questo stesso sistema, negli anni, si è alimentata una contrapposizione tra l’autolegittimante statuto di cinema autoriale, con la diretta difficoltà di interpretare prodotti non riconducibili a ottiche autoriali, e l’ostilità da parte di produttori e finanziatori verso quei progetti che muovono da propositi di forte identità autoriale ma si indirizzano al grande pubblico, reinvestendo su connotati e forme del popolare, come i film di Caligari. Pur resistendo, nel caso del regista, una forte idea di unicità e particolarità di un’esperienza (il regista con solo tre film all’attivo, il film “difficile” nelle intenzioni e nelle fasi di realizzazione, ecc.), il caso Caligari, attraverso Non essere cattivo, esemplifica una mo­ dalità realizzativa fondata sulla concertazione di fenomeni fusi per un obiettivo e una diffusione specifici, caricando la nozione di impegno di compromessi tra produzione, istanze legittimanti, pratiche industriali, forme di convergenza. Non è sempre immediato, però, integrare e acquisire con sciol­ tezza questi aspetti della nozione contemporanea di impegno nei meccanismi di un sistema industriale: resiste, sotto questo profilo, 24 25

Cfr. R. Odin, Gli spazi di comunicazione. Introduzione alla semio-pragmafica, La Scuola, Brescia 2013. Allo stesso modo l’edizione 2016 dellìnternational Film Festival di Rotter­ dam omaggia l’autore scomparso con una retrospettiva completa dei suoi lavori, ennesimo segno di una legittimazione che da campi istituzionali della cultura cinematografica deborda verso altre sfere del contesto sociale..

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un’idea d’impegno fortemente connessa al dominio e all’ideologia del singolo autore. Ancora Raimo scrive: “Se il cinema italiano fos­ se stato un sistema più intelligente, Claudio Caligari avrebbe avuto la possibilità di mostrare la sua epica borgatara, postpasoliniana, melodrammatica, in modo più ampio, monumentale, continuo”16. Eppure, più che negli omaggi o nelle citazioni all’interno dei film, una certa eredità pasoliniana vive come ingombro di una condi­ zione dell’autore, occorsa allo stesso Pasolini, autore che secondo un paradosso ancora circolante potrebbe quasi fare a meno delle proprie opere per esprimersi17. A questo proposito Mastandrea, sul blog creato per Non essere cattivo, all’indomani della morte di Ca­ ligari annota: “Il suo cinema è stato e sarà sempre Politico. Non ha mai smesso di esserlo neanche quando non veniva materialmente realizzato". In realtà il caso Caligari mostra una valenza politica che è prima di tutto comprensione di una condizione industriale dove poter vendere le proprie idee: l’incessante tentativo di Cali­ gari di veder riconosciuto il proprio lavoro va visto anche nell’otti­ ca di non rinunciare alla propria poetica, intercettando però tutte quelle interazioni necessarie al confezionamento di un prodotto spettacolare, che sia tanto politico quanto efficace e permeabile nel tessuto della società. Il film politico “postumo” e testamentario aderisce così ad un progetto d’impegno anti-egemonico, anti-prescrittivo e fortemen­ te connesso con i discorsi sociali. Non essere cattivo si dà a vedere in un sistema sempre più complesso, aperto e mobile, dove decade la necessità di forme autorevoli di mediazione culturale, in tutta la sua purezza e contemporaneamente nella sua studiata strate­ gia di auto-legittimazione, che sopravvivono autonome alla morte dell’autore.

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C. Raimo, Nel mondo di Claudio Caligari il bene e il male hanno ancora un valore, in “Intemazionale”, http://www.internazionale.it/opinione/ christian-raimo/2015/09/07/claudio-caligari-film-recensione, 7 settembre 2015 (ultima visita 15 settembre 2016]. Su questi problemi si vedano le considerazioni di P. Antonello, Dimenti­ care Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea, Mimesis, Milano 2013.

LA PRODUZIONE DELL’IMPEGNO

10.

GALATEO DELL’IMPEGNO E DEL DISIMPEGNO Fabio Bonifacci

Non ho grandi risposte da portare a questo dibattito, ho solo domande. Sono domande pratiche, che faccio a me stesso quando decido cosa scrivere, domande che spesso si rinnovano negli anni senza trovare risposte certe. La prima è semplice: di cosa parliamo oggi quando parliamo di impegno? lo spesso non lo capisco. In Italia l’impegno cinemato­ grafico è nato in uno specifico periodo storico, l’Italia della De e del Pei. Il sistema dei media era molto diverso, la televisione era così coerentemente democristiana che il film L'amante del bandito (Robert G. Springsteen, 1950) usciva col titolo La moglie del ban­ dito. La stampa era in mano a gruppi industriali legati al governo o, in pochi casi, all’opposizione. Cera la guerra fredda e i media erano parte dello scontro fra due visioni del mondo contrapposte. Il cinema, un mezzo di massa che negli anni Sessanta staccava 800 milioni di biglietti, contro i 100 di oggi, fu individuato come mez­ zo di battaglia militante in senso vasto “di sinistra”; era arte ma serviva anche a fare controinformazione e denuncia sociale in un sistema mediatico bloccato. Tutto ciò aveva un senso e una necessità. Quando Francesco Rosi faceva Le mani sulla città (1963), raccontava cose che il pubblico non sapeva. Fatti reali che la televisione non diceva e che i giornali non scrivevano. Lo stesso vale per altri film che non facevano in­ chieste ma diffondevano valori diversi da quelli di un mainstream molto controllato e uniforme. È in questo contesto specifico che si sono definiti i criteri del cinema impegnato. Ma oggi? A cosa serve l’impegno ai tempi di Report? Nel 2016 la denuncia sociale è ovunque, impregna persino i post di Facebo­ ok, di fatto è il nuovo mainstream: tanto è vero che il programma commerciale televisivo di maggior successo da 20 anni è Striscia la Notizia, che si basa proprio sulla denuncia di quello che non va.

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

E allora a cosa serve oggi fare un film che contiene una denuncia sociale in più? Non dico che non serva a niente, mi chiedo solo perché nessuno se lo chiede. Perché diamo per scontato che un film di denuncia sociale “valga” più di altri. In base a quali criteri? Quali analisi della società? Quali valori? Io non ho risposte, solo domande. Che possono essere anche più provocatorie: in base a quali dati siamo così certi che oggi la denuncia sociale sia ancora utile? Ad esempio, è dai tempi di Tan­ gentopoli che sentiamo denunciare i furti della politica in tutti i talk-show, giornali, siti internet. Risultato? In tutti questi anni i furti della politica sono aumentati e i magistrati sul campo ci spie­ gano che, mentre una volta rubavano solo i vertici, oggi rubano anche tutti quelli sotto. Magari l’assessore è onesto, ma il capouffi­ cio chiede i 100 euro per sveltire la pratica. Proviamo a scrivere un soggetto e mettiamoci nei panni di questo vice-capoufficio: da 24 anni sta sul divano a sentire la televisione che grida “tutti rubano”, vede che nulla cambia, che la corruzione paga e si propaga. Una sera, davanti all’ennesimo programma di denuncia, sbotta: "Sai che c’è? Adesso rubo anch’io”. È un soggetto di fantasia ma magari è successo davvero da qualche parte. Quindi ripeto la domanda: in base a quali dati diamo per scontato che la denuncia dei problemi sociali sia sempre positiva? Non potrebbe essere che, in mancanza di azioni repressive in grado di risolvere i problemi denunciati, alla lunga la denuncia dei mali diventi un’istigazione a commetterli? Non ho la risposta e non propongo certo di abbandonare la de­ nuncia sociale. Faccio domande provocatorie per smuovere quelle automazioni del pensiero che continuano a definire “impegno” ciò che era tale 60 anni fa, senza nemmeno mai chiedersi che effetti producano certi messaggi nella società di oggi. Se non si pone questa domanda, si rischia di arenarsi nel “Gala­ teo dell’impegno”, un’adesione “educata” a una serie di codici defi­ niti in passato che oggi hanno poca ragion d’essere. Per spiegarmi, vi racconto qualche aneddoto sul campo, perché è da lì che nasco­ no i miei ragionamenti, lo ho fatto lo sceneggiatore di 22 film, in grande maggioranza commedie che provano a far ridere e pensare: infatti non considero la commedia un genere ma un linguaggio, uno sguardo sul mondo con cui si può raccontare qualunque cosa, anche i drammi o le tematiche sociali.

F. Bonifacci - Galateo dell’impegno e del disimpegno

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Quando ho iniziato, 25 anni fa, i produttori non capivano. Quel­ li più commerciali mi chiedevano: “Ma se è un film da ridere per­ ché hai messo un tema serio?” E quelli impegnati: “Ma se tratti un tema serio, perché si ride?” Io provavo a dire banalmente che quella è la nostra tradizione. Ma in quel periodo - tra fine anni Ottanta e inizio Novanta - non si praticava più. A parte rare eccezioni, il galateo del cinema preve­ deva una chiara dicotomia: film da impegno o film da disimpegno, gag comiche o rughe sulla fronte. Così ho passato dieci anni a scrivere dieci sceneggiature senza riuscire a venderle. Quando ho iniziato a fare i film, si ripropone­ va il dilemma. Per il mondo dell’impegno erano troppo leggeri, e infatti nessun film che ho scritto è mai andato a un festival impor­ tante in Italia, dicevano “è una commediola”. Al tempo stesso, le mie commedie al botteghino facevano un po’ di soldi ma non sfondavano. Quelli del cinema di cassetta diceva­ no: “Bonifacci è troppo impegnato, fa massimo 3-4 milioni”. Così per dispetto ho scritto qualche blockbuster per smentire la voce, e ho ripreso a fare quel che facevo prima: esperimenti sul confine tra impegno e disimpegno. Ma quel confine si spostava progressivamente, come dimostra­ no due aneddoti. Nel 2006, alla presentazione di Lezioni di Ciocco­ lato (Claudio Capellini) - film in cui si ride parlando di immigrati e razzismo - un giornalista chiese se ridere di quei temi non fosse una grave mancanza di rispetto verso gli stranieri. Per fortuna nel cast c’era Hassani Shapi, che ci salvò, disse che la storia era efficace proprio perché grazie all’ironia poteva raggiun­ gere le persone normali e avere più impatto di tanti film impegna­ ti. Detta da un immigrato, era una frase che chiudeva il discorso. Ma solo dieci anni fa il problema veniva posto in conferenza stam­ pa: è educato parlare di temi seri col sorriso? Dieci anni dopo esce Loro Chi? (Francesco Miccichè e Fabio Bo­ nifacci, 2015), film che parla di truffe e, al contrario di molte mie commedie, non ha grandi tematiche sociali. Durante le interviste ci hanno chiesto tante volte: “Quale critica sociale volevate fare con questo film?” All’inizio abbiamo detto “nessuna”, ma ci guar­ davano male, come chi a tavola mangia con le mani. Così ho scoperto che in dieci anni il Galateo era cambiato: oggi se fai una commedia è educato metterci l’impegno sociale. Infatti

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gli autori di commedia dichiarano sempre qualche intenzione in materia. A volte non ce l’hanno, ma se ti chiedono sette volte “Qual è l’aspetto della società italiana che volevi mettere alla berlina?”, alla fine per educazione qualcosa rispondi. Questo volevo trasmettere con “Galateo dell’impegno e del Di­ simpegno”: la sensazione che esista un insieme di buone maniere che, partendo dai criteri dell’impegno anni Sessanta, stia evolven­ do e cambiando ma così, in modi casuali e misteriosi, come un gioco di società, senza mai chiedersi a cosa serva l’impegno oggi, e quale. Se così fosse sarebbe il vero tradimento dell’impegno, che nasceva proprio da un’analisi attenta di cosa il cinema può fare “qui e ora”, nella società in cui si vive. Così, si rischia di fare film di pseudo-impegno, che affrontano certe tematiche per educazione, perché usa così, perché piace a critici e festival. Ed è facile che in questo modo escano film medio­ cri perché l’impegno, per sua natura, funziona solo se scelto per convinzione, con sincerità. Perché l’impegno è una cosa bella, significa sentire la responsa­ bilità del proprio ruolo nel mondo. Però bisogna avere il coraggio di farsi una domanda: "Cosa serve oggi a questa società, qui ed ora?” È una domanda difficilissima, ci sono infinite probabilità di sbagliare. Ma è uno di quei casi in cui la domanda serve quasi più della risposta. Io me la sono posta da giovane, 25 anni fa. Sicuramente mi sono dato una risposta sbagliata ma mi è stata molto utile. La cosa che mi sembrava di vedere nella società del mio tempo (e quando impiego il termine “vedere” intendo proprio con gli occhi, perché come dice Zavattini gli sceneggiatori devono prendere l’autobus), quello che mi sembrava di vedere nella mia periferia, era un aumento del­ la solitudine, della tristezza esistenziale, dell’isolamento. Intanto leggevo gli studi dell’Oms che parlavano della depressione come futura epidemia sanitaria in Occidente. E leggevo Hillman che di­ ceva più o meno: se un uomo è depresso il problema è suo, se uno su tre è depresso il problema è della società. Insomma, 25 anni fa ho visto il ritratto di un’umanità sempre più sola, isolata, impaurita, più depressa. E allora, per tentare di dare alla società qualcosa che le mancava, cosa dovevo offrire? La mia risposta fu: risate, leggerezza, vitalità, un mondo più facile e pieno di possibilità, che ti faccia uscire dal cinema con allegria e fi-

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ducia, che non ti spinga a isolarti più di quanto tu stia già facendo. In una parola: commedia! Sì, all’epoca ho scelto la risata come forma di impegno. Come ho accennato, allora non era una scelta conveniente, la commedia era in disuso. Se avessi scritto film impegnati non avrei dovuto aspet­ tare dieci anni, probabilmente avrei iniziato prima. Ho insistito perché la mia artigianale analisi mi diceva che la so­ cietà aveva bisogno di questo: una commedia ben piantata nel rea­ le, per trasmettere al cinema un messaggio di leggerezza e vitalità che puoi portare nella realtà. Oggi la commedia è diventata main­ stream, se ne fanno troppe e mi sono stufato, ho iniziato a scrivere altro. Per capire cosa, ho ripreso a farmi la stessa domanda: cosa serve alla società in cui vivo? So che troverò risposte sbagliate, e so che mi saranno utilissime. Perché l’impegno oggi secondo me non può essere un codice predefinito, non possono esistere storie da impegno, inquadrature da impegno e montaggio da impegno. L’impegno non può essere un canone, deve essere un orizzonte da ricreare di continuo. Il suo linguaggio e le sue tematiche non van­ no seguiti, vanno inventati. Immaginare la propria forma di impe­ gno è parte essenziale del lavoro creativo.

LA RICERCA

COMe’ÌvORK

IN PROGRESS

E L’INDUSTRIA CULTURALE Il caso de “I-Tigi” di Daniele Del Giudice e Marco Paolini Francesco Farinelli

Historiographic metafiction, like both historical fiction and narrative history, cannot avoid dealing with the problem of the status of their “facts” and of the nature of their evidence, their documents. L. Hutcheon

i. Introduzione

A fronte delle numerose opacità che ancora oggi limitano la possibilità di raccontare in maniera adeguatamente documentata alcuni eventi storici cruciali per la crescita democratica dell’Italia repubblicana, nel secondo Novecento si è assistito al proliferare di narrazioni in ambito teatrale (ma anche letterario e giudizia­ rio) che hanno coinvolto la società civile - vestita dei panni del cittadino-detective - in merito alla definizione di cause e colpevoli degli eventi narrati. La tensione verso la lettura del reale e la pro­ pensione alla ricerca di verità storiche in percorsi che utilizzano fonti e documenti al fine di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica richiedono un percorso di analisi critica di queste nar­ razioni, spesso in bilico nel proporre la figura del narratore come* portatore di un messaggio personale e soggettivo o, più ambigua­ mente, come testimone “del vero”'. Questo saggio si propone di analizzare in particolare quelle narrazioni teatrali a tema storico proposte da Marco Paolini e i

A questo proposito è interessante la distinzione tra “testimoniare il vero” e quella di produrre “testimonianze vere” presente in G. Guccini, La bot­ tega dei narratori, Storie, laboratori, metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Dino Audino, Roma 2005, p. 13.

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il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Daniele Del Giudice concernenti la caduta dell’aeromobile Dc9 Itavia 870 al largo dell’isola di Ustica il 27 giugno 1980 e divul­ gate in molteplici sedi mediali. Gli spettacoli “I-Tigi Canto per Ustica” e “I-Tigi Racconto per Ustica” verranno presi in esame a partire dalla disposizione delle informazioni nel testo (cartaceo e orale-performativo) e dallo studio delle fonti storiche dichia­ rate dagli autori per la costruzione della propria narrazione. In questo modo, verrà dato rilievo al rapporto problematico tra gli intenti di impegno civile nonché di ricerca della verità alla base di queste operazioni e le esigenze dei meccanismi di produzione e diffusione dell’industria culturale che ne opacizzano gli obiet­ tivi primari. 2. “I-Tigi”: la disposizione delle informazioni nel testo

La diretta televisiva de “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini, andata in onda su Rai Due in prima serata il 9 ottobre 1997, segna un passaggio fondamentale nel teatro di narrazione italiano: quel­ lo da un racconto inteso come il frutto di una visione soggettiva e particolare del mondo - si pensi agli esordi del Kohlhaas di Marco Baliani (1989) - ad un altro in cui il contenuto di “verità” degli enunciati diviene la cifra predominante. Scrive così Paolini a pro­ posito di questo spettacolo: "Vajont mi ha imposto di agire come intellettuale. (...) Sto pensando a Pasolini. (...) È come quando Pa­ solini dice: ‘Io so i nomi di coloro che hanno fatto tutto questo ma non posso dirlo...’”2. O ancora: Non so come sarà scritta fra trentanni la storia del Vajont, non posso saperlo. E non posso sapere neanche come la racconterò io. Ma ogni volta che abbiamo scoperto qualcosa che non tornava abbiamo corretto il racconto quella sera stessa.3

Da quel 9 ottobre 1997, la base teorica della narrazione teatrale, che nel 1991 Baliani configurava come una forma dell’immagina­ zione in cui “la verità di una storia non ha nulla a che fare con

2 }

M. Paolini, O. Pontedi Pino, Quaderno del Vajont, Einaudi, Torino 2008, p. 65. Ivi, p. 52.

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la quantità di realtà in essa contenuta"4, muta e si capovolge in quell’atteggiamento per cui “gli spettatori si aspettano che tu dica una cosa vera"5. A partire da questo ribaltamento, diviene centrale analizzare come la divulgazione di un evento storico si concretizzi sul piano narrativo e performativo quando gli intenti civili e la ricerca della verità nella specifica modalità in progress dei lavori di Paolini, che dichiara di correggere il proprio lavoro ad ogni scoperta, si trovano a doversi confrontare con esigenze di committenza, di produzione e di diffusione dei propri materiali. A questo scopo, abbiamo scelto di analizzare una delle narrazioni meno studiate di Marco Paolini, quella relativa alla caduta del Dc-9 Itavia 870 che, nell’estate del 1980, causò la morte di ottantuno persone. A fronte dei 4 anni di lavoro che avevano preceduto il passaggio televisivo de II Racconto del Vajont, lo spettacolo “I-Tigi Canto per Ustica” viene scritto in quattro mesi6 e subito mandato in onda dalla Rai: “Era urgente. Era giusto così”7, scriverà in seguito Marco Paolini. Il motivo di tale urgenza è da ricercarsi in un’altra dichia­ razione del narratore: Sono giorni preoccupati, è passato così tanto tempo dal 1980, riuscirà il Canto in Tv a risvegliare attenzione su questa vicenda? Il processo nell’aula bunker di Rebibbia sta per cominciare e tutti noi vorremmo che non si svolgesse tra il disinteresse di una nazione già provata da altre vicende finite nell’oblio senza risposte.8

L’oggetto sul quale viene richiesta l’attenzione dei cittadini ita­ liani attraverso lo spettacolo “1-Tigi Canto per Ustica” (debutto 22 giugno 2000, passaggio televisivo 6 luglio 2000) è dunque il prbcesso penale di I grado della III Corte d’Assise di Roma che sta­ va per iniziare di lì a breve, il 28 settembre 2000. Tale processo era volto ad appurare l’eventuale colpevolezza di quattro generali 4

5 6 7 8

M. Baliani, Pensieri di un raccontatore di storie, in “Quaderni dell'animale parlante”, n. 2, Assessorato istituzioni scolastiche, Ufficio studi, Comune di Genova, 1991, p. 43. M. Paolini, O. Ponte di Pino, Quaderno del Vajont, cit., p. 51. Cfr. D. Del Giudice, F. Marchiori, M. Paolini, I Tigi da Bologna a Gibellina, Einaudi, Torino 2009, p. 35. Ivi, p. 4. Ibid.

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delI’Aeronautica Militare Italiana910 13 12 11 per il reato di attentato contro gli organi costituzionali (art. 289 CP) e di altri cinque imputati ac­ cusati di falsa testimonianza (art. 372 CP), come da rinvio a giudi­ zio ordinato dall’Ordinanza-sentenza del 1999 che aveva concluso la fase istruttoria del processo'®. Un processo, dunque, che non era ancora iniziato ma sul quale lo spettacolo sembra avviare un ten­ tativo di pressione, attraverso il coinvolgimento dell’opinione pub­ blica italiana, identificando il proprio racconto come frutto di un desiderio riconducibile a quel “tutti noi” che vorrebbe rappresen­ tare la società civile e che viene incarnata, nella fattispecie, dall’ex parlamentare di Camera e Senato Daria Bonfietti", come attestato dalla memoria dei due autori: In quell’occasione mi parlasti anche della richiesta di Daria Bonfietti e della Associazione dei familiari delle vittime: un racconto teatrale su Usti­ ca, da mettere in scena per i ventanni dalla strage, nel giugno del 2000“ La proposta di raccontare la storia di Ustica mi è arrivata nell’estate 1999 da Daria Bonfietti per conto dell’Associazione familiari delle vitti­ me de) disastro.'*

Questo tentativo di far presa sulla pubblica opinione trova le sue origini storiche nell’ambito del movimento illuminista, par­ ticolarmente dopo la metà del Settecento, quando il concetto di “opinione pubblica” inizia a delinearsi in modo più o meno orga9

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11

12 13

Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Corrado Melillo e Zeno Tascio, all'e­ poca dei fatti rispettivamente Capo Di Stato Maggiore delI’Aeronautica, Sottocapo di Stato Maggiore, Capo del 3° Reparto dello Stato Maggiore Piani e Operazioni e Capo del secondo reparto Sios delI’Aeronautica. Trattasi di Francesco Pugliese, generale ex capo di Civilavia, Umberto Al­ loro, ex funzionario della terza sessione del Sismi, Claudio Masci, ex fun­ zionario della prima divisione del Sismi, Pasquale Notarnicola, generale responsabile della sezione controspionaggio del Sismi e Bruno Bomprezzi, ex capo del secondo ufficio Sios. Presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica (a partire dal 1988) e parlamentare, prima alla Camera dei deputati (19941996, gruppo Progressisti-Federativo), in seguito al Senato della Repub­ blica (dal 1996 al 2001, gruppo Sinistra Democratica - L’Ulivo e dal 2001 al 2006, gruppo Democratici di Sinistra - l’Ulivo). D. Del Giudice, M. Paolini, Quaderno dei Tigi, Einaudi, Torino 2001, p. 5. M. Paolini, I-Tigi: racconto per Ustica, online: https://www.jo!efilm. com/spettacolo-teatrale/i-tigi-racconto-per-ustica/ [ultimo accesso 28 febbraio 2019].

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nico come “attività razionale di un pubblico capace di giudizio”'’. Per quanto concerne l’operazione messa in atto da Del Giudice e Paolini occorre però constatare come la possibilità di comprendere e formulare un giudizio consapevole da parte del pubblico sia stata resa particolarmente ostica non solamente a causa della fretta con cui - ne abbiamo visto le ragioni - è stata costruita e diffusa la narrazione, ma anche per un problema d’informazioni non rese. Come detto, l’operazione ha infatti ricevuto un mandato morale del quale è necessario tenere conto, quello della presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica; tale dato ha fatto sì che fossero gli avvocati e i periti di tale associazione a fornire assistenza a Del Giudice e a Paolini per la “comprensio­ ne” e la lettura dell’Ordinanza-sentenza del 1999 sui cui si basa lo spettacolo14 1516 . Una collaborazione che non si esaurisce nello studio e nell’interpretazione dei fatti ma che prosegue anche nella ricerca dei produttori dell’evento al fine di raggiungere le forze economi­ che necessarie per la sua realizzazione'6. Il Teatro Stabile Acca­ demia Perduta Romagna Teatri che infine produrrà lo spettacolo insieme a Bologna 2000, aveva inoltre già realizzato per l’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica le rassegne “Teatri per la verità” - una prima volta nel 1993 e una seconda volta

14

15 16

J. Habermas, Strukturwandel der Oejfentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der biirgerlichen Gesellschaft, 1962, tr. it. di A. Illuminati, F. Ma­ sini, W. Perretta, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 104. D. Del Giudice, M. Paolini, Quaderno dei Tigi, cit., p. 33. D. Bonfietti, lettera a Marina Deserti, Assessore alla Cultura del Comune di Bologna, e per presa conoscenza a Giorgio Guazzaloca, Sindaco di Bo­ logna, del 23 settembre 1999, in Fondo Daria Bonfietti, Corrispondenza, Busta 8 (1999), Archivio dell'istituto Storico Parri, Emilia-Romagna: "per cercare di stringere i tempi mi permetto di affidare a queste righe una pri­ ma possibilità di riflessione. [...] In collaborazione con la Rai, abbiamo già la disponibilità sia per la produzione che per la diretta, si tratterebbe di avere per la serata del 27 giugno 2000 uno spettacolo, nato per l’occasione, di Marco Paolini e Giovanna Marini, alla realizzazione del testo saranno impegnati oltre i due artisti, tra gli altri anche Daniele Del Giudice, che nel suo lavoro’ ha già incontrato il tema Ustica. Si tratta dunque di impegnarsi tra Rai e Comune di Bologna, ho sempre pensato nell’ambito delle manife­ stazioni previste per Bologna capitale europea della Cultura, per una cifra di circa 400 milioni e di provvedere ad uno spazio, piazza o teatro, per circa sei repliche dello spettacolo’’.

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nel 1997 - in cui cantanti e attori italiani si erano esibiti nei teatri dell’Emilia Romagna per poi devolvere all’associazione stessa gli incassi. Questi ultimi furono utilizzati per avvalersi della specia­ lizzazione di alcuni professori del Politecnico di Torino (rimborso spese) e dell’esperto missilistico americano Robert Sewell per le perizie di parte civile durante l’istruttoria del giudice Rosario Prio­ re che condurrà all’Ordinanza-sentenza del 1999'7. Analizzando la disposizione dei dati nel testo, però, si evince che per ricevere alcune di queste informazioni lo spettatore deve trasformarsi in lettore o, a sua volta, in ricercatore giacché non ne viene fatta alcuna menzione nello spettacolo bensì, e solo in minima parte, nei libri cartacei che hanno accompagnato le due pubblicazioni, in VHS e in DVD, dei due spettacoli Canto per Usti­ ca (2001) e Racconto per Ustica (2009). Questo tipo di operazione esclude così gli spettatori - pur trattandosi fondamentalmente di uno spettacolo teatrale - dalla possibilità di usufruire d’importanti strumenti interpretativi, come la conoscenza del fatto che il rac­ conto degli eventi e l’intero spettacolo siano nati a partire da una lettura dell’Ordinanza-sentenza coadiuvata e sostenuta da avvoca­ ti e periti di una delle parti civili in causa durante l’istruttoria che Marco Paolini si propone di narrare. Chi si dovesse soffermare sol­ tanto alla visione dello spettacolo, chi si comportasse dunque sol­ tanto da spettatore e non da lettore/ricercatore, riceverebbe infatti come unica informazione quella che il racconto è costruito in base a documenti: l’Ordinanza-sentenza del 1999, le voci, i frammenti del relitto del DC9 Itavia, filologia aeronautica e impronte digitali (radar della difesa aerea)'8. La procedura con cui vengono taciute, nella narrazione orale, informazioni fondamentali per poter permettere allo spettatore di valutare ciò che sta guardando e ascoltando può essere meglio compresa, a livello di portata pubblica, confrontando i dati au­ dience del passaggio televisivo del “Canto per Ustica” con quelli relativi alla tiratura dei due cofanetti venduti successivamente nella formula del libro più VHS e libro più DVD. Se Io spettacolo 17

18

Si veda anche D. Bonfietti, Teatri per la verità, Fondo Associazione Parenti delle vittime della strage di Ustica, Busta 3, Doc. n. 22, venerdì 1 febbraio 1997, Archivio dell’istituto Storico Parri, Emilia Romagna. D. Del Giudice, M. Paolini, / Tigi a Gibellina. Racconto per Ustica, Einaudi, Torino 2009 (DVD) dal minuto 24:18”al minuto 26':oo”.

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in televisione è stato visto da 1.813.000 spettatori, nella miglio­ re delle ipotesi il libro contenente alcune prudenti avvertenze al lettore può essere stato acquistato da un massimo di 60.000 per­ sone'9. Seppure non siamo riusciti a sapere con esattezza la quan­ tità di copie vendute vi è comunque, di certo, un dato: il fatto che, anche approssimando in eccesso, vi sono almeno 1.753.000 persone alle quali determinate, fondamentali, informazioni non sono state date. Lo scontro tra gli intenti civili di una simile operazione e le di­ namiche dell’industria culturale è forse ancora più visibile met­ tendo a confronto dichiarazioni programmatiche e procedure di diffusione e distribuzione dei prodotti riproducibili. La serie di spettacoli denominata “l-Tigi Racconto per Ustica" prende infatti avvio, secondo le dichiarazioni di Paolini, al fine di proseguire la ricerca e l’aggiornamento delle informazioni sul caso in oggetto: “Racconto per Ustica è nato così, dopo il Canto, come approfondi­ mento, come continuazione di un lavoro di indagine che è andato avanti due anni’’10. Facendo seguito a tali enunciati, per correttez­ za e completezza di informazioni, una volta che le nuove senten­ ze penali avevano assolto gli imputati dalle accuse, sarebbe stato in linea con l’ottica dell’impegno civile inserire tali informazioni all’interno di nuovi spettacoli. Invece, dopo avere accostato il cor­ po delI’Aeronautica Militare Italiana al volto di uno Stato dipin­ to come “istituzione militare preposta alla difesa e alla sicurezza, compito che non svolge, ma anzi [...] confonde, cancella le tracce di quanto accaduto”" e prima che il processo di primo grado po­ tesse giungere a conclusione - la sentenza è stata pronunciata il 30 aprile 2004 - il lavoro di indagine di Paolini e Del Giudice in me­ rito alla strage di Ustica cessa (ultimo spettacolo: 12 aprile 2OO311)A proseguire è solamente la vendita degli spettacoli nella forma 19 20 21 22

11 numerosi riferisce alla somma delle tirature del libro nelle sue due diffe­ renti edizioni. D. Del Giudice, E Marchiori, M. Paolini, / Tigi da Bologna a Gibellina, cit., p. 6. Ivi, p. 85. Secondo i dati forniti dalla Jolefìlm S.r.l. nel 2010, in tale data viene rea­ lizzato l’ultimo spettacolo della tournée e si arresta dunque il percorso in parallelo tra narrazione teatrale e processo penale in Corte di Assise. Ciò non significa che la narrazione, dopo questa lunga pausa, non sia stata più messa in scena in modo live.

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del DVD. Ma anziché apportare modifiche o correzioni alla narra­ zione, nel 2005, nel 2009 e nel 2010 è stata preferita la vendita dei diritti di pubblicazione di un vecchio spettacolo del 2002 (I-TIGI a Gibellina, appartenente alla serie "Racconto per Ustica”) attraverso una collana del “Corriere della Sera”, la casa editrice Einaudi e il Gruppo L’Espresso dove, naturalmente (essendo il video prescelto precedente alle sentenze), non poteva essere fatta alcuna menzio­ ne dell’avvenuta assoluzione degli imputati in causa. Inoltre, nel libro venduto insieme al DVD nell’edizione del 2009, quando il processo aveva ormai fatto il suo corso terminando in Cassazione nel 2007, viene riportato che le sentenze di Appello e di Cassa­ zione assolvevano gli imputati “in contrasto” con la sentenza di primo grado15. Ma l’unico contrasto, semmai, era la formula di una parte delle assoluzioni - per prescrizione, quella riferita a due capi d’accusa nel processo di primo grado e con formula piena “perché il fatto non sussiste” nei seguenti due gradi - e non l’assoluzio­ ne stessa. Questo atteggiamento mostra, da un lato, un legittimo disaccordo con le sentenze pervenute ma, dall’altro, un tentativo d’influenza sull’opinione pubblica che porta a un giudizio colletti­ vo ma sommario piuttosto che a un processo “universale" al quale tutti hanno partecipato consapevolmente.

3. Fact-checking

Oltre alle ragioni legate alla committenza, alla necessità di ac­ cordarsi con i meccanismi di diffusione dei prodotti culturali e alla pressione mediatica generatasi nei confronti di un processo pe­ nale14, è altrettanto importante comprendere come tali elementi possano avere condizionato l’approccio alle fonti e la restituzione - attraverso il pubblico racconto - dei documenti utilizzati per la narrazione. Quali siano, insomma, le conseguenze di simili opera­ zioni sul piano della ricerca della verità. 23 24

D. Del Giudice, E Marchiori, M. Paolini, / Tigi da Bologna a Gibellina, cit., p. 5. A testimonianza del clima tribunizio che la narrazione aveva creato attor­ no a sé, va ricordata l’esistenza di un’interpellanza parlamentare firmata nel 2002 dall’On. Michele Tucci a proposito dello spettacolo di Marco Pao­ lini e destinata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero della Giustizia e al Ministero della Difesa.

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La narrazione di Marco Paolini e Daniele Del Giudice sulla stra­ ge di Ustica viene presentata come un insieme di “opinioni docu­ mentate” basate sullo studio e sulle fonti15. Non, dunque, una mera visione personale, bensì un’operazione intellettuale di scavo nei documenti. Per questa ragione diviene importante definire quali informazioni - e con quale grado di certezza - siano state diffuse per mezzo di una pubblicistica teatrale, editoriale, radiofonica, te­ levisiva e giornalistica. Addentrandoci nel rapporto tra la narrazione e la sua fonte di­ chiarata, analizzando le informazioni divulgate dal narratore si palesa quel rischio di caduta nel sensazionalismo alla quale una tale operazione è soggetta. Quando lo spettacolo debutta, l’ordi­ nanza del Giudice Istruttore che l’attore veneto si propone di nar­ rare ordinava il rinvio a giudizio di nove imputati. A dicembre del­ lo stesso anno, gli imputati si ridussero invece a quattro, in quanto nell’ordinanza emessa nell’udienza del i dicembre 2000 in Corte d’Assise venne dichiarata la “nullità dell’attività istruttoria e della ordinanza di rinvio a giudizio”16 in merito alla posizione dei cinque imputati per falsa testimonianza. Ma nel copione di "Canto per Ustica”, pubblicato prima nel 2001 e poi nel 2009, i rinviati a giudi­ zio secondo gli autori erano, invece, quarantotto: La sentenza ordina il non doversi procedere per il reato di aver volon­ tariamente causato la caduta del DC9, poiché rimasti ignoti gli autori del delitto, ma contestualmente rinvia a giudizio quarantotto imputati 'dell’Aeronautica militare e dei Servizi segreti per avere in vario modo ostacolato la ricerca della verità.17

(

Al di là dell’errore terminologico - tutt’altro che secondario - dato dal fatto che non è la sentenza (come scrivono gli auto­ ri) a rinviare a giudizio gli imputati bensì l’ordinanza in quanto la sentenza del 1999 è una sentenza di proscioglimento, anche sommando coloro per i quali non fu disposto l’immediato rinvio 25 26

27

Cfr. D. Del Giudice, F. Marchiori, M. Paolini, 1 Tigi da Bologna a Gibellina, cit., p. 6. Corte di Assise di Roma, III sezione, Sentenza di I grado, parte prima, L’ae­ ronautica militare italiana nel 1980, Il dibattimento e le ordinanze di questa corte, p. 55. D. Del Giudice, F. Marchiori, M. Paolini, l Tigi da Bologna a Gibellina, cit., p.84.

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a giudizio ma i cui atti furono inviati all’ufficio del PM per “la prosecuzione delle indagini” con una nuova istruttoria a causa di indizi di reato dovuti a dichiarazioni mendaci e reticenti, si rag­ giungerebbe il numero 43 (9+34); la narrazione teatrale sembra infatti mescolare gli imputati elencati nell’epigrafe dell’Ordinanza-sentenza (48) con quelli che saranno effettivamente rinviati a giudizio presso il tribunale su cui la narrazione desidera ca­ talizzare l’attenzione dell’opinione pubblica: la Corte d’Assise di Roma (9). Tale errore rischia di apparire sintomatico di una presa di posizione pregiudiziale che si manifesta innanzitutto nell’assumere l’Ordinanza-sentenza del 1999 come fosse il documento conclusivo dell’indagine penale in merito al caso di Ustica. Di “conclusivo”, però, l’Ordinanza-sentenza aveva prevalentemente il non dover procedere in ordine al delitto di strage in quanto risultavano ignoti gli autori del reato. Nessuna causa era stata accertata e il percorso processuale atto a giudicare alcuni vertici delI’Aeronautica Militare (AM) era addirittura al suo inizio. Un processo che, per poter emettere un giudizio di assoluzione o di colpevolezza per gli imputati, doveva inoltre stabilire la fonda­ tezza delle prospettazioni accusatorie o difensive - già dibattu­ te nell’Ordinanza-sentenza - relative ai membri dell’AM e, per poterlo fare, doveva ancor prima analizzare i fattori che avevano determinato la caduta del ÒC9 Itavia. Le conclusioni di tali processi riferirono in primo grado che in ognuna delle perizie realizzate per motivare la caduta dell’aereo "sono emersi profili di dubbio non secondari (...) contrastanti con il convincimento espresso e ribadito dall’esperto esaminato, talora in termini di sostanziale certezza più prossimi all’approc­ cio fideistico che all’analisi scientifica”28; la sentenza d’appello ha poi definito “fantapolitica o romanzo” lo scenario di una guerra nei cieli come causa dell’abbattimento del volo civile prospettato nell’Ordinanza-sentenza: Tutto il resto è fantapolitica o romanzo che potrebbero anche risulta­ re interessanti se non vi fossero coinvolte ottantuno vittime innocenti. (...) Tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si

28

Corte di Assise di Roma, III sezione, Sentenza di I grado, parte prima, L’ae­ ronautica militare italiana nel 1980, Il dibattimento e le ordinanze di questa corte, 2004, pp. 230-231.

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è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Gheddafi e così via fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un aereo Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva/9

La narrazione di Marco Paolini e Daniele Del Giudice - dive­ nuta fonte di sapere per milioni di persone e venduta al pubblico almeno fino al 2010 - non sembra recepire in alcun modo le con­ clusioni di tali sentenze. Anche per quanto concerne il suo rife­ rirsi all’Ordinanza-sentenza del 1999, però, il narratore non solo trascura di portare a conoscenza del pubblico quelle voci - pur presenti nell’istruttoria - antagoniste rispetto alla tesi della bat­ taglia aerea, ma mostra altresì evidenti forzature nel divulgare il contenuto dei suoi enunciati. Ciò che nemmeno un tribunale ha potuto esprimere in termini di assoluta certezza in quanto, come afferma il Giudice Istruttore, “Ma questo è l’evento [...] in cui non tutto s’accorda e qualunque soluzione si prescelga, rimane sem­ pre un qualche elemento o circostanza inspiegata”’0, nel copione di "Canto per Ustica” o nel video “I-Tigi a Gibellina” viene mo­ strato talvolta come verità priva di dubbi, conclusioni senza mar­ gini d’errore. I dati che nelI’Ordinanza-sentenza riferiscono della “possibilità di una near collision"*' oppure di un’esplosione esterna causata da un missile in virtù di uno scenario "anomalo” nei cieli italiani si trasformano, nel copione del narratore, in due aerei che “arrivano addosso” al Dcq; i documenti smarriti, che secondo il giudice sono “innumerevoli”’2, diventano - nel flusso della narra­ zione teatrale - “tutti i nastri e le registrazioni di quella notte””. Le ipotesi rischiano dunque di trasformarsi in fatti privati di qualsiasi

29 30

31 32

33

Corte di Assise di Appello di Roma, Proc. Pen. N° 23/05 R.G C/ASS. APP, 2005, p. 116. R. Priore, Procedimento Penale Nr. 527/84 A G.I., Ordinanza-Sentenza del Giudice Istruttore, Titolo 3 Conclusioni sul contesto Capo 70 Le considera­ zionifinali, Capitolo 1, Le conclusioni per effetto delle perizie, § 2, Conferme dal contesto degli studi di Casarosa e Held, 1999, p. 4947. Ivi, p. 4946. Id., Libro 2° Le posizioni singole, Capo i° Gli imputati, Capitolo I Le posi­ zioni dello SMA Bartolucci, § 1.2 Le carenze documentali, p. 5001. D. Del Giudice, F. Marchiori, M. Paolini, / Tigi da Bologna a Gibellina, cit., P ’25-

i6o

Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

elemento di dubbio” e i dati numerici nella narrazione sembra­ no aumentare in modo direttamente proporzionale all’aumentare della loro grandezza nella sentenza, in un meccanismo per cui, ad esempio, il molto può diventare tutto e il probabile può diventare certo. Per ragioni di sintesi portiamo un solo esempio: “Si ritrova sulla Sila un aereo libico caduto il 18 luglio ma che probabilmente, anzi, certamente è caduto in data anteriore a quella”55. “Probabilmente, anzi, certamente”: è in questa frase pronuncia­ ta nell’agosto del 2002 e diffusa in home video fino al 2010 che ben si evince lo spirito della narrazione. Già alcuni mesi prima di tale spettacolo, infatti, la sentenza di primo grado aveva sentenziato che grazie aH’"analisi rigorosa e convincente, perfettamente inseri­ ta nel quadro di un complesso di deposizioni testimoniali disinte­ ressate e attendibili”56 del Prof. Giusti resa all’udienza del 6 aprile 2002 e già chiamato a collaborare per la Commissione Stragi, era stato superato “qualsiasi margine di dubbio in merito all’ipotesi di una significativa retrodatazione del momento della morte del pilota libico” e che era sopravvenuta “la evidenza della prova in merito al fatto che la caduta del MIG23 non fu contestuale a quella del DC9”57. Tale sentenza si esprime inoltre chiaramente in riferi­ mento alla “mancanza di prova in merito a una caduta del velivolo libico comunque verificatasi in un momento antecedente a quello ufficialmente risultante del 18 luglio 1980”58. Questa opposizione tra probabilità e certezza si pone come esemplare emblema di una diffusa tendenza di fine Novecento, e tuttora in corso, atta a sostituire il lento procedere della ricerca storica - in virtù delle pressanti necessità del presente - con figure professionali che vanno dal mondo del giornalismo a quello dello34 38 37 36 35 34

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Un modus operandi tipico di produzioni cinematografiche alla stregua del film di Oliver Stone sullbmicidio Kennedy dal titolo JFK in cui, come scrive Giuliana Benvenuti, l’insieme di fonti c di scene immaginate inducono “lo spettatore ad assumere le congetture proposte dalla pellicola quali verità letterali". Cfr. G. Benvenuti, A proposito del dibattito sulla narrazione della storia, in “INTERSEZIONI", n. 1, 2009, p. 145. D. Del Giudice, M. Paolini, / Tigi a Gibellina. Racconto per Ustica, (DVD) cit., a 02:23:40. Corte di Assise di Roma, III sezione, Sentenza di 1 grado, N. 10/04, parte seconda, p. 460. Ibid. Ibid.

F. Farinelli - La ricerca come work in progress e l’industria culturale

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spettacolo, dal mondo della politica a quello letterario, tutti inten­ ti a tirare le fila di un discorso storico davanti all opinione pubblica che trova nella commistione con la fiction uno dei suoi caratteri principali. Un impegno postmoderno, per citare il volume a cura di Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug, che meriterebbe una riflessione maggiore circa le ragioni del suo successo di pubblico59.

39

P. Antonello, F. Mussgnug, (a cura di), Postmodern Impegno: Ethics and Commitment in Contemporary Italian Culture, Peter Lang, Oxford-New York 2009.

12.

LE CATENE DELL’IMPEGNO E DELLA CREATIVITÀ Marco Cucco

i. Introduzione Se dovessimo sintetizzare gli ultimi decenni di norme italiane sul finanziamento pubblico al cinema, forse le due parole più adat­ te da chiamare in causa sono quelle di impegno e creatività. Ovvia­ mente la scelta è arbitraria, suggestiva e pure giocosa, dal momen­ to che i due termini rimandano istintivamente a campi semantici del tutto differenti. Da una parte l’impegno suggerisce diligenza, fervore, zelo, forse austerità, ma anche un’idea di compito e sforzo virtuoso messi in campo per raggiungere traguardi importanti, in virtù di un attivo interessamento nei confronti dei problemi socia­ li e politici. Dall’altra la creatività, che invece rimanda ad una certa libertà anarchica, che celebra il guizzo estroso e la mente solitaria che lavora fuori dagli schemi e produce qualcosa di nuovo. È possibile applicare questi due concetti alle leggi che hanno normato e tuttora regolamentano il cinema italiano? È possibile farne il simbolo di due diverse epoche? Al di là dell’aspetto ludico, questa è esattamente la tesi contenuta nelle pagine che seguono. Più precisamente, il saggio intende mostrare come a livello di po­ litiche cinematografiche si stia uscendo da una lunga fase dedicata alla valorizzazione dell’impegno per entrare in una nuova epoca rivolta al sostegno della creatività. Tutto ciò tenendo a mente una nota importante: nell’ambito delle politiche pubbliche applicate al cinema, i termini impegno e creatività sono portatori di significati ben diversi da quelli a cui vengono solitamente accostati.

2. La fase dell’impegno La fase dell’impegno è strettamente legata al concetto di discrezionalità nell’assegnazione dei finanziamenti pubblici;

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

concetto che compare nel contesto normativo italiano all’epo­ ca del regime fascista. Nel 1933 infatti, il governo introduce i cosiddetti ristorni, ancora oggi esistenti e comunemente deno­ minati "contributi sugli incassi”. 1 ristorni sono una sorta di in­ centivo economico in quanto prevedono la restituzione del 10% di quanto raccolto al botteghino dal film al suo produttore, che è vincolato al reinvestimento della somma in altre pellicole. Nel momento della loro comparsa, i ristorni vengono destinati ai soli film che presentano “requisiti di sufficiente dignità artisti­ ca", ma in mancanza di criteri chiari di assegnazione, divengo­ no dei contributi a pioggia per le produzioni più popolari. E ciò è in realtà in linea con le parole usate dagli onorevoli Calza Bini e Olivetti per illustrare alla Camera lo spirito della legge: "aiu­ tare indistintamente tutta l’industria del film e quindi premiare in misura maggiore coloro che dimostrano di saper interpretare meglio i gusti del pubblico”'. Dunque al momento della sua nascita il finanziamento pub­ blico diretto al cinema è universale, e i risultati al botteghino sono l’unico fattore dirimente. Solo due anni dopo, però, la leg­ ge viene cambiata, e da quel momento hanno accesso ai ristor­ ni i soli film che si segnalano per “pregi di dignità artistica e di esecuzione tecnica”. Il passaggio è cruciale, in quanto viene meno l’automatismo delle assegnazioni e si pone un’autorità (con forte impronta politica) che stabilisce dall’alto quali film siano meritevoli e quali, invece, non lo siano. Compaiono cosi i concetti di discrezionalità e selezione, con un provvedimento che segna anche l’inizio di un reale e più qualificato interessa­ mento dello Stato italiano, nella fattispecie del regime fascista, per il cinema12. 1 criteri selettivi diventano sempre più frequenti nelle misure pubbliche di sostegno al cinema. Nel 1935 compaiono le anticipa­ zioni statali destinate ai film culturalmente più significativi; nel 1938 i premi di qualità; nel 1945 si prevede una percentuale aggiun­ tiva del 4% sugli incassi per i film artisticamente meritevoli e che

1 2

A. Venturini, Le politiche cinematografiche del regime fascista, Carocci, Roma 2015, p. 19. Ibid.

M. Cucco - Le catene dell’impegno e della creatività

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nel 1949 sale all’8%ì. Infine nel 1965, con la nuova legge sul cinema, viene istituito un fondo (che in seguito verrà denominato Fondo Unico per lo Spettacolo) destinato al sostegno di una produzione diversificata di qualità in un momento storico economicamente felice per le pellicole italiane ma che vede gli incassi ruotare at­ torno a pochi titoli (prevalentemente commedie). Si tratta di una misura che, pur avendo subito una serie di modifiche a livello di modalità di assegnazione dei finanziamenti, rimane di fatto im­ mutata nei propositi per decenni34. La presenza della discrezionalità nei criteri di assegnazione dei finanziamenti pubblici non costituisce un’anomalia, ma è anzi considerata parte inevitabile e costitutiva delle politiche a soste­ gno della cultura e del cinema5. Ciò non toglie che la discrezio­ nalità (che guida anche gli altri strumenti di sostegno diretto al settore che qui non sono stati analizzati in quanto secondari, come ad esempio i premi alle sceneggiature) ponga dei problemi, che variano di paese in paese a seconda delle specifiche normative na­ zionale. Nel caso dell’Italia, ad esempio, possiamo individuare al­ meno tre criticità, che riguardano: a) il testo filmico, b) i modi di produzione, c) il rapporto con il pubblico.

2.1 II testo filmico Innanzitutto la discrezionalità porta con sé il rischio di una deriva elitaria e pedagogica nel sostegno al cinema. Pensiamo al caso dei ristorni: quelli aperti a qualunque film ponevano il pote­ re decisionale nelle mani del pubblico, ovvero in una moltitudine disorganizzata che compie in libertà le proprie scelte di consumo. I ristorni selettivi, invece, si affidano agli orientamenti (culturali, politici, di gusto, ecc.) di poche persone portatrici di competenze specifiche e che esprimono i propri giudizi soggettivi. Lo stesso 3

4 5

B. Corsi, Con qualche dollaro in meno. Storia economica del cinema italia­ no, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 25-6; p. 43; pp. 49-50. M. Cucco, G. Manzoli (a cura di), Il cinema di Stato. Finanziamento pub­ blico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2017. A. Herold, European Film Policies in EU and International Law: Culture and Trade - Marriage or Misalliance?, Europa Law Pub Netherlands, Gron­ ingen 2010.

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

vale per i finanziamenti assegnati a seguito della valutazione del­ le sceneggiature, da cui emerge un altro elemento importante: la predilezione delle commissioni a finanziare il film drammatico ri­ spetto alla commedia6. Questo orientamento non sorprende visto che, come ricor­ dato, i fondi nascono proprio per sostenere una produzione di­ versa dalle commedie popolari degli anni Sessanta. Inoltre, il finanziamento pubblico al cinema (cosi come alla televisione e ad altri settori della cultura, in Italia e altrove) viene istitui­ to per correggere il cosiddetto fallimento del mercato, ovvero il fatto che la libera concorrenza non tutela alcuni interessi del­ la collettività. Per questa ragione lo Stato sostiene economica­ mente i beni meritori, ovvero quei prodotti che sono portatori di un qualche valore e che, proprio in virtù di questo, meritano di essere realizzati a prescindere dal fatto che il pubblico li pos­ sa apprezzare o meno. Se mettiamo in relazione il tema dei beni meritori con le reali dinamiche del finanziamento pubblico al cinema (ovve­ ro la forte predilezione per il genere drammatico), le possibili interpretazioni sono due, una più critica e una più benevola. La prima è che lo Stato riconosce un merito solo al film impegna­ to, ovvero che affronta i problemi della società, che rivisita e/o celebra la storia e le figure più importanti del paese, che porta sullo schermo opere letterarie di origine nazionale, ecc. (tutte voci che, fino all’introduzione della “nuova legge cinema” del 2016, comparivano tra criteri utilizzati dal Ministero nell’iter di assegnazione dei finanziamenti). Dunque agli occhi dello Stato alcuni generi sono più nobili di altri. La seconda e più benevola interpretazione, invece, è che il sostegno pubblico si focalizza sul film impegnato perché altri generi (in primis la commedia) vengono comunque offerti dal mercato. Viste le tendenze al botteghino, il film impegnato offre meno garanzie di successo al produttore ed è percepito come un rischio economico, e dunque lo Stato interviene con politiche e fondi ad hoc per incentivare 6

Se si considerano i film di interesse culturale finanziati dal MiBACT tra il 2005 ed il 2014, il 44% sono film drammatici, il 31% commedie, il 7% docu­ mentari. Cfr. D. Holdaway, La rete sociale del cinema di interesse culturale, in M. Cucco, G. Manzoli, op. cit., pp. 127-169 (pp. 159-160).

M. Cucco - Le catene dell’impegno e della creatività

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i produttori e sanare ciò che poco sopra abbiamo definito un fallimento del mercato. Difficile stabilire quale delle due interpretazioni sia corretta, così come è possibile che siano entrambe vere. A prescindere da ciò, l’implicazione è la medesima: alcuni generi hanno un accesso privilegiato ai canali del finanziamento pubblico. Da qui l’asso­ ciazione del finanziamento diretto al concetto di impegno, e del concetto di impegno a quello di merito e qualità; due binomi che col passare del tempo si sono rafforzati ai danni di altri generi ci­ nematografici. 2.2 Modi di produzione

I decenni in cui il finanziamento pubblico al cinema italiano si rivolge al film meritorio, che identifica principalmente nel film d’impegno, si caratterizzano anche per meccanismi di erogazione dei contributi poco oculati. Si pensi che prima dell’entrata in vigo­ re del decreto Urbani rimpianto normativo prevedeva che il finan­ ziamento diretto nazionale potesse coprire fino al 90% del costo di produzione. Se dopo due anni dall’uscita del film il produttore non era in grado di restituire l’ammontare ricevuto, interveniva un Fon­ do di garanzia statale a copertura del 70% del debito. Se poi entro cinque anni dall’erogazione il produttore non restituiva il restante 30%, non poteva accedere ad altri prestiti per i successivi tre anni. Inoltre, la legge non prevedeva un numero massimo di film finan­ ziabili ogni anno. Il finanziamento pubblico poteva dunque coprire la quasi totalità dei costi di produzione e scaricava sullo Stato il ri­ schio economico, determinando così una scarsa attenzione da parte del produttore nella scelta dei soggetti e delle sceneggiature. Il fatto di non mettere a rischio il proprio capitale ma di scommettere con i soldi dello Stato portava infatti ad una valutazione meno attenta del rischio economico e ad una scarsa cura nei confronti della po­ tenziale performance di mercato. Tale meccanismo rendeva dunque possibili, e nel lungo periodo promuoveva, scelte irresponsabili o azzardate, e incentivava la realizzazione di pellicole che non aveva­ no le caratteristiche necessarie per stare sul mercato. I dati di questi ultimi due decenni confermano le criticità del meccanismo: il finanziamento pubblico è sempre stato di fatto un

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Il sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

contributo a fondo perduto7, nonostante i tentativi compiuti per razionalizzare il sistema8. Ed ecco che allora, da un punto di vista economico-produttivo, il cinema di impegno sostenuto dallo Sta­ to non è affatto un cinema virtuoso e rigoroso, ma al contrario si caratterizza per un elevato grado di irresponsabilità e spregiudi­ catezza.

2.3 11 rapporto con il pubblico Come è stato ricordato, il finanziamento pubblico è volto al so­ stegno dei beni meritori, ovvero di film portatori di valore per la collettività ma che il libero mercato non produce. Posta questa premessa, appare improprio valutare il finanziamento pubblico in base ai risultati economici: il rischio di una debole performance di mercato non è solo contemplato a priori, ma anzi è una delle prin­ cipali ragioni d’essere del contributo accordato. Tuttavia ciò genera un paradosso. Lo Stato finanzia i film che rispondono all’interesse collettivo ma che il mercato non sostiene perché non remunerati­ vi; i film sostenuti di fatto non incassano (come dimostrano i dati); dunque lo Stato non riesce a far sì che i meriti propri dei film che ha co-fìnanziato raggiungano il pubblico e di conseguenza fallisce nel tentativo di curare l’interesse della collettività. In altre paro­ le, se il film non ha successo allora non è nemmeno culturalmen­ te incisivo, perché i benefici di cui è portatore non raggiungono i destinatari. Ecco che allora l’azione dello Stato parallela (e non intrecciata) al mercato è di fatto sterile, e che la predilezione per il cinema d’impegno non è fallimentare solo dal punto di vista eco­ nomico, ma anche culturale. E ancora una volta, nell’ambito delle politiche e dell’economia del cinema, la parola impegno viene a ridefinirsi. Se in precedenza abbiamo visto che nei modi di pro­ duzione viene meno la componente del rigore, guardando al rap­ porto col pubblico di fatto viene meno anche il raggiungimento dell’obiettivo che il film d’impegno sostenuto dallo Stato intende perseguire: l’interesse collettivo. 7 8

M. Cucco, L’industria e le leggi del cinema in Italia (2000-2015), in M. Cuc­ co, G. Manzoli, op. cit., pp. 33-83. Tra le misure intraprese col decreto Urbani vi è la riduzione al 50% del­ la percentuale del costo di produzione del film che può essere coperta dallo Stato.

M. Cucco - Le catene dell’impegno e della creatività

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3. La fase della creatività

La nuova epoca in cui sta entrando il finanziamento pubblico al cinema è quella all’insegna delle politiche creative. Prima di vedere cosa di fatto sta cambiando nel panorama italiano, è bene chiarire come nasce l’interesse per le industrie creative e che tipo di politiche vengono applicate a questo macro-settore, con parti­ colare attenzione al cinema. Dalla fine degli anni Sessanta ad oggi i governi dei paesi più sviluppati hanno spesso affermato la centralità di investire nell’e­ conomia dell’informazione, della conoscenza, nelle industrie cul­ turali, ecc. utilizzando denominazioni spesso ambigue e dai con­ fini poco chiari. Ciò che accomuna queste espressioni è la finalità politico-economica: rallentare la crescita di consumi materiali e favorire lo sviluppo di consumi basati su beni e servizi che appar­ tengono, appunto, al campo dell’informazione, del sapere, della conoscenza, ecc.; in altre parole, di consumi immateriali. Già dalla fine degli anni Sessanta, infatti, nei paesi più sviluppati il settore terziario caratterizzato dalle attività di servizio iniziava a guada­ gnare terreno in termini di occupazione e di contributo alla forma­ zione del prodotto interno lordo rispetto alle attività manifattu­ riere; e al contempo i loro governi cominciavano ad essere sempre più coscienti della necessità di individuare dei modelli di sviluppo nuovi in grado di frenare il degrado ecologico, l’inquinamento e il consumo di risorse naturali non rinnovabili910 . L’insieme di questi fattori porta alla nascita e alla centralità stra­ tegica della cosiddetta società dell’informazione, all’interno della quale i mezzi e i servizi di comunicazione giocano un ruolo impor­ tante in quanto fin da subito dimostrano di essere uno dei settori più dinamici dell’economia mondiale. I satelliti, la televisione, le reti di comunicazione fisse e mobili catalizzano la maggior parte dell’attenzione, mentre il cinema è generalmente escluso da que­ sto tipo di riflessioni. Sebbene gli venga da sempre riconosciuto un ruolo centrale a livello di nation branding'0, ovvero di capacità 9

10

G. Richeri, All’origine della società dell’informazione, in M. Cucco (a cura di), La trama dei media. Stato, imprese, pubblico nella società dell’informa­ zione, Carocci, Roma 2014, pp. 17-19. D. W. Ellwood, The Shock of America: Europe and the Challenge of the Century, Oxford University Press, Oxford 2016.

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

di formare e promuovere l'identità e l’immagine di un paese, il ci­ nema non è mai visto come un settore strategico per l’economia, fatta eccezione per gli Stati Uniti. L’analisi delle politiche nazionali europee in ambito cinematografico non evidenzia infatti nessun cambiamento significativo a livello di obiettivi nel corso degli anni Sessanta e dei decenni immediatamente successivi, periodo du­ rante il quale il cinema continua ad essere sostenuto economica­ mente per finalità culturali. 11 cinema inizia ad essere contemplato nelle politiche di svilup­ po economico a partire dalla fine degli anni Novanta, e ciò avvie­ ne innanzitutto in Inghilterra. Nel 1997 il partito laburista inglese individua nelle industrie culturali un settore strategico per il con­ solidamento dell’identità nazionale, per la sua crescita economi­ ca (in un’ottica competitiva con gli altri paesi) e per la riqualifica­ zione urbana. Dopo la vittoria elettorale del partito nel medesimo anno, la fede nelle industrie culturali si sostanzia, ma il settore su cui si iniziano ad investire energie e speranze viene rinominato, e da industre culturali si passa all’espressione industrie creative, che includono un numero maggiore di settori rispetto a quelli solita­ mente ricondotti alle industrie culturali (ad esempio vi rientrano le imprese che operano nell’ambito dei software informatici, che ac­ crescono notevolmente il peso economico del comparto creativo). Le politiche creative inglesi perseverano nell’idea di una colla­ borazione tra Stato e industrie della conoscenza accentuandone le finalità economiche, interpretano la spesa pubblica come un investimento, e dunque hanno bisogno di output misurabili nel breve periodo da valutare in base a obiettivi predefiniti". In altre parole, le politiche creative portano avanti un approccio nato nei decenni precedenti e lo esasperano, includendo questa volta at­ tivamente anche il cinema. Nel 2001, ad esempio, viene istituito lo UK Film Council, che ha come obiettivo quello di rendere eco­ nomicamente sostenibile l’industria cinematografica inglese, ov­ vero sempre più autonoma dalla mano pubblica e remunerativa. Il Regno Unito ha tradizionalmente prediletto le ragioni econon

N. Garnham, From Cultural to Creative Industries. An Analysis of the Im­ plications of the “Creative Industries" Approach to Arts and Media Policy in the United Kingdom, in “International Journal of Cultural Policy", vol. 11, n. 1, 2005, pp. 15-29 (p. 16); P. Schlesinger, Creativity: from Discourse to Doctrine?, in “Screen", vol. 48, n. 1, 2007, pp. 377-387 (p. 378).

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miche a quelle culturali nel sostenere il proprio cinema, eppure a partire dal 2001 ciò avviene in maniera molto più pronunciata che in passato'*. E questo porta ad una inevitabile considerazio­ ne: le politiche creative non hanno nulla a che fare con i concetti di guizzo e libertà artistica solitamente accostati all’espressione "creatività”, bensì rimandano ad un ben meno estroso calcolo di investimenti e ritorno economico. E ancora: le politiche creative non sono interessate al contenuto dei film sostenuti, alle speri­ mentazioni di linguaggio e agli effetti generati sul piano cultura­ le nel medio-lungo periodo, ma perseguono finalità più pragma­ tiche misurabili nell’immediato'5. Se poi distogliamo lo sguardo dalla sola Inghilterra, scopriamo che il medesimo approccio si diffonde progressivamente e in ma­ niera capillare nel resto del Continente. Tra la fine degli anni No­ vanta e il corso degli anni Duemila fioriscono in tutta Europa gli incentivi fiscali per il cinema, le film commission e i fondi locali'4. Le tre misure hanno un minimo comune denominatore: aiutare la produzione cinematografica per trarne dei benefici economici in termini di indotto. Incentivi, film commission e fondi locali posso­ no anche essere visti come un sostegno alla cultura, ma se si ana­ lizzano i criteri per l’assegnazione dei fondi o per la concessione di aiuti logistici, emerge chiaramente che a prevalere sono criteri automatici legati alla spesa dell’impresa cinematografica, che l’ac­ cesso è tendenzialmente universale e vi sono ridottissimi margini per scelte discrezionali. Questi cambiamenti stanno coinvolgendo a pieno anche l’Italia, dove in tempi recenti si sono affermate numerosefilm commission (la prima nel 1997), sono disponibili diversi fondi locali (il primo nel 2003), e dal 2008 è in vigore il tax credit, che col passare degli anni ha avuto una dotazione economica sempre più consistente e 12 13

14

G. Doyle, P. Schlesinger, R. Boyle, L. W. Kelly, The Rise and Fall of the UK Film Council, Edinburgh University Press, Edinburgh 2016, p. 22. P. Drake, Policy or Practice? Deconstructing the Creative Industries, in P. Szczepanik, P. Vonderau (a cura di), Behind the Screen. Inside European Production Culture, Palgrave, New York 2013. J. Olsberg, A. Barnes, Impact Analysis of Fiscal Incentive Schemes Sup­ porting Film and Audiovisual Production in Europe, European Audiovisual Observatory, Strasbourg 2014; J.T. Milla, G. Fontaine, M. Kanzler, Public Financing for Film and Television Content. The State of Soft Money in Eu­ rope, European Audiovisual Observatory, Strasbourg 2016.

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II sistema dell'impegno nel cinema italiano contemporaneo

oggi si articola in diverse forme. Dunque l’interesse delle istituzio­ ni pubbliche per il cinema è in realtà diventato un interesse per il cinema che crea economia'5, e le prove di questa svolta non stanno solo in questi tre inediti strumenti di sostegno al settore, ma anche in un nuovo spirito che anima la normativa nazionale. In Italia questa svolta inizia a registrarsi, seppur timidamente, con l’introduzione del decreto Urbani nel 2004; decreto che ha tentato di ancorare maggiormente il sistema di erogazione dei contributi pubblici al mercato introducendo il reference system, ovvero un meccanismo che porta a privilegiare produttori e registi con una storia di successo commerciale alle spalle. Con il decreto Urbani la valutazione finale di un progetto dipende ancora preva­ lentemente da giudizi discrezionali (60%), ma l’introduzione di un 40% che viene maturato attraverso criteri automatici legati a performance economiche e festivaliere è un elemento di forte no­ vità, così come la comparsa della valutazione della casa di produ­ zione (stabilità dell’impresa, solvibilità nei confronti dello Stato, ecc.). Questo sistema intende ovviare da una parte al problema dei film finanziati che non raggiungono il pubblico, e dall’altra al fatto che i contributi concessi che non vengono mai restituiti, ed è quindi legittimo leggere nel decreto (al di là dei risultati realmente raggiunti) il desiderio di instaurare un cinema economicamente sostenibile, come appunto in Inghilterra. Il periodo storico normato dal decreto Urbani (2004-2016) rappresenta una sorta fase di transizione dall’epoca dell’impe­ gno a quella della creatività, in quanto la svolta definitiva avviene con la recentissima entrata in vigore della nuova legge cinema. La nuova legge, infatti, elimina ogni valutazione discrezionale delle sceneggiature (fatta accezione per le opere prime e seconde, i film degli under 35 e i cosiddetti “film difficili”), e affida l’eroga­ zione dei contributi a meccanismi automatici basati principal­ mente sui risultati commerciali e festivalieri dei film realizzati in passato dal produttore e dal regista che presentano la richie­ sta di finanziamento. In altre parole, viene esasperato il sistema del reference system con l’intento di sostenere e promuovere film in grado di coniugare arte e mercato, di incassare e ricevere al 15

M. Cucco, A. Oliva, Logica applicate all’arte. Il sostegno pubblico al cinema e la formula produttiva di Indigo Film, in "Studi culturali”, voi. 15, n. 1, 2018.

M. Cucco - Le catene dell’impegno e della creatività

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contempo accreditamenti artistici. Non a caso per la presenta­ zione della legge viene organizzato un incontro tra il premier e il ministro della cultura di allora (Matteo Renzi e Dario Franceschini) con i registi italiani che hanno vinto un Oscar: Roberto Benigni, Bernardo Bertolucci, Paolo Sorrentino e Giuseppe Tornatore (assente Gabriele Salvatores)'6. Inoltre la legge rafforza il sistema degli incentivi fiscali che di fatto dalla loro introduzione hanno favorito significativi investimenti privati nella produzione cinematografica italiana. Incentivi aperti a qualsiasi film a pre­ scindere dal genere e dalla vocazione, ma che di fatto premiano inevitabilmente le produzioni più solide e che offrono maggiori garanzie a livello di mercato. Anche il cinema delle politiche creative ha tuttavia dei limiti, e per capirlo è ancora una volta utile guardare al Regno Unito, una sorta di paese-faro in quanto il primo ad aver sperimentato questo tipo di approccio al cinema. Un importante lavoro condotto da una squadra di studiosi inglesi'7 ha infatti recentemente dimostrato il fallimento dell’azione del governo Britannico in campo cinema­ tografico ripercorrendo la storia del già citato UK Film Council, chiuso dieci anni dopo la sua nascita in quanto considerato ente inutile. Lo studio riconduce il fallimento ad una serie di ragioni, e tra queste ne ricordiamo due. La prima è che l’obiettivo della sostenibilità economica è “impossibile” da conseguire data anche la configurazione del mercato cinematografico internazionale di origine ormai pluridecennale. La seconda è che le politiche cre­ ative mirano a perseguire obiettivi misurabili nel breve periodo, e dunque mal si conciliano con processi di trasformazione inevi­ tabilmente lenti. E i cambiamenti positivi registrati dallo studio nel corso dei dieci anni analizzati (aumento degli investimenti privati, lieve aumento della quota di mercato dei film inglesi, de­ centramento dei fondi per il cinema, realizzazione del più grande successo commerciale della storia cinematografica inglese, ovvero The King’s Speech di Tom Hooper del 2010) nulla hanno contato a 16

17

Cfr. Registi da Oscar a Palazzo Chigi. Benigni: “Renzi ci ha accolto nudo come le statue", in La Repubblica, 31 gennaio 2016, online: https://www. repubblica.it/spettacoli/cinema/2o16/o1/28/news/bertolucci_tornatore_ benigni_e_sorrentino_a_palazzo_chigi_per_la_nuova_legge_del_cinema-132220187/ [ultimo accesso 24 maggio 2019J. G. Doyle, P. Schlesinger, R. Boyle, L.W. Kelly, op. cit.

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fronte dell’obiettivo perseguito nell’immediato (la sostenibilità del settore), che non essendo stato raggiunto ha portato alla chiusura prematura dell’ente e a vanificare gli sforzi profusi in un decen­ nio. Lo studio infine ha anche il pregio di confermare pragmaticamente l’attendibilità di alcuni dubbi che a livello teorico erano già emersi da alcuni anni nei confronti delle industrie creative e delle relative politiche pubbliche. Il lavoro mostra infatti come la fidu­ cia e l’entusiasmo verso le industrie creative spesso non fossero supportate da valutazione rigorose, e che il teorema del sostegno alla creatività come sostegno allo sviluppo economico sia stato ac­ cettato in maniera sostanzialmente acritica'8. Difficile prevedere se in Italia si proporranno i medesimi scenari, ma è indubbio che anche nel nostro paese si sia diffusa una certa retorica della cultura-che-crea-economia che, almeno in ambito cinematografico (si pensi a film commission e film fund), spesso non poggia su studi (e su studi indipendenti).

Conclusione Questo saggio ha mostrato come il finanziamento pubblico al cinema italiano stia attraversando una fase di importante cambia­ mento. Le politiche cinematografiche stanno abbandonando una lunga epoca in cui il sostegno finanziario era rivolto ad alcuni film ritenuti meritori dal giudizio discrezionale delle commissioni di nomina ministeriale. Film d’impegno a livello testuale, ma che a livello produttivo si caratterizzavano per scelte azzardate e poco responsabili; film che spesso venivano ignorati dal pubblico e che quindi non portavano a buon fine alcuna missione culturale. La nuova fase in cui si sta entrando ha invece delle chiare priorità economiche: l’obiettivo è quello di usare il cinema come volano di crescita (ovvero generare delle ricadute maggiori rispetto all’in­ vestimento statale stanziato), che in teoria porta con sé il vantag­ gio di realizzare film in grado di intercettare il gusto del pubblico. Queste nuove politiche, teoricamente virtuose, rischiano però di sopravvalutare le capacità remunerative del settore, e dunque di 18

Sul tema della fede acritica nei confronti del potenziale insito nelle indu­ strie creative si veda P. Schlesinger, op. cit., p. 377.

M. Cucco - Le catene dell’impegno e della creatività

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portare a risultati diversi da quelli auspicati. Dunque due fasi sto­ riche diverse, che hanno un tratto in comune: un diktat forte a cui rispondere (fare cultura nel primo caso, fare economia nell’altro) senza alcuna garanzia di riuscirvi.

L’IMPEGNO DI STATO Il finanziamento pubblico del cinema italiano nei testi delle delibere delle sottocommissioni ministeriali Andrea Minuz

Impegno e interesse culturale

In questo intervento interrogherò la nozione di impegno nel cinema italiano in relazione al tema del finanziamento pubblico, prendendo in considerazione i testi delle delibere con cui le sot­ tocommissioni ministeriali accordano o meno un sostegno econo­ mico ai film. Com’è noto, quando si dice che un film è “impegnato” ci si riferisce anzitutto alla sua sensibilità sociale, alla propensione al realismo, a contenuti a sfondo politico o allo spirito di denuncia che anima la storia. Tuttavia, queste caratteristiche non bastano. Esse acquistano senso solo dentro un sistema di riconoscimento e legittimazione che promuove alcuni discorsi anziché altri. Il ruolo che lo Stato svolge in tale sistema, e dunque anche nella codifica­ zione dell’idea di “cinema impegnato”, diventa pertanto decisivo. Lo Stato emana i criteri con cui si finanzia un’opera cinematografi­ ca e come vedremo questi criteri incontrano a vari livelli la nozio­ ne di “impegno". Da un lato, alcuni temi influenzano la logica del finanziamento pubblico del cinema ma dall’altro la creatività degli autori che legittimamente aspirano ad essere finanziati non può che definirsi a partire da una agenda o da un “lessico deH’impegno”. L’architrave su cui poggia tutto il sistema è la nozione di “interesse culturale”. In virtù del testo originario della Legge 1213/1965 e delle seguenti modificazioni apportate dalla Legge 153/1994, per "film di interesse culturale” si intende “il film che corrisponde a un interesse culturale nazionale in quanto, oltre ad adeguati requisiti di idoneità tecnica, presenta qualità cul­ turali o artistiche o eccezionali qualità spettacolari”'. Le aporie 1

Si veda anche L. Gangarossa, Guida alla tutela dell’opera cinematografica, Nyberg Edizioni, Milano 2005, p. 57.

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

in cui ci proietta una tale definizione sono evidenti: come si fa a far rientrare un film - a meno che non sia la storia di Garibaldi o Cavour - nell’interesse culturale nazionale? E un blockbuster americano non è forse un’opera dotata di “idoneità tecnica” e "eccezionali qualità spettacolari”? Non se ne esce. L’ambiguità della nozione di "interesse culturale” ha innescato nel tempo, e soprattutto a partire dagli anni Ottanta, enormi fraintendimen­ ti sul ruolo dello Stato nel cinema, sull’uso dei fondi pubblici, sul lavoro e lo spazio di manovra del produttore, sull’idea di film d’autore, sulla promozione della cultura cinematografica e in generale sull’inesorabile sconfinamento del cinema tra i beni culturali da proteggere, anziché tra le industrie da rilan­ ciare. L’ultimo disegno della “Legge Cinema” del 2016 promosso dall’ex-Ministro Dario Franceschini annuncia infatti l’uscita di scena della nozione di interesse culturale: La nuova Legge Cinema abolisce le commissioni ministeriali per l’at­ tribuzione dei finanziamenti in base al cosiddetto “interesse culturale” e introduce un sistema di incentivi automatici per le opere di nazionalità italiana. La quantificazione dei contributi avviene secondo parametri oggettivi che tengono conto dei risultati economici, artistici e di diffu­ sione: dai premi ricevuti a) successo in sala. I produttori e i distributo­ ri cinematografici e audiovisivi riceveranno i contributi per realizzare nuove produzioni.’

È ancora presto per capire quanti e quali frutti produrrà que­ sto rinnovamento legislativo. Tuttavia, benché in via d’estinzio­ ne, la nozione di interesse culturale ha definito sin qui l’assetto del sistema di finanziamento del cinema italiano. Un sistema in cui attraverso il lavoro delle commissioni, lo Stato decretava il valore culturale di un film (o meno) e dunque assegnava un fi­ nanziamento. Senza addentrarci nelle aporie di una definizione di “prodotto culturale” affidata allo Stato anziché al mercato, la prima difficoltà sta proprio nella valutazione dei film. In un ar­ ticolo del 2006, il celebre critico e studioso Franco La Polla rac­ contava la sua personale esperienza come membro delle com2

Ufficio Stampa MiBACT, Nasce la nuova legge sul cinema, 28 gennaio 2016, online: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sitoMiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_i3i5i4oi84.html (ul­ timo accesso 01 novembre 2016].

A. Minuz - L’impegno di Stato

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missioni ministeriali mettendo in luce le criticità e le difficoltà delle scelte di finanziamento operate sulla base della lettura di una sceneggiatura: Ogni singolo membro della Commissione era tenuto a leggere ogni singola sceneggiatura regolarmente pervenuta al ministero e di seguito a scrivere su un modulo già approntato i suoi giudizi sull'originalità dell’i­ dea, il trattamento dei personaggi, la bontà dell’opera nel suo insieme (era necessario persino accennarne la trama) ed infine esprimere un giudizio definitivo (...) L’intera operazione era disperata, nel senso che, come sa chiunque si occupi in qualche modo di cinema, giudicare la finanziabilità di un film dalla sua sceneggiatura è cosa da navigati produt­ tori, non certo da critici e professionisti, per quanto esperti. Sappiamo tutti che nemmeno nel cinema hollywoodiano (il più rigoroso in merito alla fedeltà alla sceneggiatura originaria) il prodotto finale combacia con la sceneggiatura inizialmente proposta. Di una sceneggiatura si può apprezzare l’idea narrativa, il dialogo brillante e ritmico, la capacità di approfondire psicologicamente questo o quel personaggio. Ma i valori visivi, l’iconografìa, la scenografìa, il montaggio e tutto quello che fa del film un film non è nel copione: esso verrà dopo, in fase di produzione e di post-produzione. Insomma, si comprende bene perché ho definito disperata l’impresa che eravamo stati chiamati a compiere, mese dopo mese, anno dopo anno. D’altra parte, bisogna ammetterlo: non ci può essere altro modo di giudicare (o di indovinare, se preferite) la bontà di un film che ancora non esiste se non in intenzioni e parole?

Intenzioni e parole. Si chiarisce meglio qui il senso dell’espres­ sione che abbiamo utilizzato in apertura: lessico dell’impegno. Sotto quella legislatura, i film cioè venivano di fatto valutati in base ai temi, ed è del tutto evidente che a parità di garanzie pro­ duttive alcuni temi hanno più possibilità di essere finanziati di altri. La nozione di interesse culturale opera quindi come un si­ stema classificatorio. Definisce un’agenda, una gerarchia degli stili e degli standard morali (lo Stato non può promuovere un film con un messaggio “sbagliato”). All’interno di questo sistema classificatorio prende quindi forma un’idea di impegno legitti­ mata dall’alto, secondo la spinta tipicamente pedagogica del ser­ vizio pubblico. 3

F. La Polla, Memorie di un commissario, “Aedon - rivista di Arti e Diritto on line” n. i, 2006, online: http://www.aedon.mulino.it/archivio/2oo6/1Z lapolla.htm [ultimo accesso 5 novembre 2016].

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Temi, discorsi, motivi

Nell’archivio del sito del Ministero dei Beni Culturali sono pre­ senti i documenti ufficiali relativi al finanziamento delle opere pri­ me e seconde (delibere, calendario delle audizioni, cifre stanziate, motivazioni delle commissioni) dal 2004 al 2016, quando si è intro­ dotta la nuova legge del cinema. Le motivazioni sono testi brevi con cui la commissione spiega e giustifica il finanziamento accordato al film o, in caso contrario, la decisione di non assegnare un sostegno. Ad una prima ricognizione generale emerge la maggiore attenzione dedicata alla solidità del progetto economico dei film più recenti ri­ spetto alle motivazioni dei primi anni archiviati. Nei testi delle deli­ bere del 2004 o del 2005 ci si imbatte in dichiarazioni molto stringa­ te, in cui gli accenni all’impianto produttivo sono decisamente rari. Ad esempio, Forse Dio è malato (Franco Taviani) è finanziato con la seguente motivazione: “Assai interessante questo documentario tratto dall’omonimo libro di Walter Veltroni che racconta la tragica realtà dei poveri d'Africa”’; oppure Murales (Pino Farinotti): “Moti­ vazione: Racconto metropolitano che narra le vicende di un ‘graffittaro’ milanese con note patetiche corrette da momenti di ironia”4 5. Andando avanti nel tempo, i testi delle motivazioni si fanno più ampi. Pur con inevitabili definizioni standard, danno più spazio alla valutazione dell’impianto economico del film, oltre che al resoconto e al valore dei contenuti; ad esempio: "Il progetto, consolidato da una compagine produttiva che vanta apporti regionali, un cast di livello e una distribuzione certa si colloca tra i meritevoli di contri­ buto della sessione deliberativa”6. Ciò è dovuto all’introduzione del “reference system”, ma anche a una maggior sensibilità nei confronti dell’uso del finanziamento statale, cresciuta in concomitanza con la crisi economica e la progressiva diminuzione dei fondi pubblici. 4

5 6

Motivazioni delibera della sottocommissione cinema - sezione per il ri­ conoscimento dell'interesse culturale delle opere prime e seconda. Seduta del 21 e 22 novembre 2005 (dora in poi indicando solo la seduta), online: http://www.cinema.beniculturali.it/archivio/41/film-di-lungometraggiointeresse-culturale-opera-prima-e-seconda/ [ultimo accesso 5 novembre 2016]. Nei riferimenti successivi, si riporta solo la data della delibera (sem­ pre disponibile sul sito del Ministero). Ibid. Delibera del 19 dicembre 2014.

A. Minuz - L’impegno di Stato

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Ma sono appunto i contenuti ad interessarci. L’archivio del­ le delibere si offre in tal senso come un vasto prontuario delle tematiche del film di interesse culturale in cui l’impegno (in­ teso come generica sensibilità sociale e attenzione ai contenu­ ti civili) diventa un ingrediente di scrittura essenziale. Tra le categorie più ricorrenti e rappresentate, indubbiamente quella degli immigrati o dei problemi connessi all’integrazione. Solo qualche esempio: Dani è un immigrato che vive in un paesino del Trentino e, in attesa di asilo politico, lavora in un centro che fabbrica amie per api. Dopo Io sono lì, Segre torna ad indagare lo “spirito del confine’*, tratteggiando personaggi intensi nei dialoghi come nei silenzi, nelle esitazioni come nell’espressione di quel mondo interiore che li rende unici e umani al tempo stesso. Uno script che annuncia una storia di grande spessore, calibrata con grazia su temi importanti come quello dell’immigrazione e dell’integrazione.7

Un gruppo di disperati abitanti delle baraccopoli di una disordinata metropoli del terzo mondo vedono nel casuale invito ad un torneo di pallamano in Baviera la risposta alle loro preghiere e un biglietto di sola andata verso il ricco Occidente. Ovvero, come far ridere sulla tragedia degli immigrati clandestini.8 Bekele, un immigrato clandestino, ha un talento: fare il cuoco. Forte di questa sua passione, si trova accolto e scacciato da vari ristoranti, in varie città d’Italia, fino a quando potrà finalmente aprirsi un locale tutto per sé. Una sceneggiatura che si sviluppa in maniera corretta e senza salti logici.9

La motivazione risulta interessante anche quando la commis­ sione argomenta il mancato finanziamento, tradendo quasi l’ec­ cessiva insistenza sugli stessi temi che finiscono per trasformarsi in cliché, ai confini dell’autoparodia: Amin e Yasser, due immigrati tunisini, riescono a mettersi in salvo dalla polizia e dalla malavita locale entrando a far parte di una band di musica salentina. Uno script dall’evoluzione tanto lineare quanto prevedibile, che emotivamente disattende le ambizioni e gli ideali che 7 8 9

Delibera del 2 ottobre 2012. Delibera del 15 maggio 2007. Delibera del 2 dicembre 2015.

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo sembrano aver animato il soggetto. Un piano produttivo non ancora strutturato concorre a far sì che il progetto, a fronte di una valutazione comparativa, venga superato da altri ritenuti più meritevoli.*0

Tra le altre categorie sociali ricorrenti ci sono ovviamente i pre­ cari, i disoccupati, gli ingiustamente licenziati, le donne in crisi di identità (o che non riescono a rimanere incinta), i malati e ancora di più i bambini malati (sul modello di Braccialetti rossi). Ma non sono tanto i plot ad interessarci quanto lo sguardo delle commis­ sioni sui progetti e le gerarchie che esso lascia emergere. Impor­ tante, ad esempio, è sempre “misurarsi con temi di forte carattere sociale” (magari giocando più carte contemporaneamente: donne, precari, sud, sfruttamento): Una storia di precariato, professionale e umano, ambientato in una cittadina pugliese. Un gruppo di donne, dai sedici ai cinquantanni, la­ vora in una sartoria sotto terra, senza contratto, alle dipendenze di un padrone volgare e prepotente, per “due euro l’ora”. Alcune sono già ras­ segnate, altre invece sognano di poter ancora cambiare la propria vita. Basato su uno script che si misura con importanti temi di carattere so­ ciale, supportato da un buon piano finanziario e da un valido cast, il progetto si colloca fra i beneficiari di contributo."

Altra categoria ricorrente di film meritevoli sono quelli che si offrono come “un ritratto del Paese”: Il Sud Italia degli anni Novanta, avvelenato da inquinamento, droga e da trucide logiche di potere, negli occhi di tre adolescenti segnati da altre infelicità. Una commedia tragica ispirata al romanzo di Mario De­ siati che, pur agendo sotto un’aura magica, si confronta e si scontra con la crudezza de) quotidiano, fino a svelarsi come ritratto in miniatura dell’Italia intera.1*

Oppure di una non meglio specificata "metafora della condizio­ ne umana”: Sara, una bambina orfana, si ritrova a vivere in un buco con un grup­ po di persone per scappare da una guerra misteriosa e improvvisa. Pro­ io n 12

Delibera del 2 ottobre 2012. Delibera dei 28 dicembre 2012. Delibera de) 3 dicembre 2010.

A. Minuz - L’impegno di Stato

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getto dalla forte connotazione esistenziale che si pone a metafora della condizione umana e propone una riflessione inquieta e claustrofobica su un’umanità demotivata. Script giocato su contrasti visivi e verbali e un buon piano finanziario concorrono a determinare il parere favorevo­ le della Commissione e la concessione del contributo economico.'»

Le argomentazioni delle commissioni sconfinano non di rado nell’interpretazione del plot al fine di confermare le logiche e i va­ lori su cui questo fa leva (finendo così per assomigliare più a una recensione - peraltro di un film da fare - che a una motivazione di finanziamento). Vittoria Deodato è un giovane magistrato impegnato - in Calabria nella lotta alle varie famiglie della 'ndrangheta. La cosa che più la turba ed infastidisce della realtà deviata su cui indaga sono proprio le figure femminili che sanno ma non tradiscono e tirano su i figli per mandarli al massacro nella lotta tra famiglie. Un film dove l’archetipo femminile diventa redentore di una subcultura deviata dal paternalismo imperante che imprigiona i suoi adepti in un destino senza futuro. Un cast di sicuro appeal concorre a motivare il giudizio positivo della Commissione e la concessione del contributo economico.'4

Un’analisi lessicale delle motivazioni e un censimento siste­ matico di temi, motivi, figure del cinema prodotto nella logica di Stato non può certo essere affrontata in questo breve contributo. Tuttavia, emerge già a questo primo sguardo la circolarità che si attiva tra la domanda e l’offerta di finanziamento. 1 temi sono ri­ calcati sull’agenda di una sensibilità contemporanea che potrem­ mo definire genericamente “progressista” - dalla lotta alle mafie all’inquinamento, dalla prevaricazione delle logiche del profitto alle discriminazioni di genere - così come il lessico utilizzato nel­ le motivazioni riecheggia categorie interpretative e valoriali che cuciono “l’interesse culturale” sulla trama del progetto presenta­ to (così un racconto oscuro diventa "kafkiano" o “borgesiano” o "pregno di realismo magico”, i personaggi diventano “archetipi”, il ritmo “rarefatto"). È proprio nei progetti art-house che emerge meglio l’accordo tra prospettiva interpretativa e giudizio di valore:

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Delibera del 28 dicembre 2012. Delibera del 2 agosto 2011. Corsivo dell’autore.

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W sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo Un uomo si trasforma prima in un animale, poi in un grande albero e alla fine in un cumulo di carbone: sospeso tra fiction e documentario e strutturato in 4 parti legate tra loro a comporre una storia e il viaggio di un’anima, di uno spirito attraverso i 4 stadi dell’essere e insieme un inno alla semplicità dell’esistenza, come la vita dei pastori e dei carbonai cala­ bresi. Progetto dal titolo enigmatico a ritmo lento, rarefatto eppure den­ so e concreto, dialoghi ridotti al minimo, che torna a guardare un mon­ do rurale in via di estinzione per proporre sguardi nuovi e temi eterni. Da realizzarsi in coproduzione europea e con un budget estremamente contenuto, è la seconda affascinante prova del giovane talento milanese di origini calabresi, già autore del sorprendente II dono, opera prima di grande raffinatezza e senso dell’inquadratura apprezzata e premiata in numerosi prestigiosi festival internazionali. 1’

Non può che risultare significativa in tal senso la prima boccia­ tura del progetto per il film Lo chiamavano Jeeg Robot, poi afferma­ tosi come un buon successo di pubblico e critica, ma difficilmente inquadrabile nel contesto valoriale del film di interesse culturale: Un piccolo ladruncolo del quartiere romano di Tor Bella Monaca sco­ pre di aver acquisito dei poteri da supereroe che gli consentono di fare il salto di qualità e passare ai “colpi grossi”; l’amore inaspettato per una ragazza un po' ritardata però lo trasformerà in un eroe buono dal cuore tenero e dalle nobili intenzioni. Uno script per un film d’azione - attra­ versato da una diffusa tendenza all’inverosimile ed alla caricatura - che porta ad una visione della vita cruda, superficiale e cinica. Indebolito da alcune determinanti perplessità dal punto di vista produttivo, a fronte di una valutazione comparativa, il progetto viene superato da altri ritenuti più meritevoli.16

L’impegno di Stato Che cos’è dunque l’impegno? Secondo una corrente di pensiero che mette in discussione l’intervento dello Stato nell’industria cul­ turale, il finanziamento pubblico non si limita a sostenere in modo imparziale prodotti che avrebbero difficoltà a trovare un pubblico nella logica di mercato, ma nutre e promuove una sua precisa ide­ ologia che nel nostro caso funziona quasi come un genere cinema15 16

Delibera del 15 dicembre 2008. Corsivo mio. Delibera del 2 ottobre 2012.

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tografico (il film di interesse culturale). Tale idea è la prosecuzione delle gerarchie culturali del sistema scolastico fondate su una ri­ gida contrapposizione “intrattenimento" e “impegno” Per essere meritevoli di "interesse culturale” i film non devono promuovere Invasione o essere ben fatti, ma farci “riflettere su” qualcosa, inne­ scando un continuo sconfinamento dell’idea di cultura in quella di impegno e viceversa. Proprio sulla natura di quel “qualcosa”, però, si esercita l’ideologia di Stato. L’impegno si trova così alla base del finanziamento statale alla cultura ma allo stesso tempo è il prodot­ to di tale sistema. Si tratta di un circolo vizioso che scandisce l’agenda dei temi dei film finanziati, e che con una formula poco accademica ma forse efficace potremmo definire “il ricatto del contenuto”. L’invito a tene­ re conto programmaticamente degli effetti prodotti dagli interventi dello Stato quando si analizzano gli oggetti culturali, così come l’idea di ricostruire la genesi e le ragioni tattiche dell’opposizione tra in­ trattenimento e impegno, proviene evidentemente dalla sociologia di Pierre Bourdieu. Bourdieu tuttavia - oltre a non essersi occupato di cinema - non inquadra il tema dal punto di vista strettamente economico. Il finanziamento della cultura è solo un segmento di un più vasto “mecenatismo di Stato” che a sua volta rientra della cosid­ detta Noblesse d’État, ovvero un’estesa riflessione sui meccanismi di produzione, riconoscimento e legittimazione del potere dello Stato e della sua influenza sulla produzione simbolica’7. In ogni caso, da qualche anno e grossomodo in concomitanza della crisi economica il tema del finanziamento pubblico della cultura è al centro di numerose riflessioni. 11 caso più celebre è il dibattito innescato dalla pubblicazione di Kulturinfarkt, un pam­ phlet del 2008 che criticava aspramente la gestione statale della cultura e dell’arte, prendendo spunto dal caso tedesco. Secondo gli autori, l’idea di affidare il monopolio della cultura allo Stato, lungi dall’aver liberato l’arte dalla schiavitù del gusto del pubblico e delle leggi della domanda e dell’offerta, ha prodotto un ampio e radicato conformismo. Una sorta di “gusto di Stato", modellato sulla peda­ gogia scolastica, che ovviamente non può essere esente anche da forti interesse corporativi. 17

Cfr. P. Bourdieu, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Seuil, Paris 1994, tr. it, Ragioni pratiche, Mulino, Bologna 2009.

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Si finanziano le opere “di qualità” secondo un'idea di “qualità” il cui monopolio spetta però allo Stato, non al pubblico. In tal sen­ so, gli autori del pamphlet osservavano come a partire dagli anni Settanta, a un’idea di “qualità estetica” di stampo accademico si sia sovrapposta la necessità della "critica al sistema”: Di qualità era tutto ciò che favoriva una morale nuova e contraria allo sfruttamento. La cultura e, di conseguenza, la sua promozione, si ag­ ganciarono all’agenda del sovvertimento [...]. In principio, disponeva di qualità artistica ciò che rientrava nei canoni borghesi-umanistici. Dagli anni Settanta, di qualità era tutto ciò che criticava la società.’8

Una critica della società finanziata e promossa dallo Stato che trovava quindi nella nozione di "impegno” (cinema impegnato, te­ atro impegnato, arte impegnata) il suo baricentro. Come tutte le nozioni, anche quella di “impegno” ha una sua storicità ed è il frutto di numerose trasformazioni sociali. Progres­ sivamente svuotato della sua portata critica e politica e istituzio­ nalizzato nel sistema educativo, l’impegno è ormai il target ideale per la cultura promossa dallo Stato. Evidentemente, non si tratta di una categoria decisiva in tutti i settori. Per esempio, l’impegno ha poco a che fare con il sovvenzionamento dell’Opera lirica e dei musei, molto invece con il teatro e il cinema (e la fiction televisiva del servizio pubblico). Assunto a cifra e misura del valore che un prodotto culturale ha per la comunità (assieme ad altre categorie ancora ascrivibili alla costellazione del romanticismo e delle avan­ guardie, come l’“originalità” e lo "sperimentalismo”), l’impegno è la cartina di tornasole per analizzare la fìtta trama di corrisponden­ ze tra il cinema e lo Stato. Ciò vale soprattutto nel caso del cinema italiano, dove storicamente il rapporto tra cultura e politica è assai stretto e dove l’ideologia statale, nonostante tagli e ripensamenti strutturali del finanziamento pubblico, è ancora molto forte.

18

D. Haselbbach, A. Klein, P. Kniisel, S. Opitz, Kulturinfarkt. Azzerare I fon­ di pubblici perfar rinascere la cultura, Marsilio, Venezia 2012.

14EQUALITY ILLUSIONS Finanziamento pubblico del cinema e politiche di “genere” Mariagrazia Fanchi

Prologo i. Mentre scrivevo la prima bozza di questo saggio le agenzie di stampa stavano battendo la notizia dell’approva­ zione della nuova Disciplina del cinema e dell’audiovisivo'. Era il 2016 e l’atteso disegno di legge che puntualizzava obiettivi e definiva criteri e modi di promozione del cinema nazionale era finalmente stato pubblicato. Ricordo di aver scorso il testo alla ricerca di riferimenti alla parità di genere e di averne trovato uno solo, nell’articolo il, comma 4, in cui si descrive la compo­ sizione del Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo. La nomina dei membri del Consiglio - recita il testo - avviene “nel rispetto del principio dell’equilibrio di genere”12. Nessun altro riferimento. Prologo 2. EWA. European Women’s Audiovisual Network è un progetto sostenuto dall’Unione Europea3. Il progetto si propone di promuovere “un migliore equilibrio di genere per le donne che operano nelle diverse professioni dell’audiovisivo in Europa, in ter­ mini di accesso e di opportunità di impiego e di finanziamento”4.1 dati raccolti dal Network fra il 2006 e il 2013 descrivono infatti una situazione ancora gravemente sperequata, che nel caso dell’Italia si manifesta sia nel minor numero di donne che intraprendono 1

2 3 4

II testo della legge può essere scaricato al seguente link attivato nelle pa­ gine del MiBAC: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sitoMiBAC/Contenuti/visualizza_asset.html_485582523.html [ultimo accesso 10 aprile 2019]. Il sito ospita anche le dichiarazioni del ministro a proposito delle linee guida che hanno ispirato il nuovo dispositivo di legge. Ibid. La mission, i progetti e i report di ricerca sono disponibili al seguente sito: http://www.ewawomen.com/ [ultimo accesso 10 aprile 2019]. ibid.

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Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

percorsi di formazione nel campo della produzione cinematogra­ fica e audiovisiva, sia nella minore visibilità della produzione fem­ minile nel cinema e nei media. Prologo 3. Nel 2015 viene dato alle stampe Creative Economy and Culture a firma di John Hartley, Henry Siting Li e Wen Wen. 11 testo raccoglie le fila di un dibattito più che decennale sul cambiamen­ to delle industrie culturali e prova a definire i contorni e le coor­ dinate del nuovo scenario mediale. Dei tre pilastri su cui poggia l’industria culturale (everyone, everywhere, everything) il primo ad essere discusso è il principio dell’everyone. Si legge in avvio di vo­ lume: “Le industrie creative non sono confinate a un élite di artisti o di imprese riconosciute, ma includono o dovrebbero includere tutti”5. Detto diversamente, la produzione culturale è dislocata in contesti geografici e include soggetti diversi da quelle tradizionali e tale varietà fa da volano all’innovazione e alla crescita, consen­ tendo anche ai soggetti più deboli di acquisire un ruolo nell’econo­ mia della cultura e di incidere sulla produzione degli immaginari.

1. Premesse, campo, limiti Il 22 gennaio del 2004 viene promulgato il D.L. n. 28, meglio conosciuto come Legge Urbani. Il Decreto riforma la disciplina in materia di attività cinematografica fissando i criteri per il finan­ ziamento pubblico del cinema nazionale6. 11 dispositivo di legge riserva una particolare attenzione alla produzione e valorizzazione 5 6

J. Hartley, W.Wen, H. Siling Li, Creative Economy and Culture. Challenges, Changes and Futures for the Creative Industries, Sage, Londra 2015, p. 3. I meccanismi di finanziamento pubblico al cinema sono analizzati criti­ camente in M. Cucco, G. Manzoli (a cura di), Cinema di Stato. Finanzia­ mento pubblico ed economia simbolica net cinema italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2017. Sulle forme di finanziamento diretto e indiretto alla produzione cinematografica e audiovisiva si vedono anche i rapporti realizzati dall'Observatoire Européen de l'Audiovisuel (https://www.obs. coe.int/en/web/observatoire/) e segnatamente i report: Public Funding for Film and Audiovisual Works in Europe -A Comparative Approach (2008); Public Funding for Film and Audiovisual Works in Europe (2012); Impact Analysis of Fiscal Incentive Schemes Supporting Film and Audiovisual Pro­ duction in Europe (2014); Public Financing for Film and Television Content - The State ofSoft Money in Europe (2016).

M. Fanchi - Equality illusions

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dei film di interesse culturale nazionale ovvero, come recita l’arti­ colo 2, dei film che “oltre ad adeguati requisiti di idoneità tecnica, presentano significative qualità culturali o artistiche o eccezionali qualità spettacolari”7. Gli anni che seguono, fino all’approvazione della nuova disciplina, definiscono un ideale terreno di studio per valutare l’applicazione della normativa e, soprattutto, la sua effi­ cacia nel promuovere l’ingresso delle donne nella scena creativa italiana: soggetti “nuovi”, portatori di un ricambio politicamente auspicabile e, di più, necessario al riassetto del sistema mediale, alla sua crescita e al suo rinnovamento. Quattro precisazioni metodologiche prima di entrare nel vivo dell’analisi. 1 dati che prenderò in esame nelle prossime pagine coprono il periodo dal 2004 al 2015; un arco temporale leggermente più bre­ ve rispetto a quello normato dalla legge Urbani che include tut­ to il 2016. Scorrendo le delibere della Commissione Cinema delle prime due sessioni di quell’anno, si ricava, tuttavia, uno spaccato tendenzialmente in linea, quanto a richieste e finanziamenti, con quello restituito dall’analisi degli anni precedenti. In secondo luogo, in questa sede considererò i soli dati relati­ vi ai lungometraggi di interesse culturale: non farò riferimento ai cortometraggi, né alle sceneggiature originali che pure offro­ no un punto di osservazione importante per valutare le misure a sostegno della produzione “di qualità” e le logiche di genere sottese al finanziamento pubblico al cinema; la discussione in­ torno a queste due altre categorie di prodotti richiederebbe uno spazio di esposizione e di commento assai più ampio di quello di cui dispongo. Inoltre, il meccanismo di erogazione dei finanziamenti previ­ sto dal Decreto del 2004 è ben illustrato in diversi contributi qui ospitati; ai fini dell’analisi mi limito a ricordare che i lungome­ traggi sono divisi in due categorie che concorrono separatamente al finanziamento: opere di autori affermati (da ora in avanti AA) e opere prime e seconde (da ora in avanti OP/OS). Da rilevare anche 7

Decreto Legislativo, 22 gennaio 2004, n. 28, “Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137", online: http://www.camera.it/parlam/leggi/ deleghe/o4O28dl.htm [ultimoaccesso 10 aprile 2019).

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che, per quanto gli autori di OP e OS non siano sempre anagrafìcamente più giovani degli autori affermati, i dati relativi al finan­ ziamento delle opere prime e seconde possono essere considerati indicativi delle logiche di ingresso nell’industria cinematografica di una nuova generazione di autori8. Da ultimo, i dati su cui poggia l’analisi sono stati ricavati dalle delibere della subcommissione di valutazione per le opere di in­ teresse culturale nazionale e sono pubblicati sul sito del MiBAC9. In particolare dai testi delle delibere sono state desunte le infor­ mazioni relative a: l’anagrafica delle opere sottoposte a valutazio­ ne (titolo; autore; casa di produzione); ('anagrafica della richiesta (anno in cui è stata inoltrata la domanda di sovvenzione; anno in cui la domanda è stata processata); l’esito della richiesta (ricono­ scimento dello status di film di interesse culturale nazionale; asse­ gnazione del finanziamento; eventuale rinuncia al finanziamento; importo assegnato); note relative alla storia del film (eventuale mancata realizzazione della pellicola; cambio di titolo; ecc.). Sono state censite 2030 domande10. L’analisi del corpus delle opere per le quali è stato richiesto il riconoscimento di film di interesse culturale nazionale fra il 2004 e il 2015 offre già di per sé diversi spunti di riflessione. Anzitutto, delle 2030 domande, la larga maggioranza (il 65%) sono sulla linea destinata a supportare i nuovi autori (le doman­ de censite, al lordo delle duplicazioni, sulla linea OP/OS sono 1319) (Fig. 1). È un risultato in apparenza ovvio: le opere prime e seconde sono quelle che più necessitano di un supporto pubblico per essere realizzate e distribuite. Questo assunto viene, però, almeno in parte contraddetto dalle evidenze di ricerca, come si vedrà più avanti.

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II disallineamento fra giovinezza professionale e anagrafica ha indotto nelle ultime tornate di applicazione della legge ad introdurre un capitolo specifico destinato a supportare i progetti degli autori con meno di 35 anni. Sono disponibili sulla pagina “Contributi a progetti di interesse culturale”: http://www.cinema.beniculturali.it/direzionegenerale/31/contributi-aprogetti-di-interesse-culturale/ [ultimo accesso 4 novembre 2016I. II lavoro di acquisizione dei dati e di organizzazione del data base è stato svolto da Giancarlo Grossi.

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Fig. 1 - Elenco delle domande di finanziamento (2004-2015): AA vs. OP/OS (dati MiBAC/elaborazioni nostre)

La pressione delle opere dei nuovi autori, è controbilanciata dal meccanismo della legge Urbani, che contempera l’attenzione per la qualità dell’opera con la valutazione della solidità del progetto produttivo e della capacità del film di agire efficacemente sul mer­ cato. Questo doppio criterio favorisce, in fase di finanziamento, le opere di autori affermati: come mostrano i due grafici (Fig. 2 e Fig. 3), l’intervento pubblico tende a concentrarsi, proporzionalmen­ te, sui film di autori già noti, finanziati mediamente, nel periodo considerato, nel 56,71% dei casi, rispetto al 26,54% delle OP/OS. Anche in valori assoluti la sproporzione è evidente: ogni anno ven­ gono finanziate in media 33 opere di registi già noti e 29 progetti di nuovi autori; uno scarto non così modesto se si considera che a fare richiesta di finanziamento nella categoria OP/OS sono mediamen­ te no film all’anno, rispetto ai 59 della categoria AA. Da aggiungere anche che questa logica è stabile nel tempo: le fibrillazioni che il grafico mostra registrano le variazioni del Fondo Unico dello Spet­ tacolo, a loro volta determinate da quelle finanziarie, ma non fanno emergere apprezzabili modifiche nei criteri poco sopra illustrati". n

Un bilancio delle quote del FUS destinate al cinema si trova nel docu­ mento stilato dalla Direzione Generale per il Cinema con riferimento al quinquennio 2005-2009 online: http://www.anica.it/online/news/sostegnoproduzionecine_2005-2009_DGCinema_apr2011.pdf [ultimo accesso 20 novembre 2016].

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• DOMANDE

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Fig. 2 - Numero delle domande vs. numero delle opere finanziate: AA (dati MiBAC/elaborazioni nostre) •DOMANDE

«OPERE FINANZIATE

Fig. 3 - Numero delle domande vs. numero delle opere finanziate: OP/OS (dati MiBAC/elaborazioni nostre)

Questa logica ha naturalmente una ricaduta sulla vita delle opere. In linea generale, il tasso di mancata realizzazione delle opere sottoposte al vaglio delle commissioni come film di interesse cui-

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turale è piuttosto alto'1. Escludendo il 2015 (i cui progetti al mo­ mento della rilevazione erano ancora in larga parte in fase di rea­ lizzazione) in media il 38,3% dei lungometraggi di autori noti per i quali è stata avanzata una richiesta di finanziamento non vengono poi portati a termine; la percentuale si impenna se si considera­ no i progetti che rientrano nella categoria OP/OS: in questo caso il 70% dei progetti non vede la luce. Questo dato riflette in tutta evidenza la scarsa vitalità dello scenario produttivo e distributivo nazionale: uno spazio al quale è difficile accedere e nel quale è dif­ ficile operare persino per chi già lo abita'3. Un risvolto (in parte) sorprendente della rigidità dello scenario produttivo e delle sue debolezze emerge dal rapporto fra sostegno statale e tasso di realizzazione delle opere. Se si considerano le OP/ OS, la mancanza di finanziamento da parte dello Stato pare inci­ dere in modo tutto sommato poco rilevante sulla realizzazione e sulla distribuzione (per quanto non sempre nel circuito commer­ ciale) dei film. Proporzionalmente la percentuale di film che non vedono la luce, nel caso delle opere non finanziate, cresce solo del 10% rispetto ai film che hanno ottenuto un supporto come opere di interesse culturale. Detto diversamente il finanziamento pubblico è una variabile tutto sommato non così significativa nell'iter delle opere dei nuovi autori. Per i lungometraggi di registi affermati (AA) il finanziamento pubblico si presenta invece come un fattore assai più discriminante per l’esito del progetto produttivo: i film a cui vie­ ne negato il finanziamento non vedono la luce, infatti, nel 26,54%

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Va ricordato che la richiesta di finanziamento precede nella larghissima maggioranza dei casi la realizzazione del film. Con opere non realizzate abbiamo qui inteso i film per i quali non è stato richiesto il nulla osta per la proiezione pubblica. Sullo stato di salute dell’industria cinematografica nazionale si rimanda in particolare ai rapporti annuali curati dall’Ente dello Spettacolo dal 2008 al 2014 (Rapporto. Il mercato, l’industria del cinema in Italia, Ente dello Spettacolo, Roma 2009 e seguenti) e disponibili nel sito http://www.cineconomy.com (ultimo accesso 29 aprile 2019]. Le caratteristiche e i limiti “storici” dell’iniziativa produttiva nazionale nel campo del cinema sono analizzati in B. Corsi, Produzione e produttori, Il Castoro, Milano 2012. Sulla rigidità delie reti che si istituiscono fra autori, interpreti, produttori e distributori e sulla tendenza a reiterare gli stessi duster creativi si rimanda al saggio di D. Holdaway, La rete sociale del cinema di interesse culturale in M. Cucco, G. Manzoli (a cura di), // cinema di Stato, cit., 2017, pp. 127-169.

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dei casi in più rispetto alle opere che sono state viceversa supportate dallo Stato. Questo dato sollecita quanto meno ad una riflessione sulla bontà del dispositivo di legge e sulla sua effettiva capacità di introdurre un modello di supporto “non assistenzialista” alla pro­ duzione cinematografica1415 ; esso inoltre mette in luce la capacità dei nuovi autori di immaginare forme di sostenibilità alternative e in li­ nea con quanto la riflessione sulle industrie culturali e creative rileva e auspica: ovviamente è una questione di costi (assai più contenuti rispetto a quelli richiesti da progetti di autori affermati), ma anche di disponibilità a pensare e operare in modo nuovo. Un’ultima annotazione sullo scenario complessivo prima di en­ trare nel merito delle politiche di genere. Il Decreto Urbani prevede la possibilità di riconoscere un film come “opera di Interesse Culturale Nazionale”, senza finanziarlo; il 21,71% delle opere di autori noti si trova in questa condizione. Un limbo o peggio un contentino, si sarebbe tentati di pensare. Se, però, si incrocia questo dato con quello relativo alla realizzazione del progetto si scopre che i film riconosciuti di “interesse cultura­ le”, anche senza sovvenzioni, sono arrivati più frequentemente a fine corsa (10% in più delle volte). L’assegnazione dello statuto di “interesse culturale” sembra dunque, correlata positivamente alla realizzabilità dei progetti: non un volano, forse, ma una cartina al tornasole delle loro potenzialità. AH’interno di questo quadro, che qui ho tratteggiato solo nelle sue linee principali'5, la dimensione del genere sessuale si presenta come un potente reagente che rende espliciti alcuni “non detti” delle procedure di finanziamento pubblico e meglio osservabili alcuni automatismi della produzione cinematografica nazionale. 14

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Per un'analisi di carattere generale sui modelli di sostenibilità dell'impresa cinematografica si vedano in particolare P. Boccardelli, I modelli di busi­ ness nei settore cinematografico, in “Economia della cultura", XXI, n. 2, 2011, pp. 145-160 e A. Pasquale, Investire nel cinema. Economia, finanza, fiscalità del settore audiovisivo, Il Sole24Ore, Milano 2012. L’erogazione dei finanziamenti pubblici, con riferimento alle opere di interesse culturale nazionale, richiederebbe un supplemento di analisi, anche a fronte di applicazioni a volte discutibili della normativa. Su que­ sto snodo, si rimanda alia nutrita pubblicistica che ha accompagnato nel corso degli anni le attività della commissione preposta all’assegnazione dei finanziamenti per le opere di interesse culturale e che ne ha denunciato forzature ed errori.

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2. Cercasi Susan disperatamente

La prima evidenza che i dati raccolti ci restituiscono è il di­ sequilibrio fra il numero di registi e registe che fanno doman­ da di finanziamento’6. Non è un fatto nuovo, né sorprendente. I documenti preliminari del progetto EWA, citato in apertura di saggio, parlano di un eclatante difetto di presenza femminile nelle professioni apicali dell’industria cinematografica: ancora nel 2014, il 75% dei registi e degli sceneggiatori in Italia erano uomini'7. Ci sono alcuni segnali incoraggianti, certo, confermati anche dai dati su cui poggia questo testo: per esempio la crescita delle donne che si candidano per seguire i corsi della Scuola Na­ zionale di Cinema e la migliore performance che esse offrono in fase di selezione'8. Tuttavia se si considera specificamente la pro­ fessione registica, la presenza maschile rimane preponderante: per esempio, sempre con riferimento ai dati raccolti da EWA, 1’83% delle domande di accesso ai corsi di regia in Italia viene inoltrata da uomini'9. 16

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L’identificazione del genere sessuale degli autori/autrici è stata effettuata partendo dal nome proprio depositato unitamente alla domanda. Si tratta dunque di un’attribuzione doppiamente difettosa: perché forza le determi­ nanti di genere nel binomio maschio/femmina; e perché riduce l’apparte­ nenza di genere alla dimensione biologico-anagrafìca. Pur con questi limi­ ti, essa consente tuttavia di far emergere tendenze e logiche nelle azioni di sostegno pubblico alla produzione cinematografica. Si veda il rapporto EWA, Where Are the Women Directors? Report on Gender Equality for Directors in the European Film Industry. 2006-2013: https://www.ewawomen.com/wp-content/uploads/2018/09/Completereport_compressed.pdf (ultimo accesso 20 luglio 2019]. Si veda in particolare il rapporto EWA sulla situazione italiana, Ap­ pendix V - Italy, online: https://www.ewawomen.com/wp-content/ uploads/2oi8/o9/o6-ltaly_compressed.pdf [ultimo accesso 20 luglio 2019). Ibid. La preponderanza della presenza maschile nell’industria cinemato­ grafica e audiovisiva, con riferimento alle posizioni apicali, come quella del regista, caratterizza anche altri contesti nazionali europei e non solo. Si vedano a titolo di esempio e con attenzione alle pubblicazioni più recenti: M.M. Lauzen, Where Are the Film Directors (Who Happen to be Women)?, in “Quarterly Review of Film and Video”, 29, 4, 2012, pp. 310-319; P. White, Women’s Cinema, World Cinema: Projecting Contemporary Feminisms, Duke University Press, Durham-Londra 2015; S. Hockenhull, British Women Film Directors in the New Millennium, Palgrave-Macmillan, Lon­ dra 2017; H. Ugur Tannover, Women as Film Directors in Turkish Cinema,

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// sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo

Venendo ai dati di questa ricerca, lo sbilanciamento di genere si manifesta con evidenza. Mediamente 1’87% di coloro i quali chiedono un supporto economico attraverso la linea di finanzia­ mento delle opere di interesse culturale sono uomini e lo scar­ to è direttamente proporzionale alla notorietà degli autori: fra i registi che concorrono nella categoria degli autori affermati la quota degli uomini sfiora il 90% (89,52%) (Fig. 4); fra gli autori di opere prime e seconde la media si attesta sull’85% (Fig. 5)*°. Si tratta forse di una questione di generazione, ma il dato va letto soprattutto come indizio del permanere del soffitto di cristallo e della maggiore difficoltà che le donne incontrano a farsi strada e a stabilizzare il proprio ruolo nell’industria cinematografica na­ zionale (e non solo).

Fig- 4 ~ Quota percentuale dei lungometraggi sottoposti alla commissione se­ condo l’identità sessuale degli autori: AA (dati MiBAC/elaborazioni nostre)

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in “European Journal of Women’s Studies", n. 11,2017, pp. 321-335; M. Jans­ son, Gender Equality in Swedish Film Policy: Radical Interpretations and ‘Unruly’ Women, in “European Journal of Women’s Studies”, vol. 24, n. 4, 2017, pp. 336-350. Nel caso di opere collettive realizzate da uno (o più) uomini e una (o più) donne, l’opera è stata conteggiata sia sulle quote maschili, sia sulle quote femminili.

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