La parodia nel cinema italiano 8883721373, 9788883721373

Vera e propria ricerca sul cinema italiano, questo libro tratta un argomento trascurato dalla letteratura storico-critic

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La parodia nel cinema italiano
 8883721373, 9788883721373

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CINEMA E COMUNICAZIONE Collana diretta da Guglielmo Pescatore

Questo volume è pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Bologna.

Roy Menarini

La Parodia nel Cinema italiano Intertestualità, parodia e comico nel cinema italiano

© 2001 Hybris, Bologna finito di stampare nel mese di settembre 2002 impianti: Lino 2 - Città di Castello (PG) stampa: SO.GRA.TE. - Città di Castello (PG) ISBN 88-8372-137-3

INDICE

PRESENTAZIONE .................................................................. Pag. VII INTRODUZIONE ................................................................... » CAPITOLO I 1 La parodia come sopravvivenza del cinema italiano .... 2 Lo specchio deformante: comici muti italiani.............. 3 Il comico e il dittatore. Occasioni parodiche degli anni Trenta......................... 4 Tutt’intorno al neorealismo: parodia tra anni Quaranta e Cinquanta........................ CAPITOLO II 1 Un paesaggio intertestuale............................................. 2 La parodia del cinema d’autore .................................... 3 Il problema della commedia all’italiana ....................... 4 Il circo intertestuale: western all’italiana, parodie e balletto dei generi ........ 5 La batracomiomachia: per una politique des auteurs et des acteurs ........................ 6 Totò contro Franchi e Ingrassia nei favolosi anni Sessanta ...............................................

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CAPITOLO III 1 Anni Settanta: parodia dell’erotismo, erotismo della parodia ............. Pag. 2 Anni Ottanta e Novanta: la parodia opaca.................... » 3 La parodia televisiva ....................................................... »

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CAPITOLO IV Una parodia tra testo e contesto Totò, Peppino… e la dolce vita .................................................. »

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CAPITOLO V Due esempi di parodia di genere… all’italiana Totò nella luna; I marziani hanno dodici mani .......................... »

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CAPITOLO VI Tra la via Appia e il West Per qualche dollaro in più/Per qualche dollaro in meno............. »

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CAPITOLO VII Il doppio voyeur Da Psyco a Psycosissimo............................................................. »

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Filmografia ................................................................................ »

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Bibliografia ................................................................................ »

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PRESENTAZIONE

Oltrepassata la soglia del centenario, il cinema continua ad apparire come un oggetto bifronte, sospeso tra arte e industria, tra estetica e entertainment. Una contraddizione che a molti è parso doversi sciogliere nell’uno o nell’altro senso, ma che invece ne rappresenta la ricchezza e la peculiarità. Proprio per la sua natura anfibolica il cinema è fino in fondo nostro contemporaneo: sulla sua superficie pellicolare vediamo scorrere le tracce, i segni e le incrostazioni di quell’immaginario sociale che il cinema stesso contribuisce a determinare e a rinnovare. Un campo di indagine, dunque, che si apre a pertinenze diverse, in cui però gli aspetti comunicativi e di mediazione culturale appaiono di tutto rilievo. La Collana intende offrire una serie di titoli pensati principalmente come strumenti universitari, che tuttavia possono risultare di particolare interesse anche per i lettori che desiderano approfondire le proprie conoscenze nel campo del cinema e più in generale dei media. I volumi pubblicati si contraddistinguono per l’approccio metodologico e per l’attenzione ai processi comunicativi, ponendo l’accento, anche se non in maniera esclusiva, sul moderno e sul contemporaneo. GUGLIELMO PESCATORE Guglielmo Pescatore insegna Semiologia del cinema e degli audiovisivi presso il DAMS dell’Università di Bologna. È stato redattore delle riviste Cinegrafie, Cinema & Cinema e Fotogenia e ha pubblicato numerosi saggi relativi a diversi aspetti della teoria e della semiotica del cinema, occupandosi anche del cinema francese degli anni ’20. Ha curato con Dall’Asta e Quaresima Il colore nel cinema muto (Bologna 1995) ed è autore del volume La voce e il corpo. L’opera lirica nel cinema (Udine 2001). Ha in corso una ricerca su storia e teoria dei generi cinematografici.

INTRODUZIONE

Questo saggio è dedicato alla parodia nel cinema italiano. Si tratta di un argomento particolarmente trascurato nella letteratura storico-critica sul cinema italiano, probabilmente perché considerato deteriore. Ed è vero che la maggior parte dei film che possono essere ascritti al fenomeno parodistico non può competere con i film di Fellini, Rossellini, Antonioni o Moretti. Tuttavia, non è solo un impegno storiografico a spingerci nella direzione di questo studio – ogni approfondimento di fenomeni poco studiati ha di per sé dignità di ricerca –, bensì il carattere del tutto particolare che riveste il processo parodico. Esso, infatti, ben lungi dall’esaurirsi in una serie più o meno riuscita di gag desunte da altri film, funge molto spesso da indicatore dei processi formali, stilistici, tematici e pragmatici in atto nel cinema ufficiale. La parodia, come i più recenti ed affinati studi tendono a sottolineare, ha dalla sua una tendenza autoriflessiva in grado di gettare luce sul testo preso a bersaglio, e al contempo la possibilità di spiegare perché il testo in questione viene parodiato, come può essere percepito al di fuori dell’orientamento comunicativo previsto in un primo momento, quali siano le abitudini ricettive degli spettatori di una parodia e quali le competenze intertestuali, dove i testi cerchino di dialogare tra loro in maniera anche polemica. Il punto focale del saggio risiede, dunque, nella ricerca storica sul cinema italiano, sia pure “integrato” – secondo le proposte della recente storiografia teorica – a strumenti metodologici adeguati. In questo senso, la prospettiva deve allargarsi ad

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INTRODUZIONE

un’articolata riflessione sulle ragioni della persistenza della parodia lungo tutta la storia del cinema italiano: i caratteri precipui della cultura nazionale e quindi la storia della sua intenzionalità parodistica, smitizzante e riduttiva verso le autorità (nel teatro e nel cinema delle origini); le funzioni raccolte da questa tendenza al basso, al volgare, al grottesco; infine i momenti di emergenza della parodia nella storia del cinema italiano, così da individuare i motivi in grado di generare questo curioso filone che assume le caratteristiche ora di un atto d’amore ora d’uno sberleffo crudele. Nel primo capitolo vengono approfonditi, sia pure con la necessaria brevità, gli aspetti che la parodia assume all’interno dei periodi, delle scuole, delle tendenze del nostro cinema. È importante, in tal senso, sottolineare l’operatività delle nozioni prese in esame in sede metodologica: ogni fase del cinema italiano sembra, cioè, mostrare una maggiore o minore propensione alla parodia a seconda del complesso “sistema” di produzione e ricezione che vige al momento. A volte la parodia si dà come processo estetico contrastante e alternativo al cinema “ufficiale”, altre volte ne costituisce un’appendice necessaria, molto spesso si presenta come un paradossale luogo della conservazione, contrario alla propria origine, di fronte a modelli assai più sovversivi. Sempre, però, spiega qualcosa del cinema che parodizza. Formalisticamente: anche la parodia cinematografica è parte attiva nei processi di definizione del gusto di un’epoca storica, anzi talvolta contribuisce a mutarne l’aspetto e le caratteristiche. Proprio il periodo degli anni Sessanta, cui dedichiamo uno studio particolare nel secondo capitolo, appare come un campo di battaglia dove i confronti intertestuali si svolgono con impressionante frequenza: è il decennio nel quale più incisivo si mostra il sistema dei generi – sia pure spesso dettato da motivi occasionali –, ma è anche il momento nel quale trionfa il grande cinema d’autore d’esportazione internazionale, e in cui muta l’orizzonte della risata. Commedia e farsa sembrano portare a compimento il percorso cominciato negli anni Cinquanta: quello di una progressiva divergenza di prodotti, che giunge a incarnare forme di spettacoli del tutto differenti

LA PARODIA NEL CINEMA ITALIANO

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tra loro, come dimostra anche il “parterre” dei protagonisti o dei registi dell’una e dell’altra. Non conviene, però, essere troppo perentori. Il western all’italiana, per esempio, contiene elementi parodistici rispetto al western classico? O non è piuttosto, a sua volta, testo parodiabile? Come funziona la parodia del cinema d’autore? La parodia, in questi anni, funziona come un genere? Si tratta di domande cui puntualmente il presente lavoro cerca di dare risposta. All’interno del testo, definiamo quello degli anni Sessanta come un “paesaggio intertestuale”, tante sono le occasioni di confronto tra film o gruppi di film. Il capitolo si conclude con un profilo critico e teorico di alcuni importanti interpreti/autori della parodia cinematografica, come Totò e Franchi e Ingrassia, il cui studio appare indispensabile se si vuole approdare a una qualche “fenomenologia” del farsesco nel cinema italiano. Dopo una breve illustrazione – nel terzo capitolo – dei motivi che portano la parodia a degradarsi negli anni Settanta e Ottanta, fino alla vivacità tutta televisiva dell’ultimo periodo, la quarta e ultima sezione di questa indagine è composta dalle analisi comparate di quattro film, dove per “comparate” si intende che si è impostato il confronto tra la parodia e il modello. La scelta è caduta su esempi sufficientemente rappresentativi dell’intricato lavoro inter-semiotico che la parodia cinematografica italiana svolge rispetto ai testi di partenza. Totò, Peppino e la dolce vita, Per qualche dollaro in meno, Psycosissimo, Totò nella luna (con l’aggiunta di I marziani hanno dodici mani) vengono messi a confronto con gli “originali”, singoli film nei primi due casi, repertori testuali negli altri – l’intera produzione hitchcockiana in uno, il genere fantascientifico nel secondo. Un’ultima annotazione. Alcuni aspetti del presente lavoro rischiano di essere confusi con la recente tendenza alla cinefiliaca rivalutazione del “basso” – o del “trash”, come oggi si suol dire – in tutte le sue forme. Il nostro approccio è esattamente opposto: garantire la ricerca e l’analisi anche nei confronti di fenomeni minoritari senza per questo smarrire le prospettive storiche e di valore. In questi ultimi anni, crediamo, si sente il bisogno di un ritorno al canone piuttosto che il contrario.

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INTRODUZIONE

Contemporaneamente, l’impulso dato alla ricerca dal mondo accademico – confermato dalle recenti e imprescindibili opere storiografiche “monumentali” – ha fatto sì che si siano moltiplicati gli strumenti a nostra disposizione. È necessario e urgente, perciò, interrogare anche le pratiche meno riconosciute del cinema con mezzi il più possibile aggiornati e pertinenti. A questi principi si ispira il presente volume.

Capitolo Primo

1 La parodia come sopravvivenza del cinema italiano La storia del cinema italiano si presenta abbastanza frastagliata e discontinua da non potersi racchiudere in pochi, grandi momenti condivisi. Procederemo, dunque, a un breve studio della parodia all’interno dei singoli periodi storiografici, evidenziando i grandi “luoghi” di esposizione del gesto parodistico – penso a Petrolini, Totò, alla farsa e al cinema rivistaiolo –, e mettendoli a confronto con il sistema cinematografico di volta in volta vigente. In tutte le sue fasi, il cinema italiano mostra una propensione anche solo sotterranea a distinguere la commedia e il comico. E fin dai primordi, il cinema italiano sa di dover andare alla ricerca di pubblici non sempre omogenei. La storia del nostro cinema è una storia che riguarda anche l’industria culturale,1 e le sue strategie, sia pure rudimentali, di mercato. Tuttavia, è anche il caso di chiedersi se il cinema italiano sia per natura disposto a portare con sé i caratteri del comico. A questa domanda, che non può essere circoscritta al cinema se ne cerchiamo le ragioni tradizionali, il grande schermo dovrebbe poter rispondere. Da una parte, quindi, le intricate vicende

1) Colombo, F., La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano 1998.

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della cultura italiana. Si legge, ad esempio, alla voce “Parodia” dell’Enciclopedia dello Spettacolo: La fortuna del genere parodistico nel teatro italiano inizia nel Settecento, ed è un segno, sia pure in chiave di contraffazione scherzosa e talora satirica, della popolarità di alcuni autori (Metastasio, Goldoni, Alfieri), e di mode teatrali (la tragedia classicheggiante, il dramma lacrimoso, ecc.).2 Dall’altra il percorso del grottesco dal teatro al cinema. Come sostiene Roberto De Gaetano: [vi è] la presenza, nella tradizione italiana, di un realismo comico e grottesco, determinato e definito nei suoi caratteri (come quasi ovunque in Europa) nella fase medievale-rinascimentale, diventato marginale in epoca seicento-settecentesca, e poi “risorto” con un naturale cambio di segno a partire dal romanticismo ottocentesco. Questa tradizione ha costituito l’altra faccia di quella aulica e nobile (monolinguistica e monostilistica) definita dall’asse petrarchesco-bembiano, e poi ripresa in periodo neoclassico. (…) Il grottesco è il grado estremo del realismo, e in quanto tale ne costituisce il superamento interno.3 Il grottesco, però, inteso in senso bachtiniano come deformazione, “scoronazione” della Parola Ufficiale, nel cinema italiano non si identifica sempre con il comico. Grottesco è il cinema di Ferreri, grottesco è l’ultimo Fellini, grotteschi, certo, sono Franchi e Ingrassia, eppure non sempre la “norma” corrisponde al cinema ufficiale, e altrettanto saltuariamente la sua infrazione appartiene al comico. La presunta “sovversività” del cinema parodistico è, in Italia, tutta da valutare. Lo faremo, ad esempio, in sede di analisi dei film anni Sessanta, specie in 2) Palmieri, F.E., “Italia”, in “Parodia”, in Enciclopedia dello Spettacolo, Le Maschere, 1954, p. 1693. 3) De Gaetano, R., Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999, pp. 23/25.

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occasione del confronto tra cinema d’autore e parodia. Potremmo affermare che la parodia è una specie di forma esasperata del comico e del grottesco, soprattutto all’interno di un cinema italiano che non mostra visibilmente gli spazi della propria ufficialità. Ma è anche una “pratica” estetica che fonda la propria natura sulla pre-esistenza dei meccanismi comici. In fondo una parodia deve al tempo stesso somigliare e differire dal proprio modello, per cui diventa in atto commedia degli equivoci e luogo del doppio o della crisi d’identità. È una “psico-critica” del cinema comico, per parafrasare gli scritti di Mauron.4 Il comico, in questi casi, è prodotto principalmente dal confronto tra film e film, e solo successivamente dalle caratteristiche narrative di ciascuna parodia. È metalinguistico prima ancora che scorra la prima immagine, poiché imposta il discorso dialogico attraverso il proprio stesso medium. Quando Maurizio Grande scrive che il motivo dello scambio di persona, del mascheramento e del raddoppiamento dell’identità ha radici profonde nella tradizione comica ed è legato a fantasie di onnipotenza contrapposte all’angoscia della castrazione e alla paura della morte. Avere una doppia identità equivale, simbolicamente, ad avere una doppia vita (…).5 sembra che parli anche del genere parodistico che, in certo qual modo, maschera e smaschera senza soluzione di continuità un cinema “altro” allo scopo di mantenere in vita se stesso. Quasi da subito la parodia, altrimenti che nel cinema statunitense dove non di rado assume aspetti paritari ai modello – vedi Mel Brooks –, sembra rappresentare la “periferia dell’impero”, da dove il cinema farsesco, platealmente alternativo alla commedia dagli anni Sessanta in poi, compie le proprie incursioni. La parodia cinematografica italiana, quindi, è un fatto complesso, un crocevia di pratiche spettacolari (l’eredità chia4) Mauron, C., Psychocritique du genre comique, Corti, Paris, 1964. 5) Grande, M., Il cinema di Saturno. Commedia e malinconia, Bulzoni, Roma 1992, pp. 26-27.

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ra e lampante della rivista e dell’avanspettacolo), linguistiche (la presenza di tutte le forme retoriche del comico), narrative (il passaggio dal “lazzo” alla diegesi) e intertestuali (quali sono i bersagli, perché e come si svolge il confronto tra i testi). Il cinema parodico italiano, inevitabilmente, tende ad ancorarsi agli attori e al repertorio del comico intermediale. Scrive ancora Grande: Vi sono attori che praticano l’arte della contraffazione come capacità di costruire maschere attraverso il travestimento dichiarato, esibito, mostrato come adesione inibita al ruolo, al “tipo”, al “carattere”, al personaggio. Questi attori donano allo spettatore il piacere del gioco fra maschera e volto, fra faccia e travestimento, fra immagine dell’identità e spirito della espropriazione. Solo che non espropriano se stessi: espropriano il personaggio della sua stessa tipicità, gli tolgono la maschera nello stesso atto e istante in cui la costruiscono come attrazione del “tipo” al loro volto.6

2 Lo specchio deformante: comici muti italiani In un saggio sulle origini del comico muto italiano, Aldo Bernardini7 ricorda come tutto il cinema dei primordi tendesse ad appropriarsi delle esperienze di registi, interpreti e generi di altre forme spettacolari, da lui individuate nel “teatro dialettale”, dove per evidenti motivi il rapporto con lo schermo muto è difficile e sporadico – vedi Petrolini o Ferravilla –, e nella “pochade alla francese”, appartenenti a un teatro leggero di frequentazione borghese. Il vero comico cinematografico italiano, invece, è figlio, secondo Bernardini e gli altri studiosi del settore,8 della “farsa”, contaminazione di teatro commedico, caffè chantant, varietà, circo e fiera. 6) Ivi, p. 113. 7) Bernardini, A., “Appunti sul cinema comico muto italiano”, Griffithiana, cit., pp. 21-35. 8) Si veda l’ottima e completa tesi di dottorato di Giacomo Manzoli, Lineamenti di storia del cinema comico muto italiano (1909-1915), in via di pubblicazione.

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In effetti, il comico del varietà o del caffè-concerto o il clown era un attore-mimo, in grado di esprimersi con pochi gesti semplici e stilizzati e di rinunciare dunque facilmente al supporto della parola, della battuta: gli era richiesta soprattutto destrezza, abilità manuale, doti di improvvisazione e un perfetto controllo di tutto il corpo: egli aveva ben poco in comune con il “brillante” delle commedie domestiche.9 Interessa, in questo senso, la distinzione tra attori “circensi” e attori “brillanti”, separazione che da subito il cinema accoglie tra l’ambito farsesco e quello commedico. La situazione non sarà troppo diversa fino agli anni Sessanta inoltrati, almeno fino all’avvenuta penetrazione dell’intrattenimento televisivo tra gli spettatori italiani. I protagonisti del comico muto italiano, in ogni caso, sono gli attori e i personaggi cui danno vita. Essi hanno origini diverse, il più delle volte provengono dalla Francia e dalle compagnie di giro, quando non direttamente dal circo. A ogni maschera è legato un attore: André Deed è Cretinetti, Raymond Frau è Kri Kri, Ferdinand Guillaume è prima Tontolini poi Polidor, e così via. Non ci soffermiamo sulle caratteristiche del comico muto italiano in generale, se non ricordando le parole di Gian Piero Brunetta: Nella produzione di tutte le grandi case italiane, anziché parodiare i meccanismi imperfetti di un tipo di civiltà industrializzata si racconta o si parodizza il fenomeno della resistibile ascesa sociale del dandy, si esibiscono e si colpiscono, in stretta consequenzialità logica e ideologica, i simboli di prestigio, le trasformazioni dell’assetto urbano e dei sistemi di trasporti, i tabù e le più vistose trasformazioni dei comportamenti, i riti vecchi e nuovi, le forme di assistenza sociale, le istituzioni, ecc.10 9) Bernardini, A., op. cit., p. 23. 10) Brunetta, G.P., “Il clown cinematografico tra salotto liberty e frontiera del west”, Griffithiana, op. cit., p. 17.

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Il periodo di sviluppo delle comiche mute italiane si situa dal 1907/1908 fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, da tutti considerato il terminus ad quem della fortuna di questo genere. Prima, in verità, a fine Ottocento, il trasformista Leopoldo Fregoli documenta alcuni dei suoi numeri teatrali, attraverso la grande idea di mostrare il “dietro le quinte” dei suoi prodigiosi e fulminei travestimenti.11 Il vero successo, grazie alla costituzione di serie abbondanti e ricche di titoli, viene raggiunto solo più tardi. Non è nostro compito esaminare – né abbiamo qui il tempo – le caratteristiche generali delle serie e dei personaggi che le interpretano. Dobbiamo, però, domandarci se già all’epoca del comico muto italiano esisteva il concetto di parodia. Sarebbe in errore chi pensasse che, in un momento di definizione del linguaggio cinematografico o comunque in un regime discorsivo diverso da quello che conosciamo oggi – insomma “primitivo” –, non può esistere una riflessione di secondo grado o un ricorso al confronto intertestuale. Pur costituendo una minoranza di titoli, infatti, alcuni film comici prendono di mira film o generi più famosi, proprio come avverrà in epoca successiva. Ricorda ancora Bernardini: Riferimenti all’attualità sono evidenti anche in altri filoni seguiti dalle serie comiche: quello che si collegava alle tradizionali festività pasquali e natalizie (...); oppure quello che sfruttava a proprio vantaggio il successo di alcuni film famosi (Tontolini Nerone, 1910, Kri Kri e il ‘Quo Vadis’, 1912, Cinessino imita Fantomas, 1914, Polidor Za la Mort, 1917). Molte volte poi il genere si prestava a portare lo spettatore all’interno degli stabilimenti cinematografici o delle sale di proiezione, dando luogo a veri e propri film o a film nei film (Cretinetti al cinematografo, 1911; Tontolini scrittore di soggetti cinematografici, id.; Florindo operatore cinematografico, 1913).12

11) Bernardini, A., “Leopoldo Fregoli ‘cinematografista’”, in Canosa, M., a cura di, A nuova luce. Cinema muto italiano. I, Clueb, Bologna 2000, pp. 181-187. 12) Bernardini, A., “Appunti sul cinema comico muto italiano”, Griffithiana, cit., p. 33.

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Conferma, altresì, Paolo Cherchi Usai, parlando in particolare di Cretinetti: Cretinetti bambino è forse il personaggio più distruttivo del cinema comico muto. Gli oggetti si disintegrano di fronte a lui quasi automaticamente, come dissolti da una potente ondata cerebrale; e non si tratta, invece, che dell’energia cinetica di un ginnasta della distruzione. (…) [Per es.], in cabina di proiezione, all’insaputa del tecnico che sta avvolgendo una bobina (Cretinetti al cinematografo, 1911) rovescia un film – una splendida parodia di dramma sentimentale: gesti sconsiderati, scenografie precarie, amanti uccisi a colpi di scimitarra – e scatena la rabbia degli spettatori in galleria.13 Dunque esistevano parodie e, contemporaneamente, comiche aventi per soggetto il mondo del cinema nella sua organizzazione industriale o nel suo stato di dispositivo spettacolare. Non si tratta, dunque, di una passione per il metacinema ante litteram, quanto di una elementare riflessione: se il comico seleziona ogni aspetto dell’attualità e delle sue mode per produrre ironia, non si vede perché non debba farlo con lo spettacolo cinematografico, che di questa attualità è parte decisiva. Certo, di volta in volta è interessante studiare i motivi di confronto intertestuale tra film e film – che peccato non poter vedere Polidor contro Za la Mort, ad esempio, pellicola fino ad oggi introvabile. Quel che importa, tuttavia, è cercare di comprendere quale sia il ruolo del cinema parodico nel comico muto. Gli interpreti di questo cinema breve e popolarissimo, si sa, diventano divi al contrario, amati e ammirati per le loro capacità istrioniche e acrobatiche, oltre che per le caratteristiche del volto. Ebbene, si potrebbe pensare a un confronto tra sistemi divistici, dove come le due facce della Luna, il mondo di Bertini, Gys, Borrelli, si confronta con quello parodizzato di Polidor, Lea Giunchi, Ernesto Vaser. 13) Cherchi Usai, “André Deed più del solito”, Griffithiana, cit., p. 38. Cfr. anche Gili, J., “André Deed en Italie”, in Canosa, M., a cura di, A nuova luce. Cinema muto italiano. I, Clueb, Bologna 2000, pp. 189-199.

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Scrive Giacomo Manzoli: [Vi è] una fitta rete intertestuale che si crea fra autori/interpreti e pellicole i cui ritmi di realizzazione portano ad una serie di influenze, scambi, citazioni, plagi reciproci.14 Tuttavia, il comico muto italiano sembra legato a doppio filo alla propria brevità e all’assenza di veri concorrenti. Lo sviluppo del cortometraggio, la crisi industriale dovuta al primo conflitto planetario, l’esportazione dello slapstick americano sono indicate quali concause in grado di spiegare perché, dalla fine degli anni Dieci, il genere imbocchi una crisi irreversibile. Scrive, infatti, Riccardo Redi: I film comici – è evidente – dovevano essere brevi: entravano a far parte dei programmi di una sala per concludere allegramente lo spettacolo ed erano per definizione “comiche finali”. Il loro spazio doveva ridursi progressivamente con i film lunghi ed infatti la loro stagione si conclude durante la guerra. Soltanto Polidor e Manara tenteranno in seguito l’avventura del lungometraggio.15 Proprio Polidor rappresenta un esempio interessante di fenomeno a metà tra comico e parodia. Il suo Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro, primo lungometraggio della Cines, si situa nel terreno di mezzo fra la trasposizione del celeberrimo racconto di Collodi e la sua stessa decostruzione comica. Nel film, infatti, Guillaume si presenta al pubblico come Polidor, e solo successivamente “entra nei panni” del burattino. All’inizio del film, dunque, le due tradizioni si fondono: da una parte il Polidor teatral-cinematografico si ripresenta al pubblico con la stessa faccia da clown che lo ha portato a celebrità; dall’altra, il comico si trasforma nell’altrettanto famoso pupazzo animato, immettendo qualcosa della sua arte burlesca 14) Manzoli, G., op. cit., p. 5. 15) Redi, R., Cinema muto italiano (1896-1930), Bianco&Nero, Roma 1999, p. 110.

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nel personaggio collodiano e facendosi guidare (…) da un corpo-burattino di solidissima reputazione. Tutto questo può avvenire in un clima di perfetta intercambiabilità all’interno della mitologia popolare.16 Polidor, del resto, era capace di grandi performance “ironiche” sul proprio status. Basti pensare che nel divertente Polidor Apache (1912) egli interpreta se stesso nell’atto di applicare il “metodo” e frequentare la malavita allo scopo di preparare una futura pellicola sul mondo della criminalità. Pescato dalla polizia mentre sta derubando la propria stessa abitazione (sic), egli dimostra ai tutori della legge di essere il famoso attore eseguendo la capriola che lo contraddistingue. Scrive, a questo proposito, Elena Mosconi: Guillaume trae spunto dal mondo del cinema, che evidentemente gli è familiare, per creare un’infinità di gag. A ben vedere, questa pratica si traduce poi anche in una precisa consapevolezza metadiscorsiva, maggiormente rivolta al nuovo dispositivo spettacolare nel suo complesso che non a specifici procedimenti linguistici.17 Con gli anni Venti, poi, le pratiche si confondono sempre più, anche se la serie dei Maciste con Bartolomeo Pagano non esclude una vena comica,18 e il fantastico si confonde con la parodia dell’onirico.

16) Manzoli, G., Menarini, R., “Pinocchio comico muto”, Canosa, M., Costa, A., a cura di, A nuova luce. Cinema muto italiano, Fotogenia, nn. 4/5, 1997/98, pp. 214-215. 17) Mosconi, E., “Polidor, la maschera, la parodia”, in Id., a cura di, L’oro di Polidor. Ferdinand Guillaume alla Cineteca Italiana, Il Castoro/Cineteca Italiana, Milano 2000, p. 37. All’interno del volume, si trova anche una puntuale analisi del film Iustitia, importante esempio di genere “atletico-acrobatico” che non esclude momenti parodici e commedici. 18) Cfr. Costa, A., “Da Caligari a Mussolini. Il viaggio di Maciste all’inferno”, in Canosa, M., a cura di, cit., pp. 285-292; Farassino, A., Sanguineti, T., a cura di, Gli uomini forti, Mazzotta, Milano 1983.

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3 Il comico e il dittatore. Occasioni parodiche degli anni Trenta È curioso che l’unica testimonianza cinematografica di Petrolini ci giunga così tardi rispetto al momento della sua massima notorietà. Nerone (1930) di Alessandro Blasetti è stato considerato un documento eccezionale dell’arte petroliniana, a quell’epoca ormai celebrata da più parti. Al contempo, quello di Petrolini è un incontro con il cinema che poco ha a che fare con una riflessione sul linguaggio del medium prescelto. In poche parole, Nerone sembra sfruttare le qualità di riproduzione e registrazione a futura memoria del dispositivo cinematografico più che costituire un vero approdo al cinema per l’attore. Ciò è dovuto anche al fatto che difficilmente Petrolini avrebbe potuto – sia pure in epoca di sonoro – trasferire la propria arte, indissolubilmente legata alla scena, su grande schermo. Come ricorda Stefano de Matteis: I generi popolari, e in particolare il varietà, si caratterizzano per lo scambio continuo e immediato tra attore e pubblico. Il teatro minore ha avuto un vantaggio rispetto all’altro teatro: quello di rivolgersi a un pubblico culturalmente definito. Un pubblico e degli attori uniti in un comune territorio di umori culturali e di fantasie.19 Gastone, Pulcinella, specialmente Nerone sono solo alcune delle maschere di Petrolini, la cui attività si può situare tra la Prima Guerra Mondiale e il 1936, anno della morte dell’attore. Nerone di Blasetti è dunque un collage delle esperienze di scena di Petrolini, ed è un caso piuttosto anomalo di trasformazione della “ricezione”. Il Nerone straccione del comico, infatti, viene interpretato, una volta finito sullo schermo, come una parodia di Mussolini, mito che gli storici e lo stesso Petrolini hanno contribuito a ridimensionare. Scrive Franca Angelini:

19) De Matteis, S., “Per una storia dei generi ‘popolari’ nel Novecento”, in Angelini, F., a cura di, Petrolini - La maschera e la storia, Laterza, Roma/Bari 1984, p. 101.

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È ben noto che il Nerone di Petrolini non ha nulla a che vedere con una parodia del dittatore Mussolini (anche se noi, oggi, ridiamo anche per questo e siamo autorizzati a vedercela, questa parodia). La macchietta dell’antico romano è antichissima nel suo repertorio, e il Nerone veniva recitato nel 1917, prima dunque dell’avvento fascista; in polemica coi vari Quo Vadis? letterari, teatrali e cinematografici, la paccottiglia storicizzante in comica collisione col presente e con la sensibilità moderna.20 “Comica collisione”, dunque, e sicuro elemento di parodia: in fondo, se anche il Nerone grottesco e stolto di Petrolini non è direttamente parodia del dittatore e delle sue pose mediatizzate dei cinegiornali Luce, tuttavia colpisce quella enfasi sulla “romanità” che a sua volta il regime ha rifunzionalizzato ai propri interessi. Il rapporto che unisce un intellettuale legato in maniera contraddittoria al regime, come Blasetti, e Petrolini è ben sintetizzato dall’opinione dello stesso regista: Il film con Petrolini mi interessava non molto (…). Petrolini è stato un uomo di intuito pari alla sua ignoranza. La sua ignoranza superava la mia. E il talento di Petrolini, purtroppo, superava anche quello di parecchio il mio.21 Dichiarandosi “diretto” più che “direttore”, Blasetti – “costretto” a girare il film da una promessa d’onore con Pittaluga – si preoccupa solamente di offrire un collante alle esibizioni petroliniane, anche se le polemiche derivate dall’antiretorica del comico non tardano ad arrivare. Oggi il film è visibile nell’opera di montaggio Petrolini (1952) di Caramazza, un’antologia che utilizza spezzoni anche di Il medico per forza (1931) di Carlo Campogalliani. Sembra che proprio questo lavoro, destinato alla Mostra di Venezia del ’52, sia all’origine della distruzione dell’originale, di cui oggi rimangono solo frammenti. 20) Angelini, F., “Introduzione”, ivi, p. 18. 21) Blasetti, A., Il cinema che ho vissuto, a cura di Franco Prono, Dedalo, Bari 1982, p. 215. Vedi anche Gori, G., Alessandro Blasetti, La Nuova Italia, Firenze 1983.

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Un Petrolini, dunque, inviso ai fascisti, ma pur sempre vicino, come il primo Totò del resto, a certe invenzioni futuriste. Mario Verdone, attento studioso del Petrolini cinematografico, scrive infatti: Non lontano dalle innovazioni futuriste è anche Mario Pompei nel film di Blasetti (…) Nerone, dove si riconosce negli apparati scenografici del Pompei l’influenza, sia pure in un modulo più giocoso, quasi deperiano, della scenografia futurista. Il Nerone petroliniano, straordinario campione di una interpretazione teatrale all’italiana (…), era perfettamente nei gusti della dissacrazione dei futuristi.22 La parodia della romanità è poi un classico del teatro popolare della capitale, che attraversa la stagione dell’avanspettacolo e giunge fino alla contemporaneità del “Bagaglino”. Basta un’occhiata alla nostra filmografia, per accorgersi che, prima o poi, tutti i grandi attori farseschi e parodici si sono misurati o con Nerone stesso (Walter Chiari) o con il mondo dell’antica Urbe, come Totò, Pippo Franco, Boldi e De Sica. In Nerone si trova già anticipato tutto il repertorio su cui gioca la parodia in costume, in particolare la tecnica dell’anacronismo, che permette al comico di immettere in un contesto storico elementi chiaramente eterodossi: Nerone entra in bicicletta, Nerone è assicurato con la Fondiaria contro gli incendi, ecc, spunti quasi tutti – qui – irresistibili, poi sempre presenti fino al recentissimo S.P.Q.R. - 2000 e mezzo anni fa (1994) di Neri Parenti con Boldi e De Sica. Sull’argomento torneremo più avanti. Certo, il Nerone desiderato dal regime era ben altro, forse parente di quel Maciste con cui Mussolini intreccia spesso e volentieri simboli, figurazioni, pose. Ma Jean G. Gili ha spiegato bene la tendenza al comico della figura neroniana.23 In ogni caso, Nerone è l’ennesimo personaggio che garantisce la filia-

22) Verdone, M., “I suoi amici futuristi”, in Masi, S., a cura di, Alessandro Blasetti, Comitato Alessandro Blasetti, Roma 2001, p. 270. 23) Gili, J.G., “La fascination du mal. Néron, antihéros du péplum”, Positif, n. 456, febbraio 1999.

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zione diretta tra la parodia teatrale e quella cinematografica. Abbiamo insistito, in sede di introduzione teorica, sul significato circoscritto che attribuiamo al termine “parodia”, rifiutando in questa sede le parodie di stampo ideologico o sociale, difficilmente distinguibili dall’ambito satirico o comico tout court; ebbene Petrolini, che certamente è campione anche di queste ultime, non di meno esemplifica il lavoro metalinguistico sui sistemi dello spettacolo: Gastone, ad esempio, è stato più volte interpretato come un personaggio parodistico nei confronti dei “divi” come Mario Bonnard, rafforzando la nostra tesi che esista in Italia un cinema “strutturalmente” parodistico all’epoca del muto – cinema esplicitamente intermediale e intertestuale.24 Il cinema comico sotto il fascismo, per il resto, deve fare naturalmente i conti con la censura, ma soprattutto con la rappresentazione della società e della vita che il regime impone. Non è tanto la commedia leggera o sofisticata, che si coagula grosso modo intorno al cinema dei telefoni bianchi, quanto il grottesco/farsesco a farne le spese. Il fascismo ha bisogno, come tutti i totalitarismi, di fondare un consenso attraverso modelli univoci di sistema. Il comico, per costituzione, non può esserlo. La commedia, invece, sì. Scrive giustamente Ernesto G. Laura: Il filone umoristico, sia letterario, sia teatrale, sia cinematografico contraddice – è una delle contraddizioni più interessanti del periodo fascista – a una delle conseguenze necessarie di un sistema, che non tende soltanto a realizzare un predominio economico, come anche a ottenere un consenso. La conseguenza necessaria sarebbe, cioè, la creazione di un modello unitario, uniforme di cittadino, che risponda al sistema e vi si inserisca omogeneamente: quello che veniva chiamato l’uomo fascista. L’umorismo è il portatore di un uomo che non attraversa l’universo fascista, o che ostentatamente finge di non vederlo, o ci vive in mezzo come se non ci vivesse.25 24) Su Petrolini vedi anche: Bertero, G., Petrolini - L’uomo che deride, Bompiani, Milano 1974; De Chiara, G., Ettore Petrolini, Cappelli, Bologna 1959. 25) Laura, E.G., “A proposito di generi: il film comico”, in Redi, R., a cura di, Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979, p. 119.

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Laura si riferisce alla figura di Achille Campanile, condannato all’insuccesso proprio nel decennio 1930-40, e ai comici Macario e Totò, esordienti di quegli anni. Imputato, alzatevi! (1939) di Mario Mattoli è il film più citato a proposito di cinema dell’assurdo, del nonsense e del Macario “tradito”, cioè di quell’attore che non ha mai mantenuto, o potuto mantenere, la stessa salutare follia. Laura dice che poi l’attore si “rifugia” nella parodia, e infatti, film come Il pirata sono io (1940), 1000 km al minuto (1940) di Mario Mattoli, Il fanciullo del West (1942), Macario contro Zagomar (1943) di Giorgio Ferroni prendono di mira ora il film di pirati, ora il western, ora la serie di Fantomas. Vi sarebbe, quindi, in questi anni una chiusura progressiva sul comico più incontrollabile e sui lati meno ovvii di Macario e Totò, non tanto per direttive istituzionali quanto per un modo di pensare e produrre che si adegua al corso delle cose. Totò gira in questi anni Fermo con le mani (1937) di Gero Zambuto, Animali pazzi (1939) di Anton Giulio Bragaglia, considerati film – soprattutto il primo – assai diversi da quelli che hanno poi realizzato la fortuna dell’interprete napoletano. Film un po’ pazzi, il secondo su soggetto di Campanile, privi di vera e propria struttura lineare, debitori del futurismo napoletano e della destrutturazione corporea del comico. Non c’è vera parodia, qui, perché la parodia sarà il rifugio di Totò nella parte più ricca della sua carriera, quella che parte dopo la guerra. Si tratta, forse, di quelle “risate afasciste” con cui Callisto Cosulich intitola un suo bel saggio?26 O di “maschere tradite” come vuole Alberto Anile, che scrive nostalgicamente: In questo contesto a Totò non è più possibile riproporre il pupazzo tragico degli anni ’30. Nell’Italia povera del ’45/’46 il richiamo più forte proviene dalla realtà. Non certo dagli sperimentalismi, dagli estri funamboli, dalle deformazioni angosciose, dagli ameni spettri, dalla comicità metafisica. Forse nel

26) Cosulich, C., “Tentativi di risata afascista” in Argentieri, M., a cura di, Risate di regime. La commedia italiana 1930-1944, Marsilio, Venezia 1991, pp. 301-307. Cfr. anche Castello, G.C., “Commedianti e comici”, ivi, pp. 141-157, e Ternavasio, M., Macario Vita di un comico, Lindau, Torino 1998.

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Totò larvale del ventennio l’attore risentiva anche della cultura fascista, fatta di camicie nere, teschi e tutto l’armamento esteriore del regime; e, durante la guerra, dell’atmosfera di morte che avviluppava tetra l’Italia. Altri tempi altre passioni, altre ossessioni.27 Durante il fascismo, peraltro, si esprime quel Verbo unificato che sembra il bersaglio prediletto della parodia, bachtinianamente intesa. Quel Verbo è al tempo stesso disseminato nelle varie occasioni istituzionali o, più in generale, nella struttura stessa dello stato, e concretamente rappresentato dalla figura di Mussolini. Non dobbiamo, infatti, dimenticare il grande lavoro di autorappresentazione del Duce che, come suggerisce Brunetta, diventa il più grande divo degli anni Trenta: Il Mussolini imitabile e imitato è il primo Mussolini, e questo spiega come poi, all’evolversi espressivo della gestualità di vertice, non corrisponda più un altrettanto automatico evolversi della gestualità di base. A partire dai destini imperiali il gesto di Mussolini vuole essere unico (c’è di mezzo il confronto e la concorrenza con Hitler), distante, carismatico, e pertanto non più imitabile, in quanto “sacro”.28 Come nella sequenza dello striptease di Benigni in La vita è bella, esempio di dimostrazione “semiologica” dell’inapplicabilità delle tesi ariane, il comico è, per la sua stessa presenza, l’anti-uomo fascista, e l’anti-Mussolini. Ciò spiega, meglio delle emergenze dirette, perché non poteva trovare facile accoglienza durante questi anni. Il comico, in questo caso, non è giullare di corte, ma elemento visibile all’interno di una battaglia sulla visibilità, dove cioè gli spazi performativi sono omogenei, anche se a occuparli sono un dittatore e un umile umorista.

27) Anile, A., Il cinema di Totò (1930-1945). L’estro funambolo e l’ameno spettro, Le Mani, Recco-Genova 1998, p. 176. 28) Brunetta, G., Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929-1945, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 112. Cfr. anche Laura, E.G., Le stagioni dell’aquila. Storia dell’Istituto Luce, Ente dello Spettacolo, Roma 2000.

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Ancora una volta, dunque, la parodia coincide in parte col comico: il testo parodiabile è l’autorappresentazione mussoliniana, per Petrolini – sia pure involontariamente – come per Macario o Totò.

4 Tutt’intorno al neorealismo: parodia tra anni Quaranta e Cinquanta Quando la “voce” di Mussolini – ampiamente analizzata dallo stesso Brunetta in quanto fattore serioso e unificante del fascismo – scompare, si fanno strada contemporaneamente il neorealismo e la voglia di sconfessare quella stessa “univocità”. Dopo il 1945, dunque, non tutto è neorealismo, e il comico – sia pure non troppo studiato nelle vecchie storie del cinema italiano – si riorganizza, molto spesso scegliendo di non disperdere l’eredità degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta. In un appassionato saggio di “rilettura” del periodo, Marco Giusti sostiene: Senza nulla togliere a Rossellini e De Sica per quanto riguarda la rivitalizzazione dei nostri attori, è indubbio il grande ruolo di coordinamento svolto in questi anni proprio da Mattoli, che arriverà alla fine degli anni ’40, dopo aver diretto alla perfezione Eduardo, Titina e la Magnani in Assunta Spina, a rifondare il nostro cinema comico in vista degli anni ’50, esaltando Totò e facendo esordire in film come I pompieri di Viggiù e I cadetti di Guascogna i nostri migliori comici provenienti dal varietà (Tognazzi, Croccolo, Inglese, Sorrentino, Vianello).29 Non interessa, in questi anni – salvo che a Totò – la parodia di secondo grado, semmai la parodia storica, forse per reazione al già citato unanimismo "romanico” voluto dal regime. Intendiamo dire che non è un caso che uno dei film più interessanti, a cavallo tra Quaranta e Cinquanta, sia Adamo ed Eva (1950) 29) Giusti, M., “Mignone è tornato. Divi, attori e caratteristi”, in Farassino, A., a cura di, Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, E.D.T., Torino 1989.

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di Mario Mattoli con Macario, divertente farsa che mette in ridicolo i luoghi comuni della storia passando in rassegna comicamente tutti gli episodi più celebri della mitologia, della religione, della latinità, delle guerre via via fino ad arrivare persino alle astronavi del progresso moderno. Della Casa scrive: Adamo ed Eva si rivela interessante perché è una sorta di parodia – in gran parte preventiva – dei generi (almeno per l’Italia). Una parodia che può essere considerata una summa di quello che sarà l’atteggiamento del cinema italiano nei confronti del terreno parodico: a partire dagli anni ’60 si affiancherà (…) contestualmente a una produzione seria (…).30 Il ricambio dei quadri divistici è più lento del previsto, o porta a maturazione attori – vedi la carriera di Aldo Fabrizi – già affermati durante la seconda parte del ventennio. Totò è caso a parte, su cui ci soffermiamo più avanti. Va detto, invece, che il celebre passaggio dal neorealismo al neorealismo rosa, che infine trascolora nella commedia, coinvolge il cinema comicofarsesco-parodistico fino a un certo punto.31 Semmai, sarebbe importante ripensare ai meccanismi di scambio tra cinema “da varietà”, film-rivista, neorealismo popolare e commedia urbana, costellazione complessa, non priva di sovrapposizioni suggestive, eppure decisiva per comprendere le trasformazioni degli anni Cinquanta. Tuttavia, il comico puro e magari sadico deve affrontare anch’esso l’impegno morale imposto dalla ricostruzione. C’è una sola figura, dal 1947, in grado di “fluidificare” tutti questi meccanismi ed è Totò, che raccoglie e compatta ogni stimolo esterno, culturale e mediale. Lo stesso Macario che abbiamo indicato poc’anzi come “eroe” della parodia nel 1950, in verità, mostra influenze realiste, malinconiche e persino un po’ introspettive grazie ai film di Carlo Borghesio, Come persi la guerra (1947), L’eroe della strada (1948), 30) Della Casa, S., Mario Mattoli, La Nuova Italia, Firenze 1989. 31) Si veda l’importante mappa tracciata in Aprà, A., Carabba, C., a cura di, Neorealismo d’appendice, Guaraldi, Firenze-Rimini 1976.

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Come scopersi l’America (1949), che guadagnano all’attore anche alcuni consensi di “intellettuali”. Totò, dunque. Tra 1947 e 1959, l’attore napoletano gira almeno undici parodie, anche ad applicare un criterio piuttosto rigido di riconoscimento delle stesse. Alcune riguardano film celebri – Fifa e arena nei confronti di Sangue e arena –, altri ironizzano su tradizioni narrative non solo cinematografiche – Totò Tarzan, Totò sceicco –, altri ancora affrontano i capisaldi della letteratura italiana, anche se già filtrati attraverso le “vulgate” iconografiche che ne sono state tratte – Totò all’inferno. Non è certo questo il luogo nel quale ripercorrere l’intera carriera dell’attore in tutte le sue infinite varianti e caratteristiche. Piuttosto, vale la pena riaprire la riflessione sulla parodia in Totò, che molto spesso è interpretata come fatto acquisito e aproblematico. Innanzitutto, va detto che, in un periodo di tendenza non spiccata al confronto intertestuale, specie di origine comica, l’ingresso di Totò sul proscenio neorealista – ma come sappiamo attraversato dalla massiccia presenza di un cinema popolare avventuroso e melodrammatico – non è fatto di poco conto. La scelta di Totò, cui non è certamente estraneo Mario Mattoli nel ruolo che correttamente Marco Giusti enfatizzava, si distingue per intelligenza e originalità. Certo, come ricorda Alberto Anile: [Con Totò] nasce un vero e proprio sottogenere, il film-parodia; o, più correttamente, il film-rivista, proprio perché il teatro di intrattenimento (dalle macchiette di Maldacea alle scenette con la Magnani), di parodie si è sempre nutrito.32 Eppure, la spiegazione non è sufficiente. Totò, insistiamo, è figura calamitante di tutto il cinema, la sua presenza – almeno al cinema – prevede esplicitamente il confronto con il resto della produzione corrente. La nostra impressione è che la letteratura critica su Totò, ormai giunta a un rigore storiografico degno dell’oggetto di studio, non abbia a sufficienza sottoli32) Anile, A., I film di Totò (1946-1967). La maschera tradita, Le Mani, Recco-Genova 1998, p. 34.

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neato l’aspetto veramente distintivo del Totò su pellicola. La progressiva scomparsa della “super-marionetta” degli esordi è dovuta, più che a fattori di convenienza produttiva e commerciale – peraltro decisivi –, alla discesa nell’arena intertestuale. In poche parole, il Totò del dopoguerra, sia pure con alterne fortune e attraverso differenti modi di rappresentazione, è un personaggio che vive a partire dalla restante produzione cinematografica. Il fatto che poi riesca ad assorbire ogni testualità esterna grazie alle proprie specialità comiche non è in contraddizione con quanto appena sostenuto. Ciò non sminuisce la valutazione del talento di Totò, ma mostra come, anche a partire dal periodo di massima affermazione del realismo italiano, l’attore declini la sua arte verso un mondo pienamente mediatizzato dal cinema stesso. Quasi simbolicamente, I due orfanelli (1947) viene girato sui set ancora arredati del Fiacre n. 13, film di Mattoli dello stesso anno sostenuto da un budget e da attese decisamente superiori. Eppure, il film con Totò e Campanini, fatto in fretta e furia su materiale di riporto, supera di gran lunga gli incassi del più nobile racconto storico. La carriera post-bellica di Totò comincia su un set derivato, parassitario, perfettamente in linea con l’aspetto parodistico della sua produzione, sempre a “ridosso” di altri film o altri generi o altre tendenze, persino dunque di altri set – accadrà varie volte, in particolare con Totò, Peppino… e la dolce vita (1961). Anche quando viene “tirato” verso il neorealismo, in Totò cerca casa (1949) di Monicelli e Steno, all’attore sembra più congeniale dialogare con la codificazione cinematografica del realismo più che con l’immissione di caratteri autonomi nel proprio cinema, per non parlare di esempi di “comico-patetico” derivato, come Totò e Marcellino (1958) di Antonio Musu. Forse solo col filone “napoletano” di Totò delle commedie di Scarpetta e De Filippo il legame si allenta un po’, anche perché molti di questi film sentono il bisogno di sancire una “cesura” netta con il resto della produzione di Totò ricorrendo a una forte stilizzazione teatrale della scena: basti pensare all’incipit di Un turco napoletano (1953) o Miseria e nobiltà (1954), nel quale il pubblico si reca a teatro per vedere la commedia e, solo in seguito, inizia il film.

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C’è da dire, in ogni caso, che la molteplicità degli aspetti parodistici di Totò è stupefacente. Esiste, infatti, un Totò parodico in costume, che secondo noi diluisce livemente la forza del confronto ipertestuale facendo ricorso ad aspetti comici tout court, primo fra tutti la sproporzione tra l’attore, piccolo e macchiettistico, e il contesto, esotico ed eroico, di riferimento. In verità, poi, opere come Totò sceicco (1950), Totò Tarzan (1950) e soprattutto Totò contro il pirata nero (1964) mostrano una spiccata tendenza al gag surreale e da cartoni animati che le parodie contemporanee non possiedono. Ma esiste anche un Totò parodico moderno, che segue con altrettanta puntualità il cinema che si evolve. Nel capitolo dedicato agli anni Sessanta, diremo meglio del rapporto tra Totò e il cinema d’autore. Qui ci interessa più che altro ragionare sui fondamenti del parodico nella sua produzione anni Quaranta e Cinquanta. Ebbene, un film come Totò terzo uomo (1951) di Mattoli rappresenta un altro genere di allusione. Il film di riferimento è intuibilmente Il terzo uomo (1950) di Carol Reed con Orson Welles – con il quale poi, paradossalmente, Totò gira lo strampalato L’uomo, la bestia, la virtù (1953)–, ma, come da più parti si è scritto, dell’originale non resta gran che. Totò terzo uomo, però, non si può liquidare come una delle tante parodie il cui richiamo al filmmodello è limitato al titolo, poiché la musica è a sua volta parodia del famoso motivo di Anton Karas divenuto insopportabilmente celebre in quegli anni. Inoltre, la storia poggia su una classica, ancorché intricata, vicenda di sosia ed equivoci, una specie di divagazione comica sul tema del doppio e del “ritorno” presente nel film di Reed, forse persino una interpretazione maliziosa dell’originale. Totò abita dentro e fuori il film. Il suo personaggio cinematografico è, come sosteniamo, spiccatamente intertestuale, la sua notorietà, al contrario, confonde persona e immagine. Bisogna però ricordare che l’attore napoletano non è solo soggetto di parodia, ma persino oggetto di allusione metacinematografica: nel film Bellezze in bicicletta (1951) di Carlo Campogalliani, Silvana Pampanini va alla ricerca del vero Totò per farsi scritturare in un suo film. Finisce con l’incontrare un sosia, interpretato da Dino Valdi, e col mancare l’atteso appuntamento.

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A conferma dell’interesse che Totò stimola nello studioso anche nei confronti del cinema parodizzato, citiamo solo un altro film, però decisivo per comprendere la relazione di pratiche spettacolari tra il cinema comico e quello ufficiale. Il più comico spettacolo del mondo (1953) del solito Mattoli è contemporaneamente: la parodia di Il più grande spettacolo del mondo (1952) di De Mille dedicato al mondo del circo; la parodia del progresso tecnologico americano, Cinemascope e 3D; l’adozione, dopo Totò a colori, di un nuovo sistema – il 3D appunto – destinato a offrire a Totò una nuova occasione di “primato” nel cinema italiano. La parodia del film di De Mille è piuttosto puntuale, se si pensa che Totò (Tottons) fa il verso niente meno che a James Stewart (Bottons). Ma è senza dubbio il 3D l’attrazione principale del film, che peraltro – oltre ad essere quasi invisibile – non è stato proiettato con la tecnica prevista che rarissime volte.33 Per di più, se già De Mille condiva il proprio film di lunghe sequenze – spettacolarmente coreografiche – di numeri da circo, ora Mattoli e Totò costruiscono un film/rivista anch’esso disposto a mettere da parte la dimensione narrativa per privilegiare quella dello sketch. In breve, Il più comico spettacolo del mondo intraprende, via De Mille, una saldatura tra varietà, circo e cinema degna di una manuale di storia culturale dell’Italia, avendo in aggiunta l’attrazione del sistema 3D. Attraverso le parodie di Totò, dunque, abbiamo un pezzetto di storia del cinema, o almeno un pezzetto di storia della ricezione. Con tutto questo non si vuole certamente affermare che la qualità primaria di Totò fosse tutta teorica; al contrario, il “corpo” di cui faceva uso al teatro, quel corpo che “si spostava, di dislocava, si dissociava”,34 forse al cinema è diventato lentamente “faccia” sorretta da tutto l’apparato parodistico, come accade negli anni Sessanta, oltre che sospinto da spalle di volta in volta più sostanziose, da Peppino de Filippo al tramontante, triste Macario. Riguardo, invece, alle influenze, si è spesso 33) Vedi la ricostruzione dell’intero episodio in Anile, A., ivi, pp. 174-181. 34) De Feo, S., “Il Picasso della risata”, in Faldini, F., Fofi, G., Totò: l’uomo e la maschera, Feltrinelli, Milano 1977.

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sostenuto che Totò deve molto a Petrolini. È vero che i comuni terreni parodistici potrebbero far pensare a questa vicinanza elettiva. Invece siamo d’accordo con Goffredo Fofi quando scrive: Niente è più diverso di Petrolini da Totò. (…) Totò non imita. È e resta Totò, una maschera con tratti non deformabili oltre un minimo limite: i caratteri devono piegarsi a Totò, e Totò non può piegarsi ai caratteri. Anche sul terreno del nonsenso, l’accordo è scarso: in Petrolini, esso è verbale e in Totò innanzitutto visivo. (…) Petrolini influenzerà molto di più un Rascel (le sue filastrocche) o un Sordi (le sue macchiette, le sue canzoni) o un Manfredi romanesco e solo tale.35 Il ragionamento, probabilmente, vale anche per la parodia, intesa in senso lato. E va in direzione di ciò che afferma Dario Fo quando scrive: Totò è, in questo senso, una Maschera nell’accezione piena del termine. Egli, infatti, è sempre Totò anche quando indossa abiti femminili, costumi settecenteschi, o mette in testa elmi e fez… Si direbbe che il travestimento non serve a nasconderlo ma ogni volta a svelarlo meglio.36 Non c’è solo Totò, negli anni Cinquanta, ma è Totò ad assumersi quasi completamente la responsabilità della farsa parodica. Il cinema parodistico bersaglia qua e là la Storia Ufficiale, ma non possiede il mordente petroliniano, non fosse altro che per la debolezza dell’approccio umoristico. Napoleone (1952) di Carlo Borghesio – regista che dopo Mattoli si candida ad essere ricordato come l’altro traghettatore dei comici teatrali al cinema – trasporta sullo schermo una nuova macchietta farsesca, inventata da Renato Rascel. Si immagina, nel film, che la statua di Napoleone narri le proprie gesta a quella di Cesare e dimostri come ogni conquista celebrata dai manuali altro non 35) Fofi, G., ivi, p. 17. 36) Fo, D., Manuale dell’attor comico, Vallecchi, Firenze 1995, pp. 16-17.

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sia stato che il frutto del caso. Rascel è attore che ha dato il meglio nei ruoli malinconici – penso soprattutto al personaggio di Policarpo – ma è stato comunque sottovalutato nella sua figura di comico “del corpo”. Di solito, la carriera parodistica di Rascel viene interpretata con sufficienza, quasi come si trattasse di uno sfruttamento marginale delle doti dell’attore. Eppure, almeno Rascel Fifì (1957) e Tempi duri per i vampiri (1959), diretti rispettivamente da Guido Leoni e da Steno, sono pellicole tutt’altro che disprezzabili. Insieme a Chiari – O.K. Nerone (1951) e Il sogno di Zorro (1952) – Rascel è un interprete malamente sfruttato, di cui sempre si è detto e sempre si dirà che è stato poco valorizzato dalla macchina produttiva. Bisogna chiedersi, però: esiste anche un solo comico italiano di cui si dice che abbia effettivamente sviluppato tutto il suo potenziale cinematografico? Crediamo di no: da Petrolini a Totò, da Chiari a Macario, da Peppino a Franchi/Ingrassia, persino da Vitali a Boldi l’antifona è la stessa: peccato, sarebbe un comico di razza, ma gira troppi film e male. Il comico italiano è, al contrario, vorace, inarrestabile, istantaneo. Fellini sosteneva tautologicamente che Totò è Totò e che non si doveva mutarne le caratteristiche, a rischio di perdere la maschera che tutti amiamo. Aveva ragione: non esiste, probabilmente, nel cinema italiano la possibilità di una “vocazione” diversa da quella che poi si è effettivamente realizzata per i grandi comici. A patto, almeno, di limitarsi al genere farsesco, rivistaiolo e parodistico: i passaggi alla commedia all’italiana – che affronteremo nel prossimo capitolo – vengono per solito salutati con favore, ma si limitano ad alcuni casi. È probabile, dunque, che il disagio di molti si nasconda nel rapporto col genere farsesco più che con i risultati che esso ottiene: un genere che, per sua stessa natura, celebra l’abbondanza, l’infinitezza e l’ingordigia. Negli anni Cinquanta, comico e musicale si incrociano senza soluzione di continuità, in nome del cosiddetto film-rivista. In senso stretto, questo filone contiene solo le opere direttamente ispirate alla rivista, quindi con la presenza di numeri, sketch, canzoni, spesso del palco vero e proprio. L’emergenza di questo genere è racchiusa negli anni che vanno dal 1949 di I pom-

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pieri di Viggiù e il 1956, anno di forte declino sia della produzione comica su grande schermo sia della rivista teatrale.37 Ma anche a voler considerare in senso più ampio il film-rivista come il luogo d’incontro di varie forme di spettacolo – cinema, teatro, commedia musicale e televisione –, le cose cominciano a cambiare proprio dalle stagioni 1956-’57 e 1957-’58. Lo ricorda anche Vittorio Spinazzola, quando scrive: Una precisa radiografia della situazione è fornita dall’elenco dei successi per l’annata 1957-’58, forse la più desolante dell’intero dopoguerra, come quella che vide l’indifferenza del pubblico verso il cinema nazionale toccare il culmine (nessun film superò il miliardo d’incasso) e il disorientamento, la stanchezza dei nostri registi acquistare maggiore evidenza.38 Tra i film che Spinazzola cita troviamo: La nonna Sabella, Mariti in città, Ladro lui, ladra lei, Totò, Vittorio e la dottoressa, Rascel fifì e così via. Si fa strada, in questi anni, la parodia: Rascel Marine (1958) di Guido Leoni con Rascel, Tempi duri per i vampiri (1959) di Steno con Rascel, Totò nella luna (1959) di Camillo Mastrocinque con Totò, Noi siamo due evasi (1959) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, La Pica sul Pacifico (1959) di Roberto Bianchi Montero con Tina Pica, I baccanali di Tiberio (1959) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi e Walter Chiari, questa volta davvero indice di crisi. Eppure, il filone vacanziero-balneare e quello “scapolistico” mostrano una prima mutazione dei costumi italiani: il boom si fa sentire anche nella farsa e il consumo edonistico rappresenta un terreno simbolico importante sia per le forme della commedia che per il cinema più basso. In breve: La pluralità, lo sviluppo irregolare, ineguale, privo di omogeneità, fanno del corpo della commedia un punto di incrocio e 37) Cfr. Scaglione, M., Saluti e baci - L’Italia del varietà e dell’avanspettacolo, Editrice La Stampa, Torino 2001. 38) Spinazzola, V., Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1974, p. 191.

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dissoluzione di numerosi filoni (neorealismo popolare, neorealismo rosa, la farsa, i film cantati, il filone napoletano); corpo parassitario che ha una funzione episodica, quasi una parentesi, nell’avventura del cinema italiano negli anni di ristrutturazione della mitologia dello spettacolo.39 Perché queste dinamiche si chiariscano, è necessario attendere ancora un po’ di tempo. Ormai, però, gli anni Sessanta sono dietro l’angolo.

39) Casetti, F., Ghezzi, E., Magrelli, E., “Appunto sulla commedia all’italiana degli anni Cinquanta”, in Tinazzi, G., a cura di, Il cinema italiano degli anni Cinquanta, Marsilio, Venezia 1989, p. 180.

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1 Un paesaggio intertestuale La comprensione del cinema italiano degli anni Sessanta non può essere limitata ai fenomeni che hanno caratterizzato questo periodo – cinema d’autore, commedia all’italiana, generi di profondità, avanguardia –, senza collocare ognuno di essi all’interno di una fitta comunicazione intertestuale e intermediale, tratto tipico di un decennio in cui l’industria culturale in Italia si afferma definitivamente. La parodia, segmento cinematografico che abbiamo chiamato “meta-genere” accogliendo la proposta di Mauro Wolf, offre l’occasione di attraversare i diversi modi del racconto cinematografico e i complessi sistemi di rappresentazione – cinema, televisione, teatro, pubblicità –, che vanno intersecandosi in questi anni. L’evoluzione della parodia, se di evoluzione si può parlare, interessa lo studioso per i fatti intrinseci che la caratterizzano, ad esempio l’affluenza dei vari, e ormai dispersi, rivoli dell’avanspettacolo, del varietà televisivo, del film d’attore, del neorealismo rosa trasferito nel filone balneare ecc.; ma anche per ciò che sa dire dei testi che prende a bersaglio: vedremo, attraverso alcuni esempi, casi importanti di parodia del cinema d’autore, in grado probabilmente di moltiplicare i percorsi interpretativi dei film-modello, da La dolce vita a Rocco e i suoi fratelli; saggeremo il concetto di consumo popolare, radiografando il dialogo, la negoziazione comunicativa che si instaura tra il testo parodistico e il suo pubblico, l’uno alla ricerca dell’altro; e vedremo il

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lavoro della parodia sui film esteri, in particolare il rapporto tra forme di parodizzazione “interna” – dove il bersaglio transtestuale è il cinema italiano – ed “esterna” – dove gli ipotesti derivano dalla grande produzione internazionale. Inoltre, bisogna in questi anni distinguere attentamente i fenomeni parodici dagli altri fenomeni di stampo comico, commedico e umoristico. Si può parlare di elementi di parodia presenti nella commedia all’italiana? O nello spaghetti-western? Secondo noi la risposta è negativa, tuttavia l’analisi delle singole tendenze merita un approfondimento non banale. La sensazione è che il cinema italiano degli anni Sessanta – senza dubbio più un luogo di periodizzazione che un vero sistema coerente di produzione filmica, eppure così suggestivo per le operazioni che contiene –, esperisca forme di comunicazione in qualche modo legate le une alle altre, un po’ a causa delle dinamiche di produzione un po’ grazie alla tendenza – tipica dei generi popolari o della commedia all’italiana, ad esempio –, a sviluppare forti quanto invisibili legami intertestuali. Il grande successo del cinema italiano annunciato dal doppio Leone d’Oro a Il generale Dalla Rovere (1959) di Roberto Rossellini e La grande guerra (1959) di Mario Monicelli lascia presto spazio alle grandi opere di Fellini, Antonioni, Visconti, maestri già emersi nei decenni precedenti ma giunti a completa maturità stilistica, oltre che agli esordienti Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio solo per citare i più noti. Come ricorda Gian Piero Brunetta: Il 1960 resta un’annata eccezionale in cui gli stessi produttori sembrano pensare che il film buono cacci quello cattivo. Come per le grandi annate del vino, il cinema italiano per alcuni anni sembra attraversato da un’energia creativa inesauribile e da una capacità di far nascere addirittura a gruppi i nuovi talenti, senza mettere da parte i maestri e gli autori delle generazioni precedenti.1 1) Brunetta, G.P., “Il cinema italiano dal boom agli anni di piombo”, in Brunetta, G.P., a cura di, Storia del cinema mondiale. L’Europa. Le cinematografie nazionali. III**, Einaudi, Torino 2000, p. 935.

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Ma come potremmo definire questi “gruppi di testi” del cinema italiano del periodo? Secondo Lino Micciché, bisogna distinguere tra “generi” e “filoni”: Forse proprio perché la realtà industriale del cinema italiano è sempre stata alquanto precaria, la nozione di “genere” – in altre cinematografie, come la statunitense o la nipponica, assai definita e perentoriamente codificata – ha sempre assunto a Cinecittà contorni vaghi, confini imprecisi, canoni incerti, oscillando quasi sistematicamente fra il codice forte del “genere”, merceologicamente definito, e il codice debole del “filone”, contenutisticamente identificato. (…) Tale nozione ha finito per riguardare precipuamente, anche se non esclusivamente, il cosiddetto “cinema di profondità”, quello destinato soprattutto al consumo popolare e periferico; essendo invece difficilmente applicabile al cinema destinato al consumo urbano e delle prime visioni, dove, appunto, allignano più i “filoni” (questione di contenuti) che i “generi” (questione di tipologia della merce-film).2 La distinzione suggerita da Micciché appare verosimile, tanto più se consideriamo affidabile il sistema previsto da Rick Altman 3 per i generi cinematografici, specie quando parla di “generificazione come processo” – genrification as process –, dove di volta in volta al ciclo aggettivistico (“commedia musicale”) si sostituisce col tempo il genere nominato (“musical”). In Italia, dove come abbiamo visto non si può parlare di un vero e proprio “sistema” cinematografico per come viene inteso, e studiato, nel cinema americano classico e neoclassico,4 gli anni Sessanta mostrano – forse per l’ultima volta – processi paragonabili a quelli di cinematografie sorrette da un’industria robusta ed economicamente solida. Ecco, dunque, che

2) Micciché, L., “I meravigliosi anni ’60”, in Salizzato, C., a cura di, Prima della rivoluzione. Schermi italiani 1960-1969, Marsilio, Venezia 1989, p. 21. 3) Altman, R., Film/Genre, BFI, London 1999. 4) Cfr. Gandini, L., Menarini, R., “Introduzione”, in Hollywood 2000. I. Temi e generi, Le Mani, Genova 2001.

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quello che Vittorio Spinazzola denomina “superspettacolo d’autore”5 diventa una sorta di “ciclo” (o “filone” secondo la proposta Micciché), che non assume – né, forse, può assumere per sua natura tematica, certamente sì come oggetto merceologico –, la forma di “genere”. Ricorda lo stesso Spinazzola: La premessa pratica di questa svolta (il 1960, nda) fu costituita dalla volontà di intensificare lo sfruttamento del circuito di prima visione, il più redditizio: non solo per il prezzo maggiore del biglietto ma anche perché consente un recupero più rapido delle spese di produzione, cosa particolarmente necessaria per i film ad alto impegno economico. A corroborare tale orientamento c’era poi la costante preoccupazione per la concorrenza televisiva. Il piccolo schermo offre a tutti una possibilità immediata di utilizzazione del tempo libero, con spettacoli tipo famiglia, cui assistere comodamente tra le pareti domestiche o nell’ambiente di ritrovo abituale, al bar sotto casa: e senza spesa, tranne il pagamento del canone.6 Lotta al consumo televisivo, sfruttamento della prima visione, distinzione tra un pubblico urbanizzato e un pubblico di provincia, filoni e generi, indirizzi produttivi dettati dall’industria. Tutte queste cause di successo del cinema italiano, affiancate naturalmente da un particolare fermento creativo di registi, sceneggiatori, interpreti, e da una grande, tradizionale professionalità da parte dei quadri e delle maestranze, sembrano nella seconda parte degli anni Sessanta costituire il motivo stesso della crisi che si affaccia dopo il biennio 1964-’65, con la breve ottimistica interruzione della celebre Legge del ’65. Per quanto riguarda i film che direttamente interessano il nostro studio, c’è anche da dire che il cinema italiano si trova a fare i conti con la concorrenza del consumo domestico proprio nel momento in cui sembra aver conquistato il mercato di profondità.7 È chiaro che, come abbiamo anticipato, fin dalla fine 5) Spinazzola, V., op. cit., Bompiani, Milano 1974. 6) Spinazzola, V., ivi, p. 239. 7) Magrelli, E., a cura di, Sull’industria cinematografica italiana, Marsilio, Venezia 1986.

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degli anni Cinquanta il cinema italiano sta parcellizzando l’eredità della commedia, sia essa quella del trapasso dal neorealismo rosa alla commedia pre-’58, sia il film rivistaiolo o di varietà. I pubblici, come dimostrano anche processi di definizione dello spettatore e studi sugli incassi,8 cominciano a differenziarsi anche in virtù dell’urbanizzazione. L’influenza del linguaggio televisivo, oltre che del temario che propone una volta trasformatasi nel rifugio dell’intrattenimento teatralsalottiero, fa sentire il proprio peso nel momento stesso in cui il cinema d’autore sembra dotarsi di strumenti specifici del grande schermo e proporsi come spettacolo da fruire obbligatoriamente in sala. Franco Monteleone scrive, a proposito dei primi anni Sessanta: La dinamica sociale del miracolo economico aveva accentuato la dimensione privata e atomizzata della vita civile. Il ruolo del singolo nucleo familiare, cellula produttiva e non più soltanto affettiva, ebbe un’importanza sempre maggiore nel processo di rapida urbanizzazione. Le famiglie sono più piccole, più isolate, separate dai circuiti comunitari dalla struttura stessa delle nuove abitazioni sorte nelle grandi periferie metropolitane. L’automobile e la televisione incoraggiano ulteriormente un uso del tempo libero prevalentemente privato.9 Non bisogna, però, pensare che la maggior parte di questi fenomeni sia omogenea. Non è vero, cioè, che gli anni Sessanta si presentano a blocchi, quello del pubblico popolare, quello del pubblico “colto”, quello della commedia all’italiana o quello della “nouvelle vague” Titanus. A venire meno, infatti, è proprio la precisione con cui l’industria culturale ha fino a quel momento offerto i proprio prodotti ai suoi clienti. Ora i gruppi si sfrangiano e, già prima della fatidica contestazione studentesca, prima cioè dell’ideologizzazione ’68-’77 che tutto 8) Cfr. Menarini, R., Pescatore, G., “Il cinema popolare degli anni Cinquanta e Sessanta e i processi di definizione dello spettatore”, in Fanchi, M.G., Mosconi, E., a cura di, Il consumo e i pubblici del cinema in Italia, Ed. Bianco&Nero, Roma 2002. 9) Monteleone, F., Storia della radio e della televisione, Marsilio, Venezia 1995, p. 334.

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travolge nella cultura giovanile e impegnata, vi è un tipo di consumo caratterizzato dalla parcellizzazione.10 Spiega esemplarmente Fausto Colombo: Si può dire che il dato davvero sintomatico che si rileva a partire dagli anni Sessanta è una crescente distonia fra la storia dei fenomeni di consumo culturale e la vicenda del paese in termini storici, almeno come essa viene letta a partire dalla Cultura dei circuiti “alti” tradizionali. Qualche esempio: fa indubbiamente riflettere che la generazione studentesca protagonista del Sessantotto sia cresciuta consumando – accanto a una cultura scolastica che faceva perno sul liceo classico come matrice della classe dirigente futura – il fumetto nero e il cinema mitologico-seriale o quello spaghetti-western.11 Non bisogna nemmeno cadere nella facile tentazione di descrivere la costellazione del cinema anni Sessanta in termini tassonomici binari di impegno/disimpegno, pubblico alto/pubblico basso, cinema d’autore/commedia. In quest’ultimo caso, è persino probabile che sia proprio la parodia a spiegare come i film di Fellini, Visconti, Antonioni e quelli di Germi, Pietrangeli, Comencini appartenessero – rispetto all’ottica del cinema “di profondità” – allo stesso territorio. Non si spiegherebbe altrimenti una parodia come Sedotti e bidonati (1964), memorabile esempio carnevalesco con Franchi/Ingrassia, dove il film di Germi riveste un ruolo “autoritario” avvertito come altro da parte di chi ne costruisce il ribaltamento farsesco. Di volta in volta, la parodia contratta con lo spettatore a partire dal film parodiato. Spesso i pubblici differiscono, altre volte si intersecano parzialmente, eppure nel corso degli anni Sessanta – a partire circa dalla metà del

10) Brancato, S., Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Datanews, Roma 1995; Cadioli, A., L’industria del romanzo. L’editoria letteraria in Italia dal 1945 agli anni Ottanta, Editori Riuniti, Roma 1981; Ceserani, R., Storia della pubblicità in Italia, Laterza, Bari 1988. 11) Colombo, F., La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano 1998, pp. 246-47.

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decennio – si va verso una indistinta proliferazione di prodotti ormai post-moderni, in cui vengono ospitati confusamente tutti gli atteggiamenti comunicativi seri, medi, farseschi: la deriva dello spionistico italiano ne è un esempio, ma anche l’ultimo western co-prodotto funziona come territorio osmotico delle tendenze intorno ai testi derivativi. Non è un caso che, del cinema di cui stiamo parlando, raramente si tratti nelle storie del cinema italiano. Solo i testi più intelligenti e onnicomprensivi lavorano intorno a questo grande “rimosso” della produzione italiana – i generi bassi, appunto –, in grado di coprire circa il 50/60% del consumo generale. Avvertiva, in un bel saggio di qualche anno fa, Sandro Zambetti: L’impatto con il pubblico della commedia anni Sessanta mi sembra possa essere valutato positivamente, come trasmissione di un fondo di amarezza e di inquietudine che diventa consapevolezza critica della friabilità delle basi su cui poggia il tipo di sviluppo in atto nel paese. Ma bisognerebbe fare un discorso per singoli autori e non sul filone in quanto tale perché, se quanto ho detto ora può valere per Risi o, in termini diversi, per il germi “siciliano” o per Scola, non vale certo per registi anche di gran nome, come De Sica, e soprattutto per la serie più nutrita, e non avara di risultati economici, delle commediole e delle comicastre raffazzonate attorno ai comici del teatro di rivista.12 Sebbene conclusa da un giudizio di valore apparentemente senza appello, la riflessione di Zambetti è utile poiché identifica strati di diversa composizione anche all’interno di quel mammuth chiamato “commedia all’italiana” e spesso considerato, sbagliando, un colosso uniforme per intenzioni e risultati. Ci possono essere ben tre tipi di commedia nell’Italia degli anni Sessanta – come vedremo affrontando l’argomento di qui a breve –, tra le quali la farsa parodistica occupa senza dubbio 12) Zambetti, S., “Cinema e pubblico in Italia negli anni Sessanta. Gli indirizzi produttivi, i generi, il film popolare”, in Ferrero, A., a cura di, Storia del cinema, vol. III, Marsilio, Venezia 1980, p. 74.

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un posto di rilievo, almeno a giudicare dagli incassi e dall’importanza produttiva. Come afferma Emanuela Martini: Il fatto è che, tra cinema medio e cinema d’autore, in Italia c’è e c’è sempre stato un terzo oggetto di consumo cinematografico, del quale per lungo tempo la critica non si è occupata, relegandolo snobisticamente nell’ambito della sottocultura arretrata e perciò non influente, e che, una volta scoperto, è stato subito, e altrettanto snobisticamente, assunto nell'olimpo dei generi o delle piccole curiosità misconosciute. Mi riferisco al cinema destinato al pubblico di profondità, non tanto cinema di serie B, quanto spesso, cinema di serie Z. Un cinema ricchissimo di titoli, che determina l’iperproduzione nazionale costante.13 E dunque? È possibile studiare questo cinema, o almeno la parte di questo cinema chiamato farsa parodica o parodia, senza precipitare nell’atteggiamento opposto, di valutazione cinefiliaca delle opere mediocri o inconcludenti? La nostra scommessa è questa, ci auguriamo di vincerla con gli strumenti che la teoria e la storiografia ci hanno offerto in questi anni di grande impulso agli studi sulle forme di espressione popolare e sul consumo cinematografico.

2 La parodia del cinema d’autore Abbiamo insistito sulla stagione 1960-1961, poiché in essa si realizza un momento assai importante per la parodia cinematografica in Italia. Le ragioni storiografiche, che già suggeriscono di fare attenzione ai film popolari degli anni Cinquanta in virtù degli indizi di “modernità” che sembrano contenere, confermano con una certa sicurezza l’evoluzione del processo. Se, dunque, il patto comunicativo tra testo e film avvia un pro-

13) Martini, E., “L’omologazione verso il basso del cinema italiano”, in Magrelli, E., op. cit., p. 102.

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cesso di definizione dello spettatore – che cerca, e spesso trova, conferma nelle ricerche sugli incassi dei film, nella geografia distributiva, nelle altre forme di audience study –, quello messo in atto dal film-opera14 e dal film-rivista, inteso in senso stretto ma anche più disinvoltamente identificato con un cinema comico/musicale recante tracce del sistema spettacolare che lo informa, è un ricorso a “testualità” ancora esterne al medium. Con la parodia, invece, si fa riferimento a un rapporto che potremmo definire “intramediale”, nel quale il luogo della negoziazione15 è il cinema stesso. In una soluzione schematica, potremmo pensare di denominare A il testo, B il luogo del patto comunicativo, C lo spettatore. Se, in alcuni casi, A e C negoziano attraverso codificazioni della rappresentazione della società (B) – ad esempio la commedia all’italiana –, in altri lo fanno scegliendo il medium che funge da contatto, il cinema appunto. A e C, in tal caso, negoziano attraverso un B che è il cinema stesso: di volta in volta, quindi, bisogna comprendere perché e come un film – come nel caso del remake o della parodia – o un dato gruppo di film, come accade al western all’italiana, diventino materia di “contratto” fra testo e spettatore. La parodia, specie in Italia, negozia più attraverso singoli fenomeni testuali che non interrogando forme di genere, come invece accade nel cinema americano, da Buster Keaton a Mel Brooks. Ciò che avviene all’inizio degli anni Sessanta, dunque, esprime con chiarezza il confronto tra due forme di cinema: un cinema di estrazione rivistaiola, abituato a rimasticare ogni fenomeno mediatico attraverso la derisione parodistica presentata nel “numero” o nel “gag”, si confronta per la prima volta con il cinema dei grandi registi, quello che Vittorio Spinazzola chiama propriamente “superspettacolo d’autore”, giunto a fama internazionale grazie a La dolce vita di Federico Fellini e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Proprio questi film diventano una specie di Verbo in 14) Pescatore, G., La voce e il corpo, Campanotto, Udine 2001. 15) Cfr. Casetti F., Film genres, negotiation processes and communicative pact in La nascita dei generi cinematografici, Atti del V Convegno internazionale di studi sul cinema, a cura di Leonardo Quaresima, Alessandra Raengo e Laura Vichi, Udine, Forum, 1999.

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grado di dispiegare tutta la propria autorità, come ci mostrano le parodie girate subito a ridosso dell’uscita e del successo delle due pellicole. Ciò che sorprende non è tanto l’immediatezza – la velocità di esecuzione è una delle caratteristiche dell’avanspettacolo e della parodia, anche contemporanea –, quanto il luogo scelto per il confronto. Le parodie di cui parliamo sono Totò, Peppino… e la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci, Walter e i suoi cugini (1961) di Marino Girolami e Rocco e le sorelle (1961) di Giorgio C. Simonelli. Il primo film, che analizzeremo più a fondo nel quinto capitolo dedicato agli studi di caso, lancia la sfida intertestuale a Fellini, gli altri – con tutta evidenza – alludono al capolavoro viscontiano. In pratica, ad essere colpito in questi casi non è la “grande sintagmatica” del cinema classico o il singolo film che però nominalizza un genere pre-esistente, ad esempio Rascel Fifì, parodia di Rififi, ma in fondo nient’altro che Rascel alle prese col gangster movie, bensì una “parodia del cinema d’autore” e, ancora di più, “una parodia dell’autore”. Ma di quale autore si parla nella parodia anni Sessanta? Quello che Jeff Bell, ad esempio, individua nella figura della “funzione-regista” – traendola dal pensiero di Deleuze combinato con la “morte dell’autore” di sapore poststrutturalista –? Ovvero una figura che può essere ricondotta a una struttura di temi fondamentali (…) ma non deve essere identificata con tali modelli strutturali. (…) la funzione-regista non si identifica con una singola persona o soggetto, è senz’altro possibile che si manifesti in un film attraverso una pluralità di figure.16 Oppure alla uguale e contraria figura del regista che assume su di sé, anche nel paratesto, ogni responsabilità operativa nei confronti del testo? L’impressione è che questi film procedano a un sistematico confronto dai forti accenni polemici con le istanze di modernità cinematografica avanzate da Fellini,

16) Bell, J., “La funzione-regista. La teoria dell’autore e il post-strutturalismo”, in Boschi, A., Manzoli, G., a cura di, Oltre l’autore II, Fotogenia, n. 4, 1996, p. 85.

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Antonioni, Visconti e, in seguito Pasolini, ma anche con la modernizzazione dei costumi sociali che i film di questi autori rappresentano. Il principale bersaglio di Totò, Walter Chiari, Tiberio Murgia è costituito dalle grandi soggettivizzazioni – per usare un termine di Grande – intellettuali, da una parte, e dall’evoluzione del costume, dall’altra. Nella prima circostanza, è evidente che il rapporto che si instaura tra Totò e Fellini, o Chiari e Visconti, è un rapporto tra autori, ovvero tra personaggi che agiscono contemporaneamente nel testo e nel contesto e che rendono riconoscibile il proprio cinema. Non è un caso che un film come Walter e i suoi cugini inserisca direttamente nella narrazione il personaggio di un grande regista di nome Anselmoni, immerso nella nebbia milanese e intenzionato a trasportare su grande schermo il romanzo di quello “scrittore che dice tante parolacce”, meglio identificato dal successivo alludere a Diavolini, chiara satira dello stesso, “proletario” Pasolini: non si tratta, qui, di costruire solo la parodia del film di Visconti, ma di assorbire nel comico tutto il mondo – di cui si rifiuta l’appartenenza – del cinema d’autore italiano e della rappresentazione che esso dà della società contemporanea. Il tema della nebbia antonioniana, la Milano del fineboom di Visconti, la facilità dei costumi felliniani, e la notorietà ancora incipiente del giovane Pasolini – un intellettuale che “scrive parolacce”! – vengono riuniti in un unico orizzonte di riferimento parodistico. D’altra parte, non si può dire che la parodia cinematografica assuma sempre e comunque quelle caratteristiche di “trasgressione” che sono propensi a riconoscerle alcuni studiosi. Quando Dan Harries scrive che la parodia può produrre “una ricostruzione dei processi mentali e una re-immaginazione dell’ordine sociale”,17 afferma una teoria suggestiva e probabilmente valida nella maggior parte dei casi. La parodia italiana, al contrario, appare assai meno propensa a costruire questa sorta di antagonismo del significato, e preferisce semmai sfruttare parassitariamente l’alone di proibito che aleggia intorno ai loro ipotesti, per usare il termi17) Harries, D., op. cit., p. 154.

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ne di Genette. In poche parole, si ha la sensazione che siano i modelli – e non le parodie – a ricoprire un ruolo trasgressivo per il cinema italiano degli anni Sessanta. Non è detto, quindi, che il testo che costituisce il Canone debba per forza rappresentare il codice sclerotizzato da scompigliare con felice anarchia. I percorsi identitari del cinema parodistico di questi anni prevedono uno spettatore “di profondità”, esattamente come la distribuzione di questi film, che come si sa ha dato vita a una categoria chiamata appunto “genere di profondità”. Non è nostra intenzione limitare il successo di questi film ad aree provinciali, tanto è vero che come al solito il film di Totò ottiene un grande successo anche nelle città capozona, dalla solita Napoli al resto del Sud. Eppure, il funzionamento stesso dei racconti invita a considerare strategico il lavoro dei testi. Pensiamo, ad esempio, al già citato Walter e i suoi cugini. Il film comincia – come del resto gli altri due – con un arrivo dalla provincia: Chiari, nella parte di un pugile più simile al boxeur chapliniano che non a Renato Salvatori, si reca alla stazione di Milano per accogliere i cugini, perfetti sosia del protagonista. Uno di loro si sorprende di fronte alla scale mobili, indice di modernizzazione metropolitana. Tutti gli indizi della modernizzazione industriale vengono presi di mira, a cominciare dalla metropoli, spesso ripresa “en plein air”. Lo spunto viscontiano, che costituisce il tema su cui la parodia interviene, si decolora presto in un atto comico verso l’intero mondo della contemporaneità: in città si corre sempre, e i protagonisti sono costretti a una vera e propria gara podistica per mantenere i ritmi alienanti della vita di oggi; l’inserimento sociale è difficoltoso, tanto è vero che il personaggio di Nicola finisce a fare il becchino, e quello di Rosario il lavavetri. Vi è, inoltre, l’inserimento di gag ad equivoci originati dalla somiglianza dei tre. Insomma, Walter e i suoi cugini esprime una critica alla società moderna attraverso il film di Visconti, che pure ne ha costituito un controcanto tutt’altro che elogiativo. Le due critiche, però, non si assomigliano: Visconti “al contempo progressista e decadente, proprio in Rocco e i suoi fratelli prende atto dell’impossibilità di conciliare l’utopia del progresso con l’i-

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deale della bellezza”,18 Girolami e Chiari, invece, identificano anche il cinema d’autore all’interno di una logica di fronte alla quale la farsa, o la parodia, debbono perimetrare il proprio pubblico, ovvero il consumo previsto. Questo cinema, in definitiva, sembra candidarsi alla “difesa”, attraverso la derisione del cinema d’autore, del pubblico popolare, e al rigetto del riformismo cinematografico dettato dai grandi protagonisti/autori dei primi anni Sessanta. Non è un attacco proditorio, bensì l’ergersi di una recinzione, come a dire: abbiamo digerito ogni spinta esterna grazie alla grande macchina della parodia e della farsa, ce la faremo anche questa volta. Il che, sia chiaro, non esclude che queste parodie costituiscano a modo loro un atto d’amore verso il cinema che apparentemente ridicolizzano. Ma è più forte il sentimento di esclusione, e di ripiego sul pubblico che poi contribuiscono ad identificare in virtù delle strategie testuali e pragmatiche di cui abbiamo detto.

3 Il problema della commedia all’italiana Nel suo lungo e circostanziato saggio sulla commedia all’italiana, Maurizio Grande – che citeremo più volte in queste pagine – scrive che dovremmo pensare a questo macro-genere come a una “epopea comica del dopoguerra”, nella quale vivono generi e sottogeneri, e in cui si riconosce un certo modo di guardare all’Italia della Ricostruzione.19 In seguito, Grande affronta, sulla scorta delle categorie di Northorp Frye, il problema del destinatario, che interessa chiaramente anche la nostra trattazione. Secondo Grande, infatti: il pubblico della commedia non è solo il destinatore-destinatario di tematiche e intrecci largamente condivisi, ma interviene 18) Canova, G., “Visconti e le aporie anestetiche della modernità”, in Pravadelli, V., a cura di, Il cinema di Luchino Visconti, Bianco&Nero/Marsilio, Roma 2000, p. 185. 19) Grande, M., Abiti nuziali e biglietti di banca, Bulzoni, Roma 1986.

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anche come potenziale “compimento” delle sue strutture testuali; è parte integrante e “motore” delle dinamiche della commedia, così come è l’oggetto implicito delle sue tematiche, (…) una zona intermedia di confluenze fra elementi extratestuali, linguaggi e destinazione del testo che salda la società e la sua rappresentazione in un tutto simbolico solidale.20 Dunque, secondo Grande la commedia lavora all’interno di un crocevia di confluenze eterogenee, dove alla fine società e rappresentazione della società vengono percepite come un blocco simbolico concreto. Nessuna migliore immagine è stata mai pensata per la commedia all’italiana: essa è stata di volta in volta studiata – egregiamente, peraltro – dal punto di vista dei temi e delle figure o da quello dei protagonisti e degli autori;21 grazie a questa impostazione, invece, possiamo avvicinarci al funzionamento dei testi commedici in virtù del loro posizionamento fra le attese del destinatario e i materiali del discorso. Questo preambolo serve a chiarire che raramente si è messa in luce la differenza sostanziale tra commedia all’italiana e farsa; è vero che solo da pochi anni siamo abituati a studiare, anche nei luoghi della ricerca e della didattica, la commedia all’italiana attraverso le categorie riservate per solito al cinema ufficiale degli autori e delle scuole, tuttavia è sempre occorsa una differenza, anche di percezione, tra essa e il genere comico-farsesco-parodico. L’unico vero luogo discorsivo dove le pratiche si sono, almeno episodicamente, saldate è l’universo di Totò, che di volta in volta ha declinato la propria immagine in virtù di un maggior o minor impegno nei confronti della società rappresentata: non è un caso che Totò sia tra i pochi protagonisti di questo studio la cui carriera contenga incontri con registi della commedia all’italiana (Monicelli, Risi) e con autori (Rossellini, Pasolini). Totò, per usare una metafora ortopedica, è una specie di figura cartilaginea del nostro cinema, in grado di saldare – grazie 20) Grande, M., ivi, p. 57 e 59. 21) Gili, J.A., Arrivano i mostri, Cappelli, Bologna 1980; D’Amico, M., La commedia all’italiana, Mondadori, Milano 1985.

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all’autorità testuale comica che negli anni ha prodotto – ogni tipo di linguaggio “esterno” (rivista, avanspettacolo, Tv, cinema, avanguardia) e riconfigurarlo fluidamente nel proprio sistema testuale. L’ormai celebre “passaggio di testimone” di I soliti ignoti (1958) rischia di diventare un esempio troppo comodo per poterne fare a meno: tuttavia, proprio quel cammeo – giudicato metastoricamente un gesto di passaggio –, va probabilmente interpretato come perentoria affermazione di incomunicabilità tra due mondi. Gli appassionati ci ricordano che il film di Monicelli avrebbe dovuto intitolarsi Rufufù, richiamo parodistico al celebre Rififi di Dassin, grande successo di due anni prima. Mentre, però, il già ricordato Rascel Fifì di Guido Leoni, necessita del richiamo intertestuale poiché trasporta Rascel – attore da farsa e non da commedia – nell’ennesimo territorio incongruo del comico delle “sproporzioni”, I soliti ignoti preferisce un titolo autonomo, desidera cioè costruire un nuovo universo. È tutto qui, probabilmente, il motivo dominante che distingue commedia all’italiana e farsa: nel primo caso si fa riferimento a un orizzonte pragmatico e discorsivo che utilizza – come affermava Grande – società e sua rappresentazione in uno scambio negoziale che rimanda continuamente dall’uno all’altro, nel secondo c’è bisogno quasi sempre di ricorrere a una forma testuale già codificata, che nella parodia diventa intramediale, ovvero il cinema stesso. I soliti ignoti non viene, cioè, percepito semplicemente come la versione ribaltata del gangster movie americano e francese, bensì come un nuovo testo che, agli elementi parodistici soggiacenti, affianca un lavoro di modellizzazione inedita di personaggi, tipi, situazioni sociali. È di importanza capitale affermare questa identità della commedia all’italiana, che non significa, peraltro, disprezzare le teorie secondo cui la matrice culturale e narrativa trae origine dalla medesima tradizione teatrale. Scrive, per chiarire, Aldo Viganò: La più autentica radice della cinematografica commedia nazionale è, infatti, già tutta lì [nella commedia dell’arte]… Ma per giungere a una definizione chiara, e separare in modo inequivocabile la commedia vera e propria dalla farsa o dal

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comico tout court è stato necessario fare un altro passo: cioè muovere dall’ipotesi (con l’obiettivo di farla diventare un teorema) che la commedia cinematografica italiana sta al comico come il teatro di Goldoni sta alla Commedia dell’Arte.22 La commedia all’italiana può comunque assorbire gran parte del tessuto mediale che le sta intorno, e riesce in ogni caso a dialogare con diverse fonti, compreso il teatro d’intrattenimento o la società dei consumi. Vi è, però, una chiara riflessività sui mezzi rappresentati, in grado di separare nettamente, ad esempio, la sequenza della spiaggia di Il sorpasso (1962) dal filone ombrellonistico, o la presenza di una canzone da jukebox in La voglia matta (1961) di Luciano Salce da un film col Quartetto Cetra. Scrive Enrico Giacovelli: Ci sono commedie all’italiana senza spiagge, senza feste, senza balli, senza televisione; talvolta, c’è qualche commedia in cui l’automobile non ha un ruolo preponderante ed è un semplice mezzo di locomozione. Ma non ci sono, in pratica, commedie senza canzoni. A parte la loro presenza spesso determinante nella colonna sonora, le canzoni sono punto di riferimento fondamentali nella vita e nei discorsi dei personaggi; (…) la canzone della commedia all’italiana non è più quella dei film hollywoodiani o di certi film comici italiani (Totò e dintorni), dov’era numero, attrazione, intermezzo, e generalmente non aveva nulla a che fare con l’azione.23 Ciò vale, secondo noi, per tutte le espressioni della cultura del boom presenti in entrambe le forme di commedia: “oggetto” stesso della modernizzazione nella commedia all’italiana, elemento di palinsesto e di “numero” nella commedia farsesca. Bisogna, tuttavia, chiedersi se questa riflessione abbia valore soltanto per un periodo, oppure se sia applicabile a tutto il dopoguerra. Insomma, oltre alle famose due sinistre, esistono

22) Viganò, A., Commedia italiana in cento film, Le Mani, Genova 1995, p. 13. 23) Giacovelli, E., La commedia all’italiana, Gremese, Roma 1990, p. 168.

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in Italia – per sempre – anche due commedie? La risposta è difficile, ma è certo che la commedia erotica degli anni Settanta, e le derive anni Ottanta fino alla ricostruzione farsesca compiuta dal duo Boldi/De Sica si sono sempre dedicate a un progetto di più immediato consumo e di volgarità più esibita di tutte le propaggini della commedia all’italiana, siano esse individuate nel cinema di Salvatores, di Virzì o di Muccino. Se, come pensiamo, la farsa e la parodia sono espressioni narrative cui concorrono con pari importanza la presenza progettuale di registi o sceneggiatori e la forza comunicativa degli interpreti – ammettendo in questo senso che una cosa è la parodia di Totò, altra è quella con Tiberio Murgia –, dobbiamo dire che la nuova stirpe di attori nati negli anni Cinquanta e maturati come perfetti simboli dell’Italia industrializzata degli anni Sessanta non ammette confusione con il serbatoio del comico popolare. Da una parte Gassman, Mastroianni, Sordi, Manfredi, dall’altra Peppino De Filippo, Macario, i fratelli Carotenuto, Walter Chiari – che pure ha alcune occasioni con Risi, e soprattutto con Blasetti nel bellissimo Io, io, io… e gli altri (1966) –, Riva & Billi. Due sole, forse, le eccezioni: Ugo Tognazzi, che non si può dire coabiti i due mondi, casomai che è passato da uno all’altro, forse anche per la sua caratterizzazione borghese molto nitida e per la capacità di non ridursi ad artista dialettale. 24 E Aldo Fabrizi che, provenendo da un apprendistato più antico e assai nobile, ha dato vita a una figura comica ma bonaria con accenti patetici molto rilevanti buona per varie occasioni: dalla serie della famiglia Passaguai, da lui diretta – La famiglia Passaguai (1951), La famiglia Passaguai fa fortuna (1952), Papà diventa mamma (1954) –, a quella dei Quattro, in compagnia di Peppino, Macario e Nino Taranto, dagli incontri con Totò tra cui il celebre Guardie e ladri (1951) ai mescolamenti coi giovani volti della commedia, ad esempio Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) di Mauro Bolognini insieme a Sordi, per giungere infine al precoce testamento di C’eravamo tanto amati, vicino a Manfredi e 24) Bernardini, A., Fava, C.G., Ugo Tognazzi, Gremese, Roma 1985.

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Gassman, meta-commedia definitiva diretta nel 1974 da Ettore Scola. Del resto, come ricorda Gian Piero Brunetta: L’obiettivo primario per produttori e registi, in anni in cui il cinema italiano ricomincia ad affacciarsi sul mercato internazionale ed ha riconquistato il pubblico nazionale, non è quello di costruire un olimpo divistico di casa alternativo a quello hollywoodiano rischiando su degli sconosciuti, quanto di offrire a un gruppo di attori, di cui si avverte l’ingresso nella fase di piena maturità e consapevolezza delle proprie doti, una serie di occasioni all’altezza delle loro potenzialità.25 L’orientamento principalmente cinematografico dei nuovi mostri segue logiche conseguenti. Non a caso è proprio Tognazzi l’unico a provenire direttamente dall’avanspettacolo e, in seguito, dalla televisione, mentre molti degli altri hanno fatto gavetta nel grande teatro drammatico. Il gruppo di attori della commedia all’italiana diventa un modello sotterraneo per la farsa, un modello con cui confrontarsi in maniera non dissimile da quanto accade con il cinema d’autore o con i grandi successi internazionali. I “confronti diretti” sono pochi, ma solo perché è difficile giustificarli di fronte a un pubblico non abituato a distinguere sottilmente tra comico e comico.

4 Il circo intertestuale: western all’italiana, parodie e balletto dei generi Dopo la prima parte del decennio, il cinema italiano entra in una fase particolarmente “bulimica”, nella quale si producono decine di film che battono la bandiera di compagnie di co-produzione o nate giusto per finanziare una sola pellicola. Dal

25) Brunetta, G.P., Storia del cinema italiano - Dal miracolo economico agli anni Novanta. 1960-1993, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 142.

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1965 al 1968,26 ci troviamo di fronte a una paesaggio in continua fibrillazione, e a un sistema dei generi che, se all’apparenza sembra godere di enorme vivacità, in verità mostra tutta la sua inadeguatezza. La vera “expolitation” si sviluppa proprio in Italia. I generi più sfruttati sono il western all’italiana – assolutamente imbattibile quanto a prolificità –, l’ultima coda del peplum, lo spionistico di imitazione bondiana, il “mondo movie”, l’avventuroso, il fantascientifico, l’horror e altri piccoli affluenti. Interessa, in tale contesto, più l’intertestualità diffusa che non la geografia dei singoli generi. In verità, lo stesso trasferimento di maestranze da un genere all’altro, con il peplum come gigantesco serbatoio di esperienze future, non fa che enfatizzare il meccanismo di scambio esistente tra tutti i filoni. In verità, sembra che in questi anni sia all’opera una grande “falsificazione” dell’immaginario, dove generi di tradizione e soprattutto generi non autoctoni congiurano nel costruire uno spazio irreale – artigianale, certo – nel quale tutta la fantasia tenuta a freno dai “realismi” si sviluppi. Vi è poi, sempre, la forte impronta del neorealismo e della commedia in tutti questi prodotti, almeno nel peplum/western/avventuroso, che però sembra davvero scomparire nelle raffinatissime esecuzioni gotiche dell’horror o nei mondi “pop” della fantascienza nostrana. Inoltre, il dialogo con i sistemi rappresentativi e figurativi dei generi americani è anch’esso elemento forte di intertestualità, ovvero di quella forma di transtestualità che Genette chiama “architestualità”, il ricorso, cioè, a forme di genere o di categorizzazioni pre-esistenti al testo. Alle volte, nelle memorie d’epoca, si legge che il degrado dei modelli – sia pur foriero qua e là di nuovi archetipi cinematografici – ha il valore della “parodia” del cinema classico. Siamo sicuri, tuttavia, di poter usare così disinvoltamente il termine? Serge Daney considerava ad esempio Sergio Leone un grande manierista. Egli afferma, infatti: I manieristi sono coloro che hanno posto la propria firma sul 26) Canova, G., a cura di, Storia del cinema italiano. 1965-1969, Marsilio/Bianco&Nero, Roma 2002.

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divenire anamorfizzato di ciò che avevano intravisto i moderni. Ma prima di diventare un puro effetto del mercato, ‘l’effetto di firma’ (…) non risulta del tutto indolore. La firma è come un dettaglio che sostituisce l’insieme che non riesce a dimenticare. È questo il manierismo.27 Sempre Daney, citando senza soluzione di continuità nomi come quelli di Leone, Peckinpah, Melville, Argento e De Palma – sostiene inoltre: Melville è un grande manierista, e quello che lui fa con Hawks è quello che Leone faceva con Ford nello stesso momento. Cos’è un grande manierista? È qualcuno che lavora pazientemente a una certa anamorfosi e che conosce intimamente l’immagine, il viso da cui è partito. (…) Tuttavia, egli non rinuncia ancora del tutto al realismo.28 Dunque, il rapporto tra Leone e il western classico sembra davvero declinarsi attraverso elementi “anamorfici” piuttosto che di riconversione comica. L’analisi che dedicheremo a Per qualche dollaro in meno (1966) di Mario Mattoli dovrebbe chiarire piuttosto perentoriamente il carattere epico-eroico che comunque il western all’italiana mantiene in quegli anni. Spiega Claver Salizzato: Il nostro western standard non è la mera riproposizione, l’imitazione tout court e seriale di un modello. Anzi, esso stesso si propone, nell’arco della sua breve esistenza, come modello, per il mercato interno e quello internazionale, statuendo addirittura canoni e leggi ex novo cui si conformeranno persino oltreoceano (vedi Peckinpah su tutti, ma anche, più di recente, Eastwood). L’importanza e il rilievo che possono avere queste pellicole (…) non stanno nella riedizione in forma più moderna, riveduta e corretta, della vecchia, classica formula 27)Roger, P., “Il passatore (Intervista di Philippe Roger a Serge Daney)”, in S. Daney, Cinema Televisione Informazione, Edizioni e/o, Roma 1999. 28)Daney, S., op. cit., p. 95.

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fordiana, hawksiana, manniana, del westerner (…) bensì nella rappresentazione e messa in scena di un mito senza più alcun aggancio con la propria Storia.29 Ma qual è questo western “standard”? È quello leoniano, trascinatore di tutti gli altri, o piuttosto quello girato in fretta e furia per sfruttare l’effetto di mercato? O, ancora, quello politicizzato – Quien Sabe? (1966) di Damiano Damiani, Requiescant (1966) di Carlo Lizzani – che fa dire a Stefano Della Casa che “il western all’italiana è il genere sessantottino per eccellenza”?30 Probabilmente il western all’italiana va identificato con la sua accezione più ampia e famigliare, meno formulaica, quella del vero e proprio “consumo” vorace che avviene in questi anni. Più che un cinema degli autori, questo dei generi cinematografici, sembra essere un cinema della coproduzione europea che – meglio di qualunque strategia colta stile Besson o Wenders – ha rappresentato un’intera epoca e ha, lo ripetiamo, costituito un modello: tale modello, naturalmente, ha tratto origine dall’intuizione di alcuni autori, spesso è nato a ridosso di un successo estero, si è spinto fino ai limiti del “falso” cinematografico; ma ha poi superato il breve tratto di tempo vissuto per affermarsi come ipotesi estetica compiuta e articolata. Gianni Volpi scrive ad esempio: Manieristi, privi di radici […] sono prodotti funzionali perché capaci di fare spettacolo puro, astratto, quindi violento, destinati a masse indifferenziate di qualsiasi parte del mondo.31 Ecco che ritorna il “manierismo”, questa volta però in senso vagamente dispregiativo, inteso come pratica accumulatoria

29)Salizzato, C., “Un pugno di dollari per il western italiano”, Bianco&Nero, n. 3, 1997, p. 122. 30)Della Casa, S., “Un fenomeno complesso”, Bianco&Nero, cit., p. 7. 31)Gianni Volpi, “Il western italiano: come la copia divenne l’originale. E fu riprodotto all’infinito”, in Enrico Magrelli (a cura di), Sull’industria cinematografica italiana, Venezia, Marsilio, 1986, p.135.

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dell’imitazione più o meno ispirata, non gestita direttamente da autori dal consapevole progetto estetico. È innegabile, peraltro, che il panorama sia quello della coproduzione indistinta. Western, peplum e spionistico sono i generi prediletti all’estero, e di conseguenza favoriti per le coproduzioni. Facciamo un esempio a partire dai film usciti in Italia nel 1965. La produzione italiana compare nei seguenti film western: I gringos non perdonano (I/FR/RFT) di Albert Cardiff, Johnny West il mancino (I/FR/SP) di Gianfranco Parolini, I quattro inesorabili (I/FR) di Primo Zeglio, Per qualche dollaro in più (I/RFT/SP) di Sergio Leone, Mani di pistolero (I/SP) di Rafael R.Marchant, Un dollaro bucato (I/FR) di Kelvin Jackson Paget, I tre implacabili (I/SP) di J.R. Marchent, Sette pistole per i Mac Gregor (I/SP) di Frank Garfield, La notte del desperado (I/SP) di Silver Bem, L’uomo che viene da Canyon City (I/SP/RFT) di Alfonso Balcazar, Il ritorno di Ringo (I/SP) di Duccio Tessari, Cinque pistole per il Texas (I/SP) di Ignacio Iquino, Il ranch degli spietati (I/RFT/SP) di Robert M. White, Adios Gringo (I/FR/SP) di George Finley, La valle delle ombre rosse (I/RFT/SP) di Harald Reinl, La sfida degli implacabili (I/SP) di Ignacio Iquino, Sette ore di fuoco (I/RFT/SP) di J.R.Marchent, I due violenti (I/SP) di Anthony Greepy, I tre spietati (I/SP) di J.R.Marchent, Nebraska il pistolero (I/SP) di Antonio Roman. Abbiamo naturalmente lasciato il nome con cui il regista compariva sui cast&credits ufficiali dell’epoca, senza preoccuparci di sciogliere pseudonimi e sigle americaneggianti – in verità quasi tutte false.32 Ciò vale – sia chiaro – anche per altri generi, marcatamente l’avventuroso e il fantastico, oltre che per l’ultimo peplum. Ebbene, come già abbiamo avuto modo di sostenere,33 ci dobbiamo chiedere se esiste un linguaggio cinematografico europeo, tipico delle coproduzioni, che sfugge tanto alle politiche 32)Cfr. Bernardini, A., Filmografia delle comproduzioni italo-francesi 1947-1993, Rencontres du Cinéma Italien d’Annecy, Annecy 1993; Id., “Le collaborazioni internazionali del cinema europeo”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. L’Europa. 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi 1999; Catalogo Bolaffi del cinema italiano 1966/1975, a cura di Gianni Rondolino, Bolaffi Editore, Torino 1975. 33) Menarini, R., “Il fenomeno delle coproduzioni”, in Canova, G., a cura di, op. cit., 2002.

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d’autore quanto alle dinamiche strutturali dei generi cinematografici tradizionali. La nostra risposta è probabilmente affermativa. Il cinema italiano, in particolare, è anche il cinema delle coproduzioni: un cinema, se vogliamo, spersonalizzato, meticcio, difficilmente identificabile, che andrebbe però sottratto alle rotte storiografiche endogene per poter essere identificato con il massimo della precisione e della chiarezza. Si potrebbe, in fondo, anche cominciare a studiare il cinema italiano in senso formalista, metodo se si vuole privo di approdi certi che garantisce però una miglior articolazione della ricerca nel momento in cui ci si trova di fronte a fenomeni complessi come i film di questi anni: essi, infatti, ricorrono da una parte a una forte modellizzazione dei prodotti – si pensi nuovamente ai generi desunti: tardo western e spionistico internazionale –, e dall’altra vanno alla ricerca di un’identità, per cui non si contano sottofiloni o effimeri apax che non rientrano nella storia degli autori e neppure in quella dei movimenti. La lunga fase delle coproduzioni, che assume dimensioni accecanti proprio in questi anni, spinge la nostra osservazione al limite stesso delle frontiere del cinema italiano. Tutto sta nel decifrare la storia e i documenti che ci consegna. Del resto, proprio una delle prospettive dello studio della parodia – penso soprattutto alle trattazioni di Margaret Rose o Wes Gehring – è di analizzarne gli oggetti per comprendere le dinamiche degli orizzonti di lettura e i luoghi di scambio del sapere di un’epoca. Se pensiamo che il cinema parodistico italiano è il primo vero “western all’italiana”, ad esempio, comprendiamo al tempo stesso l’importanza di questa “convivenza” di spazi del racconto tra comico e tragico. Ma se crediamo, d’altra parte, che Franchi/Ingrassia e Sergio Leone abitino lo stesso pianeta, commettiamo un arbitrio: anche il western all’italiana è una forma d’autorità che la parodia cerca di far deflagrare. Già nel 1959, Mario Amendola gira Il terrore dell’Oklahoma con Maurizio Arena, Delia Scala e Mario Carotenuto. Questo film, come del resto Un dollaro di fifa (1960) di Giorgio C. Simonelli o Due contro tutti (1962) di Alberto De Martino, è una parodia del film western americano. Almeno fino al 1964, anno di uscita del leggendario Per un pugno di dollari, l’indu-

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stria continua a fare film farseschi su scenari falso-statunitensi, basti pensare a Gli eroi del west e ai Gemelli del Texas di Steno con Chiari e Vianello, entrambi del 1964, ma soprattutto a I magnifici Brutos nel west di Girolami, stesso anno, segno di completa acquisizione del western da parte della farsa avanspettacolare e televisiva italiana: il paese della Frontiera come luogo da carosello. È di pochi mesi dopo la parodia di Franchi e Ingrassia direttamente dedicata a Leone: Per un pugno nell’occhio (1964) di Michele Lupo è un film irresistibile che sminuisce con intelligenza tutto l’universo leoniano già scolpito nella roccia. Franco arriva persino a realizzare una corazza di sole lattine del pomodoro da tenere sotto al poncho e, come ricorda giustamente Marco Giusti,34 teorizza a un certo punto: “Quando un uomo col fucile incontra un uomo senza niente, quello senza niente è finito”. Franchi e Ingrassia, poi, alimentano il mito del western nostrano con parodie miste – I due figli di Ringo (1966), Ringo e Gringo contro tutti (1966), Due rrringos nel Texas (1966), Ciccio perdona…io no (1967), Due mafiosi nel far west (1968) – dove le allusioni alla trilogia del dollaro si affiancano a quelle delle altre serie, come Ringo appunto, o a strizzate d’occhio a film americani. Il confronto più serrato con Leone è, però, Il bello, il brutto, il cretino (1967) di Gianni Grimaldi, dove ogni elemento del modello viene sottoposto a spasmodica attenzione. Nel film sono presenti gag parodici dirette al racconto dell’ipotesto – pensiamo ai freeze-frame con cui vengono presentati Franco e Ciccio, con le scritte “Il Brutto” e “Il Cretino” –, gag stilistici – l’iperbole dei primi piani di Leone –, gag di inversione – l’attraversamento del deserto con Ciccio sul cavallo a soffrire la sete e Franco in vincoli, a piedi, che saltella allegramente –, o del tutto autonome, come l’esilarante sogno di Franco che, non riuscendo a ricordarsi il nome scritto sulla tomba, si fa prendere da un accesso di onirica ira. Quando il trio giunge al camposanto, luogo classico del cinema di Leone, scoprono

34) Giusti, M., Dizionario dei film italiani stracult, Sperling & Kupfer, Milano 1999.

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che tutte le tombe recano il nome “Smith”, colpo di scena comico che ironizza argutamente proprio sulla mitologia di riporto del western italiano, in cui nomi, luoghi, figure provengono da un indefinita tradizione mitologica coagulata intorno a stereotipi certi. Si tratta, quindi, di una parodia “interpretativa” di sicuro valore, nella quale – ad esempio la scazzottata del saloon o la tendenza a non morire mai da parte dei personaggi – si può intravedere anche un primo annuncio del “fagioli-western” di Terence Hill e Bud Spencer, nuova forma – non parodistica – di western per famiglie, tutto sganassoni e niente sangue. Non possiamo, dunque, definire il western all’italiana come una parodia del western americano. Forse lo possiamo chiamare “manierista” – se interessa a qualcuno –, ancora meglio lo possiamo definire – Hill/Spencer compresi – “eroicomico”, seguendo la categoria di Genette. Secondo lo studioso francese, infatti, opere come La secchia rapita del Tassoni (1615-17) o Rape of the Lock di Pope (1712-’14), non sono né parodistiche né burlesche, perché mantengono rudimentalmente un lavoro epico nel testo e si caratterizzano per un ricorso a una volgarizzazione del genere ma non a una sua distruzione comica, opere “consapevoli dell’inadeguatezza di ‘eroico’, ma poco disposto a definire semplicemente ‘burlesco’. 35 Secondo Genette, nel sistema classico, bisogna distinguere tra: la parodia, che consisteva nell’applicare il più letteralmente possibile uno specifico testo nobile a una (reale) azione bassa, che fosse assai diversa dall’azione di origine e che tuttavia presentasse analogie sufficienti da permettere questa operazione; il travestimento burlesco, che consisteva nel trascrivere in stile volgare un testo nobile conservandone l’azione e i personaggi con i loro nomi e qualità originali. La “disconvenienza” o discordanza stilistica veniva così a instaurarsi fra l’immutata nobiltà delle condizioni sociali (re, principi, eroi, ecc.) e la volgarità del racconto, dei discorsi tenuti e dei particolari tematici utilizzati nell’uno e negli altri; 35) Genette, G., op. cit., p. 58.

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il poema eroicomico, che consisteva nel trattare in stile nobile un soggetto basso applicando inopportunamente lo stile eroico in generale, senza cioè uno specifico riferimento a questo o quel particolare testo nobile. Ci sembra, in definitiva, che Genette possa aiutarci a chiarire la distinzione tra lavoro commedico del western all’italiana e processo di inversione e appropriazione della parodia – che pure non riduciamo al raggio d’azione, in verità assai limitato, che Genette le concede.

5 La batracomiomachia: per una politique des auteurs et des acteurs Tra le forme di eroicomico, in verità, Genette inserisce anche la Batrachomyomachia, celebre poemetto di caricatura omerica – in un primo tempo attribuito persino allo stesso Omero –, che sembra a noi perfetto per una definizione della parodia. Si tratta, infatti, di una Iliade completamente capovolta dove al posto degli eroi in carne ed ossa, troviamo animali e insetti: i Troiani sono le rane, i Greci sono i topi, e così via. Il ruolo del poema sembra rispondere alle esigenze dell’eroicomico, ma la sua brevità – 293 versi – fa sì che somigli assai di più a una parodia, sempre che accettiamo l’idea che l’eroicomico, sia pure in vesti volgari, sia capace di sorreggere una contro-epica anche articolata. Ebbene, se la Batrachomyomachia è diventata poi un luogo comune della narrativa per l’infanzia – più o meno esplicitamente citata –, tanto che ancora nel 1998 se ne girano versioni cinematografiche non dichiarate come Z la formica o A Bug’s Life, a noi questo titolo serve soprattutto per indicare quella battaglia delle idee comiche che la parodia e la farsa sviluppano in totale autonomia negli anni Sessanta. Di qui, potremmo immaginare un mondo anti-epico popolato da figure che non sempre finiscono negli annali, se si fa salva una certa riscoperta recente, frutto del sempre più espanso campo degli studi filologici e accademici sul cinema italiano. La nostra personale Batrachomyomachia è, in fondo, un modo per

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osare una piccola politique des auteurs parodistici, che non può fare a meno della conseguente politique des acteurs “di profondità”, interpreti senza i quali questo stesso universo non si potrebbe reggere. C’è, tuttavia, un altro ricordo della Batrachomyomachia in un film esemplare di questi anni, che accoglie decine di protagonisti del periodo e reca un titolo che è tutto un programma: Il giorno più corto (1963) di Sergio Corbucci. In questo – certo non indimenticabile – film-farsa, la parodia è evidentemente centrata su Il giorno più lungo (1962), enorme sforzo economico della Hollywood in crisi dei primi anni Sessanta, pieno di divi e stelle chiamati a celebrare contemporaneamente la storia dell’intervento americano nella II Guerra Mondiale e la potenza dello spettacolo americano. Eppure, il film di Corbucci sembra più che altro davvero Il giorno più lungo degli attori comici italiani, la parata di un cinema ormai autosufficiente che non ha nulla a che fare né con il cinema d’autore, né con la commedia all’italiana, né con la cosiddetta nouvelle vague nostrana, né con i film “rosa” di De Sica e Comencini. Il giorno più corto ha per protagonisti principali Franco e Ciccio, e Walter Chiari, ma può vantare la presenza, anche in un solo cammeo, di: Nino Taranto, Totò, Luciano Salce, Ugo Tognazzi, Peppino De Filippo, Carlo Pisacane, Gino Buzzanca, Paolo Stoppa, Vittorio Caprioli, Franca Valeri, Aldo Fabrizi, Tiberio Murgia, Macario, Paolo Panelli, Memmo Carotenuto e molti altri, per tacere di star come Jean-Paul Belmondo – con due immagini chiaramente interpolate da un’altra pellicola –, Virna Lisi, Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Anouk Aimée, Annie Girardot e Stewart Granger, solo per citare i più noti. Il film mette in fila 88 volti del cinema italiano di area comica, cioè il doppio dei 44 previsti dall’originale di Ken Annakin. L’orizzonte è quello della parodia dell’Iliade, con la differenza che il modello prescelto non ha l’autorità necessaria a reggere il confronto. Paradossalmente, è l’ipotesto ad essere troppo secondario, mentre l’ipertesto ha l’occasione per mostrare una sorta di sistema solare produttivo e comunicativo. Il film pone sullo stesso asse semantico le performance dei singoli, la parodia del genere bellico, la parodia del modello, e il cinema-

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rivista, tanto è vero che una delle sequenze più lunghe del film – altrimenti strutturato come una serie di sketch piuttosto banali – è sostenuta dallo spettacolo comico di varietà messo in piedi per le truppe in battaglia. Si tratta di un perfetto “specchiamento” teorico nel quale i comici fanno il verso, parodizzano, i più alti in grado mettendo in scena metalinguisticamente il senso stesso di un’opera come Il giorno più corto. Da questo centro programmatico, è possibile dunque far partire una semiseria ricognizione delle “poetiche” di autore e attori. Pensiamo, per esempio, a Steno,36 capace di dirigere numerose parodie negli anni Sessanta, prontissimo a cogliere le potenzialità comiche di film di successo internazionale fin nei minimi dettagli interpretativi: rilavorare il tema già pronto del travestimento in A noi piace freddo…! (1960)37 o riconvertire alla farsa quello del doppio di Hitchcock nell’ottimo Psycosissimo (1961) – cui dedichiamo spazio in sede di analisi – oppure dedicarsi alle grandi tradizioni orrorifiche: Tempi duri per i vampiri (1958), Un mostro… e mezzo (1959). Pensiamo, altresì, a Mario Mattoli, ormai alla fine della propria carriera, ma intenzionato a girare parodie di un certo livello, abituato come abbiamo visto al lavoro con Macario e Totò: nel 1961 gira, ad esempio, l’interessante Maciste contro Ercole nella valle dei guai, con Vianello e Carotenuto, che molti indicano giustamente come parodia del genere peplum, dimenticando però che lo spunto narrativo di partenza allude a L’uomo che visse nel futuro (1960) di George Pal, uscito da poco; in questa avventura capovolta, i due protagonisti finiscono su una macchina del tempo che li trasporta per errore in un passato romano-mitologico che riassume un po’ tutta la disinvoltura storiografica della Hollywood sul Tevere e degli epigoni nostrani. Mattoli è autore anche di Per qualche dollaro in meno (1966), suo ultimo film, esemplare parodia in cui ad essere esaltato è il confronto tra Buzzanca/Eastwood e Vianello/Van Cleef. Il più prolifico e specializzato, in questi anni, è senza dubbio 36) Cfr. Ventavoli, B., Al diavolo la celebrità - Steno dal “Marc’Aurelio” alla televisione, Lindau, Torino 1999. 37) Esiste anche un A qualcuna piace calvo di Mario Amendola, dello stesso anno.

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Marino Girolami, figura-chiave del cinema italiano più popolare: diplomato al CSC, allievo di Bonnard e Soldati, collaboratore di vari registi e sceneggiatori negli anni Cinquanta, poi sagace confezionatore di film uno dopo l’altro, capace per di più di traghettare – nel bene e nel male – la farsa anni Sessanta nel più spietato sistema d’attrazione degli anni Settanta, desideroso di commedia erotica e bassi istinti. Attraverso Girolami, si può riassumere una intera parabola del cinema “volgare” italiano, come passare dal gradevole Il mio amico Jekyll (1960) a Decameron proibitissimo… Boccaccio mio statte zitto (1972) e Kakkientruppen (1977). Il mio amico Jekyll, invece, è una parodia di Jekyll/Hyde ma anche una ripresa dell’archetipo di Frankenstein: Vianello vi interpreta uno scienziato pazzo che inventa un macchinario prodigioso in grado di “trasferire” la mente di un uomo nel corpo di un altro. Brutto e indesiderabile, egli decide di sfruttare il volto piacente del morigerato Tognazzi per insidiare le ragazzine che gli girano intorno, dando vita a una serie di prevedibili equivoci. Di Girolami abbiamo già citato anche Walter e i suoi cugini (1961), ma bisognerebbe ricordare – tra i tantissimi altri – almeno Due rrringos nel Texas (1966). Ci sono poi Sergio Corbucci e Fernando Cerchio, Lucio Fulci e Marcello Ciorciolini, Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi, tutti alle prese con lo sfruttamento intensivo dei film più famosi. C’è da dire che, se davvero la parodia è un indice di negoziazione “attraverso” il film preso a modello, allora appare chiara la parabola del cinema italiano. A parte i Fellini, Visconti, Germi, Lattuada di cui abbiamo detto, non c’è quasi più traccia di film-ipotesti italiani, salvo il sistema dei generi, come insegna Leone. Man mano che si entra nella seconda e nell’ultima parte del decennio, i bersagli scadono: Arriva Dorellik (1968) di Steno dovrebbe inseguire persino Diabolik (1967) di Mario Bava, Indovina chi viene a merenda (1968) di Ciorciolini mescola diverse parodie dedicate alcune al film di Kramer, alcune a La grande fuga (1967) di John Sturges. Discorso a parte merita il filone spionistico. In questo caso, l’imitazione “eroicomica” traballa perché il modello architestuale è assai più circoscritto: la serie di James Bond. I vari Agente

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077 o Agente segreto 777 puntavano alla solita “falsificazione” alla buona delle spy-story, mentre le parodie giungevano contemporaneamente al filone italiano: pensiamo alla serie James Tont con Buzzanca e a quella degli 002 con Franchi e Ingrassia. Scrivono Cappi e Dell’Orto: Gli imitatori di Bond non avevano molte possibilità di superare gli originali, ristretti in tempi frettolosi, budget limitati, sceneggiature improvvisate ed effetti speciali inesistenti. Questo impedì che il filone creasse qualche opera veramente memorabile, come era accaduto con il western (…). Tuttavia, alcuni spy movies a basso costo riuscirono ad anticipare alcune gag che 007 avrebbe scoperto solo più avanti, dalle racchette-pistola all’inseguimento sciistico.38 Quando si cominciano, però, a girare film come O.K. Connery (1967) di Alberto De Martino, in cui il protagonista è Neil Connery, figlio di Sean, nella parte di se stesso, affiancato dalla ex-Bond girl, la bellissima Daniela Bianchi, o come Un dollaro per sette vigliacchi (1967) di Giorgio Gentili, spionistico-comico, non si capisce più nettamente la differenza tra imitatori e parodisti. È il segno chiaro di una deriva intertestuale che mostra un solo profilo: quello del rilancio confuso e infinito. Hanno meno successo i modelli, sempre più rare sono le parodie che incassano denaro. Tutti i film citati non giungono tra i primi cinquanta incassi italiani riportati dalla Borsa-Film, fra il 1966 e il 1970. Nel 1969, intanto, compare una fiacca parodia di I quattro dell’Ave Maria (1968) di Giuseppe Colizzi, intitolata I quattro del Pater Noster, diretta da Ruggero Deodato. Ebbene, i quattro protagonisti sono Paolo Villaggio, Oreste Lionello, Enrico Montesano e Lino Toffolo. Una nuova generazione di attori sta per sostituire quella degli anni Sessanta. Secondo noi, è probabile che questo film, del tutto privo di interesse, possa 38) Cappi, A.C., Coffrini Dell’Orto, E., Mondo Bond, Punto Zero, Bologna 1999, pp. 7576. Cfr. anche Giovannini, F., Guida completa a James Bond, ElleU/Falsopiano, Roma 2000.

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però comodamente servirci da spartiacque per un decennio che si conclude con un orizzonte circense dentro il quale si è di fronte a una sorta di farsa generalizzata e di Falso dentro il Falso, nel quale i falsari perdono ingegno e acume. La politique des acteurs, allora, sembra la più consona per studiare l’evoluzione del cinema italiano, sia comico che serio. Per farlo, bisogna interrogare i destini del più grande interprete del dopoguerra, ora in declino, Totò, e dei due nuovi indiscussi leader del cinema parodistico, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

6 Totò contro Franchi e Ingrassia nei favolosi anni Sessanta Scrive Vittorio Spinazzola nell’ultimo capitolo del suo studio sul pubblico del cinema italiano: Il dato che colpisce, per primo, nel panorama stagionale [1964-65, nda] è la presenza massiccia del duo Franchi/Ingrassia, che accaparra il sesto, settimo, ottavo e undicesimo posto. (…) C’è comunque un fattore che accomuna quasi tutte le pellicole a grande incasso del 1964-65: esse sono o dedicate a un personaggio fortemente caratterizzato o impostate sulle misure di un divo dalla fisionomia ben definita: di qui Ringo e Angelica, di là Sofia Loren, Tognazzi, Franchi-Ingrassia, ecc.39 Il capitolo si intitola “La fine dell’alleanza tra produttori e registi” e racconta il declino di quell’irripetibile alleanza tra ricerca della qualità e successo di pubblico che aveva caratterizzato il cinema italiano della prima parte del decennio e che aveva, probabilmente, esaltato anche le doti di quel mondo “di sotto” rappresentato dall’universo del genere farsesco, con tutti i suoi registi, sceneggiatori, interpreti. In queste pagine, però, abbiamo trascurato il protagonista principale della parodia italiana, 39) Spinazzola, V., op. cit., p. 340.

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Totò, di cui abbiamo già analizzato le caratteristiche farsesche nel precedente capitolo. È opinione diffusa che il cinema di Totò, entrando negli anni Sessanta, conosca un deciso logoramento. Le cause, abbastanza note, vengono di solito ricercate nella stanchezza dell’attore, nel tramonto di un certo tipo di intrattenimento, nella concorrenza dei nuovi mostri della commedia all’italiana, più adatti a interpretare con cattiveria e grinta il proprio tempo. Così si spiega, probabilmente, perché Totò venga lentamente risucchiato proprio nel cinema di “profondità” che sicuramente in precedenza gli apparteneva solo in parte, occupando anche spazi rilevanti della distribuzione delle grandi città. La parodia, che ci conferma sempre più “il” meta-genere degli anni Sessanta – forse “il” genere comico di questo periodo – diventa una necessità anche per l’attore napoletano. Secondo Alberto Anile: Negli anni ’60 la rivista e i suoi meccanismi parodici non sono più pratica corrente ed il cinema fa il verso solo a se stesso, è diventato autoreferenziale. Il contesto (il riferimento distorto a una pellicola famosa, al filone di successo, a volte al noto episodio di cronaca) si impone stavolta sulla trama; se Tototarzan o Totò sceicco funzionavano egregiamente anche al di là del comico contrasto col film di riferimento, nelle parodie degli anni ’60 il modello, pur sbertucciato, rimane sovrastante ed è Totò a sottomettersi, a rendergli in qualche modo omaggio.40 Ciò che scrive Anile è sicuramente vero, anche se forse bisogna interrogarsi proprio sulla scelta delle fonti. L’impressione, in buona sostanza, è che Totò in precedenza negoziasse con lo spettatore attraverso “repertori” già stratificati – come il film in costume, il film di pirati, il film peplum, il film esotico, ecc. – e ora invece riduca la portata del lavoro intertestuale alla parodia di singole opere. Alcune di queste, peraltro, offrono ancora risultati eccellenti, come Totò Diabolicus (1962) di Steno, sfrenata parodia d’orrore frutto dell’intelligenza analitica del 40) Anile, A., op. cit. p. 328.

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regista più che delle improvvisazioni di un Totò perfettamente integrato al progetto.41 Altre, come i famigerati Totò di notte (1962) e Totò sexy (1962/63), entrambi di Mario Amendola, sono parodie abborracciate senza nemmeno un bersaglio fisso, atte a sfruttare la moda del momento o persino, come in questi casi, a comporre film con due o tre gag e molte sequenze documentarie di spogliarelli o anonimi balletti. In questi anni, del resto, il mondo movie si comincia a dividere tra documentari d’autore dedicati alla vita notturna delle città europee o extraeuropee, ed efferati reportage, ora veri ora falsi, su atrocità commesse in giro per il globo.42 Le implicazioni teoriche – oltre che naturalmente morali e filosofiche – di un cinema in bilico sul codice penale, sono state ampiamente commentate a suo tempo da Enzo Ungari: L’esistenza di film come questi [Ultime grida dalla Savana, nda] non fa altro che illuminare una funzione più generale che il cinema svolge nell’ambito della società dello spettacolo, una funzione magico-riproduttiva che si inventa, di volta in volta, dei tabù al solo scopo di abbatterli.43 Tuttavia, pochi hanno notato che il documentario esoticoshock mostra un’ulteriore, degradata forma di spettacolo di varietà, con tanto di numeri, episodi, sketch. Si tratta di vere e proprie “attrazioni” spettacolari, in cui il tabù e il proibito viene organizzato narrativamente secondo un programma in stile rivista, solo dai contenuti assai differenti. Che Totò abbia costeggiato la prima emergenza di questo filone – in verità la più nobile, se pensiamo che il modello di riferimento erano Europa di notte (1958) e Io amo tu ami… (1961) di Alessandro Blasetti, “inventore” del genere – 44 non deve sorprendere più 41) Cfr. Ventavoli, B., op. cit., pp. 51-56. 42) Bruschini, A., Tentori, A., Nudi e crudeli. I mondo movies italiani, Punto Zero, Bologna 2000. 43) Ungari, E., Immagine del disastro. Cinema, shock e tabù, Arcana Editrice, Roma 1975, p. 9. 44) Tosi, V., “Piccoli film da non dimenticare”, in Masi, S., Alessandro Blasetti, cit., pp. 179-197.

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di tanto: si trattava, assai prima della deriva cui abbiamo accennato, di un tentativo di apparentamento con nuove forme di spettacolo cinematografico desunte dall’ultima attrazione del teatro popolare: il night club, il can can erotico, il locale licenzioso. È, d’altro canto, anche il periodo della riscoperta autoriale di Totò. Scrive Orio Caldiron: Nell’ultimo decennio della feconda operosità dell’attore le cose cambiano, anche se in genere i critici non si smuovono dal loro “fin de non recevoir”. Negli ultimi anni, in quelli che hanno immediatamente seguito la sua morte ma anche in quelli che l’hanno immediatamente preceduta, il rimpianto per la dissipazione di un enorme talento naturale, “la grande occasione mancata del cinema italiano” (Giovanni Grazzini), si è solitamente accompagnato alla soddisfazione per il parziale risarcimento che sembravano rappresentare le più recenti apparizioni [Monicelli, Lattuada, Pasolini].45 L’ultima concausa del lento tramonto del cinema di Totò è impersonata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, per molto tempo indicati come suoi eredi, ma la cui memoria nella contemporaneità è legata soprattutto alle pellicole più volgari degli anni Settanta. Con il tempo, anche il cinema di Franco e Ciccio è stato valutato con attenzione.46 Secondo molti, i due comici rappresentano l’ultimo grande esempio di tradizione dell’avanspettacolo prestata al cinema, e ancora in grado di costruire quel filo diretto con il pubblico che rappresenta, anche enunciativamente, un “patto” comunicativo assai poco studiato. Scrive infatti Goffredo Fofi: In Ciccio e Franco il pubblico dei poveri trova ancora la muffa di un pane circense che fa suo, l’eco di un divertimento che gli appartenne. L’eco dell’avanspettacolo, appunto, delle cui tre 45) Caldiron, O., Totò, cit., p. 19. 46) Castellano, A., Nucci, V., Vita e spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Liguori, Napoli 1982.

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caratteristiche: cosce, satira, volgarità, la prima è stata assorbita da Men e Menelik, la seconda è stata ovunque appiattita dal laidume perbenista democristiano, la terza deviata dalla “commedia di costume” a livelli piccolo-borghesi. In Ciccio e Franco le cosce contano poco, la satira è rarissima (…). Resta la volgarità ed è qui l’essenza del loro comico e forse del loro successo.47 Non è vero, peraltro, che Franchi e Ingrassia snobbino altri mezzi di comunicazione più attraenti per il pubblico “orizzontale” come la televisione. Anzi, la loro carriera su piccolo schermo si sviluppa parallelamente – ma di gran lunga meno abbondante – a quella cinematografica, entrambe prendendo le mosse dal 1960. I vari Studio due e Canzonissima li ospitano alcune volte, I due ragazzi incorreggibili nel 1976 li vede persino conduttori, ma è probabilmente la partecipazione a due grandi film per la TV, Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini e Kaos (1984) dei fratelli Taviani (episodio “La giara”), a destare scalpore, una delle tante “nobilitazioni” cui i grandi comici vanno incontro di tanto in tanto senza mai uscire veramente dal proprio alveo tradizionale. Inutile qui ricordare vita e prime esperienze teatrali di Franco e Ciccio, basta scorrere l’elenco dei loro film per accorgersi che la parodia è stata assai più che un “genere” di adozione da parte di due attori comici, bensì il linguaggio stesso utilizzato per produrre gag. Fino a qui, abbiamo incontrato interpreti in grado di trasferire una comicità di corpo o di parola all’interno del sistema parodico, alle volte colpendo solo ciò che altri testi rappresentavano, altre volte la società cui facevano riferimento. Franco e Ciccio sono già postmoderni, direbbe qualcuno, poiché attraversano il cinema nel momento della sua definitiva autoreferenzialità. Se la prima parte degli anni Sessanta in Italia è l’ultimo momento, d’accordo con Spinazzola, in cui produttori e registi sembrano intenzionati alla ricerca estetica,

47) Fofi, G., “Ombre rosse”, n. 2, 1973, ora in de Matteis, S., Follie del varietà, Feltrinelli, Milano 1980.

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allora dalla metà degli anni Sessanta in poi si può dire che il cinema – assediato ormai dalla televisione che erode consumi ogni giorni di più –, assume caratteristiche marcatamente intertestuali e allenta il contatto con le realtà (codificate) di stampo sociale e civile: L’hanno chirurgicamente sezionata [la parodia, nda] e sviscerata in tutte le sue componenti, estraendone tutti gli appigli necessari allo sfruttamento dei meccanismi loro consoni; e, se è assunta come espediente ideale per filtrare satire o “messaggi”, non ne diventano però prigionieri col rischio di imbrigliare o comunque ridurre la propria libertà. Prova ne è che la parodia non si esaurisce in quella dichiarata ma si dilata per insinuarsi tra le pieghe della storia e della cronaca.48 Per dare un’idea del grado di riflessività con cui Franco e Ciccio, talvolta intuitivamente, fanno uso della narrazione cinematografica bisogna citare film come Due mafiosi nel west, parodia del western cine-fumettistico, in cui i due comici si scontrano con l’intero pantheon della mitologia del selvaggio Ovest: da Calamity Jane ai fratelli James finendo implicati persino nell’O.K. Corral, in un appiattimento geniale e anti-storico che si affianca all’altrettanto autoreferenziale West di Sergio Leone, di cui abbiamo detto. Nel corso della trattazione, ci è capitato di citare pressoché tutti i loro film degli anni Sessanta: essi parodizzano davvero tutto, dai generi (gangsteristico, bellico, spionistico, sentimentale) ai singoli film (Paolo il freddo, Satiricosissimo, ecc.). Alcune volte, come detto, Franco e Ciccio hanno incontrato gli Autori, sia in televisione che al cinema, dove Che cosa sono le nuvole (1967, episodio di Capriccio all’italiana) costituisce l’occasione per farsi dirigere da Pier Paolo Pasolini e lavorare con Totò, loro che hanno potuto fare un film anche col vecchio Buster Keaton – Due marines e un generale (1966) di Luigi Scattini. Che cosa sono le nuvole, inoltre, è un film che solo apparentemente non interessa il nostro saggio.

48) Castellano, A., Nucci, V., op. cit., p. 38.

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La vicenda degli uomini-burattini “agìti” nella rappresentazione di un Otello il cui triangolo d’amore è composto da Totò (Jago), Ninetto Davoli (Otello), e Laura Betti (Desdemona), ridotti ai loro essenziali “segni” morfologici di clown irrigiditi, faceva scrivere a Adelio Ferrero: Impossibile come tragedia, l’azione drammatica si risolve nella parodia, nel gioco estetizzante e allucinatorio (“noi siamo in un sogno dentro a un sogno”, spiega il rassegnato Totò allo smarrito Ninetto), contaminato da qualche ambiguo spunto pirandelliano. (…) Ma il gioco, rimbalzando su quel pubblico assorto e trepidante, ridiventa inopinatamente tragedia, riscoperta dei “grandi” sentimenti (amore, odio, giustizia), ingenua riparazione sacralizzante (la “rivolta” degli spettatori e l’uccisione di Otello-Ninetto e Jago-Totò).49 L’anno successivo, i due girano il film che per tanto tempo avevano inseguito, Don Chisciotte e Sancho Panza di Gianni Grimaldi, opera che sembra destinata alla trasposizione francoingrassiana non tanto in virtù dell’aspetto e della capacità di trasformarsi del duo, quanto perché adattare il capolavoro di Cervantes significa andare alle fonti stesse della parodia. Anche negli anni Settanta, Franchi e Ingrassia girano molte pellicole. Nel 1970, ad esempio, interpretano ben dieci film, ma poco tempo dopo cominciano dissapori e “tradimenti”, ovvero film girati da soli. Il figlioccio del padrino (1973) di Mariano Laurenti, ad esempio, è il primo con il solo Franchi e rivaleggia con L’altra faccia del padrino, ulteriore parodia di Coppola, questa volta col grande Alighiero Noschese nei panni del boss altrove interpretato da Marlon Brando. Questa divisione, peraltro non definitiva, dà vita poi a un’altra serie di parodie dalle differenti caratteristiche. Quasi per caso, però, Franchi e Ingrassia, separatamente, finiscono col girare i film più personali e intelligenti. Non è più una provocazione, ormai da lungo tempo, quella di definire Ultimo tango a Zagarol (1973) di

49) Ferrero, A., Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1998 (1977), p. 94.

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Nando Cicero con Franchi un’opera non molto inferiore all’originale. Anche questa è parodia “dell’autore”: niente di meglio, come abbiamo già avuto modo di sostenere, del cinema moderno di quegli anni, con scandali ed erotismo artistico, per attaccare la volgarità nobilitata del modello. Attraversato da una malinconia senza fine, persino contemplativo nella testardaggine con cui mette in scena squallore e degrado, Ultimo tango a Zagarol è probabilmente il film del duo più amato dai cinefili. Valerio Caprara scrive acutamente: Compresi la grandezza di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia quando Ultimo tango a Zagarol distrusse la memoria contenutistico-formale del modello bertolucciano. Di fronte ai soliloqui sinstresi del vanesio innamorato della revoluciòn, la coerenza snaturata e cocciuta del Superguitto appariva in una luce abbagliante di misteriosa potenza. Il film è esilarante, ma anche astuto sino alla saggezza “assoluta”: raggiunge – per cammini contorti – il Sublime, come certi santi grulli. Ultimo tango a Zagarol è la più bella epigrafe apposta sul sarcofago del cinema italiano, visto che l’attore protagonista riesce a sfuggire ai condizionamenti mortiferi della “nuova cultura”, grazie ad una genuina, volgare e corrosiva vis comica.50 Franchi e Ingrassia tornano insieme nel 1974 per Farfallon, parodia di Papillon, tenuta in gran conto dagli specialisti.51 Ma è con L’esorciccio (1975) che Ciccio Ingrassia, qui anche in veste di regista, si prende la rivincita su Franchi. Grande esempio di parodia “di provincia” – la scena della possessione è trasportata dalla metropoli post-Vietnam americana alla campagna post-nulla italiana -, L’esorciccio stupisce per l’attenzione che riserva alla degradazione del modello, raggiungendo apici di mostruosità antitetica a quella messa in scena da Friedkin con la figura di Salvatore Baccaro – attore/mostro circense del cinema trash del periodo – che compare nei panni di Satana, 50) Caprara, V., “Ultimo tango a Zagarol”, in Castellano, A., Nucci, V., op. cit., p. 130. 51) Cfr. Esposito, R., “Piccola storia della parodia nel cinema italiano. Parte seconda: dal 1969 a oggi”, Amarcord, n. 4, settembre-ottobre 1996.

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risolvendo tutto a pugni in faccia. La scelta dell’Esorcista, probabilmente, risultava obbligata visto l’enorme scalpore destato dalla pellicola, tanto più che Franco e Ciccio, insieme, non avevano mai girato una parodia dell’orrore, cosa di cui in parecchie interviste Ingrassia si era lamentato. Ecco l’occasione giusta. Recentemente, Giacomo Manzoli, nel rievocare il film, ha giustamente interpretato le opere singole dei due comici come un canto del cigno: Allo stesso modo [di Ultimo tango a Zagarol, nda], la perfezione dell’L’esorciccio e la sua capacità di schiacciare il modello si deve forse anche al tono di “fine ciclo” che ammanta di mestizia l’intero film di Friedkin. Non che l’horror finisca con L’esorcista, come il cinema d’autore non finisce con il tango di Bertolucci. Tuttavia entrambi, a modo loro, sono film talmente calati nel proprio tempo (crisi della coppia e messa in scena di contestazioni studentesche sono il formidabile corollario del demone friedkiniano…) da essere al contempo datati e universali. Non a caso entrambi entrano nel ristrettissimo novero di film che hanno disturbato per la brutale trasparenza i contemporanei e non a caso rientrano nel ristrettissimo numero di film che hanno avuto una seconda uscita in sala, parecchi anni dopo quella ufficiale.52 Ancora una volta la parodia svela qualcosa del cinema che ridicolizza e dei sistemi di ricezione di un’epoca. Franchi e Ingrassia, nel loro momento paradossale di maturità e insieme di declino inarrestabile, sanciscono con un sentimento di conclusiva necessità, un’epoca della “fine” dopo la quale – così sembra davvero – i film cambiano, come forse i costumi.

52) Manzoli, G., “Diavolo per ridere”, Cineforum, n. 411, gennaio/febbraio 2001, p. 11.

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1 Anni Settanta: parodia dell’erotismo, erotismo della parodia Come si sa, i processi storici non sono mai così lineari quanto si desidererebbe. Per cui non è possibile parlare di un netto mutamento dell’orizzonte cinematografico a partire dal 1970, visto che segnali di crisi incipiente, per il cinema italiano, esistono già dalla fine del decennio precedente, e che alcune fasi di grande depressione produttiva ed estetica attendono ancora alcuni anni per mostrare la propria gravità. Il fenomeno dalle dimensioni più ampie, e dall’influenza più marcata, è senza dubbio quello della commedia erotica. Si tratta di un evidente degrado – da qualunque parte la si voglia vedere – delle forme comicheggianti italiane, mescolate senza troppe riflessioni ad un erotismo frustrante, fatto di uomini che spiano donne nude, topless e poco altro. Quasi tutti i film di questi anni, in fondo, finiscono col mostrare ben poco di ciò cui alludono continuamente, eppure la presenza del sesso e del desiderio maschile – questi film prevedono un orientamento di punto di vista molto preciso –, è pervasiva. Scrive Enrico Giacovelli: La collocazione delle commedie erotiche in una storia del cinema comico è discutibile: nessuno andava a vedere questi film per via dei loro aspetti comici. E tuttavia, per far sentire il pubblico a posto con la coscienza e con la moglie rimasta a

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casa, questi non mancavano mai, e a volte erano anzi azzeccati. Alcuni attori come Lino Banfi, Carlo Giuffré, Alvaro Vitali, e in parte perfino il bravissimo Renzo Montagnani diedero il meglio di sé proprio in questi film, riciclati all’infinito dalle televisioni “libere” dei primi anni Ottanta.1 I protagonisti di questo cinema, come abbiamo visto, sono attori dell’ultimo avanspettacolo, costretti ad aumentare il grado di volgarità al punto di rendersi pressoché insopportabili a un pubblico normale. Si diceva un tempo che questi film erano “per i militari” e, se qualcosa di vero c’è, la cosa fa pensare anche all’ultimo “genere di profondità” immaginabile. La “riserva” di starlette al femminile è inesauribile: dall’onnipresente Edwige Fenech a Carmen Russo, da Gloria Guida a Lilli Carati, da Anna Maria Rizzoli a Nadia Cassini, e così via. Si tratta di film girati uno dopo l’altro senza alcuna preparazione, non di rado sfruttando lo stesso set per più pellicole, e mettendo al lavoro interpreti e registi molte volte nel giro di un solo anno. Il dilagare delle commedie erotiche costringe anche gli altri comici, come gli stessi Franchi e Ingrassia, a trasformare il proprio cinema con spruzzate di voyerismo e turpiloquio. I due continuano a setacciare tutto il cinema di successo di quegli anni – comprese le due “grandi” parodie analizzate poco fa –, da I due figli di Trinità (1972) di Osvaldo Civirani a Continuavano a chiamarli… er più er meno (1972) di Gianni Orlandini a I due gattoni a nove code (1972) ancora di Civirani a Storia di fifa e di coltello/Er seguito der più (1972) di Mario Amendola, Il figlioccio del Padrino (1973) di Mariano Laurenti e Piedino il questurino (1974) di Franco Lo Cascio col solo Franco Franchi, Farfallon (1974) di Riccardo Pazzaglia, Paolo il freddo (1974) di Ciccio Ingrassia, tutti leggermente involgariti, segno che anche il pubblico del duo stava cambiando. Bastano alcuni titoli per ricordare la sovrabbondanza della produzione e la fissità dei temi: La liceale (1975), La professoressa di scienze naturali (1976), La dottoressa del distretto militare

1) Giacovelli, E., Non ci resta che ridere, cit., p. 130.

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(1976), La dottoressa sotto il lenzuolo (1976), La liceale nella classe dei ripetenti (1978), L’assistente sociale tutta pepe e sale (1981) e così via. Il filone si sviluppa tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, e declina man mano che la televisione costruisce un duopolio – e un pubblico spiccatamente familiare – distruggendo le ultime, sparute sale di provincia. Quali sono le cause di questa insorgenza erotica e che conseguenza hanno sulla parodia? Non si può credere che il genere erotico nasca dal nulla. Da una parte, infatti, c’è una forte spinta culturale alla revisione delle norme sociali, dall’altra la censura non può più contare sul clima politico-istituzionale di venti o anche solo dieci anni prima. Inoltre, si sente molto forte la spinta del cinema a luci rosse, che costituisce un vero e proprio mercato alternativo, destinato a influenzare le produzioni, non solo quelle di genere. Scrive Gian Piero Brunetta: I risultati sono stati sì quelli della caduta sullo schermo di tutti i tabù possibili, ma non quelli in parallelo della maturazione sessuale del pubblico.2 Molti di questi film, del resto, fanno seguito a opere-faro che hanno contribuito a spostare i limiti della visibilità. Pensiamo al filone che precede quello appena analizzato, ovvero il cosiddetto “decamerotico”. Facendo riferimento al film di Pasolini – e ben presto a tutta la Trilogia della Vita –, la commedia farsesco-erotica trattiene solo gli elementi licenziosi del film d’autore per poi aggrovigliarli con una lunga serie di scenette comiche o barzellettiere. Il ricorso a Boccaccio, peraltro, le cui falsificazioni non si contano più e costituiscono eventualmente un prolifico campo di studio per italianisti, garantisce fin dalla letteratura trecentesca l’allusione a fatti sessuali. Ecco ancora una volta un confronto, ai limiti del parodistico, tra cinema farsesco e cinema d’autore. Siamo, peraltro, poco propensi a definire parodici i film boccacceschi, poiché il processo di

2) Brunetta, G.P., Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni Novanta 19601993, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 422.

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attrazione nei confronti dello spettatore non si basa certo sul confronto intertestuale con il modello pasoliniano, piuttosto “promettono” di seguirne la scia senza impegni intellettuali ma andando, come dire, subito “al sodo”. Film come Decameron proibitissimo Boccaccio mio statte zitto (1972), Decamerone proibito (1972), Decameroticus (1972), Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (1973), I racconti di Viterbury (1973) non sono altro che prosecuzione dell’esperienza erotica cui si sottrae il lavoro culturale di Pasolini per offrire solo le “novelle”. I limiti della pornografia, peraltro, non vengono mai nemmeno sfiorati, ed è per questo che il collante di tutti i micro-filoni del periodo – compresa la serie “primitiva” Quando le donne… – sono il voyeurismo e la frustrazione. Nessuno dei ridicoli protagonisti di questi film riesce mai a concludere o a soddisfarsi, mimando così la situazione dello spettatore appassionato di erotismo: la presenza del comico sposta l’asse del discorso sulla comicità da caserma e tiene e freno il consumo di genere esclusivamente erotico da parte di un pubblico che, a quel punto, privilegerebbe senza dubbio le sale porno.3 È vero, altresì, che alcune protagoniste di questo cinema infilano la strada a luci rosse una volta tramontata la commedia erotica: pensiamo a Karyn Schubert, Lilli Carati, Milly D’Abbraccio. La pornografia, a sua volta, utilizza più volte lo scenario boccaccesco e le storie in costume per imbastire rudimentali trame in grado di costituire uno scenario sempre diverso alle performance degli interpreti, ma si tratta di un mondo troppo vasto e confuso per far parte di questa trattazione. Il rapporto intertestuale tra queste opere parassitarie e i modelli è senza dubbio più labile di quello che lega, non fosse altro che per bulimia di pratica produttiva, tali prodotti tra loro. Un conto è, però, il decamerotico ottuso e di immediato consumo, un altro è il riferimento al cinema d’autore di cui si parodizza proprio la posa intellettuale della riflessione sulla sessualità. Abbiamo già parlato di Ultimo tango a Zagarol come 3) Cfr. Bruschini, A., Tentori, A., Malizie perverse. Il cinema erotico italiano, Granata Press, Bologna 1993. Si veda a anche il dossier presente nel Patalogo Uno, Ubulibri, Milano 1979.

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di un’opera che riconverte lo shock bertolucciano, riconoscendovi non tanto l’esplicito coraggio, quanto piuttosto il lato teorico, sadiano e batailliano, che contiene. È un paradosso affermarlo, ma il lavoro di Franco Franchi in questo caso si presenta più consistente e “raffinato” della deriva decameroniana, cui non spetta nemmeno il titolo di parodia.4 Non sono solo Bertolucci e Pasolini, peraltro, a tenere desta l’attenzione del pubblico sull’erotismo d’autore. È del 1973 la contestatissima uscita di La grande abbuffata di Marco Ferreri e di qualche anno dopo la “pornografia autoriale” di Oshima, L’impero dei sensi (1976), anche se probabilmente il primato dell’eccesso spetta di nuovo a Pasolini, il cui Salò (1974) dà vita involontariamente alla più turpe serie di imitazioni, semi-parodiche o decisamente non parodiche, che cominciano con Salon Kitty (1975) di Tinto Brass e confluiscono poi nell’ancor più becero filone nazi-erotico. Come scrive Nuccio Lodato: È un panorama che, alla fine, fa diventare le commedie fantastico-brillanti di Celentano autentiche perle di freschezza filmica e solidità industriale all’americana, oltre che fulgidi esempi di una visione del mondo che più conformista non si può (…). Del resto, il fatto centrale, nel cinema di questi anni, è proprio il prendere piede in maniera sempre più esplicita e centrale della sessualità e dei suoi problemi. È un fenomeno lento e complesso, che rispecchia in modo non superficiale determinati sconvolgimenti della vita sociale, e delle capacità proprie del mezzo filmico di documentarli.5 Dobbiamo andare a cercare la parodia in questi sentieri, poiché sembra che il genere farsesco nel quale l’abbiamo sempre

4) Recentemente, si è avuta una riscoperta, con dubbie pretese di rivalutazione, di questo cinema grazie a informatissime riviste come Nocturno e, in seconda battuta, Amarcord. 5) Lodato, N., “Dalla commedia all’italiana all’erotismo”, in Turconi, D., Sacchi, A., a cura di, Bianconero rosso e verde. Immagini del cinema italiano 1910-1980, La casa Usher, Firenze 1981, p. 145.

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individuata con una certa sicurezza sia ormai ridotto, negli anni Settanta, al territorio appena delineato. Tuttavia, esistono altri luoghi dove il comico si mostra propenso a negoziare diversi aspetti del sistema testuale. Pensiamo ai comici di estrazione televisiva, tra cui Paolo Villaggio, Renato Pozzetto, Maurizio Nichetti, ecc. Solo il primo, probabilmente, si impegna in una vera ridefinizione della parodia, poiché è interessato a costruire un inedito personaggio comico, un personaggio della “sproporzione” e della “mostruosità” quotidiana. Se il suo ragionier Fantozzi schizza in maniera iperbolica e surreale l’orrore impiegatizio del (presunto) italiano medio, altri personaggi trasportano Villaggio in un più tradizionale alveo parodistico: Dottor Jekyll e gentile signora (1979) di Steno esalta le doti di trasformismo del personaggio, già presenti in Fantozzi, uomo frustrato e passivo ma dentro di sé non meno aggressivo e volgare di tutti gli altri. Jekyll/Hyde diventa anche un commento involontario al comico represso di questo periodo. A Villaggio, del resto, si deve anche la rilettura del mito stokeriano con Fracchia contro Dracula (1985) di Neri Parenti, nel quale l’alter ego di Fantozzi – rispolverato ogni qual volta l’avventura comica si fa troppo fantasiosa – opera un omaggio a Gianni e Pinotto, chiamando a raccolta anche Christopher Lee in un progetto piuttosto atipico per l’Italia, anche per la qualità dei gag e l’ambientazione gotica. Tutti gli altri interpreti propongono nuove linee di comicità intrecciate con elementi provenienti dalla commedia all’italiana, di cui si enfatizza il ruolo della distorsione somatica e della tipicità regionale, caratteristica che non viene meno sino ai giorni nostri – comici toscani, milanesi, ecc. Nichetti, il più intellettuale, recupera nostalgicamente lo slapstick muto,6 Nuti con i Giancattivi va alla ricerca di una commedia lunare e sospesa, Pozzetto, che senza dubbio vanta la gavetta di più alta qualità con Cochi Ponzoni, mantiene il coté surreale solo quando glielo permettono, Benigni lavora sul contesto dell’avanguardia toscana e della volgarità vernacola-

6) Pistoia, M., Maurizio Nichetti, Il Castoro, Milano 1997.

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re,7 Verdone assicura un intrattenimento leggero fatto di tic della romanità, reminiscenze sordiane e narrazioni lineari.8 Insomma, non ci è possibile parlare di parodia per la nuova leva dei comici che esordiscono tra anni Settanta e primi Ottanta. Dovremmo, invece, interrogare altre fonti, come lo sgradevole Nerone (1977) di Castellacci/Pingitore con Pippo Franco, che prosegue la parodia della romanità inventata da Petrolini, adeguandola agli standard del Bagaglino, anche se poi il film possiede, a suo merito, una spiccata tendenza metalinguistica – le gag su come si sta realizzando il film – e metaspettacolare, tanto che si può persino parlare di “musical”, purché lo si intenda come risultante dell’incrocio tra stile avanspettacolare e parodia di Jesus Christ Superstar (1973). Sono gli ultimi momenti di cinema-rivista, sia pure involgarito, perché da ora in poi tutto viene trasferito in televisione – Bagaglino compreso.

2 Anni Ottanta e Novanta: la parodia opaca Con l’epoca contemporanea ci avviciniamo al periodo della quasi totale scomparsa del cinema farsesco e parodistico. In fondo, già la deriva degli anni Settanta mostra la corda del cinema rivistaiolo, e di quello che fa suo il serbatoio dell’avanspettacolo. Le forme cabarettistiche, nei ’70, resistono ancora, ma sono costrette ad allearsi con l’unico tema che attira lo spettatore popolare, cioè il sesso. Seguendo questo ragionamento, potremmo affermare che gli anni Ottanta e Novanta rappresentano il regno incontrastato della televisione. Sia chiaro: in Italia, il boom degli apparecchi televisivi e il dominio dell’intrattenimento casalingo datano a molto tempo prima, eppure l’antagonismo della sala e la promessa di “emo-

7) Cfr. Grasso, A., “Il funzionamento di Benigni”, Patalogo Tre, Ubulibri, Milano 1981; Socci, S., “Benignamente”, in Bernardi, S., a cura di, Si fa per ridere… ma è una cosa seria. Aspetti del cinema comico italiano dal dopoguerra a oggi, La Casa Usher, Firenze 1985, pp. 107-111; Borsatti, C., Roberto Benigni, Il Castoro, Milano 2002. 8) Montini, F., Carlo Verdone, Gremese, Roma 1997.

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zioni forti” su grande schermo – oltre che l’ultima resistenza del consumo di provincia – hanno fatto sì che, nel bene e nel male, il sistema spettacolare si presentasse ancora frastagliato, contraddittorio e conflittuale. Con il definitivo trionfo della televisione come medium primario, anche la comicità deve adeguarsi: o nasce in televisione, per cui reca già un’impronta famigliare e presentabile, oppure alla televisione è destinata, e allora deve conformare temi e gag all’intrattenimento di prima serata, l’unico in grado di garantire buoni ritorni economici ai film. Giuseppe Cereda scrive: Il rapporto [tra cinema e tv] ha potuto essere sintetizzato nelle tre fasi successive dell’opposizione e della differenza (gli anni Sessanta e Settanta), dell’integrazione difficile (gli anni Settanta e Ottanta), e dell’interconnessione (gli anni Novanta). Quasi a esprimere un processo inarrestabile di aggiustamento del cinema che ha a lungo provato a cercare lontano dalla televisione respiro linguistico e nuove modalità di racconto.9 Gli anni Ottanta, in particolare, segnano una gravissima crisi per tutto il consumo cinematografico italiano. Il prodotto nazionale non attira e, salvo alcune eccezioni, il decennio ospita pochi fenomeni in grado di orientare il mercato. Si aggiunge anche il delicato momento anagrafico dei maestri, che vanno verso il tramonto o si trovano impossibilitati a produrre film. La nuova leva dei comici che abbiamo citato si arricchisce di qualche nome, ma almeno mostra di possedere una tempra che permette di giungere fino ai giorni nostri. Tuttavia, il cinema comico popolare mette a segno alcuni colpi, pochi ma decisivi: le commedie di Celentano vincono spesso la sfida degli incassi – Il bisbetico domato è primo nel 1980-1981, Innamorato pazzo nel 1981-’82, Bingo Bongo, parodia di Tarzan, è nei primi dieci del 1982-’83, Segni particolari bellissimo è quinto nel 9) Cereda, G., “Piccoli schermi e grandi antenne. Cinema e televisione ieri oggi e domani”, in Sesti, M., a cura di, La “scuola” italiana. Storia, strutture e immaginario di un altro cinema (1988-1996), Marsilio, Venezia 1996, p. 239.

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1983-’84, e così via sino a che il molleggiato non si accorge che la TV gli può garantire una platea più ampia –; Troisi, Benigni e Verdone sembrano gli unici in grado di fronteggiare Celentano e il cinema americano.10 In verità cominciano a scarseggiare i bersagli cinematografici. La parodia diventa per lo più televisiva poiché televisivi sono i modelli dai quali si prende spunto. Se la “semiosfera” si trasferisce nell’universo dei personaggi domestici e dei divi del piccolo schermo, non ha senso poi trasferirli sul grande. Le commedie dei Vanzina e di Neri Parenti rappresentano, ormai da molti anni, la cornice nella quale, secondo molti,11 viene ospitata l’antica farsa cinematografica. Il ragionamento è valido solo in parte: in fondo si tratta di due, o al massimo tre film all’anno, mentre il vero farsesco, per vivere e proliferare, necessita di un’abbondanza quasi inarrestabile. D’altra parte, è probabile che, nel corso degli anni, questo cinema pecoreccio e scadente rappresenti l’unico luogo, insieme ai film di qualche autore, davvero non “televisivo”, perché in molti casi troppo volgare. Fabio Ferzetti spiega così il successo di questi film: Negli ultimi dieci-quindici anni la costruzione dell’immagine collettiva è stata delegata sempre più massicciamente alla TV, e non solo alla fiction, ma paradossalmente (paradossalmente?) anche ai servizi giornalistici e al varietà. Risultato: i pochi personaggi rimasti ancora in grado di raggiungere fette consistenti di pubblico (…) si sono trovati a gestire un privilegio esorbitante, del quale nessuno sembrava rendersi bene conto.12

10) Micciché, L., a cura di, Schermi opachi. Il cinema italiano degli anni ’80, Marsilio, Venezia 1998. 11) Si veda la curiosa “guerra delle rivalutazioni” dei Vanzina da parte dei quotidiani espressamente di destra o di sinistra, in nome della difesa di un puro, schietto divertimento volgare. Vedi Della Casa, S., “Della morte del genere”, in Zagarrio, V., a cura di, Il cinema della transizione. Scenari italiani degli anni Novanta, Marsilio, Venezia 2000, pp. 190-196. 12) Ferzetti, F., “Comico & Commedia, il gioco dell’oca”, in Sesti, M., a cura di, op. cit., p. 152.

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Mario Sesti condanna senza appello tale orizzonte mediatico: Al piccolo schermo dobbiamo almeno questo, che ci mostra in ogni momento la distanza assoluta che c’è tra una qualsiasi commedia di serie B degli anni ’40 o ’50 e l’attuale comicità cinematografica di rapido consumo. C’è più energia fisica e mentale in un quarto d’ora di Un giorno in pretura o in un Totò qualsiasi che in tutto il cinema dei due Vanzina…13 Comunque la si voglia vedere, la situazione in questi anni volge verso un chiaro ridimensionamento del medium cinematografico come intrattenimento principale e una riconversione dei suoi moduli alla televisione, che opera un saccheggio inesauribile della tradizione farsesca. Forme di resistenza estrema non mancano, come nel caso di Diego Abatantuono, che gira molti film nello spazio di pochi anni – ricordiamo almeno I fichissimi (1981), sorta di Romeo e Giulietta della suburra milanese, Eccezzziunale… veramente (1982), Sballato, gasato, completamente fuso (1982), diretto da Steno, tutti dedicati al personaggio del “terrone” immigrato al nord in cerca di facili successi e smodatamente rozzo –, per poi essere “ripescato” negli anni Novanta come maschera ereditaria – si cita spesso Gassman tra le influenze – della nuova commedia italiana. Né ci possiamo concentrare su alcuni sottoprodotti che ripescano forme di farsa in costume anni Cinquanta, tanto sono sporadici: pensiamo a Grunt! (1983) di e con Andy Luotto, parodia assai fiacca di La guerra del fuoco (1982) di Annaud, e Arrapaho (1984) di Ciro Ippolito, prima uscita cinematografica per gli allora celebri Squallor, dove si abbina dialogismo cinetelevisivo – il film viene interrotto dagli spot – e ironia escrementizia. Come di può notare, anche questi film – come del resto il filone pierinesco – non vanno oltre la metà degli anni Ottanta. Non a caso, è del 1985 la cosiddetta “legge Berlusconi”, che , sotto il governo Craxi, permette che le reti private della Fininvest proseguano la programmazione anche in assen-

13) Sesti, M., “Raccontano, gli esordi”, ivi., p. 14.

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za di un riordino del sistema radiotelevisivo. Quest’ultimo avviene, tra mille polemiche, nel 1990, con la Legge Mammì che, insieme a quella dell’85, sancisce di fatto l’esistenza di un oligopolio, poi chiamato duopolio, nella televisione italiana.14 Solo alla fine degli anni Novanta, la parodia torna a mostrarsi, sia pure casualmente. S.P.Q.R. - 2000 e mezzo anni fa (1994) di Neri Parenti con Boldi e De Sica, Peggio di così si muore (1995) di Marcello Cesena con la Premiata Ditta, Tre uomini e una gamba (1997) e Così è la vita (1998) di Massimo Venier e Aldo, Giovanni e Giacomo, anche interpreti, Testa di Picasso (2000) di e con Massimo Ceccherini, Zora la vampira (2000) dei Manetti Bros. con la partecipazione di Carlo Verdone, Aitanic (2000) di e con Nino D’Angelo contengono, in differente misura, aspetti parodistici. Aldo, Giovanni e Giacomo inseriscono brevi sketch parodistici – il neorealismo, il gangster movie, l’horror – come corpi estranei all’interno di road film commedici, Parenti recupera il solito filone “romanico”, Cesena e Ceccherini compiono un’incursione nella recente produzione americana, i Manetti Bros. ironizzano per l’ennesima volta sul mito del vampiro. Interessante, invece, l’operazione di Nino D’Angelo che, salvato dall’oblio grazie all’ondata di recupero della cultura bassa ideata da Tommaso Labranca, ha pensato di rilanciarsi, non solo in virtù della parodia di Titanic (1997), ma soprattutto attraverso la ricollocazione di un immaginario napoletano. Più ironico di un tempo, dove per certo pubblico Nino D’Angelo valeva realmente quanto un Leonardo Di Caprio, ora l’attore campano va alla ricerca degli spettatori di un tempo grazie a un rapporto non univoco con il film di Cameron. In questo caso, forse unico perché localizzato geograficamente – il film al nord non ha praticamente circolato – la parodia ha riconquistato il proprio ruolo di consumo “separato” e di riflessione intertestuale con i miti del cinema, ravvivati dall’unico fenomeno di massa dell’epoca recente, appunto Titanic.

14) Cfr. Monteleone, F., Storia della radio e della televisione, Marsilio, Venezia 1992; Grasso, A., Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 1992.

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3 La parodia televisiva Fa un po’ impressione chiudere un saggio sulla parodia cinematografica parlando di televisione, ma del resto abbiamo insistito sui delicati rapporti che, lungo tutta la storia del medium, hanno legato il grande schermo alle altre pratiche spettacolari. È, dunque, il caso di portare a termine il discorso, anche se si presenta frastagliato e quasi imprendibile. La parodia, insieme alla caricatura e alla satira, ha invaso da subito i palinsesti televisivi. Imitare qualcuno, politico o divo o personaggio pubblico, è stata da sempre una delle caratteristiche principali dei comici del varietà televisivo. La deformazione dell’originale ha fatto sì che il “corpo parodistico” in TV rappresentasse uno dei simboli più sfruttati dai generi del piccolo schermo.15 In questo campo, bisognerebbe fare molta attenzione a distinguere tra semplice tendenza alla caricatura – pensiamo alla lunga schiera degli imitatori che va da Alighiero Noschese a Gigi Sabani –, e parodia vera e propria, nella quale ci si attiene al “contratto” con lo spettatore di cui abbiamo più volte parlato. Ovvero, anche in televisione vale il concetto per cui la parodia negozia il significato ironico attraverso un altro testo, sia esso un genere, una trasmissione o una forma di espressione. Infatti: Ogni patto comunicativo ha disposizione un set di veri e propri rituali destinati a fondare e facilitare l’orientamento reciproco dei partecipanti, ponendosi come fonte di regole per la messa in scena dei comportamenti dei personaggi tra loro e in rapporto al pubblico.16 15) Sui generi televisivi, vedi Casetti, F., Lumbelli, L., Wolf, M., Indagine su alcune regole di genere televisivo, Fondazione Rizzoli, Milano 1979; Casetti, F., “Generi”, in Bellotto, A., Bettetini, G., a cura di, Questioni di storia della radio e della televisione, Vita e Pensiero, Milano 1985; Casetti, F., Villa, F., a cura di, La storia comune. Funzioni, forma e generi della fiction televisiva, Nuova ERI - VQPT, Roma 1992; Castellani, L., La TV dell’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia, Edizioni Studium, Roma 1995. Sul corpo in televisione, vedi “La televisione”, in Antonio Costa, Roy Menarini, “Media”, in L’universo del corpo, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 1998, pp.136-147. 16) De Berti, R., Negri, A., Signorelli, P., “Scene di vita quotidiana”, in Casetti, F., a cura di, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, ERI, Torino 1988, p. 88.

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Il cosiddetto “contenitore” di generi diventa un palinsesto che prevede un contratto principale e vari singoli patti secondari. Quello della parodia, spiccatamente nella neotelevisione,17 agisce a partire da un “sapere comune”, quello di un altro testo. Quel che accade anche al cinema diventa in televisione forma più quotidiana di negozio, poiché l’ipertesto è pronto a lavorare quasi su ogni ipotesto, purché raggiunga una pur minima riconoscibilità. Del resto, come scrive Francesco Casetti: In televisione la reciprocità dell’accordo è all’apparenza negata dall’unidirezionalità del canale: la proposta pare spettare solo all’emittente; e al recettore pare toccare solo l’accettazione. In realtà la reciprocità (come pure la negoziazione che ne consegue) sopravvive almeno simbolicamente: chi trasmette, si tratti di un’azienda pubblica o di un’azienda privata, dichiara volentieri di farlo per rispondere ad un bisogno sociale di conoscenza, di divertimento, ecc.18 La parodia televisiva si situa all’interno di un processo di interlocuzione molto complesso. Commedia musicale e varietà hanno spesso utilizzato, anche in epoca paleotelevisiva, questo genere di comicità allo scopo di ironizzare sulle varie forme di comunicazione: il vecchio Un, due, tre ne è esempio lampante. La neotelevisione, però, ha enfatizzato i rapporti intertestuali, stimolando – come noto – l’autoriflessività del mezzo. In fondo, potremmo definire Striscia la notizia come una parodia dei telegiornali, o le interviste del Chiambretti anni Ottanta19 come una parodia del giornalismo televisivo. La parodia della “seriosità” dell’informazione e dei mezzi busti ha offerto mate-

17) Vedi Eco, U., “Tv. La trasparenza perduta, in Id., Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, seguito da un lungo dibattito sul termine: cfr. Bruno, M.W., Neotelevisione, Rubbettino, Messina 1994. 18) Casetti, F., “Patto, patto comunicativo e patto comunicativo nella neotelevisione”, in Casetti, F., Tra me e te, cit., p. 55. 19) Va’ pensiero (1987, RaiTre), Complimenti per la trasmissione (1988, RaiTre), Il portalettere (1991, 1992 RaiTre). Su di lui e tutti gli altri personaggi che citeremo, cfr. Grasso, A., a cura di, Enciclopedia della televisione, Garzanti, Milano 1996. Vedi anche Dorfles, P., Atlante della radio e della televisione, Nuova Eri, Roma, uscito ogni anno dal 1990.

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riale a numerosi comici, da Noschese stesso a Daniele Luttazzi fino al trio Marchesini-Solenghi-Lopez. Proprio i tre attori hanno dato vita alla parodia forse più celebre della televisione contemporanea: I promessi sposi, trasmesso da RaiUno nel 1990. Il successo dell’iniziativa era dovuto innanzitutto alla notorietà del modello, non solo come capolavoro universalmente riconosciuto ma anche in quanto testo più volte trasposto in televisione. L’idea era quella di parodiare il “racconto” più autoritario in assoluto della cultura italiana, specie per la sua massiccia presenza lungo tutto il percorso scolastico. La parodia del Trio si è concentrata sugli aspetti ormai canonizzati del romanzo, stravolgendone il senso e la pertinenza, e sui modi di rappresentazione televisiva: di volta in volta, I promessi sposi si trasformava in una soap opera, in un telefilm giallo, in una pubblicità – “Silenzio, parla Agnese” –; durante la narrazione, poi, spesso si inceppava il doppiaggio o si riavvolgeva il nastro, a dimostrare una volta di più la tendenza al gag metalinguistico all’interno del già impostato lavoro intertestuale. Un cenno merita anche la Gialappa’s Band, altro trio di conduttori satirici, in grado di comprendere prima di molti altri che, in Italia, la parola ufficiale non è quella politica né quella religiosa, bensì quella calcistica. Dopo aver cominciato in radio con cronache demenziali di partite vere, la Gialappa’s ha affrontato, a partire dal 1990, la parodia del varietà sportivo con Mai dire Gol su Italia 1: tutti gli elementi del salotto calcistico, in stile Domenica Sportiva, sono stati sovvertiti dai tre e dal gruppo di comici – Antonio Albanese, Paolo Hendel, Corrado Guzzanti, Teo Teocoli, Gene Gnocchi e molti altri tutti a loro modo parodisti –, che prendono parte a questo “varietà postmoderno”, come lo ha definito Aldo Grasso. La televisione, come dimostrano le carriere dei sunnominati, continua ad essere il serbatoio principale del cinema comico e commedico in Italia. La parodia, però, sembra sempre più destinata a un consumo immediato “a ridosso” dell’avvenimento. La stessa Gialappa’s ha nuovamente anticipato i tempi che saranno con il programma Mai dire grande fratello, parodia del famoso reality show, in onda la stessa sera pochi minuti dopo la sua conclusione.

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I testi hanno una vita sempre più breve, la parodia – quando non è già compresa nel contenitore come forma di autodifesa critica – non può ormai che misurarsi solo col presente.

Capitolo Quarto

UNA PARODIA TRA TESTO E CONTESTO Totò, Peppino… e la dolce vita Totò, Peppino… e la dolce vita è uno dei film ritenuti centrali – non qui per la prima volta1 – in vista di una comprensione ampia del fenomeno parodistico nel cinema italiano dei primi anni Sessanta. A partire dalla riflessione sulla “soggettivizzazione” del cinema d’autore nelle forme tipiche della nostra modernità, di cui abbiamo scritto poc’anzi, dobbiamo quindi analizzare più a fondo il film di Sergio Corbucci. Non c’è dubbio, anzitutto, che a differenza di molti altri film il cui spunto parodistico si esaurisce più o meno nel titolo o a livello di derivazione generica – per esempio, Rocco e le sorelle –, Totò, Peppino… e la dolce vita intrattenga rapporti assai complessi con il film modello. Il primo dato che salta agli occhi è il fatto che il film è targato Cineriz, la stessa casa che ha prodotto, pochi mesi prima, La dolce vita felliniana. Ci troviamo di fronte, quindi, a una parodia produttivamente “interna”, che potrebbe iscriversi in quella prassi che abbiamo indicato come tipica del cinema contemporaneo di mettere sullo stesso piano, anche come pubblico, il cinema ufficiale e il cinema parodiante. Saremmo però fuori strada. Il cinema di oggi, al di là dei fatti produttivi e organizzativi, tende a non selezionare il proprio pubblico, a proporre un flusso incontrastato di consumo che confonde

1) Cfr. Martini, A., “Il comico-farsesco”, in Salizzato, C., a cura di, Prima della rivoluzione. Schermi italiani 1960-1969, Marsilio, Venezia 1989, pp. 103-109.

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testo autorizzato e parodia altrettanto autorizzata. In questo caso, invece, ci troviamo di fronte a una parodia vera e propria, con un consumo differente dal testo parodiato. Ciò, come vedremo, viene dimostrato da elementi testuali e contestuali, oltre che da uno studio degli incassi della pellicola. Del resto, non è la prima volta che l’aspetto “antagonista” della parodia e quello “pubblicitario” della casa di produzione convivono pacificamente. Il centro figurativo del film di Corbucci è Via Veneto. D’altronde, lo stesso regista è stato convocato in quanto frequentatore della “dolce vita” per girare il film, dopo l’abbandono di Camillo Mastrocinque causato da liti con la produzione. La Via Veneto ricostruita per Fellini assume, per Totò e Peppino, il ruolo di spazio centripeto, dove i due personaggi si fermano e danno vita alla loro comicità primariamente verbale. C’è, in questo senso, un chiaro ricorso ai moduli della rivista teatrale – Via Veneto funziona come “palco” bidimensionale –, e a quelli dell’intrattenimento televisivo – l’abuso di mezze figure e primi piani. In poche parole, l’aspetto vero/falso della celebre ricostruzione felliniana viene riconvertito in quinta che denuncia definitivamente la propria artificialità. Il trasferimento di senso sembra anche questa volta chiarire, sì, gli elementi strutturali del film farsesco nei suoi rapporti intermediali, ma anche illuminare alcuni aspetti del film parodiato. La fertile contraddizione inscenata da Fellini per la sua Via Veneto, una volta che si è assistito al suo impoverimento scenografico e stilistico, mostra con maggior evidenza il lavoro di riproduzione astratta che il regista aveva intrapreso decidendo di rifiutare locations dal vero. Ma andiamo con ordine. Nel bellissimo saggio sul cinema felliniano scritto da Peter Bondanella, 2 lo studioso americano ricorda che la struttura della Dolce vita è stata suddivisa da autorevoli critici in un Prologo, un Epilogo, e sette episodi principali, a loro volta in qualche caso dotati di sottosequenze. Bon-

2) Bondanella, P., Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton 1992; tr. it.: Il cinema di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini 1994.

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danella, pur condividendo il ricorso al numero 7 da parte della critica, si chiede se non si tratti di una forzatura tesa a ricostruire artatamente i principi organizzativi di un film che fa saltare ogni forma di narrazione classica o moderna. Bondanella cita persino l’incontro tra Fellini e Picasso come un fatto importante per poter comprendere l’innovazione sperimentata dal regista romagnolo. È vero, del resto, che la volontà di procedere per sequenze autonome, episodi o avvenimenti aperti da “epifanie”, rende La Dolce Vita un film che vive (apparentemente) di momenti forti: niente di meglio per una parodia, specialmente per quegli spettatori “di mezzo” di cui abbiamo a lungo parlato, ovvero tutti coloro che pur non avendo visto il film di Fellini sono in grado di conoscere alcune delle sequenze più celebri grazie alla pubblicità, allo scandalo e alla vita paratestuale del film. Totò, Peppino… e la dolce vita, però, riserva alcune sorprese. Anch’esso è aperto da un prologo e chiuso da un epilogo, che servono come processi di identificazione del pubblico, essendo costituito il primo da una sequenza di provincia, dove Peppino annuncia il proprio viaggio a Roma, e il secondo da una sequenza ambientata sui monti, tra le greggi, una volta che Totò e Peppino, ricacciati nel loro paesino, hanno dovuto abbandonare gli stravizi e lasciare il nonno (interpretato anch’esso da Totò) in mezzo alle feste capitoline. Al centro, la parodia evidenzia cinque episodi principali: 1) Totò e Peppino in Via Veneto 2) Totò e Peppino al night 3) Totò “lenone” nella cantina allagata 4) Totò portavoce dei posteggiatori abusivi 5) Totò e Peppino alla festa orgiastica Quattro su cinque di queste sequenze si riferiscono più o meno direttamente al film di Fellini. Difficile, perciò, sostenere come faceva Sergio Corbucci che – a dispetto del titolo – Totò, Peppino… e la dolce vita non è una vera parodia di Fellini ma solo un commento a margine. Molto spesso i registi credono che la parodia o i remake si riconoscano per essere interamente riconducibili e confrontabili, passo passo, con il testo

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CAPITOLO QUARTO

principale. Ebbene, la maggior parte delle parodie che abbiamo studiato ammette invece solo confronti parziali o multipli, forse perché, come ricorda Genette, la parodia deve essere per definizione breve – o almeno più breve del testo parodiato – altrimenti rischia di sortire un effetto di saturazione e noia. In questo senso, Totò, Peppino… e la dolce vita sembra progettato con grande consapevolezza, a cominciare proprio dall’idea di sfruttare il proscenio della falsa Via Veneto per trasferire l’immaginario squisitamente cinematografico di Fellini nella “piazzetta” rivistaiolo-televisiva. Diversamente deve averla pensata l’Anonimo recensore del Corriere Lombardo che scriveva: Fosse almeno una parodia del film di Fellini! Invece nemmeno questo: soltanto una serie di sketch messi insieme con quella solita dose di grossolanità che contraddistingue il cinema italiano di genere comico.3 Abbiamo già parlato dei processi semiopragmatici in atto nella parodia dei primi anni Sessanta, per cui non c’è bisogno di sottolineare nuovamente l’importanza che rivestono prologo ed epilogo “provinciali”. Il confronto con il film di partenza è, però questa volta reso esplicito fin dalla prima scena. Peppino, seguito da alcuni concittadini, cammina per le viuzze del paese e, in funzione di segretario comunale, ordina l’oscuramento di tutti i manifesti della Dolce Vita appesi ai muri delle case. Qui si fa riferimento a tutta la vicenda censoria del film. Come si ricorderà, anche Divorzio all’italiana contiene un riferimento intertestuale al film di Fellini, quando il Barone finge di andare a vedere La dolce vita, attrazione “pornografica” per il paesino, allo scopo di spingere la moglie tra le braccia dell’amante. L’inizio di Totò, Peppino… e la dolce vita, invece, recupera da subito il contesto del film: la licenziosità dell’opera, il conflitto con i valori della provincia più tradizionalista, la dura lotta da parte di Stato e Chiesa. È raro che una parodia citi così direttamente un elemento del film parodiato: di solito il terreno di

3) Anonimo, Corriere Lombardo, 3 aprile 1961.

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scambio è tutto a favore dell’allusione. Quali conseguenze sulla nostra analisi potrebbe avere tale evidenza? A ben pensarci, appare suggestivo il ricorso a una forma di parodia che si mescoli e confonda con la satira sociale. La stessa Dolce Vita, infatti, rielabora fittiziamente – persino simbolicamente – le vicende realmente accadute nella Roma di epoca “Hollywood sul Tevere”: le risse di Walter Chiari con i fotografi, il bagno di Anita Ekberg, le cronache dai salotti, ecc.4 Stando alla lettera della diegesi, dovremmo dunque pensare a Totò, Peppino… e la dolce vita come a un film satirico, nel quale i personaggi – che hanno presente il film di Fellini – si ritrovano a vivere certe situazioni della società del 1960 trovando conferma agli avvenimenti narrati nel film. Evidentemente, le cose non stanno così. Quella locandina, in ogni caso, soddisfa due esigenze: in primo luogo, getta un iniziale ponte comunicativo allo spettatore “comico” di provincia – verso il quale il dialogo sarà fittissimo durante tutto la narrazione –; in seconda istanza, allude alle vicende di contorno al film, iscrivendo di fatto La dolce vita di Fellini a una serie più ampia che comprende la totalità dei nuovi costumi sociali, di cui il film diventa una parte essenziale. La nostra tesi è che il bersaglio parodico del film, oltre a Fellini – e grazie al confronto di soggettività di cui abbiamo scritto –, sia l’intero mondo romano e metropolitano dei primi anni Sessanta, universo dal quale scaturiscono avvenimenti e comportamenti bizzarri, ma anche lo stesso film che li celebra. Totò, Peppino… e la dolce vita non ha alcuna intenzione di riconoscere al film parodiato i meriti di una condanna, o quanto meno di una rappresentazione critica, della Gomorra italiana. Totò e Peppino hanno, dunque, buon gioco a mostrarsi pesci fuor d’acqua sia nel contesto filmico che in quello dell’identità sociale. Viene cioè, attribuita al cinema di Fellini – in generale al cinema d’autore – una funzione “coincidente” con i fenomeni di costume messi in scena. La dolce vita diventa, in questa direzio-

4) Vedi la bella ricostruzione del contesto felliniano operata da Costa, A., “Sulla dolcezza del vivere”, in AA.VV., Un secolo di cinema italiano, Il Castoro, Milano 1999.

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ne, il testo che ha “codificato” per immagini l’artificiale e godereccia esistenza della nuova borghesia e della società dello spettacolo. Scrive, anticipando le nostre conclusioni, Raffaele De Berti: Totò, Peppino… e la dolce vita non è, come si può pensare, una semplice parodia della famosa opera di Fellini, ma qualcosa di più complesso. Infatti, rifacendosi più in generale al contesto extratestuale di riferimento della Dolce Vita, elabora un nuovo testo che punta gli strali della sua satira popolare, carnevalesca (…) sulle clientele politiche, l’inefficienza della burocrazia e dei suoi ministri già ansiosi di apparire in televisione, la diffusione della cocaina, il degrado delle periferie, il consumismo, le sedute spiritiche, ma anche il fascino che la dolce vita esercita sui ceti popolari.5 Non bisogna, però, separare i due aspetti, altrimenti si rischia di perdere di vista l’intero processo comunicativo che convoglia sia il “costume” che il film di Fellini. Quando, nella seconda sequenza, Totò e Peppino assistono a una rissa tra alcuni passanti celebri e i paparazzi che li vogliono immortalare, il bersaglio è al contempo la cronaca di Via Veneto presente sui giornali, e la sequenza del film in cui Marcello viene preso a pugni dal marito di Sylvia. Quando, nella scena più celebre del film, una ricca signora viziata decide di fare il bagno seminuda nella cantina allagata di Totò, l’uomo che l’accompagna cerca di fermarla dicendo: “Che fai? Non sei una svedese”. L’allusione diretta è al vero bagno nella fontana della Ekberg, l’allusione parodica è al bagno di Sylvia nel film: in quest’ultimo caso si fa uso di una tipica strategia di “riduzione” comica degli elementi lessicali. Al posto della fontana di Trevi, uno squallido sottoscala. Questa gag – non del tutto riuscita quanto a tempi comici – addensa però due diverse sequenze della Dolce vita. Lo spunto della cantina proviene dalla sequenza felliniana in cui Marcello e Maddalena vanno a casa della prostituta, che li

5) De Berti, R., op. cit., p. 38.

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accompagna in una modesta stanzetta attraversando proprio un pavimento coperto d’acqua: qui i due fanno l’amore, eccitati dall’idea di sporcizia e clandestinità. Lo stesso Totò, in Totò, Peppino… e la dolce vita, fa da ruffiano per la bella borghese in cerca di emozioni forti e il suo accompagnatore un po’ laido. Li accompagna verso una camera da letto improvvisata, per raggiungere la quale bisogna “guadare” il lago della cantina annacquata. È a questo punto che la ragazza si mette a citare Anita Ekberg. Le due sequenze di Fellini vengono, quindi, ridotte a un solo segmento parodico. In prospettiva interpretativa, potremmo persino sostenere che il film parodiante indica nella presenza dell’acqua un elemento portante della simbologia di Fellini, ponendo sotto diversa luce l’ipotesto, altrimenti utilizzato come semplice contenitore di fatti ed azioni. Altri due episodi di La dolce vita vengono ripresi con differenti prospettive. Il primo, Totò e Peppino al night club, richiama la sequenza del Club Cha Cha Cha in cui si recano Marcello e il padre, nel quale fanno la conoscenza della ballerina Fanny. Nel film di Fellini, come noto, tutta la serata nel locale è costruita attraverso un crescendo dell’entusiasmo di Annibale Ninchi, che chiede troppo alla propria età e finisce col sentirsi male una volta giunto all’appartamento di Magali Noël; nel film di Corbucci, Totò e Peppino, fortunosamente accompagnati da due belle straniere, portano lo scompiglio nel club: non avvezzi alle raffinatezze della vita moderna, bevono limonata, inciampano tra i tavoli, rovesciano bevande, ballano rovinosamente, gettano acqua su piatti flambé, consumano per errore cocaina e la spargono per tutto la sala finendo col produrre una anarchica e liberatoria distruzione a suon di musica. La sequenza è esilarante, e riesce nell’impresa di affiancare alla comicità verbale nonsense di Totò e Peppino una inattesa vena di slapstick, con un risultato alla fratelli Marx. Pensando alle croniche difficoltà agli occhi di Totò – ormai nel 1961 rasentava la cecità –, possiamo a buon diritto affermare che si tratta di dieci minuti strepitosi. In che modo funziona parodisticamente la sequenza? Certamente, vi è un elemento di dilatazione del modello, dove alla facilità di costumi del night felliniano fa da contraltare un parossistico agitarsi di persone e

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cose fino alla catastrofe comica; più sotterraneamente, viene da pensare che Corbucci, Steno e Fulci – sceneggiatori del film – abbiano riconvertito la figura di Ninchi, di segno decisamente drammatico, in un catalizzatore di gag: la stessa inadeguatezza del padre di Marcello, che produce un risultato patetico, serve a Totò e Peppino per agire da sabotatori di quel mondo fatto di erotismo e vizio, quasi tutto appannaggio dei giovani uomini e del culto dell’esteriorità. Il restante episodio è quello della festa finale, di cui vengono mantenuti vari passaggi, come la seduta spiritica e la deriva conclusiva con tanto di piume sparse in giro per la stanza. L’arrivo del misterioso nonno dei due impedisce a Totò e Peppino di proseguire nella dolce vita e li costringe a ritornare nel proprio paese. In questa parodia sono presenti contemporaneamente sia elementi sovversivi che conservativi rispetto al film di partenza. Si può dire che il rapporto polemico tra i due testi è rafforzato dall’opposizione Totò/Fellini, frutto di un lungo corteggiamento mai sbocciato in rapporto di lavoro, e dal furore con cui il comico napoletano mette a repentaglio l’autorità costituita dal film scelto come bersaglio. D’altra parte, vi è un evidente lato regressivo che rifiuta in blocco l’emergenza di un erotismo diffuso quale il film – e la società rappresentata – suggeriscono. La sessualità, pur costituendo parassitariamente un altro elemento di attrazione per l’ipertesto dopo l’ipotesto, viene sempre frustrata o punita. I concetti più scabrosi vengono disinnescati con il ricorso a infantilizzazioni della parola: basti pensare al simpatico neologismo di “orgiata” che mescola “orgia” – quella cui sembrano velleitariamente aspirare i protagonisti – e “orzata”, termine inoffensivo che riporta alla mente bevande da bambini. Del resto, La dolce vita costituiva un serbatoio di lingue moderne che Totò non poteva fare a meno di stravolgere da par suo. Il brano comico – giustamente famoso – del dialogo tra Totò, Peppino e le due americane svela tutti i meccanismi di derisione delle mode anglicizzanti del periodo. Francese, inglese e persino il latino – “Quo vadis?”, “No, Ben Hur” –, servono in questa gag a far naufragare ogni possibile comunicazione tra le due coppie. Come bene scrive Roberto Escobar:

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Come al gesto e al corpo, così anche al discorso Totò sottrae la “melodia”, i rapporti logici, l’armonia tra le sue parti, la loro simmetria e coerenza, lasciandogli il ritmo, il succedersi e ripetersi d’accenti e di suoni, dentro strutture, snodamenti, giunture verbali.6 Il plurilinguismo della Dolce vita sembra esaltare il comico linguistico di Totò, che però questa volta non mostra il ridicolo della lingua ufficiale ma costituisce elemento di conservazione rispetto a un pubblico che percepisce come lontano sia il mondo romano che il film di Fellini. In ogni caso, anche qualora la nostra diagnosi risultasse forzata, non è forse giusto definire più “bachtiniano” – almeno questa volta – il filmmodello rispetto alla parodia? Non così la pensa Enrico Giacovelli, che scrive: Un tempo sembrava blasfemo il semplice fatto che il film esistesse e richiamasse nel titolo il capolavoro di Fellini; oggi si può finalmente dire che ne è una versione proletaria, anarcoide, molto meno tollerabile per il pubblico borghese. In fondo, La dolce vita di Fellini, era, nella sua amarezza tragica, più ammiccante e accondiscendente: fustigatrice ma complice, come gli aforismi di LaRochefoucauld. Quella di Corbucci, pur con i suoi eccessi farseschi e il suo pressapochismo culturale, è più cattiva, più sanguigna, più radicale: implacabile e risentita, come i sonetti del Belli.7 Per concludere lo studio intorno a questo film, vogliamo ricordare che anch’esso ha subìto, come il suo predecessore, i colpi della censura. Anile ricorda alcuni monologhi sforbiciati – uno dedicato ai “Proci”, termine che non necessita di spiegazioni –, e alcuni passaggi eliminati, come quelli con la presenza di onorevoli. Lo studio dei verbali di censura – gentilmente concessi dalla Cineteca di Bologna – mostra la richiesta di ben nove

6) Escobar, R., Totò, Il Mulino, Bologna 1999, p. 69. 7) Giacovelli, E., Non ci resta che ridere

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tagli, dopo i quali il film avrebbe potuto circolare, vietato in ogni caso ai minori di sedici anni. Viene colpito il turpiloquio anche se leggero e localizzato, e censurato ogni accenno all’omosessualità. La sequenza dell’onorevole in Chiesa viene eliminata “perché contraria al sentimento religioso” e tutte le altre “perché offensive della morale e della pubblica decenza”, secondo regolari articoli di legge. I guai non finiscono qui. La scena della seduta spiritica, ritenuta particolarmente lesiva dell’opinione pubblica a causa del qui pro quo prodotto dal termine “supposta”, sembra non essere stata “mondata” come richiedeva il Ministero. A Reggio Calabria, infatti, l’Autorità di Pubblica Sicurezza interviene presso due sale e procede alla prescrizione di alcuni tagli, poiché nota la presenza del brano incriminato, ancora integro. La Cineriz manda subito in Via della Ferratella una lettera di chiarimento, dicendosi sorpresa: i tagli richiesti sono stati effettuati, il dialogo rimasto non è che il brandello della conversazione. Nel film infatti si ascoltano solo queste battute: Norma: “Nella vita e nella morte ci sono le cose vere e le cose supposte. Le cose vere mettiamole da parte… ma le supposte? Le supposte dove le mettiamo?” Antonio: “Digli che per il momento accantoniamo le supposte”. Come si vede, il grado di volgarità è davvero impalpabile, ma chi ha avuto a che fare con i verbali di censura è abituato a situazioni anche più grottesche. In ogni caso, il Ministero chiede alla Procura di Reggio Calabria di fornire lo spezzone incriminato, subitamente tagliato dalle autorità. Ebbene, lo spezzone non si trova e la Questura scrive al Ministero spiegando che il rettangolo di pellicola è stato trasmesso alla Procura. Dopo varie vicissitudini, la validità della versione allestita dalla Cineriz dopo i tagli viene confermata. Oggi vediamo il film con la battuta della “supposta”, sia pure monca dei restanti doppi sensi. Ciò che sorprende ulteriormente è l’irriflessività con cui questi tagli vengono ordinati. In Totò, Peppino… e la dolce vita, a tenere comportamenti lascivi sono sempre personaggi dell’alta

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società, raffinati borghesi col vizio dell’orgia, ricchi dandy cocainomani, adulteri accompagnati a passeggiatrici appariscenti. Il personaggio-chiave del film è Magda, intellettuale insofferente, che cerca i posti più sordidi per eccitarsi e giudica un’offesa se qualcuno non la palpa appena la incontra. La rappresentazione grottesca e iperbolica dei vizi romani è palese, così come il moralismo che fuoriesce dalle varie situazioni desunte da Fellini. La soglia di attenzione della Pubblica Sicurezza rispetto a Totò, Peppino… e la dolce vita deve essersi innalzata di fronte al successo del film. Il 1961 non è più anno di grandi mietiture al botteghino per il comico napoletano, eppure la riuscita parodia felliniana rastrella quasi trecento milioni. Nel prospetto della “Borsa-Film” della stagione 1960-61, redatto il 30 agosto dello stesso anno, il film si classifica al ventitreesimo posto tra i film italiani, in una delle annate più euforiche della storia del nostro cinema. Dietro ai campioni di incasso Ben Hur e Spartacus, si fanno strada alcuni film italiani. Tra questi, Rocco e i suoi fratelli guarda dall’alto parecchie commedie, da Crimen a Tutti a casa, da Il vigile a La ciociara. Totò, Peppino… e la dolce vita compare subito dietro Un dollaro di fifa e davanti a Fantasmi a Roma. Negli incassi per città, il paesaggio si fa più chiaro. Il film di Corbucci si classifica al quarto posto a Napoli, all’ottavo a Palermo e procede bene anche a Messina, Reggio Calabria, Cagliari, e mostra ottime teniture “in profondità”, come dimostra lo scollamento tra i dati d’incasso delle città capozona del nord, non altissime, e l’ammontare finale del guadagno. Concludendo, possiamo affermare che Totò, Peppino… e la dolce vita rappresenta un emblematico caso di parodia del cinema d’autore, in grado di esemplificare i vischiosi processi con cui il testo cerca di definire e circoscrivere il proprio spettatoremodello, le complesse dinamiche nei confronti del testo di partenza, e i risultati interpretativi che un’analisi comparata può offrire.

Capitolo Quinto

DUE ESEMPI DI PARODIA DI GENERE… ALL’ITALIANA Totò nella luna; I marziani hanno dodici mani Nel precedente saggio abbiamo affrontato il caso particolare della parodia del film d’autore. In questo caso, invece, analizziamo alcune parodie “di genere”. Si è già presentata l’occasione, in precedenza, di ricordare come alcuni studi sull’intertestualità cinematografica di ambito angloamericano appaiano viziati dal ricorso ad esempi interni al sistema classico hollywoodiano. In questo caso, in presenza cioè di una forte riconoscibilità del canone condiviso, anche il sistema parodico appare più rigido di quanto non sia. Lo dimostrano i due film che qui prendiamo in considerazione: due parodie dedicate non certo al cinema italiano – come era invece per Totò, Peppino… e la dolce vita – bensì dirette proprio ai generi non autoctoni. Il cinema di fantascienza deve essere apparso, a cavallo tra anni Cinquanta e anni Sessanta, come una delle forme popolari di consumo più adatte alla riconversione comica. Attraverso le due parodie, possiamo studiare più a fondo le caratteristiche del ribaltamento ridicolizzante del cinema fantascienza, e forse comprendere qualcosa di più dell’orizzonte di lettura attivato dal cinema fantascientifico dell’epoca. Siamo, infatti, abituati a credere che i film di allora scontino una grave obsolescenza figurativa e tematica, causa reale della sufficienza con cui molti di quei prodotti vengono oggi considerati irricevibili. Al contrario, la cinefilia ha riconsiderato i film di genere farsesco – anche quelli più rozzi e affrettati – come un patrimonio che va analizzato spogliandosi dei pregiudizi che il primo impatto produce e andando dritti al cuore

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dell’immaginario che, sia pure rudimentalmente, concretizzano. Totò nella luna e I marziani hanno dodici mani ci portano a pensare che gli elementi di grottesco involontario fossero già percepiti dallo spettatore dei decenni in questione. Totò nella Luna è del 1958, ed è diretto da Steno. Il film, prodotto da Mario Cecchi Gori, viene presentato come una parodia farsesca diretta a tutto il repertorio fantascientifico che sta avanzando, anche in Italia, in quegli anni. Non c’è, a prima vista, un film di riferimento immediato, se non quel prototipo intitolato Uomini nella Luna (1959) di Irving Pichel, che costituisce quanto meno un richiamo per il titolo della pellicola: Totò nella Luna costituisce già di partenza un’immagine comica, dove si enfatizza attraverso la presenza del personaggio/attore del titolo l’inadeguatezza al ruolo. Tra gli sceneggiatori troviamo il prolifico Lucio Fulci – a sua volta, più avanti, regista di film di fantascienza all’italiana come I guerrieri dell’anno 2072 (1983) –, oltre che, nel ruolo di collaboratori e supervisori, Ettore Scola e Sandro Continenza. La presenza più importante è, però, quella di Ugo Tognazzi – spalla del comico maggiore. Tognazzi, nel film, sembra farsi valere assai bene e giunge a conquistare un inedito proscenio con la celebre scena dell’imitazione della voce di Totò: un piano-sequenza fisso, infatti, ospita la performance del giovane attore, perfettamente in grado di copiare timbro e cadenza di De Curtis. La sequenza canonizza il Principe, ma permette lo scherno al più giovane. L’attore cremonese, già esploso in televisione grazie a “Un, due, tre” con Raimondo Vianello, in quegli anni partecipa per lo più a film semi-rivistaioli che non lo meritano: da Marinai, donne e guai di Giorgio C. Simonelli a Mia nonna poliziotto di Steno, tanto per rimanere al 1958, ma anche Le cameriere (1959) di Carlo Ludovico Bragaglia e La Pica sul Pacifico (1959) di Bianchi Montero. Di questi, senza dubbio, Totò nella Luna è quello meglio in grado di esaltarne le doti comiche. Bruno Ventavoli, nel suo appassionato studio della carriera di Steno,1 ricorda: Nell’ottobre del 1958 c’era stato il sensazionale lancio del “Pio1) Ventavoli, B., Al diavolo la celebrità - Steno dal “Marc’Aurelio” alla televisione, Lindau, Torino 1999, pp. 125-126.

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neer”, diventato incandescente ed esploso prima di entrare nell’orbita della Luna, ma che tuttavia aveva aperto la strada ai nuovi missili in grado di violare la superficie del satellite terrestre. Eisenhower si compiace, Von Braun annuncia nuove futuribili conquiste, i giornali si inzeppano di resoconti spaziali. Ma forse i cittadini qualunque continuano a restare freddi e stupiti. Molti di questi film, lo ripetiamo, incrociano l’aspetto parodico testuale a una più generica satira dei costumi sociali. Bersaglio della parodia italiana, così come del genere farsesco, è quasi sempre il progresso tecnico. Nel caso della scienza e della sua espressione finzionale – la fantascienza, appunto – la questione si complica ancora di più. Ad essere presa di mira è tutta la produzione commerciale americana che rispecchia l’avanzamento tecnologico di un paese che ci supera sul piano economico e scientifico. Il film-parodia, in questo caso, assume contemporaneamente varie facce: si schiera contro il cinema di fantascienza e, come sempre, lo “familiarizza” comicamente; denuncia, in un sol colpo, le facili mode del consumo italiano (eterodiretto) e le pur sempre scadenti risorse del nostro paese; trova identità di pubblico ma in qualche modo lo prende in giro. “Provinciali” sono i due film che qui analizziamo, ma anche il cinema che li ha prodotto e persino la società che essi denunciano. Secondo Alberto Anile:2 Il titolo orecchia un Buster Keaton sulla Luna del ’46, ma il film è soprattutto legato agli ultimi fenomeni editorial-spettacolari, la florida letteratura di consumo del boom economico (i rotocalchi carichi di donnine, i fumetti basati su stupidaggini interplanetarie) e il cinema di fantascienza americano. Evinciamo che, pur liquidando il film in poche parole, Anile sia d’accordo con noi nel racchiudere il riferimento alla paro-

2) Anile, A., I film di Totò, cit., p. 268.

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dia filmica di Totò nella luna in una più generale satira dei costumi americaneggianti da boom permanente. Non di meno, sembra utile affrontare i temi cinematografici presenti nella parodia e, perché no, accennare al lavoro intermediale del film di Steno. All’inizio, una scritta introduce ironicamente gli avvenimenti commentati dal tipico suono tremolante del theremin. Si parla di eventi che accadranno “dopodomani” sulla Terra. Si succedono, poi, immagini di repertorio di Cape Canaveral e di scienziati che, in inglese, discutono fittamente del razzo da lanciare. Una curiosa forza invisibile, nel frattempo, muta i calcoli degli ingegneri – cancellando cifre e sostituendone altre –, così da far finire l’obice fuori rotta. Dal grande al piccolo: il razzo casca nelle vicinanze di Napoli, svegliando con il suo trambusto l’addormentato Totò. Ancora una volta, l’incipit serve a “quotidianizzare” e a ridurre retoricamente le grandi imprese della scienza internazionale: dallo spazio infinito al cortile condominiale, che infatti fa da teatro ai titoli di testa. Qui il riferimento al disastro del Pioneer è probabilmente diretto. Lo scoppio permette a Totò di lanciarsi in uno dei suoi monologhi più divertenti – “Io, della Luna, me ne strainfischio” –; nello stesso momento, i protagonisti prendono la parola mentre i titoli in sovraimpressione indicano il nome dell’attore, almeno per quanto riguarda gli interpreti principali, ovvero Ugo Tognazzi e Sylva Koscina. La rivista di cui Totò è direttore tipografico e Tognazzi fattorino si intitola “Soubrette”, ed è di fatto un rotocalco di sole fotografie di donne discinte, e brevi cronache dal mondo dello spettacolo. Il fattorino, appassionato di fantascienza, non distingue la (para) letteratura dalla realtà e legge i romanzi di genere come se fossero servizi giornalistici. Scrittore provetto anch’egli, spera un giorno di essere pubblicato e, per questo motivo, si intrufola nelle rotatorie e infila all’interno di un numero di “Soubrette” un suo racconto, con tanto di copertina orrorifica. Spesso e volentieri, nella prima parte del film, il testo dialoga ora con l’editoria popolare ora con l’illustrazione fantastica. La piovra aliena della copertina incriminata rimanda chiaramente alle copertine di “Amazing Stories” e “Science Fiction”, i più classici pulp a puntate dell’editoria statunitense.

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Non solo: il solito Ventavoli ricorda la rivista a fumetti “Anno 3000”, deceduta in breve tempo eppure esempio interessante della farsa dozzinale all’italiana. Il film, in verità, risulta piuttosto farraginoso, specie nella parodia dell’intrigo internazionale, con tanto di americani e russi in gara per il controllo del “glumonio”, proteina prodigiosa che il solo fattorino possiede tra tutti gli uomini del mondo. Ci interessa, però, la fase della parodia “diretta”: il film di riferimento è, piuttosto chiaramente, L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel. Anche in Italia, l’opera aveva ottenuto un certo successo. L’idea dei “baccelli” giganti, in grado di duplicare l’uomo e sostituirlo in seno alla società, non ha creato suspense solamente in virtù dei significati metaforici che può assumere, ma ha colpito lo spettatore coevo grazie alla rappresentazione di un pericolo tutt’altro che simbolico: la sparizione e la sostituzione all’interno di una civiltà massificata. Totò nella luna intuisce a tal proposito due livelli di lavoro parodico: 1) agisce per sostituzione: al posto dei baccelli troviamo i fagioloni, al posto delle copie umane i “cosoni” umani, livello primario del comico intertestuale; 2) rifunzionalizza i processi simbolici del film di partenza, dimostrando ottime capacità interpretative: i sostituti di Totò e Tognazzi sono due copie conformi agli originali, solo nude e spaventate; l’incontro con i due “veri” dà vita a una girandola umoristica di equivoci e scambi di persona. Come a dire: la figura del doppio che funziona per spaventare è la stessa che produce il riso. Un’altra sequenza da citare è quella conclusiva: Totò finisce sulla Luna in compagnia del Tognazzi-2, la copia aliena. La scenografia è quasi mélièsiana, fatta di sfondi dipinti e rocce di cartone. Non è molto più che un palco da avanspettacolo, quasi bidimensionale. Tanto per non dimenticare che ci troviamo già in epoca televisiva, il selenita “supremo” decide di mostrare a Totò quello che avviene sulla Terra attraverso un televisore astrale: Totò si trova quasi in Paradiso, sembra un

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po’ Scrooge e un po’ Van Cleve del Cielo può attendere. Ora sua figlia e Tognazzi-1 si sono sposati, hanno dei bebè, e vivono insieme al nonno, ovvero Totò-2, perfettamente integrato. A Totò-1 non resta che rimanere su questa Luna-carosello e chiedere, come ultimo desiderio del condannato, che almeno i marziani trasformino Tognazzi-2 in una piacente fanciulla. Richiesta esaudita, con il sorriso finale del comico napoletano. Il classico lavoro sulle lingue specialistiche di Totò, questa volta, si sbizzarrisce con imbarazzante facilità ai danni del lessico tecnico-fantascientifico – “la forza di gravidanza”, ecc. Inutile sottolineare, naturalmente, che gran parte di questo nuovo vocabolario, sbarca anche in Italia grazie ai prodotti cinematografici. Totò si conferma, in poche parole, il comico in grado di soggettivizzare ogni testualità esterna, e di appropriarsi di qualunque tradizione nazionale o straniera. Lo aveva capito, senza trarne le dovute conseguenze, Valentino De Carlo, recensore della Notte, quando scriveva nel 1958:3 Nel cinema italiano dal 1946 a oggi, Totò è ormai la vittima designata per tutti gli esperimenti tecnici o spettacolari. Soltanto il neorealismo non è stato tenuto a battesimo da lui: è una lacuna. In compenso, abbiamo avuto Totò a colori, in rilievo, in cinemascope, in coproduzione, e in parecchie altre cose. Non poteva certo mancare la parodia del film di fantascienza. Non c’è solo Siegel, tra i precedenti, ma anche Gli invasori spaziali (1953), Assalto alla terra (1954), Tarantola (1955), La meteora infernale (1957). Anche il cinema italiano, proprio nel 1958, apre un filone d’imitazione della farsa americana e inglese con La morte viene dallo spazio di Paolo Heusch, dove peraltro a impensierire il nostro mondo sono asteroidi fuori rotta. Alcuni storici del cinema di fantascienza (Cammarota, Arona), pur riconoscendo la presenza di altri film definibili di “scienza fantastica” nel nostro cinema – si pensi al muto L’uomo meccanico

3) De Carlo, V., “La Notte”, 19 dicembre 1958, ora anche in Caldiron, O., op. cit., p. 182.

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(1921) di André Deed –, sono propensi ad affiancare il film di Heusch e il film di Steno in nome del primato nell’importazione dei temi e delle figure di questo genere. Più avanti, l’Italia ospita un nutrito gruppo di film di fantascienza “spaghetti”, molto spesso di fattura dignitosa e di interesse non secondario: Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava o la breve serie di Antonio Margheriti ne sono un ottimo esempio.4 Il secondo film di cui parliamo è I marziani hanno dodici mani di Castellano & Pipolo, uscito nel 1963. I cinque anni passati dal 1958 di Totò nella Luna non sembrano per la verità aver mutato di molto la percezione del genere fantascientifico. C’è una cosa, però, che si è codificata: la rappresentazione – ancora una volta – della dolce vita. In questo film, infatti, alcuni marziani sbarcano sulla Terra allo scopo di studiarne usi e costumi, si trovano nel bel mezzo della festosa esistenza romana, e decidono di non andarsene più. C’è da dire che I marziani hanno dodici mani si potrebbe apparentemente accostare ai coetanei Il disco volante di Tinto Brass e Omicron di Ugo Gregoretti. Entrambi di impianto ideologico piuttosto visibile, questi film raccontano delle conseguenze sociali che può avere la visita di un alieno. Nel primo caso, gli avvistatori di un disco volante vengono messi a tacere dalle autorità con le buone o con le cattive, perché il paese non venga destabilizzato dall’incontro col diverso. Nel secondo – assai più intrigante – l’extraterrestre, abituato a obbedire e a comportarsi da automa, viene immediatamente sfruttato dalla fabbrica, che ne esalta le doti di lavoratore, salvo poi trovare in lui un acerrimo nemico quando – ormai umanizzato – guida i colleghi allo sciopero. In entrambi i casi, la metafora – molto scoperta – serve a collocare il film in un discorso pragmatico abbastanza frequente per la “commedia all’italiana”, dove – come abbiamo sostenuto – la distanza dalla parodia si conferma in virtù dello sviluppo autonomo che il testo cerca di produrre rispetto al dato di partenza. Questi film, perciò, hanno come interesse primario

4) Cfr. Arona, D., “Breve storia dell’alieno nel cinema italiano”, in Menarini, R., Il cinema degli alieni, Falsopiano, Alessandria 1999.

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quello di costruire un terreno di scambio con il proprio spettatore ricorrendo alla satira sociale e all’allegoria fantastica, mentre I marziani hanno dodici mani, che pure si situa tra parodia e farsa, va verso una “unipuntualità” di codice per tutta la durata della narrazione. Nel lavoro di Castellano & Pipolo si trova un buon gruppo di artisti della rivista: gli alieni sono interpretati da Paolo Panelli, Carlo Croccolo, Enzo Garinei, i “terricoli” da Franchi/Ingrassia, Giuffré, Magali Noël e vari altri. L’incipit del film è dichiaratamente parodistico; anche se i titoli di testa propongono uno stile musicarello – colonna sonora: la canzone “Tremarella” di Edoardo Vianello, ma il resto del film è composto da Ennio Morricone –, incontriamo subito le costanti del genere: theremin, spazio profondo ottenuto con un fotomontaggio, un’astronave alla Ed Wood, e una voce over che, smentendo la minacciosa autorità dell’extraterrestre “ufficiale”, comincia da subito a trasferire elementi satirici nelle tracce di dialogo. L’atterraggio, ad esempio, viene paragonato a una manovra di parcheggio automobilistica: stridore di freni, strisciate, rumori di cerchioni. Dall’astronave provengono battute sui “freni a disco”. L’impianto del film è molto labile. I quattro marziani si confrontano continuamente con usi e costumi dell’Italia del boom/dopo-boom, come il traffico, la politica, le mode giovanili, la sessualità diffusa. È interessante, piuttosto, notare come I marziani hanno dodici mani funzioni come un grande repertorio intertestuale. Facciamo qualche esempio: gli alieni, con vista telescopica, fissano lontano mille miglia un ballo in spiaggia, che trasporta lo spettatore nel coetaneo filone balneare; uno di loro, che prova attrazione fisica per i juke-box, si trova sempre nei dintorni di qualche locale dove si ballano il twist e i maggiori successi del momento – buona scusa per una hit parade dei nostri cantanti; un altro visitatore trova modo di intrufolarsi allo stadio di Roma, mentre si disputa il match tra Lazio e Santos, con riprese d’archivio e il commento di Nando Martellini in persona. Insomma, attraverso la figura dell’extraterrestre lo spettatore dovrebbe ripercorrere i luoghi mediatici del consumo popolare, e riconoscere vizi e virtù della vita

DUE ESEMPI DI PARODIA DI GENERE… ALL’ITALIANA

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moderna. Nel film sono presenti anche Franchi e Ingrassia che, pur costituendo probabilmente un corpo estraneo – compaiono infatti dopo un’ora di proiezione –, sembrano stabilire un contatto con Totò nella luna: interpretano un duo di scrittori di fantascienza, parenti stretti di quel velleitario romanziere interpretato là da Ugo Tognazzi. Di più: sulla parete del loro studio, compaiono gli stessi manifesti pulp presenti nel film di cinque anni prima. Sia chiaro: non ci sembra che si possa trattare di un’allusione, tanto indistinto è lo scambio di materiali in questo periodo cinematografico e più in generale nel filone farsesco. Così come la presenza di Magali Noël non è sufficiente a trovare un rapporto più stretto con La dolce vita che, questa volta sì, rimane sullo sfondo come uno dei tanti elementi di modernizzazione della società italiana. I marziani hanno dodici mani rappresenta, dunque, uno di quei numerosi esempi di parodia “incompleta”, partecipe, però, dei processi pragmatici riconoscibili della farsa cinematografica. Insieme a Totò nella Luna, introduce un discorso parodistico sulla fantascienza poi raramente ripreso, se non nella larga produzione spionisticodemenziale, come nel caso di 002 - Operazione Luna (1965) di Fulci, ancora con Franchi e Ingrassia.

Capitolo Sesto

TRA LA VIA APPIA E IL WEST Per qualche dollaro in più/Per qualche dollaro in meno Durante la trattazione del western all’italiana, in sede di commento, abbiamo enfatizzato il ruolo epico del cinema di Sergio Leone, spesso sottovalutato rispetto alle sue caratteristiche picaresche, e giustificato così il ricorso alla parodia del western all’italiana da parte del genere farsesco. Tra i molti esempi possibili, abbiamo citato Franchi/Ingrassia tra coloro che maggiormente si sbizzarriscono in questo periodo. Esiste, però, un esempio forse più sorprendente, girato da Mario Mattoli. Per qualche dollaro in meno è l’ultimo film del regista prima di morire, e rappresenta probabilmente la sua unica, vera parodia diretta. I protagonisti sono Lando Buzzanca e Raimondo Vianello. Il primo, negli stessi anni, dopo alcune piccole parti nei film di Risi, Germi e Pietrangeli, sta lentamente maturando il proprio personaggio di siculo erotomane – in seguito ipostatizzato dalla commedia erotica anni Settanta –, pur lavorando nelle parodie di 007 dove incarna il pasticcione James Tont – in pellicole come James Tont operazione U.N.O. (1965) di Corbucci e Grimaldi, e James Tont operazione D.U.E. (1966) del solo Corbucci, che anticipano di anni la serie Austin Powers. Per Vianello, al contrario, lo sfruttamento cinematografico è agli sgoccioli: il partner televisivo Tognazzi è riuscito a trasmigrare nella commedia italiana “d’autore”, e al cabarettista, ormai, non rimane che dare fondo alle risorse su grande schermo per concentrarsi poi su una lunga carriera in TV. Dopo il film di Mattoli, infatti, le filmografie riportano solamente Franco, Ciccio e le

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vedove allegre (1966) di Marino Girolami e 7 volte 7 (1968) di Michele Lupo. Per qualche dollaro in meno propone dunque una coppia comica piuttosto inedita. Non a caso, il lavoro intertestuale sul film di partenza è assai più complesso di quello coevo architettato dalla lunga serie delle spaghetti-parodie di Franchi/Ingrassia, dove il ruolo catalizzatore dei due comici assorbe un pulviscolo narrativo che, invece, Mattoli è costretto a costruire da zero. Il film allinea diversi tipi di comicità: troviamo gag metalinguistiche, gag parodistiche e gag di impianto quasi slapstick. Anche in questo caso, la parodia sembra in grado di gettare luce su alcuni aspetti dell’originale. La negoziazione, questa volta, avviene tra generi popolari quasi paritetici, e di fronte a un pubblico meno selezionato. Non si può negare che Per qualche dollaro in meno appartenga anch’esso ai generi che più volte abbiamo chiamato “di profondità”, ma esclude un confronto polemico come quello fra Totò e Fellini, esaminato in precedenza. Il film di Mattoli contratta il proprio spettatore attraverso il cinema di Leone. In che modo? È ipotizzabile che le figure principali del cinema di Leone mantengano intatta la propria funzione eroistica. La nostra tesi, che abbiamo avuto modo di esporre, è che il rapporto tra Buzzanca e Eastwood o Vianello e Van Cleef appartenga alla parodia dell’epicità, e non tanto a una ulteriore dispersione comica di un materiale già di partenza protetto dall’autoironia. Il pubblico che premiava in massa le gesta violente dei protagonisti della Trilogia del Dollaro non avvertiva altro che a livello inconscio il lavoro di distacco dal cinema classico. Non è quindi sbagliato definire “manierista” questo cinema, piuttosto che parodistico o post-moderno. Se questa tesi funziona, Per qualche dollaro in meno non deve sorprenderci: i comici indossano i panni di anti-eroi, gli avvenimenti della complessa trama di Luciano Vincenzoni vengono ridotti a una serie di sequenze-culto da riconvertire, Per qualche dollaro in più diventa testo autoritario di cui farsi beffe. Facciamo alcuni esempi.

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Incipit Il film di Leone possiede un inizio giustamente celebre. Un campo lunghissimo inquadra un uomo a cavallo che sta attraversando una distesa piatta. Nel silenzio rotto solo dai versi degli animali, udiamo caricare un’arma. Poco dopo uno sparo, vicino a noi: l’uomo a cavallo cade, colpito a morte. Titoli di testa. Il film di Mattoli comincia allo stesso modo. Vediamo anche in questo caso avvicinarsi una persona a cavallo, sebbene gli spazi siano meno dilatati. Il campo lungo non ci permette di scorgere il cavaliere. Dal lato sinistro dell’inquadratura compare una pistola: ci troviamo, probabilmente, in un regime di semi-soggettiva, che esplicita il non detto nel film parodiato. La pistola spara, ma non colpisce il bersaglio. Questa volta, compare un fucile: ancora un errore. Poco dopo, ecco invadere lo schermo un cannone, che fa fuoco potentemente. Niente da fare. Si ode la voce del cavaliere, intatto, che grida: “Altro che cannone. Piuttosto, mettiti gli occhiali”. Come si comprende, il primo gesto parodizzante è compiuto. Viene rispettata la collocazione della sequenza (prologo prima dei titoli), viene introdotto l’elemento di imitazione (morfologico e tematico), ma si costruisce una gag in cui alla precisione dei pistoleri leoniani si sostituisce l’iperbole opposta. Il protagonista di Mattoli deve essere mezzo cieco, se è vero che non riesce a colpire il suo bersaglio nemmeno con un cannone. Degli eroi di Per qualche dollaro in meno, insomma, vengono svelati da subito le scarse attitudini western. Secondo Marcello Garofalo l’incipit di Leone spiega l’intera attitudine del regista. Scrive, infatti: Leone apre con un gioco ad effetto (un puntino bianco su sfondo rosso) che enfatizza attraverso un’animazione il suo “piacere del testo” e poi immediatamente cancella, con un piano sequenza lontanissimo, qualsiasi ombra di “realismo”: c’è un fischio, c’è il silenzio, c’è il rumore di caricamento dell’arma, c’è lo sparo; il cavallo fugge via e il titolo si delinea bianco sulla terra, sinuoso, fino a portarsi frontalmente; parte

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la musica, un altro sparo, e la parola “qualche” si spezza in due; altri spari, altri credits. Il cinema, come la lingua, è una forma e non può essere realista o irrealista. La fortuna del cinema di Leone, che ne ha garantito una specie di inossidabilità al tempo, sta anche nel fatto che il Nostro ha sempre accuratamente evitato di confondere il reale ideologico con quello semiologico. Al linguaggio del regista, come a quello dello scrittore secondo Barthes, non spetta il compito di rappresentare il reale, ma di significarlo.1 La descrizione di Garofalo, che abbiamo rispettato nella sua completezza, ci appare decisiva per comprendere – oltre che il cinema di Leone – la sequenza parodiante di Mattoli. Non è tanto, insomma, la “lettera” della sequenza a interessare il testo B (parodiante), quanto il senso del cinema che rappresenta. Mattoli, riuscendo a non personalizzare – come fa Leone – quel personaggio alle cui azioni, in certo qual modo, lo spettatore “partecipa” – lo “shooter” acusmatico, senza corpo –, costruisce tutt’intorno agli eventi un gag di sapore metalinguistico. In esso confluisce, evidentemente, la riduzione comica delle gesta prodigiose del mondo fumettistico di Leone, ma anche l’ironia nei confronti dei modi della messa in scena utilizzati dal regista parodiato. Un’altra situazione di partenza importante è data dalla presenza di una fidanzata del nostro eroe, interpretata dalla Valeria Ciangottini di felliniana memoria, che di professione lavora nelle pompe funebri. La presenza della morte e del macabro carnevale leoniano diventa spunto impiegatizio, quasi a rendere reali, a “letteralizzare” le suggestioni figurative e metaforiche del film di partenza. In un saggio sul western all’italiana, del resto, Franco Ferrini inserisce tra le voci di un’ideale enciclopedia comparata tra western italiano e western classico anche il “cimitero”: “Voi che passate su questa collina isolata, fermatevi e pregate, non piangete per noi che abbiamo raggiunto così presto la 1) Garofalo, M., Tutto il cinema di Sergio Leone, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 326.

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nostra ultima dimora, la coperta per sudario, la sella per cuscino, gli stivali ancora ai piedi”, così i versi del cantastorie per i morti di Boot Hill (= collina degli stivali, con allusione alla banalità quasi quotidiana nel West della morte violenta), il famoso cimitero non lontano dal non meno famoso O.K. Corral. La morte violenta è nel west moneta corrente. Si ricordi la didascalia che apre Per qualche dollaro in più: “là dove la vita non aveva nessun valore, la morte aveva il suo prezzo…” Essa infatti non risparmia nessuno, né uomini né animali.2 Per qualche dollaro in meno, in verità, non è il film più amato dagli studiosi (e appassionati) di Mattoli. Secondo Stefano Della Casa, ad esempio: La trovata del film consiste nella versione comica dello spunto di Il buono, il brutto, il cattivo (probabilmente intendendo Per qualche dollaro in più, nda), che era già un western picaresco. Ma l’idea non è sviluppata più di tanto.3 Secondo Della Casa vale dunque il problema del tono di fondo dell’originale leoniano che, essendo attraversato da motivi provenienti dalla commedia dell’arte e dalla tradizione goldoniana – ricordiamo che Sergio Leone si difese dall’accusa di plagio nei confronti di Yojimbo di Kurosawa sostenendo proprio che Per un pugno di dollari derivava dall’Arlecchino servo di due padroni –, non permetterebbe facili aggiramenti parodistici. Eppure Franchi/Ingrassia girano discrete pellicole in questo periodo sullo stesso canovaccio. Buzzanca, intanto, diventa l’anti-Eastwood e l’anti-Bond. Sembra pensare a lui, Tullio Kezich, quando scrive, nel 1966: In Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (…) si deve constatare che il Pistolero è un personaggio nuovo sulla scena 2) Ferrini, F., L’antiwestern e il caso Leone, Bianco&Nero, studi monografici, nn. 9/10, 1971; ma cfr. anche Krohn, B., Toubiana, S., “Hommage à Sergio Leone”, Cahiers du Cinéma, n. 422, 1989, pp. 8-19; Mininni, F., Sergio Leone, La Nuova Italia, Firenze 1989; Martini, E., Salizzato, C., “Speciale Leone”, Cineforum, n. 238, ottobre 1994, pp. 29-40 3) Della Casa, S., Mario Mattoli, La Nuova Italia, Firenze, 1989.

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del western ed è nato non a caso nell’era di James Bond e degli altri superuomini in voga nel momento attuale (in Italia sono tornati di moda i fumetti di Flash Gordon, negli Usa sta furoreggiando la serie TV dedicata a Batman e, a Broadway, c’è un musical sul personaggio di Superman: It’s a Bird, it’s a Plane… it’s Superman). Tra le componenti del pistolero figura certamente un’influenza del realismo italiano, almeno per quello che riguarda la scelta del tipo…4 Ma si pensi anche al ricordo di Oreste De Fornari: All’epoca era di moda, anche tra i letterati, discutere di James Bond e di spaghetti western. Moravia pensava che il successo di questi film fosse dovuto alla paura inconscia della sovrappopolazione. Le stragi di Clint Eastwood e dei suoi colleghi sarebbero una soluzione-lampo a questo problema. (…) Ma Leone cercava attrattive più solide del sadismo o della parodia.5 In queste parole, in cui ritroviamo anche le tracce di un’altra grande analisi socio-culturale – quella del Super-uomo di massa di Umberto Eco –, le parodie bondiane e quelle leoniane sembrano possedere caratteristiche simili, anche se Per qualche dollaro in meno non rinuncia a posare l’accento proprio su quella forma di “realismo” che il western all’italiana ha declinato insieme al tema della falsificazione delle origini, intreccio su cui ulteriormente si dovrebbe lavorare in vista di una definizione dei generi italiani. Del film di Leone, rimangono alcuni elementi lessicali – penso soprattutto al poncho del Monco, alla cassaforte/credenza piena di delicate banconote, o all’ossessivo carillon –, mentre la trama si struttura in maniera più contorta. Per qualche dollaro in meno, in pratica, è costruito in modo che la storia vada a intersecarsi di quando in quando con le sequenze-culto del suo modello. Questo, sia chiaro, vale per buona parte della parodia: funzionano così sia Totò, Peppi4) Kezich, T., “Il Pistolero innominato”, in Il mito del Far West, Edizioni Il Formichiere, 1980, p. 196. 5) De Fornari, O., Tutti i film di Sergio Leone, Ubulibri, Milano 1984

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no… e la dolce vita, sia la maggioranza delle parodie di Franchi e Ingrassia. I motivi, già emersi, vanno ricercati nell’effetto di ridondanza che una parodia diretta e puntuale rischia di produrre. Il film di Mattoli, tuttavia, è costruito fin troppo artificiosamente. Per giungere alle sequenze di parodia diretta, infatti, il testo ha bisogno di istituire comunque un intreccio con tre personaggi principali. La coppia Monco/Mortimer è qui Buzzanca/Vianello, nei panni del cugino di Lando. Mentre Buzzanca gira con il poncho del Monco e un ciuco al posto del cavallo, Vianello veste più o meno alla stessa maniera di Van Cleef, di cui possiede anche portamento e figura longilinea. Durante una visita al saloon, Vianello srotola dal fodero della giacca un numero infinito di pipe e accendini, infine – come Eta Beta – estrae persino una bottiglia di whisky e una di selz. L’effetto di esagerazione riguarda qui la trovata leoniana delle armi arrotolate dentro la gualdrappa del cavallo, tocco di classe dello ieratico Mortimer. Altrove, l’ironia colpisce l’esibizione del calcolo nel film originale: là i conti sulle taglie e sul numero dei malviventi costituiscono un Leitmotiv del deprezzamento della vita da parte di cacciatori e bounty killer; qui Vianello e Buzzanca cercano in tutti i modi di far aumentare la taglia su quest’ultimo, sortendo effetti ridicoli e disastrosi: ogni volta, la taglia è sempre minore. Insomma, quello di Mattoli è davvero un mondo parodistico ribaltato. E di fronte all’universo leoniano dell’iperbole, il risultato non può che uscirne rafforzato. I momenti più celebri di Per qualche dollaro in più vengono tutti quanti puntualmente ripercorsi. La sequenza più divertente è senza dubbio quella del flash-back progressivo di Vianello. Al posto della sorella trucidata dall’Indio, questa volta scopriamo – solo dopo molti tentativi di ricordare gli avvenimenti da parte del protagonista – che la causa del trauma giovanile del cowboy è un maialino da latte. In questo senso, oltre alla sostituzione lessicale in grado di attivare l’esperienza comica, possiamo considerare la gag come metalinguistica. Mattoli, infatti, sembra voler segnalare anche le convenzioni dell’uso del flashback all’interno dei canoni narrativi che lo stesso Leone, sia

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pure virtuosisticamente, rispetta: Vianello appare bloccato nelle proprie funzioni motorie ogni volta che ricorda qualcosa, e tocca al compagno scuoterlo da una condizione ipnotica scatenata dal flash-back, chiara allusione alla situazione spettatoriale. Non c’è dubbio, però, che i momenti parodistici più alti appartengano a Elio Pandolfi, nei panni del sosia di Indio. Sergio Leone amava ricordare che l’idea di rendere il personaggio di Volonté un drogato di cocaina gli era venuta sul set, “per giustificare gli eccessi del personaggio”. 6 L’Indio di Pandolfi – che aveva già lavorato insieme a Mattoli in Obiettivo ragazze (1963) –, è una copia se possibile ancor più eccessiva, un istrione senza più controllo che si addormenta e perde la ragione nei momenti meno opportuni e finisce con l’essere lucido solo “sotto sostanza”. Quando Buzzanca, che non comprende la dipendenza del compagno di cella, è costretto a trovargli qualche “foglia”, strappa da un ramo la prima che trova e gliela porge, scatenando le ire del villain. Riassumendo, possiamo definire Per qualche dollaro in meno una parodia esplicita dalla costruzione multipla: troviamo, infatti, la presenza di una struttura narrativa alternativa, che coglie l’occasione per sovrapporsi all’originale in alcune sequenzechiave; il ricorso a gag intertestuali che esprimono – in aggiunta – un elemento di riflessione metalinguistica più generale; l’ultima, sfilacciata resistenza del film-rivista e dell’avanspettacolo - ormai televisivo – trasferito su grande schermo. Si dimostra, grazie a questa analisi, che il consumo del cinema di Leone è tale da permettere un utilizzo “canonico” di film come Per qualche dollaro in meno. Il precedente Per un pugno nell’occhio (1965) di Michele Lupo e il successivo Il bello, il brutto, il cretino (1967) di Gianni Grimaldi confermano il rapporto ipertestuale – usando la definizione di Genette –, tra testo autoritario e sua parodia.

6) Cfr. Faldini, F., Fofi, G., a cura di, L’avventurosa storia del cinema italiano

Capitolo Settimo

Il DOPPIO VOYEUR Da Psyco a Psycosissimo

Psycosissimo (1961) di Steno fa parte delle parodie dedicate al cinema d’importazione. In questo caso, gli sceneggiatori – tra cui troviamo il solito Vittorio Metz – scelgono di bersagliare il capolavoro di Hitchcock. Il film di Steno riveste un’importanza particolare perché, grazie all’indicatore di intertestualità del titolo, svela l’intenzione dell’opera nel parodiare il film del maestro inglese, e autorizza per di più il riconoscimento delle allusioni a tutto il resto della sua opera di Hitchcock, un po’ come avviene per L’orribile segreto del Dr. Hitchcock (1963) di Riccardo Freda. Non si tratta, infatti, di una parodia diretta e riconoscibile del coevo thriller, bensì di un film-farsa che adatta parecchie situazioni derivate dalla carriera di Hitchcock. Considerando la frequenza con la quale il cinema moderno e contemporaneo ha poi citato e rielaborato apertamente la sua filmografia, Psycosissimo appare un tentativo in anticipo sui tempi. La parodia, in quegli anni, è – come abbiamo visto – un “luogo” esteso di pratiche complesse nella quale precipita tutta la costellazione rivistaiol-farsesco-televisiva degli anni Cinquanta. Vianello e Tognazzi, ancora in attesa di dividersi per due sentieri divistici molto differenti tra loro, si dedicano al riadattamento comico di parecchi film di successo. Poco prima di Psycosissimo, ad esempio, i due hanno girato, sempre in compagnia del fedele Steno, A noi piace freddo (1960), libera riscrittura parodistica del film di Billy Wilder. In quel caso, l’idea era di far funzionare a grana grossa la stessa intuizione del filmmodello, ovvero il tema del travestitismo e della maschera

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come detonatore umoristico. Si può dire che in A noi piace freddo, sul ribaltamento parodistico ha la meglio il desiderio di confronto tra la nostra coppia d’attori e quella formata da Curtis/Lemmon. Psyco, a sua volta, è stato un film di grande successo nella stagione 1960-’61. La Borsa Film del 30 agosto 1961 lo posiziona al terzo posto della classifica dei “Film Esteri” e al settimo di quella generale, all’interno di un periodo davvero fortunato per il consumo cinematografico in Italia. Psyco, targato Paramount, guadagna la bellezza di 294 milioni, superato, per quanto riguarda le pellicole hollywoodiane, solo dai megaspettacoli di Ben Hur (732 milioni) e Spartacus (358 milioni). Psycosissimo, al contrario, si configura come opera conflittuale, in cui modello nero-orrorifico americano e provincia italiana, una volta di più, dialogano e contrattano con infinite sfumature. La storia racconta le disavventure di due pessimi attori d’avanspettacolo che cercano di sbarcare il lunario con i pochi soldi guadagnati dalla spogliarellista compagna di Tognazzi; alcune “prove da camera” di teatro grandguignolesco, però, vengono scambiate per veri delitti. Questo fraintendimento fa sì che si crei un equivoco dietro l’altro, tanto che i due vengono incaricati da un ricco industriale di eliminarne la moglie fedifraga. La promessa di denaro convince il duo di poter ingannare il committente inscenando un falso delitto: non hanno fatto i conti con la furbissima donna, che a sua volta ha progettato l’omicidio del ricco consorte. Vianello e Tognazzi si presentano nella prima sequenza vestiti come il tenente Sheridan, grazie all’inconfondibile impermeabile bianco. Iconograficamente, il rapporto con la televisione è soddisfatto. Sempre in apertura, un passante assiste dalla strada a un terribile delitto, commesso dai nostri protagonisti, dentro la cornice di una finestra aperta e ben illuminata da luce artificiale. In questo caso, il primo riferimento non è tanto a Psyco quanto alla tentazione del guardare notoriamente presente in La finestra sul cortile. L’allusione, però, sembra già – almeno a noi contemporanei – un richiamo non testuale, un rimando che non compete a sequenze specifiche, o nemmeno al singolo film. Fin dall’inizio, insomma, Psycosissimo

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impone un’asse strutturale sullo sguardo proibito, che parodizza l’universo-mondo hitchcockiano ma ne saggia la tenuta all’interno del comico – un po’ lo stesso discorso fatto per la figura del doppio in Totò nella Luna ma con maggior consapevolezza teorica. Steno, in tal caso, si dimostrerebbe – oltre che un solido mestierante del comico – un capace “critico” in grado di interpretare e decostruire i successi di cui deve girare la parodia istantanea. Non possiamo, qui, soffermarci sulle innumerevoli combinazioni che la figura del “guardante” ha assunto nel cinema di Hitchcock. Vale la pena, almeno, ricordare le parole di Gilles Deleuze quando afferma, a proposito di Rear Window: L’eroe della Finestra sul cortile accede all’immagine mentale non perché semplicemente fotografo, ma perché in uno stato di impotenza motrice: è ridotto in qualche modo a una situazione ottica pura. Se è vero che una delle novità di Hitchcock era quella di implicare lo spettatore nel film, non bisognava forse che gli stessi personaggi, in modo più o meno evidente fossero assimilabili agli spettatori?1 Come noto, nel sistema deleuziano, Hitchcock rappresenta la categoria dell’immagine-relazione, capace di far saltare lo schema senso-motorio dell’immagine-azione, tanto della grande quanto della piccola forma, e ciò in virtù dell’assimilazione dello spettatore all’interno del testo. Questo rilievo – pur attraverso differenti strumenti teorici – è acquisito dalla gran parte della critica hitchcockiana, precedente o successiva alla trattazione del filosofo francese. Di che cosa parla, ad esempio, François Truffuat se non della condizione dello spettatore hitchcockiano quando scrive: Rear Window è un film dell’indiscrezione, dell’intimità violata e sorpresa nel suo carattere più infamante, il film della felicità impossibile, il film della biancheria sporca che si lava in corti1) Deleuze, G., L’image-mouvement, Éditions de Minuit, Paris 1983; tr. it. L’immaginemovimento, Ubulibri, Milano 1984, p. 234.

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le, il film della solitudine morale, una straordinaria sinfonia della vita quotidiana e dei sogni distrutti.2 Dunque, la figura del guardante, o del voyeur, per utilizzare un termine più pregnante, diventa il centro della galassia hitchcockiana. Ancora, leggiamo le sagge parole di Cosetta G. Saba, tratte dalla sua lucida monografia sul film: Il protagonista di La finestra sul cortile è al contempo un’“osservatore”, uno “spettatore” e un “narratore”; la soggettiva nel caso di Jeff è il modo specifico in cui l’istanza enunciativa gli conferisce, transitoriamente, i poteri dell’attività enunciativa, lo delega al racconto e ne fa un narratore temporaneo, un narratore affatto particolare: un narratore che si racconta raccontando ciò che “guarda”.3 Ancora un po’ di pazienza e giungeremo al nocciolo della questione. A partire dall’incipit del film, con la scena dell’omicidio spiata dal passante, abbiamo dunque individuato un’allusione al celebre capolavoro del 1954. Tuttavia, il titolo del film di Steno richiama esplicitamente Psyco. Anche per Psyco buona parte della letteratura critica insiste sul ruolo dello sguardo, a partire dall’incipit nel quale la mdp si insinua dentro una camera da letto dove si consuma un adulterio, per continuare poi con la sequenza nella quale Norman Bates spia da un buco sulla parete le grazie di Janet Leigh. Il regime scopico del film viene, in seguito, enfatizzato dal ricorso a soggettive e semisoggettive in grado di definire lo spazio psicologico della scena e persino introdurre gli elementi simbolici del racconto. Ad esempio, nel suo studio su Hitchcock, Jean Douchet4 insiste 2) Truffaut, F., Les Films de ma vie, Flammarion, Paris 1975; tr. it.: I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978, p. 94. 3) Saba, C.G., Alfred Hitchcock. La finestra sul cortile, Lindau, Torino 2001, p. 109. 4) Douchet, J., Hitchcock, Cahiers du Cinéma, Paris 1999 (Herne 1967); cfr. inoltre le analisi hitchcockiane di Bellour, R., L’analyse des films, Albatros, Paris 1980; Bruno, E., a cura di, Per Alfred Hitchcock, Editori del Grifo, Montepulciano 1981; Gosetti, G., Alfred Hitchcock, Il Castoro, Milano 1996; Simonelli, G., Invito al cinema di Alfred Hitchcock, Mursia, Milano 1996; Rohmer, E., Chabrol, C., Hitchcock, Éditions Universitaires, Paris 1961; tr. it.: Costa, A., a cura di, Hitchcock, Marsilio, Venezia 1986.

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sugli elementi di scambio che Norman e la vittima Marion trasferiscono attraverso lo sguardo. Il critico francese, tra l’altro, tende a ridimensionare l’influenza di Poe su Psyco e ad introdurre, al contrario, la presenza di Shakespeare: Psyco come Hamlet rovesciato, in cui l’onirismo come avvertimento sul reale diventa un reale intervenuto sul proscenio di un teatro schizofrenico. Perché, dunque, vogliamo considerare Psycosissimo come una parodia latente dell’intero mondo hitchockiano? I segnali – alla luce delle testimonianze critiche sopra elencate – sono numerosi, e in particolare di tipo narrativo, stilistico e simbolico. 1) Da un punto di vista narrativo, possiamo individuare nel film di Steno alcune allusioni ironiche. Di Psyco troviamo la figura del motel, qui sostituito da un ben poco gotico albergo fuori città; la presenza di teschi e di scheletri travestiti da donne – come quello che si porta in giro l’irresistibile Vianello nel tentativo di fingere un incidente –; e piccoli elementi di riporto – lame, coltelli, armi bianche. Della restante filmografia hitchockiana, incontriamo invece episodi più sorprendenti. Ad esempio, il film rappresenta la messa in scena della morte di un personaggio di donna ingannatrice, bionda, che ritorna poi alla realtà vestita in altro modo: difficile non pensare a La donna che visse due volte, citato nuovamente durante una sequenza in cimitero che ricorda la vertigine di James Stewart di fronte alla tomba della sua amata; inoltre, il volto del cameriere di Gabriele Mulé, infido e traditore, somiglia in maniera straordinaria a Farley Granger, e si presenta in guanti da omicida – in verità da collaboratore domestico – tenendo fra le mani una corda, riferimento implicito a Nodo alla gola. Ancora, i due protagonisti vengono incaricati da Mulé di uccidere la moglie, grazie a un “contratto” che rimanda contemporaneamente a Delitto per delitto e a Il delitto perfetto. Infine, quasi a dimostrare la sottigliezza di allusione da parte di Steno, nello scontro finale, ambientato all’interno di un macello e pieno di inseguimenti e incidenti circensi, Tognazzi si

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arrampica su una macchina tritacarni che funziona come un mulino: Il prigioniero di Amsterdam. 2) Stilisticamente, Steno mima modi di ripresa e tendenze di messa in scena appartenenti a Hitchcock. Le inquadrature di Edy Vessel, nella parte dell’infida Annalisa che complotta per uccidere il marito, sono chiaramente tese a farne un ibrido tra Kim Novak e Janet Leigh, in questo senso offrendo un’indicazione sullo stereotipo della donna hitchcockiana. Dentro l’abitazione di Michelozzi/Mulé, particolarmente oscura e minacciosa, si privilegiano le riprese dal basso, i chiaroscuri e le soluzioni luministiche del b/n di Psyco. Infine, possiamo citare la sequenza dell’avvelenamento di Tognazzi – dove riecheggia naturalmente la memoria del Sospetto – in cui Edy Vessel armeggia con bicchieri di spumante ripresi in primissimo piano così da ottenere in dettaglio l’oggetto incriminato e sfondare il centro dell’inquadratura con la profondità di campo. Questa è, probabilmente, già una leggera forzatura dello stile di Hitchcock, una dilatazione che, in versione seria o parodica, apparterrà poi al cinema di De Palma o di Zucker-Abrahams-Zucker. 3) Simbolicamente, Psycosissimo insiste sugli stessi elementi di Psyco. La psicopatologia del male, che viene smontata pezzo per pezzo nella celebre analisi lombrosiana del volto di Vianello; l’asse dello sguardo come vettore essenziale del percorso dei protagonisti, qui ridotto al “buco della serratura” tipico della commedia semi-erotica e poi erotica degli anni Settanta; il legame tra sensualità e omicidio come pulsioni che in molti casi si intrecciano perversamente. In sostanza, ci sembra di poter affermare che Steno lavori su due principali forme di parodia. Da una parte, confeziona un Hitchock-movie parodistico come sarà, qualche anno dopo, Alta tensione (1977) di Mel Brooks. Dall’altra, non potendo fare a meno di costruire una farsa di impianto dialogico con la televisione, gioca a stimolare la pruderie dello spettatore rifunzionalizzando il tema dello sguardo voyeuristico di Hitchcock. Ogni sequenza di suspense ribaltata, quindi diciamo pure ogni gag si gioca sull’aspetto della pulsione scopica, finendo col

Il DOPPIO VOYEUR

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decretare un doppio regime da “voyeur”, quello del negativo – portatore di perversione, orrore, morte – e quello del positivo – catalizzatore di esperienze comiche. Ciò che scrive Gian Piero Brunetta di Hitchcock, ovvero: Quasi influenzato dalle leggi di Heisenberg, Hitchcock è convinto che è lo sguardo di chi osserva che trasforma la realtà, non tanto i comportamenti oggettivi dei personaggi che spesso seguono la loro logica fino in fondo. E contro all’azione che trasforma la realtà, non esiste una parallela trasformazione totale del protagonista. Anche la rimozione di un ricordo o di un incubo è posta in forma interrogativa.5 sembra, mutatis mutandis, valere anche per i Tognazzi e Vianello di Psycosissimo, In pratica, ogni scena da buco della serratura, ogni spiata dalla finestra, ogni apparizione macabro-umoristica fa procedere il racconto e crea “eventi”, il che forse – come abbiamo avuto modo di suggerire – dice qualcosa del declino della commedia farsesca in commedia erotica, proprio all’interno di una chiara involuzione nel rapporto intermediale tra forme di spettacolo. Lo sguardo passivo, che trova in Hitchcock un paradossale compagno di viaggi, sembra deleuzianamente iscrivere lo spettatore nel gioco dell’immagine-relazione degradata, come unica forma possibile di personaggio nell’epoca dell’umorismo televisivo. Il film di Steno, per di più, conferma che la parodia di inizio anni Sessanta tende a lavorare sul fronte del decadimento dei costumi morali: sia Totò, Peppino… e la dolce vita che Psycosissimo giocano sull’apertura dei confini del visibile che permette a mode importate – il thriller psicotico alla Hitchcock – o decisamente italiane – Fellini, il night club, lo spogliarello, l’orgia, le prime avvisaglie di rivoluzione sessuale, la pubblicità allusiva o più in generale l’industria della cultura tendente all’erotico e al proibito –, di trionfare nel sistema dei mass media. Ancora una volta, la parodia italiana è contemporaneamente

5) Brunetta, G.P., Il cinema di Hitchcock, Marsilio, Venezia 1994.

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trasgressiva e regressiva. Trasgressiva quando ricolloca nel discorso il canone del cinema d’autore o del cinema internazionale più stimato – Hitchcock era già stato ampiamente “sdoganato” dai Cahiers –; regressivo poiché vive di parassitismo scandalistico rispetto ai propri modelli, assai più coraggiosi, e finisce col rappresentare una forma di difesa nei confronti delle istanze moderniste dei propri testi di riferimento. Non c’è, in questi film, una vera negoziazione rispetto al sociale, che senza dubbio riceve più scosse da Fellini e da Hitchcock che non da Steno o Girolami. Questo – sia chiaro – non impedisce allo studioso o allo spettatore più attento di godere del lavoro intertestuale di volta in volta messo in pratica. Una breve aggiunta. Pysco è il film senza dubbio più citato della storia del cinema. La famigerata scena della doccia compare ovunque, tanto che è difficile persino stabilire un censimento delle citazioni. Tuttavia, proprio la persistenza della scena ha dato vita a un paradossale effetto di “tramonto” dell’originale, per cui siamo talmente certi di cogliere l’allusione tutte le volte che essa compare da dimenticarne l’origine. Chiaramente, il cinema che più ha contribuito a declinare la citazione hitchcockiana, nelle maniere più disparate, è quello americano postmoderno, dove – si chiamino De Palma, Zemeckis, Demme o Craven – i registi hanno espresso il piacere del richiamo autoritario, una sorta di evocazione testuale in funzione nobilitante. La sequenza della doccia, curiosamente, non è presente in Psycosissimo, salvo forse un’allusione talmente indiretta da far dubitare della sua pertinenza. Il cinema italiano parodistico, in verità, ha voluto mettere in scena il proprio omaggio scherzoso molto più tardi, con Il silenzio dei prosciutti (1994) di Ezio Greggio. Come si comprende dal titolo, il film di Greggio è prima di tutto una parodia di Demme, e quindi di tutto il cinema definibile “psico-thriller”: la scena della doccia torna di moda per vie indirette, ovvero quando Demme aggiorna alla brutalità contemporanea il cinema del Maestro e “convoca” per allusione il resto del suo cinema. Non è dunque un caso che Greggio rispolveri la parodia dopo tanto tempo, ma ci conferma che Hitchcock si riduce sempre più a una figura di un quadro palinsestuale in cui gli allievi coniugano il

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verbo cinematografico. È la situazione più vicina a quella della Bibbia di cui parlavano Almansi/Fink. Ormai ogni film thriller non può che essere un film hitchcockiano, e ogni film hitchcockiano è, al tempo stesso, un Falso e una Parodia dell’originale. Ecco perché possiamo serenamente affermare che il miglior remake – in senso lato – di Hitchcock lo ha realizzato Gus Van Sant, quando ha deciso di riprodurre sequenza per sequenza proprio Psyco, grazie a un atteggiamento da artista pop, che fa saltare ogni codice di distinzione tra omaggio, parodia, aggiornamento, citazione. Come interpretare l’operazione? Come scrive Genette: Si può concepire una trasformazione puramente semantica, non accompagnata da alcun intervento pragmatico, diegetico, e nemmeno formale? È la sfida di Borges, come si ricorderà, che fa scrivere ex novo a Pierre Menard una versione del Chisciotte dalla lettera rigorosamente identica a quello di Cervantes, ma a cui l’intervallo storico di due secoli conferisce maggior ricchezza e profondità, e tutt’altro senso. Questa sfida (…) non è che una mostruosa estensione del principio di parodia.6 Psycho 98 è, però, un film a colori, quindi non solo un testo differente ma anche esplicitamente “camuffato”: inoltre, vi sono alcune aggiunte a livello di colonna sonora, di inquadrature, o persino di fotogrammi. Gianni Canova, che ha dedicato al film alcune pagine molto dettagliate, afferma: I “segni aggiunti” non producono senso, lo ottundono. Come se Van Sant volesse neutralizzare la perfezione della segnaletica hitchcockiana. Come se (…) volesse squarciare con coltellate feroci il corpo troppo seducente del film di Hitchcock. Come se mettesse i baffi alla Gioconda, o clonasse un’icona 6) Genette, G., op. cit., p. 379.

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della cultura pop contemporanea: quasi tagliando una tela perfetta in un gesto che è al contempo di feticismo, di desiderio e di rabbia. Psycho di Gus Van Sant sta fra Andy Warhol e Dada: là dove il cinema ama il proprio modello di un amore tanto forte da produrne la morte.7 Ecco, ci piace pensare che Psycosissimo, ma in fondo tutti i filmparodia di cui ci siamo occupati, non siano altro che atti d’amore profondissimi, ora mascherati da espressioni d’odio innalzatesi in difesa di un pubblico in via di trasformazione, ora antagonisti e davvero – come vuole qualcuno – in grado di “svelare” la rigidità dei sistemi di rappresentazione canonici, eppure quasi sempre animati da una sincera, conflittuale e forse invidiosa ammirazione per i testi presi di mira. Non si spiegherebbe altrimenti la finezza interpretativa con la quale Steno – e tanti altri colleghi – mostrano di conoscere la materia prima.

7) Canova, G., L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000, p. 55; e cfr. Lalanne, J.M., “Psycho 98”, Cahiers du Cinéma, n. 532, 1999, pp. 45-46; Rebello, S., Alfred Hitchcock and the Making of “Psycho”, Martin’s Griffins, New York 1998; tr. it.: Come Hitchcock ha realizzato “Psycho”

FILMOGRAFIA

La presente filmografia intende offrire uno strumento per la schedatura del genere parodistico in Italia. Abbiamo insistito spesso, durante le pagine precedenti, sulla difficoltà con la quale si può riconoscere una parodia sicura e certificata. Molti film hanno un titolo parodico (es. Indovina chi viene a merenda) poi non sviluppano il tema; altri contengono momenti parodistici o allusioni ma non sono vere e proprie parodie. Abbiamo, perciò, attribuito la qualifica di parodia a film che possiedono certe caratteristiche: film il cui testo di partenza costituisce un motivo essenziale alla comprensione dell’opera – forme di genere comprese: per es. il genere bellico (es. Patroclooo!…), il film peplum (es. Remo e Romolo) –; film che contengono elementi parodistici tali da costituire la sostanza del testo (Il mio amico Jekyll); film che recano un titolo parodistico, non seguono le tracce del testo modello, ma costruiscono altri tipi di allusione comica grazie a trasformazioni intersemiotiche (es. Psycosissimo). Sono escluse le innumerevoli parodie pornografiche, non uscite nel circuito tradizionale. Come spiegato nel testo, sono assenti tutti i film comici, commedici, farseschi o erotici che non abbiano una spiccata fisionomia parodistica (es. il filone decamerotico). Abbiamo, inoltre, indicato di ogni pellicola il titolo, l’anno, il nome del regista e dell’interprete principale del film, più di uno se il film prevede l’uso di vari protagonisti alla pari. Abbiamo scelto di non fornire una filmografia delle parodie all’epoca del muto, poiché è pressoché impossibile individuar-

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le con una sia pur minima certezza: molte sono perdute, altre non abbiamo potuto vederle, altre forse non esistono. Si rimanda, per questo argomento, al capitolo specifico.

Anni Trenta Nerone (1930) di Alessandro Blasetti con Petrolini

Anni Quaranta Il pirata sono io (1940) di Mario Mattoli con Macario 1000 km al minuto (1940) di Mario Mattoli con Macario Il fanciullo del West (1942) di Giorgio Ferroni con Macario Macario contro Zagomar (1943) di Giorgio Ferroni con Macario Fifa e arena (1947) di Mario Mattoli con Totò I due orfanelli (1947) di Mario Mattoli con Totò e Carlo Campanini Totò le Mokò (1949) di Carlo Ludovico Bragaglia con Totò I peggiori anni della nostra vita (1949) di Mario Amendola con Paolo Stoppa

Anni Cinquanta Io sono il Capataz (1950) di Giorgio Simonelli con Renato Rascel Adamo ed Eva (1950) di Mario Mattoli con Macario Figaro qua figaro là (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia con Totò Le sei mogli di Barbablù (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia con Totò Tototarzan (1950) di Mario Mattoli con Totò Totò sceicco (1950) di Mario Mattoli con Totò Totò terzo uomo (1951) di Mario Mattoli con Totò OK Nerone (1951) di Mario Soldati con Walter Chiari Napoleone (1951) di Carlo Borghesio con Renato Rascel Tizio, Caio e Sempronio (1951) di Vittorio Metz con Nino Taranto Io, Amleto (1952) di Giorgio Simonelli con Macario Il bandolero stanco (1952) di Ferdinando Cerchio con Rascel Il sogno di Zorro (1952) di Mario Soldati con Walter Chiari

FILMOGRAFIA

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Il più comico spettacolo del mondo (1953) di Mario Mattoli con Totò Alvaro piuttosto corsaro (1954) di Camillo Mastrocinque con Macario Rosso e nero (1954) di Domenico Paolella con Rascel e Walter Chiari Totò all’inferno (1955) di Camillo Mastrocinque con Totò Mio figlio Nerone (1956) di Steno con Alberto Sordi Rascel Fifì (1957) di Guido Leoni con Rascel Rascel Marine (1958) di Guido Leoni con Rascel Tempi duri per i vampiri (1959) di Steno con Rascel Totò nella luna (1959) di Camillo Mastrocinque con Totò Noi siamo due evasi (1959) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello La Pica sul Pacifico (1959) di Roberto Bianchi Montero con Tina Pica I baccanali di Tiberio (1959) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi e Walter Chiari

Anni Sessanta A noi piace freddo (1960) di Steno con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello A qualcuna piace calvo (1960) di Steno con Magali Nöel, Antonio Cifariello Un dollaro di fifa (1960) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi e Walter Chiari Psycosissimo (1960) di Steno con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Il mio amico Jekyll (1960) di Marino Girolami con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Maciste contro Ercole nella valle dei guai (1961) di Mario Mattoli con Raimondo Vianello Totò, Peppino e la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci con Totò e Peppino I magnifici tre (1961) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello e Walter Chiari Walter e i suoi cugini (1961) di Marino Girolami con Walter Chiari

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LA PARODIA NEL CINEMA ITALIANO

Rocco e le sorelle (1961) di Giorgio Simonelli con Tiberio Murgia, Moira Orfei Vino, whisky e acqua salata (1962) di Mario Amendola con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Totò contro Maciste (1962) di Fernando Cerchio con Totò Due contro tutti (1962) di Alberto De Martino con Walter Chiari e Raimondo Vianello I tromboni di Fra’ Diavolo (1962) di Giorgio Simonelli con i “Quattro” Il giorno più corto (1963) di Sergio Corbucci con Totò, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Totò e Cleopatra (1963) di Fernando Cerchio con Totò I marziani hanno dodici mani (1963) di Castellano/Pipolo con Paolo Panelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Gli eroi del west (1963) di Steno con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Il monaco di Monza (1963) di Sergio Corbucci con Totò e Macario I gemelli del Texas (1964) di Steno con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello Totò contro il pirata nero (1964) di Fernando Cerchio con Totò Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Ottavio Alessi con Totò I due mafiosi (1964) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Due mafiosi nel Far West (1964) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia 002 agenti segretissimi (1964) di Lucio Fulci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Sedotti e bidonati (1964) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Per un pugno nell’occhio (1964) di Michele Lupo con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I gemelli del Texas (1964) di Steno con Walter Chiari e Raimondo Vianello Due mafiosi contro Goldginger (1965) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I 2 sergenti del generale Custer (1965) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

FILMOGRAFIA

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002 operazione Luna (1965) di Lucio Fulci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Due mafiosi contro Al Capone (1965) di G.Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Totò d’Arabia (1965) di José Antonio de la Loma con Totò I figli del leopardo (1965) di Sergio Corbucci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Raimondo Vianello Come svaligiammo la Banca d’Italia (1965) di Lucio Fulci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia James Tont operazione U.N.O. (1965) di Corbucci/Grimaldi con Lando Buzzanca J.T. operazione D.U.E. (1966) di Bruno Corbucci con Lando Buzzanca Ringo e Gringo contro tutti (1966) di Bruno Corbucci con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca Per qualche dollaro in meno! (1966) di Mario Mattoli con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca I due figli di Ringo (1966) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Le spie vengono dal semifreddo (1966) di Mario Bava con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Il bello, il brutto, il cretino (1967) di Gianni Grimaldi con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Due rrringos nel Texas (1967) di Marino Girolami con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Spia spione (1967) di Bruno Corbucci con Lando Buzzanca Little Rita nel West (1967) di Ferdinando Baldi con Rita Pavone Ric e Gian alla conquista del West (1967) di Osvaldo Civirani Arriva Dorellik (1967) di Steno con Johnny Dorelli Il vostro superagente Flit (1967) di Mariano Laurenti con Raimondo Vianello Brutti di notte (1968) di Gianni Grimaldi con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I nipoti di Zorro (1968) di Marcello Ciorciolini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Ciccio perdona, io no (1968) di Marcello Ciorciolini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Don Chisciotte e Sancho Panza (1968) di Gianni Grimaldi Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

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Indovina chi viene a merenda (1969) di Gianni Grimaldi con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Franco, Ciccio e… il pirata Barbanera (1969) di Mario Amendola con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Franco e Ciccio… ladro e guardia (1969) di Marcello Ciorciolini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Franco e Ciccio sul sentiero di guerra (1969) di Aldo Grimaldi con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I due magnifici fresconi (1969) di Marino Girolami con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Gli infermieri della mutua (1969) di Giuseppe Orlandi con Pino Caruso e Peppino De Filippo I 4 del Pater Noster (1969) di Ruggero Deodato, con Villaggio, Montesano, Lionello, Toffolo

Anni Settanta Satiricosissimo (1970) di Mariano Laurenti con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I due maggiolini più matti del mondo (1970) di Giuseppe Orlandini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Il clan dei due borsalini (1971) di Gianni Orlandini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I due figli di Trinità (1972) di Osvaldo Civirani con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Continuavano a chiamarli… er più er meno (1972) di Gianni Orlandini con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia I due gattoni a nove code (1972) di Osvaldo Civirani con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Storia di fifa e di coltello/Er seguito der più (1972) di Mario Amendola con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Provaci anche tu Lionel (1973) di Roberto Montero con Oreste Lionello L’altra faccia del Padrino (1973) di Franco Prosperi con Alighiero Noschese e Lino Banfi Ku Fu? Dalla Sicilia con furore (1973) di Nando Cicero con Franco Franchi Ultimo tango a Zagarol (1973) di Nando Cicero con Franco Franchi

FILMOGRAFIA

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Dalla Cina: furia, fifa e karate (1973) di Sergio Corbucci con Lando Buzzanca e Alighiero Noschese Il figlioccio del Padrino (1973) di Mariano Laurenti con Franco Franchi Li chiamavano i tre moschettieri… invece erano quattro (1973) di Silvio Amadio con Tony Kendal Piedino il questurino (1974) di Franco Lo Cascio con Franco Franchi Farfallon (1974) di Riccardo Pazzaglia con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Paolo il freddo (1974) di Ciccio Ingrassia con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia Patroclooo!… e il soldato Camillone (1974) di Mariano Laurenti con Pippo Franco Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete (1974) di Antonio Margheriti e Paul Morissey Il mostro è in tavola barone Frankenstein (1974) di Antonio Margheriti e Paul Morissey Frankenstein all’italiana (1975) di Armando Crispino con Aldo Maccione Il sogno di Zorro (1975) di M.Laurenti con Franco Franchi L’esorciccio (1975) di e con Ciccio Ingrassia Ah sì? E io lo dico a Zzzorro (1975) di F. Lo Cascio con George Hilton Cassio… doro (1975) di Oreste Coltellacci con Renzo Montagnani Il giustiziere di mezzogiorno (1975) di Mario Amendola con Franco Franchi Remo e Romolo (1976) di Castellacci/Pingitore con Pippo Franco e Enrico Montesano Nerone (1977) di Castellacci/Pingitore con Pippo Franco Kakkientruppen (1977) di Martinelli con Gianfranco D’Angelo, Lino Banfi, Ric e Gian L’inquilina del piano di sopra (1977) di Ferdinando Baldi con Pippo Franco e Lino Toffolo Per amore di Poppea (1977) di Mariano Laurenti con Gianfranco d’Angelo e Alvaro Vitali Incontri molto ravvicinati del quarto tipo (1978) di Mario Gariazzo (Roy Garrett)

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Melodrammore (1978) di Maurizio Costanzo con Enrico Montesano Io zombo, tu zombi, egli zomba (1979) Nello Rossati con Renzo Montagnani e Cochi Ponzoni Dottor Jekyll e gentile signora (1979) di Steno con Paolo Villaggio

Anni Ottanta I fichissimi (1981) di Carlo Vanzina con Diego Abatantuono, Jerry Calà Grunt! (1982) di e con Andy Luotto Biancaneve & Co. (1982) di Mario Bianchi con Gianfranco D’Angelo e Alvaro Vitali Bingo Bongo (1982) di Pasquale Festa Campanile con Adriano Celentano Bonnie & Clyde all’italiana (1983) di Steno con Paolo Villaggio Arrapaho (1984) di Ciro Ippolito con gli Squallor Fracchia contro Dracula (1985) di Neri Parenti con Villaggio Superfantozzi (1986) di Neri Parenti con Paolo Villaggio Ladri di saponette (1988) di e con Maurizio Nichetti

Anni Novanta Chicken Park (1994) di e con Jerry Calà Il silenzio dei prosciutti (1994) di e con Ezio Greggio S.P.Q.R. - 2000 e mezzo anni fa (1994) di Neri Parenti con Boldi e De Sica Peggio di così si muore (1995) di Marcello Cesena con la Premiata Ditta Tre uomini e una gamba (1997) di e con Aldo, Giovanni e Giacomo Così è la vita (1998) di e con Aldo, Giovanni e Giacomo

Anni Duemila Testa di Picasso (2000) di e con Massimo Ceccherini Zora la vampira (2000) dei Manetti Bros. con Carlo Verdone Aitanic (2000) di e con Nino D’Angelo

BIBLIOGRAFIA

Bibliografia teorico-metodologica Indichiamo qui i testi che hanno costituito l’orizzonte metodologico di riferimento per le nostre analisi. Si tratta di testi sulla teoria del comico, sulla retorica del ridere, sull’intertestualità, la parodia e il grottesco. Inoltre, sono qui segnalati testi generali – di semiotica, sociologia o linguistica – che sono effettivamente risultati utili alla stesura del saggio AA, VV, “Il comico. Numero Speciale”, Periodo ipotetico, n. 8/9, 1974 Abastado, C., “Situation de la parodie”, in Cahiers du 20ème siècle, 6 (numero speciale “La parodie”) Abruzzese A., La grande scimmia, Napoleone, Roma 1979 Abruzzese A, Ai confini della serialità, Società Editrice Napoletana, Napoli 1984 Allen, G., Intertextuality, Routledge, London-New York 2000 Almansi, G., Fink, G., Quasi come, Bompiani, Milano 1976 Almansi, G., Amica ironia, Garzanti, Milano 1984 Almansi, G., La ragion comica, Feltrinelli, Milano 1986 Bachtin, M., Problemy poétiki Dostoevskogo, Mosca 1963; tr. it. Dostoevskij, Einaudi, Torino 1968 Bachtin, M., Tvorcesto Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov’ja i Renessansa, Mosca, 1965; tr. it. L’opera di Rabelais e la cultura popolare nel Medio Evo e nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1979 Bachtin, M., Voprosy literatury i éstetiki, Mosca, 1975; tr. it. Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979 Banfi, E., a cura di, Sei lezioni sul linguaggio comico, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche 1995

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LA PARODIA NEL CINEMA ITALIANO

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