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Italian Pages 177 [184] Year 2013
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- lo schermo e la storia COLLANA DIRETTA DA CHRISTIAN UVA
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In nome della legge la giustizia nel cinema italiano a cura di Guido Vitiello
Rubbettino
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CINEMA Collana diretta da Christian Uva
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(Università degli Studi Roma Tre) Comitato scientifico
Enrico Carocci (Università degli Studi Roma Tre) Luigi Cimmino (Università degli Studi di Perugia) Enrico Magrelli (Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale) Giacomo Manzoli (Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) Andrea Minuz (Sapienza Università di Roma) Alan O’Leary (University of Leeds) Guido Vitiello (Sapienza Università di Roma) Vito Zagarrio (Università degli Studi Roma Tre)
© 2013 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it
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Indice
7 Indagini preliminari. Perché non esiste un courtroom drama italiano GUIDO VITIELLO
35 Il processo come spettacolo. Rito, dramma, competizione GIOVANNI DAMELE
49 Una risata vi giudicherà. Giustizia e commedia (all’)italiana ANDREA PERGOLARI
65 Giustizia, cinema politico e ideologia italiana. Due film a confronto: Detenuto in attesa di giudizio e In nome del popolo italiano ANDREA MINUZ
83 Una verità piuttosto complicata. Diritto e rovescio della medaglia in Damiano Damiani ANTON GIULIO MANCINO
99 La legge (del taglione) è uguale per tutti. Il poliziesco all’italiana GIOVAMBATTISTA FATELLI
115 Ibridazioni della memoria. Falcone e Borsellino, prove di biografie mediali ISABELLA PEZZINI
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129 Il sistema opaco. La giustizia nella fiction italiana MILLY BUONANNO
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145 Il salotto e la piazza. Le arene anomale dei processi televisivi CHRISTIAN RUGGIERO
159 La commedia della verità. Sull’impossibilità del legal thriller nella letteratura italiana ALESSANDRO PERISSINOTTO
171 Elenco dei film citati 175 Profili degli autori
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Indagini preliminari. Perché non esiste un courtroom drama italiano GUIDO VITIELLO
1. Questioni di procedura Da dove cominciare, come istruire un processo degno del nome quando l’imputato non si presenta all’udienza, è contumace, e addirittura qualche scettico suggerisce – ipotesi incresciosa e imbarazzante – che non esista neppure, che sia solo un parto della fantasia della pubblica accusa? Suona paradossale, ma è grosso modo la situazione in cui viene a trovarsi chi intraprenda una ricognizione del cinema giudiziario italiano e debba prima di ogni altra cosa accertare l’esistenza (e la consistenza) del suo oggetto d’indagine. Esiste, in altre parole, una tradizione del courtroom drama italiano come esiste negli Stati Uniti e, in misura minore, in Gran Bretagna e in altri paesi del mondo anglofono? C’è o non c’è nella nostra storia cinematografica un corpus di film dai tratti comuni o quanto meno ricorrenti che abbia al centro delle sue storie, dei suoi temi e delle sue preoccupazioni la porzione di vita che si svolge nelle aule di giustizia? Un cinema che riesca cioè a fornire una rappresentazione del funzionamento della macchina giudiziaria, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari, e al tempo stesso a mettere in scena i dilemmi e le tensioni che la attraversano – tra la colpa e l’innocenza, la legge scritta e la consuetudine, la forma procedurale e la sostanza, la verità processuale e la verità di fatto, l’opera dei tribunali e la grande o piccola storia che si svolge fuori dalle loro mura? Per cominciare a rispondere a questa domanda può essere utile tornare a una pagina pubblicata da Enzo Tortora nel 1984, quando attendeva l’inizio del suo processo: Io sono convinto che gli italiani abbiano della giustizia un’idea ricavata esclusivamente dai telefilm polizieschi inglesi o americani, ambientati in una bella
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aula di tribunale, tutta in acero, con un giudice in parrucca, sempre calmo, sereno, molto cortese che batte, di tanto in tanto, il suo martelletto di legno e che, appena si sente dire dal difensore di un imputato: «Vostro onore, mi oppongo», risponde amabilmente: «Obiezione accolta, sentiamo». […] Alle volte penso che sarebbe molto proficuo se, invece dei telefilm alla Perry Mason, la Tv statale fosse tenuta per legge a trasmettere i processi che si celebrano in Italia. Solo allora probabilmente la gente prenderebbe coscienza delle lungaggini, della trasandatezza, della curialità della nostra giustizia […]1.
Si dirà che cominciare dal caso Tortora equivale, grosso modo, ad aprire un trattato di anatomia con una rassegna di malformazioni, freaks e scherzi di natura. Ma al di là di certe macroscopiche disfunzioni del sistema giudiziario italiano, di allora come di adesso, l’osservazione di Tortora acciuffava il primo bandolo della questione che ci interessa: come costruire finzioni avvincenti a partire da una procedura dilatoria, trasandata e curiale? Come drammatizzare un processo per natura così poco drammatico come quello della tradizione inquisitoria, ancora imperante – nella sua forma «mista» – al tempo del caso Tortora, e parzialmente modificato con il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989? Perché non sembri che vogliamo intonare la rituale querimonia sulle anomalie e le arretratezze italiane, diremo che questo problema – l’esistenza difficile e incerta di un cinema giudiziario in senso proprio – riguarda allo stesso modo altri paesi europei con un funzionamento della giustizia difficile da narrare e da sceneggiare. Antoine Garapon, uno dei più importanti studiosi del processo come rituale e come spettacolo, ha osservato qualcosa di simile per il contesto francese. I due sistemi giudiziari, il francese e l’americano, non escono ugualmente bene dalla prova della narrazione audiovisiva: «La giustizia americana, procedurale e narrativa, permette questa circolazione tra la vita e la pretura, mentre la giustizia francese mette in difficoltà la televisione, tanto le sue forme sembrano statiche e tanto è percepita come una forma secondaria rispetto alla politica»2. Entrambe le procedure hanno certo una loro dignità scenografica, una loro teatralità, ma c’è un abisso quanto alle potenzialità 1. E. Tortora, Cara Italia ti scrivo, Mondadori, Milano 1984, pp. 41-42. Anna Tortora, sorella del presentatore accusato di appartenere alla Nuova camorra organizzata, raccontò di essere all’epoca del processo «suggestionata dai telefilm dell’avvocato Perry Mason (Enzo dice giustamente che dovrebbero proibirli in Italia, dato che in questo Paese la giustizia segue ben altro copione)». A. Tortora, Fratello segreto. La storia di un uomo nel diario di un processo, Sperling & Kupfer, Milano 1996, p. 109. 2. A. Garapon, Préface a B. Villez, Séries télé: visions de la justice, Presses Universitaires de France, Paris 2010, p. 10.
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guido vitiello
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narrative. Il processo di common law, nota ancora Garapon, consacra la gran parte delle proprie energie a stabilire i fatti, sicché la prova prende forma nel dibattimento. In Francia questo compito spetta, dietro le quinte, al giudice istruttore, che raccoglie le prove in un fascicolo e pronuncia il non luogo a procedere per le accuse che prevedibilmente non reggeranno all’ordalia della pubblica udienza: «In altri termini, se il giudice istruttore non scrive il libretto della pièce che andrà in scena, ne disegna largamente l’intreccio. Il processo mette in scena la procedura già consegnata nel dossier. L’interesse drammatico non è nella suspense della colpa ma piuttosto nella comprensione di una tragedia individuale; ne è prova la parte sostanziale consacrata alla personalità dell’accusato, quasi inesistente nel processo americano»3. A differenza del giudizio statunitense, che ha un tono marcato di competizione sportiva, di gara tra due parti poste su un piano di ideale parità, «la rottura scenica del processo francese non delimita uno spazio di gioco, essa regola un faccia a faccia tra un uomo e il potere – spettacolo che d’altronde può ricadere altrettanto bene nel genere tragico o nel genere comico […]. Che ci si rattristi sul tragico della condizione umana, o che ci si faccia beffe dei pietosi dinieghi di un imputato, tutto ciò evoca il teatro più che il romanzo»4. Ed evoca il teatro più che il cinema, si potrebbe aggiungere, già che il cinema quanto e più del romanzo richiede il movimento, l’azione e il mare aperto della narrazione. Un cinema del processo inquisitorio «puro» non potrebbe discostarsi molto dalla ieraticità spoglia e solenne di Procès de Jeanne d’Arc (Processo di Giovanna d’Arco, 1962) di Robert Bresson. Le considerazioni di Garapon si possono estendere con piccole varianti ad altri paesi di civil law. È il caso, per esempio, della Germania: Il carattere «non drammatico» della procedura legale tedesca, che è inquisitoria più che accusatoria e perciò cinematograficamente meno attraente, può spiegare il basso profilo di genere del courtroom film tedesco fin dai suoi inizi negli anni Venti. Anche i film che possono servire come esempi chiave per stabilire una tradizione tedesca di questo genere, come Dreyfus (1930) di Richard Oswald, Ich klage an (Io accuso, 1941) di Wolfgang Liebeneiner, Die Affäre Blum (1948) di Erich Engel, Rosen für den Staatsanwalt (1959) e Der letzte Zeuge (L’ultimo testimone, 1960) di Wolfgang Staudte, Der Fall Bachmeier – Keine Zeit für Tränen (1984) di Hark Bohm, Nichts als die Wahrheit (1999) di Roland Suso Richter, non possono essere definiti courtroom film nel senso americano perché in molti 3. 4.
Ibidem. Ibidem.
indagini preliminari
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di essi il tribunale non è il luogo principale dell’azione e del conflitto, ma di solito offre l’ambientazione per una o più scene culminanti in una narrazione che è interessata in altro modo a vari aspetti della procedura legale e dell’investigazione criminale5.
Per l’Italia potremmo elencare altrettanti titoli, pescando qua e là nei decenni – Il magistrato (1959) di Luigi Zampa, Corruzione al palazzo di giustizia (1974) di Marcello Aliprandi, Tre fratelli (1981) di Francesco Rosi, Il pentito (1985) di Pasquale Squitieri, Porte aperte (1990) di Gianni Amelio, Un uomo perbene (1999) di Maurizio Zaccaro, perfino Il caimano (2006) di Nanni Moretti – ma le conclusioni da cavarne sarebbero tutto sommato le stesse: si tratta di film d’argomento giudiziario, in alcuni casi preponderante, ma non di courtroom film nel senso americano. In molti paesi europei, si può dedurne, un vero e proprio cinema giudiziario non ha trovato le condizioni propizie per delinearsi e affermarsi. È affare di pochi autori isolati e ossessionati – come André Cayatte in Francia, regista che era a sua volta uomo di legge, o Damiano Damiani in Italia – ma non si è mai cristallizzato in un genere, in un formato riproducibile con i suoi ruoli ricorrenti, i suoi stili e la sua iconografia. Anzi, capita spesso che i film europei sulla giustizia ricalchino la procedura americana più che ispirarsi a quella del proprio paese di produzione. Non c’è dunque da stupirsi se la maggioranza degli studi sul legal film, ovunque siano pubblicati e qualunque sia la loro ambizione enciclopedica, finiscono fatalmente per concentrarsi sul cinema statunitense. Due studiosi tedeschi, Stefan Machura e Stefan Ulbrich, hanno provato a prendere di petto la questione capitale: «Perché la procedura legale americana domina il cinema»6? […] non solo i film americani godono di un successo internazionale al botteghino, ma la procedura americana è strutturalmente più adatta per un film della cosiddetta procedura inquisitoria dei sistemi di civil law come quelli che troviamo nel continente. I courtroom film americani hanno creato un modo di ritrarre la procedura legale che è stato seguito in film processuali ambientati in altri paesi e in altri sistemi legali7.
5. P. Drexler, The German Courtroom Film During the Nazi Period: Ideology, Aesthetics, Historical Context, in S. Machura, P. Robson (a cura di), Law and Film, Blackwell, Oxford 2001, pp. 65-66. 6. S. Machura, S. Ulbrich, Law in Film: Globalizing the Hollywood Courtroom Drama, in S. Machura, P. Robson, op. cit., pp. 117-132. 7. Ivi, p. 123.
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guido vitiello
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Questo vantaggio strutturale della procedura americana si deve, secondo i due studiosi, essenzialmente a sei fattori. Primo, la drammaturgia: il processo americano è più adatto a ospitare «scene ad alta intensità drammatica, con classici scontri tra due antagonisti e conflitti tra il bene e il male che devono essere risolti. […] Nella procedura americana le parti lottano per stabilire la loro versione individuale dei fatti in esame così come i loro punti di vista legali. Laddove l’aula di tribunale è vista come un campo di battaglia, il conflitto grintoso diventa la norma». A questa drammaturgia Machura e Ulbrich trovano, forse con qualche forzatura analogica, un antecedente diretto nella tragedia antica: l’apparenza esteriore del tribunale, assicurano, è simile all’architettura del teatro ateniese classico; la scena, la skené, trova un suo analogo moderno nello spazio davanti allo scranno del giudice, dove si svolge il conflitto; l’orchestra, sede del coro tragico, ha il suo equivalente funzionale nello spazio riservato alla giuria; il theatron, dove siedono gli spettatori, persiste anch’esso nelle udienze pubbliche. Ma soprattutto il processo è, al pari della tragedia, il luogo in cui si scontrano due ragioni parziali e due parziali torti. Il secondo fattore che rende la procedura americana più adatta alla messinscena cinematografica è l’eventualità di una condanna a morte dell’imputato, che alza fino al limite supremo la posta della narrazione, aprendo un ventaglio di possibilità drammatiche, dal melodramma alla suspense: quando è in gioco solo un periodo di detenzione, per lungo che possa essere, vien meno il pathos dell’irreversibilità e della fatalità dell’errore. I successivi tre elementi individuati da Machura e Ulbrich riguardano, per così dire, le persone del dramma: un giudice «debole», che arbitra il conflitto senza interferirvi con troppa invadenza e senza eclissarne o spegnerne le potenzialità drammatiche; un avvocato difensore «forte», che può addossarsi la missione eroica di salvare la vita di un imputato e servire la causa del bene e dell’innocenza; infine la giuria, attore silenzioso che con i suoi sguardi, le sue reazioni, le sue espressioni di stupore o di condanna, incarna all’interno del film una posizione analoga a quella dello spettatore cinematografico, suggerendo al pubblico, secondo i casi, approvazione o riprovazione, empatia o biasimo. Il sesto elemento è indubbiamente di minore importanza: la giurisprudenza consuetudinaria, basata sui precedenti più che sulle disposizioni immutabili di un codice, che dispiega possibilità narrative supplementari, consentendo di evocare altre storie che echeggiano o contraddicono la trama portante. Grazie a tutti questi fattori, unitamente alla forza produttiva del cinema hollywoodiano e alla sua sperimentata industria dei generi, il legal film o courtroom drama ha potuto configurarsi nel cinema americano se non indagini preliminari
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proprio come un genere a tutto tondo al pari del western o dell’horror (sul punto le opinioni sono discordanti), come un filone ricco e frequentato, che attraversa molteplici aree di genere, dal legal thriller al legal melodrama, dalla commedia giudiziaria al film storico su processi celebri8. Simbolo (e battistrada) di questo predominio «imperialista» del sistema legale americano nella narrazione audiovisiva è il successo planetario della serie televisiva Perry Mason, prodotta tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Con l’effetto che negli Stati Uniti, pur in assenza di un programma sistematico, uniforme e nazionale di educazione civica nelle scuole, i cittadini apprendono qualcosa dei loro diritti e del funzionamento del loro sistema giudiziario attraverso i film e le serie televisive. In Germania, in Francia o in Italia il cinema e la tv, che lo volessero o meno, hanno educato per decenni il grande pubblico al sistema legale di un’altra e lontana nazione. La questione è meno accademica di quanto possa apparire: non c’è paese europeo nel quale non circoli qualche aneddoto su persone chiamate davanti alla giustizia che si rivolgevano al giudice appellandolo «Vostro Onore». Questo ci riporta alle parole di Tortora, e alla sua scoperta, in carcere, della distanza siderale che separa il processo inquisitorio, cartolare e burocratico, fatto di stanze chiuse e arcana iuris, dal contesto vivo, drammatico, orale e agonistico del processo accusatorio americano raffigurato dalle serie televisive e dai courtroom film. Ma ridurre la debolezza congenita, o la dubbia esistenza, del nostro cinema giudiziario a una mera questione di riti processuali e di tradizioni legali rischia di essere un modo un po’ tortuoso di aggirare il problema, o – per tornare all’originaria metafora tribunalizia – di appellarsi a un dettaglio procedurale, se non proprio a un cavillo, per scampare a una condanna certa. Dobbiamo riconoscere che ci sono ragioni culturali e storiche ben più vaste. Per il contesto francese – che è senz’altro, per mille motivi storici, il più facile da accostare al nostro – queste ragioni sono state ipotizzate da Christian Guéry: 8. Cfr., in particolare, M. Kuzina, Der amerikanische Gerichtsfilm. Justiz, Ideologie, Dramatik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2000. Le discussioni più ampie e accurate dello statuto del courtroom drama come genere (o sottogenere) sono in D.A. Black, Law in Film. Resonance and Representation, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1999, pp. 55-86, e in S. Greenfield, G. Osborn e P. Robson (a cura di), Film and the Law, Hart Publishing, Oxford-Portland 20102, pp. 32-67. Sulla difficoltà di delimitare l’ambito del legal film, cfr. anche R.D. Levi, The Celluloid Courtroom. A History of Legal Cinema, Praeger, Westport-London 2005, pp. XI-XXI; A. Sarat, L. Douglas, M. Merrill Umphrey (a cura di), Law on the Screen, Stanford University Press, Stanford 2005, pp. 2-7; M. Cieutat, Les films de prétoire: un genre hollywoodien à part entière?, in La justice à l’écran, Corlet-Télérama, Paris 2002, pp. 144-151.
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Il cinema francese non ha fatto del film processuale un genere a parte. Le ragioni sono prima di tutto culturali: l’istituzione giudiziaria non ha giocato qui lo stesso ruolo che ha giocato nella costruzione delle istituzioni americane. I francesi non hanno un rapporto privilegiato con l’ordine e la Costituzione, il profondo rifiuto da parte dei rivoluzionari del 1789 di ogni libertà del giudice ha a lungo confinato la sua missione a un’improbabile applicazione automatica della legge, a un ruolo di «bocca della legge», come scriveva Montesquieu. La giuria non ha mai potuto soppiantare la «funzionarizzazione» della giustizia, largamente rimasta nelle mani di professionisti. Il cittadino francese ha visto il suo intervento limitato ai soli processi d’assise, nei quali delibera, dal 1941, in compagnia dei magistrati professionisti, a differenza del processo di common law nel quale la giuria delibera sola, e il giudice è lì soltanto per dirimere questioni di diritto. […] Il disamore del cinema francese per la propria giustizia è, così, la risultante diretta della forma procedurale9.
È il basso profilo del giudice-funzionario a farne un personaggio poco cinematografico e, a monte, una lunga storia che riguarda la cultura politica, la concezione stessa della sfera pubblica e del rapporto tra cittadini e potere. E nel caso italiano? È corretto parlare di un «disamore» del nostro cinema per l’amministrazione della giustizia? Anche qui, le ragioni devono essere cercate lontano, e per questo vale la pena ritornare al film che inaugura, simbolicamente se non cronologicamente, il filone giudiziario nell’Italia del dopoguerra. 2. «Il governo è molto lontano» La prima volta come western, la seconda come farsa. Al nostro cinema giudiziario sembra applicarsi una variante della legge marxiana del Diciotto brumaio. In nome della legge (1949) di Pietro Germi è stato più volte accostato ai western classici, in particolare a quelli di John Ford, sia sul piano stilistico e visivo – i paesaggi desertici ripresi in campo lungo, le cavalcate, le sparatorie, gli uomini bendati e armati – sia sul piano tematico: il grande nodo simbolico del western è infatti l’imposizione della Legge in un territorio di frontiera sorretto da antiche consuetudini, più o meno barbariche10. Germi, 9. C. Guéry, Justices à l’écran, Presses Universitaires de France, Paris 2007, pp. 6-7. 10. Cfr. M. Böhnke, Myth and Law in the Films of John Ford, in S. Machura, P. Robson, op. cit., pp. 47-63. Cfr. anche il fondamentale J.G. Cawelti, Adventure, Mystery and Romance. Formula Stories as Art and Popular Culture, The University of Chicago Press, Chicago 1976, pp. 192-259.
indagini preliminari
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d’altronde, già con l’esordio de Il testimone (1945) aveva dato prova tanto dei suoi rovelli giudiziari quanto del suo occhio da allievo rivolto al grande cinema americano, in quel caso alla tradizione del courtroom drama. Ma pur se Il testimone lo precede nel tempo, In nome della legge è opera dalla statura inaugurale per il corso successivo del cinema giudiziario, proprio per il rapporto di imitazione perfetta – e perfettamente impossibile – che instaura con il modello lontano del western, sia pure declinandolo in chiave neorealista11. La Sicilia è presentata dalla voce fuori campo che introduce la narrazione come una «sconfinata solitudine schiacciata dal sole», popolata da «uomini ermetici dagli antichi costumi che il forestiero non comprende». E il forestiero che approda in questo paesaggio esotico e ostile è un giovane pretore, Guido Schiavi (Massimo Girotti), chiamato nel paesino di Capodarso, nella campagna siciliana, dopo che il suo predecessore ha deciso di partire per non turbare gli equilibri di potere locali. Qui è accolto con un misto di ossequio e di dissuasione vagamente minatoria, un rispetto formale e cerimonioso che fa velo a un sostanziale scetticismo. Il villaggio ha infatti una sua legge, consuetudinaria e spietata, assicurata dagli uomini d’onore, al cui vertice sta l’anziano capomafia, il massaro Turi Passalacqua (Charles Vanel). Alla sua autorità si rivolgono i notabili del luogo, quando vogliono ottenere giustizia e protezione per i propri possedimenti; alla sua autorità si rivolge il barone Lo Vasto (Camillo Mastrocinque), latifondista e proprietario della zolfara, che però tiene chiusa per ragioni d’interesse lasciando a spasso centinaia di minatori. Il pretore – che peraltro in una sottotrama piuttosto maldestra finisce per intrecciare una relazione amorosa con l’infelice baronessa, ostaggio di un sistema che disprezza e disconosce – dispone che la zolfara sia riaperta, in nome della legge. Lo spazio della narrazione è organizzato come in un western classico, offrendo una rivisitazione siciliana di tutti i suoi scenari ricorrenti: Il villaggio, come nei western, è ridotto a una serie di luoghi caratteristici in relazione tanto sicura quanto indeterminata tra di loro: la «main street» su cui è concentrato lo sguardo collettivo (e che nel film è la piazza abbacinante e dissestata di Sciacca, set segnalato a Germi da Fellini), il bar-tabacchi (che, come nel saloon, assiste alla più alta concentrazione di antagonismo dialettico, fisico, drammatico, perlopiù incarnato da sguardi fissi che si incrociano e si sfidano), la pretura (l’ufficio dello sceriffo, la sede istituzionale della Legge, dove abitano l’eroe e quei pochi, il maresciallo, che si schierano al suo fianco), la villa nobiliare 11. Cfr. O. Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge, Bulzoni, Roma 2004.
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guido vitiello
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(ovvero la residenza del potere che si oppone al rispetto della Legge, in cui è praticamente reclusa la donna che il desiderio dell’eroe vuole liberare, conseguenza naturale della sua azione di giustizia). Quanto agli uomini di mafia, la loro natura violenta, la loro appartenenza più alla campagna che al villaggio, li assimila inevitabilmente agli indiani, e a essi sono platealmente identificati nel totale che li scopre, dal basso, apparire in schiera, sui cavalli, dall’orlo di una collina12.
Uno dei momenti culminanti del film è lo scontro frontale tra l’eroico pretore e l’anziano uomo d’onore, che si incontrano a metà strada, a cavallo, procedendo da direzioni opposte, ciascuno scortato dai suoi uomini fedeli. Il massaro Passalacqua, con una proprietà di linguaggio giuridico che suona alquanto artificiosa in bocca a un capomafia, cerca di dissuadere con le buone il pretore Schiavi dal velleitario perseguimento della «sua» legge tutta formale, straniera e inadatta ai costumi locali: – – – – – –
– – –
Intanto Voscenza, che è intelligente, avrà già capito come vanno le cose qua. Se devo esser sincero dirò che a mio parere le cose vanno molto male, massaro. Sono più di cent’anni che vanno così, e qui tutti ne sono contenti. Non tutti… i morti assassinati, i ricattati, le loro famiglie. E poi gli zolfatari, i braccianti. Ogni ordinamento ha i suoi difetti, signor pretore, del resto tra uomini d’onore è sempre possibile un accordo. Voscenza non ha che da esprimere i suoi desideri. Vede massaro, c’è una sola cosa che io desidero e debbo fare a qualunque costo: amministrare la giustizia a beneficio di tutti e se occorre contro tutti, secondo la legge. Quale legge, pretore? La sola che io conosca, quella dello Stato. […] Lei è un coraggioso, signor pretore, ma la legge qua la facciamo noi secondo le antiche usanze. Siamo in un’isola qua. Il governo è molto lontano.
La conciliazione, sulle prime, sembra impossibile. La legge arcaica, consuetudinaria, radicata nel costume e nei rapporti di potere vigenti, espelle come un corpo estraneo la legge dello Stato, che arriva come un prodotto d’importazione dagli uffici di Roma e dal fantasma burocratico dello Stato centrale. In un western classico, c’è da presumere, l’eroe avrebbe imposto la nuova legge nella terra dei barbari tramite la violenza purificatrice di un 12. M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 167.
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duello finale, e poi avrebbe voltato i tacchi per abbandonare, in sella al suo cavallo, la piccola comunità ormai liberata e assicurata alla civiltà. In nome della legge segue lo schema esattamente opposto: dapprima il pretore tentenna, è sul punto di lasciare l’incarico senza aver portato a compimento la sua missione civilizzatrice, e a invitarlo a farsi da parte è perfino il procuratore generale convenuto a Capodarso. Ma in ultimo, quando apprende che Paolino, un giovane che gli era stato d’aiuto nelle indagini sull’omicidio di un contadino e su un furto di bestiame, è stato ucciso da uno degli uomini di Passalacqua (senza però l’autorizzazione del capomafia), si risolve a non lasciare la sua funzione, e convoca tutti gli abitanti del paese nella piazza principale, arringandoli dal sagrato davanti alla chiesa: Ora che siete tutti qui, vi dico che questo è un processo […]. Ebbene, Paolino lo avete ammazzato voi. […] Voi tutti, uomini e donne, che vi siete lasciati avvilire dalla paura anche quando si trattava di scoprire e punire gli assassini dei vostri figli, che avete tentato di sopraffare la legge persino quando difendeva i vostri interessi. Avete ammazzato Paolino perché mi avete tutti impedito di amministrare giustizia e di imporre il rispetto della legge. […] Voi uomini della mafia, e tu massaro Passalacqua, tu che a tuo modo sei un saggio e un giusto, anche tu hai preferito la tua legge sanguinaria e feroce, che condanna chi ti fa sgarbo e protegge chi esegue le tue condanne alla legge, alla sola legge che ci permette di vivere vicini senza scannarci come bestie feroci.
Incredibilmente, il massaro acconsente, e il patto segna la nascita di un nuovo ordine fondato sul diritto formale, una civiltà che accetta di porre le sue consuetudini antiche sotto la spada della legge: «Io dico quindi agli amici miei che è giunto il momento in questo paese di rientrare nella legge». Molto si è scritto su questo finale irrealistico, ideologicamente ambiguo, compromissorio, accomodante, che tradisce tutta una concezione romanticheggiante degli uomini d’onore (assai più evidente nel libro da cui Germi trasse il film, Piccola pretura del magistrato e scrittore palermitano Giuseppe Guido Lo Schiavo)13. Molto si è scritto, ma forse non si è fatto caso a sufficienza a un aspetto essenziale: l’improvvisato processo convocato dal pretore Schiavi – l’unico in cui riesca a far valere una qualche autorità – non ha luogo in un’aula di tribunale, ma in uno spazio extralegale, la piazza del paese, dove gli abitanti sono stati radunati dal rintocco delle campane della chiesa. È questa la sola sede «informale» in cui una parvenza di ordine civile 13. G.G. Lo Schiavo, Piccola pretura, C. Colombo, Roma 1948.
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guido vitiello
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riesce ad affermarsi, pur senza distruggere l’antico ordine, anzi facendoselo alleato. Se la legge trionfa, insomma, non è nel luogo deputato alla legge. Il dettaglio è tanto più interessante se si pensa che nel film c’è anche una lunga sequenza che si svolge in un’aula di giustizia. Ma il tribunale vi appare come uno scenario irrilevante, screditato, carnevalesco, in fin dei conti comico: a stento il pretore riesce a ottenere il silenzio, come un maestro in una classe di discoli, e quando l’anziano cancelliere si presenta all’udienza con indosso la toga – perché Schiavi ha disposto di ripristinare le formalità e il prestigio della legge – tutti scoppiano a ridere. Le coordinate sono fissate: In nome della legge, capovolgendo lo schema del western classico, registra l’impossibilità di affermare la legge se non nella forma di un patto con un sistema parallelo di consuetudini inveterate; e la sede di questa conciliazione non è il tribunale, luogo privo di qualunque solennità, ma la piazza del paese. Una storia tutta confinata al dopoguerra siciliano, si penserà, evocazione neorealistica e romantica di un’isola dove già allora la mafia imponeva una sorta di giurisdizione parallela. Una prima e antica «trattativa», si direbbe di questi tempi. Ma siamo certi che questa impotenza della legge e questo sottinteso comico non alludano anche a qualcosa di più vasto? Siamo così persuasi che solo in quella frontiera primordiale ai confini della civiltà immaginata da Germi valesse la percezione di un governo «molto lontano»? La Sicilia è forse, come voleva Sciascia, una metafora? Quando, pochi anni dopo, Luigi Zampa girerà Processo alla città (1952), lo schema sembra ripetersi, ma non siamo più in un western, siamo in un melodramma poliziesco in costume con toni da commedia e da sceneggiata. L’eroe galantuomo che domina la scena, il giudice istruttore Spicacci (Amedeo Nazzari), non è certo il tipo dello sceriffo (anzi, si distanzia dai metodi un po’ burberi del delegato di polizia che lo assiste nelle indagini) ma si trova come Schiavi davanti a un delitto di malavita e al muro di omertà che lo protegge. La fonte d’ispirazione degli sceneggiatori (insieme a Zampa, Suso Cecchi D’Amico, Ettore Giannini, Diego Fabbri e Turi Vasile, da un soggetto di Francesco Rosi e dello stesso Giannini) era un celebre caso di camorra del primo Novecento, l’omicidio dei coniugi Cuocolo, cognome che nel film è mutato in Ruotolo. L’ambientazione napoletana, la suggestione di vicoli e palazzi barocchi, teatri e lungomare, ristoranti liberty e case equivoche, induce sicuramente Zampa a cercare uno stile più marcato e complesso rispetto al passato: uno stile che valorizza le scenografie, le ricostruzioni d’epoca, le ombre della notte e le luci artificiali. […] A Zampa interessano i contrasti e i paradossi da cui nasce uno indagini preliminari
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spirito casuistico, gesuita, che alimenta una concezione distorta della giustizia e della società: e ne trova i corrispettivi oggettivi nelle architetture fastose e cadenti, nei labirinti di stradine e scalinate14.
Anche qui la dimensione strettamente giudiziaria assume fin dalle prime scene una connotazione comica: i figli del giudice istruttore fanno i loro disegnini sui fascicoli e gli incartamenti processuali, la moglie ci posa sopra il soprabito; quando poi Spicacci raduna tutti i sospetti e gli implicati in un ristorante di Pozzuoli – lo stesso in cui si è svolta la colazione in cui è stata decretata la condanna a morte di Ruotolo, reo di avere scritto delle lettere anonime delatorie – ecco che si sente chiedere, tra le risate generali: «Signor giudice, già che ci siamo, perché non ci facciamo una pizza?». Come nel film di Germi, si profila un conflitto tra due diverse legalità: «Eccellenza, sopra a quella legge che tiene le manette, i brigadieri, le celle, la punizione per chi sbaglia, c’è un’altra legge che non si può sbagliare: è la legge degli uomini d’onore», dice uno dei convitati del ristorante. E questa legge è assai più capillare, tenace e persuasiva dell’altra, tanto che prende forma in una canzone, Traditore di D’Esposito-Resti, interpretata da una giovanissima Silvana Pampanini (doppiata da Nilla Pizzi), che è una summa del codice camorristico («L’abbiamo scritta tutti insieme, tutti quanti. Anzi, la cantavamo tutti insieme prima ancora che uno di noi pensasse di scriverla»). Il duello tra le due leggi opposte e simmetriche culmina anche qui nel confronto tra il giudice Spicacci e un capo camorrista, don Alfonso Navona (Eduardo Ciannelli), più losco e meno savio del massaro Passalacqua: «Noi signor giudice siamo in fondo due uomini di legge. Soltanto che io la legge la sento e la faccio in un modo diverso dal suo. […] Io la sua giustizia non la conosco, so soltanto che è molto più complicata della mia e ha sempre bisogno di prove concrete. Poi il giorno che le saltasse in testa di accusare me, dovrebbe incriminare troppa gente, troppa, e anche della sua gente, capisce? […] Lasci le cose come stanno, sarà meglio per tutti». A scoraggiare gli sforzi del giudice istruttore sono anche i giornali, i colleghi, il ceto politico (c’è un’interrogazione parlamentare sul suo operato): la legalità parallela non vale dunque solo per l’universo chiuso della malavita. Il dilemma è lo stesso che si poneva al pretore di Capodarso, ma la conciliazione stavolta è impossibile. Divenuto scettico sulla propria missione, tentato anch’egli di abbandonare la partita, Spicacci – ulteriore simmetria con il suo precursore 14. A. Pezzotta, Ridere civilmente. Il cinema di Luigi Zampa, Cineteca di Bologna, Bologna 2012, pp. 164-165.
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cinematografico – si fa irremovibile davanti all’ingiusta morte di un ragazzo, il ladruncolo Luigi Esposito (Franco Interlenghi), che lo aveva aiutato a spezzare l’omertà: «Siamo noi che l’abbiamo ucciso. Delegato, quei mandati di cattura, trenta, cento o mille che siano, io li firmo subito. Tutti!». È una dichiarazione di guerra a tutta una rete di connivenze, di equilibri informali, di patti sottaciuti. «Processo alla città, a tutta la città» sono le ultime parole prima della scritta «Fine». Il film si chiude dunque su un atto più temerario che coraggioso, più velleitario e moralistico che risolutore. I tribunali, anche con tutta la rabbia civile di Zampa, non possono nulla o quasi nulla a cospetto delle consuetudini, la società non li designa come «sedi competenti» per la risoluzione dei conflitti. Nei primi film di argomento giudiziario – che riguardano, è vero, la realtà «a statuto speciale» della malavita, ma che alludono a un quadro più vasto – la legge è ricacciata in una posizione paradossale: pur davanti a un delitto circostanziato, preciso, di chiara attribuzione, la trama delle complicità dirette o indirette è tale che non c’è via di scampo, o si assolvono tutti o si incolpano tutti. Altro modo per dire che il sistema giudiziario diventa lo strumento di una curiosa illusione ottica, di un trompe-l’-oeil: sotto la luce della legge, i comportamenti più comuni sembrano assumere un connotato criminale; per poco che questa luce si offuschi o si spenga, quegli stessi comportamenti paiono integrarsi in un sistema di relazioni a suo modo regolato e funzionante, se non proprio civile. Da questo statuto paradossale della legge deriva anche la sua inesauribile comicità. Che sia la commedia, il nostro solo genere giudiziario? 3. La comicità della legge La riluttanza a riconoscere alla commedia la sua piena legittimazione culturale e artistica ha causato per decenni innumerevoli equivoci, sviste e sottovalutazioni, a cui solo la letteratura più recente ha cominciato a porre rimedio. Vale anche nel nostro caso d’indagine. Nel 1973 Vincenzo Tomeo, sociologo del diritto, pubblica quello che rimane, a tutt’oggi, l’unico studio ambizioso e sistematico sul cinema e la giustizia in Italia; uno studio che affianca l’analisi di alcuni film d’argomento giudiziario a un’indagine sulle percezioni degli spettatori15. È illuminante rileggerlo, quarant’anni dopo. 15. V. Tomeo, Il giudice sullo schermo. Magistratura e polizia nel cinema italiano, Laterza, RomaBari 1973. Cfr. anche R. Treves, Giustizia e giudici nella società italiana, Laterza, Bari 1972, pp. 71-
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La ricerca, condotta tra il 1967 e il 1971, riflette un momento cruciale nella ridefinizione del ruolo sociale del magistrato e della sua ideologia professionale, portata avanti principalmente dalla corrente associativa di Magistratura democratica, dalle sue riviste e dai suoi convegni16; una ridefinizione del giudice come «interprete del conflitto sociale» che Tomeo mostra di caldeggiare e condividere, tanto che il fermento della contestazione lo induce ad aggiustare il tiro: «L’ipotesi di lavoro della nostra ricerca si basava sul convincimento che la scarsa attenzione riservata al giudice e al processo come argomento di rappresentazione drammatica potesse essere ricondotta a una fondamentale incomprensione e a una distanza psicologica e culturale che riproduceva, del resto, un atteggiamento abbastanza diffuso tra la popolazione»17. Ma via via che la ricerca procede – tanto l’analisi dei film quanto il sondaggio tra gli spettatori – a colpire Tomeo è da un lato la reviviscenza del filone giudiziario nel cinema, specie nel cinema politico che andava sbocciando proprio in quegli anni, dall’altro la penetrazione dell’ideologia «democratico-egualitaria» nel pubblico, che porta «a una singolare riaffermazione della funzione del giudice come risolutore dei conflitti sociali»18. Questa distorsione prospettica di segno politico-ideologico, unita alla cronica renitenza della cultura nazionale a considerare pienamente il cinema «minore», porta Tomeo a qualche vistosa sottovalutazione. Il cinema dell’Italia fascista, dice lo studioso, si è occupato ben poco di giustizia, con l’eccezione di Corte d’assise (1930) di Guido Brignone e di pochi altri film. A malincuore, e tra due parentesi, Tomeo cita anche Imputato alzatevi! (1939) di Mario Mattoli con Macario, dove però il processo serve «come pretesto comico»19. Ma anche dopo il 1945, assicura, i giudici e le aule di giustizia continuano a latitare. Tra il 1946 e il 1965, Tomeo censisce ben 118 film in cui l’elemento giudiziario è in qualche modo presente, ma a interessarlo sono soltanto quelli in cui il dramma della giustizia è al centro della narrazione in tutta la sua solennità, come nel courtroom film americano, 80, e P. Gadda Conti (a cura di), Cinema e giustizia, Sansoni, Firenze 1961. È vero quanto afferma Andrea Pitasi, e cioè che «dalla metà degli anni ’70 la ricerca sociologica ha relativamente trascurato la costruzione massmediatica del sistema giudiziario». A. Pitasi (a cura di), Regole e finzioni. Il sistema giudiziario nella fiction cine-televisiva, Franco Angeli, Milano 2010, p. 12. 16. Cfr., tra le molte fonti sul tema, C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della Seconda Repubblica, il Mulino, Bologna 2003, pp. 106-114; R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Da piazza Fontana a Mani pulite, Baldini & Castoldi, Milano 1996, pp. 9-19; M. Mellini, Il partito dei magistrati. Storia di una lunga deriva istituzionale, Bonfirraro, Barrafranca Enna 2011, pp. 61-74. 17. V. Tomeo, op. cit., p. IX. 18. Ibidem. 19. Ivi, p. 19.
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e in cui il giudice appare nella piena dignità della sua funzione. Pertanto è costretto a escluderne molti, moltissimi, dato che «39 film possono essere classificati a carattere comico e brillante, nei quali l’amministrazione della giustizia ha funzione incidentale e contingente o è addirittura deformata in modo grottesco e farsesco»20. Eccola, la svista macroscopica e rivelatrice: un terzo di tutti i film con un ingrediente giudiziario sono classificabili come commedie, ma malgrado l’enormità di questo dato Tomeo preferisce escluderli dal computo. È costretto, quasi controvoglia, a tenere in conto Un giorno in pretura (1953) di Steno, «modesto negli intenti e mediocre nella realizzazione»21. Il suo disconoscimento della commedia è assoluto e inappellabile (e in quegli anni, come si è detto, non era certo una sua esclusiva). Eppure, di tutta evidenza, è proprio alla commedia che bisogna tornare per sperare di sciogliere i nostri dilemmi, e alla tutt’altro che semplice «saldatura tra il genere e l’identità degli italiani»22: In un certo senso l’affezione del pubblico alla commedia all’italiana – e in generale l’equivalenza data per assiomatica tra il personaggio tipico della commedia all’italiana e il profilo dell’italiano medio –, sono sintomi da una parte di un bisogno scoperto, dall’altra di un vuoto simbolico, di cui il genere rappresenta un surrogato immaginario. […] Non è un caso che questa commedia così votata all’italianità, si affermi in coincidenza di una vera e propria metamorfosi della nazione (il miracolo, il boom, i flussi migratori, eccetera), da cui discende un’esigenza di ripensamento e rielaborazione del vissuto identitario […]23.
Un surrogato d’identità, un’identità immaginaria in grado di insinuarsi negli spazi lasciati vacanti dalle narrazioni della patria proposte dalla pedagogia (e dalla retorica) istituzionale. Una «dimora narrativa» eretta ricorrendo, come spesso si è detto, a una miriade di stereotipi indulgenti, che ridanno lustro al cliché antropologico di un «carattere nazionale» perenne e immutabile; ma in grado anche di fare i conti con questi stereotipi in modi complessi, sorprendenti, imprevedibili, contraddittori. È vero anche per il mondo della giustizia, a cui la commedia ha rivolto un’attenzione costante. Tomeo aveva ogni ragione nel rilevare che nelle commedie è difficile imbattersi in un giudice protagonista o in un processo degno del nome; ma 20. 21. 22. 23.
Ivi, p. 21. Ivi, p. 23. M. Comand, Commedia all’italiana, Il Castoro, Milano 2010, p. 37. Ivi, pp. 38-39.
indagini preliminari
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avrebbe potuto dedurne che la funzione della commedia, nel suo definire l’italianità rispetto all’ambito giudiziario, è stata proprio quella di rappresentare la marginalità della sfera legale, di esprimere il disincanto rispetto alla possibilità stessa della giustizia, di operare un’erosione persistente, accanita, implacabile della ritualità del processo. Le aule di giustizia non vi appaiono quasi mai come il luogo deputato alla composizione dei conflitti più profondi, come è di norma nei film giudiziari statunitensi, tanto da far supporre che se in Italia non esiste il courtroom drama è prima di tutto perché, al suo posto, c’è la commedia. Si può dire, calcando un po’ la mano, che se nel giallo giudiziario americano il processo è il rito solenne dove possono trovare soluzione conflitti sorti anche al di fuori di esso – un esempio è I Confess (Io confesso, 1953) di Alfred Hitchcock – nella commedia italiana (e all’italiana) anche i conflitti emersi nelle aule di tribunale trovano soluzione per lo più al di fuori, o al di sotto, o al di sopra, o a latere, insomma in una penombra di relazioni informali. Il processo messo in scena dalla commedia – quella dei padri nobili come quella dei tardi emuli «pecorecci» – serve sì a dar voce alla sconfinata litigiosità che spesso si attribuisce al carattere nazionale24 (e che notoriamente ingolfa i tribunali), ma non a dirimerla, non a scioglierne i nodi in un modo che imponga il consenso. Rispetto alle leggi non scritte, alle consuetudini, ai modi sperimentati di «aggiustare» i conflitti, il tribunale appare per lo più come un fondale farsesco, da opera buffa, entro cui si muovono personaggi sottilmente parodistici e non di rado ridotti a macchietta, dall’avvocato pomposo e intrigante al giudice che rompe ogni residuo di solennità, mette fine alla mascherata e si rivela, per l’appunto, parte in commedia (d’altra parte una costante della commedia è proprio lo scollamento ironico tra l’individuo e il suo ruolo pubblico). È la legge stessa, e la sua estraneità rispetto al concreto fluire della vita, la fonte della comicità. Quanto questa percezione di estraneità abbia anche a che fare con l’esasperato formalismo della nostra cultura giuridica, e quanto questo sentimento di impotenza si possa spiegare con la constatazione che la giustizia italiana – non foss’altro per la sua cronica lentezza – di fatto non scioglie i conflitti, è altro e più complesso affare, che qui non ci riguarda. Ma c’è comicità e comicità nella legge, c’è una comicità metafisica e una comicità bonaria, e può accadere che l’una convochi l’altra in giudizio.
24. Cfr. A. Gambino, Inventario italiano. Costumi e mentalità di un paese materno, Einaudi, Torino 1998, pp. 66-72.
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4. «Voi italiani siete imputati ideali» La panne, racconto di Friedrich Dürrenmatt pubblicato nel 1956, è a suo modo un apologo comico, ma di una comicità che discende da Kafka: gelida, grottesca, paradossale, spietata, assurda, tutto fuorché compiacente, refrattaria all’ammiccamento e all’indulgenza. È la storia di Alfredo Traps, rappresentante di articoli tessili, costretto per un contrattempo (la macchina in panne) a trascorrere una notte presso la casa di un giudice a riposo che insieme ad altri uomini di legge in pensione ha escogitato un magnifico gioco di società: ogni sera rifanno un processo famoso – quello di Gesù, quello di Socrate – e se capita loro per le mani un imputato in carne e ossa, meglio ancora, il gioco è più divertente. Traps è appunto l’imputato in carne e ossa con cui spassarsela. Interrogato in un processo-banchetto dove scorrono fiumi di vino, racconta la sua vita banalissima e apparentemente sconnessa, insignificante; ed ecco che per miracolo – un miracolo suscitato dalla liturgia processuale e dalla sua solennità – questa esistenza meschina gli appare trasfigurata, eroica, grandiosa, sia pure nell’ombra ingigantita del crimine. Nel processo, e nella condanna a morte, «la vita giungeva a compimento con la coerenza di un’opera d’arte, qui si vedeva la tragedia dell’uomo, qui essa splendeva in tutta la sua luce»25. A tal punto Traps se ne persuade, a tal punto si compenetra nella sua nuova identità colpevole, che esegue egli stesso la sentenza emessa per burla dai vecchi giudici e la mattina seguente è ritrovato impiccato. Come trapiantare un apologo simile in una commedia italiana, per giunta con Alberto Sordi protagonista? È la perplessità che ha dovuto affrontare Ettore Scola: Dopo aver letto il racconto di Dürrenmatt, lo segnalai a Amidei e anche lui ne rimase incantato. Insieme scrivemmo un adattamento perché volevamo apportarvi alcune modifiche. Anche se di cultura affine alla nostra, lo svizzero Dürrenmatt esprime spesso nelle sue opere preoccupazioni di ordine religioso, di impronta luterana, che non ci appartengono molto […]. Il nostro lavoro invece cercava di evidenziare una mentalità che fa parte di un certo comportamento nazionale; il nostro protagonista era persona rozza, superficiale, ignorante, inconsapevolmente fascista. Per lui sarebbe stata improponibile la crisi mistica che portava il personaggio di Dürrenmatt a impiccarsi (anche perché, con Sordi, sarebbe stata una svolta poco credibile). Abbiamo finito per trasporre l’azione in un albergo 25. F. Dürrenmatt, La panne, Einaudi, Torino 2007, p. 62.
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dove hanno luogo questi finti processi per intrattenere i clienti. Il nostro eroe, passata la notte, è quello di sempre, lo stesso prepotente, lo stesso donnaiolo, tutt’uno con il rombo della sua Maserati. Ma è stato condannato, la sentenza è comunque giusta e deve essere eseguita. La pergamena, ricordo di quella serata, rotolando ai suoi piedi, blocca il pedale del freno: la macchina prosegue la sua corsa fino a precipitare in una scarpata. Però l’imputato muore ridendo: arrogante e sicuro di sé sa di aver ragione lui e non quei quattro imbecilli che lo hanno condannato a morte. E ride, ride contento anche se sta morendo, perché comunque sa che la borghesia alla quale appartiene è un’Araba Fenice, che si riproduce sempre e che avrà sempre eredi26.
Un finale che evoca quello arcinoto del Sorpasso (Dino Risi, 1962), solo intinto nel fiele della rampogna ideologica e della nemesi moralistica. In La più bella serata della mia vita (1972), dunque, l’Alfredo Traps di Dürrenmatt diventa un ancor più insignificante Alfredo Rossi. Cioè Alberto Sordi, l’unico attore italiano (perlomeno tra i personaggi principali) nel cast di un film che si svolge tutto in Svizzera, dove la macchina di questo piccolo esportatore di valuta è andata in panne. Sordi processato fuori dall’Italia da coprotagonisti transalpini, per lo più vecchie glorie del cinema francese (Pierre Brasseur, Charles Vanel, Claude Dauphin, nonché lo svizzero Michel Simon): più che il processo a un personaggio, è un processo alla commedia e allo specchio che essa ha offerto del carattere nazionale. Il processo a Sordi, intentato da quattro «mostri sacri» del cinema europeo, sarebbe da questo punto di vista triplice: al personaggio in questione, rappresentativo di quel ceto di parvenus portato alla ribalta dall’improvviso (e contraddittorio) benessere di cui ha goduto l’Italia negli anni Sessanta; alla «mostruosità» del medesimo personaggio nella sua più subdola (e perciò riuscita) espressione, l’attore-autore Sordi, che non a caso galopperà poi verso il più vieto qualunquismo; ai limiti intrinseci del genere (la commedia) che più di ogni altro ha fatto leva su quella realtà, con compiaciuto divertimento, per metterne alla berlina gli aspetti più scopertamente ambigui e retrogradi27.
26. Cit. in I. Borghese, M. Comand, M.R. Fedrizzi (a cura di), Sergio Amidei sceneggiatore, Centro Studi Amidei, Gorizia 2004, pp. 383-385. Cfr. anche E. Bíspuri, Ettore Scola, un umanista nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 2006, pp. 211-216. 27. R. Ellero, Ettore Scola, Il Castoro, Milano 1995, p. 45.
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guido vitiello
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Si è detto fino allo sfinimento che Sordi è stato per decenni «l’epitome dell’italiano “medio” e la personificazione dominante del carattere degli italiani»28: prevaricatore e intimamente servile, erotomane, furbo, refrattario alla legge in tutte le sue forme, opportunista, immerso nei pregiudizi più feroci senza averne consapevolezza. Alfredo Rossi è tutto questo, in una versione ancor più caricaturale, distorta nello specchio dell’ideologia. Per questo i giudici lo considerano una prelibatezza: «Voi italiani siete imputati ideali: sgusciate tra gli articoli del codice come anguille». Ma lui si sente beatamente innocente. «Mai in tutta la mia lunga carriera mi è capitato un cliente che abbia fatto con tanta tranquillità dichiarazioni così compromettenti», dice il commensale che nel finto processo gli fa da avvocato («Ma lei è proprio un innocente?»; «Perché, non si vede?»; «No»). Anche Rossi, come Traps, si lascerà convincere della sua natura di grande criminale, ma senz’ombra di colpa o di coscienza, solo perché questa nuova immagine di sé vellica la sua millanteria, la stessa per cui si è fregiato abusivamente del titolo di «dottore». La più bella serata della mia vita è un film mezzo abortito, divorato dallo schematismo ideologico, stilisticamente irrisolto e, a vederlo oggi, irrimediabilmente datato, altro modo per dire che è invecchiato piuttosto male. Eppure per suo tramite si possono osservare, in modo che raramente è stato più cristallino, le ragioni profonde dell’impossibilità di un courtroom drama italiano, al di là dell’impedimento «procedurale» che condividiamo con mezza Europa. A voler prendere le cose da lontano, si potrebbe ricorrere al vecchio argomento del ruolo giocato dal cattolicesimo nella costituzione dell’identità e del costume nazionale, che pure va usato con cura perché rischia di essere una scorciatoia per spiegar tutto. Il poeta W.H. Auden, nel suo penetrante saggio del 1949 dedicato al romanzo poliziesco, Il presbiterio colpevole, osservava che se il mondo protestante è la patria del giallo è perché in esso non esiste il sacramento della confessione: il detective, proclamando il colpevole, pronuncia l’assoluzione generale per tutti gli altri, lettore incluso29. Là, l’individuo consegnato alla sua indegnità a cospetto di una legge superiore e inflessibile; qua, la possibilità di risolvere i dilemmi della colpa e della responsabilità in un rituale confidenziale, sottratto alla vista e allo spazio pubblico. Qualcosa di simile si può affermare circa il genere 28. S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 243. Sulla commedia e l’italianità cfr. anche M. Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni, Roma 2003, pp. 219-231. 29. Ora in W.H. Auden, La mano del tintore, Adelphi, Milano 1999, pp. 180-194. Per una discussione di tutti questi aspetti mi permetto di rimandare a G. Vitiello, La commedia dell’innocenza. Una congettura sulla detective story, Luca Sossella Editore, Roma 2008.
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processuale, strettamente imparentato al poliziesco. L’Alfredo Rossi di Sordi può abbandonarsi alle rivelazioni più turpi finché si sente nell’ambito protetto di un colloquio informale («lei ha la mania di confessare», lo rimbrotta l’avvocato), ma sotto la luce di una legge oscura e severa, che gli sottrae ogni indulgenza, la sua condotta appare radicalmente criminale, e se non ne ha coscienza è perché prima di tutto gli fa difetto il sentimento della legge. È la legge a costituire il peccato, dice san Paolo; e se al di là della legge c’è la giustificazione della grazia, al di qua è solo colpa inconsapevole, o affiorante nella penombra di un confessionale, purché non venga mai a certificarla il timbro di una sentenza. L’impuntatura moralistica di Scola – che tanto ricorda la requisitoria contro l’«uomo medio» di Orson Welles ne La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini – ha senso solo se condotta da un punto di vista che si vuole o si crede straniero, straniero in patria, attingendo alla retorica speculare dell’«anti-italiano». Quali arbitrii, ripicche, illusioni, false coscienze e risentimenti ideologici potessero annidarsi in posizioni (o pose) di tal sorta, era stato svelato l’anno prima dal vero capolavoro della commedia giudiziaria italiana, In nome del popolo italiano di Dino Risi, di cui altri in queste pagine ragioneranno con più ampiezza30. Un caso di scuola della capacità della commedia di mostrare il rovescio degli stereotipi sull’italianità con lo stesso gesto con cui li mette in scena. Nel film di Risi è di nuovo un esemplare caricaturale dell’italiano balordo da commedia a finire sotto processo, Vittorio Gassman nella parte dell’imprenditore Santenocito, impermeabile alla legge, cialtrone, intrallazzatore ma a suo modo simpatico. Solo che stavolta il suo inquisitore, il magistrato progressista Bonifazi (Ugo Tognazzi), straniero in patria e accecato dal rancore antropologico verso l’ignoranza e la volgarità dei propri concittadini, finisce per operare sullo stesso terreno extralegale del suo imputato, e vuole condannarlo a ogni costo bruciando nel fuoco le prove della sua innocenza. Di questo terribile dettaglio, i tanti che hanno visto nel personaggio un rigoroso fustigatore dell’italianità più deleteria – di volta in volta fascista, figlia del miracolo economico, democristiana o socialista, infine berlusconiana – paiono non aver mai soppesato fino in fondo le implicazioni. Cosa che invece ha fatto un uomo che sa poco di cinema ma molto di diritto, in risposta al suo intervistatore: Io non ho visto il film al quale si riferisce. Ma, se le interessa conoscere la mia personale opinione sui due personaggi da lei descritti, le dirò che, se il perso30. Cfr. i capitoli di A. Pergolari e A. Minuz.
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naggio del finanziere interpretato da Gassman era quello di un mascalzone, il personaggio del magistrato interpretato da Tognazzi era quello di un mascalzone ancora più spregevole del primo. Altro che «giustizia poetica»! Forse mai come in questi casi i concetti di «giustizia» e di «poesia» sono così gravemente vilipesi31!.
Si è detto, con ragione, che In nome del popolo italiano è un film profetico, come è profetica la storia della sua ricezione, che prelude a posteriori annebbiamenti ideologici. Ma più ancora che profetico è un film che riflette, consapevolmente o meno, il dramma giocoso di un paese che non riesce, a nessun livello, a vivere secondo le leggi che si è dato – a cominciare dalla legge suprema, la Costituzione, duplicata e spesso contraddetta dalle consuetudini di una «Costituzione materiale» – e in cui tutti i conflitti decisivi non hanno luogo sul terreno del diritto, ma al di sopra o al di sotto di esso, tutt’al più usando la legge come clava. Soprattutto, il film di Risi è la riprova che la tradizione della commedia ha saputo, nelle sue larghe maglie, accogliere, ripensare (e, a suo modo, delegittimare) tutte le metamorfosi della figura del giudice che si sono succedute nell’Italia del dopoguerra. Michele Luminati ne ha offerto un’elegante tripartizione, ispirata alla trilogia di Italo Calvino: negli anni Cinquanta e Sessanta i magistrati erano «baroni rampanti», aristocratici, sacerdotali e conservatori; poi, dalla fine degli anni Sessanta, sono diventati «visconti dimezzati», divisi tra l’applicazione della legge e la vocazione al protagonismo politico; negli ultimi vent’anni, infine, sono «cavalieri inesistenti» in cerca di un nuovo ruolo sociale dai confini ampi e indefiniti, un ruolo perseguito, direbbe Calvino, «con la forza di volontà e la fede nella nostra santa causa!»32. Se la commedia classica, da Un giorno in pretura in poi, ha volto in ridicolo la ieraticità dei baroni rampanti, la cupa commedia di Risi ha dato un ritratto sardonico e spietato dei visconti dimezzati. E i cavalieri inesistenti? Per loro dovremo soffermarci su un altro film, anch’esso a suo modo profetico, che ha di nuovo per protagonista l’arciitaliano Alberto Sordi.
31. C. Carnevale, Un giudice solo. Una vicenda esemplare, a colloquio con Andrea Monda, Marsilio, Venezia 2006, p. 221. 32. Cfr. M.L. Luminati, Linguaggi e stili della magistratura italiana nel secondo dopoguerra, in A. Varni e G. Melis, L’impiegato allo specchio, Rosenberg & Sellier, Torino 2002, pp. 297-326. Il saggio sintetizza i risultati del vastissimo studio di Luminati Priester der Themis. Richterliches Selbstverständnis in Italien nach 1945, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 2007. Sulle trasformazioni della figura del magistrato nell’Italia contemporanea, cfr. anche D. Marafioti, Metamorfosi del giudice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.
indagini preliminari
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5. «Surtout, pas trop de zèle» Il tempo, per il cinema italiano, è out of joint, fuor di sesto, come per il principe Amleto. Una misteriosa legge storica vuole che il nostro cinema sia di rado contemporaneo a sé stesso. È spesso in grado di captare i grandi sommovimenti della vita nazionale quando questi sono ancora in gestazione; ma una volta che la storia si è manifestata, che gli eventi sono accaduti, ecco che vien meno la capacità, la forza o la possibilità di raccontarli. Si è detto spesso che Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri ha prefigurato la vicenda Calabresi33, e che Todo Modo (1976), sempre di Petri, aveva in nuce il caso Moro ancor più del romanzo di Leonardo Sciascia da cui era tratto. Nulla di quanto è stato prodotto in seguito, sulle stesse vicende, ha eguagliato la nitidezza di visione di quei film premonitori. Il caso più recente si è avuto quando a qualcuno è parso che il tramonto del berlusconismo ricalcasse fedelmente la sequenza finale del Caimano di Moretti, con l’assedio al Palazzo di giustizia34. Che sia per viltà, per prudenza, per disattenzione, per calcolo ideologico, per vincoli produttivi, per ostacoli politici, o anche solo per la cronica incapacità di pervenire a un grado minimo di narrazione condivisa delle vicende nazionali, pare di poter dire che chi vuol raccontare liberamente la storia, in Italia, è costretto ad anticiparla; una volta accaduta, infatti, le cose si fanno più ingarbugliate. È successo anche con la vicenda di Mani pulite e il crollo della Prima Repubblica, su cui pesa una sorta di maledizione. Il prologo cinematografico delle inchieste del 1992 è stato un film dell’anno precedente, Il portaborse di Daniele Luchetti. Nanni Moretti, qui in veste di attore, era un ministro socialista di nome Botero (a segno di un potere bulimico, come le figure straripanti del pittore colombiano), ispirato apertamente a Craxi, De Michelis e Martelli; e Silvio Orlando era un professore di lettere dall’animo candido che per sbarcare il lunario ne diventava appunto portaborse e ghost writer e che poi, illuminato da un giornalista d’opposizione, si ribellava e finiva per distruggere a colpi di mazza da golf l’automobile di lusso che il ministro gli aveva regalato. «È un film per bambini, un cartone animato in cui tutto il bene sta da una parte, quella della società civile, e il male dall’altra, nella politica», commentò all’epoca il vicesegretario socialista Giulio Di Donato, che 33. Sul rapporto tra la vicenda Calabresi e il film di Petri si veda C. Bisoni, Elio Petri. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Lindau, Torino 2011. 34. Cfr. E. Scalfari, «Sembra il finale del Caimano e il Cavaliere usa le sue tv», colloquio con Nanni Moretti, «la Repubblica», 12 febbraio 2011.
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aveva accettato di andare a una proiezione del Portaborse insieme a Barbara Palombelli de «la Repubblica»35. Non aveva tutti i torti, come critico. Ma come analista politico, i mesi successivi si sarebbero incaricati di smentirlo. Da allora, però, nessuno si è mai arrischiato a raccontare quella storia per il cinema. Molti ne hanno accarezzato l’ipotesi (il primo era stato Carlo Vanzina già nel 1993, Michele Placido annuncia da anni lo stesso progetto, e non è il solo)36, ma si può dire che, dopo un ventennio, siamo fermi al Portaborse. Quasi dieci anni prima, tuttavia, la parabola di Mani pulite era stata prefigurata, ancora una volta, in una commedia. Tutti dentro è un film del 1984, invero piuttosto modesto, che ha Alberto Sordi per regista e Rodolfo Sonego come soggettista e co-sceneggiatore. È «la storia di una macroscopica inchiesta che coinvolge “tutto” il paese», come raccontò lo stesso Sonego in un articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 18 novembre 1984: «Quando l’estate dello scorso anno decidemmo di fare un film sull’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, pensavamo, da buoni umoristi, di aver scelto la via del paradosso, implicita nello stesso titolo Tutti dentro. Nei mesi che seguirono, mentre lavoravamo alla stesura del copione, le cronache televisive che accompagnano le nostre serate, con i lunghi pellegrinaggi di persone ammanettate, hanno ridotto sempre più, fino ad annullarlo, lo scarto tra paradosso umoristico e vita quotidiana, tra fantasia e realtà»37. Sonego si riferiva per sua stessa ammissione alle inchieste sulla P2, e forse anche alla grande retata contro la camorra in cui fu arrestato Enzo Tortora38. Quando poi scoppiò Mani pulite, lo sceneggiatore fu tempestato di telefonate dai giornalisti: «Risposi semplicemente che la scoperta di questa diffusissima corruzione nazionale corrispondeva perfettamente a ciò che io avevo sempre pensato di questo paese, e la cui rappresentazione mi era anzi sempre stata rimproverata. “Sonego, perché fai gli italiani così cialtroni, cattivi, ladri, sordidi…?”. “Ma perché, scusate, come sono gli italiani secondo voi?”»39. Il giudice Annibale Salvemini interpretato da Sordi è una curiosa giustapposizione di elementi pescati dalla cronaca, dalla storia, dall’immaginario cinematografico – fin dal nome, che mette insieme un condottiero barbarico 35. Cfr. I. Moscati, Il portaborse vent’anni dopo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 123-132. 36. Cfr. P. Zanca, Il cinema e la maledizione di Tangentopoli, «Il Fatto Quotidiano», 19 febbraio 2012. Vale la pena menzionare che di recente Sky ha annunciato una serie televisiva su Mani pulite, 1992, da un’idea di Stefano Accorsi (l’inizio delle riprese è previsto per il febbraio del 2013). 37. Cit. in T. Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, Transeuropa, Bologna 2000, p. 133. 38. Nel film un conduttore televisivo è ammanettato in studio al termine del suo tg. Tornerà poi sugli schermi una volta scagionato, salutando i suoi spettatori con un accenno alle sue disavventure giudiziarie (quasi una profezia del «Dove eravamo rimasti?» di Tortora). 39. Ivi, p. 134.
indagini preliminari
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e un grande politico liberale e azionista. I suoi boccoli fluenti, gli occhialoni e la passione per i nightclub e le discoteche ne fanno una trasparente caricatura del socialista Gianni De Michelis – allora ministro del Lavoro nel neonato governo Craxi – ma i suoi modi professionali sono tutt’altro che mondani, sono quelli, tradizionali, del giudice-funzionario integerrimo e devoto solo alla legge; al tempo stesso, il magistrato dialoga vezzosamente con i giornalisti e le telecamere, pur serbando gelosamente il segreto istruttorio (qui la profezia vien meno); e la sua missione è quella, esorbitante, di una purificazione generale, che neppure il più accanito pretore d’assalto avrebbe mai osato concepire. Tutto sommato, un ritratto confuso ma efficace del «cavaliere inesistente», come non se ne trovano nel cinema maggiore. Ereditando una grande inchiesta sulle tangenti da un anziano e più tentennante consigliere sulla via della pensione che gli raccomanda, con le parole di Talleyrand, pas trop de zèle, Salvemini spicca centinaia di mandati di cattura, una retata che coinvolge politici, affaristi, faccendieri, personaggi dello spettacolo, uomini di chiesa, membri dei servizi segreti e delle logge massoniche deviate. Ma sorpreso a cena in atteggiamento sospetto con due dei suoi indagati, sia pure per un equivoco, finisce egli stesso in manette, e sotto la luce della legge tutta la sua condotta precedente assume un connotato losco. Quando, nella sequenza finale, un giornalista gli chiede se abbia ancora fede nella giustizia, il giudice risponde, ormai disincantato: «Ma dopo le recenti amare esperienze io mi chiedo se è ancora utile investire tante energie per l’applicazione delle leggi o se invece rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate non ci convenisse accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione; questo nella speranza, ovviamente, che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti»40. È una conclusione qualunquista, senza meno, così come qualunquista è la pretesa di Sonego che gli italiani abbiano solo il volto che mostra loro lo specchio della commedia. Ma è anche l’ennesima riproposizione del paradosso della legge, o se vogliamo del grande ricatto morale che pesa sul cinema giudiziario italiano dai tempi di Processo alla città, e che la commedia 40. Quanto alle virtù profetiche del film, il lettore potrà decidere se in questa conclusione è prefigurata la parabola di Antonio Di Pietro – a suo modo, un eroe della commedia all’italiana – o la fine della stagione di Mani pulite, che come raccontò anni dopo Francesco Saverio Borrelli fu legata all’indagine sulla Guardia di finanza, che avrebbe coinvolto una fascia troppo larga della popolazione: «A quel punto il cittadino medio ebbe la sensazione che questi moralisti della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio, che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per poter campare e rimediare all’inefficienza della pubblica amministrazione» (cit. in F. Facci, Perché finì – davvero – Mani pulite, «Il Post», 19 febbraio 2012).
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ha elaborato in tutte le sue possibili sfumature: tutti dentro o tutti a casa, s’incrimina l’intero paese o «tana libera tutti», la legge è sempre straniera. Beninteso, la commedia è stata anche molto altro, e noi non abbiamo tracciato che una rotta nel suo mare magnum. E se questa raffigurazione di un’italianità divorziata dalla legge sia un’illusione ottica, un miraggio compiacente, uno stereotipo assolutorio, o se in essa vi sia anche il tentativo non banale e non moralistico di rielaborare alcuni nodi profondi dell’identità nazionale, come la storica debolezza della civicness41, non è nostra pretesa deciderlo. A noi premeva avanzare una congettura, e sottoporla al vaglio del giudice per le indagini preliminari, ossia il lettore: l’idea che nella tradizione della commedia si riveli la ragione «trascendentale» dell’assenza di un courtroom drama italiano, il motivo più profondo della sua persistente contumacia. 6. Che cos’è e com’è fatto questo libro Per la gran parte, i libri sul cinema e la giustizia si presentano come rassegne commentate di film – quasi fossero antologie di causes célèbres – e non di rado a firmarli sono uomini di legge con passioni e inclinazioni cinefile più che storici e studiosi del cinema42. Non è questo il caso del libro che il lettore ha tra le mani, che si compone di saggi dedicati a generi, epoche, autori, formati che in un modo o nell’altro hanno accostato il mondo della giustizia e il tema più vasto della legalità. Il saggio di Giovanni Damele fissa le coordinate essenziali del processo stesso come spettacolo, disegnando la liturgia dei due grandi archetipi processuali – accusatorio e inquisitorio – e le diverse funzioni che svolge in essi il giudice. Che lo s’intenda come rito quasi religioso celebrato da un sacerdote, o come competizione quasi sportiva regolata da un arbitro, il comune denominatore è infatti la dimensione spettacolare, il dramma. Andrea Pergolari ricostruisce con dottrina enciclopedica gli intrecci tra giustizia e commedia italiana (o all’italiana): dal progenitore del genere – Imputato alzatevi! di Mattoli – all’umanità spicciola delle preture di provincia; 41. Per un’introduzione a un dibattito assai vasto, cfr. R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993; C. Tullio-Altan, Italia: una società senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta, Istituto editoriale veneto friulano, Udine 1995; Id., La nostra Italia. Clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’unità al 2000, Egea, Milano 2000; L. Sciolla, Italiani. Stereotipi di casa nostra, il Mulino, Bologna 1997. 42. Per l’Italia, è doveroso menzionare l’utilissimo G. Ziccardi, Il diritto al cinema. Cent’anni di courtroom drama e melodrammi giudiziari, Giuffrè, Milano 2010.
indagini preliminari
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dalle grandi commedie amare degli anni Settanta ai rifacimenti quasi parodistici dei tempi più recenti. Si sofferma anche sul «caso Germi» e sulle ossessioni giudiziarie che attraversano tutta la sua opera, che abbia colore di commedia, di melodramma o di giallo. A due film cruciali è dedicato il saggio di Andrea Minuz: Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy e In nome del popolo italiano di Dino Risi, entrambi del 1971. Più che sullo sfondo della commedia, però, essi sono letti nel quadro del cinema d’impegno civile e politico e alla luce della sua pretesa di usare il film come «macchina processuale». Non meno interessante, per caratterizzare le ambiguità, le omissioni e i fraintendimenti di una parte del ceto intellettuale italiano, dei media e dell’opinione pubblica, è la storia rivelatrice della loro ricezione, che Minuz ripercorre. Anton Giulio Mancino si rivolge al solo autore che abbia fatto della giustizia, della procedura, dell’indagine e dei rischi di un’applicazione poco accorta del «paradigma indiziario» il centro propulsore della propria opera: Damiano Damiani. La sua parabola è letta, per un verso, in contrappunto con la lunga gestazione del nuovo codice di procedura penale; per altro verso, in analogia con il percorso letterario e intellettuale di Leonardo Sciascia, dal cui romanzo Il giorno della civetta Damiani trasse un film nel 1968. Il saggio di Giovambattista Fatelli riapre invece «l’istruttoria» del poliziesco all’italiana e del cinema di genere degli anni Settanta. Dove di rado la figura del giudice è centrale – anzi, spesso fa d’intralcio all’opera dei poliziotti-giustizieri – ma dove si esprime, sia pure in forme ruvide ed esasperate, un «animoso (e fallimentare) tentativo di sparigliare le carte sul tavolo della lettura dei problemi sociali», la registrazione di uno stato d’animo diffuso che invoca un’esigenza di legalità e un ritorno al senso comune spodestato dai discorsi ideologici dominanti. A una figura eminente nell’immaginario legato alla giustizia, il giudice antimafia, è dedicato il capitolo di Isabella Pezzini. In particolare, l’attenzione è rivolta ai film – prodotti per il cinema, ma più spesso per la televisione – che hanno ripercorso la parabola umana e professionale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, contribuendo a creare una mitologia civile spesso d’intonazione pedagogica, commemorativa e celebrativa, e mescolando a tal fine ricostruzione e finzione, documentario e reinvenzione. Gli ultimi tre capitoli escono dall’ambito strettamente cinematografico. Milly Buonanno ricostruisce meticolosamente cinquant’anni di fiction giudiziaria italiana in televisione, rivelando come prima cosa che Enzo Tortora non aveva del tutto ragione: accanto al grande successo di Perry Mason, molte altre narrazioni televisive, a partire dai primi anni Sessanta, hanno affrontato 32
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temi giudiziari; ma non aveva neppure tutti i torti, perché l’archetipo di Perry Mason, scomparso dalla più recente fiction statunitense, abita ancora in Italia nelle vesti del Rocco Tasca di Un caso di coscienza. Sempre alla giustizia in televisione, ma in tutt’altra accezione, è dedicato il capitolo di Christian Ruggiero, che si interessa alle «arene anomale» dei processi televisivi e al criminality show allestito intorno ai casi di cronaca nera, individuando due grandi modelli: quello del salotto, esemplificato da Porta a Porta di Bruno Vespa e dalla sua copertura del caso Cogne; e quello della piazza, la cui espressione paradigmatica è Annozero di Michele Santoro, grande accusatore, tribuno e «sceneggiatore» del malaffare nazionale. Alessandro Perissinotto rivolge infine il suo sguardo all’ambito della letteratura, cercando di individuare le ragioni che hanno reso impossibile la nascita di un legal thriller italiano sul modello di quello statunitense. Lo fa rileggendo due racconti di fine Ottocento, La sentenza di Remigio Zena e Il processo di Frine di Edoardo Scarfoglio: entrambi gli servono a dimostrare come storicamente la letteratura italiana abbia contribuito a sgretolare la fiducia nell’istituzione della giustizia, riducendola in molti casi a farsa. E in questo, come abbiamo visto, il cinema le ha dato una mano.
indagini preliminari
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Il processo come spettacolo. Rito, dramma, competizione GIOVANNI DAMELE
1. Uno spettacolo catartico Rito, dramma, competizione. L’orizzonte metaforico del processo giudiziario, almeno nella forma antonomasica del processo penale di primo grado, sembra articolarsi, per lo più, intorno a questi tre poli. Per quanto mettano in luce aspetti differenti del processo, in qualche caso opposti o alternativi, tali categorie metaforiche non sono certamente indipendenti tra di loro. Sono, al contrario, legate da una mutua relazione, le cui radici affondano nel rapporto della società con la violenza e, soprattutto, nel tentativo di neutralizzarne gli effetti dirompenti per la convivenza. René Girard ha reinterpretato questo tentativo come un processo di sostituzione della «violenza preventiva» del rito sacrificale attraverso la «violenza curativa» della sanzione penale, cui spetterebbe il ruolo di evitare l’esplosione di un conflitto potenzialmente interminabile1. Il diritto penale, e più in generale il sistema giudiziario, costituirebbero in altre parole una struttura razionale, capace di disciplinare ulteriormente la funzione originaria del rito sacrificale di placare le tendenze aggressive che causano la vendetta. Attraverso il monopolio assoluto della vendetta, il sistema giudiziario interrompe la catena delle vendette (private) successive e ne spegne gli effetti sociali, anziché esasperarli. Tuttavia, per ottenere questo risultato deve dissimulare, attraverso l’apparato e il rituale giudiziario, la vera identità della violenza legale2. Del resto, già Durkheim 1. R. Girard, La violence et le sacré, Bernard Grasset, Paris, 1975, trad. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1997, pp. 35-36. 2. Girard, La violenza e il sacro, pp. 40-41. Girard nota quanto sia rivelatrice l’espressione «vendetta privata», che si usa per indicare chi si fa giustizia da solo o, come si dice in inglese, takes the law into his own hands. L’espressione «vendetta privata», nota Girard, «presuppone una vendetta pubblica, ma il secondo termine dell’opposizione non è mai esplicito». E nelle «società incivilite»,
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aveva ricondotto la scansione della vita sociale in rituali alla necessità di creare un contesto disciplinato e controllabile per l’espressione delle emozioni collettive. I rituali penali, in tal senso, altro non sarebbero che uno strumento per rappresentare e rinforzare la coscienza collettiva3. Una simile ricostruzione può essere ricondotta a una duplice interpretazione: da un lato appare l’immagine, consolatoria e irenica se si vuole, del diritto penale come processo di civilizzazione, dall’altro, sotto l’unghia sottile del diritto e delle sue procedure, resta la presenza inquietante dell’aggressività e della violenza bruta. Ritorna, qui, l’aneddoto con cui Salvatore Satta apre Il mistero del processo: la folla rivoluzionaria irrompe nel tribunale per linciare il capo degli svizzeri di Luigi XVI, che si trovava sotto processo, ma si arresta di fronte alle intimazioni del giudice poiché comprende «che l’opera che essi compiono là in basso, le maniche rivoltate e la picca tra le mani, questi borghesi in mantello nero e cappello a piuma la perfezionano sui loro seggi»4. Quel che più conta, tuttavia, è che l’analogia tra il rito sacro e il rito giudiziario non sorge per una semplice derivazione di questo da quello, ma da una radice comune. Una radice condivisa, del resto, anche dal teatro, a partire dall’origine della tragedia come mimesis (imitazione) che consente, attraverso l’azione scenica, la catarsi5. La violenza, il crimine, il conflitto sono rappresentati, nella tragedia come nel processo penale, attraverso la mediazione del linguaggio. Antoine Garapon ha messo bene in luce, nel suo testo sul rituale giudiziario6, come quest’ultimo nasca sia come una repressione della pulsione violenta, sia come una sua realizzazione parziale, e come la catarsi, vale a dire la purificazione della violenza attraverso lo spettacolo, sia tanto più potente quanto più l’azione che si sviluppa è reale. Così, il processo giudiziario sarebbe un modo per addomesticare la violenza aggiunge Girard, «solo il sistema giudiziario può fornire l’equivalente» della vendetta pubblica, dato che «nel sistema penale non vi è alcun principio di giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta» (p. 32). 3. D. Garland, The Culture of Control. Crime and Social Order in Contemporary Society, Oxford U.P., Oxford 2001 n. 73, pp. 100 s.; cfr. anche P.A. Winn, Legal Ritual, in «Law and Critique», II, 2 [1991], pp. 207-232, in particolare p. 209: «Da un punto di vista antropologico, il rituale è caratterizzato da azioni simboliche standardizzate, ripetitive e interpersonali, modellate su consuetudini sociali, le quali implicano forme costanti nel tempo, e influenzano o orientano i comportamenti umani [human affairs]. Il rituale include [subsumes] le contraddizioni e crea la possibilità di determinate azioni sociali. L’impatto del rituale dipende non dalle intenzioni dei partecipanti, ma dalla definizione [definition] dell’azione rituale in sé» (T.d.A.). 4. G. Lenotre, Le Tribunal Revolutionnaire (1793-1795), Perrin, Paris 1947, p. 52, cit. in S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, pp. 11-13. 5. Così la definizione della tragedia all’inizio del capitolo VI della poetica di Aristotele. 6. A. Garapon, Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Éditions Odile Jacob, 2001; trad. it. Del giudicare, Raffaello Cortina, Milano 2007.
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giovanni damele
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attraverso il rito, poiché è proprio il rito che può annullare quella violenza selvaggia, dissimulandola attraverso uno spettacolo catartico. Sarebbe, in altri termini, uno spettacolo della violenza, il cui obiettivo è il riassorbimento della violenza stessa attraverso il medium della parola. Una teatralità che è del resto condivisa dal diritto e dalla politica7, così come con quest’ultima il diritto condivide una natura anzitutto agonistica. Giungiamo così, dopo il rito e la recitazione, al terzo orizzonte metaforico. Lo spazio comune, simbolico e sacro del giudizio è lo spazio dell’agone: il combattimento tra atleti si traduce in disputa oratoria. L’agone, è ancora Garapon a ricordarlo citando Ernst Jünger, è una «razionalizzazione della violenza nei confini di un quadro istituito, attraverso l’individuazione di una regola del gioco», e in quanto tale è opposto al «pólemos, lo scontro diretto tra forze, al di là di qualsivoglia regola»8. Il rituale giudiziario, le sue procedure, il suo aspetto esteriore non sono allora soltanto un éscamotage per celare una scienza immaginaria, come sosteneva Pascal9. Risalendo alle sue origini riaffiorano le tracce di una sacra rappresentazione e di una competizione simbolica. Ed è appena il caso di notare come in francese e in inglese, due lingue fondamentali nella storia del diritto occidentale contemporaneo, i sostantivi play e jeu comprendano tanto l’area semantica della competizione, quanto quella della recitazione. La radice spettacolare del rituale giudiziario si biforca così in due direzioni complementari, che andranno sovrapponendosi a un’altra alternativa fondamentale, quella procedurale tra il rito inquisitorio e il rito accusatorio, dando vita a due metafore alternative ma comunicanti: il giudice come sacerdote e il giudice come arbitro. 7. «Ogni sistema di potere politico riesce a ottenere la subordinazione grazie all’uso, più o meno intenso, della teatralità: il potere rappresenta – in tutti i sensi – la società che governa. Esso si propone come un’emanazione della società stessa, come il tramite necessario per la sua oggettivazione: il potere si premura, cioè, di fornire alla società un’immagine idealizzata di sé, e, dunque, accettabile. Ma la rappresentazione implica la separazione, la distanza e, quindi, la posizione di gerarchie», G. Balandier, Le pouvoir sur scènes, Balland, Paris 1980, p. 23, cit. in A. Garapon, Del giudicare, cit. pp. 99-100. 8. E. Jünger, C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, il Mulino, Bologna 1987, cit. in A. Garapon, Del giudicare, cit. pp. 128-129. 9. «I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro toghe rosse, i loro ermellini, di cui si ammantano come gatti impellicciati, i palazzi dove giudicano, i fiordalisi, tutto questo apparato augusto era molto necessario [...]. Se possedessero la vera giustizia e se i medici avessero la vera arte di guarire, non saprebbero che farne delle berrette a quattro spicchi; la maestà delle loro scienze sarebbe di per se stessa assai rispettabile. Ma non avendo che scienze immaginarie, necessita che ricorrano a tali vani strumenti che colpiscono l’immaginazione con la quale hanno a che fare; e con questo, di fatto, si attirano il rispetto». B. Pascal, Pensieri, opuscoli e lettere, trad. it. di A. Bausola e R. Tapella, Rusconi, Milano 1978, p. 443.
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2. Due tipi ideali: rito accusatorio e rito inquisitorio La distinzione di scuola si basa, come sempre accade con le distinzioni di scuola, su due tipi ideali. Da un lato, il sistema inquisitorio puro. Qui il giudice interviene ex officio e raccoglie le prove. È perciò insieme giudice e accusatore, in un contesto in cui la disparità con l’imputato, che non può raccogliere e presentare prove per suo conto, è evidente. D’altro canto, la stessa raccolta delle prove, così come i successivi atti del giudice, sono, in linea di principio, segreti, mentre l’imputato non è già più un uomo libero: è «a disposizione» della corte, in stato di «carcerazione preventiva». Dall’altro lato, il sistema accusatorio puro. Qui l’azione penale non è avviata dal giudice, che non ha del resto nessun ruolo nella raccolta delle prove. Sono infatti le parti a procurarle, portarle in giudizio ed esaminarle, restando in una posizione di assoluta parità tra loro. Il giudice non è quindi che un moderatore, dal momento che il verdetto, immotivato, spetta a una giuria, per di più composta da laici. In caso di condanna, a lui non rimane che stabilire l’entità della pena. Il tutto in un procedimento interamente pubblico, nel quale l’accusato resta, in linea di principio, un uomo libero, fino alla sentenza irrevocabile di condanna. Si tratta, come si vede, di una concezione essenzialmente privatistica del processo, visto anzitutto come un affare tra le parti. In principio, il giudice era l’unico partecipante a non essere un privato cittadino: solo successivamente sorge anche in quest’ambito la figura della pubblica accusa10. Due estremi opposti, dunque: uno «celebra l’unità», l’altro «mette in scena contrapposizioni»; uno «punta alla creazione di consenso», l’altro «esaspera il conflitto»; uno è «espressione di sovranità», l’altro «corollario di un diritto soggettivo»; uno, in altre parole, celebra l’affermazione del diritto sul disordine, mentre l’altro consacra la vittoria delle libertà pubbliche11. L’alternativa sembra netta anche dal punto di vista dell’obiettivo finale: per il sistema inquisitorio il disvelamento della verità, per il sistema accusatorio una ricostruzione «verosimile» dell’accaduto. Dal punto di vista procedurale, si tratta di una differenza non da poco, perché se l’assunto è che una verità già esista e che spetti al giudice «semplicemente» svelarla, allora il fulcro del processo è l’inchiesta. Ecco perché nel sistema inquisitorio non sono le parti ma è lo Stato, il giudice
10. G. Ubertis, Il processo penale. La verifica dell’accusa, il Mulino, Bologna 2008, pp. 12-14. Si veda anche F. Cordero, Procedura penale, VII ed., Giuffré, Milano 2003, pp. 17-101. 11. A. Garapon, Del Giudicare, cit. pp. 138, 151-152, 154.
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istruttore del quale Balzac tratteggiava l’onnipotenza12, a procurare, valutare e presentare le prove, cioè «i fatti»13. Se invece l’obiettivo è escludere «ogni ragionevole dubbio», attraverso una ricostruzione degli avvenimenti fondata sul dialogo (o sull’opposizione dialettica) tra due parti uguali, allora il fulcro del processo è il dibattimento. Le forme pure, si sa, esistono solo nei libri, i modelli reali presentano sempre elementi spuri: lo è (in linea di principio) l’introduzione della pubblica accusa nel sistema accusatorio, così come, d’altro lato, lo è il dibattimento, tipicamente accusatorio, che segue l’istruzione, tipicamente inquisitoria, nel sistema napoleonico, dal quale derivava anche il sistema italiano, prima del nuovo codice di procedura penale del 1988. Eclettica è anche la nuova procedura penale italiana, che accanto a una struttura indubbiamente accusatoria, basata sulla parità delle parti e sulla produzione delle prove, da parte delle stesse parti, nel corso del contraddittorio, conserva alcuni elementi tipici del sistema inquisitorio, come le misure cautelari personali di natura coercitiva. Resta, fondamentale, l’opposizione tra un’interpretazione pubblicistica e una privatistica del processo, tra una procedura il cui scopo è «trovare un colpevole» e un’altra il cui scopo è «evitare la condanna di un innocente». Restano due paradigmi reali: il processo americano e quello francese, ancora legato al modello della riforma napoleonica, dalla cui differente ispirazione derivano due distinti rituali. L’eguale posizione delle parti, nel processo accusatorio americano, e la loro facoltà di produrre prove in dibattimento e di esaminare quelle della parte avversa è rappresentata dalla cross examination, nella quale i teste sono analizzati dalle due parti a turno, in una procedura investigativa di natura essenzialmente retorico-argomentativa, disciplinata (piuttosto che condotta) dal giudice. La disparità tra l’accusato e il giudice, nel processo inquisitorio di modello francese, è rappresentata dall’immagine di un imputato per lo più già in stato di detenzione, ingabbiato o costretto in un luogo specifico e recintato, che risponde sempre al giudice, mentre nella rappresentazione tipica del processo americano l’accusato siede accanto al suo avvocato, dal quale quasi non si distingue, e quando interrogato risponde direttamente al procuratore14. Ma è soprattutto il ruolo del giudice a marcare 12. «Nessuna autorità umana, né il Re, né il Guardasigilli, né il primo ministro, possono usurpare il potere di un giudice istruttore: niente lo ferma, nessuno lo comanda. È un sovrano sottomesso soltanto alla sua coscienza e alla legge» H. de Balzac, Splendeurs et misères des courtisanes, III: Où mènent les mauvais chemins (1847) in La Comédie humaine vol. 5 (a cura di M. Bouteron), Gallimard, Paris 1952, pp. 936-37 (T.d.A.). 13. A. Garapon, Del giudicare, cit., pp. 160-161, ricorda, tra l’altro, che nei sistemi inquisitori la perizia non può che essere unica e disposta d’ufficio. 14. A. Garapon, Del giudicare, cit. p. 154.
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la differenza: da un lato l’officiante del rito inquisitorio, tramite tra gli uomini e la Verità, fulcro e vero motore dell’azione, dall’altro il mediatore, discreto e vigile, del processo accusatorio. Da un lato un sacerdote, dall’altro un arbitro. 3. Il processo come rito: il giudice come sacerdote All’origine del rito, dunque, ci sarebbe una comune necessità sociale: neutralizzare la paura originaria dell’uomo per il suo simile. In questo, secondo Girard, si fonda l’intima parentela tra il rito religioso e il rito penale. Ma al collegamento tra il rito e il sacrificio va accostato anche quello tra il rito e la consuetudine, cui si legava, nella Roma tardorepubblicana, il ruolo dei pontefici. Questa duplice relazione avveniva attraverso la selezione di gesti e comportamenti, la scelta delle parole pronunciate, la ripetizione di formule magiche, l’uso di determinati oggetti rituali15. Il rito come tecnica di contatto con il sovrannaturale finisce così per identificarsi con il rito come immagine dell’autorità. La sacralità del giudice è, insieme, la fonte e la rappresentazione della sua autorità, che viene rafforzata dal suo rappresentarsi come le pizie greche o come gli aruspici romani: figure sacrali i cui responsi devono essere ermetici, per custodire la segretezza del loro sapere (arcana iuris). Il giudice dell’Ancien Régime restava profondamente legato a questo modello. Perciò, le sentenze non dovevano essere motivate16, alludendo tutt’al più con poche formule consuetudinarie a un processo in pectore che non era solo intellettuale, ma soprattutto spirituale e basato sull’intuizione delle cose divine e umane, sulla capacità di attingere a «cose latenti e nascoste»17. Era precisamente questa abilità che giustificava l’uso dell’appellativo di sacerdote per il giudice, o l’uso dell’aggettivo sacrum di cui si fregiavano le alte corti e i tribunali18. Ed era 15. Cfr. A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005; in particolare p. 64, 68 («Nel ricordo della cultura tardorepubblicana la sapienza degli antichi pontefici si legava soprattutto alla custodia del mos, del costume religioso e sociale degli antenati») e 69 («Il controllo esercitato dai pontefici sulla scelta delle parole pronunciate, sulla loro sequenza, sul ritmo del linguaggio, serviva a far scattare il contatto con il sovrannaturale e con il magico, ma finiva anche per stabilire un forte dominio sui modi di costituzione della mentalità collettiva, e sulla forma stessa delle relazioni sociali»). 16. «Il giudice non deve rendere esplicite le cause delle sue decisioni, soprattutto se si tratta di magistrati supremi» (T.d.A.), cit. in A.M. Hespanha, Jurists in European Early Modern World (in corso di pubblicazione). 17. Cfr. A.M. Hespanha, op.cit. 18. «Sacerdotes iuris» (Digestae, 1.1); «I magistrati sono posti da Dio e sono chiamati divini» (N. Topius, 1655, cit. Hespanha, op.cit., T.d.A.). Cfr. R. Ajello, Arcana iuris. Diritto e politica nel Sette-
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la natura sacrale delle loro funzioni a spiegare, in prima battuta, il rituale e la gestualità dei giudici. Dal momento che «dire il diritto» era un ministero sacro, questa performance doveva essere compiuta come un pio esercizio, nel quale l’attore doveva confrontarsi con la dignità del suo ruolo19. Il carattere sacro del ruolo del giudice e la natura liturgica della procedura giudiziaria si sono fissati come un topos nella cultura giuridica occidentale, resistendo alle riforme dell’era illuminista e rivoluzionaria, alla codificazione, alla reinterpretazione del ruolo del giudice come pura e semplice «bocca della legge», al quale non spetterebbe interpretare, ma solo dichiarare la volontà generale, materializzata nel testo normativo. Poiché l’atto di giudicare ha anche le caratteristiche di un’intuizione pre-intellettuale e sembra richiamare le doti di un mistico, il giudizio è «santo»20, il giudice è un sacerdote della Giustizia (o della Verità), il palazzo di giustizia ha il nome e le fattezze di un tempio. Con tale apparato scenico, con tale arsenale metaforico non stupisce che la sentenza possa essere interpretata come un sacro mistero che si compie, interamente e necessariamente, nelle mani del giudice: il presidente Riches che, nel Contesto di Sciascia, equipara la sentenza alla transustanziazione non è solo un’iperbole letteraria21. cento italiano, Jovene, Napoli 1976, pp. 341 e ss. Sull’autorappresentazione dei magistrati italiani come «sacerdoti della giustizia» o «sacerdoti di Temi» si veda l’esauriente opera di M.L. Luminati, Priester der Themis. Richterliches Selbstverständnis in Italien nach 1945, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 2007, in particolare i capp. II e III. 19. Secondo Crisippo, scrive Gellio (Noctes Atticae, Clarendon Press, Oxford 1968, XIV, 4, p. 438), il giudice «che è il sacerdote della Giustizia, deve essere dignitoso, irreprensibile, severo, incorruttibile, insensibile all’adulazione, inesorabile e impietoso verso i malvagi e i delinquenti, coraggioso, fermo e potente, terribile per la forza e la maestà dell’equità e della verità» (cit. in M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1927-2007), Giuffrè, Milano 2009, n. 39, p. 168, T.d.A). Passaggi di questo tenore ritorneranno nella letteratura di epoca moderna sulle qualità del giudice (cfr. R. Ajello, op. cit., p. 343). 20. G. Chiovenda voleva diffondere nella nuova generazione di giuristi «il culto della santità dei giudizi» (G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi di diritto processuale civile, vol. I, Roma, 1930, n. 18 p. 378; cit. in S. Satta, op. cit., p. 110). 21. «Che un imputato lo abbia commesso o no il reato di cui è accusato, per i giudici non ha mai avuto nessuna importanza. La giustizia si compie con il fatto stesso di giudicarlo, con l’atto di giudicarli». L’atto del giudicare è infatti «qualcosa di molto simile a quanto avviene durante la messa, quando il pane ed il vino si convertono in corpo, sangue e anima di Cristo. Mai, dico mai – anche se il sacerdote è indegno – può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice: la giustizia non può non disvelarsi, non transunstanziarsi, non compiersi». L. Sciascia, Il contesto, Einaudi, Torino 1971. La scena è ripresa, quasi letteralmente, in Cadaveri eccellenti, il film di Francesco Rosi tratto dal romanzo, con Max Von Sidow nel ruolo del presidente Riches. Quattro secoli prima, Pierre Ayrault, nella sua opera principale Ordre, formalité et instruction judiciaire (1591), già stigmatizzava la misterica segretezza del processo: «Si esercita la giustizia come dei santi e sacri misteri, che non si comunicano che al prete […] È facile a porte chiuse sistemare o attenuare, brigare o impressionare» (cit. in A. Esmein, Histoire de la procédure criminelle en France: et spécialement
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Oggi questa può sembrare una retorica dépassé, ma, soprattutto nella nostra cultura giuridica continentale, la prossimità tra il rituale giudiziario e il rito religioso salta all’occhio di chiunque22. I giudici, come i sacerdoti, vestono i paramenti per officiare, parlano un linguaggio sacro, diverso dalla lingua di tutti i giorni e pronunciano formule magiche contenute in testi sacri (intorno ai quali si costruisce una dottrina e una dogmatica)23, attraverso le quali fanno accadere cose che hanno, sulla vita dell’uomo comune, effetti assai più tangibili della transustanziazione. Nell’aula del tribunale, come in chiesa, ogni gesto è previsto, ogni parola e ogni comportamento istituzionalizzati e proceduralizzati: l’uomo che non ha pratica del luogo si smarrisce, non comprende, perde i punti di riferimento normali del proprio comportamento e del proprio comunicare, teme, ad ogni parola detta o a ogni gesto compiuto, di aver messo il piede in fallo. Guarda allora con timor reverenziale al giudice che lo osserva dal pulpito, da dove officia con i suoi concelebranti. Può essere un giudice benevolo o severo, accondiscendente o inflessibile, ma l’immagine che dà è di qualcuno che agisce per nome e per conto di altro. Certo, condanna e assolve «in nome del popolo», ma l’idea sembra quella di un’entità suprema: se il giudice sembra un sacerdote, la condanna o l’assoluzione sembrano avvenire in ragione di una forza sovrannaturale. 4. Il processo come gioco: il giudice come arbitro Il giudice/sacerdote dispiega il massimo delle sue potenzialità nel rito inquisitorio: è una procedura che si costruisce intorno alla discrezionalità del giudice e, soprattutto, alla disparità incolmabile tra questi e l’imputato. Al contrario, nel rito accusatorio l’imputato è una parte che rimane in condizioni di parità con l’accusa, e il giudice-mediatore garantisce questa parità,
de la procédure inquisitoire depuis le XIII. siècle jusqu’à nos jours, L. Larose et Forcel, Paris 1882, p. 163, T.d.A.). 22. La stessa parola «rito» è tra le più comuni della nomenclatura giudiziaria: «gli avvocati disputano, deducono, eccepiscono, “in rito” e “sul rito”; esistono “riti speciali”, alternativi all’ordinario; è “rituale” l’atto compiuto in date forme; “irritualmente” sarebbe impugnata una sentenza, a termine scaduto» (così F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 15, che nota come questi termini evochino «uno svolgimento conforme al prescritto quanto a forma, sequela, tempo»). Il «rito» distingue allora uno spazio «sacro» da uno «profano», e del resto coloro che non sono «togati» sono chiamati, non solo in italiano, «laici» (ad esempio in portoghese, leigos). 23. Il «testo sacro» è, nella cultura giuridica di civil law, anzitutto il codice, del quale Cambacérès diceva: «non lo si deve toccare che con mano tremante» (il ne faut y toucher que d’une main tremblante).
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gestendo il dialogo tra le parti in funzione del libero discernimento dei fatti da parte dei giurati. Già si comprende come il giudice sia sceso dall’altare dell’officiante. Tanto più che, quando durante il dibattimento l’avvocato e il procuratore interrogano i teste, si rivolgono a loro direttamente, senza il tramite del giudice. Il fulcro dell’azione qui è la giuria, il cui ruolo è ben rappresentato da due capolavori del cinema giudiziario americano: Anatomy of a Murder (Anatomia di un omicidio, 1959) di Otto Preminger e Twelve Angry Men (La parola ai giurati, 1957) di Sidney Lumet, due film che finiscono per fornire una visione apologetica del processo con giuria, nonostante tutto24. È la giuria il baricentro del processo accusatorio: è ai giurati che spetta dire l’ultima parola sui fatti in giudizio, ed è quando entra ed esce la giuria che tutti, incluso il giudice, si alzano in piedi. Eppure anche la giuria non occupa il centro dell’azione: separata dal giudice, spesso si trova a un lato dell’aula, in un settore immediatamente riconoscibile. L’impressione, in questo contesto, è che non ci sia un centro simbolico, ma che tutto si svolga intorno allo scontro dialettico tra le parti. E nonostante il giudice anche qui si elevi sul resto dei partecipanti, solo, restando il cancelliere e il banco per i teste e l’imputato ai lati dello scranno ma considerevolmente più in basso, egli «ricorda più l’arbitro di un match di tennis, che non un prete sul pulpito»25. Il giudice è il supervisore, l’arbitro (umpire): la sua immagine più popolare, a dire il vero, è quella dell’arbitro del baseball, cui spetta il controllo della strike zone. Se il giudice è l’arbitro, il gioco è la cross-examination, un ribattere veloce di domande e risposte tra gli avvocati e i teste. Ogni parte può chiedere l’intervento dell’arbitro, sollevando una obiezione quando ritiene che la domanda non sia legittima. Spetta al giudice respingerla (objection overruled o counsel may argue) o accoglierla (objection sustained). La ritualità non è 24. Si pensi alla frase finale pronunciata da Parnell McCarthy (Arthur O’Connell), in Anatomia di un omicidio: «Dodici persone in una stanza, con differenti mentalità, differenti sentimenti e di dodici provenienze diverse. Ed è a queste dodici persone che si esige che giudichino un essere umano tanto differente da loro come lo sono tra di loro. E, miracoli dell’animo umano, la maggior parte delle volte ci azzeccano». In La parola ai giurati, la camera di consiglio, che si risolve in una autocoscienza collettiva, mostra come a dispetto del punto di partenza, basta la pertinacia di un singolo, anonimo individuo perché il sistema vada nel verso giusto. Per una testimonianza sul ruolo dei giurati nel sistema francese, dove sono previsti nella Cour d’Assises (in numero di sei in prima istanza e nove in appello, secondo l’ultima riforma; i giudici togati sono tre) si legga A. Gide, Souvenir de la Cour d’Assises (trad. it. Ricordi della Corte d’Assise, Sellerio, Palermo 1994). Anche in Italia, com’è noto, i giudici popolari sono previsti nella Corte d’Assise e nella Corte d’Assise d’Appello, in entrambi i casi in numero di sei (ai quali si aggiungono due giudici togati). Nei sistemi di common law i giurati dei processi penali sono, di norma, dodici. 25. A. Garapon, Del giudicare, cit., pp. 141-142 e 154.
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magniloquente, ma non è meno istituzionalizzata. Tutto sembra più modesto: più modesto il ruolo del giudice, più contenute e meno enfatiche le reazioni delle parti, minori i poteri del giudice, vincolato, tra l’altro, dalla regola del rispetto del precedente (stare decisis), che non gli concede i margini di discrezionalità interpretativa tipici del suo collega di civil law. Il carattere privato dello scontro dalle parti è ulteriormente sottolineato dal fatto che il giudice è l’unico a indossare insegne peculiari, a vestire la toga. Né il procuratore, né l’avvocato, né i giurati sono distinguibili per il loro abbigliamento. L’immagine del processo è allora quella di un gioco, di una competizione a due sorretta da un numero relativamente limitato di regole tutto sommato semplici, all’interno delle quali tutto è lasciato all’abilità e alla libera improvvisazione dell’avvocato e del procuratore, un po’ come accade nella musica jazz, passatempo preferito dell’avvocato Paul Biegler (James Stewart) in Anatomia di un omicidio. L’assoluzione o la condanna sono allora una posta in gioco, e spetta alle parti ponderare i rischi e i vantaggi per massimizzare il risultato. Qui non c’è una struttura trascendente che riporta l’ordine nel disordine e i cui interessi vanno al di là del destino del singolo individuo, mirando alla difesa e all’affermazione della società e delle sue istituzioni. Qui l’individuo è lasciato solo di fronte alle sue decisioni, gli si dà l’occasione per tentare la fortuna, ma deve sapersela giocare e deve saper calcolare i costi e i benefici. L’esasperazione del conflitto che l’immagine del processo come gioco porta con sé è un’arma a doppio taglio, e può essere co-responsabile di una visione del consorzio umano come una litigation society, per quanto essa non sia necessariamente legata al sistema accusatorio, né a una procedura giudiziaria in particolare. D’altra parte, è stato evidenziato come l’analogia judge-umpire, oggi ancora molto popolare negli Stati Uniti soprattutto in riferimento ai giudici della Corte Suprema, sia sorta proprio per indicare il trial judge e, occorre sottolinearlo, come un modello da evitare. Nel 1886 (State v. Crittenden) il giudice Hicks della Corte Suprema della Louisiana, sostenendo la possibilità che il giudice potesse prevenire la risposta, da parte del testimone, a una domanda non legittima, indipendentemente dall’obiezione del procuratore, affermava: «Un processo non è un mero incontro di lotta tra le parti, al quale il giudice assiste semplicemente, come un arbitro che risolve le dispute che possono sorgere tra di esse»26. Quindici anni dopo 26. «[a] trial is not a mere lutte between counsel, in which the judge sits merely as an umpire to decide disputes which may arise between them» (T.d.A.). Cit. in A. Zelinsky, The Justice as Commissioner: Benching the Judge-Umpire Analogy, 119 Yale L.J. Online 113 (2010), http://yalelawjournal. org/2010/03/03/zelinsky.html.
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(Morrison & Snodgrass Co. v. Hazen, Ohio Court of Common Pleas, 1910) la metafora era definitivamente passata dall’arbitro della boxe a quello del baseball. Ma anche in questo caso, il giudice, secondo la Court of Common Pleas dell’Ohio, non ha un ruolo passivo («[a] judge presiding at the trial of a jury case is not a mere umpire of a game of ball, to call balls and strikes»), ma prerogative da compiere attivamente («active duties to perform») per garantire che la verità si sviluppi («truth is developed»). Queste citazioni mostrano come tanto l’analogia tra il giudice e l’arbitro, quanto quella tra il processo e il gioco siano tutt’altro che pacifiche, e come la differenza tra un processo accusatorio che «si accontenta» del verosimile e uno inquisitorio che pretende svelare la Verità sia frutto di una (necessaria) semplificazione. È tuttavia interessante notare come la metafora dell’arbitro sia passata da indicare un modello negativo a indicare un modello positivo, facendo leva non tanto sul grado di coinvolgimento del giudice nel procedimento, quanto sulla sua imparzialità. In questo senso, la metafora è passata dal trial judge, alla appelate court, fino alla Corte Suprema. D’altra parte, l’analogia tra il giudice e l’arbitro si è col tempo cristallizzata al livello del trial judge senza connotazioni necessariamente positive o negative, ma come una metafora esplicativa di una caratteristica procedurale27. 5. Il processo come dramma Il comune denominatore tra il processo come rito e il processo come gioco sembra essere la sua dimensione spettacolare28. Anche l’identificazione tra processo e rappresentazione, come quella tra processo e rito sacro, è evidente, come ben testimonia la proibizione, espressa nel codice di procedura penale del 1913 (art. 375) e ribadita in quello del 1930 (art. 426), di riservare posti speciali per spettatori importanti29. Nell’aula di giustizia come a teatro ci sono, anzitutto, individui che rivestono il ruolo del proprio personaggio. Ed è proprio questa identificazione tra attore e persona la chiave dell’analogia. La definizione classica di Bulgaro del processo recita, infatti, iudicium est actus trium personarum, actoris, rei, judicis. E Satta sottolineava come questa definizione mettesse «in risalto 27. Per tutta questa ricostruzione si veda Zelinsky, The Justice as Commissioner. 28. Sul processo come theatrum judiciale e come ludus si veda soprattutto F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1985, pp. 310-325. 29. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 15. Il codice del 1913 prevedeva, comunque, posti riservati alla stampa, esclusi invece dal codice del 1930.
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il carattere di lotta, il carattere veramente drammatico che è intrinseco al processo», nel quale vi sono «tre persone che lottano l’una contro l’altra, l’attore contro il convenuto, l’accusatore contro l’accusato, tutti poi contro il giudice, perché ciascuno vuole piegarlo alla sua ragione»30. Il concetto stesso di «persona» (in quanto «soggetto di diritto») deriva del resto da quello di «maschera», secondo l’etimologia della parola latina persona, e rinvia al ruolo recitato, al personaggio. Un aspetto sul quale aveva fortemente insistito Thomas Hobbes, commentando Cicerone che afferma unus sustineo tres personas, mei, adversarii et judicis, dove il verbo sustineo indica veramente il portare una maschera, recitare un ruolo31. L’analogia non si ferma qui: i personaggi interpretano una sceneggiatura cui sono fondamentalmente vincolati, anche se spesso si tratta di una recita a soggetto, o all’impronta, con un grado elevato di improvvisazione entro una cornice di regole più o meno definite, più o meno consuetudinarie. Inoltre rappresentano una vicenda, e lo fanno vestendo dei costumi e muovendosi all’interno di una scenografia. Il tutto rispettando le tre regole del teatro classico dell’unità del luogo (aula di giustizia), di tempo e di azione (una sola azione è giudicata). Tre regole che sembrano particolarmente osservate nel sistema accusatorio, nel quale vige il principio di pubblicità di tutto il processo «i cui atti, per essere adeguatamente seguiti dagli spettatori, si estrinsecano attraverso la voce (principio di oralità), sono compiuti al cospetto del giudice e delle parti conformemente al principio di immediatezza e si succedono (secondo il principio di concentrazione) in un tempo ristretto e in un medesimo spazio, costituito dall’aula di udienza»32. È pur vero che, riferendosi al sistema americano, Garapon ha notato come, di fatto, solo l’unità di luogo sia rispettata rigidamente, ancor più rigidamente che nel 30. S. Satta, op. cit., p. 30. 31. «La parola persona è latina; invece di essa i Greci hanno prósopopon, che significa volto, mentre persona in latino significa il travestimento o sembiante esteriore di un uomo camuffato sul palcoscenico e, qualche volta, più particolarmente quella parte di esso che camuffa il volto, come una maschera o una faccia posticcia. Dal palcoscenico il termine è stato trasferito a chiunque parli o agisca in rappresentanza di altri, tanto nei tribunali quanto nei teatri. Cosicché una persona è la stessa cosa di un attore, sia sul palcoscenico sia nella vita quotidiana; e impersonare è fare la parte di o rappresentare, se stessi o altri, e chi fa la parte di un altro è detto dar corpo alla sua persona o agire in suo nome (in questo senso Cicerone usa il termine dove dice «Unus sustineo tres personas; mei, adversarii et iudicis»: do corpo a tre persone, la mia propria, quella del mio avversario e quella del giudice) e, in circostanze diverse, riceve nomi diversi come agente, rappresentante, luogotenente, vicario, avvocato, deputato, procuratore, attore e simili.» (Th. Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 131-132; cfr. anche M. Brito Vieira, The Elements of Representation in Hobbes. Aesthetics, Theatre, Law, and Theology in the Construction of Hobbes’s Theory of the State, Brill, Leiden 2009). 32. G. Ubertis, op. cit., p. 12.
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sistema francese, perché tutto il processo passa attraverso il filtro dell’udienza pubblica. Lo stesso non si potrebbe dire dell’unità d’azione, perché, laddove vi siano più imputati per un medesimo processo, ciascuno di essi avrà il diritto di chiedere un processo separato (frammentando l’unità), né dell’unità di tempo, poiché la decisione relativa alla pena può essere disgiunta dalla dichiarazione di colpevolezza: una disarticolazione che interrompe l’unità del cerimoniale33. Tuttavia è innegabile che, quando le altre due regole sono rispettate, la concentrazione del processo nel dibattimento e la natura agonistica della cross examination rendono il processo accusatorio americano più facilmente rappresentabile del processo inquisitorio. E qui si arriva al paradosso per cui il sistema più teatrale appare, al contempo, essere il meno rappresentabile. Paradosso che sembra rafforzarsi quando si pensa che è il sistema inquisitorio34 ad essere pensato come un rito pubblico, non nel senso della sua pubblicità, ma nel senso di essere messo in scena dalla «pubblica autorità», laddove il rito accusatorio nasce, essenzialmente, come una questione tra privati cittadini. Certo, una cosa è assistere a una sacra rappresentazione, altra è assistere a una competizione. I tempi, il grado di coinvolgimento e di comprensione della posta in gioco sono ben differenti. Eppure in entrambi i casi, la procedura, elaborata prima facie per disciplinare le parti e definire il ruolo degli «attori», sembra pensare anzitutto al pubblico. È il pubblico che deve comprendere il potere catartico del processo: solo così l’aggressività originaria potrà essere neutralizzata. E qui viene di nuovo in aiuto Satta, anzi, la sua citazione della «illuminante intuizione» di Carnelutti, secondo il quale «il principio della pubblicità del dibattimento si spiega soltanto in quanto si riconosca al pubblico che ha diritto di assistere al processo la qualità di parte, e appunto in quanto parte gli è vietato di manifestare opinioni e sentimenti, di tenere contegno tale da intimidire o provocare». Il pubblico, in altre parole, non è un terzo neutrale, né un mero spettatore «estraneo al conflitto di interessi esploso nel reato»35. Può essere inteso allora come il vero destinatario di una messa in scena che è, di fatto, la messa in scena del diritto penale come processo di civilizzazione, o del diritto in generale come processo di civilizzazione, fino all’idea di una società 33. A. Garapon, Del giudicare, cit., p. 151. 34. Si intende qui il rito «napoleonico» o il vecchio rito italiano, che è un rito inquisitorio misto. Nel rito inquisitorio puro non può esserci spettacolo perché, come abbiamo visto, è segreto dall’inizio alla fine. In tal caso, storicamente, il momento spettacolare era significativamente spostato dal processo alla pena, ossia al supplizio. 35. F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1946-1949, vol. 1, pp. 125-126; cit. in S. Satta, op. cit., p. 34.
il processo come spettacolo
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sottomessa alle leggi, opposta al caos della vendetta privata. Perciò Tommaso Moro, in A Man for All Seasons (Un uomo per tutte le stagioni, 1966) di Fred Zinnemann, riconosce «persino al diavolo» le garanzie della legge36: perché sa che una società in cui è la legge a comandare è una società che mette al riparo dalla vendetta personale. Lo dimostrerà, paradossalmente, proprio la sua condanna finale, resa possibile solo dallo svuotamento delle regole e delle garanzie procedurali, dallo stravolgimento delle regole del gioco, delle leggi e delle consuetudini del processo. Dietro la neutralizzazione civilizzatrice del diritto penale e delle sue procedure resta tuttavia la minaccia inquietante delle pulsioni più aggressive della comunità, e si può dire che le prime restino in una perenne dialettica con le seconde. Nel capolavoro di John Ford, The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962), questa dialettica è incarnata perfettamente dai turbamenti dell’avvocato Ramsom Stoddard (James Stewart), giunto nel West armato della sola forza della legge e spinto infine a impugnare la pistola contro il bandito Liberty Valance (Lee Marvin), e dal suo ambiguo rapporto con l’«uomo della frontiera» Tom Doniphon (John Wayne), l’uomo che, si scoprirà, ha veramente ucciso Liberty Valance, sparando prima di Stoddard. La dialettica tra la legge degli Stati civilizzati dell’est e la violenza della frontiera non è, in fondo, che una rappresentazione dell’eterna dialettica tra il diritto e la violenza originaria, tra la procedura penale e il rito sacrificale del linciaggio. Tra la folla che irrompe nel tribunale rivoluzionario per uccidere il maggiore degli svizzeri Bachmann, e il presidente del tribunale che le intima di rispettare l’imputato, perché si trova «sotto la spada della legge».
36. «E se [...] il demonio si mettesse a rincorrere te, dove ti nasconderesti una volta abbattute le leggi? Questa terra è rigogliosa di leggi, da una costa all’altra: leggi fatte dagli uomini e non da Dio; se tu le tagli, e tu sei l’uomo capace di farlo, credi davvero che riusciresti a stare in piedi senza riparo dall’impeto dei venti? Sì! Io concedo anche al demonio la protezione della legge: per la mia salvezza!».
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giovanni damele
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Una risata vi giudicherà. Giustizia e commedia (all’)italiana ANDREA PERGOLARI
1. L’«Italia piccola» delle preture Non deve essere un caso se il film che viene considerato, a pieno titolo, il progenitore della commedia all’italiana, il primo autentico film comico italiano, si svolga per metà del suo tempo in tribunale. E se il processo indetto ai danni dell’infermiere Cipriano Duval sia messo in scena come uno spettacolo di rivista, con tanto di pubblico plaudente e numeri musicali. Imputato, alzatevi! (1939), dell’accoppiata Mattoli-Macario, a più di settant’anni di distanza dalla sua uscita, mostra ancora di conservare la sua forza di prototipo, di avere in sé, anche se in nuce, tutte le coordinate formali e narrative che poi saranno sviluppate da un intero genere per oltre quarant’anni. La commedia italiana (con o senza preposizione articolata davanti) ha frequentato per decenni le aule giudiziarie di tribunali civili e penali, di preture grandi e piccole. Ha disegnato figure e figurine di magistrati, avvocati, pubblici ministeri, testimoni, indiziati, colpevoli, commissari e poliziotti. Ha messo in scena processi-farsa e processi di varia umanità, ha saputo costruire attorno alle procedure giudiziarie complicate strutture satiriche e incisive parabole di costume, utilizzandole come strumento per raccontare uno stato sociale di crisi, ma le ha anche usate come espediente per descrivere e caratterizzare personaggi popolari di cui oggi ci sembra impossibile l’esistenza. Da Imputato, alzatevi!, che pure ambientava in Francia un caso giudiziario che adombrava la follia dello Stato fascista, ha preso l’abbrivio un sottogenere che, pur non raggiungendo mai la complessità, la disinvoltura e la necessità che ha raggiunto nel cinema hollywoodiano, ha saputo contaminarsi con efficacia con generi affini come il giallo, l’inchiesta poliziesca, il melodramma, sotto il segno di un’attenzione alla realtà che nasce dall’esigenza del neorealismo.
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In effetti la commedia processuale italiana ha vissuto diverse varianti che si sono legate ai differenti periodi storici. Negli anni Cinquanta, gli autori entravano nelle aule giudiziarie sulla scorta degli insegnamenti del neorealismo. Se Sergio Amidei, che fu tra gli artefici principali del neorealismo e della commedia all’italiana, spingeva gli sceneggiatori a uscire la mattina presto per andare a passeggiare nei mercati, raccogliendo direttamente gli umori del popolo per poi filtrarli attraverso il racconto cinematografico, i suoi colleghi specializzati nel comico scelsero di stazionare nelle preture per osservare un campionario di umanità spicciola che poi, debitamente caratterizzato, avrebbe fatto la fortuna del genere. Un primo passo in tal senso lo compì Alessandro Blasetti che, per concludere l’antologia filmata di racconti italiani dell’Ottocento proposta in Altri tempi (1952), scelse un vecchio testo teatrale di Eugenio Scarfoglio, Il processo di Frine. Non c’è nessun intento di entrare nel meccanismo giudiziario, in questa scelta: solo la volontà di presentare un caso grottesco, quello dell’avvenente ragazza Maria Antonia Desiderio, accusata di avere tentato di avvelenare marito e suocera. Blasetti e lo sceneggiatore Continenza articolano il breve episodio su una serie di espedienti che poi faranno la fortuna della commedia: una protagonista di bellezza prorompente (Gina Lollobrigida), attorno a cui è costruita una struttura maliziosa e ingenua allo stesso tempo, imperniata sulle doti istrioniche dell’attore brillante di turno (qui è un Vittorio De Sica di irrefrenabile logorrea nei panni dell’avvocato difensore) e sulla capacità di inserire nei dialoghi dei personaggi punte caustiche memorabili. Il processo di Frine si ricorda ancora oggi infatti per la definizione che viene data della giovane imputata, nel tentativo (riuscito) di scagionarla dalle proprie colpe: considerata, anziché una minorata psichica, come di norma nelle procedure giudiziarie, una «maggiorata fisica». Una sentenza che diventa giudizio etico e sociale, punto di riferimento per interi decenni di commedia italica e punto di vista eclatante dei nostri umoristi sul corpo femminile: da quel momento, la locuzione «maggiorata fisica» diventerà proverbiale. A ridosso di Altri tempi uscirà poi un titolo seminale come Un giorno in pretura, diretto da Steno nel 1953. È questo il caposaldo dell’intera commedia processuale degli anni Cinquanta, dove Steno (insieme ai suoi collaboratori Fulci e Scola) mette a punto la sua poetica comica declinata verso l’osservazione bonaria della gente comune, resa esplicita già dalla didascalia iniziale: «Questo film è dedicato ai “soliti ignoti”, ai ladri di galline e di portafogli alle fermate dei tram, ai loro difensori, ai cancellieri, ai litiganti in autobus e agli sfrattati, a tutti coloro che si sono trovati un giorno come personaggi della 50
andrea pergolari
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quotidiana vicenda della piccola giustizia. Gli autori del film ringraziano questi personaggi, che molto spesso, senza accorgersene, dalle colonne della piccola cronaca dei giornali, hanno collaborato con loro». La pretura (che come istituzione è scomparsa dal 1998) era infatti il luogo dove venivano discusse le piccole cause: liti, diverbi, furtarelli, adulteri, tutto quello che ruotava intorno alla grande criminalità e che riguardava una grossa parte della popolazione uscita claudicante dagli anni di guerra e dedita a sviluppare il proprio istinto di sopravvivenza. Paternalista o meno, criticabile o meno, lo sguardo di Steno su questo mondo è netto, preciso nella sua pungente bonarietà, ed altrettanto netta è la scelta narrativa: la pretura diventa il luogo catalizzatore di tante vicende, grandi e piccole, che ruotano intorno alla saggezza burbera (ma, anche qui, bonaria) del magistrato Salomone Lo Russo (un grandissimo Peppino De Filippo). La regia mescola sapientemente commedia e melodramma (il prete settentrionale che guida i suoi boyscout in una gita a Roma e viene coinvolto in una rissa per salvare una ragazza perduta), farsa smaccata (c’è un’immancabile storia di corna) e crepuscolarismo ironico (la storia del giudice che si ritrova davanti il relitto di un’ex diva del varietà che aveva adorato ai tempi della Prima guerra mondiale), grottesco acre (esordisce qui il fenomenale Nando Moriconi di Alberto Sordi) e satira spicciola (i discorsi da bar sul calcio, in anticipo sui tempi dei Vanzina figli), alternando tempi forti e momenti languidi, abbordando beffardamente il neorealismo (l’episodio dell’affamato che si mangia i gatti) senza farsene mai coinvolgere. Soprattutto spira, nell’aula di questa piccola pretura, un refolo di comprensione se non di immedesimazione nelle vicende di personaggi che compongono consapevolmente il quadro di una piccola Italia (Italia piccola, la definirà appunto Soldati in un film di poco posteriore, con Macario e Taranto) che si barcamena, si arrangia, cerca di sopravvivere e trovare slancio per un futuro migliore. Non una deriva strapaesana fuori tempo massimo, ma la convinzione che, negli anni Cinquanta, la distanza tra un intellettuale (come era Steno) e il mondo del proletariato e della piccolissima borghesia che andava raccontando era molto meno ampia di quella che c’è oggi: Steno conosceva benissimo quello che stava raccontando e gli conferiva un tono di verità, commisurando anche le procedure di un’inchiesta giudiziaria all’arte di arrangiarsi italiana. I casi che scorrono tra le immagini di Un giorno in pretura non hanno certo la tensione narrativa di analoghi modelli hollywoodiani, proprio perché il rigore del processo era credibilmente messo in dubbio dal disincanto sarcastico dei personaggi, dalla loro incontenibile capacità di demolire con una battuta o un gesto l’intangibilità delle istituzioni (pensiamo al povero giudice Lo Russo tormentato dal manesco e loquace Moriconi). una risata vi giudicherà
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Certo, deve avere avuto peso in tutto questo anche la volontà di reazione a vent’anni di (ridicoli) cerimoniali fascisti. Il processo di Frine e Un giorno in pretura innescheranno progressivamente infinite varianti sullo stesso modello. I processi messi in scena avranno per alcuni anni i connotati della farsa, improbabili nel loro svolgimento, ma soprattutto caratterizzati da una pletora di figure e figurine abbozzate in modo caricaturale e ricorrenti come un segno di punteggiatura: il giudice brusco ma paziente, di norma ostacolato nel suo lavoro da incombenti problemi personali; il cancelliere fedele e burocratico, di mezz’età e squassato da qualche grosso problema fisico (volti tipici: lo scatarrante Turi Pandolfini di Un giorno in pretura e l’occhialuto Luca Sportelli di Mi faccia causa) che usa il martelletto in dotazione come uno strumento di potere, spesso a sproposito. Per i disincantati autori di commedie, poi, due sono i ruoli su cui si appuntano gli strali satirici: l’avvocato difensore e il pubblico ministero. Professionisti troppo avvezzi a manipolare le parole per non destare sospetti e dunque implacabilmente sbertucciati, tanto da arrivare alla condanna morale: nelle commedie italiane degli anni Cinquanta e Sessanta, i personaggi negativi dei processi non sono tanto gli imputati, quanto gli avvocati difensori azzeccagarbugli e i pubblici accusatori fanatici. Prontissimi i primi a far condannare gli imputati che dovrebbero difendere, ma anche a imbrogliare le carte dell’inchiesta e confondere i testimoni; inesorabili i secondi a procedere spietatamente contro i poveri cristi chiamati alla sbarra: tutti e due uniti dall’eloquio rotondo, enfatico, barocco, spesso vuoto (nel caso della difesa). Moltissimi sono i titoli che si potrebbero citare, tutti dominati dai comici mattatori sproloquianti come non mai: Vittorio De Sica ripeterà il ruolo del Processo di Frine ne Il bigamo (Luciano Emmer, 1956), dove riuscirà a far condannare il suo difeso (Marcello Mastroianni) ingiustamente accusato di molestie sessuali da una mitomane repressa (una straordinaria Franca Valeri); Walter Chiari si spenderà in ogni modo per far condannare i due soldati accusati di diserzione (Franco Franchi e Ciccio Ingrassia) che difende ne Il giorno più corto (Sergio Corbucci, 1963), prima di svelare nel finale la propria allucinata follia (perché spesso questi avvocati sono dei maniaci visionari, come ci ricorderà ancora negli anni Ottanta Alberto Sordi, sulle tracce proprio di Walter Chiari, in Troppo forte di Carlo Verdone); il critico e scrittore Enzo Talarico, con la sua fisionomia sghemba e lo sguardo strabico, darà un eloquio polveroso e ridicolo nella sua enfasi ai pubblici ministeri di Un giorno in pretura e Il vigile (Luigi Zampa, 1960) e verrà letteralmente divorato da Totò in Dov’è la libertà? (Roberto Rossellini, 1952); Vittorio Gassman infine farà intelligentemente coincidere l’istrionismo della sua recitazione con la 52
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gigioneria del personaggio in Testimone volontario, beffardo e amaro episodio del risiano I mostri (1963) dove tritura capziosamente la rispettabilità del testimone oculare Tognazzi, svelando ogni basso retroscena della sua vita privata (una tattica che nella società mediatica di oggi troverà molti emulatori): un ruolo che ripeterà anche ne La smania addosso (Marcello Andrei, 1965), ma in un modo così manierato da risultare indigeribile. Al di fuori di questo punto di vista, se non unico perlomeno indifferenziato sulla magistratura e sulle aule dei tribunali, c’è lo sguardo di Pietro Germi, che volge alle leggi ancestrali del diritto italiano la sua diffidenza acre e moralista ma, da buon socialdemocratico di saldi principi, crede fermamente nella buona fede e nell’onestà dei tutori dell’ordine. Così, Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1963) affrontano i casi paradossali e grotteschi, in ambito siciliano, del barone Cefalù alle prese con un delitto d’onore come scorciatoia italiana al divorzio e di Don Vincenzo Ascalone, che cerca un matrimonio riparatore per riparare al guaio che ha subito sua figlia Agnese, delibata dal fidanzato Peppino durante la noia di una controra meridionale. Se però, assurdamente, in nome dell’onore, la legge italiana permette ogni crimine e sopruso nei confronti di una donna, i tutori dell’ordine (carabinieri e magistrati) hanno per Germi ancora sufficiente logica ed etica per dare adeguato corso alla giustizia: così, in Sedotta e abbandonata – dove si inscena un finto rapimento per portare alle nozze i due fidanzati senza farsi scornare dalle chiacchiere del paese – è proprio la diffidenza del pretore a causare le indagini, le deposizioni traballanti dei testimoni e infine la crisi di Agnese, che morde il fidanzato promesso sposo proprio davanti al pretore, provocando una crisi e lo svelamento di quella verità che si voleva a tutti costi nascondere. È come se Germi, capace di indignarsi e risentirsi di fronte a ogni minimo nonsense sociale, conservasse una fiducia illimitata ed ingenua nelle istituzioni, nello Stato, nell’ordine costituito. Che è poi l’unico punto debole della sua perfezione artistica, perché nel suo caso l’ideologia impedisce di scavare fino in fondo nel grottesco barocco del suo stile (che infatti, sul finire di Sedotta e abbandonata, si ingolfa e si disperde). 2. La perdita dell’innocenza Si nota, con il procedere degli anni, un incupimento della vena satirica: quei processi che, negli anni Cinquanta, erano teatrini che offrivano storie piacevoli e sgangherate come uno spettacolo di varietà, diventano una trappola che scatta a tradimento sulle spalle della gente comune, stritolata dalla macchina una risata vi giudicherà
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della giustizia, detentrice di potere. A portare la commedia processuale su questa strada sarà Luigi Zampa, che ha sempre interpretato la commedia come strumento di passione civile e che a un importante processo dedicò il più bel giallo giudiziario del cinema italiano, Processo alla città (1952). Zampa aveva già raccontato un processo senza venature comiche nella commedia satirica Anni facili (1953), dove un professore antifascista era coinvolto in una storia di corruzione da un notabile democristiano ex fascista, ma l’aveva inserito con la sordina in un contesto di acre contestazione moralista a una società voltagabbana e opportunista. Molto più peso avrà il processo de Il vigile: verrà utilizzato per mettere a tacere lo scomodo protagonista Otello Celletti che, nella sua solerzia ottusa ma onesta, era stato capace di mettere in crisi l’intera classe politica di una cittadina di provincia (anche qui la tattica usata nel processo è quella di annullare la credibilità del testimone svelandone gli aspetti privati più compromettenti). Ma ancora più grottesco sarà il dilemma etico che scaturirà dal processo di Una questione d’onore (1965) dove il protagonista Tognazzi, nei panni di un pastore sardo, si troverà a dover spiegare gli incredibili motivi che l’hanno portato a uccidere la propria moglie: motivi d’onore, appunto, come spiega sarcasticamente il titolo, uno dei più amari, incattiviti e attoniti tra quelli di Zampa, che qui ci racconta come nell’Italia delle magnifiche sorti e progressive degli anni Sessanta esistano sacche di arretratezza culturale e sociale degne dei trogloditi. Sui deboli protagonisti di questi due film, si chiude a tenaglia la struttura processuale, individuata come strumento apparentemente imparziale ma in realtà ben schierato, capace di annichilire ogni individuo che cerchi di sfuggire a una realtà sociale rigidamente strutturata. Per Zampa, come per Steno, e comunque come per gran parte della commedia degli anni Cinquanta e Sessanta, le classi popolari conservavano un’innocenza di fondo che veniva schiacciata o confutata dalle spire della società. Ci vorranno gli anni Settanta per cominciare a dubitare dell’innocenza e della purezza dei proletari e, soprattutto, sottoproletari, ben poco interessati a costruire una società diversa, come si pretendeva negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, e invece subito pronti a farsi travolgere dai miti e dalle procedure del consumismo. Saprà raccontare benissimo questo passaggio Alberto Lattuada in una commedia grottesca tra le più sottovalutate del nostro cinema, Sono stato io (1973), che utilizza le cadenze del giallo processuale per mettere alla berlina la follia di chi insegue il successo a ogni costo. È la storia di Biagio Solise, lavavetri che ha l’idea geniale di conseguire la scalata sociale grazie alla notorietà: nella società moderna non si è se non si appare. Quindi Scalise si autoaccusa di un 54
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omicidio eclatante che non ha commesso, divertendosi follemente ad addizionare falsi indizi su falsi indizi, certo poi di farsi scagionare, mostrando al momento opportuno il suo alibi inattaccabile. Lattuada, con la collaborazione di Ruggero Maccari (e su fondamentale soggetto di Luigi Malerba, scrittore dell’assurdo) sembra divertirsi, insieme al protagonista, a manipolare la struttura stessa del film processuale, giocando con le testimonianze, le false piste, le requisitorie d’accusa e le arringhe di difesa, costruendo un meccanismo narrativo a orologeria che fa risplendere le coordinate matematiche dell’inchiesta giudiziaria. Poi, al momento giusto piazza il colpo di scena che ribalta tutto: l’«alibi» dell’imputato muore d’infarto sulla barra dei testimoni mentre ne sta svelando l’innocenza e con esso crolla tutto il castello giudiziario faticosamente costruito da Scalise; all’improvviso è messo in chiaro l’assurdo di una concatenazione che sembrava logica ed era solo folle, che credeva di poter governare la realtà senza tener conto dell’imprevedibile. E l’ideologia impietosa degli autori emerge senza nessun eccesso didascalico, ma dalla struttura stessa della commedia processuale: è interna al racconto così come raramente è stata nel nostro cinema d’impegno e d’autore. Per esempio, è fortemente sacrificato al tema ideologico uno degli esempi più celebri di commedia civile degli anni Settanta, Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971) che inserisce Sordi nel contesto fortemente drammatico delle patrie galere e tenta un discorso sarcastico e spietato su un vizio della procedura giudiziaria italiana: quello della carcerazione preventiva. La commedia di Loy (e di Amidei, che l’ha scritta) non ha più niente di commedia e porta lo spettatore all’interno delle tante storture, di forma e burocratiche, che tempestano il corso della giustizia italiana: l’impossibilità di richiedere i motivi del proprio arresto, l’incomunicabilità con i funzionari di polizia e i magistrati, lo stato di sfacelo e di degrado delle strutture carcerarie. Come sempre nei film scritti da Amidei, la documentazione (enorme) che servì alla preparazione del film implica uno sguardo realistico su tutto l’ambiente e presenta forme di inchiesta giudiziaria dall’interno (il processo per direttissima) come non era mai stato fatto nel cinema di commedia italiano. Però si sente, nella progressione del racconto, lo sforzo di seguire un intento programmatico, di costruire un film a tesi: l’eccesso dimostrativo prevarica sulla capacità di cogliere appieno le sfumature esistenziali di un personaggio che viene stritolato fisicamente e psicologicamente dalle leggi e dalla giustizia italiana, capace di costruire una mostruosa impalcatura di colpevolezza attorno a un innocente, solo grazie a superficialità legislative. Comunque Detenuto in attesa di giudizio conferma che in quegli anni la commedia italiana ha acquisito un’asciuttezza narrativa e una durezza morale una risata vi giudicherà
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che le permettono di raccontare nel modo più appropriato lo stato di crisi in cui versa la società italiana. Uno dei capisaldi del genere è In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971) che sfrutta il meccanismo dell’inchiesta giudiziaria per esprimere il giudizio più sconsolato sul contesto sociale mai elaborato dai nostri autori di commedia. Il titolo è anche utile per comprendere come si è sviluppato il genere rispetto al decennio precedente. Gli sceneggiatori Age e Scarpelli imbastiscono una storia lineare ma limpida ed efficace: la ventenne Silvana Lazzorini è ritrovata cadavere nel suo letto, drogata e contusa. Incaricato delle indagini, il giudice Bonifazi scopre che la ragazza, spinta alla prostituzione dai suoi genitori, era legata, per motivi di «lavoro», a un importante e influente industriale, Lorenzo Santenocito. Così il film diventa una sfida tra Bonifazi e Santenocito, rappresentanti i due volti dell’Italia a loro contemporanea: quello dell’idealismo, giusto e teso al bene collettivo; quello del pragmatismo, individualista e teso al benessere economico privato. Santenocito è un industriale corrotto, corruttibile e reazionario; Bonifazi è un magistrato incorrotto e progressista, inesorabile e lucido nel comprendere il cancro morale che ha colpito l’Italia del riflusso, in crisi da benessere, generatrice di mostri sociali. Bonifazi conduce un’inchiesta senza soste, non si lascia spaventare dalla potenza di Santenocito e soprattutto ha ben chiara in mente la colpevolezza dell’industriale sospettato che scopre, progressivamente, macchiato di ogni tipo di crimine. Però non di quello su cui sta indagando: la ragazza è morta suicida, Santenocito è innocente del delitto. Ma non del contesto sociale che l’ha generato: almeno così la pensa l’integerrimo Bonifazi, che brucia le prove della sua innocenza e lo manda freddamente in galera. Age, Scarpelli e Risi costruiscono un teorema attonito e amaro: l’inchiesta giudiziaria diventa un modo per svelare il malessere di un’Italia che sta cambiando così in peggio i propri costumi da costringere un uomo onesto a macchiarsi di un’ingiustizia pur di fare giustizia che, da qualunque prospettiva la si osservi, non può che risultare sommaria. Dietro la brillantezza del procedimento narrativo, dietro il sarcasmo del paradosso, c’è una disillusa drammaticità, una rabbiosa constatazione dei limiti dell’etica. Mantenendo lo stesso spunto de Il commissario (Luigi Comencini, 1962) da loro sceneggiato dieci anni prima, Age e Scarpelli hanno capovolto la soluzione narrativa e il senso morale: se allora lo zelante ma ingenuo commissario Lombardozzi aveva giurato il falso per poter salvare dall’ingiusta condanna un delinquente che non aveva commesso il reato per cui era giudicato, stavolta l’amareggiato ma furbo giudice Bonifazi non ci pensa due volte a distruggere le prove dell’innocenza dell’industriale Santenocito, troppo corrotto e «colpevole» per meritare la libertà. 56
andrea pergolari
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Nessun’altra commedia italiana toccherà lo stesso picco di lucida cattiveria di In nome del popolo italiano, la stessa capacità di trasformare la procedura giudiziaria in un atto d’accusa contro la società, sottolineando al tempo stesso la possibilità di manipolarne gli elementi per giungere alle verità più convenienti. Quando, negli anni Settanta, si tornerà nelle aule dei tribunali, lo si farà ancora per raccontare storie, più o meno insolite e paradossali. Ci riuscirà con grande finezza Marcello Fondato (con la collaborazione dello sceneggiatore Francesco Scardamaglia) in A mezzanotte va la ronda del piacere (1975) dove l’inchiesta giudiziaria si fa struttura narrativa: attraverso le deposizioni dei testimoni, incastrate nell’intreccio giallo con flashback quasi senza soluzione di continuità, si ricostruisce la storia d’amore e l’accidentata vita matrimoniale di Gino e Tina e di Gabriella e Andrea. Agli autori non importa tanto riflettere sui meccanismi di un processo, né di fare satira di costume, ma di dipingere con mano ferma il ritratto di quattro personaggi (due borghesi e due proletari), la cui esistenza si intreccia con risonanze sempre meno casuali. Non c’è grande originalità nella descrizione dei protagonisti (Vitti, Giannini, Gassman, Cardinale), ora derivata dal grottesco alla Wertmüller, ora dalla commedia provinciale di Age e Scarpelli, ma è curioso l’uso del processo come espediente narrativo: le diverse personalità si compongono gradualmente, le storie d’amore si intrecciano (im)prevedibilmente, i personaggi si rincorrono nel tentativo di afferrare una felicità che trovano quando meno se lo aspettano. Più esistenziale che psicologico, A mezzanotte va la ronda del piacere fu un grande successo di pubblico e, con il suo interesse per la commedia di caratteri acutamente ambientata in un contesto ben definito, rappresentò chiaramente una propaggine del neorealismo rosa in pieni anni Settanta, un capofila per tutte le commedie giudiziarie del decennio (e oltre), che tornarono a descrivere le vecchie preture popolate di bizzarre figure. E, non a caso, Steno tornerà in quegli anni a frequentare più volte il genere, le preture, i tribunali: se nel grazioso La poliziotta (1974), commedia anni Cinquanta sull’emancipazione sociale di una ragazza della provincia lombarda, il deuteragonista è il pretore Patanè che, come un cavaliere, accompagna la vigilessa Gianna nella sua lotta alla corruzione politica del paese di Ravedrate, condividendone anche l’esito poco felice (il trasferimento nella polvere del profondo sud), nel cult Febbre da cavallo l’acme della storia si svolge in un tribunale da operetta, dove il pubblico di scommettitori di cavalli incita gli imputati e il giudice (un irresistibile Adolfo Celi) si rivela anch’esso un irriducibile frequentatore di ippodromi. Nel suo strenuo tentativo di raccontare le piccole storie di un’altrettanto piccola Italia, Steno insomma supera una risata vi giudicherà
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ogni possibilità di realismo e si costruisce un proprio mondo, sarcastico ma bonario, in cui i personaggi più comuni e indigenti difficilmente riescono a trovare una soluzione ai propri problemi, tutt’altro, ma trovano lo stesso un risarcimento nei sentimenti, d’amore (La poliziotta) o d’amicizia (Febbre da cavallo) che siano. È un umanesimo idealista da vecchio conservatore (pure, Steno, all’alba degli anni Settanta aveva dato inizio al filone del «poliziottesco», e ai contrasti tra polizia e magistratura con La polizia ringrazia) che trova eclatante esemplificazione a metà degli anni Ottanta, quando il regista, coadiuvato dal figlio Enrico nella sceneggiatura, si getta nel remake di Un giorno in pretura con Mi faccia causa (1984): la pretura è ancora l’unità di luogo di tante piccole storie che però, questo è il bello, sono ingenue e pulite come quelle degli anni Cinquanta, come se trent’anni fossero passati invano. In Mi faccia causa ci sono un ladro che fa amicizia con un bambino che abita nella casa che deve svaligiare; un pugile suonato che stringe un legame d’affetto con un cane; un’impiegata che per arrotondare lo stipendio fa la squillo; uno iettatore; tre tifosi di calcio scontratisi per i colori avversi; e soprattutto un giudice giusto, preoccupato dei suoi casi privati, ma saggio e soprattutto onesto e ingenuo. La sconsolata conclusione di questo viaggio in pretura è che l’Italia è un paese di furbi: è quasi incredibile quanto possa essere ottimista lo pseudocinico Steno sulle sorti di un paese che è appena uscito da quindici anni di terrorismo nero e rosso… La stessa visione rosea della società (e delle aule giudiziarie) la avranno seguaci ed emuli di Steno: il suo vecchio sodale, aiuto e co-sceneggiatore, Lucio Fulci, assegna nel 1976 a Edwige Fenech il ruolo della pretora nel film eponimo, per farne la protagonista di una classica storia di sosia (l’integerrima pretora protagonista ha una gemella disinibita) e di sesso, di repressioni provinciali e sontuosi brividi pruriginosi (c’è un leggendario nudo integrale della Fenech); mentre il furbo ma sconclusionato Sergio Martino utilizza l’espediente della pretura per collegare i tre diversi episodi di Zucchero, miele e peperoncino (1980, il pretore è Gianfranco Barra), subito replicato da Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande (1982, stavolta il pretore è Pippo Santonastaso), sempre più sbiaditi e volgarotti; mentre nell’intelligente parabola paradossale de Il petomane (1983), Pasquale Festa Campanile usa le sequenze in tribunale soltanto come tappa necessaria nella ricostruzione della vicenda di Joseph Pujol, fenomeno vivente della belle époque che fece fortuna utilizzando il culo come una trombetta, con grande scandalo dei benpensanti. Il vero sguardo sorprendente sulla magistratura nell’ambito della commedia, lo offre, negli stessi anni, Alberto Sordi, che nel 1984 gira Tutti dentro, 58
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un’inquietante anticipazione dell’operazione Mani pulite che chiuderà per sempre l’era della Prima repubblica nel 1992. Tutti dentro racconta la paradossale vicenda dello zelante e cocciuto magistrato Annibale Salvemini, che si inoltra in una difficile inchiesta di tangenti e corruzione che coinvolge importanti membri della politica e dello spettacolo italiano. Il moralismo qualunquista di Sordi impedisce al film (che è di suo sfocato ed eccessivo fin dalla fisionomia del giudice Salvemini) di essere una cosa seria, chiudendolo su un finale punitivo (il giudice zelante e fanatico è chiuso in trappola dalla propria stessa testardaggine e a sua volta arrestato) che sembra un monito a lasciare le cose come stanno. Rimane però un senso di angoscia inconsapevole, di aura preoccupata, come se gli autori del film si rendessero conto della fine dei tempi di vacche grasse di un’Italia agli sgoccioli e mandassero segnali allarmati: Tutti dentro, come osserva acutamente il critico Morandini, è «più che un brutto film, una cattiva azione». E dà la dimensione più retriva della magistratura nell’alveo della commedia: Sordi si pone come perfetto lato oscuro del Germi di Sedotta e abbandonata. 3. Il caso Germi Se la prima immagine del cinema di Pietro Germi è quella di una prigione inquadrata in modo espressionista, deve esserci un significato ulteriore rispetto a quello puramente estetico. Al di là della commedia e dei procedimenti giudiziari smontati nella loro intrinseca doppiezza dall’invettiva grottesca, Germi è stato uno dei registi italiani che più si è accostato alle regole del giallo giudiziario. Lo ha fatto perché, già in tempi di neorealismo, il suo orientamento di racconto aveva preso la direzione del cinema hollywoodiano. Il suo primo film, Il testimone (1945), sarà pure una goffa «antologia di errori cinematografici»1 come la definiva Fernaldo Di Giammatteo, ma è anche un’appassionata e ingenua riproposizione di temi, tecniche (parlare di stile è ancora piuttosto improprio), inquadrature e personaggi del courtroom drama americano. Si racconta la storia del giovane Pietro Scotti che, in un processo per omicidio, è condannato a morte dopo la testimonianza di un anziano impiegato, convinto dell’infallibilità del proprio orologio. Subito dopo la sentenza, però, al testimone sorgono dei seri dubbi sulla colpevolezza del giovane che lo convincono a ritrattare la propria deposizione e a subire la vendetta del giovane. 1.
«Sequenze», aprile 1949.
una risata vi giudicherà
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Certo, non sono ancora maturi i tempi in Italia per affacciarsi sul cinema di genere, e l’operazione di Germi dimostra un grado di immaturità e di imbarazzo propri di chi applichi a forza schemi preordinati su un materiale che non gli appartiene, sfiorando il ridicolo: tutte le iniziali sequenze ambientate nel tribunale risultano eccessive e caricaturali, mentre gli snodi risolutivi sono affidati a dettagli rivelatori grotteschi se non stranianti (l’avvocato che, in aula, manomette l’orologio). Il nocciolo tematico però è vero, forte, credibile e traccia le prime caratteristiche della «poetica» di Germi: il film è imperniato sul dilemma di un vecchio testimone che, giustamente, esita a condannare un assassino, assalito da dubbi e remore psicologiche di ogni tipo, ideale contraltare del suo avversario colpevole. Lo scandaglio psicologico, incerto, sfocato, frammentario, si proietta con forza su un dilemma etico più generale, diventa una parabola espressionista sulla Colpa e il Destino, con le iniziali maiuscole, perché la mano di Germi, di questi tempi, è ancora enfatica e ridondante. Il dramma giudiziario diventa terreno di confronto tra due personaggi antitetici, coglie l’identità dei due personaggi principali, la proiezione reciproca, simmetrica e complementare delle remore morali: la reductio ad unum del dualismo è impostata in modo gratuito, perché l’immaturità del regista è esistenziale ancora prima che artistica. Germi era un idealista moralista e troverà un primo compimento di istanze tecniche e progettualità civica in In nome della legge (1948) che è un proto-poliziesco girato come un western, fin dalla memorabile sequenza iniziale. Campi lunghi, agguati, mafiosi a cavallo come cowboy, una corriera come diligenza e il buon pretore che scende dal treno nel paesino sperduto come un onesto sceriffo americano: il capostipite dei film di mafia è diretto dichiaratamente da un emulo fordiano. Stilisticamente e narrativamente, il film divenne il modello per tutti i polizieschi mafiosi di lì a venire: picciotti con la coppola e le lupare imbracciate, uomini d’onore al di fuori della legge coperti dall’omertà generale, e un protagonista onesto osteggiato dai notabili locali che è il progenitore dei tanti futuri poliziotti dalle mani legate. Senza In nome della legge non sarebbe esistito un film come Gente di rispetto, tanto per dire, ma neanche Piedone lo sbirro (Steno, 1973). E qui rientra in gioco l’idealismo ottimista di Germi che si augurava, incredibilmente, un rientro nella legge da parte degli uomini d’onore della mafia: «L’ambizione eticopolitica dell’utopia neorealista cede alla scoperta della Sicilia come “frontiera americana” della società nazionale, alla mitizzazione di un mondo di sentimenti primordiali che l’enfatica voce fuori campo presenta fin dall’inizio come “ridente giardino”, “terra nuda e bruciata”, “mondo misterioso”»2. Il 2.
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O. Caldiron, La bella compagnia, Bulzoni, Roma 2009, pp. 46-47.
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meccanismo dell’inchiesta giudiziaria è utilizzato da Germi come occasione narrativa: è l’inserimento di un elemento estraneo in un contesto chiuso e circoscritto, il grimaldello per scoperchiare un mondo che si pensa di dover riformare liberalmente. Anche in questo caso la struttura dell’inchiesta giudiziaria è un modo per mettere a confronto due personaggi, due idee, due punti di vista diversi e complementari sullo stesso fenomeno. Da una parte c’è il rappresentante dello Stato, un pretore integerrimo e sicuro di sé ma ottuso, uno che vorrebbe risolvere i problemi della criminalità in Sicilia rifondandone i costumi, che vorrebbe applicare le leggi del governo centrale dello Stato italiano a una regione che è un mondo a sé stante, con i suoi codici ben stabiliti. Dall’altra parte c’è il massaro Turi Passalacqua, il mafioso d’onore, quello che, data l’assenza del potere centrale, si sostituisce a esso: il suo concetto di mafia non è equiparato a quello di delinquenza, ma a quello di legge, atavica, primordiale, ma legge, regolamentazione severa di usi e costumi che altrimenti allontanerebbero la popolazione dalla vita civile. Tesi e antitesi, accusa e difesa, come il giallo giudiziario vuole, ma in questo caso la sintesi è imprevedibile: diffidente verso la sospettosa alacrità del giovane pretore, l’uomo «all’antica» Germi sta dalla parte del massaro mafioso, contro la degenerazione delle vecchie leggi di natura, ma critico verso chi vorrebbe irreggimentare, senza capire, un comportamento sociale che è altro rispetto a quanto prospetta la giurisdizione romana. Come acutamente ricorda Giacovelli: «La predica conclusiva spetta naturalmente al magistrato; ma mentre lui parla con le parole (lasciando la gente più sconcertata che convinta), il suo antagonista parla con i fatti e gli consegna pubblicamente l’autore dell’ultimo e più feroce delitto. L’ha avuta vinta il magistrato? Se Germi la pensasse così, il film si concluderebbe, dopo la predica, con un suo primo piano. Invece no, si conclude con un primo piano particolarmente insistito del capomafia e poi con un campo lungo dei mafiosi che si allontanano a cavallo, mentre al pretore non è più riservata nessuna inquadratura. Il che la dice lunga su quali siano i veri eroi secondo il regista»3. Oggi un idealismo di questo tipo può far sorridere o, a propria volta, indignare – soprattutto se si pensa che, prima della lavorazione del film, Germi fu avvicinato da un mafioso del luogo che diede l’approvazione alle riprese di In nome della legge – o riuscire incomprensibile. Ma, per quello che ci interessa da vicino, in questo caso, è da notare come la limpida schematicità della struttura narrativa del film (fatti salvi gli inquinamenti della sottotrama 3.
E. Giacovelli, Pietro Germi, Il Castoro, Milano 1991 (1997), pp. 29-30.
una risata vi giudicherà
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sentimentale) serva al regista per decifrare un fenomeno complesso come quello mafioso: la ricerca della giustizia e, per estensione, della verità, come vuole il genere, diventa indagine di una società stratificata come quella siciliana, avvertenza della doppia natura della criminalità del luogo, amaro accertamento della corruzione morale delle nuove generazioni. Tra tutti i registi del suo tempo, Germi è quello che trasporta immediatamente i dati artistici, psicologici e sociali sul terreno politico: lo fa in modo letterale, con un’ingenuità su cui si appuntano gli strali di teorici e storici, con un manicheismo etico che è anche estetico, ancora oggi sorprendente per la nettezza delle sue posizioni. Basta mettere a confronto il regista con un altro collega contemporaneo altrettanto moralista, Luigi Zampa che, negli stessi anni di In nome della legge andava a sondare un’altra realtà criminale (la camorra napoletana) con le stesse armi dell’inchiesta giudiziaria, in Processo alla città. Artisticamente non c’è confronto: attaccato ai personaggi e alle loro evoluzioni nel contesto ambientale, Zampa (con l’aiuto dei soggettisti e sceneggiatori Rosi, Giannini e Cecchi D’Amico) ricostruisce un importante caso giudiziario di inizio Novecento (il processo Cuocolo), dipingendo un affresco storico di grande rilievo, per potenza espressiva, precisione gestuale e fisiognomica. L’adesione ai personaggi permette al regista un notevole respiro narrativo, la descrizione minuta di modi e costumi dei camorristi napoletani di inizio secolo, ma mantiene il racconto su un piano psicologico, sentimentale, privato. Quando Zampa allarga l’orizzonte idealistico al contesto sociale, quando deve tirare le somme di un giudizio morale e politico, non va al di là di una generica indignazione per lo status quo: la conclusiva morte del proletario innocente ingiustamente accusato dell’omicidio dei coniugi Cuocolo provoca, come sempre nei film del regista romano, più che una maturazione idealistica un moto di rabbia, la reazione inconsulta di chi vuole opporsi a un mondo che sa di non poter modificare. Non parliamo poi del successivo titolo di Zampa dedicato al genere giudiziario, Il magistrato, che è il ritratto concreto e distaccato di un uomo in crisi, un magistrato coi dubbi: qui l’indignazione morale contro la corruzione, l’ambizione incontrollata, l’amore per il guadagno facile che porta alla rovina, ripiega non tanto sul melodramma quanto sull’intenerimento populista per le classi povere, costrette al delitto dall’ingiustizia sociale. Germi, con In nome della legge, non arriverà (ancora) ai livelli artistici di Zampa, sacrificherà l’impianto narrativo a favore della tesi dimostrativa, ma dimostrerà di avere almeno civicamente le idee molto chiare (più o meno condivisibili). Sarà il passaggio alla commedia (Divorzio all’italiana, Sedotta 62
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e abbandonata, a seguire un’opera di transizione ma capitale come Un maledetto imbroglio), per forza di cose, a sottrarre la ridondanza espressiva e l’impianto schematico alla struttura del racconto, a dargli il necessario vigore paradossale, la spregiudicatezza che vince il moralismo di fondo senza ucciderne il senso morale, la lucidità critica del disincanto. E a quel punto anche lo schema dell’inchiesta giudiziaria diventerà un modo per disintegrare le assurdità di una legge lontanissima dalla civiltà.
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Giustizia, cinema politico e ideologia italiana. Due film a confronto: Detenuto in attesa di giudizio e In nome del popolo italiano ANDREA MINUZ
1. Il film come macchina processuale Il Divo, il ritratto cinematografico di Giulio Andreotti realizzato da Paolo Sorrentino nel 2008, è stato uno dei film italiani di maggior successo degli ultimi anni. All’estero è stato lodato per la sua indubbia qualità formale, per la creazione di immagini e soluzioni visive di grande impatto e originalità. Da noi, e non poteva essere diversamente, è stato letto anzitutto per i suoi contenuti, per le tesi perentorie scandite nel sillogismo che qui regge il patto tra il film e il suo pubblico: Andreotti ha incarnato il potere per oltre quarant’anni. Il potere in Italia viene a patti con la mafia. Andreotti è mafioso. Ad Andreotti, cui il film parve una forzatura poiché Sorrentino, disse, lo faceva parlare con persone che non aveva mai conosciuto, il regista rispose che la sua reazione stizzita lo confortava perché confermava «la forza del cinema rispetto ad altri strumenti critici della realtà»1. L’espressione strumenticritici-della-realtà è a dire il vero un po’ oscura, ma il senso complessivo è chiaro. La giustizia ha fallito (perché non è riuscita a inchiodare Andreotti), il cinema no. Questa concezione del film inteso non già come messa in scena di un processo, ma come processo che si sostituisce de facto alle carenze di una macchina della giustizia incapace di raggiungere la Verità con la maiuscola, questa osmosi che viene a crearsi tra la figura del regista e quella del magistrato accomunati nel coraggio della denuncia, nell’indice accusatore puntato contro il Potere; questa concezione, dicevo, si forma nel contesto del cosiddetto cinema civile o politico sviluppato a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Cinema che va considerato come un genere, o quantomeno una
1.
Vedi l’intervista su «Liberazione», 24 maggio 2008.
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tendenza del periodo, con regole compositive, stereotipi e ricorrenze visive specifiche. Come ha avuto modo di notare Anton Giulio Mancino nel suo studio sulle radici del film politico-indiziario italiano, in questo periodo si colloca quel passaggio decisivo che coinvolge proprio la trasformazione dei rituali del processo, il quale da oggetto della rappresentazione si fa modello stesso di scrittura. «I film, infatti, nel dare spazio visibile ai processi, non si limitavano soltanto a rappresentarli, ma a svolgersi come processi, e costituivano sullo schermo processi paralleli, complementari o alternativi, a beneficio dello spettatore, in un contesto di scarsa fiducia e conoscenza dei meccanismi processuali»2. Una scarsa fiducia che chiamava in causa l’ampia disponibilità del pubblico ad accogliere e far propri i toni della denuncia del cinema politico italiano degli anni Settanta. Tuttavia, una definizione compatta dei film di Rosi, Petri, Montaldo, Damiani, e tanti altri che in quella stagione si cimentarono nel cosiddetto «impegno civile», non è affatto immediata. Politici, insomma, vennero definiti film assai diversi tra loro ma accomunati da una volontà accusatoria che poteva contare sull’appoggio del pubblico (specie del pubblico progressista) in nome, va da sé, di una comune, radicata diffidenza per le istituzioni e di una cultura del sospetto verso lo Stato che in quel decennio, sulla scia delle stragi e degli attentati, andava inevitabilmente radicalizzandosi. Questi film si costituirono come un genere «per effetto del clima complessivo in cui nacquero, della tendenza delle case produttrici a promuoverli [in tal modo], del giornalismo del tempo a etichettarli, degli spettatori a leggerli nel contesto degli schemi interni al confronto ideologico allora prevalente»3. In tal senso, il cinema italiano a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta rappresenta un formidabile banco di prova per interrogare la percezione collettiva della giustizia in un periodo in cui la critica alla magistratura era accolta come critica a un capitalismo (o a un sistema, come si diceva allora) che sulla magistratura e sulla giustizia di classe fondava la propria autorità. E dunque, a interrogare anche un sentire comune che, soprattutto nella cultura della sinistra, appare di certo assai mutato rispetto a oggi. All’alba degli anni Settanta, insomma, il cinema politico era accolto come una salutare critica alle istituzioni, magistratura in testa: 2. A.G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2008, p. 101. 3. P. Ortoleva, Cinema politico e uso politico del cinema, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. XII – 1970-1976, Marsilio/Bianco e Nero, Venezia-Roma 2008, p. 152.
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andrea minuz
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La critica delle istituzioni e la messa in discussione della loro legittimità «a priori» sta fortunatamente diffondendosi sempre più ed è un impegno che ogni persona cosciente dovrebbe proporsi […]. In una società che sempre più difficilmente risulta credibile, le istituzioni mostrano tutte le loro pecche cercando disperatamente sostegno nel pregiudizio, nell’ignoranza e nella violenza. La cronaca degli ultimi anni ha messo in luce il ruolo preciso delle istituzioni pubbliche, con polizia e magistratura in testa […]. La giustizia difende chiaramente un ordine così com’è, ritenuto ideologicamente il migliore dei mondi possibili, perché solo così com’è la classe che crea i dispensatori di «giustizia» può mantenere i suoi interessi4.
«Sta a vedere che un film fa più di dieci anni di articoli provocatori». Così, ad esempio, in Perché si uccide un magistrato (Damiano Damiani, 1974), l’entourage del regista Giacomo Solaris (Franco Nero) accoglie la notizia che il procuratore Traini ha richiesto una copia del suo film – Inchiesta a Palazzo di Giustizia – da visionare privatamente per accertare o meno se è il caso di procedere con l’accusa di vilipendio alla magistratura. Nella sua lettura spesso schematica della società e dei suoi conflitti, gran parte del cinema di quel periodo fu «veicolo di rappresentazioni oblique e in molti casi involontarie dei processi in corso»5; e il discorso sulla giustizia, sul rapporto tra istituzioni e cittadino, non poteva che essere centrale. Un rapporto che proprio un film apripista del genere, vale a dire Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970), si era incaricato di capovolgere, seppure nelle forme aperte dell’allegoria e di un grottesco che in ogni caso andava paurosamente sovrapponendosi con la cronaca di quel periodo. Tuttavia, se il «cinema politico» coinvolse pratiche produttive e forme di scrittura eterogenee, dal documentario militante al film di genere (thriller, poliziesco, mafia movie, ma anche quello di ricostruzione storica, come nel caso di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo), e se è forse più utile parlare di una politicizzazione radicale della società che di conseguenza si rifletteva nel cinema, allora non si possono non prendere in considerazione anche ampi segmenti della cosiddetta commedia all’italiana. Proprio in riferimento a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, si può anzi parlare di un film
4. S. Scandolara, Il volto della “giustizia” in uno stato di classe, Cineforum, n. 110-111, 1972, p. 154. 5. P. Ortoleva, Cinema politico e uso politico del cinema, cit., p. 166.
giustizia, cinema politico e ideologia italiana
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che «risponde al bisogno di spostamento a sinistra della borghesia italiana»6 (recuperando per esempio, soprattutto nella recitazione di Volonté, quelle tinte grottesche che sono un motivo strutturale della commedia all’italiana). Negli anni Settanta, d’altro canto, l’orizzonte della commedia avrebbe mostrato tutta la sua elasticità e capacità combinatoria con i registri più diversi, incluso il registro «politico». Registro che, in virtù della dimensione popolare di questa produzione, si faceva evidentemente più ambiguo; riflettendo di conseguenza, più o meno inconsciamente, anche i limiti degli schematismi ideologici dell’epoca. Il discorso ci condurrebbe lontano ma, ai fini del tema che qui indaghiamo, sarà interessante discutere due film del 1971 che si muovono nel bilico tra commedia e impegno civile, vale a dire Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy) e In nome del popolo italiano (Dino Risi). Interpretati da attori-chiave della commedia, quali Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, sono due film decisivi per pensare tanto alla percezione pubblica della giustizia e della figura del magistrato all’alba degli anni Settanta che alle continuità sotterranee tra cinema politico e commedia all’italiana. Se il film di Loy con Alberto Sordi affronta l’errore giudiziario sullo sfondo della drammatica condizione delle carceri italiane, quello di Risi è una formidabile parabola sulla responsabilità del magistrato e sull’uso politico della giustizia, in forme e modi che, proprio in virtù di quell’ambiguità di cui si diceva, lo proiettano ben al di là dei conflitti e dei confini dell’epoca. 2. La commedia degli errori giudiziari Alberto Sordi racconta che il primo spunto per Detenuto in attesa di giudizio (ideato in seguito da Rodolfo Sonego) lo ebbe in Svezia, agli inizi degli anni Sessanta, durante le riprese del film Il diavolo (Gian Luigi Polidoro, 1963): Una signora che lavorava alle Belle Arti e che mi aveva aiutato a «rubare» alcune scene della consegna del Nobel, mi portò a visitare Stoccolma. Nei dintorni, mi colpì una struttura molto ampia, ridente, circondata dal verde. «Un hotel a quattro stelle?», domandai. «No, mi risposero, è il carcere dove i detenuti in attesa di giudizio aspettano il processo, liberi di ricevere i familiari e seguire i propri
6. G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni Novanta, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 272.
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interessi». Io pensai: e in Italia cosa succede a uno che aspetta di venire giudicato? Soprattutto in considerazione dei tempi lunghissimi della nostra giustizia7.
Sordi e il suo sceneggiatore di fiducia Sergio Amidei scelgono tuttavia di raccontare le disfunzioni della giustizia italiana sulla scia di un altro, decisivo stimolo: «Dopo la visione di un bellissimo e drammatico documentario sulle carceri italiane – racconta sempre Alberto Sordi – Amidei mi convinse a girare un film intero su quel problema, e nacque la commedia amara di Loy»8. Il documentario in questione è Dentro il carcere, realizzato da Emilio Sanna, Arrigo Montanari e Mario Masini, e trasmesso dalla Rai nel gennaio del 1970. Il film era il risultato di un’inchiesta realizzata tra la primavera e l’estate del 1969 con lo scopo di testimoniare, dall’interno, la drammatica situazione dell’universo carcerario italiano. Venne pubblicata dapprima in un libro, curato da Sanna9; poi, d’accordo con il regista televisivo Montanari e il fotografo Masini, il giornalista realizzò anche il documentario che la Rai trasmetterà in tre puntate; rispettivamente, La carriera del detenuto, Trattamento, Detenuto essere umano. Dentro il carcere ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica dell’epoca. Il mondo carcerario era avvicinato nei suoi meccanismi interni, cercando insomma di far emergere le complesse dinamiche psicologiche che lì prendono forma. Un viaggio all’interno di un’istituzione totale, secondo il termine coniato alcuni anni prima in un celebre testo del sociologo Erving Goffman (tradotto tuttavia in Italia sono nel 1978), e dunque in piena sintonia con il clima e la sensibilità di un decennio in cui il funzionamento di tali istituzioni sarebbe stato radicalmente messo in discussione. Infine, e benché non accreditato direttamente da Sordi come un’influenza esplicita sul film, non si può trascurare il caso di cronaca che, nel 1970, vide protagonista lo showman Lelio Luttazzi. Vittima di un errore giudiziario che lo colse all’apice della sua carriera, Luttazzi subì l’onta di ventisette interminabili giorni di carcerazione preventiva, prolungatisi poi in un’umiliante gogna mediatica che lo accompagnò per parecchi anni a venire, condizionando inevitabilmente le sue successive scelte esistenziali e professionali. Da questa esperienza nacque il suo primo romanzo, Operazione Montecristo, un libro che più che il racconto delle trame di un inesistente coinvolgimento 7. A. Felini, Sordi detenuto per sbaglio, «Le due Città. Rivista dell’amministrazione penitenziaria», n. 3, marzo 2002, http://www.leduecitta.it/articolo.asp?idart=449. 8. Ibidem. 9. E. Sanna, Inchiesta sulle carceri, De Donato, Bari 1970.
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nel traffico di stupefacenti si offre al lettore come la testimonianza in prima persona di un lento ma inesorabile naufragio psicologico, resoconto di una reclusione drammatica e mortificante, di cui peraltro Luttazzi non era nemmeno in grado di ricostruire le motivazioni. Il libro servì poi come base per un film da lui stesso diretto, L’illazione, un’opera più teatrale che cinematografica, dal taglio quasi sperimentale, che fu finanziata dalla Rai anzitutto come una forma di risarcimento morale (all’epoca dell’arresto, Luttazzi era il conduttore della popolare trasmissione radiofonica Hit Parade); e d’altronde non verrà mai trasmessa in tv. Né il libro, né tantomeno un film invisibile, ebbero pertanto una qualche significativa risonanza presso il pubblico. Ma se in pochi, al momento dell’uscita di Detenuto in attesa di giudizio, potevano o volevano cogliere il riferimento esplicito all’errore giudiziario del caso Luttazzi, il film pareva dare a suo modo un’eco alla denuncia di Operazione Montecristo, se non altro su un piano simbolico. Per la critica dell’epoca, tuttavia, Detenuto in attesa di giudizio non era considerato come un’«opera di impegno civile» allo stesso modo che, per esempio, i film di Rosi o Damiani. Era cioè «un film con Alberto Sordi», l’emblema della commedia nazionale intrisa di qualunquismo, e come tale difficilmente addomesticabile nei quadri del film «impegnato». D’altronde, era anche la prima volta della sua carriera in cui Sordi si trovava alle prese con un personaggio drammatico (in un ruolo che peraltro gli valse il premio per il miglior attore al Festival di Berlino del 1972). Per entrare nei salotti buoni della critica degli anni Settanta, mancava insomma quel discorso sulle classi che invece si riconosceva a un film «carcerario» come L’istruttoria è chiusa: dimentichi! (Damiani, 1972); di cui si poteva scrivere che «non è un film sul sistema carcerario, pur mostrato qual è, subumano, foriero di vizio e di dolore anziché di redenzione o anche soltanto di pena, ma è soprattutto un film sulle differenze ingiuste tra le classi, differenze che permangono anche in carcere»10. In una recensione che confrontava il film di Damiani e quello di Loy, e che pure di quest’ultimo elogiava il coraggio, si sottolineavano tuttavia l’insufficienza e i limiti di fondo di un’opera che non attaccava direttamente le istituzioni. L’argomentazione è oltremodo interessante alla luce di come in Italia, nell’arco di trent’anni, abbiamo visto radicalmente mutare la lettura e lo sfondo ideologico dell’uso della carcerazione preventiva: 10. G. Gambetti, Damiano Damiani. L’istruttoria è chiusa: dimentichi!, «Cineforum», n. 110-11, 1972, p. 37.
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Detenuto in attesa di giudizio, pur illustrando la situazione carceraria, non fa un discorso sulle carceri ma sull’uomo in carcere, soprattutto sul borghese in carcere. Come a dire, soprattutto ai borghesi di città che vanno in carcere, «guardate cosa vi può capitare», come ha scritto Fofi. Col che uno esce scandalizzatissimo che anche un architetto o un geometra possa finire in carcere, che notoriamente è costruito per la feccia proletaria. Che un architetto o un geometra finiscano in carcere è solo un errore giudiziario. O un caso limite, se vogliamo. In realtà, se vogliamo restare alla carcerazione preventiva trattata nel film, essa ha una chiara funzione strumentale a fini politici; serve a dare una lezione a chi la pensa in modo diverso, a chi rompe le scatole ed è un efficace deterrente11.
3. Viaggio in Italia La scelta di Sordi per un film che tra i primi in Italia si poneva il problema della condizione delle carceri e dell’uso indiscriminato della carcerazione preventiva permetteva, oltre che un immediato approdo presso il pubblico, lo sviluppo di un doppio registro espressivo del racconto12. Racconto, vale a dire, costantemente sospeso tra la caricatura realista, il bozzetto e l’allucinazione. In tal modo, Detenuto in attesa di giudizio poteva essere diffuso anche come una commedia; «la commedia amara di Loy», come la definisce lo stesso Sordi. Lo dimostra per certi versi lo sketch promozionale del film, con Alighiero Noschese, all’interno della popolare trasmissione «Canzonissima», all’epoca condotta da Corrado. Esibendosi nell’imitazione di Sordi, Noschese entra in scena vestito in abbigliamento carcerario con tanto di coperta e gavettino. «Come stai in galera tu?», gli domanda Corrado. «Stretto. In una cella siamo quattrocento». «Ma è impossibile!», replica il presentatore; «Siamo quattrocento», insiste Noschese/Sordi: «Tre detenuti e trecentonovantasette bacarozzi», qui sommerso dalle risate fragorose del pubblico che poi accoglie in scena l’ingresso del vero Alberto Sordi (innescando una serie di gag e nonsense esilaranti con Noschese). Nessun clima da denuncia, insomma. Nessuna incompatibilità con le forme, i toni e i modi della commedia all’italiana.
11. S. Scandalora, Detenuto in attesa di giudizio, «Cineforum», n. 112, 1972, p. 59. [Corsivo nostro] 12. Sordi, peraltro, era affiancato da Lino Banfi (nel ruolo del direttore del penitenziario) che in quel periodo lavorava soprattutto come spalla di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, e che di lì a breve avrebbe fatto la fortuna della cosiddetta commedia sexy italiana.
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In Detenuto in attesa di giudizio, Sordi fa leva sul repertorio consolidato della sua maschera formidabile – e si veda in tal senso la scena dell’orrendo pasto in cella ingurgitato senza lamentele davanti alla guardia carceraria, variante del rancio «ottimo e abbondante» mandato giù da Oreste Jacovacci ne La grande guerra (1959) di Monicelli. Parimenti, più che il cosiddetto emblema dell’italiano attorno a cui si è edificata l’epica della commedia nazionale, Sordi rappresenta qui anche il cittadino anonimo, triturato da un impietoso meccanismo giudiziario. Colui, vale a dire, che si trova schiacciato da una burocrazia sgangherata quanto paurosa. Una burocrazia che ha ben poco dell’impalpabilità metafisica dei meccanismi della «colpa» kafkiana e molto delle concrete, e assai riconoscibili per lo spettatore, disfunzioni congenite del sistema italiano. Non è un caso, insomma, che il personaggio interpretato da Sordi si chiami Giuseppe Di Noi. Questo doppio registro del film – un incubo giudiziario raccontato in una chiave nazional-popolare – è annunciato in modo esemplare dalla sequenza iniziale. Le immagini d’apertura si offrono infatti come quelle di un film del cosiddetto filone vacanziero, genere d’evasione in cui si mettevano in scena le rocambolesche, provinciali vicende degli italiani in vacanza all’estero (un genere peraltro frequentato spesso da Sordi, soprattutto nel cinema degli anni Cinquanta). Sulle note dello spensierato valzer composto da Carlo Rustichelli che accompagna le inquadrature d’ambientazione sui panorami di Stoccolma, la presentazione del geometra Giuseppe Di Noi, emigrato sette anni prima in Svezia dove ha creato una florida impresa di costruzioni, si annuncia appunto come curiosa inversione degli stereotipi del genere. Non più l’italiano che parte per qualche luogo esotico, ma l’emigrante ormai felicemente integrato nel paese straniero che ora fa ritorno in Italia per una breve vacanza (Di Noi ha sposato una donna svedese e ha due figli piccoli). In questo capovolgimento si annuncia anche il brusco passaggio della maschera di Sordi dal comico al tragico. Esso è innescato improvvisamente all’arrivo alla frontiera con l’Italia. In fila alla dogana, con la barchetta nel portapacchi e la roulotte al seguito, Giuseppe Di Noi decanta alla propria famiglia le lodi dell’Italia, dei suoi colori, dei suoi paesaggi; ma proprio questo lampo di orgoglio per la sua terra aumenta il contrasto con quanto sta per accadere. Dopo la richiesta d’ordinanza dei documenti, l’arresto di Di Noi, portato via in manette davanti alla propria famiglia, è mostrato senza fornire alcuna motivazione («una semplice formalità», come spiegano i funzionari della 72
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dogana). È in questo modo, omettendo le ragioni dell’arresto che resteranno oscure fino al finale del film, che si innesca una piena identificazione dello spettatore con la vicenda raccontata. A partire da qui, Detenuto in attesa di giudizio si muove pertanto sul doppio binario delle due fonti da cui trae origine, il documentario sulle carceri da un lato, e la testimonianza diretta della vittima di un errore giudiziario dall’altro. Dall’arresto alla dogana ha infatti inizio quel viaggio straziante da un carcere all’altro che si dipana come il controcanto allucinato del filone vacanziero annunciato all’inizio. Non un viaggio all’estero, ma un pellegrinaggio di reclusione in Italia. Un inabissamento nell’ottusità e nel malfunzionamento della nostra burocrazia che condurrà Giuseppe Di Noi sull’orlo della follia. Ma quale immagine della giustizia offre il film? La figura-chiave della vicenda, il giudice, non ha nome. La sua comparsa in scena è costruita lungo uno sfibrante gioco di attese e rimandi, quasi in un perverso capovolgimento in chiave burocratica della logica del suspense. «Io è da un pezzo che la sto aspettando, dove è stato?». Con queste surreali parole, il giudice accoglie Giuseppe Di Noi al suo primo colloquio. Il film sceglie non a caso di mostrarcelo ripreso di spalle, sì da non scorgerne neanche i lineamenti, mentre con aria annoiata sfoglia il fascicolo dell’imputato – anche perché, ci tiene a specificare, in procinto di «andare in ferie». In un medesimo clima surreale, l’avvocato incontra infine Di Noi (ricoverato nel frattempo in un ospedale psichiatrico) e veniamo così a conoscenza dell’errore che ha innescato l’arresto. «Avrei potuto fare ben poco senza la solerzia e la comprensione del giudice che ha persino rimandato di qualche giorno la partenza per le vacanze per seguire personalmente l’iter della pratica», afferma ora l’avvocato. Pratica, scopriamo infine, legata non soltanto a un’accusa inesistente, ma innescata nient’altro che da un mancato coordinamento e trasmissione di notifiche tra gli uffici del ministero dell’Interno e la polizia di frontiera. L’inefficienza, la lentezza dell’amministrazione della giustizia sfocia qui nel grottesco e nel ridicolo, se in gioco non ci fossero esistenze umane travolte dalla disumanità del carcere. Con grande chiarezza, il film di Loy fa emergere l’intreccio di dinamiche burocratiche che appaiono al contempo ridicole e inquietanti, surreali eppure tragicamente familiari allo spettatore italiano. E a differenza di quel che metteva in rilievo la critica più politicizzata dell’epoca, era la presenza di Sordi a rendere più efficace tale discorso, proprio in virtù del fatto che si trattava di un personaggio di certo alieno alla cultura protestataria dell’epoca e agli attacchi allo Stato e alle istituzioni. E questo è forse il punto di maggior contatto con giustizia, cinema politico e ideologia italiana
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la vicenda Luttazzi, come sottolineava Giuseppe Berto nella presentazione di Operazione Montecristo in cui, rivolgendosi allo showman, scriveva: I tuoi trenta giorni di galera non sono cosa che riguardi soltanto te e il Pubblico ministero che te li ha fatti fare, sicché il tuo libro, che tu lo voglia o no, è un libro di protesta sociale, ed è importante che venga non da uno dei tanti contestatori del sistema che lavorano per rovesciarlo, ma da uno che in questo sistema crede13.
4. Un film profetico? In un saggio apparso recentemente, in cui si discute la percezione della magistratura e della figura del magistrato nella società italiana, leggiamo che: Tra gli elettori di Centro Destra il magistrato è valutato soprattutto come un politico (37,5%) e poi come difensore della giustizia (23,6%), per gli elettori di Centro egli è un tecnico del diritto (42,4%) e poi un politico (30%). Differente è la percezione tra gli elettori di Centro Sinistra: il magistrato è un paladino della giustizia (38,3%) o un tecnico (35,2%) piuttosto che un politico (7,1%)14.
Una percezione del tutto capovolta rispetto al clima degli anni Settanta; mutata di segno a partire da Tangentopoli, prima, e dall’entrata in scena di Silvio Berlusconi poi. All’inizio degli anni Settanta, infatti, la cultura della sinistra – soprattutto della sinistra extraparlamentare – era ben lungi dall’assegnare al magistrato la funzione di «paladino della giustizia», se non a patto di una «ribellione», di uno scollamento dal proprio ruolo. Si prenda, a titolo di esempio, questo passaggio di un lungo articolo di commento al film di Damiani, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971): Il potere giudiziario si regge sul mito della rispettabilità a priori del giudice. Rispettabilità a priori solo perché è giudice, mentre, si sa, un netturbino, un contadino, uno studente sono molto meno rispettabili […] il meccanismo giudiziario si sviluppa secondo regole fisse e ieratiche, comprensibili solo a una ristretta categoria di «concelebranti», quella degli avvocati; il giudice è rispettabile a pri13. G. Berto, Presentazione, pp. 5-6. 14. M.L. Ghezzi, M.A. Quiroz Vitale, L’immagine pubblica della magistratura, Giuffrè, Milano 2006, p. 42.
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ori, indipendentemente da come si comporta, innalzato «al di sopra delle parti» solo per via di mantelli e cappelli col ciuffo che dovrebbero conferirgli dignità, mentre sono il segno più evidente dell’anacronismo di tutta una istituzione […] anche un giudice onesto finisce col rientrare in una logica destinata a far sì che la «giustizia» sia dalla parte del più forte (economicamente e politicamente). Ci si riferisce al contrasto tra una onestà soggettiva ricercata magari dal singolo giudice e il ruolo che effettivamente ricopre15.
I paradossi di questa concezione del magistrato, all’occasione depositario e difensore di una Verità con la maiuscola che trascende il diritto e può perseguirsi anche contro gli anacronismi della propria istituzione, sono l’oggetto del film di Dino Risi, In nome del popolo italiano. Si tratta, com’è noto, di un film decisivo per interrogarsi, dall’interno delle peculiarità del contesto italiano, sul tema della responsabilità del magistrato come sulle rovinose derive di una giustizia imparentata con la cultura del sospetto, del pregiudizio morale, dell’odio ideologico. Esempio di come il sostrato politico della commedia fosse assai complesso, eterogeneo e refrattario a incasellarsi negli schematismi dell’epoca, forse è solo oggi che In nome del popolo italiano assume la sua piena dimensione «politica». Ciò anche al di là di quella valenza profetica che in genere si tende ad ascrivergli, leggendolo in modo un po’ semplicistico e riduttivo come il «film che prefigura Tangentopoli», e rimuovendo a mio avviso parte della preziosa ambiguità del suo tessuto di fondo. Più che anticipare Mani pulite, il film di Dino Risi suggella, dall’interno di una questione delicata come quella della giustizia, lo schiacciante primato dell’ideologia sulle istituzioni, della politica sullo Stato, quale motivo dominante della nostra storia nazionale; di un’ideologia italiana che in tal senso appare disponibile tanto a rovinose derive totalitarie quanto alle seduzioni degli eccessi egualitari. Ed è per questa dimensione antropologica, se così si può dire, che In nome del popolo italiano, lungi dal rappresentare un unicum nella filmografia di Risi, appartiene di diritto alla commedia all’italiana, prima che al cinema politico. Nell’enciclopedica storia del cinema italiano edita dal Centro Sperimentale di Cinematografia, il film di Risi viene presentato come esempio di controtendenza del rapporto tra la commedia e il film politico, sottolineando la sua «carica di anticipazione». Ma come vedremo, è proprio il significato di questa «anticipazione» la vera posta in gioco della lettura del film: 15. S. Scandolara, Il volto della “giustizia” in uno stato di classe, «Cineforum», 110-111, 1972, p. 55.
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Se parlare di agganci col cinema «politico» è corretto, forse sarebbe meglio sottolineare come la tendenza della commedia a rapportarsi col sociale (donde l’appellativo di costume) si risolva troppo spesso (per opportunismo e adesione alle «mode») nella ricerca di scorciatoie, ami gettati a un pubblico emotivamente in sintonia con l’aria del tempo ma, come gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato, non troppo propenso ad affrontarne la complessità. In controtendenza, e dotato in qualche modo di una certa carica di anticipazione, appare oggi tuttavia In nome del popolo italiano16.
C’è un aspetto del film, solo apparentemente secondario, che anzitutto vale la pena ricordare, ossia la sua ambientazione tra gli interni del Palazzo di Giustizia di Roma. Vi è almeno un celebre precedente in proposito: la trasposizione cinematografica di Orson Welles del Processo di Kafka, realizzata nel 1962. In quel caso, le strutture monumentali, le decorazioni e le dimensioni eccessive dell’edificio si prestavano a tradurre in termini spaziali e scenografici l’angoscia e l’inquietudine del testo kafkiano. Nel caso del film di Risi, invece, tale anacronistica monumentalità si traduce in semplice fatiscenza, in una marcata allegoria dell’amministrazione di una giustizia italiana, anziché «kafkiana». Proprio nel 1970, infatti, a causa di problemi di stabilità delle fondamenta e di pericolosi cedimenti, ebbero inizio i complessi lavori di restauro del Palazzo che era stato inaugurato nel 1911; lavori che ne minacciarono la chiusura definitiva per inagibilità. Risi gira il film in quell’anno e non si lascia sfuggire la possibilità di sfruttare il significato simbolico del momento. Già i titoli di testa del film scorrono sulle panoramiche immagini in bianco e nero di questa mastodontica struttura umbertina, poi, nello sviluppo della vicenda, vediamo i crolli delle balaustre interne, le enormi statue neoclassiche che cadono a pezzi. C’è in tal senso un’immagine significativa, fin troppo didascalica, su cui Risi indugia: il cartello «justitia» accanto alla scritta «pericolo». Il film mostra inoltre la dichiarazione di inagibilità annunciata da un servizio del telegiornale (ricostruita nella messa in scena del film), che costringerà il giudice protagonista della vicenda a trasferirsi in una caserma allestita per l’occasione come sede provvisoria delle udienze. «Secondo me – commenta in modo lapidario un intervistato alla tv – è crollato sotto il peso delle troppe cause arretrate».
16. T. Masoni, P. Vecchi, La commedia. Primi segnali di decadenza, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. XII, cit., p.107.
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Da questo sfondo che per certi versi accomuna In nome del popolo italiano e Detenuto in attesa di giudizio, vale a dire l’angusta situazione di inefficienza della giustizia italiana, il film di Risi si differenzia evidentemente per la volontà di calarsi nella psicologia del giudice, anziché dell’imputato. Mentre Sordi/Di Noi, come abbiamo visto, si scontrava con un meccanismo cieco, impersonale, qui la contrapposizione si costruisce come un lungo, serrato confronto a due. Da un lato, il pretore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), magistrato integerrimo, lettore de «L’Unità», dotato di coscienza ecologica e profondamente amareggiato dalle derive del capitalismo e della società italiana. Dall’altro, l’ingegner Renzo Santenocito (Vittorio Gassman), ricco e arrogante speculatore edilizio, elargitore di tangenti, intollerante verso i giovani di sinistra e i figli dei fiori che «andrebbero rinchiusi in un campo di concentramento con il filo spinato e messi ai lavori forzati sedici ore al giorno» (come dice a un giovane autostoppista cui dà un passaggio in macchina), e infine responsabile dell’inquinamento di un largo tratto del litorale laziale. Un conflitto netto, indiscutibile, con i ruoli del buono e del cattivo già assegnati in partenza. Tanto più che Santenocito è indagato per l’omicidio di una giovane donna, un’accompagnatrice che lavorava per un’agenzia di pubbliche relazioni, insomma una escort, come diremmo oggi. La narrazione, tuttavia, si sviluppa solo apparentemente nella chiave indiziaria di un giallo, di un enigma da risolvere. Gli interrogatori di Santenocito, volti a chiarire la sua implicazione nell’omicidio della ragazza, assumono ben presto la connotazione di un più ampio processo morale, di una condanna già formulata, di un indice puntato contro tutta una categoria insopportabile agli occhi di Bonifazi (e non sfugga il dettaglio della fotografia di un giovane Santenocito, recluta di Salò, su cui si ferma lo sguardo del giudice in una visita in casa dell’indagato). Durante un confronto decisivo tra i due, dopo che Bonifazi ha sentenziato di essere «stufo di dover rispettare leggi che proteggono una società che fa schifo» perché consentono a individui come Santenocito di «proliferare e prosperare», individui che il giudice non esita a definire «vili e volgari», l’imprenditore si difende così: Lei mi fa paura, perché fin dal primo momento io ho letto nel suo sguardo una parola agghiacciante, e cioè ideologia… Lei mi odia a livello ideologico!... Lei è prevenuto contro di me!... Lei non è un buon giudice!
Se la costruzione del conflitto è fin troppo chiara, tutta la tensione psicologica e narrativa viene rilanciata nell’emblematico, celebre finale del film. giustizia, cinema politico e ideologia italiana
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5. «So i nomi» Dopo l’arresto di Santenocito, Bonifazi entra per caso in possesso dei diari della ragazza. Quelle pagine, che il magistrato inizia a leggere fuori dal Palazzo di Giustizia, fanno crollare uno dopo l’altro tutti gli indizi a carico dell’imprenditore. Scorrono, nella mente di Bonifazi e davanti ai nostri occhi, i momenti salienti del film; si fa strada un’altra dinamica dei fatti che culmina, infine, con la dichiarazione della ragazza di volersi suicidare per amore. Il diario insomma scagiona definitivamente Santenocito. Il giudice ha commesso un errore, anzi una catena di errori che egli ha intrecciato, uno dietro l’altro, sotto l’abbaglio di una condanna che era già netta, chiara nella sua testa, ancora prima di svolgere le indagini. E alla fine, coerentemente con il suo pregiudizio ideologico, nella convinzione che anche se Santenocito non è un omicida, resta in ogni caso un cancro della società che va debellato, il giudice si decide a gettare il diario tra le fiamme. Finale emblematico, dunque. Finale sul quale si gioca tutto il significato, anzi lo spettro dei possibili, contrastanti significati della vicenda. Di fronte a questo bilico in cui il film sapientemente lascia da solo lo spettatore, mi sembra interessante anzitutto confrontare i commenti dell’epoca con quelli contemporanei. Si prenda, ad esempio, questo articolo del 1971: Bonifazi è consapevole di non poter essere neutrale, rifiuta di esserlo perché sa che si tratterebbe di una finzione destinata ad assicurare l’impunità a Santenocito. Con ciò stesso, paradossalmente, risulta meritevole delle reprimende lanciate dal procuratore Guarnera e da altri come lui, nei discorsi d’inaugurazione dell’anno giudiziario, contro i magistrati che «fanno politica». Il film corre, a questo riguardo, sul filo del rasoio, perché il carattere «vendicativo» che prende in certa misura la decisione finale di Bonifazi può sembrare adatto a dar ragione ai predicatori di cui sopra. Un più ampio e approfondito sviluppo degli argomenti con cui Bonifazi ribatte al Guarnera della vicenda sarebbe indubbiamente servito a chiarire meglio il fatto che tutti i magistrati fanno politica, a cominciare da quelli che si dichiarano apolitici17.
Ma la scelta «politica» di Bonifazi è presa al termine di un caleidoscopio di immagini allucinate di cui qui non si fa alcun cenno. Mentre cammina in strada, chino sulle pagine del diario, il giudice si ritrova sommerso dal ca17. S. Zambetti, Dino Risi. In nome del popolo italiano, «Cineforum», n. 110-111, 1971. [Corsivo nostro]
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rosello in festa dei tifosi della nazionale di calcio trionfante sull’Inghilterra. Qui Bonifazi ha un’epifania. Nella folla, scorge Santenocito in ogni possibile maschera a lui più ripugnante (ora agghindato come un vecchio reazionario che urla «Viva il Duce!», ora da militare che inveisce contro la «perfida Albione», o da volgare prostituta sguaiata, o da tifoso imbizzarrito che incendia una macchina inglese, e così via). Ed è qui, al termine di questo carrozzone delle peggiori incarnazioni dell’italiano-in-festa, che Bonifazi getta il diario tra le fiamme. Ecco, allora, la sequenza finale letta quarant’anni dopo: La sarabanda finale che segue una vittoria della nazionale di calcio getta con preveggenza un ponte tra un fascismo mai morto («Viva il Duce!» grida infine uno dei «mostri» gassmaniani in abiti femminili) e la mediocrità e la volgarità del berlusconismo a venire18.
Un po’ imprecisa (non è in abiti femminili il «mostro» che grida «Viva il Duce!»), e tuttavia assai efficace nel siglare la mutata percezione del film nell’arco di quarant’anni. La chiave per districarsi tre le trappole dell’insidioso finale è ora quella cara ai fautori della tesi del «disastro antropologico». Di una inarrestabile deriva della società italiana che, modernizzandosi, tradisce i propri valori e spiana la strada all’arrivo dei «barbari», alle televisioni private, alla volgarità a venire del berlusconismo. D’altro canto, nel 2009, scrivere che «Bonifazi rifiuta di essere neutrale perché tutti i giudici fanno politica», appare di certo meno opportuno. Ma allora, cosa «prefigurava» il film di Dino Risi? Al pari del Sordi giustiziere di Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977), e dunque in piena sintonia con il clima del cinema italiano degli anni Settanta, Bonifazi agisce in nome di uno scollamento tra Stato e cittadino. Solo che quando il cittadino è un commissario-assassino, come in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, o un giudice che insegue un’idea etica di giustizia e che calpesta il diritto, le cose si complicano. L’Io si scinde tra il dovere del ruolo e l’insopprimibile desiderio di rivolta contro di sé, cioè contro la propria maschera (nel caso di Indagine) o contro «i limiti della giustizia», nel caso di In nome del popolo italiano. Tuttavia, di quali limiti si tratta? Il gesto di Bonifazi diventa, anzitutto, l’oscura allegoria dell’enorme potere di cui godono i giudici in Italia, prima che dell’uso politico della giustizia. Se di antropologia nazionale si vuole parlare, allora proprio qui bisognerebbe 18. T. Masoni, P. Vecchi, La commedia. Primi segnali di decadenza, cit., p. 110.
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interrogare quel patto scellerato tra la società civile e il celeberrimo j’accuse di Pasolini: «So i nomi ma non ho le prove», emblema di un’incuranza per i fatti e di una fascinazione per il verdetto morale, questa sì, tutta italiana. Il seguito di questo noto articolo, come si ricorderà, è anche peggio: «Io so perché sono un intellettuale […] che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero quadro politico»19. Sull’onda emotiva e lo sdegno collettivo per i terribili attentati che insaguinavano l’Italia (l’articolo di Pasolini è del 1974), un articolo del genere poteva anche essere perdonabile, per quanto sconclusionato. Invece, come ricorda Pierluigi Battista, questa posa è stata più che perdonata; è stata lodata come «luminoso esempio di temerarietà culturale», mentre semmai – e oggi ci appare in modo chiaro – essa è «l’emblema della ferocia giustizialista», del «manicheismo morale», della «debordante sopravalutazione di sé, del proprio ruolo, della propria abnorme missione profetica. Cosa sapeva Pasolini? Niente. Ma anche tutto, dal punto di vista della religione di cui era guardiano»20. Bonifazi è la dimostrazione che in questa dimensione patologica del giustizialismo le prove, in fondo, non contano. Anzi, possono quasi diventare un ostacolo, se non assecondano lo schema precostituito, i dogmi e le semplificazioni ideologiche con cui si cerca di leggere i conflitti di una società complessa. Come ricordava recentemente Massimo Bordin: «Quarant’anni dopo litigo ancora con quelli che sostengono che il finale di quel film è “di sinistra”. Quel film racconta, vent’anni prima, come Tangentopoli abbia prodotto in politica il fenomeno Berlusconi, che somiglia a quel Gassman, e in magistratura la cultura di pubblici ministeri che somigliano a quel Tognazzi. Cose con le quali la sinistra, in tutte le sue accezioni, non c’entra nulla»21. È vero. Ma se In nome del popolo italiano prefigura qualcosa (oltre alla prima storica vittoria dell’Italia sull’Inghilterra, che il film immagina con due anni di anticipo), quel qualcosa non è riducibile a Tangentopoli, se non a patto di inserire l’evento in un più ampio e complesso passaggio storico che chiama in causa non tanto e non solo le mutazioni interne alla cultura della sinistra, quanto una radicale trasformazione della democrazia e dell’aspettativa politica della cittadinanza:
19. P.P. Pasolini, Che cos’è questo Golpe?, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, poi confluito, con il titolo Il romanzo delle stragi, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp. 111-117. 20. Le citazioni sono tratte da P. Battista, I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia, Rizzoli, Milano 2010, pp. 95-96. 21. M. Bordin, Tangentopoli. La profezia di Risi, «Il Riformista», 18 febbraio 2012.
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L’irrompere sulla scena dell’attivismo giudiziario non è che la punta dell’iceberg di un movimento profondo. Non si tratta di un trasferimento di sovranità a favore del giudice, ma di una trasformazione della democrazia. I giudici non godrebbero di una tale popolarità se non si trovassero di fronte a una nuova aspettativa politica di cui divengono i campioni e se non incarnassero un nuovo modo di concepire la democrazia. L’origine di questo movimento nell’ultimo decennio va ricercata più che nel diritto stesso nella nuova percezione dell’immaginario democratico. Il diritto è diventato il nuovo linguaggio attraverso cui si riformulano le richieste politiche che, deluse da uno Stato che tende a ritirarsi sempre di più, si rivolgono in maniera prepotente verso la giustizia22.
Le peculiarità del contesto italiano, un contesto in cui a uno Stato debole, a lungo schiacciato dalla politica, ha fatto seguito anche il progressivo venir meno della politica e delle ideologie classiche su cui questa si reggeva, rende tale passaggio storico particolarmente insidioso. In tal senso, si può dire che il film di Dino Risi ci offre un’inquietante allegoria della via italiana a questa «nuova percezione dell’immaginario democratico». Un’allegoria che a conti fatti appare assai riduttivo, quanto comodo, relegare nell’orizzonte di un passato seppure recente qual è quello di Tangentopoli.
22. A. Garapon, I custodi dei diritti, Feltrinelli, Milano 1997, p. 25.
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Una verità piuttosto complicata. Diritto e rovescio della medaglia in Damiano Damiani ANTON GIULIO MANCINO
Non avevo speranze. Però viveva in me l’attesa, l’ultima cosa che mi fosse rimasta. Che appagamenti, che beffe, che torture potevo ancora aspettarmi? Non lo sapevo, e persistevo nella fede irremovibile che l’epoca dei miracoli crudeli non era trascorsa. Stanislaw Lem, Solaris
1. Assunzione di responsabilità Basta di Damiano Damiani enunciare l’impegno civile? O riconoscere come un dato di fatto, una faccenda chiusa a monte, l’aver affrontato argomenti quali l’evoluzione del fenomeno mafioso e l’involuzione della società civile o i rapporti tra criminalità organizzata e politica? O ancora le escrescenze torbide e trasversali a qualsiasi livello del potere nel contesto storico italiano, nei modi del romanzo popolare, intriso di azione e di risvolti privati? Un insieme di luoghi comuni, giustamente fatto notare: «Regista civile, impegnato, di denuncia, al centro del dibattito critico e politico». Ancora: «Regista di fatti, solido narratore, “il più americano dei registi italiani”, un po’ per le ascendenze da lui stesso dichiarate, un po’ secondo un’etichetta critica che per anni verrà declinata con diverse sfumature, a volte sottilmente limitative: il narratore di storie, artigiano ma non artista»1. Formule che naturalmente nascondono una tradizionale e consolidata incomprensione, frutto di una disistima di fondo. Di prospettiva ideologica o di categoria, che spiega perché «Damiani non è mai diventato un classico: in parte, agli occhi dell’accademia, ha pagato la sua natura di narratore puro, poco interessato (nelle dichiara-
1.
A. Pezzotta, Regia Damiano Damiani, Centro Espressioni Cinematografiche, Udine 2004, p. 7.
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zioni pubbliche, ma non nei fatti) a questioni di estetica o di poetica, troppo compromesso con il cinema di genere»2. Le condizioni di un’assunzione di responsabilità cinematografica circa i gravi fatti della storia politica e istituzionale italiana, mentre da tempo si discute nelle sedi appropriate di un progetto di riforma del codice di procedura penale vigente, sono invece quelle che lo stesso Damiani dichiara, ammettendone la spregiudicatezza e la fondamentale impertinenza, nel suo film più apertamente autocritico e autoriflessivo: Perché si uccide un magistrato (1975). Dove, nell’affrontare a posteriori il caso dell’omicidio «eccellente» del controverso procuratore capo della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, avvenuto il 5 maggio 1971, quindi a quattro anni di distanza dall’avvenimento, non può esimersi dall’interrogarsi in primo luogo con cognizione di causa sugli strumenti del proprio mestiere di regista. Delle armi proprie e improprie di chi fa del cinema una cassa di risonanza politico-indiziaria in Italia discute infatti il regista Solaris, alter ego ideale di Damiani, con il procuratore Traini, alter ego di Scaglione: traini: Lei è giovane per il successo che ha avuto. Ma veniamo al dunque: il procuratore del suo film sono io, sì o no? solaris: Beh, decida lei se vuole riconoscersi o meno. traini: Sarebbe stato più onesto se gli avesse dato il mio nome, chiaro e tondo. solaris: Ma il film sarebbe stato immediatamente sequestrato. E invece io voglio che il pubblico lo veda. traini: E impari a disprezzare la giustizia. solaris: Al contrario: ad amarla, ad esigerla. traini: Vede, un mio giovane sostituto, anche lui pieno di sacro fuoco, ha steso contro di lei una denuncia per vilipendio della magistratura. Lei ha fatto molte false accuse contro di me. Sa cosa le chiederebbero prima di tutto in tribunale? solaris: Le prove. traini: Ne ha? solaris: Facciamo il processo e lo sapremo. traini: Allora ha fiducia nella giustizia? solaris: No, ho fiducia nello scandalo. Sulla sentenza non mi faccio illusioni. traini: Prevede una condanna? solaris. Al novanta per cento. traini: Lei ha girato alcune scene al nostro carcere. Ma dentro, come detenuto, c’è mai stato? 2.
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Ivi, p. 8.
anton giulio mancino
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solaris: Pensi che il direttore del carcere, sapendo che film facevo, mi disse per scherzo: «Chissà che un giorno non la vedremo qui come ospite fisso». traini: Questo è il prezzo che lei è disposto a pagare pur di vedere un magistrato portato in tribunale. E non importa poi che venga assolto o condannato. È già l’accusa motivo di vergogna e di discredito. Mi dispiace deluderla (strappando la denuncia), signor Solaris, ma, vede, noi magistrati siamo come i militari di carriera che hanno orrore della guerra, mentre i borghesi sognano sempre i campi di battaglia. Lei ha avuto molte facilitazioni durante le riprese. solaris: Ho molti amici qui. Si figuri che anche un piccolo mafioso mi ha dato una mano. traini: E anche la Polizia l’ha aiutata. Lei conosce il commissario Zamagna... solaris: Zamagna… Ah, sì sì, quello della Mobile. Sì, ci è venuto incontro. Ma solo dopo aver avuto l’autorizzazione da Roma. Un funzionario molto severo.
In Perché si uccide un magistrato, il cui titolo potrebbe tranquillamente essere parafrasato in «Perché in Italia si realizza un film sull’uccisione di un alto magistrato», l’autore sembrerebbe aver riversato il turbamento conseguente al successo commerciale inaspettato del suo precedente Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971)3, successo favorito dall’uccisione il 5 maggio 1971 di Scaglione. Attenzione però al curioso ribaltamento delle parti, non infrequente nella sua filmografia: in Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica Traini era il cognome del giovane e rigoroso sostituto procuratore, in conflitto con l’anziano e disilluso commissario giustiziere Bonavia, mentre in Perché si uccide un magistrato Traini è il magistrato anziano colluso con i poteri forti, politici e mafiosi. Non solo: in Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica è Franco Nero a interpretare il primo Traini, quello onesto, che scopre troppo tardi la disonestà dell’anziano procuratore capo che allude alla figura di Scaglione; viceversa in Perché si uccide un magistrato sempre Franco Nero passa dall’altra parte, vestendo i panni del temerario Solaris che, in nome stavolta del libero convincimento indiziario di cui come regista si è appropriato, vuole costringere il secondo Traini, quello disonesto, copia conforme cinematografica di Scaglione, a uscire allo scoperto, riconoscendosi nel personaggio del film Inchiesta a Palazzo di Giustizia. Questo film nel film, che fin dal titolo si richiama al dramma di Ugo Betti 3. Il film di Damiani – lo ricordiamo – aveva ottenuto il visto di censura il 26 marzo 1971, giorno in cui avviene anche la prima proiezione pubblica. Cfr. A. Pezzotta, Regia Damiano Damiani, cit., p. 224.
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scritto nel 1944 e rappresentato per la prima volta nel 1949, Corruzione a Palazzo di Giustizia (con la non casuale sostituzione del sostantivo «Corruzione» con il più metodologico «Inchiesta»), è interpretato daccapo dal Claudio Gora di Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, ora però nei panni metafilmici del nuovo Traini, che in Perché si uccide un magistrato fa o meglio farebbe – il condizionale è d’obbligo per chi fa il mestiere di Solaris/Damiani – le veci di Scaglione. La mise en abîme attuata dal regista che dice non dicendo porta a comprendere come i ruoli dei personaggi e le funzioni di accusatore e accusato, nonché lo stesso libero convincimento nel gioco delle inferenze investigative e nella formulazione dei giudizi, possano avvicendarsi nella moltiplicazione e nella stratificazione dei livelli di finzione che prendono comunque le mosse dalla realtà, sebbene discostandosi opportunisticamente nelle scelte onomastiche dei personaggi o nei riferimenti diretti. 2. Codice di procedura Su questo versante Damiani, più di qualsiasi altro collega cui solitamente viene accostato, ha scelto di spingersi oltre il camuffamento minimo di fatti e personaggi. Una volta individuati e resi sufficientemente riconoscibili i richiami alla cronaca e alla storia politico-giudiziaria, punta alla reinvenzione romanzesca totale, elabora ex novo una trama fantasiosa, oscura e insidiosa, le cui ragioni ultime e sostanziali vanno cercate comunque dentro il preciso e veritiero quadro di partenza. In pratica, fa sì che questo gioco reversibile delle parti diventi pienamente comprensibile solo se inserito nel contesto della giustizia italiana di quegli anni, dove una serie di circostanze procedurali possono indurre un regista a sostituirsi al magistrato nella conduzione di una emblematica, parallela «inchiesta a Palazzo di Giustizia», ovvero di un processo indiziario: il Traini buono di una volta diventa così il volenteroso Solaris, mantenendo la fisionomia dell’attore ed ereditandone la propensione per l’istruttoria. Un processo indiziario che sul grande schermo può permettersi di difettare di riscontri pieni e prove concrete ma senza conseguenze sul piano penale per l’imputato presunto innocente. Così come l’uccisione di Scaglione, dopo l’uscita di Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica, non ne è per ovvie ragioni la diretta conseguenza, anche quella di Traini in Perché si uccide al magistrato obbedisce a uno schema allusivamente alternativo alle ipotesi più accreditate: anziché delitto di stampo mafioso-politico, come nel caso (di) Scaglione, si 86
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scopre alla fine essere stato un delitto passionale. Che – date le circostanze e gli eventi esterni a tutti noti – obbliga il regista e lo spettatore, al di là di ogni legittima e giustificata certezza morale a riflettere in primis sull’esigenza intellettuale, morale e civile di evitare qualsiasi forma di ben più pericoloso determinismo indiziario. Il contrario di quanto previsto dal vecchio codice di procedura penale protrattosi dal 1930 al 1988, che tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, cioè fino alla legge delega n. 108 del 1974 – ed ecco rispecchiamento non di contorno dei film di Damiani nella realtà – è stato il traguardo relativo di un progetto di lenta e laboriosa riscrittura che porterà all’emanazione del nuovo codice4. Per essere più precisi e chiari, va ricordato che i primi segnali legislativi di una volontà concreta di controtendenza rispetto alla logica colpevolista di cui era ostaggio il processo misto si ebbero nel 1955, nel 1960 e nel 1974. Queste date, da sole, ci aiutano a comprendere molte cose: 1) la cornice in cui si iscrivevano alcuni clamorosi casi giudiziari e i «gialli» garantisti italiani girati nella prima metà degli anni Cinquanta5 e la sceneggiatura di Un uomo in prigione scritta nel 1953 dal celebre giurista e avvocato Francesco Carnelutti, che molto si era speso attraverso una serie di convegni ad hoc sui rapporti tra il cinema e le questioni di pubblico interesse e maggiore urgenza (civiltà, giustizia, sesso, libertà e società)6; 2) perché l’allora ministro della giustizia, l’onorevole Guido Gonella, dopo aver partecipato ai convegni carneluttiani che prendevano le mosse proprio dal cinema, avesse istituito il 14 gennaio 1962 e insediato il 3 febbraio seguente un’apposita Commissione per la riforma del codice di procedura penale presieduta dallo stesso Carnelutti7; 3) il senso attuale e attuativo di due film carcerari del 1971 intrisi di umori politico-indiziari come Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy e L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre di Damiani. O del film di Damiani immediatamente successivo, Girolimoni – Il mostro di Roma (1972) che tracciava una linea di continuità tra il presente, ancorato ai vecchi codici penali e soprattutto di procedura penale, e il non lontano 1927 in cui si era consumato il calvario di Gino Girolimoni, che anticipava nella sua prassi fascista l’emanazione e l’entrata in vigore dei codici Rocco. Per avere un’idea 4. Cfr. in particolare G. Conso, Precedenti storici ed iter della legge n. 108 del 1974, in G. Conso, V. Grevi, G. Neppi Modona, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, vol. I, Cedam, Padova 1989, pp. 3-75. 5. Cfr. A. Farassino, Viraggi del neorealismo: rosa e altri colori, in L. De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano, 1949/1953, vol. VIII, Marsilio/Bianco e Nero, Venezia-Roma 2003, pp. 211-217. 6. Cfr. A.G. Mancino, Il processo della verità, cit., pp. 48-166, e in particolare p. 114 n. 7. Cfr. G. Conso, Precedenti storici ed iter della legge n. 108 del 1974, cit., pp. 4-7.
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dell’oggetto del contendere e della sua evoluzione sul piano democratico non occorre far altro che confrontare i corrispondenti articoli relativi alla sentenza di assoluzione. Nel secondo comma dell’articolo 479 del Codice di procedura penale del 1930 «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, tanto nel caso in cui vi è la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, quanto nel caso in cui manca del tutto [corsivo nostro] la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso»; nel secondo comma dell’articolo 502 del Progetto preliminare del 1978, prefigurato dalla suddetta legge delega del 1974 preparata dal dibattito degli anni immediatamente precedenti in cui si iscrive l’azione di L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre e di Girolimoni – Il mostro di Roma: «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca o è insufficiente [corsivo nostro] la prova che il fatto sussiste, che l’imputato l’ha commesso o che il fatto costituisce reato»; nel secondo comma dell’articolo 530 del nuovo Codice di procedura penale del 1988, in vigore dal 24 ottobre 1989: «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria [corsivo nostro] la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». Insomma, il passaggio della prova, che ai fini dell’assoluzione dell’imputato deve «mancare del tutto» nel vecchio Codice, in più essere «insufficiente» nel Progetto preliminare, o infine anche «contraddittoria» secondo il nuovo Codice, la dice lunga sul percorso culturale, giuridico e politico che la procedura penale ha dovuto affrontare e sull’esigenza di fondo che ha portato Damiani nell’arco di decenni a seguire «il fenomeno mafioso con costanza nella sua evoluzione»8, senza perdere di vista la sequenza parallela di «pasticciacci brutti» italiani al centro di un intreccio di aspetti politici, giudiziari, criminali e finanziari di difficile soluzione. Damiani ha fornito film dopo film, tra passi falsi e ripensamenti («La messa in scena dei delitti oggi [nel 1993] mi interessa di meno, sono come i nudi al cinema: noiosi quando si pensa di metterli perché funzionano sempre»9), una camera di compensazione di affari e casi di ogni tipo ed epoca, mescolandoli, sovrapponendoli, sparpagliandoli come le tessere di un mosaico non ricomponibile, variando appositamente tempi, luoghi e personaggi non per depistare o confondere ma per dare la misura esatta di depistaggi e confusioni, offrendo magari 8. D. Damiani, «Racconto storie di gente comune coinvolta in fatti straordinari», intervista a cura di A.G. Mancino, in «Paese Sera», 27 aprile 1993. 9. Ibidem.
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l’occasione per effettuare un’analisi comparata delle analogie, una ricognizione esatta e circostanziata sul meccanismo dell’eterno ritorno dell’uguale, a uso e consumo dell’intricata rete di differenze effettive nelle ripetizioni e di ripetizioni altrettanto effettive nelle differenze10. 3. Diritto e rovescio La filmografia di Damiani obbliga dunque a prestare molta attenzione alla fitta serie di richiami e implicazioni puntuali, che pure esistono e non possono essere elusi. Ecco perché a queste condizioni i suoi film possono dirsi opere riflessive. In tutti i sensi a) riflettono effettivamente, non in maniera superficiale o semplicemente mimetica vicende e iter legislativi; b) inducono lo spettatore e gli organi competenti a riflettere di concerto; c) si riflettono a vicenda, delineando un perfetto sistema di rimandi incrociati. Donde l’esigenza di Damiani di incarnare in prima persona questo principio garantista, al di là dell’evidenza, del buon senso e di ogni ragionevole dubbio: come attore, in L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre, Perché si uccide un magistrato, La piovra (1984), egli infatti interpreta il personaggio dell’avvocato non necessariamente simpatico o schierato dalla parte giusta, a dimostrazione della concreta possibilità di sbagliare proprio quando ci si crede nel giusto o si crede di combattere ciecamente per la giusta causa. Questa terzietà, non importa se piacevole o spiacevole dell’autore rispetto alle cause sacrosante, quelle in cui egli stesso crede come cittadino e intellettuale indignato del malfunzionamento della giustizia italiana, si rende dunque indispensabile. Specialmente come linea di principio ammonitrice o se si vuole come atteggiamento mentale autoimposto teso a sconfessare certezze assolute pronte a degenerare in pratiche inquisitorie e autoritarie, supportate – come si è detto – dal vecchio codice di procedura penale. Di sviste, dettate dall’improntitudine, da rigidi teoremi, dal sospetto contagioso o dalla malafede, sono pieni i suoi film: ne Il rossetto (1960) la ragazzina che dichiara di aver riconosciuto l’omicidio dapprincipio non viene creduta ed è vilipesa; ne Il giorno della civetta (1968) l’eccessiva sicurezza e i metodi non ortodossi del capitano Bellodi sortiscono effetti controproducenti nell’indagine e lo smacco finale; in Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica e L’avvertimento (1980), rispettivamente il commissario e 10. Cfr. G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaries de France, Paris 1968; trad. it. Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
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il giudice, il commissario e il questore diffidano l’uno dell’altro per quasi tutto il tempo; in L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre l’architetto è ritenuto colpevole fino a prova contraria, incarcerato e scambiato da subito dal direttore della prigione per un comune omicida; in Girolimoni – Il mostro di Roma il protagonista, al centro di un errore giudiziario grossolano e politicamente pilotato, rinuncia alla fine ad accanirsi persino contro un prete pedofilo ma non responsabile degli omicidi delle bambine; in Perché si uccide un magistrato tutti sembrano convinti che il delitto Traini sia opera della mafia su mandato politico, mentre alla fine si scopre essere un delitto privato; in Goodbye & Amen (1977) tutti sono certi per molto tempo, e a torto, che il tiratore scelto e serial killer nascosto nell’albergo sia il funzionario infedele della Cia che si è comunque deciso di eliminare senza dare troppo nell’occhio; in Un uomo in ginocchio (1979) viene commissionato il delitto dell’innocente protagonista solo perché un capomafia lo ha considerato, sempre a torto, un fiancheggiatore della famiglia rivale implicato in un rapimento; in La piovra il commissario lascia credere a tutti di essere un funzionario corrotto, fingendo di conseguenza, solo per salvare la figlia rapita. E così via. Damiani, da strenuo difensore (anche d’ufficio, nella finzione) dell’impianto non più inquisitorio ma accusatorio, completamente pubblico e paritario nel rapporto tra accusa e difesa, definitivamente recepito nel nuovo codice nel 1988, ci tiene a relativizzare dagli anni Sessanta in poi, partendo provocatoriamente anche da sé stesso, i metodi anche occasionali o i risultati parziali dei suoi – a seconda dei casi – suggestivi o deprecabili protagonisti di riferimento: carabinieri, scrittori, poliziotti e magistrati che possono per sbaglio scambiarsi le automobili (Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica) o giornalisti-registi che si sostituiscono ai giudici o che li condannano sulla pagina e sullo schermo (Perché si uccide un magistrato), non fa differenza, sono tutti materialmente o potenzialmente giustizialisti che agiscono o interagiscono in Il giorno della civetta, Confessione di un commissario al procuratore della Repubblica, Girolimoni – Il mostro di Roma, Perché si uccide un magistrato, Io ho paura, L’avvertimento, La piovra, L’inchiesta (1987), L’angelo con la pistola (1992). Un elenco, questo, approssimativo per difetto poiché a un’attenta analisi sono molti altri i personaggi chiave della filmografia di Damiani attraverso i quali prende forma l’urgenza di arginare la sicurezza eccessiva nel perseguimento indiziario di una verità presunta in grado di (pre)giudicare fatti e persone sulla base di coincidenze, nel mondo reale, o di costringenze11, nel sistema testuale del film. Questa 11. In J.S. Petöfi, Scrittura e interpretazione. Introduzione alla Testologia Semiotica dei testi ver-
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anton giulio mancino
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costante suggerisce all’autore di sforzarsi in ogni modo e in ogni occasione di reagire con slancio liberatorio a un’idea conservatrice, mistica e trascendente della verità, ben sintetizzata nel paradigmatico Il sorriso del grande tentatore. In generale nei suoi film la posta in gioco, gioco pericoloso, senza esclusione di colpi, anche esistenziale ed esiziale, distruttivo e autodistruttivo, privo di alibi artistici e creativi (Gioco al massacro, 1989), è la fuga in extremis: dalla «grande tentazione» sempre «sorridente» di ristabilire la verità partendo da un istintivo, intimo, individuale e quindi tanto più precario e rischioso convincimento; o da luoghi chiusi, inquietanti e maledetti, dapprincipio attraenti o accoglienti, siano essi palazzi antichi in cui si consumano pratiche stregonesche (La strega in amore, 1966), sinistre strutture carcerarie dove è più facile essere uccisi, dimenticati o ricattati (Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica; L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre; Girolimoni – Il mostro di Roma), anche solo paventate (Perché si uccide un magistrato; Un uomo in ginocchio; Io ho paura), spiazzanti istituti religiosi (Il sorriso del grande tentatore), case d’oltreoceano infestate da presenze occulte (Amityville Possession), hotel di lusso (Goodbye & Amen; L’avvertimento), dimore invidiabili (Gioco al massacro). Connesso all’istinto di tirarsi fuori dalla trappola è l’imperativo categorico delle parabole misteriche e insidiose di Damiani: una sfida a tutto campo lanciata a forme ben più temibili della stregoneria (La strega in amore), della tentazione (Il sorriso del grande tentatore) e della possessione (Amityville Possession). Una sfida, in tutti i contesti rappresentativi concepibili, lanciata all’entità diabolica per eccellenza: la verità intesa come strumento inquisitorio, cui è possibile non soggiacere a patto di operare un capovolgimento perpetuo e renderla sempre ipotetica, falsificabile e discutibile, come democratico argomento accusatorio. 4. Falsificabilità Con Damiani è sempre così: basta un segnale qualsiasi, mimetizzato per esempio nella trama sociologica e licenziosa de La rimpatriata, contemporaneo del rosiano Le mani sulla città (1963), per riportare il discorso sul bali, Carocci, Roma 2004, p. 100, la «costringenza» assume un significato particolare: «indica una rete continua e completa di stati di cose che costituiscono un frammento di mondo; valutare un frammento di mondo come costringente (una rete di stati di cose come continua e completa) dipende prevalentemente dalla conoscenza e dalle presupposizioni e aspettative dell’interprete per quanto riguarda il/i mondo/i accettabile/i come interpretazioni di primo e/o secondo grado in un determinato caso, e non dalla “costituzione linguistica” del vehiculum da interpretare».
una verità piuttosto complicata
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compulsivo «demone» civile, capace di condizionarne fisiologicamente un’intera filmografia. E rimettersi sul binario prediletto dello sbaglio eternamente possibile, delle false, diaboliche piste sempre da falsificare scientificamente, come prescritto da Karl Popper agli inizi degli anni Settanta12. L’autore del paradigmatico Perché si uccide un magistrato, immedesimandosi nel giornalista-regista cui demanda un’«inchiesta a Palazzo di Giustizia», a quest’opera di smantellamento di verità precostituite si dedica sistematicamente, con piglio provocatorio e terapeutico ogni qualvolta gli si presenta l’occasione, attraverso la complementare ricerca di una verità altra, improbabile, poco credibile o spendibile. Mai però impossibile. Non importa se paradossale, fuori dalla realtà plausibile o dall’opinione comune, dentro un contesto torbido come quello italiano segnato da un fascismo di lunga durata: «Altrimenti in che cosa saremmo stati diversi da Traini?» dice Solaris alla fine del film. Non sorprende che un atteggiamento fermamente negativo, disgustato e intransigente verso la falsità consapevole e trionfante venga affidato alla voce del Bellodi interpretato dal chiaroscurale Franco Nero, nomen omen, nel film che inaugura il filone mainstream di Damiani: Il giorno della civetta. E che permette allo scontro frontale tra lo Stato e la mafia di assumere i contorni di un morality play ai limiti del western o del film d’azione, con i due diretti avversari, Bellodi e don Mariano, rispettivamente al di qua e al di là della legge e della sua credibilità, la preziosa posta in gioco sul territorio siciliano e nazionale. Due «uomini» equivalenti ereditati dalla pagina di Sciascia e schierati sui lati opposti di una piazza siciliana molto teatrale ma anche molto cinematografica, da dove è possibile con il binocolo realizzare inquadrature strette e larghe: bellodi: Maresciallo. maresciallo: Comandi. bellodi: Prepari una falsa confessione di Pizzuco. Deve dire che è stato Zecchinetta a uccidere Colasberna. Una confessione che deve essere un’opera d’arte. Un trattato di codice mafioso. Un verbale che quando Zecchinetta lo legge deve sentirsi tradito. maresciallo: E se confessa prima Pizzuco? bellodi: No, non ci speri. Zecchinetta casca prima. Prepari il verbale. Maresciallo: E la firma?
12. Cfr. K. Popper, Conjectures and Refutations, Routledge and Kegan Paul, London-Henley 1972; trad. it. Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972.
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bellodi: E che vuole mettere una firma autentica in un verbale falso? Firmi lei, no! maresciallo: Ma se è per questo, io mi diverto. Sono bravo a imitare le calligrafie. Vedrà, sarà fatto un buon lavoro, signor capitano. bellodi: Sì, ma facciamolo senza troppo goderne. Con un po’ di schifo almeno.
Alla falsità soddisfatta e non abbastanza «schifata» Damiani contrappone la falsificazione obbligatoria di ogni teorema euristico solitario ed egoista esteso bene o male alla collettività, in grado di produrre effetti incalcolabili, magari terribili: a partire dalle esistenze private fino a informare di sé la struttura politica dello Stato pronta a instillare il sentimento della vendetta in seno alle masse popolari per far dimenticare altri crimini secondo la prassi della fascistizzazione della società italiana, dalla parabola storica in chiave contemporanea di Girolimoni – Il mostro di Roma a quella spionistica di Goodbye & Amen dove un funzionario della sede romana della Cia, affacciandosi a una finestra di fronte a Palazzo Venezia, chiede: «È quello il famoso balcone da cui Mussolini faceva i discorsi?». Lo stesso esempio de Il giorno della civetta spiega la reazione immediata, fisiologica del regista friulano verso la mistificazione, qualsiasi forma di mistificazione intesa come contaminazione dell’anima e del sistema. Ed è stata proprio questa trasposizione cinematografica di un’opera letteraria di prestigio, più di quelle pregresse de L’isola di Arturo (1962) e La noia (1963), a consentire all’autore di dire da quel momento e a pieno titolo la sua, di scoprirsi e avviare un processo di certificazione o di «conguaglio continuo» – come lo chiamava Cesare Zavattini, co-sceneggiatore de Il rossetto, Il sicario e L’isola di Arturo – tra il cinema e la verità. Il giorno della civetta è perciò il film che assieme a Quien sabe? (1966), western anch’esso di facciata, emblematico fin dal titolo interrogativo del quesito conoscitivo, consente a Damiani una dichiarazione di fede laica nella verità a qualunque costo. Una verità non irrigidita né irreggimentata, ma contorta e sconcertante, senza equivoci o compromessi comunque omertosi o mafiosi. Damiani raggiunge questo risultato, destinato a connotare indelebilmente la filmografia successiva, senza tradire nella sostanza l’assunto di Sciascia, indipendentemente dalla relativa fedeltà letterale al testo originale13.
13. Per un confronto puntiglioso tra il romanzo di Sciascia, la sceneggiatura di Pirro e Damiani e il film definitivo cfr. E. Comunzio, La macchina da presa è un’altra penna. Dai romanzi Il giorno della civetta e A ciascuno il suo ai film relativi attraverso la sceneggiatura: proposta di analisi testuale, in S. Gesù (a cura di), Leonardo Sciascia, Giuseppe Maimone Editore, Catania 1992, pp. 59-79.
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Dove, a proposito del documento falso prodotto dai carabinieri che vogliono incastrare il sicario e il mandante mafioso legato al capomafia, si legge: Era un falso magistrale, di perfetta verosimiglianza relativamente ad uomini come il Pizzuco, ed al Pizzuco in particolare: ed era nato dalla collaborazione di tre marescialli. E il tocco più sapiente era dato dall’ultima affermazione attribuita al Pizzuco: l’assoluta esclusione della possibilità che esistessero mandanti. Il nome di Mariano Arena, in quel falso verbale, sarebbe stato un passo irrimediabilmente falso: la nota stonata, il dettaglio inverosimile; e il giuoco si sarebbe sfasciato nella diffidente valutazione del Marchica. Ma la precisa tecnica di rovesciare in basso, cioè sul Marchica, ogni colpa, recisamente negando le proprie e respingendo il sospetto che ci fossero dei mandanti, al Marchica diede l’angosciosa certezza della autenticità: e anzi nemmeno per un istante ne dubitò, la voce del brigadiere che leggeva il documento adattandosi come colonna sonora alla muta visione in cui, attraverso la finestra, era stato spettatore14.
5. Da Pasolini a Bergman L’asse Sciascia-Damiani si rafforza a un certo punto talmente tanto che la polarità si inverte, diventa reversibile generando un sistema di vasi comunicanti: non solo si va da Sciascia a Damiani (Il giorno della civetta, dal libro al film) ma anche da Damiani a Sciascia: con Io ho paura stavolta è Damiani a suggerire a Sciascia la chiave per smascherare il colpevole nel romanzo breve Una storia semplice, con cui «si comincia e […] cominciamo tutti ad accettare lo status di vera letteratura per i gialli»15 e in cui l’indagine partita dalle lettere di Pirandello, è sempre in Pirandello – a detta del professor Franzò pronto a ridimensionare le frettolose conclusioni del brigadiere – che trova inevitabilmente il suo parziale e velleitario scioglimento. Cioè a proposito del commissario omicida che si tradisce accendendo a colpo sicuro un interruttore nascosto nella villa dell’uomo assassinato dove ha detto di non essere mai stato: «Forse un fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a sé stesso». Ed enigmaticamente, come parlando tra sé, aggiunse: «Pirandello». 14. L. Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961, p. 71. 15. M. A. Bonfantini, Il giallo e il noir, Moretti & Vitali, Bergamo 1990, p. 106.
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«Voglio raccontarle tutto quello che, partendo ora dall’interruttore, sto mettendo aritmeticamente insieme». «Aritmeticamente…» sorrise il professore. «Ma vi sciolga sempre qualche dubbio»16.
Si ripete così il copione di Io ho paura dove Graziano coglie in fallo un testimone che verifica istintivamente l’ora su un orologio a muro dentro un fabbricato nel quale ha dichiarato di non aver mai messo piede. A confermare la circolarità di questo protocollo d’intesa tra Sciascia e Damiani e tra Damiani e Sciascia, l’attore Gian Maria Volontè interpreta sia l’acuto brigadiere di Io ho paura che l’acuto professore nella trasposizione del romanzo Una storia semplice (1991) di Emidio Greco. Sciascia e Damiani condividono inoltre – lo si è visto – anche la centralità del «dubbio». L’eccessiva certezza del brigadiere Lagandara di Una storia semplice, scaturita dalla concatenazione «aritmetica» dei fatti indiziari ostacola il raggiungimento della piena e tentacolare verità, intuita invece dal brigadiere Graziano di Io ho paura, che tuttavia soccombe alla fine per una telefonata di troppo, alquanto imprudente, durante la quale al suo diretto superiore e amico parla con le stesse parole di Pier Paolo Pasolini gran conoscitore dei retroscena delle stragi italiane, troppo citato, spesso e volentieri a sproposito17: la rosa: Perché hanno tentato di ucciderti? graziano: Perché so, per caso so, so delle cose, so le cose che aveva scoperto il giudice Concedda… [comincia uno zoom in avanti dal mezzo primo piano al primo piano] so chi ha fatto mettere le bombe sul treno di La Spezia, so chi manovra, so…
Secondo il Damiani in Io ho paura, dove si lascia intendere che anche Pasolini non solo «sapeva» ma disponeva di «prove» concrete e fatali «indizi», o secondo lo Sciascia in Una storia semplice, la cui prima edizione è del novembre 1989, di poco successiva all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che dal 24 ottobre 1989 appunto sostituiva al vecchio impianto inquisitorio quello accusatorio, di sicuro c’è solo il rischio connesso all’affermazione soddisfatta ma prematura della verità. Senza contare che la prudenza nell’esprimerla compiutamente non è mai abbastanza. Intuendo 16. L. Sciascia, Una storia semplice, Adelphi, Milano 1989, p. 55. 17. Cfr. P.P. Pasolini, Che cos’è questo golpe, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, poi confluito, con il titolo Il romanzo delle stragi, in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp. 111-117.
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la logica perversa delle cose italiane, complicate dalla disparità tra accusa e difesa nel processo misto, infestate da colpi di scena, e di spugna, o da complicazioni di ogni sorta, ecco che entrambi – per reazione scettica – il regista e lo scrittore, a loro modo legati, non hanno esitato, da intenditori, a configurare all’occorrenza la verità più sconvolgente e inesprimibile in termini metafisici. Con intrecci e cognomi immaginari che finiscono con la consonante «s». Come quelli di Corruzione a Palazzo di Giustizia di Betti. Sciascia lo ha fatto nel romanzo Il contesto (1971), uscito a sua volta qualche mese dopo l’uccisione di Scaglione; Damiani invece in Perché si uccide un magistrato, identificandosi nel suo Solaris, il regista investigatore di Inchiesta a Palazzo di Giustizia, reo involontario di aver anticipato cinematograficamente il delitto eccellente di Traini/Scaglione, sulla falsariga di Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica. Daccapo il cerchio si chiude curiosamente: con la trasposizione del romanzo di Sciascia, Cadaveri eccellenti (1976), in cui Rosi sceglie nei panni del presidente della Corte suprema Riches un attore bergmaniano, Max von Sydow, come farà di lì a poco Damiani in Io ho paura con il giudice Concedda, interpretato da Erland Josephson. È interessante notare come spesso i film politico-indiziari abbiano dato conto – attraverso Bergman, tra intimismo, esistenzialismo e metafisica – di quelle trame indicibili e insostenibili. Non solo Rosi e Damiani, che ha poi scelto come protagonista di Gioco al massacro Elliott Gould, già protagonista del bergmaniano Beröringen (L’adultera, 1971), ma anche Ferrara in Giovanni Falcone (1993) ha voluto associare al destino del massimo esponente della battaglia alla mafia l’immagine ricorrente della pericolosa partita con la Morte giocata dal cavaliere interpretato da Max von Sydow in Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1957). Il meccanismo segreto che rende la trasfigurazione dei dilemmi religiosi ed esistenziali bergmaniani una segreta fonte di ispirazione per Rosi, Damiani e Ferrara è lo stesso che per vie altrettanto traverse consente alla fanta-coscienza di Solaris, il romanzo di Stanislaw Lem di approdare sullo schermo nell’omonimo film di Tarkovskij del 1972 e di suggerire a Damiani il degno cognome, Solaris appunto, del regista di Perché si uccide un magistrato, il quale dopo aver immaginato cinematograficamente la morte del procuratore colluso non si dà pace, in preda al rimorso e al debito di verità contratto con l’immagine del defunto. Non sorprende che l’autore, dopo averlo testato in Una ragazza piuttosto complicata, abbia in seguito sentito il bisogno di tornare per la terza volta a fare del cinema sul cinema in Gioco al massacro, onde ribadire che i suoi film sono nella buona come nella cattiva sorte, al di là delle valutazioni critiche e dei risultati commerciali, con o senza riferimenti diretti, camuffamenti liberi 96
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e indipendenti, minimi o massimi di vicende reali. Inconfondibilmente e irrinunciabilmente film, cioè esercizi spregiudicati, dissacranti e provocatori di imitation of life. In definitiva Damiano Damiani nella maggior parte dei suoi film, di sicuro in quelli più noti e dibattuti, pone una questione molto particolare. Che gli è propria. Quella dell’errore di valutazione, giudiziario e morale: il diavolo, probabilmente, o ciò che in L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre fa sì che i detenuti non riescano a immaginare la fine della pena e il ritorno alla libertà, o in Il sorriso del grande tentatore costringe al senso di colpa e a una penitenza permanenti gli ospiti volontari dell’istituto religioso, come malati di una malattia mortale che non importa verificare se c’è o meno, importa che sia percepita e che il martirio della reclusione costituisca una terapia salutare. Tanto che l’unico a tirarsene fuori, alla larga, è lo scrittore ateo e laico, alla Damiani, poco incline a frequentare parrocchie o confraternite all’italiana di ogni tipo, cattoliche, politiche e culturali. Il quale, pur tentato dal Male istituzionalizzato, corre a bagnarsi la faccia in una fontana pubblica, come uscito da un incubo. Scampato cioè per miracolo alla maledizione che grava su una casa pseudo circondariale del culto, non dissimile da quella di Amityville Possession o di Gioco al massacro.
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La legge (del taglione) è uguale per tutti. Il poliziesco all’italiana GIOVAMBATTISTA FATELLI
Che cosa è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta e alcuni film degli anni Ottanta, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia. Quentin Tarantino
1. L’istruttoria non è chiusa Auto che «sgommano» tra sinfonie di mitra e sirene, sangue sull’asfalto, volti sgomenti e grida concitate. Questo il mix di ingredienti che, negli anni Settanta, sedimenta sugli schermi un filone tra i più celebri del nostro cinema popolare: il «poliziottesco», un fenomeno cinematografico oggetto di molte rivalutazioni dopo la seconda giovinezza vissuta nel sottobosco delle televisioni e dell’home video. Ma perfino l’entusiasmo degli appassionati è ancora velato dalle feroci stroncature che la critica proferì a suo tempo e dalla lugubre nebbia che permane sugli anni «di piombo». Una fitta coltre di idee gridate, di smarrimento e spari, che tramanda «una specie di buco nero della storia, una mera intercapedine tra gli anni Sessanta – caratterizzati dallo sviluppo economico, politico e sociale – e gli anni Ottanta, con il loro individualismo rampante e i loro soldi a buon mercato»1; un buco che si dovrebbe illuminare per non rievocare sempre quell’epoca «come una voce dimenticata che reclama ascolto e attenzione»2. Se – come spiega Giovanni Moro – per restituire la vita e le proprietà a un passato ancora presente, per lo più in modo negativo, occorre esplicitare e superare alcune patologie del ricordo, allo stesso modo, mutatis mutandis, s’avverte l’esigenza di tornare 1. 2.
G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007, p. 13. Ivi, p. 4.
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su quel cinema di massa sine ira ac studio, per dissolvere le visioni parziali e spesso grottesche depositatevi dal tempo, che siano le rievocazioni fredde con condanna incorporata o gli osanna levati dai cultori del trash verso qualunque porcheria, entrambe capaci di «piallare» la complessità di un panorama articolato ed esteso in uno scomposto rictus oscurantista, che annega la cifra tecnica nella «pornografia della violenza» e l’incredibile successo di pubblico in un desolante episodio di exploitation. Le lancette dell’analisi, nonostante l’opera di appassionati speleologi del cult movie3, sono infatti ferme al 1980, al fondamentale saggio di Buttafava sfornato a caldo, più di trent’anni fa4, in cui l’intelligenza del critico seppe intingere anche il più spietato appunto critico in una divertita ironia; prodigio che non si è più ripetuto. Come mai il tempo non è riuscito a cancellare quelle pellicole ma neppure a restituire loro un’oncia di cristiano perdono? Fra i tanti motivi, si è aggiunta oggi la velocità imposta dal web. Mentre infatti in passato il disonore tendeva a restare ontologicamente legato all’atrocità del crimine, e lo scorrere del tempo poteva sopire onta e rancori, nell’era della virtualità e dell’eterno presente, invece, l’infamia si perpetua più sottilmente nella pigrizia del «taglia e incolla», che ripete all’infinito gli stereotipi, specialmente quelli negativi. E così la goliardia di molte rivalutazioni postume si mescola all’alone sinistro, frutto di riflessi condizionati e pregiudizi consegnati alla storia con un incarto piuttosto frettoloso, confezionati in una dimensione critica imperniata su coordinate estetiche e morali – ma soprattutto crudelmente politico-ideologiche – da tempo in disarmo. Sulle orme di Lumet, restituiamo allora la parola ai giurati; non per sostenere che i poliziotti di ferro furono vittime innocenti e diffamate, ma per sollevare almeno un dubbio, risentire qualche testimone, ottenere insomma un supplemento d’inchiesta. Prima però di portare i faldoni in tribunale, occorre liberarli dalla polvere e allentare i nodi critici più stretti, che sono almeno tre e riguardano la collocazione delle origini del filone, la decifrazione dei suoi «messaggi» ideologici e, in ultimo, il legame con la realtà del tempo, ovvero la rivalutazione della sua effettiva capacità di testimonianza sociale e di intermediazione simbolica. Sono questioni variamente intrecciate, che inducono a ripartire dall’accusa, tante volte fotocopiata, che trova nella debolezza dell’ispirazione e nell’inattendibilità della vena narrativa il primo 3. Tra questi Marco Giusti (che con Stracult ha tratto quasi tutto il cinema ultrapopolare degli anni Settanta e Ottanta da un oblio non sempre immeritato) e autori come Christian Uva e Roberto Curti. 4. Cfr. G. Buttafava, Procedure sveltite, in il Patalogo 2. Annuario 1980 dello spettacolo, Ubulibri/ Electa Editrice, Milano 1980, pp. 101-21. A questo critico anticonformista, colto e curioso (19391990), viene anche attribuito il copyright del nome «poliziottesco».
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giovambattista fatelli
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mattone per costruire il cliché di un cinema «parassita» cinicamente incollato alle cronache, deciso a spremerne un’overdose di propaganda antidemocratica e pronto a inocularla in un corpo sociale privo di difese immunitarie. 2. La polizia ringrazia? In questo paradigma la genesi del filone è vista come un fatto «interno» al cinema, promosso da una macchina produttiva che, per salvare posti di lavoro e incassi, cerca di traslocare soggetti e situazioni dello spaghetti-western, ormai commercialmente stremato, in un nuovo filone, uno qualsiasi. La scommessa punta sul poliziesco per la contemporanea convergenza di alcuni fattori: tentativi consistenti di realizzare crime stories autarchiche, il successo al botteghino del «cinema civile» già assuefatto a giudici e sbirri e, infine, lo sbarco trionfale di driver americani farciti di famiglie mafiose e poliziotti svelti. La connessione con la realtà italiana, di conseguenza, sarebbe solo un esito accidentale del matrimonio d’interesse fra l’imitazione della «denuncia» e l’emotività scatenata da episodi criminali sempre più efferati. E se, per segnare comunque uno scarto, c’è bisogno di trovare uno starter5, l’archetipo giusto sembra proprio La polizia ringrazia, il film di Stefano Vanzina uscito il 25 febbraio 1972 e baciato da un consistente quanto inatteso successo di pubblico. Questa primogenitura non «esclude» gli antecedenti che hanno preparato il terreno, ma li sposta verso lo sfondo, compattando l’emergere del filone in un fatto tecnico-narrativo che elabora in un colpo solo tutti i codici principali. Non solo: la prevalenza dell’involucro drammaturgico sulla liaison sociale consente più facilmente di virare l’accanimento sulla realtà verso lo «sciacallaggio», quando non d’ipotizzare una neppur tanto velata «commessa» da parte della destra andreottiana6. Il punto di forza di questo schema è la somiglianza con i film di denuncia di La polizia ringrazia, che perciò costituisce il trait d’union ideale fra il cinema «alto» e quello di largo intrattenimento. Questa ibridazione in un colpo solo suscita il poliziottesco e lo condanna a essere nient’altro che il figlio degenere, la brutta copia del filone elitario dell’impegno civile. Tutto sembrerebbe filare, 5. «I generi (o filoni, chiamateli come volete) nel cinema italiano nascono da furiose mischie di mignatte attorno alla carne fresca e sanguigna di un grosso successo imprevisto, di un corpo gagliardo improvvisamente svelato agl’innumeri occhi dello spettatore di massa e alle fauci vampiresche del cinema industriale», G. Buttafava, op. cit., p. 101. 6. In quel periodo, il secondo Governo Andreotti tentava di blandire l’ondata reazionaria che montava nella borghesia italiana (evidenziata dal successo del Movimento Sociale-Destra Nazionale di Almirante nelle elezioni del 1972 e dalla fondazione del movimento denominato «maggioranza silenziosa») riequilibrando verso destra un asse politico a detta di molti troppo sbilanciato a sinistra.
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sennonché, a parer mio, La polizia ringrazia (che oltretutto è un bel film) non sembra soltanto, ma è una pellicola di denuncia con tutte le carte in regola, con tanto di spettri eversivi e finale legalitario. Come è possibile allora che sia considerato ancor oggi un «tarocco» tramato apposta per stordire l’immaginario popolare con l’etere reazionario7? Bisogna ripercorrere la genealogia del poliziottesco, più sofferta di quanto sembra, per sconfessare la subdola pratica dei riconoscimenti fittizi, che stende intorno al filone una specie di cordone sanitario, mischiando identità e impronte, per evitare forse che l’attribuzione di paternità del cinema «civile» si traduca in diritto di cittadinanza o comunque permetta l’ingresso nel salotto buono del cinema. Cominciamo col dire che nelle more del cinema impegnato, teso soprattutto a svelare le oscure connivenze del potere, s’insinua già una variante minor che scruta nelle trasformazioni della malavita, attingendo una dimensione più quotidiana, meno aulica politicamente ma capace di unire all’elaborazione di caratteri poi malamente sfruttati apprezzabili letture del cambiamento sociale. Con Svegliati e uccidi (1967), per esempio, Lizzani presta attenzione ai risvolti sociali e alle motivazioni dei protagonisti, attraverso cui «cerca di coniugare le regole del genere americano con un metodo di rappresentazione non immemore della lezione neorealista»8 e successivamente, con Banditi a Milano, ripercorre le conseguenze del boom economico sulla malavita meneghina: il sottobosco di locali notturni, la prostituzione e le bische clandestine che alimentano il racket delle estorsioni; il comportamento dei criminali che diventa più violento, spietato, «industriale»; l’omertà e l’ammirata indifferenza che circondano ormai le imprese criminali. Rocco e i suoi fratelli insomma incontrano Scerbanenco, in una periferia milanese che assiste attonita alla proliferazione del vizio e del cemento, mentre l’amarezza affoga nell’euforia del consumismo. Il rassegnato sconforto che fu anche di scrittori come Bianciardi e Flaiano (altri provinciali imprigionati in questo spietato carnevale) prefigura la sfiducia, prima latente e poi dichiarata, nella tenuta degli apparati civili e legali di fronte alla «grande trasformazione». Come annota Isabella Pezzini, «il cinema registra l’affermarsi di nuove forme di criminalità legate soprattutto al contesto urbano 7. Fra l’altro, la riduzione del film a uno scatolone ideologico tratta da gaglioffo uno dei grandi protagonisti del cinema italiano, un maestro della commedia che le cronache tramandano come un gentiluomo coltissimo e ironico, che in La polizia ringrazia profonde un’«abilità registica che nulla ha da invidiare ai polizieschi americani, avvalendosi di un ritmo mozzafiato e di sequenze d’azione dal grande impatto visivo», A. Bruschini, A. Tentori, Italia a mano armata. Guida al cinema poliziesco italiano, Profondo rosso, Roma 2011, p. 35. 8. G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, IV, Editori Riuniti, Roma 19932, p. 412.
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come l’“industria della rapina”, che porta con sé l’organizzazione in bande, l’uso di armi moderne e sofisticate, la spericolatezza delle imprese e, non di rado, un interesse dei media che riveste i gangsters di un alone di ambigua popolarità»9. Se «il dilagare della delinquenza e di forti tensioni nelle città ad alto tenore di vita è un segno dell’aggancio definitivo del paese alle nazioni più industrializzate, […] il cinema sa cogliere, anche in questo caso, l’improvviso passaggio di misure di scala dalla piccola delinquenza a fenomeni di intrecci di forze politico-economiche e di collusioni e interessi tra malavita e politica»10. Si giunge però al poliziottesco solo quando l’obiettivo si allarga ai palazzi del potere, le cancellerie e le questure, e sotto quest’aspetto il personaggio del commissario Calabresi11, portato in auge e poi tragicamente reciso dalla cronaca, fornisce un prototipo quasi più importante dei dirty detective d’oltreoceano, che restano un boccone indigesto a causa della fatica e del ridicolo che costa tradurli in vernacolo12. Tuttavia sostenere che prima di La polizia ringrazia le fonti del poliziottesco erano già tutte in campo non basta. Si deve anche annotare come risultino distanti dai passaggi chiave del presunto archetipo13 anche gli aspetti tipici dei grandi successi del filone. La solitudine del poliziotto impigliato in una macchina giudiziaria burocratica e indulgente è forse la stessa, ma Steno preferisce il paradigma psicologico alle scene d’azione e la riflessione razionale all’istintualità della «vendetta». L’indocile collera di Maurizio Merli e dei suoi epigoni saranno lontanissime dai tormenti un po’ didascalici del commissario Bertone, rimbeccato dai giornalisti di sinistra, poi «sorpassato a destra» da un misterioso gruppo di giustizieri e infine ucciso proprio nel tentativo di fermare il mostro che il suo impeto confuso ha contribuito a scatenare. Il film denuncia in modo esplicito le tentazioni golpiste, il degrado civile delle metropoli, l’ambiguità 9. I. Pezzini, La figura criminale nella letteratura, nel cinema e in televisione, in Storia d’Italia. Annali 12. La criminalità, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino 1997, p. 97. 10. G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano. 2, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 340 e ss. 11. Somiglia in modo straordinario a Calabresi proprio l’Ur-commissario del nostro cinema, il «cittadino al di sopra di ogni sospetto» di Volonté: gli autori hanno sempre negato il collegamento, ma Lotta Continua non ebbe esitazioni a identificare il commissario romano trapiantato a Milano con il personaggio negativo del film, entrambi a capo della squadra politica. 12. L’accusa di ricettazione mossa ai nostri commissari ammazzasette svela l’aspetto esterofilo e plebeo della modernità italiana, ma in qualche caso risulta immotivata e in altri può anche essere rispedita al mittente. La polizia ringrazia, per esempio, presenta molti punti di contatto con Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, ma il film con Clint Eastwood è uscito a Natale del 1973 e quello di Vanzina molti mesi prima. 13. Il ruolo di capostipite viene infatti oggi timidamente conteso da La polizia incrimina, la legge assolve (1973) di E.G. Castellari, considerato uno dei migliori registi italiani di film d’azione. Girato a Genova un anno dopo La polizia ringrazia, il film anticipa con maggior precisione le tendenze del cinema posteriore, accentuando la solitudine e l’eroismo del poliziotto.
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della «questione criminale» e afferma expressis verbis la pericolosità delle cure «drastiche»: «Le dittature sanno combattere meglio il crimine ma rendono impossibile la vita alla gente comune, abolendo le libertà democratiche». 3. La critica dalla ragion pura Il ridimensionamento del «mito fondativo»14 apre una falla nell’immagine di un filone compatto che sacrifica ogni sfumatura al moloch reazionario, smentita non solo dalle origini composite ma soprattutto dall’evoluzione successiva del fenomeno, in cui la figura del «poliziotto scomodo» continua a evolvere attraverso l’accentuazione del coinvolgimento personale e del gusto del rischio, fino a cristallizzarsi nella formula di Roma violenta (1975), in cui la fisicità del commissario anticrimine si esaspera fino alla caricatura e il contesto si semplifica nettamente, inserendo il nome delle città nel titolo e sostituendo il crimine organizzato con una microcriminalità ferina e onnipresente. Ma – pur imboccando la più arida maniera – il filone mantiene fino all’ultimo la propria vitalità attraverso un’interessante struttura di sotto-filoni che inseguono lo sviluppo dei personaggi chiave, i gusti del pubblico, le suggestioni più disparate, o si limitano spolpare quotidianamente la cronaca con instant movies. Ammettere di aver a che fare con un fenomeno cinematografico mosso e frastagliato non significa risolvere tutti i problemi; anzi, proprio l’apertura di credito ne solleva di nuovi. Come mai nel campo di grano del cinema di denuncia alligna d’improvviso e con tanta arroganza il loglio del fascismo reazionario? Perché si batte subito la «pista nera» di La polizia ringrazia senza indagare, come d’uso, in tutte le direzioni? E perché infine la critica apre subito il fuoco all’impazzata? I critici cinematografici e tutto il milieu culturale, cioè gli strumenti di intermediazione fra la produzione «industriale», il pubblico e la società, infatti, non concedono mai altro che sprezzanti rifiuti. I giudizi di allora deplorano la piccineria che partorisce questi film prima ancora che escano: «I produttori considerano questo genere di film un investimento sicuro e registi e sceneggiatori non debbono sforzare troppo la fantasia per confezionare prodotti di facile consumo adatti a un 14. È lo stesso Vanzina a raccontare come nacque l’idea originaria del film, durante un incontro con l’amico Lucio De Caro: «Ci siamo messi a parlare e subito abbiamo pensato ad una cosa da fare insieme, ma una cosa un po’ diversa, e tra le varie idee pensammo stranamente agli squadroni della morte in Brasile. E da lì è nato La polizia ringrazia, un film che ha precorso tutto, non solo un filone, ma anche purtroppo, tanti fatti drammatici della nostra società», G. Fofi, F. Faldini, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai sui protagonisti, Mondadori, Milano 1984, p.451.
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pubblico facilmente accontentabile. Oltretutto la cronaca nera quotidiana non è certo avara di spunti per i soggettisti»15. Segue l’immancabile cenno alla compulsiva superficialità di film di cui «si farebbe volentieri a meno in un momento in cui gravissimi episodi di delinquenza e di terrorismo mettono a dura prova le istituzioni democratiche e rischiano di indirizzare il giusto sdegno di molti cittadini verso una sorta di qualunquismo repressivo. Far credere che tutto si possa risolvere a colpi di pistola o aggirando le leggi contribuisce ad alimentare certi isterismi collettivi»16. E ancora: «Il problema (che indubbiamente esiste) è affrontato in maniera superficiale e con toni decisamente qualunquistici»17, «puntellando la rovinosa mancanza di idee con le grucce di un aperto ricorso alla demagogia»18. Tutto ciò naturalmente dentro un «messaggio» sordidamente antidemocratico in cui, a volte, «l’ideologia di pura marca fascista che circola per tutto il film non è nemmeno mascherata […] da alibi legalitari»19. Del resto «assecondare i malumori qualunquisti del nostro sistema non è solo operazione ideologica gradita a molti livelli (c’è, dietro, tutto il tema misterioso dei finanziamenti della produzione), ma porta anche tanti buoni quattrini in casa. E far politica, guadagnandoci pure, è cosa saggia e dilettevole»20. Di fronte a questo volume di fuoco, diventa difficile rimuovere i cardini su cui poggia il più lapidario catenaccio interpretativo mai visto; ma poiché non siamo di fronte a un semplice malinteso fra caratteri orgogliosi, bensì a una questione un po’ più complicata, che affonda le radici nelle dinamiche produttive e nel terreno infido dello scontro ideologico, per capire che cosa non ha funzionato occorre tornare ancora una volta al clima concitato di quel momento. Innanzitutto si deve oggettivamente ammettere che gli strali critici scagliati sulle pellicole erano ben meritati: si trattava nella maggior parte dei casi, di «imitazioni raffazzonate, frettolosi imbastardimenti con altri filoni, oscurità destinate alla distribuzione regionale: sottoprodotti a bassissimo costo che testimoniano di un brulicante sottobosco artigianale e autarchico»21. È anche vero che l’epopea «poliziottesca», pur immaginandosi come testimonianza «verista» degli eventi, sovrappone all’osservazione della realtà forzature spettacolari e facili espedienti retorici che possono travisarla o coglierne solo una parte, sebbene sia sbagliato 15. Leo, «Il Messaggero» 17 dicembre 1976, sul film Pronto ad uccidere. 16. Ibidem. 17. Vice, «Il Messaggero» 7 settembre 1973, sul film La polizia è al servizio del cittadino? 18. R.P. (R. Palazzi), «Corriere della Sera» 14 settembre 1975, sul film La polizia interviene: ordine di uccidere! 19. Au.Sa. (A. Santuari), «Paese Sera», 22 agosto 1975, sul film Roma violenta. 20. M.C., «La Stampa» 20 settembre 1974, sul film La polizia accusa: il servizio segreto uccide. 21. R. Curti, Italia odia. Il cinema poliziesco italiano, Lindau, Torino 2006, p. 8.
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il teorema del falso ideologico permanente. Ma la partita vera si gioca su questi due fronti: rapporto con la realtà e raffigurazione della violenza. Il realismo del poliziottesco è infatti di natura affatto particolare; gli autori corteggiano le cronache con rude puntualità, raccontando comunque qualcosa dell’Italia di quegli anni a frotte di spettatori entusiasti, ma il rigetto degli intellettuali contesta al pubblico la sua ignoranza e ai film il loro qualunquismo, costringendoli a rinserrarsi in un circuito comunicativo autoreferenziale, mentre il loro approccio ostinatamente continua a offrirsi, con orgoglio e astuzia, come deposizione oggettiva più o meno sbigottita sulla violenza esalata dalla realtà italiana: «Noi raccontavamo l’Italia di allora, cioè un Paese percorso da forti tensioni sociali, dove terrorismo e criminalità comune lasciavano ogni giorno morti e feriti sul terreno. […] I miei protagonisti erano emarginati sociali, sottoproletari senza lavoro e senza possibilità di riscatto sociale: personaggi che non si differenziavano poi tanto da quelli descritti da Emile Zola e Pier Paolo Pasolini. […] Registravo fedelmente la realtà, ma ero considerato fascista: io che sono uomo di sinistra, anarchico da sempre. Ridicolo. È come dire che se uno ha la febbre la colpa è del termometro. Ecco, noi eravamo il termometro che misurava la temperatura delle metropoli sconvolte da violenze, assassinii, attentati»22. Gli autori che offrono a un pubblico elettrizzato lo psicodramma della modernizzazione violenta, forniscono una rappresentazione disomogenea, a tratti ingenua, che talvolta conserva ambizioni para-sociologiche e talaltra è solo uno svogliato tributo, ma lascia comunque intravvedere la desolazione, anche morale, delle città devastate dalla violenza; e intorno a questo cortocircuito si innestano fattori storici oggettivi che ottundono le facoltà del cinema, incattiviscono la critica, radicalizzano i contrasti e impoveriscono di fatto le possibilità di argomentare con intelligenza i temi civili e politici. 4. Moderato sarà lei! Non si deve dimenticare che gli anni Settanta furono il periodo in cui la società italiana si trovò a dover metabolizzare un radicale cambiamento socioeconomico e un’ondata di rinnovamento culturale impetuosa e indisciplinata23. Il progresso sociale si alimenta delle energie del passato ma non sembra 22. U. Lenzi a V. Gandus, in Poliziottesco a mano armata. Cine revival: I B-movie italiani degli anni sessanta, «Panorama», 4 ottobre 2004. 23. Cfr., fra gli altri, G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003.
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più capace di filtrarne le eccedenze, di tradurle in una coerente promessa di futuro. E così, tra aborti di golpe e di lotta armata, si liberano nell’aria forze incontrollate che diventano subito violenza. A questa inquietudine generale il cinema aggiunge, nella seconda metà del decennio, gli effetti di un vero e proprio crollo24: la politica lo abbandona per dedicarsi alla televisione, frastornata da una festosa libertà catodica25; le sale cinematografiche diventano improvvisamente deserte e si consegnano senza resistere alle «luci rosse», mentre il bouquet tematico si trova inaspettatamente orfano di ogni barlume d’«impegno», rendendo lecito supporre che il film di denuncia, più che subire una divaricazione fra genere progressista e costola reazionaria26, semplicemente s’inabissa, di fronte alla marea limacciosa in cui affiorano sì poliziotti facinorosi ma anche femmine scollacciate, comicità sboccata, esotismi triviali. Il cinema impegnato sembra perciò sopraffatto non dalla grinta eccessiva di Tomas Milian e Luc Merenda quanto semmai dal «decamerotico», dalle curve della commedia sexy e dai film demenziali che trovano in Pierino il nuovo «eroe» da consegnare agli anni Ottanta. Ma questo passaggio produce effetti devastanti sulla parabola terminale del poliziottesco, allorché si blocca la fluidità e la continuità della produzione media per il grande pubblico, deprimendo la qualità dei prodotti e le possibilità di «sperimentazione», e il filone sconta una lunga agonia, punteggiata dalle canoniche tappe dell’iperbole, dell’ibridazione e della parodia, che rafforza nella memoria collettiva la sensazione di una esibizione di violenza estenuante e gratuita, ancor più stridente nel paragone con la cultura dell’appeasement reclamata all’inizio degli anni Ottanta da un sistema sociale e politico intenzionato a chiudere, in un modo o nell’altro, la stagione dell’odio e del terrore. Il poliziottesco è rimasto così il marchio indelebile di anni «roventi», il logorroico simbolo di un fenomeno che, secondo le più verosimili intenzioni, esso era nato, se non per combattere, almeno per contestare ed esorcizzare. 24. Cfr. L. Miccichè, Un decennio di transizione, in Id. (a cura di), Il cinema del riflusso. Film e cineasti degli anni ’70, Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Nuovocinema Pesaro n° 50, Marsilio, Venezia 1997. 25. Umberto Lenzi imputa all’abbraccio mortale della televisione l’omicidio del poliziottesco e del grande cinema commerciale italiano: «Fino al giorno prima c’erano solo due canali e il cinema di quartiere. Tutt’a un tratto centinaia di film ogni giorno, gratis. E la gente abbandonò le sale. La crisi, che investì tutto il cinema, fu mortale per quello d’azione», U. Lenzi a V. Gandus, in Poliziottesco a mano armata, cit. 26. «La divaricazione, alle soglie degli anni settanta, tra il film poliziesco-gangsteristico e quello più dichiaratamente politico fa sì che il primo accentui il suo carattere d’azione e rappresentazione della violenza, diventando per eccellenza un genere reazionario, mentre il secondo, sia pure per breve tempo, sembra godere di tutte le carte di una visione progressista e democratica», G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, IV, cit., p. 413.
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Questa fine paradossale si spiega ancor meglio evocando gli aspetti ideologici della questione. Anzitutto, quella critica era prigioniera di un preconcetto contenutistico e vetero-sociologico – oggi non più attuale – che la obbligava a elaborare «sintesi» scontrosamente distanti che amplificavano la brutalità e il cinismo di quel cinema e sottovalutavano, o guardavano con orrore, la sua sintonia con la «pancia» della società. Non era perciò il realismo di quel cinema a dar così tanto fastidio, ma il timbro «neutrale» con cui gli autori cercavano ingenuamente di contrabbandarlo e che invece, come un’excusatio non petita, eccitava i peggiori sospetti. La politica criminale era, nell’Italia di quegli anni, un fronte di lotta politico-ideologica fra i più caldi, e l’ostinarsi in una rappresentazione «espressionista» nocque molto a quei film perché li metteva in aperto conflitto con la concezione imperante che voleva invece la delinquenza un prodotto sociale fomentato dal sistema repressivo. La trattazione spontanea dei temi sociali, dalla parte dello spettatore, così distante dalla griglia ideologica contestataria, appariva provocatoria e non poteva piacere alla critica. La malasorte di La polizia ringrazia è provocata dal suo punto di vista moderato, che nel clima acceso sembrò molto più estremo di quanto non fosse, e dall’eccentricità rispetto alla vulgata che animava la denuncia e confermava automaticamente l’istintiva identificazione tra impegno politico e orientamento a sinistra. Gli argomenti del commissario Bertone vennero così ignorati con una diffidente alzata di spalle: troppo democratici per essere definitivamente liquidati come fascisti, troppo conservatori per essere inglobati nello zibaldone di sinistra. Il «gran rifiuto» fu anche facilitato dallo snobismo intellettuale che, amando le masse e disprezzando la gente, diffidava di tutto ciò che era popolare. I film che «prendevano di petto» la realtà erano perciò apprezzati, ma solo se sapevano deformarla in modo grottesco, cercare la provocazione e privilegiare comunque il fumo delle allegorie rispetto alla miserevole banalità della descrizione. Anche lo sguardo documentario incontrava difficoltà ad addentrarsi nelle realtà metropolitane, perché la moda primitivista corrente lo preferiva concentrato su un presepe contadino oppure sulla realtà delle fabbriche. «Si ha l’impressione che tutta questa intelligenza filmica intrattenga con la realtà italiana, anche quando s’ingegna a frugarvi dentro con metodica puntualità, un rapporto sovrastato dalle leggi bronzee dell’ideologia: da una parte sfilano le immagini di un paese arcaico, pervaso da forma di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non riesce neppure a sfiorare, dall’altra si rincorrono i volti di una borghesia concepita nel più idealtipico dei modi, come banale epifenomeno – la cui concretezza storica è solo un rivolo di spurgo – di un modo di produzione che non consente né giustizia fra le classi né autenti108
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cità di affetti individuali»27. L’attenzione andava perciò verso quelle opere che, quand’anche non dicessero niente, lo dicessero tuttavia con piglio ribelle. «Si affermava così il “ricatto del contenuto”» rammenta Edmondo Berselli, collocando nella cosmologia e nella teodicea del Sessantotto l’idealismo ipocrita da tema in classe che conduce a questa sbrigativa liquidazione: «Vale a dire, non ci interessa affatto come è il film, la canzone, il programma, il romanzo. Ciò che c’importa, e invitiamo l’autore a farcelo sapere senza esitazioni, è se lui vuole la rivoluzione o no, se ha una consapevolezza sociale, una coscienza di classe. Di fronte alla giustezza delle posizioni, i cattivi risultati sono miserevoli incidenti di percorso. Del tutto inessenziali rispetto a una ragione “oggettivamente” più alta. Naturalmente il disinteresse per il manufatto poneva in secondo o terzo piano la tecnica. Se in politica l’assiduità di frequentazione con i sistemi totali e con risolutive catene di deduzioni, “dialettiche” o no, conduceva a strutture dietrologiche sensazionali, sul terreno dell’estetica ciò si traduceva in codici e statuti in cui l’unica cosa che contava era la sostanza, non mai la forma»28. L’invettiva di Berselli coglie la chiassosa gracilità di tanti miti culturali e spiega bene il disdegno per tutto ciò che non guardava a sinistra. Perfino il mestiere e la tecnica (altrove considerati pregi) per l’intelligentsia spontaneista divennero irrilevanti, anzi dannosi perché ipocritamente occultavano dentro la confezione attraente un contenuto altamente nocivo, ed era come cancellare dalla bottiglietta del veleno il teschio che avverte del pericolo. Per conservare la sua purezza, quella critica fu veramente disposta a tutto, preferendo la gogna per gli innocenti al rischio di mandar liberi i colpevoli: visse con apprensione le concessioni di Damiani allo spettacolo, inchiodò Di Leo ai suoi modelli americani, iscrisse d’ufficio il povero Steno al movimento neofascista e tacciò il Lizzani maturo (quello di Torino nera e San Babila ore 20: un delitto inutile) di barboso «didascalismo» (ma anche di indifferenza morale o senilità precoce), forse per salvare il cineasta «amico», togliendolo dalla linea di fuoco verso i commissari in odor di fascismo. 5. Si fa presto a dire violenza… Detto del complicato rapporto con la realtà, occorre affrontare l’altro elemento cruciale dell’impervia dialettica fra cultura italiana e cinema popolare: la 27. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia 1992, p. 297. 28. E. Berselli, La cultura informale, in S. Vertone (a cura di), La cultura degli italiani, il Mulino, Bologna 1994, p. 132.
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rappresentazione della violenza, che, inutile negarlo, è il leitmotiv che indurisce il profilo del filone e lo costringe alla ridondanza, sia sul piano concettuale che su quello iconico-narrativo, rispecchiando, in questo suo carattere degenerativo e virale, un aspetto strategico dello Zeitgeist del tempo. Perfino il «passaggio di testimone» tra denuncia e poliziottesco viene, come abbiamo visto, talvolta spiegato in termini di «misura» della violenza, soggiogata dal plot nei film impegnati ed esplosa come funzione narrativa nei (sotto)prodotti commerciali. La traduzione del clima violento del periodo nelle singole opere è spesso oggettivamente enfatica e corriva e, a dispetto del sottile sottotesto antiprogressista loro assegnato per default, i film sono ideologicamente abborracciati e moralmente ambigui, ma a parer mio è proprio il loro carattere facile e «primitivo» che cattura il pubblico popolare: perché essi mettono in scena direttamente lo spettacolo della violenza, rielaborandone solo la parte concreta, quasi sempre esaurita nella sperimentazione dei limiti, nell’abbozzo di soluzioni istintive o nell’invito retorico a bloccarne l’escalation; senza ricorrere alle mediazioni intellettuali che nel dibattito pubblico trasformano invece la violenza in un argomento complesso, contraddittorio e in definitiva poco trattabile. Ricordiamo che, in un contesto socioculturale pervaso da un indomito sociologismo d’accatto, teso a giustificare più che a comprendere e pregiudizialmente ostile ai concetti di ordine e della legalità, il tema aveva generato un canone che non ammetteva repliche: la violenza è connaturata al sistema industriale del capitalismo avanzato, uso a instaurare rapporti di sopraffazione che l’apparato legale borghese cerca solo di mascherare alla meglio e pertanto la violenza socialmente diffusa che ne consegue non può essere imputata agli individui. Qui sorge il primo funesto corollario secondo cui la responsabilità del singolo atto di violenza non è di chi lo compie, ma della società, delle contraddizioni e delle spinte che vengono dal «sistema». In secondo luogo, ecco l’altro corollario, se la violenza «classista» ha un valore repressivo ed è sempre condannabile, la violenza eversiva e proletaria è invece «buona», ben tollerabile nelle sue manifestazioni «spontanee» e addirittura benefica quando sia «sacralizzata» dalla «coscienza di classe». A questa antropologia demenziale, che mischia Lenin, Sorel e L’Uomo Mascherato, si contrappone quella assai più rudimentale (e vicina al senso comune) che trova sfogo nel cinema di genere: il criminale è un figlio di puttana, cattivo per indole o abitudine, che deve essere combattuto con ogni mezzo, senza dubbi e senza pietismi, con la massima severità. Questa polarizzazione, in contrasto con il filisteo laissez-faire dell’establishment, rende difficile il compromesso, sordi i protagonisti, «impossibile» il dialogo. La società italiana affronta una pericolosa navigazione nell’oceano 110
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della violenza con una bussola rotta, che oscilla continuamente fra amici e nemici, fra «apocalittici» e «superficiali», senza riuscire a trovare, ma neppure ad apprezzare, l’equilibrio di un’onesta linea mediana. Se fosse stato possibile sospendere questo rissoso manicheismo, gli stimoli offerti da un panorama cinematografico onorevolmente «sul pezzo» avrebbero potuto offrire argomenti alla discussione e non essere solo le maldestre confessioni di condannati in pectore. Chi non ricorda i sermoni che stigmatizzavano le più insipide forme simboliche e psicologiche di violenza «del sistema», mentre mani improvvide scrivevano sui muri che uccidere un tale o un talaltro non era neppure «reato»? Chi non ricorda come molti considerarono una ragazzata finita male il massacro del Circeo e altri ritennero, e proclamarono coram populo, che uccidere a tradimento persone inermi fosse solo un atto di giustizia, sebbene proletaria? Nel commissario Betti di Maurizio Merli e nei suoi epigoni «tosti», perciò, il cittadino medio poteva rispecchiare la paura istintiva per i malviventi, ma forse anche tamponare uno sconcerto più profondo, alleviare l’irritazione per la pedagogia permissiva, per l’imposizione di comportamenti e modi di pensare «moderni» che ancora non ci appartenevano, per la rapida corrosione delle radici popolari operata dal «progresso», per l’apertura dei manicomi, per il birignao degli intellettuali, per le richieste continue di disarmo della polizia, per gli «eccessi» del femminismo, per l’umanizzazione del trattamento carcerario che introduceva la televisione nelle celle29. La solidarietà istintiva verso i poliziotti duri poteva insomma interpretare il senso di revanche per la propria condizione di scudi umani su cui si scaricavano la compressione culturale e le contraddizioni del progresso sociale. La modernizzazione italiana è stata infatti in molti aspetti contraddittoria, esprimendo concezioni della legalità che vagheggiavano leggi eccezionali contro la criminalità, talvolta fino alla pena di morte, mentre altrove reclamavano la legalizzazione del divorzio e dell’aborto; ma soprattutto è stato un processo segnato da invincibili ipocrisie. Ci si è adeguati più di quanto si capisse; si sono sollecitate le innovazioni sperando che, fatta la legge, si trovasse poi sempre l’inganno; si è voluto cambiare tutto (o quasi) per fare in modo che tutto rimanesse com’era. L’interprete principale di questa commedia è stata naturalmente la classe politica, che ha subìto il processo democratico e lo ha accompagnato come un coro greco, però tenendo co29. «Uno dei temi che emerge con forza è comunque quello della frustrazione, dell’impotenza e del desiderio di rivalsa di coloro che la legge dovrebbero farla rispettare, o che in genere la rispettano, e che riescono ad avere soddisfazione solo diventando uguali o peggiori di – coloro che vogliono combattere». I. Pezzini, op. cit., p. 100.
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munque in allerta carabinieri e guardaboschi; ha guardato sovente a sinistra con occhio torvo, ma facendo piedino sotto il tavolo, e intanto ha innescato – non si sa mai il cioccolatino che ti capita – la «strategia della tensione»; istituito le regioni, ma svuotandole di contenuti; aperto i manicomi, ma senza predisporre alternative credibili; donato all’etere la libertà, ma controvoglia; riformato la Rai per consegnarla alla concupiscenza dei partiti; combattuto la mafia e il terrorismo con fermezza, ma trattando di nascosto, forse con qualche bacio di troppo. Il cinema poliziottesco metteva ruvidamente le mani in quest’impasto, trascurando l’analisi e banalizzando caratteri e circostanze, ma con spirito «onesto» e «popolare», sebbene un po’ ruffiano, rivelandosi alla fine più un serio conato di «confronto pubblico» sui temi della violenza e della legalità30 che un cocciuto processo di contaminazione ideologica. Ma, paradossalmente, fra i protagonisti di quella stagione, sono state concesse più volentieri forme di riabilitazione a chi ha predicato la violenza che non a chi l’ha mostrata sullo schermo. 6. Eroi? No, grazie. In definitiva, quale Italia descrive questo apocrifo «Far West d’asfalto»31? La solita Italia dell’imbecillità di massa, che finge di rispettare le regole della democrazia e poi finisce sempre per cedere ai suoi umori più inconfessabili? Un’Italia che puntualmente schiaccia i «grilli parlanti» che la vorrebbero onesta e coraggiosa, libera e progressista? Fra le tante riletture di quel tempo funesto, la meno probabile mi pare proprio questa di un paese che si sposta compatto verso sinistra e d’un tratto viene proditoriamente colpito da cineasti senza scrupoli che sfruttano la durezza dei tempi per imporre l’ideologia della violenza, riuscendo a stordire le coscienze tanto da rendere perfino superfluo il ricorso al golpe militare. Sarebbe troppo comodo. L’esistenza di un’Italia cialtrona è innegabile, ma questa riemerge e prospera anche perché viene costretta, tirata di qua e di là da gente che non ne capisce i desideri e 30. «In verità, è un filone che si confronta con la pura e tremenda realtà italiana del tempo, cogliendone – spesso in maniera confusa e istintiva – contraddizioni e ansie, fotografando i cambiamenti sociali e politici in atto». R. Curti, op. cit., p. 9. I nuclei drammaturgici di queste pellicole, «pur sfruttando tali elementi ai fini di uno spettacolo di “consumo”, a distanza di tempo si fanno rivalutare quali rappresentativi, a volte persino “coraggiosi”, sguardi su quegli anni». C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 23. 31. Cfr., anche per un ulteriore approfondimento del tema della violenza lo stimolante Douglas Mortimer, Possibilmente freddi. Come l’Italia esporta cultura (1964-1980), DeriveApprodi, Roma 2006, specialmente pp. 22-26.
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giovambattista fatelli
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le speranze, o che gli vuol caricare sulle spalle aneliti rivoluzionari improbabili o scellerate tentazioni autoritarie. E allora può essere che il consumo di violenza offerto a buon mercato dai poliziotteschi sia «un modo per lenire l’immaginario di una nazione impreparata al traumatico passaggio dal bengodi illusorio, di cui si è nutrita dagli anni del boom, alle contraddizioni di una doppia società: da un lato i soggetti garantiti e organizzati; dall’altro gli emarginati, i disoccupati, i non-integrati. Da queste pellicole emerge il ritratto di un’Italia inquieta, che si avvia esitante verso gli ’80, il decennio dell’omologazione e dell’edonismo»32. Ma, prima ancora dei risvolti politici, sociali, o criminologici, il senso ancestrale di paura che trasuda dall’iconografia luttuosa di questi film non tanto descrive il trionfo della delinquenza, o la frantumazione dell’ordine sociale, quanto pronostica, in modo banale ma per questo più tragico, una sconfitta antropologica; sembra percorrerli una sensazione indefinibile e magmatica, che aggrega timori «maschilisti» e concetti primordiali del potere e dell’ordine, reazioni istintive alla fobia della castrazione e letture «superate» della politica criminale. Attribuire uno statuto dottrinale a questo confuso amalgama sarebbe esagerato e neppure è possibile separare queste pulsioni elementari delle ideologie conservatrici. Eppure quest’animoso (e fallimentare) tentativo di sparigliare le carte sul tavolo della lettura dei problemi sociali, prima ancora dell’elemento di ribellione, sotto la dura scorza del rigurgito qualunquista nasconde un’eco distorta che veramente può richiamare l’invettiva pasoliniana sulla «perdita dell’innocenza» e che, come quella, resta largamente invisibile a quei dotti, medici e sapienti che intenti a tessere il manto bellissimo della «nuova» società, armeggiando con scienze sociali rimasticate, gerghi intellettualistici e ideologia marxista, la lasciano poi nuda come prima, essendo riusciti nel frattempo solo ad accrescerne brividi e convulsioni. Non è una riflessione lucida, bensì una traccia sotterranea, la registrazione di uno stato d’animo confuso, un grido d’allarme per l’abbandono prematuro del buon senso, per lo scardinamento improvviso dei punti di riferimento tradizionali, per l’abrasione rapida del principio di responsabilità sociale e individuale, per la riduzione dell’uomo a modesto ingranaggio del progresso e della storia o a fanatico esecutore delle ipotesi materialiste. Il «machismo» dei loro personaggi palesa prima di tutto il fastidio per l’imperante dileggio del senso comune, dei concetti di onore, merito, lealtà e per i doveri connessi alla difesa della legge, al mantenimento dell’ordine e sicurezza (oggi peraltro in gran spolvero), tutti elementi che avrebbero dovuto essere ridimensionati 32. R. Curti, op. cit., p. 9.
la legge (del taglione) è uguale per tutti
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per adattarli alla modernità (nella revisione delle norme come nell’amministrazione della giustizia, nell’ordinamento delle forze di polizia come nel trattamento carcerario) e invece sono stati scalpellati e frantumati con orrenda gioia. Gli eroi che il poliziesco all’italiana offre alla consolazione del pubblico cercano di mimetizzarsi nell’ansia e nella rabbia scomposta dello spettatore, ma di fronte al baratro della violenza urbana, delle bombe, del disagio giovanile, delle istituzioni che si sgretolano e della lotta armata non riescono a spingersi oltre un semplicistico «dove andremo a finire?». I personaggi e le storie si limitano a mettere in scena parabole di vita e di morte chiare e nette, a offrire «nel giro di novanta minuti, un viaggio all’inferno e ritorno, un percorso catartico che permette di ridare un senso, un ordine all’orrore»33. Perciò «nell’ascesa e caduta del poliziesco è possibile leggere, tra le righe, il percorso di un cinema popolare sull’orlo del collasso, che forse per l’ultima volta riesce a contrapporre all’amato/odiato gigante hollywoodiano un prodotto competitivo e finanche esportabile da quella “galassia disordinata” che, secondo la felice definizione di Mario Sesti, è l’industria cinematografica italiana del periodo»34. E chiosa Marco Giusti: «Il cinema degli anni Settanta è stato anche l’ultima grande stagione del nostro cinema, poi c’è stato il crollo, […] anche perché quel mondo lì è stato risucchiato dalle produzioni straniere e dalla tv, è finito lì. […] Quindi il cinema degli anni Settanta è l’ultima espressione di un cinema di produzione, dopo c’è il vuoto, un vuoto lungo venticinque anni»35. Restano sul campo mercenari che vagano in una selva di generi assurdi, miserabili traiettorie di «filoncini» erotici o farseschi, spunti presi dagli sketch di una televisione che diventa cinema allungando il brodo con l’acqua, film balneari fuori tempo massimo e un pugno di autori; ma le schiere del cinema italiano sono ormai disperse e vinte. E, se un giorno si arriverà mai in giudizio, non si potrà evitare di chiedere almeno rispetto per un genere che, per merito o per avventura, ha finito per rappresentare l’ultimo importante segno di vita di una macchina produttiva vigorosa ed efficace, la testimonianza a futura memoria dell’antica grandezza del cinema popolare.
33. Ibidem. 34. Ibidem. Il riferimento «galattico» si trova in M. Sesti, Una navigazione tra gli esordienti: diario di bordo, in L. Miccichè (a cura di), op. cit., p. 213. 35. Cult?... No “Stracult”! Quattro chiacchiere con Marco Giusti. Intervista di C. Leone su www. latorredibabele.net
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Ibridazioni della memoria. Falcone e Borsellino, prove di biografie mediali* ISABELLA PEZZINI
1. Osservazioni preliminari Criminalità e mafia sono una componente forte sia della storia sia dell’immaginario del nostro Paese: innumerevoli sono i testi – libri, film, prodotti televisivi e audiovisivi, musiche e canzoni – che ne trattano, secondo stili e sulla base di intenzioni anche molto diversi fra loro. Nell’insieme contribuiscono a formare una sorta di grande nebulosa, in cui a prima vista appare difficile orientarsi. Nella produzione audiovisiva, in particolare, i meccanismi stereotipanti trovano potenti alleati nel sistema produttivo, che fra un testo e l’altro offrono allo spettatore elementi di familiarità, agganci a volte fuorvianti: possono essere le facce degli attori, che a distanza di tempo e di atmosfere ricompaiono in modo costante, sempre nel ruolo del cattivo, o più spesso in ruoli alterni o scambiati, qui come capomafia, là come commissario di polizia. La figlia del mafioso è altrove figlia del magistrato, dove il fidanzato assassino era nella scorta del padre. Scambi di ruolo che generano una confusione che si riverbera sulle vicende narrate, di per sé complesse, e che potrebbe suggerire che le vicende di mafia, vere o d’invenzione che siano, siano un canovaccio a disposizione, un genere testuale più italiano degli altri. Fra i tratti del quale ve n’è uno dominante, la location: la Sicilia, del resto, è una metafora1. Ed ecco la sua insularità che la oppone al continente, in particolare a Roma. Ecco le sue campagne, le sue terre assolate e sassose contro i bellissimi paesi e gli straordinari angoli di città. La Palermo fatiscente dei vicoli ancora da * Il corpus trattato in questo saggio era in origine più ampio: è stato ridotto per motivi editoriali. Continua su www.isabellapezzini.it. 1. Cfr. L. Sciascia, La Sicilia e il cinema, in V. Spinazzola (a cura di), Film 1963, Feltrinelli, Milano 1963; Id., La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, Milano 1979.
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dopoguerra e poi improvvisamente il Palazzo di Giustizia, monumentale, fascista, metafisico. La città della speculazione edilizia guardata dall’altro, contro Punta Raisi, con un fiume di auto sempre in movimento, lacerato a tratti dalle sirene spiegate delle scorte, tutte auto di produzione nazionale, e fuori moda. E poi il mare: porticcioli meravigliosi in cui si scarica però la droga, spiagge dorate in cui si corre, ci si bagna, si cammina mano nella mano, si medita, si guarda lontano, «fuori». E ancora altre immagini ricorrenti: le processioni, i fuochi d’artificio, le feste, i matrimoni, i timballi, i cannoli, le musiche. Ma anche le lupare, i kalashnikov, i funerali di Stato, gli incaprettamenti, i riti iniziatici col santino in mano, gli agguati con le moto, i morti ammazzati per la strada, le auto imbottite di tritolo, le esplosioni, le stragi2. Può questo caleidoscopio in apparenza caotico essere anche «morale», cioè offrire al suo fruitore i mezzi per acquisire un’effettiva competenza riguardo i temi trattati, contribuire a offrirgli una memoria, a coinvolgerlo, a trasformarlo almeno in parte da spettatore in cittadino? In vista di un possibile contributo critico a questa difficile questione, ci concentreremo qui su alcuni dei principali film e documentari che hanno come argomento la lotta della magistratura alla mafia culminata nell’opera e nel sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quale immagine del loro lavoro di magistrati, e quale idea di giustizia vi fa da sfondo o vi emerge esplicitamente? Quali funzioni paiono assumere rispetto al cosiddetto immaginario collettivo? A questa materia complessa e a tratti incandescente, attingono prodotti che ne articolano i temi e i motivi in sottogeneri specifici anche molto distanti fra loro. Dal cinema di impegno civile che oltre a narrare e a informare si propone di comprendere e di spiegare, di ristabilire o condividere la memoria e renderla attiva forma di vigilanza democratica, si arriva infatti fino al film di avventura, o all’action movie, dove la vicenda mafiosa è soprattutto un pretesto, e fornisce degli stereotipi riconoscibili per uno scopo che è sostanzialmente quello dell’intrattenimento. Inoltre, progressivamente, emerge una funzione più esplicitamente celebrativa e commemorativa del prodotto mediale, soprattutto se destinato al piccolo schermo. Come vedremo anche all’interno dell’ambito che ci siamo assegnati, le strategie discorsive prescelte e gli esiti ottenuti possono essere anche molto diversi fra loro. Un primo problema che un film ispirato a fatti realmente accaduti deve porsi è il grado di aderenza a questi stessi fatti, e come situarsi fra i due estremi intuitivamente rappresentati da un approccio cronachistico2. Cfr. il capitolo sulla mafia al cinema in E. Deaglio, Il raccolto rosso 1982-2010. Cronaca di una guerra di mafia e delle sue tristissime conseguenze, Il Saggiatore, Milano 2012.
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storiografico da un lato e narrativo-finzionale dall’altro, offrendo al proprio destinatario un «patto di fruizione» conseguente3. La scelta non pregiudica né predefinisce il tipo di efficacia comunicativa del testo, ma è la sua realizzazione che andrebbe poi interrogata in base a criteri espliciti. Un caso istruttivo ci sembra quello di un film esplicitamente narrativo come I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, sulla morte di Peppino Impastato. Il film è stato unanimemente riconosciuto come un’opera molto riuscita sia dal punto di vista cinematografico sia per aver riportato nella giusta luce la vicenda del giovane giornalista ucciso dalla mafia e da questa fatto credere suicida. Eppure su Internet si trovano siti in cui il film è passato puntigliosamente al vaglio del particolare biografico «vero» e di quello «inventato», distinzione a quanto pare considerata molto importante, a discapito di una visione meno anodina della verosimiglianza, e cioè del fatto che si può provocare nello spettatore un senso intimo di verità anche attraverso il ricorso a elementi di finzione. È cioè significativa e veritiera la strategia comunicativa nel suo insieme, al di là di un rapporto pedissequo tra il racconto e la cosiddetta realtà: in termini più tecnici, è meno significativa la corrispondenza con il referente di quanto non sia interessante indagare la strategia enunciativa. Bisogna al contempo prendere atto dell’emergere di questa esigenza di esattezza e precisione, quando si parla di eventi così drammatici: ma il grado richiesto di realismo varia da genere a genere. La scelta di trasporre i «fatti» e i loro dettagli su un piano retorico-figurativo nel nostro sistema culturale dei generi del discorso, così, è concessa a un testo cinematografico e non a un’inchiesta giornalistica o a un capitolo di storia. E, soprattutto, uno non può sostituire l’altro. Esemplare, ancora, il caso del libro-inchiesta del giornalista Alexander Stille, Excellent cadavers4, dal quale sono tratti due film di genere radicalmente diverso, come vedremo: da un lato uno straordinario film-documentario, e dall’altro un film patinato di genere biografico, in cui è dato largo spazio alla vita personale dei magistrati. Emergono diverse visioni che diversamente enfatizzano enunciazione e riferimento: per gli uni la favola a volte riesce molto meglio della storia vera a ottenere effetti sul reale sul quale si vuole agire. Per altri, se ciò di cui si narra non è completamente vero, allora non è credibile. 3. Su questi problemi cfr. F. Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Il Castoro, Milano 2003. 4. A. Stille, Excellent Cadavers: The Mafia and the Death of the First Italian Republic, Pantheon, New York 1995; trad. it. Nella terra degli infedeli. Mafia e politica, Garzanti, Milano 2007. Il titolo riprende l’espressione usata dalle forze dell’ordine di Palermo per comunicare un omicidio eccellente, ma anche il titolo del film di Rosi del 1976, tratto dal libro di Sciascia Il contesto (1971), in cui i magistrati rientravano però in un complotto eversivo.
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2. La lezione di Rosi In Italia, è Francesco Rosi che con il suo Salvatore Giuliano (1961) crea un testo di riferimento esemplare, indicando non solo un modo ma un senso specifico del fare cinema su questi temi, un «cinema civile»5. Cinema come forma di testimonianza, di partecipazione e di impegno, volto non solo alla ripresentificazione di eventi particolarmente significativi per la storia comune, ma contributo alla loro stessa ricostruzione critica. Allo scopo di riattivare la memoria dei fatti ma anche degli interrogativi che essi pongono; di rinnovare la pietas e il compianto per le vittime, ma anche di denunciare le incongruenze delle versioni ufficiali, le eventuali mistificazioni e inadempienze, collaborando a diffondere un sapere critico. A rendere giustizia con i propri mezzi laddove la giustizia ufficiale ancora manca. Nel rapporto con lo spettatore, a essere offerta e cercata non è certo un’esperienza estetica in sé bastante, ma una condivisione di elementi e di argomenti che possano suscitare un movimento delle coscienze, un loro risveglio e quindi l’innesco di un senso d’ingiustizia, l’indignazione che può creare e rinforzare il senso di un debito di giustizia da compiere6. Il film di Rosi mette a punto una strategia specifica nell’affrontare le vicende narrate: si divide principalmente in due grandi atti, uno dedicato alla storia, alla caccia e alla uccisione di Salvatore Giuliano e un altro dedicato al processo di Viterbo per la strage di Portella della Ginestra, 11 persone uccise a colpi di moschetto durante la manifestazione del 1 maggio 1947 proprio dalla banda Giuliano. Il processo si conclude con la condanna del luogotenente di Giuliano e suo probabile traditore, Gaspare Pisciotta, all’ergastolo, a sua volta tradito dai suoi stessi mandanti. Il film lo segue fra le mura del carcere dove un caffè alla stricnina lo zittisce per sempre. Il sospetto che aleggia nel film è che Giuliano agisse in base a un accordo fra la criminalità organizzata e i poteri forti dello Stato, che lo avrebbero poi eliminato per distruggere uno scomodo testimone. Un cinema documentato, ma non un documentario: la costruzione del film poggia su un lavoro preliminare il più ampio possibile, di cui reca traccia in vari modi. Per esempio nella scelta dei luoghi e delle comparse, che 5. Del 1961 è anche Il giorno della civetta di Damiano Damiani, tratto dal romanzo di Sciascia. Sempre un film di Damiani, Io ho paura (1977), su un agente che non vuole morire facendo la scorta, sembra chiudere la stagione migliore del cinema civile italiano. 6. Su questi temi, fondamentale L. Boltanski, La souffrance à distance. Morale humanitaire, médias et politique, Métailié, Paris 1993; trad. it. Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano 2001.
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sono gli stessi delle vicende accadute: il paese di Montelepre, le terre riarse e petrose del monte Kumeta di cui Giuliano era «re», ma anche l’aula del tribunale, dove si fronteggiano magistrati e picciotti, in uno spazio di totale e sistematica incomunicabilità. Un ancoraggio spaziale che va a costituire un piano di referenza interno al film capace di emanare un fortissimo effetto di realtà. La costruzione drammatica è altrettanto rigorosa, come emerge dall’insieme delle marche autoriali: dall’uso contrastato della luce che risalta nello splendido bianco e nero, alla costruzione per innesti e disinnesti fra piani spazio-temporali diversi; alle varie modalità di ripresa che sottolineano le relazioni fra chi guarda e chi è guardato, fra chi spara e chi muore; alla voce narrante fuori campo che spesso interviene pacata a completare il racconto per frammenti delle immagini7. Il film inizia con una plongée sul cadavere di Giuliano, riverso in un cortile assolato, faccia a terra, con la canottiera inzuppata di sangue, la pistola a poche spanne del braccio destro allungato in avanti, circondato dai funzionari che procedono ai rilevamenti, e poi dai fotografi e dai giornalisti: un set, effettivamente, di cui emergono subito le incongruenze, e che enuncia subito la tesi abbracciata dal film, di una morte e di una versione ufficiale assai di comodo. È così posta una delle questioni fondamentali della nostra storia: il costante sdoppiamento fra ciò che è e ciò che appare, la difficoltà di pervenire alla certezza sulle dinamiche degli eventi e di avere piena fiducia in istituzioni che appaiono opache e distanti. È fissata anche la genealogia del rapporto fra di esse e la Sicilia, prima ancora che con la mafia: il dopoguerra, le spinte indipendentiste, l’autonomia regionale, il pericolo comunista da abbattere e sradicare. 3. Instant movies e biografie Giuseppe Ferrara è uno degli autori che hanno dedicato il loro cinema alle vicende più scabrose della nostra storia. Secondo le sue affermazioni di poetica, il cinema è «scrittura della percezione audiovisiva»: quest’ultima può essere registrata; funzionare, se necessario, come base di un pensiero audiovisivo, e come forma di testimonianza. Ferrara rivendica per il suo lavoro un approccio simile a quello dello storico, che impara a riunire in un unico 7. Afferma Rosi: «Non esistono fonti d’ispirazione più ricche della realtà, ma il regista non deve tradirla applicando una forma che non sia dettata dalla realtà stessa. Io cerco di far nascere i miei film dalla realtà che osservo ed esamino. Faccio in modo che l’ambiente che analizzo e la verità umana che studio mi dettino una storia». Intervista a Francesco Rosi, in M. Ciment, Dossier Rosi, Il Castoro, Milano 2008, p.87.
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discorso la dimensione oggettiva, data dalla raccolta dei dati e dei documenti, e quella soggettiva, che li organizza insieme, li interpreta e li propone agli altri sulla base di una visione unitaria. Il suo primo film sulla mafia è Il sasso in bocca (1970), un documentario che ingloba elementi di finzione, secondo una tecnica che riutilizzerà costantemente. In Cento giorni a Palermo, del 1984, Lino Ventura impersona il generale Dalla Chiesa, dandogli l’allure determinata e al contempo disincantata dei tanti ruoli noir interpretati nella sua carriera. Il film ricostruisce in modo piuttosto asciutto la vicenda del generale che «aveva sconfitto il terrorismo» e che è inviato dal governo alla prefettura di Palermo in seguito all’assassinio di Pio La Torre (a Palermo, il 30 aprile 1982), con la promessa di avere presto poteri adeguati alla situazione. Il film lo mostra deciso, competente su tutti gli aspetti del crimine mafioso, dagli omicidi agli affari, accolto dapprima con ossequio e poi con fastidio crescente. Presto isolato, cerca consenso nella società civile: nelle scuole con gli studenti, al porto con gli operai. La sua vicenda sentimentale è trattata con sobrietà: in un primo tempo rispedisce a Roma la giovane Emanuela che l’ha raggiunto, poi la sposa. Dopo l’iniziale felicità a Villa Paino, si addensano i presagi: passando per la Vucciria, fra gli animali macellati; a una grande festa a Monreale, dove gli stessi notabili che li applaudono si spartiscono una enorme cassata a forma di sirena, simbolo di Palermo. Intanto a Roma non passa la legge sulle esattorie siciliane, controllate nella loro totalità dai fratelli Salvo, un evidente, ingiusto beneficio: le cose precipitano. Dalla Chiesa rilascia a Giorgio Bocca una celebre intervista in cui denuncia la situazione e il proprio isolamento. È ucciso con la moglie, mentre una sera, il 3 settembre 1982, lascia la Prefettura per andare a cena. Il film ha insistito sulla sua prudenza, suggerisce che a fare segno ai suoi assassini sia un suo stretto collaboratore. Il film fissa una sorta di caso esemplare dell’uomo di un ambiguo Stato avviato al sacrificio, sostanzialmente solo, che tutto sa e che lotta freddamente contro il tempo e contro il suo stesso ambiente. Uno schema tragico che sarà ripercorso nella sostanza dieci anni dopo, dal film su Giovanni Falcone, anch’esso girato subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui 500 chili di tritolo fanno saltare la strada fra l’aeroporto e Palermo nel momento in cui vi transita il giudice con la moglie e la scorta8. Stavolta la narrazione è più sciolta, il pubblico ritrova nel film attori popolari come Michele Placido, il consacrato commissario Corrado Cattani della Piovra televisiva 8. Giovanni Falcone (1993) con Michele Placido, Anna Bonaiuto e Giancarlo Giannini nella parte di Paolo Borsellino.
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di Damiano Damiani per quattro serie consecutive, e Giancarlo Giannini. Hanno più spazio i rapporti umani: i giudici parlano molto e commentano tra di loro le molte cose che accadono: il che forse aiuta la comprensione dello spettatore, anche se indebolisce l’impianto drammatico. La vicenda dei giudici è fissata in due parti complementari. La prima in cui Falcone e i suoi compagni sono vincenti, malgrado tutto e tutti: il pool lavora blindato prima nel Palazzo di Giustizia, poi nel supercarcere dell’Asinara. Si celebra il maxiprocesso, si conclude con le clamorose condanne. La seconda parte, invece, è avversa fino alla catastrofe: a cominciare dalla mancata nomina di Falcone a capo della procura di Palermo, dove il Csm gli preferisce Vincenzo Meli. È la stagione dei veleni, oltre che dei delitti che si susseguono in una guerra senza esclusione di colpi. Esposto a una campagna di delegittimazione, dopo le lettere anonime del Corvo e un fallito attentato all’Addaura, Falcone accetta di trasferirsi a Roma al Ministero, come Direttore generale per gli affari penali, nella speranza di ottenere dalla politica un maggiore ascolto e un maggior sostegno. Quando nel 1992 la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso, la reazione della mafia è immediata: uccide il potente democristiano Salvo Lima, esponente della corrente andreottiana in Sicilia. Falcone decide di partire per Palermo, ed ecco gli accurati e svelti preparativi della strage di Capaci. Falcone, alla guida dell’auto al momento dell’esplosione, muore dopo qualche ora all’ospedale, vegliato da Borsellino. Muoiono la moglie e altri cinque uomini della scorta. Dopo pochi mesi, toccherà a Borsellino essere ucciso con un’autobomba, in un delitto annunciato. Il film si propone come biografia autorizzata di Falcone, di cui abbraccia senza esitare anche le scelte più discusse: ne fa un personaggio combattivo, coraggioso, lungimirante. Certo si percepisce la difficoltà di tenere insieme un materiale così ricco e complesso: un compito forse eccessivo per un solo film, sebbene l’urgenza che caratterizza la sua fattura non sia il minore dei suoi meriti. Dal punto di vista compositivo, il film, alla ricerca di effetti di autenticità e presenza, fa ampiamente ricorso all’inserzione di pezzi in bianco e nero nel caso di ricordi, eventi paralleli o passati, un procedimento che ritroveremo spesso9. Fra di essi vi è la sequenza della partita a scacchi con la morte tratta da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, che Falcone vede e rivede, consapevole premonizione, in video, in sogno o nell’immaginazione: la morte assomiglia molto a un collega del Palazzo di Giustizia, a un certo punto i loro volti si confondono. Non mancano le citazioni, come la frase che 9. Su questi dispositivi, fondamentale P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
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nel suo libro-intervista con Marcelle Padovani è dedicata alle vittime degli omicidi politici: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere»10. Controprova: il caso Livatino, ricostruito nel 1994 in uno dei film che tengono comunque desta la tradizione del nostro cinema civile11, Il giudice ragazzino, di Alessandro Di Robilant12. Siamo ad Agrigento, alla fine degli anni Ottanta: la storia narrata è quella del giudice Rosario Livatino, ammazzato per ordine della Stidda di Agrigento mentre era in viaggio da solo fra Agrigento e Canicattì, il 21 settembre 1990, a 38 anni, un anno dopo aver assunto l’incarico di giudice a latere presso il Tribunale di Agrigento e aver proceduto contro la mafia anche attraverso la confisca dei beni. Anche questo film inizia con una sequenza premonitrice: siamo in un rigoglioso giardino del locale Rotary club, durante la conferenza di Livatino sul tema «Il posto del giudice nella società contemporanea». Ma gli ascoltatori non manifestano nessuna condivisione alle sue parole, cui il giovane giudice si atterrà invece scrupolosamente. Il film, piuttosto televisivo anche per la scelta degli attori – un giovanissimo Giulio Scarpati e Sabrina Ferilli, avvocato d’ufficio –, tematizza bene le gravi difficoltà ambientali di un magistrato che intenda effettivamente svolgere il proprio mandato. Livatino infatti vive con gli anziani genitori proprio sotto lo stesso tetto di uno dei principali imputati della sua inchiesta, in una vischiosissima situazione sociale: la mafia è dentro casa. Gli indagati gli mancano di rispetto, fanno riferimento alla sua vita personale nel corso degli interrogatori, rispondono con gesti plateali di arroganza e di minaccia al suo rifiuto di accettare i regali in uso13. Fin qui il film, che ne onora la memoria: ma dopo la sua morte persino il papa Giovanni Paolo II definì Livatino «martire della giustizia e indirettamente della fede». Ed effettivamente dal 21 settembre 2011 è iniziato il processo per la 10. G. Falcone, con M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano 1991, p. 171. 11. Come Il muro di gomma (M. Risi, 1991), Il portaborse (D. Luchetti, 1991), Un eroe borghese (M. Placido, 1996), Un uomo perbene (M. Zaccaro, 1999). Cfr. M. Argentieri, Scenari Italiani, in V. Zagarrio (a cura di), Il Cinema della Transizione. Scenari Italiani degli Anni Novanta, Marsilio, Venezia 2000, p. 73. 12. Il film è liberamente tratto dal libro omonimo di Nando Dalla Chiesa (1994), che riprende l’epiteto di «giudice ragazzino» da una infelice esternazione di Cossiga. 13. «È incredibile quanti regali si fanno in Sicilia», osservava Falcone nella sua celebre intervista con Marcelle Padovani (p. 87). In effetti nel film su Livatino c’è un’insistita provocazione nell’offerta di doni e nella drammatizzazione del loro rifiuto, come quando le bottiglie di vino di una cassa rinviata al mittente sono spaccate una a una contro il muro di casa del giudice.
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sua beatificazione: ecco un caso, non isolato, in cui la sfera religiosa e quella mediatica si incontrano in una stessa ricerca di riconoscimento. Qualche anno dopo, ne I giudici (1999) di Ricky Tognazzi, l’attualità è già più lontana, e più forte l’impronta della «storia di mafia» come genere cinematografico. Il film in realtà è girato per la televisione americana (HBO), e si dice tratto dallo stesso libro di Alexander Stille che in seguito diventerà un documentario di denuncia. Qui la prospettiva è decisamente narrativa, ed enfatizza anche la vicenda privata di Falcone e Borsellino, la loro amicizia, i loro affetti. Il motivo premonitore è all’inizio: una lunga scena in tonnara al momento della mattanza, al porto di Trapani, dove Falcone, deluso per la separazione dalla moglie, si incontra con Borsellino. Emergono i tratti di una forte sicilianità: le radici nella tradizione, l’amicizia virile, la conversazione sulle «femmine». Borsellino, felicemente sposato, presenterà a Falcone Francesca Morvillo, anch’essa magistrato: di qui un’ampia parentesi rosa per raccontare la loro storia, dapprima contrastata, fino al matrimonio e al comune destino. Un altro topos è la Procura di Palermo: ambiente ostile, ufficio senza sedie né penne, colleghi respingenti. È proprio prestando una penna al giudice Costa, perché possa firmare gli ordini di cattura che tutti si rifiutano di firmare, che Falcone passa dalla sezione fallimenti a occuparsi di mafia. Il film si sviluppa anche come una collezione di motivi biografici14, che sono altrettanti tasselli di una vicenda ormai tutta emblematica: dalla passione di Falcone per l’opera lirica, al suo rispetto per la vecchia mafia e i suoi codici. Questo permette lo stabilirsi di un inedito sodalizio con Tommaso Buscetta: dopo il fatidico incontro iniziale, dove Falcone, tra una sigaretta e l’altra, è sfidato ad andare avanti e avvertito della morte che li attende, giudice e pentito mangiano insieme in carcere, di notte, a sottolineare il riconoscimento reciproco e l’urgenza dell’obiettivo comune, sebbene per motivi diversi, di distruggere la nuova mafia. I limiti del film sono nell’eccesso di glamour che lo pervade: dalla scelta di un compiaciuto e piuttosto rigido Chazz Palmenteri come attore protagonista, agli ambienti lussuosi di una Sicilia ad uso di un turismo, almeno visivo, d’élite. E però si tratta probabilmente del linguaggio più verosimile per un pubblico americano di televisione. Il trattamento è assolutamente lo stesso di un film di finzione, a parte la fine, dove s’innesta il solito rituale del passaggio al bianco e nero delle scene documentarie della strage di Falcone, e di una didascalia finale che completa la vicenda ricordando l’uccisione di poco seguente anche di Paolo Borsellino, e poi le dimissioni del governo Andreotti nel 1992 e finalmente l’arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993). 14. «Biografemi», per Roland Barthes.
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Un film come questo contribuisce a sancire l’ingresso delle vicende di Falcone e Borsellino nell’immaginario cinematografico, che enfatizza la mitologia dei personaggi, trasforma tutte le azioni e le battute in gesti simbolici e in frasi celebri, contribuendo a fissarne i caratteri di eroi, civili e mediali allo stesso tempo, oggetto cioè di forme ed espressioni di riconoscimento e a tratti di culto15. Il meccanismo di tipizzazione e di raccolta degli episodi e delle frasi celebri diventa ancor più evidente nei prodotti per la televisione italiana, come la miniserie Paolo Borsellino (2004) diretta da Gianluca Maria Tavarelli. Anche qui la prima puntata è di segno euforico, mentre la seconda, dopo l’uccisione di Falcone, si divide fra il compianto per quest’ultimo e l’attesa della fine di Borsellino. Il trattamento-fiction/melodramma è palese, si manifesta per esempio nell’eccesso di esplicitezza, con conseguente lentezza: tutto è detto, tutto è mostrato nei minimi dettagli16. Poiché Borsellino era un accanito fumatore, non v’è scena in cui non si accenda una sigaretta. Oppure la sua passione per la bicicletta diventa un motivo ricorrente, simbolo delle sue umane passioni e delle rinunce a cui deve sottostare. Questa esplicitezza può essere funzionale alla leggibilità generale della vicenda, offrire, soprattutto nella prima parte, una buona ricostruzione delle indagini, o della svolta concettuale – non perseguire tanto i singoli delitti di mafia quanto la mafia in sé – che portò all’istruzione del maxiprocesso. Le logiche narrative del piccolo schermo al tempo stesso inducono effetti di sostanziale irrealtà, come quando la decisione di costituire il pool antimafia è presa al volo in un corridoio, o il patto fra i due giudici («il segugio e il ragioniere») viene rinnovato con esuberanza durante un pranzo all’aperto, sotto lo sguardo diffidente degli altri avventori e le «spiate» di occhi misteriosi. Anche l’ambientazione è orizzontale rispetto al supposto telespettatore: gli interni sono mediamente borghesi, il giudice e la sua famiglia si dividono fra la casa di città e quella del mare. I rapporti famigliari sono centrali: la moglie è perennemente angosciata ma attenta ai fornelli e sempre a sostegno del marito, le dinamiche coi figli insistono sull’interazione edificante con il padre e sui problemi generati dal suo lavoro, dal cronico ritardo a pranzo all’anoressia di una delle figlie, qui 15. Sui culti mediali cfr. U. Volli (a cura di), Culti tv. Il tubo catodico e i suoi adepti, Sperling&Kupfer/ Link (Rti), Milano 2002. 16. Sui tratti tipici della fiction cfr. per esempio F. Casetti, F. Villa (a cura di), La storia comune. Funzione, forme e generi della fiction televisiva, Nuova Eri, Torino 1992, pp. 61-67, che li identificano appunto nel realismo dei sentimenti; la descrizione soggettiva degli eventi; la «miticità» dello scioglimento degli eventi; la ripetizione, la continua risemantizzazione di strutture narrative modulari; l’allentamento dei legami spazio-temporali con il reale; la logica del «frattempo» o delle storie parallele.
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molto meno aggressiva che non in altri film17. La seconda parte è l’infinita angosciosa attesa che si compia l’attentato: le indagini restano sullo sfondo, anche perché misteriose, mentre in primo piano è il senso di abbandono da parte delle istituzioni, cui si contrappone il sostegno della famiglia e della scorta, che il giudice tenta di proteggere. L’identificazione sollecitata è di tipo personale, Falcone e Borsellino sono eccezioni in un mondo che li guarda con sorpresa, paura, se non fastidio, la lotta contro la mafia sembra quasi una loro questione privata, avulsa dal suo significato più ampio di affermazione della giustizia e dalle sue ricadute sulla società. In questa puntigliosa ricostruzione, che privilegia l’elencazione completa dei fatti e delle situazioni, diventano significative del genere commemorativo e melò anche le omissioni o gli accenni incompleti agli episodi che videro i giudici al centro delle polemiche18. Non manca neppure qui l’interpolazione di brani documentari, come una breve sequenza dei funerali di Falcone con il drammatico intervento della giovane moglie dell’agente di scorta Vito Schifani e alla fine del film le foto dell’attentato, e i discorsi commemorativi. Non viene usata la diffusa tecnica dello stacco, che marca il contrasto tra i diversi tipi di materiale audiovisivo usati, piuttosto si cerca di integrare nel testo la parte documentale, contaminandola. Con scarsi risultati: il momento di maggiore commozione è ottenuto con i mezzi della finzione, quando, due giorni dopo l’attentato, la figlia Lucia si presenta in università a dare un esame di giurisprudenza, e sui banchi dietro di lei le facce degli studenti sono quelle di tutti coloro che sono morti come suo padre. Allo scadere dei vent’anni dalla morte dei magistrati, la Rai propone una sua fiction, sempre intitolata a Borsellino19, assai più asciutta della precedente, e soprattutto con la carismatica partecipazione di Luca Zingaretti, identificato dal pubblico tv con il sicilianissimo commissario Montalbano tratto dai romanzi di Andrea Camilleri20. Anche questa scelta rappresenta di per sé un omaggio, ed effettivamente il lavoro è più equilibrato fra la ricostruzione di una personalità 17. Manfredi, più grande che nella realtà, dove aveva 9 anni, è interpretato da Elio Germano, nella parte della figlia Fiammetta c’è Veronica D’Agostino, che sarà poi l’attrice protagonista della Siciliana ribelle… 18. Come l’investimento da parte della macchina della scorta di Borsellino di alcuni studenti, uno dei quali morì sul colpo (25 novembre 1986), o l’articolo di Sciascia contro la sua promozione a Marsala, intitolato dal «Corriere della Sera» I professionisti dell’antimafia (gennaio 1987), che innescò una violenta polemica, o la sua stessa dichiarata appartenenza politica di destra. 19. A Giovanni Falcone la Rai aveva dedicato nel 2006, due puntate, intitolate Giovanni Falcone. L’uomo che sfidò Cosa Nostra, di Andrea e Antonio Frazzi, con Massimo Dapporto, Emilio Solfrizzi e Elena Sofia Ricci. In questa su Borsellino la regia è di Alberto Negrin, con Lorenza Indovina nella parte della moglie. 20. Cfr. G. Marrone, Montalbano. Affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico, Rai-Eri, Roma 2003.
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e l’inchiesta sulla morte di Falcone che Borsellino tentò di condurre a termine. La trasmissione, nel giorno della ricorrenza della sua morte, si configura come una cerimonia mediale accanto alle altre previste nella giornata, dove la memoria e il ricordo sono ormai ibridi fra realtà passata e rappresentazione attuale21. 4. La nuova stagione, inchieste e documentari Negli anni recenti si osservano importanti novità rispetto al cinema civile del passato, che potremmo sintetizzare in una ridefinizione e a tratti una radicalizzazione delle scelte espressive, fra la visionarietà da un lato (Il divo di Paolo Sorrentino, 2008, per certi versi anche Gomorra di Matteo Garrone, 2008) e stretta documentazione dall’altra. Forse proprio il documentario di Marco Turco In un altro paese (2006, distribuito nel 2008) ricostruisce il tragico e complesso capitolo di Falcone e Borsellino nel modo più efficace, trasponendo l’inchiesta del giornalista e scrittore italo-americano Alexander Stille. Il titolo riprende la dedica a Falcone e Borsellino, che per esteso, recita: «In un altro paese gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nelle condizioni di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario». Prodotto in piena epoca berlusconiana, il film ripercorre le vicende dei due giudici non solo per onorarne la memoria, ma per riaprire il dossier della loro morte e denunciare l’interruzione della lotta alla mafia, e le ambiguità del governo. Protagonista del film è lo stesso giornalista-scrittore, doppiato dall’attore Fabrizio Gifuni: la sua inchiesta si dipana tra gli archivi pubblici in cui si reca a esaminare gli incartamenti e gli incontri con i protagonisti di quel periodo. Lo accompagnano alcuni testimoni privilegiati, come Letizia Battaglia, giornalista de «L’Ora» di Palermo dal 1969, consacrata «fotografa della mafia» per i suoi reportage negli anni più bui. E poi Antonino Caponnetto, compagno dei giudici ammazzati, la cui sconsolata dichiarazione («È tutto finito!»), mentre lascia la scena della strage di Borsellino, apre il 21. Su questo tema, cfr. A.M. Lorusso, P. Violi, Nassirya: una fiction italiana. Tra finzione e realtà storica, in M.P. Pozzato, G. Grignaffini (a cura di), Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction, Link Ricerca, Milano 2008, che scrivono, a proposito di una fiction «celebrativa» dedicata a Nassirya: «Si realizza in questo processo una sorta di ibridazione della memoria, che finisce con il contaminare elementi fictional e ancoraggi referenziali di realtà. Nonostante l’iscrizione sul piano dei nomi e dei volti dei militari uccisi, per lo spettatore il vero eroe di Nassirya finirà con il chiamarsi Stefano Carboni e avere il volto di Raoul Bova» (p. 261).
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film. A loro si alternano altri interventi, alcuni a carattere di testimonianza diretta, altri di commento e ragionamento, come quelli dello storico Sergio Luzzatto. Prende così forma una narrazione integrata fra parole e immagini, il cui scopo fondamentale è quello di ricostruire e comprendere, ricordare ma anche denunciare, esempio di un equilibrio riuscito tra cognizione ed emozione, approccio storico e testimoniale. Particolarmente efficace la documentazione visiva, spesso scioccante, densa di informazioni. Come le foto di Letizia Battaglia che fissano gli elementi di una scena tragica canonica, con il morto ammazzato per strada, il sangue sul selciato sconnesso di una città da dopoguerra, le donne nere, i fotografi, i poliziotti e gli spettatori. Oppure le riprese del maxiprocesso, documentato fin dalla costruzione dell’aula bunker, pensata per resistere a un attacco di missili: elemento simbolico di grande potenza, sia all’esterno, architettura di guerra, sia all’interno, con le gabbie e gli imputati di diversa attitudine, il rumore e il silenzio. Contro i luoghi comuni del mito oscuro di una mafia invincibile e pervasiva, qui si restituisce un’idea precisa dei passaggi della vera e propria guerra che i giudici del pool le mossero sui diversi fronti: quello diretto delle indagini e dei processi, ma anche quello con Roma per il sostegno legislativo, e con il proprio stesso ambiente. Un altro documentario, Il fantasma di Corleone (2006) di Marco Amenta e Andrea Purgatori (il primo alla regia), inizia dove finisce il precedente, si dichiara «una forma di vigilanza». Marco Amenta, poi autore di La siciliana ribelle (2008), partito dalla Sicilia a 18 anni dopo le stragi di Falcone e Borsellino e deciso a non tornarci più, ci torna invece sulle orme di Bernardo Provenzano, per comprendere la sua incredibile latitanza e documentare il lavoro di Giuseppe Linares, caposquadra della Mobile di Trapani detto appunto «il cacciatore», in coordinamento con il commissariato di Marsala. L’impianto dell’inchiesta sperimentato nel film In un altro paese, fa qui maggiori concessioni alla tensione e alla spettacolarità. Da un lato vi è la ricostruzione della personalità e della storia di Provenzano, dall’altro è dato ampio spazio alle tecniche di indagine e anche all’entusiasmo di Linares, che argomenta il proprio lavoro con riferimenti colti, come alla tragedia greca e a Ettore, l’eroe apparentemente sconfitto ma moralmente vincente. Emergono particolari inquietanti, l’avvocato difensore del grande latitante che lo può incontrare segretamente, la storia delle operazioni mediche fatte all’estero e poi rimborsate dalla regione siciliana. Per arrivare al dunque, alle «coperture politiche». Il film sembra partecipare direttamente alla caccia, che ora appare affidata in primo luogo alle forze dell’ordine, sul territorio, come vere eredi del metodo del pull. Compaiono i nuovi «poliziotti», agenti che in azione si ibridazioni della memoria
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mascherano, che esultano al momento delle catture riprese in tv, mentre i giudici sembrano ora più defilati, quasi dei commentatori22. 5. Conclusioni: il cinema come iscrizione L’ultimo film dedicato alla memoria dei giudici a vent’anni dalla loro morte cui accenniamo è Il Convitto Falcone di Pasquale Scimeca (2012)23, tratto dal racconto La mia partita di Giuseppe Cadili, scritto dopo il ritrovamento di due pagelle di Falcone, che frequentò l’istituto dall’ottobre 1944. Racconta la storia di un ragazzino, ospite del Convitto, deciso a truccare la partita del torneo di calcio per rivalsa, che poi desiste dal proposito e comprende il valore dell’onestà, si potrebbe dire convertito dalle forme di presenza e di iscrizione dei valori di Falcone sugli stessi muri dell’Istituto. Nelle intenzioni del regista, anche il cinema dovrebbe contribuire a ottenere questo effetto sugli spettatori. Ecco che i dettagli biografici ancora una volta si trasformano in eventi simbolici, con il valore di esempi, la cui efficacia si può trasporre in base alla similarità che rivestono con i casi vissuti: così in Convitto Falcone la partita a pallone nel cortile della scuola diventa la partita della vita: «Qui un ragazzino si gioca tutto, il futuro e l’onestà, decidendo se truccare una semplice partita di calcio»24. Scimeca considera il cinema pedagogicamente più efficace della tv. Come abbiamo visto da questa breve rassegna, è difficile prendere decisamente partito. È vero che le fiction sono spesso banali, ma può essere confuso e superficiale anche un film pieno di buone intenzioni. In realtà la formazione di una competenza effettiva negli spettatori-cittadini, il germe di una coscienza più vigile e attenta ai valori della legalità, non può che essere un percorso graduale, in cui è fondamentale lo scatto di una volontà di sapere e di uno spirito critico. Li può innescare una notizia di telegiornale o una fiction modesta, attraverso cui essere informati, indignati, impietositi, commossi: pronti a commemorare ma anche a riflettere, e se necessario agire. 22. Un altro film-documentario uscito in occasione del ventennale di Falcone e Borsellino è Uomini soli, di Paolo Santolini, distribuito dal quotidiano «La Repubblica» con il libro omonimo di Attilio Bolzoni. 23. Scimeca firma la sceneggiatura insieme a Francesco La Licata (autore della biografia Storia di Giovanni Falcone, 2002). Già autore di Placido Rizzotto (2000), sul sindacalista ucciso dalla mafia il 10 marzo 1948 il cui corpo è stato ritrovato di recente, consentendo di celebrarne i funerali di Stato, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in concomitanza con la commemorazione di Falcone e Borsellino nell’aula bunker dell’Ucciardone. In questo modo si è creato un effetto di continuità e di unitarietà nell’omaggio alle vittime della mafia. 24. A. Falsone, La scuola di Falcone porta al cinema la sfida per l’onestà, «il Venerdì di Repubblica», 6/4, 2012, p. 43.
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Il sistema opaco. La giustizia nella fiction italiana MILLY BUONANNO
1. Perry Mason abita ancora qui «Prime time television’s great lawyers never die: they just retire to syndication»1. Il grande avvocato a cui questa affermazione si riferisce è, abbastanza prevedibilmente, Perry Mason: protagonista negli anni Cinquanta e Sessanta di uno dei primi legal drama della televisione americana2, importato e trasmesso con largo successo in Italia a partire dal 1959. È bene rammentare come la televisione pubblica italiana, all’epoca nella sua prima infanzia, praticasse una politica fortemente restrittiva nei confronti delle importazioni di prodotto seriale straniero, in specie di origine statunitense3. Ma la fama di Perry Mason ebbe ragione di cautele e resistenze, e una volta insediato sul Programma Nazionale il personaggio si avviò a diventare rapidamente, anche in Italia, l’icona imperitura dell’avvocato difensore, campione della verità e paladino dell’innocenza. Dopo più di mezzo secolo, Perry Mason è ancora fra noi, a conferma che certi eroi del prime time non muoiono mai, o possono comunque godere di una lunga afterlife nei circuiti di un secondo mercato televisivo, laddove esiste, o nei tanti rivoli del contemporaneo ambiente multicanale, o nell’ennesimo passaggio sulle stesse reti del broadcasting. Di recente, gli episodi della vecchia serie sono ricomparsi nella programmazione sia di Rete 4 sia 1. N. Rosenberg, Perry Mason, in R.M. Jarvis & P.R. Joseph (a cura di), Prime Time Law, Carolina Academic Press, Durham 1998, p. 115. 2. La prima generazione dei legal drama americani si caratterizza, secondo Barbara Villez, per il ruolo protettivo e salvifico, da «angeli custodi», dei personaggi protagonisti. Cfr. B. Villez, Television and the Legal System, Routledge, London 2008. 3. In proposito rimando a M. Buonanno, La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale, Laterza, Roma 2012, in particolare i capp. 1 e 2.
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della rete satellitare Fox Retro. Ma, in modo alquanto paradossale, la persistente presenza della figura di Perry Mason non tanto o non soltanto sui nostri teleschermi quanto in un diffuso «immaginario giudiziario» degli italiani, è disvelata, tra l’altro, dall’uso corrente di una locuzione con cui si intende asserire esattamente il contrario: ovvero, «Perry Mason non abita qui». Utilizzata in diversi contesti discorsivi, e con diverse articolazioni di significato – invariabilmente pervase da un senso di privazione relativa per «quel che non abbiamo» – la frase ha acquisito l’autorevolezza di un taken-forgranted; sebbene la sua valenza sia più evocativa e suggestiva che cognitiva. A seconda dei casi, o degli intenti del discorso, il nome del personaggio evoca infatti, o sta per, l’idealtipo di un’intera categoria professionale (gli avvocati), di una peculiare maniera di intendere ed esercitare il ruolo di difensore4, di un popolare genere narrativo (il legal e il courtroom drama), e perfino della giustizia tout court5. E basterebbe il carico simbolico e metaforico che viene in tal modo sostenuto dalla figura di Perry Mason per riconoscere come questa sia ancora in grado di fornire riferimenti (di senso comune) e di costituire la pietra di paragone su cui gli standard del funzionamento nonché della rappresentazione del sistema giudiziario in Italia possono venire misurati – di norma per stigmatizzare la distanza dal tipo ideale emblematizzato da Perry Mason. In realtà, il tempo ha perfino accorciato certe distanze. Il modello accusatorio del processo, introdotto alla fine degli Ottanta dalla riforma del codice di procedura penale, ha creato per esempio le condizioni di un habitat dibattimentale analogo a quello in cui, mezzo secolo fa, un torreggiante Perry Mason aveva trionfalmente ragione dell’accusa, a tutto beneficio dell’innocenza e della giustizia. Una giustizia etica, s’intende, che non necessariamente coincide con il buon funzionamento di un corpo di norme e pratiche legali in grado di garantire tanto la tutela dei diritti degli imputati quanto l’individuazione e la equa condanna dei veri colpevoli. Non occorre neanche un esercizio ermeneutico troppo approfondito per scorgere come, nella serie eponima (e ancor più esplicitamente nei romanzi), l’avversario di cui sistematicamente – con enorme astuzia e malcelato compiacimento – Perry Mason scardina i meccanismi, sia un sistema giudiziario disfunzionale, votato all’errore, subordinato al potere dell’accusa, viziato 4. Cfr. per esempio F. Sarno e M. Sarno, L’evoluzione della legittima difesa, Giuffrè, Milano 2008, dove gli autori commentano l’ancor scarsa propensione della classe forense italiana alla difesa attiva con l’espressione canonica: «In sostanza, Perry Mason non abita qui, o non ancora…» (p. 134). 5. «Perry Mason non abita qui» era il titolo di un pubblico incontro con il magistrato Giancarlo De Cataldo, svoltosi il 18 novembre 2011, per discutere sulla Giustizia.
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dalle procedure di designazione politica dei giudici: scenario transatlantico di giustizia imperfetta nel quale, oggi forse con maggiore chiarezza di ieri, potremmo cogliere, al di là delle differenze, le similarità con gli scenari della inferma giustizia domestica. D’altro canto, l’immaginazione stessa di un personaggio come Perry Mason non potrebbe trovare la sua genesi e il suo terreno di coltura se non nell’assunto del malfunzionamento di una macchina legale reiteratamente esposta e incline al rischio fatale dell’errore giudiziario; da qui la necessità di una pirotecnica figura di eroe-difensore6, teso ad assicurare il riconoscimento dell’innocenza e il trionfo della verità contro ogni logica e pratica distorta o iniqua di gestione del procedimento penale. Risoluzione sicuramente apportatrice di grande sollievo morale e di speranzosa fiducia nella possibilità che giustizia sia fatta, ma nella quale è anche possibile riconoscere una concezione invero un po’ personalistica del modo stesso di fare giustizia, non estranea in quanto tale alla né alla realtà né all’immaginario italiano. Così come non ci è estraneo il paradigma rigidamente manicheo che presiede alla costruzione dei casi giudiziari affrontati da Perry Mason, dove non c’è spazio per alcun ragionevole dubbio o sfumatura poiché gli indagati sono sempre irrefutabilmente innocenti e gli inquirenti sempre pervicacemente in errore. Si badi bene che non si tratta di una presunzione d’innocenza di schietta matrice garantista, in opposizione polare con la presunzione di colpevolezza che tanto spesso da noi produce mostri sbattuti in prima pagina e misure di protratta carcerazione preventiva. Si tratta piuttosto di una chiara scelta di campo, sulla base di una problematica conflazione tra fare giustizia e stare dalla parte giusta: per principio Perry Mason accetta di difendere solo gli innocenti, e ciò ne fa senza dubbio un paladino degli sventurati cui accade di venire inquisiti e incriminati senza colpa, ma non proprio un convinto ed esemplare portabandiera del diritto alla difesa di ogni imputato, anche se colpevole di reati. Di fatto, poi, la principale e davvero vincente abilità difensiva di Perry Mason consiste non tanto nel raccogliere ed esibire prove in grado di contraddire o smontare le tesi accusatorie nei confronti dei suoi assistiti, quanto nell’ottenere grazie ai suoi incalzanti interrogatori la pubblica confessione dei veri colpevoli: momento di massimo apice drammaturgico, di cui ben si comprende (e si apprezza, innegabilmente) l’efficace funzione liberatoria di climax risolutivo della intera vicenda processuale, ma che per altro verso non manca di insinuare qualche ragionevole dubbio su una so6. Trovo la definizione di Mason come pyrotechnician in F.M. Nevins, Perry Mason, in M. Asimow (a cura di), Lawyers in Your Living Room, ABA Publishing, Chicago 2009, pp. 51-60.
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vrapposizione di ruoli e di poteri fra difesa e accusa. Di certo niente come la scoperta del vero autore del delitto può asseverare l’innocenza dell’imputato e garantire il trionfo della difesa; tuttavia la confessione piena che Perry Mason puntualmente ottiene dai colpevoli – invero senza esercitare forme di coercizione o intimidazione – non è soltanto funzionale alle sue strategie difensive, o alla necessità di dare soddisfacimento all’attesa che il delitto non resti impunito. È, piuttosto, al servizio di ciò che sembra stare maggiormente a cuore al protagonista, forse non al di là ma al di sopra del sistema giudiziario con i suoi immanenti diritti di difesa, le imputazioni di colpa, le sentenze di assoluzione e di condanna: ovvero l’adesione a una sorta di credo o di legge superiore «that demands not simply justice but THE TRUTH»7. Si potrebbe discutere sul carattere semplicistico e fors’anche fuorviante di una verità che, liberandosi dalle ombre e dai misteri, si svela inconfutabilmente nella confessione del colpevole; senza peraltro misconoscere come proprio nella instancabile ricerca di una verità che è a un tempo condizione e realizzazione di giustizia risieda la nobilitazione e la eroicizzazione della figura di Perry Mason. Appena un po’ fuori dall’alone del mito, tuttavia, si scorge qualcosa di più inquietante: e cioè, che nel perseguire la sua missione di truth-seeking, il personaggio si appropria di tutti i ruoli e le prerogative che entrano in gioco nel procedimento penale. Agisce, infatti, non soltanto da difensore (come gli spetta) e da investigatore (come anche da noi consente e incoraggia il nuovo codice di procedura), ma per di più da pubblico ministero (assumendosi il compito di individuare il colpevole e indurlo a confessare), e in qualche misura da giudice (poiché egli emette in partenza un giudizio assolutorio nei confronti di coloro che accetta di difendere). La confessione del vero colpevole, per giunta, consegna alla giuria un verdetto già pronto all’uso8. Affermare che Mason «is a defense lawyer who epitomizes the Althusserian concept of an ideological state apparatus»9 è probabilmente eccessivo – non si può davvero imputargli di essere al servizio di un progetto autoritario. Ma la sua innegabile tendenza accentratrice e il suo protagonismo ne fanno una figura di uomo di legge la cui (improbabile) irreperibilità nel nostro habitat giudiziario reale e immaginario non dovrebbe suscitare troppi rimpianti e sensi di privazione. 7. N. Rosenberg, op.cit., p. 128. 8. «Juries almost never had to deliberate in Perry Mason’s trials»: B. Villez, op. cit., p. 14. 9. M.P. Epstein, From Willy to Perry Mason: the Egemony of the Lawyer Statesman in 1950s Television, in «Syracuse Law Review», vol. 53, 2003, p. 1215.
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E per entrare e restare da qui in avanti nella sfera dell’immaginario televisivo italiano: se Perry Mason non abita più il legal e il court drama americano, che si è sviluppato nel tempo in direzione sempre più realistica e critica nella rappresentazione delle professioni legali e del funzionamento del sistema giudiziario (basti pensare alla serie ventennale Law and Order e ai suoi spinoff10), si può invece essere certi che abita ancora la fiction italiana. Dove si è reincarnato nella nostrana ma inconfondibilmente Perry Mason-inspired figura di Rocco Tasca, il protagonista del legal drama di maggior successo degli anni duemila, Un caso di coscienza (Rai 1). Ci arriveremo al termine di un rapido excursus storico. 2. I processi celebri Un motivo addotto di frequente per spiegare almeno in parte il successo della serie Perry Mason presso il pubblico italiano è la dinamica del processo penale statunitense, caratterizzato secondo il rito accusatorio dalla contesa dialettica fra l’accusa e la difesa, l’interrogatorio incrociato di imputati e testimoni, e in generale un clima di vivace contraddittorio che si presta a favorire un’efficace resa drammaturgica. Sul pubblico televisivo degli anni Cinquanta e Sessanta, in particolare, questa forma inedita di dibattimento processuale esercitava verosimilmente il fascino ulteriore dei rituali esotici. Ma, al di là della forma, è la sostanza – il processo in sé – che consente di render meglio conto della attrazione esercitata dalla fiction giudiziaria nei primi anni della televisione italiana; anni nei quali – come scopriamo retrospettivamente con un certo stupore, a causa della memoria sfocata del passato nonché di una storiografia lacunosa della televisione – Perry Mason era forse la più popolare e di certo la più mitopoietica, ma tutt’altro che l’unica narrativa di genere legale-giudiziario presente sugli schermi domestici. Una ricostruzione dell’offerta di fiction dagli anni Sessanta agli anni Ottanta11 consente infatti di individuare almeno 35 titoli riconducibili con certezza al genere in analisi; senza contare un certo numero di sceneggiati tratti da romanzi in cui questioni e apparati di giustizia, giudici, tribunali e verdetti, pur non essendo necessariamente il fulcro della storia, rivestono un peso di 10. Law and Order: Special Victim Unit, e Law and Order: Criminal intent. 11. Ho utilizzato a questo scopo informazioni reperibili sul sito delle Teche Rai, e soprattutto l’utilissimo catalogo a cura di Fiorenza Fiorentino, 1500 film e sceneggiati tv, Nuova Eri, Torino 1988.
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rilievo negli sviluppi narrativi e nel determinare il destino dei protagonisti 12; come egualmente può accadere nelle biografie di taluni personaggi storici13. Non mancano nel corpus delle 35 fiction giudiziarie prodotte e programmate in questo arco trentennale gli adattamenti letterari – quali Il caso Mauritius, dal romanzo di J. Wasserman; Il giudice e il suo boia, ripreso da F. Dürrenmatt; Il processo, dall’opera di F. Kafka; Il giudice, da un racconto breve di J. Galsworthy – o i soggetti originali, più o meno ispirati a casi reali di cronaca – ad esempio le serie antologiche Di fronte alla legge e Processi a porte aperte. TAB. 1. FICTION GIUDIZIARIE: ANNI SESSANTA-OTTANTA (RETI RAI) TITOLO
ANNO
ANNI SESSANTA
Il caso Mauritius *
1961
I grandi processi della storia
1962
Un errore giudiziario
1963
Sotto processo *
1964
Dossier Mata Hari
1967
L’affare Dreyfus
1967
Di fronte alla legge
1967, 1970, 1974
Il processo Slansky
1968 1968-1971
Processi a porte aperte La resa dei conti. Dal Gran Consiglio al processo di Verona
1969
ANNI SETTANTA
Il giudice e il suo boia *
1972
Processo a un atto di valore
1972
Il giudice
1973
Il caso Lafarge
1973
Delitto di regime. Il caso Don Minzoni
1973
12. Per esempio Una tragedia americana (1962), Resurrezione (1965), I fratelli Karamazov (1969), Delitto e castigo (1983). 13. Per esempio Luisa Sanfelice (1966) e Socrate (1971).
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TITOLO
ANNO
Boezio e il suo re
1974
Processo al Generale Baratieri
1974
Processo per l’uccisione di Raffaele Sonzogno
1975
Il giudice *
1977
Processo a Maria Tarnowska
1977
Sacco e Vanzetti
1977
Il processo *
1978
Il delitto Paternò
1978
Diario di un giudice
1978
Alto tradimento. Indagine su Cesare Battisti
1978
Il delitto Notarbartolo
1979 ANNI OTTANTA
Il caso Graziosi
1981
Il caso Murri
1982
L’enigma Borden
1982
Bebawi, il delitto di via Lazio
1983
Il processo Matteotti
1984
Il tenente del diavolo*
1984
Il caso Ettore Grande
1985
Attentato al Papa
1986
Uno scandalo per bene
1986
* adattamento letterario
Ma, come si coglie immediatamente scorrendo l’elenco dei titoli, la televisione pubblica dell’epoca appare soprattutto impegnata nella rievocazione di grandi vicende giudiziarie del presente e del passato che hanno fatto scalpore per la natura dei crimini o per i soggetti coinvolti, e hanno lungamente appassionato e diviso l’opinione pubblica sulla colpevolezza e l’innocenza degli imputati, e l’equità o l’arbitrarietà del verdetto finale. Si avvicendano così sul piccolo schermo ricostruzioni di processi per delitti o enigmi privati – il caso il sistema opaco
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Lafarge, il processo a Maria Tarnowska, i delitti Paternò e Notarbartolo, il caso Bebawi, il caso Bruneri-Canella, e altri – e per delitti politici, quando non si tratta in realtà di processi politici basati su imputazioni pretestuose – i casi Matteotti e Don Minzoni, l’affare Dreyfus, il processo Slansky, il caso Sacco e Vanzetti, e altri. Il tutto rientra nella categoria, o meglio nel genere dei «processi celebri» o delle «cause celebri». Ibrido a composizione variabile di romanzo e cronaca giudiziaria, di letteratura e di diritto, il genere delle «cause celebri» – l’origine e la denominazione risalgono agli anni Trenta del Diciottesimo secolo14 – attingeva materia narrativa dalla vasta riserva degli atti giudiziari dei processi famosi, per restituirli in forma di racconti, solitamente riuniti in serie a pubblicazione periodica. Le raccolte di «cause celebri» hanno goduto di una larghissima popolarità nazionale e internazionale che si è protratta fino al Novecento, quando le potenzialità drammaturgiche del genere e le sue capacità di impatto emotivo e di familiarizzazione con i riti dell’arcano e temuto potere giudiziario ne hanno fatto una risorsa rapidamente appropriata dalla televisione. Anche altrove in Europa e negli stessi Stati Uniti gli esordi del courtroom drama sono avvenuti per il tramite dei processi famosi; una serie dal titolo Famous Jury Trials è andata in onda per esempio fra il 1949 e il 1952 su una rete americana15. Sulla base degli elementi di comparazione disponibili si può tuttavia affermare con buona certezza che, più di quanto non sia accaduto altrove, la televisione italiana abbia fatto del dibattimento processuale il momento topico e il fulcro della propria rappresentazione della giustizia, lungamente costruita sulla narrazione di veri casi giudiziari. Proprio la peculiarità di una fonte ispirazionale situata sul terreno di una documentata realtà ed esperienza16 giudiziaria, e in parte di una grande letteratura, offre alla fiction dell’epoca il vantaggio di poter esercitare sul pubblico il richiamo del «ritorno del già noto»; ma soprattutto offre l’opportunità di trasgredire la visione uniforme e semplificata della giustizia iteratamente riproposta da un concept seriale come quello di Perry Mason, consentendo
14. Si veda l’affascinante ricostruzione storica fornita da A. Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause celebri tra bel mondo, avvocati e rivoluzione, in M. Marmo e L. Musella (a cura di), La costruzione della verità giudiziaria, ClioPress, Napoli 2003, pp. 53-100. 15. Cfr. E. Rapping, Law and Justice as Seen on Tv, New York University Press, New York 2003, p. 22. 16. A quest’ultimo proposito, giova per esempio ricordare che Diario di un giudice (1978) è tratto dal libro del magistrato Dante Troisi, ritenuto scandaloso all’epoca della sua prima pubblicazione nel 1955 per le scomode verità sul mestiere di magistrato. Il libro è stato e ristampato di recente da Sellerio: D. Troisi, Diario di un giudice, Sellerio, Palermo 2012.
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invece di mettere insieme nel tempo gli elementi di una raffigurazione variegata e difforme e dai forti chiaroscuri. È già sintomatico che il lungo ciclo delle fiction giudiziarie esordisca nel 1961 con l’adattamento de Il caso Mauritius, storia tragica di un errore giudiziario (il tema ritorna in altre produzioni) che innesca profonde riflessioni sulla responsabilità del giudice; così come è significativo l’ascolto elevatissimo (quasi 17 milioni di spettatori) ottenuto nel 1978 da Il giudice e il suo boia, amara elaborazione di Dürrenmatt sulla inconciliabilità tra verità e giustizia. Altre fiction svelano il retroscena intricato e indicibile che talora si cela dietro le confessioni (Sotto processo), l’astuzia di imputati e difensori nel riuscire a evitare un verdetto di condanna (Bebawi, il delitto di via Lazio), l’iniquità dei processi politici (L’affare Dreyfus, Il processo Slansky, Sacco e Vanzetti); e ancora dimostrano come sentenze di condanna (Il caso Lafarge) o di assoluzione (L’enigma Borden) non valgano in ogni caso a dissolvere i dubbi sulla reale colpevolezza o innocenza degli imputati, e quanto pesante sia per un magistrato il fardello della responsabilità di giudicare i propri simili (Diario di un giudice). Quel che ne emerge, in definitiva, è un problematico scenario di giustizia non fatta o estremamente ardua da fare – destinato a scomparire nella fiction dei successivi decenni. 3. La breve stagione del magistrato Nel gennaio del 1988 esordisce sulla terza rete Rai Un giorno in pretura, a tutt’oggi uno dei programmi più longevi della televisione italiana. Un giorno in pretura – il titolo richiama un umoristico film a episodi dei primi anni Cinquanta – porta le telecamere nelle aule giudiziarie, offrendo al pubblico televisivo l’inedita possibilità di assistere a veri dibattimenti processuali, che vengono ripresi in diretta nella loro interezza e poi sottoposti a una massiccia operazione di editing per renderli compatibili con i formati temporali televisivi. Invero l’esperienza non è del tutto inedita, essendo stata preceduta nel 1979 dalla ripresa di un processo per stupro17 e del dibattimento per la strage di piazza Fontana. Ma è solo con Un giorno in pretura che il procedimento giudiziario diventa una componente stabile, seriale, del palinsesto televisivo; da questo momento gli italiani sono virtualmente ammessi nelle 17. La trasmissione di Processo per stupro esibì agli occhi di milioni di spettatori la violenza simbolica cui venivano sottoposte in tribunale le donne vittime di violenza sessuale.
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aule dei tribunali con regolare periodicità settimanale, e possono seguire gli andamenti e gli esiti di piccoli e grandi (Tangentopoli, il mostro di Firenze) casi giudiziari. Non è probabilmente una mera coincidenza che il ciclo finzionale delle cause celebri – al di là di una isolata quanto fallimentare riproposizione a metà degli anni Novanta – venga a esaurimento allorquando cause più e meno famose sono rese disponibili in una versione fattuale, che asseconda ed emblematizza l’ascesa e la voga, in quello stesso periodo, della cosiddetta «TV verità». La fiction peraltro non diserta del tutto il genere giudiziario; ma basta soffermarsi sui titoli delle produzioni messe in onda negli anni Novanta per cogliere immediatamente, già a partire dalla soglia paratestuale, i segni inequivocabili di una svolta. 2. FICTION GIUDIZIARIE: ANNI NOVANTA TITOLO
RETE
ANNO
AUDIENCE MEDIA (IN MIGLIAIA)
Canale 5
1990
4.939
Il giudice istruttore
Rai 2
1990
2.661
Un cane sciolto 1
Rai 1
1990
8.041
Un cane sciolto 2
Rai 1
1991
5.911
Un cane sciolto 3
Rai 1
1992
7.016
I grandi processi
Rai 3
1996
3.608
L’avvocato delle donne
Rai 2
1997
4.740
Canale 5
1997
6.638
Rai 2
1998
3.138
Il magistrato
L’avvocato Porta Avvocati Fonte: Osservatorio Fiction Italiana
Non più «processi», «casi», affari», parole olistiche che ricomprendono ed evocano un correlato insieme di eventi, attori sociali, procedimenti; ora i titoli insistono sulle figure che personificano la pubblica accusa e la difesa privata, il magistrato e l’avvocato, nuovi protagonisti delle fiction giudiziarie di un decennio segnato, tra le altre cose, da ricorrenti fenomeni di personalizzazione mediatica di certi esponenti del sistema di giustizia.
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Si afferma contemporaneamente nella fiction italiana una tendenza ibridatoria, all’origine di trame narrative multilineari dove vicende e problemi di vita pubblica e privata, ambiti della sfera personale e professionale dei protagonisti si trovano affiancati e mescolati. Specialmente nel caso di personaggi identificati con apparati e funzioni di potere, con influenti categorie professionali in maggiore o minor misura temute e percepite distanti – quali appunto magistrati e avvocati – il fatto di ritrarli anche nella loro veste privata serve a riposizionarli su un terreno di prossimità, rendendoli partecipi di una comune e condivisa (con gli spettatori) condizione umana. Ma è evidente che in tal modo il procedimento giudiziario, per quanto possa rimanere un asse portante di legal e courtroom drama, è obbligato poco o molto a recedere sul piano diegetico e temporale; mentre la scena del dibattimento tende a perdere di centralità e topicalità, nel momento in cui l’aula di giustizia non costituisce più lo spazio privilegiato della narrazione18, e per giunta la ricostruzione della fase investigativa viene a prevalere sulla rappresentazione della fase dibattimentale. Inoltre – e forse ancora più importante come segnale di svolta – la nuova struttura narrativa, imperniata su figure di «attori» del sistema di giustizia che in quanto protagonisti non possono per convenzione essere altro che eroi positivi (e vincenti), crea le condizioni perché d’ora in poi nelle storie di fiction giustizia sia fatta, sempre e comunque. Magistrati e avvocati dunque si avvicendano sulla scena televisiva. Peraltro gli esponenti della classe forense, che nella seconda metà del decennio sostituiscono le figure dei giudici e dei pubblici ministeri19, faticano a imporsi come protagonisti-eroi; se L’avvocato delle donne va ricordato quale primo e finora unico esperimento di legal drama al femminile, nell’insieme i tentativi di consolidare l’immagine degli avvocati come artefici di giustizia non raggiungono lo scopo. Per questo bisognerà attendere gli anni Duemila. Si iscrive invece nella esplorativa e discontinua produzione di fiction giudiziaria degli anni Novanta la più interessante e accattivante figura di magistrato che abbia finora abitato l’immaginario televisivo italiano: il giudice De Santis, protagonista del breve ciclo di miniserie Un cane sciolto messe in onda su Rai 1 tra il 1990 e il 1992. Egualmente lontano dagli eroici furori di un pretore d’assalto come dall’algido rigore dell’iconografia tradizionale 18. La dislocazione del baricentro spaziale fuori dall’aula di giustizia si è verificata anche nel legal drama americano dalla seconda metà degli anni Ottanta; cfr. J. Brigham, Representing Lawyers: from Courtrooms to Boardrooms and Tv Studios, in «Syracuse Law Review», vol. 53, 2003, pp. 1165-1199. 19. Vale la pena segnalare, sia pure soltanto in nota, come la magistratura nella sua funzione giudicante sia praticamente invisibile, in ogni caso irrilevante, sulla scena della fiction giudiziaria italiana; il magistrato è sempre e soltanto rappresentato nelle funzioni «inquirenti e requirenti».
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del giudice, il personaggio di De Santis è quello di un «buon magistrato», altrettanto dotato di umana sensibilità che di un alto senso della giustizia e della dignità del suo ruolo; uno stile misurato e understatement, alieno da atteggiamenti protagonistici, una prassi di correttezza procedurale, un impegno tenace ma per nulla declamatorio o persecutorio nella ricerca della verità e dei colpevoli, l’indipendenza da qualsiasi tipo di potere (un cane sciolto, appunto) convergono nel disegnare il profilo credibile e affidabile20 di un giudice che cerca di far bene, responsabilmente, il suo difficile mestiere. Passa attraverso questo personaggio l’immagine sostenibile, per dirla nel lessico contemporaneo, di una giustizia imperfetta ma perfettibile. Nelle tre edizioni di Un cane sciolto certi aspetti del malfunzionamento del sistema giudiziario – burocratizzazione, lentezze, errori, talora abusi, non ultimi i legami pericolosi con un’informazione sensazionalistica – passano al vaglio di uno sguardo critico, e tuttavia non disilluso o cinico, né proteso verso soluzioni «pirotecniche». Sia pure a condizioni tutt’altro che facili o scontate, la giustizia rimane un obiettivo raggiungibile. Si veda in particolare, nella terza edizione, il pubblico riconoscimento da parte del giudice De Santis di un errore commesso in fase istruttoria e che, quasi a conclusione di un processo, lo induce a revocare in dubbio il suo stesso castello accusatorio e a rivolgersi alla giuria nella sofferta coscienza della propria fallibilità – «io potrei indurvi a un errore gravissimo» – finendo poi col chiedere l’assoluzione dell’imputato. La terza edizione di Un cane sciolto va in onda a metà gennaio del 1992. Un mese dopo, l’ordine di cattura di Mario Chiesa voluto dal giudice Di Pietro dà avvio alla cosiddetta inchiesta “Mani pulite”. A maggio e a luglio dello stesso anno vengono assassinati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due nuove immagini del magistrato – l’intemerato inquisitore della corruzione politico-finanziaria e l’eroe-martire della lotta antimafia – si stagliano da quel momento, e vi abiteranno a lungo, nell’immaginario collettivo degli italiani. Per il giudice De Santis, che nelle intenzioni degli autori e del produttore Sergio Silva avrebbe dovuto incarnare l’eroe della fiction degli anni Novanta – così come il commissario Cattani de La Piovra era stato l’eroe degli anni Ottanta – il confronto è evidentemente impari, e il personaggio esce definitivamente di scena.
20. Per un’analisi più estesa del personaggio e del programma si veda M. Buonanno, De Santis facci sognare. Un giudice senza collare, senza padrone, un cane sciolto, in Ead. (a cura di) Non è la stessa storia. La fiction italiana - L’Italia nella fiction, RAI Nuova ERI, Roma 1993, pp. 85-100.
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4. Perry Mason nel paese dei bugiardi Gli anni Duemila vedono espandersi la presenza e diversificarsi la tipologia delle storie giudiziarie nell’offerta di fiction italiana. In fatto di tipologie si va dal feuilleton melodrammatico (Sospetti), che nell’intreccio strettissimo di vicende personali e inchieste giudiziarie condotte in modo personalistico inscena la lotta di un magistrato-Davide contro il Golia di una multinazionale farmaceutica che sperimenta nuovi medicinali su cavie umane (dei colpevoli farà per così dire giustizia la spietatezza dei criminali alleati e l’ira dei mansueti, le vittime); alle biografie degli eroi-martiri Falcone e Borsellino, in grado di convocare i pubblici più vasti; al ritorno dei grandi «casi» della cronaca poliziesca e giudiziaria nazionale (Un uomo sbagliato, Il mostro di Firenze, Il delitto di via Poma); ai diversi tentativi di dar vita a serie incentrate su un «eroe ricorrente» avvocato o magistrato, quasi tutte rapidamente accantonate per difetto di ascolti (Diritto di difesa, Cuore contro cuore, Il giudice Mastrangelo). A eccezione di Un caso di coscienza, a tutt’oggi l’unica serie legal italiana capace di assicurarsi una prolungata tenuta nel tempo (quattro edizioni trasmesse con buon successo fra il 2003 e il 2010, una quinta stagione in arrivo). È qui che ha trovato dimora un Perry Mason nazionale, come si vedrà appena più avanti. Sul piano sostanziale, a fare da discrimine entro questo corpus di fiction giudiziarie è essenzialmente la fonte d’ispirazione; ovvero, se le storie rinviano a personaggi e vicende reali, oppure sono del tutto immaginate. Non si tratta evidentemente di riproporre in maniera ignara e sprovveduta una presunta dicotomia tra fact e fiction; ma soltanto di dar conto della constatazione empirica che le fiction basate su casi realmente accaduti finiscono per mostrare o lasciar trapelare sul funzionamento della giustizia italiana qualcosa (poco o molto) di più, rispetto alle storie di pura invenzione. Le biografie di Falcone e Borsellino, per esempio, pur fra reticenze e cautele, fanno cogliere bene il clima di ostilità e insofferenza che circondava i due magistrati all’interno del palazzo di giustizia21, e gli ostacoli alle inchieste anti-mafia provenienti da ambienti della stessa magistratura. Le ricostruzioni del processo al «mostro di Firenze» e delle indagini per il delitto di via Poma, a loro volta, esibiscono con grande evidenza la distesa degli errori, dei cavilli e dei rinvii disseminati lungo i percorsi dei procedimenti giudiziari, la cui endemica lentezza non è peraltro garanzia di esito certo o verdetto equo. E, a quest’ultimo proposito, 21. In proposito, si veda G. Bechelloni, I nostri eroi. La funzione bardica della televisione, Liguori, Napoli 2010.
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la rievocazione di un noto caso di errore giudiziario (L’uomo sbagliato), sia pure riparato a distanza di anni, mette drammaticamente di fronte alla perversa trasmutazione del sistema di giustizia nell’implacabile meccanismo accusatorio di un cittadino innocente. 3. FICTION GIUDIZIARIE: ANNI 2000 TITOLO
RETE
ANNO
AUDIENCE MEDIA (IN MIGLIAIA)
Sospetti
Rai 2
2000
5.390
L’avvocato Porta 2
Canale 5
2000
5.954
Sospetti 2
Rai 1
2003
7.870
Un caso di coscienza
Rai 2
2003
4.205
Diritto di difesa
Rai 2
2004
2.509
Paolo Borsellino
Canale 5
2004
10.834
Sospetti 3
Rai 1
2005
6.075
Un caso di coscienza 2
Rai 1
2005
6.395
L’uomo sbagliato
Rai 1
2005
8.855
Cuore contro cuore
Canale 5
2005
4.323
Giovanni Falcone
Rai 1
2006
7.597
Il giudice Mastrangelo
Canale 5
2006
5.482
Il giudice Mastrangelo 2
Canale 5
2007
3.898
L’avvocato Guerrieri
Canale 5
2008
4.166
Un caso di coscienza 3
Rai 1
2008
5.440
Il mostro di Firenze
Sky
2009
n.d.
Un caso di coscienza 4
Rai 1
2010
5.331
Il delitto di via Poma
Canale 5
2011
3.882
Borsellino: i 57 giorni
Rai 1
2012
8.100
Fonte: Osservatorio Fiction Italiana
Una sorta di divisione del «lavoro di rappresentazione» sembra stabilirsi tra – da un lato – la fiction d’ispirazione realistica, più incline a mettere in 142
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luce certi aspetti disfunzionali del sistema e gli statuti precari della certezza del diritto e – dall’altro – la fiction d’ispirazione immaginaria, dove l’accento poggia sempre e comunque sulla indefettibile possibilità di fare e ottenere giustizia. È pur vero che questo esito virtuoso si ottiene di norma grazie all’agire di individui speciali, artefici e garanti di una realizzazione della giustizia che l’ordinario malfunzionamento di un sistema infermo non sarebbe altrimenti in grado di assicurare. Tuttavia, mai o quasi mai nel legal drama italiano le questioni relative alla sfera del potere giudiziario vengono tematizzate e problematizzate con qualche profondità, introducendo lungo l’iter del procedimento giudiziario – e occorre ribadire in proposito la preminenza conferita alla fase investigativa – elementi di discussione in materia per esempio di: legittimità delle procedure, garanzie degli imputati, attendibilità delle prove, adeguatezza delle norme del diritto, interpretazione delle leggi, fondatezza dei giudizi, certezza della pena, e ancora prerogative e responsabilità dei diversi attori e settori della magistratura, e altro22. Di fatto, dietro la messa in scena di conflitti etici elementari, schematiche contrapposizioni delle parti, raggiungimento della verità per le vie brevi, il sistema della giustizia nella complessità dei suoi meccanismi di funzionamento, nel suo forte mix di burocratizzazione e di discrezionalità, resta in larga misura opaco e inconoscibile nella fiction, in senso proprio imperscrutabile. Del resto «la giustizia è verità, la verità è giustizia». Si potrebbe condensare in questa parafrasi dei versi di John Keats23 tutto ciò che occorre sapere sulla giustizia, secondo quanto iteratamente si afferma e si drammatizza nella serie giudiziaria più longeva e popolare degli anni Duemila: la già citata Un caso di coscienza, il cui protagonista avvocato Rocco Tasca realizza finalmente l’intento, perseguito dalla fiction italiana attraverso un lungo tracciato di prove ed errori, di dar vita a un emulo nostrano, ma forse più esattamente a una variante domestica di Perry Mason. Al pari di Perry Mason, Rocco Tasca difende solo gli innocenti, facendo eventualmente eccezione per chi, reo confesso, abbia ucciso per pietà e per amore; oppure assume le difese di parte civile, schierandosi a tutela dei diritti delle vittime. E ugualmente al pari del suo modello non si accontenta del ruolo della difesa, ma nella conduzione delle indagini, nella (disinvolta) 22. Non si tratta di introdurre tecnicismi incompatibili con la natura pur sempre di intrattenimento della fiction televisiva. Le serie legal inglesi e americane riescono benissimo a incorporare simili argomenti in una impeccabile drammaturgia di genere finzionale. 23. «La bellezza è verità, la verità è bellezza. Questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che occorre sapere».
il sistema opaco
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acquisizione delle prove, negli interventi dibattimentali, agisce da lawyerstatesman24, a un tempo avvocato e magistrato, parte privata e parte pubblica, facendo proprio con una sorta di accanimento l’obiettivo della scoperta e dello smascheramento del colpevole. Anch’egli infine, e per di più con una spiccata tendenza alla esplicitazione verbale, persegue sopra ogni cosa la verità, e anzi con una qualche enfasi retorica la «pretende». E di norma la ottiene e la esibisce in aula attraverso le dichiarazioni dei testimoni, guadagnati a loro volta all’imperativo etico della verità da una efficace opera di convinzione dell’avvocato e dei suoi collaboratori. Diversamente qui da Perry Mason, Tasca non consegna dei rei confessi al giudizio del tribunale – al verdetto peraltro non si arriva mai, e non è dato sapere se il crime riceva il giusto punishment – ma dei colpevoli la cui presunta e protestata innocenza, sostenuta da difensori più arroganti che capaci, viene incontestabilmente smentita dalle veritiere rivelazioni dei testimoni. Quanto alla variante domestica, la si vede all’opera non soltanto nello spazio larghissimo occupato dalla vita privata nel protagonista nella diegesi narrativa, ma in modo più significativo in una sorta di divisione sociale della colpa e dell’innocenza sistematicamente riproposta nella serie. Ovvero, nei casi dei quali l’avvocato Tasca si occupa, accade che i responsabili di crimini e delitti siano sempre o quasi sempre gli esponenti di élite del potere e soprattutto del denaro; e anzi proprio l’avidità del guadagno, la smodata ricerca del profitto motiva il loro agire cinico e delittuoso, di cui sono generalmente vittime persone semplici e indifese – «carne da macello» nelle parole del padre di un bambino intossicato dai materiali di un giocattolo prodotto da una multinazionale senza scrupoli. Così, la scoperta e la rivelazione dei colpevoli danno modo al protagonista di esprimere la sua indignazione in vibranti tirate morali contro coloro «che hanno messo il profitto al di sopra della vita umana». Rocco Tasca è un indignato, e questo effettivamente marca una sensibile distanza rispetto a Perry Mason. Ma soprattutto, con la sua retorica della verità e la sua fede nelle testimonianze, Tasca è abissalmente distante dal personaggio di un’altra fiction italiana; non un eroe ricorrente e neppure il protagonista di un film di successo, l’ispettore Niccolò Montella che conduce le indagini su Il delitto di via Poma (regia di Roberto Faenza) lascia ugualmente un segno memorabile sulla scena della rappresentazione della giustizia, quando di fronte alla valanga di errori e alla massa ingarbugliata dei risultati dell’inchiesta riconosce con sconsolata amarezza: «Mentono tutti… è un paese di bugiardi». 24. M.P. Epstein, op. cit.
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milly buonanno
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Il salotto e la piazza. Le arene anomale dei processi televisivi CHRISTIAN RUGGIERO
1. Amarcord: la giustizia-spettacolo Italia, 1992. La cosiddetta «Prima Repubblica» sta per finire. Ma, dopo dieci anni di coalizioni di governo a formazione variabile, sempre costruite sui pilastri democristiano e socialista, gli scricchiolii di questa imponente impalcatura politica non si fanno sentire. La sensazione, piuttosto, è «che la democrazia italiana [sia] senza alternativa praticabile per un periodo di tempo indefinibile; che gli uomini del pentapartito [siano] interlocutori potenti destinati a durare, a non essere più sostituiti, a decidere su tutte le politiche pubbliche di rilievo»1. La novità più importante portata dagli anni Ottanta è, in fin dei conti, quella di una lotta intestina tra gli «eterni Mandarini» democristiani e i «politici d’affari» della nuova dirigenza socialista. I quali gestiscono la lotta interna al Pentapartito con una tale spregiudicatezza da generare l’impressione che il PSI intenda accumulare, in dieci anni, un volume di risorse pari a quello gestito dalla DC in quarant’anni di guida del Paese. La percezione, da parte di imprenditori e operatori economici, di avere di fronte una classe dirigente inamovibile, costituisce un potente incentivo per una pratica già molto diffusa: la corruzione politica, da sempre incoraggiata dalla sproporzionata estensione della presenza statale nell’economia italiana e dalla natura lenta, farraginosa e complessa della sua burocrazia. Ma il meccanismo invisibile che aveva reso possibile per decenni lo «scambio occulto» tra imprenditori, politici e burocrati, sovraccaricato da un uso politico delle pratiche corruttorie (in funzione della lotta interna al Pentapartito) e da un innalzamento del livello quantitativo dei costi delle tangenti, va finalmente
1.
G. Pasquino, La transizione a parole, il Mulino, Bologna 2000, p. 192.
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in crisi. Insieme alla distinzione, sempre più labile, tra il peccato veniale di «rubare per il partito» e quello mortale di «rubare per sé». È in questo contesto che si aprono le indagini del pool di Milano, con un modus operandi destinato a caratterizzare una nuova formula di influenza dei media sulla vita pubblica italiana: quello della «giustizia spettacolo». Mentre nelle aule di giustizia procedono le inchieste, le trasmissioni di maggior successo al di fuori delle lottizzate RaiUno e RaiDue, forti della loro connotazione di mezzo di informazione «neutrale» per i cittadini, si schierano compatte contro la partitocrazia corrotta2. Le udienze del processo Cusani, trasmesse in differita a partire dal 20 dicembre 1993, in prima serata, con due puntate settimanali di Un giorno in pretura, riprese dagli speciali Mixer e Studio5, assumono ben presto il tratto di un «rituale di degradazione» pubblica di un intero ceto politico. Un evento giudiziario viene in breve piegato alle regole della narrazione televisiva, e imputati e testimoni si trovano nella condizione di dover convincere della loro innocenza non solo gli operatori di giustizia, ma una ben più vasta platea di telespettatori che, per l’occasione, si improvvisano membri di una giuria virtuale – totalmente estranea alla normativa italiana, ma in grado di decidere delle sorti politiche dei protagonisti della vicenda. Tutti noi abbiamo guardato il processo Cusani anzitutto per vedere come ne sarebbero usciti i politici, che «figura» ci avrebbero fatto. In altre parole, specialmente per chi aveva un ruolo pubblico fino ad allora mai messo realmente in discussione, si trattava non solo di tutelare la propria fedina penale, ma anche di salvare la faccia. Sulla sedia dei testi si sono avvicendate un gran numero di persone che hanno dovuto fare i conti, chi più chi meno, col fatto di rendersi credibili, non perdere l’autorevolezza di cui erano investiti dal loro ruolo pubblico e dimostrarsi innocenti o quanto meno, il più possibile innocenti. È dal dosaggio di questi diversi scopi e dal modo in cui sono stati messi in atto che emergerà la «figura» complessivamente fatta da ognuno dei testi, così come dall’imputato3.
È sulla base di questo doppio terreno di gioco che è possibile offrire, completamente al di fuori delle logiche giudiziarie, un giudizio sostanzialmente
2. E. Novelli, La Turbopolitica. Sessant’anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia 1945-2005, Rizzoli, Milano 2006; C. Ruggiero, Il declino della videocrazia. Tv e politica nell’Italia del Mediaevo, ScriptaWeb, Napoli 2011. 3. S. Cavicchioli, Processi in televisione, in P.P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione: Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna 1997, pp. 98-99.
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christian ruggiero
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positivo sulle performance di Craxi e Cusani, e decisamente negativo su quella di Forlani. I primi due, infatti, accettano le accuse assumendo che la realtà delle tangenti era non solo conosciuta da tutti, ma pratica comune e condivisa, collocata in una sorta di zona franca della moralità politica. […] è come se inscrivessero i loro discorsi non tanto all’interno di un frame processuale, bensì in un frame relativo all’etica pubblica. […] Il match che giocano è relativo alla dimensione pubblica e simbolica del processo, e quindi, televisiva. Forlani, al contrario, si comporta come se questa dimensione non lo toccasse4.
La messa in scena televisiva del processo Cusani rappresenta un irripetibile esperimento di Tv-verità: la «realtà» delle aule giudiziarie irrompe sullo schermo e nella vita di milioni di spettatori, che si appassionano a una vicenda certamente «reale», ma che viene presentata secondo gli schemi di un racconto a puntate. Se è vero che la cosiddetta Prima Repubblica crolla «proprio perché fradicia di corruzione, essendo largamente diventata una Tangentopoli»5, l’ondata di sdegno che sembra attraversare l’Italia è in buona parte generata da un nuovo uso politico dello strumento televisivo. Animato, prima ancora che dagli esponenti del sistema dei partiti, da professionisti della comunicazione che «scendono in campo» ben prima di Silvio Berlusconi, e costituiscono un «partito dei media» la cui forza sta anche nella sua «estraneità» a un sistema politico ormai screditato. Le sorti di questo «partito dei media» sono legate in primo luogo all’evoluzione dei formati della Tv generalista. La cosiddetta Seconda Repubblica viene accompagnata, dalla sua nascita, dalla fortuna del talk show, lo «spettacolo della parola» in cui informazione e intrattenimento si mescolano in un unico registro discorsivo che risponde alle regole della spettacolarizzazione e della personalizzazione. E all’interno del formato talk, un potere di orientamento delle coscienze sempre più grande viene conquistato dalla figura del conduttore. Un demiurgo che gioca su due strategie distinte, che a loro volta animano i due modelli di talk del «salotto» e della «piazza»6. Nel contesto di queste «arene anomale», la giustizia-spettacolo prende strade alternative, risponde a obiettivi che sono sempre più lontani dalla Tv
4. 5. 6.
Ivi, p. 102. G. Pasquino, op. cit., p. 195. I. Pezzini, La TV delle parole. Grammatica del talk show, RAI-ERI, Roma 1999.
il salotto e la piazza
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di servizio, si inserisce in un ideale «bipolarismo televisivo» che vede da un lato il «salotto» di Bruno Vespa e dall’altro la «piazza» di Michele Santoro7. 2. Dieci anni dopo: lo spettacolo della nera RaiUno, 2002. Un talk di seconda serata prende in carico la spettacolarizzazione delle pratiche giudiziarie inaugurata dalla Tv-verità. Si tratta di «Porta a Porta», e al centro della scena, dal 1996, è Bruno Vespa. Ma il contesto è profondamente diverso, il dibattito politico in televisione perde ascolti e legittimazione, persino nel corso della campagna elettorale del 2001 la politica ha dovuto cedere ampi spazi a un tema ben più interessante: la cronaca nera8. Vespa è già diventato, con la copertura del caso di Novi Ligure9, l’alfiere del «criminality show» all’italiana, un particolare genere informativo che tratta episodi di «nera» con la logica del reality show, non offre resoconti di eventi ma costruisce storie con evidenti richiami mitici, drammatizzate e serializzate10. Quando, la mattina del 30 gennaio del 2002, un bimbo di tre anni, Samuele Lorenzi, viene ucciso in un grande chalet di legno e pietra, in provincia di Aosta, il format è quindi già rodato, e può puntare al perfezionamento delle strategie di messa in scena del «processo al delitto». Gli elementi fondamentali della storia sono in qualche modo rovesciati: a Novi Ligure, la «prima vittima» era una madre, Susy De Nardo, e la potenziale carnefice una figlia, Erika; a Cogne, sul letto macchiato di sangue giace il corpo di un figlio, e l’unica persona che sembra essere stata nelle condizioni materiali per compiere il delitto è una madre. Dal punto di vista della costruzione della storia, gli elementi in grado di scatenare l’interesse e la partecipazione emotiva dello spettatore sono quasi identici; ma dal punto di vista televisi-
7. C. Ruggiero, La promessa della mediazione. Dal declino del politico alla crisi del giornalismo, in «Comunicazionepuntodoc», n. 6, 2012. 8. R. Marini, Tra cronaca e politica: l’agenda dei media in campagna elettorale, in P. Mancini (a cura di), La posta in gioco. Temi, personaggi e satira nella campagna elettorale del 2001, Carocci, Roma 2003. 9. Il 22 febbraio 2001 Susy De Nardo, 45 anni, e il figlio Gianluca, 12 anni, vengono brutalmente uccisi in una villetta della città in provincia di Alessandria; l’unica sopravvissuta, l’altra figlia dei De Nardo, Erika, di 16 anni, viene in seguito riconosciuta come l’autrice del delitto, con la complicità del diciassettenne Mauro Favaro, il suo ragazzo, noto alle cronache come «Omar». 10. M.A. Polesana, Criminality show. La costruzione mediatica del colpevole, Carocci, Roma 2010; F. Rizzuto, Il crimine per intrattenere: dalle news alle news dramas, in M. Morcellini (a cura di), Neogiornalismo. Tra crisi e Rete, come cambia il sistema dell’informazione, Mondadori Università, Milano 2011.
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vo, avere a disposizione una Medea in carne e ossa da far accomodare sulle bianche poltroncine dello studio di Porta a Porta è un vantaggio inestimabile. Le ferite mortali sulla testa del bambino sono state procurate da «un oggetto domestico senza manico e con i bordi acuminati. Forse un posacenere, un ferro da stiro, una grossa pietra decorativa»11; la morte sopraggiunge tra le 8.16 e le 8.28 del mattino, un lasso di tempo che segna il momento esatto in cui Anna Maria Franzoni esce di casa per accompagnare il figlio maggiore allo scuolabus e uno scarto di quattro minuti rispetto al momento in cui la donna rientra in casa. Il fatto si configura subito come un delitto di famiglia. Il 14 marzo 2002, Anna Maria Franzoni è arrestata e condotta nel carcere delle Vallette; l’attenzione dei giornalisti e del pubblico si sposta repentinamente dal «corpo offeso» della vittima, che non può essere mostrato ed è costretto a «parlare» attraverso i risultati delle tre autopsie che vengono condotte su di lui, alla «figura enigmatica» della madre, «una donna giovane e bella, capelli neri, una frangia lunga che le copre la fronte, occhi espressivi e carichi di lacrime»12, per la quale tutti gli esperti invocano pietà di fronte a un’ipotetica forma di pazzia, e che al tempo stesso, sotto lo sguardo vigile dei media, non sembra esibire comportamenti «da folle». La stessa sera, Porta a Porta registra punte di 10 milioni di spettatori, mettendo in scena quegli elementi che saranno alla base della fortunata «serie» di puntate dedicate al tema. Un parterre di ospiti fissi, come in ogni «storia» che si rispetti, che saranno chiamati a commentare, nei mesi e negli anni successivi, l’evoluzione del caso: «il criminologo Bruno, lo psichiatra Crepet, la giornalista Palombelli, la magistrata Matone»13. Un elemento di simulazione della scena del delitto, il plastico della vignetta di Cogne che, chiuso, consente di ricostruire i movimenti di Anna Maria Franzoni tra la sua abitazione e la fermata dell’autobus; ma c’è di più: aperto, come una casa di bambole, consente di vederla muoversi verso il «lettone» su cui giace il piccolo Samuele. Uno stile di raccordo delle diverse testimonianze «esperte», quello di Vespa, che tende costantemente a instillare il dubbio circa le ricostruzioni fornite, per creare quell’«effetto hangover» che al termine di ogni puntata di una soap opera rimanda lo spettatore a nuovi emozionanti sviluppi nella puntata successiva14.
11. C. Corradi, Il nemico intimo: una lettura sociologica dei casi di Novi Ligure e Cogne, Meltemi, Roma 2005, p. 45. 12. Ivi, p. 61. 13. R. Cotroneo, Cogne, di Porta in Porta, «L’Unità», 24 settembre 2004. 14. S. Leonzi, La fiction, Ellissi, Napoli 2004.
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Quindici giorni dopo, l’inizio del caso giudiziario vero e proprio: Anna Maria Franzoni esce dal carcere, la famiglia inizia una strategia difensiva basata su un avvocato «di grido», Carlo Taormina, e sulla promessa di rinfocolare il dibattito giornalistico rivelando il nome del vero colpevole. È ormai chiaro che il procedimento è destinato a svilupparsi su due binari paralleli: «l’opinione pubblica si è divisa tra innocentisti e colpevolisti, ormai si dà la preferenza per simpatia delle tesi, senza conoscere bene i fatti», accusa Antonio Di Pietro, mentre il senatore dell’UDC Maurizio Ronconi chiede un’interpellanza al governo su Porta a Porta, «perché non è più sopportabile un giudizio pubblico in un’ora di grandi ascolti con interlocutori che non rappresentano nessuno se non se stessi»15. L’aspetto mediatico è il centro della vicenda: a giugno viene creato un ufficio stampa per i rapporti con i giornalisti, il 16 luglio Anna Maria Franzoni è ospite, con il suo avvocato, al Maurizio Costanzo Show, lancia un appello ai veri colpevoli e annuncia un elemento di ricomposizione della sua vita familiare distrutta: aspetta un altro figlio dal marito, Stefano Lorenzi. Ma la palma della persistenza va senza dubbio al talk di Bruno Vespa, che lancia al tempo stesso un modello di serialità di lungo periodo e di ingerenza televisiva nel lungo e intricato iter della giustizia. Nei sei anni successivi, Porta a Porta costruisce un percorso parallelo a quello giudiziario: alla condanna in primo grado a trent’anni di reclusione nel luglio del 2004 segue, l’8 novembre, una lunga intervista alla «mamma di Cogne». «Parla con voce ferma: ribadisce il suo sgomento per la morte del figlio e la sua incredulità per la condanna. È solo quando il giornalista la porta a raccontare di quella tragica mattina che cambia improvvisamente tono: si commuove, gli occhi si riempiono di lacrime, la voce scompare, si fa sottilissima, un filo stridulo che si distingue appena. Recupera vigore repentinamente solo quando la fanno parlare dell’inchiesta: adesso il suo piglio è quasi investigativo. Si fa dura quando critica la Procura di Aosta: è chiaro che ce l’hanno con lei»16. La riduzione della pena a sedici anni in Corte d’Assise d’appello è preceduta dalle polemiche per la puntata in cui, il 16 aprile 2007, Vespa presenta ai suoi spettatori le due possibili armi del delitto, un mestolo da cucina in una mano e uno zoccolo-sabot nell’altra. Giunti alla formulazione della sentenza definitiva, il caso è già diventato un modello: la sentenza definitiva di colpevolezza emessa dalla Corte di 15. M. Martinelli, Delitto di Cogne, i processi in tv diventano un caso, «Il Messaggero», 30 marzo 2002. 16. L. Garofalo, Il processo imperfetto: la verità sul caso Cogne, Rizzoli, Milano 2009.
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Cassazione nel luglio 2008 riveste un interesse relativo per Vespa, già concentrato sui delitti successivi, che nell’ottobre precedente scrive nella sua rubrica su «Panorama»: «Me li vedo sfilare tutti davanti, i protagonisti dei grandi delitti dell’ultimo decennio: la mamma di Cogne, la figlia di Novi Ligure, i vicini di Erba, il fidanzato di Garlasco, gli amici di Perugia. Tutte persone “normali” che hanno ucciso (o sono accusate d’averlo fatto) all’interno di famiglie “normali”»17. Quale motivazione ha spinto Vespa a condurre una «difesa d’ufficio» di questa normalità, arrivando al punto di offrire il palco alla «mamma di Cogne» per la presentazione del volume autobiografico La mia verità il 6 novembre 2006? Probabilmente non l’intenzione di incidere sul corso di un iter processuale che, per il suo solo esistere, gli ha garantito a più riprese ascolti decisamente sopra la media18. Piuttosto, la presa d’atto che i «grandi eventi televisivi», nell’era del declino della politica-spettacolo, potevano essere ritrovati in un campo molto diverso. Nel quale potevano aver finalmente luogo i «Vespa events»: «La messa in onda di un fatto o di una serie di fatti giudicati importanti, memorabili o addirittura “storici” e, in quanto tali, affidati alla conduzione di Bruno Vespa»19. 3. Prove tecniche di antipolitica-spettacolo RaiDue, 2009. Ancora una volta, un procedimento giudiziario vede uno sviluppo parallelo all’interno di una trasmissione televisiva. Questa volta, però, si tratta di un «caso» e di un format molto diversi. Il 4 dicembre il collaborante Gaspare Spatuzza viene chiamato a deporre al processo d’appello al Senatore Marcello Dell’Utri: «Già uomo di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio […] Spatuzza ha indicato in Marcello Dell’Utri il referente dei fratelli Graviano i quali avrebbero agganciato Silvio Berlusconi grazie a questo contatto e con l’attuale presidente del Consiglio avrebbero continuato la trattativa che è alla base delle stragi del 93-94»20. In aula, Spatuzza mantiene tutte le promesse fatte ai commentatori «esterni» del procedimento contro Dell’Utri: racconta 17. B. Vespa, Quei delitti così «normali», «Panorama», 11 ottobre 2007. 18. Delitto di Cogne, boom sui media con ascolti e polemiche da record, «la Repubblica», 27 aprile 2007. 19. A. Grasso, Vespizzazione della realtà sugli schermi, «Corriere della Sera», 3 luglio 2004. 20. N. Amadore, Stragi e trattative, venerdì la «verità» del boss Spatuzza, «Il Sole 24 Ore», 2 dicembre 2009.
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di un incontro con Giuseppe Graviano al bar Doney in Via Veneto a Roma, durante il quale i rapporti tra il boss e il Cavaliere sarebbero stati racchiusi in una confidenza che non sfigurerebbe affatto nel climax di una spy story. «Mi fece il nome di due persone: Berlusconi, quello di Canale 5, e il compaesano, Dell’Utri. E disse che grazie alla serietà di queste persone […] ci eravamo messi il paese nelle mani»21. Queste dichiarazioni permettono, ancora una volta, la costruzione di un processo su due livelli: da una parte la sua sede «naturale», le aule del Tribunale di Torino, dall’altra le sedi «anomale» dei palcoscenici televisivi. Stavolta il centro della scena è occupato da Annozero e da Michele Santoro. Esponente di un giornalismo esplicitamente «partigiano», impegnato a «controllare» l’operato della élite politica, ma per operare una funzione di «contropotere» prima che per salvaguardare gli interessi dei cittadini – o meglio, identificando in questa funzione di contropotere la via più corretta di tutelare gli interessi dei cittadini – Santoro non è nuovo a operazioni di spettacolarizzazione giudiziaria. La più recente (novembre 2008) riguarda la «messa in scena» delle intercettazioni della Procura di Napoli che indaga Silvio Berlusconi per corruzione, sulla base di alcune conversazioni con il Direttore Generale Rai Agostino Saccà aventi come oggetto l’assunzione di due ragazze in una fiction del Servizio Pubblico. Ma un anno dopo il «teletribuno» Santoro riesce ad andare ancora oltre; si può dire che, con le ricostruzioni drammatizzate delle confidenze tra i Graviano e Spatuzza, riesca a sciogliere definitivamente la tensione tra due tendenze solo apparentemente contraddittorie della spettacolarizzazione televisiva: «da una parte sembra predominare la ricerca dell’effetto drammatico, che si può ottenere ad esempio enfatizzando le vicende individuali, e soprattutto la loro messa in scena televisiva, dall’altra non c’è eccessiva preoccupazione per l’effetto-finzione che trasuda continuamente, e il cui messaggio si può sintetizzare nel carattere di gioco della realtà televisiva»22. Nelle ricostruzioni di Annozero, i fratelli Graviano vengono strappati dalla Sicilia dei primi anni Novanta e appaiono all’apice del loro potere, i loro rapporti con Spatuzza, e tramite lui con l’imprenditore Silvio Berlusconi, sono chiari come chiari sono gli intenti che muovono i quattro uomini, più di quanto la trama di una fiction che intendesse mantenere un minimo di suspense nel telespettatore potrebbe permettersi.
21. N. Amadore, Spatuzza cita il premier in aula, «Il Sole 24 Ore», 5 dicembre 2009. 22. I. Pezzini, op. cit., p. 25.
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E Santoro considera queste ricostruzioni come una parte essenziale della sua narrazione, che ancora una volta oscuri censori sono chiamati a tagliare, a tutto danno del cittadino-telespettatore; nella puntata del 10 dicembre 2009, infatti, il conduttore così introduce una delle numerose ricostruzioni: «Siccome l’Authority, leggo sui giornali di destra che hanno sempre le anticipazioni … sta per decidere che non si possono fare più le ricostruzioni, godiamoci queste ultime ricostruzioni». Il «caso Spatuzza» si risolve con una certa facilità tanto all’interno del procedimento giudiziario «reale» quanto all’interno del «racconto televisivo» parallelo. Sul primo versante, l’11 dicembre è lo stesso Filippo Graviano, dal carcere di Parma dove è detenuto, a smentire le parole del collaborante: nessun rapporto con Dell’Utri, nessun collegamento con Berlusconi, nessun legame tra il Cavaliere e le stragi di mafia, almeno non a sua conoscenza23. D’altro canto, l’elemento che distrae la «piazza» santoriana non è tanto la smentita, quanto la necessità di concentrare l’attenzione su un evento ancor più eclatante: l’aggressione a Silvio Berlusconi, che, a margine di una manifestazione per il tesseramento del Popolo della Libertà durante la quale è stato oggetto di una breve contestazione, viene ferito al volto dal quarantaduenne Massimo Tartaglia con un souvenir rappresentante il Duomo, riportando un trauma al massiccio facciale e una ferita al labbro superiore. Ma Santoro non rinuncia in alcun modo a rivendicare il suo ruolo «antipolitico» (in senso ampio: tanto contro la figura del premier quanto contro le Autorità che cercano di regolamentare la gestione della sua «piazza» in modo che non interferisca né con l’attività del Parlamento né con quella della Magistratura). Il conduttore apre infatti la puntata del 17 dicembre con una lunga «cartolina di Natale», nella quale non rinuncia a chiamare in causa i protagonisti di questa intricata vicenda. Comunque la pensiate, Buon Natale. E Buon Natale anche a lei, signor Presidente. Le auguro di tornare prestissimo in forma. […] Vorrei dire Buon Natale anche a tutti i giornalisti che fanno onestamente il loro lavoro. Quindi mi conceda, Presidente, di fare i miei auguri a «Repubblica», di fare i miei auguri a «l’Espresso», di fare i miei auguri al «Fatto», di fare i miei auguri a «l’Unità». Perché è molto importante stabilire la necessità che si espongano dei fatti. […] I fatti sono soltanto pezzi di un racconto che noi mettiamo a disposizione dell’opinione pubblica perché si formi liberamente i propri convincimenti. Ecco perché vorrei fare anche un augurio particolare di Buon Natale a Gaspare Spatuzza. Lo so che è una cosa 23. N. Amadore, Graviano smentisce Spatuzza, «Il Sole 24 Ore», 12 dicembre 2009.
il salotto e la piazza
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un po’ provocatoria, però io lo voglio fare, voglio dire Buon Natale a Gaspare Spatuzza. Me lo posso permettere perché guardi Presidente, io sono sempre stato tra i principali obiettivi della mafia, almeno negli anni in cui la lotta alla mafia era più dura e anche più difficile. E da questo non ho ricavato nessun privilegio, nessuna particolare protezione. Io so benissimo chi è Spatuzza, so che è uno che ha ucciso decine di persone, so che ha sciolto nell’acido un bambino, ha fatto delle cose veramente orribili. Ma adesso Spatuzza racconta. Ci racconta dei fatti. E noi dobbiamo ascoltarlo. Ci sono fatti che stanno trovando conferme, e fatti che probabilmente conferme non troveranno e quindi diverranno inerti dal punto di vista processuale. Ma una volta ho incontrato Buscetta, insieme a Sandro Ruotolo, che è qui, stasera, in questo studio, insieme a me. Fu un incontro molto drammatico, molto coinvolgente, per noi forse uno degli incontri della vita, e in una sala vuota di un ristorante, Buscetta ci disse: c’è per ognuno il momento di un riscatto. Ognuno può riscattarsi. E come si può riscattare un omicida, uno che ha assassinato decine di persone? Raccontando tutta la verità, nient’altro che la verità. Quindi se noi poi attacchiamo Spatuzza vuol dire che, insomma, un po’ lo intimidiamo, gli impediamo di raccontare tutto quello che ha da raccontare.
Una cartolina densissima, che per ribadire la condanna della violenza di cui è stato oggetto Silvio Berlusconi rievoca una serie di fatti utili a ricostruire un’immagine – la propria – speculare a quella del Presidente del Consiglio. Un uomo, il Santoro che Santoro ci racconta, sottoposto a un vero e proprio «massacro mediatico» da parte dei suoi oppositori, per aver difeso un ideale che è anzitutto politico, quello della trasparenza nei confronti del pubblico, di elettori e di telespettatori. Che è tuttora – insieme ai suoi colleghi de «la Repubblica», «L’Espresso», «Il Fatto Quotidiano», «L’Unità», gli unici evidentemente a mettere quei pezzi di un racconto che si chiamano fatti «a disposizione dell’opinione pubblica perché si formi liberamente i propri convincimenti» – sottoposto al fuoco incrociato dei suoi nemici politici e mediali. Un uomo che, forte della competenza che gli viene dall’essere stato un obiettivo di mafia e dall’aver conosciuto da vicino i suoi capi, è più in grado degli altri di individuare la volontà di riscatto che muove Gaspare Spatuzza e le connessioni tra i fatti che egli racconta. Un giornalista di lungo corso che ha vissuto l’intera vicenda berlusconiana da protagonista – o antagonista – ed è quindi legittimato a ricordare al Cavaliere il tempo in cui la sua aggressività era diretta all’ideale di cambiare il mondo. Un giornalista che sembra vedere la risoluzione della crisi della sua professione, e del rapporto tra il suo mondo e quello della politica, nell’esasperazione di quegli elementi di protagonismo che hanno fatto di un conduttore un soggetto politico a tutti gli effetti. 154
christian ruggiero
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4. Rituali di ri-legittimazione? RaiUno (e Canale 5), 2012. Un’agenda politica dominata, in tempi di «governo tecnico», da tematiche di politica economica, si arricchisce il 31 gennaio di una tematica più politica: un «warning» della Banca d’Italia indica il Senatore Luigi Lusi, tesoriere de La Margherita, come protagonista di un’operazione di appropriazione indebita. Durissime le critiche dei dirigenti del Pd, pesanti le ripercussioni su un’opinione pubblica che si interroga ancora una volta sulla legittimità dei rimborsi elettorali ai partiti. Espulso dal partito già nel mese di febbraio, Lusi diviene un interessante caso politico-giudiziario, soprattutto nel momento in cui, in giugno, il Senato vota a favore del suo arresto – misura che viene considerata senza precedenti dai commentatori. Nel mese di marzo, il «caso Lusi» si intreccia con una «storia» ancor più interessante, che riguarda la Lega Nord. L’orgoglioso alfiere di una politica «pulita» contro i «ladri» che occuperebbero il Parlamento romano vede il suo tesoriere, il Senatore Francesco Belsito, finire sotto inchiesta a Milano, Napoli e Reggio Calabria. Le tre Procure sono chiamate ad indagare rispettivamente su somme distratte dai contributi elettorali per le spese della famiglia Bossi, su investimenti all’estero del tesoriere della Lega, su presunti rapporti con la ‘ndrangheta. Al centro della vicenda: il tesoriere stesso, il leader Umberto Bossi e la Vicepresidente del Senato Rosi Mauro. Il ruolo di quest’ultima è di particolare interesse per due motivi: la sua vicinanza al leader della Lega (e i sospetti che tale vicinanza possa essersi tradotta in potere personale di gestione dei fondi del partito) e i costanti finanziamenti che la Lega Nord garantisce al Sin.Pa., il Sindacato Padano fondato e gestito dalla Senatrice. Inoltre, Rosi Mauro è l’unica, fra i tre protagonisti principali del «Lega-gate», a sottoporsi direttamente al «tribunale dei media», rispondendo alle accuse che le vengono mosse non sul piano giudiziario, come Francesco Belsito, né su quello politico, come Umberto Bossi, ma su quello direttamente comunicativo, e – nello specifico – offrendosi come ospite/imputato a vantaggio dei «telesalotti» di RaiUno e Canale 5. Il 10 aprile, a Porta Porta, la vicepresidente del Senato risponde punto per punto ai «capi d’accusa», riassunti da Vespa con l’ausilio di un cartello in infografica, introducendo una distinzione tra Rosi Mauro dirigente del Sindacato Padano, e quindi destinataria legittima di fondi provenienti dalla Lega Nord, e Rosi Mauro «persona privata», che una costruzione mediale apertamente «colpevolista» dipingerebbe come destinataria di fondi riservati ad uso privato (si parla di lauree acquistate in oscuri atenei svizzeri). L’esistenza di questi «finanziamenti privati» sarebbe tutta da dimostrare, ribadisce il salotto e la piazza
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la senatrice a Matrix, il 18 aprile, offrendosi di fornire i propri moduli 730 per verificare provenienza e destinazione degli investimenti privati che la riguardano. L’inattaccabilità di Rosi Mauro in quanto dirigente del Sindacato Padano è garantita, sulla scena di entrambi i talk, dalla presenza tra il pubblico di Ivana Maffei, avvocato della Senatrice. La funzione scenica dell’avvocato difensore è però pienamente sfruttata solo a Porta a Porta, quando l’editorialista de La Stampa Marcello Sorgi veste momentaneamente i panni dell’avvocato accusatore. Singolare, al riguardo, la prontezza con la quale l’obiezione viene respinta dal giudice/conduttore Vespa: sorgi: Il sindacato è in grado di dimostrare che quei fondi siano stati usati fino all’ultima lira per attività sindacale? Ci vorrebbero le ricevute, le date delle manifestazioni, quanto sono costate… vespa: Marcello scusami: l’avvocato lì ha un pacco di estratti conto. mauro: Lì c’è l’avvocato Maffei che ha tutte le carte.
La seconda linea difensiva della vicepresidente del Senato è ancora più interessante, e viene dichiarata con chiarezza questa volta a Matrix: Non sono indagata, non so cosa stia succedendo, solo perché ci sono queste intercettazioni o queste strane telefonate tra segretari del movimento, che tra l’altro lavorano ancora lì in via Bellerio, io sono stata messa sotto accusa e non so perché, e mi hanno chiesto di fare un passo indietro dall’istituzione, e cioè da Vicepresidente del Senato. Io ho detto no per un semplice motivo: perché se in questo paese da oggi in poi basta una telefonata, un’intercettazione, e tengo a precisare che con l’ex tesoriere della Lega Nord come col precedente tutti parlavano […] Se io avessi fatto un passo indietro sarebbe stato come innescare un meccanismo di colpevolezza in tante persone, e non lo trovo giusto. Ma soprattutto avrei permesso […] in questa fase che basta una telefonata, basta che qualcuno dica qualcosa di qualcuno che vengono decapitate le istituzioni.
La «storia difensiva» di Rosi Mauro si arricchisce di un elemento fondamentale sul piano della credibilità della sua figura pubblica. La senatrice rifiuta di compiere il beau geste delle dimissioni per perseguire un fine superiore persino alla fedeltà al partito in cui ha militato per oltre vent’anni: la difesa dell’istituzione che rappresenta, la quale non può divenire bottino di quella che ormai si configura come una guerra intestina nella Lega Nord, né tantomeno essere sottoposta gratuitamente a un linciaggio mediatico sulla base di 156
christian ruggiero
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accuse non comprovate. Portare il livello dello scontro non sul piano politico, ma su quello istituzionale, rappresenta una scelta certamente interessante, dietro alla quale potrebbe nascondersi una valutazione più pragmatica: la presa d’atto della compromissione definitiva dell’attore-partito in un dibattito pubblico dominato dall’antipolitica, e la decisione di muoversi dalla meno compromessa carica di vicepresidente del Senato. Una posizione «credibile» nel contesto di una politica ormai «sfiduciata», che ha potuto esprimersi con incredibile libertà dal «palco» di due dei maggiori talk di approfondimento informativo. Una circostanza, questa, che consente di ipotizzare un terzo modello accanto ai due definiti dal «bipolarismo televisivo». Il primo è ben rappresentato da un Porta a Porta che abbandona il terreno scivoloso della politica per affidare le proprie sorti in termini di ascolti all’interesse, apparentemente inesauribile, del pubblico per i protagonisti della «nera». Il secondo, da un Annozero che, contro ogni evidenza della realtà giudiziale, prosegue nella sua missione di «antipolitica d’opinione». Il terzo, ipotetico modello, di cui entrambi i «salotti» della telepolitica forniscono un’anticipazione, consiste nel fornire al politico sotto attacco un palco «amico» dal quale lanciare una lunga e articolata arringa difensiva. Un nuovo interesse per la politica, unito a uno schieramento decisamente «conservatore»; uno scenario che apre a prospettive interessanti, di nuova legittimazione congiunta della politica e del formato talk in quanto sede di «teleprocessi pop».
il salotto e la piazza
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La commedia della verità. Sull’impossibilità del legal thriller nella letteratura italiana ALESSANDRO PERISSINOTTO
1. Da Perry Mason a C.S.I. «Grazie Vostro Onore». Cominciano così le inchieste dell’avvocato Perry Mason, dal momento in cui il giudice cede la parola alla difesa; cominciano dalla fine, e si svolgono in luogo che dovrebbe essere deputato alle decisioni, non alle scoperte: è un modello realistico? Probabilmente no. Se lo fosse, dovremmo concludere che, al contrario, il modello adottato da altre serie narrative (per esempio C.S.I. – Scena del crimine o NCIS – Unità anticrimine) è quanto mai distante dalla realtà, dal momento che in esse l’accertamento della verità è completamente affidato alle forze di polizia e precede la fase processuale. Ma poco importa, perché è bene ricordare le parole di Genette: «Il testo di finzione non conduce ad alcuna realtà extratestuale, ogni elemento che mutua (costantemente) dalla realtà (“Sherlock Holmes abitava al 221 B di Baker Street”, “Gilberte Swann aveva gli occhi neri” ecc.) si trasforma in elemento di finzione, come Napoleone in Guerra e pace o Rouen in Madame Bovary»1. Questo è uno dei principi del realismo nella fiction, è il principio per il quale, nel romanzo, il problema della verità non si pone, non è pertinente. Quella che invece è pertinente, e che la sociologia della comunicazione non può sottovalutare, è la questione speculare: quanto della finzione, dell’invenzione letteraria, televisiva e cinematografica è presente non nella realtà, ma nella sua percezione o, meglio, nella sua costruzione? Quanto gli oltre ottanta romanzi che Earle Stanley Gardner dedica alla figura dell’avvocatoinvestigatore influiscono sulla rappresentazione che il cittadino comune si dà del processo penale? E quanto, ancora, essi influiscono sulla fiducia che lo stesso 1.
G. Genette, Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1994, p. 50.
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cittadino, comparando il sistema giudiziario reale del proprio Paese con quello immaginario di Perry Mason, ha nella magistratura e nelle istituzioni? Gli avvocati penalisti italiani, e insieme a loro i magistrati, amano ripetere episodi più o meno romanzati in cui i testimoni, prima di iniziare la loro deposizione, chiedono una Bibbia sulla quale giurare, credendo che anche nel nostro Paese il rito processuale preveda questo passaggio. Quanto questi aneddoti riflettano una realtà diffusa (o piuttosto non siano essi stessi una narrazione orale condivisa) non è dato sapere, ma è certo che il cittadino italiano, di norma, ha molta più dimestichezza con i processi delle fiction d’oltreoceano che non con quelli che si svolgono nelle nostre aule di tribunale. Se appuntiamo la nostra attenzione sulla mediatizzazione audiovisiva della giustizia, dobbiamo banalmente riconoscere che lo strapotere dell’industria cinematografica e televisiva americana impone su scala globale modelli che sono tipicamente locali, tipicamente statunitensi, da quello sanitario, nel quale, ad esempio, le cure somministrate sono in proporzione alle disponibilità economiche del paziente (la tragedia delle cure negate agli indigenti è ormai un topos del medical drama) a quello, appunto, giudiziario. Ma se invece guardiamo alla produzione letteraria (senza fare distinzioni tra letteratura e paraletteratura), la scarsità o lo scarso appeal delle rappresentazioni narrative del processo impone qualche riflessione più approfondita: perché il legal thriller non ha mai avuto fortuna nel poliziesco italiano? Perché, malgrado le radici del giallo italiano affondino proprio nel terreno del romanzo processuale ottocentesco, quest’ultimo genere non ha saputo, se non in anni molto recenti, fornire visioni fedeli e al tempo stesso avvincenti del lavoro della giustizia? A queste domande propongo una duplice risposta. La prima, non certo originale, né inedita, riguarda il ruolo riservato alle indagini nel Codice di procedura penale in vigore fino al 1989. La seconda attiene invece a una sorta di immaginario collettivo che da secoli si rifiuta di collocare nelle aule di giustizia la ricerca e l’accertamento della verità. Di questo immaginario sono figli il manzoniano Azzeccagarbugli e le novelle che nei paragrafi successivi analizzerò proprio per suffragare questa ipotesi. Torniamo alla prima risposta. Sono molti i critici letterari e cinematografici che hanno rilevato come il legal thriller non possa allignare in un Paese il cui ordinamento non prevede la possibilità di contro-indagini svolte dalla difesa. È infatti solo partire dal 2000 (e, in particolare, con l’art. 11, Legge 7 dicembre 2000, n. 397) che la dicitura «Indagini difensive» compare nel Titolo VI bis del nostro Codice di Procedura Penale, il quale, all’articolo 391bis recita: «Salve le incompatibilità previste dall’articolo 197, comma 1, lettere c) e d), per acquisire notizie, il difensore, il sostituto, gli investigatori privati 160
alessandro perissinotto
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autorizzati o i consulenti tecnici possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa. In questo caso, l’acquisizione delle notizie avviene attraverso un colloquio non documentato». Il rifiuto di indagini di parte, che ha lungamente caratterizzato il nostro ordinamento, porta con sé l’idea di una sola e irrefutabile verità, quella dell’inchiesta svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, mentre il legal thriller si nutre del confronto tra verità differenti: esiste una verità della difesa e una verità dell’accusa e il tribunale diventa il luogo dove queste due si battono per giungere alla verità. Un processo dove i giurati hanno il solo compito di rifiutare o di accogliere la tesi accusatoria, senza poterla commisurare ad altre tesi, diventa, dal punto di vista narrativo, largamente privo d’interesse. Ed è proprio questo tipo di procedimento che i due «protopolizieschi» analizzati di seguito ridicolizzano. Ma prima di fare un salto indietro per immergerci nel mondo della novella giudiziaria di fine Ottocento, soffermiamoci ancora sulla rilevanza sociale di una visione «hollywoodiana» del processo e prendiamo in considerazione, come è già stato fatto altrove2, il cosiddetto C.S.I. Effect: «In definitiva, il C.S.I. Effect consiste in questo: grazie ai programmi televisivi, i membri delle giurie credono di sapere tutto circa le scienze forensi e circa i metodi d’indagine. Sbagliano, ma non lo capiscono, e i loro errori possono condizionare il verdetto»3. In Italia, dove il ruolo delle giurie popolari è di gran lunga meno rilevante che negli Stati Uniti, il dato più allarmante risiede nell’adozione della fiction quale universo di riferimento per la realtà. Il C.S.I. Effect si presenta così come una sorta di retroazione della finzione sulla realtà: la rappresentazione narrativa del crimine diventa talmente iperrealistica da alterare la sua realtà di riferimento trasformando le modalità di esecuzione e repressione del crimine stesso. Le vicende raccontate nei vari episodi televisivi sono, per lo più, tratte dalla vita di ogni giorno, così come sono autentici esperti di scienze forensi i consulenti dei programmi. Tutto questo imprime sulla narrazione le stigmate della realtà, ma si tratta sempre di un’illusione. Ramsland sente di dover precisare che «è importante per i telespettatori capire che la televisione non è la vita vera e che non importa quanto in TV la scienza sembri “reale” o quanto i plot siano vicini ai casi veri. È fiction»4.
2. A. Perissinotto, La società dell’indagine: riflessioni sopra il successo del poliziesco, Bompiani, Milano 2008. 3. K. Ramsland, The C.S.I. Effect, Berkeley Boulevard Book, New York 2006, p. XIV. 4. Ivi, p. XV (T.d.A.).
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Se uno studioso sente di dover chiarire un fatto così ovvio, significa che il comune senso di realtà è davvero compromesso: si vorrebbe conformare la realtà stessa ai tempi e alle situazioni della fiction. Si vorrebbe un mondo senza differenze tra crimini clamorosi, dove indagano gli esperti della Scientifica, e crimini usuali, banali; senza differenze tra polizie evolute, che dispongono di laboratori avveniristici, e polizie tradizionali, tradizionalmente private di mezzi. Il C.S.I. Effect non è altro che il desiderio di veder trasformato l’unicum del modello (il caso che assurge al ruolo di episodio televisivo), in una serie da adattare infallibilmente alla quotidianità. La mancata applicabilità del modello finzionale determina però un perverso paradosso: non si mette in discussione la poca verosimiglianza della narrazione, ma si accusa il sistema giudiziario reale di non essere all’altezza della sua rappresentazione narrativa. 2. La verità non è in aula Nelle rappresentazioni sociali5, le date hanno soprattutto un valore simbolico, costituiscono l’arbitraria scelta di un punto di svolta, l’individuazione a posteriori, all’interno del continuum della storia, di un momento di frattura6; in questo senso utilizzeremo qui la data del ’92. Il 17 febbraio del 1992 inizia, con l’arresto di Mario Chiesa, la fase pubblica dell’inchiesta “Mani pulite” condotta dalla Procura di Milano. Esattamente cent’anni prima, Gaspare Invrea (che come scrittore adotta lo pseudonimo di Remigio Zena) assume il suo ufficio di giudice presso il Tribunale militare di Milano ed è probabilmente in quell’anno, il 1892, che comincia a scrivere una novella di argomento giudiziario intitolata La sentenza. Il racconto subirà una lunga serie di rimaneggiamenti e verrà pubblicato postumo con il titolo di L’ultima cartuccia, ma l’impianto originario rimane perfettamente visibile anche nell’ultima versione. Malgrado la sua brevità, il testo appare diviso in due unità distinte. La prima, che ha come fondale l’aula, è dedicata alla messa in scena della menzogna, alla (ri)costruzione di fatti che, per quanto veri se presi singolarmente, non conducono, una volta concatenati, ad alcuna verità. La seconda parte si ambienta invece in camera di consiglio e ci consegna, nel finale, una verità completamente slegata dai fatti, dagli indizi, dalle testimonianze, da tutto ciò che, normalmente, costituisce l’ossatura del procedimento penale. 5. 6.
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S. Moscovici, Le rappresentazioni sociali, il Mulino, Bologna 2005. J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano 1993.
alessandro perissinotto
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La trama della prima parte è di sorprendente banalità. Il giovane sergente Raffaele Faraone, rampollo irrequieto di un’agiata e nobile famiglia abruzzese, è accusato di un furto di denaro nella cassa del suo Reggimento di stanza a Napoli; a suo carico c’è qualche testimonianza, qualche traccia, una lampada a olio di cui egli si serve abitualmente e che viene ritrovata sul luogo del delitto e un buon movente. La difesa, che egli inspiegabilmente assume in prima persona, può invece contare su un alibi: il giorno in cui è avvenuto il furto, il sergente si trovava in licenza a centinaia chilometri dalla caserma. Il dibattimento ruota intorno alla solidità di questo alibi: alcuni testimoni sostengono infatti di aver visto il sergente là dove non avrebbe dovuto trovarsi. Per mettere in evidenza i pilastri dell’impianto accusatorio e per illustrare, nel contempo, il singolare stile dello Zena, riporterò uno stralcio7. [S] Passando per Isernia, a qualunque ora si parta da Sulmona non si può giungere a Napoli che all’indomani. […] [P] Comunque sia, è certo che partendo da Sulmona alle 15.16 per la linea d’Avezzano si può essere a Roma la sera stessa alle 22.55, e bisogna credere che i Carabinieri di Sant’Eufemia abbiano errato nell’indicare il giorno della settimana e non quello del mese, cioè il 27, dappoiché il 28 mattino voi eravate a Roma. [S] Chi lo dice? [P] Dove e come abbiate passato la notte, per ora non si sa: la mattina del 28 eravate a Roma all’ufficio centrale del telegrafo e spediste un telegramma firmato Radamés. [S] Chi lo dice? Sarebbero ancora i soliti Carabinieri di Sant’Eufemia che mi avrebbero visto a Roma? [P] Che alcuno v’abbia visto, o per meglio dire v’abbia riconosciuto in quella circostanza, non risulta. Però, spedito il telegramma, dimenticaste un portasigarette d’argento, notissimo ai vostri amici, da una parte cesellato a geroglifici egiziani, recante dall’altra, sullo smalto, una testa di sfinge. Eccolo: lo riconoscete? [S] Sì, è mio. [P] Dunque ammettete... [S] L’ho smarrito o mi venne rubato a Napoli, poco dopo il mio ritorno da Nocera alla sede del Reggimento. […] 7. R. Zena, L’ultima cartuccia, Serra e Riva, Milano 1983. Per rendere intelligibile lo scambio di battute (vista la scelta dell’autore di rinunciare alle didascalie e a qualsiasi indicazione diegetica), ho aggiunto tra parentesi quadre la S di sergente e la P di presidente.
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[P] Verificato il registro dei telegrammi, […] la Questura […] lasciò trascorrere parecchie settimane prima di occuparsi […] del cosiddetto Radamés, cercando e interrogando subito, com’era ovvio e naturale, la persona alla quale, qui in Napoli, il telegramma era stato diretto, una certa Rosa Di Crescenzio, Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone; nel frattempo costei era sparita dal domicilio indicato e tuttora si mantiene irreperibile8.
In tutta la prima parte della novella, il modulo stilistico rimane invariato: un serrato dialogo tra accusatore e accusato, quasi si trattasse di una pièce teatrale o, in una visione contemporanea, di un telefilm. Questa scelta, più o meno consapevolmente, dà del procedimento penale un’idea ben precisa: il processo non è che la messa in scena di un copione, un gioco delle parti il cui risultato finale, che dovrebbe consistere nel «fare giustizia», non discende tanto dalla ricerca della verità quanto dalla sua costruzione dialettica, dalla sua creazione in forma di «possibile narrativo», di racconto verosimile. E se il processo è una pièce, il coup de théâtre ne è l’essenza. Così, quando il lettore si attende ormai che il sergente Faraone cali l’asso che ha nella manica e dimostri che i testimoni a suo carico mentono, egli decide di arrendersi all’evidenza: è vero, il giorno del furto egli si trovava a Napoli, i carabinieri che lo avevano intercettato vicino alla stazione di Sulmona non sbagliavano, l’accusa ha ragione, ma… Ma la sua presenza a Napoli in incognito nulla aveva a che vedere con il furto: al termine di un lungo monologo, l’imputato consegna al Presidente del tribunale un carteggio, il presidente lo legge, impallidisce e, senza dire altro se non che è in gioco l’onore di una donna, chiede alla corte di ritirarsi in Camera di consiglio. Così termina la prima unità del racconto ed è proprio come se il sipario si chiudesse sulla scena dell’aula. Quando il sipario si riapre, siamo in Camera di consiglio; lì i giurati, accolta senza difficoltà la tesi secondo la quale l’imputato all’ora del furto sarebbe stato impegnato sotto le lenzuola con la moglie di un ufficiale (la cui identità è nota al Presidente e a nessun altro, lettori inclusi), sono intenti a raccontarsi avventure galanti e scampate vendette da parte di mariti gelosi. Solo il capitano Agar, l’unico che si è pronunciato per la colpevolezza, non prende parte alla conversazione; i colleghi ne approfittano per parlare della fama di seduttrice della sua defunta moglie, una «bulgara […] moldovalacca [...] di quei paesi laggiù sulle sponde del Danubio, dove pare che le donne d’alto bordo, almeno quelle che capitano qui da noi, scommettano a chi
8.
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Ivi, pp. 46-48.
alessandro perissinotto
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incarna il romanzo più stravagante»9. Poi, all’improvviso, il capitano Agar cade in una specie di trance durante la quale ha una visione tragica: – ...Non mi opprimete così... mi state tutti addosso e mi soffocate. Non vedo più la Rosa Di Crescenzio... non importa, se volete saperlo vi dirò io perché al dibattimento è mancata la sua testimonianza. – Più tardi lo sapremo. Ora lei ha bisogno di calma e di tranquillità. Più tardi. Mi ascolti, capitano, per amor del cielo, non si agiti, abbia confidenza in noi, ci conosce tutti, pensi che siamo tutti suoi amici... – È comparsa al dibattimento... l’ho vista comparire nella sala quando fu pronunciato il suo nome, ma voi non avevate occhi per vederla... ero io solo che la vedevo!...un cadavere putrefatto nell’acqua, lacerato sott’acqua dai denti degli scogli... e stava in piedi, ritta come persona viva, e tutti quanti vi fissava, e c’era una fiamma nelle caverne delle sue orbite... e vi fissava sogghignando, nell’udire i rapporti della Questura che non aveva saputo scoprirne le tracce da nessuna parte... Poveri imbecilli! bisognava andarla a pescare sotto la punta di Posillipo... – .......!? – ...in fondo al mare, con un’ancora da pescatori al collo, presso la punta di Posillipo. Chi è che l’ha affogata? – Zitti! non l’interrompiamo. – ...Le chiesi, pieno di spavento e d’angoscia: perché venire a torturarmi? Perché ho da esser io, io solo, quello che vieni a torturare, trasfondendomi nel sangue il tuo odio e la tua sete di vendetta? E la Rosa Di Crescenzio sogghignava... – È atroce come i morti si fanno intendere senza parlare10.
Eccola finalmente la verità, essa arriva troppo tardi, quando ormai il verdetto è stato pronunciato e arriva non attraverso i fatti, ma addirittura attraverso una rivelazione dall’oltretomba: Rosa Di Crescenzio è stata uccisa dal sergente Faraone per impedirle di parlare, di rivelare i suoi crimini e le sue trame da dongiovanni di provincia. Non solo la Giustizia è incapace di inchiodare il colpevole alle sue responsabilità, ma è perfino incapace di scoprire il crimine che egli ha commesso e accusa (e poi assolve) di furto un assassino: l’impianto accusatorio si sgretola, viene ridicolizzato. Decisamente l’aula non è il luogo della verità e la verità stessa continua ad appartenere a un ordine diverso da quello della giustizia, a una dimensione ultraterrena.
9. Ivi, p. 83. 10. Ivi, p. 89.
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È ben vero che la soluzione trovata da Zena non è estranea a un certo gusto per le fumisterie tardo-ottocentesche, è evidente che in questa novella si ritrova il macabro esoterismo dei Tarchetti, dei Capuana e anche di un certo Verga (quello, ad esempio, di Le storie del Castello di Trezza), ma la scelta di rendere la verità estranea a ciò che avviene nel tribunale chiama Remigio Zena, e ancor più il suo alter ego Gaspare Invrea che è magistrato, in correità nella precoce distruzione della fiducia nella nascente magistratura dell’Italia unitaria. 3. Il processo come farsa E andiamo ancora indietro nel tempo, fino al 1884. In quell’anno Edoardo Scarfoglio, uno dei più brillanti giornalisti italiani, scrive una novella che intitola, anche in questo caso significativamente, Il processo di Frine. Contrariamente a quella di Zena, la trama di Scarfoglio è stupendamente lineare. Mariantonia, una burrosa e piacente contadina abruzzese, chiede allo speziale del paese di Guardiagrele un po’ di veleno per i topi; il farmacista glielo concede in cambio delle sue grazie ma, appena giunta a casa, Mariantonia utilizza l’arsenico per uccidere la suocera. Poi, colta da spavento, mentre l’anziana agonizza, ella rivela a suo marito la natura del suo delitto. Al racconto di questa prima parte vengono dedicate una ventina di pagine, poi si passa alla narrazione del processo e bastano alcune pennellate, che qui sotto riporto con alcune mie evidenziazioni, per comprendere quanto la visione del processo penale sia sconfortante e, proprio per questo, portatrice di apparenti marche di forte realismo. Il processo, per la volgarità del delitto, per la sciocca imprudenza con cui fu commesso, infine per la confessione della delinquente al marito prima e poi al pretore, fu fatto speditamente. Il giudice istruttore del tribunale di Chieti, che non trovava modo d’esercizio alla sua attività indagatrice, […] era malcontento. Il giudice istruttore che tiene quel faticoso officio da parecchio tempo, e ha dato più prove di sagacità, per quanto tranquillo sembri tra i mucchi di processi coperti di verde o di rosso, a ogni novo crimine è scaldato e turbato da due passioni ardenti e successive: prima, il desiderio di scoprirne l’autore o gli autori, poi di rischiararne tutte le parti tenebrose. La Corte, con quel grande apparato di carabinieri, di uscieri, di toghe, di avvocati, di testimoni di pubblico mascolino e femminino, di giuramenti, di giurati, con quella gabbia di ferro, con quella inscrizione ammonitrice che la legge è 166
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uguale per tutti, parrebbe il punto più caldo dell’eterno dramma della giustizia; ma quella non è che una pomposa ripetizione delle parti. I giudici sonnecchiano, il presidente si move sbadigliando sul seggiolone, il procuratore del Re guarda in alto apparecchiando l’eloquenza sonora, i giurati scarabocchiano i cassetti o incidono i banchi, il pubblico va e viene come fosse in piazza, l’accusato misura con lucido e tranquillo raziocinio la probabilità della pena. Nessuno bada ai testimoni, perché le testimonianze loro sono già scritte negli atti del processo; nessuno bada agli argomenti dell’accusa o della difesa, poiché si sa che quello è un esercizio ginnastico fra un uomo pagato dallo Stato per accusare e un uomo pagato dal delinquente per difendere. Il processo non si fa in Corte aperta, come in Inghilterra, ove due avvocati si contendono i testimoni e accumulano prove pro e contra. Le prove sono state già raccolte, il processo è già fatto: non resta che ad esporre i dati al giurì, a quei dodici uomini rispettosi del diritto che, costretti, debbono esercitare, e dal cui giudizio pende l’ultimo anelito del dramma11.
Et voilà, a Scarfoglio bastano poche parole per mostrare, attraverso la comparazione tra il sistema giudiziario inglese e quello italiano, ciò che molti (me compreso) si sono affannati a spiegare: l’impossibilità di un legal thriller nostrano. E gli bastano poche immagini di straordinaria vividezza (come quella dei giurati che scarabocchiano i cassetti o incidono i banchi) per ridicolizzare il processo, per ridurre «l’eterno dramma della giustizia» a una pietosa farsa. E in farsa si risolve la vicenda di Mariantonia, riportandoci, con questa caduta, all’idea di verità giudiziaria come costruzione dialettica, la stessa che emerge dal processo intentato contro il sergente Faraone. Se è vero infatti che «le prove sono già state raccolte» e che la giovane donna ha confessato, non è affatto scontato che i dati e la confessione costituiscano la verità. Certo, né il giudice istruttore, né i giurati mettono in dubbio la ricostruzione dei fatti, ma la bellezza di Mariantonia, la sua ingenuità, il suo commosso racconto delle vessazioni patite dalla suocera, la serenità con la quale ammette di essersi concessa ad altri uomini solo perché questi glielo domandavano, convincono la corte a elaborare un’immagine dell’imputata che non corrisponde con quella di un’assassina. «Il procuratore del Re chiese cinque anni di carcere, la Corte li ridusse a tre». È questo il verdetto e l’avvocato difensore, parlando con un collega che si complimenta con lui per il successo, chiosa: «Lu mònne è dle puttane!».
11. E. Scarfoglio, Il processo di Frine, Textus, L’Aquila 2003, p. 16.
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Dal punto di vista terminologico è opportuno notare come «dramma», «quinta», «scena», «drammaturgo» siano parole che ricorrono spesso nella parte che riguarda il processo. Anche qui il dibattimento è un «gioco delle parti», è una rappresentazione ravvivata da vere e proprie scenette: Poco dopo, il presidente, il quale cominciava a pensare con qualche desiderio al pranzo che lo aspettava, fu ferito da uno spettacolo strano: il vecchio giudice che gli sedeva a destra stendeva cautamente la mano lungo l’orlo della tavola; giunto presso al calamaio del presidente lo prese, lo trasse a sé con una pazienza mirabile, e ne versò tutto l’inchiostro nel calamaio suo. Poi tolse pianamente questo, se lo calò sulle gambe, e cominciò a versare tutto l’inchiostro in una bottiglia che si teneva stretta fra i ginocchi. Il presidente, che, venuto da poco da Aquila, non sapeva il vizio del suo collega e non avrebbe mai pensato che un magistrato potesse essere ammalato di cleptomania, gli toccò il braccio, quasi per domandargli che diamine stesse facendo. Il giudice colto in flagrante aperse le ginocchia e la bottiglia cadde frangendosi sul tavolato con un fragore terribile, e di nuovo le risa e il movimento della folla soffocarono la voce dell’oratore12.
E, ancora una volta, ci chiediamo: che cosa comporta la rinuncia a una seria ricerca della verità? Quale prezzo paga una nazione che, fin dalla sua infanzia, ha imparato a convivere con la sfiducia nella giustizia? 4. Epilogo Scrivono Berger e Luckmann: L’universo simbolico permette una integrazione globale di tutti i sistemi istituzionali distinti. L’intera società ora ha un senso. Le singole istituzioni vengono legittimate grazie a una collocazione in un mondo significativo che le comprende tutte. Per esempio, l’ordine politico viene legittimato mettendolo in rapporto con un ordine cosmico di potere e giustizia13.
I modelli testuali e simbolici che i due autori hanno in mente mentre formulano questo passaggio sono più alti e forti (il mito, la pittura, ecc.) di quelli che qui abbiamo preso in considerazione, ma è sicuramente vero che 12. Ivi, p. 33. 13. P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 1989, p. 148.
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nella società borghese contemporanea (vale a dire moderna e postmoderna) è proprio la narrazione popolare (il feuilleton, il romanzo poliziesco, la fiction, il cinema) a farsi carico della costruzione dell’universo simbolico che dà senso alla società stessa. Dunque, la domanda con la quale abbiamo chiuso il paragrafo precedente va vista sotto questa nuova luce: quale autorappresentazione14 fornisce la nostra cultura per ciò che attiene alla giustizia. Berger e Luckman parlano, al pari di Weber, di «legittimazione», ma non è difficile ipotizzare che la testualità diffusa, in una logica conflittuale, possa perseguire l’obiettivo opposto, cioè quello di de-legittimare un certo potere o un certo ordine, e, in conclusione di questo breve saggio, è proprio questa l’osservazione che mi pare più pregnante: fin dai primi decenni dell’Unità, l’Italia sembra voler costantemente delegittimare, a livello popolare (che, in fondo, è quello che più conta), il proprio sistema giudiziario. Gli esempi letterari o cinematografici che mostrano la sostanziale sfiducia dei narratori nella nostra giustizia si moltiplicano. Elencarli tutti diventa impossibile, pertanto ne faremo breve antologia. Nell’episodio Testimone volontario del film I mostri (1963), Dino Risi ci presenta la vicenda di un «cittadino onesto» che, comprendendo di essere testimone chiave in un processo, si presenta spontaneamente alla corte mettendosi a disposizione dell’accusa: sottoposto a controinterrogatorio da parte dell’avvocato difensore dell’imputato, il «cittadino onesto» si trasformerà egli stesso in imputato, perderà ogni credibilità e vedrà svelate le sue piccole infedeltà verso la moglie e verso l’azienda per cui lavora. Il racconto diviene così una sorta di doloroso apologo dell’omertà: di fronte alla fallacia della magistratura italiana, ci dice con amarezza l’episodio, meglio disinteressarsi della verità e del suo trionfo. Nel primo romanzo di Vincenzo Cerami, Un borghese piccolo piccolo15, da cui Monicelli trasse l’omonimo film, la sfiducia è addirittura preventiva: davanti all’opportunità di inchiodare con una testimonianza l’omicida del figlio (che è stato catturato dalle efficientissime forze dell’ordine), il protagonista del libro preferisce farsi giustizia da solo, preferisce tendere un’imboscata al colpevole, che grazie a lui è stato rilasciato, sequestrarlo e torturarlo16.
14. Per il concetto di autorappresentazione si veda J. Lotman, B. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1987. 15. V. Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Garzanti, Milano 1976. 16. Trama del tutto analoga è quella del bel film argentino El secreto de sus ojos (Il segreto dei suoi occhi, J.J. Campanella, 2009), dove il responsabile di un omicidio compiuto ai tempi della dittatura e sempre coperto dalla magistratura di regime e dalle leggi di «riconciliazione nazionale» viene individuato dal fidanzato della vittima e da lui segregato a vita in una sorta di ergastolo privato.
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Gli anni che vedono l’esordio di Cerami sono gli stessi in cui trionfa il poliziottesco all’italiana, in cui i film hanno titoli come La polizia incrimina, la legge assolve (Enzo G. Castellari 1973). Giustizia e Verità permangono lontanissime, estranea l’una all’altra – questo, naturalmente, nella costruzione narrativa della realtà. Di lì a poco, nella realtà non costruita, inizierà la stagione dei grandi processi, quello di Torino contro le Brigate Rosse, i maxiprocessi contro la mafia, comincerà una stagione di processi eroici, di giudici coraggiosi che sfidano le minacce. Ma quando le aule giudiziarie divengono davvero luogo di ricerca della verità, cinema e televisione iniziano a latitare, a disertare i luoghi della giustizia, quasi non sapessero rinunciare agli stereotipi del fallimento e della commedia. La narrazione giudiziaria è dunque mezzo privilegiato di accesso alla realtà del processo e, al tempo stesso, è specchio distorto, universo simbolico infedele che rende indistinguibile il referente: lo studio dello scarto tra il verosimile e il vero, nonché quello delle reciproche influenze, ben lungi dall’essere di pertinenza della critica letteraria, è appannaggio di una sociologia delle narrazioni che, forse, deve ancora trovare una sua vera identità.
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Elenco dei film citati
A Man for All Seasons (Un uomo per tutte le stagioni, F. Zinnemann, 1966) A mezzanotte va la ronda del piacere (M. Fondato, 1975) Altri tempi (A. Blasetti, 1952) Amityville Possession (D. Damiani, 1982) Anatomy of a Murder (Anatomia di un omicidio, O. Preminger, 1959) Anni facili (L. Zampa, 1953) Banditi a Milano (C. Lizzani, 1968) Beröringen (L’adultera, I. Bergman, 1971) Cadaveri eccellenti (F. Rosi, 1976) Cento giorni a Palermo (G. Ferrara, 1984) Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (D. Damiani, 1971) Corruzione al palazzo di giustizia (M. Aliprandi 1974) Corte d’assise (G. Brignone, 1930) Der Fall Bachmeier - Keine Zeit für Tränen (H. Bohm, 1984) Der letzte Zeuge (L’ultimo testimone, W. Staudte, 1960) Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, I. Bergman, 1957) Detenuto in attesa di giudizio (N. Loy, 1971) Die Affäre Blum (E. Engel, 1948) Divorzio all’italiana (P. Germi, 1961) Dov’è la libertà? (R. Rossellini, 1952) Dreyfus (R. Oswald, 1930) El secreto de sus ojos (Il segreto dei suoi occhi, J.J. Campanella, 2009) Febbre da cavallo (Steno, 1976) Gioco al massacro (D. Damiani, 1989) Girolimoni - Il mostro di Roma (D. Damiani, 1972) Gomorra (M. Garrone, 2008)
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Goodbye & Amen (D. Damiani, 1977) I cento passi (M.T. Giordana, 2000) I Confess (Io confesso, A. Hitchcock 1953) I giudici (R. Tognazzi, 1999) I mostri (D. Risi, 1963) Ich klage an (Io accuso, W. Liebeneiner 1941) Il bigamo (L. Emmer, 1956) Il caimano (N. Moretti, 2006) Il commissario (L. Comencini, 1962) Il Convitto Falcone (P. Scimeca, 2012) Il diavolo (G.L. Polidoro, 1963) Il Divo (P. Sorrentino, 2008) Il fantasma di Corleone (M. Amenta, 2006) Il giorno della civetta (D. Damiani, 1968) Il giorno più corto (S. Corbucci, 1963) Il giudice ragazzino (A. Di Robilant, 1994) Il magistrato (L. Zampa, 1959) Il muro di Gomma (M. Risi, 1991) Il pentito (P. Squitieri, 1985) Il petomane (P. Festa Campanile, 1983) Il portaborse (D. Luchetti, 1991) Il processo (O. Welles, 1962) Il rossetto (D. Damiani, 1960) Il sasso in bocca (G. Ferrara, 1970) Il sicario (D. Damiani, 1961) Il sorpasso (D. Risi, 1962) Il sorriso del grande tentatore (D. Damiani, 1974) Il testimone (P. Germi, 1945) Il vigile (L. Zampa, 1960) Imputato alzatevi! (M. Mattoli, 1939) Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E. Petri, 1970) In nome del popolo italiano (D. Risi, 1971) In nome della legge (P. Germi, 1949) In un altro paese (M. Turco, 2006) Io ho paura (D. Damiani, 1977) La grande guerra (M. Monicelli, 1959) La noia (D. Damiani, 1963) La più bella serata della mia vita (E. Scola, 1972) La piovra (D. Damiani, 1984) 172
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La polizia accusa: il servizio segreto uccide (S. Martino, 1975) La polizia è al servizio del cittadino? (R. Guerrieri, 1973) La polizia incrimina, la legge assolve (E.G. Castellari, 1973) La polizia interviene: ordine di uccidere! (G. Rosati, 1975) La polizia ringrazia (Steno, 1972) La poliziotta (Steno, 1974) La pretora (L. Fulci, 1976) La rimpatriata (D. Damiani, 1963) La smania addosso (M. Andrei, 1965) La strega in amore (D. Damiani, 1966) L’angelo con la pistola (D. Damiani, 1992) L’avvertimento (D. Damiani, 1980) Le mani sulla città (F. Rosi, 1963) L’illazione (L. Luttazzi, 1972) L’isola di Arturo (D. Damiani, 1962) L’istruttoria è chiusa: dimentichi - Tante sbarre (D. Damiani, 1972) Mi faccia causa (Steno, 1984) Nichts als die Wahrheit (R.S. Richter 1999) Paolo Borsellino (G.M. Tavarelli, 2004) Perché si uccide un magistrato (D. Damiani, 1974) Piedone lo sbirro (Steno, 1973) Placido Rizzotto (P. Scimeca, 2000) Porte aperte (G. Amelio, 1990) Processo alla città (L. Zampa, 1952) Processo di Giovanna d’Arco (R. Bresson, 1962) Pronto ad uccidere (F. Prosperi, 1976) Quien sabe? (D. Damiani, 1966), Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande (S. Martino, 1982) Rocco e i suoi fratelli (L. Visconti, 1960) Roma Violenta (F. Martinelli, 1975) Rosen für den Staatsanwalt (W. Staudte, 1959) Salvatore Giuliano (F. Rosi, 1961) Sedotta e abbandonata (P. Germi, 1963) Sono stato io (A. Lattuada, 1973) Svegliati e uccidi (C. Lizzani, 1967) The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, J. Ford, 1962) Todo Modo (E. Petri, 1976) Tre fratelli (F. Rosi, 1981) elenco dei film citati
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Tutti dentro (A. Sordi, 1984) Twelve Angry Men (La parola ai giurati, S. Lumet, 1957) Un borghese piccolo piccolo (M. Monicelli, 1977) Un eroe Borghese (M. Placido, 1996) Un giorno in pretura (Steno, 1953) Un uomo in ginocchio (D. Damiani, 1979) Un uomo perbene (M. Zaccaro, 1999) Una questione d’onore (L. Zampa, 1965) Una storia semplice (E. Greco, 1991) Zucchero, miele e peperoncino (S. Martino, 1980)
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Profili degli autori
Il curatore GUIDO VITIELLO è ricercatore e docente presso la Facoltà di Scienze Politiche,
Sociologia, Comunicazione (Sapienza Università di Roma). Collabora con il «Corriere della Sera», «Il Foglio», «Internazionale» e «IL». Tra i suoi libri più recenti, La commedia dell’innocenza. Una congettura sulla detective story (2008), Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop (2011), I turbamenti di un giovane bibliomane (2012), Non giudicate. Conversazioni con i veterani del garantismo (2012) e, con Andrea Pergolari, Ha visto il montaggio analogico? (2011). Cura il blog UnPopperUno. Gli autori è professore di Television Studies nell’Università di Roma «La Sapienza». Si occupa di teorie dei media, television drama, genere e media, e ha fondato l’Osservatorio sulla Fiction Italiana. Autrice ed editor di oltre cinquanta libri, ha pubblicato più di recente: La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale (Laterza, Roma-Bari 2012) e Italian tv drama and beyond. Stories from the soil, stories from the sea (Intellect, Bristol 2012).
MILLY BUONANNO
GIOVANNI DAMELE insegna retorica giuridica presso l’Universidade Nova di Lisbona. Suoi principali ambiti d’interesse sono la filosofia del diritto e le teorie dell’argomentazione giuridica. Ha pubblicato, tra l’altro, «A força das coisas»: o argumento naturalista na jurisprudência constitucional, in «Revista Brasileira de Filosofia», Rhetoric and Persuasive Strategies in High Courts’De-
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cisions, in «Argumentation 2011», Dialettica, retorica e argomentazione giuridica, in «Analisi e diritto 2006».
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GIOVAMBATTISTA FATELLI è professore associato presso il Dipartimento di
Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università «La Sapienza» di Roma, dove si occupa di sociologia dei processi culturali e insegna Linguaggi e formati del cinema e dell’audiovisivo. Ha curato Morsi di paura. Anatomia semiseria di un mito dell’immaginario collettivo (Edizioni Nuova Cultura, Roma 2011), e pubblicato saggi sul cinema in Il precinema oltre il cinema (a cura di Elio Girlanda, Dino Audino editore, Roma 2010) e Regole e finzioni. Il sistema giudiziario nella fiction cine-televisiva (a cura di Andrea Pitasi, Franco Angeli, Milano 2010). ANTON GIULIO MANCINO, ricercatore e professore aggregato, insegna Semiologia del cinema, Realizzazione di documentari e Letteratura e cinema all’Università di Macerata e Semiologia del cinema all’Università di Bari. Autore di volumi su Martin Scorsese, Jonathan Demme, Francesco Rosi, John Wayne, Sergio Rubini, sul cinema politico italiano (Il processo della verità, Kaplan, Torino 2008; La recita della storia, di prossima pubblicazione), di numerose voci per l’Enciclopedia del Cinema (Treccani) curata da Enzo Siciliano e del Dizionario dei registi del cinema mondiale (Einaudi) curato da Gian Piero Brunetta. Collabora con «Cineforum», «Cinecritica» e «La Gazzetta del Mezzogiorno».
insegna presso l’Università di Roma «La Sapienza». I suoi ambiti di ricerca principali vertono sulla storia culturale del cinema italiano, l’analisi del film e gli studi visuali. Tra le sue pubblicazioni: Dell’incantamento. Hitchcock, Bergman, Fellini e il «motivo dello sguardo» (Ipermedium, Napoli 2009); La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni, Roma 2010); F.W. Murnau. L’arte di evocare fantasmi (Ente dello spettacolo, Roma 2010); Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Rubbettino, Soveria Mannelli 2012). Collabora con il settimanale «Gli Altri».
ANDREA MINUZ
ANDREA PERGOLARI è dottore di ricerca in Tecnologie digitali per la ricerca
nello spettacolo. Tra i suoi libri, Verso la commedia (Firenze libri, Firenze 2002), Dizionario dei protagonisti del cinema comico e della commedia italiana (Un mondo a parte, Roma 2003), La fabbrica del riso. 32 sceneggiatori raccontano la storia del cinema italiano (Un mondo a parte, Roma 2004), Pasquale Festa Campanile ovvero la sindrome di Matusalemme (Aracne, Roma
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2008), Luciano Salce: una vita spettacolare (con Emanuele Salce, Edilazio, Roma 2009), Tognazzingiallo (con Paolo Silvestrini, Perrone, Roma 2010).
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ALESSANDRO PERISSINOTTO è professore associato e insegna Teorie e tecni-
che delle scritture presso l’Università di Torino. È autore di numerosi romanzi polizieschi tradotti in tutto il mondo, il più recente dei quali è Semina il vento (Piemme, Milano 2011), e di diversi saggi tra cui La società dell’indagine. Riflessioni sopra il successo del poliziesco (Bompiani, Milano 2008) e Sport e comunicazione. Teorie, storia, scenari (Mondadori Università, Milano 2012).
ISABELLA PEZZINI è professore di Semiotica a Roma presso «La Sapienza» e attuale presidente dell’Associazione italiana di studi semiotici. Le sue pubblicazioni più recenti, Immagini quotidiane. Sociosemiotica visuale (Laterza, Roma-Bari 2008), Semiotica dei nuovi musei (Laterza, Roma-Bari 2011); Pinocchio. Nuove avventure tra testi e linguaggi (con Paolo Fabbri, Mimesis, Milano 2012), La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale e Passioni collettive. Cultura, politica, società (con Vincenza Del Marco, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2011 e 2012).
è ricercatore presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma «La Sapienza». Si occupa del rapporto tra politica e mezzi di comunicazione e di sociologia delle professioni comunicative, con particolare attenzione a quelle del giornalismo. Tra le sue pubblicazioni, Il declino della videocrazia. Tv e politica nell’Italia del Mediaevo (ScriptaWeb, Napoli 2011) e Le parole della politica. Protagonisti, linguaggi e narrazioni nell’Italia del 2008 (con Michele Prospero, ScriptaWeb, Napoli 2010).
CHRISTIAN RUGGIERO
profili degli autori
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2013 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it
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CINEMA
Franz Kafka/Orson Welles: il processo, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio
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Pangaro Il portaborse vent’anni dopo, a cura di Italo Moscati Dal cuore della tenebra all’Apocalisse. Francis Ford Coppola legge Joseph Conrad, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia, a cura di Christian Uva Giacomo Ravesi, La città delle immagini. Cinema, video, architettura e arti visive Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico Sergio Castellitto. Senza arte né parte, a cura di Enrico Magrelli Così bella così dolce. Dalle pagine di Dostoevskij al film di Bresson, a cura di Francesco Bono, Luigi Cimmino, Giorgio Pangaro Kristin Thompson, Storytelling. Forme del racconto tra cinema e televisione Paola Dalla Torre, Sognando il futuro. Da 2001: Odissea nello spazio a Inception Istantanee sul cinema italiano. Film, volti, idee del nuovo millennio, a cura di Franco Montini e Vito Zagarrio In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello
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