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German Pages 228
Biblia regum
Culture et société médiévales Volume 39 Collection dirigée par Edina Bozoky Membres du comité de lecture Claude Andrault-Schmitt, Anne-Marie Legaré, Marie Anne Polo de Beaulieu, Jean-Jacques Vincensini
Biblia regum Bibbia dei re, Bibbia per i re (sec. IV-XIII)
Sous la direction de Franca Ela Consolino Chiara Staiti
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© 2022, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher. D/2022/0095/60 ISBN 978-2-503-59265-7 eISBN 978-2-503-59266-4 DOI 10.1484/M.CSM-EB.5.121858 ISSN 1780-2881 eISSN 2294-849X Printed in the EU on acid-free paper.
Indice
Premessa
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Introduzione
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Bibbia, sudditi e re «Temete Dio, onorate il re» (1 Pt 2, 17) Sudditi e re di fronte a Dio Giuseppe Cremascoli
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Bibbia, re e uomini di chiesa fra tarda antichità e medioevo Dilexi (Ps 114,1) Ambrose’s David and Emperor Theodosius Paola F. Moretti
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Et exemplis et ratione Riferimenti biblici nei colloqui di Avito di Vienne con Gundobado Elena Malaspina
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Biblical and Historical Exempla for Rulers in Sedulius Scottus’ Liber De Rectoribus Christianis Franca Ela Consolino
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Eleuatus est sol et luna stetit in ordine suo Bible and Kingship in Aelred of Rievaulx’s Writings for Henry II Francesco Marzella
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Bibbia e re tra latino e volgari Exiit edictum a Caesare Augusto Die Darstellung imperialer und kosmischer Macht in der kontinentalen volkssprachigen Bibeldichtung des frühen Mittelalters Chiara Staiti
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Da Davide ad Alfredo La traduzione del Salterio nell’Inghilterra anglosassone Dora Faraci
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Specula principis, ideologia della sovranità e letterature romanze medievali Dal Policraticus a Érec et Énide, dall’Alexandreis al Libro de Alexandre 143 Lucia Lazzerini
Bibbia e re: committenti, lettori, illustrazioni L’illustrazione dei Libri dei Re Giuseppa Z. Zanichelli
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Poeme, Bilder, Kommentare Die Bibel im Gebrauch von Königen und Adligen der Karolingerzeit Wolfgang Haubrichs
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Abstracts
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The Authors
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Premessa
I saggi qui raccolti riflettono parte degli interventi tenuti al Convegno Internazionale «Biblia regum – Bibbia dei Re, Bibbia per i Re (sec. IV-XIII)», svoltosi a L’Aquila il 16 e 17 aprile 2018 e da noi organizzato, nell’ambito del progetto di eccellenza del Dipartimento di Scienze Umane, con lo scopo di indagare sui vari tipi di rapporto fra Bibbia e autorità regia in occidente dalla tarda antichità al medioevo e di ricostruire, almeno in parte, molteplici aspetti della variegata ricezione di questo testo, fondamentale in relazione al potere politico. Nel licenziare il volume desideriamo esprimere il nostro sentito ringraziamento a Edina Bozoky, che ha consentito ad accogliere questo libro nella collana da lei diretta. Franca Ela Consolino e Chiara Staiti
Introduzione
Al rapporto fra Bibbia e re si può guardare da tante prospettive quante sono le domande cui il libro sacro può dare risposta. La Scrittura si presta a indicare ai sudditi come comportarsi con i regnanti, ricorda ai sovrani i loro doveri verso i popoli governati e verso Dio, e suggerisce loro il corretto rapporto con i consiglieri e con la Chiesa; è chiave per la comprensione di eventi e situazioni, e in quanto tale può essere utilizzata a favore di un re o contro di lui; può consolare in momenti di afflizione, aiutare nell’interpretazione di eventi attuali o addirittura influenzarne l’esito. Ma la Bibbia è anche e soprattutto un testo, che va interpretato (e fondamentale in questo è il ruolo degli uomini di chiesa) e all’occorrenza tradotto, commentato, parafrasato, fatto oggetto di adeguamenti perché possa raggiungere una più vasta cerchia di fruitori. La varietà e la frequenza delle citazioni e dei riferimenti biblici possono a loro volta dar vita a un complesso gioco di nessi intertestuali che si estende attraverso i secoli e in ambienti culturali variegati. L’importanza e la centralità riconosciute dal cristianesimo ai testi sacri ne impongono e incoraggiano la diffusione: la Bibbia e parti di essa vengono copiate, e la committenza regia o nobiliare ha certamente un notevole peso nell’esecuzione di codici spesso lussuosi, adorni di miniature i cui soggetti ci dicono molto su personalità, interessi, ideologia del committente; e le storie lì narrate sono anche rappresentate, con declinazioni diverse, in affreschi, dipinti, sculture, oggetti vari. Ciascuno per la sua parte, ma in continuo dialogo, i contributi raccolti in questo volume illuminano aspetti e momenti significativi dal punto di vista delle diverse prospettive di volta in volta adottate, e contribuiscono a ricostruire alcuni tasselli – fondamentali, pur in contesti diversi – del lungo processo di ricezione, rielaborazione, adattamento, riuso del testo biblico in connessione con l’esercizio della regalità, che, dall’antichità al tardo medioevo e anche oltre, tanta parte gioca nel costituirsi della cultura europea. Alle indicazioni della Bibbia sull’atteggiamento che i sudditi debbono tenere nei confronti di chi li governa Giuseppe Cremascoli dedica il saggio «Temete Dio, onorate il re (I Pt 2,17). Sudditi e re di fronte a Dio», che spazia dalle fasi iniziali del cristianesimo, con la Lettera a Diogneto (seconda metà del II secolo d. C.), al Rinascimento inglese, con il teologo e riformatore John Colet (1467-1519), che fu in stretto contatto con Tommaso Moro e corrispondente di Erasmo da Rotterdam, e si spinge fino a san Lorenzo da Brindisi (1559-1619). Per l’ampiezza dell’estensione cronologica e il notevole numero di autori, testi e problemi considerati questo fondamentale contributo trova naturale collocazione in apertura del volume. Al centro dell’indagine di Cremascoli è in particolare l’esegesi, soprattutto medievale, di due passi del Nuovo Testamento: 1Pt 2, 17 «temete Dio, onorate il re», e Rm 13,
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1-2 «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna». Il precetto contenuto nell’epistola attribuita a Pietro è parte di un più ampio discorso sul comportamento che i cristiani debbono tenere nella società e in particolare nei confronti dell’autorità costituita. In analoga direzione va il monito di Paolo, che indica ai cristiani di Roma come comportarsi con le autorità civili. Mediante una selezione di casi particolarmente indicativi, distribuiti su un lungo arco di tempo, l’autore illustra le riflessioni sulla frase paolina nulla potestas nisi a Deo, che – come è abbastanza usuale nell’esegesi biblica – vengono condotte richiamando altri passi della Scrittura che aiutino a spiegare il senso e la portata di questa affermazione, fra i quali innanzitutto l’esortazione di Pietro a temere Dio e ad onorare il re. Il collegamento tra i due passi si presta bene a discutere i rapporti fra Chiesa e potere secolare; esso ricorre per esempio nel riformatore inglese John Wyclif (c. 1330-1384), che dal dovere di onorare i re, la cui autorità promana da Dio (propter timorem Dei debemus honorare reges), fa discendere la necessità che i chierici siano esclusi dall’esercizio del saeculare dominium. Oltre che con Rm 13, 1-2, il precetto attribuito a Pietro viene spesso collegato anche con il monito evangelico a rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mt 22, 21; Mc 12, 17; Lc 20, 25): così accade per esempio in Beda († 735), che vede in questo monito l’applicazione di 1Pt 2, 17, versetto che egli cita nella sua interezza: Omnes honorate, fraternitatem diligite, Deum timete, regem honorificate. Al dovere dei sudditi dovrebbe corrispondere quello del re, servo di Dio a sua volta: e sui doveri del re insistono autori di diversa età e provenienza, come Raterio di Verona († 974), che sottolinea come il re debba essere consapevole della reverenza da lui dovuta al Creatore, o il vescovo Gerardo di Csanàd († 1046). Questa posizione, messa nel debito rilievo da Cremascoli, ci appare tanto più indicativa in scrittori che ebbero direttamente a che fare con dei sovrani: Gerardo fu vicino a re Stefano di Ungheria e Raterio scrisse i Praeloquia – l’opera in cui si trova l’affermazione sopra ricordata – mentre era prigioniero del re Ugo a Pavia (934-936). Nel versetto pietrino l’onore dovuto al re è parte di un precetto sull’onore che il cristiano è tenuto a dare e ricevere: ne deriva – come rileva Pietro il Venerabile (1092-1156) – che ogni stato di vita meriti rispetto e che ciascuno debba darne e riceverne in base alla propria condizione. In un mondo in cui ognuno merita l’onore dovuto alla sua condizione, alla regalità si deve uno speciale ossequio in virtù della sua superiore dignità, come osservano fra gli altri il domenicano Guglielmo Peyraud († 1271) e circa un secolo dopo John Wycliff. Quando chi dovrebbe ricevere onore non ne è moralmente degno, soccorre la distinzione fra l’istituzione, cui si deve prestare obbedienza, e la persona che la ricopre. In ogni caso – nota Tommaso D’Aquino – non si è esentati dal dovere di onorare nella persona la carica che essa riveste, e questo si applica ovviamente ai re. Chi rappresenta l’autorità costituita può essere malvagio o ingiusto. Se 1Pt 2, 18 subditi in omni timore dominis, non tantum bonis et modestis sed etiam discolis giustifica in una prospettiva cristiana e ultraterrena la sofferenza ingiustamente subita, le cose si complicano quando reggitori iniqui diano ai cristiani ordini che contravvengono
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alla legge di Dio. La risposta che l’Aquinate dà a questo specifico problema si ispira al De civitate Dei di Agostino: vivendo nel mondo ma senza appartenergli, i cristiani debbono compiere azioni che rimangano in his quae non sunt contra Deum. Ma conciliare con le proprie scelte di fede l’onore dovuto al re può non essere facile, e Cremascoli conclude il suo saggio con tre casi emblematici sia delle difficoltà in cui si può incorrere aderendo al precetto di Pietro sull’obbedienza a chi comanda, sia degli svariati modi in cui esso può venire inteso e applicato. Primo ad essere ricordato è l’africano Fulgenzio di Ruspe (c. 467-533), vescovo cattolico che cercò di mostrarsi fedele al re vandalo Trasamondo (c. 450-523) pur non recedendo dal fermo rifiuto dell’arianesimo, cui il sovrano aderiva (a questi contatti fra il re e il vescovo fa riferimento nel suo saggio qui pubblicato anche Elena Malaspina). Le vicissitudini di Fulgenzio mostrano il fallimento di questo tentativo: due volte esiliato in Sardegna da Trasamondo, egli poté fare ritorno in Africa solo dopo l’avvento al trono del suo successore cattolico Ilderico (c. 460-533). C’è poi il caso affatto particolare del vescovo Facondo di Ermiane (VI sec.), il quale, non accettando la condanna dei Tre Capitoli cui papa Vigilio era stato forzato da Giustiniano, si separò dalla comunione con i vescovi orientali e con il papa e criticò duramente l’imperatore. Nel trattato in difesa dei Tre Capitoli (Pro defensione trium capitulorum libri XII. Ad Iustinianum), del 548, egli sostenne la conformità della propria condotta al precetto pietrino, rivendicando la necessità di respingere pro dei timore ciò che è contrario alla Chiesa di Cristo (deum timete) e di onorare il sovrano (regem autem honorificate) rifiutando di attribuirgli una posizione che era da respingere. Al pieno medioevo ci riporta infine il terzo e ultimo caso, rappresentato dal monaco benedettino e cronista Sigeberto di Gembloux (c. 1030-1112), il quale nella controversia tra il papato e l’impero si schierò contro i papi e dalla parte di Enrico IV, appellandosi sia al dovere di dare a Cesare quel che è di Cesare, sia ai precetti di Pietro e Paolo sul rispetto e l’obbedienza che si deve ai re. Così, attraverso le molte testimonianze esaminate nel suo ricco e articolato contributo, Cremascoli riesce a calare nei diversi contesti storici l’esegesi dei precetti sull’obbedienza ai sovrani, evidenziando di quante diverse applicazioni essi siano suscettibili e come la loro interpretazione rispecchi «i contesti di cultura e le urgenze di concrete situazioni». Apre vasti orizzonti, anche se limitatamente al periodo e all’area di dominio carolingi, pure il saggio di Wolfgang Haubrichs «Poeme, Bilder, Kommentare. Die Bibel im Gebrauch von Königen und Adligen der Karolingerzeit», collocato a chiusura del volume. Il contributo offre una disamina esauriente e puntuale del rapporto concreto tra la Bibbia e i sovrani e le loro famiglie, in quanto dedicatari, committenti o lettori. Attraverso lo spoglio dei paratesti – prologhi, epiloghi, dediche giunti a noi spesso isolatamente, fuori dai volumi che li contenevano –, dei testi di commento e della corrispondenza tra dotti e sovrani, dei manoscritti conservati e delle notizie relative alle biblioteche nobiliari (cataloghi, inventari, testamenti), Haubrichs ricostruisce un quadro saldamente fondato e straordinariamente preciso, mostrando il costituirsi, a partire dalla prima metà del IX secolo, di un nuovo status della Bibbia, da una parte funzionale alla legittimazione del potere, dall’altro base di un programma politico e culturale, che comprende fra l’altro la diffusione del Verbo presso i sudditi.
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Ne risulta, da una parte, una gerarchia degli oggetti di interesse: accanto alle pandette bibliche (ben cinque: una dedicata a Carlo Magno, due a Carlo il Calvo, e due in possesso rispettivamente del margravio Eberardo del Friuli e del conte Eccardo di Macon/Autun) e ad alcuni manoscritti contenenti Pentateuco e Ottateuco sono cospicuamente rappresentati, come prevedibile, i salteri. Tuttavia un ruolo molto importante hanno in quest’epoca anche gli evangeliari (Haubrichs ne indica una ventina, tra cui alcuni esemplari particolarmente splendidi quali quelli di Godescalco e di Ada, ma anche il Codex Aureus di St Emmeram e l’evangeliario di Cadmug, venerato a Fulda come reliquia di Bonifacio), nonché lezionari, sacramentari, antifonari. Si tratta spesso di codici estremamente lussuosi, in cui alla funzione spirituale si aggiunge anche quella di rappresentanza, ma l’esistenza di esemplari d’uso e persino tascabili rimanda a una fruizione anche privata. Attraverso gli epistolari, testimoni dell’intenso dialogo tra nobili e re da una parte e teologi dall’altra su temi biblici, ma anche grazie ai numerosi commentari dedicati a sovrani o da loro richiesti e alla documentazione relativa a volumi presi in prestito dalle biblioteche monastiche, Haubrichs ricostruisce inoltre i temi centrali dell’interesse dei sovrani. Colpisce, in questo contesto, quanta attenzione essi – in particolare i figli di Ludovico il Pio, ma anche per esempio la sorella e la figlia di Carlo Magno – dedichino al senso allegorico delle Scritture (sullo stesso un tema, ma in altro contesto, si concentra particolarmente anche, in questo volume, il contributo di Lucia Lazzerini) e all’esegesi. Meno sorprendente è lo spiccato interesse, al di là dei Vangeli (in particolare Giovanni) e delle epistole paoline, soprattutto per l’Antico Testamento. Accanto a Libri dei Re, Cronache, Salmi (sono molti i salteri aurei, ma non mancano i codici d’uso o di piccolo formato) è interessante il ruolo giocato dal Cantico dei Cantici, inaspettatamente addotto in funzione consolatoria (per la vedovanza dell’imperatore Lotario, ma anche per altri destinatari nobili), e dai Profeti, in particolare da Ezechiele e Daniele. Questi ultimi, suggerisce l’autore, rispondono al desiderio di interpretare, anche a fini politici, le indicazioni divine presenti in visioni e sogni; a interessarsene sono in particolare Carlo Magno, Lotario I, Ludovico il Germanico, come pure il margravio Eberardo del Friuli. Re e altre figure di rilievo dell’Antico Testamento, le eroine Giuditta e Ester comprese, fungono da modelli per i sovrani, sono e devono essere oggetto di imitatio: per temperare gli affetti ed essere saggi, per governare bene, per insegnare ai sudditi. Così compaiono con particolare intensità – per esempio nelle parole dedicate da Vivian di Tours-Marmoutier e da Liutardo a Carlo il Calvo – oltre all’onnipresente Davide, anche Salomone per lo spirito, Giuseppe per la bellezza, Giobbe per la pazienza, Giosia in quanto legislatore; a loro si affianca Gesù, quale modello di bontà, pietas, giustizia. L’indagine di Haubrichs mette in luce anche il ruolo non secondario delle nobildonne, lettrici e divulgatrici delle Scritture e in particolare dei Salmi: lo attestano per esempio il florilegio dedicato da Prudenzio di Troyes a una matrona in difficoltà per consolarla e un’epistola di Alcuino in cui la lettura dei sacri testi viene raccomandata a una nobile di nome Gisela, in cui si può probabilmente identificare la sorella di Carlo Magno, e alla figlia di questi, Rodtruda, cui vengono anche inviati commentari. Ma varie testimonianze dimostrano l’esistenza di salteri di proprietà di diverse donne della nobiltà (la moglie di Eberardo del Friuli; la figlia di Teodulfo
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vescovo di Orléans; Dhuoda, sposa del margravio di Settimania) o da loro utilizzati, come attestano le notizie relative ai prestiti nei cataloghi di varie biblioteche. A dame sono dedicati anche tre evangeliari di lusso, quello detto di Godescalco alla regina Hildegarda, e quelli che delle destinatarie portano il nome, gli evangeliari di Ava e di Ada. C’è anche traccia del possesso di un Ottateuco da parte della contessa Oda alla fine del IX secolo, e del prestito da parte di Richgarda, moglie di Carlo III, di diversi volumi esegetici; e alle imperatrici Giuditta e Ermengarda sono dedicati commenti ai libri di Giuditta e Ester, figure femminili esemplari. Quanto alle parafrasi poetiche della Bibbia, mentre è intensa, nell’età carolingia, la ricezione dell’epica biblica tardoantica, le riscritture ritmiche prodotte in questo periodo sono per lo più testi molto brevi non legati al pubblico di laici nobili, con la sola eccezione del più ampio De sobrietate di Milone di Saint Amand, una sorta di speculum virtutum infarcito di exempla vetero- e neotestamentari dedicato a Carlo il Calvo. Haubrichs segnala, per contro, la grande rilevanza – per mole, per qualità, per la consistenza della tradizione manoscritta – della produzione di epica biblica in volgare tedesco, prime fra tutte le due grandi messiadi connesse con Ludovico il Germanico: il cosiddetto Heliand, redatto in antico sassone intorno all’840/50, che recupera gli stilemi della poesia eroica germanica tradizionale (tra cui il verso allitterante), e il Liber evangeliorum di Otfrid von Weissenburg, composto tra l’863 e l’871 in versi antico alto tedeschi a rima finale (si veda, in questo volume, l’analisi di Chiara Staiti). Queste opere, che recepiscono non solo il dettato evangelico ma anche la tradizione esegetica carolingia, attestano tanto nell’impostazione quanto nei paratesti – in modi diversi, esplicitamente nel caso del Heliand e in forme più articolate nel testo otfridiano – un intento di diffusione molto larga della parola divina presso i sudditi, la volontà dell’autorità politica di garantire ai non letterati, attraverso l’uso del volgare, l’accesso a catechesi e parenesi. Un intento che, aggiungiamo noi, era stato già in età carolina manifestato attraverso le emanazioni dell’autorità imperiale (si pensi alle formulazioni particolarmente esplicite dell’Admonitio generalis e del notissimo capitolare turonense dell’813); ma che in area tedesca trova espressione concreta soprattutto intorno alla metà del IX secolo, in questi grandi epos cristiani ma anche in una serie di opere in versi di piccole dimensioni. In stretta relazione con il citato Heliand sta un poema antico sassone sulla Genesi di complessa e articolata tradizione manoscritta nel quale, sottolinea Haubrichs, la scelta e l’impostazione degli episodi che possediamo è incentrata sulla relazione tra sovrano e sudditi. Nel caso di un altro poemetto, ancora in versi allitteranti, il cosiddetto Muspilli, il nesso con Ludovico il Germanico è invece reperibile nella singolare tradizione manoscritta. Il saggio si chiude con una breve analisi delle illustrazioni contenute nei manoscritti presentati, in particolare delle frequenti rappresentazioni di San Girolamo, testimoni del crescente valore attribuito in questa fase appunto alle traduzioni. Su quest’ultimo aspetto e sull’importante ruolo delle traduzioni in volgare di testi biblici anche in altro contesto, nonché sul collegamento che viene stabilito – per esempio, esplicitamente, da Guglielmo di Malmesbury – tra il traduttore altomedievale e i suoi grandi predecessori, si sofferma in questo volume il contributo di Dora Faraci.
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Interamente sulle immagini verte il saggio di Giuseppa Zanichelli «L’illustrazione dei Libri dei Re», dedicato alle miniature, ai cicli di dipinti, agli oggetti istoriati medievali che rappresentano i quattro Libri dei Re, unitariamente recepiti anche nell’iconografia. Dagli affreschi della Sinagoga di Dura Europos e da altre piccole testimonianze, Zanichelli passa alla lussuosa Itala di Quedlinburg dell’inizio del V secolo, di committenza privata e con forti tratti epicizzanti e romanizzanti, le cui miniature possono compararsi ai mosaici di Santa Maria Maggiore, realizzati da mosaicisti provenienti dalla stessa bottega dei miniatori dell’Itala. La rappresentazione musiva della Vergine come imperatrice, motivata dalla sua discendenza davidica, tradisce quell’attenzione ai Libri dei Re che ispira anche le storie di Davide effigiate sulle porte della Basilica milanese di Sant’Ambrogio, richiamate anche nel contributo di Paola Moretti. Zanichelli analizza poi il grande peso che al nesso tra il sovrano contemporaneo e Davide sarà dato in età carolingia (e non solo nelle arti figurative, come risulta evidente, fra l’altro, in questo volume, dal De rectoribus Christianis del carolingio Sedulio Scotto, esaminato da Franca Ela Consolino). In armonia con il suo tema, Zanichelli si sofferma in particolare sulla funzione politica di questo nesso durante il complicato regno di Ludovico il Pio e in relazione al commentario al Libro dei Re di Rabano Mauro, che si riflette nel ciclo davidico degli affreschi di Müstair, a impianto tipologico. Possiamo aggiungere che in anni successivi, e forse ancora per influsso di Rabano, il confronto con Davide gioca un ruolo importante anche in relazione a Ludovico il Germanico, e si manifesta in particolar modo nel Liber evangeliorum di Otfrid von Weissenburg (si vedano in proposito i saggi di Wolfgang Haubrichs e Chiara Staiti contenuti in questo volume). In seguito, durante il dominio di Carlo il Calvo, ricorda Zanichelli, al modello davidico si sostituisce Salomone, come attestato tra l’altro dalla Bibbia di San Paolo fuori le Mura, anch’essa ricca di illustrazioni attinenti al Libro dei Re. L’autrice esamina poi le immagini contenute in codici greci, a partire dal fastoso manoscritto dei Sacra Parallela, florilegio biblico ed esegetico attribuito a Giovanni Damasceno, in cui le iconografie relative al Libro dei Re dialogano con i testi in modo peculiare; e l’abbondante presenza delle immagini relative nei codici di lusso bizantini a partire dal X secolo. Tornando in Occidente, Zanichelli tratta le immagini contenute nelle pandette bibliche e nelle cosiddette Bibbie atlantiche, ma anche in preziosi oggetti liturgici, per giungere alla grande diffusione dei Libri dei Re e delle loro illustrazioni durante il XII e XIII secolo, soffermandosi in particolare sui cicli di immagini delle Bibles Moralisées e di analoghi codici di lusso. Attraverso l’ampia panoramica offerta, Zanichelli evidenzia la vastità della gamma interpretativa offerta dai Libri dei Re e la quantità di declinazioni che le loro illustrazioni attestano, adattandosi e modellandosi in relazione alla situazione storica contingente e alla concezione teologica delle varie epoche. Come già mostra il saggio di Cremascoli, gli ecclesiastici hanno un ruolo importantissimo nel mediare gli insegnamenti della Scrittura in tempi in cui essi erano gli unici, o quasi, ad avere diretto accesso al testo sacro e a commentarlo. I contributi di Paola Francesca Moretti, Elena Malaspina, Franca Ela Consolino e Francesco Marzella studiano i modi in cui, in circostanze ed epoche diverse, alcuni uomini di chiesa fecero ricorso alla Bibbia per trattare dei re e con i re.
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Il punto di partenza non solo cronologico è rappresentato da Ambrogio di Milano (340-397), cui è dedicato il lavoro di Paola Moretti «Dilexi (Ps 114,1). Ambrose’s David and Emperor Theodosius». Protagonista di alcuni scontri con l’autorità imperiale, nell’occidente cristiano Ambrogio ha avuto un ruolo fondamentale nel definire la posizione dell’imperatore che, in quanto cristiano, non può considerarsi al di fuori o al di sopra della Chiesa. Diversamente da Hans von Campenhausen, il quale nel 1929 aveva definito Kirchenpolitiker il vescovo di Milano, e da Neil McLynn (1994), che pur con altra impostazione inquadra il suo episcopato in una prospettiva politica, Moretti pone piuttosto l’accento sull’azione pastorale e catechetica di Ambrogio, e colloca in tale contesto l’uso della Bibbia in rapporto con il modello di imperatore cristiano, riconoscendo fondamentale importanza al verbo dilexi, «ho amato», che è una citazione da Ps 114, 1 (Dilexi, quoniam exaudiet Dominus vocem orationis meae), ed è utilizzato diciotto volte da Ambrogio nel De obitu Theodosii, dove il defunto imperatore è presentato come il vero Davide in quanto, come già Davide, egli ha incarnato la virtù dell’umiltà. In questo processo di “davidizzazione” del paradigma cristiano e imperiale, una prima, importante tappa è rappresentata dall’Apologia David, in cui Ambrogio nota come Davide, dopo aver peccato con Betsabea – benché non vincolato, in quanto re, alle leggi umane – avesse rinunciato al suo privilegio di re per fare penitenza al cospetto di Dio. In quest’opera Ambrogio stabilisce un collegamento fra Davide peccatore pentito (2 Rg e Ps 50), la mulier peccatrix di Lc 7, cui Cristo perdona i peccati perché dilexit multum, e Pietro, cui Cristo affida il proprio gregge perché, dopo averlo rinnegato, dichiara tre volte il proprio amore per lui (Gv 21, 15-17, cf. Apol. Dav. 9). Ma la raffigurazione di Davide come re peccatore e penitente è inserita in un più ampio contesto non limitato alla sfera della regalità, perché con il supporto di ulteriori citazioni bibliche contenenti diligere/dilectio e amor/caritas, Ambrogio sostiene che l’amore per Dio merita agli uomini il perdono. La rappresentazione di Davide come typus regis (ma qui di fatto come typus Theodosii) torna nuovamente – osserva Moretti – nelle epistole indirizzate all’imperatore dopo i fatti di Callinico e Tessalonica. Nell’agosto del 388 i cristiani di Callinico avevano dato fuoco a una sinagoga e Teodosio aveva ordinato al vescovo della città di ricostruirla a sue spese. Ambrogio scrive a Teodosio (Epist. 74) per convincerlo a perdonare il vescovo e paragona la Chiesa alla peccatrice, degna di perdono perché dilexit multum. Dopo il fallimento di questo tentativo, Ambrogio rimproverò pubblicamente Teodosio in un’omelia (riportata in Epist. e.c. 1) in cui, facendosi forte della propria prophetica vel episcopalis auctoritas, egli ritornava sull’episodio della mulier peccatrix dandone una lettura completa e un ampio commento. In Epist. e.c. 11, lettera privata all’imperatore dopo il massacro avvenuto su suo ordine a Tessalonica nella primavera del 390, Ambrogio informa Teodosio di averlo scomunicato e lo esorta a fare pubblica penitenza. Nell’epistola Davide, che ammonito da un profeta aveva riconosciuto le proprie colpe, è proposto come typus regis: Ambrogio rappresenta sé stesso nelle vesti di profeta e Teodosio in quelle di Davide, e la humilitas di quest’ultimo è presentata come degna di un imperatore, introducendo una «spettacolare innovazione» nel quadro delle virtutes imperatorie. Proseguendo nella sua analisi, l’autrice mostra come termine ultimo e culmine della davidizzazione del paradigma imperiale sia il De obitu Theodosii, dove il defunto
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sovrano è implicitamente rappresentato come il vero Davide. Non solo le vicende dei due personaggi si sovrappongono (colpa, obbedienza al profeta/sacerdos e pubblica penitenza), ma Teodosio fa proprio il dilexi di Ps 114, le cui parole riecheggiano in quelle a lui attribuite. La dilectio, intesa come amore per Dio, è stata pienamente incarnata da Teodosio, che viene poi assimilato a Cristo per la propria humilitas. Ma il dilexi di Ps 114, 1 serve anche per definire i sentimenti di Ambrogio nei confronti dello scomparso imperatore. Questa stimolante e innovatrice lettura di Moretti inserisce perciò l’utilizzo dei riferimenti biblici e soprattutto la davidizzazione di Teodosio nel quadro dell’azione pastorale di Ambrogio, che agendo da «vero vescovo» parla a, o di, Teodosio come «a Christian individual». È questa una prospettiva di studio interessante, che certamente susciterà attenzione e stimolerà discussioni, se non altro perché oltre ad essere cristiano Teodosio era anche imperatore, ed è difficile, quando non impossibile, scindere questi due aspetti. Il richiamo a Davide (e all’umiltà che lo caratterizza) come exemplum regis avrà ampio seguito nella cultura medievale, come pure di lunga durata sarà l’eredità ambrosiana – a partire dalla connessione stabilita da Ambrogio fra la narrazione veterotestamentaria, di cui Davide è parte, e la figura storica di Teodosio – a proposito della continuità fra storia sacra e storia imperiale. Sono tratti che si ritrovano con notevole intensità per esempio anche in ambiente germanico, dove concorrono al processo di costituzione dell’identità gentile, di legittimazione del dominio e di valorizzazione: lo si vedrà in particolare, per l’area anglosassone, nel contributo di Dora Faraci, che verte sulla traduzione in inglese antico del salterio attribuita ad Alfredo il Grande; e la linea che conduce dai re biblici a quelli contemporanei segna anche l’opera, in latino, di Aelredo di di Rivaulx analizzata da Francesco Marzella. Quanto all’area tedesca, cui sono dedicati i lavori di Wolfgang Haubrichs e di Chiara Staiti, questi tratti riguardano soprattutto i sovrani carolingi, e segnatamente, oltre a Carlo Magno, anche Ludovico il Germanico: come per il secondo risulta con particolare evidenza nei paratesti del Liber evangeliorum di Otfrid von Weißenburg. Continuità fra storia sacra e storia imperiale, importanza di Davide ed esaltazione della humilitas si riscontrano altresì nel De rectoribus Christianis dell’irlandese Sedulio Scotto (IX secolo), oggetto del contributo di Franca Ela Consolino «Biblical and Historical exempla for Rulers in Sedulius Scottus’ Liber de rectoribus Christianis». L’opera di Sedulio appartiene a una precisa tipologia di scritti, gli specula principum, trattati a carattere esortativo che forniscono ai regnanti direttive di comportamento fondate sull’auctoritas della Scrittura e dei Padri. Questo scritto, che diversamente da tutti gli altri specula carolingi è un prosimetro e non fa il nome del sovrano cui è dedicato – Lotario II di Lotaringia (855-869) o, più probabilmente, Carlo il Calvo (843-877) –, si incentra sui compiti del rector Christianus, contestualizzando le virtù di cui egli deve dar prova. A tale scopo – diverso anche in questo dagli altri specula – ai personaggi biblici proposti all’imitazione dei sovrani il De rectoribus Christianis affianca personaggi storici, non tutti cristiani. Consolino analizza l’uso degli exempla biblici e di quelli storici e il modo in cui essi interagiscono, per verificare se ciascuna delle due categorie abbia peculiarità e funzioni sue proprie.
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In alcuni capitoli del suo trattato Sedulio ricorre a esempi tratti esclusivamente dalla Bibbia, così come unicamente dalla Bibbia provengono anche i pochissimi exempla presenti nelle parti in versi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l’esemplificazione è mista e si avvale sia della Bibbia che della storia. Se i re dell’Antico Testamento più spesso citati sono Davide e Salomone, i personaggi storici che più ricorrono sono Costantino e Teodosio. Osserva Consolino che dal punto di vista di un religioso, qual era Sedulio, la menzione di Costantino poteva giustificarsi per i suoi meriti nei confronti del cristianesimo e quella di Teodosio – oltre che per via di Ambrogio – per il capitolo a lui dedicato nel De civitate dei e nella Historia ecclesiastica tripartita. Ma Sedulio introduce nel suo speculum anche vari altri personaggi storici, e fra questi pure un’imperatrice. Unico fra gli autori carolingi di specula, nel cap. V Sedulio illustra infatti le qualità che deve avere la sposa del sovrano, e le esemplifica in Flaccilla, la moglie di Teodosio. La scelta di un exemplum storico è motivata da Consolino con il fatto che nella Bibbia risulta esercitare una positiva influenza sul marito solo la regina Ester, moglie ebrea di Assuero che, con il suo intervento presso il re, salva il proprio popolo dallo sterminio. Sedulio la menziona molto brevemente nel carme che chiude il capitolo, e la sinteticità di questa menzione contrasta con la dettagliata descrizione del comportamento di Flaccilla, che consente a Sedulio di proporre un modello cristiano di perfetta sovrana meglio adeguato di Ester alle esigenze del suo tempo. Anche per l’esemplificazione dei re empi Sedulio non si limita alla Scrittura, ma – avendo a sua fonte Agostino – menziona sia i personaggi biblici di Erode e Ponzio Pilato, sia personaggi storici come Nerone, Geta e Giuliano l’Apostata. Lo spazio maggiore è però riservato all’orrenda fine di Teoderico il Grande, di cui Sedulio riporta la descrizione di Gregorio Magno nei Dialogi. Teoderico era ariano, e la Scrittura non presentava esempi di eresia punita. Accoglie solo esempi storici il cap. IX, sul re pacifico e clemente, in una lunga carrellata che parte da Augusto per approdare, passando per i pagani Antonini e i cristiani Costantino e Teodosio, alla storia recente, cui appartengono Carlo Magno e Ludovico il Pio. Per dimostrare che il sovrano non deve confidare in sé stesso ma in Dio e deve implorarne l’aiuto nell’imminenza della guerra (cap. XV) Sedulio ricorre agli exempla di Mosè, del re Ezechia, del re Giosafat e infine dei Maccabei e in particolare di Giuda. Seguono Costantino e Teodosio, posti così in ideale continuità con i condottieri dell’Antico Testamento. Ma l’esemplificazione relativa ai tempora Christiana non si ferma qui, perché Sedulio ricorda i successi ottenuti in guerra unicamente con il ricorso alla preghiera dai vescovi Giacomo di Nisibi e Germano di Auxerre. Continuità fra Antico Testamento e tempora Christiana si rileva anche nel cap. XVIII, sul dovere di rendere grazie a Dio dopo il conseguimento della pace o della vittoria. Dopo gli esempi di Mosè e Davide, Sedulio ricorda che in novi testamenti tempore molti sacratissimi rectores, tra cui Costantino e Teodosio II, non hanno dimenticato i benefici ricevuti dall’Altissimo. Sono due exempla di grande efficacia didattica: i successi di Costantino mostrano il potere che Dio conferisce a chi agisce piamente, mentre il comportamento di Teodosio II, la cui sposa Eudossia rese molto onore alle chiese sia di Gerusalemme che di altre città, insegna al rector Christianus che è suo dovere rendere onore alle chiese.
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Una motivazione del duplice ricorso alle «storie divine e umane» è individuabile nell’intenzione di offrire un testo di piacevole lettura, intenzione che l’autore stesso dichiara nella dedica, curiosamente posta alla fine dell’opera. Al riguardo Consolino nota che, da semplice presbyter approdato dall’Irlanda nel continente e privo di pubbliche responsabilità all’interno della Chiesa, Sedulio può permettersi questa preoccupazione, estranea a uomini di chiesa attivamente impegnati come Giona di Orléans o Incmaro di Reims. E d’altra parte la sua grande cultura letteraria, non circoscritta ai testi cristiani, gli forniva un ampio spettro di fonti da cui attingere. Tuttavia, a parere dell’autrice, sarebbe fortemente limitativo considerare il loro utilizzo una mera civetteria di letterato, perché nel de rectoribus Christianis gli exempla della storia profana hanno la precisa funzione di integrare quelli della storia sacra con modelli concreti di azione che risultano più vicini – e dunque meglio applicabili – alla realtà contemporanea. L’uso della Bibbia per prescrivere ai sovrani i giusti comportamenti da tenere non deve necessariamente affidarsi ad esortazioni esplicite come quelle del de rectoribus Christianis. Esistono anche modi meno diretti di suggerire a un re il corretto uso della Bibbia e l’applicazione dei suoi precetti. Lo mostra bene l’abate cistercense Aelredo di Rievaulx (1100-1167) nelle due opere da lui composte per Enrico II Plantageneto, la Genealogia Regum Anglorum e la Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris, analizzate da Francesco Marzella, recente editore di quest’ultima per il Corpus Christianorum. Nel suo saggio «Eleuatus est sol et luna stetit in ordine suo: Bible and Kingship in Aelred of Rievaulx’s writings for Henry II» Marzella esamina presenza e funzioni della Bibbia in questi due scritti, individuando tre aspetti principali: rapporto dei regnanti con la Bibbia; riferimenti a modelli biblici; citazioni bibliche ed esercizio della regalità. La Genealogia Regum Anglorum, composta da Aelredo nel 1153, alla morte di re Davide di Scozia, è costituita da una prima parte a carattere biografico, che commemora le virtù del defunto sovrano, e da una seconda a carattere storiografico, che contiene la genealogia del re, che è anche quella del dedicatario Enrico II, il quale aveva Davide come prozio per parte di madre, ed era stato già designato alla successione sul trono d’Inghilterra. Nella Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris, scritta intorno al 1163, Edoardo il Confessore, anch’egli antenato del re, è esplicitamente proposto quale possibile modello di comportamento. Comune ad entrambi i testi, definiti da Marzella «quasi un ‘dittico’ di regalità», è il ricorso costante a citazioni ed exempla biblici, sia per impartire insegnamenti morali, sia per delineare una immagine ideale di sovrano. Il primo aspetto preso in considerazione è il rapporto intrattenuto dal regnante con la Bibbia. Nel caso di re Alfredo, essa è vista sia nella sua materialità di testo (il sovrano porta sempre con sé un volumetto contenente i salmi), sia come oggetto di meditazione. La meditazione della Bibbia è anche alla base del comportamento di Edoardo il Confessore, che da essa apprende virtù quali l’umiltà o la castità. Sul letto di morte Davide di Scozia medita sui salmi e Aelredo, analizzandone alcuni versetti, mostra come quel cristianissimo re ne abbia tenuto conto, applicandone i dettami sia a sé stesso che nei confronti dei sudditi. Marzella nota come poi la Vita di Edoardo il Confessore lo faccia pregare inanellando una serie di citazioni bibliche. Ma anche re Alfredo sul campo di battaglia si appella alla Bibbia alla vigilia dello scontro con i
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Danesi: in quella circostanza egli motiva l’esercito alla lotta contro gli invasori pagani con un discorso che è un vero e proprio collage di citazioni scritturistiche (l’utilizzo di paralleli biblici nel contesto delle lotte alfrediane contro i Vichinghi è evidenziato anche nel lavoro di Dora Faraci). Fra i modelli vetero- e neotestamentari richiamati da Aelredo, Marzella ne individua sia di positivi che di negativi. Quanto ai primi, oltre a Davide e Salomone, re esemplari frequentemente citati nella cultura medievale (un esempio di questa pratica lo offre Sedulio Scotto nel de rectoribus Christianis analizzato da Franca Ela Consolino), altri personaggi biblici – non solo re – sono citati da Aelredo, che per esempio compara a Giobbe Alfredo il Grande, contro cui il diavolo aizza Danesi e Frisoni, mentre il suo incontro con un pellegrino che gli chiede acqua è modellato sull’incontro di Elia con la vedova di Zarepta. Ma dalla Bibbia Aelredo trae anche esempi occasionalmente o usualmente negativi. Nella Genealogia, che di Davide di Scozia enumera anche le colpe, il re, che sempre si pentì e fece penitenza, è paragonato a famosi peccatori biblici (Aronne, Mosè, la profetessa Miriam e Davide) che gli fanno da precedenti e lo giustificano. L’unico re non virtuoso di cui parla Aelredo è Edwy, e per lui egli richiama il comportamento di Erode e Erodiade con Giovanni Battista nel Nuovo Testamento, e quello di Acab e Gezabele con Elia nell’Antico. Il terzo aspetto preso in esame da Marzella riguarda le citazioni bibliche e l’esercizio della regalità. Sia nella Genealogia che nella Vita del Confessore, le virtù dei sovrani come iustitia, humilitas, continentia, castitas, che risultano conformi ai dettami della Scrittura, sono espresse o commentate con citazioni bibliche. E a proposito della giustizia ci sembra il caso di rilevare come il monaco Aelredo segnali che re Alfredo, seguendo l’esempio di Costantino, non volle giudicare i membri del clero. È una segnalazione di notevole interesse, perché tocca un problema molto sentito da Enrico II e su cui di lì a poco si sarebbe consumato il drammatico contrasto con Becket, su cui si sofferma il contributo di Lucia Lazzerini. Non necessariamente legate all’esercizio della regalità appaiono invece le citazioni bibliche che sottolineano l’imitatio Christi perseguita da alcuni re, con la caratterizzazione come rex-sacerdos-propheta di Edoardo il Vecchio e di Edoardo il Confessore. Ma le parole della Scrittura servono anche a evidenziare la felicitas di un regno, come accade con la citazione di Abacuc 3, 11 Tunc eleuatus est sol et luna stetit in ordine suo a commento delle positive conseguenze del buon governo di Edoardo il Confessore. Con la sua analisi della fittissima trama di riferimenti biblici che innerva le due opere di Aelredo, Marzella evidenzia pertanto come la storia sacra e la storia degli avi di Enrico II siano profondamente interconnesse: la storia sacra è un precedente che nobilita la storia più recente, ma quest’ultima mostra l’attualizzazione degli insegnamenti biblici. Così, l’esempio degli antenati può servire al sovrano tanto quanto quelli di Davide e Salomone, e in queste opere dedicate a Enrico II la Bibbia può additargli precise direttive di vita e di governo, mostrando come pure i laici – e quindi anche i re – siano chiamati alla santità e debbano cercare il costante contatto con Dio. Abbiamo finora visto come vari uomini di chiesa abbiano fatto ricorso alla Scrittura per chiarire i doveri dei sudditi e quelli dei sovrani (ce lo mostra il contributo di Cremascoli) e per indicare in modo più (Ambrogio, Sedulio Scotto) o meno
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(Aelredo) diretto come questi possano e debbano adempierli. Diverso è il caso di Avito (c. 450-518), vescovo cattolico di Vienne che discute con il re ariano dei Burgundi Gundobado († 516) della Bibbia e risponde ai quesiti teologici posti dalla sua interpretazione. Affronta questo complesso tema, nel suo contributo «Et exemplis et ratione. Riferimenti biblici nei colloqui di Avito di Vienne con Gundobado», Elena Malaspina, che ha da poco curato una nuova edizione delle epistole avitane per le Presses Universitaires Françaises (collezione Les belles lettres). Gundobado, il cui regno aveva per capitale Vienne, era ariano, ma sua moglie Caretene era cattolica, e al cattolicesimo si era convertito anche Sigismondo, suo figlio e successore. Dall’attento esame cui Malaspina sottopone il carteggio di Avito emerge il personale coinvolgimento del re, impegnato in una ricerca della verità non dettata soltanto dall’esigenza di dare soluzione a controversie teologiche che creavano problemi alla sua dinastia ed erano di ostacolo all’integrazione dei Burgundi con i Romani. Colpiscono in particolare la predisposizione del re alla riflessione morale (Avito gli riconosce una mens philosophica) e il suo interesse per i dati linguistici e per l’esatta interpretazione del testo biblico, che si manifesta anche in assenza di specifici problemi dottrinali. L’analisi di Malaspina prende le mosse da Epist. 92, in cui Avito, in risposta a un interrogativo emerso da una discussione tra Gundobado e alcuni vescovi ariani, rileva come l’esegesi di questi ultimi sia pregiudicata dalla non attendibilità filologica della versione latina da loro utilizzata di Sap 15, 11 (insufflavit Deus spiritum in animam vitae). Né è questa l’unica occasione in cui l’epistolario avitano mostra che Gundobado sentiva l’esigenza di un testo biblico affidabile e che per questo contava sulla competenza del vescovo cattolico. Al rapporto fra Gundobado e Avito Malaspina trova un’interessante corrispondenza in quello fra il re vandalo Trasamondo, che è ariano, e il vescovo cattolico Fulgenzio di Ruspe (già ricordato da Cremascoli), al quale il sovrano aveva inviato un lungo e complesso memoriale, cui il vescovo rispose con i tre libri Ad Trasamundum regem Vandalorum. Significativo, anche in quel caso, l’interesse per la Scrittura manifestato dal re, diviso fra l’arianesimo intransigente di alcuni leudi e l’atteggiamento più conciliante e filobizantino di altri. E il parallelismo nel rapporto dei due re ariani con la Bibbia e nel ruolo dei vescovi cattolici loro interlocutori non si arresta qui. Avito inviò a Gundobado, che ne aveva fatto richiesta, una raccolta di citazioni bibliche atte a dimostrare in funzione antiariana la divinità della persona del Figlio, e poco dopo, ancora su sua richiesta, una selezione di exempla contrari all’eutichianismo, che riconosceva in Cristo solo la natura divina. Fulgenzio, intorno al 515, rispondeva a una serie di quesiti sulla dottrina trinitaria e cristologica postigli da Trasamondo, che gli aveva inviato una raccolta di tesi ariane giunta a noi con il titolo di Dicta (o Obiectiones) regis Trasamundi. Il dialogo fra vescovo e re a proposito della Bibbia – nota Malaspina – non riguarda solo le dispute dottrinarie, ma si allarga alla spiritalis consideratio: Avito guida il re a cogliere, dei passi biblici su cui questi lo interroga, oltre al loro significato letterale, anche il senso spirituale (ad interiorem figuram). Non solo. Nell’illustrare i caratteri dell’ascesi cristiana (verso cui Gundobado fu attratto nei suoi ultimi anni), Avito, passando in rassegna vari passi del Nuovo Testamento, addita a Gundobado, come più confacente dell’ascesi a un sovrano, la conversione alla fede nicena; e su questo
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punto il dialogo tra i due si amplia ulteriormente. Ancora: la Bibbia è chiamata in causa dal re a proposito di una profezia (Mic 4, 2-4) che egli vedeva applicabile alla situazione politica contemporanea, e Avito risponde riferendosi a Is 2, 4, in cui già Girolamo aveva visto la prefigurazione della pace fra Romani e Barbari attuata in nome del cristianesimo. D’altra parte, come si è visto, anche in altre epoche – lo mostra per il contesto carolingio Haubrichs nel suo contributo – i regnanti manifestano spiccato interesse per le profezie e la loro interpretazione anche a fini politici. Avito insomma, in continuità con la catechesi di età patristica, fondata sull’esegesi letterale e/o allegorica della Sacra Scrittura, coinvolge il re in una esegesi della Bibbia che si basa su un corretto uso della ratio e considera l’exemplum un testimonium dell’auctoritas divina contenuta nella Scrittura. Anzi, secondo l’autrice, proprio l’importanza riconosciuta alla ratio è il tratto caratterizzante del rapporto dialogico fra il vescovo e il re, vivamente interessato alla Bibbia e alla sua interpretazione. Analogo grande interesse sarà, in differenti circostanze, proprio anche di Alfredo il Grande – come evidenziato nel contributo di Dora Faraci. Al cospicuo ruolo che la ricezione delle sacre Scritture gioca nelle letterature medievali in volgare, rilevato anche da Wolfgang Haubrichs, sono dedicati i tre saggi di Chiara Staiti, Dora Faraci e Lucia Lazzerini, che vertono su momenti significativi delle aree, rispettivamente, tedesca e inglese i primi due, e dell’ambiente romanzo francese e spagnolo il terzo. Nei primi due casi vengono analizzate opere strettamente connesse con l’autorità regia, espressione di un programma politico-culturale e/o identitario: la prima, il Liber evangeliorum di Otfrid von Weissenburg, dedicata a Ludovico il Germanico; la seconda, la traduzione in inglese antico del Salmo 43, redatta – questa la tesi – dallo stesso sovrano, Alfredo il Grande, o da persona a lui molto vicina; mentre il terzo contributo concerne i fondamenti biblici delle rappresentazioni della sovranità in testi latini e volgari del XII e XIII secolo di area romanza. Al centro del saggio di Chiara Staiti «Exiit edictum a Caesare Augusto. Die Darstellung imperialer und kosmischer Macht in der kontinentalen volkssprachigen Bibeldichtung des frühen Mittelalters» sta per l‘appunto un passo del Liber evangeliorum di Otfrid von Weissenburg, il capitolo relativo alla natività. Otfrid – allievo di Rabano Mauro, monaco, magister e bibliotecario nell’importante convento di Weissenburg, il cui abate appartiene alla cerchia dei collaboratori di Ludovico il Germanico († 876) – dedica la sua opera, composta tra l‘863 e l‘871, tanto al sovrano dei Franchi Orientali (esplicitando nella dedica la richiesta di diffusione) quanto ad altri personaggi che rivestono cariche istituzionali di primo piano: l’arcivescovo di Magonza Liutberto, il vescovo di Costanza Salomone I, il (futuro) abate di San Gallo Hartmuat. Nei paratesti, e anche nel capitolo di apertura, egli colloca il suo poema dichiaratamente nel solco del programma politico e culturale carolingio (su cui insiste in questo volume anche il contributo di Wolfgang Haubrichs), giustificando con il ruolo storico dei Franchi e del loro sovrano l’uso del volgare per la sua riscrittura del sacro testo; la quale è, con i suoi oltre 7000 versi, il più grande epos biblico dell’età carolingia. L’analisi di Staiti muove dal capitolo sulla natività, in cui il poeta inserisce nella propria rielaborazione del riferimento lucano all’editto augusteo e al censimento una sontuosa rappresentazione del potere imperiale, e recupera in una sintesi peculiare i nessi tipologici evidenziati dall’esegesi tardo antica e altomedievale, che mette in
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relazione l’impero augusteo con l’avvento di Cristo. Accanto al passo otfridiano viene esaminato quello corrispondente dell’altra grande messiade carolingia, l’epos in antico sassone detto Heliand, databile intorno all’840, dove pure il racconto dell’evangelista viene ampliato e precisato – anche qui, come in Otfrid, secondo la tecnica di adattamento dei testi biblici alla cultura del tempo e del luogo (l’accomodatio, largamente praticata a partire da Gregorio Magno) – e che con la narrazione otfridiana è strettamente connesso. L’autrice ricostruisce, da una parte, i nessi che collegano – in un complesso e sofisticato gioco di rime, echi, corrispondenze, citazioni interne – il capitolo in analisi ad altri passi del Liber evangeliorum dedicati a momenti centrali del narrato evangelico: la crocifissione e l’affidamento della missione universale, accomunati dall’immagine delle braccia spalancate che racchiudono il mondo. D’altro canto il saggio evidenzia la relazione tra la presentazione otfridiana e l’evoluzione in atto nell’iconografia delle rappresentazioni di Cristo, in particolare la ‘Maiestas Domini’, leggendo i versi quasi come una resa ecfrastica delle miniature contemporanee. Dall’analisi di Staiti emerge – pur entro i confini della concezione carolingia dell’interpretatio Christiana, che mette in relazione censimento, nascita di Gesù, missione e giudizio universale – l’originalità dell’impostazione di Otfrid, che connette la nascita, la morte e l’ascensione di Cristo attraverso il gesto, imperiale e sovrano, delle braccia spalancate ad abbracciare l’universo, cifra del dominio del signore terreno e di quello celeste. L’attualizzazione del testo biblico con funzione politica costituisce anche lo sfondo del contributo di Dora Faraci «Da Davide ad Alfredo: la traduzione del salterio nell’Inghilterra anglosassone», che attraverso un’analisi puntuale delle scelte lessicali nella traduzione in prosa del Salmo 43, tradizionalmente attribuita ad Alfredo il Grande († 899), si inserisce in modo originale nel dibattito sulla paternità delle traduzioni alfrediane. Se infatti sull’importanza politica – e anche culturale – del re (sovrano esemplare, legislatore ed educatore, difensore del popolo dagli attacchi dei Vichinghi, promotore di una fioritura culturale largamente incentrata sulla promozione del volgare), sottolineata già in testi coevi, c’è sostanziale concordia, il ruolo di Alfredo come traduttore e autore di testi programmatici, e in particolare la paternità della traduzione dei Salmi sono stati invece messi in discussione. L’approccio di Faraci al problema, fondato sull’analisi linguistica, non è finalizzato all’individuazione di affinità tra la traduzione in esame e altri testi del canone alfrediano, ma segue un altro più interessante percorso. Premessa una disamina delle fonti esterne, Faraci analizza infatti dettagliatamente le scelte traduttive, mostrando come il lessico antico inglese adottato in questa traduzione non si inserisca nella tradizione della ricezione dei salmi, ben attestata da un cospicuo numero di manoscritti con glosse al testo latino, bensì attinga da una parte alla tradizione poetica anglosassone, specie eroica, dall’altra a quella dei testi storiografici in volgare, soprattutto le Cronache di età alfrediana. In particolare, oltre all’uso delle coppie di parole per tradurre con ricchezza di sfumature attualizzanti un termine singolo dell’originale, argomenta Faraci, l’impiego del termine fyrd ‘esercito’, singolarmente usato per tradurre il lat. virtus, evoca fortemente la situazione contemporanea, contribuendo a rafforzare l’analogia – sottesa a tutta la traduzione, ma anche tradizionale e particolarmente diffusa in età alfrediana – tra
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le difficoltà del popolo anglosassone nella lotta contro i Vichinghi e le afflizioni del popolo di Israele. Analogia che tanto più appare forte in ragione del fatto che, tra le innovazioni di Alfredo miranti a potenziare le capacità difensive del regno, una riguarda in particolare la riorganizzazione appunto del fyrd. Faraci sottolinea altresì il fine gioco con avverbi e pronomi attraverso cui il traduttore dà risalto al parallelo tra gli israeliti di Davide e il popolo anglosassone dell’età alfrediana. Il contributo di Faraci, dunque, corredato dalla presentazione sinottica del testo latino e anglosassone e della traduzione italiana a cura dell’autrice, mette in luce il modo in cui, attraverso sottili interventi traduttivi, facendo uso di stilemi preesistenti nella tradizione poetica e prosastica, Alfredo, pur senza discostarsi dal dettato del testo latino, crei una versione del Salmo 43 che stabilisce un implicito confronto tra le storie veterotestamentarie e le vicende della sua epoca. La questione delle relazioni tra potere spirituale e potere secolare e del ruolo che in essa gioca il testo sacro, toccata a diverso proposito da larga parte dei saggi contenuti in questo volume e centrale in quelli di Giuseppe Cremascoli e Paola Moretti, assume fondamentale importanza nel contributo di Lucia Lazzerini «Specula principis, ideologia della sovranità e letterature romanze medievali: dal Policraticus a Érec et Énide, dall’Alexandreis al Libro de Alexandre», dove è analizzata sullo sfondo dell’epoca di Enrico II Plantageneto e del conflitto con Tommaso Becket. È questa, peraltro, l’epoca in cui prende consistenza, con qualche secolo di ritardo su quelle germaniche, la tradizione letteraria romanza; e Lazzerini evidenzia come sia proprio di questo periodo anche un rinnovamento dell’esegesi, risalente in particolar modo alla scuola di Chartres – al cui ambiente culturale sono legati, ricorda l’autrice, non solo Giovanni di Salisbury, autore del trattato di filosofia politica intitolato Policraticus, ma anche lo stesso Tommaso Becket, come pure Chrétien de Troyes. Con questo nuovo approccio l’interpretazione transletterale dei testi biblici conosce una potente espansione, e si fa strumento gnoseologico universale applicabile anche a testi profani. Così, tanto i poemi cortesi con le loro complesse avventure quanto le versioni romanzate delle meravigliose vicende di Alessandro Magno sono (anche) un involucro – il tegumentum – attraverso cui si affronta il rapporto tra potere regio ed ecclesiastico, consentendo una doppia fruizione, letterale e allegorica. L’Érec et Énide di Chrétien (1170), allora, può essere letto come una sorta di speculum sull’attualità più bruciante, indirizzato alla politica di Enrico II ma anche a quella di Federico Barbarossa: una difesa del primato spirituale tenuta in spirito di conciliazione e con tanto di happy end – che, evidentemente, sarà nello stesso anno smentito dalla conclusione tragica della vicenda di Becket. Quanto ad Alessandro – figura già biblica della superbia e della caducità della gloria terrena (I Mcc 1, Dn 8 e 11), già addotto nel Policraticus come esempio negativo di sete di potere (significativamente in un contesto che dalla Scrittura attinge a piene mani) –, le sue vicissitudini conoscono tra il XII e il XIII secolo un notevole successo, testimoniato dalla quantità di poemi a lui dedicati tanto in latino quanto nei diversi volgari, spesso più o meno esplicitamente rivolti con intento pedagogico ai potenti. Anche in questi molti rifacimenti, Alessandro, pur sapiente e forte, è vittima della vanitas e pertanto destinato al tracollo. Tra tutte queste Alessandreidi (dal Roman d’Alexandre di Alberico, in francese, all’Alexandreis latina di Gualtiero di Châtillon
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passando per il romanzo tedesco dello Pfaffe Lambrecht), Lazzerini si concentra soprattutto sull’anonimo Libro de Alexandre, lungo popolarissimo poema spagnolo enciclopedico in quartine monorime di alessandrini risalente alla prima metà del XIII secolo, riscontrando in esso – oltre alla cifra della vanitas che lo accomuna alle altre riscritture sul tema – anche uno specifico monito legato al rapporto tra il sovrano e i suoi consiglieri, senza l’aiuto dei quali il potente è destinato a crollare miseramente. L’analisi di Lazzerini penetra, appunto, anche grazie alla ricostruzione dei rapporti intertestuali che legano i testi in esame tra loro e a molti altri, al di sotto della corteccia, svelando il sottile gioco tra sacro e profano, il senso profondo nascosto sotto le immagini. L’autrice individua così, per limitarci a un solo caso, nessi che sottotraccia collegano l’Érec et Énide alle Scritture: la metafora dello specchio e quella del cervo addotte per descrivere Énide, per esempio, o il parallelo tra il duello finale tra Érec e Mabonagrain e quello di Giacobbe con l’angelo, o la simbologia del mantello del re; e fornisce attraverso questa chiave anche una convincente interpretazione di un aspetto discusso del romanzo: il fatto che Énide cammini davanti al marito mentre peregrinano in cerca di avventure. I saggi qui raccolti contribuiscono – singolarmente e nel loro insieme – ad aggiungere alcune tessere al complesso mosaico delle relazioni fra Bibbia e re che attraversa larga parte della storia occidentale. Queste relazioni vedono monarchi attentamente impegnati nella comprensione e nella diffusione del libro sacro, oltre che nella committenza di testi, illustrazioni, cicli pittorici. A questo impegno dei laici ne corrisponde d’altra parte uno non minore degli uomini di chiesa, che fanno della Bibbia un oggetto di riflessione anche politica e si preoccupano di additare in essa una guida morale, da cui trarre modelli e precetti che non contemplano solo i doveri del sovrano e lo statuto della sua persona, ma prescrivono regole di comportamento anche ai sudditi. Come al Convegno aquilano del 2018, così in questo volume, che da quell’incontro prende le mosse, è stata presa in esame una grande varietà di oggetti e problemi, in un confronto tra molteplici approcci disciplinari; e se questa pluralità non è riuscita allora e neppure riesce in questa raccolta – come è inevitabile che accada – a cogliere tutte le forme che la questione in oggetto può assumere, essa fornisce tuttavia un quadro assai ricco e variegato delle tematiche e degli ambiti di discussione. Franca Ela Consolino e Chiara Staiti
Bibbia, sudditi e re
Giuseppe cremascoli
«Temete Dio, onorate il re» (1 Pt 2, 17) Sudditi e re di fronte a Dio
Nella breve lettera elencata come Ia Petri nella Volgata e conclusa con il toccante saluto rivolto, a nome della comunità che vive in Babilonia, ai fedeli lontani e dispersi in varie parti del mondo, sono descritti i tratti caratteristici della loro condizione di fede e di vita, essendo stati «scelti secondo il piano stabilito da Dio Padre, mediante lo Spirito che santifica, per obbedire a Gesù Cristo».1 La novità di vita di questi credenti si esprime anche nel comportamento che devono assumere nella società in cui vivono, avvertendo, però, di sentirsene per tanti aspetti stranieri e pellegrini, vista la condizione in forza della quale sono soprattutto cittadini del cielo.2 Ἐν οὐρανῷ πολιτεύονται si proclamerà nella Lettera a Diogneto,3 uno dei testi più noti sulla consapevolezza fortemente avvertita, sin dai primi secoli cristiani, che la sequela Christi comporta di essere, nel mondo, ciò che l’anima è chiamata ad essere nel corpo.4 Quanto al rapporto tra la condizione cristiana e quell’entità che, nel linguaggio biblico e nella letteratura ascetica, è evocata come «il mondo», sono ben note le difficoltà esegetiche e la necessità di contestualizzare con saggezza il senso e la portata dei messaggi, sulla scia della metafora agostiniana del corpus permixtum, con cui è indicata la Chiesa del tempo presente.5 Nella citata lettera ha una certa ampiezza il tema del comportamento dei cristiani nella società soprattutto nei confronti dell’autorità costituita, descritto, negli ideali 1 La Bibbia. Via, verità, vita. Nuova versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni San Paolo, 2009, 1 Pt 1, 1-2 p. 2519; Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, edd. R. Weber – R. Gryson et al., Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 1994, 1 Pt 1, 1-2, p. 1864ab. 2 Come si ribadisce in La Bibbia. Via, verità, Vita…, 1 Pt 2, 11, p. 2521: «Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri, che fanno guerra all’anima» – Biblia sacra iuxta vulgatam versionem… 1 Pt, 2, 11, p. 1866a carissimi obsecro tamquam advenas et peregrinos abstinere a carnalibus desideriis quae militant adversus animam. 3 À Diognète, ed. H. I. Marrou, Paris, Les éditions du cerf, 2005 [I ed. 1951] (coll. Sources Chrétiennes, 33bis), V, 9, pp. 62-64 Ἐπὶ γῆς διατρίβουσιν ἀλλ’ ἐν οὐρανῷ πολιτεύονται – ibid., pp. 63-65: «Il passent leur vie sur la terre, mais sont citoyens du ciel». 4 Ibid., VI, 1, p. 64 Ἁπλῶς δ’εἰπεῖν, ὅπερ ἐστὶν ἐν σώματι ψυχή, τοῦτ’εἰσὶν ἐν κόσμῳ Χριστιανοί, ibid., p. 65: «En un mot, ce que l’âme est dans le corps, les Chrétiens le sont dans le monde». 5 Cf. Réginald Grégoire, «Terrena despicere et amare caelestia. Note à propos d’une thèse récente», Studia monastica, VII (1965), p. 199: «L’hostilité, plus souvent verbale que réelle, à l’égard des valeurs humaines se justifie et s’explique par un contexte d’ordre spirituel et religieux; elle est donc très relative et ressort aussi d’un certain conformisme littéraire». Cf. inoltre infra n. 41. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 27-37 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124799
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a cui ispirarsi, in queste due scultoree esortazioni: «temete Dio, onorate il re».6 Esse provengono da una pericope che va accostata a molte altre sul gran tema della potestas sia spiritualis sia temporalis, ricorrente nel corso dei secoli e libero da esiti funesti quando è in linea con le due esortazioni testé citate. Ad esse va affiancato, per identità di contenuti, quanto insegna san Paolo scrivendo ai cristiani di Roma sul comportamento da tenere di fronte alle autorità civili. Si è giustamente notato che questa «parenesi paolina va nella direzione della richiesta di una presenza pacifica, tollerante, che non fa obiezione al ruolo legittimo dello Stato»,7 ed è forse anche sulla base di queste illuminate impostazioni, che Raterio di Verona trova che, nella citata esortazione a temere Dio e ad onorare il re, sta racchiusa una sententiola breviter sed pulcherrime.8 Per quanto mi risulta non è molto frequente il ricorso a questo passo biblico negli scritti della latinità medievale, ove è stata notata anche una non ampia presenza di un altro testo molto significativo per contenuti tipici dell’annuncio cristiano. Si tratta di quello in cui, al tentativo della madre dei figli di Zebedeo di ottenere, per loro, i primi due posti nel regno di Cristo, è data questa risposta: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così».9 Non c’è, invece, atmosfera di conflitto nelle esortazioni di cui si è detto nella parenesi paolina poco sopra citata, e, pur con qualche eccezione, entrano in questo ordine di pensieri gli autori che discorrono del comportamento dei cristiani di fronte alle istituzioni del potere civile o alle varie forme di autorità. Alla base di questa impostazione dottrinale e pratica espressa nell’esegesi al citato passo biblico sul timore di Dio e sull’onore dovuto al re, sta la certezza di fede secondo la quale il potere non può avere la propria radice se non in Dio stesso, che ne fissa le modalità e gli ambiti in vista di un retto ordine a cui dar vita nella società. Va da sé che la mente corre immediatamente, a questo punto, al notissimo detto paolino sulla potestas che non è nisi a Deo. Quelle che esistono – soggiunge l’Apostolo – sono stabilite da Dio, e, quindi, chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.10 Questa
6 La Bibbia. Via, verità, vita… 1 Pt 2, 17, p. 2522; Biblia sacra iuxta vulgatam versionem… 1 Pt 2, 17, p. 1866b Deum timete, regem honorificate. 7 Romano Penna, «I cristiani e il potere civile. Alcuni dati neotestamentari», La vita dei cristiani e il potere civile. Questioni storiche e prospettive attuali in Oriente e Occidente. Atti del XIII Simposio intercristiano, a cura di L. Bianchi, Padova, San Leopoldo, 2015 (coll. Simposi intercristiani), pp. 41-67: p. 60. 8 Ratherii veronensis Praeloquiorum libri sex, IV, 29, cura et studio P. L. D. Reid, Turnholti, Brepols, 1984 (coll. Corpus Christianorum Continuatio Mediaeualis 46 A), p. 135, 1156-1158 quod una sententiola breviter sed pulcherrime est ab Apostolo comprehensum: Deum timete, regem honorificate; ac si dicatur: dominum timete, ministrum honorate. 9 Per un’indagine sul tema cf. Giuseppe Cremascoli, «Sull’esegesi del medioevo latino a Mt 20, 25-26: principes gentium dominantur eorum et qui maiores sunt potestatem exercent in eos. Non ita erit inter vos», Cristo e il potere. Teologia, antropologia e politica, a cura di L. Andreani e A. Paravicini Bagliani, Firenze, Sismel. Edizioni del Galluzzo, 2017 (coll. MediEvi, 18), pp. 3-16. 10 La Bibbia. Via, verità, vita… Rm 13, 1-2, p. 2355 «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna» – Biblia sacra iuxta vulgatam versionem… Rm 13, 1-2, p. 1765a Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit.
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categoria della potestas nisi a Deo, dominante sia nella cogitatio fidei sia nella meditazione intorno alle strutture del potere, si trova molto spesso, negli autori, affiancata da altre sentenze della Scrittura riferite per determinarne il senso e la portata. Rabano Mauro la considera proprio come una conseguenza delle esortazioni a temere Dio e ad onorare il re, che egli cita con la seguente premessa, prima del richiamo alla potestas nisi a Deo: Hinc et Paulus ait.11 Dunque, secondo l’Apostolo, è da questo tipo di potestas che scaturiscono il timore di Dio e l’onore dovuto al re. Anche Wyclif cita le due esortazioni notando la loro conformità all’insegnamento di Paolo, vedendo anzi, fra di esse, uno speciale vincolo, dato che propter timorem Dei debemus honorare reges.12 Poco prima il rimando a questi moniti della lettera petrina consentiva a Wyclif di enfatizzare aspetti significativi della propria dottrina sul saeculare dominium, proclamando che i chierici, soprattutto se ai vertici dell’istituzione cristiana, devono esserne esclusi come da un veleno, perché tale dominium va riservato alle autorità secolari, per esservi esercitato in un contesto di virtù e di grazia.13 Non dobbiamo cedere all’idea che, in tutto ciò, ci fossero bollenti spiriti laici o volontà di sganciare le cose del tempo dalla sudditanza alla volontà dell’Eterno. Tutto si muoveva all’interno di categorie in linea con i dettami della fede cristiana e con i precetti evangelici, fra i quali ha un posto d’onore quello che impone di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, spesso citato in correlazione con il monito petrino a temere Dio e ad onorare il re. Beda, ad esempio, nel commento alle sette lettere cattoliche, sente connesso a questa duplice esortazione il precetto di rendere a tutti l’onore dovuto, e, iuxta imperium Domini, a rendere a Cesare quanto è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.14 Anche Giona d’Orléans accosta questo λόγιον del divinum praeceptum all’esortazione petrina a temere Dio e ad onorare il re, enfatizzando, anzi, la dimensione
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Non est enim potestas nisi a Deo: quae autem sunt a Deo ordinatae sunt. Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit. Qui autem resistunt ipsi sibi damnationem adquirunt. In apparato è segnalata la variante ordinatione su ordinationi. Rabani Mauri Expositio in librum Judith, X (coll. Patrologia Latina 109), 567D-568A sicut servi Dei omnes honorate, fraternitatem diligite, Dominum timete, regem honorificate. Hinc et Paulus ait: Omnibus potestatibus superioribus subditi estote, non est enim potestas nisi a Deo, quae autem sunt a Deo ordinatae sunt. Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit. Iohannis Wyclif Sermones, vol. III, ed. I. loserth, London, Published for the Wyclif Society by Trübner & Co., 1899, Sermo XXVIII, p. 217, 32-36 Ideo absit quod Petrus includit repugnantiam in verbis suis quoad istam sententiam, sed conformiter ad Paulum intendit quod propter timorem Dei debemus honorare reges. Ibid., p. 217, 16-23 Maiores ergo in clericis debent esse in maiori vel humiliori ministerio magis secundum…, id est, ad Dei honorem et ecclesie obedienciam plus ministrantes, secluso ab eis seculari dominio ut veneno; sed seculare dominium debet seculi potentatibus concomitante virtute et gracia reservari; ideo subiungit Petrus: Omnes honorate, fraternitatem diligite, Deum timete, regem honorificate. Bedae Venerabilis In epistolas septem catholicas, II, 17, ed. D. Hurst, Turnhout, Brepols, 1983 (coll. Corpus Christianorum. Series Latina 121, Bedae Opera II, 4), p. 241, 299-305 Vult autem nos beatus Petrus liberos esse a seruitio culparum ut serui creatoris nostri boni et fideles permanere possimus. Unde subsequenter adiungit, sed sicut serui Dei. Omnes honorate, fraternitatem diligite, Deum timete, regem honorificate. Monet ergo congruum cunctis impendere honorem et iuxta imperium domini Caesari quae Caesaris sunt et Deo reddere quae Dei sunt.
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religiosa in cui tutto ciò va applicato, perché tali comportamenti devono scaturire dalla precisa intenzione di agire propter Deum. Ciò è in linea, del resto, con il richiamo, ancora petrino, all’universale dovere dell’atteggiamento reverenziale da tenere nei confronti di ogni creatura. Lo speciale riferimento al re scaturisce dall’eccellenza del suo compito, e si estende ai governanti in quanto da lui inviati per punire i malvagi e premiare i giusti.15 L’impegno degli esegeti di questi passi biblici non è, dunque, tanto la distinzione tra Cesare e Dio, ponendo, così le basi di tante future disquisizioni. I valori di riferimento sono quelli della religiosità e della fede, perché essi consentono di giungere a risultati apprezzabili, riguardo sia ai sudditi sia ai re, sulla base di certezze e di scelte compiute, appunto, propter Deum.16 Quanto ai sudditi scaturisce da questa impostazione l’impegno ad escludere ogni forma di slealtà nei confronti di chi detiene il potere, cioè di comportarsi in linea con la libertà di cui sentono di fruire i servi di Dio, senza mai ricorrere al velamen malitiae, per stare al linguaggio della lettera petrina.17 Questo velamem indica, nel commento al Tractatus in septem epistolas catholicas attribuito a Ilario di Arles, l’ipocrisia di chi ostenta forme esterne di religiosità ma nell’intimo cova avversione contro i poteri della Chiesa, dei re e dei principi, minando alle basi la concordia che dovrebbe, invece, regnare.18 Perché i vincoli nelle istituzioni restino fraterni – si conclude – occorre temere Dio e onorare il re.19 Immediata e tesa al concreto è l’esegesi di Wyclif alla seconda delle due esortazioni. Se il precetto è dato – egli dice – è perché dobbiamo esprimere in
15 Jonas D’Orléans, Le métier de roi (De institutione regia), VIII, 1, introduction, texte critique, traduction, notes et index par A. Dubreucq, Paris, Les éditions du cerf, 1995 (coll. Sources Chrétiennes, 407), pp. 220, 15-222, 23 Quod cum faciunt, et diuinum praeceptum adimplere et fidem regi debitam euidenter probantur conseruare. Huiuscemodi ergo obsequium a subiectis regiae potestati impendi debere et legalia praecepta aperte testantur et Dominus in Euangelio admonet, dicens: Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo. Petrus quoque ait: Subiecti estote omni humanae creaturae propter Deum sive regi quasi praecellenti, et non post multa: Deum timete, regem honorificate. – Ibid., pp. 221-223: «Ce faisant, ils montrent clairement qu’ils accomplissent l’ordre divin et qu’ils observent la fidélité due au roi. Telle est donc la soumission dont doivent faire preuve les sujets à l’égard du pouvoir royal; c’est ce qu’attestent les commandements de la Loi et que le Seigneur rappelle dans l’Evangile, en disant: Rendez à César ce qui est à César, et à Dieu ce qui est à Dieu. Pierre aussi dit: Soyez soumis à toute institution humaine, à cause de Dieu; soit au roi, en tant que souverain…, et peu après: Craignez Dieu, honorez le roi». Per la citazione non conclusa del passo petrino, cf. Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, 1 Pt 2, 13-14, p. 1866ab Subiecti estote omni creaturae propter Dominum, sive regi quasi praecellenti sive ducibus tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero honorum. In apparato è segnalata la variante Deum su Dominum. 16 Cf., nella precedente nota, la citazione da 1 Pt 2, 13. 17 Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, 1 Pt. 2, 16-17, p. 1866b quasi liberi et non quasi velamen habentes malitiae libertatem, sed sicut servi Dei omnes honorate, fraternitatem diligite, Deum timete, regem honorificate. 18 Hilarius Arelatensis (ps.), Tractatus in septem epistolas catholicas, ed. R. E. Mc Nally, Turnhout, Brepols, 1973 (coll. Corpus Christianorum. Series Latina 108 B. Scriptores Hiberniae minores, pars I): in Epist. can., I Petri, 16, p. 84, 306-309 Et non quasi velamen malitiae. Velamen malitiae est, si forma religionis de foris habeatur, intus tamen potestatibus aecclesiae, et regum, et principum resistere videatur ut concordia disrumpatur». 19 Ibid., 17, p. 85, 311-313 Fraternitatem diligite, Deum timete, regem honorificate. Haec sunt debita omnibus retinentia, dilectio proximo, timor Deo, honor regi.
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forma esplicita e nei fatti l’onore dovuto, tenendo conto che, tra i poteri costituiti, l’istituto della regalità ha una sua preminenza. È interessante notare che questa prospettiva di natura religiosa e sacrale riguarda sia i sudditi, come si è visto, sia, con tratti ben caratteristici, i principi e i re, a Deo constituti e che agunt hic in terris Dei ministerium nel sovrumano compito di punire i malvagi e di proteggere gli innocenti e i giusti. Riprende questi temi John Colet, affrontando in parecchi punti delle sue pubbliche letture delle epistole di san Paolo, a Oxford, il tema, già avvertito dai primi cristiani, della condotta di fronte ai magistrati di Roma.20 Più avanti è posto in modo esplicito l’accento sulla congruenza dell’insegnamento dell’Apostolo con l’esortazione petrina a temere Dio ed a onorare il re.21 Questa concezione della natura sacrale dell’istituto della regalità, è espressa con speciale forza anche da Gerardo di Csanàd, secondo il quale nullus rex dici potest in veritate nisi servus Dei et ipse.22 Sempre in questo ordine di pensieri e insistendo sull’idea che tutto deve procedere propter Deum, Raterio fa notare che il re deve rendersi conto di quanta riverenza deve egli stesso al Creatore. Scaturisce infatti dai divini voleri che i sudditi debbano speciale ossequio e onore al loro re, con cui, del resto, condividono l’identica umana natura.23 Questa prospettiva squisitamente di fede e teologica non poteva restare sganciata dalla realtà, cioè dalle situazioni – tutt’altro che infrequenti – in cui i re, ben lungi dal conformarsi alla loro condizione di ministri dei divini poteri e voleri, creavano, per i sudditi, condizioni di difficoltà, se non di palese ingiustizia. Il problema fa capolino, nella citata epistola, subito dopo l’esortazione a temere Dio ed a onorare il re, ed è, anzi, formulato nei termini concreti in cui esso è vissuto nelle strutture del vivere, fatalmente divise tra padroni e servi. Per questi ultimi è confezionata l’esortazione ad essere subditi in omni timore dominis, non tantum bonis et modestis sed etiam discolis, con, al seguito, una giustificazione che rimanda al cuore stesso della condizione cristiana, destinata ad attuarsi nella imitatio Christi, anche quando si tratta 20 Ioannis Coleti Enarratio in epistolam s. Pauli ad Romanos, now first published, with a translation, introduction, and notes by J. H. Lupton, London, Bell and Daldy, 1873 [Ridgewood, N. J.: Gregg. Press Incorp., 1965], XIII, p. 202: Ita igitur loquutus est de Romanis magistratibus, ut simul eos et docere, et eorundem favorem in Christianos conciliaret, quando admonet Christicolas non adversentur Romanis principibus, sed obediant, quandoquidem illi a Deo constituti sunt, et agunt hic in terris Dei ministerium, ut puniant malos, bonos autem et innocentes foveant et defendant. Si noti la reminiscenza di 1 Pt 2, 11-14 per la quale, e per il relativo contesto, cf. supra n. 15. 21 Ibid., p. 203 Quod idem sapienter apostolorum princeps Petrus asiaticis ecclesiis suadet faciendum, ad illas in epistola sic scribens: Subjecti estote omni humanae creaturae propter Deum, sive regi, quasi praecellenti, sive ducibus, tanquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum. Quia sic est voluntas Dei, ut benefacientes obmutescere faciatis imprudencium hominum ignoranciam; quasi liberi, et non quasi velamen habentes maliciae libertatem, sed sicut servi Dei “Omnes honorate, fraternitatem diligite; Deum timete, regem honorificate”. Il rimando è a 1 Pt 2, 13-17. Per l’esegesi di Wyclif cf. supra n. 13 e infra n. 31. 22 Gerardi Moresanae Aecclesiae seu Csanadiensis episcopi Deliberatio supra hymnum trium puerorum, ed. G. Silagi, Turnhout, Brepols, 1978, VIII (coll. Corpus Christianorum. Continuatio Mediaeualis 49), p. 157, 886-887. 23 Ratherii Veronensis Praeloquiorum libri sex…, IV, 29, p. 136, 1170-1173 sive regi, inquit, quasi precellenti, subaudis propter Deum – videlicet ut agnoscat, quanta reverentia ipse debet Creatori subici, cum tanta illi impenditur a creatura conditione consimili. Per il riferimento a 1 Pt 2, 13, cf. supra n. 15 e contesto.
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del Christus patiens.24 Si nota, nei testi appena citati in nota, che, nella versione a cura della Conferenza Episcopale Italiana, in omni timore (ἐν παντὶ φόβῳ) – tradotto «con profondo rispetto» – subisce qualche ritocco. Anche discolis (σκολιοῖς) ha la sua piccola avventura, diventando, al dire di Beda, difficilioribus in Fulgenzio di Ruspe, ove, tuttavia, non ho trovato né la variante segnalata né la citazione di 1 Pt 2, 18.25 La sostanza del problema riguardava, comunque, la situazione da tenere, da parte dei cristiani, di fronte ai detentori del potere che lo esercitassero in modi ben difformi da un ministero in linea con i divini voleri. Siccome anche in queste situazioni non si poteva abdicare al dovere di onorare il re, era necessario trovare nel compito stesso, di cui il re era responsabile, i motivi in forza dei quali l’onore doveva essergli tributato. Rabano Mauro scrive, infatti, che i sancti viri onorano la terrena potestas non certo per viltà o per averne vantaggi con l’adulazione, ma ex iure dignitatis di cui essa va ritenuta insignita, e mirando a un giusto obiettivo di conservatio ordinis.26 Del resto ogni stato di vita, fra le creature razionali, merita riverenza e ossequio e, a sua volta, deve darne, così da costituire un honorabile connubium in omnibus, sulla base di un elenco di doveri che Pietro il Venerabile cita, delineando un quadro ideale di società in cui tutto proceda secundum personarum, graduum, officiorum diversitatem, ove ciascuno, potente o umile, riceva il grado di onore che spetta alla sua condizione.27 24 La Bibbia. Via, verità, vita…, 1 Pt 2, 18-21, p. 2522: «Domestici state sottomessi con profondo rispetto ai vostri padroni non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli prepotenti. Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; che gloria sarebbe infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme». Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, 1 Pt 2, 18-21, p. 1866b Servi subditi in omni timore dominis non tantum bonis et modestis sed etiam discolis. Haec est enim gratia si propter conscientiam Dei sustinet quis tristitias patiens iniuste. Quae enim gloria est si peccantes et colaphizati suffertis? Sed si benefacientes et patientes sustinetis, haec est gratia apud Deum. In hoc enim vocati estis quia et Christus passus est pro vobis, vobis relinquens exemplum ut sequamini vestigia eius. 25 Bedae Venerabilis In Epistolas septem catholicas… II, 18, p. 241, 310-322 Serui, subditi in omni timore dominis uestris non tantum bonis et modestis sed etiam discolis. Discolis, indisciplinatis dicit, nomine ducto a Graeco eloquio, quia Graece scola uocatur locus in quo adulescentes liberalibus studiis operam dare et ad audiendos magistros uacare solent […] Scolastici ergo sunt eruditi, discoli indocti et agrestes, sed utrisque uult oboedire subditos explicans apertius quomodo nos supra omni humanae creaturae iusserit subiectos. Alia editio pro discolis difficiles habet, et sanctus antistes Fulgentius in opusculis suis sic ponit: Seruientes cum timore non tantum bonis et modestis sed etiam difficilioribus. 26 rabani Mauri Expositio in librum Judith…, X, 567D Quod Judith adorat Holofernem, non est perturbatio timoris, sed conservatio ordinis. Quoties enim sancti viri terrenae potestati impendunt honorem, non ex vitio adulationis, sed ex jure dignitatis hoc faciunt. Per il cenno a Giuditta che adorat Holofernem, cf. Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, Idt 10, 20 e contesto. Procedendo nella trattazione, Rabano Mauro fa leva sul fatto che il princeps è pur sempre Dei minister, e, per convincere a non aver paura del potere se non nel caso in cui si compie il male, delinea questo dilemma: Nam principes non sunt timori boni operis, sed mali. Vis autem non timere potestatem? Bonum fac, et habebis laudem ex illo; Dei enim minister est in bono. Si autem malum feceris, time, non enim sine causa gladium portat, Dei enim minister est, vindex in ira ei qui malum agit (ibid., 568, A). 27 Petri Venerabilis Contra Petrobrusianos hereticos, cura et studio J. Fearnes, cap. 142, Tournhout, Brepols, 1968 (coll. Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis 10), pp. 82, 2-8 De honore quem sibi invicem rationalis creatura exhibere debet, scriptum est: Honora patrem tuum et matrem tuam, et: Honore
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Questa alta e generosa visione – non stiamo a dire se fondata o utopistica – ispira anche alcune opere dedicate alle istituzioni del potere, come il De eruditione principum del domenicano Guglielmo Peyraud, pubblicato, in alcune edizioni, con le opere di Tommaso d’Aquino.28 Dopo aver disquisito sulla natura e sulle espressioni del revereri, cioè del rendere omaggio che multipliciter accipitur in riferimento a speciali situazioni o a vari stati di vita,29 si precisa che, della regalità, va tenuta in considerazione la superiore dignità cui va attribuito uno speciale onore, come suggeriscono concordi gli apostoli Paolo e Pietro, senza, però, dimenticare l’esortazione, pure biblica, del gareggiare nella vicendevole stima, perché debemus … credere quod omnes excedunt in aliqua gratia.30 È, dunque, vivo il senso della complessità del problema posto dall’esortazione a temere Dio e ad onorare il re, perché si tratta di gestire dei sentimenti e di valutare il ruolo e la dignità di persone e di istituzioni, tenendo conto di ciò e di chi sta in vetta alla piramide, e di quanti, pur occupandone gli strati inferiori sino ai più bassi, non possono non essere tenuti in considerazione. Wyclif sintetizza il tutto riecheggiando il lessico dell’esortazione petrina, quando scrive: unicuique rei quam timemus et honorificamus debemus proporcionalem et congruum timorem et honorem tribuere. Si precisa, tuttavia, che, nella ricerca di questa congruità, in vetta, quanto al potere, stanno i principi e i re, visti e giudicati nel complesso e nel concreto della loro condizione.31 Va da sé che il problema nasce soprattutto dai casi – ritenuti frequenti, come vedremo – in cui la condotta di chi detiene il potere lascia poco spazio a sentimenti di ammirazione. Si tende, allora, a far leva sulla distinzione fra il ruolo occupato in republica, dice Tommaso d’Aquino, e la persona che ne è rivestita, destinataria di un onore che, in realtà, è dovuto all’istituzione che essa, comunque, rappresenta. Sempre l’Aquinate precisa che, anche in questo modo e in qualunque circostanza, va accolta
invicem preuenientes, et: Regem honorificate, et: Presbiteri maxime qui in uerbo laborant duplici honore digni sunt, et: honorabile conubium in omnibus, et mille talia, que secundum personarum, graduum, officiorum diuersitatem uel magis uel minus obseruari iubentur. Quanto ai passi biblici citati, cf. Biblia sacra iuxta vulgatam versionem… Ex 20, 12, p. 104b; Rm 12, 10, p. 1764b; 1 Pt 2, 17, p. 1866b; 1 Tim. 5, 17, p. 1835a, in questa forma: Qui bene praesunt presbyteri duplici honore digni habeantur, maxime qui laborant in verbo et doctrina; Hebr 13, 4, p. 1857a. 28 Cf. infatti Thomae Aquinatis De eruditione principum, Parmae, typis Petri Fiaccadori, 1865, pp. 390476 (coll. S. Thomae Aquinatis Opera omnia ad fidem optimarum editionum accurate recognita, Tom. XVI). 29 Ibid., lib. III, p. 418a Et notandum quod revereri multipliciter accipitur […] et genuflexio exibetur et honor alicui propter prioritatem temporis, vel naturae dignitatem, vel excellentiam in aliqua gratia. 30 Ibid., p. 418ab Propter superioritatem exhibetur honor, juxta illud Roman. 13: “cui honorem, honorem”, 1 Petr. 2: Regem honorificate […]. Propter excellentiam in aliqua gratia honor exhibendus est omnibus. Debemus enim credere quod omnes excedunt in aliqua gratia. Per il rimando ai primi dei passi biblici citati, cf. Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, Rm 13, 7, p. 1765a Reddite omnibus debita, cui tributum, cui vectigal, cui timorem, cui honorem. Per le due altre citazioni cf. supra n. 27 e contesto. 31 Iohannis Wyclif Sermones…, XXVIII pp. 217-218 tam debemus Deum honorare quam regem timere et econtra, verumptamen licet unicuique rei quam timemus et honorificamus, debemus proporcionalem et congruum timorem et honorem tribuere, et quia regi debemus explicite (inest facto supra alios) honorem tribuere, ideo dicit Petrus: Regem honorate. Il rimando è sempre a 1 Pt 2, 17, con la variante honorate su honorificate, come, invece, si legge in Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, p. 1866b.
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l’esortazione petrina ad onorare il re.32 Impressionante, in ogni caso, è quanto si legge in alcuni autori a commento dell’usuale condotta dei principes gentium, soprattutto nell’esegesi della pericope relativa alla κατεξουσία da essi esercitata, intesa fin troppo severamente nella citata versione in italiano della Bibbia, dove si proclama che essi le opprimono.33 Non sarà, comunque, senza significato che Tommaso d’Aquino, dopo la citazione del passo di Matteo sui principes gentium, abbia formulato, quanto all’esercizio del potere, una domanda che, se non è retorica, può apparire inquietante: numquid dominari est malum?34 Scendendo al pratico e con qualche ricorso ai colores rhetorici frequenti nei suoi sermoni, s. Lorenzo da Brindisi, già un po’ fuori dall’età medievale, si esprime in termini assai poco entusiastici sulla condotta dei principes gentium, dei quali scrive apertis verbis: rari sunt… qui avaritia et superbia ducti non aliquam tyrannidem exerceant,35 costringendo i sudditi a una sottomissione dettata non già dall’amore, ma dal timore, soprattutto se si scatenano a danneggiarli con tributi e tasse.36 L’iniquità dei potenti è, ovviamente, un problema per tutti, ma per i cristiani diventa fonte d’angoscia, se essa imponesse comportamenti contrari alla legge divina. Tommaso d’Aquino accenna al problema quando, dopo aver ricordato l’esortazione petrina ad onorare il re, cita, come monito in senso contrario, il versetto del Levitico in cui si proclama: non honores vultum potentis, giustamente da lui interpretato, sulla base del contesto, come un richiamo a non usare, in giudizio, preferenze verso i potenti.37 L’Aquinate affronta ancor più chiaramente il problema in un suo quodlibet ove i cristiani sono
32 S. Thomae Aquinatis Quaestiones quodlibetales, X, 6, 1, cura et studio R. Spiazzi, Taurini-Romae, Marietti, 1949, p. 207a Alius honor alicui debetur secundum statum quem habet in republica: sic enim in persona respublica honoratur; et propter hoc reges et principes et huiusmodi personae honorantur, secundum illud I Petri, II, 17: regem honorificate. 33 Si tratta del celebre passo di Mt 20, 25 in cui si legge che «i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono». Questa è la versione offerta da «La Bibbia. Via, verità, vita»…, p. 2094. Va però tenuto conto della precisazione, ivi annessa, riguardo ai «capi che opprimono»: «La traduzione cerca di rendere la sfumatura negativa del verbo greco qui usato, che sembra implicare l’uso dell’autorità “contro” qualcuno. La versione del 1974 aveva una resa più neutrale: “esercitano il potere”». Il verbo greco è κατεξουσιάζουσιν (Novum Testamentum Graece, edd. E. E. Nestle – B. K. Aland et al., Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, 201228: Mt 20, 25, p. 65). 34 S. Thomae Aquinatis Super evangelium s. Matthei lectura, ed. R. Cai, Torino-Roma, Marietti, 1951, XX, 25, 1666-1667, p. 255b Unde horrorem incutit “principes gentium dominantur eorum” ut notetur quod hoc exemplum non est imitandum. Sed notandum quod duplex est praeeminentia, scilicet dignitatis et potestatis et utramque tangit cum dicit “Principes gentium dominantur eorum etc,” Illi sunt principes qui ex officio praesunt. Sed quid est? Numquid dominari est malum? 35 Laurentius A Brundisio, Dominicale primum: dominica XIV post Pentecosten, 3, Patavii, Ex officina typographica Seminarii, 1943 (coll. Laurentii a Brundisio Opera omnia, Dominicalia, VIII), p. 186. 36 Ibid., p. 187 Deus non est sicut mundani principes qui a servis suis exigunt tributa et census eosque divitiis et bonis expoliant potius quam augeant et ditent. 37 S. Thomae Aquinatis Super epistolas s. Pauli lectura, vol. I, XIII, I, 1043, cura R. Cai, 1953, Torino-Roma, Marietti, 1953, p. 193 I Petr. II, 17: Regem honorificate. Sed contra est quod dicitur Lev. XIX, 15: Non honores vultum potentis. Sed hoc est intelligendum quantum ad hoc ut pro eo a iustitia non declines. Unde subditur: Iuste iudica proximo tuo. Per il rimando al passo veterotestamentario, cf. Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, Lev 19, 15, p. 161b non facies quod iniquum est nec iniuste iudicabis nec consideres personam pauperis nec honores vultum potentis: iuste iudica proximo tuo.
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definiti cives celestis Ierusalem, quasi in Babylonia peregrinantes, cioè nel contesto di culture e di prassi difformi dai contenuti dell’annuncio cristiano.38 Ho l’impressione che si riecheggi, nel discorso, sia il lessico della Lettera a Diogneto39 sia quello della stessa epistola petrina, nella quale è detto esplicitamente di rivolgersi a chi, straniero e pellegrino nella condizione presente, deve tenere una condotta esemplare tra i pagani.40 Nell’esposizione dell’Aquinate è indicato un riferimento, in termini generali, alla dottrina del De civitate Dei di s. Agostino, per precisare che, nell’incontro tra la condotta dei cristiani e le prassi del mondo, il comportamento di questi ultimi dovrà sempre contenersi in his quae non sunt contra Deum.41 Il rispetto e l’onore dato ai re e ai potenti anche se non cristiani o comunque di condotta non corretta, ha anche un altro obiettivo, posto in risalto da alcuni autori, in linea con il passo della pericope petrina, ove si legge: «tenete una condotta esemplare fra i pagani, perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita».42 Anche John Colet legge questi testi alla luce del conflitto tra istituzione cristiana e potenze avverse, nell’eventualità, avvertita come pressoché fatale, in cui esplodessero ostilità persecutorie. Anche l’esortazione petrina è sentita come parallela alla parenesi di Paolo, di cui si è detto, su questi temi, e il Colet non sembra mirare soprattutto alla μετάνοια di quanti sunt extra civitatem Dei et hostes religionis nostrae, ma solo a ottenerne la clemenza perché convinti dall’atteggiamento dei cristiani che si comportano suppliciter et inservienter.43 È quasi sorprendente questo discorso di John Colet, a meno di non interpretarlo come una precisa scelta di mitezza cristiana. Di solito sono le minoranze che si esprimono come il Colet, 38 S. Thomae Aquinatis Quaestiones quodlibetales…, X, 6, 1, p. 207a, proseguendo il discorso per il quale cf. supra n. 32 e contesto: Et quia in terrena republica divites statum obtinent altiorem, ideo cives celestis Ierusalem, quasi in Babylonia peregrinantes, debent eis inter quos conversantur, morem gerere, ut, Augustinus dicit in lib. de civit. Dei, in his quae non sunt contra Deum. Et sic etiam divites honorare illis dumtaxat honoribus qui ad exteriorem convictum pertinent, licitum est. 39 Cf. supra note 3, 4, 5 e contesto. 40 Biblia sacra iuxta vulgatam versionem…, 1 Pt 2, 11-12, p. 1866a carissimi obsecro tamquam advenas et peregrinos abstinere vos a carnalibus desideriis quae militant adversus animam, conversationem vestram inter gentes habentes bonam, ut in eo quod detractant de vobis tamquam de malefactoribus ex bonis operibus considerantes glorificent Deum in die visitationis. – La Bibbia. Via, verità, vita…, 1 Pt 2, 11-12, p. 2521: «Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima. Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita». 41 Questo tema del rapporto tra i cristiani e chi, soprattutto tra i principes, non si riconosce nei valori della civitas Dei, torna spesso nella citata opera agostiniana. Da questi principes – si afferma – si dovrà almeno esigere che non costringano al male e all’empietà: Quantum enim pertinet ad hanc vitam mortalium, quae paucis diebus ducitur et finitur, quid interest sub cuius imperio vivat homo moriturus, si illi qui imperant ad impia et iniqua non cogant? (De civ. Dei 5, 17, 1) – Il tutto nella convinzione, spesso ribadita, che perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae, donec ultimo iudicio dirimantur (ibid., 1, 35). 42 Cf. supra n. 40. 43 Ioannis Coleti Enarratio in epistolam s. Pauli ad Romanos…, pp. 203-204 Deum timete, regem honorificate. Vide quam concinne unus idemque spiritus in utroque apostolo loquutus est, jussitque Christianos illos primos suae tempestatis reges et presides et eorum leges et statuta, quam melius potuerint, non labefactata fide tollerarent. Itaque ad illos qui sunt extra civitatem Dei et hostes religionis nostrae, ut eos erga nos placemus
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mentre, per molti tratti, in quell’epoca erano ancora in essere la societas christiana e il regimen christianitatis, pur scricchiolanti nel rinnovarsi di culture e di istituzioni.44 Il millennio medievale, ormai concluso, aveva infatti conosciuto le forti controversie tra il papato e l’impero, condotte anche con esegesi accomodate a messaggi di fede trasmessi dalle Scritture.45 In dirittura d’arrivo, vorrei ora segnalare due opere nelle quali, all’inizio del medioevo, due importanti pensatori cristiani impegnati nei dibattiti trinitari e cristologici dell’epoca, dovettero dichiarare con insistenza di essere timorati di Dio e desiderosissimi di onorare il re, e, al contempo, inflessibili nel difendere la dottrina ortodossa anche subendo persecuzione ed esilio da parte degli imperatori o dei re. È il caso di Fulgenzio di Ruspe, autore dei tre libri Ad Trasamundum, il re che stava per gli ariani e mandava in esilio un dopo l’altro i vescovi cattolici, tra cui lo stesso Fulgenzio. Questi, all’inizio della trattazione, fa ripetuti tentativi di captatio benevolentiae, dichiarandosi convintissimo di dover onorare il re, di cui esalta la clemenza, porgendo l’ossequio che appare ancor più doveroso, in considerazione, appunto, di tale mansuetudine.46 Più spigliato e schietto è Facondo di Ermiane, strenuo difensore dei «tre capitoli» nell’opera sua maggiore, che ha per titolo: Pro defensione Trium Capitulorum Concilii Chalcedonensis libri XII ad Iustinianum imperatorem. Il trattato è del 548, l’anno in cui, l’11 aprile, papa Vigilio emanò il suo Iudicatum a condanna dei Tre Capitoli, accerchiato dalla volontà dell’imperatore. Avendo contro i sommi vertici, Facondo non poteva ignorare l’esortazione petrina, che, infatti, puntualmente cita e commenta, con accomodatio, così: pro Dei timore, quae contraria sunt Ecclesiae Christi refellimus, et pro regis honorificentia, quae refellenda sunt, tua non dicimus.47 In realtà tutto si complicò, perché, da una parte, Facondo, con la maggior parte dell’episcopato africano, si separò dalla comunione con i vescovi orientali e con il Papa, e, dall’altra, formulò aspre critiche nei confronti dell’imperatore, che, a suo
(sic) clementesque faciamus, clementer ipsi, suppliciter et inservienter nos gerere debemus (simile enim sibi simile provocat); et tum beneficiis tum benedictis tum vultu benevolente, bonitatem et benevolenciam in nos hominum quorumquumque excitare. Per la parenesi di Paolo su questi temi, cf. supra n. 7 e contesto. 44 Per il gran tema è d’obbligo il rimando a G. de Lagarde, La naissance de l’esprit laïque au déclin du moyen âge, tom. 6, Paris, Presses universitaires de France – Louvain, Nauwelaerts, 1956-1970. 45 Cf. J. Leclercq, «Usage et abus de la Bible au temps de la réforme grégorienne», The Bible and Medieval Culture, a cura di W. Lourdaux – D. Verhelst, Leuven, University Press, 1979, pp. 89-108. 46 S. Fulgentii episcopi Ruspensis Ad Trasamundum, I, II, 1, cura et studio J. Fraipont, Turnhout, Brepols 1968 (coll. Corpus Christianorum. Series Latina 91. S. Fulgentii Ruspensis Opera), pp. 98-99, 76-83: Huius timoris honorisque manifesta nobis beatus Petrus aperuit discretione notitiam, dicens: Sicut serui Dei omnes honorate, fraternitatem diligite, Deum timete, regem autem honorificate. Non autem parum clementiae tuae dilectionis exhibet et honoris, quisquis interroganti tibi hoc respondet quod ad fidem pertinet ueritatis. Il rimando è a 1 Pt 2, 16-17. Sul complesso rapporto fra Fulgenzio e Trasamondo si sofferma, in questo stesso volume, Elena Malaspina, pp. 63-64. 47 Facundi episcopi Ecclesiae Hermaniensis Pro defensione trium capitulorum libri XII. Ad Iustinianum, II, 5, edd. I. M. Clément – R. Vander Plaetse, Turnhout, Brepols, 1974 (coll. Corpus Christianorum. Series Latina 90 A, Facundi episcopi Ecclesiae Hermaniensis Opera omnia), pp. 42-43, 37-40 Oboedientes itaque Petro apostolo dicenti: Deum timete regem autem honorificate, et pro Dei timore, quae contraria sunt Ecclesiae Christi refellimus, et pro regis honorificentia, quae refellenda sunt, tua non dicimus. Cf. 1 Pt 2, 17.
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dire, avrebbe sconvolto la tranquillità della Chiesa, ripescando questioni supervacue, se non addirittura nocive.48 Un cenno anche alla vicenda di Sigeberto di Gembloux, pio benedettino e strenuo conservatore, che, facendo leva sulla duplice esortazione petrina, finì con l’opporsi ai papi e, in sostanza, a stare dalla parte dell’imperatore Enrico IV. Di ciò dà testimonianza la sua Epistola Leodicensium adversus Paschalem papam, scritta contro Pasquale II, che aveva chiesto al conte Roberto di Fiandra di intervenire manu militari contro il settore del clero di Liegi rimasto fedele all’imperatore. Sigeberto conosce e cita non solo la duplice esortazione petrina, ma le affianca rimandi alla dottrina di Paolo sui doveri dei cristiani di fronte alle autorità civili e l’esortazione di Cristo sul tributo da rendere rispettivamente a Cesare e a Dio.49 Regem honoramus, egli proclama, attestando anche che, nel suo caso, tutto avveniva non per avere visibilità ma con lealtà sincera e sicura. La conclusione è, però, molto amara, ed egli lamenta che questa fedeltà ottenga solo di essere ritenuti degni di scomunica.50 Per concludere. Abbiamo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che non tutte le ombre si diradano quando, pur con autentica fede, ci si pone di fronte alla Scrittura, il cui testo, sottoposto all’esegesi umanamente compiuta, sente fatalmente su di sé i contesti di cultura e le urgenze di concrete situazioni. A tale proposito cito spesso quanto scrive Gustavo Vinay su quelle che definisce «le imposizioni, le prepotenze tipiche esercitate da ogni età sul testo sacro».51 Non per nulla si legge nell’epigrafe scritta da Henry Newman e scolpita sulla sua tomba: «ex umbris et imaginibus in veritatem».
48 Ibid., II, 5-6, p. 43, 45-52 Nam quid opus erat, obsecro, quietem Ecclesiae superuacuarum quaestionum, ut non dicam noxiarum, concursionibus agitare? Quid opus erat eiusdem synodi retractare decreta, non solum contra religionis reuerentiam, sed etiam contra ipsius humanitatis pudorem, quae consensu totius Ecclesiae per centum ferme annos, etiam te custode, hactenus inuiolata manserunt?. 49 Sigebertus Gemblacensis, Epistula Leodicensium adversus Paschalem Papam, 5, ed. E. Sackur, Hannoverae, Impensis bibliopoli Haniani, 1892 (coll. Monumenta Germaniae Historica. Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculis XI. et XII. conscripti, tom. II), p. 456, 30-35 Iubet Deus: ut quae sunt cesaris reddamus cesari, et quae sunt Dei Deo. In hanc sententiam Petrus et Paulus pedibus eunt. Petrus: Deum, inquit, timete, regem honorificate, servi subditi estote in omni timore dominis, non tantum bonis et modestis, sed etiam discolis; haec est enim gratia. Paulus: Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit; qui potestati resistit Dei ordinationi resistit. Per i rimandi biblici cf., rispettivamente, Mt 20, 21; 1 Pt 2, 17-19; Rm 13, 1-2. 50 Ibid., p. 456, 36-37 Quia ergo regem honoramus, quia dominis nostris non ad oculum, sed in simplicitate cordis servimus, ideo excomunicati dicimur. 51 Gustavo Vinay, «Epilogo», La Bibbia nell’alto Medioevo», (Spoleto, 26 aprile-2 maggio 1962), Spoleto, 1962 (coll. Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo), p. 764.
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Bibbia, re e uomini di chiesa fra tarda antichità e medioevo
Paola F. moretti
Dilexi (Ps 114,1) Ambrose’s David and Emperor Theodosius
The word dilexi, «I have loved» (Ps 114, 1), which occurs eighteen times in Ambrose’s De obitu Theodosii, offers a crucial clue in our understanding of the portrayal of the emperor, as it points to a parallel between him and David, the biblical psalmist and king. In the funeral oration for Theodosius, the Davidization1 of the Christian and imperial moral paradigm reaches its climax. It is a theme that Ambrose had been developing since 386: the story of David features on the doors of the basilica martyrum (inaugurated in June 386 after the bishop’s victory in the struggle for the basilicas), which are supposedly a manifesto of his political theology; after that, David is portrayed as a model for sinners – both common Christians and Theodosius – in works dating from 388-390; finally, in the De obitu, Theodosius is presented as the «true David», on the basis that the emperor embodies the royal virtue of humilitas («humbleness»), which is legitimated as such by the example of King David. In order to grasp the meaning of this Davidization, I argue we should take a different perspective from that assumed by Neil McLynn: in his view, the works the bishop addresses to Theodosius show «Ambrose the bishop, not the man, addressing himself to Theodosius’ imperial persona», that is, basically negotiating the relationship between Eastern Court and Western Church in 388-390, when the critical episodes of Callinicum and Thessalonica take place.2 We would do better to view Ambrose as «ein wahrer Bischof»,3 speaking to – or of – Theodosius as a Christian individual: Ambrose’s political thought is theological in nature, the emperor being, like his fellow
1 Ambrose’s Davidization («Davidisierung») of Theodosius is pioneering (Ueli Zahnd, «Novus David – νέος Δάυιδ. Zur Frage nach byzantinischen Vorläufern eines abendländisches Topos», Frühmittelalterliche Studien 42 (2008), pp. 71-87: 76-78), whereas the topos of David as a model for kings is widespread in the Middle Ages: see also Hubert Herkommer, «Typus Christi – Typus regis. König David als politische Legitimationsfigur», W. Dietrich, H. Herkommer (eds.), König David. Biblische Schlüsselfigur und europäische Leitgestalt, Freiburg, Schweiz, Universitätsverlag, Stuttgart, Kohlhammer, 2003, pp. 383-436. 2 Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, Berkeley, University of California, 1994, pp. 291-390: 292. 3 Christoph Markschies, «Ambrosius: ein wahrer Bischof», W. Geerlings (ed.), Theologen der christlichen Antike: eine Einführung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2002, pp. 129-147. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 41-55 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124800
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Christians, the recipient of the bishop’s pastoral care.4 Indeed, as we will see, there is a line of remarkable continuity between the works directed at the common flock and those directed at the figure of the emperor: a common thread which, unsurprisingly, focuses on the Scriptures. As one of the bishop’s primary duties is that of explaining the Bible, the biblical readings he selected to comment upon to the Milanese public on an almost daily basis came inevitably to inform both the bishop’s own works – serving, therefore, as a key to the interpretation of his writing – and the Milanese Christians’ understanding of the world. Throughout Ambrose’s works, the portrait of David is shaped by clusters of recurring scriptural quotations sharing single meaningful words,5 a technique reminiscent of the exegesis of secular texts in the grammarian’s school, and of the taste for the «jewelled style» in late antiquity.6 The terms diligo/dilectio are especially significant, and love is revealed as David’s – and, accordingly, Theodosius’ – most important virtue. Moreover, the Bible enlarges the Christians’ «Erfahrungsraum»,7 shaping their political views and language, such that humilitas, a peculiarly Christian virtue deeply rooted in a love for God, is taught by David to all Christians and, with regard to the events of 388-390, comes to be understood as a virtue of the princeps. The programme of catechesis that Ambrose addresses to the inhabitants of the physical and intellectual space8 of Milan – a Christian capital – even involves the public spaces of the city, including its buildings and monuments.9 Ambrose consecrated a number of Christian monuments, effectively establishing sacred counterparts to secular imperial buildings: e.g. the octagonal baptistery of
4 «Der Herrscher wird aus den institutionellen Kontexten gelöst und als einzelner Mensch betrachtet, der um sein Seelenheil bemüht sein sollte»: Hartmut Leppin, «Zum politischen Denken des Ambrosius: das Kaisertum als pastorales Problem», T. Fuhrer (ed.), Die christlich-philosophischen Diskurse der Spätantike: Texte, Personen, Institutionen, Stuttgart, Steiner, 2008, pp. 33-49: 43. 5 Ambrose’s prose is a mosaic formed of biblical tesserae (cf. Gérard Nauroy, «L’Écriture dans la pastorale d’Ambroise de Milan», J. Fontaine, Ch. Pietri (eds.), Le monde latin antique et la Bible, Paris, Beauchesne, 1985, pp. 371-408): as such, for the purposes of analysis it shall be necessary to «tone down» certain elements whilst «amplifying» others. 6 Cf. Isabella Gualandri, «Pregnant with Meaning: the Power of Single Words in Late Latin Literature», J. Elsner, J. Hernández Lobato (eds.), The Poetics of Late Latin Literature, Oxford, University Press, 2017, pp. 125-148. 7 Cf. Hartmut Leppin, «Das Alte Testament und der Erfahrungsraum der Christen. Davids Buße in den Apologien des Ambrosius», A. Pečar, K. Trampedach (eds.), Die Bibel als politisches Argument. Voraussetzungen und Folgen biblizistischer Herrschaftslegitimation in der Vormoderne, München, Oldenbourg Verlag, 2007, pp. 119-134. 8 On «intellectual space» («Denkraum»), see Therese Fuhrer, «Denkräume»: Konstellationen von Texten, Personen und Gebäuden im spätantiken Mailand, T. Fuhrer (ed.), Rom und Mailand in der Spätantike. Repräsentationen städtischer Räume in Literatur, Architektur und Kunst, Berlin, Boston, De Gruyter, 2011, pp. 357-377. 9 Cf. Michelangelo Cagiano De Azevedo, «Sant’Ambrogio committente di opere d’arte», S. Lusuardi Siena, M. P. Rossignani (eds.), Cultura e tecnica artistica nella tarda antichità e nell’alto medioevo, Milano, Vita e Pensiero, 1986, pp. 151-172; Gemma Sena Chiesa, Spunti di cultura artistica a Milano da Massimiano ad Ambrogio. Un percorso difficile, R. Passarella (ed.), Milano e la Chiesa di Milano prima di Ambrogio, Milano, Bulzoni, 2017, pp. 165-181: 178-181.
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Saint John ad fontes mirrored the imperial mausoleum built in Milan around the middle of the fourth century (as to be baptized is to be «buried with Christ»: Col 2, 12), and the church of Saint Simplicianus reflected and Christianized the structure of the aula palatina in Trier. The dedication of the basilica martyrum, meanwhile, followed the struggle for the basilicas, which saw Ambrose purportedly triumphing over the Milanese Arians, who were supported by the Empress Justina and the young Valentinian II.10 The wooden carvings of the basilica’s main doors portrayed episodes from the stories of David, from his being chosen and anointed to his wedding with Micol (1 Rg 16-18).11 Unfortunately, only two of the original panels are preserved. On one, Jesse’s youngest son, David, herds his cattle and chases away a lion, and Jesse and his sons receive the prophet Samuel, who was sent by God to choose Saul’s successor. On the other, David is summoned home to meet Samuel, who anoints him as the king’s successor. The episodes appear to point to the pre-eminence of sacerdotium over imperium, which it would be tempting to link to Ambrose’s victory over the Arian court.12 However, the partial preservation might give undue emphasis to the theme of royal anointment within the iconographic programme, in which, for instance, David’s sin and repentance do not (or no longer) feature.13 The following survey of Ambrose’s works will perhaps shed further light on the meaning of this artefact.14 The Apologia David altera (Apol. Dav. II) and the Apologia David (Apol. Dav. I) are the first of Ambrose’s works to focus to any great extent on David as a sinful and repentant king. The former is preserved in an unrevised version that is indicative of homilies actually delivered by the bishop; the latter is the result of the revision and expansion of the Apol. Dav. II text, using material from Origen’s and Didymus’
10 Cf. N. McLynn, Ambrose, pp. 170-219; Gérard Nauroy, «Le fouet et le miel. Le combat d’Ambroise en 386 contre l’arianisme milanais», Id., Ambroise de Milan: ècriture et esthétique d’une exégèse pastorale, Berlin, Lang, 2003, pp. 33-149. 11 The doors have undergone later restorations. I accept the reconstruction of their original layout presented by Isabella Vay, Remo Cacitti, «Le porte lignee di Sant’Ambrogio», La città e la sua memoria. Milano e la tradizione di sant’Ambrogio, Milano, Electa, 1997, pp. 89-97: 91. Cf. also Alessandra Melucco Vaccaro, Le porte lignee di S. Ambrogio alla luce dei nuovi restauri, A. Melucco Vaccaro, G. Sena Chiesa, E. Arslan (eds.), Felix Temporis Reparatio, Milano, ET, 1992, pp. 117-136; Luigi Quartana, «Il restauro della porta maggiore della basilica di S. Ambrogio», Studia Ambrosiana, 3 (2009), pp. 225-263. 12 In fact, the carvings depict a sacerdos (Samuel, i.e. Ambrose?) anointing – and, therefore, legitimating – a rex (David, i.e. the emperor?): I. Vay, R. Cacitti, «Le porte…», p. 95. Relationships between the doors and passages from Ambrose’s works, especially the Apologia, are identified in Vay, Cacitti, «Le porte…», p. 97 n. 37. 13 According to I. Vay, R. Cacitti, «Le porte…», pp. 95-96, the panels portraying the repentant king might have been destroyed for ideological reasons during Carolingian refurbishment. 14 In what follows, I quote the Latin text of Ambrose’s works from the Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum series. For the English translations, I draw on: Saint Ambrose, Selected Works and Letters, transl. H. De Romestin, New York, Christian Literature Company, 1890-1900 (Paenit., letters); Funeral Orations by Saint Gregory Nazianzen and Saint Ambrose, transl. Roy Deferrari et al., New York, Fathers of the Church Inc., 1953 (Obit. Theod.); Boniface Ramsey, Ambrose, London-New York, Routledge, 1997 (Paulinus of Milan, Life of Ambrose). Any other translations are my own.
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commentaries on Psalm 50.15 The date of the later text is debated, although recent scholars mainly agree that it was completed between May 387 and August 388,16 before the burning down of the synagogue in Callinicum (August 388), which is not mentioned. In the two works, David is defended against the charges of adulterium (adultery with Bathsheba), and homicidium (the killing of Uriah).17 Indeed, his behaviour is actually celebrated as a mysterium («mystery») that foreshadows the events of the salvation. In Apol. Dav. II 5, 31, Ambrose dwells on the title of Psalm 50, which describes the psalm as having been sung following the prophet Nathan’s rebuke of David for his adultery. Ambrose’s explanation follows a scheme whereby the historia, the facts narrated in the Bible, are followed by the mysterium, their spiritual interpretation. First, he retells the historia: David happens to glance at the naked Bathsheba as she bathes, falls in love, seduces her, and has her husband killed deceitfully (6, 34). The mysteria foreshadowed in the historia are then disclosed. David’s intercourse with Bathsheba prefigures the descent of the Holy Spirit upon Saint Mary (7, 37). David, whose name means humiliatus, «humbled», is Christ, «humble by nature, humbled by mercy» (humilis per naturam, humiliatus per misericordiam), and the naked Bathsheba is both the fragility of human nature and the Church, whom Christ loves (8, 40-9, 46); indeed, Bathsheba had been subject to Uriah (as the Synagoge was to Hebrew Law), but, after Uriah was removed, she could be united with her new spouse, David (in the same way as the Church would be united with Christ) (9, 48-49). David’s intercourse with her is to be read as foreshadowing Christ’s incarnation (10, 50-53). Second, Ambrose dwells on Nathan’s rebuke of David (2 Rg 12, 1-7). According to the historia, after Uriah’s death Nathan tells David the story of a «rich man» (dives) who kills the only «sheep» (ovis) belonging to a «poor man» (pauper), to offer it to a guest; when David shows indignation, Nathan explains to him the meaning of the parable – David is the dives, who killed Uriah – and invites him to repent, reminding him of all the gifts that have been bestowed upon him by God; as a result, David acknowledges his guilt (11, 54-55). Ambrose adds that, according to the mysterium, the dives represents the Jews, the pauper the Christians, the guest sin, and the ovis Christ (11,57-59). The commentary on Ps 50 then follows (12, 62-76). In Apol. Dav. II there is only a subtle allusion to David’s kingship: «the failings of kings» (regum lapsus) are said to be «a penance for their peoples» (poena populorum), and so it is that everybody wishes to have a glorious and perfect king (11, 56).
15 Cf. Pierre Hadot, «Une source de l’Apologia David d’Ambroise: les commentaires de Didyme et d’Origène sur le psaume 50», Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques, 60 (1976), pp. 205-225. 16 After the usurper Maximus’ entry into Italy and before his death; cf. Giuseppe Visonà, «Ambrogio, Teodosio, Davide. Note sull’Apologia prophetae David e sull’Apologia David altera di sant’Ambrogio», Annali di Scienze Religiose 2 (1997), pp. 257-299: 283-290. See also H. Leppin, «Das Alte Testament…», pp. 130-134; Michele Cutino, «Strategie argomentative nell’omelia di Ambrogio di Milano sull’affare Callinico fra polemica antigiudaica e teologia politica», Auctores nostri 14 (2014), pp. 53-73: 69-73. 17 Cf. also Madeleine Petit, «Le rencontre de David et Bethsabée (2 Sam 11, 2-5, 26-27). Les interprétations des Pères des premièrs siècles», G. Dorival, O. Munnich (eds.), Selon les Septante. Hommage à M. Harl, Paris, Cerf, 1995, pp. 473-481.
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The later Apologia has been viewed as a «trattato di teologia politica ambrosia na»18 by those who consider its composition to be contemporary to Callinicum and Thessalonica.19 On closer inspection, this turns out not to be the only plausible view. As a matter of fact, in this reworking of the Apol. Dav. II, many passages, which it would seem could only be accounted for in light of a compelling imperial agenda, are actually drawn from Didymus and/or Origen.20 It is divided into two parts. In the first (1, 2-7, 40), Ambrose writes in his own voice. David is praised as, although «majestic in his royal power», he admits his fault when rebuked by Nathan, «a private citizen» (cf. Did. In psalm. 50, fr. 532 Mühlenberg)21 (2, 5): and the fact that even saints, like David, may fall, leads the weak not to despair (2, 7). God tests David in order to teach the Christians how to repent their sin (3, 9). David is described as a «type of Christ» (3, 10-3, 14): he is chosen amongst his brothers, he is anointed as a king, and – killing Goliath – he defeats the Philistines (cf. the stories carved on the doors of the basilica martyrum); to him two sons are born – one who would commit incest (Amnon), and one who would rebel against his father (Absalon) (2 Rg 13-18) –, who foreshadow Christ’s killing by his people. Again, David’s intercourse with Bathsheba is said to adumbrate Christ’s relationship to the Church. Yet David’s behaviour is all the more admirable in that he sins and repents, even though – as a king – he is not subject to the laws of man. These words, which seem applicable to Theodosius’ repentance after Thessalonica22, are drawn from the Greek sources23 (4, 15): David sinned, as kings are wont to do, but also did penance, and cried and mourned, as kings are not wont to do. He confessed his guilt and asked for forgiveness; he laid upon the ground and wept for his transgression; he fasted, prayed and – weeping publicly for his guilt – he handed down testimony of his confession for all the generations to follow. A king was not ashamed to do something that private citizens are ashamed to do. Those who are subject to laws dare deny their sin and refuse to ask for forgiveness, whereas he who was not subject to the laws of man asked for it.24 Ambrose then lists David’s «virtuous deeds, by which he could cover his sin» (6, 24). This long section (6, 24-7, 40) opens and closes with references to the love for God that allows David’s actions to cover his sins. David «loved God so much so that, by this extraordinary love, he could cover and hide all his sins» (sic dilexit 18 I. Vay, R. Cacitti, «Le porte…», pp. 93-96. 19 Among others, P. Hadot (ed.), Ambroise de Milan, Apologie de David, Paris, Cerf, 1977 (coll. Sources Chrétiennes 239), pp. 33-43. 20 See P. Hadot, «Une source…»; G. Visonà, «Ambrogio…». 21 P. Hadot, «Une source…», pp. 207-208; G. Visonà, «Ambrogio…», p. 278. 22 P. Hadot, Apologie…, p. 41 n. 93. 23 Cf. infra, on 10, 51. 24 Peccavit David, quod solent reges, sed paenitentiam gessit, flevit, ingemuit, quod non solent reges, confessus est culpam, obsecravit indulgentiam, humi stratus deploravit aerumnam, ieiunavit, oravit, confessionis suae testimonium in perpetua saecula vulgato dolore transmisit. Quod erubescunt facere privati, rex non erubuit confiteri. Qui tenentur legibus audent suum negare peccatum, dedignantur rogare indulgentiam, quam petebat qui nullis legibus tenebatur humanis.
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Dominum, ut nimia caritate peccatum omne tegeret atque absconderet: 6, 25); he is compared to Peter (Io 21, 15-17), whose threefold denial is covered by «the veil of his threefold confession of love» (trino quodam dilectionis velamine). At 7, 40, we read that David «loved much, such that he could cover any wrongdoing by means of his extraordinary love» (Dilexit multum, ut nimia caritate tegere quemvis posset errorem). David’s deeds are recounted: that he defeated Goliath (6, 26; 7, 33), that he spared Saul’s life and waited for the proper time to accept the crown (6, 27), that he danced before the Ark of the Covenant (6, 28), that he mourned Absalon’s death (6, 29), that he endured Semei’s invective (6, 30-32), that he mourned his enemy Abner’s death, that he repented for the census carried out against God’s will (2 Rg 24, 10-17) (6, 37-38). A number of these episodes are carved on the doors of the basilica martyrum.25 In the second part (8, 41-17, 82), the words of Psalm 50 are placed in the mouth of David. The arithmological explanation of the number fifty as a symbol of forgiveness (8, 42) is drawn from Didymus,26 although Didymus makes only a passing reference to the parable of the two debtors, one of whom is excused a debt of fifty denarii while the other is excused a debt of five hundred. In contrast, Ambrose quotes the whole parable (Lc 7, 41-43), including Jesus’ final question: «and hence, who loves him [scil. the good creditor] more?» (quis ergo eum plus diligit?). He then provides a commentary on the Psalm (8, 43-17.80). At 8, 49-50, the theme of the love that makes the sinner worthy of forgiveness surfaces again, in a section that is entirely of Ambrose’s own devising:27 caritas redeems sin, as shown by the Gospel’s mulier peccatrix (Lc 7, 36-50), who anoints Christ’s feet (indeed, «her many sins are forgiven, because she has loved much», Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum [Lc 7, 47]), and by Peter, whose threefold confession of love is mentioned: «Simon, son of John, do you love me?» […] «You know well, Lord, that I love you» […] «Simon, son of John, do you love me?» […] «You know, o Lord, that I love you» […] «Simon, son of John, do you love me?» […] «you know that I love you» (Io 21, 17-19)28. Further below, when the author comments on Ps 50, 6 («I have sinned against you [scil. God] alone»), David’s being a king, not subject to human law, is mentioned again, following the model of the Greek sources29 (10, 51): He was a king, he was not subject to laws, as kings are free from the obligations incurred through wrongdoings; in fact, they are not punished according to the laws, because they are protected by their royal power. […] Yet, although defended by 25 See above, n. 11. 26 P. Hadot, «Une source…», pp. 210-212. 27 P. Hadot, «Une source…», p. 214. 28 «Simon Iohannis, diligis me?»… «Utique tu scis, domine, quia diligo te»… «Simon Iohannis, diligis me?»… «Tu scis domine quia amo te»… «Simon Iohannis, amas me?»… «Tu nosti quia amo te». 29 Cf. e.g. Did. In psalm. 50, fr. 538 Mühlenberg (Hadot, «Une source…», pp. 214-215; Id. 1977, Apologie, p. 53; G. Visonà, «Ambrogio…», pp. 277-278). The theme of the repentant king features also at 16, 75-77, where Ambrose remarks that David, «although a king, is acknowledged as guilty by his own conscience» (quamvis rex, suae tamen reus sit conscientiae).
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his status as king, he was nevertheless subject to God because of his devotion and faith, and, as he knew he was subject to His law, he could not deny his own fault.30 God is put on trial and all Christians are called to preside as judges, and asked to consider all of the gifts they have received from Him: God’s words to Israel, reported by prophet Micah (Mi 6, 3-4: «My people, what have I done to you?») and Nathan’s words to David, listing the benefits granted by God (2 Rg 17, 7-9), are quoted (10, 54). Then, again, Ambrose hints at David giving up his royal privilege and leaving a public and eternal memory of his repentance (11, 56): He lay on the ground, weeping; he gave up eating and bathing. He also gave up any royal apparel and retinue. He added the confession of his sin and he handed it down to be preached to all generations all over the world.31 Lastly, in 17, 81, it is as though the words of Ps 50, 18-19 are spoken by Christ, who is described as a «true David,… truly humble and mild» (verus David,… verus humilis atque mansuetus). All in all, the theme of David’s status as king is found only in Apol. Dav. I, where its presence is in part accounted for by the example of the Greek sources. Furthermore, we notice a biblical thread linking David, the repentant sinner (2 Rg and Ps 50), to the mulier peccatrix and the two debitores (Lc 7), and to Peter (Io 21). Ambrose, especially when he does not follow his sources, adopts a cento-like technique, gathering biblical passages featuring diligere/dilectio (and their synonyms amor/caritas) to support the view that only love for God, rooted in gratitude, makes man worthy of forgiveness. The same scriptural quotations appear slightly later in two works that are not addressed explicitly to the emperor: the Expositio in Lucam and the De paenitentia. The Expositio in Lucam cannot be dated exactly, but is later than the Apologia David, which is referred to in III, 38. Book 3 is devoted to the explanation of Christ’s genealogy in Matthew and Luke. In III, 36-39, Matthew’s mention of Uriah’s wife amongst Christ’s ancestors is justified: Bathsheba is not omitted, as Christ acknowledges the humbleness of his carnal origin; he comes to redeem all sinners, and it is from among all sinners that he gathers his flock, the Church (36); again, Bathsheba is said to represent the Church, who receives David/Christ as her second husband, after having been married to Uriah/Law (38). In Book 6 (12-35), the episode of the mulier peccatrix (Lc 7, 36-50) is merged with that of a banquet in Bethany, in which a woman anoints Christ’s head in the house of Simon the Leper (Mt 26, 6-13). There is no contradiction between the two Gospels, as they might refer to women who differ in their degrees of spiritual development:
30 Rex utique erat, nullis ipse legibus tenebatur, quia liberi sunt reges a vinculis delictorum; neque enim ullis ad poenam vocantur legibus tuti imperii potestate… Sed quamvis tutus imperio, devotione tamen ac fide erat Deo subditus et legi eius subiectum se esse cognoscens peccatum suum negare non poterat. 31 Humi stratus iacuit fusus in lacrimas, cibum non gustavit, lavacro se abdicavit. Quod iam reliqua dicam, quod abstinuerit ornatu et comitatu regio? Adiunxit confessionem iniquitatis suae et in perpetua saecula toto canendam orbe transmisit. P. Hadot, Apologie…, p. 41, n. 93, believes this is an addition dating from 390.
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the woman in Luke (who is said to be a sinner, and takes care of Christ’s feet) is like those who have yet to renounce sin, whereas the woman in Matthew (who is not said to be a sinner, and takes care of His head) is perfect (16). The passage ends with a passionate exhortation to sinners to seek Christ and to pay homage to him (17-21). Again, Ambrose’s focus is on dilectio: the Church’s love for Christ in all her members, including Peter and Paul (22): Therefore, nobody can love more than the one [scil. the Church] who loves in many [scil. in all her members]. Not Peter, who said to Him «Lord, you know that I love you»… Not Peter who moaned when he was asked «do you love me?»… Therefore, neither Peter – as the Church loves in Peter – nor Paul – as Paul is himself part of Her.32 All the Faithful are invited to love Christ: And you, love much, so that much be forgiven to you! Paul sinned much, in that he was a persecutor, but he loved much, in that he stood firm until martyrdom. His many sins were forgiven, because he loved much, he who was willing to give his life for God’s sake.33 Shortly afterwards, the parable of the two debtors is mentioned. The two debtors represent the Jews, who owe less, and the Christians, who owe more and, therefore, have to love more (23-26). Man cannot recompense God, who let Jesus die for man’s salvation. The only way to reward Him is to love (26): Therefore, as there is no way we can reward God, […] woe to me, if I will not love! I dare say that Peter could not reward God, and therefore he loved; Paul did not reward Him: he rendered his death for Christ’s death, as he owed much.[…] Even if we render cross for cross, death for death, can we reward him for the fact that it is from him, through him and in him that we have everything? Therefore, let us give love as our debt, charity as our gift, gratitude as if it were our money: he loves more, to whom more has been (for)given.34 Finally, Christ’s attitude towards the woman is described as dilectio: «the Lord loved her love, he accepted her faith, he approved of her humbleness» (dominus… caritatem dilexit, fidem suscepit, humilitatem probavit: 28).
32 Et ideo nemo potest tantum diligere quantum illa quae in pluribus diligit. Nec Petrus ipse, qui ei dixit: «Domine, tu nosti quia diligo te», nec Petrus ipse, qui doluit quia interrogatus est: «Amas me?»… Ergo nec Petrus ipse, quia ecclesia dilexit in Petro, nec Paulus ipse, quia Paulus quoque eius est portio. 33 Et tu plurimum dilige, ut et tibi remittatur plurimum. Multum peccavit Paulus, qui etiam persecutor fuit, sed multum dilexit, qui usque ad martyrium perseveravit. Remissa sunt ei peccata multa, quia et ipse multum dilexit, qui sanguini proprio pro Dei nomine non pepercit. 34 Et ideo, quoniam nihil est quod digne Deo referre possimus… vae mihi, si non dilexero! Audeo dicere: non reddidit Petrus et ideo plus dilexit, non reddidit Paulus; reddidit quidem mortem pro morte, quia multa debebat… Reddamus licet crucem pro cruce, funus pro funere, numquid reddimus quod ex ipso et per ipsum et in ipso habemus omnia? Reddamus ergo amorem pro debito, caritatem pro munere, gratiam pro pecunia: plus enim diligit cui donatur amplius.
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The De paenitentia was conceived as a treatise against the Novatians. It can be dated to 389 at the latest, as it makes no mention or allusion to the emperor’s repentance after Thessalonica, which would have been an irresistible subject. In II, 6, 50, Ambrose takes his cue from the exemplum of David, who, mourning his sin – the census – obtains God’s mercy for himself and for his people: Ambrose reads (II, 7, 52-65) Lazarus’ resurrection (Io 11) as the sinner’s deliverance from the tomb of sin, which takes place within the Church. This principle was anathema to the Novatians, who are likened to those who, immediately following the miracle, report Jesus to the Pharisees. The episode of Lazarus culminates in a banquet in Bethany, during which Lazarus’ sister, Mary, anoints Christ’s feet – again, a symbol of the sinner being purified – while Judas objects to the misuse of the expensive ointment (Io 12, 1-11). There follows the most meaningful passage (II, 8, 66-79): the explanation of the episode of the mulier peccatrix, which is possibly evoked for Ambrose by the similarity with Mary’s anointment of Christ. Ambrose wishes he could be like that woman, who washes away her sins by her tears, so that it be said about him also that «his sins which are many are forgiven, because he loved much» (8, 67: Remissa sunt eius peccata multa, quia dilexit multum). Indeed, much has been given to him, as he has been called to priesthood from secular life, and thus his huge debt towards God urges him to love: «I fear that I may be found ungrateful, if I, to whom more has been forgiven, love less» (vereor, ne ingratus inveniar, si minus diligam, cui plus dimissum est). The merging of the episodes – Lazarus’ resurrection and the mulier peccatrix – leads to an unexpected development: if the sinner does not act like this woman, it is Christ himself who weeps for the sinner – as he did with Lazarus – and calls him out of the tomb of sin. Let us move on to the works in which Ambrose presents David as typus regis (i.e. typus Theodosii35) in response to Callinicum and Thessalonica.36 In August 388, a synagogue was burnt by Christians in Callinicum, and the local bishop was ordered by Theodosius to rebuild it at his own expense. In December 388, Ambrose wrote to Theodosius (Epist. 74) to persuade him to forgive the bishop. Using a prosopopaeia, whereby he wrote as though from the perspective of Christ, he addressed to Theodosius a revised version of Nathan’s speech
35 Cf. H. Herkommer, «Typus Christi…», pp. 392-393; Hubert Bellen, «Christianissimus imperator. Zur Christianisierung der römische Kaiserideologie von Konstantin bis Theodosius», Id., Politik – Recht – Gesellschaft. Studien zur alte Geschichte, Stuttgart, Steiner, 1997, pp. 153-166, which focuses on Constantine, who is depicted by Eusebius as a new Moses after the victory at the Pons Milvius, and Theodosius, who is portrayed by Ambrose as a new David. 36 On Ambrose acting as Theodosius’ externalized consciousness in 388-390, see Hartmut Leppin, «Ein Bischof redet dem Kaiser ins Gewissen: Ambrosius und Theodosius», M. Delgado, V. Leppin, D. Neuhold (eds.), Ringen um die Wahrheit: Gewissenskonflikte in der Christentumsgeschichte, Stuttgart, Kohlhammer, 2011, pp. 83-93.
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to David, spelling out at length the benefits and blessings God has bestowed upon the emperor (22: «I have chosen thee the youngest of thy brethren […] I caused thee to triumph over the enemy»). The more one has received, the more one has to love: «I have […] enumerated these things as rightly bestowed, in order that, prompted by them, you, to whom more has been given, may love more» (24: Itaque illa tibi […] quasi iure collata enumeravi, ut his admonitus cui plus collatum est, plus diligas). The mulier peccatrix of Luke 7, who is «a type of the Church», loves much because much has been forgiven to her: «her sins which are many are forgiven, since she loved much. But he to whom less is forgiven loveth less» (Remissa sunt peccata eius multa quoniam dilexit multum. Cui autem minus dimittitur, minus diligit). The sinner woman is the Church, who dilexit multum Christ and «shut out» (exclusit) the Synagogue. Therefore, Theodosius should not allow the Synagogue to shut the Church out of his own faithful heart by complying with the Jews’ requests for punishment. As Ambrose’s attempt to urge Theodosius to forgiveness was not successful, he rebuked the emperor in a public homily, reported in Epist. e.c. 1. Ambrose opens the homily by reiterating the role of (his own) «prophetic or priestly authority» (prophetica vel episcopalis auctoritas) as that of advising what is appropriate (2-4). The episode of the mulier peccatrix, including the parable of the two debtors, is read fully and explained at length (5-26), with emphasis on Jesus’ words deeming the mulier, i.e. the Church, who pays homage to Christ, as different from the master of the house, a Pharisee, i.e. the Synagogue, who does no more than welcome him into his house. The mulier teaches that Christ bestows us with abundant grace and gifts, in order that we reciprocate: as Christ’s death has delivered man from his previous creditor – the devil – by granting forgiveness, every man should act as a good creditor with his own debtors and forgive them. Furthermore, by washing Christ’s feet, the mulier shows that sins should be forgiven even to the humblest. Most importantly, she symbolizes the Church, «who waited for him [scil. Christ], who loved him» (14: quae expectavit, quae dilexit), as opposed to Judaism, whose kiss is compared to Judas’ kiss: «When love is not, faith is not, and affection is not, what sweetness can there be in kisses?» (17: ubi non est amor, non est fides, non est dilectio; quae potest esse suavitas osculorum?). The words of Micah (Mi 6, 3-4: «O my people, what have I done to thee?»; cf. Apol. Dav. I 10, 54), lamenting the Jews’ inconstancy, and Nathan’s words, listing the benefits granted by God and inviting David to express gratitude (2 Rg 17, 7-9), are then quoted at length (24-25). Theodosius, as he owes much to God, should also imitate the mulier and, «in love for His body, that is, the Church» (26: corpus […], hoc est ecclesiam, diligendo), pay homage to Christ, forgiving the Christians in Callinicum, who have sinned. Epist. e.c. 11 is a private letter to Theodosius («I am writing with my own hand that which you alone may read»: 14), written after the massacre perpetrated in
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Thessalonica on the emperor’s command in the spring of 390.37 Theodosius is informed of his excommunication and urged to do public penance.38 Ambrose refers to himself as a sacerdos addressing an errans (4: «he who errs»). He presents Theodosius with two emblematic demeanours exhibited by «the royal prophet David, the forefather of Christ, according to the flesh» (7: rex propheta auctor Christi secundum carnem prosapiae). First, when Nathan tells him the parable of the dives and the pauper, he recognizes his sin. «Bear it, then, without impatience, o emperor, if it be said to you: You have done that which was spoken of King David by the prophet» (7). Second, David – having been rebuked by the prophet Gad (mistakenly referred to as Nathan) after the census – repents and averts God’s punishment of his innocent people: «by that humbling of himself he became more acceptable to God» (9: ea humilitate acceptior Deo factus est). Ambrose beseeches Theodosius to remove this sin from his kingdom: «you will do it away by humbling your soul before God» (11: tolles autem humiliando Deo animam tuam). Ambrose insists on the parallel between himself as a propheta and Theodosius as a sanctus David: «[b]ut thanks be to the Lord, who willeth to chastise his servants, that he may not lose them. This I have in common with the prophets, and you shall have it in common with the saints» (16). Overall, Thessalonica is the great opportunity history presented to the bishop to cite the humilitas of David, the king and repentant sinner, as a virtue befitting an emperor. As Bellen puts it, this is «die spektakulärste Neuerung» in late ancient «Kaiserideologie».39 The Davidization of the imperial paradigm culminates in the De obitu Theodosii, in which Theodosius is – albeit implicitly40 – portrayed as the true David. Other scholars have rightly pointed out that this work should be placed within its liturgical framework, as the biblical passages read during the liturgy – among them, Psalm 114 – provide Ambrose’s sermo41 with a structural principle. Ambrose Davidizes 37 Cf. Stanislav Dolezal, «Rethinking a massacre: what really happened in Thessalonica and Milan in 390?», Eirene 50 (2014), pp. 89-107; Dolezal re-examines the sources, arguing that the role played by Theodosius has been perhaps overestimated. See also N. McLynn, Ambrose…, pp. 316-323. 38 An act most commonly viewed as an «exhibition enacted before the Christian community of Milan», which reveals «Ambrose as the supreme impresario of the Christian empire», as McLynn puts it (Ambrose…, pp. 323, 330). However, as Leppin correctly observes, («Das Alte Testament…»), this public penance also offers the Christian emperor a way out of trouble, resolving the charge of having had thousands of people unjustly murdered. 39 H. Bellen, «Christianissimus imperator…», pp. 162-166: 162. On pagan vs. Christian humilitas, see Albrecht Dihle, Demut, RAC, III, Stuttgart, Hiersemann, 1957, coll. 735-778. An oxymoronic sublimis humilitas is ascribed to Gratian in Ambr. Epist. e.c. 12, 4 (ad 380) (H. Leppin, «Das Alte Testament…», p. 127 n. 32). I would like to emphasize humilitas as a biblical innovation, rather than point to the continuity or overlap between pagan and Christian royal virtues, an aspect considered by Franca Ela Consolino, «L’optimus princeps secondo S. Ambrogio. Virtù imperatorie e virtù cristiane nelle orazioni funebri per Valentiniano e Teodosio», Rivista Storica Italiana 96 (1984), pp. 1025-1045: 1039-1045. 40 David’s name is not mentioned. 41 Cf. Yves-Marie Duval, «Formes profanes et formes bibliques dans les oraisons funèbres de Saint Ambroise», M. Fuhrmann, Christianisme et formes litteraires de l’antiquite tardive en Occident, Vandoeuvres – Genève, Fondation Hardt, 1977, pp. 235-301: 274-286 (Duval also supports an entirely biblical foundation for Theodosius’
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Theodosius not only by having the emperor’s story overlap with the story of David (sin, obedience to the prophet/sacerdos, public penance), but also by having him repeat David’s Dilexi, a word that is «pregnant with meaning» and that is to be read in the light of its exegetical history throughout Ambrose’s works. The exegesis of Psalm 114 is developed in two sections (17-32; 33-38). Firstly, as we are reminded of the words of Psalm 114, we hear them echoed in the imagined words of Theodosius (17-32). The keyword is Dilexi, which is an individual confession by a person of faith rather than the expression of an emperor’s virtue:42 Hence the Psalmist has said beautifully: «I have loved, because the Lord will hear the voice of my prayer» [Ps 114, 1]. While this psalm was being read, we heard, as it where, Theodosius himself speaking. «I have loved», he says. I recognize his pious voice and I recognize also his testimonies. And truly has he loved who fulfilled his duties diligently, who spared his enemy, who loved his foes, who pardoned those by whom he was entreated, who did not even allow those who strove to usurp his power to perish. That voice is one not partially, but fully perfected in the Law, saying: «I have loved. For love is the fulfillment of the law» [Rm 13, 10]. But let us hear what he has loved. When the kind of love is not mentioned, surely the grace of divine charity is signified, whereby we love what is to be desired above all desirable things. Of this it is written: «Thou shalt love the Lord thy God» [Deut 6, 5].43 Dilectio, defined as love towards God, is the word that is most fully embodied in Theodosius’ life (18): Thus the good soul, on departing from earth and filled with the Holy Spirit, when questioned, as it were, by those who hastened to meet it as it rose to the high and lofty regions above, kept saying: «I have loved». Nothing is fuller than this, nothing is clearer. Angels and archangels asked repeatedly: «What have you done on earth?»… The soul kept saying: «I have loved».44 Peter’s threefold confession of love for Jesus (Io 21, 15-17) is then re-enacted by Theodosius (19):
humilitas: p. 277 and n. 42); Martin Biermann, Die Leichenreden des Ambrosius von Mailand: Rhetorik, Predigt, Politik, Stuttgart, Steiner, 1995, pp. 143-150 (Ps 114 is defined as «das Kernstück der Predigt» on p. 150). 42 As rightly argued by M. Biermann, Leichenreden…, p. 115. 43 Unde pulchre psalmista dixit: «Dilexi, quoniam audiet dominus vocem orationis meae». In quo psalmo, dum legitur, velut ipsum Theodosium loquentem audivimus. «Dilexi», inquit; agnosco vocem piam, cuius testimonia vocis agnosco. Et vere dilexit, qui officia diligentis implevit, qui servavit hostes, qui dilexit inimicos, qui his, a quibus esset appetitus, ignovit, qui regni adfectatores perire non passus est. Non mediocris sed perfecti in lege vox ista est dicere: «Dilexi»; plenitudo enim legis dilectio est. Sed quid dilexerit audiamus. Cum tacetur genus dilectionis, utique divinae caritatis gratia significatur, qua diligimus illud, quod est super omnia desiderabilia desiderabile, de quo scriptum est: «Diliges dominum Deum tuum». 44 Ergo discedens e terris pia anima et sancto repleta spiritu quasi interrogantibus his, qui sibi occurrerent, cum sese ad sublimia et superna subrigeret, dicebat «Dilexi». Nihil hoc plenius, nihil expressius. Interrogabant angeli vel archangeli, «Quid egisti in terris?»; dicebat «Dilexi».
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The Lord Jesus also teaches in the Gospel that this commandment of the Law must be observed, when He says to Peter: «Simon, son of John, dost thou love me?». And he answered: «Thou knowest, Lord, that I love Thee». And He said a second time: «Simon, son of John, dost thou love me?». And again he answered: «Yea, Lord, Thou knowest that I love Thee». And when asked a third time, said: «Lord, Thou knowest all things, Thou knowest that I love Thee». And so his threefold answer confirmed his love and effaced the fault of his threefold denial. And here, if we seek, we find the threefold answer: «I have loved, because the Lord will hear the voice of my prayer» [Ps 114, 1]. I have loved since «He has inclined His ear to me», that «in my day» I might call upon Him [Ps 114, 2]. I have loved because «I have found tribulation and sorrow», and for the sake of my God I have not fled «the dangers of hell» [Ps 114, 3].45 In his explanation of Ps 114, 2 (22: «“I have loved”, he said, and therefore, “with love I have done the will of the Lord, and I have called upon Him not on a few, but on all days of my life”»; Dilexi, et ideo diligens «feci voluntatem domini» et «invocavi» eum non in paucis sed «in omnibus diebus vitae meae»), Ambrose underlines that man must always thank God, being a diligens debitor (one who pays «debts through love») towards Him. The Davidization of Theodosius continues with his assimilation to Christ, a model of humilitas (27-28): «Behold it is I that I have sinned, and I the shepherd have done wickedly; and these in this flock, what have they done? Let thy hand be against me» [2 Rg 24, 17]. Well does he say this who made his kingdom subject to God and did penance and, having confessed his sin, asked pardon. He attained salvation through humility. Christ humbled himself to raise up all, and whoever follows the humility of Christ attains the rest of Christ. And so because Theodosius, the emperor, showed himself humble and, when sin had stolen upon him, asked for pardon, his soul has turned to its rest.46 A progression to a kind of culmination is established: from David, to Christ, to Theodosius. Finally, the emperor is declared to have earned eternal beatitude, by his love for God (32): Theodosius of august memory now enjoys perpetual light and lasting tranquillity, and in return for what he did in this body he rejoices in the fruits of a divine 45 Hoc mandatum legis etiam in evangelio dominus Iesus docet esse servandum, cum dicit ad Petrum: «Simon Iohannis, diligis me?», Et ille respondit: «Tu scis domine quia diligo te». Et iterum dixit: «Diligis me?», Et iterum respondit: «Etiam domine, tu scis quia diligo te». Et tertio interrogatus ait: «Domine, omnia tu scis, tu nosti quia amo te». Confirmavit itaque caritatem trina responsio vel abolevit trinae negationis errorem. Et hic trinam responsionem si quaerimus, invenimus: «Dilexi, quoniam audiet dominus vocem orationis meae», dilexi quoniam «inclinavit aurem suam mihi», ut «in diebus meis» invocarem eum, dilexi, quia «tribulationem et dolorem inveni» et pro nomine Dei mei «pericula inferni» non refugi. 46 «Ecce sum ego; peccavi et ego pastor male feci, et isti in hoc grege quid fecerunt? Fiat manus tua in me». Bene hoc dicit [scil. David], qui regnum suum Deo subiecit et paenitentiam gessit et peccatum suum confessum veniam postulavit. Ipse per humilitatem pervenit ad salutem. Humiliavit se Christus, ut omnes elevaret. Ipse ad Christi pervenit requiem, qui humilitatem fuerit Christi secutus. Et ideo, quia humilem se praebuit Theodosius imperator et, ubi peccatum obrepsit, veniam postulavit, conversa est anima eius in requiem suam.
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reward. Therefore, because Theodosius of august memory loved the Lord his God, he has merited the companionship of the saints.47 Secondly, it is Ambrose who repeats the Dilexi of Ps 114, 1 (33-38), the object of his dilectio being Theodosius. The passage is strongly reminiscent of Apol. Dav. I 4, 15 (quoted above);48 indeed, only those who know that passage can appreciate the process of Davidization that is accomplished here, as David’s name is not mentioned (33-35): I have loved a merciful man, humble in power, endowed with a pure heart and a gentle disposition… I have loved a man who esteemed a reprover more than a flatterer. He threw on the ground all the royal attire that he was wearing, he wept publicly in church for his sin, which had stolen upon him through the deceit of others. He prayed for pardon with groans and with tears. What private citizens are ashamed to do, the emperor was not ashamed to do, namely, to perform penance publicly, nor did a day pass thereafter on which he did not bemoan that fault of his. Need I mention also that when he gained an illustrious victory, yet because the enemy lay fallen in battle, he abstained from participation in the sacraments until he recognized the grace of God towards him in the arrival of his children? I have loved a man who in his dying hour kept asking for me with his last breath. I have loved a man who, when he was already being released from the body, was more concerned about the condition of the Church than about his own trials. I have loved him, therefore, I confess, and for that reason I have suffered my sorrow in the depths of my heart, and thought to be consoled by the delivery of a lengthy discourse. I have loved, and I presume upon the Lord that He will receive the voice of my prayer [cf. Ps 114, 1], with which I accompany this pious soul.49 When explaining the number of the Psalm (37-38), Ambrose says that 14 symbolizes the man who is still subject to sin, while 114 symbolizes perfection and the «recompense of love» (remuneratio caritatis); moreover, after mentioning Easter – which is celebrated on the fourteenth day of the month of Nisan – he takes this as his cue once again to emphasize dilectio, as he who celebrates Easter ought to be perfect. He should love the Lord Jesus who, cherishing His people with perfect love, offered Himself in His passion. And let us so love that, if there
47 …fruitur nunc augustae memoriae Theodosius luce perpetua, tranquillitate diuturna, et pro his, quae in hoc gessit corpore, remunerationis divinae fructibus gratulatur. Ergo quia dilexit augustae memoriae Theodosius dominum Deum suum, meruit sanctorum consortia. 48 Cf. G. Visonà, «Ambrogio…», pp. 292-293. 49 Et ego… dilexi virum misericordem, humilem in imperio, corde puro et pectore mansueto praeditum. Dilexi virum, qui magis arguentem quam adulantem probaret. Stravit omne, quo utebatur, insigne regium, deflevit in ecclesia publice peccatum suum, quod ei aliorum fraude obrepserat, gemitu et lacrimis oravit veniam. Quod privati erubescunt, non erubuit imperator, publicam agere paenitentiam, neque ullus postea dies fuit quo non illum doleret errorem. Quid quod praeclaram adeptus victoriam, tamen, quia hostes in acie strati sunt, abstinuit a consortio sacramentorum, donec domini circa se gratiam filiorum experiretur adventu? Dilexi virum, qui me in supremis suis ultimo spiritu requirebat. Dilexi virum, qui cum iam corpore solveretur, magis de statu ecclesiarum quam de suis periculis angebatur. Dilexi ergo, fateor, et ideo dolorem meum intimo viscere dolui et prolixiore sermonis prosecutione solandum putavi. Dilexi et praesumo de domino, quod suscipiat «vocem orationis meae», qua prosequor animam piam.
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should be need, we shall not avoid death for the name of the Lord, we shall not have thought for my suffering, and we shall fear nothing, for «perfect love casts out fear» [1 Io 4, 18].50 Therefore, Theodosius himself is praised: he, «who removed sacrilegious errors, closed temples, destroyed idols», was able to celebrate Easter perfectly. A survey of Ambrose’s works from 388-390 reveals the importance of David, who is singled out as a model for both the common Christian and the Christian emperor.51 Rooted as it is in love for God, David’s humilitas is a Christian virtue rather than a moral weapon which Ambrose cunningly devises and to which he resorts in a calculated response to the events of 388-390. All in all, «die rigorose Auffassung, die der Mailänder Bischof von einem christilichen Leben in allen Handlungen und Predigten propagiert, [gilt] auch für den Kaiser».52 Accordingly, the De obitu Theodosii should not be read as a merely political speech. It is a homily addressed by a sacerdos to a (dead) imperator and to his sons, preached within a religious context and strongly shaped by liturgical readings. Amongst them, Psalm 114 is better understood in the light of the scriptural quotations brought to mind by the word dilexi, which is to be read first of all as a personal confession of faith. Most importantly, the emphasis on dilexi shows that love for God forms the core of the life of any Christian, and thus also of the figure of the emperor portrayed in the text. However, it is undeniable that biblical quotations have also been used to renegotiate the image of the emperor. Theodosius – his life, victories, death and succession – is viewed as part of the sacred history of God’s relationship with his people, which is told in the Scriptures (David, Christ) and which continues to be told in Ambrose’s own times (Theodosius).53 It is in the light of David’s (scriptural) experience that sin is shown to be part of this history of salvation, and humbleness – paradoxically – is revealed to be a royal virtue. Within this context, the doors of the basilica martyrum will perhaps no longer appear to be a mere political manifesto but rather part of Ambrose’s global programme of scriptural catechesis, which shapes both the intellectual and the physical space of the Christian capital in which he lives. 50 Debet esse perfectus, debet amare dominum Iesum, qui diligens populum suum perfecta caritate sese obtulit passioni. Et nos sic diligamus ut, si necesse fuerit, pro domini nomine mortem non fugiamus, nullum aestimemus dolorem, nihil metuamus: perfecta enim caritas timorem expellit foras. 51 See also the two references to David which are found in Paulinus’ Life of Ambrose: «So that the penitent may not do things to repent of, let him also humiliate his soul as did the holy David who, after he heard from the prophet: “Your sin has been forgiven”, so humbled himself in correcting his sin that he ate ashes like bread and mingled tears in his drink» (39); (after Thessalonica, when the bishop prevents the emperor from entering the church) «The emperor defended himself to him by observing that David had committed both adultery and murder. But the immediate response was: “If you have followed him in his sin, then follow him in his amendment”» (24). 52 Markschies, «Ambrosius», pp. 140-141 on Theodosius’ penance after Thessalonica. 53 Bénédicte Gerbenne, «Modèles bibliques pour un empereur: le De obitu Theodosii d’Ambroise de Milan», Rois et reines de la Bible au miroir des Pères, Strasbourg, Centre d’analyse et de documentation patristiques, 1999, pp. 161-176.
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El e na malaspina
Et exemplis et ratione Riferimenti biblici nei colloqui di Avito di Vienne con Gundobado
La (cattiva) fama di Gundobado è stata a lungo affidata principalmente alla storiografia filofranca, a partire da Gregorio di Tours, ma l’epistolografia può recuperare aspetti autentici di una personalità sicuramente complessa qual è quella di questo sovrano burgundo († 516). Uomo d’arme secondo il costume nazionale, da giovane aveva raggiunto alte cariche nell’esercito romano, seguendo in Italia lo zio materno Flavio Ricimero e affiancando gli imperatori Olibrio e Glicerio. Ma alla morte del padre Gundioc (473) Gundobado era tornato in patria per assumere la successione insieme ai fratelli Godegisilo, Chilperico il Giovane e Godomaro. In seguito alla loro morte Gundobado rimase unico sovrano a Lione, mentre il figlio Sigismondo risiedeva a Ginevra. Gregorio di Tours avalla l’accusa di una responsabilità di Gundobado riguardo alla morte di Chilperico e di sua moglie1, probabilmente cattolici: ma l’accusa appare smentita da una lettera di Avito (Epist. 2)2 a Gundobado stesso: in questa lettera Avito, evocando, dopo il 501, il lutto del re per la morte dei fratelli3, non accenna a sospetti circa una qualche responsabilità di Gundobado nemmeno per la recente morte di Godegisilo, ucciso a Vienne insieme al vescovo ariano locale (501) dopo essersi ribellato al fratello maggiore, su istigazione del re franco Clodoveo; la vicenda è narrata dallo stesso Gregorio di Tours4. A Clodoveo, di cui era tributario5 e poi (507), dopo varie esitazioni, alleato, Gundobado aveva dato in moglie la nipote Clotilde6, figlia di Chilperico (c. 502 o 492/493?).
1 Greg. Tur. Franc. 2, 28, ed. Bruno Krusch, Hannoverae, Hahnsche Buchhandlung, 1937-1951 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Scriptores Rerum Merovingicarum I/1), p. 73, 8-9. 2 Per la numerazione delle Lettere di Avito e per le citazioni dei testi faccio riferimento a: Avit de Vienne, Lettres, Introduction et texte établi par Elena Malaspina, Traduction et notes par Marc Reydellet, Paris, Les Belles Lettres, 2016 (coll. CUF). 3 Alc. Avit. epist. 2, 4, p. 11: Flebatis quondam pietate ineffabili funera germanorum. 4 Greg. Tur. Franc. 2, 32-33, pp. 78, -81, 7. 5 Cf. ibid. 32-33, p. 80, 8 ss. 6 Cf. ibid. 2, 28, p. 73 s. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 57-68 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124801
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e l e n a m a l a sp i n a
Risulta essere stata cattolica anche la moglie di Gundobado, che oggi si torna a identificare con la Caretene7 il cui epitaffio informa che ella si dedicò a vita ascetica8 e morì a Lione nel 506 (quindi dieci anni prima di Gundobado), dopo aver ottenuto l’adesione alla fede nicena da parte del figlio e dei nipoti9: essi vengono così identificati con Sigismondo e i suoi due figli. Benché tradizioni medievali filofranche10 parlino di una scomunica inflitta da Avito a Gundobado, di fatto il re non risulta essersi opposto alla conversione del figlio e dei nipoti: del resto essa poteva risultare utile anche in ordine alla necessità di mettere sotto l’egida bizantina il regno burgundo, schiacciato fra le aspirazioni egemoniche di Goti e Franchi. Ma da parte di Gundobado la personale confessio della fede nicena non si trasformò mai in pubblica professio11, probabilmente per i delicati equilibri di politica interna; ciò che il vescovo però apprezzava nel re, messo alle strette da opposti interessi, era l’interesse religioso (studii pietas)12 e il desiderio di imparare mediante l’ascolto attento della parola di Dio, che alimentava il suo sensus fidei, sollecitandolo così alla professione di fede: …ne deinceps coram vobis putentur docere, qui renuunt discere; ne, ad perfectionem vestram aliquatenus differendam, persistant blasphemare quod audiatis, qui nolunt sentire quod creditis; ne tolerando imperitorum versutias et ineptias callidorum suspendamini a professione, cum iamdudum in confessione teneamini13. I rapporti di Gundobado con Avito, per quanto possiamo intravvedere da quel che ci resta dell’epistolario del vescovo di Vienne, ci attestano il tormentato percorso interiore del re e anche i propositi di vita ascetica che contrassegnarono i suoi ultimi anni14, quando ormai Gundobado delegava compiti militari15 e diplomatici16 al figlio Sigismondo. E del resto anche da giovane17, nonostante la sua carriera di uomo d’arme, Gundobado sembra essere stato appassionato lettore, con una predisposizione alla riflessione morale: Avito (Epist. 2, 1, p. 10) parla infatti di una sua mens philosophica. Per tutto lo scambio, intercorso tra Avito e Gundobado18, di argomentazioni, anche scritte, riguardanti problemi teologici, la base scritturistica è comprovata dalla documentazione che ce ne resta sia in lettere provenienti dalla corrispondenza tra
7 Cf. Vita Marcelli Diensis 9, ed. François Dolbeau, La vie en prose de saint Marcel, évêque de Die, «Francia» 11, 1983, pp. 97-130, in part. p. 124. 8 Epitaphium Caretenes, v. 16, Alcimi Aviti Opera ed. Rudolf Peiper, Berolini, apud Weidmannos, 1883 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi. VI/2), p. 185. 9 Cf. ibid., vv. 16 s. 10 Cf. Rab. Maur. app., ed. Ernst Dümmler, Berolini, apud Weidmannos, 1899 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistolae. 5), p. 526, 16 s.; Agob. adv. legem Gundob. 13, ed. Liever von Acker, Turnholti, Brepols, 1981 (coll. Corpus Christianorum Continuatio Mediaeualis 52), p. 27. 11 Cf. Greg. Tur. Franc. 2, 34, pp. 81, 14-82, 17. 12 C. Eutych. 1, Alcimi Aviti Opera, p. 15, 11. 13 Alc. Avit. epist. 92, 16, p. 184. 14 Cf. ibid. 3, 9, p. 16. 15 Cf. ibid. 41, 5, p. 101 s.; 86, 1, p. 166; 87, p. 167 s. 16 Cf. ibid. 6, 1, p. 29; 34, 3, p. 82; 43, 2, p. 107; 44, 2, p. 108. 17 Cf. ibid. 92, 4, p. 179 (per occupationes lectio desueta). 18 Cf. Greg. Tur. Franc. 2, 34, pp. 81, 14-82, 17.
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Avito e il re sia dal memoriale antiariano19 e da quello antimonofisita20, entrambi indirizzati a Gundobado21. In base a tale documentazione possiamo cogliere in Gundobado, soprattutto dopo la morte di Caretene, un interesse per questioni di esegesi biblica, a fondamento di discussioni di argomento teologico. Si tratta di testimonianze dirette che ci fanno intravvedere come un personaggio che nella storiografia filofranca è stato presentato come un barbaro ostinato nell’attaccamento all’eresia si dimostri invece, nella sua corrispondenza con Avito, sinceramente impegnato nella ricerca della verità, certo volta alla soluzione di controversie teologiche che creavano problemi alla dinastia burgunda (come accadde anche in ambito vandalico e visigotico) e ostacolavano l’integrazione romanogermanica; ma, ancor più, mi pare singolare l’interesse di Gundobado per i dati linguistici e per l’esatta interpretazione del testo biblico, anche là dove non erano sottese questioni dottrinali. Si tratta di interessi che, nel loro insieme, non dovevano essere frequenti in un principe burgundo formatosi nella tradizione guerriera propria della sua stirpe.
Documentazione biblica e riflessione teologica Una testimonianza significativa in tal senso ci è offerta da una lettera (epist. 92) che faceva parte del fascicolo di documenti antiariani qui sopra ricordato22 e che rispondeva a una lettera di Gundobado stesso23. Al di là della controversia teologica con le sue implicazioni politiche, nell’ambito dei conflitti interni all’establishment burgundo, Avito riconosce a Gundobado un interesse eminentemente esegetico e ne incoraggia l’attenzione filologica, volta a raccogliere dati testuali (conlatio)24 in funzione dell’esegesi (expositio), prima di tentare formulazioni dogmatiche: Tantum Christo propitio per diversas sollicitudines mentem vestram veritas indagata perdocuit, ut nihil prorsus sit quod de totius divinae legis definitione vos lateat. Unde ex his quae pietas Celsitudinis Vestrae dignatur inquirere, iam de plenae instructionis arce descendens non est nescientis interrogatio, sed conferentis25 in tantum ut sententia evangelii, quam litteris attigistis, non aliquid ambiguitatis in fide habeat, sed de reprehensione Iudaica sensum magis expositionis inquirat26.
19 C. Ar., Alcimi Aviti opera, pp. 3-12. Ho altrove illustrato (in Avit de Vienne, Lettres, pp. lxxiii-lxxv) la tipologia di questo memoriale, cui apparteneva anche Epist. 92 (= c. Ar. 30, ed. R. Peiper, pp. 12-15). 20 C. Eutych. 1, pp. 15-29. 21 Cf. Vita Aviti 1, Alcimi Aviti Opera p. 177, 15 s.; cf. anche Agob. adv. legem Gundobadi 13, 7, p. 27; Id. imag. sanct. 9, p. 160, 1. 22 Vedi sopra, nota 19. 23 Cf. Alc. Avit. epist. 92, 1, p. 178 (litteris attigistis). 3, p. 179 (in epistula memorastis…). 24 Epist. 92, 8, p. 180 (cit. qui sotto). 25 Marc Reydellet (in Avit de Vienne, Lettres, p. 178) nella sua traduzione parla di «questionnement… d’un controversiste». Cf. Alc. Avit. epist. 42, 8, p. 104 (Conferebamus namque nobiscum tractabamusque quale esset illud…). Cf. anche Lc 2, 19 (Maria autem conservabat omnia verba haec, conferens in corde suo). 26 Alc. Avit. epist. 92, 1, p. 178.
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Dopo il conlationis exercitium volto a soddisfare la curiosità di Gundobado spiegando la pericope di Mc 7, 12 – anche con un chiarimento dell’espressione missum facere (epist. 92, 2-4, p. 178 s.) –, Avito tramite l’accostamento a Mt 5, 21-22 (epist. 92, 6, p. 179), di cui chiarisce il vocabolo racha (ibid. 7, p. 179 s.), passa a rispondere alle domande del re che più direttamente riguardavano l’illustrazione della fede cattolica: Sed his conlationis magis quam elucidandae fidei exercitio reseratis, illud potius revolvamus quod a sacerdotibus vestris scripsistis obiectum. Igitur discutientibus vobis utrum Spiritus Sanctus, qui in sacro baptismate indivisae dominationis vindicat unitatem, creator an creatura credendus sit – cum, si creator est, a divinitate nequeat separari, si creatura, Deo non possit uniri – pro penuria respondendi, sub cuiusdam lubrico quaestionis interrogatum est a parte diversa, utrum spiritus noster creatus an sempiternus debeat iudicari, quasi exemplo Scripturae caelestis intersito, quo dictum sit: «Insufflavit Deus spiritum in animam vitae»27. Avito tratta quindi della natura divina dello Spirito Santo (epist. 92, 8-15, pp. 180-183) in risposta a un interrogativo emerso nel corso di una discussione svoltasi tra Gundobado e alcuni vescovi ariani. Ma a proposito della citazione biblica addotta a supporto della tesi ariana l’arcivescovo di Vienne obietta che si tratta di un presunto exemplum scritturistico, che i vescovi ariani citavano in una versione latina di Sap 15, 11 (insufflavit Deus spiritum in animam vitae) mentre Avito lo considera un’alterazione testuale del testimonium offerto da Gen 2, 7, un’alterazione che pregiudicava l’esattezza dell’esegesi: Primum ergo conicite quid in expositione facturi sint qui de testimonio mentiuntur, aut qualiter adinventiones suas fallaciae tumoribus impleant, qui dicta divinae auctoritatis immutant. Nam quod dixerunt «insufflavit Deus spiritum in animam vitae» (Sap 15, 11), artificiosa eorum fraude confictum est: quem locum si recensendum sibi Pietas Vestra decernat offerri, sic inveniet scriptum: «Et fecit Deus hominem de limo terrae et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae, et factus est homo in animam viventem» (Gen 2, 7)28. Perpendite nunc quanta sit in sermone distantia: illi dixerunt «insufflavit in animam» (Sap 15, 11), cum scriptum sit «inspirauit in faciem» (Gen 2, 7); “inspirare” enim incorporeus potest, “insufflare” nisi corporeus non potest. Deus autem non quasi animae iam viventi spiritum legitur insufflasse – quem adderet –, sed materiae nondum viventi, sicut antiqui codices habent, «spiramentum uitae» (Sap 15, 11), quo in animam viventem sublimaretur, infudit. Ergo si inspiratione hac anima hominis facta est, et non est aliud anima humana quam spiritus, restat spiritum principio non carere: quod obiurgati a vobis senserunt sibi protinus obponendum, nisi per insufflationis carnale commentum spiritum ipsum animae potius quam corpori inditum mentirentur. Nam cum quaerant, intentione letali, non quomodo quae sunt scripta cognoscant, sed qualiter scripta putentur esse quae praedicant, quid, putamus, imperitis faciunt, qui instructionis vestrae reverentiam non pavescunt? 27 Alc. Avit. epist. 92, 8, p. 180. 28 Tale è il testo di Gen 2, 7 nella Vulgata (lxx: ἐνεφύσησεν εἰς τὸ πρόσωπον αὐτοῦ πνοὴν ζωῆς καὶ ἐγένετο ὁ ἄνθρωπος εἰς ψυχὴν ζῶσαν).
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Tractemus nunc, si propitii sinitis, quanta ineptia proponatur: «Quod si Dei Spiritus creatura non est ac sic nec in homine creatura poterat dici spiritus, quem Deus insufflasse perhibetur?»29. Nella loro negazione della natura divina e increata dello Spirito Santo, i vescovi ariani discutendo con Gundobado avevano dunque utilizzato la testimonianza di Sap 15, 11 in una versione latina che Avito confronta con quella presente in antiqui codices: qui egli trova scritto spiramentum vitae infudit – invece di insufflavit spiritum vitalem come è nella Vulgata – in corrispondenza dell’insufflavit Deus spiritum in animam vitae presente nel testimonium scritturistico presentato a Gundobado: Avito critica l’uso ariano del verbo insufflare adducendo il confronto con Gen 2, 7 nella versione della Vulgata30. Per quanto riguarda Sap 15, 11, però, la Vulgata utilizza il binomio ispiro / insufflo, in corrispondenza del greco ἐμπνέω ed ἐμφυσάω31. Bruno Luiselli32 ha osservato come la critica di Avito all’uso del verbo insufflare riferito a Dio potesse trovare buona accoglienza anche presso gli ariani, se pensiamo alla preoccupazione di precisare la natura incorporea dello Spirito di Dio, una preoccupazione presente anche nella traduzione/interpretazione ulfilana, in senso ariano, di Πνεύμα / Spiritus con il got. ahma (pensiero). Sulla base del confronto con Gen 2, 7 Avito difende l’uso di inspirare perché gli sembra più consono alla natura incorporea di Dio. Ricordo però che in Gen 2, 7 l’uso di insufflavit, presente non soltanto nella versione latina dei Burgundi ariani, ma in gran parte di altre versioni pregeronimiane, era stato difeso perfino da Agostino, per il fatto che si trattava di un riferimento al greco πνοή (soffio, alito) e non πνεύμα (spirito)33: Agostino aveva infatti segnalato che il primo vocabolo in creatura quam in Creatore frequentius legitur34, mentre il secondo, con opportune specificazioni, non solum de Creatore, sed etiam de creatura dici solere manifestum est35. Tale sensibilità linguistica non era più presente né in Avito né nel suo interlocutore burgundo, che pure era desideroso di penetrare il significato delle parole dei testi biblici, che egli leggeva in traduzione latina; Avito quindi evidenzia piuttosto l’aspetto dogmatico, quando sottolinea che lo spirito (creato) è immesso da Dio 29 Alc. Avit. epist. 92, 9-12, pp. 180-182. 30 Anche nel De spiritalis historiae gestis (1, 125-126, ed. Nicole Hecquet-Noti, Avit de Vienne. Histoire spirituelle, tome I (chants I-III), Paris, Cerf, 1999 (coll. Sources Chrétiennes 444), p. 144 (Lenem perpetuo flatum profundit ab ore / inspiratque homini), Avito utilizza il verbo preferito dalla Vulgata, inspirare, che si contrappone alla valenza filoariana di insufflare; cf. Nicole Hecquet-Noti, op. cit., p. 75. 31 Cf. Vulg. Sap 15, 11: et qui inspiravit illi animam quae operatur et qui insufflavit spiritum vitalem (lxx: τὸν ἐμπνεύσαντα αὐτῷ ψυχὴν ἐνεργοῦσαν καὶ ἐμφυσήσαντα πνεῦμα ζωτικόν). 32 Storia culturale dei rapporti tra mondo romano e mondo germanico, Roma, Herder, 1992, pp. 467-469. 33 Cf. Aug. civ. 13, 24, ed. Bernhard Dombart, Stutgardiae et Lipsiae, Teubner, 19935, p. 596: Quapropter in eo, quod scriptum est “inspiravit”, vel si magis proprie dicendum est: “Insufflavit in faciem eius spiritum vitae”, si Graecus non πνοήν, sicut ibi legitur, sed πνεύμα posuisset…; Id. gen. ad litt. 7, 1, ed. Joseph Zycha, Wien, Tempsky, 1894 (coll. Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum 28/1), p. 201, 14-18: quod scriptum est: flavit vel sufflavit in faciem eius flatum vitae; nonnulli enim codices habent: spiravit vel inspiravit in faciem eius, sed cum Graeci habeant ἐνεφύσησεν non dubitatur “flavit” vel “sufflavit” esse dicendum. 34 Aug. civ. 13, 24, p. 595, 5-6. 35 Ibid., p. 596, 8-9.
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non nell’anima ma nel corpo, per vivificare la materia, e si limita a commentare la citazione biblica addotta dagli ariani, per concludere che humanus spiritus creatione inchoatur, divinus autem benedictione conceditur (epist. 92, 15, p. 183), e forse per non complicare la dimostrazione sul piano teologico non aggiunge altre citazioni, ad es. non cita nemmeno Io 20, 2236, dove Gesù risorto insufflavit, et dixit eis: Accipite Spiritum Sanctum (ἐνεφύσησεν καὶ λέγει αὐτοῖς· Λάβετε πνεῦμα ἅγιον). Proprio dal testo giovanneo aveva preso spunto, invece, la spiegazione di Agostino37, con un’esposizione articolata e non polemica, destinata particolarmente a filosofi e intellettuali pagani. Nella sua attenzione al dato testuale Gundobado sentiva dunque il bisogno di disporre di citazioni tratte da versioni affidabili e per questo contava sulla competenza dell’arcivescovo di Vienne. Così in una lettera (epist. 20) indirizzata verso il 506 a Sigismondo, che ormai aveva fatto professione di fede nicena, Avito gli riferisce che al termine di un colloquio riservato, ma alquanto animato, avuto con Gundobado38, il re gli aveva chiesto di fornirgli una lista di citazioni tratte da una Bibbia utilizzata dalla parte cattolica e presentate da Avito come testimonianze bibliche in risposta alle domande del re, aggiungendovi, eventualmente, anche altre citazioni che gli fossero venute in mente dopo il loro colloquio; dichiarandosi personalmente incompetente, Gundobado intendeva trasmettere tale documentazione ai prelati ariani: Cum praesentiam vestram Deo largiente meruero, per me seriem totius altercationis exponam: interim sermonis cursum de fine colligite et ex eo quod discedenti mihi praecepit utrum ad responsa motus fuerit (scil. Gundobadus) aestimate. Iussit namque ut, quodcumque de Scripturis nostris testimonium ad interrogata protuleram, seu si forte occurrisset et aliud, ad singula quae tempore collocutionis aptaveram, subnotatum ei ordinatumque transmitterem. Quod cum sibi ex maxima parte pronuntiaret incognitum, adiecit simpliciter: si scriptum misissem, sacerdotibus, immo magis seductoribus et, ut adhuc verius dicamus, sectatoribus suis velle proponere39.
Autorità degli exempla biblici e ratio argomentativa La documentazione disponibile non ci parla infatti soltanto di dibattiti alimentati da chierici, ma di un personale coinvolgimento del sovrano, che secondo il costume germanico è espressione dell’intera Sippe e quindi si fa portavoce delle tesi della gerarchia ecclesiastica ariana, ponendosi come diretto interlocutore del vescovo della parte cattolica.
36 In epist. 27, 8, p. 67, Avito cita Io 20, 28. 37 Aug. civ. 13, 24, p. 594, 18 ss. 38 Alc. Avit. epist. 20, 1, p. 51 (collocutione regali). 6, p. 53 (altercationis). Nel frammento 14 del Contra Arrianos (Alcimi Aviti Opera, p. 6), pubblicato da Baluze, Avito fa riferimento a una recente conlocutio nella quale si era discusso sulla distinzione delle Persone divine nell’unicità della loro natura (ut nuper habita conlocutione tractavimus). 39 Alc. Avit. epist. 20, 6-7, p. 53.
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Una situazione analoga a quella del rapporto fra Gundobado e Avito si verifica del resto anche fra il re vandalo Trasamondo e il vescovo Fulgenzio di Ruspe: il re aveva inviato a quest’ultimo un memoriale così lungo e complesso40 che Fulgenzio gli rispose con i tre libri Ad Trasamundum regem Vandalorum; il testo di Trasamondo è purtroppo perduto, in quanto fu subito sottratto allo stesso Fulgenzio41 perché non rischiasse di cadere in mani indiscrete: si trattava di un documento compromettente per il re, diviso tra l’arianesimo intransigente di taluni dei suoi leudi e l’atteggiamento più conciliante e filobizantino di altri. Sia Avito sia Fulgenzio riconoscono al rispettivo interlocutore regale un autentico desiderio di conoscere. In Trasamondo Fulgenzio lo sottolinea con particolare riferimento allo studio della Sacra Scrittura42, evidenziando come si trattasse di una novità per un re barbaro, in quanto persona molto occupata e per di più appartenente a un popolo estraneo alla cultura scritta di ambito romano43. Analogamente Avito, nell’epist. 27, scrive a Gundobado per soddisfare, a nome anche degli altri vescovi, un desiderio di informazione espresso dal re (ibid. 1, p. 65: sciscitationi vestrae): questi aveva chiesto al vescovo Cartenio – attardatosi a Lione dopo un sinodo (ibid.) tenutosi in quella città in data imprecisata, ma verosimilmente prima del 51244 – di redigere, con l’aiuto dei suoi confratelli, una raccolta di citazioni bibliche che potessero supportare l’argomentazione sviluppata dalla parte cattolica per dimostrare la divinità della persona del Figlio (ibid. 2 e 4, p. 65 s.). Avito allora mandò subito a Gundobado uno schema che sintetizzasse la propria risposta e un primo elenco di passi biblici sulla base dei quali il re potesse sviluppare la propria riflessione, ma si riservò, nel caso che gli esperti ariani avessero già pronte le obiezioni, di prendersi il tempo per inviare personalmente al re (pur riconoscendo che altri vescovi avrebbero potuto fare egregiamente la stessa cosa) una più abbondante selezione di exempla biblici e un’argomentazione razionale che potesse soddisfare il desiderio di conoscere manifestato dal re; Avito condivide l’esigenza di Gundobado di tenere sempre congiunte l’autorità della Scrittura e la ragione45:
40 Fulg. Rusp. ad Tras. 1, 1 (4), ed. Jean Fraipont, Turnhout, Brepols, 1968 (coll. Corpus Christianorum Series Latina 91), p. 97. Alle difficoltà incontrate da Fulgenzio nei rapporti con Trasamondo fa cenno Cremascoli in questo stesso volume, p. 36. 41 Ibid. (13), p. 97. 42 Anche Cassiodoro, per bocca dell’ostrogoto Teoderico, riconosceva Trasamondo tanta lectione saginatus in var. 5, 43, ed. Åke Frid, Turnhout, Brepols, 1973 (coll. Corpus Christianorum Series Latina 96), p. 220, 19 s. 43 Fulg. Rusp. ad Tras. 1, 2, 2 (91-107), p. 99. 44 Cf. Alc. Avit. epist. 27, 14, p. 70, dove si può cogliere il proposito di raccogliere altra documentazione nel memoriale antimonofisita che ci è stato tramandato nei due libri Contra Eutychianam haeresim. Viene invece considerato un falso seicentesco il testo della cosiddetta Collatio episcoporum (Alcimi Aviti opera, pp. 161-164). Cf. Julien Havet, «Questions mérovingiennes. Les découvertes de Jérȏme Vignier», Bibliothèque de l’École des chartes 46 (1885), pp. 233-250; Hugo Rahner, Die gefälschten Papstbriefe aus dem Nachlass von Jérôme Vignier, Freiburg Br., Herder, 1935, pp. 24-66; Jean-Louis Quantin, «Jérȏme Vignier (1606-1661) critique et faussaire janséniste?», Bibliothèque de l’École des chartes 156 (1998), pp. 451-479, in part. p. 458 ss. 45 Cf. M. Reydellet in Avit de Vienne, Lettres, p. 189 nota 71.
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Iubetis igitur ostendi vobis rationem vel potius auctoritatem qua pateat Dei Filium habuisse in divinitate substantiam, priusquam sumeret de incarnatione naturam […]. Iubetis ergo ut haec, quae ratione colligimus, auctoritate doceamus. Sufficiat ergo acrimoniae vestrae paucitas exemplorum, quae sumpta de pluribus abundant cognoscere desiderantibus […]. Haec ergo, quia iussistis, quaedam nostrae responsionis indicula et ad delucidandam veritatem pauca testimoniorum semina transmisi: quae possit quidem acrimonia vestra vel eloquentia in frugem salutis, Christo irrigante, nutrire. Sed si sit quisquam de his, contra quos agimus, quem his vestro iudicio ad totum respondisse credatis, licet sint vigilantissimi in catholica et fidelissimi tractatores, dabit tamen Deus ut ego quoque possim vobis et numerosiorum exemplorum numerum et rationem quae satisfaciat, praesumpta scribendi vacatione suggerere46. Quando poi Gundobado, poco dopo aver ricevuto da Avito il memoriale antiariano, gli chiese (probabilmente verso il 512) una selezione di citazioni bibliche in funzione antieutichiana, Avito gli obietta che si tratta di exempla47, presenti in così gran numero nell’Antico e nel Nuovo Testamento che la loro testimonianza (testimonium) nella controversia non poteva che essere selettiva, in quanto necessario adminiculum della parola di Dio al discorso umano48. Non è sufficiente infatti – sostiene il vescovo di Vienne – l’accumulo di testimonia biblici, addotti come exempla destinati alla confutazione degli avversari, ma occorre illustrarli (expositio) mediante un’argomentazione dialettica (argumentum)49. La necessità dell’approccio argomentativo era del resto raccomandabile anche in vista dell’auspicato incremento delle relazioni amichevoli tra il regno burgundo e l’imperatore Anastasio. Analogamente, sul versante vandalico, anche Trasamondo nel chiedere a Fulgenzio (intorno al 515) di rispondere a una serie di quesiti sulla dottrina trinitaria e cristologica gli inviò un lungo promemoria di tesi ariane – giuntoci come Dicta (o Obiectiones) regis Trasamundi50 – e lesse poi personalmente, con molta attenzione, la risposta che Fulgenzio aveva sintetizzato in affermazioni brevi e precise, documentandole punto per punto con citazioni bibliche ed illuminandone il senso con la chiarezza dell’argomentazione razionale (auctoritate testimoniorum graves, et totius rationis lumine radiantes)51.
46 Alc. Avit. epist. 27, 2.4.13-14, pp. 65, 66, 70. 47 Alc. Avit. c. Eutych. 1, p. 15, 13 s. (de sacro scripturarum caelestium fonte exemplorum flumina). 48 Ibid., p. 20, 7-16: Poscant igitur alii instructioni de utriusque testamenti corpore exemplorum multitudinem; negotio autem huic sic adnisus bibliothecae utriusque constat, ut si confirmare quod loquimur testimonio adstipulante velimus, cuncta videantur in unum opus canonicorum voluminum oracula congerenda. 49 Ibid., p. 18, 26 s.: aut expositione testimonium, aut argumento egere videtur exemplum. 50 In Fulg. Rusp. c. Arian., pp. 67-70. 51 Vita Fulg. Rusp. 21, ed. Gabriel-Guillaume Lapeyre, Vie de Saint Fulgence de Ruspe, de Ferrand, diacre de Carthage, Paris, Lethielleux, 1929, p. 103. Il documento chiesto da Trasamondo fu preparato da Fulgenzio in collaborazione con altri esperti e fu portato a conoscenza della comunità cristiana locale; ci è conservato sotto forma di Responsiones (Fulg. Rusp. c. Arian., pp. 71-94).
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L’interpretazione spirituale in chiave pastorale Anche al di fuori della controversia dottrinale (in funzione antimonofisita o antiariana), in quel che ci resta delle sue omelie52 Avito fa uso dei testi biblici non concentrandosi sul racconto o descrizione dell’exemplum, ma muovendosi agilmente da un testo all’altro, con un’argomentazione volta a guidare il ragionamento degli uditori e a muoverne la sensibilità religiosa. Così nella corrispondenza con Gundobado Avito, consapevole del travaglio interiore del re, talora evoca il testimonium dell’auctoritas biblica per giungere, attraverso di esso, a una spiritalis consideratio (epist. 3, 1) delle verità divine; in modo analogo, in ambito franco, il vescovo Germano di Parigi nel 575 scriverà a Brunilde, moglie di Sigiberto: Ergo, piissima domna, intellegite mysterium et cavete exemplum53, evocando sommariamente vari episodi biblici (a partire dall’omicidio di Abele da parte di Caino) utili ad illustrare la pericolosità dell’inimicizia che divideva Sigiberto dal fratello Chilperico. Proprio perché la citazione biblica acquisisca autorevolezza di exemplum, destinato a stimolare la vita spirituale del destinatario, Avito scrivendo a Gundobado (epist. 3) intorno al 515/516, verso la fine della vita del re, gli propone, secondo la tradizione ecclesiastica, una spiritalis consideratio dei passi biblici su cui Gundobado via via lo interroga, e lo fa a partire dal loro significato letterale, per portare il suo interlocutore alla loro penetrazione spirituale (ad interiorem figuram)54. Di fronte agli interrogativi suscitati in Gundobado dalle esigenze dell’ascesi cristiana, Avito mette in rapporto il contemptus mundi con le responsabilità di un sovrano, passando in rassegna vari testi del Nuovo Testamento: spiega così che vale più ciò a cui si rinuncia che quel che si dona e che gli affetti non si oppongono alla sequela di Cristo, ma che occorre rinunciare soltanto agli affetti che la ostacolano. Se, d’altra parte, il martirio cruento costituisce il massimo di ciò che si può abbandonare e donare insieme (cioè la vita), per quanto riguarda i compiti ordinari del sovrano Avito, da predicatore non temerarius (epist. 3, 8, p. 15), utilizza la storia di Abramo (Gen 12, 18 e 17, 10) per prospettare a Gundobado la prioritaria esigenza di un martyrium non cruento nell’ambito di una scelta ascetica. In essa sembra che Gundobado si sentisse ormai influenzato dall’esempio della defunta Caretene55, ma agli occhi di Avito tale scelta ascetica risultava improponibile per le responsabilità di governo cui il re era tenuto: l’esigenza radicalmente prioritaria per Gundobado consisteva invece, secondo Avito, nella plena confessio di adesione alla fede nicena, con l’abbandono delle tradizioni ariane di gran parte della sua famiglia e del suo popolo, per svincolarsi dal peso dell’antiqua parentum consuetudo sive secta in nome della veritas che attirava Gundobado ad amare la salvezza56.
52 Alcimi Aviti Opera, pp. 103-157. 53 Epist. Austras. 9, 9, ed. Elena Malaspina, Il Liber epistolarum della cancelleria austrasica (V-VI sec.), Roma, Herder, 2001, p. 102. 54 Alc. Avit. epist. 3, 1, p. 12. 55 Vedi sopra, note 7-9. 56 Alc. Avit. epist. 3, 9, p. 16.
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La coscienza di Gundobado era tormentata dalla difficoltà di mettere in pratica la fede, mentre rimandava la propria professione di fede cattolica57: secondo la tradizione nazionale germanica il re avrebbe dovuto coinvolgere in essa il suo popolo e a tal fine cercava una documentazione scritturistica che potesse risultare convincente anche per i prelati ariani. Ma la dilazione della sua professione pubblica continuava a impedirgli la manifestazione esterna della confessio interiore: con questa preoccupazione Gundobado sottopose ad Avito, con un desiderio di sapere (sciscitatio) che il vescovo definisce plena religionis atque pietatis58, i propri dubbi circa la negazione dell’efficacia della sola fides come sufficiente alla salvezza, per chi solo in punto di morte avesse chiesto di essere ammesso allo stato di paenitens. Gundobado aveva trovato tale negazione in una lettera scritta a Paolino di Bordeaux da un vescovo Fausto da non identificare, osserva Avito, con il manicheo Fausto di Milevi, notoriamente eretico, ma con Fausto di Riez († 495), che anche Gundobado aveva conosciuto personalmente59; si trattava infatti di una lettera in cui questo vescovo, attenendosi all’insegnamento di Iac 2, 18-26, aveva risposto negativamente alla domanda di Paolino: Secundo quaesisti loco, utrum sola sufficiat ad salutem fides et unitae scientia trinitatis. In rebus divinis non solum credendi ratio requiritur, sed placendi. Fides ergo nuda meritis inanis et vacua est60. Si trattava, per un moribondo, di abbracciare uno stato di paenitens che rischiava di durare troppo poco per acquisire meriti: Fausto l’aveva definito momentanea paenitentia61, ma Avito, non avendo letto direttamente il testo, attribuisce la definizione, che egli riconosce appropriata, a Gundobado stesso62. Questi era stato colpito sancte, sollicite regieque dal fatto che Fausto aveva scritto che la conversione in punto di morte nihil aut nulli prodesse; da parte sua Avito riconosce che questa adversa veritati et admodum cruda definitio est, concordando con Gundobado, contro Fausto, che per chi fosse morto subito dopo essere stato ammesso nello stato di penitente, ipsa humilitas confitentis era già di per sé un’opera buona, frutto della fede63, e conferma la validità di tale humilitas con gli exempla (epist. 1, 5, p. 4) biblici dei salariati dell’undicesima ora (Mt 20, 1-16) e dei Niniviti convertiti dalla predicazione di Giona (Ion 3). Sulla base di tali exempla applicati alla vita spirituale Avito, in linea con la tradizione cattolica64, dichiara empietà negare la paenitentia a chi ne fa domanda65, anche se 57 58 59 60
Greg. Tur. Franc. 2, 34, pp. 81, 14-82, 17. Alc. Avit. epist. 1, 1, p. 2. Ibid. 1, 2, p. 3: quem etiam Gloria Vestra noverat… Faust. Rei. epist. 5, ed. Augustus Engelbrecht, Pragae ecc., Tempsky, 1891 (coll. Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum 21), pp. 184, 23-185, 2. Cf. anche Salv. gub. 4, 6-7, ed. Georges Lagarrigue, Paris, Cerf, 1975 (coll. Sources Chrétiennes 220), p. 236. 61 Faust. Rei. epist. 5, pp. 184, 4 e 195, 1. 62 Alc. Avit. epist. 1, 3, p. 3. 63 Ibid. 1, 4, p. 4. 64 Cf. Leo M. epist. 108, 4 (coll. Patrologia Latina 54), 1012b-1013a; Gennad. eccl. dogm. 80 (coll. Patrologia Latina 58), 998. 65 Alc. Avit. epist. 1, 6, p. 4.
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non nasconde la propria preoccupazione per la leggerezza con cui talora venivano ammessi nello stato di paenitentes persone in pericolo di vita (epist. 1, 8), giacché se il morente fosse sopravvissuto e non fosse riuscito a essere coerente con gli impegni assunti, si sarebbe caricato di una responsabilità in più66.
Per una lettura profetica della storia contemporanea Circa l’instaurazione della pace messianica, già Orosio (hist. 7, 41, 7) aveva visto in Is 2, 4 un riferimento biblico all’auspicata pacificazione e integrazione delle popolazioni germaniche all’interno della Romania67; nel regno burgundo Gundobado interrogò Avito circa un eventuale collegamento della profezia con la contingenza storica, identificabile secondo Reydellet con l’insurrezione di Godegisilo e con la guerra civile che ne seguì, su istigazione di Clodoveo (500-501): Gundobadus rex Avito Viennensi episcopo. De prophetica lectione Sanctitatem Vestram censui consulendam, cuius lectionis exemplar subter adieci; et ideo utrum iam tempora ista fuerint, an futura sint, scripto Vestro declarare dignemini. «Ex Sion procedet lex et verbum Domini ex Hierusalem, et iudicabit inter plebes multas et redarguet gentes validas usque longe; et concident gladios suos in aratra et lanceas suas in falces, et iam non extollet gens super gentem gladium, et iam non stabunt belligerare. Et requiescet unusquisque sub vinea sua et sub ficu sua, et non erit qui in timorem mittat eos»[Mi 4, 2-4]68. L’interesse di Gundobado per il testo di Mi 4, 2-4 era forse legato all’emergenza della guerra civile scatenatasi a Vienne, ma Avito fa riferimento piuttosto all’analogo testo di Is 2, 3-4, che Girolamo aveva interpretato, prima del 410, per i suoi due amici goti, i monaci Sunnia e Fretela69, quando aveva indicato nella profezia isaiana una prefigurazione della pace messianica tra i Romani e i bellicosa pectora barbarici, all’insegna del cristianesimo. Anche nel regno burgundo la profezia di Isaia/Michea poteva evocare l’urgenza della smilitarizzazione dell’élite germanica, tradizionalmente avvezza alle armi, e l’identificazione dell’era cristiana, quae vocatione gentium magisterio Christi docentis exorta est70, con l’unificazione di tutte le cognationes terrae intra unam ecclesiam71: al di là dell’era in cui storicamente nacque Cristo e nella quale il battesimo (nativitas
66 Ibid. 1, 5-7, p. 4 s. 67 Caterina Celeste Berardi, «“Barbari exsecrati gladios suos ad aratra conversi sunt” (Oros. adv. pag. 7, 41, 7): il tema della pacificazione dei barbari tra IV e V sec. d.C.», Auctores nostri 5 (2007), pp. 17-37. 68 Gundobadus in Alc. Avit. epist. 18, p. 48 s. 69 Hier. epist. 106, 1, 2, ed. Isidor Hilberg, erw. Aufl., Wien, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 1996 (coll. Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum 55/2), p. 248, 3-7: Nunc et Esaiae vaticinium cernimus opere conpletum: concident gladios suos in aratra et lanceas suas in falces et non adsumet gens contra gentem gladium et non discent ultra pugnare. 70 Alc. Avit. epist. 19, 5, p. 50. 71 Ibid. 6.
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secunda) converte il ferro delle armi ad usi pacifici, occorreva giungere a una vitalis cultura72 in cui i catholici sarebbero stati – figuraliter73 – i superstiti di tutti i conflitti che opponevano allora popoli e regni fra loro.
Conclusione Nella documentazione avitana da me esaminata, dunque, l’exemplum è testimonium dell’auctoritas divina (contenuta nella Scrittura) a titolo esemplificativo, ma non ha, di per sé, valenza esemplare sul piano morale. Ci si poneva così in continuità con la catechesi di età patristica che, tutta incentrata sull’esegesi letterale e/o allegorica della Sacra Scrittura, mirava a promuovere un retto uso della ratio, ricorrendo agli exempla solo in funzione di essa: in questo senso Agostino a proposito dell’illiceità del suicidio, avallato da exempla pagani, osservava che sana quippe ratio etiam exemplis anteponenda est, aggiungendo però anche che non sono in disaccordo con essa gli exempla biblici, tanto più degni di imitazione quanto più eccellenti sul piano della religiosità74. L’exemplum edificante prende il sopravvento sulla ragione soltanto laddove questa non ha a disposizione argomenti validi, come suggerirà Gregorio Magno: quatenus fluctuanti animo, quod plene ratio non valet, exempla suadeant75. Le discussioni di Avito e Gundobado, invece, si incentravano – di comune intesa – su ragionamenti via via sostenuti da exempla biblici. Anche scrivendo al vescovo Vittorio di Grenoble Avito ribadirà la propria volontà di evitare le affermazioni assiomatiche e di privilegiare un’esposizione consequenziale, sostenuta dall’auctoritas di fonti bibliche76: in tal modo la ratio di Avito non sembra umiliare sterilmente la coscienza di Gundobado – come pure afferma Gregorio di Tours77 –, ma piuttosto accompagnarne il percorso intellettuale e spirituale. Nel regno burgundo si rinnovava così l’impegno con cui Agostino aveva posto la Sacra Scrittura a sostegno della ragionevolezza umana, in un tempo in cui la violenza aveva rischiato di mettere in crisi le migliori conquiste della civiltà grecoromana.
72 Ibid. 7, p. 51. 73 Ibid. 8. 74 Aug. civ. 1, 22, ed. Dombart, p. 37, 12-15: Sana quippe ratio etiam exemplis anteponenda est, cui quidem et exempla concordant, sed illa, quae tanto digniora sunt imitatione, quanto excellentiora pietate. 75 Greg. M. dial. 4, 7, ed. Adalbert de Vogüé, Paris, Cerf, 1980 (coll. Sources Chrétiennes 265), p. 42. 76 Alc. Avit. epist. 4, 2, p. 17 s. (sulla questione dell’eventuale riuso delle basiliche ariane): reserabo in subditis quid consequens putem: nec ea scilicet definitione ut locum censendi aliis non reservem, si modo id quod statuendum crediderint vel ratione perspicua vel prolata de canonicis voluminibus auctoritate confirment. 77 Franc. 2, 34, p. 82, 16: Ista ille ratione confusus usque ad exitum vitae suae in hac insania perduravit, nec publice aequalitatem Trinitatis voluit confiteri.
Franca Ela consolino
Biblical and Historical Exempla for Rulers in Sedulius Scottus’ Liber De Rectoribus Christianis
De rectoribus Christianis, a text in 20 chapters by the Irish writer Sedulius Scottus,1 belongs to a specific literary tradition, the specula principum,2 exhortatory treatises that furnished instructions for the behaviour of ruling noblemen based on the auctoritas of the Scriptures and the Church Fathers. Two earlier specula from the Carolingian era had been addressed to ruling monarchs,3 Via regia written by Smaragdus of Saint-Mihel for Louis the Pious in the second decade of the ninth century,4 and De
1 On Sedulius Scottus, alongside James F. Kenney’s foundational text The Sources for Early History of Ireland: Ecclesiastical: An Introduction and Guide, New York, Columbia University Press, 1929, pp. 553-569, and the list of his writings in Richard Sharpe, A Handlist of the Latin Writers of Great Britain and Ireland before 1540, Turnhout, Brepols, 2001, pp. 601-602, see Franz Brunhölzl, Histoire de la littérature latine du Moyen Âge, vol. I, 2, Turnhout, Brepols, 1991 (original edition Geschichte der lateinischen Literatur des Mittellters I. Band, München, Wilhelm Fink Verlag, 1975), pp. 205-221 and 309-310 and Sedulius Scottus, On Christian Rulers and The Poems, transl. with Introduction by Edward G. Doyle, New York, Centre for Medieval and Early Renaissance Studies, 1983, pp. 9-48. See also James Carney, «Sedulius Scottus», Henry McNally (ed.), Old Ireland, Dublin, M. H. Gill and Son, 1965, pp. 228-250 and Pierre Riché, «Les Irlandais et les princes carolingiens aux viiie et ixe siècles» in Heinz Löwe (ed.), Die Iren und Europa im früheren Mittelalter, Stuttgart, Klett-Cotta, 1982, vol. II, pp. 735-745 (on Sedulius pp. 740-742). Finally, on De rectoribus Christianis itself, see Sedulius Scottus, De rectoribus Christianis (On Christian Rulers), edited and translated by Robert W. Dyson, Woodbridge, The Boydell Press, 2010, pp. 15-42, in addition to the aforementioned sources. Also worthy of note is the valuable analysis of Nikolaus Staubach, Rex Christianus. Hofkultur und Herrschaftspropaganda im Reich Karls des Kahlen, Köln – Weimar-Wien 1993, Böhlau, pp. 105-197. 2 For a general overview of the specula principum, see Hans Hubert Anton, «Fürstenspiegel» A («Lateinisches Mittelalter»), in Lex. des Mittelalters 4, 1040-1049. For a more exhaustive treatment of the specula principum of the Carolingian era, see Id., Fürstenspiegel und Herrscherethos in der Karolingerzeit, Bonn, Röhrscheid Verlag, 1968 (on De rectoribus Christianis pp. 261-281). See also Michel Rouche, «Miroir des princes ou miroir du clergé?» in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto Medioevo occidentale: 4-10 aprile 1991, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 39, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 1992, pp. 341-364. 3 Here I refer specifically to the Carolingian-period texts that fit within the literary tradition of the specula as defined by Alain Dubreucq, «La littérature des specula: délimitation du genre, contenu, destinataires et réception», Michel Lauwers (ed.), Guerriers et moines: Conversion et sainteté aristocratique dans l’occident médiéval (ixe-xiie siècle), Turnhout, Brepols, 2002, pp. 17-39 (on Sedulius Scottus pp. 21-22). I have included Smaragdus’ Via regia alongside the texts selected by Dubreucq. 4 Coll. Patrologia Latina 102, 933-970. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 69-86 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124802
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institutione regia addressed by Bishop Jonas of Orleans to Pepin I of Aquitaine in 831.5 De regis persona et regio ministerio dedicated to Charles the Bald by Hincmar of Reims, meanwhile, dates to 873 and can therefore be assumed to be later than De rectoribus.6 Smaragdus reviews, one by one, the Christian virtues required of a king; Jonas, meanwhile, insists above all on the necessary subordination of the ruler’s power to the authority of the church.7 In contrast to Smaragdus, Sedulius sets the duties of the rector Christianus at the heart of his text, giving context to the virtues that the ruler should possess. Furthermore, unlike Jonas – although he does emphasise the sovereign’s duties to God and the Church – Sedulius does not insist on the subordination of royal power to the authority of the Church. In terms of form, his text is unique among the Carolingian specula insofar as it is a prosimetrum, similar to De consolatione Philosophiae,8 with which it shares both the pursuit of varietas metrorum (albeit with a largely different set of metres)9 and the regular alternation of verse and prose. Indeed, De rectoribus opens with an introduction in verse, and closes with a section in prose (chap. XX). In each of the other chapters, an expository text in prose is followed by a composition in verse, these elements being more closely linked thematically here than in Boethius. Although he addresses the text of De rectoribus to a sovereign, both in the preface and the dedication in the closing chapter, Sedulius does not identify the dedicatee. Two names have been suggested: Lothar II of Lotharingia (855-869), or – more the more likely figure – Charles the Bald (843-877), but a decisive case has not yet been made in favour of either candidate.10 5 Jonas d’Orléans, Le métier de roi (de institutione regia), ed. by Alain Dubreucq, Paris, Cerf, 1995 (coll. Sources Chrétiennes 407). A number of the chapters from the treatise are published, with German translation and notes, in Hans Hubert Anton (ed.), Fürstenspiegel des frühen und hohen Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2006, pp. 46-99. 6 Coll. Patrologia Latina 125, 833-856. The latest publication date suggested for De rectoribus is 870: see n. 10. 7 See A. Dubreucq, Introduction to Jonas d’Orléans…, pp. 73-94. 8 On the relationship between De rectoribus and the Consolatio see Bernhard Pabst, Prosimetrum: Tradition und Wandel einer Literaturform zwischen Spätantike und Spätmittelalter, Köln, Bohlau, 1994, vol. 1, 354-364. 9 See B. Pabst, Prosimetrum…, pp. 360-361. 10 The case for Lothar II is put forward in, among other texts: Siegmund Hellmann (ed.), Sedulius Scottus, München, C. H. Beck, 1906 (coll. Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, Bd. 1), p. 5 and n. 4; H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 262-263; Id. «Fürstenspiegel» A…, col. 1044 and Fürstenspiegel des… Mittelalters, pp. 17-18 (n. 40); M. Rouche, «Miroir…», pp. 359-360; E. G. Doyle, Introduction to Sedulius Scottus…, p. 18; and B. Pabst, Prosimetrum…, p. 352. Prominent among the proponents of the Charles the Bald identification are Otto Eberhardt, Via Regia: der Fürstenspiegel Smaragds von St Mihiel und seine literarische Gattung, München, Fink, 1977, p. 306, with additional bibliographical pointers in n. 104, and N. Staubach, Rex Christianus…, pp. 168-197, which interprets De rectoribus as a work of propaganda produced for Charles the Bald to mark either his coronation in Metz in 869, or his marriage to Richildis the following year (pp. 177-181). This theory is seconded by A. Dubreucq, «La littérature…» p. 25, while R. W. Dyson also comes down on the side of Charles the Bald (Introduction to Sedulius Scottus… p. 19). To me, the detailed, structured arguments set out by Staubach in favour of a dedication to Charles seem more persuasive than those of the proponents of the Lothar II thesis, yet it remains surprising that Sedulius’ treatise makes no mention of his name. As such, we cannot reject the proposition set forward by Peter
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Sedulius bases his arguments on a tightly woven fabric of Scriptural references and exempla. In previous Carolingian specula, these exempla were provided by biblical figures, with the sole exception of Constantine, who is referenced once in Jonas’ De institutione regia and once in his De institutione laicali, in which Theodosius is also mentioned.11 In the exempla of De rectoribus, alongside these same two emperors whom Sedulius mentions on numerous occasions, we find a number of other historical figures, not all of whom are Christians. In this article, I intend to analyse Sedulius’ use of examples from the Bible and from history, and the interactions between them, to verify whether each of these categories has its own functions and distinctive features.
The Use of Solely Biblical exempla Although the use of a combination of biblical and historical exempla prevails in the text, a number of precepts are illustrated using examples drawn entirely from the Bible. Chapter III relates «by what art and industry a momentary Kingdom can be made stable».12 Sedulius asserts that the stability of a kingdom rests on neither military force nor «the falsehood of a transitory peace», but should be founded on the clemency of God, for only that has the power to give a kingdom stability.13 «Thus, in the performance of his ministry, the prince’s heart and faithful devotion should not forsake Him by Whom so great a benefit and a glorious ministry has been given, lest perhaps, if He should perceive him to be unfaithful whom He has ordered as a faithful minister, the Supreme Ruler should in anger withdraw from him the benefit that He gave».14 Proof is given in the story of the impious Saul (impius ille Saul), who lost both his life and his throne, with the latter passing to David whom God chose because He knew he would be His faithful servant.15
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Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1987, p. 160, that the failure to identify the dedicatee indicates a deliberate, strategic decision on the part of Sedulius to compose a treatise that was «adaptable to the ambitions both of Lothar II and of Charles the Bald». Finally, Luned M. Davies, «Sedulius Scottus: Liber de Rectoribus, a Carolingian or Hibernian Mirror for Princes», Studia Celtica 26/27, 1991/92, pp. 34-50 ventures the hypothesis that De rectoribus was originally intended for Charles the Bald but was offered, instead, to Lothar II (p. 45). See p. 79 and n. 47 (Constantine) and pp. 79-80, n. 49-50 (Theodosius). Rect. p. 20, 20 Qua arte et industria momentaneum regnum stabiliri potest. I quote Sedulius from S. Hellmann, Sedulius Scottus, and it is to that edition that the page and line numbers refer, even for quotations in translation, which are taken from R. W. Dyson (ed.), Sedulius Scottus… Chapters I-VI and XIX-XX of De rectoribus can be found, with a German translation and notes by H. H. Anton in Fürstenspiegel des… Mittelalters, pp. 100-149. Rect. pp. 28, 24-29, 2 Quid ergo aliud restat, nisi ut cor regis ac tota spei fiducia non in armorum hominumque fortitudine neque in pacis transitoriae fallacia, sed in Omnipotentis clementia figatur, qui regnum quod donavit, sive in adversis, sive in prosperis stabilire novit? Rect. p. 29, 2-7. Rect. p. 29, 13-16 At vero David virum electum secundum cor suum Omnipotens invenit, quem ob hoc in apicem regiae potestatis sublimavit, quia illum fidelem fore ministrum praesciendo elegit. The reference is to 1 Rg 13, 14.
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The text also remains in biblical territory in chapter IV, De regia potestate non tam opibus et fiducia fortitudinis quam sapientia cultuque pietatis perornanda. The example is provided by Solomon, who – when offered by God the gift of whatever he desired – asked for wisdom. Not only did God grant him his wish, but he raised him to glory.16 Chapter XIX sets out in detail the duties of the godly sovereign with regard to the Church and its ministers, explaining how he might profit both on Earth and in Heaven by his diligence in paying due honour to Church.17 This idea is reinforced at the end of the chapter, which sets out how and in which circumstances the sovereign might act to enable the Church to perform its functions, for the endeavour and prayers of the spiritual soldiers of Christ ensure the security and prosperity of the res publica, the peace, the expansion of the empire and the lasting regal status of the sovereign and his descendants.18 Here, the sole exemplum is the Old Testament figure of Eli, who was punished for failing to correct the impiety of his sons.19 Eli was a priest who, in the exercise of his duties, had failed to ensure that God received the honours due to him. As such, his punishment serves as a fitting warning to Christian kings, who also exercise a ministerium,20 and on whom the duty falls to safeguard the rights of the Church – which is the bride of the living God – and its proper functioning. In a treatise in which the Catholic, Christian emperors cited all serve as exemplars (the two ‘bad’ emperors are Julian, the apostate, and Theoderic, an Arian), for an example of a minister of God who failed in his duties it was necessary to turn to the Old Testament. The very few exempla provided in the sections in verse are also all biblical in origin, a choice that may be due to the additional authority lent to them by the Scriptures, compared to profane examples.
Sovereigns in the Service of God: David, Solomon and Constantine We find figures from both sacred and secular history lining up together as early as the first chapter, which proclaims that «it is fitting for the godly ruler, when he has received royal power, first of all to dedicate worthy honors to God and His holy churches». Indeed, there is no more handsome consecration for a commonwealth (res publica), at its beginning, than «when royal solicitude and sacred devotion are kindled with holy fear together with love of the Supernal King, and when prudent counsel is taken for the glorious advantage of the Church (gloriosa ecclesiae utilitate), 16 Rect. IV, pp. 31, 20-32, 16. The story is recounted in 3 Rg 3, 5-14, from which Sedulius quotes verses 5 and 11-14. 17 Rect. XIX, p. 86, 1-4. 18 Rect. XIX, pp. 86, 10-87, 21. 19 Rect. XIX, p. 85, 11-25. 20 On the fundamental importance of this concept in Sedulius, see H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 267-270.
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so that he who is embellished outwardly by the royal purple […] will be adorned inwardly by laudable vows before God and Holy Church; for without doubt he is conspicuously raised up to the highest point of a temporal kingdom when he is drawn by pious endeavour to the glory and honour of the Almighty King».21 Therefore, a godly prince must «obey the will and holy precepts of the Supreme Giver of all things», aware that, in the words of Paul, non est potestas nisi a Deo; quae autem a Deo sunt, ordinata sunt (Rm 13, 1), and that he must act justly and with solicitude in the eyes of God. Indeed, the rulers of the Christian people are but servants of the Almighty (Quid enim sunt Christiani populi rectores, nisi ministri Omnipotentis?), and it is «a suitable and faithful (idoneus et fidelis) minister» that will do with sincere devotion whatever his lord and master has required of him.22 Hinc piissimi et gloriosi principes plus se ministros ac servos Excelsi, quam dominos aut reges hominum nuncupari et esse exultant. Unde beatus David rex et propheta eximius saepe servum Domini se nominat; nec non et inclitus Salemon eiusdem filius Omnipotentem deprecans, inter cetera sic ait: «respice ad orationem servi tui […]» (3 Rg 8, 28-29) […] Unde et celeberrimae memoriae magnus Constantinus imperator […] quoniam Omnipotenti semet ipsum subdiderat, cuncta hostilia bella, quae sub eodem sunt gesta, potentialiter atque fideliter superavit. Construebat et amplis opibus Christi ditabat ecclesias. Hinc ei superna gratia triumphales concessit habere victorias, quia procul dubio sacri rectores, quanto plus se regi regum humiliter subiciunt, tanto magis ad gloriosae dignitatis eminentiam sublimiter ascendunt.23 David is mentioned only insofar as he calls himself the servant of the Lord, while more space is given to his son Solomon. The word unde is used to introduce both the account of the two biblical kings and the mention of Constantine, which is inserted seamlessly between two passages about Solomon. Writing of Solomon, Sedulius recounts his supplication to God, for whom he constructs the temple; with Constantine, we hear of his submission to the Almighty and the construction and adornment of churches, actions for which he was repaid by God with victory over his enemies. Albeit they are united in their submission to God, the biblical kings and the Roman emperor are separated by the advent of Christ and the rise of the Church, in whose favour Constantine would act. For a sovereign of the ninth century, it is Constantine, in his concrete actions, who – more even than David or Solomon – serves as a model to be emulated.24 So much greater is the Church, the spiritual tabernacle of the living God, than the earthly house built by Solomon, so much greater shall be the glory afforded by God to a rector deo amabilis than that conceded to Solomon:25 Rect. I, p. 22, 2-10. Rect. I, p. 22, 13-20. Rect. I, pp. 22, 20-23, 18. For more on Constantine as a model for the Christian sovereign in Sedulius, see H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, p. 277. 25 Rect. I, p. 24, 5-9. 21 22 23 24
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Itaque si ille rex Salemon pro sacra devotione proque construenda domo terrestri Domini tantam remunerationis gloriam habere promeruit, quam inaestimabilem habebit gloriae palmam, si quis Deo amabilis rector sanctam perornaverit ecclesiam, quae est Dei vivi spirituale tabernaculum? What Sedulius sets out here, as a matter of principle, finds an interesting correspondence in the comparison he establishes between Solomon and Charles the Bald in carm. 12 (vv. 11-24):26 rex benedictus adest Carolus resonemus ovantes pacifer ut Salemon sceptra paterna tenens. ast uno Salemon templo celebratur in orbe; mille sed hic templis eminet arte novis. Ille fuit Solimae rex inclitus atque celebris; Sed centum Solimas hic tenet altithronus. […] Mente Salemonis sapientia prisca refulsit Hic nova cum priscis sacra fluenta bibit. Hunc mitis pietas, hunc ornat larga potestas, diligit hunc Christus glorificatque Deus. The same comparison recurs, with minimal lexical variation, in carm. 28,27 which also praises Charles, but expands the comparison to include other figures from the Old Testament by drawing a comparison between the succession of Abraham, Isaac and Jacob and that of Charlemagne, Louis the Pious and Charles the Bald.28 However, Sedulius draws the comparison with Solomon, albeit more succinctly, in two poems in praise of Lothar I.29
Flaccilla and Esther The fifth chapter elucidates «the great care for godly direction that ought to be exhibited by the ruler towards his wife and his children and the members of his own
26 On this poem, see the commentary of Reinhardt Düchting (Sedulius Scottus, Seine Dichtungen, München, Fink 1968), pp. 61-64. 27 Carm. 28, 33-44 (variants are indicated in roman characters) uno sed Salemon templo celebratur in orbe: / mille sed hic templis nomen in astra levat. / Ille fuit Solimae rex inclitus atque decorus: / Sed centum Solimas hic regit altithronus./… / Mente Salemonis sapientia prisca refulsit: / Hic nova cum priscis sacra fluenta bibit. / Hunc mitis pietas, hunc ornat larga potestas, / diligit hunc Christus glorificatque Deus. 28 Carm. 28, 51-60 Splendida progenies Karoli de semine magni, / pacifer ut Salemon regia sceptra tenens. / Caesaris es magni Ludewici florida virga, / proles Isaac ceu benedicta micas: / Abrahae similis Karolus praefulserat orbem, / filius Isaac sic Ludewicus erat, / tertius es veluti Iacob benedictus et heres / Iasac patris celsithronique ducis. / Ternarius reges numerus concludit eosdem: / nam trinum numerum conditor orbis amat. 29 Carm. 59, 25-26 hic tuus est Salemon, felix o Francia gaude: / pacificus princeps hic tuus ‹est› Salemon; 60, 17-18 rex tuus mitis, sapiens, honorus, / pacifer ductor Salemonis instar.
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household» (Quanta sacri moderaminis sollicitudo erga uxorem et liberos propriosque domesticos ab eodem est exhibenda). Rex pius et sapiens tribus modis regendi ministerium gerit. Nam primo se ipsum, quomodo in superioribus ostendimus, secundo uxorem propriam et liberos suosque domesticos, tertio populum sibi commissum rationabili et glorioso moderamine regere debet.30 Sedulius notes that «just as the moon shines more graciously in the splendor of the stars that stand around her, so undoubtedly is a just and wise king adorned by the society of other good men», but goes on to develop this idea solely in relation to the choice of wife. The sovereign is invited to choose – carefully (perspicaciter) – a wife that is not only noble, beautiful and wealthy but also «chaste and prudent and compliant in the holy virtues» (in sanctis virtutibus morigeram).31 Sedulius then provides a list that would benefit any man in search of a wife (endorsed by a quote from the disticha Catonis)32 of the ways in which the wrong sort of woman might cause harm to his house, and the benefits that a chaste and prudent woman might bestow. And, having quoted Paul (1 Cor. 7, 14 vir infedelis salvabitur per mulierem fidelem), he goes on to observe that it is not only unbelieving husbands who can profit from the counsel of a wise consort but that so too can Christian princes.33 As proof, he cites as exemplum the wife of Theodosius, Aelia Flaccilla, illustrating her virtues with a long quotation from the Historia ecclesiastica tripartita, which recounts both examples of the piousness and humility of the empress and the moral lessons she imparted to her husband.34 In the Bible, the few queenly figures who are mentioned in regard to their influence over their husbands include the cruel and ungodly figure of Jezebel, the adulteress Herodias – who was responsible for the death of John the Baptist – and Bathsheba, who petitioned David in support of her son Solomon’s succession to the throne, yet none of these could serve as a suitable example. However, there is also Esther, the Jewish wife of Ahasuerus, whose entreaty to the king saved her people from annihilation. Sedulius references her in the poem with which he closes the chapter (vv. 7-12): Christus ut ecclesiam sibi casto iunxit amore, Uxor viro sic haereat; Mitis simplicitas in cuius mente redundet Velut columbae gratia; Quam decoret pietas, prudentia, sacra potestas, Esder ut alma floruit. Esther is commemorated as an example of godliness (pietas), prudence (prudentia), and holy power (sacra potestas), which is attributed to her by Sedulius despite the total 30 Rect. V, p. 34, 1-4. 31 Rect. V, pp. 34, 18-35, 1 Is ergo perspicaciter procuret, ut non solum nobilem, pulchram ac divitem, sed et castam, prudentem quoque atque in sanctis virtutibus morigeram habeat coniugem. 32 Dist. Cat. III (= Anth. Lat. 716), 6 naufragium rerum est mulier malefida marito, quoted on pp. 35, 7-8. 33 Rect. V, p. 35, 3-25. 34 Rect. V, pp. 35, 25-36, 21. Sedulius quotes Hist. eccl. trip. IX. 31.
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power that her husband has over her in the biblical narrative. In any case, Sedulius does not offer more than this generic list of three qualities. The summariness of the reference to Esther contrasts with the detailed description of the actions of Flaccilla, who is commemorated both for her good deeds and as a counsel to her husband, whom she advised concerning the divine laws and exhorted to greater humility. In an age in which an empress could occupy a role of prominence, the exemplum of Flaccilla allows Sedulius to set out a model for the perfect Christian empress that is better suited for the needs of the age than that of Esther. What we are seeing here, then, is a sort of distribution of roles: in the more structured, descriptive section in prose, the example set forward is that of Flaccilla, whose conduct is described in a wealth of specific actions that a Carolingian queen might emulate, while in the closing poem we find the brief reference to Esther, an exemplum to follow more for her virtues than her actions.
Ungodly Kings from Sacred and Profane History The eighth chapter of De rectoribus is concerned with «avaricious and ungodly kings, and the great evils with which, because of them, the divine vengeance pursues both the people and themselves» (De avaris et impiis regibus, et quanta per eosdem populum mala vel ipsos ultio divina consequitur). Taking his lead from Augustine, Sedulius asserts that ungodly kings are none other than «great robbers of the earth, ferocious as lions, wild as bears».35 Sedulius offers numerous exempla illustrating the divine justice that these rulers bring down upon themselves and their subjects by their impious conduct: Regis Pharaonis impietas, quae ex cordis duritia inoleverat, sibi suisque Aegyptiis decem plagas intulit, atque insuper rubro mari Tartareique Acherontis imo ipsum suosque submersit. Antiochum et Herodem ac Pontium Pilatum, quis nesciat quanta destricti iudicis ultio perculit? Quid dicam de Nerone, Egea et impiissimo Iuliano aliisque eorum in nequitia consimilibus? Nonne omnes cum suis sequacibus post mortem pessimam os inferni devoravit?36 In addition to the Scriptures, Sedulius has drawn on Augustine, from whom he borrows the biblical figures of Herod and Pontius Pilate, and the pagans Nero, Ægea (actually Geta) and Julian the Apostate.37 However, he reserves most space for Theoderic, citing Pope Gregory I’s account, in the dialogi, of the Ostrogothic king’s horrific end:38 35 Rect. VIII, p. 43, 5-7: Quid sunt autem impii reges, nisi maiores terrarum latrones, feroces ut leones, rabidi sicut ursi? Cf. Aug. civ. IV, 4, 4 (remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna?), which is highlighted by S. Hellmann, Sedulius Scottus, ad loc. 36 Rect. VIII, p. 44, 12-19. For Tartareique Acherontis cf. Verg. Aen. VI, 295 Tartarei… Acherontis. 37 See S. Hellmann, Sedulius Scottus, p. 44, ad loc. Sedulius draws on Aug. contra litteras Petiliani II, 92, 202-203. 38 Rect. VIII, pp. 44, 19-45, 12.
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Sed ut innumeros praeteream, Theodorici crudelissimi regis de hoc saeculo exitum infelicem explicabo. Qui cum esset Arrianae sectator perfidiae ac bonorum insecutor Christianorum, postremo, sicuti cuidam sancto viro revelatum fuerat, inter Iohannem papam et Symmachum patricium discinctus atque discalciatus et vinctis manibus deductus, in Vulcani ollam iactatus est. Nam quia Iohannem papam affligendo in custodia occidit, Symmachum quoque patricium ferro trucidavit, ab illis in ignem missus apparuit, quos in hac vita iniuste iudicavit (Greg. M. Dial. IV, 31). […] Qua in re nimis terribile exemplum proponitur, ne terrae potentes servos Domini persequantur, quos valido virtutis suae brachio (cf. Sap 11, 22 virtuti brachii tui quis resistet?) Deus omnipotens ulciscitur. In illustrating his thesis, Sedulius could have restricted himself to biblical persecutors, perhaps with the addition of the wicked Jezebel. The inclusion of historical figures, however, is more than a simple display of learning. This is particularly the case with Julian and Theoderic, sovereigns who acted wickedly despite living in the Christian era. Julian, an apostate and persecutor of Christians, is also mentioned – together with a biblical king, Amaziah of Judah – in chapter XVII as an example of a sovereign who, in the hubris of his success in warfare, refused an offer of peace.39 Julian – who was killed, justly, by an unknown assailant at Ctesiphon40 – is the epitome of the ungodly sovereign, and thus is readily employed as a negative exemplum. As a negative paradigm of kingship, Theoderic has no biblical counterpart. A heretic, he persecutes the servants of the Lord, including the Pope. Of the figures mentioned in the prose text, the poem that closes the chapter only revisits the biblical figures, who are punished by the loss of what passing power they held (Rect, VIII, vv. 20-23): Contigit Antiocho, Pharaoni, Herodi miseroque Pilato Momentanea perdere regna, Cum sociis Acheronta subire.
Exempla Drawn from History Chapter IX outlines the qualities of peaceful and clement king, and explains to whom benefits should be given. The sequence of exempla is preceded by an apposite reference to Prov 20, 28 (misericordia et veritas custodiunt regem, et roborabitur clementia
39 Rect. XVII, pp. 78, 2-79, 13. 40 Rect. XVII, p. 79, 4-10: Qui vero iustissimum intulit vulnus, hactenus ignoratur, sed alii quendam invisibilium hoc intulisse ferunt, alii unum pastorum Ismahelitarum, alii militem fame et itinere fatigatum. Sed sive homo sive angelus fuerit, palam est, quia divinis iussionibus ministravit. Aiunt enim, quia, dum fuisset vulneratus, mox manum sanguine suo compleverit et in aerem proiecerit dicens: «Galilaee, vicisti», et in eo ipso confessus cum blasphemia victoriam. Sedulius contrasts the conduct of Amaziah and Julian with that of David (p. 79, 16-18 Unde beatus David de suorum interitu inimicorum non solum non erat laetatus, sed vehementer fuerat contristatus).
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thronus eius), which draws authority from its attribution to Solomon, the peaceful king par excellence:41 Non enim quicquam est, quod bonum rectorem melius populo favorabilem atque amabilem commendet, quam clementia et pacifica serenitas. Haec, ut alios causa brevitatis omittam, Augustum Caesarem fecit celeberrimum; haec Antonios, magnum quoque Constantinum, Theodosios ceterosque magnificos principes sublimiter beatificavit. Eadem quoque magnum Karolum inter cetera virtutum insignia in sacratissimum prae ceteris terrarum principibus Augustum dedicavit, haec Hluduwicum piissimum adornavit imperatorem. Et quid plura referam? Certe serenissima pietatis clementia gloriosos principes et glorificavit in terra et consortes sanctorum collocavit in caelo, quippe qui non solum sua, sed et totos semet ipsos Omnipotenti dederunt. Here, Sedulius draws entirely on secular history, presenting an extensive cavalcade of exemplary emperors which he would not have been able to find in sacred history, from Augustus, via pagan and Christian rulers (respectively, the Antonines, and Constantine and the two Theodosii), to recent history with Charlemagne and Louis the Pious. In terms of identifying those on whom benefits should be bestowed, he relies on an observation by the pagan emperor Nerva to warn the sovereign against the cupidity of friends who insist in their demands with presumptuous arrogance.42 Nor is this the only case in which Sedulius draws all of his exempla from profane history. Chapter XI is concerned with the duty of the good prince to support ecclesiastical causes with benevolent and earnest care and with synodal assemblies. Sedulius observes that a good prince honours God the most high when he shows himself the helper and protector of those who work in the Lord’s field, for it is certain that the Almighty will favour the causes of an earthly prince to the degree He sees that prince solicitous with regard to the affairs of the Holy Church. It is therefore wise for said prince to convene synodal assemblies two or three times a year, for to do so shall produce fruitful benefit (fructuosa utilitas) for the church and a seedbed of great merit (magni seminarium meriti) for the reverend ruler who brings them about. «For a holy council of bishops is the precious crown of a religious prince, in which the most renowned emperor, that is, Constantine the Great, rejoicing in the Lord, gloried, who assembled the most holy men from almost all the nations» to discuss the faith at the Council of Nicaea.43 From there has arisen the practice of convening synods propter necessarias sanctae ecclesiae utilitates, and it is best that a king be prudent and humble, and not take any decision with regard to ecclesiastical affairs before he knows the decrees of the synods. Indeed, a pius rector should do that which is just and lawful according to the prescriptions of the bishops.
41 Rect. IX, p. 47, 13-24. 42 Rect. IX, p. 48, 10-12: unde Nerva imperator dicebat: «amici cum se mereri omnia praesumunt, si quicquam non extorserint, atrociores fiunt». 43 Rect. XI, p. 51, 9-12.
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Nor should he pass his own judgement on the matters discussed at the synod, lest he incur blame in the sight of the Lord. Thus did Valentinian, in his humility and fear of God, decline to participate in the emendation of sacred dogma, thus imitating Constantine at Nicaea, who trusted not in himself but in the prudence and wisdom of holy bishops.44 Sedulius then cites Jovian, who by siding against the Arian heresy and following the Nicaean decrees, «acquired for himself from the brief summit of an earthly empire the glory of an eternal kingdom».45 The list of exempla ends with Theodosius I and Theodosius II, who so pleased the Almighty that, inspired by Him, they made the sceptre and the imperial purple subject to divine precepts and canonical regulations. For this, God lifted them up on Earth, and now they enjoy heavenly beatitude.46 The absence of biblical exempla in this chapter is explained by the choice of subject, which is the religious politics required of a Christian rector and evidenced in his relationship with the institution of the Church. Writing earlier than Sedulius, Jonas of Orléans – who would normally draw his exempla from the Bible – had also mentioned Constantine, in Inst. laic. II, 20 and Inst. reg. II, 22. Determined to assert the right and authority of the Church with respect to the power of the throne, he cites the address to the assembly of bishops in which Constantine had acknowledged their authority to judge men, but be judged themselves only by God.47 Sedulius does not go so far, but he does offer a gallery of sovereigns who show due deference to the Church and a readiness to respond to its needs, emphasising the temporal success and heavenly glory with which God rewarded them.
The Humility and Penitence of Kings In chapter XII, Sedulius uses the biblical exemplum of David and the historical exemplum of Theodosius to illustrate how «it is glorious for a godly ruler to comply with the most wholesome admonitions and corrections of the bishops». First, he provides a rather summary account of the contriteness of David, who – having been rebuked by the prophet Nathan for committing adultery with Bathsheba and having Uriah killed – did not become angry with his accuser, but acknowledged his sin.48 A far more extensive account is provided, quoting heavily from the Historia ecclesiastica tripartita, of the guilt and public penitence of Theodosius, who was prevented by Ambrose from entering the church following the massacre at Thessalonica. Referring to the same episode49 in De institutione laicali, Jonas of Orléans had highlighted Theodosius’ acknowledgement that his own imperial power was subject to the power
Rect. XI, p. 52, 8-17. Rect. XI, p. 52, 17-20. Rect. XI, p. 52, 21-28. Inst. laic. II, 20, p. 66, 91-100 of Jonas d’Orléans, Instruction des laïcs, Tome II ed. by Odile Dubreucq, Paris Cerf 2013 (coll. Sources chrétiennes 550) and Inst. Reg. II, 22, in both of which he cites Rufin. HE X, 2. 48 Rect. XII, p. 54, 10-17. 49 Inst. laic. II, 20, pp. 70, 139-72, 147.
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of God, of whom Ambrose was the minister.50 Sedulius does not go quite so far, merely inferring that boni and pii rectores should listen to the wholesome corrections of the bishops, adding a verse from Proverbs to support his assertion.51 The pairing of Theodosius and David can be traced to Ambrose, who had dedicated the Apologia David to Theodosius, and hailed the humilitas of the emperor in De obitu Theodosii.52 Sedulius gives far more attention to the penitence of Theodosius than to that of David, a fact explained by the public nature of the actions taken by the emperor.53 Indeed, Theodosius’ exemplary contrition demonstrates how, in exercising his power, a rector Christianus must take heed of what the bishops tell him. Theodosius reappears in chapter XIII, which is concerned with «the zeal of the good ruler, combining reason and piety». Here, he is cited with regard to the rage that drove him to order the massacre at Thessalonica, his example serving as a warning to the contemporary sovereign not to give in to irrational compulsion, but overcome the impulses of righteous anger with pietas:54 Unde bonus et prudens rei publicae gubemator aptum est ut illud semper praecaveat, ne, dum suam suorumve iniuriam ulcisci supra modum disponit, irrationabilis reatum furoris incidat, sed propriam iram refrenare non negligat et iusti furoris stimulos affectu pietatis removeat, ne forte, si plus iusto desaeviat in subiectos, incurrat rabiem leoninae ferocitatis. Unde scriptum est: noli esse sicut leo in domo tua, subvertens domesticos tuos et opprimens subiectos tibi (Eccli 4, 35). Nam sicut debellare superbos, ita et parcere subiectis (cf. Aen. VI, 853) iustum et misericordem dominatorem oportet. Unde et Antoninus imperator dicebat malle se unum civem servare quam mille hostes occidere (Script. Hist. Aug. Anton. Pius 9, 10). This exhortation to self-control is corroborated by a biblical verse, Virgil’s parcere subiectis et debellare superbos and the words of Antoninus Pious recounted in the Historia Augusta.55 Sacred text is thus combined with profane culture to set out precise rules of conduct, a device that is also discernible in Lupus of Ferrières.56 50 Inst. laic. II, 20, p. 72, 143-145: Sciebat nempe potestatem imperialem qua insignitus erat ab illius pendere potestate cuius famulus et minister Ambrosius erat. 51 Rect. XII, p. 56, 25-29: Unde perspicuum est, quoniam decet bonos et pios rectores salubres antistitum, quasi spiritualium medicorum, humiliter et libenter auscultare correctiones, testante Salemone, qui ait: «inauris aurea et margaritum fulgens, qui arguit sapientem et aurem oboedientem» (Prov 25, 12). 52 On Ambrose’s use of the Bible vis-à-vis Theodosius, see the contribution of Paola Francesca Moretti in this volume. 53 In light of the episode of Lothar II’s divorce of Teutberga and marriage to Waldrada, it is possible that Sedulius chose not to dwell on the adultery of David, lest it raise uncomfortable questions about more recent events. 54 Rect. XII, p. 59, 10-19. 55 On Sedulius’ knowledge of the Historia Augusta and its inclusion in De rectoribus, see Eduardo Otero Pereira, «Sedulio Escoto y la Historia Augusta», Actas II Congreso Hispánico de Latín Medieval, vol. II, Léon, Universidad de Léon, Secretariato de publicaciones, 1998, pp. 721-728. 56 See, in particular, given the similarity of context (in that they are both texts offering counsel to Charles the Bald) Lupi abbatis Ferrariensis epistolae (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistolae VI), epist. 64, p. 64, 22-25, which has been dated to around 843, Cogitate multa, nec dicatis omnia, quia vel iuxta divinam scripturam “qui custodit os suum, custodit ab angustiis animam suam (Prov 21, 23), vel iuxta
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The other exempla in chapter XIII are all drawn from Scripture. The first two are negative: King Saul, who, in his rage, orders the killing of the priests,57 Solomon, who – despite his wisdom – allows tyranny to get the better of pietas and has his half-brother Adonijah killed,58 and the Jews, who – with misguided zeal – became the murderers of the Son of God and His holy disciples. In contrast to all of this stands the positive example of David:59 At patientis virtute mansuetudinis sanctus David praeditus etiam inimicis suis saepe pietatis affectu pepercit, nonnumquam vero Dei zelo stimulatus inimicos Domini usque ad mortis exitium protrivit. Furthermore, if a foreign king such as Nebuchadnezzar could go so far as to condemn those who had profaned the God of Israel, so much greater should be the zeal of orthodox rulers with regard to Christ.60 David’s conduct with regard to war and his enemies is also cited later in the text. In chapter XVI – «Concerning adversities, if perhaps they should come to pass» (de adversis, si forte contigerint) – he is used to exemplify how a godly sovereign might avoid spiritual and carnal enemies, or triumph over them, if he is «defended and equipped with spiritual arms».61 Chapter XVII advises the ruler to avoid pridefulness when his enemies offer peace, or once they have been defeated (De non superbiendo post oblatam etiam ab hostibus pacem seu prostratos hostes), as Deo displicet quisquis exaltet se in malis alterius (p. 79, 16). The exemplum is again David, who not only «did not rejoice at the death of his enemies, but […] was exceedingly sorrowful, mourning with the affection of charity the mighty men of Israel laid low by the Philistines».62
Seeking God’s Aid for Success in Battle, and Returning Thanks to Him Once Victorious Chapters XIV-XVIII are concerned with the various aspects of the ruler’s involvement in war. The first issue to be addressed is the conduct of the Christian commander, who «should trust neither in his own strength nor in that of his
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secularem litteraturam: “quod occultum velis, nemini dixeris, Quam non poteris exigere ab aliis silentium, quod tibi ipse non praestas” (cf. liber de moribus, 16). Et: “Non potest vox missa reverti” (cf. Hor. Ars. 390); and epist. 93 (p. 86 and n. 90, below). Cf. 1 Rg 22, 6-19. 3 Rg 2, 22-24. Rect. XIII, p. 60, 16-19. Rect. XIII, pp. 60, 21-61, 3. Rect. XVI, p. 75, 6-17 Quisquis vero bonus et iustus rector spirituales et carnales hostes nec non quaelibet adversa vel evadere vel triumphaliter vincere desiderat, armamentis spiritualibus munitus atque ornatus fiat, iuxta apostolum indutus lorica iustitiae, galea spei nec non clipeo fidei protectus ac divini sermonis gladio coruscus emineat.[…] Quomodo sanctus David, ut alios causa brevitatis omittam, armis spiritualibus praeditus, quia Deum verum toto corde timebat et amabat, multa evaserat pericula, atque hostes Domini digna saepe perculit ultione. Rect. XVII, p. 79, 16-19.
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people, but in the Lord» (chapter XIV: De duce Christiano, non in sua nec in suorum fortitudine, sed in Domino confidat). Having backed up this assertion with two quotes from the Psalms and another from Jeremiah,63 Sedulius turns again to the Historia Augusta and to Isidore of Seville,64 noting that even the most powerful animals can be defeated by those smaller than them. He then cites the historic example of Xerxes, who – with his immense army – was halted by Leonidas and his much smaller force, and who – thus disgraced – was killed on his return home. The absence of biblical exempla in the prose section is compensated by the mention of Goliath in the verse that closes the chapter.65 From this imperative to trust not in oneself but in God follows the need to seek His aid «against the threatening noises of hostile wars» (chapter XV). This is demonstrated by Moses, who is victorious over Amalek provided he lifts his hands to heaven,66 by the king Hezekiah, who does not fight with weapons but with tears and prayers, leading the angel of the Lord to put to death 185,000 Assyrians,67 and by the king Jehoshaphat, whom God rewards for his praises with victory over his enemies.68 This series of Old Testament exempla closes with the Maccabees and, in particular, the feats of Judas,69 before Sedulius moves on to more recent history:70 Nec solum in veteri testamento haec facta sunt, sed etiam in novo his similia contigerunt. Unde historiae tradunt, quod Constantinus imperator cruce Christi pro vexillo utens universos hostes suos superaverit. Similiter et Theodosius Augustus magis orando quam bellando quosdam tyrannos eorumque exercitus prostravit; cui Dominus tempestatem, fulgura et tonitrua in auxilium contra adversarios misit et eos vindicta caelesti protrivit. De quo quidam eleganter poeta sic ait: «O nimium dilecte Deo, tibi militat aether Et coniurati veniunt ad classica venti». Constantine and Theodosius are thus understood to follow in the footsteps of the great war leaders of the Old Testament. For details of Theodosius’ victory at the Frigidus, Sedulius can draw on the account by Orosius, complete with the quote from Claudian, which is also related by Augustine.71
63 Rect. XIV, p. 62, 9-17: Sedulius quotes Ps 118, 8-9 and 145, 3-4; Ier 17, 13 + 17, 5. 64 Rect. XIV, p. 63, 5-11. The first element (l. 5-7) is drawn from Script. Hist. Aug. Max. duo, 9, 4, while the parts about the crocodile (l. 9-10) and the unicorn (l. 11) are derived from Isid. Etym. XII, 6, 19 and 2, 12. 65 P. 65, vv. 14-19 Quem galeae tutela premit ceu lanea cassis, / Lancea vulnipotens sicut harundo valet. / Talibus horrendus iactabat sene Golias? / Quem funda missus stravit ab hoste lapis; / Illum non iuvit clipeus, non arma tremenda / Nonque minax sermo profuit allophylo. 66 Rect. XV, p. 66, 16-18, cf. Ex 17, 11. 67 Rect. XV, p. 66, 18-20, cf. 4 Rg 19, 1-35. 68 Rect. XV, pp. 66, 20-67, 4 , cf. 2 Par 20, 21-25.. 69 1 Mach 3, 17-22: Rect. XV, p. 67, 4-15. 70 Rect. XV, pp. 67, 17-68, 4. 71 Oros. VII, 35, 21; Aug. civ. V, 26, 1. Sedulius quotes Claudian (Claud. Hon. cons. III, 96-98: O nimium dilecte Deo, cui fundit ab antris / Aeolus armatas hiemes, cui militat aether / Et coniurati veniunt ad classica venti) as reported by Orosius, omitting the second half of v. 96 and the first of v. 97 and replacing cui with tibi.
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Moreover, the exempla from tempora Christiana do not end here. Sedulius recalls how the bishop Jacob of Nisibis summoned stinging insects and midges against the army of the Persian king Shapur, thus breaking the siege of his city, and how another bishop, Germanus of Auxerre, aided by Lupus of Troyes, succeeded by his prayers in bringing victory to the newly baptised Britons over the Picts and Saxons. Examples such as these demonstrate unequivocally how the prayers of holy men and divine aid can provide better protection from harm than weapons might.72 In addition, Sedulius cites a long passage from Leviticus (26, 3-17 and 23-25) in which God promises his people prosperity, peace in their own land and victory over their enemies, provided they do that which he has instructed, while threatening them with all manner of punishments if they will make void his covenant.73 Albeit these words are addressed to the people of Israel, who were seeking only worldly benefits, God’s words here can be applied to Christian people, for whom He provides in this world and, what is more, to whom He promises blessings in heaven.74 The line of continuity between the Old Testament and tempora Christiana is picked up again in chapter XVIII, which stresses that «after peace or victory, acts of thanksgiving and well-intentioned prayers should be returned to God» (Gratiarum actiones ac benivola vota post pacem seu victoriam Deo reddenda). He cites first Moses – with the song raised to God following the miracle of the Red Sea – and «the famous and holy chieftains», including David, who «offered up both hymns of praise to their Deliverer and Protector and peace offerings and other sacrifices acceptable to the Lord». He also notes that, similarly, in novi testamenti tempore, many sacratissimi rectores did not fail to acknowledge the benefits received from God the most high, and that the greater the glory to which they were raised by the grace of God, so much greater where the honours they rendered to Him.75 The first exemplum is that of «the great and best emperor Constantine, who, distinguished by outstanding godliness» – having become, by the disposition of divine providence, master of all of Europe, Libya and most of Asia – had devoted subjects everywhere. Yet, in his triumph he acknowledged and admired the power of God the most high, as can be seen from a letter he composed, which Sedulius quotes from the Historia ecclesiastica tripartita.76 After all, «what ruler distinguished by the honour of the name of Christian» could help but give thanks and humbly obey the God to whom even the ungodly king Nebuchadnezzar and the supreme pagan Alexander the Great paid homage? Returning to the Christian age, Sedulius cites the example of Theodosius II, lux imperatoriae dignitatis sacratissima, who sent his wife Eudoxia on pilgrimage to Jerusalem, bringing great honour to churches in both Jerusalem itself and other cities.77
72 Rect. XV, p. 70, 9-11: His itaque et talibus exemplis evidenter ostenditur, quod magis homines sanctis orationibus ac divino auxilio, quam armis saecularibus a periculo mortis protegantur. 73 Rect. XV, pp. 70, 14-71, 6. 74 Rect. XV, p. 71, 7-10. 75 Rect. XVIII, pp. 81, 15-82, 8. 76 Rect. XVIII, pp. 82, 17-83, 9. The quote is taken from Hist. eccl. trip. III, 3. 77 Rect. XVIII, p. 83, 21-26. Sedulius misnames Eudocia, calling her Eudoxia, which was the name of Theodosius II’s mother.
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Compared to the Old Testament exempla, the figures of the Christian emperors are less distant from the world in which Sedulius was writing and more directly impactful. The successes of Constantine teach the rector Christianus just how much power God may bestow upon him if he acts in a godly manner; the conduct of Theodosius II serves as a reminder of his duty to pay homage to the churches.
«Divine and Human Histories»: The Choice of exempla Sedulius discusses his sources in the verse preface to De rectoribus (vv. 11-16): Ob hoc caelestum transcurrens prata librorum Florida congessi vobis, rex, inclite serta, Quae capitis vestrae mentis diadema perornent Sceptraque glorificent Christi dominantia nutu, Atque salutiferas divini dogmatis herbas Pollice decerpsi nardo redolente calathis. He makes no mention of sources beyond the caelestes libri, which is consistent enough with the overall character of his treatise, in which he supports his arguments using a dense fabric of biblical references. In the dedication to the unnamed king at the end of the text, however, he does explicate and discuss the criteria he used in its composition:78 Has autem paucas de multis, divinas et humanas historias percurrens, vestrae, domine rex, excellentiae commonitorias obtuli litteras, […] utile fore perpendens, si, quae sparsim in divinis et humanis eloquiis de quibusdam bonis et malis regibus sive principibus leguntur, in unum breviter deflorarem opusculum, unde possit vestrum delectari ingenium, et nostrae devotionis erga vestrae claritudinem intelligentiae manifestari benivolum queat obsequium. […] Hos itaque apices velut enchiridion vestri sagacitas ingenii saepius transcurrendo perlegat, quatinus facilius animadvertere possit, quanta mala malis et quanta bona bonis rectoribus superna et divina iustitia rependit. Sedulius says that the selection of examples from the lives of good and bad kings and princes are the product of reviewing both «divine and human histories», and that he presents them that the sovereign, by reading this «handbook» (enchiridion) might «more easily observe how many evils supernal and divine justice metes out to evil rulers and how many good things to good ones». One reason for this twofold recourse to «divine and human discourses» (divinis et humanis eloquiis) is the author’s intention – itself explicitly stated in the dedication – to provide a text that will delight its reader (unde possit vestrum delectari ingenium). As a simple presbyter, come to the continent from Ireland, and therefore free from the public responsibilities that might burden men more actively employed in the ranks 78 Rect. XX, pp. 88, 19-89, 6.
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of the Church, such as Jonas of Orléans or Hincmar of Reims, Sedulius can permit himself such preoccupations. The insular origins of his literary education, which was not limited to Christian texts,79 enabled him to draw on a wider spectrum of sources. Moreover, the use to which he puts the exempla from profane history, as we have seen, is such that it would be grossly reductive to attribute their inclusion to nothing more than a sort of literary ostentation.80 In De rectoribus, the biblical exempla – the kings most of all – retain the same weight as their counterparts in the other Carolingian specula.81 David and Solomon, in particular, enjoy unchallenged status as models of kingship, and are, respectively, the two biblical kings who are mentioned most in De rectoribus.82 As we have seen, Sedulius compares the perfect ruler with both figures,83 but even earlier, Charlemagne had been dubbed the «new David», and David had enjoyed much success in the specula of the ninth century.84 Similarly noteworthy are the fortunes of Solomon, who appears not only in De rectoribus but also in Sedulius’ Carmina85 and beyond. It will suffice to observe that comparisons with David and Solomon appear in the dedications of various Bibles to Charles the Bald,86 who, in the Codex Aureus of St Emmeram (dated to 870), is even portrayed as a new Solomon, and likened to both David and Solomon in the volume’s dedicatory verses.87 The profane exempla selected to stand alongside the biblical examples – without undermining their authoritativeness – offer the author a broader array of models though which to deliver his lesson. Despite the pre-eminence of Constantine,88 these are not limited to him and Theodosius, but even run close to Sedulius’ own time, with the case of Charlemagne and Louis the Pious.89 On each occasion, Sedulius chooses the figure he deems most fitted to illustrating the prescribed conduct. This
79 On the importance of the «Irishness» of Sedulius’ education, with regard to De rectoribus, see L. M. Davies, «Liber de rectoribus…». 80 Certainly not to the extent suggested by Hellmann, for whom, «das Kokettieren mit Zitaten… war der planvollen Durchführung einer klaren Disposition ohnehin äusserst abträglich» (Sedulius Scottus, p. 8, n. 3). 81 On the biblical exempla regis in the specula, see H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 419-436. 82 H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, p. 276. 83 See above, pp. 72-74. 84 H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 423-429. 85 See above, p. 74. 86 See Poetae Latini Aevi Carolini, III (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae Latini medii aevi 3), Bibliothecarum et psalteriorum versus I p. 248, v. 195 (David and Solomon); III, X, vv. 1-2 and 9 (for a comparison with David); V, pp. 255-257 compares Charles the Bald with David and Solomon, ratifying his superiority. For other assimilations of Charles to David or Solomon see H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 430-431. 87 Munich, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14000, f. 5v. The verse dedication is featured in Poetae Latini Aevi Carolini III, Bibliothecarum et psalteriorum versus IV, I, p. 252, vv. 9-10 hic David vario fulget de nomine regis / Atque Salomonica iura docentis habet. 88 On the importance of Constantine in De rectoribus see H. H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 441 and 444; for Theodosius, see pp. 443-444. 89 See above, p. 74.
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is the case, in particular, with aspects and circumstances that are not featured in the Old Testament, which are typically associated, on the one hand, with political practice, and on the other, with the transcendent horizons of Christianity and the existence of the institution of the Church. While a figure such as Solomon – who features particularly frequently in De rectoribus, not least because of the attribution of the Proverbs to his authorship – might remain an unparalleled exemplar of wisdom, when it comes to learning how to choose the right wife, surround oneself with suitable advisers, honour and protect the Church, convene synods and generally avoid falling into heresy, a king can more easily learn from profane history. Profane history occupies an analogous role in a text by a contemporary of Sedulius – who ranks alongside him, moreover, in terms of doctrine and breadth of reading – Lupus of Ferrières. Indeed, it is a letter by Lupus to Charles the Bald – epist. 9390 – that provides the key to the meaning of Sedulius’ achievement. Lupus, like Sedulius, draws on profane wisdom. He offers the emperor instructions for good government that are founded on the Scriptures, but he also draws the sovereign’s attention to two instructive passages from Sallust and Valerius Maximus.91 Even more significantly, he includes with his epistle a copy of the epitome de Caesaribus. As Lupus writes:92 Imperatorum gesta brevissime comprehensa vestrae maiestati offerenda curavi, ut facile in eis inspiciatis, quae vobis vel imitanda sint vel cavenda. Maxime autem Traianum et Theodosium suggero contemplandos, quia ex eorum actibus multa utilissime poteritis ad imitandum assumere. The examples of figures such as David, Solomon and Moses are important, in principle, because they illustrate the moral conduct required of a Christian prince; on a practical level, however, they risk being too remote to serve as models for the sovereign in the concrete activity of government. The emperors are far less distant and far more imitable in their actions, be they pagans such as Trajan or Christians such as Theodosius.
90 The letter, which was composed at the start of autumn 844, is principally concerned with the question of the choice of consiliarii regis. For more detail, see Alberto Ricciardi, L’ epistolario di Lupo di Ferrières: intellettuali, relazioni culturali e politica nell’eta di Carlo il Calvo, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 2005, pp. 291-303. See also H. Anton, Fürstenspiegel und Herrscherethos…, pp. 252-253. 91 Sallust. Catil. 1, 6 (antequam incipias, consulto, et, ubi consulueris, mature facto opus est) and Val. Max. II, 2, 1 (fidum erat et altum reipublicae pectus curia silentique salubritate munitum et vallatum undique: cuius limen intrantes, abiecta privata caritate, publicam induebant): Lupi abbatis … epist. 93, p. 83, 7-8 and 10-12. 92 Epist. 93, p. 83, 15-18.
Francesco marzella
Eleuatus est sol et luna stetit in ordine suo Bible and Kingship in Aelred of Rievaulx’s Writings for Henry II
Introduction Bernard of Clairvaux’s love for the Holy Scriptures and the freedom with which he quotes them, made one of his medieval biographer write – possibly with excessive emphasis – that he «employed the Scripture in such a free and profitable way, that rather than following it, he seemed to precede it».1 More recently, Henry de Lubac observed: «il n’explique pas l’écriture à propement parler: il l’applique; il ne l’éclaire pas: il éclaire tout par elle, et d’abord le cœur humain».2 The English Cistercian Aelred of Rievaulx showed that he had assimilated Bernard’s lesson, both in treatises on religious topics – one of them, the De Iesu puero duodenni, is actually an exegetical treatise – and in his sermons. In this paper we will examine the presence of the Bible and its uses in two texts on historical and hagiographical matters written for Henry II, king of England.
The texts Genealogia Regum Anglorum
Aelred3 was born in Hexham, the son and grandson of married priests, and his family enabled him to receive a good education. He was probably educated in Hexham first, and then in Durham; from 1124 he was at the court of David of
1 Utebatur sane Scripturis tam libere commodeque, ut non tam sequi illis, quam praecedere crederetur (Geoffrey of Auxerre, Vita prima, III, 7; English translation from Mette Birkedal Bruun, Parables: Bernard of Clairvaux’s Mapping of Spiritual Topograpy, Leiden-Boston, Brill, 2007 (coll. Brill’s Studies in Intellectual History 148), pp. 30-31. 2 Henri de Lubac, Exégèse Médiévale: les quatre sens de l’écriture, Paris, Aubier, 1959, II (coll. Théologie 42), p. 585. 3 On Aelred’s life and writings see Aelred Squire, Aelred of Rievaulx: a Study, London, S. P. C. K., 1969, and the more recent A Companion to Aelred of Rievaulx (1110-1167), ed. M. L. Dutton, Leiden-Boston, Brill, 2017 (coll. Brill’s Companions to the Christian Tradition 76). Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 87-103 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124803
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Scotland, where he was brought up together with the son of the king, Henry. He was soon appreciated by the king, who made him economus and dapifer summus. It was actually at the request of King David that Aelred went to Yorkshire where he had the chance to become acquainted with the community of Rievaulx. He was so impressed by the way of life of the monks and by the beauty of the place, that he decided to leave the world and become a white monk. Very soon he became one of the leaders of the community of Rievaulx, rising to the rank of abbot in 1147, when he was just 37. In the meanwhile, he established himself as a master of spirituality and a respected author of many treatises. In 1153, on the death of David of Scotland, Aelred decided to write a biography in the shape of a funeral lament (non historiando, sed lamentando4) that he dedicated to Henry Plantagenet. In 1153 the French Henry was duke of Normandy, but was already designated to become king of England thanks to the treaty of Wallingford between King Stephen and Henry’s mother, Matilda, a treaty that put an end to long years of civil war. Matilda was the daughter of Henry I – fourth son of William the Conqueror – and Matilda of Scotland, the sister of King David and descendant on her maternal side of the Anglo-Saxon royal house. The dedication to Henry, therefore, is appropriate for at least two reasons: David is a relative of Henry (he is the uncle of his mother) and Henry was ordained as a knight by the Scottish ruler. Aelred dedicated this work to Henry so that he could consider what glorious stock he sprung from and so that he could also see in David a model to imitate. It is designed by Divine Providence – Aelred points out – that David girded Henry with the swordbelt with his purest hands per quas Christi gratia uirtutem tibi castitatis illius, humilitatis illius et pietatis infunderet.5 Aelred added to the lament also a genealogical libellus: Adieci etiam de genealogia tua libellum unum quo potentissimorum regum Anglie mores optimos et gesta fortia tangens, quoddam tibi probitatis exemplar et regie uirtutis composui speculum, ut ab eis potissimum discas normam uiuendi, ex quorum progenie quasi de optima radice fructus optimus processisti. (Epist. ll. 42-47, p. 4) A literary work in two ‘acts’, rather than two distinct texts, this speculum nevertheless formally belongs to other literary genres (biography and historiography). The commemoration of David’s virtues and of his pious death6 is followed by the genealogical list of Henry’s ancestors, that moves from the most recent to the oldest times. This genealogical list considers the feminine branch of Henry’s family that links him to the Anglo-Saxon royal house to Adam, passing through, among others, Wotan-Odin and Noah. The list is followed by a series of portraits
4 Aelredi Rievallensis Opera omnia. Opera historica et hagiographica, ed. D. Pezzini, Brepols, Turnhout, 2017 (coll, Corpus Christianorum. Continuatio Mediaeualis 3), p. 4 (Epistola ad Henricum). All the Latin quotations from the Genealogia are from Pezzini’s edition. 5 Ibid. 6 Despite his fame as a pious ruler, David will never be formally canonised.
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of English rulers who were eminent for their virtues7 and that constitutes the actual libellus. The Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris
The second text we are examining is a hagiographical work, the Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris, written by Aelred by 1163 and probably presented to Henry Plantagenet, at the time already Henry II, on the occasion of the translation ceremony held in October in the same year at Westminster. Henry supported the canonisation of his ancestor, the last great Anglo-Saxon king, who was already considered a saint mostly on account of his purity. In fact, he was said to have preserved his virginity even after his marriage. The negative implication of this choice was the lack of heirs, which is certainly not irrelevant for a king. In fact, Edward’s heirless death at the beginning of the year 1066 opened the way to the invasion of England by the Normans, led by William the Bastard, Edward’s cousin, who claimed to have obtained a promise of succession from his Anglo-Saxon relative. In the dedication of this hagiographical work to King Henry II, this time Aelred proposes Edward as a possible model of behaviour and as an ancestor Henry could pride himself on: Cum etiam sanctissimam eius uitam et preciosam legeris mortem, uideas in ea quod imiteris, uideas quod admireris, uideas in quo glorieris. Imitanda namque est tanti regis tanta iusticia, mirari dulce est in tot diuitiis et deliciis tantam continentiam, de sancta eius progenie traxisse carnis originem Henrici nostri specialis est gloria. (Vita Ædwardi,8 Prol. ll. 32-37, p. 88) Henry had also another reason for being interested in this text. In fact, Aelred was the first biographer of the Edward the Confessor to propose an interpretation of the prophecy Edward made on his deathbed. Two Norman monks appeared to the dying Edward, two monks he met during his youth in Normandy, and they told him this enigma: a tree, separated from its root for three yokes, will bloom again and bear fruit when it will be reunited to the root. According to Aelred, St Edward doubtlessly foresaw the ascent to the throne of Henry, his descendant. As explained in chap. XXX of the Vita,9 it is possible to associate a king or a queen with each element of the prophecy:10 the tree represents the royal stock from Alfred the Great to Edward the Confessor; the three yokes separating the two parts of the tree represent the kings who ruled over England without belonging to that stock (Harold, William
7 With some, no less instructive, exceptions. For example, the case of King Edwy, presented as the new Herod in chapter VII of the Genealogia (on pp. 37-38 in Pezzini’s edition). 8 All Latin quotations from the Vita sancti Ædwardi are from Aelredi Rievallensis Opera omnia. Vita sancti Ædwardi regis et confessoris – Anonymi Vita sancti Ædwardi uersifice, ed. F. Marzella, Brepols, Turnhout, 2017 (coll. Corpus Christianorum. Continuatio Mediaeualis 3A). 9 Ibid., pp. 154-155. 10 A possible model, among others, for this associative approach could be that of Daniel’s interpretation of Nebuchadnezzar’s dream in Dan 2, 36-45.
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the Conqueror, William II); the tree was reunited to its root when Henry I married Matilda of Scotland, Edward’s descendant; the tree bloomed when they begot Matilda and finally it bore fruit when King Henry II was born. Aelred suggests that Henry II was the lapis angularis that united the Normans with the Anglo-Saxons. An important feature of these two texts – almost a ‘diptych’ of kingship – is the constant use of biblical quotations and biblical exempla to deliver various kinds of teachings or to delineate an ideal image of kingship. For example, this is the incipit of the Vita sancti Ædwardi, almost a cento of biblical passages meant to suggest that God manifested his mercy in every age: Gloriosi ac Deo dilecti regis Adwardi uitam litteris tradituri, ex uerbis beatissimi Petri apostolorum principis sumamus exordium, qui beati centurionis uocationem admirans: «in ueritate, inquit, comperi quia non est personarum acceptor Deus, sed in omni gente qui timet Deum et operatur iusticiam acceptus est illi» (Act 10, 34-35). In omni itaque gente, in omni ordine, in omni gradu, in omni dignitate, nouit Dominus qui sunt eius (2 Tim 2, 19) et miseretur cui uoluerit (Rom 9, 18) et misericordiam praestat in quem sibi placuerit, attingens a fine usque ad finem fortiter (Sap 8, 1), et disponens omnia suauiter (Sap 15, 1). (Vita Ædwardi I, ll. 1-9, p. 93) In this paper I will briefly illustrate some characteristics of these biblical quotations, focusing on three main aspects: the rulers’ relationship with the Bible; references to biblical models, biblical quotations and kingship.
The Rulers’ Relationship with the Bible The Scriptures as an Object
Alfred the Great is the only ruler described by Aelred who seems to have a direct relationship with the written text of the Bible: Ita meditabatur in etate puerili quod senex deuotus impleret. Denique portionem quamdam psalterii in qua maxime delectabatur, paruo uolumine scriptam in sinu semper circumferebat, ut quod pectus illud interius ruminabat, ab exterioris sui hominis pectore non recederet. (Gen. II, ll. 21-25, p. 26) Alfred possesses and constantly carries with him a psalter copied in a parvum volumen. It is worth paying attention to ruminabat, a technical verb that reminds us of the monastic practice. Biblical Passages or Models Considered by the Kings
Alfred seems indeed to devote much time to meditation upon biblical passages. In 878 he took refuge in the marshes of Somerset with some companions after the Danish attach on Chippenham. While he was there, a mysterious pilgrim saw him meditating upon the law of God and finding comfort in the psalms:
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Quadam igitur die, cum sociis in preda piscium occupatis in tuguriunculo residens meditaretur in lege Dei, hymnisque dauiticis proscriptionis sue solaretur iniuriam, affuit quidam in habitu peregrino… (Gen. II, ll. 73-76, p. 28) An example of a biblical passage which Edward the Confessor often meditated upon and on which he based his behaviour is found in the (essentially moral) portrait of the king: In his omnibus uir beatus in gloriam non est elatus humanam, sed Dei in se bonitatem (Rom. 11, 22) altius recognoscens, illud Sapientis sedulo meditabatur: principem te constituerunt, noli extolli, sed esto in illis quasi unus ex illis (Eccli 32, 1). Hanc sibi uiuendi formam proponens, suis se domesticis praebebat aequalem, sacerdotibus humilem, plebi gratum, compatientem miseris, largum egenis. Mira illi circa Dei cultum deuotio, mira in aecclesiis et monasteriis construendis uel reparandis sollicitudo. (Vita Ædwardi, VI, ll. 1-8, p. 103) Edward is particularly devoted to St Peter, who appeared in London at the time of Bishop Mellitus to consecrate the abbey of Westminster.11 Besides the first pope, the king venerates also St John the Evangelist, main character of one of the most famous legends in the Vita sancti Ædwardi, concerning the ring donated by the king to St John, who appeared to him disguised as a poor pilgrim.12 St John, the beloved disciple, inspires Edward with his chastity. Chapter XXVII opens with a comparison between the two apostles, in the vain attempt to determine who is more holy than the other. This comparison is based on references to biblical episodes deeply examined by Edward: Quod isti defuit de primatu supplebat affectus, et quod ille minus habuit ex affectu collata dignitas recompensabat. Vnde congrue simul uocantur a Christo (cf. Mt 4, 18-22; Mc 9, 2-13; Lc 9, 28-36), simul in monte fuere cum Christo (cf. Mt 17, 1-9), simul missi sunt ad cenaculum grande stratum, ut Pascha pararent (Mc 14, 15-16) Christo, simul ad monumentum currebant (Io 20, 4), ut Christi resurrectio probaretur, simul ascendebant in templum ad horam orationis nonam, ut claudus curaretur (cf. Act 3, 1-10). Et quid hoc apostolo dulcius, qui a pectore Iesu et ab uberibus eius inebriabatur sapientia et dilectionis eius lacte potabatur (Io 13, 23)? Haec et his similia beatus Ædwardus admiratione diligenti perpendens, post apostolorum principem hunc amicum Iesu artius diligebat, eius libens insistebat obsequiis, frequens ei sermo de eius excellentia, frequens de illius uirginitate meditatio. (Vita Ædwardi, XXVII, ll. 8-20, p. 146) Another example, this time from the first part of the Genealogia (De vita David regis). David of Scotland, being close to death, starts to meditate on the psalms. Aelred provides a brief exegesis of single verses through a moral and anagogical reading. The 11 Then refounded by King Edward between 1042 and 1052. 12 Chapter XXVII (pp. 145-148). On this episode see Francesco Marzella, «L’anello del re e il “Paradiso”dell’Evangelista. Genesi di un episodio della Vita sancti Edwardi regis et Confessoris di Ælredo di Rievaulx», Hagiographica, 18 (2011), pp. 217-262.
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aim of his comment is to prove how what was expressed by the word of God was fulfilled in the life of David and will determine his future beatitude: Ita deinceps diuinis laudibus intentus, fatiscentes artus spiritui subiugabat, quem tota die illa et psalmis et orationibus exitui preparabat. Die uero sabbati, id est pridie quam ab hac uita discederet, cum psalmum centesimum octauum decimum magna cordis contritione reuolueret, et ad sextum decimum eiusdem psalmi capitulum psallendi ordine perueniret, altius ingemiscens, et uim uerborum illorum spiritu profundiore concipiens, idem capitulum septies repetiuit, intimo affectu proclamans: Feci iudicium et iustitiam, non tradas me calumniantibus me (Ps 118, 121). Sensit, enim ni fallor, spiritu docente, quid calumniatori calcaneo nostro, id est fini artius insistenti, securius responderet, quas iudici preces pro sui defensione porrigeret, et ait: Feci iudicium et iustitiam, non tradas me calumniantibus me. Lenit quippe districti sententiam iudicis, qui contra se officio fungitur iudicis, securusque post mortem diuinum expectat iudicium, qui ante mortem in ueritate facit iudicium. Vnde cum deuotione proclamat: Feci iudicium et iustitiam, non tradas me calumniantibus me. Venit ad Saluatorem nostrum calumniator antiquus (Apoc 12, 9), sed in eo qui peccatum non fecit, nichil suum inueniens, confusus discessit. Quid igitur aget ille ad quem ueniens aliquid suum, id est peccatum, calumniator agnoscit? Quid aget? Clamet certe ad eum in quo nichil inuenit et dicat: Feci iudicium et iustitiam, non tradas me calumniantibus me. Est quippe iudicium cordis, est iudicium oris, est et iudicium operis. Fecit corde iudicium rex christianissimus cum pro delictis suis interius compungeretur, fecit ore cum aduersum se sua peccata confiteretur, fecit et opere cum uoluntaria afflictione puniretur. (Vita Dauid regis, XI, ll. 1-27, pp. 17-18) Aelred makes a distinction between a judgement of the heart, one of the mouth, and one of deeds, and proves how the christianissimus rex David had them all, for he was able to make a right judgement of himself and of his subjects, punishing and being merciful. The Bible on the Lips of the Kings: Prayers and Speeches
Just like the monks, Edward prays with biblical centos. For example, when he is exiled in Normandy because of the Danish invasion of England, Edward prays to God to assist him. This is the beginning of his prayer: Ecce, inquit, Domine, non est michi auxilium in me et necessarii mei recesserunt a me (Iob 6, 13). Amici mei et proximi mei aduersum me appropinquauerunt et steterunt (Ps 37, 12 [Sept.]). Pater meus post multos labores rebus humanis excessit, fratres meos crudelitas proditorum absorbuit, nepotes in exilium acti sunt, mater, aemuli nostri nuptiis tradita, ex hoste michi uitricum fecit. Ita relictus sum solus et quaerunt animam meam (I Reg. 19, 10.14). Sed tibi, Domine, derelictus sum pauper, pupillo tu eris adiutor (Ps. 9, 35 (14) [Psalt. Rom.]). (Vita Ædwardi, V, ll. 22-29, p. 101) Once he returns to England and becomes king, he is well aware that a king must get married and have an heir. But Edward wants to preserve his virginity. This is how he asks Jesus not to be forced to get married and renounce to his purity:
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Iesu bone, tua quondam misericordia tres pueros inter flammas Chaldaicas illesos seruauit (cf. Dan 3). Per te Ioseph, relicto pallio Fariae meretrici, cum titulo castitatis euasit (cf. Gen 39). Admirabilis Susannae constantia tua uirtute de inpudicis presbiteris triumphauit (cf. Dan 13). Sanctae Iudith castitas singularis, quae inter regias dapes et fecundos calices Olofernis nec laedi potuit nec temptari, femineam manum in perniciem nefandi capitis ferro muniens, urbem exemit obsidioni (cf. Idt 12-13). Et quod excellit his omnibus, tu unicam illam spem mundi dulcissimam Dominam meam, Matrem tuam, et coniugem esse uoluisti et uirginem, nec coniugii sacramentum castitatis soluit signaculum. Ecce ego seruus tuus et filius ancillae tuae (Ps 115, 16 [Sept.]), qualiscumque dilector tuus et unicae matris tuae, non quidem ad tantae maiestatis aequalitatem praesumptuosus aspiro, sed ad aliquam huius tantae rei similitudinem timens suspiro. Tu ergo, Domine meus, fili Virginis Dominae meae, tu, Domina mea, Virgo et Mater Domini mei, succurrite, quatinus sic maritale suscipiam sacramentum ut pudicitiae periculum non incurram. (Vita Ædwardi, VIII, ll. 9-26, pp. 106-107) In other words, Edward recalls some popular biblical exempla, usually mentioned by the authors of the numerous treatises praising the virtue of virginity: the three holy youths thrown in the fiery furnace by command of Nebuchadnezzar, who were unharmed by the flames because – as argued by the commentators of the biblical passage – God appreciated their faith and purity; Joseph, unjustly defamed by Potiphar’s wife because of his chastity; Susanna, accused by the lecherous old men; Judith, chaste and brave widow, able to save her people by killing Holofernes; and, finally, Mary, the virgin mother. It is surprising to come across biblical quotations also in a speech addressed to an army, that is meant to recall the military function of the king. It is a speech pronounced by King Alfred, still a fugitive, but now ready to face the Danes. He motivates his army by recalling the holy character of their mission against the pagan invaders, thanks to a collage of biblical quotations. These are just the initial sentences, that will adequately illustrate how Aelred composed this exhortation: Gratias Deo ago, commilitones, qui non amouit orationem meam et misericordiam suam a me (Ps 65, 20). Ipse enim percutit et sanat (Iob 5, 18), mortificat et uiuificat, pauperem facit et ditat, humiliat et subleuat (1 Rg 2, 6-7). Ipse Dominus faciens pacem et creans malum (Is. 45, 7). Ipse Dominus faciens omnia hec. Hactenus pro peccatis nostris flagelans flagellauit nos Deus (cf. Ps 117, 18), sed morti non tradidit nos. Respexit iterum in orationem humilium et non spreuit precem eorum (Ps 101, 18). Ecce eo miserante reliquie Anglorum salue fient. Quis dubitet? (Gen. III, ll. 2-9, pp. 29) The word of God can be combined and recombined to produce new meaning, as happens already in Scripture itself.13 In a later passage, Alfred recalls how the Danes
13 See e.g. the case of the Magnificat.
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had been initially successful, but only as an instrument used by God to purify the English. Alfred delivers this message by using a persuasive scriptural tone and at the same time providing an anagogical interpretation of the events: Agnoscite ergo quia hostes nostri conturbati sunt et commoti sunt, tremor apprehendit eos (Ier 49, 24). Non enim in uirtute sua aut fortitudine manuum suarum preualuerunt super nos (Ps 64, 4), sed dextera Dei (cf. Ps 43, 4) et uirga furoris eius (Is 10, 5), non tam in nos quam in nostra peccata deseuiens paganorum usa est crudelitate, in purgationem et non in destructionem nostram. (Gen. III, ll. 12-18, p. 30)
References to Biblical Models We have already mentioned Peter and St John the Evangelist as models for St Edward. It is certainly not surprising to come across David and Solomon in our texts. David
Alfred’s royal unction at the hands of pope Leo III unavoidably reminds Aelred of David anointed by Samuel: sicut quondam sanctus Samuel puerum David, ita eum in regem sanctissimus presul deuotissime consecrauit. (Gen. II, ll. 14-16, p. 26) Edward the Confessor has David’s meekness, whereas his purity and riches recall those of two other biblical characters: Mirantur mansuetudinem Dauid, pudicitiam Ioseph cum diuitiis Salomonis in tali principe conuenisse. (Vita Ædwardi, X, ll. 85-87, p. 114) Solomon
Solomon is, of course, the king infallible in his judgement, but he is the ‘peaceful’ king, according to the etymology of the name. Aelred cannot resist the temptation of a wordplay involving Edgar the Peaceful and Salomon: Vnde ei [Edgardo] cum Salomone commune uocabulum fuit ut pacificus, quod ‘Salomon’ interpretatur, communi omnium uoce diceretur. (Gen. VIII, ll. 11-13, pp. 38-39) The same wordplay on Edgar appears also in the Vita sancti Ædwardi: In huius ortu referuntur angeli cecinisse et Angliae pacem eius temporibus promisisse. Quocirca tum pro caelesti oraculo, tum pro ipsius effectu oraculi, commune cum Salomone sortitus est nomen, pacificum regni illius statum re simul depingens et nomine. (Vita Ædwardi, I, ll. 38-42, pp. 94-95) Also Edward the Confessor is compared to Salomon on account of his fame:
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Sic beato Ædwardo noscitur conuenire quod de Salomone sacra Scriptura commemorat: cuncti reges terrae desiderabant uidere faciem eius et audire sapientiam illius (II Par. 9, 23). (Vita Ædwardi, V, ll. 67-70, p. 103) Comparison with Other Biblical Characters: The Case of Alfred the Great
Not just kings. We already mentioned the comparison between Alfred the Great and David. But Alfred is also compared to Job, when the devil instigates the Danes and the Frisians against him, as if they represented the way God was indirectly testing him: Denique, sicut quondam sanctum Iob, ita hunc Sathan petiit ad temptandum: Numquid, inquiens, Aluredus frustra colit Deum (cf. Iob 1, 9)? Et Dominus ad eum: Ecce in manu tua sunt cuncta que possidet, tantum ne in eum extendas manum tuam (Iob 1, 12). Egressus itaque Sathan a facie Domini, immisit ei inimicos pessimos, Dacos scilicet et Frisones, a fide Christi alienos, qui cum multa classe uenientes in Angliam, maximam regni portionem rapinis incendiisque consumunt. (Gen. II, ll. 56-63, p. 27) The story of Alfred’s encounter with a pilgrim asking for water, instead, is modelled on the encounter between Elijah and the widow from Zarephath (3 Rg 17, 10-16), with quotations from the book of Isaiah and John’s Gospel: Frange itaque cito, frange esurienti panem (Is 58, 7) istum et uinum diuide, ut totius uictus nostri partem mediam Christus accipiat, michi ac familiole mee pars media reseruetur. Gratias egit regie munificentie pauper, nullumque paludibus impressum relinquens uestigium, uel discessit uel euanuit. Inuentus in conclaui panis integer, uinique in amphora pristina quantitas, regem erigit in stuporem, cum ecce hii qui piscatum ierant redeuntes, tantam piscium multitudinem (cf. Ioh 21, 6) attulerunt ut precedens miraculum sequentis magnitudine augeretur. (Gen. II, ll. 87-95, p. 28) In particular, the idea of food and drink that are never running out seems to derive from 3 Rg 17, 14-16. Negative Characters
There are also negative exempla, or at least models that can appear so at first sight. In the lamentatio, Aelred introduces a section on the faults of King David of Scotland, who, in any case, always repented and did penance. To do so, Aelred mentions a series of famous biblical sinners (Aaron, Moses, the prophetess Miriam, David), who represent a precedent that justifies David of Scotland14. King Edwy is the only king presented by Aelred who is not virtuous. His story is probably told to stress the importance of penance. He was corrupted by a lustful woman and warned by St Dunstan. The comparison with Herod-Herodias-John the 14 VD, VI, ll. 4-11, p. 10.
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Baptist is practically unavoidable and it is followed by a second comparison with other three biblical characters, this time from the Old Testament: Ahab, Jezebel and Elijah: Post quem [Edredum] suscepit regnum Anglorum Edwius, filius Edmundi regis, nec ambulauit in uiis (3 Rg 15, 26) patrum suorum, sed in sancta illa progenie nouus quidam Herodes emersit, qui cuiusdam Herodiadis, mulieris uidelicet impiissime, contra Deum, contra leges, contra ipsius iura nature adulterinis abutebatur amplexibus, et consilia nequissima sequebatur. Nec defuit spiritus Iohannis, qui in sancto uiro Dunstano et regem argueret adulterantem, et adulteram dignis inuectionibus uerberaret. Que, Iezabelitico spiritu incitata, nostri Helie moliebatur interitum, fuissetque uoti sui compos si non sanctus, Dei premunitus a Spiritu, exilium patrie pretulisset. (Gen. VII, ll. 11-21, pp. 37-38)
Biblical Quotations and Kingship Qualities
What kind of virtues is a king supposed to have? These are the virtues of King David of Scotland: Heu incredibile dictu quantum accidit nobis, qui eum amisimus uirum qui non sibi uiuebat (cf. Rm 14, 7) sed omnibus, omnium curam agens, omnium saluti prospiciens, rector morum, censor scelerum, uirtutum incentor, cuius uita humilitatis fuit forma, iustitie speculum, castitatis exemplar. (VD, I, ll. 14-19, p. 5) Iustitia. We have mentioned King David’s equity. It is a gift that is given by God. King Edward the Confessor, in a speech addressed to his subjects – already abounding with biblical quotations – adding a further quotation from the book of Proverbs: Per me reges regnant, ait ipse, et principes iusta decernunt (Prov 8, 15). (Vita Ædwardi, X, ll. 12-13, p. 112) Talking about equity and judgement, Aelred considers particularly important a distinction between clergy and laity. The king must take care of clerics and monks, he certainly must also exhort them to good conduct: but they must be judged by the bishops, and only the bishops can correct or punish those who did not behave in an unblemished way. This is how King Alfred proceeds, following the example of the Emperor Constantine, who did not judge the members of the clergy15. The theory is illustrated very clearly in the Genealogia in a speech given by King Edgar to the clergy. It constitutes an entire chapter of the treatise, entitled De annuntiatione ad clericos, and nevertheless it is enriched with many scriptural quotations. This is one of the most significant passages of the speech:
15 Porro Constantini piissimi imperatoris imitabatur exemplum (…) Non est meum, inquiens, de sacerdobitus iudicare (Gen. II, p. 27).
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Quoniam magnificauit Dominus misericordiam suam facere nobiscum (Ps 125, 3), dignum est, o Patres reuerentissimi, ut innumeris beneficiis illius dignis respondeamus operibus. Neque enim in gladio nostro possedimus terram, et brachium nostrum non saluauit nos, sed dextera eius et brachium sanctum eius, quoniam complacuit illi in nobis (cf. Ps 43, 4). Iustum proinde est ut qui omnia subiecit sub pedibus nostris (Ps 8, 8; 1 Cor. 15, 26), subiciamus et nos illi animas nostras, et ut hii quos nobis subdidit eius subdantur legibus non segniter elaboremus (cf. 1 Cor 15, 25-28). Et mea quidem interest laicos cum equitatis iure tractare, inter uirum et proximum suum iustum iudicium facere, punire sacrilegos, rebelles comprimere, eripere inopem de manu fortiorum eius, egenum et pauperem a diripientibus eum (Ps 34, 10). Sed et mee sollicitudinis est ecclesiarum ministris, gregibus monachorum, choris uirginum et necessaria procurare, et paci eorum ac quieti consulere. (Gen. IX, ll. 2-15, p. 40) This passage is followed by a denunciation of the immoral behaviour of some clerics, who spent their time with prostitutes and actors, playing dice, dancing and feasting all night long. Edgar’s words now become harsh, also thanks to some references to the Scriptures: Hec milites clamant, plebs submurmurat, mimi cantant et saltant, et uos negligitis, uos parcitis, uos dissimulatis? Vbi gladius Leui et zelus Simeonis, qui ut scorto abutentes filia Iacob Sichimitas, eorum habentes figuram qui Christi ecclesiam pollutis actibus fedant, etiam circumcisos succiderunt? (cf. Gen 34, 25-29) Vbi spiritus Moysi qui caput uituli adorantibus, etiam domesticis sui sanguinis non pepercit? (cf. Ex. 32, 25-28) Vbi pugio Finees sacerdotis, qui fornicantem cum Madianita confodiens, sancta hac emulatione Deum placauit iratum? (cf. Num 25, 6-8) Vbi spiritus Petri, cuius uirtute perimitur auariatia, heresis symoniaca condemnatur? (cf. Act 8, 18-24) Emulamini, o sacerdotes, emulamini uias Domini et (2 Par 17, 6) iustitias Dei nostri (cf. 1 Mach 2, 21). Tempus faciendi contra eos qui dissipauerunt legem Dei (Ps 118, 126). Ego Constantini, uos Petri gladium habetis in manibus. Iungamus dexteras, gladium gladio copulemus, ut eiciantur extra castra leprosi (cf. Num 5, 2), ut purgetur sanctuarium Domini, et ministrent in templo filii Leui qui dixit patri et matri: nescio uos, et fratribus suis: ignoro illos (Deut 33, 9). Agite, queso, sollicite… (Gen. IX, ll. 42-58, pp. 41-42) Humilitas. We already mentioned David of Scotland’s humilitas16, a quality quite common among the kings in the Genealogia, and we already discussed how King Edward was encouraged by biblical verses about humility17. This virtue and the role played by the Scriptures in teaching humility are emphasised again in another chapter of the Vita s. Ædwardi, in which the story of the healing of a blind man is told. Soon after the miracle is performed, King Edward gets close to the altar and:
16 See this paragraph, above. 17 See above, § 3b.
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illud dauidicum proclamabat: «Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam». (Vita Ædwardi, XX, ll. 53-54, p. 135) Edward’s humility is particularly manifest in chap. XVIII of the Vita, when Jesus appears in a host during Mass at Westminster, and is visible to the saintly king only. Edward reveals the vision to the Earl of Mercia, Leofric, asking him to keep it secret. Edward does so following the example of Jesus who ordered the three apostles that came with him on the mount Tabor to keep silent: Domini sui in his secutus exemplum, qui coram discipulis transfiguratus, descendentibus illis de monte: «Nemini, ait, dixeritis uisionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat» (Mt 17, 9). (Vita Ædwardi, XVIII, ll. 35-37, p. 130) Continentia. The riches of the kings (whether or not canonised) represent a problem for Aelred. Earlier examples of royal sanctity relate in most cases to kings who are martyred or convert to Christianity. How then to describe the way some rulers managed to have holy conduct even though living among the greatest riches? Aelred seems almost to be embarrassed, or at least he needs to explain, if not justify. In the first chapter of the Vita sancti Ædwardi, and therefore at the very beginning of the text, Aelred explains that there are numerous biblical exempla of virtuous rich men: In omni itaque gente, in omni ordine, in omni gradu, in omni dignitate, nouit Dominus qui sunt eius (2 Tim 2, 19) et miseretur cui uoluerit (Rm 9, 18) et misericordiam praestat in quem sibi placuerit, attingens a fine usque ad finem fortiter (Sap 8, 1), et disponens omnia suauiter (Sap 15, 1). Neque enim ex sui ipsius natura uel paupertas praestat uel adimunt diuitiae sanctitatem; nec perfectum obscuritas, nec reprobum claritas facit; nec claudit libertas, nec reserat seruitus paradisum. (Vita Ædwardi, I, ll. 5-12, p. 93) Aelred then continues by suggesting the biblical exempla of Joseph, Job and David. After listing all these examples, it is clear that no one doubts that also Edward the Confessor can be called king and saint. And when the same Edward is described at mass, having a vision of the drawing of a Danish king who was about to attack England, Aelred notes18: Ea die rex beatus diuinis laudibus deuotius insistebat, exterius quidem sceptro insignis, ueste splendidus, regio diademate coronatus, interius uero quod in his honoris erat arbitrabatur ut stercora (Phil 3, 8), quod sacramenti sustinebat pro conscientia. (Vita Ædwardi, IX, ll. 5-8, p. 109) The very famous Pauline expression clarifies how the saintly king is in the world without belonging to the world. Castitas. We have already discussed the exceptional case of King Edward’s virginity, when we commented on his prayer to God to save his purity. The king was afraid that his treasure in fictili uase (2 Cor. 4, 7) reconditus facili poterat calore dissolui (Vita
18 See also chap. XXVI (p. 143) for a similar situation in which Edward again despises his riches as rubbish.
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Ædwardi, IX, l. 4, p. 106). It is worth recalling also that Queen Edith, Edward’s wife, is compared to Abishag – David’s servant who never laid with the king – on account of her agreement with the king to preserve their virginity: quasi noua quaedam Abisag regem calefacit amore, sed non dissoluit libidine, mulcet obsequiis, sed desideriis non emollit. (Vita Ædwardi, IX, ll. 59-61, p. 108)19 When David of Scotland dies, everyone must remember how he deserved the love of his subjects, otherwise: testes erunt contra uos celum et terra (Deut. 4, 26), testes angeli qui castitatis illius fuere custodes… (VD, IX, ll. 41-42, p. 15) The borrowing from Moses’s first speech in the Book of Deuteronomy adds emphasis to this passage, in which there is a reference also to King David’s chastity, preserved after the death of his wife thanks to the support of the angels. Imitation of Christ: rex-sacerdos-propheta. It is now evident how Aelred is proposing a Christological profile for his ideal king. The king, whether or not a saint, can be also a prophet: Gaudet Anglia prophetam sibi praeesse, non regem, qui et morbos curaret et uentura praediceret, qui iudicaret terram in iusticia et populos in aequitate (Ps 97, 9 [Sept.]). (Vita Ædwardi, XXI, ll. 5-9, p. 135) Also King Edward the Elder, just like Edward the Confessor, has a vision during mass, as told in the Genealogia. He smiles during mass because he learned from a vision that a fleet of Danish and Norwegian soldiers, who were planning to invade England, will never set sail, because the soldiers got drunk, fought and killed each other before the departure: Fuerat quidem regem aliquando inter missarum sollemnia factum in excessu mentis contra morem suum risisse. […] Hec risus mei causa, quoniam risum fecit michi Dominus, et quicumque audiet conridebit michi (Gen 21, 6). Spero autem in Deo meo quoniam temporibus meis Angliam alienigene non grauabunt. Cerne queso regiam mentem quanta lux diuinitus illustrauerit, qui et longe posita sensit, presentia neglexit, et futura prospexit. (Gen. IV, l. 40-42 e 58-63, p. 34) The divine light can enlighten the mind of the ruler and the memory of a well-known biblical laughter related to a prophecy emerges between the lines of the Aelredian text. If not to a priest, the king is at least comparable to a monk. It is the case of David: Denique, his sacris diebus quadragesime, cum pro quadam necessitate domus nostre eius adissem presentiam, inueni fateor in rege monachum, claustrum in curia, in palatio monasterii disciplinam. Certis namque horis diuinis uacabat officiis, et psalmis et orationibus intendebat, certum itidem tempus pauperum
19 Another virtue of Edward the Confessor is his simplicitas, a virtue particularly dear to Cistercian monks. See Vita sancti Ædwardi, p. 77.
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obsequiis deputabat. Et ut nichil illi ad uitam honestam deesset, etiam hora conuenienti honesto alicui operi, id est herbis plantandis, uel surculis a sua radice excisi alieno trunco inserendis operam dabat. Hora demum legitima sumpto cibo, cum fratribus religiosis et paucis uiris honestioribus, religioso quodam otio mentem paululum relaxabat, sicque sole adhuc stante, cum pro defunctis consuetum officium persoluisset, lucernali hora completa, cum summo silentio castum petebat cubile, usque ad solis ortum (Ps 49, 1; 112, 3) nulli deinceps locuturus. O felix anima quam ueniens Dominus inuenit sic uigilantem. Ideo sic parata, intrauit cum eo ad nuptias (cf Mt 25, 10). (VD, VIII, ll. 21-35 p. 14) And this is the way Edward the Confessor attends mass, as if he were celebrating: inter sacra missarum solennia quae in aecclesia beati Petri celebrabantur, totum se in se colligens et spiritalibus temporalia cuncta postponens, in sacrificium illud quod pro omnium offerebatur salute intendit animum et sibi gratiam, pacem populo, omnibus ueniam suppliciter precabatur. (Vita Ædwardi, IX, ll. 11-15, p. 109) The messianic features of the king are highlighted also in the portrait of Edgar. When he was born the angels sang as they did with Jesus (in huius ortu referuntur angeli cecinisse: Vita Ædwardi, I, ll. 38-39, p. 94), and he revealed himself to be: quasi stella matutina in medio nebule, et quasi luna plena in diebus suis luxit (Eccli 50, 6). (Gen. VIII, ll. 6-7, p. 38) This is a quotation from Sirach that refers to the high priest Simon and that Aelred uses also for Edward the Confessor (Vita Ædwardi, Prol. ll. 25-26, p. 88). The same Edward, dying, seems to be about to say consummatum est, just like Jesus on the cross (Vita Ædwardi, XXVIII, l. 37, p. 150)20. One might observe that the imitation of Christ is due to the hagiographical flavour of the texts. In other words, the rulers might be portrayed imitating Jesus Christ only because they are saints, not because they are pious and virtuous kings. But this might apply only to Edward the Confessor, and, possibly, to David of Scotland. The other kings are not canonised or did not have the fame of saints. Furthermore, it is clear that Aelred excludes the specificities of their roles because in his view there was no distinction between the way rulers and priests or monks could pursue virtue. King, Subjects, Territory
The passages we have examined so far have already shown how Aelred’s kings, proceeding along the path of Christian virtue, actually live for others: they care for the weakest, establish fair relationships with the nobility, build churches or monasteries and support the clergy. This passage, which comments on Edward the Confessor’s coronation, well illustrates how the effects of the good rule of these Christian kings are visible on different scales, to the four corners of the kingdom:
20 On Edward’s imitation of Christ in chap. XXV, see Vita Ædwardi, p. 30.
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Quae tunc Anglis gloria, quae tunc omnibus in commune laeticia, cum redisse cerneretur antiqua felicitas et quae fere desperabiliter plorabantur amissa: reciperet in Ædwardo populus pacem, proceres gloriam, aecclesia libertatem21. Tunc eleuatus est sol et luna stetit in ordine suo (Hab 3, 11 [V.L.]), quando Ædwardo gloria et honore coronato sacerdotes sapientia et sanctitate fulgebant, monasteria omni religione pollebant, agebat clerus in officio suo et populus stabat in gradu suo. Videbatur etiam terra fecundior, aer salubrior, sol serenior, maris unda pacatior. Quidni, regnante rege pacifico, in uno uinculo pacis omnia conuenirent ut nichil pestilentiosum esset in aere, nichil in mari tempestuosum, in terra nichil infecundum, nichil inordinatum in clero, nichil in plebe tumultuosum? (Vita Ædwardi, V, ll. 46-58, p. 102) The same image already appeared in the Genealogia, in the chapter dedicated to Edgar: Eo namque regnante, sol uidebatur esse serenior, maris unda pacatior, terra fecundior, et totius regni facies abundatiori decore uenustior. In diebus illis non tormenta, non cruces, non exilium nec proscriptio, quantum boni principis uel leuis timebatur offensa. (Gen. VIII, ll. 22-26, p. 39) The quotation from the prophet Abacuc allows us to avoid a dangerous misunderstanding. What is described in these lines is not the extraordinary and miraculous power of the king illustrated in Marc Bloch’s Le Rois Thaumaturges22: the supernatural is always a sign of God’s benevolence towards the kings who purse Christian virtue. In fact, when still writing on Edgar, Aelred explains that nature seems to obey the ruler because he, in turn, obeys God: cum uiderentur etiam ipsa elementa eius nutui deseruire, quem creatoris sui cernebant cum maxima deuotione imperiis obedire. (Gen. IX, l. 118-120, p. 44)23
Conclusions The thick textual ‘weft’, woven by Aelred intertwining strands of sacred history and English history, has at least three main functions: 1) suggesting a model of behaviour (it is not possible to be a good king without being a good Christian);
21 This sentence might remind of the idea of the trifunctional king, able to care for the three main social classes: the warriors, the clergy, the workers. 22 It is worth remembering that Edward the Confessor is the first English king able to heal, on one occasion, the scrofula, but Aelred does not confer any emphasis on the episode (chap. XIX). In Matthias Lemoine, «Le moine et le saint roi: la qualité de confesseur dans la “Vita Edwardi” d’Aelred de Rievaulx», Collectanea Cistercensia, 68 (2006), pp. 34-47, on p. 44 Edward’s cosmic power is discussed commenting on the passage from the Vita sancti Ædwardi, but the author stresses that this power is «le pouvoir cosmique du saint», and not that of the king. 23 On this, see also Katherine T. Yohe, «Working Out One’s Salvation in the World: Aelred and Lay Spirituality», A Companion to Aelred …, pp. 268-294, on pp. 274-277.
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2) showing that there is a continuity in the history of salvation, as shown by the genealogy of the English kings; 3) providing an interpretative key to understand reality. For example, the Danish are a punishment sent by God24. What is really striking about Aelred’s use of the Bible is not just the great number of quotations, but most of all how sacred history is merged with the history of Henry II’s ancestors: on the one hand, sacred history represents a precedent that exalts English history, on the other hand the latter updates the teachings of the Bible25. The ruler is supported in his task both by the biblical examples and by the royal blood in his veins. The example of ancestors can help just as much as that of David and Solomon. Needless to say, a common biblical quotation in the Genealogia is «and he followed the ways of his fathers (or father, brother)»26. According to Aelred, the virtue of the king is not just innate, but a possibility. King Henry can choose to be humble, chaste and just, and his faith will enlighten his relationship with his people and his kingdom. Aelred, who seems to claim for himself the role of adviser of the king27, legitimated Henry II as English ruler in his work and he wanted to show him the possibility of inaugurating an age of peace and prosperity for England. Indeed, if we had to know the tree from its fruit – and in this case the biblical quotation twists around Aelred – we must conclude that the Cistercian abbot had not been a successful adviser. Especially from the point of view of the relationships and collaborations, Henry II was not particularly effective: he indirectly encouraged the murder of his once most trustworthy collaborator,28 he fought against his sons and locked his wife in a castle. Both Aelred and his dedicatee can be partially justified considering that not everything must be ascribed to Henry’s bad temperament: the circumstances played a determinant role. We might wonder why our writer proposed to a ruler such as Henry two treatises so imbued with monastic culture, why he wanted to encourage him to be a monarch,
24 Both in Alfred’s speech, as discussed above, and in the Vita sancti Ædwardi, where the possibility that the English could repent as the Ninevites is suggested (chap. XXIX, l. 47, p. 152). 25 See K. T. Yohe, «Working Out One’s Salvation…», on p. 270: «For Aelred, the history of God’s work with God’s people can be traced seamlessly from Adam and Eve through the Old and New Testaments and on up through the reigns of David in Scotland and Henry II in England, as Aelred shows when he traces the genealogy of the English kings in a line leading directly back to Adam. Furthermore, he shows God to be active in twelfth-century England in ways like those in ancient Israel. So he powerfully applies passages from the Psalms, historical books, and prophets about Israel’s kings, her periods of prosperity, and her wars to the lives of the kings of England and to England’s periods of prosperity and war. He uses even the scriptural prophecies associated with the glorious reign of a messianic king to describe the periods in English history when good kings reigned». 26 See 3 Rg 15, 26 and 2 Par 17, 3 and 21, 22 and 34, 2. 27 On Aelred as an advisor see Marsha L. Dutton, «Sancto Dunstano Cooperante: Collaboration between King and Ecclesiastical Advisor in Aelred of Rievaulx’s Genealogy of the Kings of the English», Religious and Laity in Western Europe, 1000-1400. Interaction, Negotiation, and Power, ed. E. Jamroziak, J. E. Burton, Turnhout, Brepols, 2006 (coll. Europa Sacra 2), pp. 183-196. 28 On Henry II and Thomas Becket see Lazzerini’s contribution, passim.
B i b le and K i ngshi p
if not as holy as the Confessor, at least perfectly virtuous. Was Aelred so naïve as to describe his world, instead of Henry’s? Could not he speak a language different from that of the cloister to his king, without being afraid of being ineffective? These questions can be easily dismissed: Aelred well knew the world of the courts, but he wanted to stress that the lay – even if they had a different vocation – were as well called to sanctity, and most of all that serving God, being in relationship with Him, was the golden rule for the life of any Christian29
29 On the different consideration of the monastic and lay vocation, see K. T. Yohe, «Working Out One’s Salvation…», on pp. 291-294.
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Bibbia e re tra latino e volgari
Chiara staiti
Exiit edictum a Caesare Augusto Die Darstellung imperialer und kosmischer Macht in der kontinentalen volkssprachigen Bibeldichtung des frühen Mittelalters
Der König geht herum mit aufgehobenen Armen Erbarmen! Ernst Jandl
Das Lukasevangelium, bekanntlich das einzige, in dem Christi Geburt dargestellt wird, widmet diesem für die christliche Welt zentralen Ereignis die ersten sieben Verse des 2. Kapitels. Die Schilderung beginnt mit der Volkszählung: 1 Factum est autem, in diebus illis exiit edictum a Caesare Augusto, ut describeretur universus orbis. 2 Haec descriptio prima facta est praeside Syriae Quirino. 3 Et ibant omnes, ut profiterentur, singuli in suam civitatem. Dann wird knapp auf die Reise Josephs von Nazareth nach Bethlehem hingewiesen, bei der er die schwangere Maria, sein Weib, mit sich führt: 4 Ascendit autem et Ioseph a Galilaea de civitate Nazareth in Iudaeam in civitatem David, quae vocatur Bethlehem, eo quod esset de domo et familia David, 5 ut profiteretur cum Maria desponsata sibi, uxore praegnante. Im 6. und 7. Vers folgt die Geburt: 6 Factum est autem, cum essent ibi, impleti sunt dies, ut pareret, 7 et peperit filium suum primogenitum; et pannis eum involvit et reclinavit eum in praesepio, quia non erat eis locus in deversorio. So die Vulgata, in der unmittelbar darauf direkt die Anbetung des Neugeborenen durch die Hirten auf dem Feld dargestellt wird. Im Liber evangeliorum Otfrids von Weißenburg, einer zwischen 863 und 871 in theodisker1 Volkssprache (genauer: in
1 Zum Begriff «theodisk» vgl. Wolfgang Haubrichs – Herwig Wolfram, «Theodiscus», in Reallexikon der Germanischen Altertumskunde, 30, 2005, S. 421-433. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 107-123 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124804
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Südrheinfränkisch) verfassten, sehr umfangreichen (7104 Verse), an der spätantiken Bibelepik orientierten Evangeliendichtung2 – die in der Tat, wie aus der Widmung an Ludwig den Deutschen klar ersichtlich, ein Evangelium regis, ist3 – entspricht der knappen Darstellung des Lukasevangeliums das ganze, aus 62 binnengereimten Langzeilen bestehende Kapitel I, 114. In diesem Kapitel wird die Geburtsszene in treuer Anlehnung an das Lukasevangelium in den Versen 29-33 geschildert, wobei die Geburt des Heilands in V. 31 genau die Mitte des Kapitels5 einnimmt (v. 29-32)6:
2 Allgemeine Informationen und weiterführende Literatur zu Otfrid und seinem Evangelienbuch in Werner Schröder, «Otfrid von Weiβenburg», in Kurt Ruh – Franz Josef Worstbrock et al. (ed.), Die deutsche Literatur des Mittelalters. Verfasserlexikon, 7, Berlin-New York, de Gruyter (21989, Neudruck 2010), Sp. 173-193; Gisela Vollmann-Profe, «Otfrid von Weiβenburg», in Walter Killy (ed.), Literaturlexikon, 9, 1991, S. 30-43; Wolfgang Haubrichs, Die Anfänge: Versuche volkssprachiger Schriftlichkeit im frühen Mittelalter, 21992, S. 261-272 und 292-312; Ders., «Otfrid von Weiβenburg», in Gerhard Müller et al. (ed.), Theologische Realenzyklopädie, 25, 1995, Berlin-New York, de Gruyter, S. 541-544; Ders., «Otfrid von Weiβenburg – Übersetzer, Erzähler, Interpret», Wolfram Studien, XIV (1996), S. 13-45; Ders., «Otfrid von Weiβenburg», in Reallexikon der Germanischen Altertumskunde 22 (22003), S. 381-387; Ders., «Otfrid von Weißenburg – Umrisse eines “Lebens”», in Otfrid von Weißenburg: Evangelienbuch, Bd. I, 2: Einleitung und Apparat, Tübingen, Niemeyer, 2004, S. 3-11; Ders., «Laien, Klerus, Mönche, König als Anreger und Rezipienten des volkssprachigen Evangelienbuchs Otfrids von Weißenburg (a. 863/71)», in G. Blennemann – C. Kleinjung – T. Kohl (ed.), Konstanz und Wandel. Religiöse Lebensformen im europäischen Mittelalter, Affalterbach, Didymos-Verlag, 2016, S. 71-112; Ulrich Ernst, «Otfrid von Weißenburg», in Lexikon des Mittelalters, 6, 1993, Sp. 1557-1559; Heiko Hartmann – Werner Schröder, «Otfrid von Weißenburg», in Rolf Bergmann (ed.), Althochdeutsche und altsächsische Literatur, Berlin-Boston, de Gruyter, 2013, S. 322-345. Siehe auch den Beitrag von Wolfgang Haubrichs in diesem Band, S. 215-217. 3 Zur Ludwigswidmung vgl. Chiara Staiti, «Otfrid von Weiβenburg e la biografia impossibile di Ludovico il Germanico», in Dorothea Walz (ed.), Scripturus vitam. FS Berschin, Mattes, Heidelberg, 2002, S. 755-768; Dies., «Das Evangelienbuch Otfrids von Weiβenburg und Ludwig der Deutsche», in Wilfried Hartmann (ed.), Ludwig der Deutsche und seine Zeit, Darmstadt, WBG, 2004, S. 233-254. 4 Das Kapitel I, 11 ist eingehend analysiert in Wolfgang Haubrichs, Ordo als Form. Strukturstudien zur Zahlenkomposition bei Otfrid von Weiβenburg und in karolingischer Literatur, Tübingen, Niemeyer, 1969, besonders S. 181-188, 274-280; Ders., «Disposition und Gestaltung der evangelischen materiae im “Liber Evangeliorum” Otfrids von Weißenburg», Wolfram-Studien, XXII (2012), S. 41-62, hier S. 50-52; Ulrich Ernst, «Poesie als Kerygma. Christi Geburt im “Evangelienbuch” Otfrids von Weiβenburg», Beiträge zur Geschichte der deutschen Sprache und Literatur (W) 95 (1973), S. 126-162, deren Ausführungen meine Interpretation vielfach verpflichtet ist; vgl. auch Gisela Vollman-Profe, Kommentar zu Otfrids Evangelienbuch, Bonn, Rudolf Haber, 1976, S. 249-266. 5 Zu numerischen Verhältnissen und Zahlensymbolik im Liber evangeliorum W. Haubrichs, Ordo, S. 163-378. Zum Teil berechtigte Kritik bei: Ernst Hellgardt, Zum Problem symbolbestimmter und formalästhetischer Zahlenkomposition in mittelalterlicher Literatur, München, Beck, 1973; siehe aber W. Haubrichs, Die Anfänge, S. 305-307. 6 Alle Zitate aus dem Liber evangeliorum nach der Ausgabe von Oskar Erdmann – Ludwig Wolff, Otfrids Evangelienbuch, Tübingen, Niemeyer, 1973; vgl. auch die Editionen der einzelnen Handschriften von Wolfgang Kleiber: Otfrid von Weißenburg Evangelienbuch. Teil 1: Edition nach der Heidelberger Handschrift P (Codex Pal. Lat. 52) und der Handschrift D (Codex Discissus, Bonn-Berlin, Niemeyer, Tübingen, 2004, und Otfrid von Weißenburg Evangelienbuch. Band 1: Edition nach dem Wiener Codex 2687, Teil 2: Einleitung und Apparat. Niemeyer, Tübingen, 2006. Die Übersetzungen stammen von mir. Eine Auswahl relevanter Passagen des Evangelienbuchs mit neuhochdeutscher Übersetzung und Kommentar bietet Gisela Vollman-Profe (ed.), Otfrid von Weiβenburg. Evangelienbuch. Althochdeutsch/Neuhochdeutsch, Stuttgart, Reclam, 1987; einige Kapitel mit neuhochdeutscher Übersetzung und Kommentaren sind
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Unz síu tho thar gistúltun, thio zíti sih irvúltun, thaz si chínd bari zi woraltị éinmari. Sún bar si tho zéizan, ther wás uns io gihéizan; sin wás man allo wórolti zi gote wúnsgenti. Während sie [ Josef und Maria] sich dort aufhielten, erfüllte sich die Zeit, dass sie ein auf der Welt einzigartiges Kind gebären sollte. Sie gebar den teuren Sohn, der uns seit jeher verheiβen worden war; ihn hatte sich die Menschheit zu allen Zeiten von Gott gewünscht. Otfrids Darstellung der Geburt folgt beinah wörtlich dem Text des Evangelisten (Lc 2, 6-7); einziger Zusatz ist die Anspielung auf die außerordentliche Bedeutung und messianische (und ekklesiologische) Rolle des Neugeborenen. Enge Abhängigkeit von Lukas (2, 4-5) zeigt sich auch in den unmittelbar vorausgehenden Versen, in denen die Reise des Paars dargestellt wird (v. 23-28): Ein búrg ist thar in lánte, thar warun ío ginánte hús inti wénti zị édilingo hénti. Bi thíu ward thị ih nu ságeta, thaz Jóseph sih irbúrita; zi théru steti fúart er thia drúhtines múater; Want irạ ánon warun thánana gotes drútthegana, fórdoron alte, zi sálidon gizálte. Eine Stadt ist in jenem Land, da waren Häuser und Mauern seit langer Zeit in den Händen von Adligen. Aus den Gründen, die ich dir eben nannte, machte sich Joseph auf den Weg: er führte die Mutter des Herrn in diesen Ort; denn ihre7 Ahnen kamen von dort, die treuen Diener Gottes, die Altvorderen [aus dem Hause König Davids nach Lukas], die zum Heil bestimmt waren. Im Liber evangeliorum werden zwar, auch mit Hilfe der Variation, der Familie Jesu die Prädikate des Adels und der Heiligkeit betont zugewiesen; vor allem wird hier Maria, die bei Lukas als Josephs «vertrautes Weib» beschrieben wird, direkt als Gottesmutter (druhtines muater) tituliert, sozusagen in Vorwegnahme des kommenden Ereignisses – wie schon in Kapitel I, 5, 14 unmittelbar vor dem Gruβ des Engels. Aber insgesamt stehen sich hier die Darstellungen Otfrids und des Evangelisten sehr nahe. Nicht allerdings im ersten Teil des Kapitels, in dem Otfrid neue, nicht im Evangelium zu findende Erzählmotive einführt, die sich gerade in der starken Fokussierung auf
enthalten in Walter Haug – Benedikt K. Vollmann (edd.), Frühe deutsche Literatur und lateinische Literatur in Deutschland 800-1150, Frankfurt/Main, Deutscher Klassiker Verlag, 1991; von der geplanten vollständigen Übersetzung des “Evangelienbuchs” durch Heiko Hartmann sind bis jetzt die ersten zwei Bände erschienen (Otfrid von Weißenburg: “Evangelienbuch”, Herne, 2005 und 2014); der das 5. Buch enthaltende Band ist in Vorbereitung. 7 Zur Interpretation des Possessivums als Femininum sing. vgl. und U. Ernst, «Poesie», S. 139 und G. Vollmann-Profe, Kommentar, S. 256. Der Hinweis auf die adlige Abstammung Marias begegnet im Liber evangeliorum auch sonst, z. B. bei der Wiedergabe des Liber generationis (I, 3) und in der Verkündigungszene (I, 5, 7-8).
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den Kaiser und dessen Erlass manifestieren. Als Überschrift des Kapitels dient – wie in dieser Dichtung üblich – ein lateinisches Bibel-Zitat: hier übernimmt Otfrid aus dem ersten Lukas-Vers den imperialen Aufruf zur Steuerschätzung EXIIT EDICTUM A CAESARE AUGUSTO und baut die kurze Erläuterung der ersten universalen descriptio durch den Evangelisten eindrucksvoll aus (v. 1-6): Wúntar ward tho máraz joh filu séltsanaz, gibót iz ouh zi wáru ther kéisor fona Rúmu. Sánt er filu wise selbes bóton sine, so wíto sosọ in wórolti man wári búenti; Thaz siẹ érdrichi záltin, ouh wíht es io nirduáltin, in bríaf iz al ginámin int imọ es zálạ irgábin. Damals trug sich ein denkwürdiges und auβerordentliches, wundergleiches Ereignis zu, das wahrhaftig der Kaiser von Rom befohlen hatte. Er sandte die klügsten Boten seines Hauses aus, so weit in der Welt Menschen wohnten, damit sie die ganze Erde zählten und berechneten, und nichts irgend auslieβen, vielmehr alles schriftlich festlegten und ihm als Ergebnis die Anzahl mitteilten. Der erste Vers des Kapitels, mit dem Wort wuntar in Anfangsstellung, unterstreicht die auβerordentliche Bedeutung des zu schildernden Geschehnisses. Doch ist das Ereignis, von dem hier die Rede ist, nicht die Geburt Christi (v. 31), wie das Wort wuntar vermuten lassen könnte, sondern es ist – auf der litteralen, der wörtlichen Ebene – der census Augusti. Diese sechs Verse leiten nämlich eine direkte Rede des kéisor fona Rúmu ein (v. 7-18): «Thaz si gómmán joh wíb (in thíu se wóllen haben líb, in thíu se tház gilíezen, thaz sẹ érdrihes níezen), Júnger joh álter ‒ tharána si er gizálter; ni si mán nihein so véigi, ni sinan zíns eigi Héime» quad, «zi wáre, zi sinemo áltgilare, so wíto so gisíge ther himil ínnan then se; Búrg nist thes wénke, noh bárn thes io githénke (in félde noh in wálde), thaz es ío irbálde. Ellu wóroltenti zi míneru henti, so wár man sehẹ in waron stérron odo mánon, So wara sọ in érdente súnna sih biwénte ‒ al sit iz bríeventi zi míneru henti!» «Sei es Mann oder Frau (wenn sie weiter leben wollen, wenn sie wünschen, sich noch dieser Erde zu erfreuen), seien sie jung oder alt, alle sollen gezählt und verzeichnet werden; niemand wahrlich – sei er noch so niedrig – ist befreit vom Zahlen des Zinses in seiner Heimat» sagte er, «am Stammsitz seiner Ahnen, bis dorthin, wo der Himmel sich in das Meer senkt; nirgendwo gibt es eine Stadt, die sich dem [Gebot] entziehen kann, noch lebt irgendwo, ob im bebauten Lande oder im Walde,
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ein Mensch, der auch nur daran denken könnte, sich dem zu verweigern. Alle Länder bis hin zu den Enden der Welt, die in meinen Händen sind, soweit wahrlich, wie man Sterne und Mond sehen kann, bis dahin, wo die Sonne am Ende der Erde ihren Lauf wendet, alles zeichnet auf und übergebt es meinen Händen!» Otfrid läβt also Augustus den census-Befehl aus eigenem Mund erteilen. Der kurze, technische Bericht des Evangelisten ist in prunkvolle wörtliche Rede übersetzt. Dieses imperiale Gebot an die Emissäre, das ohne Parallelen ist8, ist ausgiebig und kunstvoll mit Anaphern9 und Alliterationen10 geschmückt und bedient sich eines gehobenen, teilweise mit juristischen Formeln11 gespickten Wortschatzes; man beachte auch den wiederholten, durch den Reim hervorgehobenen Hinweis auf des Kaisers eigene Hände als Symbole seiner Macht (v. 15b u. 18b zi mineru henti12), von denen noch die Rede sein wird. Nach der kaiserlichen Rede schildert Otfrid, Lukas 2, 3 wiederaufnehmend, die gehorsame und besorgte Menschheit, die dem Gebot Folge leistet (v. 19-22): Tho fuarun líuti thuruh nót, so ther kéisor gibot, zị éigenemo lánte filu suórgente; Ouh wídorot ni wántin, er siro zíns gultin, zi nóti thar man wésti thero fórdorono vésti. Da zogen also die Leute pflichtgemäβ, wie der Kaiser geboten hatte, voller Sorgen, in ihr Heimatland; auch sollten sie nicht zurückkehren, bevor sie ihren Zins bezahlt hätten, genau an dem Ort, den sie als Stadt ihrer Vorfahren kannten. Dem folgt der oben zitierte Passus mit der Reise Josephs und der Geburt. Die zweite Hälfte des Kapitels, auch sie unabhängig von der biblischen Quelle, beschreibt detailliert und liebevoll die Pflege des Neugeborenen durch die junge Mutter, die das Jesuskind badet, wickelt und säugt (v. 33-38), um dann in eine Laus mariana (v. 39-54) zu münden. Die Geburt, platziert genau in der Mitte, im 31. Vers des Kapitels, fungiert quasi als Nahtstelle zwischen der weiten, ja universalen Szenerie des ersten Teils und der intimen Bildwelt der zweiten Kapitelhälfte, in der dann am Ende des Marienpreises die schon längst präsente heilsgeschichtliche Rolle der Gottesmutter erneut betont wird. Der Fokus verengt sich schrittweise, vom globalen Zusammenhang der Einleitung, vom augusteischen Gebot an alle Menschen des Imperiums, die sich zu ihrem kleinen, punktförmigen Herkunftsort begeben sollen, allmählich auf das heilige Paar und seinen Weg nach Bethlehem, endlich vom Paar auf die einzige Maria mit ihrem Kind.
8 Vgl. Haubrichs, Ordo, S. 277, mit Literatur. 9 V. 4 und 12: so wito so; V. 7b-8a in thiu se; V. 10a-b ni; V. 16 und 17 so war – so wara so. 10 V. 7 wib: wollen; V. 13 burg: barn; V. 17 so: sunna; und auch schon V. 4 wito: wari. 11 Gomman joh wib V. 7; junger joh alter V. 9; burg… noh barn V. 13; in felde noh in walde V. 14. 12 Vgl. auch, ebenfalls in Reimstellung, edilingo henti V. 24.
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Die Schilderung der zärtlichen Fürsorge der Mutter, die das göttliche Kindlein in Leinenwindeln wickelt und in die Krippe legt, ihm die jungfräuliche Brust zum Säugen bietet, ihn liebkost, vor Frost schützt, auf ihren Schoss setzt13, hebt gleichsam die Leiblichkeit des menschgewordenen Sohnes hervor; während der Hinweis auf Marias heilsgeschichtliche Position am Ende dieser Passage14 den Horizont erneut quasi kosmisch weitet und damit die spirituelle Ausdeutung der letzten, durch den Hinweis Mystice eingeleiteten acht Schlussverse vorbereitet, auf die noch zurückzukommen ist. Auch die andere groβe karolingische Messiade in theodisker Sprache, der anonyme, um 840 im traditionellen Stabreim-Vers und epischen Stil des Heldenlieds verfasste, 5983 Verse lange altsächsische Heliand15, dessen enge Beziehung zum fränkischen Herrscherhaus durch einen Begleittext, die sogenannte Praefatio, gesichert wird16 – widmet dem Census Augusti viel Raum (v. 339-356a)17: Thô uuarð fon Rûmuburg rîkes mannes oƀar alla thesa irminthiod Octauiânas ban endi bodskepi oƀar thea is brêdon giuuald cuman fon them kêsure cuningo gihuilicun, hêmsitteandiun, sô uuîdo sô is heritogon oƀar al that landskepi liudio giuueldun. Hiet man that alla thea elilendiun man iro ôðil sôhtin, heliðos iro handmahal angegen iro hêrron bodon,
13 Vgl. dazu Chiara Staiti, «Otfrids Frauen. Zu den weiblichen Figuren im “Liber evangeliorum”», in Vorbereitung. 14 I, 11, 53-54: Múater ist si máru, joh thíarna thoh zi wáru, // si bar uns thúruhnahtin then hímlisgon drúhtin. «Man kennt sie als treffliche Mutter und doch zugleich als wahrhaftige Jungfrau; sie gebar uns in Vollkommenheit [unversehrt] den himmlischen Herrn». 15 Allgemeine Informationen und weiterführende Literatur zum Heliand in Burkhard Taeger, «Heliand», in Kurt Ruh – Franz Josef Worstbrock et al. (edd.), Die deutsche Literatur des Mittelalters. Verfasserlexikon, Bd. 3, Berlin-New York, de Gruyter (21981, Neudruck 2010), Sp. 958-97; Ernst Hellgardt, «Heliand», in Walter Killy (ed.), Literaturlexikon, Bd. 5, 1990, S. 199-202; Wolfgang Haubrichs, Die Anfänge, S. 272-287 und 292-312; Ders.,«Ludwig der Deutsche und die volkssprachige Literatur», in Wilfried Hartmann (ed.), Ludwig der Deutsche und seine Zeit, Darmstadt, WBG, 2004, S. 203-232, hier S. 214-225; Ders., «Heliand», in Rolf Bergmann (ed.), Althochdeutsche und altsächsische Literatur, Berlin-Boston, de Gruyter, 2013, S. 154-163; Ernst Hellgardt, «Die “Praefatio in librum Antiquum lingua Saxonica conscriptum”, die “Versus de poeta et interprete huius codicis” und die altsächsische Bibelepik», in Albrecht Greule et al., Entstehung des Deutschen. Festschrift für Heinrich Tiefenbach, Heidelberg, Winter, 2004, S. 173-230; dazu W. Haubrichs, «Poeme, Bilder, Kommentare», in diesem Band, S. 213 und Anm. 123. 16 Traditionell wurde der im Text Ludouuicus piissimus augustus genannte Auftraggeber mit Ludwig dem Frommen identifiziert, seit 1966 wird in ihm, wenn auch nicht unumstritten, eher Ludwig der Deutsche gesehen; s. die Anm. 15 zitierte Literatur; ferner Hans Hummer: «The identity of Ludouicus piissimus augustus in the Praefatio in librum antiquum lingua Saxonica conscriptum», in Francia 31 (2004), S. 1-14; dazu aber: Matthew Bryan Gillis: «Noble and Saxon: the meaning of Gottschalk of Orbais’ ethnicity at the Synod of Mainz, 829», in Richard Corradini et al. (ed.), Ego Trouble. Authors and Their Identities in the Early Middle Ages, Wien, Österreichische Akademie der Wissenschaften, 2010, S. 197-210, hier S. 208-210. 17 Zitat aus Otto Behaghel (ed.), Heliand und Genesis, Tübingen, Niemeyer, 101996. Übersetzung von mir.
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quâmi te them cnôsla gihue, thanan he cunneas uuas, giboran fon them burgiun. That gibod uuarð gilêstid oƀar thesa uuîdon uuerold. Uuerod samnoda te allaro burgeo gihuuem. Fôrun thea bodon oƀar all, thea fon them kêsura cumana uuâ*run, bôkspâha uueros, endi an brêf scriƀun suîðo niudlîco namono gihuilican, ia land ia liudi, that im ni mahti alettean mann gumono sulica gambra, sô im scolda geldan gihue heliðo fon is hôƀda. Damals kamen von Rom Bann und Botschaft des über all diese Völkerstämme herrschenden Oktavians, gültig für sein gesamtes groβes Reich; sie kamen von dem Kaiser an alle Könige, die in ihrer Heimat regierten, so weit wie seine Herzöge über die Länder der Leute Macht hatten. Man hieβ alle Auswärtigen den Erbbesitz aufzusuchen, die Krieger ihre Heimat; dass jeder vor die Boten seines Herrn bei dem Geschlecht treten sollte, aus dem er stammte, entsprungen dieser [heimatlichen] Stadt. Das Gebot wurde verkündet über die ganze Welt. Scharen sammelten sich in allen Städten. Die Boten, die vom Kaiser kamen, zogen überall hin, schriftkundige Männer, und sie schrieben mit groβem Eifer in Urkunden alle Namen, auch Land und Leute, damit niemand sich der Abgabe entziehen konnte, die jeder der Krieger, Kopf um Kopf, bezahlen sollte. Dass diese Passage des Heliand viele «auffällige Gemeinsamkeiten» mit der entsprechenden im “Evangelienbuch” aufweist, die bis zu wörtlichen Übereinstimmungen gehen, ist schon mehrfach beobachtet worden18; aber relevant sind ebenfalls die Unterschiede, die die Besonderheit von Otfrids Darstellung hervorheben. In beiden Dichtungen wird der zweite Lukas-Vers mit der Nennung des praeses Quirinus komplett ausgelassen, in beiden wird der Verweis auf den universus orbis sehr stark akzentuiert, sowohl der breite Umfang der kaiserlichen Herrschaft als auch die allgemeine Gültigkeit des Gebots werden wiederholt betont. Im Liber evangeliorum heißt es: v. 4 so wíto soso in wórolti man wári búenti, «so weit in der Welt Menschen wohnten»; dann v. 12, mit anaphorischer Wiederholung, so wíto so gisíge ther himil ínnan then se «bis dahin wo der Himmel sich in das Meer senkt»; dann 17-18, wieder mit Anapher: so wár man sehe in waron stérron odo mánon «soweit, wie man Sterne und Mond sehen kann» und so wara so in érdente súnna sih biwénte «bis dahin, wo die Sonne am Ende der Erde ihren Lauf wendet». Im Heliand findet man am Anfang die Beschreibung Oktavians als (v. 339-340) rîkes mannes oƀar alla thesa irminthiod «des über all diese Völkerstämme herrschenden Oktavians», dann die Ausdehnung seiner Herrschaft (v. 341) thea is brêdon giuuald «sein groβes Reich»; dann, anders als bei Otfrid, den Verweis auf eine hierarchische Gliederung: das kaiserliche Gebot gilt allen Königen des Landes (cuningo gihuilicun v. 342), im ganzen Gebiet, in dem 18 Vgl. G. Vollmann-Profe, Kommentar, S. 252, mit Literatur.
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seine “Herzöge” Macht hatten (sô uuîdo sô is heritogon oƀar al that landskepi liudio giuueldun. v. 343 f.), so dass sich die hierarchische Folge kêsur, cuning, heritogo ergibt. Am Ende des Passus (v. 348b-349a) wird zusammenfassend die weltweite Gültigkeit des Census noch einmal eigens unterstrichen: That gibod uuarð gilêstid // oƀar thesa uuîdon uuerold «das Gebot wurde verkündet über diese weite Welt». Ein weiterer augenfälliger gemeinsamer Zug ist die Nennung – in beiden Dichtungen und gegen die Quelle – der kaiserlichen Emissäre: der Heliand hat zweimal bodon (v. 346 und 350), variiert im v. 352 durch bôkspâha uueros «die schriftkundigen Männer»; im Liber evangeliorum werden (v. 3) filu wise selbes boton sine «seine sehr erfahrenen Boten» genannt, wobei die Parallelisierung neben dem gleichen Substantiv “Bote” auch die auf die Kompetenz der Boten hinweisenden Adjektivattribute miteinbezieht, auf eine Kompetenz, die für die Erfüllung der Aufgabe erforderlich ist; einige Forscher sehen darin wohl zu Recht eine aktualisierende Anspielung auf die karolingischen Königsboten, die missi dominici, die jenseits der normalen Verwaltungshierarchie den Willen und das Gebot des Herrschers durchzusetzen hatten19. Andererseits wird durch den Vergleich evident, dass, während im Heliand die Darstellung den Lukas-Text durch viele aktualisierende Details präzisiert wird, der Liber evangeliorum Otfrids jeden konkreten Bezug zugunsten einer topographischen Abstraktion tilgt, das Geschehen damit allgemeingültig und exemplarisch werden lässt; einzige Ausnahme, neben Joseph, ist die Erwähnung Roms als Hauptstadt und Chiffre des Imperiums (v. 2 ther kéisor fona Rúmu), wiederum gegen die Quelle und parallel zum Heliand, wobei letzterer aber dieser namentlichen Nennung in beachtenswerter Konkretisierung und Historisierung noch die Namen des Kaisers Oktavianus (v. 340), der Stadt Bethlehem (v. 359, 370, 404, 424), des Stammvaters David (v. 363, 401) und der Gottesmutter Maria (v. 361, 368) zur Seite stellt. Durch die Entkonkretisierung gelingt es Otfrid, die Biographie des Heilands «vor einem makrokosmischen Hintergrund erscheinen» zu lassen20. Das «kosmische Panorama»21 charakterisiert dabei im Liber evangeliorum auch andere Stationen des Lebens Jesu: z. B. fliegt in der Verkündigungsszene der Engel zu Maria über súnnun pad, stérrono stráza, wega wólkono «den Sonnenpfad, die Sternstraβe, die Wege der Wolken» (I, 5, 5-6); und bei der Himmelfahrt läβt Christus hinter sich thia súnnun joh then mánon […] joh állan thesan wóroltring, […] thiu zuelif zéichan ellu, […]thaz 19 Vgl. ibid., S. 252. 20 U. Ernst, «Poesie», S. 131. Nicht zustimmen kann ich der Auffassung Ernsts (ibid., S. 135 f.), nach der die Enthistorisierung der Darstellung des Augustus dazu diene, bei Otfrids «fränkische[m] Hörer- bzw. Leserkreis zugleich die Erinnerung an Karl den Groβen wach[zu]rufen», und Otfrid «durch die Erhebung des kéisor fona Rúmu zum Weltherrscher zugleich die fränkische Idee der renovatio imperii und damit den universalen Geltungsanspruch des frühmittelalterlichen Kaisertums zum Ausdruck bringen» wolle; zwar wird im Kapitel I, 1 des “Evangelienbuchs”, wie von Ernst betont, im Rahmen der laus Francorum der Gedanke der translatio imperii implizit durchgeführt, aber die Schilderung des Herrschaftsanspruchs des fränkischen Reichsvolks, der dort ja durch seine historische Stellung und seine wirtschaftlichen, kriegerischen und nicht zuletzt christlichen Tugenden begründet wird, sowie durch die fortitudo und die sapientia seines Königs, weist gar keine Ähnlichkeit mit der hier angebotenen Darstellung, die im Dienste anderer Zwecken steht; vgl. C. Staiti, «Das Evangelienbuch», S. 241-244. 21 U. Ernst, «Poesie», S. 131.
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síbunstirri joh ther wágano gistélli, then drachon […] Satúrnum ouh then drágon, polónan ouh then stétigon «die Sonne und den Mond und den ganzen Erdenkreis, alle zwölf Zeichen, das Siebengestirn und die beiden Wagen, den Drachen, auch den trägen Saturn und den steten Polarstern» (V, 17, 25-31)22. Auch hier ist wiederum die prunkvolle Ausschmückung der kosmischen Szenerie – weit über die biblische Quelle hinaus – zu beachten. Bekanntlich findet sich diese universale Geltung der augusteischen, kaiserlichen Herrschaft schon sehr früh in vielen exegetischen und apologetischen Werken, im Zusammenhang der noch älteren Parallelisierung Augustus-Christus. Genau genommen war der Anspruch auf universale Herrschaft bereits Teil der römischen imperialen Ideologie. In der kaiserlichen Rede des Liber evangeliorum jedoch wird nicht nur die geographische Ausdehnung des Imperiums betont, sondern auch die Unausweichlichkeit des Census, dem sich keiner entziehen darf: weder Mann noch Frau (v. 7 gómmán ioh wíb), weder Jung noch Alt (v. 9 júnger joh álter), sei er noch so gering (v. 10 ni si mán nihein so véigi), weder Siedlung noch Mensch (v. 13, mit Stabreim búrg … noh bárn), weder auf dem Feld noch im Wald (v. 14 in félde noh in wálde). Es handelt sich um rechtssprachliche Doppelformeln; und auf die Rechtssprache geht auch die Poenformel in v. 7 f. zurück (in thíu se wóllen haben líb, // in thíu se tház gilíezen, thaz sẹ érdrihes níezen), in der Zuwiderhandelnde mit der Todesstrafe bedroht werden. Die Rede des Augustus weist auβerdem komplexere syntaktische Strukturen auf, die der sonstigen Tendenz des Dichters zur Übereinstimmung von Vers- und Satzeinheit widersprechen; der letzte, vier Verse umfangende Satz ist auch durch den Parallelismus von Anfangs- und Schlussvers charakterisiert, die miteinander reimen: v. 15 Ellu wóroltenti zi míneru henti und v. 18 al sit iz bríeventi zi míneru henti «Alle Gegenden der Welt, die in meinen Händen stehen, […] alles sollt ihr aufzeichnen und es in meine Hände übergeben!». Die feierliche Erweiterung, die Universalisierung und Präzisierung des knappen Incipit des Lukasevangeliums in diebus illis exiit edictum a Caesare Augusto, ut describeretur universus orbis, sie bereiten den Boden für die eschatologische Auslegung der Verse 55-62, die den Schluss des Kapitels bilden: Mystice. Drúhtin queman wólta, tho man alla wórolt zalta, thaz wír sin al gilíche gibriefte in hímilriche. In kríppha man nan légita, thar man thaz fíhu nerita, want er wílit unsih scówon zí then éwinigen góumon. Ni wari thó thiu giburt, tho wurti wórolti firwúrt; 22 Ähnlich auch Kap. II, 1, das im Anschluss an den Anfang des Johannesevangeliums die Präexistenz des Logos vor der Zeit bildreich darstellt (v. 13-15): Er máno ríhti thia náht, joh wurti ouh súnna so glát, // ódo ouh hímil, so er gibót, mit stérron gimálot: // So was er io mit ímo sar… «bevor der Mond die Nacht beherrschte, und die Sonne so glänzend wurde; auch bevor der Himmel, wie er befahl, mit Sternen geziert wurde: da war er immer bei Gott…»; siehe auch die Anspielung auf die Himmelfahrt in I, 15, 35-36: Férit er ouh thánne ubar hímila álle, // ubar súnnun líoht joh állan thesan wóroltthiot «dann wird er ziehen über alle Himmel, über das Sonnenlicht und all die Völker der Welt».
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sia sátanas ginámi, ób er tho ni quámi. Wir wárun in gibéntin, in wídarwerten héntin; thụ uns hélpha, druhtin, dáti ze thero óberostun noti! Der Herr hat kommen wollen, als man die ganze Welt zählte, damit wir alle ohne Unterschiede im Himmelreich verzeichnet sind. Man hat ihn in eine Krippe gelegt, wo das Vieh ernährt wird, weil er uns beim ewigen Mahl erblicken will. Wenn diese Geburt nicht stattgefunden hätte, wäre die Welt verloren gewesen: Satan hätte sie eingenommen, wenn Er damals nicht gekommen wäre. Wir waren in Fesseln, in den Händen des Widersachers; du, o Herr, hast uns geholfen in der Zeit der höchsten Not! Hier wird die heilsgeschichtliche Relation zwischen dem census Augusti und der Geburt Christi einerseits und dem Endgericht andererseits hergestellt und Punkt für Punkt durchgeführt: der schriftlichen, vom Kaiser angeordneten Aufzeichnung und Beschreibung (briaf v. 6) des Erdkreises (erdrichi v. 5) korrespondiert der vom Herrn gewollte himmlische census (sin… gibriefte in himilriche v. 56), der Krippe für das Vieh (v. 57) entspricht das ewige Mahl (ewinigen goumon v. 58) für die auf Erlösung wartende Menschheit; und so wie alle – Männer und Frauen, Junge und Alte – dem kaiserlichen Gebot ausnahmslos gehorchen mussten, so erfasst der Ordner des Himmelreichs die ganze Menschheit gleichermaβen (al giliche v. 56). Die Gleichzeitigkeit der augusteischen Volkszählung und der Menschwerdung des Herrn erhält hier also eine auf die Endzeit gerichtete Sinnhaftigkeit. Dieser Parallelismus ist im patristischen und theologischen Schrifttum des Mittelalters recht verbreitet; die Tradition beginnt im 2. Jahrhundert mit Melito von Sardes und geht über Origenes, Eusebius und vor allem Orosius bis Dante und darüberhinaus. In dieser traditionellen allegorischen Interpretation der Gleichzeitigkeit von augusteischer Herrschaft und Geburt Christi treten römisches und christliches Imperium miteinander in Beziehung, die pax Augusti und die pax Christi, Augustus und Christus werden korreliert. Aus dieser breiten Tradition der interpretatio christiana des Augustus liest Otfrid, im Einklang mit der karolingischen Theologie23, nur einige Aspekte aus; ausgeschieden werden sowohl die Reihe der kaiserlichen prodigia24 als
23 Vgl. Beda, In Lucae Evangelium Expositio II, 5 (coll. Patrologia Latina 92, 328 B/C): Exiit ergo edictum a Caesare Augusto, ut censum profiteretur universus orbis, quia imminebat edictum Regis Christi, quo salutem consequeretur universus orbis. Qui vocabulum Augusti perfectissime complens, utpote suos et augescere desiderans, et ipse augere sufficiens, censoribus suae profectionis, non ablatione pecuniae subiectos, sed fidei oblatione signare praecipit. 24 Vgl. Orosius, Historiarum libri VII, l. VI cap. XX (coll. Patrologia Latina 1053s.): Hoc autem fideliter commemorasse ideo par fuit, ut per omnia venturi Christi gratia praeparatum Caesaris imperium comprobetur. Nam cum primum […] hora circiter tertia repente, liquido ac puro sereno circulus ad speciem coelestis arcus orbem solis ambiit, quasi eum unum ac potentissimum in hoc mundo solumque clarissimun in orbe monstraret, cuius tempore venturus esset, qui ipsum solem solus, mundumque totum et fecisset et regeret. Deinde cum secundo, in Sicilia receptis a Роmpeio et Lepido legionibus, triginta milia servurum dominis restituisset, et quadraginta quatuor legiones solus imperio suo ad tutamen orbis terrarum distribuisset, ovansque Urbem ingressus, omnia superiora populi Romani debita donanda, litterаrum etiam monumentis abolitis censuisset; in diebus ipsius fons olei largissimus, sicut superius expressi, de taberna meritoria per totum diem fluxit. quo signo quid evidentius quam in diebus Caesaris toto orbe regnantis futura Christi nativitas declarata est? Christus enim lingua gentis
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auch die Darstellung Christi als civis romanus25 und das Thema der pax romana – obwohl die Beschreibung der Breite der augusteischen Volkszählung im “Evangelienbuch” die Ausdehnung der pax romana bei Orosius zitiert, die schon Hraban, dessen Schüler Otfrid nach eigener Angabe war, wieder aufgenommen hatte: Itaque expletis annis ab exordio mundi 5199 Caesar Augustus ordinatione Dei totum orbem terrarum ab Oriente in Occidentem, a Septentrione in Meridiem, ac per totum Oceani circulum omnes gentes una pace composuit26.
eius, in qua et ex qua natus est, unctus interpretatur. itaque cum eo tempore, quo Caesari perpetua tribunicia potestas decreta est, Romae fons olei per totum diem fluxit: sub principatu Caesaris Romanoque imperio per totum diem, hoc est per omne Romani tempus imperii, Christum et ex eo Christianos, id est unctum atque ex eo unctos, de meritoria taberna, hoc est de hospita largaque Ecclesia, affluenter atque incessabiliter processuros restituendosque per Caesarem omnes servos, qui tamen cognoscerent dominum suum, ceterosque, qui sine domino invenirentur, morti supplicioque dedendos, remittendaque sub Caesare debita peccatorum in ea urbe, in qua spontaneum fluxisset oleum, evidentissima his, qui prophetarum voces non audiebant, signa in caelo et in terra prodigia prodiderunt. Tertio autem, cum urbem triumphans quintum consul ingressus est, eo scilicet die, quem supra nominavimus, cum et Ianum post ducentos annos primum ipse clausit et clarissimum illud Augusti nomen adsumpsit, quid fidelius ac verius credi aut cognosci potest, concurrentibus ad tantam manifestationem pace nomine die, quam hunc occulto quidem gestorum ordine ad obsequium praeparationis eius praedestinatum fuisse, qui eo die, quo ille manifestandus mundo post paululum erat, et pacis signum praetulit et potestatis nomen adsumpsit? Quid autem in quarto reditu, cum finito Cantabrico bello pacatisque omnibus gentibus Caesar urbem repetiit, ad contestationem fidei, quam expromimus, actum sit, ipso melius ordine proferetur. 25 Vgl. Orosius, Historiarum libri VII, l. VI cap. XXII (coll. Patrologia Latina 1058-1060): Itaque anno ab urbe condita DCCLII Caesar Augustus ab oriente in occidentem, a septentrione in meridiem ac per totum Oceani circulum cunctis gentibus una pace conpositis, Iani portas tertio ipse tunc clausit. quas ex eo per duodecim fere annos quietissimo semper obseratas otio ipsa etiam robigo signavit, nec prius umquam nisi sub extrema senectute Augusti pulsatae Atheniensium seditione et Dacorum commotione patuerunt. clausis igitur Iani portis rempublicam, quam bello quaesiverat, pace enutrire atque amplificare studens leges plurimas statuit, per quas humanum genus libera reverentia disciplinae morem gereret. domini appellationem ut homo declinavit. nam cum eodem spectante ludos pronuntiatum esset in mimo dominum aequum et bonum universique, quasi de ipso dictum esset, exultantes adprobavissent, et statim quidem manu vultuque indecoras adulationes repressit et insequenti die gravissimo corripuit edicto dominumque se posthac appellari ne a liberis quidem aut nepotibus suis vel serio vel ioco passus est. Igitur eo tempore, id est eo anno quo firmissimam verissimamque pacem ordinatione Dei Caesar conposuit, natus est Christus, cuius adventui pax ista famulata est, in cuius ortu audientibus hominibus exultantes angeli cecinerunt Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. eodemque tempore hic, ad quem rerum omnium summa concesserat, dominum se hominum appellari non passus est, immo non ausus, quo verus dominus totius generis humani inter homines natus est. eodem quoque anno tunc primum idem Caesar, quem his tantis mysteriis praedestinaverat Deus, censum agi singularum ubique provinciarum et censeri omnes homines iussit, quando et Deus homo videri et esse dignatus est. tunc igitur natus est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est. haec est prima illa clarissimaque professio, quae Caesarem omnium principem Romanosque rerum dominos singillatim cunctorum hominum edita adscriptione signavit, in qua se et ipse, qui cunctos homines fecit, inveniri hominem adscribique inter homines voluit: quod penitus numquam ab orbe condito atque ab exordio generis humani in hunc modum ne Babylonio quidem vel Macedonico, ut non dicam minori cuiquam regno concessum fuit. nec dubium, quin omnium cognitioni fidei inspectionique pateat, quia Dominus noster Iesus Christus hanc urbem nutu suo auctam defensamque in hunc rerum apicem provexerit, cuius potissime voluit esse cum venit, dicendus utique civis Romanus census professione Romani. Quamobrem quia ad id temporis perventum est, quo et Dominus Christus hunc mundum primum adventu suo inlustravit regnumque Caesari tranquillissimum dedit, hunc quoque sextum libellum hoc fine concluserim. 26 Hrabanus Maurus, Expositio in Matthaeum (coll. Patrologia Latina 107, 756C). Vgl. Orosius, Historiarum libri VII, l. VI cap. XXII (wie Anm. 24), wo die Zeit ab urbe condita (DCCLII) gerechnet wird.
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Während diese Elemente – Kaiserprodigien, römische Zugehörigkeit, augusteischer Frieden – im Liber evangeliorum nicht vorhanden sind, konzentriert sich die Augustus-Christus Parallelisierung bei Otfrid sehr intensiv auf den Komplex von Herrschaft und Gewalt. Dabei spiegelt sich im “Evangelienbuch” gleichsam der Prozess wider, der in der Ikonographie stattgefunden hatte bzw. noch im Gang war, wo die Darstellung Christi sich an den Formen der spätantiken imperialen Repräsentation orientiert, die mit biblischen Inhalten verbunden wird.27 Schon seit der Spätantike gibt es eine Tradition der Abbildung weltumspannender kaiserlicher Macht und maiestas, in der der Herrscher die Sphaira oder den Globus in der Hand hält, eine ikonographische Tradition, die bis ins frühe Mittelalter und darüberhinaus reicht28. Sie wird schon in karolingischer Zeit auf die Visualisierung des Weltenherrschers Christus, auf die Abbildung der Maiestas Domini übertragen: Christus hält in seiner Hand eine Kugel oder Scheibe, die z. B. in einer Handschrift (10. Jh.) des illustrierten Apokalypsenkommentars des Beatus von Liébana (c. 776) mit der Beischrift Mundus versehen ist. Karl der Kahle (840-877) ist dann der erste und vielleicht einzige karolingische Herrscher, der selbst mit dem Globus in der Hand abgebildet wird, z. B. in der berühmten Reiterstatuette von Metz. In der aus der Hofschule Karls des Kahlen stammenden Bibel von S. Paolo fuori le Mura (c. 870) drückt die Beischrift in der vor Beginn des Neuen Testaments stehenden Maiestas Domini den gleichen kosmischen Anspruch Christi aus: Sede throni residens, mundum qui ponderat omnem … Christus ist der Wäger der Welt, die er in der Hand hält. Der Christus des aus der gleichen Schule stammenden, a. 870 entstandenen Codex Aureus von St Emmeram (Regensburg) hält und wägt ganz entsprechend in seiner Hand die viergestalte Welt, die nach ihren vier Himmelsrichtungen, nach den Weltenden bemessen ist: Christus vita hominum, caelorum gloria summa, / Librat tetragonum miro discrimine mundum29. Hiermit ist die Weltherrschaft signalisierende und auf Christi, des neuen Weltenherrschers Geburt bezogene Handgebärde zu verbinden, die im oben zitierten Text von Otfrid dem Augustus betont zugeschrieben wird: Ellu wóroltenti zi míneru henti (v. 15) «Alle Länder bis hin zu den Enden der Welt, die in meinen Händen sind». Otfrids Darstellung des Kaisers, der das Gebiet seiner Herrschaft gleichsam in den Händen hält, erscheint in diesem Licht beinahe als ekphrastische Wiedergabe der «mittelalterlichen Miniaturen, die das Censusgebot des Augustus abbilden»30. Nun begegnet diese durch den Reim henti: woroltenti beschriebene Handgebärde – wobei zu beachten ist, dass das Kompositum woroltenti ausschlieβlich bei Otfrid
27 Vgl. u. a. Karl Heinz Uthemann, Christus, Kosmos, Diatribe, Berlin-New York, de Gruyter, 2005, S. 334-366. 28 Percy Ernst Schramm, Sphaira, Globus, Reichsapfel, Stuttgart, Anton Hiersemann, 1958; Klaus Wessel, «Das Bild des Pantokrators», in Peter Wirth (ed.), Polychronion. Festschrift Franz Dölger, Heidelberg, Winter, 1966, S. 521f, 529. 29 Herbert Schade, «Hinweise zur frühmittelalterlichen Ikonographie III: Der Wäger der Welt», Das Münster 11 (1958), S. 387-392 mit Bezug auf Schramm, Sphaira, S. 38. Vgl. ferner Robert Berger, Die Darstellung des thronenden Christus in der romanischen Kunst, Reutlingen, Gryphius Verlag, 1926, S. 60f. ; K. Wessel, «Das Bild des Pantokrators», S. 521-535. 30 Haubrichs, Ordo, S. 278.
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belegt ist31 – auch an einigen wenigen, aber relevanten Stellen des Liber evangeliorum32. Neben einem Beleg im Kapitel III, 13, wo der Begriff bei der Ankündigung der Passion an die Jünger zur Wiedergabe der Wendung mundus universus der Vorlage dient33, findet sich dieser Reim dreimal im Rahmen der Kreuzigungsdarstellung und -exegese. Einmal erscheint er bei der Schilderung der Annagelung Christi, nach der – so Otfrid, wohl nach Beda34 – der Körper des Gekreuzigten auf alle vier Regionen der Welt deutet (IV, 27, 19-20): Tho zéintun wóroltenti sínes selben hénti, // thaz hóubit hímilisga múnt, thie fúazi ouh thesan érdgrunt «Da zeigten seine Hände zu den äuβersten Enden der Welt, sein Haupt zur Himmeldecke, die Füβe zu diesem Erdengrund». Ganz ähnlich, aber diesmal auf das Kreuz selbst und dessen Form bezogen, sind der zweite und der dritte Beleg, beide im exegetischen Kapitel V, 1 CUR DOMINUS IGNOMINIAM CRUCIS ET NON ALIAM PRO NOBIS PERTULERIT, in dem Otfrid die heilsgeschichtliche Bedeutung der freiwilligen Wahl dieses spezifischen Todesinstruments durch die «weltumfassend[e] Gestaltung des Kreuzesbaumes»35 erklärt: die Verse 18-21 beschreiben das stehende Kreuz: Thes krúces horn thar óbana thaz zéigot uf in hímila; // thie árma joh thie hénti thie zeigont wóroltenti; // Ther selbo míttilo bóum ther scówot thesan wóroltfloum; «Das obere Ende des Kreuzes zeigt hinauf in den Himmel, Arme und Hände zeigen die äuβersten Enden der Welt; der mittlere Teil schaut zur Nichtigkeit der Erde» während die Verse 39-40 auch dem liegenden Kreuz gelten: Éllu thisu wúntar zeigot ímo iz suntar, // iz rihtit wóroltenti zi sínes selbes hénti «Es [das Kreuz] weist ihm [Christus] all diese wunderbaren Eigenschaften zu: es gibt in seine Hände die Enden der Welt»36. 31 Vgl. Johanna Belkin, «Welt als Raumbegriff», Zeitschrift für deutsche Sprache 24, 1969, S. 16-59. 32 Das Kompositum woroltenti kommt im Liber evangeliorum insgesamt acht Mal vor: auβer einem einzigen Beleg (I, 15, 37), in dem es im zeitlichen Sinn mit Bezug auf das Jüngste Gericht, als Wiedergabe von Mt 24, 3 consummatio saeculi, gebraucht wird, steht das Wort immer im Reim zu henti. 33 Liber evangeliorum III, 13, 31-33: Waz hílfit nu then muadon mán, ther hiar gihéret so frám, // thaz sínt imo untar hénti ellu wóroltenti // Oba er in thía wila firlíusit sina séla… «was nützt nun dem armen Menschen, der hier so umfassend herrscht, dass die ganze Welt unter seinen Händen steht, wenn er dabei seine Seele verliert…»; die Stelle dient zur Wiedergabe von Mt 16, 26 quid enim prodest homini si mundum universum lucretur animae vero suae detrimentum patiatur. 34 Vgl Beda, Homilia XX in decollatione sancti Joanni baptistae (coll. Patrologia Latina 94, col. 241D): Exaltatus quippe in cruce, caput erectum ad coelos tenuit, manus super terras ad aquilonem tetendit et austrum, ut et cœli se esse Dominum, et universam terram omnesque potestates aereas suæ ditioni subditas ipso etiam corporis situ figuraret. 35 Vgl. Ute Schwab, «Die cornua crucis und thes kruces horn. Überlegungen zu Otfried II, 9; IV, 26, 2 und V, 1, 19», Zeitschrift für deutsches Altertum und deutsche Literatur, 109 (1980), S. 1-33, hier S. 1-4, Zitat S. 2; vgl. J. Belkin, «Welt bei Otfrid», Zeitschrift für deutsche Sprache, 27 (1971), S. 45-60. 36 Auch diese Vorstellung übernimmt Otfrid aus der Patristik, wo die Interpretation des weltumfassenden Kreuzes in das Zitat der Matthäusstelle mündet, das am Beginn des Missionsgebots auf die potestas in caelo et in terra hinweist. Der am nächsten verwandte Passus findet sich in einem Text unsicherer Zuschreibung, folglich auch unsicheren Alters; die ältere These der Autorschaft Augustins (s. coll. Patrologia Latina 40, Sp. 1193) wird noch 1966 von Joseph A. McCallin («The Christological Unity of Sain Augustin’s “De Civitate Die”», Revue des Etudes Augustiniennes 12. 1966, S. 85-109, hier S. 103 f. und Anm. 33) wieder aufgenommen; aber in der Forschung erscheint der Text mehrheitlich als Liber de divinis officiis (coll. Patologia Latina 101, 1208BC) und wird einem Pseudo-Alkuin zugeschrieben und ins X. Jahrhundert datiert (vgl. z. B. W. Haubrichs, Ordo, S. 311, Anm. 234, mit Lit. und passim): Nam et ipsa crux magnum
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Durch seine Form, die die kosmische Ordnung spiegelt, durch die Eigenschaft, die Regionen der Welt und die vier Himmelsrichtungen zu repräsentieren, erweist sich das Kreuz – so Otfrid – als geeignetes Instrument für den Tod des mächtigen Herrn. In diesen Fällen dient also die Verbindung von henti und woroltenti dazu, die kosmische Bedeutung des Kreuzes und zugleich seine Heilsbezogenheit zum Ausdruck zu bringen. Durch die freiwillige Besteigung des Kreuzes bekräftigt Christus seine Herrschaft über den gesamten Raum dieser Welt37. Hier evoziert Otfrid das Herrschaft implizierende Bild der ausgestreckten, die äuβersten Enden der Welt umfassenden Arme auf dem Hintergrund des Bildes des mit über den Kreuzesbalken gestreckten Händen hängenden Gekreuzigten. Gerade im Wiener Codex 2687, dem Zeugen (V) des «Liber evangeliorum», der Otfrid am nächsten steht und sogar Korrekturen von seiner Hand enthält, findet sich auf Bl. 153v, direkt vor Beginn des Kapitels, eine ganzseitige Miniatur der Kreuzigung, in der aus den gestreckten Händen Christi das die ecclesia belebende Blut des Erlösers fließt und in der zu seinen Häupten Sonne und Mond als Garanten der kosmischen Bedeutung der Heilstat anwesend sind.38 Das Reimpaar henti: woroltenti erscheint ebenfalls – im Kapitel V, 16 DE ASCENSIONE DOMINI – im Rahmen des Missionsbefehls. Hier paraphrasiert Otfrid die Schlusspassage des Matthäusevangeliums, in der der auferstandene Christus
in se mysterium continet, cujus positio talis est, ut superior pars cœlos petat, inferior terræ inhæreat, fixa in infernorum ima contiugat, latitudo autem ejus partes mundi appetat… Jacens vero crux quatuor mundi partes appetit, orientem videlicet et occidenten, aquilonem et meridiem: quia et Christus per passionem suam omnes gentes ad se trahit, et omnia sibi sbjugavit. juxta quod ipse surgens a mortuis dicit: Data est mihi potestas in caelo et in terra. Vgl. auch Hrabanus Maurus, De laudibus s. crucis (coll. Patrologia Latina 107, 157A) : Ast haec figura crucem Christi in quatuor cornibus cuncta complecti praedicat, sive quae in coelis, sive quae in terra, sive quae subtus terram sunt, omnia videlicet visibilia atque invisibilia, viventia et non viventia, quia quatuor crucis cornua sive quatuor loca intimant, in quibus rationales versantur creaturae, id est, coelestium, terrestrium et infernorum et supercoelestium, de quibus et Paulus apostolus loquitur, ut in nomine Jesu omne genu flectatur coelestium, terrestrium et infernorum. De tribus Pauli testimonium est, videamus et quartum : Laudate Dominum, coeli coelorum, et aquae quae super coelos sunt laudent nomen Domini. 37 Zur viel älteren Vorstellung des Kreuzes als eines kosmischen Symbols, die wahrscheinlich orientalischen Ursprungs und in den Ravennatischen Apsismosaiken des Grabmals der Galla Placidia (V. Jh.) und der Kirche Sant’Apollinare in Classe (VII. Jh.) dargestellt ist, vgl. M. Swanton, «Preface», in Ders. (ed.), The Dream of the Rood, New York, Manchester University Press, 1970, S. 1-78, hier speziell S. 44-52, mit Lit. 38 Otfrid von Weißenburg, Evangelienbuch, Bd. I: Edition nach dem Wiener Codex 2687, hg. v. Wolfgang Kleiber, Teil 1: Text, Tübingen, Max Niemeyer, 2004, p. 153v. Abbildung auch bei W. Haubrichs, Die Anfänge, Abb. 15; dazu S. 304. Eine dieser im Wiener Exemplar des “Evangelienbuchs” enthaltenen Abbildung ganz ähnliche Kreuzigungsminiatur befindet sich auf einem nachträglich eingelegtem Blatt im sog. Ludwigspsalter. Fabrizio Crivello («Ein Name für das Herrscherbild des Ludwigspsalters», Kunstchronik 6 (2007), S. 216-219), der über der in adliger Gewandung anbetenden Figur unter dem Kreuz mit der Quarzlampe ARNOLFVS las, datiert und lokalisiert das Bild an den (wohl Regensburger) Hof Ludwigs zwischen 887-899 und nimmt an, dass der Psalter nach dem Tode des Königs (876) in den Besitz seines (damals noch ungekrönten) Enkels Arnulf überging, der dann 887 ostfränkischer König, 896 Kaiser wurde († 899). Zum Ludwigspsalter siehe auch Jürgen Geiss-Wunderlich, Der Psalter Ludwigs des Deutschen. Staatsbibliothek zu Berlin – Preußischer Kulturbesitz, Ms. theol. lat. fol. 58. Kommentar, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 2021, S. 26-56, S. 54.
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den Jüngern den Auftrag zur Missionierung der Welt erteilt (Mt 28, 18 ff.)39. Anders als bei der Geburt finden sich hier sowohl die direkte Rede als auch die Anspielung auf die sich über Himmel und Erde erstreckende Herrschaft schon in der biblischen Quelle; aber Otfrid erweitert die wenigen Worte Jesu der Vorlage zu einer 28 Verse langen Ansprache, in deren erstem Teil die Übereinstimmungen mit der oben zitierten Rede des Augustus unübersehbar sind (v. 19-34): «In hímile inti in érdu so wált ih es mit állu, gigéban sint mir zi hénti ellu wóroltenti. Nu scál ih iuih sénten, in thíonost minaz wénten, gizellet wóroltthiote ál theih iu gibíete. Faret brédigonti so wít so thisu wórolt si, joh kundet éllu thisu thing úbar thesan wóroltring; Gizéllet in ouh filu frám, theih sélbo hera in wórolt quam, thaz thiu min géginwerti giwéihti thia iro hérti. Mines sélbes lera thia dúet in filu mára, tóufet sie inti brédigot, thaz sie gilóuben in got. Árme joh thie ríche so gén iu al gilíche, so waz so in érdu habe líb, thaz si gómman inti wíb, Óba sie thes gigáhent, zi gilóubu sih gifáhent: gidóufit werden álle; so ist iro lába thanne. Ther avur thés ni giílit, mit dóufu sih ni wíhit: ni gilóubit thanne ouh thuruh nót, so íst er ju firdámnot. «Im Himmel und auf Erden habe ich Herrschaft über alles; in meine Hände ist alles bis zu den Grenzen der Welt gegeben; nun will ich euch aussenden, euch zu meinem Dienst bekehren; predigt den Erdenvölkern all das, was ich euch gebiete; geht hin und lehrt, soweit diese Welt reicht, und kündet diese Ereignisse über den ganzen Erdkreis hinweg; erzählt ihnen in aller Klarheit, dass ich selber in diese Welt gekommen bin, damit meine Gegenwart ihre Herzen erweiche; offenbart ihnen meine Lehre, tauft sie und predigt ihnen, damit sie an Gott glauben. Arme und Reiche sollen für euch als Gleiche gelten, so dass alle, die auf Erden leben, seien sie Mann oder Frau, getauft werden, wenn sie sich beeilen und zum Glauben hinwenden; das wird ihre Rettung sein. Wer sich aber darum
39 et accedens Jesus locutus est eis dicens data est mihi omnis potestas in cælo et in terra 19. euntes ergo docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, 20. docentes eos servare omnia quæcumque mandavi vobis et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem sæculi. Eine Elfenbeintafel vom Anfang des 10. Jahrhunderts (Darmstadt, Hessisches Landesmuseum) zeigt den thronenden Christus mit ausgestreckter rechter Hand, in der Linken ein aufgeschlagenes Buch mit dem Text von Mt. 28, 18: Data est mihi o(m)nis potestas in coelo et in t(er)ra (dazu R. Berger, Die Darstellung, S. 46-49). Vgl. zum Pantokrator mit ausgebreiteten Armen in der Ikonographie der Himmelfahrtsszene (und des Jüngsten Gerichts) R. Berger, Die Darstellung, S. 93; 167-170; 197 f.; Otto-Karl Werckmeister: Irisch-northumbrische Buchmalerei des 8. Jahrhunderts und monastische Spiritualität, Berlin: De Gruyter, 1967, S. 80-82.
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nicht bemüht, sich nicht in der Taufe heiligen lässt, wer auch dann nicht unverzüglich glaubt, der ist alsbald gerichtet… Nicht nur findet man hier, chiastisch umgeformt, die auf Macht und Herrschaft weisende Formulierung der «Welt in den Händen» wieder (I, 11, 15 Ellu wóroltenti zi míneru henti – V, 16, 20 gigéban sint mir zi hénti ellu wóroltenti), sondern auch die Schilderung der allgemeinen Betroffenheit (I, 11, 7 Thaz si gómmán joh wíb in thíu se wóllen haben líb – V, 16, 30 so waz so in érdu habe líb, thaz si gómman inti wíb). Und auch das Gebiet der Mission wird mit den gleichen Worten wie bei der Schilderung der kosmischen Ausdehnung der Volkszählung beschrieben (I 11, 4a so wíto soso in wórolti – V, 16, 23b so wít so thisu wórolt si); ebenfalls die Wendung al giliche, hier v. 29, erscheint schon im Kapitel I, 11, allerdings im exegetischen Schlussteil (v. 56)40. Nun ist freilich auch die Parallele zwischen Missionsauftrag und Census Augusti schon in der Patristik gezogen worden41; im Liber evangeliorum hat jedoch die Ansprache Christi an die Jünger noch andere Gemeinsamkeiten mit der kaiserlichen Rede, die ja eine Neuerung Otfrids ist. Beide Reden weisen auf die totale, die ganze Welt und alle Erdenvölker umschlieβende Ausdehnung und auf die universale Gültigkeit (Mann und Weib, Junge und Alte, Arme und Reiche) des Anspruchs hin, aber betont wird in beiden ebenfalls die Aufforderung zu einer aktiven Rolle der Menschheit, die sich “beeilen” und “bemühen” muss (gigahent v. 31, giilit v. 33; vgl. nirdualtin I, 11, 5) und deren Heil von der Beachtung des Census Christi abhängt: so wie demjenigen, der seine Zinsen nicht zahlt, mit der Todesstrafe gedroht wird, so werden hier die Menschen, die nicht zur Taufe eilen bzw. nicht unverzüglich glauben, am Ende gerichtet werden; jeder Gläubige muss also – wie diejenigen, die fleiβig und voller Sorge eilends in ihr Heimatland zogen – besorgt und eifrig seinen Lebenswandel so gestalten, dass er am ewigen Mahl teilnehmen kann42. Andererseits bringt die
40 Ähnliche Formulierungen, mit der Wendung al giliche und Doppelformen als Ausdruck der Unausweichlichkeit und Allgemeingültigkeit finden sich auch z.B. bei der Beschreibung des Endgerichts (V, 19, 53: Skálka joh thie ríche thie gént thar al gíliche «Knechte und Mächtige, sie gelten alle als Gleiche»); dort auch V. 33 die Unmöglichkeit, sich zu entziehen (Wér ist manno in lánte ther thánne witharstánte «Welcher Mensch auf Erden könnte dann Widerstand leisten»). 41 Beda, In Lucae Evangelium Expositio II, 5 (coll. Patrologia Latina 92, 328 B/C): Exiit ergo edictum a Caesare Augusto, ut censum profiteretur universus orbis, quia imminebat edictum Regis Christi, quo salutem consequeretur universus orbis. Qui vocabulum Augusti perfectissime complens, utpote suos et augescere desiderans, et ipse augere sufficiens, censoribus suae profectionis, non ablatione pecuniae subiectos, sed fidei oblatione signare praecipit. Exiit ergo edictum a Caesare Augusto, ut censum profiteretur universus orbis, quia imminebat edictum Regis Christi, quo salutem consequeretur universus orbis. Qui vocabulum Augusti perfectissime complens, utpote suos et augescere desiderans, et ipse augere sufficiens, censoribus suae profectionis, non ablatione pecuniae subiectos, sed fidei oblatione signare praecipit. 42 Zum siebten und letzten Mal erscheint der Reim henti: woroltenti im darauffolgenden Kapitel V, 17, in dem – wie oben angedeutet – Otfrid so eindrucksvoll die Himmelfahrt beschreibt, Christus an den Sternbilden vorbei steigen lassend. Das Wortpaar findet sich auch diesmal in der direkten Rede, dem Abschied Christi von den Aposteln, denen er die göttliche Kraft verleiht, dank derer sie die Menschheit bis zu den Grenzen der Welt missionieren werden (V. 9-12): Thoh quément iu thio máhti, giwalt joh gótes krefti, // thio gíbit iu mit mir méist ther selbo héilogo geist; // So birut mir úrkundon mit míhilen rédinon, //
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Wiederholung der weltumfassenden Handgebärde die in den Quellen angedeuteten Beziehung zwischen Kreuzigung und Macht auch bildlich zum Ausdruck. Otfrid bleibt also, wie nicht anders denkbar, innerhalb des karolingischen Verständnisses der interpretatio christiana, die Volkszählung, Geburt Christi, Missionsauftrag und Endgericht verflocht und Augustus als Präfiguration Christi verstand; aber innerhalb dieser gegebenen Grenzen bietet er, durch das raffinierte und bedeutungsvolle Spiel der Korrespondenzen und Resonanzen, ja der internen Zitate, das so charakteristisch für den Liber evangeliorum ist43, ein neuartiges Bild des auferstandenen Christus, das fast als eine Art interpretatio imperialis gelten kann, und liefert als deren Hintergrund die Kreuzigung, wobei das Ganze durch den Gestus der die Welt umfassenden Hände zusammengehalten wird. Die Wendung Ellu wóroltenti zi míneru henti wird damit quasi zur Chiffre der Herrschaft Christi.
mit kréftigera hénti in ellu wóroltenti. «Doch werden Gottes Macht, Gewalt und Kraft über euch kommen, diese gibt euch zusammen mit mir besonders der Heilige Geist; so werdet ihr meine Zeugen sein mit bedeutungsvollen Reden und kräftigem Tun bis in die Enden der Welt.». 43 Vgl. C. Staiti, «Otfrid», S. 762-763; siehe auch U. Ernst, «Poesie», S. 141 f., und W. Haubrichs, Die Anfänge, S. 262 und 308 f.
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Da Davide ad Alfredo La traduzione del Salterio nell’Inghilterra anglosassone
Dai suoi tempi all’era moderna si è costruito attorno a re Alfredo un vero e proprio mito. La letteratura lo elogia come difensore del suo popolo dagli attacchi vichinghi, sovrano animato da una fede profonda, promulgatore di una raccolta di leggi, promotore della redazione di una cronaca che traccia dalle origini la storia del popolo anglosassone e amante del sapere, di quel wisdom a cui assegna un ruolo di primo piano e della cui diffusione si fa egli stesso attore, come testimoniano le traduzioni in volgare da lui effettuate, quali la Cura Pastoralis di Gregorio Magno, il De Consolatione Philosophiae di Boezio, i Soliloquia di S. Agostino e la traduzione in prosa dei primi cinquanta salmi, oltre a quelle da lui promosse e realizzate dal circolo di dotti che da varie parti d’Europa aveva chiamato alla sua corte1. Questa fama di sovrano perfetto e di traduttore e scrittore compiuto non gode, tuttavia, di un consenso indiscusso. Si pensi, ad esempio, alle posizioni assunte da Malcolm Godden2 che scuote dalle fondamenta la solidità della figura di Alfredo e avanza delle perplessità sulla paternità delle opere citate che entrano a comporre il “canone alfrediano”. A questo orientamento si oppone parte della critica che, sulla base di motivazioni varie (concettuali, lessicali e stilistiche), concorda sulla paternità, o se non altro su un coinvolgimento diretto di Alfredo nella stesura dei testi sopra menzionati3.
1 Vastissima la bibliografia su Alfredo († 899). Per un inquadramento generale si rimanda a Nicole Guenther Discenza and Paul E. Szarmach (edd.), A Companion to Alfred the Great, Leiden-Boston, Brill, 2015. 2 Malcolm R. Godden, «Did King Alfred write anything?», Medium Ævum, 76 (2007), pp. 1-25. 3 Janet M. Bately, «Lexical Evidence for the Authorship of the Prose Psalms in the Paris Psalter», Anglo-Saxon England 10 (1982), pp. 69-95; Janet M. Bately, «Did King Alfred Actually Translate Anything? The Integrity of the Alfredian Canon Revisited», Medium Ævum, 78 (2009), pp. 189-215; Janet M. Bately, «Alfred as Author and Translator», in A Companion to Alfred…, pp. 113-142; David Pratt, The Political Thought of Alfred the Great, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 242-263; Patrick P. O’Neill, «The Prose Translation of Psalms 1-50», in A Companion to Alfred…, pp. 256-281. Lascia aperta la questione dell’autorialità di Alfredo Alice Jorgensen, «Learning about Emotion from the Old English Prose Psalms of the Paris Psalter», in A. Jorgensen, F. McCormack, J. Wilcox, (edd.), Anglo-Saxon Emotions: Reading the Heart in Old English Language, Literature and Culture, Farnham, Ashgate, 2015, pp. 127-141. Discute della relazione ideologica e lessicale tra i Salmi, il De Consolatione Philosophiae e i Soliloquia il saggio di Amy Faulkner, «The Mind in the Old English Prose Psalms», The Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 125-141 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124805
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Al fine di individuare nella traduzione in prosa di una parte del Salterio ulteriori elementi, oltre ai vari già segnalati, che possano essere ricondotti ad Alfredo e al suo tempo, travagliato a causa delle minacce vichinghe, prenderò come esempio il Salmo 43, paradigma di supplica di una comunità oppressa dai nemici e il cui continuo richiamarsi a situazioni passate e presenti lo rende adattabile a circostanze di calamità varie e di ogni tempo, siano guerre, carestie, esilio4. Un salmo che, insieme ad altri, Alcuino raccomanda di recitare quando, in momenti di tribolazione, ci si sente abbandonati da Dio5. Non è, di certo, l’unico caso di un probabile impiego dei Salmi da parte di Alfredo per parlare del difficile momento storico della sua epoca. Altri Salmi sono stati addotti come esempio di invocazione a Dio a sostegno della lotta contro i Vichinghi6; ma questo, per l’impiego di alcuni termini mai riscontrati nelle glosse dei Salmi, mi pare presenti delle caratteristiche significative. Propagandistici o obiettivi che siano, la letteratura ci offre alcuni elementi che contribuiscono a includere nell’elenco delle opere attribuite ad Alfredo anche i Salmi. L’immagine idealizzata di Alfredo come re devoto, frequentatore delle Sacre Scritture e dalla condotta di vita improntata su quella di grandi figure bibliche comincia a formarsi, come noto, ai suoi tempi. Il suo biografo e contemporaneo Asser non esita, oltre a ricordare la devozione e la consuetudine del re di recitare i Salmi, a mettere a confronto, in modo diretto o tramite allusioni a situazioni specifiche, Alfredo con re Davide e con Salomone in particolare7. Poco menzionato è un acrostico latino8 dedicato ad Alfredo che ci restituisce l’immagine di un re sapiente la cui vita è volta alla ricerca del sacro. Si tratta di una tipologia di testo in onore di un re piuttosto inconsueta nel periodo e nell’ambiente culturale anglosassone (il testo è contenuto nel ms Bern, Burgerbibliothek, 671, aggiunto nel codice da una mano del 900 circa) e che si pone significativamente sulla scia delle produzioni scritte in lode di imperatori quali Costantino e Carlo Magno9.
Review of English Studies, 70 (2019), pp. 597–617, che ruota attorno al diffuso impiego di mod, termine che nelle opere alfrediane indica l’attività della mente tesa alla ricerca della sapienza e che spesso traduce lat. anima e cor (un esempio anche nel Salmo 43, 19, di seguito riportato, dove lat. cor è reso con mod). 4 Hermann Gunkel, Die Psalmen, Göttingen, Vanderhoeck und Ruprecht, 1926, pp. 182-187 5 De Psalmorum usu (coll. Patrologia Latina 101, 467.) La sezione introduttiva al De psalmorum usu, l’unica parte attribuibile con certezza ad Alcuino, è edita col titolo De laude Psalmorum in Jonathan Black, «Psalm Uses in Carolingian Prayerbooks: Alcuin and the Preface to De Psalmorum usu», in Mediaeval Studies 64 (2002), pp. 1-60, alle pp. 45-60. 6 Daniel Orton, «Royal Piety and Davidic Imitation: Cultivating Political Capital in the Alfredian Psalms», Neophilologus 99 (2015), pp. 477-92, in particolare p. 489. 7 William H. Stevenson (ed), Asser’s Life of King Alfred: together with the Annals of Saint Neots erroneously ascribed to Asser, Oxford, Clarendon Press, 1904 (cap. 24 e 76). La traduzione è in Simon Keynes – Michael Lapidge, Alfred the Great: Asser’s Life of King Alfred and other contemporary sources, Harmondsworth, Penguin Books, 1983. Ricordo anche la Cronaca di Æthelweard (X sec.) dove sotto l’anno della morte di Alfredo (899) tra i vari meriti del re si menziona anche la sua conoscenza delle cose sacre. Cf. S. Keynes – M. Lapidge, Alfred the Great (cit.), p. 191. 8 Michael Lapidge, Anglo-Latin Literature, London, Hambledon, 1993, II, pp. 70-71. 9 Sui rapporti che esso intrattiene con gli acrostici sibillini e con l’ambiente carolingio, si veda il recente saggio di Robert Gallagher, «King Alfred and the Sibyl: Sources of Praise in the Latin Acrostic Verses of Bern, Burgerbibliothek, 671», Early Medieval Europe 27 (2019), pp. 279-298, con ampia
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En tibi discendant e celo Gratie tot E. Letus eris semper,Ælfred, per competa ate L. [= leta] Fletas iam mentem sacris; satiare sirela F. [= faleris] Recte doces, properans, falsa dulcidine mure R. [= rerum] Ecce aptas clara semper lucrare taltan E. [= talenta] Docte peregrine transcurre rura sophie. [D?]10 Le frasi che per l’argomento che qui si tratta appaiono particolarmente significative sono quelle che si concentrano sulla ricerca del sacro e il distacco dalle vanità terrene. Se a ciò si aggiunge il ruolo di educatore che ad Alfredo si attribuisce (recte doces) e la necessità di far fruttare i talenti donati da Dio (un chiaro riferimento a Mt 25, 16), nell’acrostico sembrano risuonare le parole con cui Alfredo si rivolge ai vescovi nella prefazione della Cura pastoralis11 e soprattutto quelle di Asser nel noto paragone che istituisce tra il re e Salomone12, a riprova del ripetersi, quasi formulare, dei motivi encomiastici. Sempre nel segno della celebrazione del re si situa un passo di William of Malmesbury, a cui si deve l’unica notizia esistente dell’attribuzione ad Alfredo della traduzione dei Salmi, che racconta come la morte avesse impedito al re di completare la traduzione del Salterio di cui aveva fatto in tempo a finire la prima parte: Quin et provincialibus grandem amorem studiorum infudit, hos præmiis, illos injuriis hortando; neminem illiteratum ad quamlibet curiæ dignitatem aspirare permittens. Psalterium transferre aggressus, vix prima parte explicata vivendi bibliografia. Va ricordata in questo contesto la dedica a Ludovico il Germanico, che apre il Liber evangeliorum di Otfrid von Weissenburg, non soltanto per l’acrosticotelestico che la incornicia, ma anche per il paragone che l’autore istituisce tra Ludovico e re Davide, personaggio biblico su cui si modella lo stesso Alfredo. Si veda Chiara Staiti, «Otfrid von Weissenburg e la biografia impossibile di Ludovico il Germanico», in Scripturus vitam. Lateinische Biographie von der Antike bis in die Gegenwart. Festgabe für Walter Berschin zum 65. Geburtstag, hg. v. Dorothea Walz, Heidelberg, 2002, pp. 755-768. 10 «Possa ogni Grazia scendere dal cielo su di te! Sarai sempre lieto, Alfredo, nel felice percorso della tua vita. Che tu possa volgere la mente a questioni celesti; infastidito dalle cose vane. Insegni secondo giustizia, allontanandoti dal fascino ingannevole delle cose terrene. Ecco, ti impegni sempre a guadagnarti i talenti splendenti; percorri saggiamente i campi di un sapere straniero». 11 Henry Sweet (ed.), King Alfred’s West Saxon Version of Gregory’s Pastoral Care [EETS OS 45], London, Trúbner, 1871, rist. 1959, pp. 5: ðæt ðu ðe ðissa woruldðinga to ðæm geæmetige swæ ðu oftost mæge, ðæt ðu ðone wisdom ðe ðe God sealde ðær ðær ðu hiene befæstan mæge, befæste («di liberarti degli affari terreni più spesso che puoi e di dedicarti alla sapienza che Dio ti ha dato ovunque tu possa»). 12 W. H. Stevenson, Asser’s Life of King Alfred, cap. 76, pp. 60-61: in hoc pium et opinatissimum atque opulentissimum Salomonem Hebraeorum regem aequiparans, qui primitus, despecta omni praesenti gloria et divitiis, sapientiam a Deo deposcit et etiam utamque invenit, sapientiam scilicet et praesentem gloriam […]. Alfredo stesso, nell’intento di rafforzare la sua autorità reale per mezzo delle Scritture, ricorre spesso a Salomone, figura che gli offre il destro per sottolineare il ruolo primario che egli attribuisce all’acquisizione della sapienza, tanto sua quanto del suo popolo. Si vedano le traduzioni dei passi biblici della Cura Pastoralis dove pervasiva è la presenza di Salomone che compare anche laddove Gregorio non ne fa menzione. Per l’argomento si rimanda all’articolo di Amy Faulkner, «Royal Authority in the Biblical Quotations of the Old English Pastoral Care», Neophilologus 102 (2018), pp. 125–140.
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finem fecit. In prologo Pastoralis dicit se iccirco ad interpretandos Anglice libros animatum13. La notizia è di rilievo non tanto perché è la sola testimonianza («supposé que tout ce qu’on raconte de lui soit véritable», per dirla con le parole di Voltaire)14 in cui Alfredo è ricordato come traduttore dei Salmi, ma perché si iscrive nel novero delle lodi volte a esaltarne l’immagine mettendo in qualche modo la sua vita a confronto con quella di grandi figure della cristianità. Palese appare infatti il tentativo di porre il sovrano accanto ad altri religiosi insigni di cui si racconta abbiano concluso la vita mentre erano intenti alla traduzione o al commento di testi biblici. Di Ambrogio, ad esempio, Paolino di Milano narra che venne colto dalla morte proprio mentre stava dettando il commento al Salmo 43, che si interrompe infatti al v. 24 ed è privo di conclusione15. E, per citare un noto esempio di ambito inglese, Cuthbert tramanda che Beda lavorasse alla traduzione in volgare del vangelo di Giovanni, a noi non pervenuto, il giorno stesso della sua morte16. Alfredo è dunque presentato come un re dedito negli ultimi giorni della sua vita a divulgare le Sacre Scritture a somiglianza di quanto fatto dai Padri della Chiesa. Alfredo stesso, del resto, ha contribuito a creare attorno a sé un alone di perfezione morale e religiosa che lo allinea alle grandi figure bibliche, sulla scia di una tendenza anglosassone, manifestatasi già prima di lui, a paragonarsi al popolo di Israele17 e a vedere nel Vecchio Testamento il mezzo ideale per parlare allusivamente della loro
13 Roger A. B. Mynors, Rodney M. Thomson, and Michael Winterbottom (edd.), William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, Oxford, Clarendon Press, 1998, 2 voll., Vol. 1, lib.2, par. 123.2. 14 Voltaire, Essai sur les moeurs, M. Beuchot (ed.), Paris, Firmin Didot, 1829, chap. XXVI, p. 484. 15 Vita Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi, A Paulino Ejus Notario Ad Beatum Augustinum Conscripta (coll. Patrologia Latina 14, 44), cap. 42: Ante paucos vero dies quam lectulo detineretur, cum quadragesimum tertium psalmum dictaret, me et excipiente et vidente, subito in modum scuti brevis ignis caput ejus cooperuit, atque paulatim per os ipsius tamquam in domum habitator ingressus est: post quod facta est facies ejus velut nix, et postea reversus est vultus ejus ad speciem suam […] Nam scribendi vel dictandi ipso die finem fecit; siquidem ipsum psalmum explere non potuit. 16 Epistola de obitu Bedae, Bertram Colgrave – R. A. B. Mynors, Bede’s Ecclesiastical History of the English People, Oxford, Clarendon Press, 1969, p. 582. 17 Beda, ad esempio, prese a modello la Bibbia nella sua Historia Ecclesiastica: come gli israeliti, le popolazioni germaniche avevano occupato una terra straniera guidati da Dio. Per il dibattito sulla percezione che gli anglosassoni mostrano di avere di sé come “popolo eletto” privilegiato o come popolo di Dio alla pari di altri cf. Samantha Zacher, «The Chosen People: Spiritual Identity», in Greg Walker – Elaine M. Treharne. The Oxford Handbook of Medieval Literature in English, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 457-477 e George Molyneaux, «Did the English Really Think They Were God’s Elect in the Anglo-Saxon Period?», The Journal of Ecclesiastical History, 65 (2014), pp. 721-737. Furono forse promosse dallo stesso Alfredo, per dare legittimità allo stato e autorità alla dinastia sassone occidentale, quelle liste genealogiche dove il passato mitico delle popolazioni germaniche, identificato in Wodan, si fonde con la tradizione biblica. Tra gli antenati della casata compare infatti Sceaf (si ricordi il personaggio di Scyld Scefing nel Beowulf), immaginario quarto figlio di Noè generato nell’arca, per risalire dal patriarca su fino a Adamo e Cristo. Cf. Craig R. Davis, «Cultural assimilation in the Anglo-Saxon royal genealogies», Anglo-Saxon England, 21 (1992), pp. 23-36 e Daniel Anlezark, «Sceaf, Japheth and the origins of the Anglo-Saxons», Anglo-Saxon England, 31 (2002), pp. 13-46.
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situazione e collegare il loro operato e le loro norme alle disposizioni dettate da Dio18. Il pericolo esterno, costituito dagli attacchi vichinghi all’epoca di Alfredo, rendeva più immediato il confronto con le sofferenze patite dal popolo di Israele. Alfredo si muove lungo questa direzione. Nella raccolta di leggi da lui promulgate troviamo infatti come prologo al testo le traduzioni di passi dal libro dell’Esodo (20-23), dagli Atti degli Apostoli (15, 23-30), dal Vangelo di Matteo (7, 1-2, 129)19, che conferiscono dignità e autorevolezza al suo trattato e gli consentono di porsi come anello di una tradizione che da Mosè attraverso Cristo e gli Apostoli arriva ai Sassoni occidentali e alla sua stessa persona. Del resto, un atteggiamento simile, anche se con figure non bibliche ma del calibro di Gregorio Magno, si rintraccia nella prefazione in versi che precede la sua versione della Cura Pastoralis20. Con la traduzione dei Salmi Alfredo, presentandosi come l’erede spirituale di Davide, accentua questo legame tra autorità divina e umana21. Non solo però i Salmi rappresentano l’opera per eccellenza in grado di restituire al pubblico la figura di un sovrano ideale modellato su re David; essi offrono anche l’occasione di mettere in luce la sua devozione22 e il suo desiderio di istruire, sottolineando il ruolo fondamentale che Alfredo riconosceva al sapere, religioso e laico, che doveva essere coltivato e pure divulgato. I Salmi infatti erano nel medioevo tra i testi biblici più diffusi, recitati in pubblico e in privato, impiegati come testo di istruzione23, per iniziare gli scolari alla lettura e per ricavarne conoscenze di varia natura, come sostiene Cassiodoro a conclusione della sua Expositio dei Salmi24. In poche parole i Salmi, vuoi per la loro brevità, vuoi perché condensavano gli insegnamenti della Bibbia, costituivano la base della formazione culturale dell’uomo medievale, tant’é che psalteratus era sinonimo di literatus25.
18 Malcolm Godden, «Biblical Literature: The Old Testament», Malcolm Godden – Michael Lapidge, The Cambridge Companion to Old English Literature, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 206-226, a p. 225. 19 Todd Preston, King Alfred’s Book of Laws: A Study of the «Domboc» and Its Influence on English Identity, Jefferson, NC, McFarland & Company, 2012; Mary P. Richards, «The Laws of Alfred and Ine» in A Companion to Alfred ..., pp. 282-309. 20 Nicole Guenther Discenza, «Alfred’s Verse Preface to the Pastoral Care and the Chain of Authority», Neophilologus 85 (2001), pp. 625-33. 21 Val la pena di ricordare quanto detto da Francis Leneghan, «A Case Study of Psalm 50, 1-3 in Old and Middle English», Tamara Atkin – Francis Leneghan (edd.), The Psalms and Medieval English Literature. From the Conversion to the Reformation, Cambridge, D. S. Brewer, 2017, pp. 1-33, a p. 10: «But in the Old English Prose Psalms the act of kingly translation presents opportunities for “royal posturing”: Alfred appropriates and utilizes the paradoxically humble but authoritative royal voices of David and his descendant Christ in order to position himself as their spiritual heir». 22 S. Keynes – M. Lapidge, Alfred the Great (cit.), pp. 31-32 avanzano l’ipotesi che il Salterio di Alfredo sia «a personal handbook of consolation and guidance in times of affliction». 23 Per l’Inghilterra cf. George H. Brown, «The Psalms as the Foundation of Anglo-Saxon Learning», in N. Van Deusen (ed.), The Place of the Psalms in the Intellectual Culture of the Middle Ages, Albany, State University of New York Press, 1999, pp. 1-24. 24 In Psalterium Expositio (coll. Patrologia Latina 70, 1053-54) Cassiodoro elenca grammatica, retorica, dialettica, musica, geometria e altro. 25 Alderik H. BLOM, Glossing the Psalms. The Emergence of the Written Vernaculars in Western Europe from the Seventh to the Twelfth Centuries, Berlin-Boston, De Gruyter 2017, p. 38.
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L’Inghilterra non si comporta diversamente dagli altri paesi. Considerata l’esiguità delle opere del periodo anglosassone giunte fino a noi, i numerosi codici che trasmettono il Salterio, tra cui un numero cospicuo con glosse in volgare, ne testimoniano la popolarità26. Questa diffusa frequentazione dei Salmi fa sì che ad essi si ricorresse di sovente, come dimostra la loro presenza in opere di natura diversa: per citarne solo alcune, testi grammaticali27, trattati medici28, calendari liturgici29, iscrizioni su oggetti30. Veniamo al Salterio di Alfredo. È tradito da un unico codice, il ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 882431 della prima metà dell’XI sec., redatto probabilmente a Canterbury, che riporta il Salterio completo. Con una particolarità: i primi cinquanta salmi (ff. 1-64)32, quelli attribuiti ad Alfredo, sono in prosa, i rimanenti cento in versi (ff. 65-175)33. Il testo è disposto su due colonne, a sinistra il testo latino del salmo, a destra la resa in anglosassone. Le introduzioni che precedono tutti i Salmi tranne il primo, per via di un foglio mancante, occupano lo spazio di scrittura di entrambe le colonne. Non pochi i tratti caratteristici del manoscritto e
26 Cf. M. Jane Toswell, The Anglo-Saxon Psalter [Medieval Church Studies 10], Turnhout, Brepols, 2014; Jane Roberts, «Some Anglo-Saxon Psalters and their Glosses», in T. Atkin – F. Leneghan, The Psalms and Medieval English Literature (cit.), pp. 37-71. 27 Si vedano alcuni esempi in Julius Zupitza (ed.), Ælfrics Grammatik und Glossar, Berlin, Georg Olms, 1880 (3. Aufl. Hildesheim, 2003), alle pp. 152, 225, 261, 262 e 273. 28 Kate Thomas, «Which Psalms Were Important to the Anglo-Saxons? The Psalms in Tenth- and Eleventh-Century Prayer and Medical Remedies», English Studies 98 (2017), pp. 35-48. 29 M. Jane Toswell, «The Metrical Psalter and the Menologium», Neuphilologische Mitteilungen 94 (1993), pp. 249-57. 30 Si pensi ad esempio all’iscrizione in semi-onciale sulla fascetta aurea (datata tra il VII e il IX secolo), presumibilmente parte di un’arma, ritrovata nel corso degli scavi del tesoro dello Staffordshire nel 2009, che pare una testimonianza dell’uso apotropaico del Salmo 67, 2 (o forse di Numeri 10, 35?): Surge Domine et dissipientur inimici tui et fugiant qui oderunt te a facie tua; una sorta di motto per invocare la protezione di Dio in un contesto di guerra. Cf. Thomas Klein, «The Inscribed Golden Strip in the Staffordshire Hoard: The Text and Script of an early Anglo-Saxon Biblical Inscription», Anglo-Saxon Studies in Archaeology and History 18 (2013), pp. 62-74. 31 Per l’edizione e il commento il testo di riferimento è Patrick P. O’Neill (ed.), King Alfred’s Old English Prose Translation of the First Fifty Psalms, Cambridge, MA, Medieval Academy of America, 2001. Per la traduzione in iglese cf. Patrick P. O’Neill, Old English Psalms [Dumbarton Oaks Medieval Library, 42], Cambridge, Harvard University Press, 2016. Per il codice si veda anche Richard Emms, «The Scribe of the Paris Psalter», in Anglo-Saxon England 28 (1999), pp. 179-183. 32 P. P. O’Neill, «The Prose Translation of Psalms 1-50», A Companion to Alfred…, pp. 256-281. 33 Sulla divisione tripartita dei Salmi cf. Martin McNamara, «The Psalms in the Early Irish Church», Journal for the Study of the Old Testament, Supplement Series 165, Sheffield, Sheffield Academic Press, 2000, pp. 111-112, che sottolinea come Ilario, Agostino e Cassiodoro adottassero una suddivisione del salterio in tre gruppi composti da 50 salmi ciascuno. Tale prassi era particolarmente diffusa in Irlanda e da lì passò nell’Inghilterra anglosassone e nel continente. Questa ripartizione, diversa da quella liturgica, induce a pensare che Alfredo abbia volutamente effettuato solo la traduzione della prima parte del salterio, ritenendola un’unità compiuta. Sulle metodologie di traduzione dei Salmi in prosa e di quelli metrici si veda il lavoro di Patrick P. O’Neill, «Strategies of Translation in the Old English Versions (Prose and Metrical) of the Psalms in the Paris Psalter (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Fonds latin, 8824)», Bulletin of the Institute of Oriental and Occidental Studies, Kansai University 48 (Osaka, 2015), pp. 137-71.
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del testo che tramanda. In primo luogo il formato del codice (526 mm × 186 mm; specchio di scrittura 420 X 95 mm.), insolito – per il suo aspetto marcatamente rettangolare – ma non unico, che lo rende simile a un libro mastro34. Singolare anche la resa ora in prosa ora in versi dei Salmi. Al tempo della redazione del codice erano in circolazione testi completi in versi del Salterio, per cui la scelta di presentare un libro biblico in una forma eterogenea e disarmonica può essere attribuita al fatto che la versione in prosa godesse di una certa autorità, che ad Alfredo di certo non mancava. Qualche parola merita anche la corrispondenza, non sempre fedele, tra testo latino e testo volgare. Il salterio latino riportato a sinistra è il Romanum anche se nella traduzione in volgare non mancano tratti propri del Gallicanum, dell’Hebraicum e della Vetus latina35. Con molta probabilità il compilatore aveva sotto gli occhi una versione latina basata principalmente sul salterio Romanum ma provvista di numerose lezioni e annotazioni tratte da versioni diverse. Si può pure supporre che lo scriba, sebbene copiasse dal Romanum, conoscesse a memoria il Gallicanum, come mostrano alcune correzioni che lui stesso apporta36. Difforme è la lunghezza dei Salmi: la versione in volgare è più estesa dell’originale, vuoi per le caratteristiche proprie della lingua di arrivo, vuoi per gli ampliamenti introdotti che ora sono di chiarimento (secondo la concezione di Alfredo, era dovere di un re saggio svolgere il compito di educatore che qui è attuato con tattiche di semplificazioni e scioglimenti di allusioni), ora dovuti a una sorta di commistione tra le varie versioni dei Salmi. Contrariamente a quanto avviene nelle altre opere del canone alfrediano, corredate da prologhi in cui Alfredo, o chi scrive in suo nome, delinea gli scopi, le fonti, la natura stessa delle traduzioni – ora parola per parola ora a senso –, le difficoltà incontrate in considerazione della sua salute malferma e della turbolenza dei tempi, non abbiamo nel codice parigino alcun paratesto che enunci le linee programmatiche adottate che, per la traduzione di un testo biblico che legittima l’uso dell’anglosassone come lingua atta a diffondere le Sacre Scritture, sarebbero state preziose37. Non sappiamo se ci sia mai stata una prefazione: considerata la 34 Per il formato cf. Bernhard Bischoff, Latin Paleography. Antiquity and the Middle Ages, Cambridge, New York, Cambridge University Press, 1990, p. 26 e nota 50 e M. Jane Toswell, «The Format of the Bibliotheque Nationale Ms. Iat. 8824: The Paris Psalter», Notes and Queries 241 (1996), pp. 130-33. 35 P. O’Neill, King Alfred’s Old English Prose Translation, pp. 32-34. 36 Robert L. Ramsay, «The Latin Text of the Paris Psalter: A Collation and Some Conclusions», The American Journal of Philology, 41, No. 2 (1920), pp. 147-176. Sul processo di memorizzazione dei Salmi cf. Francis Leneghan, «Making the Psalter Sing: the Old English Metrical Psalms, Rythm and Ruminatio», in T. Atkins – F.Leneghan, The Psalms and Medieval English Literature (cit.), pp. 173-197. 37 Si ricorda che nel prologo alla Cura Pastoralis Alfredo aveva accennato alla necessità di usare il volgare, a somiglianza di quanto era stato fatto in greco e in latino, per diffondere il Libro della Legge. Tale considerazione precede la nota frase in cui Alfredo dichiara di voler tradurre “alcuni libri che è estremamente necessario che tutti conoscano” (sumæ bec, ða ðe niedbeðearfosta sien eallum monnum to wiotonne). Daniel Anlezark, «Which Books are “Most Necessary” to Know? The Old English Pastoral Care Preface and King Alfred’s Educational Reform», English Studies, 98 (2017), pp. 759-780, individua in queste parole (che egli mette in relazione con alcuni passi del De doctrina christiana dove Agostino sostiene che per accrescere la sapienza maxime necessarium est capire le Scritture) un riferimento ai libri della Bibbia e al proposito di Alfredo e dei suoi collaboratori di volgerli in volgare. La traduzione dei primi cinquanta Salmi sarebbe pertanto il segno della realizzazione di questo progetto rimasto incompiuto.
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volatilità di queste parti iniziali, per il fatto di trovarsi nel foglio di apertura dei manoscritti, spesso non si sono conservate. I Salmi sono preceduti da una introduzione38 e da un titulus. L’introduzione, solitamente quadripartita, si compone di un’interpretazione storica che fa riferimento a Davide, una seconda interpretazione relativa a un altro evento storico vetero-testamentario, una spiegazione morale e una interpretazione allegorica, spesso di carattere cristologico39. Le fonti primarie utilizzate nelle introduzioni del Paris Psalter sono: gli Argumenta dello pseudo-Beda40, testo redatto con molta probabilità in Irlanda, e il commento di Teodoro Mopsuestia, secondo la traduzione effettuata da Giuliano di Eclano. Anche quando il testo dello Pseudo-Beda non ne fa menzione, Alfredo introduce il nome di Davide, quasi a voler sottolineare la continuità col re biblico41. Ogni salmo, sia in prosa sia in poesia, del Paris Psalter mostra un titulus che nel nostro caso recita: Machabeorum pressuros et uox apostoli, un adattamento dell’Argumentum del Ps 43 dello Pseudo-Beda: Machabaeorum pressuras propheta supplicationesque commemorat. Item in exomologesim legendus est ad Epistolam Pauli ad Romanos42. Il riferimento ai Maccabei, già del resto ricordati nella seconda interpretazione storica dell’introduzione al salmo, figure archetipiche di resistenza eroica, agevola Alfredo nel rimarcare la sua lotta per la difesa della terra, delle leggi e dei costumi contro i pagani, condotta con l’aiuto di Dio43.
38 Patrick P. O’Neill, «The Old English Introductions to the Prose Psalms of the Paris Psalter: Sources, Structure and Composition», Studies in Philology 78, no. 5 (1981), pp. 20-38. 39 Questa particolare articolazione si trova solo nell’esegesi irlandese dei Salmi a far data dall’800 c, ed è modellata sulla prassi adottata da Teodoro Mopsuestia (350-428), conosciuta grazie alla traduzione latina di Giuliano di Eclano (385-455). La suddivisione adottata da S. Agostino, sempre in quattro parti, prevedeva un livello anagogico, uno storico, uno allegorico e uno morale. Su questo e altri aspetti del Salterio si veda anche David Pratt, The Political Thought of Alfred the Great, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 242-163. 40 In Psalmorum Librum Exegesis (coll. Patrologia Latina 93, 477-1098). 41 Sulla tecnica ripresa da Teodoro Mopsuestia, sull’attribuzione a Davide dei cinquanta Salmi e sul ruolo profetico del re biblico nella traduzione di Alfredo cf. P. O’Neill, «The Prose Translation of Psalms 1-50», A Companion to Alfred…, pp. 271-2. Per la relazione Davide/Alfredo, si veda anche Robert Stanton, The Culture of Translation in Anglo-Saxon England, Cambridge, D. S. Brewer, 2002, p. 126. 42 In Psalmorum Librum Exegesis (coll. Patrologia Latina 93, 709). Cf. James W. Bright – Robert L. Ramsay, Liber Psalmorum: The West-Saxon Psalms, Being the Prose Portion, or the ‘First Fifty,’ of the So-Called Paris Psalter, Boston-London, Heath, 1907, p. 107 e Emily Butler, «The Role of the Compiler in the Paris Psalter», English Studies 98 (2017), pp. 26-34. 43 Si ricordi come successivamente Ælfric nell’omelia Passio Sanctorum Machabeorum delle sue Lives of Saints presenterà i Maccabei come modelli di condotta nella lotta contro i Vichinghi. In numerosi Argumenta, oltre a Davide e ai Maccabei, compare Ezechia, a riprova dell’influenza che tali figure vetero-testamentarie esercitano sul pensiero religioso e politico di Alfredo, che allinea al suo il loro impegno esemplare nel contrastare i nemici. Cf. Emily Butler, «Alfred and the Children of Israel in the Prose Psalms», Notes and Queries 57 [255], (2010), pp. 10–15; Emily Butler, «‘And Thus Did Hezekiah’: Perspectives on Judaism in the Old English Prose Psalms», The Review of English Studies 67 [281], (2016), pp. 617–35 e David Pratt, «The Illnesses of King Alfred the Great.», Anglo-Saxon England, 30 (2001), pp. 39–90, in particolare le pp. 85-87.
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Veniamo al testo del Salmo 4344, e in particolare ad alcuni termini che sembrano rinviare a motivi e situazioni legate in qualche modo alle circostanze storiche dell’Inghilterra del IX secolo, segnatamente agli attacchi vichinghi, non per comparare il Salmo ad altri testi del canone alfrediano al fine di individuare affinità stilistiche che ne giustifichino l’appartenenza, ma per verificare se determinate scelte lessicali, che costituiscono uno scarto dalla norma per essere estranee alla restante tradizione in volgare dei Salmi45, possano permetterci di risalire ai suoi tempi, se non alla sua persona, e rendere più salda la relazione tra il salmista e Alfredo, il popolo di Israele e quello anglosassone. Il ripetuto riferimento nel testo ai tempi passati offre ad Alfredo (che intensifica l’alternanza allora/ora con un sapiente uso degli avverbi e il confronto tra la condizione degli israeliti e quella del popolo anglosassone con un efficace gioco di sostituzione dei pronomi) l’opportunità di spostare l’argomento dall’attualità di Davide all’alveo della sua realtà. Col riferimento insistito agli antenati sembra voler rendere esplicita l’identificazione del popolo anglosassone con gli israeliti. Anche laddove la fonte non menziona esplicitamente termini quali patres o gentes, Alfredo insiste nell’uso ripetuto della parola foregenga, «predecessore, antenato» che compare due volte nell’introduzione e e tre volte nei primi quattro versetti del Salmo 43, dove ora è all’interno di un costrutto che rende l’espressione del v. 2 in diebus antiquis (on hiora foregengena dagum), ora è adoperata, preceduta dal possessivo “nostro” (al v. 3 ure foregengan, «i nostri antenati») per definire quanto enunciato unicamente dal pronome eos, con uno slittamento delle relazioni pronominali che palesa il proposito di inquadrare l’argomento del Salmo nella storia inglese. E nuovamente al v. 4. Artificio lessicale che sembra una manifestazione sintetica del sentimento nostalgico rivolto ai tempi felici del passato anglosassone (gesæliglica tida), di cui Alfredo parla nella sua prefazione alla Cura Pastoralis quando ricorda che i re che obbedivano a Dio erano stati in grado di mantenere la pace, la moralità e la legge a casa e di estendere i loro territori al di fuori, prosperando sia negli affari di guerra sia nel sapere, con l’aiuto del clero, zelante riguardo all’insegnamento e alla conoscenza. E come la trascuratezza del sapere e della sua diffusione fossero state la causa delle punizioni loro inflitte46. Un periodo quindi, quello dei suoi antenati (al pari di quello dei padri di Davide), vissuto in armonia con Dio, accordo che Alfredo sembra voler ulteriormente sottolineare quando amplia la lezione del v. 4 aggiungendo il compiacimento di Dio di «stare con loro» (and þe licode mid him to beonne). 44 P. O’Neill, King Alfred’s Old English Prose Translation (cit.), pp. 251-253. Si riportano in appendice il testo latino del Salmo e la sua resa in volgare così come compaiono nel codice (ff. 52r-54r). La traduzione in italiano del testo anglosassone è mia. 45 Il testo di riferiemento è Philip Pulsiano, Old English Glossed Psalters, Toronto, University of Toronto Press, 2001. Per il Salmo 43 si vedano le pp. 617-641. 46 H. Sweet, King Alfred’s West Saxon Version…, pp. 3-5: Me com swiðe oft on gemynd, hwelce wiotan iu wæron giond Angelcynn, ægðer ge godcundra hada ge woruldcundra; ond hu gesæliglica tida ða wæron giond Angelcynn; ond hu ða kyningas ðe ðone onwald hæfdon ðæs folces [on ðam dagum] Gode ond his ærendwrecum hersumedon; ond hie ægðer ge hiora sibbe ge hiora siodo ge hiora onweald innanbordes gehioldon, ond eac ut hiora eðel gerymdon; ond hu him ða speow ægðer ge mid wige ge mid wisdome; ond eac ða godcundan hadas, hu giorne hie wæron ægðer ge ymb lare ge ymb liornunga […]Geðenc hwelc witu us ða becomon for ðisse worulde, ða ða we hit nohwæðer ne selfe ne lufodon ne eac oðrum monnum ne lefdon.
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Rilevante è l’uso di alcuni termini che, per le sfumature semantiche e il loro impiego in altri testi letterari anglosassoni, sembrano voler rendere perspicuo il contrasto con gli avversari. Sia chiaro che qui non si discute della strumentalizzazione politica e religiosa delle rappresentazioni dei Vichinghi, definiti pagani, violenti, dediti al saccheggio e alla profanazione delle Chiese, né del significato morale attribuito a tali azioni (punizione mandata da Dio per i peccati commessi), ma soltanto di come Alfredo cerchi di appropriarsi del linguaggio in uso, e in qualche modo già cristallizzato, per ritrarre i nemici in modo da rendere trasparente il confronto tra le storie di cui parla la Bibbia e le vicende della sua epoca. Al v. 3, per tradurre gentes e populos ricorre per due volte all’espressione elþeodegan folc, «popoli stranieri»47. Tanto l’aggettivo elþeodig, quanto il sostantivo elþeod, popolo straniero, non compaiono in nessuna glossa dei Salmi (ðeod è il termine solitamente usato). Interessante ricordare che in poesia “stranieri” sono definiti i nemici, come, per citare solo qualche esempio, gli Unni nel poemetto su S. Elena (v. 138) e gli Assiri nella Giuditta (v. 236), opera quest’ultima nella quale il comportamento dell’eroina biblica era visto come modello da adottare nella resistenza contro i vichinghi. Alcune espressioni sembrano determinate dal desiderio di accentuare la fisicità della lotta descrivendola a tinte forti, vuoi perché rimandano a contesti letterari cruenti (non poche nel Salterio di Alfredo le influenze del linguaggio poetico), vuoi perché intensificano, comparendo in unione con altre parole a formare un binomio, l’idea di ostilità espressa nel Salmo da un solo lessema. Cito ad esempio la locuzione mid sweorda ecgum (v. 4), «con lame di spada», che traduce il lat. gladius, altrove nei Salmi reso semplicemente con sweord, che ricorre (con variazioni del primo elemento), sia nei testi secolari (nella Battaglia di Brunanburh, v. 4 e v. 68 e nel Beowulf, v. 2961), sia in quelli religiosi, dove spesso è traduzione del latino in oris gladii o in mucronis gladii. Un cenno merita l’uso del verbo ehtan al v. 8 per tradurre il lat. adfligo. Nel Salterio di Alfredo e nelle altre versioni in volgare dei Salmi ehtan è solitamente impiegato per rendere il lat. persequor. Altrove il verbo indica l’azione di forze militari o un attacco individuale48, pur se non mancano casi in cui riveste un significato figurato. Poiché la resa di adfligere, tribulare è affidata al verbo swencan, che rimanda a una condizione di prostrazione, scoraggiamento e mortificazione, la scelta ricaduta su ehtan sembra allontanare ogni riferimento a uno stato dello spirito per lasciar posto unicamente alla concretezza della guerra49. Fortemente connotato, sempre in chiave guerresca, è al v. 11 il verbo gehrespan50, “depredare, saccheggiare”, che rafforza, formando un binomio col verbo gegripan,
47 L’espressione è presente anche nel Salmo 45, 5. Si vedano al riguardo le considerazioni di Lucrezia Pezzarossa, «Bibbia, guerra e liturgia. Una nuova prospettiva sulla traduzione alfrediana del Libro dei Salmi», in M. Buzzoni – M. Bampi – O. Khalaf (edd.), La Bibbia nelle letterature germaniche medievali, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2015, pp. 37-50. 48 Cito, come esempio, Beowulf, v. 159, dove il soggetto è Grendel. 49 Esempi significativi si trovano nei poemetti Elena, v. 139 e Giuditta, v. 236 dove ehtan compare, significativamente in unione col sostantivo elþeod, in contesti di combattimento. 50 Questa è l’unica attestazione anglosassone del verbo che, in ambito germanico, compare soltanto nell’Abrogans antico alto tedesco, dove glossa il lat. vellere.
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“afferrare, strappare”, il significato del lat. diripio, tradotto nelle altre versioni del Salmo, oltre che col solo gegripan, con verbi quali gereafian e gelæccan. Sebbene le espansioni mediante l’uso di coppie di parole siano frequenti nei Salmi di Alfredo, in questo caso l’ampliamento appare significativo, soprattutto se si confronta con l’unica forma corradicale attestata in anglosassone. Infatti, il sostantivo gehresp ricorre in un’omelia del Vercelli Book, dove l’autore lamenta, con una successione di termini che insistono sul saccheggio e la depredazione da parte dei pagani, la condizione della chiesa e degli ordini religiosi: nu syndon þa Godes cyrican bereafode & þa wiofeda toworpene þurh hæðena manna gehresp & gestrodu & þa weallas syndon torbrocene & toslitene & þa godcundan hadas syndon gewanode for hyra sylfra gewyrthum […]51.Se si accolgono le riflessioni di Celia Sisam52, (non da tutti condivise, ma non prive di fondamento), il passo citato potrebbe riferirsi agli attacchi vichinghi. Il termine, tuttavia, che in questo contesto ritengo più significativo e che per certi versi si configura come un segno dell’appartenenza del Salterio all’ambiente alfrediano, forse anche un tentativo riconducibile alla stessa volontà del re di adattare ai suoi tempi il contenuto del salmo è fyrd, “esercito”. Il versetto 10 del testo latino, dove si lamenta la perduta solidarietà di Dio verso il suo popolo, ha in virtutibus nostris; Alfredo, tra i termini a disposizione atti a rendere i vari sensi del lat. virtus53, ne sceglie uno che nel mondo anglosassone trova un impiego specifico. Se è innegabile che l’idea dell’esercito del re possa essere stata suggerita da un passo di Teodoro Mopsuestia nella traduzione di Giuliano di Eclano dove si dice che l’espressione virtus regis indica l’esercito54, appare, tuttavia, evidente che la scelta ricaduta su fyrd, parola mai impiegata nelle altre traduzioni dei Salmi che rendono il lat. virtus con maegen, strengð o col binomio mægen and miht, rimandi a un’istituzione che si vuole fortemente legata ad Alfredo55. Se, a proposito di altri Salmi, si è parlato di werod come termine che suggerisce l’immagine del gruppo di guerrieri al seguito del capo56, bisogna sottolineare che,
51 Donald G. Scragg, The Vercelli Homilies and Related Texts [EETS, o.s. 300], Oxford, Oxford University Press, 1992, Homily XI, p. 225; («Le chiese di Dio adesso sono depredate e gli altari buttati giù dai saccheggi e dalle rapine dei pagani e le mura distrutte e violate e gli ordini religiosi ridotti a causa delle loro stesse azioni»). 52 Celia Sisam, The Vercelli Book [EEMF 19], Copenhagen, Rosenkilde and Bagger, 1976, p. 36. 53 Sul modo in cui Alfredo traduce il lat. virtus, in particolare sulla resa con ags. craeft, si veda Nicole Guenther Discenza, The King’s English: Strategies of Translation in the Old English Boethius, Albany, State University of New York Press, 2005, pp. 87-122. Nessuna menzione viene fatta dell’uso di fyrd come traduzione di virtus nell’accezione concreta di «forza militare, esercito», che si affianca a quelle, più numerose, che indicano caratteristiche astratte della mente o del corpo. 54 Lucas De Coninck – Maria J. D’Hont (edd.), Theodori Mopsuesteni Expositionis in Psalmos luliano Aeclanensi interprete in Latinum versae quae supersunt, Corpus Christianorum, Series Latina 88A, Turnhout, Brepols, 1977, p. 196, 53-55: Pro copiis militaribus, sicut hodie uirtutem regis appellare solemus exercitum. Neque enim te ducem nostrum ut olim sentimus in bellis, non in nobis propugnans. 55 Sul fyrd e sul sistema difensivo attuato da Alfredo, cf. Richard Abels, Alfred the Great. War, Kingship and Culture in Anglo-Saxon England, London-NewYork, Routledge, 1998, pp. 138-140 e 195-198. D. Pratt, The Political Thought (cit.), parla di fyrd in relazione al Salmo 43 alle pp. 257-258. 56 Si veda quanto detto, ad esempio, da Daniel Orton, «Royal Piety and Davidic Imitation: Cultivating Political Capital in the Alfredian Psalms», Neophilologus 99 (2015), pp. 477-92, a proposito del Ps. 4 (p. 487). Sull’uso di werod nella Cronaca si rimanda al saggio di Courtnay Konshuh, «Fighting with a lytle
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rispetto a werod, che indica tanto l’esercito quanto il popolo o le schiere angeliche, la parola fyrd, largamente impiegata nella prosa, e particolarmente, nelle Cronache, rende ancor più l’idea dell’esercito, per così dire «nazionale», inglese, delle truppe del re, di una spedizione condotta dallo stesso sovrano o in suo nome, in contrapposizione all’esercito degli attaccanti, danesi in special modo, definito col termine here57. La connotazione di fyrd è molto forte: alle orecchie dei contemporanei il termine doveva evocare di certo la situazione storica del momento e riportare al presente le sofferenze del popolo di Israele di cui parla il salmo. Inoltre, il riferimento al passato e al favore concesso in precedenza da Dio al suo popolo, ricorda le parole di Alfredo, quando nell’introduzione alla Cura Pastoralis parlando delle felici epoche del passato menziona, accanto ai successi conseguiti nell’ambito del sapere, quelli ottenuti in guerra (and hu him ða speow ægðer ge mid wige ge mid wisdome)58. Un ulteriore tratto, dunque, della libertà con cui Alfredo traduce il testo biblico che segna la distanza dalla tecnica adottata dai glossatori che si mantenevano più aderenti al testo ed eseguivano una traduzione piuttosto letterale. Va, inoltre, rilevato un aspetto che concerne l’organizzazione del fyrd da cui traspare la volontà di Alfredo di modellare il suo operato su quello di Salomone. Sotto l’anno 894 la Cronaca anglosassone riferisce che Alfredo divide, nel periodo dell’inasprirsi delle lotte contro i vichinghi, l’esercito, il fyrd appunto, in due contingenti, in modo tale che mentre un gruppo era in servizio l’altro rimanesse a casa (Hæfde se cyning his fierd on tu tonumen, swa þæt hie wæron simle healfe æt ham, healfe ute, butan þæm monnum þe þa burga healdan scolden)59. La somiglianza con l’organizzazione dell’esercito delle Amazzoni così come è narrata nella traduzione anglosassone di Orosio è innegabile. Anche lì si dice che mentre un gruppo era impegnato in guerra, l’altro si occupava di custodire la terra60. Ma non si può escludere, vista la propensione di Alfredo a ispirarsi a modelli biblici, l’influenza di un passo di 3 Rg 5, 13-14, dove si descrive il modo con cui Salomone organizza i turni degli operai addetti alla costruzione del tempio, che così recita: Mittebatque werode: Alfred’s Retinue in the Anglo-Saxon Chronicle», in I. Afanasyev – J. Dresvina – E. S. Kooper (edd.), The Medieval Chronicle X, Leiden, Brill, 2015, pp. 95-117. 57 Olga Timofeeva, «The Viking outgroup in early medieval English chronicles», Journal of Historical Sociolinguistics, 2. 1 (2016), pp. 83-121, analizza diacronicamente l’uso dei termini fyrd e here nelle Cronache anglosassoni, distinguendone l’impiego a seconda delle fasi storiche. Nel periodo alfrediano (pp. 93-101) la distinzione tra l’esercito anglosassone (fyrd) e l’esercito vichingo (here) è marcata. Cf. anche Kathryn Powell, «Viking Invasions and Marginal Annotations in Cambridge, Corpus Christi College 162», Anglo-Saxon England, 37 (2008), pp. 151-171. Sulla indeterminatezza dei confini semantici fra fyrd e here, in particolare nel secolo XI, si vedano anche i saggi di Kevin S. Kiernan, «The Legacy of Wiglaf: Saving a Wounded Beowulf», The Kentucky Review, 6 (1986), pp. 27-44, alle pp. 30-31 (ristampato in P. S. Baker (ed.), The Beowulf Reader, New York-London, Routledge, 2000, pp. 195-218, alle pp. 198-199) e Phillip Pulsiano – Joseph McGowan, «Fyrd, here, and the Dating of Beowulf», Studia Anglica Posnaniensia 23 (1990), pp. 3-13. 58 H. Sweet, King Alfred’s West Saxon Version…, p. 3. 59 Charles Plummer – John Earle (edd.), Two of the Saxon Chronicles Parallel, 2 vols, Oxford, Clarendon Press, 1892-1899, II, p. 109. 60 Janet Bately (ed.), The Old English Orosius, London-New York, Oxford University Press [EETS, SS. 6], 1980, I, x, p. 30: hie heora here on tu todældon, oþer æt ham beon heora lond to healdanne, oðer ut faran to winnanne.
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eos in Libanum, decem milia per menses singulos vicissim, ita ut duobus mensibus essent in domibus suis et Adoniram erat huiuscemodi indictione61. Sembra verosimile, quindi, che il Salmo sia adattato da Alfredo – così come avviene ogni qual volta si rielaborano i modelli a cui si attinge aggiungendo e cambiando qua e là per riportare al proprio presente uomini o fatti del passato – al fine di far sì che il pubblico anglosassone percepisse l’analogia tra le afflizioni patite per mano vichinga e quelle del popolo di Israele e confidasse nell’aiuto di Dio, che non sarebbe tardato, per superare le difficoltà. È come se attraverso una sapiente scelta delle parole, anche dove non aggiunge o cambia nulla, Alfredo affiancasse alla voce del salmista la sua, per riportare il testo alla sua situazione storica particolare, non alterando ma alludendo, attingendo a un lessico estraneo a quello in uso prima e dopo di lui nelle rese in inglese dei Salmi. Nel cogliere le occasioni che permettono di piegare il corso della narrazione del Salterio nella direzione del momento travagliato che vive il popolo anglosassone, Alfredo manifesta una autonomia che gli deriva dalla sua autorevolezza. Una prassi, quella da lui adottata, che dà modo a chi legge o ascolta, ma anche a chi traduce, di identificarsi nei protagonisti e nelle situazioni di cui parla il salmo. Non abbiamo strumenti certi, così come per gli altri testi del “canone alfrediano”, per stabilire la paternità dell’opera, né sappiamo quali interventi essa abbia subito nel corso della sua trasmissione. Tuttavia, sulla base degli elementi individuati dalla critica e dei sia pur pochi esempi qui presentati una cosa pare di poter affermare: che i Salmi siano stati scritti dal re o dai dotti della sua corte. Depone in tal senso la sottigliezza della tecnica di traduzione adottata che consente all’autore da un lato di presentarsi come un novello Davide, dall’altra di calarsi nella difficoltà dei tempi.
61 Per questa probabile influenza scritturale cf. R. Abels, Alfred the Great (cit.), pp. 197-198 che erroneamente parla dell’organizzazione dell’esercito di Salomone e non di quella degli operai.
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Appendice Salmo 43 (ms. BNF 8824, ff. 52r-54r)
David sang þysne þreo and feowertigoðan sealm, seofigende his earfoþa, and myngode þæra gyfa þe he his fædrum and his foregengum sealde and hiora eaforum gehet, and eac seofode þæt him þuhte þæt hy God on ðam tidum swa hrædlice ne gehyrde swa he his foregengan dyde. And eac he witgode on þam sealme be Mathathia and be his sunum, þa we Machabeas hatað, þæt hy sceoldon þæt ylce seofian on hiora earfoðum under Antiochus þam kynge. And eac he witgode be ælcum Cristnum men þe to Gode hopað, þæt he sceolde þæt ylce don. And eac be Criste, þæt he wolde þæt ylce don be Iudeum.
Davide cantò questo quarantatreesimo salmo lamentando le sue sofferenze e ricordò quei doni che Egli aveva concesso ai suoi padri e ai suoi predecessori e che aveva promesso ai loro discendenti e lamentò anche che a lui sembrava che Dio a quel tempo non li avesse ascoltati così prontamente come aveva fatto con i suoi predecessori; e in questo salmo profetizzò anche di Matatia e dei suoi figli che noi chiamiamo Maccabei, che loro avrebbero dovuto parimenti lamentarsi delle loro sofferenze sotto il re Antioco; e profetizzò anche di ogni cristiano che spera in Dio affinché egli volesse fare lo stesso; e anche di Cristo, affinché egli volesse fare lo stesso in relazione ai Giudei.
XLIII. MACHABEORUM PRAESSUROS ET UOX APOSTOLI
2.
Drihten, we gehyrdon mid urum earum, and ure fæderas hit us sædon, Þa weorc þe þu worhtest on hiora dagum, and on hiora foregengena dagum,
Signore, abbiamo udito con le nostre orecchie e i nostri padri ci hanno narrato le opere che tu hai compiuto ai loro giorni e nei giorni dei loro predecessori, cioè che la tua mano distrusse i popoli stranieri e insediò e fece propagare i nostri antenati. Tu hai oppresso i popoli stranieri e li hai dispersi.
3.
DEUS auribus nostris audiuimus patres nostri adnuntiauerunt nobis Opus quod operatus es in diebus eorum et in diebus antiquis manus tua gentes disperdidit et plantasti eos adflixisti populos et expulisti eos
Þæt wæs þæt þin hand towearp þa elðeodegan folc, and plantode and tydrede ure foregengan. Þu stenctest þa elðeodgan folc, and hy awurpe.
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XLIII. MACHABEORUM PRAESSUROS ET UOX APOSTOLI
4.
Non enim in gladio suo possidebunt terram et brachium eorum non saluabit eos Sed dextera tua et brachium tuum et inluminatio uultus tui quoniam conplacuit tibi in illis
Ne geeodon ure foregengan na ðas eorðan mid sweorda ecgum, ne hy mid þy ne geheoldon, ne heora earmas hy ne geheoldon ne ne gehældon, Ac þin swiðre hand and þin earm and þæt leoht þines andwlitan, forþam hy þe þa licodon, and þe licode mid him to beonne.
5.
Tu es ipse rex meus et Deus meus qui mandas salutem Iacob
6.
In te inimicos nostros uentilabimus et in nomine tuo spernemus insurgentes in nos
7.
Non enim in arcu meo sperabo et gladius meus non saluabit me
8.
Liberasti enim nos ex adfligentibus nos et eos qui nos hoderunt confudisti In Deo laudabimur tota die et in nomine tuo confitebimur in saecula
9.
10.
Nunc autem reppulisti et confudisti nos et non egredieris Deus in uirtutibus nostris
I nostri progenitori non conquistarono questa terra con lame di spada, né con esse la mantennero, né le loro braccia la protessero, né la salvarono ma la tua mano destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché loro a quel tempo ti compiacevano e tu ti compiacevi di essere con loro. Hu, ne eart þu min cyning Come? Non sei tu il mio and min Drihten, swa ylce re e il mio Signore – come swa þu hiora wære, þu þe tu lo fosti per loro – tu che bebude hælo cuman to ordinasti che la salvezza Iacobes cynne? giungesse alla stirpe di Giacobbe? Þurh þe we beþurscon ure Grazie a te abbiamo umiliato fynd and awindwedan, e disperso interamente i and for þinum naman we nostri nemici e nel tuo nome forsawan þa þe stodon abbiamo disprezzato coloro ongean us. che si levavano contro di noi. Ne getruwode ic næfre on Non ho mai confidato nel mio minne bogan, ne min sweord arco, né la mia spada mi ha me ne gefriðode ne ne protetto né salvato. gehælde. Ac þu us ahreddest æt þam Ma tu ci hai liberato da coloro þe ure ehton, and þa ðe us che ci perseguitavano e hai hatedon þu gebysmrodest. coperto di vergogna coloro che ci odiavano. And we þa heredon God E allora lodavamo Dio ogni ælce dæge, and we wæron giorno e siamo anche stati eac geherede fram oþrum lodati da altri popoli per le þeodum for his weorcum, Sue opere e noi loderemo il and his naman we andettað a Suo nome in eterno. weoruld. Þeah þu, Drihten, us nu Tuttavia tu, o Signore, ora ci adrifen hæbbe fram þe, and hai allontanati da te e ci hai us gebysmrod, and mid us coperto di vergogna e non ne fare on fyrd, swa þu geo marci con noi nell’esercito, dydest. come facevi un tempo.
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Auertisti nos retrorsum prae inimicis nostris et eos qui nos hoderunt diripiebant sibi
Ac þu hæfst nu us gehwyrfde on bæclincg, and us forsewenran gedone þonne ure fynd; and þa þe us hatiað hy us gegripað and him sylfum gehrespað. Dedisti nos tamquam Þu us geþafodest him to oues escarum et in metsianne, swa swa sceap, gentibus dispersisti nos and þu us tostenctest geond manega þeoda. Uendidisti populum Þu us bebohtest and tuum sine pretio et bewrixledest, and nan folc non fuit multitudo mid us ne gehwyrfdest. in commutationibus eorum Posuisti nos in Þu us gesettest to edwite obprobrium uicinis and to bysmre urum nostris derisu et neahgeburum, and to hleahtre contemptu his qui in and to forsewennesse eallum circuitu nostro sunt þam þe us ymbsittað. Posuisti nos in Þu hæfst us gedon to similitudinem gentibus ealdspræce þæt oðra commotionem capitis þeoda nyton hwæt hy in plebibus elles sprecon buton ure bysmer, and wecggeað heora heafod ongean us on heora gesamnuncge. Tota die uerecundia Ælce dæge byð min sceamu mea contra me est et beforan me and ongean me, confusio uultus mei and mid minum bysmre ic operuit me eom bewrogen, A uoce exprobrantis For þara stemne þe me et obloquentis a facie hyspað and tælað, and for inimici et persequentis þara ansyne þe min ehtað. Haec omnia uenerunt super nos et obliti non sumus te et inique non egimus in testamento tuo
Eall þas earfoðu becoman ofer us, and ne forgeate we þeah na þe, ne þæt woh ne worhton þæt we þine æ forleten,
Ma tu adesso ci hai volti in ritirata e ci hai reso più disprezzati dei nostri nemici e coloro che ci odiano ci hanno afferrati e depredati a loro vantaggio. Hai permesso che noi fossimo cibo per loro come pecore e ci hai disperso tra molti popoli. Ci hai venduto e barattati e non hai scambiato nessun popolo con noi. Ci hai esposti al biasimo e allo scherno dei nostri vicini e alla derisione e al disprezzo di tutti coloro che ci circondano. Hai fatto di noi una favola al punto tale che gli altri popoli non sanno parlar d’altro se non del nostro scherno e nelle loro assemblee scuotono il capo verso di noi. Ogni giorno la mia vergogna è davanti a me e contro di me e sono ricoperto dalla mia infamia a causa della voce di quanti mi incolpano e mi calunniano e alla vista di coloro che mi perseguitano. Tutte queste sofferenze si sono abbattute su di noi e tuttavia noi non ti abbiamo dimenticato, né abbiamo commesso l’errore di rinnegare la tua legge,
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XLIII. MACHABEORUM PRAESSUROS ET UOX APOSTOLI
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et non recessit retro cor nostrum Et declinasti semitas nostras a uia tua
ne ure mod ne eode on bæclincg fram þe. And þeah þu geþafodest þæt ure stæpas wendon of þinum wege,
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quoniam humiliasti nos in loco adflictionis et operuit nos umbra mortis
21.
Si obliti sumus nomen Dei nostri et si expandimus manus nostras ad deum alienum Nonne Deus requiret ista ipse enim nouit occulta cordis Quoniam propter te morte afficimur tota die estimati sumus ut oues occisionis
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né il nostro animo si è allontanato da te. E tuttavia tu hai permesso che i nostri passi deviassero dal tuo cammino, perché tu hai voluto umiliarci forþam þu woldest us geeaðmedan on þære stowe nel luogo del nostro ure unrotnesse, þær we scoramento dove eravamo wæron bewrigene mid deaþes avvolti dall’ombra della sceade. morte. Gif we ofergeotole wæron Se fossimo stati dimentichi Drihtnes naman, ures del nome del Signore, del Godes, and gif we ure handa nostro Dio, e se noi avessimo upphofon to oþrum gode, levato le mani a un altro dio Hu ne wræce hit þonne God forþan he wat ealle dygelnessa ælcere heortan? Forþam we beoð ælce dæge for ðe geswencte; hy teohhiað us him to snædincgsceapum.
non avrebbe allora vendicato ciò Dio, dal momento che Egli conosce i segreti di ogni cuore? Per questo ogni giorno siamo afflitti per causa tua; loro ci considerano come pecore da macello. Exsurge quare Aris, Drihten; for hwi slæpst Levati, Signore, perché obdormis Domine þu? Aris, and ne drif us fram dormi? Levati e non exsurge et ne repellas þe oð urne ende. allontanarci da te fino alla in finem nostra fine. Quare faciem tuam For hwi wendst þu þinne Perché allontani da noi il tuo auertis obliuisceris andwlitan fram us, oððe hwy volto o perché dimentichi inopiam nostram et forgytst þu ure yrmða and ure le nostre miserie e le nostre tribulationem nostram geswinc? tribolazioni? Quoniam humiliata est Forþam synt nu full neah to Per questo adesso le nostre in puluere anima nostra duste gelæd ure sawla, and anime sono quasi spinte giù adhesit in terra uenter ure wamb lið on þære eorðan. verso la polvere e il nostro noster ventre giace sulla terra. Exsurge Domine Aris, Drihten, and gefultuma Levati Signore e aiutaci e adiuua nos et libera nos us, and alys us for þinum liberaci in tuo nome. propter nomen tuum. naman.
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Lucia l az zerini
Specula principis, ideologia della sovranità e letterature romanze medievali Dal Policraticus a Érec et Énide, dall’Alexandreis al Libro de Alexandre
Il Policraticus, i quattro sensi della Scrittura e la Levitica tribus Nel 1159 Giovanni di Salisbury dedica il suo Policraticus1 a Tommaso Becket, il futuro arcivescovo di Canterbury (definito nell’Entheticus minor «lux cleri, gloria gentis / Anglorum, regis dextera, forma boni»)2, allora cancelliere del re d’Inghilterra Enrico II Plantageneto. Primo trattato di filosofia politica del medioevo, il Policraticus è un’ampia riflessione sull’esercizio del potere nei suoi molteplici aspetti – ivi compreso il rapporto tra sovranità temporale e autorità spirituale – destinata ad esercitare un’influenza duratura sul pensiero dell’epoca. Giovanni è ben saldo nella dottrina che procede dalla Scrittura e dalla tradizione: nel libro II, cap. 22, la frase Omnis potestas a Domino Deo est (citata a memoria come illud Salomonis, cf. Sap 6, 4, ma anche Rm 13, 1) riafferma solennemente che il potere spirituale è sovraordinato a quello secolare, cui vengono, per così dire, delegati i compiti indegni dell’ordine sacerdotale, come l’uso della spada e l’applicazione delle pene. Principio basilare è anche l’educazione alla sapienza, ossia l’attribuzione alla philosophia di un ruolo determinante nella formazione del princeps, quia rex illiteratus est quasi asinus coronatus3. Per svolgere funzioni di governo la maturità intellettuale (aetas mentis) è requisito imprescindibile: Aetas namque mentis sapientia est in qua omnium officiorum consistit distributio et artificium totius vitae. Ars namque recte vivendi (ut Stoicis placet) ars artium est […]. Est autem, ut antiquis philosophis placet, sapientia rerum divinarum et humanarum princeps et gerendorum omittendorumque scientia. Huic vero insistere philosophari est, eo quod philosophia sit studium sapientiae4.
1 I brani citati sono tratti da Giovanni di Salisbury, Policraticus, a cura di Ugo Dotti, Torino, Aragno, 2011 (edizione elettronica). Per uniformità con le altre citazioni, bibliche o mediolatine, distinguiamo u da v. 2 John of Salisbury’s Entheticus Maior and Minor, ed. by Jan van Laarhoven, 3 voll., Leiden-New York-København-Köln, Brill, 1987, I, p. 233. 3 Giovanni di Salisbury, Policraticus IV, VI, p. x. 4 Ibid. V, IX.
Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 143-164 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124806
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L’acquisizione della sapientia è condizione preliminare per chiunque, investito della sovranità, debba ispirare la propria azione ai principi dell’ars recte vivendi e guidare il suo popolo sulla stessa via. Riconosciamo qui anche un’adesione alla dottrina del bonus ordo vivendi esposta da Gregorio Magno nei Moralia in Iob, una delle opere di culto del medioevo, dove principio fondamentale è l’alternanza di vita contemplativa (studio e preghiera) e vita attiva (gestione delle incombenze temporali). Trasferendo il magistero gregoriano in ambito laico-politico, potremmo parlare di teoria vs prassi, di apprendistato culturale vs azione dell’uomo di stato (il policratico, ossia colui che governa la comunità, la πόλις). Naturalmente la formazione precederà l’azione, la conoscenza assistita dallo Spirito indicherà il cammino verso la rettitudine e la virtù: Et haec michi videtur vera et unica incolumitas vitae, cum mens vivificante Spiritu ad rerum notitiam illustratur et accenditur ad amorem honestatis et cultum virtutis. Praecedit ergo scientia virtutis cultum, quia nemo potest fideliter appetere quod ignorat; et malum, nisi cognitum sit, utiliter non cavetur. Porro scientiae thesaurus nobis duobus modis exponitur: cum aut rationis exercitio quod sciri potest intellectus invenit; aut quod absconditum est revelans gratia oculis ingerens patefacit5. Una precisazione è d’obbligo. Se la scientia è accessibile sia con l’esercizio della ragione sia in virtù di un’illuminazione soprannaturale, altro discorso vale per la sapientia, che invece si raggiunge solo per quest’ultima via, esclusa ogni possibilità di conquista autonoma basata sull’erudizione o su procedimenti logico-razionali: Litterarum tamen copia nequaquam philosophum facit; gratia liquide est quae ad sapientiam sola perducit6. E chi fornirà i lumi per l’accessus ad sapientiam? La Scrittura, beninteso; che però va letta con intelligenza. Giovanni di Salisbury si era formato alla scuola dei più prestigiosi maestri francesi del tempo, come racconta egli stesso nel Metalogicon. Dopo aver seguito le lezioni di Abelardo, era stato allievo di Teodorico di Chartres e di Guglielmo di Conches; sul metodo e sulle idee di Bernardo di Chartres ci ha lasciato pagine e informazioni preziose, compresa la celeberrima immagine dei nani sulle spalle dei giganti. Gli studiosi d’esegesi ed ermeneutica medievali non hanno dubbi sul ruolo di primo piano dei filosofi chartriani nell’elaborazione della teoria dell’involucrum (o integumentum): sotto la superficie del sensus historicus c’è il filone aurifero dei significati latenti. L’interpretazione transletterale del testo biblico, fondamento dell’esegesi monastica del XII secolo, che non è certo un’invenzione di quei philosophi (si pensi alla lettura allegorica del Cantico dei Cantici, radicata già nella tradizione ebraica e divenuta poi banco di prova dei più grandi interpreti del testo sacro), in quest’epoca assurge a strumento gnoseologico, principio ispiratore di un pansimbolismo che coinvolge ogni aspetto della realtà, contribuendo a stimolare la ricerca di sensi occulti anche nei carmina profani:
5 Ibid. III, I. 6 Ibid. VII, IX.
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De fait, la multiplicité des sens pour un même texte enchantait les lecteurs du moyen âge comme elle avait enchanté les Pères dans la lecture de la Bible. Un moderne penserait qu’en se multipliant les interprétations se détruisent les unes les autres. Pour les hommes du xiie siècle elles témoignent, par leur multiplicité même, de la richesse du texte à commenter7. C’erano stati, al riguardo, illustri precedenti già in età carolina: Teodulfo d’Orléans ama scavare sotto la superficie della poesia antica; verso la fine dell’XI secolo il vescovo-poeta Baudri de Bourgueil8, uno dei dotti chierici della cosiddetta scuola della Loira spesso indicati tra i precursori mediolatini della lirica trobadorica, condivide la stessa fiducia nella possibilità di estendere a testi non biblici la lettura secondo la mystica intelligentia. Le fabulae mitologiche degli autori antichi, reinterpretate in senso allegorico, si configurano come integumentum, l’equivalente del biblico sensus litteralis da penetrare per accedere alla medulla del vero insegnamento. Ma dall’ingegnoso esercizio ermeneutico al principio euristico il passo è breve: la teoria della verità nascosta sub verborum tegmine, cavallo di battaglia dei maestri di Chartres, diventa presto un τόπος, una dottrina condivisa che annulla, o quasi, la distanza tra poesia e filosofia/teologia. La riflessione su questi argomenti coincide con uno snodo decisivo per la cultura ecclesiastica medievale, l’apertura al volgare. È emblematico che una delle prime testimonianze poetiche in una lingua almeno parzialmente romanza, il refrain dell’Alba bilingue di Fleury (trascritto intorno all’anno 1000, ma probabilmente databile alla prima metà del X secolo), implichi una precoce e raffinata applicazione simbolica9. Analoga constatazione vale per i trovatori arcaici, di cui è stata spesso enfatizzata, nell’invalsa visione ingenua delle dinamiche culturali dell’Età Media, la presunta polemica contro la morale predicata dai chierici e sottovalutata invece l’evidente sintonia con le più diffuse metafore della Scrittura e dei Padri. Il Sarisberiense accoglie in pieno la dottrina dei quattro sensi. Le pagine bibliche nascondono, sotto la superficie, un tesoro di verità segrete (mysteria) gelosamente custodito dalla lettera e accessibile solo dopo un lungo e paziente esercizio di scavo sub litterae cortice: Divinae paginae libros, quorum singuli apices divinis pleni sunt sacramentis, tanta gravitate legendos forte concesserim, eo quod thesaurus Spiritus sancti, cuius digito scripti sunt, omnino nequeat exhauriri. Licet enim ad unum tantummodo sensum accomodata sit superficies litterae, multiplicitas misteriorum intrinsecus latet et ab eadem re saepe allegoria fidem, tropologia mores variis modis edificet;
7 Édouard Jeauneau, «L’usage de la notion d’integumentum à travers les gloses de Guillaume de Conches», Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge, 24 (1957), pp. 35-100, p. 47. 8 Henri de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, Paris, Desclée De Brouwer, 1993, IV, II, pp. 185-186. 9 Lucia Lazzerini, Silva portentosa. Enigmi, intertestualità sommerse, significati occulti nella letteratura romanza dalle origini al Cinquecento, Modena, Mucchi, 2010, pp. 129-141, 171-177 e 241-284; Ead. , «Gli enigmi delle albas non finiscono mai: i casi di Phebi claro e Reis glorios (parte prima: Phebi claro)», Cultura Neolatina 74 (2014), pp. 249-282.
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anagoge quoque multipliciter sursum ducit ut litteram non modo verbis sed rebus ipsis instituat10. Dal testo sacro deve prendere avvio anche l’itinerarium principis ad sapientiam. Per il filosofo britannico il sovrano, legibus solutus ma ovviamente soggetto alla legge divina, troverà nel Deuteronomio l’indicazione della retta via: Postquam autem sederit in solio regni sui, describet sibi Deuteronomium legis huius in volumine, accipiens exemplar a sacerdotibus Leviticae tribus, et habebit secum, legetque illud omnibus diebus vitae suae, ut discat timere Dominum Deum suum, et custodire verba et caeremonias eius, quae in lege praecepta sunt11. Come dev’essere intesa questa prescrizione? Al solito, per giungere alla scoperta del significato profondo è necessario rimuovere il cortex che occulta il gheriglio. L’insegnamento che il principe desume dal libro veterotestamentario, reinterpretato in chiave profetica alla luce del messaggio cristiano, è l’esortazione ad affidarsi ai buoni consiglieri, ossia ai legitimi sacerdotes, i rappresentanti e custodi della nuova legge; non quella formale e sterile della lettera, ma quella vivificante dello Spirito (2 Cor 3, 6): Sic enim legitimi sacerdotes audiendi sunt, ut reprobis et ascendentibus ex adverso omnem vir iustus claudat auditum. Sed qui sunt sacerdotes Leviticae tribus? Illi utique quos sine avaritiae stimulis, sine ambitionis impulsu, sine affectione carnis et sanguinis lex in Ecclesiam introduxit. Non autem lex litterae, quae mortificat, sed spiritus, quae in sanctitate mentis, munditia corporis, fidei sinceritate et operibus caritatis vivificat12.
Érec et Énide, l’allegoria di Chrétien de Troyes e il caso Becket La Levitica tribus diviene “figura”, nel contesto dell’altior intelligentia disvelata, di un’auctoritas spirituale sempre preposta all’azione del principe. Ma il passo del Policraticus offre anche uno spunto interessante per riflettere sull’osmosi costante di cultura mediolatina e nascenti letterature vernacolari. In apparenza lontano dall’oggetto della nostra indagine sui fondamenti biblici delle rappresentazioni della sovranità nei testi latini e volgari del XII e XIII secolo, il romanzo francese in octosyllabes che prenderemo in esame dimostra invece in maniera esemplare quanto siano stretti i legami fra opere tanto diverse e come si rivelino contigui, se non coincidenti, i circoli intellettuali e gli ambienti dove questi scritti furono elaborati. Databile proprio all’anno cruciale e tragico (1170) della crisi che fra tentativi di riconciliazione e insanabili divergenze oppose Enrico II all’arcivescovo Tommaso Becket, il primo romanzo di Chrétien de Troyes narra la storia di due giovani, Érec
10 Giovanni di Salisbury, Policraticus VII, XII. 11 Ibid. IV, IV. 12 Ibid. IV, VI.
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e Énide, che s’innamorano e convolano a nozze. Érec, figlio di re Lac, è un prode cavaliere stimato per le sue imprese valorose, ma l’amore lo inebria a tal punto che per la bella sposa trascura i suoi doveri di guerriero, attirandosi l’accusa di recreantise («infingardaggine»). Énide in persona, dopo molte esitazioni, gli riferirà le voci malevole circolanti a corte sul suo conto. La rivelazione è una dolorosa ferita per Érec, che pure riconosce la fondatezza delle critiche e decide di partire in cerca d’avventure portando con sé la moglie (risoluzione singolare nel medioevo maschio e misogino degli uomini d’arme). Le impone però di tacere, e quando Énide infrangerà il divieto di parola – con disobbedienza peraltro provvidenziale – per segnalare al marito i pericoli in agguato, lui non esiterà a redarguirla severamente. La coppia va incontro a peripezie rischiose e disavventure terrificanti, ma Érec dimostrerà che il suo valore è rimasto intatto, per nulla infiacchito dall’otium del talamo, sconfiggendo i più temibili avversari: la vittoria nell’ultimo, durissimo duello col gigantesco e sino allora invincibile Cavaliere Vermiglio metterà fine alle tribolazioni consentendo ai due sposi di accedere prima alla Joie de la Cort e poi al trono13. Che l’intenzione primaria di Chrétien sia stata quella di proporre una riflessione sul rapporto fra militia cavalleresca e amore – o una difesa dell’amore coniugale contro l’amore adultero cantato dai trovatori – è ipotesi diffusa ma implausibile, a conferma delle difficoltà sperimentate dai lettori moderni nella comprensione della forma mentis medievale (né ha giovato al recupero delle chiavi smarrite la lunga egemonia di metodi critici fondati sul disprezzo dell’allegoria, su un’analisi del testo preferibilmente condotta per linee interne e sul dogma del primato formale). Altri erano i problemi su cui si concentrava la riflessione di un chierico nella Champagne del XII secolo, dove gli eventuali chagrins d’amour di qualche prode cavaliere certo non turbavano i sonni di alcuno. La questione d’attualità concerneva invece il rapporto fra potere temporale e potere spirituale, e si era fatta incandescente a seguito dei drammatici sviluppi nel regno di Enrico II Plantageneto. Il problema assumeva anche una dimensione più ampia, allargandosi al contenzioso scoppiato tra il papa e l’imperatore a causa della politica aggressiva di Federico Barbarossa. Il Romanorum rex era entrato in conflitto col vescovo di Roma per la pretesa d’intervenire nelle elezioni episcopali: un contrasto arrivato al culmine dopo la scomparsa di Adriano IV e l’ascesa al soglio pontificio, nello stesso anno in cui vede la luce il Policraticus, del cardinal Bandinelli (Alessandro III), sostenitore della supremazia del papato sull’impero. La risposta alle tesi teocratiche fu la contro-elezione del cardinale Ottaviano de’ Crescenzi Ottaviani (antipapa Vittore IV) e, alla morte di questi, l’elevazione alla cattedra petrina del cardinale Guido da Crema, nuovo antipapa col nome di Pasquale III. Ma torniamo al romanzo di Chrétien de Troyes. Presumibilmente mai sfiorato da un qualche interesse per il fatuo tema della presunta conflittualità tra amore e prouesse, questo enigmatico clerc sembra invece affrontare da intellettuale impegnato
13 L. Lazzerini, «Gli enigmi di Chrétien de Troyes: un “senso ulteriore” in Erec et Enide?», Marie-Claire Gérard-Zai et al. (edd.), Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, Genève, Slatkine, 2000, pp. 117-134; Ead., «La lezione di Chrétien de Troyes e la militanza politica in Flamenca e nel Jaufre», Ead., Silva portentosa…, pp. 445-500.
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la controversia epocale che opponeva potere regio e potere ecclesiastico. Alcuni dettagli ci guideranno alla scoperta del messaggio celato, come insegnavano i maestri di Chartres, sotto la scorza della lettera. Già nella prima parte, la presenza in filigrana della Scrittura illumina le connotazioni non meramente letterali di Énide (vv. 437-441): Que diroie de sa biauté? Ce fu cele, par verité, Qui fu fete por esgarder, Qu’an li se poïst an mirer Aussi com an un mireor14. Che dirò della sua bellezza? La fanciulla era davvero fatta per essere rimirata: in lei ci si poteva contemplare come in uno specchio. È la stessa metafora che il trovatore limosino Bernard de Ventadorn, nella sua canzone Can vei la lauzeta mover, applica all’amata, dama senza nome evocata solo con gli appellativi domna, midons («mio signore»), con un senhal tanto suggestivo quanto polisemico, Miralhs, o con pronomi come leis, celeis: Anc non agui de me poder ni no fui meus de l’or’en sai que·m laisset en sos olhs vezer, en un miralh que mout me plai. Miralhs, pus me me mirei en te, m’an mort li sospir de preon, c’aissi m perdei com perdet se lo bels Narcisus en la fon15. Più non ebbi potere su di me né più fui mio da quando lei mi lasciò guardare nei suoi occhi, in uno specchio che tanto mi piace. Specchio, da quando mi specchiai in te, mi hanno ucciso i sospiri che vengono dal profondo, e così mi persi come si perse il bel Narciso nella fonte. Non è l’unico luogo in cui si scopre una sintonia tra i due poeti: «Tout m’a mo cor, e tout m’a me, / e se mezeis’e tot lo mon», canta Bernart nella stessa lirica («Tolto m’ha il cuore, tolto m’ha me stesso e sé stessa e il mondo intero»); e Chrétien de Troyes, nell’incipit di una delle due canzoni che gli sono attribuite: «D’amors, qui m’a tolu a moi» («D’amore, che m’ha tolto a me»). Ma soprattutto si osserverà in entrambi l’evanescente discrimine tra amor sacro e amor profano, l’elusività intenzionale che consente una duplice fruizione, secondo la lettera e in chiave allegorica, giacché mireor e miralhs rinviano sì al mito di Narciso, ma anche a Sap 7, 26 (dove sapientia è candor lucis aeternae et speculum sine macula Dei maiestatis) e alla profondità teologica di 2 Cor 3, 18, dove l’Apostolo spiega come Cristo abbia rimosso
14 Si cita da Chrétien de Troyes, Erec et Enide, Texte originale et français moderne – Traduction, introduction et notes par Michel Rousse, Paris, Flammarion, 1994. 15 Bernart de Ventadorn, Canzoni, a cura di Mario Mancini, Roma, Carocci, 2003, pp. 130-131.
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il velamen veterotestamentario che ancora grava sul cuore degli ebrei: nos vero omnes revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem transformamur. È la stessa immagine che chiude il Paradiso dantesco: il contemplante scorge nella visione del cerchio – la circulazion – una figura umana, dunque, come in uno specchio, la sua stessa sembianza: «per che’l mio viso in lei tutto era messo / mi parve pinta della nostra effige» (XXXIII, v. 131-132)16. Nulla è lasciato al caso in questi testi dove gli autori giocano consapevolmente sui due piani, quello della fabula e quello del “grande codice” (con la sua pluralità di sensi). Énide è stupenda, «bele a mervoille» (v. 535), ma in lei la saggezza supera l’avvenenza: «mes mialz assez / vaut ses savoirs que sa biautez» (vv. 537-538). Più avanti, Chrétien sceglie di nuovo una comparatio tratta dalla Scrittura per descrivere la prima notte nuziale di Érec ed Énide (vv. 2081-2086): Cers chaciez qui de soif alainne Ne desirre tant la fontainne, N’espreviers ne vient a reclaim17 Si volantiers, quant il a faim, Que plus volontiers ne venissent A ce que nu s’antretenissent. Cervo inseguito dai cacciatori che ansima di sete non desidera tanto la sorgente, né sparviero affamato accorre così volentieri al richiamo, che (gli sposi) con più entusiasmo non si precipitassero a stringersi nudi tra le braccia. La similitudine si articola a partire da Ps 41, 2: Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus. Mera eco verbale, si obietterà, reminiscenza applicata a un desiderio palesemente carnale, seppur legittimo; ma il prosieguo del racconto suggerisce considerazioni diverse. Érec è talmente preso di Énide (amator factus sum formae illius, potrebbe ben dire con Salomone, Sap 8, 2) che per lei dimentica armi e tornei (vv. 2434-2442), di malavoglia si stacca dal talamo e non cerca altri svaghi. Alla luce della dottrina dell’integumentum, l’otium cui si abbandona Érec rivela in Énide un’affinità figurale con la biblica Rachele, simbolo della vita contemplativa. Rachel, doctrina veritatis; Rachel, studium sapientiae, spiega Riccardo di San Vittore: Quid enim sapientia ardentius diligitur, dulcius possidetur? Eius decor omnem superat pulchritudinem, eius dulcor omnem excedit suavitatem18.
16 Il testo paolino è oggetto di sottile esegesi da parte dei commentatori medievali. Si veda, per esempio, il sermone IX di Gualtiero di San Vittore, in Galteri a Sancto Victore et quorumdam aliorum Sermones inediti triginta sex, par Jean Châtillon, Turnhout, Brepols, 1975, dove si spiega che l’imago creata (la ratio) speculatur imaginem increatam (la Sapienza di Dio) per imaginem aspiratam (la fede). Cristo è definito “Sapienza di Dio” (Θεοῦ σοφία) in 1 Cor 1, 24. 17 Termine tecnico della falconeria, che designa non soltanto il richiamo acustico, ma anche il pezzetto di carne mostrato all’uccello da preda per invogliarlo al ritorno. 18 Richardus a Sancto Victore, De praeparatione animi ad contemplationem, liber dictus Benjamin minor (coll. Patrologia Latina 196), 1.
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Giovanni di Salisbury pone nell’Entheticus (I, v. 277-278) altre domande retoriche: Philosophia quid est nisi fons, via, duxque salutis, / lux animae, vitae regula, grata quies?». Sophia è fons, la dama di Bernart de Ventadorn è simile alla fon di Narciso, Enide è fontainne e grata quies; presto la scopriremo anche via e dux salutis. Meditando sui versi di questi poetae-philosophi si scopre che la metafora dell’uno illumina a volte un’immagine per noi ermetica dell’altro, e che all’interno di una cerchia di dotti per i quali sensi ulteriori non hanno segreti si svolge un continuo dialogo dove tout se tient.
Le tre funzioni indoeuropee e il primato spirituale: Per me reges regnant19 Delle tre funzioni riconosciute come basilari nelle società indoeuropee e che il buon sovrano deve riunire nella sua persona, Érec già prima del matrimonio ha dimostrato di possedere la seconda, la forza nel maneggio delle armi. È, insomma, un eccellente bellator. L’amore per Énide-Rachele, ipostasi della speculazione filosofica che conduce al possesso della sapienza (nella prospettiva della funzione regale, alla capacità di governare con giustizia e rettitudine, operando per il benessere terreno e per la salute eterna propria e dei sudditi), completa la formazione dell’erede di re Lac in ossequio al dettato biblico (Sap 6, 10: Ad vos ergo, reges, sunt hi sermones mei, ut discatis sapientiam et non excidatis). Nella trasfigurazione poetica, l’incontro fortuito di Érec con la bellissima figlia del povero valvassore è la risposta all’invocazione di re Salomone: da mihi sedium tuarum adsistricem sapientiam, Sap 9, 4; et mitte illam a sede magnitudinis tuae ut mecum sit et mecum laboret, Sap 9, 10. L’inventio letteraria scaturita dall’esegesi scritturale assegna a Énide i tratti di Sapienza, mentre lo sposo è il predestinato alla sovranità d’investitura divina, che per privilegio di sangue e speciale grazia di stato – ma anche per adeguata istruzione e accorta scelta dei consiglieri – è «le plus sage», «le plus sachant», le menbré ‹ memoratu(m)20; uomo d’azione e anche di contemplazione, educato allo studio e alla ponderatezza delle decisioni; oltre che bellator, philosophus (nell’accezione etimologica di amator sapientiae) e orator, per usare la terminologia di Adalberone di Laon. Stranamente Énide, accompagnando il viator Érec sul cammino impervio dell’aventure, precede il marito. Un’orgogliosa e quasi protofemminista rivendicazione di coraggio, una lezione al coniuge, considerate le critiche a una presunta mollezza rinunciataria che tanto lo aveva offeso? No: è invece un indizio eloquente, un tibicen che consente una più agevole decifrazione del significato simbolico. La chiave sta ancora una volta nelle parole di Salomone: Super salutem et speciem dilexi illam, et proposui pro luce habere illam, 19 Prov 8, 15: questa frase pronunciata da sapientia è incisa in una placca della corona imperiale (Reichskrone). 20 Joël H. Grisward, Archéologie de l’épopée médiévale. Structures trifonctionnelles et mythes indoeuropéennes dans le cycle des Narbonnais, Préface de Georges Dumézil, Paris, Payot, 1981, p. 50.
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quoniam inextinguibile est lumen illius. Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa et innumerabilis honestas per manus illius; et laetatus sum in omnibus, quoniam antecedebat ista sapientia (Sap 7, 10-12). L’antecedebat (in molti codici corredato da un me), traduzione del greco ἡγεῖται, va inteso come “fungeva da guida”, ed è proprio questo l’inopinato ruolo di Enide nelle peregrinazioni della coppia: sempre davanti, quasi in avanscoperta, com’è giusto per una figura-simbolo dell’inextinguibile lumen, della ratio illuminata dalla grazia divina21. Lungo il travagliato cammino, è lei che vede prima e meglio di Érec, i cui occhi sono forse un po’ offuscati, metaforicamente lippi come quelli di Lia (sorella di Rachele e prima moglie di Giacobbe, nonché figura della vita attiva nella tradizione esegetica). Il marito le impone di tacere, con una severità maschilista che scandalizza il lettore moderno, e non esita a rimproverarla duramente quando il divieto di parola viene infranto. Che cosa significa questa ruvida intransigenza? E qual è il motivo per cui Érec esige dalla moglie un silenzio assoluto? Questi particolari in apparenza enigmatici si chiariscono se teniamo presente il contesto storico. Abbiamo accennato al conflitto tra l’arcivescovo di Canterbury ed Enrico II, che negli anni Sessanta del XII secolo turbava clero e aristocrazia tanto in Inghilterra quanto al di là della Manica (anche perché l’Aquitania che il matrimonio con Eleonora aveva portato alla corona inglese rendeva il Plantageneto, almeno formalmente, vassallo del re di Francia). Giovanni di Salisbury e Tommaso Becket, in rotta col loro re, erano esuli in terra francese, il primo dal 1163, il secondo dall’anno successivo, seppur in luoghi diversi. Il Sarisberiense aveva trovato ospitalità proprio in quella Reims dove si consacravano i re di Francia, tra i benedettini del cenobio di Saint-Rémi, il cui abate Pietro di Celle22 era suo grande amico fin dagli anni giovanili trascorsi a Parigi, quando entrambi seguivano le lezioni dei più celebrati maestri – in primis Abelardo – alla Montagne-Sainte-Geneviève; Tommaso fu accolto invece nell’abbazia cistercense di Pontigny, poi a Cîteaux e a Sainte-Colombe-lès-Sens. Arcivescovo di Reims era, dal 1162, Henri, fratello del re di Francia Luigi VII e legato a Pietro di Celle (originario di Troyes) da un’amicizia profonda, risalente ancora una volta ai tempi dei comuni studi parigini. L’autore di Érec et Énide è senza dubbio un litteratus prossimo a questa cerchia, un chierico che sa introdurre nei suoi versi sottili riferimenti scritturali e quella che gli esegeti coevi chiamano dulcedo spiritalis intelligentiae. Il duello finale di Érec, conclusione di tante perigliose avventure e probabilmente, nella prospettiva dei multipli sensi ulteriori, termine della peregrinatio terrena – appare come un calco romanzato della lotta di Giacobbe con l’angelo (Gen
21 John of Salisbury, Enthethicus…, I, § 44, v. 639-640 (p. 147): Sicut nemo potest aliquid nisi luce videre, / sic hominis ratio caeca fit absque Deo (giusta Prv 21, 30: non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum). 22 Pietro di Celle, a differenza di Giovanni di Salisbury che proveniva (come Becket) da una famiglia modesta, era un aristocratico appartenente al casato dei signori d’Aulnoy-les-Minimes e molto vicino alla Casa reale di Francia.
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32, 24-32), oscuro e variamente interpretato episodio dell’antico Testamento su cui si sono esercitate le più acute menti dell’epoca, a cominciare proprio da Giovanni di Salisbury e Pietro di Celle: In via ergo peregrinationis nostrae apprehendamus angelos Scripturarum et infatigabili certamine luctantes cum eis non cedamus donec nos aurora veritatis illustret […]. Eo enim lucta ista perducit ut triumphantis hominis testimonio Deus ipse, qui summa veritas est, facie ad faciem videatur23. La lotta di Giacobbe si protrae fino allo spuntar dell’alba, e anche il duello di Érec col gigantesco cavaliere Vermiglio, che nel nome Mabonagrain associa forse due divinità solari della Gallia (Maponus, l’Apollo celtico, e il suo omologo Grannus, cf. irl. grian «sole»)24, dura ben oltre l’ora nona. Al primo chiarore il misterioso e soprannaturale avversario si arrende al figlio d’Isacco, dopo averlo duramente colpito: Iam, inquit, ascendit aurora. Quid est aurora, et quomodo ascendit aurora? Est egressus mentis in contemplatione Dei; аuгога ascendit, quando nidum suum aquila, id est anima, super sidera ponit, quae retro sunt oblita25 et ad anteriora extenta […]. Ideo percutit nervum femoris eius, ne sic praesumat de velocitate, quomodo de fortitudine. Melius est post Deum claudicare et uno pede de Deo sperare, alio de se non praesumere, quam, dura et erecta cervice, inani praesumptione evanescere26. In accordo con san Bernardo, anche Pietro di Celle vede nel colpo inferto dall’angelo e nella conseguente menomazione di Giacobbe un antidoto alla superbia. Non è affatto una lettura scontata: diversa era stata la spiegazione di sant’Agostino, diversa quella di Gregorio Magno27; e forse è tutt’altro che casuale l’affermarsi di questa pervasiva esecrazione del peccato luciferino nell’epoca in cui si formano gli stati nazionali e cresce il potere dei re. S’inserisce pertanto nell’ambito della riflessione stimolata dal nuovo assetto politico anche il significato occulto del romanzo di Chrétien de Troyes, dove l’alternanza prescritta da Gregorio Magno tra vita attiva e vita contemplativa viene elevata, da precetto morale individuale finalizzato alla conquista della vita eterna, a regola aurea per l’ordo vivendi del Policraticus, con estensione facilmente decifrabile all’esercizio della sovranità e alle non sempre serene relazioni con l’autorità ecclesiastica. 23 Giovanni di Salisbury, Policraticus VII, XIII. 24 John A. MacCulloch, La religione degli antichi Celti, Vicenza, Neri Pozza, 1991, pp. 45-46. 25 È verbo topico dell’esperienza contemplativa: cf. L. Lazzerini, «Llull e i trovatori: amore, saggezza e follia», https://www.ehumanista.ucsb.edu/sites/secure.lsit.ucsb.edu.span.d7_eh/files/sitefiles/ivitra/ volume11/1.7.%20Lazzerini.pdf. 26 Petri Cellensis Abbatis, deinde S. Remigii Remensis ac demum Episcopi Carnotensis Sermones, Sermo lxxvii, De sancto Bernardo abbate Claravallae, I (coll. Patrologia Latina 202), col. 877. 27 Per Agostino il piede zoppo simboleggia la parte del popolo giudeo rimasta nell’antica legge: cf. il sermone cxxii (coll. Patrologia Latina 38), col. 682; Gregorio Magno interpreta l’atrofia del nervo di Giacobbe come inaridimento del desiderio dei piaceri sensibili quando intellectu intimo apprehenditur Deus: cf. Omelie su Ezechiele, ed. Marc Adriaen, ed. it. a cura di Vincenzo Recchia, Roma, Città Nuova Editrice, 1993, lib. II, pp. 60-61.
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Con quale elegante discrezione l’attualità s’insinui nella fabula è dimostrato dai tanti indizi disseminati nel romanzo. L’iconografia del mantello regale indossato da Érec nella cerimonia dell’incoronazione natalizia a Nantes, la città dove il 25 dicembre 1169 Goffredo Plantageneto fu proclamato duca di Bretagna alla presenza del padre Enrico e dell’aristocrazia bretone, si richiama esplicitamente a Macrobio ed è un chiaro riferimento alla scientia che il re deve possedere: sul prezioso tessuto sono rappresentate le discipline del quadrivio (pare che anche l’antico manto dei re di Francia, prima dell’introduzione dei gigli d’oro, recasse in campo blu l’immagine delle costellazioni, ispirata a Sap 18, 24)28. Ma altri particolari sono degni di nota. Il magnifico trono d’oro e d’avorio costruito per Érec ha un gemello su cui siede Énide in veste di Sapientia, paredra di ogni saggio re; i sontuosi scranni poggiano su piedi teriomorfi che raffigurano leopardi e coccodrilli: bestiario provvisto di connotazioni non meno significative, essendo il leopardo rampante figura araldica effigiata sullo scudo di Goffredo il Bello d’Angiò, capostipite della dinastia dei Plantageneti, che campeggia sulla splendida lastra tombale di rame smaltato conservata nel museo Tessé a Le Mans. È stato osservato come nell’esercizio esegetico altomedievale la persona del sovrano sia messa in ombra e quasi sopraffatta dalla lettura mistica. Il personaggio non vale per se stesso, sotto un profilo storico, ma in quanto sta per «l’apôtre ou son successeur épiscopal, le juste ou le saint, le Christ-roi vainqueur et couronné dans la Passion ou gouvernant la Jérusalem Céleste»29. Nell’urgenza del conflitto, però, l’attenzione torna a concentrarsi sull’hic et nunc, sulle prerogative e i limiti del potere temporale; così anche la fabula-integumentum, oltre agli aspetti spirituali e alla prospettiva escatologica, lascia intravedere i temi cruciali in discussione. Che cosa si cela sotto il velame? Tentiamo una decifrazione elementare del messaggio, rinunciando a segnalare punto per punto la complessa stratificazione dei significati. Chi è investito della funzione regale non può chiudere il discorso con sophia dopo averla amata e voluta al suo fianco (Enrico aveva ricevuto un’istruzione consona al suo rango ed era stato allievo di Guglielmo di Conches, maestro di Giovanni di Salisbury; Becket, divenuto cancelliere del regno per volontà dell’arcivescovo Teobaldo, tantam in oculis ipsius [regis] invenit gratiam, ut eum post decessum praefati cantuariensis archiepiscopi primae Britanniarum sedi praefici procuraret)30. Nel suo percorso terreno, il re compirà la missione affidatagli da Dio e accederà alla salus eterna solo se ascolterà i saggi consigli della Levitica tribus (rappresentata da Énide) depositaria della legge divina.
28 Sul simbolismo dei manti regi del tipo Descriptio totius orbis terrarum cf. Roberto Schiavolin, «Divina dispositio: ordine e governo dell’universo nella politica, nella teologia e nell’arte di ambiente ottoniano», Esercizi Filosofici, 2 (2007), pp. 76-106 (in particolare p. 79); sul tema della regalità in rapporto al personaggio di Érec cf. ora Patrick Del Duca, Chevalerie et royauté dans le roman d’Erec de Hartmann von Aue. Une étude comparée avec Érec et Énide de Chrétien de Troyes, Paris, Champion, 2021. 29 Philippe Buc, «Pouvoir royal et commentaires de la Bibles (1150-1350)», Annales. Économies, sociétés, civilisations, 44 (1989), pp. 691-713: (p. 692). 30 Giovanni di Salisbury, Vita Sancti Thomae Cantuariensis Archiepiscopi et Martyris, in Id., Anselmo e Becket: due vite, a cura di Inos Biffi, Milano, Jaca Book, 1990, p. 166.
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L’identità di «Chrétien de Troyes» è quanto mai incerta. Tra i vari Christianus reperiti nei documenti dell’epoca31 potrebbe celarsi il nostro autore, ma nessun indizio consente di stringere il cerchio. La tradizionale identificazione del romanziere oitanico con un chierico della corte di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII e di Eleonora d’Aquitania nonché consorte di Enrico il Liberale, è peraltro sostenuta dall’incipit del Chevalier de la Charrette, dove il poeta, dopo aver esaltato la dame de Chanpaigne che vale più d’ogni altra al mondo, riconosce a Maria il merito d’avergli suggerito matiere et san, «materia e senso»32. Allo stesso ambito riconduce l’incompiuto Perceval, dedicato a Filippo di Fiandra (di cui sono noti gli stretti vincoli con la dinastia champenoise), che era stato assiduo mediatore tra Becket ed Enrico Plantageneto. Se la fabula-involucro di Érec et Énide è un velo trasparente dietro il quale si scorge l’utopia d’un lieto fine per la profonda crisi tra l’arcivescovo e il re, è chiaro che siamo in presenza di un intento filosofico-politico forte, di un’ideologia implicita speculare a quella del Sarisberiense; sicché all’evanescente immagine del poeta curiale si sovrappone quella di chierici intenti a comporre, nella quiete di cenobi dotati di cospicui patrimoni librari o nelle ricche biblioteche cattedrali, non solo opere di severo impegno intellettuale e spirituale, ma anche testi dove quello stesso pensiero (il sen) viene divulgato nella piacevole veste di fabula-matiere, a imitazione dell’ars compositiva a più livelli di significazione attribuita dai philosophi di Chartres agli auctores pagani, assimilati in questo ai profeti: il tutto magistralmente unito dall’arte della conjointure. È una conferma della non-separazione tra cultura mediolatina e volgare: accantonato il pregiudizio del monolinguismo ecclesiastico (l’opposizione latino = lingua della Chiesa vs volgare = lingua del popolo non significa “disdegno del clero nei confronti dell’idioma degl’illetterati”), si schiudono scenari ben diversi dagli stereotipi correnti. Non è una fortuita coincidenza che proprio nei luoghi dove gli esuli britannici trascorrevano i loro giorni senza abbandonare la speranza del rimpatrio il chierico Chrétien scriva una storia così embricata con la vicenda di Becket; il quale, raccontano i biografi, lasciando l’Inghilterra aveva assunto una nuova identità, prendendo il nome di Chrestien: [Thomas] cum sero recubuisset una cum tribus fratribus viae sociis, ab hospite suo in fractione panis agnitus est: cum tamen in mensa non magis ipsi quam alii deferretur, imo minus, utpote qui in mensa primum nequaquam teneret locum, sed extremum. Qui etiam per totum hoc itinerarium suum sicut habitu ita et nomine mutato, a confratribus suis viae sociis frater Christianus vocabatur, nomen Christiani sortitus pro proprio, totum ob id ne potuisset agnosci33. Gris dras d’un frere ad pris, k’il puisse estre celez: or est Thomas changiez, Christïens est numez34. 31 Theodore Evergates, Marie of France: Countess of Champagne, 1145-1198, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, pp. 34-35. 32 Chrétien de Troyes – Godefroi de Leigny, Il cavaliere della carretta (Lancillotto), a cura di Pietro G. Beltrami, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, p. 38 (v.26). 33 Herbertus de Boseham, Vita Sancti Thomae archiepiscopi et martyris (coll. Patrologia Latina 190), coll. 1073-1292 (1166). 34 Guernes de Pont-Sainte-Maxence, La vie de Saint Thomas Becket, éditée par Emmanuel Walberg, Paris, Champion, 1971, p. 63, str. 412, vv. 2059-2060.
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La riconciliazione auspicata sub integumento in Érec et Énide parve vincente quando all’arcivescovo fu consentito di tornare nella sua sede. Ma fu un’illusione effimera: la realtà non seguì affatto la linea irenica tracciata dal romanzo. Il conflitto tra autorità spirituale e potestà regale si concluse tragicamente il 29 dicembre 1170 con l’assassinio nella cattedrale, che sconvolse l’intera cristianità per l’inaudita profanazione del luogo sacro e l’efferata violenza di cui i cronisti coevi non ci hanno risparmiato i dettagli più truci. ll culto del martire, canonizzato appena due anni dopo il crimine, il 21 febbraio 1173, si propagò subito in tutta Europa. Agnello sacrificale e alter Christus, vittima, nella narrazione agiografica (che ha semplificato una situazione ben più complessa), di un potere che negandosi alla grazia divina perde la sua dimensione sacrale e si riduce a forza bruta, il primate d’Inghilterra, sconfitto in questo mondo, diventa il vero vincitore per l’eternità. I facientes iniquitates, insegna il salmo 36, 1-2, tamquam faenum velociter arescent, et quemadmodum holera herbarum cito decident. Niente è più effimero dei trionfi mondani: Dio conosce la vita dei giusti, e la loro eredità durerà in eterno; i nemici del Signore, appena assurti all’apice degli onori, si dissolveranno come fumo (Ps 36, 18-20). È l’ennesima variatio sul tema che, sfiorato nel salmo 38, 6, rintocca ossessivamente nel Qoelet: Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Dopo il dramma di Canterbury, in una temperie che, come si è detto, vede la progressiva affermazione degli stati nazionali, proliferano gli specula principis. Si cerca di definire formazione e doveri del sovrano, un tema che impegnerà a lungo la riflessione filosofica e storico-politica: si pensi a Egidio Romano, alla Monarchia dantesca, o allo stesso Machiavelli che si richiamerà a questa tradizione nel capitolo 15 del Principe, seppur per contestarne l’impianto astratto (l’«immaginazione» di modelli ideali e fittizi) in nome della «verità effettuale». Un testo interessante, benché poco noto, è il Somnium morale Pharaonis di Giovanni di Limoges35. Contro la tarda datazione invalsa (post 1256, data di ascesa al trono del presunto destinatario Tebaldo V di Champagne), le considerazioni esposte in un saggio più recente36 inducono a preferire, come dedicatario dell’opuscolo, Thibaut IV di Champagne Le Chansonnier, il rex Navarrae citato da Dante per le sue canzoni in lingua d’oïl. Il terminus ante quem sarebbe allora il 1253, data di morte di Thibaut. Qui la riflessione sulla regalità (svolta in forma di fittizio epistolario – il corpus consta di 20 lettere – scritto in un latino sovraccarico di tutti i possibili artifici retorici: anafore, paronomasie, allitterazioni ecc.) si serve di metafore sorprendentemente affini a quelle del romanzo di Chrétien de Troyes, anche se il discorso ha sviluppi differenti. Nella lettera XVII i ministri di Faraone descrivono così il comportamento del loro re, quasi novello Érec iam dudum amore sapientiae sauciatum:
35 Johannis Lemovicensis, abbatis de Zirc 1208-1218, Opera omnia, ed. Constantino Horváth, Veszprém, Egyhazmegyei Könyvnyomda, 1932, t. I, pp. 71-126. Il Somnium s’ispira evidentemente (ma in maniera molto generica) a Gen 41. 36 Marie-Geneviève Grossel, «Le miroir au prince de Jean de Limoges (xiiie siècle)», in Nathalie Catellani-Dufrêne et Michel Jean-Louis Perrin (dir.), La lyre et la pourpre, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2012, pp. 87-98 (sulla data si vedano le conclusioni esposte a p. 91) ; Nicolas Michel,«Diffusion et réception du Somnium morale Pharaonis de Jean de Limoges: pour une meilleure connaissance des pratiques dictaminales», Archivum Latinitatis Medii Aevi, 74 (2016), p. 127-174.
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studendi occasiones quaerit, occupationes fugit, sectatur otium, aspernatur negotia, meditationes frequentat, actiones prosternit, corpus quietans ut spiritum inquietet. I curiales, interpellati da Faraone folgorato dall’amore per la sapienza, incoraggiano questa passione; salvo poi avvertire il giovane sovrano che gli sarà possibile proseguire con successo gli studi e conquistare il desiderato palio (concupitum sapientiae bravium) soltanto separando gli onori del regno dagli oneri, vale a dire tenendo per sé i primi e affidando i secondi ai suoi fidi (gli stessi dignitari di corte chiamati a esprimere il parere). Di conseguenza, senza alcuna remora per il conflitto d’interessi, i cortigiani così deliberano: è meglio per il re starsene chiuso in una stanza inaccessibile, a pregare e a meditare sulla Scrittura, che occuparsi di serviles seu viles operas. Se i critici di Érec prendevano di mira la sua perdita d’interesse per l’attività guerresca, qui i subdoli consiglieri spingono il sovrano a isolarsi nella vita contemplativa per conquistarne la benevolenza e soppiantarlo nel governo del regno. Vos vocati ad regem, amore languentem sapientiae, non curastis infirmitatem curiositatis regiae, sed gravius aggravastis, tuona però Giuseppe nell’epistola XVIII, manifestando una riprovazione per la curiositas che riecheggia Eccli 3, 22-24: Altiora te ne scrutaveris et fortiora te ne exquisieris, sed quae praecepit tibi Deus illa cogita semper et in pluribus operibus eius ne fueris curiosus. Non est enim tibi necessarium ea, quae abscondita sunt videre oculis tuis: in supervacuis rebus noli scrutari multipliciter, et in pluribus operibus eius non eris curiosus. Prosegue Giuseppe: Vos autem infirmum principem impie impulistis ut curam regiam, sponsam legitimam, sibi divinitus copulatam, repudiando repelleret, non verentes quod Deus praeconiunxerat separare. In conclusione, il bonus ordo vivendi esige che il re ottemperi in primo luogo ai suoi doveri di stato; mancando ai quali, persino la preghiera diviene colpevole (oratio eius fiet in peccatum, Ps 108, 7). Da notare che la passione totalizzante di Faraone per sophia, che tanto ci ricorda quella di Érec per Énide, è ritenuta patologica da Giovanni di Limoges: la sposa legittima è la cura regis, non sophia (si osserverà l’inversione rispetto alla metafora coniugale di Chrétien de Troyes; ma in fondo la reazione di Érec riconosce la fondatezza del biasimo nei confronti di quell’amore troppo esclusivo). Come argomenta Giuseppe alla fine dell’epistola XI, memore delle raccomandazioni del Siracide, sapientiae vestrae pauca sufficiunt, et Minervam prolixius instruere non oportet; non è bene che il principe si isoli per dedicarsi solo alla propria curiositas sciendi, trascurando – al pari di Érec – la cura regis. A Chrétien de Troyes, in realtà, interessava comunicare attraverso il suo conte d’aventure un diverso messaggio: l’attività del principe, nelle sue varie forme, non può mai ignorare la sfera spirituale. L’amata-Sapienza (o meglio chi la rappresenta in questo mondo) accompagnerà
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sempre e indicherà la via al re, che dovrà seguirne i giusti moniti se vorrà gestire il potere con profitto suo e della sua πόλις.
Il sovrano, la sapienza e la vanagloria: Alessandro Magno Il pensiero teocratico aveva già riconosciuto in Alessandro Magno una figura-simbolo della precarietà dei successi terreni e della gloria mondana, alla luce dell’esplicita menzione di 1 Mach 1-10 (dove, enumerate le gesta che stupirono il pianeta – siluit terra in conspectu eius –, si ricorda la prematura morte del Macedone col conseguente declino dell’impero) e della vulgata identificazione con Alessandro del rex di Deut 11, 34: Surget vero rex fortis et dominabitur potestate multa et faciet quod placuerit ei. Et cum steterit, conteretur regnum eius et dividetur in quatuor ventos caeli: sed non in posteros eius neque secundum potentiam illius qua dominatus est: lacerabitur enim regnum eius etiam in externos, exceptis his. Il Policraticus (lib. IV, cap. XI) inserisce in un mosaico di citazioni bibliche l’exemplum alessandrino, aggiungendo uno sprezzante riferimento (desunto dall’Epitome di Giustino) al successore, il fratellastro Filippo III Arrideo, filius saltatricis. Chi più grande di Alessandro? Eppure il suo impero, smembrato e subito dilaniato da guerre intestine, si disgregò nel giro di qualche decennio; delle conquiste che avevano strabiliato il mondo e costruito il regno più esteso mai visto sulla terra non rimase che la memoria. Giusta punizione per la smodata sete di potere, come fu giusto il biasimo degli antichi auctores (Insultant ei tragediae antiquorum eo quod angusta homini possessio fuit quae deorum omnium domicilio sufficit)37 per quell’arrogante appetitus gloriae: Alexandri pectus laudis insatiabile qui Anacarso comiti suo ex auctoritate Democriti praeceptoris innumerabiles mundos esse referenti: «Heu me, inquit, miserum, quod nec uno quidem adhuc potitus sum!». Plane miser dignusque miseria, cuius virtutes omnes absorbuerat laudis insatiata et insatiabilis fames una. Proprio in quella Reims capetingia dove gli amici di sempre Giovanni di Salisbury e Pietro di Celle avevano tessuto trame diplomatiche e progettato incontri per porre termine al conflitto tra Becket e il suo re, un chierico originario di Lille, Gualtiero di Châtillon, qualche anno dopo l’assassinio dell’arcivescovo scrive un ambizioso poema latino in esametri, incentrato sulla figura di Alessandro e dedicato a Guglielmo dalle Bianche Mani, già vescovo di Chartres38, arcivescovo di Sens e dal 1176 – morto Enrico di Francia nel novembre del 1175 – arcivescovo di Reims39. L’Alexandreis, opus 37 Giovanni di Salisbury, Policraticus VIII, V. Degli attacchi dei tragici non resta traccia. 38 Su quella cattedra episcopale gli succederà nel 1176 Giovanni di Salisbury; nel 1181 all’amico scomparso subentrerà Pietro di Celle. 39 Guglielmo proveniva dalla famiglia dei conti di Champagne, e sua sorella Adele era stata impalmata da Luigi VII in terze nozze, dopo l’annullamento del matrimonio con Eleonora d’Aquitania e la morte della seconda moglie, Costanza di Castiglia. Tra i membri illustri del parentado l’arcivescovo poteva vantare anche lo zio Stefano di Blois, re d’Inghilterra dal 1135 al 1154.
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quinquennio laboratum40, diventa rapidamente uno dei testi più letti e glossati nelle scuole. Con la scelta aristocratica dell’idioma dotto, quando ormai le letterature volgari si erano appropriate con successo del mito del condottiero greco, l’autore intende fornire un modello di bello stile e insieme un’educazione virtuosa mostrando, attraverso la vicenda esemplare del Magnus, la volubilità della fortuna e la caducità della gloria terrena. Alessandro debella i nemici più agguerriti, sbaraglia bestie mostruose, guarisce da congestioni e ferite ma soccombe all’odio di Natura e al veleno che gli viene propinato, secondo una tradizione con ogni probabilità non veritiera, dal generale Antipatro. L’antefatto, ossia l’ira di Natura e la sua discesa nel pozzo infernale41 per difendere i propri segreti e stroncare la ὕβρις del temerario, attiene alla fabula; la concreta attuazione della vendetta introduce invece il motivo dominante delle storie alessandrine, il tradimento. Nell’attribuzione a Natura del ruolo di organizzatrice del complotto potremmo anche scorgere un ritorno a forme di pensiero altomedievali, come l’ostilità «alla vana curiositas della ricerca fisica», denunciata come empia e pagana in opere come l’Opusculum contra Wolfelmum di Manegoldo di Lautenbach (sec. XI), «duramente avverso ad ogni philosophia mundana la cui caratteristica essenziale è individuata nella speculazione dei secreta naturae […]: all’affannosa e vana ricerca di cose naturali, Manegoldo contrappone l’evangelico richiamo alla povertà di spirito e al contemptus mundi»42. L’auctoritas di riferimento è Macrobio, che nel commento al Somnium Scipionis spiega come la natura detesti mostrarsi nuda (1, 2, 17-18); ma nell’Alexandreis, e ancor più nell’Alexandre spagnolo, Natura diviene una specie di arcigna guardiana dei limiti invalicabili posti alla conoscenza. Il pensiero torna allora al manto cerimoniale di Érec, dichiaratamente ispirato a Macrobio e simbolo dello scibile umano; manto indossato però dopo il duello col Cavaliere Vermiglio. Se Giacobbe lotta con l’angelo fino all’alba (lumen veritatis nell’interpretazione simbolica di Giovanni di Salisbury), Érec riesce a sopraffare l’antagonista solo quando è allo stremo delle forze. La vittoria nella lotta coincide per entrambi con l’investitura alla guida dei rispettivi popoli: Giacobbe, rinominato Israhel, riceve da Dio la promessa della terra che fu di Abramo e d’Isacco (Gen 35, 12) e di una discendenza regale; Érec erediterà il regno paterno. La scientia è mirabile ornamento della regalità, purché assistita dalla sapientia, dall’illuminazione spirituale. Alessandro, nonostante le sue gesta grandiose, non aveva visto l’aurora veritatis. E così nell’Alexandreis (X, 191-195) rintocca l’antico motivo della vanitas: Quo tendit tua, Magne, fames? quis finis habendi, Querendi quis erit modus aut que meta laborum? 40 Galteri de Castellione Alexandreis, ed. Marvin L. Colker, Padova, Editrice Antenore, 1978, Prologus, v. 15. Il testo è ora riprodotto, con traduzione a fronte, in Gualtiero di Châtillon, Alessandreide, a cura di Lorenzo Bernardinello, Pisa, Pacini, 2019, da cui si cita. Composta probabilmente tra il 1170 e il 1175, l’opera fu pubblicata qualche tempo dopo, forse tra l’autunno del 1179 e la fine dell’estate 1179; sulle varie ipotesi di datazione cf. l’introduzione dello stesso L. Bernardinello, § 2. 41 L’episodio evoca l’impresa di Giunone che, narra Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi, scese nell’Ade per aizzare le Furie contro Atamante. 42 Tullio Gregory, Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992, pp. 85-86.
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Nil agis, o demens. licet omnia clauseris uno Regna sub imperio totumque subegeris orbem, Semper egenus eris […]. La conclusione è ineluttabile: Magnus in exemplo est. cui non suffecerat orbis, Sufficit exciso defossa marmore terra Quinque pedum fabricata domus, qua nobile corpus Exigua requievit humo […]43. È il richiamo d’obbligo al memento mori, dopo l’esaltazione del re che, discepolo di Aristotele, più d’ogni altro pareva unire in sé sapientia e fortitudo. Questi versi non sono invenzione di Gualtiero: il tema del cui non suffecerat orbis rinvia al citato passo del Policraticus, VIII, V; l’esiguità dell’ultima dimora come contrappasso alla vanagloria terrena era un τόπος delle regie epigrafi funerarie: Rex magnus parva iacet hac Guillelmus in urna, / Sufficit et magno parva domus domino, si leggeva sull’epitaffio di Guglielmo il Conquistatore, sepolto (1087) nella chiesa di Saint-Étienne a Caen. Un secolo dopo, la già diffusa Alexandreis suggeriva l’epitaffio in distici elegiaci composto per Enrico II d’Inghilterra, morto nel 1189: Sufficit hic tumulus cui non suffecerat orbis res brevis est ampla cui fuit ampla brevis rex Henricus eram, mihi plurima regna subegi multiplici modo duxque comesque fui cui satis ad votum non essent omnia terrae climata terra modo sufficit octo pedum. Enrico II è quasi Alexander alter: un accostamento anticipato dal Policraticus (VI, 18), dove il giovanissimo Plantageneto è detto non inferiore all’imperatore Teodosio II, a sua volta paragonato ad Alessandro. Scilicet ingenium et rerum prudentia velox / ante pilos venit, scrive ancora Giovanni di Salisbury a proposito di Enrico II, prendendo in prestito i versi di Persio (IV, 4-5). Gualtiero sembra cogliere al volo lo spunto nell’effictio del suo Alessandro, precoce come il re britannico: Nondum prodierat naturae plana tenellis / infruticans lanugo pilis44, e puntualmente il Libro de Alexandre recupera l’immagine (quartina 21): De los [quatorze] años aún dos le menguavan; en la barva los pelos aún non assomavan. Fue asmando las cosas del sieglo cóm andavan: entendió sus avuelos en quál cueita passavan45. 43 Alexandreis X, 448-451, p. 326. 44 Ibid. lib. I, vv. 27-28, p. 48. 45 Edizione più recente: Libro de Alexandre. Edición, estudio y notas de Juan Casas Rigall, Madrid, Real Academia Española, 2014. Il testo tuttavia non è sempre soddisfacente; cito pertanto dalla mia ed. provvisoria, allestita a scopo didattico, Il Libro di Alessandro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2016 (ed. definitiva in corso di stampa).
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Ai quattordici anni gliene mancavano ancora due; i peli della barba neppure gli spuntavano. Comprese le vicende del mondo come andavano; capì quale pena dovevano sopportare i suoi avi. Intelligenza, istruzione, valore; ma alla fine tutto sarà vanitas. Il motivo è legato alla figura del grande conquistatore fin dai testi più arcaici, come mostra l’incipit dell’Alexandre di Alberico (sec. XII): Dit Salomon al premier pas quant de son libre mot lo clas: «Est vanitatum vanitas et universa vanitas46.» Dice Salomone al principio, dando il segnale d’avvio al suo libro: «Vanità delle vanità, e tutto è vanità». Pfaffe Lambrecht, l’imitatore tedesco di Alberico, riprende e amplia la citazione del suo modello galloromanzo (Vorauer Alexander, vv. 19-24): Do Alberich diz lit insluoc, do heter ein Salemones puoch, da er ane sach vanitatum vanitas: daz ist allez ein itelcheit, daz diu sunne umbe geit47. Al tempo in cui diede inizio alla canzone, su un libro di Salomone in suo possesso, Alberich trovava scritto vanitatum vanitas: è soltanto cosa vana tutto quello a cui il sole gira intorno. Il Libro de Alexandre, opera fondamentale della letteratura spagnola, è un fluviale poema in quartine monorime di alessandrini ascrivibile alla prima metà del XIII secolo. La narrazione segue da vicino l’Alexandreis, ma attinge anche a una quantità incredibile di altre fonti. Il lungo excursus sugli insegnamenti di Aristotele e l’ampio spazio dedicato, oltre che alle conquiste, all’efficace oratoria del Macedone fanno del testo un prezioso enchiridion regis; l’introduzione di ἐκφράσεις relative alle più varie branche del sapere, dalla Bibbia alla mitologia, dalla storia all’astronomia, dalla botanica al trattatello sulle proprietà delle pietre conferisce al Libro il carattere di una vera e propria summa enciclopedica, senza contare che lo stesso racconto delle campagne militari, accompagnando l’eroe attraverso luoghi esotici, dispensa nozioni geografiche con ampie concessioni a quel “meraviglioso” da Liber monstrorum che tanto aveva contribuito al successo dei romans d’Alexandre francesi. Anche nella versione iberica Alessandro è perfetta sintesi di sapientia e fortitudo, come da copione gualtieriano; 46 Sul frammento laurenziano cf. François Zufferey, «Perspectives nouvelles sur l’Alexandre d’Auberi de Besançon», Zeitschrift für romanische Philologie, 123 (2007), pp. 385-418; la citazione da p. 411. 47 Pfaffe Lambrecht, Alexanderlied, a cura di Adele Cipolla, Roma, Carocci, 2013, p. 72. Per i vv. 23-24 cf. Ecl 1, 14: vidi quae fiunt cuncta sub sole et ecce universa vanitas.
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la sua rovina è dovuta al delirio d’onnipotenza e alla presunzione di scoprire tutti i misteri, che scatena l’ira di Natura. Conosciamo bene l’epilogo (quartina 2672): Alexandre, que era rey de tan grant poder que nen mares nen tierra non lo podién caber, en una foya ovo en cabo a caer que non pudo de término doze pie[de]s tener. Alessandro, re di tale potenza che né mari né terra lo potevano contenere, in un’esigua fossa finì poi per cadere, che di lato misurava sì e no dodici piedi. Non è questo il luogo per riprendere l’annosa diatriba concernente l’attribuzione del Libro de Alexandre. Sulla base di congetture malferme sono state avanzate le candidature più improbabili: sconosciuti notai, regi cancellieri, un gruppo di lavoro alacremente impegnato in una università, quella di Palencia, da poco istituita e presto decaduta48. La mia opinione è nota: a dispetto delle obiezioni della comunità scientifica, l’attribuzione berceana da alcuni sostenuta (e per molti anni difesa da Dana A. Nelson, ottimo conoscitore della lingua del poema) è tutt’altro che irricevibile. Non avremo forse mai certezze al riguardo, ma è significativo che l’insieme dei dati offra vari indizi a conferma49 e nessuna smentita fondata su argomenti probanti. Una dopo l’altra, le ipotesi alternative sono state smontate senza essere sostituite da proposte attendibili. Forse sarebbe opportuno concentrare l’attenzione, come per l’area francese, sul ruolo fondamentale dell’interazione tra cultura monastica e Studia emergenti (con l’apporto dei chierici secolari) alle origini di una produzione letteraria rivolta a un pubblico aristocratico e in particolare all’educazione dei nuovi potenti, i monarchi degli stati nazionali; da istruire quanto basta, secondo l’indicazione del Siracide, perché non siano né asini coronati né anacoreti immersi nello studio né frenetici esploratori in preda a vana curiositas. Nulla sappiamo circa l’eventuale committente o destinatario del monumentale poema, che peraltro già a Willis50 era parso ascrivibile alla tipologia degli specula
48 È la tesi di Isabel Uría Maqua, «El Libro de Alexandre y la Universidad de Palencia», Actas del I Congreso de Historia de Palencia, Palencia, Diputación Provincial, 1986, pp. 431-442. 49 Mi sia consentito rinviare, per la discussione di alcuni punti significativi al riguardo, al cap. VI, «Il Libro de Alexandre e i suoi (presunti) enigmi», del mio volume Silva portentosa, op. cit., pp. 503-556. Altre questioni filologiche e lessicali sono discusse in L. Lazzerini, «Il Libro de Alexandre: ipotesi, restauri e comparazioni romanze», Medioevo Europeo, 2/1 (2018), pp. 5-32 (disponibile in rete). Cf. anche Javier Rodríguez Molina, «La extraña sintaxis verbal del Libro de Alexandre», Troianalexandrina, 8 (2008), pp. 115-146, dove si mantiene un prudente astensionismo attributivo, ma in compenso si conferma l’esistenza di una sostanziale identità tra la lingua del poema e quella delle opere berceane: http://www. vallenajerilla.com/berceo/uria/estudiantecolaboradoralexandre.htm. 50 Raymond Willis, «Mester de Clerecía: a definition of the Libro de Alexandre», Romance Philology, X (1956-1957), pp. 212-224. Cf. anche Nicasio Salvador Miguel, «La actividad literaria en la corte de Fernando III», in Sevilla 1248. Congreso internacional conmemorativo del 750 aniversario de la conquista de la ciudad de Sevilla por Fernando III, rey de Castilla y León [Sevilla, 23-27 de noviembre de 1998], Madrid, Fundación Areces, 2000, pp. 685-699: «textos como el Libro de Alexandre […] o el Libro de Apolonio presentaban un modelo de monarca emulable, por lo que, con mucha probabilidad, debieron expandirse en los círculos cortesanos, como ejemplos de specula principis» (p. 689).
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principis. In effetti l’immagine di Fernando III il Santo (1199-1252), giovane condottiero della reconquista, è agevolmente sovrapponibile a quella di Alessandro, quasi imberbe vendicatore della sovranità greca umiliata e straordinario conquistador. La parte enciclopedico-pedagogica si attaglierebbe forse meglio alla personalità del successore (ma le due ipotesi non sono necessariamente alternative), Alfonso X, il futuro Sabio: un enfant prodige che potremmo definire non meno promettente come litteratus che come bellator, se sulla sua partecipazione alla battaglia di Jerez de la Frontera nel 1231 – a poco più di nove anni! – non gravasse il sospetto di un equivoco51. C’è un punto su cui l’autore insiste particolarmente, ed è l’esecrazione del tradimento: un tema quanto mai sensibile per il re canonizzato nel 1671, che, avversato e diseredato dal suo stesso padre, dovette a più riprese fronteggiare la minaccia della nobiltà ribelle (si pensi alla potente famiglia di Lara) e anche l’ostilità di qualche prelato, benché si fossero schierati dalla sua parte il vescovo di Burgos e quello di Palencia, il famoso don Tello. Alle difficoltà interne facevano da singolare contrappeso gli eccellenti rapporti instaurati da Fernando con alcuni emiri, divenuti, da avversari, alleati leali; e a ben guardare un riflesso di questa situazione si potrebbe scorgere nel Libro, dove la figura di Dario, pur acerrimo nemico del protagonista, è esemplare per magnanimità e giustizia, mentre i cospiratori pronti a usare l’arma vile del veleno si annidano tra gli uomini più vicini al Macedone. Quando le ambizioni di Alessandro si spingono fino a travalicare i limiti umani, l’autore, sulle orme di Gualtiero, comincia a prendere le distanze dal suo personaggio. Alla figura del re invincibile ed eroe prometeico subentra quella del «lunático que no cata mesura» di 2329c (il demens dell’Alexandreis, X 193), assetato di potere e di mundana sapientia. L’autore ha voluto mettere in guardia il princeps dagli eccessi e dalla curiositas fatali al più grande dei conquistadores? Forse il suo messaggio è più sottile. Alessandro perde la mesura quando manca al suo fianco il dotto maestro Aristotele, quando sparisce, dopo la quartina 745, anche il vecchio e assennato Nestore che dava «consejos sanos». In altri termini, il re va incontro alla rovina quando non può contare sulla guida illuminata dei due πρεσβύτεροι (nel senso etimologico di “più anziani” e un po’ anche in quello nuovo, ecclesiastico; si torna, ancora una volta, all’insostituibile funzione dei Levites): in questo vuoto s’insinuano cattivi consiglieri e traditori. Non sfugge al Leitmotiv dell’insidia proditoria neppure la materia troiana; si veda come Menelao apostrofa Paride, che con l’inganno gli ha rapito la moglie (479): Recebí·t en mi casa, fízite grant onor; tal gualardón me diste que non podist peor; 51 Si legge nella Crónica de Veinte Reyes che Ferdinando III affidò il figlioletto a «don Aluar Peres de Castro, el Castellano» perché lo proteggesse nello scontro con i mori. L’ipotesi più probabile è che l’infante don Alfonso di cui si parla sia il fratello del re: questa è la versione di Lucas de Tuy, contemporaneo degli eventi, mentre l’identificazione col piccolo erede al trono avviene in età alfonsina. Sulla questione cf. Miguel Ángel Chamocho Cantudo, Alvar Pérez de Castro (c. 1196-1239). Tenente de Andújar, Frontero de Al Andalus, Conquistador de Córdoba, Madrid, Dykinson, 2017, pp. 141-147. Accoglie invece la versione della Crónica de Veinte Reyes H. Salvador Martínez [Santamarta] nella sua biografia di Alfonso il Saggio (2003); fiducia confermata nella più recente versione inglese, Alfonso X, the Learned. A Biography, translated by Odile Cisneros, Leiden-Boston, Brill, 2010, pp. 82-83.
Specu la pri nci pi s
!mas bien creo e fío en el nuestro Señor que dar-me-ha derecho de ti, falso traidor! Ti accolsi in casa mia con tutti gli onori, peggior ricompensa non mi potevi dare! Ma credo e confido in nostro Signore che mi vendicherà di te, falso traditore! Mentre dà voce alla rabbia di Menelao, l’autore ha forse in mente la saggia diffidenza di Sir 11, 31: Non omnem hominem inducas in domum tuam: multae enim sunt insidiae dolosi. Il pericolo più temibile per i re è la trama ordita nell’ombra, come insegnano i tanti casi illustrati nel Libro: a cominciare dal padre di Alessandro, re Filippo, ucciso in un’imboscata da Pausania. Sorte non dissimile attende Dario, rapito e ucciso dai traditori Nabarzane e Besso. E infine tocca ad Alessandro, l’invincibile, il Grande per eccellenza; non caduto sul campo, ma eliminato con l’arma più vile per mano di un uomo reputato amico e divenuto invece il sicario delle potenze infernali. Del resto, il traditore per antonomasia non era forse unus ex duodecim, uno che sedeva alla mensa di colui che di lì a poco avrebbe consegnato nelle mani dei nemici? L’errore più grave che il princeps possa commettere è quello di decidere in solitudine, senza consultare i detentori della Sapienza e accordando fiducia a chi non ne è degno. La catastrofe fulminea del Magno serva di monito: guai a chi presume troppo di sé, ma soprattutto vae solis, guai a chi non si tiene cari i preziosi savi indicati nel Policraticus, quelli che, «immuni da cupidigia, non spinti dall’ambizione né condizionati dalle passioni della carne e dai legami di sangue, la legge introdusse nella Chiesa». I Levites comprendono presto che il loro potere sta nella sapientia, stella polare non solo della vita spirituale, ma anche dell’azione di governo; gli eruditi del circolo di Canterbury, riuniti intorno all’arcivescovo, avevano sviluppato la tesi della primazia ecclesiastica nel solco di un’ideologia ierocratica alla cui affermazione il magistero di san Bernardo aveva portato un contribuito decisivo. La questione dei rapporti sacerdotium-regnum – che non a caso deflagra col caso Becket – entra nelle letterature vernacolari attraverso i significati secondi di avventure meravigliose e personaggi di fantasia (come Érec ed Énide) o le vicende esemplari, debitamente romanzate, di figure storiche assurte a mito come Alessandro. Se l’“opera prima” di Chrétien de Troyes può esser letta come speculum sui generis pensato per Enrico II, espressione di una strategia conciliante (che supponiamo condivisa da Chrestien-Becket, Giovanni di Salisbury, Pietro di Celle, Enrico arcivescovo di Reims e dal re di Francia Luigi VII), ma pur sempre saldamente ancorata all’idea del primato spirituale, è probabile che il Libro de Alexandre nasca da un’humus non dissimile da quella che ha prodotto il romanzo oitanico. L’opus magnum che fonda il mester de clerecía presuppone un’ampia disponibilità di manoscritti e, forse, una collaborazione tra biblioteche e scriptoria monastici prestigiosi. La scuola cattedrale palentina, poi Estudio general, avrà certo accumulato negli anni un discreto patrimonio librario, ma San Millán de la Cogolla e Santo Domingo de Silos disponevano verosimilmente di armaria ben più forniti. Rientra dunque tra le ipotesi plausibili che il poema iberico abbia preso corpo per iniziativa di un chierico (Berceo) legato a un grande monastero in declino e di un vescovo suo amico molto vicino alla dinastia regnante, don Tello Téllez, fondatore di quello Studium palentino che aveva attratto maestri da tutta
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Europa, ma la cui stella si stava offuscando: il favore della corona di Castiglia e Léon era vitale per l’una e l’altra istituzione. Quale omaggio sarebbe stato più gradito di un libro che compendiasse – entro la storia di un re assurto a mito, celebrato come la fortitudo in persona –, l’intera sapienza di Salomone (Sap 7, 17-20)? Ipse [Deus] enim mihi dedit horum quae sunt scientiam veram ut sciam dispositionem orbis terrarum et virtutes elementorum, initium et consummationem et medietatem temporum et meditationem omnium, morum mutationes et divisiones temporum, anni cursus et stellarum dispositiones, naturas animalium et iras bestiarum, vim ventorum et cogitationes hominum, differentias arbororum et virtutes radicum. L’esordio dell’Alexandre indica subito nella sapientia il tema centrale della narrazione; l’autore rivendica il suo versificare a regola d’arte, ben distinto dalle prestazioni giullaresche52, e insieme il ruolo magistrale che gli compete (1c: «deve de lo que sabe omne largo seer», «si deve elargire il proprio sapere»; da confrontare col prologo di Érec et Énide, vv. 16-17: «que cil ne fet mie savoir, / qui sa sciance n’abandone», «non fa cosa saggia chi non elargisce il suo sapere»), perfettamente conforme al dettato biblico: Sapientia absconsa et thesaurus invisus, quae utilitas in utrisque? (Eccli 20, 32). Poco vale la fortitudo, foss’anche quella dell’eroe più ammirato, se non si accompagna al saber che il narratore si appresta a dispensare nella forma piacevole ma rigorosa del suo mester de clerecía. Al pari dei chierici suoi predecessori, l’Anonimo castigliano persegue un obiettivo ben preciso: far comprendere al pubblico della nuova aristocrazia che solo al fons della Levitica tribus potrà abbeverarsi, come il cervo del salmista.
52 Le analogie incipitarie tra l’Érec et Énide di Chrétien de Troyes e il Libro de Alexandre non erano sfuggite a Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern-München, Francke Verlag, 1948, p. 98. Su questo punto cf. Amaia Arizaleta, «El exordio del Libro de Alexandre», disponibile in rete: https://core.ac.uk/download/pdf/58905817.
Bibbia e re: committenti, lettori, illustrazioni
Giuseppa Z. z anichelli
L’illustrazione dei Libri dei Re
Per tutto il Medioevo i quattro Libri dei Re restarono una unità inscindibile sia nella patristica, sia nella liturgia, secondo quanto era stato stabilito nella traduzione dei Settanta e questa struttura unitaria risulta fedelmente rispettata nei cicli di dipinti e miniati che illustrano questi testi storici della Bibbia attraverso tutti i secoli della età di mezzo. Il ciclo si presenta fin dall’inizio particolarmente esteso, secondo solo a quello del Pentateuco, e rivela una straordinaria capacità di adattarsi e modellarsi sia sulla concezione teologica cui si ispira, sia alla situazione storica in relazione alla quale viene messo in scena. Il primo insieme di immagini superstiti dei Bibloi Basileion risale agli albori della figuratività biblica, dato che trova ampia testimonianza nei dipinti della sinagoga di Dura Europos (245-256 d. C.), città di frontiera e centro carovaniero in cui confluirono e si fusero istanze culturali di diversificata provenienza. Nel pubblicare gli affreschi nel 1990, Kurt Weitzmann1 riaffrontava il problema della possibile desunzione della tradizione figurativa da un manoscritto miniato2, ipotizzando fermamente la preesistenza di una tradizione ebraico-ellenistica illustrata, di origine alessandrina e omogeneamente distribuita in relazione al testo biblico. Negli affreschi superstiti della sinagoga invece le scene selezionate seguono una logica precisa, dato che, dopo un riquadro dedicato alla profetessa Hannah e alla oblazione di Samuele, domina incontrastato il grande ciclo dell’arca dell’alleanza, della sua cattura da parte dei Filistei e della sua liberazione, fino alla costruzione del tempio di Gerusalemme. Il trionfo del popolo eletto è sancito dagli episodi di Salomone e la regina di Saba e della vittoria di Elia sui profeti di Baal (fig. 1). Sebbene non tutto il ciclo sia leggibile, l’attesa del messia, un sovrano terreno che conquisti un nuovo regno per il popolo eletto, è chiaramente percepibile, come è 1 Kurt Weitzmann, «Part I», Kurt Weitzmann and Herbert L. Kessler, The Frescoes of the Dura Synagogue and Christian Art, Washington, Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 1990, pp. 1-150. 2 Sul problema del rapporto tra i cicli illustrativi nei vari media si veda Kurt Weitzmann, «Die Illustration der Septuaginta», Münchener Jahrbuch der bildenden Kunst, 3-4 (1952-1953), pp. 96-120, ed. cons. Id., Studies in Classical and Byzantine Manuscript Illumination, ed. by H. L. Kessler, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1971, pp. 45-75; Id., «The Study of Byzantine Book Illumination, Past, Present, and Future», The Place of Book Illumination in Byzantine Art, Princeton, The Art Museum, Princeton University, 1975, pp. 1-60. Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 167-184 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124807
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evidente la identificazione visuale del potere politico ostile agli ebrei con il Re dei Re della incombente dinastia sasanide. Nel battistero cristiano invece è raffigurata la decapitazione di Golia, episodio che avrà una lunga vita nella tradizione cristiana, come simbolo della vittoria del bene sul male;3 analogamente dopo circa mezzo secolo nelle catacombe di via Dino Compagni a Roma, nel Cubicolo B (310-360 d. C.), è ancora la forte connotazione allegorica che si può intuire alla base della rappresentazione di Elia sul carro di fuoco, tema dichiaratamente escatologico, e della morte di Assalonne pendente dalla quercia, di significato anagogico.4 Questi episodi isolati, di committenza privata, appartengono all’ambito devozionale ed hanno, come avviene anche per i cicli illustrativi dei salteri, una trasmissione differente da quella dei grandi cicli “teologici” rappresentati nelle chiese o miniati come illustrazioni dirette del testo biblico, spesso affiancate da catene esegetiche. Pochi decenni dopo, all’inizio del quinto secolo, compare il primo manoscritto illustrato del Libro dei Re, un codice che presenta delle caratteristiche assolutamente originali e, benché prodotto certamente in ambito cristiano, soddisfa le esigenze intellettuali del suo aristocratico committente educato nella tradizione classica: si tratta della così detta Itala di Quedlinburg, un grande codice di lusso in onciale, di cui furono scoperti nella seconda metà del XIX secolo 5 fogli superstiti, riutilizzati nella legatura di documenti seicenteschi;5 in origine doveva essere un volume di 220 pagine con 60 fogli di immagini. Prodotto a Roma, in una officina libraria ove venivano allestite copie di lusso di Omero e Virgilio, ne riprende il linguaggio trionfale e i topoi narrativi legati alle scene militari, trasformando la narrativa biblica in un poema epico, ma attenuando in questa trasformazione la sottile funzione esegetica che l’immagine assume nei più tardi codici biblici6. Anche se l’Itala non fu necessariamente il primo manoscritto illustrato con questo testo ad essere stato prodotto, è chiaro che il miniatore non segue una tradizione iconografica consolidata, ma opera solo sulla base delle semplici istruzioni che il responsabile dell’impresa aveva trascritto per lui, in una rapida corsiva, negli spazi destinati alle immagini, che scandiscono fedelmente il testo; queste note erano destinate ad essere ricoperte dalla tempera, diversamente dalle didascalie in inchiostro aureo, che dovevano facilitare l’interpretazione delle scene da parte del lettore, che doveva averne una relativa conoscenza. Nelle istruzioni i personaggi sono indicati in modo generico e i miniatori le caratterizzano secondo la loro tradizione, per cui, ad
3 K. Weitzmann, «Part I» …, pp. 84-87. 4 Maria Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini 312-468, Milano, Jaca Book, 2006 (vol. I, La pittura medievale a Roma 312-1431, Corpus, I), pp. 131-135 (Barbara Mazzei). 5 Per le relative vicende rimando a Inabelle Levin, The Quedlinburg Itala. The Oldest Illustrated Biblical Manuscript, Leiden, Brill, 1985. Cf. John Lowden, «The Beginning of Biblical Illustration», The Early Medieval Bible, ed. by J. Williams, University Park, The Pennsylvania State University Press, 1999, pp. 9-59: 40-43; Der Quedlinburger Schatz wieder vereint. Katalog der Ausstellung, Kunstgewerbemuseum, Staatliche Museen zu Berlin, Preußicher Kulturbesitz, 31.10.1992-30.05.1993, herausgegeben von D. Kötzsche, Berlin, Kulturstiftung der Länder, 1992, pp. 40-41 (Dietrich Kötzsche). 6 I. Levin, The Quedlinburg Itala…, pp. 60-61.
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esempio, sia per Saul che per i messaggeri si indica: facis monumentum adsunt Saul et puer eius et duo viri fossas supersilientes locuntur illi et adnunciant quod asinae sint inventae; le istruzioni ritornano semplificate nei cartigli aurei che accompagnano le scene7 (fig. 2). Abituati a dipingere eroi classici, i miniatori rappresentano i personaggi biblici come armati: Saul con uniforme da parata, i messi con un semplice abito militare e il racconto subisce una forte romanizzazione, così come aveva fatto il testo biblico nella traduzione Vulgata di Girolamo8. È interessante confrontare questa iniziativa privata, improntata all’epica, con la prima traccia di interpretazione tipologica del tema davidico individuabile nella basilica di Santa Maria Maggiore in cui operano mosaicisti provenienti dalla stessa bottega dei miniatori dell’Itala; è il primo edificio sacro di committenza papale, il cui ciclo musivo, offerto da Xistus episcopus plebi Dei, si colloca a ridosso del Concilio di Efeso (431) ed esprime la meditazione teologica sui typoi veterotestamentari della Μήτηρ Θεοῦ; la scelta di visualizzazione della immagine regale della Vergine, rappresentata come una imperatrice romana in relazione alla sua discendenza davidica, come hanno sottolineato, in diverso modo, Suzanne Spain e Olav Folgerø9, testimonia l’infinita gamma interpretativa che fin dall’inizio offrono i Libri dei Re nel pensiero cristiano. Questo è ampiamente confermato dalla comparsa delle storie di Davide sulle danneggiatissime porte della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, ove erano rappresentati gli episodi della giovinezza di David, fino alla sua fuga da Saul peccatore: una scelta che poneva il mite e umile pastore a custodia della casa di Dio. Adolph Goldschmidt che datava le porte alla fine del IV secolo, durante il periodo in cui Milano fu capitale dell’Impero, vi leggeva l’eco dello scontro fra lo stesso Ambrogio e Teodosio10, mentre Carlo Bertelli, che le riferiva al VI, vedeva in David la personificazione di Ambrogio, umile eletto, che condivide con David la connotazione musicale.11
7 Nei cartigli aurei si legge semplicemente: monumentum Rachel; Saul; duo viri nunciantes Saul quia inventae sunt asinae: cf. ibid., p. 27. 8 Walter Ullmann, «The Bible and the Principles of Government in the Middle Ages», La Bibbia nell’alto medioevo. Atti della X Settimana del CISAM, Spoleto, 26 aprile – 2 maggio 1962, Spoleto, CISAM, 1963, pp. 171-227. 9 Suzanne Spain, «“The Promised Blessing”: the Iconography of the Mosaics of S. Maria Maggiore», The Art Bulletin, 61 (1979), pp. 518-540; Joanne Deane Sieger, «Visual Metaphor as Theology: Leo the Great’s Sermons on the Incarnation and the Arch Mosaics at S. Maria Maggiore», Gesta, 26 (1987), pp. 83-91; Olav Fiolgerø, «The Sistine Mosaics of S. Maria Maggiore in Rome: Christology and Mariology in the Interlude between the councils of Ephesus and Chalcedon)», Acta ad Archaeologiam et Artium Historiam Pertinentia, 21 (2008), pp. 33-64. 10 Adolph Goldschmidt, Die Kirchenthür des Heiligen Ambrosius in Mailand: ein Denkmal frühchristlicher Skulptur, Strassburg, J. H.Ed. Heitz, 1902, p. 266; Margherita Cecchelli, «Le più antiche porte cristiane: S. Ambrogio a Milano, S. Barbara al Vecchio Cairo, S. Sabina a Roma», Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII, a cura di S. Salomi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 59-69: 60-62. Il programma iconografico delle porte della basilica è messo in rapporto con la predicazione di Ambrogio, seppur in diversa prospettiva, anche da Moretti, pp. 43 e 55 di questo volume 11 Carlo Bertelli, «Percorsi tra le testimonianze figurative più antiche: dai mosaici di S. Vittore in Ciel d’oro al pulpito della basilica», La basilica di S. Ambrogio: il tempio ininterrotto, a cura di M. L. Gatti Perrer, II, Milano, Vita & Pensiero, 1995, pp. 339-387: 350-355.
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Una interpretazione in chiave politica risulta inoppugnabile nel periodo carolingio, quando si rinforza il concetto di sovrano cristiano davidico12, una tradizione che durava dal VII secolo13; se questo legame tra Davide e Carlo Magno (742-814) non venne mai riconosciuto dai pontefici, emerge invece chiaramente nell’uso della corte, che proclamava il diretto rapporto tra il sovrano e il suo Creatore, così come la Bibbia lo descrive in relazione a Davide, il fondatore biblico della monarchia ereditaria14. La situazione diviene ancor più evidente con Ludovico il Pio (778-840) e la documentazione scritta e visuale induce a considerare come punto di riferimento per questa svolta Rabano Mauro e il suo commentario al Libro dei Re, composto su richiesta di Hilduinus cappellano dell’imperatore Ludovico il Pio nell’823, ma offerto in dono a lui solo nell’832, mentre era di passaggio a Fulda in un momento difficile del suo regno, quando i figli del primo matrimonio si schierarono risoluti contro di lui, per avere riassestato l’asse ereditario dopo la nascita di Carlo il Calvo, figlio della seconda moglie Judith.15 Benché maturato in ambiente monastico a fini didattici e anagogici, il commentario persegue la verità storica, come indica la scelta delle fonti; la vasta diffusione del commento di Rabano nel Medioevo è dovuta anche a questa prospettiva politica, non estranea alle altre sue opere, come dimostrano sia il dono all’imperatrice Judith del commento al libro omonimo, sia la dedica del commento alle Cronache a Ludovico il Germanico (804-876), una volta mutatisi gli equilibri fra gli eredi al trono. Purtroppo l’esemplare di dedica del commento ai Re, eseguito nello scriptorium fuldense da cui uscirono in questi anni straordinari codici16, è andato perduto, ma un riflesso del suo possibile programma illustrativo si può dedurre dalla struttura del ciclo davidico
12 Hugo Steger, David rex et propheta. König David als vorbildliche Verkörperung der Herrschers und Dichters im Mittelalter, nach Bilddarstellungen des achten bis zwölften Jahrhunderts, Nürnberg, Verlag Hans Carl, 1961, pp. 125-132; Donald Bullough, «Imagines regum and their significance in the early medieval West», Studies in memory of David Talbot Rice, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1975, pp. 223-376; Iddar H. Garipzanov, The Symbolc Language of Authority in the Carolingian World (c. 751-877), Leiden – Boston, Brill, 2008, pp. 224-228. 13 Ytzhack Hen, «The uses of the Bible and the perception of kingship in Merovingian Gaul», Early Medieval Europe, 7/3 (1998), pp. 277-290. 14 Il rapporto è da leggersi in chiave trinitaria, dato che David è figura di Cristo, ma è Dio Padre che punisce i re; inoltre è da sottolineare la differenza fra l’interpretazione davidico-cristologica degli autori legati alla corte carolingia, come Claudio di Torino, Rabano Mauro e Angelomo di Luxeuil, e quella tipologica degli esegeti della seconda metà del secolo, che vedono nel popolo ebraico la figura di quello cristiano: cf. Maddalena Ferri, Commento ai Libri dei Re nel ms. Karlsruhe, Landesbibliothek Aug. Perg. CXXXV. Edizione critica, Tesi di Dottorato di Ricerca in Storia, Letteratura e Territorio, Tutor prof. Paolo Chiesa, Università di Cassino e del Lazio Meridionale 2016; Estratto, p. v, http://ecodicibus.sismelfirenze.it/ uploads/6/3/632/Re_Ferri.pdf. 15 Caroline Chevalier-Royet, Le commentaire de Raban Maur sur les Livres des Rois: manuel scolaire à l’usage des moins et guide pratique à l’usage des rois, Raban Maur et son temps, Turhout, Brepols, 2010, pp. 293-303. Cf. Avrom Saltman, «Rabanus Maurus and the Pseudo-Hieronymian Quaestiones Hebraicae in Libros Regum et Paralipomenon», Harvard Theological Review, 66 (1973), pp. 43-75. 16 Die Mal- und Schreibschule der Reichsabtei Fulda im 9. Jahrhundert, Katalog der Ausstellung, Stadtschloss Fulda, 22. Februar bis 7. Marz 1982, Fulda, Stadtschloss, 1982; Die illuminierten Handschriften in Hessischen Landesbibliothek Fulda, Stuttgart, A. Hiersemann, 1976-1993.
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affrescato nel monastero di Müstair (fig. 3), strettamente legato a Fulda e alla famiglia imperiale, come dimostra la statua romanica di Carlo Magno, realizzata forse per la canonizzazione del 116517; il ciclo, realizzato nella prima metà del IX secolo e oggi fortemente compromesso18, si articolava nel registro superiore dell’aula e comprendeva la giovinezza di Davide e il suo rapporto con Saul, il suo ritorno a Gerusalemme con l’arca e la ribellione e morte di Assalonne: la scelta iconografica sembra imperniata sulla regalità di Davide, ma l’ampio spazio dedicato all’episodio di Assalonne ha indotto gli studiosi a interpretare queste scelte alla luce del rapporto conflittuale di Ludovico il Pio con i figli. Non va però dimenticato il forte impianto tipologico, dato che gli episodi della vita di Cristo correvano nelle fasce sottostanti, fino all’ultima destinata alla successione apostolica, di cui David è controparte. Passato il momento tumultuoso delle lotte dinastiche, essendo per breve tempo l’impero riunito nelle mani di Carlo il Calvo, il modello del re appare mutare e, come già vide Kantorowicz,19 il nuovo imperatore scelse di farsi rappresentare non più come David, ma come Salomone, come documentano le miniature della Bibbia di San Paolo fuori le mura, che celebra la sua incoronazione (875) (fig. 4). Qui solo i due primi libri dei Re hanno frontespizio miniato, l’uno narrativo, con i classici episodi dalla sterilità di Hannah alla morte di Saul, l’altro celebrativo con David in trono afflitto per la morte di Saul, e la vendetta per l’uccisione del legittimo sovrano; a queste due miniature a piena pagina va contrapposta quella all’inizio dei Proverbi, ove trovano posto anche episodi del terzo libro dei Re, come l’unzione da parte di Nathan e il giudizio delle due madri; qui è rappresentato per la prima volta Salomone in trono,20 anche se l’interesse per il trono di Salomone è molto più antico e ben documentato.21 Contemporaneamente è realizzato il più grande e lussuoso codice greco databile al periodo dell’iconoclasmo, i così detti Sacra Parallela ovvero Tὰ Ἰερὰ Παράλλελα attribuiti all’iconofilo Giovanni Damasceno22. La valutazione in questo volume, il più antico testimone dell’opera e capostipite di una limitata recensione, caratterizzato dalla straordinaria ricchezza di pigmenti aurei che plasmano la decorazione marginale, è
17 Le Stuc. Visage oublié de l’art médiéval. Catalogue de l’exposition, Poitiers, Musée Sainte-Croix, 16 septembre 204-16 janvier 2005, Poitiers, Samogy – Musées de la Ville de Poitiers, 2004, p. 217 n. 193 ( Jurg Göll). 18 Le 15 scene veterotestamentarie superstiti delle 20 sono state staccate e ora sono conservate allo Zweizerischen Landesmuseum di Zurigo: cf. Lucas Wüthrich, Wandgemälde Von Müstair bis Hodler. Katalog der Sammlung des Schweizerischen Landesmuseum Zürich, Zürich, Verlag Berichthaus, 1980, pp. 17-41; Matthias Exner, Il programma iconografico della chiesa abbaziale nel contesto storico: Gli affreschi carolingi della chiesa abbaziale, in Jürg Goll, Matthias Exner, Suzanne Hirisch, Müstair. Le pitture parietali medievali nella chiesa dell’abbazia, Müstair, Amici dell’abbazia di San Giovanni di Müstair, 2007, pp. 83-109. 19 Ernst H. Kantorowicz, The Carolingian King in the Bible of San Paolo fuori le mura, in Late Classical and Medieval Studies in Honor of Albert Mathias Friend, Jr., ed. by K. Weitzmann, Princeton, Princeton University Press, 1955, pp. 287-300. 20 Eva Bürgermeister, Salomos Götzendienst. Die Schattenseiten einer glanzvollen Herrschaft als Thema der mittelalterlichen Bildkunst, Ph.D. Universität zu Köln, Köln, s.e., 1994, pp. 46-47. 21 Allegra Iafrate, The Wandering Throne of Solomon. Objects and Tales of Kingship in the Medieval Mediterranean, Leiden-Boston, Brill, 2015. 22 Migne, PG 95, 1139-1588; 96, 9-855.
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resa difficile dalla incertezza relativa all’individuazione del luogo di produzione, che oscilla in un’ampia area grecofona, tra l’Italia meridionale, la Palestina, Costantinopoli e Roma, indicando in quest’ultima accezione anche monasteri greci del territorio circostante.23 La comunità monastica responsabile per il manoscritto dedica particolare attenzione all’illustrazione dei libri dei Re, le cui citazioni anche in questo caso sono seconde solo al ciclo del Pentateuco24; dopo la fondamentale analisi di Weitzmann, che però ha scomposto il volume alla ricerca del mitico archetipo, studi recenti hanno cercato di analizzare le immagini in relazione al testo e sono giunti alla conclusione che l’esame di alcune iconografie appartenenti ai Biblioi Basileion forniscano una chiave interpretativa in senso non solo didattico, ma sottilmente esegetico dell’intero volume: le immagini non sono dunque semplici indicatori e visualizzatori dei testi scritti a lato, ma li commentano: in particolare il trasferimento del manto di Elia ad Eliseo viene presentato come ricompensa per la sua perseveranza, mentre Salomone è rappresentato in atto di pronunciare parole di saggezza, con la mano protesa nel gesto dell’eloquio, invece di ricevere semplicemente l’ammirazione da parte della regina di Saba.25 La rinascenza macedone vede a Bisanzio il trionfo delle immagini regali derivate dai Libri dei Re nei codici di lusso, in grandi frontespizi miniati, ove minime varianti iconografiche suggeriscono la raffinata progettualità dei loro committenti; qui basterà menzionare la Bibbia del Patrizio Leone (doc. 925-944)26 con l’unzione di Davide a introdurre il secondo Libro dei Re, una unzione che sottolinea la umiltà e povertà del prescelto, come evidenzia la presenza di Πpαότης (Mitezza) che gli pone una mano sulla spalla, mentre il frontespizio del terzo sottolinea il passaggio del potere al giovane Salomone, con Davide e Betsabea sullo sfondo, garanti della legittimità,
23 Per una assegnazione all’Italia meridionale di veda Kurt Weitzmann, Byzantinische Buchmalerei des IX. und X. Jahrhundert, Berlin, Gebr. Mann, 1935, pp. 80-81; André Grabar, Les manuscrits grecs enluminés de provenance italienne, ixe-xie siècles, Paris, Klincksieck, 1972, pp. 21-24, n. 3. Successivamente lo stesso Kurt Weitzmann, nella monografia The Miniatures of the Sacra Parallela, Parisinus Graecus 923, Princeton, Princeton University Press, 1979 (Studies in Manuscript Illumination, 8), ne propose una origine palestinese, mentre pensava a Costantinopoli Leslie Brubaker, Vision and Meaning in the Ninth-Century Byzantium: Image as Exegesis in the Homilies of Gregory of Nazianzus, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 25, e a Roma Carlo Bertelli, Tracce allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana, in Storia dell’arte Italiana, II, Dal Medioevo al Novecento, V, Dal Medioevo al Quattrcento, Torino, Einaudi, 1982, pp. 1-163: 82-83, o ad un monastero greco dell’area Maria Evangelatou, Sacra Parallela (*Par. gr.923), in A Companion to Byzantine Illustrated Manuscripts, ed. by Vasiliki Tsamakda, Leiden, Brill, 2017, pp. 418-429. 24 Otto Wahl, Die Sacra-Parallela-Zitate aus den Büchern Josua, Richter, 1/2 Samuel, 3/4 Könige sowie1/2 Chronik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2004, pp. 43-138. 25 Questa interpretazione è emersa dalle indagini di Maria EvangelAtou, «Word and Image in the “Sacra Parallela” (Codex Parisinus Graecus 923)», Dumbarton Oaks Papers, 62 (2008), pp. 113-197, che, intervenendo a proposito dello studio di K. Weitzmann, The Miniatures of the Sacra Parallela…, ha rifiutato l’ipotesi di una desunzione da cicli illustrativi biblici, sottolineando il rapporto testo-immagine nel prezioso volume. 26 La Bible du Patrice Léon, Codex Reginensis Graecus 1. Commentaire codicologique, paléographique, philologique et artistique, par Paul Canart, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2011 (coll. Studi e Testi, 463). Fr. https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.gr.333.
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e infine il frontespizio del quarto libro dedicato a due episodi della vita di Elia: il dialogo con re Achab e l’ascensione sul carro di fuoco con il dono del mantello27. Così nella scelta dei temi il principio della trasmissione della regalità e del sacerdozio si confrontano nei codici aristocratici, espressione della cultura della corte bizantina, che implementa le scene trionfali, non narrative. Analoga posizione si riscontra anche nell’unico codice bizantino sopravvissuto contenente solo i quattro Libri dei Re, il ms. Vat. gr. 333, dotato di un imponente ciclo illustrativo che è sistematico nel primo libro con 64 miniature, diminuisce nel secondo con 22, per ridursi a 7 nel terzo e 1 sola nel quarto: poiché l’impaginazione è accurata, la diminuzione delle scene è programmata, cosicché emerge chiaramente la volontà di evidenziare la narrazione del ciclo di Samuele e Davide, riducendo all’immagine del carro di fuoco le vite di Elia ed Eliseo28. Come unico testimone illustrato di questo testo è stato indagato da Weitzman per stabilirne i legami di ricezione e trasferimento di modelli in relazione ai codici della Septuaginta, attirando l’attenzione proprio sul sistema celebrativo regale, basato sull’unzione, incoronazione ed elevazione sullo scudo del sovrano29. Quest’ultima iconografia, ricorrente ben quattro volte nel codice vaticano, non ha un puntuale riscontro né nella realtà storica del cerimoniale dell’incoronazione, né nel racconto biblico,30 ma è certamente funzionale a soddisfare la visualizzazione della legale successione per il probabile committente. Nell’XI secolo anche in Occidente riprende la produzione delle grandi pandette bibliche, le display bibles prodotte per essere mostrate come espressione della fede e del prestigio delle comunità religiose, ma anche prova dello stretto legame tipologico fra Antico e Nuovo Testamento, rapporto impugnato dagli eretici31. Le dimensioni e il complesso sistema illustrativo, funzionali alla lettura comunitaria e liturgica, restringe l’ambito dei possibili committenti a vescovi, abati e aristocratici laici, la cui presenza talora è registrata nei colophon o si avverte nelle scelte iconografiche, come documentano le bibbie catalane o il frontespizio della Bibbia della cattedrale di Wincester. Dono regale è la Bibbia di Enrico IV, presentata dall’imperatore al monastero riformato di Hirsau certamente negli anni che precedettero il suo scontro con Gregorio VII nel 1077, ma ben caratterizzata in senso regale dalla presenza delle insolite immagini abbinate di Davide e Salomone, simbolo della legittima successione 27 Per l’analisi del programma illustrativo del codice rimando a Suzy Dufrenne, «Les miniatures», La Bible du Patrice Léon…, pp. 81-183: 139-155, ove compare anche un’ampia disamina della precedente bibliografia sull’argomento. 28 Jean Lassus, L’illustration byzantine du Livre des Rois: Vaticanus Graecus 333, Paris, Klincksieck, 1973; Ioli Kalavrezou, «The Vatican Book of Kings (*Vat. gr.333)», A Companion to Byzantine…, pp. 227-235. 29 Kurt Weitzmann, Illustration in Roll and Codex, Princeton, Princeton University Press, 1949, ed. cons. Firenze, CUSL, 1991, pp. 169-170 e 224-226. 30 Christopher Walter, «Raising on a shield in Byzantine iconography», Revue des études byzantines, 33 (1975),, pp. 133-176. 31 Ancora utile risulta la ricerca di Walter Cahn, Romanesque Bible Illumination, Ithaca, Cornell University Press, 1982; ma ora si veda Dorothy Shepard, Romanesque Display Bible, in The New Cambridge History of the Bible, II, From 600 to 1450, ed. by R. Marsden and E. A. Matter, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 392-403.
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dinastica del re-sacerdote32 (fig. 5): questa è una delle più antiche bibbie prodotte a Roma tra XI e XII secolo, note come Bibbie atlantiche, in cui si riflette il dibattito su regnum e sacerdotium che caratterizza la lotta per le investiture. È ancora una volta nelle immagini relate ai Libri dei Re, testo biblico frequentemente citato nei Libelli de lite, che si possono notare interessanti varianti: ad esempio nella Bibbia del Pantheon33, realizzata a Roma all’inizio del XII secolo, le iniziali miniate che introducono i quattro libri perdono ogni accenno alla regalità, ma celebrano il sacerdozio: infatti mentre il secondo libro ha solo iniziale a tralcio e il terzo l’immagine di David e la fanciulla Abisag, semplice visualizzazione dell’inizio del testo, il primo libro è introdotto dalla figura di Samuele, il sacerdote puro simbolo della riforma in relazione al corrotto Eli, e l’ultimo da Elia che, salendo al cielo sul carro di fuoco, cede a Eliseo il suo manto, simbolo della legittima elezione sacerdotale34. L’importanza dei Libri dei Re e della loro visualizzazione, in questo momento conflittuale, è documentata dalla presenza del ciclo su altri oggetti liturgici, tra i quali si segnala il calice dell’abbazia di Trzemeszno35, ma realizzato in Baviera alla metà del XII secolo e giunto nell’abbazia polacca come dono regale; il calice argenteo è istoriato con 12 scene suddivise tra piede e coppa e in origine doveva avere una patena con scene cristologiche tipologicamente connesse. Perdutasi questa componente, resta al titulus e agli episodi scelti il compito di svelare il significato di un particolare ciclo iconografico senza diretti confronti. Unctio tam regum quam virtus mistica vatum / omnibus indutis Christum sunt signa salutis: il riferimento al dibattito esegetico contemporaneo, soprattutto Rupert di Deutz e Gehrho di Reichersberg, emerge dalle scene. Le prime sei rappresentano il tema del sacerdozio spiritualmente rinnovato, mentre Davide è il re umile, la cui unzione non è più il sacramento che equipara i re ai vescovi, ma una benedizione.36 Nelle prime due immagini della coppa il messaggio cambia completamente e trionfa lo ius regni in due scene non bibliche (fig. 6): nella prima Davide posto tra clero e esercito, secondo la tradizione imperiale ottoniana, è incoronato dal generale Ioab e non dal vescovo; nella seconda (fig. 7)
32 Le Bibbie Atlantiche. Il libro delle Scritture tra monumentalità e rappresentazione. Catalogo della mostra, Abbazia di Montecassino 11 luglio – 11 ottobre 2000 – Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana 2001, a cura di M. Maniaci e G. Orofino, Roma, Centro Tibaldi, 2000, pp. 114-120 (Larry M. Ayres). 33 Le Bibbie Atlantiche…, pp. 262-271 (Lucinia Speciale). 34 Per la trasformazione dei programmi illustrativi nelle bibbie atlantiche cf. Giulia Orofino, «La decorazione delle Bibbie atlantiche fra Lazio e Toscana nella prima metà del XII secolo», Roma e la Riforma gregoriana. Tradizione e innovazioni artistiche (XI-XII secolo). Actes du colloque, Université de Lausanne 10-11 décembre 2004, a cura di S. Romano e J. Enckell Julliard, Roma, Viella, 2007, pp. 357-380. 35 Hanns Swarzenski, «A Chalice and the Book of Kings», De Artibus Opuscula XL. Essays in Honor of Erwin Panofsky, ed. by M. Meiss, New York, New York University Press, 1961, pp. 437-444; Piotr Skubiszewski, «The Iconography of a Romanesque Chalice from Trzemeszno», Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 34 (1971), pp. 40-64; Thomas Plóciennik, Piotr Skubisziewski, «Le Règne, le Sacerdoce et le Salut. Une cycle d’images et son commentaire épigraphique sur le calice roman de Trzemeszno», Qu’est-ce que nommer? L’image légendée entre monde monastique et pensée scolastique. Actes du colloque du RIMLA, Paris, INHA, 17-18 octobre 2008, par C. Heck, Turnhout, Brepols, 2010, pp. 145-167. 36 Th. Plóciennik, P. Skubisziewski, Le Règne, le Sacerdoce…, p. 149.
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la trasmissione ereditaria del potere a Salomone avviene alla presenza di Betsabea, come nella già menzionata Bibbia del Patrizio Leone, anche se nel calice il modello iconografico è derivato dall’episodio della benedizione di Giacobbe alla presenza di Rebecca. Come non vedere in queste immagini il dibattito che precedette e seguì il compromesso del Concordato di Worms? Mentre gli affreschi fatti realizzare da papa Innocenzo II nel 1138 in Laterano rappresentavano trionfalmente l’omaggio reso da Lotario III al pontefice, un omaggio che sarà violentemente censurato da Federico Barbarossa37, nel calice reale di Trzemeszno l’incoronazione del sovrano vede le gerarchie ecclesiastiche come semplici spettatrici-testimoni, mentre la cerimonia ha un significato strettamente politico. Le scene che seguono, dedicate ai miracoli di Elia ed Eliseo, rappresentano la celebrazione del clero riformato, secondo l’interpretazione di Ugo da San Vittore. In questo eccezionale calice dunque, l’oggetto liturgico più sacro, destinato a contenere il corpo e il sangue di Cristo, regnum e sacerdotium sono rappresentati, attraverso i loro modelli biblici, come ordines integrati, ma indipendenti, del corpo ecclesiale.38 Durante il “lungo” XII secolo39 non solo le crociate creano una nuova cassa di risonanza per le guerre veterotestamentarie, ma la nuova esegesi universitaria crea quello che Gilbert Dahan ha definito un «saut herméneutique» dall’approccio esistenziale della cultura monastica a quello scientifico-oggettivante della élite ecclesiastica in funzione pastorale40. In questo contesto i Libri dei Re conoscono una straordinaria diffusione, anche nelle corti, ove funzionano per i re coinvolti nella guerra per la liberazione del Santo Sepolcro come uno speculum principum. E ancora nel XIII secolo Enrico III (1216-1272) e Edoardo I (1272-1306) facevano dipingere nel Palazzo di Westminster, insieme ad episodi delle Cronache e dei Maccabei, una ricca selezione, senza confronti, di eventi dal IV Libro dei Re, che, a giudicare dagli acquarelli realizzati prima dell’incendio che distrusse il palazzo nel 1834, sembrano riflettere i principi espressi nel Policraticus di Giovanni di Salisbury, il Liber de principis instructione di Gerardo del Galles e il Liber de tyrannis, come ha dimostrato Paul Binski41. Analogamente a Parigi nell’entourage di Luigi IX (1214-1270), il ciclo dei Re godeva di ampio spazio sia nelle vetrate della Sainte Chapelle che nelle Bibles Moralisées: sebbene i due cicli siano stati spesso avvicinati per l’analoga mise en 37 Mary Stroll, Symbols as Power. The Papacy following the Investiture Context, Leiden-New York-København-Köln, Brill, 1991, pp. 188-192. 38 Th. Plóciennik, P. Skubisziewski, Le Règne, le Sacerdoce…, p. 160. 39 European Transformations: the Long Twelfth Century, ed. by T. F. X. Noble and J. Van Engen, Notre Dame Ind., Notre Dame University Press, 2012, in particolare il saggio di John Van Engen, «The Twelfth Century; Reading, Reason, and Revolt in a World of Costum», ibid., pp. 17-44. 40 Gilbert Dahan, «Les usages de l’allégorie dans l’exégèse médiévale de la Bible: exégèse monastique, exégèse universitaire», L’allégorie dans l’art du Moyen Âge. Foirmes et Fonctions. Héritages, créations, mutations. Actes du colloque du RIMLA, Institut Universitaire de France, Paris, INHA, 27-29 mai 2010, par C. Heck, Turnhout, Brepols 2011, pp. 25-35: 29. 41 Paul Binski, «The Painted Chamber at Westminster, the Fall of Tyrants and the English Literary Model of Governance», Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 74 (2011), pp. 121-154. Cf. Matthew M. Reeve, «The Painted Chmber, Edward I, and the Crusade», Viator, 37 (2006), 239-221.
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page e organizzazione visuale, essi differiscono sostanzialmente nel rapporto con il testo42; le Bibbie infatti sono il più ambizioso progetto di abbinare immagini, testo e commentario e obbligano con lo specifico layout il lettore a meditare sui commenti proposti43, generando nuovi cicli di immagini, che espandono l’immaginario visuale di tutti i libri, compresi quelli dei Re. L’identificazione del sovrano con il re David, prototipo del re cristiano, si accentua nel Salterio destinato all’uso personale del sovrano, il sontuoso ms. Latin 10525 della Bibliothèque nationale de France, ove è miniato un lungo ciclo prefatorio di 78 immagini veterotestamentarie, dal Genesi al I Libro di Samuele, alla fine del quale i salmi sono introdotti dalla figura dell’autore in preghiera, un’immagine di regalità e devozione che, come suggeriva Harvey Stahl44, esprime le ansietà di Luigi IX nei confonti del potere regale e della sua sacra trasmissione. Contemporaneamente ad Acri, nella capitale del regno crociato, nella Bibbia in antico francese, realizzata negli anni della visita del sovrano dopo la rovinosa campagna d’Egitto(1253-1254)45, metà dello spazio è occupato dai libri dei Giudici e dei Re, mentre i restanti testi sono abbreviati; il tema della regalità si incentra non solo su David, ma su Salomone, il grande costruttore del Tempio di Gerusalemme, di cui la Sainte Chapelle, fatta erigere dal re a Parigi, doveva essere figura. Ma Salomone è anche il campione della saggia giustizia e nel ms. 5211 è rappresentato ispirato dalla Sapienza Divina46, trasformando il ciclo narrativo in un sermone, secondo lo schema comunicativo degli ordini mendicanti, così vicini al sovrano francese: nello stesso tempo in Salomone si identifica la celebrazione del sovrano-messia, in una accezione cristiana della simbologia già presente a Doura Europos.
42 Robert Branner, «The Painted Medaillons in the Sainte Chapelle in Paris», Transactions of the American Philosophical Society in Paris, n.s., VIII/2 (1968), pp. 18-22; Louis Grodecki, La Sainte Chapelle, Paris, Caisse nationale des monuments historiques et des sites 1975; John Lowden, «Les rois et les reines en tant que “public” des Bibles moralisées: une approche tangentielle à la question de liens entre les Bibles moralisées et les vitreaux de la Sainte Chapelle», La Sainte Chapelle de Paris: Royaume de France ou Jerusalem céleste?, par C. Hediger, Turnhout, Brepols, 2007, pp. 345-362. Per le vetrate dei Libri dei Re si veda Maya Grossbacher, «Le vitrail des Rois: six panneaux provenant de la verrière des Nombres», ibid., pp. 295-314; Judith A. Kidd, Behind the Image. Understandig the Old Testament in medieval Art, Oxford-Bern-Berlin, Peter Lang, 2014, pp. 154-157. 43 John Lowden, «“Reading” Images and Texts in the Bibles moralisées. Images as Exegesis and the Exegesis of Images», Reading Images and Texts. Medieval Images and Text sas Forms of Communication. Papers from the Third Utrecht Symposium on Medieval Leteracy, Utrecht, 7-9 December 2000, ed. by M. Hagemann and M. Mostert, Turnhout, Brepols, 2005, pp. 495-525. 44 Harvey Stahl, Picturing Kingship. History and Painting in the Psalter of Saint Louis, University Park, Pesylvannia Univetsity Press, 2008, pp. 3-5. 45 Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 1152: cf. Daniel Weiss, Art and Crusade in the Age of Saint Louis, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 56-74 e 108. 46 L’immagine, all’inizio dei Proverbi (f. 307r), è stata avvicinata alla rappresentazione di Dante e melodia nei Salteri aristocratici bizantini, ma nel codice crociato la scena diviene una udienza formale nel Tempio di Gerusalemme, «figura» delle cerimonie regali nella Sainte Chapelle, trasformando Luigi IX nel legittimo erede dei re d’Israele: si veda Jroslav Folda, Crusader Art in the Holy Land, From the Third Crusade to the Fall of Acre, 1189-1291, Cambridge, Cambridge University Press 2005, pp. 282-294.
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A questo gruppo di straordinari codici di lusso legati alla corte di Luigi IX è stato avvicinato il Morgan Picture Book47, un lussuoso codice biblico, che dedica più di metà dei 346 episodi miniati alle vite di Saul e Davide, illustrate prevalentemente con scene di guerra, il cui schema uniforme è ravvivato da straordinari dettagli narrativi, tratti dalla tecnologia contemporanea. Privo di testo, che sarà aggiunto solo in forma di brevi didascalie forse a Napoli nel Trecento, il volume si rivolge a un aristocratico committente che ben conosce la narrazione biblica ed è abituato al ritmo narrativo delle chansons de geste e dell’Histoire d’Outremer, un utente che è soprattutto in grado di “meditare” sulle immagini, applicando il terzo modo di vedere indicato da Riccardo da San Vittore: Tertius visionis modus non fit oculis carnis, sed oculis cordis.48 Credo che nessun ciclo illustrativo medievale permetta di cogliere meglio di quello dei Libri dei Re il concetto di storia di questo lungo e diversificato periodo che definiamo Medioevo, una storia che si attua in una dimensione ove passato e presente sono legati da un complesso nesso tipologico, interpretabile a differenti livelli, ma comunque guida imprescindibile nel percorso del sovrano cristiano e del suo popolo verso la salvezza.
47 A Book of Old Testament Illustrations of the Middle of Thirteenth Century Sent by Cardinal Bernard Maciejowski to Shah Abbas the Great, King of Persia, now in the Pierpont Morgan Library, New York, Described by Sidney C. Cockerell, Introduction of Montague Rhodes James, Notes on the Armour by Charles J. Ffoulkes, Cambridge, The Roxburghe Club, 1927; The Book of Kings: Art, War, and The Morgan Library’s Medieval Picture Bible, ed. by William Noel and Daniel Weiss, London, III Millennium Publishing, 2002; Between the Picture and the Word. Manuscript Studies from the Index of Christian Art, ed. by Colum Hourihane, Princeton, Princeton University Press, 2005 Per una condividibile perplessità sulla committenza da parte della corte di Francia al tempo di Luigi IX si veda Alison Stones, «Questions of Style and Provenance in Morgan Picture Bible», ibid., pp. 112-121. 48 Madeline H. Caviness, «Images of divine order and the third mode of seeing», Gesta, 22/2 (1983), pp. 99-120: 18.
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1. Damasco, Museo Archeologico, Affreschi dalla Sinagoga di Doura Europos, Arca davanti al tempio di Dagon.
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2. Berlin, Staatsbibliothek, Cod. Theol.lat. fol.485, f. IIr: The Quedlinburg Itala, Saul e Samuele.
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3. Müstair, San Giovanni, Schema del ciclo pittorico (da Goll, Exner e Hirsch 2007)
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4. Roma, San Paolo fuori le Mura, Bibbia, f. 188v: Salomone.
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5. München, Bayerische Staatsbibliothek, ms. Clm 13001, ff. 24v-25r: Bibbia di Enrico IV, Salomone.
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6. Gniezno, Muzeum Archidiecezjalne: Calice di Trzemeszno, Davide in trono.
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7. Gniezno, Muzeum Archidiecezjalne: Calice di Trzemeszno, Trasmissione del potere a Salomone.
wolfgang Haubrichs
Poeme, Bilder, Kommentare Die Bibel im Gebrauch von Königen und Adligen der Karolingerzeit
Nam pictura tibi cum omni sit gratior arte, Scribendi ingrate non spernas posco laborem. Psallendi nisum, studium curamque legendi, Plus quia gramma valet quam vana in imagine forma, Plusque animae decoris praestat quam falsa colorum Pictura ostentans rerum non rite figuras. Nam scriptura pia norma est perfecta salutis, Et magis in rebus valet, et magis utilis omni est, Promptior est gustu, sensu perfectior atque Sensibus humanis, facilis magis arte tenenda. Auribus haec servit, labris, obtutibus atque, Illa oculis tantum pauca solamina praestat. Haec facie verum monstrat, et famine verum, Et sensu verum, iucunda et tempore multo est, Illa recens pascit visum, gravat atque vetusta, Deficiet propere veri et non fide sequestra est. (Hrabanus Maurus, Carmina, Nr. 38, coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae II, S. 196)
Biblische Versuchung und allegorischer Trost In den Jahren 851/52 sendet der Mönch und Theologe Angelomus von Luxeuil, zugleich Mitglied des kaiserlichen sacrum palatium, zusammen mit einer Widmungsepistel, an Kaiser Lothar (817-855), dessen Gemahlin Irmengarda kurz zuvor verstorben war, eine Auslegung des Canticum Canticorum1. Das «Hohe Lied» galt der Zeit als ein
1 Angelomus von Luxeuil, Epistola ad Lotharium imperatorem (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistolae .V, 2, pars XII, Suppl. Nr. 7, S. 625-630). Vgl. John J. Contreni, «Carolingian Biblical Studies», Carolingian Essays, hg. von U.-R. Blumenthal, Washington, The Catholic Univ. of America Press, 1983, S. 71-98, hier S. 88 f.; Silvia Cantelli, «L’esegesi al tempo di Ludovico il Pio e Carlo il Calvo», Giovanni Biblia regum. Bibbia dei re, Bibbia per i re, éd. par Franca Ela Consolino et Chiara Staiti, Turnhout, 2022 (Culture et société médiévales, 39), p. 185-219 © BREPOLS PUBLISHERS 10.1484/M.CSM-EB.5.124808
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Werk König Salomos und als ein tiefsinniges Lehrbuch. Zugleich aber fließt es als ursprüngliches jüdisches Hochzeitslied über von wundervoller erotischer Poesie und Bildlichkeit. Warum in dieser Situation gerade dieses Lied für den trauernden Kaiser? Der begleitende Brief des Angelomus sagt es uns: Der Kaiser hat es selbst gewünscht, ja befohlen, Lothars Onkel (patruus) Drogo, Erzbischof von Metz und Abt des Vogesenklosters Luxeuil, hat es erlaubt und unterstützt. Der Kaiser habe nämlich die Gewohnheit, nach der Erledigung der Staatsgeschäfte (post dispositionem rei publicae) sich vom Lärm der Reichsangelegenheiten zu erholen und sich in Kontemplation zurückzuziehen, jetzt vor allem, um sich dem Verlust der allerfrömmsten Gemahlin zu widmen (… in contemplatione se extendens a tumultu causarum imperii potissimum de amissione sanctissimae coniugis …), die längst mit Gottes Hilfe in der Gemeinschaft der Heiligen weile, und als solitarius zu seufzen und zu büßen – wie die einsame Turteltaube, deren Wesen es nach Aussage der Naturkundigen ist, dass sie, wenn sie einmal den Gemahl verliere, nach keinem andern Partner mehr verlange, sondern die Keuschheit bewahre und gewissermaßen eine Witwe (vidua) bleibe. Den kommentierenden libellus habe er, sagt Angelomus, zusammengestellt, damit der erhabene Kaiser dies Werk als Enchiridion und Handbüchlein besitze, damit er zu geeigneten Stunden, nach seinen Bemühungen um das Imperium, nach den Sorgen um die Kirche, es eindringlich lesen und zu seinem T r o s t die göttlichen Dinge erforschen möge (ut habeat vestra celsitudo velut enchiridion, hoc est manualem quodammodo libellum excerptum, quem congruis horis lectitare Deo favente post studia imperii, post sollicitudines ecclesiae ad consolationem divina rimando complaceat). Ein besonderes Anliegen ist es Angelomus, dem Kaiser einzuschärfen, dass es im «Hohen Lied» nichts Fleischliches und nichts Wörtliches zu finden gibt, sondern dass es in der Lektüre gilt, die darin enthaltenen Geheimnisse des allegorischen, des geistlichen Schriftsinns zu suchen (notandum est, quod in hoc libro nil carnale nilque hystoriale requirere debeat, sed allegoriarum misteria contineri non dubitet). Es würde nämlich in diesem Buch von Küssen gesprochen, von Brüsten, von weiblichen Wangen und Schenkeln (nominantur enim in hoc libro oscula, nominantur ubera, nominantur genae, nominantur femora). Wegen dieser Nennungen dürfe aber die Heilige Schrift keineswegs verachtet werden, sondern es müsse die darin sich äußernde große Barmherzigkeit Gottes verstanden werden, der, indem er die Glieder des Körpers aufruft, uns zu seiner Liebe ruft. Indem er bis zu den Niederungen der hässlichen körperlichen Liebe hinabsteige und sich im Sprechen erniedrige, lasse er uns zugleich zur geistigen Einsicht (ad intellectum) hinaufsteigen, weil wir aus dem Reden über solche Liebe lernen können, mit welcher virtus wir in der Liebe Gottes erglühen sollen – alles Menschliche ist nur ein Gleichnis! Durch die irdischen, vergänglichen Wörter hindurch lassen sich die ewigen Ideen erahnen (per terrena verba sperantur aeterna). Und gleich danach wiederholt Angelomus nochmals in
Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età Carolingia, hg. von C. Leonardi und E. Menesto, Spoleto, CISAM, 1989, S. 261-336, hier S. 271-278; Michael M. Gorman, «The Commentary on Genesis of Angelomus of Luxeuil and Biblical Studies under Lothar», Studi Medievali 40 (1999), S. 559-631, hier S. 561-569.
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eindringlicher Ansprache: «Oh, unbesiegter Kaiser, wir beten, dass Du in diesem Buche nichts Wörtliches suchen, sondern die Blüten der Allegorien mit sittsamem Ernst erforschen mögest, mit moralischem Ernst, den wir auch an einigen Stellen ob tuam consolationem explizit eingefügt haben.» – Das heißt wirklich, mit süßem Gift zu trösten! Consolatio ist aber dennoch das Motiv, aus dem heraus der Theologe von Luxeuil dem Kaiser seinen Kommentar widmet. Wir treffen dieses Motiv auch unter anderen Umständen wieder: So tröstet Prudentius, der spätere Bischof von Troyes (in der Champagne) um 830/33 eine in Schwierigkeiten befindliche matrona nobilis mit einer Blütenlese aus den Psalmen2. Schon vorher, im Jahre 793, ermahnt Alkuin, der einflussreiche, am Hofe Karls des Großen wirkende Angelsachse, in einem Brief eine clarissima Dei famula namens Gisela, vermutlich die gleichnamige Schwester Karls und Äbtissin von Chelles, zur Lektüre der heiligen Schriften3: Harum te litterarum sedula reficiat lectio, quia in illis agnoscitur Deus, in illis vitae aeternae gloria adnuntiatur, in illis quid credere, quid sperare, quid amare vel quid fugere debeamus, ostenditur. Hier wie bei Lothar wird klar, dass Adlige und Könige seit der Karolingerzeit in der Lage sind, die heiligen Schriften zu lesen (oder sie sich von lectores vorlesen zu lassen). Sie besitzen diese Schriften auch. Das lässt sich an vielen in den Bibliotheken des Adels befindlichen oder eigens für sie – oft als Prachtexemplare – gefertigten Bibelhandschriften aufzeigen4.
Die Bibel der Könige und des Adels Einige Beispiele: Alkuin, auch Abt von St Martin in Tours, der ja neben dem Spanier und Wisigoten Theodulf von Orléans mit Reform und Emendation der Bibel beauftragt war, sandte Karl dem Großen eine sogenannte bibliotheca, einen vollständigen Bibelcodex, zusammen mit einem Widmungsgedicht von 204 Versen, in denen detailliert der Nutzen der einzelnen heiligen Schriften angesprochen wird5.
2 Prudentius von Troyes, Prologus de floribus psalmorum (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistolae V, 1, pars VII, Nr. 17, S. 323-324). Vgl. coll. Patrologia Latina 115, 1449-1452. 3 Alcuinus, Epist., Nr. 15 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistolae IV, S. 40-42). 4 Vgl. Pierre Riché, Die Welt der Karolinger, 2. Auflage, Stuttgart, Reclam, 1999, S. 268-273; Rosamond McKitterick, The Carolingians and the Written Word, Cambridge, CUP, 1989, S. 211-270; Wolfgang Haubrichs, Die Anfänge. Versuche volkssprachiger Schriftlichkeit im frühen Mittelalter, 2. Auflage, Tübingen, Niemeyer, 1995 (Geschichte der deutschen Literatur von den Anfängen bis zum Beginn der Neuzeit I, 1), S. 204-211; Fabrizio Crivelli, «Il ruolo della corte nell’arte carolingia. Le testimonianze dei manoscritti miniati», Le corti nell’alto Medioevo. Settimane di studio del CISAM 62, Spoleto, 2015, S. 653-666. Skeptisch zur Rolle der Höfe Lawrence Nees, «Networks or schools? Production of illuminated manuscripts and ivories during the reign of Charlemagne», Charlemagne: Les temps, les spaces, les hommes. Construction et deconstruction d’un règne, hg. v. R. Grosse und M. Sot, Turnhout, Brepols, 2018, S. 387-407. 5 Alcuinus, Carmina, Nr. LXIX (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae I, S. 288-292). Vgl. zu Alkuins Bibelgedicht und seiner Verwendung in karolingischen Bibelhandschriften Wilhelm Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, Die Schule von Tours. Die Ornamentik, Berlin, Verlag Bruno Cassirer, 1930 (Nachdruck 1963), S. 108-110.
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Theodulf wiederum verfasste für einen Bibelcodex eine Praefatio Bibliothecae und einen Epilog von insgesamt 310 Versen, in denen er den Inhalt der biblischen Bücher referierte und (im Epilog) ihren Nutzen erörterte6. Noch ausführlicher, mit einer Serie von Kommentargedichten, ist die Prachtbibel (Paris B.N. lat. 1) ausgestattet, die Graf und Laienabt Vivian von Tours-Marmoutier (heros Vivianus, wie er sich selbst nennt) dem westfränkischen König Karl dem Kahlen c. 845/46 überreichte7 (I, v. 1 f.): Rex benedicte, tibi haec placeat biblioteca, Carle, Testamenta duo quae relegens gerit. Der König wird hier nicht nur als humilis, als demütiger Christ angesprochen, sondern ist auch prudens, weise. Dieser inclitus rex Carolus ist der Glanz des Volkes, das Licht der Welt, der Ruhm des Reichs, der Erste an Güte und in seiner Frömmigkeit nicht geringer, auch als der Gerechteste allen andern voraus (I, v. 191-193): Es splendor populi, lux mundi, gloria regni, Et bonitate prior nec pietate minor, Nunc etiam cunctis praelatus iustius… Der Kraft nach gleiche er David, dem Geiste nach Salomon, der Schönheit nach dem ägyptischen Joseph – er solle nun aus dem Werk der Bibel geistlichen Nutzen ziehen. Denn der rex bonus, der rex sapiens, der rex prudens, der rex venerandus und almus hat seine Herrschaft empfangen von Jesus, dessen Wort die Bibel verkündet. Man sieht, wie der Preis des Königs nicht nur die biblischen Vorbilder beschwört, in deren imitatio er steht, sondern auch mit dem Lob herrscherlicher Güte und Frömmigkeit und Gerechtigkeit die Sphäre der Christusförmigkeit streift. Der Herrscher genießt eine Erziehung durch die Bibel und gibt seine erworbene sapientia weiter an sein Volk, wird ein zweiter Hieronymus, so wie sich in der Bibel das Portrait des übersetzenden und diktierenden Hieronymus und das Portrait des Herrschers auf dem Thron begegnen. Herbert L. Kessler formuliert: «The poems 6 Theodulfi Carmina, Nr. XLI, 1-4 (coll. Monumenta Germaniae Historica,Poetae I, S. 532-540). 7 Bibliothecarum et psalteriorum versus, Nr. III (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae III, S. 243252). Vgl. Wilhelm Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, S. 237-241, 250-255, 396-401; Bd. I, 2, Berlin, 1933 (Nachdruck 1963), S. 27-65; Florentine Mütherich und Joachim E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, München, Prestel-Verlag, 1976, S. 75-81; Herbert L. Kessler, The Illustrated Bibles from Tours, Princeton, Princeton Univ. Press, 1977, S. 5f; 125-135 (zum Ideal des «David rex et propheta» S. 96-110); Rosamond McKitterick, «Charles the Bald (823-877) and his library: the patronage of learning», The English Historical Review 95 (1980), S. 28-47, hier S. 17 (in diesem Aufsatz auch grundlegend zur Bildung und dem theologischen Interesse Karls des Kahlen); Peter Godman, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poetry, Oxford, Clarendon Press, 1987, S. 173 f.; Herbert L. Kessler und Paul E. Dutton, The Poetry and Painting of the First Bible of Charles the Bald, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1997, vor allem S. 89-101 (identifizieren den Arrangeur der Bibel und Verfasser der Widmungsgedichte mit Audradus Modicus von Sens – vgl. u. Anm. 113); David Ganz, «The Vatican Vergil and the Jerome Page in the First Bible of Charles the Bald», Under the Influence. The Concept of Influence and the Study of Illuminated Manuscripts, hg. von J. Lowden und A. Bovey, Turnhout, Brepols, 2007, S. 45-50; Anne-Orange Poilpré, «Dans et avec le livre: Jérôme, David et les souverains carolingiens», IMAGO LIBRI. Représentations carolingiennes du livre, hg. von C. Denoel, A.-O. Poilpré und S. Shimahara, Turnhout, Brepols, 2018, S. 85-98, hier S. 88-97.
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of the First Bible interact with the miniatures to imagine a living monarch who has read and reread the Bible and, hence, stands in the verge of becoming Scripture’s true agent and embodiment». Anne-Orange Poilpré hat daher zu Recht betont, dass mit den königlichen Prachtbibeln ein Dialog zwischen dem König und seinen biblischen, alttestamentarischen, königlichen Vorbildern eröffnet wurde. Durch die Adressierung der Könige wird seit der ersten Hälfte des 9. Jahrhunderts der Bibel ein neuer legitimierender und programmatischer Status zuerkannt. Eine zweite Bibel – biblorum seriem (Paris B.N. lat. 2, Provenienz St Denis) – erhielt Karl der Kahle wohl aus St Amand 871/73, ebenfalls mit einem Widmungsgedicht8. Wiederum wird die königliche imitatio Davids und Salomos und sogar des Dulders Hiob hervorgehoben, als er den Verlust seines gleichnamigen Sohnes erleben musste. Der konsolatorische Impetus ist unverkennbar. Für Karl den Kahlen und seine Gemahlin Richildis scheint auch die um 870 (in Reims?) entstandene, luxuriös mit Miniaturen ausgestattete Bibel von San Paolo fuori le Mura (Rom)9 bestimmt gewesen zu sein, an der ein scriba fidelis mit Namen Ingobertus mitwirkte (II, v. 58) und die erneut Kommentargedichte zu einzelnen Sektionen und Büchern enthält10. Auch für die laut seines Testaments11 fünfzig Bücher umfassende Bibliothek des Markgrafen Eberhard von Friaul († 864), der aus einem in Flandern, Nordfrankreich und Alemannien begüterten Geschlecht stammte12, wird nostra bibliotheca, also wohl
8 Bibliothecarum et psalteriorum versus, Nr. V (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae. III, S. 255-257). Vgl. F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 126-128; Rosamund McKitterick, «Manuscripts and scriptoria in the reign of Charles the Bald, 840-877», Giovanni Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età Carolingia, hg. von C. Leonardi und E. Menesto, Spoleto, CISAM, 1989, S. 201-233, hier S. 220. 9 Vgl. Herbert Schade, «Studien zu der karolingischen Bilderbibel aus St Paul vor den Mauern in Rom», I, Wallraf-Richartz-Jahrbuch 21 (1959), S. 9-40; II, ibid. 22 (1960), S. 13-48; Joachim E. Gaehde, «The Bible of San Paolo fuori le mura in Rome: its date and its relation to Charles the Bald», Gesta 5 (1966), S. 9-21; Id., «The Turonian Sources of the Bible of San Paolo fuori le Mura in Rome», Frühmittelalterliche Studien 5 (1971), S. 359-400, besonders S. 381-386; H. L. Kessler, The Illustrated Bibles…, S. 6 f., 135-138; F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 114-121; La Bibbia di San Paolo fuori le Mura, hg. von V. Jemolo und M. Morelli, Roma, De Luca Editore, 1981; La Bibbia di San Paolo fuori le Mura, Faksimile-Edition und Commentario storico, paleografico, artistico critico, hg. von A. Pratesi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1993; Nikolaus Staubach, Rex Christianus: Hofkultur und Herrschaftspropaganda im Reich Karls des Kahlen, Bd. 2, Köln, Böhlau Verlag, 1993; S. 234-261; La Bibbia carolingia dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, hg. von M. Cardinali, Città del Vaticano, Edizioni Abbazia San Paolo, 2009; A.-O. Poilpré, «Dans et avec le livre…», S. 88-97. Auf ein Evangeliar aus der Hofschule Karls des Kahlen in Rom weist hin: Fabrizio Crivello, «Tracce di un Evangeliario della scuola di corte di Carlo il Calvo a Roma», Studi Medievali, ser. III, 44 (2003), S. 795-809. 10 Bibliothecarum et psalteriorum versus, Nr. VI (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae III, S. 257-264). 11 Cartulaire de l’Abbaye de Cysoing et ses dépendances, hg. von I. De Coussemaker, Lille, Société de Saint-Augustin, 1883, S. 1-5. 12 Vgl. Philippe Grierson, «La maison d’Evrard de Frioul et les origines du comté de Flandre», Revue du Nord 24 (1938), S. 241-266; Eduard Hlawitschka, Franken, Alemannen und Burgunder in Oberitalien (774-962), Freiburg im Breisgau, Eberhard Albert Verlag, 1960, S. 169-172; H. Schmidinger, «Eberhard Markgraf von Friaul», Lexikon des Mittelalters, Bd. 3, München-Zürich, Artemis Verlag, 1986, Sp. 1513; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 245-248; Christina La Rocca und Luigi Provero, «The Dead and their Gifts. The Will of Eberhard, Count of Friuli, and his Wife Gisela, Daughter
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eine Ganzbibel-Handschrift als Grundausstattung der capella dieses Hochadligen genannt, der Gisela, die Tochter Kaiser Ludwigs des Frommen, geheiratet hatte13. Auch Graf Eccard von Macon/Autun († c. 876), aus einer Nebenlinie der Karolinger stammend14, besaß eine bibliotheca, wie sein Testament von 876 bezeugt15.
Die Bedeutung der Psalmen Es wundert nicht, dass in der Produktion von Manuskripten für Könige und adlige Laien der Psalter – und zwar meistens in Prachtausstattung – eine bedeutende Rolle spielt16, denn an diesem Buch lernte man lesen und beten. Karl der Große besaß ein psalterium aureum, einen mit Goldbuchstaben geschriebenen Psalter (Cod. Vind. 1861), den er vor 795 Papst Hadrian schenkte; ebenso verfügte seine Gemahlin Hildegard of Louis the Pious (863-864)», Rituals of Power. From Late Antiquity to the Early Middle Ages, hg. von F. Theuws und J. L. Nelson, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2000 (The Transformation of the Roman World, vol. II), S. 225-280; Paul J. E. Kershaw, «Eberhard of Friuli, a Carolingian lay intellectual», Lay intellectuals in the Carolingian world, hg. von Patrick Wormald und Janet L. Nelson, Cambridge, CUP, 2007, S. 77-105. 13 Vgl. Pierre Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates laics carolingiens», Le Moyen Âge 69 (1963), S. 87-104, hier S. 97. 14 Vgl. Léon Levillain, «Les Nibelungen historiques», Annales du Midi 49 (1937), S. 337-408; 50 (1938), S. 5-66. 15 Recueil des chartes de l’abbaye de Saint-Benoit-sur-Loire, hg. von M. Prou und A. Vidier, Bd. I, Paris, A. Picard et Fils, 1907, S. 59-67. Vgl. P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 101; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 248 f. 16 Zur Bedeutung des Psalters im Mittelalter, insbesondere auch für die Bildung vgl. z. B. Pierre Riché, Éducation et culture dans l’Occident barbare (viie-viiie siècles), Paris, Éditions du Seuil, 1962, S. 515 f.; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 217 f., 246 f., 255; Klaus Schreiner, «Psalmen in Liturgie, Frömmigkeit und Alltag des Mittelalters», in: Der Landgrafenpsalter. Vollständige Faksimileausgabe im Originalformat der Handschrift HB II 24 der Württembergischen Landesbibliothek Stuttgart, Kommentarband, hg. von Felix Heinzer (Codices Selecti 113), Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1992, S. 141-183; Id., «Der Psalter. Theologische Symbolik, frommer Gebrauch und lebensweltliche Pragmatik einer heiligen Schrift in Kirche und Gesellschaft des Mittelalters», Metamorphosen der Bibel, hg. von R. Plate und A. Rapp, Bern-Berlin, Peter Lang, 2003 (Vestigia Bibliae 24/25), S. 9-45; Mittelalterliche Andachtsbücher. Psalterien. Stundenbücher. Gebetsbücher. Zeugnisse europäischer Frömmigkeit, hg. von H.-P. Geh und G. Römer, bearbeitet von F. Heinzer und G. Stamm, Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, 1992, S. 11-54; Wolfgang Haubrichs, «Arcana Regum. Der althochdeutsche hundertachtunddreißigste Psalm und die Synode zu Tribur (895)», Architectura Poetica. Festschrift für Johannes Rathofer, hg. von U. Ernst und B. Sowinski, Köln-Wien, Böhlau Verlag, 1990, S. 67-106; Christoph Eggenberger, «Das Psalterbild als Exegese», Testo e Immagine nell’alto medioevo (Settimane di studio CISAM 41), Bd. 2, Spoleto, 1994, S. 773-800; R. Peppermüller et al., «Psalmen, Psalter», Lexikon des Mittelalters, Bd. 7, München-Zürich, Artemis Verlag, 1995, Sp. 296-302; Felix Heinzer, Wörtliche Bilder. Zur Funktion der Literal-Illustration im Stuttgarter Psalter (um 830), Berlin-Boston, De Gruyter, 2005; Valerie Garver, «Learned women? Liutberga and the instruction of Carolingian women», Lay Intellectuals in the Carolingian World, hg. von P. Wormald and J. Nelson, Cambridge, CUP, 2007, S. 121-138, hier S. 131-133; Pierre Riché, L’enseignement au Moyen Âge, Paris, CNRS Éditions, 2016, S. 65-69. Zur Funktion von Prunkpsaltern für Herrscher vgl. Jürgen Geiss-Wunderlich, Der Psalter Ludwigs des Deutschen. Staatsbibliothek zu Berlin – Preußischer Kulturbesitz, Ms. theol. lat. fol. 58. Kommentar, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 2021, S. 26-56.
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über einen Psalter litteris aureis scriptum, der später an St Denis ging17. Geschrieben wurde der Psalter vom Schreiber (scriptor regius) Dagulf, der wohl der Hofschule angehörte und von dessen Tätigkeit und Schülern weitere Nachrichten Zeugnis geben18. Für Karls gleichnamigen Enkel Karl den Kahlen schrieb ein Liuthard 842/46 ebenfalls einen für den persönlichen Gebrauch bestimmten Goldpsalter (Paris B.N. lat. 1152). William J. Diebold hat gezeigt, dass die Konzeption des Psalters in Bildern (auch in den Elfenbeinskulpturen des originalen Einbands) und Texten Karl den Kahlen mit David, dem königlichen Dichter der Psalmen, aber auch Gesetzgeber, mit Hieronymus, dem Übersetzer und nach mittelalterlicher Auffassung zweitem Autor der Psalmen, und mit dem jüdischen König Josiah sowie dem römischen Kaiser Theodosius als weiteren frommen Gesetzgebern parallelisiert19. Im Auftrag von und für Kaiser Lothar I. wurde mit Widmungsgedicht zwischen 842 und 855 der Londoner Psalter (London, British Library Add. Ms. 37768) geschrieben20. Der
17 Versus libris saeculi octavi adiecti, Nr. IV (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 91-92). Für den Hildegard-Psalter vgl. Florentine Mütherich, «Manuscrits enluminés autour de Hildegarde», Actes du colloque «Autour de Hildegarde», hg. von P. Riché, C. Heitz und F. Heber-Suffrin, Paris, Université Paris X Nanterre, 1987, S. 49-55; D. Bullough, «Charlemagne’s Court Library Revisited», Early Medieval Europe 12 (2004), S. 339-363, hier S. 341. 18 Vgl. ibid. S. 87 f.; ferner: Wilhelm Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 2: Die Hofschule Karls des Großen, Berlin, Deutscher Verein für Kunstwissenschaft, 1958, S. 34-41, 83-87; Der Goldene Psalter. «DagulfPsalter». Codex 1861 der Österreichischen Nationalbibliothek. Vollständiges Faksimile und Kommentar von Kurt Holter, Graz, Akademische Verlagsanstalt, 1980; Katharina Bierbrauer, «Dagulf-Psalter», Lexikon des Mittelalters, Bd. 3 (1986), München-Zürich, Artemis-Verlag, Sp. 432; P. Godman, Poets and Emperors…, S. 65; Lawrence Nees, «Carolingian Art and Politics», «The Gentle Voices of Teachers»: Aspects of Learning in the Carolingian Age, hg. von R. E. Sullivan, Columbus, Ohio State Univ. Press, 1995, S. 186-226, hier S. 189-191; Rainer Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», Karl der Große. Wissenschaft und Kunst als Herausforderung, hg. von J. Fried, Mainz-Stuttgart, Akademie der Wissenschaften und Literatur, 2018, S. 69-119, hier S. 70-71; F. Crivello, «Il ruolo della corte…»; A.-O. Poilpré, «Dans et avec le livre…», S. 86-88. 19 Bibliothecarum et psalteriorum versus, Nr. I (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae III, S. 243). Vgl. J. E. Gaehde, «The Bible of San Paolo…», S. 11 f. (dort auch zu den um Karl den Kahlen gruppierten Handschriften der Liuthard-Gruppe) ; Wilhelm Koehler und Florentine Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 5: Die Hofschule Karls des Kahlen, Text, Berlin, Deutscher Verlag für Kunstwissenschaft, 1982, S. 10, 54-57, 132-143; R. McKitterick, «Charles the Bald…», S. 17 f.; Id., The Carolingians and the Written Word, S. 268 f.; William J. Diebold, «Verbal, Visual, and Cultural Literacy in Medieval Art: Word and Image in the Psalter of Charles the Bald», Word and Image 8 (1992), S. 89-99; Lawrence Nees, «Carolingian Art and Politics», S. 202-212; Marie-Pierre Lafitte und Charlotte Denoel, Trésors carolingiens. Livres manuscrits de Charlemagne à Charles le Chauve, Paris, Bibliothèque Nationale de France, 2007, no. 15. Vgl. auch das Münchner Gebetbuch Karls des Kahlen, das mit den Elfenbeinplatten seines Einbands den ebenfalls im Besitz Karls befindlichen berühmten Utrecht-Psalter kopierte (Psalm 24 und 26) – genau wie der Psalter des Königs (Psalm 50 und 56): Robert Deshman, «The Exaltant Servant: The Ruler Theology of the Prayerbook of Charles the Bald», Viator 2 (1980), S. 385-417, hier S. 404, 412. 20 Verse in Miniaturenhandschriften: Psalter Kaiser Lothars (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae VI, S. 163 f.). Vgl. Wilhelm Koehler und Florentine Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 4: Die Hofschule Kaiser Lothars. Einzelhandschriften aus Lotharingien, Textband, Berlin, Deutscher Verlag für Kunstwissenschaft, 1971, S. 24-30, 35-46; Rosamund McKitterick, «Frankish Uncial: a new context for the work of the Echternach scriptorium», in Ead., Books, Scribes and Learning in the Frankish Kingdom, 6th-9th Centuries, Aldershot, Variorum, 1994, Nr. VI, S. 1-15.
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Psalter Ludwigs des Deutschen (Berlin, Staatsbibl. Ms. Theol. Lat. f. 58), geschrieben im zweiten Viertel des 9. Jahrhunderts im Bereich der frankosächsischen Schule von Saint-Quentin21, trägt die Inschrift HLVDOVVICO REGI VITA SALVS FELICITAS PERPES, eine Herrscher-Akklamation, bezeugt also die weitreichenden Bindungen des zunächst in seinem Herrschaftsbereich auf Bayern beschränkten zweiten Sohnes Ludwigs des Frommen. Neben den flores psalmorum, die der oben erwähnte Prudentius für eine Aristokratin schrieb, sind Psalterien auch für die beiden Adelsbibliotheken, von denen wir genauere Kenntnisse haben, belegt: Bei Eberhard von Friaul erneut ein Goldpsalter und ein schon im 8. Jahrhundert geschriebenes Exemplar des seltenen gallikanischen Doppelpsalters, der auch die Psalmen iuxta Ebraeos enthielt (Cod. Vat. Reginensis 11), sowie zwei Gebrauchspsalter, einen für den Markgrafen und einen zweiten (mit Kommentar) für seine Frau22: Psalterium cum sua expositione … quem Gisla ad opus suum habuit; bei Graf Eccard finden wir 876 einen kleinen Psalter, sicherlich für den eigenen Gebrauch bestimmt, und schließlich eines der geläufigen Gebetbücher, libellus cum orationibus et psalmis23. Theodulf, später Bischof von Orléans (c. 798-821), wiederum schenkte schon viel früher einen Goldpsalter, gefertigt auf purpurnem Pergament, seiner mit einem Suavericus verheirateten Tochter Gisla24: Gisla, favente deo venerabile suscipe donum, Quod tibi Theudulfus dat pater ecce tuus. Nam tibi psalterium praecepi scribere istud, Argento atque auro quod radiare vides. Auch Dhuoda, Gattin des Markgrafen Bernhard von Septimanien, muss einen Psalter besessen haben und dazu Alkuins Kommentar, aus dem sie in ihrem 841/43
21 F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 66 f.; Ewald Jammers, «Der sog. Ludwigspsalter als geschichtliches Dokument», Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins 103 (1955), S. 259-271; neu in: E. Jammers, Schrift, Ordnung, Gestalt. Gesammelte Aufsätze zur älteren Musikgeschichte, Bern-München, Francke Verlag, 1969, S. 86-102; dazu: Bernhard Bischoff, «Bücher am Hofe Ludwigs des Deutschen und die Privatbibliothek des Kanzlers Grimalt», Id., Mittelalterliche Studien, Bd. 3, Stuttgart, Anton Hiersemann, 1981, S. 187-212, hier S. 189 f. (dort auch Hinweis auf einen zweiten mit Ludwig dem Deutschen zusammenhängenden Psalter); R. Deshman, «The Exalted Servant…», S. 387 f.; R. McKitterick, «Frankish Uncial…», S. 15 mit Anm. 44. Wie der Texteintrag ARNOLFVS über der anbetenden, adlig gewandeten Figur in der nachträglich in den Codex eingefügten Kreuzigungsdarstellung zeigt, scheint der Psalter später in den Besitz von Ludwigs Enkel Arnulf (König 887-899, Kaiser ab 896) übergegangen zu sein: Fabrizio Crivello, «Ein Name für das Herrscherbild des Ludwigspsalters», Kunstchronik 6 (2007) 216-219; J. Geiss-Wunderlich, Der Psalter Ludwigs des Deutschen…, S. 54. 22 P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 97; Janet L. Nelson, «Les femmes et l’évangélisation au ixe siècle», Revue du Nord 68 (1986), S. 471-485, hier S. 475. Zum Doppelpsalter vgl. André Wilmart, «Le psautier de la Reine N. XI. Sa provenance et sa date», Revue Bénédictine 28 (1911), S. 342-376, hier S. 365-369. Er trug auch (auf f. 236v) den Vermerk EVVRARDUS. 23 P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 101. 24 Theodulfi Carmina, Nr. XLIII: Ad Gislam (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 541 f.). Vgl. A. Wilmart, «Le psautier de la Reine…», S. 356.
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entstandenen Liber Manualis25, einem für ihre Söhne geschriebenen “miroir de laics”, extensiv zitierte. Es war das Buch, das ihr Inspiration und Trost spendete. Pierre Riché konstatiert: «Cette familiarité avec le Psautier n’a rien d’étonnant lorsque l’on sait le rôle que ce livre jouait dans l’éducation et la culture depuis le vie siècle»26. Der Schreiber Abundius schrieb zwischen 883 und 900 einen mit Goldinitialen ausgestatteten Prunkpsalter für den privaten Gebrauch eines im Raum von Reims zu verortenden comes Achadeus27. Die Sächsin Liutberga gab jungen Mädchen sogar Unterricht im Psalmengesang28. Wer sich die Handschrift eines Psalters nicht leisten konnte, konnte sich doch einen leihen: Erstaunlich die hohe Anzahl solcher Stücke in karolingischen Ausleihverzeichnissen. Aus der Kölner Dombibliothek entlieh c. 833 ein Neffe Erzbischofs Hildebald ein psalterium29. Für das nur ungefähr in das ausgehende 9. bzw. beginnende 10. Jahrhundert zu datierende Weißenburger Ausleihverzeichnis sind Psalter-Entleihungen der Witwe eines Gerold, der Gemahlin eines Reinbold und einer domna Liutgart belegt. Ein Lantfrid hatte sogar vier geistliche Bücher entliehen, ein Missionale, ein Lektionar und einen Psalter30. Diese Ausleihen zeigen zugleich das Attachement von Laien an Klöster in der Karolingerzeit, eine Bindung, die auch die Voraussetzung für die volkssprachigen Bibelepen der späten Karolingerzeit bildet. Hier darf man nicht den althochdeutschen Psalm 138 vergessen, ein außerordentliches, in Volkssprache (mit Endreim) gedichtetes Stück, in dem es um den König
25 Dhuoda, Manuel pour mon fils, hg. und übersetzt von Pierre Riché, Paris, Les Éditions du Cerf, 1975 (Sources chretiennes, Bd. 225); Joachim Wollasch, «Eine adlige Familie des frühen Mittelalters. Ihr Selbstverständnis und ihre Wirklichkeit», Archiv für Kulturgeschichte 39 (1957), S. 150-188, zur Psalterkenntnis S. 180 f.; Peter Dronke, Women Writers of the Middle Ages, Cambridge, CUP, 1984, S. 36-54; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 223-225, 236 f.; Rosamund McKitterick, «Women and Literacy in the Early Middle Ages (1991)», in Ead., Books, Scribes and Learning ..., S. 1-43, hier S. 23, 31; G. Bernt, «Dhuoda», Lexikon des Mittelalters, Bd. 3, München-Zürich, Artemis Verlag. 1986, Sp. 934; Dhuoda, Handbook for her Warrior Son: Liber Manualis, hg. und übersetzt von Marcelle Thiébaux, Cambridge, CUP, 1998; Janet L. Nelson, «Les femmes et l’évangélisation…», S. 475 f.; Id., «Women and the Word in the Earlier Middle Ages», in: J. L. Nelson, The Frankish World 750-99, London-Rio Grande, Hambledon Press, 1996, S. 199-221, hier S. 206, 213; Id., «Dhuoda», Lay Intellectuals in the Carolingian World, hg. von P. Wormald und J. L. Nelson, Cambridge, CUP, 2007, S. 106-120; Jinty Nelson, «Lay Readers of the Bible in the Carolingian Ninth Century», Reading the Bible in the Middle Ages, hg. von J. Nelson und D. Kempf, London-New Delhi, Bloomsbury, 2015, S. 43-55, 199-208, hier S. 52-55; M. De Jong, «Carolingian political discourse and the biblical past: Hraban, Dhuoda, Radbert», in The Resources of the Past in Early Medieval Europe, hg. v. C. Gantner, R. McKitterick und S. Meeder, Cambridge, CUP, 2015, S. 87-102, hier S. 94-98. 26 P. Riché , «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 94 f. Für den sog. Mondsee-Psalter (Montpellier, Faculté de la Médecine, ms. 409) nimmt die Forschung an, dass er – vor 788 – für den bayerischen Herzog Tassilo III. gefertigt wurde: Ch. Eggenberger, «Zu den beiden Miniaturen im Mondsee-Psalter», Atti del Sesto Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Bd. 2, Spoleto, CISAM, 1980, S. 383-392 (mit 6 Abb.). 27 R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 260. 28 J. L. Nelson, «Les femmes et l’évangelisation…», S. 477. 29 R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 263. 30 Otto Lerche, «Das älteste Ausleihverzeichnis einer deutschen Bibliothek», Zentralblatt für Bibliothekswesen 27 (1910), S. 441-450; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 264.
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geht, der sein Geschick demütig in die Hände des allmächtigen und hilfreichen Gottes legt, der aber auch ein kriegerischer Gott ist, wie der König ein kriegerischer König ist. Gott erscheint gegen den Psalmentext mit einem Heer, er lenkt die Schlachten, er ist der Gott, dessen Ruhm der betende König, der seine gerechte Herrschaft im Namen Gottes errichtet, im Kampf gegen seine Feinde ausbreiten will. Das Thema, das verhandelt wird, ist das der gerechten Herrschaft, die von Gott ist (und im Einklang mit den Repräsentanten Gottes auf Erden handelt), und der ungerechten, von der sich ein vorbildlicher König, ein frommer Herrscher, ein novus David, abzuwenden hat. Der Psalm ist im Formelbuch des Bischofs Waldo von Freising (883-906) überliefert, eines der wichtigsten Berater König Arnulfs. Man hat wahrscheinlich gemacht, dass der althochdeutsche Psalm zum Vortrag bei der Synode von Trebur a. 895 bestimmt war, in der bei Anwesenheit des Bischofs Waldo sich die feierliche Einigung zwischen König und Reichskirche vollzog, zu der man prominent – und das ist fast einzigartig – gerade diesen Psalm zitierte31.
Vom Anbeginn der Welt an: Oktateuch und Pentateuch Ungewöhnlich, aber doch wichtig für den Gebrauch von Königen, ist die Gabe des Oktateuchs, der neben dem Pentateuch auch das Buch Josua, das Buch der Richter (liber judicum) und das Buch Ruth (der Urgroßmutter König Davids) aus der Frühzeit Israels enthielt. Auf Karls des Großen Befehl hatte schon der presbyter Vvichbodo oder Wigbod (St Maximin, Trier?) aus dem Umkreis Alkuins wohl um 796 aus den Schriften der Väter für den König einen Kommentar zu Genesis und Oktateuch verfasst32. Dem Sohne Karls, Ludwig dem Frommen, verfertigte der Priester und spätere Bischof (ab c. 816) Claudius von Turin, ein in Lyon unter Erzbischof Leidrad ausgebildeter Spanier, einen Genesis-Kommentar (Paris BN lat. 9575): Ludwig hatte ihn dazu (vor 811) und zum Bibel-Unterricht eigens an seine Pfalz Chasseneuil bei Poitiers, später nach Ébreuil (Allier, bei Gannat) und Aachen berufen33. Auch sein ältester Sohn
31 Vgl. Haubrichs, «Arcana regum…», S. 67-106. 32 Versus libris saeculi octavi adiecti, Nr. VIII (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae. I, S. 88, 95-97; coll. Patrologia Latina 93, 233-430, fälschlich unter dem Namen von Beda Venerabilis; coll. Patrologia Latina 96, 1101-1168, Teilpublikation). Vgl. Wilhelm Levison, England and the Continent in the Eighth Century, Oxford, Clarendon Press, 1946, S. 128 f.; Michael M. Gorman, «The Encyclopedic Commentary on Genesis prepared for Charlemagne by Wigbod», Recherches Augustiniennes 17 (1982), S. 173-201; Id., «Wigbod and Biblical Studies under Charlemagne», Revue Bénédictine 107 (1997), S. 40-76; J. J. Contreni, «Carolingian Biblical Studies», S. 85; John J. Contreni, «Learning in the Early Middle Ages», Id., Carolingian Learning, Masters and Manuscripts, Gower House (GB)-Brookfield (Vermont), Variorum Ashgate Publishing, Nr. I, S. 1-21, hier S. 16; P. Godman, Poets and Emperors…, S. 47; Donald A. Bullough, Alcuin. Achievement and Reputation, Leiden, Brill, 2004, S. 337, 356. Wigbod scheint Alkuin a. 786 während der Papstgesandtschaft des Bischofs Georg von Ostia und Amiens nach England begleitet zu haben. – Die Namenformen *Vvich-bodo (Hs. Trier Vivchbodo) und Wig-bod sind sprachlich nicht völlig identisch. 33 Claudii Taurinensis episcopi Epist., Nr. 1 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. 4), S. 590-593; coll. Patrologia Latina 50, 893-1048). Vgl. Ernst Dümmler, «Über Leben und Lehre des Bischofs Claudius von Turin», Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften Berlin, 1895, Nr. 1,
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Lothar I. interessierte sich für den Weltanfang: Er bat c. 842/46 den Alkuin-Schüler und Fuldaer Abt Hrabanus Maurus um einen “litteralen” Kommentar zu den ersten Kapiteln der Genesis, welchen Wunsch dieser auch ausführte34. Wandalbert von Prüm erläuterte a. 848 in einem Brief an den Domkleriker Otrih von Köln, dass er neben seinem berühmten metrischen Martyrologium ad Caesarem benignissimum Hlotharium auch ein allegorisch die Schöpfung erläuterndes Gedicht De creatione mundi per ordinem dierum sex descriptio brevis samt einem Widmungsgedicht (Ad Caesarem) gesandt habe35. Eine Parallele ist es, wenn ein in der ersten Hälfte des 9. Jahrhunderts vielleicht in Mittelitalien begonnener, dann aber in Lorsch am Rhein vollendeter Oktateuch (Cod. Vat. Pal. Lat. 14) sich am Ende des Jahrhunderts im Besitz einer Gräfin (H)Oda befand36. Im späten 10. Jahrhundert wurde in dieser Handschrift (auf f. 171v) von einer unkonventionellen Hand, wohl einer Frau oder eines Laien (so B. Bischoff), ein Bruchstück der althochdeutschen Mainzer Beichte eingetragen, was den durchgehenden Gebrauchscharakter der Handschrift erweist37.
Die Lehre der Evangelien Neben dem Psalter sind Evangeliare die zweitwichtigsten Ausstattungsstücke königlicher und adliger Bibliotheken. Ein solches Evangeliar widmete Alkuin mit Versen, die zugleich als Bildtituli dienen, Karl dem Großen38; ein anderes, das sog. Evangeliar von St Maria ad Martyres (Cod.Trier, Stadtbibliothek 23), ist ebenfalls
S. 427-443; C. Leonardi, «Claudius von Turin», Lexikon des Mittelalters, Bd. 2 (1983), Sp.2132-2133; Johannes Heil, «Claudius von Turin – eine Fallstudie zur Geschichte der Karolingerzeit», Zeitschrift für Geschichtswissenschaft 45 (1997), S. 389-412; M. Gorman, «The Encyclopedic Commentary on Genesis…», S. 190-192; Id., «The Commentary on Genesis of Claudius of Turin and Biblical Studies under Louis the Pious», Speculum 72 (1997), S. 279-329; Id., «From Isidore to Claudius of Turin: The Works of Ambrose on Genesis in the Early Middle Ages», Revue des Études Augustiniennes 45 (1999), S. 121-134; Pascal Boulhoul, Claude de Turin. Un évêque dans l’Occident carolingien, Paris, Institut des Études Augustiniennes, 2002, S. 15-31, 241-243. Siehe ferner unten Anm. 99. 34 Hrabani Mauri Epist., Nr. 38 f. (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 475-478). Vgl. J. J. Contreni, «Carolingian Biblical Studies», S. 90; Mayke De Jong, «The Empire as Ecclesia. Hrabanus Maurus and Biblical Historia for Rulers», The Use of the Past in the Early Middle Ages, hg. von Y. Hen und M. Innes, Cambridge, CUP, 2000, S. 191-226, hier S. 211 f. 35 Wandalberti Prumiensis carmina (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae II, S. 619-622). Vgl. Wolfgang Haubrichs, Die Kultur der Abtei Prüm zur Karolingerzeit, Bonn, Ludwig Röhrscheid, 1979, S. 58-63. 36 Bernhard Bischoff, Lorsch im Spiegel seiner Handschriften, München, Arbeo-Gesellschaft, 1974, S. 52, 85 mit Anm. 54. Ein auf f. 178v im ausgehenden 9. oder beginnenden 10. Jh. eingetragener Brief an die reverentissima atque preclarissima domina mea Hodane comitissa bezieht sich auf für das Seelenheil von den servuli Rihcerus et Ratelmus gesungene Psalter. Vgl. Dennis Green, Women readers in the Middle Ages, Cambridge, CUP, 2007, S. 201. 37 Elias von Steinmeyer, Die kleineren althochdeutschen Sprachdenkmäler, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1916, Nr. XLIX, S. 330: Das Bruchstück handelt von unterlassener Hilfe für die Bedürftigen, von unterlassenen Almosenspenden und von nicht gesühnten Sünden. 38 Alcuinus, Carmina, Nr. LXX (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 292 f.).
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mit einem Widmungsgedicht versehen; es ist vielleicht das Evangeliar39, das Alkuin, dieser wichtigste Berater des Königs, bereits zu Weihnachten 798/800 durch seinen Schüler Fridugis (mit dem Übernamen Nathanael), magister scholae palatii und Archidiakon, dem von Krankheit genesenen König, von ihm selbst emendiert und offenbar als Trostbuch gedacht, überreichen ließ40. Das berühmte, auf Befehl des Königs 781/83 von dem Schreibmeister Godescalc geschriebene Prachtevangeliar (Paris B.N. lat. n.a. 1203) war für die Königin Hildegard bestimmt und wurde in ihrer Umgebung auch genutzt41: Mit goldenen Lettern trug man zu 781 am Rande die bedeutsame Taufe des Sohnes Pippin in Rom ein: Das «Schreiben mit Gold» verspricht nach dem Widmungsgedicht des Evangelien-Lektionars «das Himmelreich und himmlische Freuden». Ein Evangeliar dürfte auch der libellus gewesen sein, den Alkuin an die mit der Königstochter Gisla verbundene ancilla dei Ava sandte, und die nach dem Widmungsgedicht omnia celsithroni necnon miracula Christi enthielt42. Zu den Handschriften der Hofschule gehört ferner das Prachtevangeliar aus Saint Médard in Soissons (Paris B.N. lat. 8850), das «offenbar von Ludwig dem Frommen» und seiner Gemahlin Judith zum Osterfest 827 an die Abtei geschenkt wurde (W. Koehler), aber letzten Endes – da um 800 entstanden – wohl aus dem Erbe des Vaters stammen dürfte43; ebenso das Prachtevangeliar (Abbeville B.M. 4) von Centula (Saint-Riquier), das an die Abtei aus dem Besitz des Hochadligen Angilbert († 814), eines einflussreichen Ratgebers, zugleich des Schwiegersohns
39 Alcuinus, Carmina, Nr. LXXI (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 293 f.). Vgl. Michael Embach, Hundert Highlights. Kostbare Handschriften und Drucke der Stadtbibliothek Trier, Regensburg, Verlag Schnell & Steiner, 2013, S. 18 f. Nr. 5 (mit Lit.). Dort auch Hinweise auf Ähnlichkeiten im Bildprogramm mit einem weiteren Werk aus dem Umkreis Karls, dem Wiener Krönungsevangeliar (Kunsthistorisches Museum Wien, Weltliche Schatzkammer Inv. XIII 18). Vgl. dazu W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 3, S. 22-27, 57-71. Nach ihm sind die Bilder dieses Prachtbandes von italienischen oder byzantinischen Künstlern 790/800 ausgeführt worden und verdanken sich der «Bestellung von einer hochgestellten Persönlichkeit am Hofe» (S. 49). 40 Alcuini Epist., Nr. 261-262 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 418-420). 41 Versus libris saeculi octavo adiecti, Nr. VII (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 88 und 94-95). Vgl. W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 2, S. 22-28; F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 32 f.; Bernhard Bischoff, «Die Hofbibliothek Karls des Großen», Id., Mittelalterliche Studien, Bd. 3, Stuttgart, Anton Hiersemann, 1981, S. 149-169, hier S. 158 f.; Katharina Bierbrauer, «Godescalc-Evangelistar», Lexikon des Mittelalters, Bd. IV, München-Zürich, Artemis Verlag, 1989, Sp. 1532; Beat Brenk, «Schriftlichkeit und Bildlichkeit in der Hofschule Karls des Großen», Testo e immagine nell’alto medioevo (Settimane di studio del CISAM 41, 2), Spoleto, 1994, S. 631-682, hier S. 639-646; L. Nees, «Carolingian Art and Politics», S. 200; Bruno Reudenbach, Das Godescalc-Evangelistar. Ein Buch der Reformpolitik Karls des Großen, Frankfurt a. M., Fischer taschenbuch Verlag, 1998; Marie-Pierre Lafitte et al., L’évangéliaire de Charlemagne, in: Art de l’enluminure 20, Paris, 2007; Fabrizio Crivello, Charlotte Denoel und Peter Orth, Das Godescalc-Evangelistar. Eine Prachthandschrift für Karl den Großen, Darmstadt, WBG, 2011; R. Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», S. 69-70. 42 Alcuinus, Carmina, Nr. LXVII (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 286). 43 W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 2, S. 70-82; B. Brenk, «Schriftlichkeit und Bildlichkeit…», S. 664 f.; F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 39-47; Denis Defente, Saint-Médard. Trésors d’une abbaye royale, Paris, Somigy Éditions d’Art, 1996; R. Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», S. 71-72.
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Karls, gelangte44. Zur Hofschule führt wiederum das in Goldschrift (um 800) geschriebene Ada-Evangeliar (Cod. Trier Stadtbibliothek 22), veranlasst von der reich im Worms- und Nahegau begüterten und an St Maximin in Trier attachierten Ada ancilla dei45. An Karls Sohn Ludwig den Frommen gab vor 835 der abba humilis noster Petrus von Hautvillers ein goldenes Evangeliar, das sog. Ebo-Evangeliar (Cod. Epernay Bibl. Municipale 1)46: Hic enim evangelici retinentur bis duo libri, Mathei ac Marci, Lucaeque Iohannis et almi: Hic quadriga pii micat ac nitet inclita Christi, Quin etiam medici patet hic medicina corusci. Das Evangelium ist hier – wie später im althochdeutschen Evangelienbuch Otfrids von Weißenburg – deutlich spirituelles Heilmittel, es ist Medizin des göttlichen Arztes. «Sechs der insgesamt acht» mit der Hofschule Karls des Großen in Verbindung stehenden, in Goldschrift geschriebenen, reich illuminierten «Handschriften sind Evangeliare, hinzu kommt das Godescalc-Evangelistar». Doch darf die paränetische Funktion nicht darüber hinwegtäuschen, dass diese Prachtevangeliare in Hofnähe noch einen anderen Zweck besaßen, nämlich den der Repräsentation. Es kennzeichnet gerade «der beispiellose Ausstattungsluxus diese Handschriften als Hofkunst»47. Eigenartigerweise lassen sich für Ludwig den Frommen kaum Evangeliare bzw. überhaupt biblische Handschriften nachweisen48. In der Hofschule Lothars I. dagegen wurden zwischen 842 und 855 drei Evangeliare für den Kaiser gefertigt49; dazu kommt eine in Tours zwischen 849 und 851 im Auftrag Lothars unter Leitung
44 W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 2, S. 49-55; Patrick McGurk, Latin Gospel Books from A.D. 400 to A.D. 800, Paris-Bruxelles, Editions Erasme, 1961, S. 49 f.; Charlotte Denoel et al., Les évangiles de Saint-Riquier. Un manuscrit pour Charlemagne (L’Art de l’Enluminure 46), Paris, Bibliothèque Nationale de France, 2013; R. Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», S. 71. 45 W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 2, S. 34-41, 83-87; P. McGurk, Latin Gospel Books…, S. 73-74; J. M. Plotzek, «Ada-Handschrift», Lexikon des Mittelalters, Bd. I, München-Zürich, Artemis Verlag, 1980, Sp. 91; Rainer Kahsnitz, «Die Elfenbeinskulpturen der Ada-Gruppe. Hundert Jahre nach Adolph Goldschmidt», Zeitschrift des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft 64 (2010), S. 9-172; Michael Embach, Das Ada-Evangeliar (Stadtbibl. Trier, Hs. 22), Trier, Paulinus-Verlag, 2010; M. Embach, Hundert Highlights, S. 14-17, Nr. 3 f.; R. Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», S. 72. 46 Versus ad Ebonem Remensem (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 623-624), v. 24-27. Vgl. F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 56-62; Katharina Bierbrauer, «Ebo-Evangeliar», Lexikon des Mittelalters, Bd. 3, München-Zürich, Artemis Verlag, 1986, Sp. 1529. 47 R. Kahsnitz, «Die Buchmalerei der Hofschule Karls des Großen», S. 72. 48 Vgl. aber Bernhard Bischoff, «Die Hofbibliothek unter Ludwig dem Frommen», Id., Mittelalterliche Studien, Bd. 3, Stuttgart, Anton Hiersemann, 1981, S. 170-186, besonders S. 176-181. Das turonische Gauzlin-Evangeliar der Kathedrale von Nancy scheint wohl von einem Grafen Arnaldus, wahrscheinlich einem Hofmann Ludwigs und Vater des Bischofs Arnulf von Toul, in Auftrag gegeben worden zu sein: vgl. W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, S. 180 f., 383 f.; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 260. 49 W. Koehler – F. Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 4, S. 24-28.
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von Sigislaus angefertigte, in Gold ausgeführte, und mit Bildnis des Kaisers versehene Prunkhandschrift (Paris BN lat. 266)50. Von den Priestern und Brüdern Beringar und Liuthard (siehe oben zu Karls des Kahlen “Psalterium Aureum”) aus St Denis (?) wurde der «Codex Aureus» von St Emmeram, ein Prachtevangeliar (Clm. 14000), geschrieben, das sie mit einem Bildnis des Herrschers und elf Widmungsgedichten (zum Teil Bildtituli), die erneut die imitatio Davids und Salomos durch den König thematisieren, im Jahre 870 Karl dem Kahlen übergaben51. Neben Karl werden in diesem Evangeliar der Vater Ludwig, die Mutter Judith und natürlich der Großvater, der aequivocus, genannt. Neben dem “Codex Aureus” wurden noch fünf weitere Evangeliare, darunter ein für den persönlichen Gebrauch bestimmtes Taschen-Evangeliar (Cod. Paris B.N. lat. 324) in der Hofschule dieses Sohnes Ludwigs des Frommen für den König geschrieben52. Eines davon (Paris, Bibliothèque de l’Arsenal 1171) zeigt als späteren Besitzereintrag in Demutsformel einen Erluinus peccator an, den man mit einem Notar Karls des Einfältigen (893-929) aus dem Haus der Grafen von Ponthieu identifiziert hat53. Im “Carmen de exordio Francorum” spricht ein anonymer Autor von einem Gedicht über die Wundertaten Christi, das er auf der Grundlage der vier Evangelien im Auftrag Karls des Kahlen verfassen wolle54. Durch ihre Schrift, Ausstattung oder Herkunft besondere Evangeliare waren auch besonders begehrt: So hatte sich König Arnulf († 899) in den Besitz des im 8. Jahrhundert in irischer Kursive geschriebenen Cadmug-Evangeliars (Fulda, Hessische Landesbibliothek Bonif. 3) gesetzt, das als Reliquie des Missionars und Gründers von Fulda, des Angelsachsen Bonifatius, galt. Eine Notiz aus der Zeit um oder kurz vor 900 (f. 65v) erzählt uns, wie Abt Huoggi (seit 891) vom König die Restitution der kostbaren Handschrift erlangte, die nach der seniorum relatione von Bonifatius selber geschrieben sein sollte55. Evangeliare enthielten auch die Bibliotheken der beiden aus königsnahen Familien stammenden Hochadligen Eberhard von Friaul und Eccard von Mâcon56, der letztere besaß 876 sogar ein
50 Carmina Varia Nr. 25 (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae II, S. 671). Vgl. W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, S. 241-243, 260-269; Bd. I, 2, S. 71-85; F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 82-87; H. L. Kessler, The Illustrated Bibles…, S. 127 f. 51 Bibliothecarum et psalteriorum versus, Nr. IV (coll. Monumenta Germaniae HistoricaPoetae III, S. 252-254). Siehe auch Alcuini Carmina, Nr. LXX (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae I, S. 292 f.). Vgl. W. Koehler – F. Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. V, S. 10 f., 63 f., 175-188; F. Mütherich – J. E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, S. 103-108; H. L. Kessler, The Illustrated Bibles…, S. 135-138; N. Staubach, Rex Christianus…, Bd. 2, S. 261-281. Zu einem römischen Evangeliar aus der Hofschule Karls des Kahlen vgl. o. Anm. 9. 52 W. Koehler – F. Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 5, S. 10 f., 88-122, 144-164. 53 W. Koehler – F. Mütherich, Die karolingischen Miniaturen, Bd. 5, S. 11, 144-156. 54 Carmen de exordio Francorum (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae II, s. 141-145). Vgl. Dieter Kartschoke, Bibeldichtung. Studien zur Geschichte der epischen Bibelparaphrase von Juvencus bis Otfrid von Weißenburg, München, Wilhelm Fink Verlag, 1975, S. 246. 55 P. McGurk, Latin Gospel Books…, S. 67-68. 56 P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 97, 101.
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evangelio theudisco, ein Evangelium «in theodisker Sprache», das gut ein Exemplar von Otfrids althochdeutschem Evangelienbuch gewesen sein könnte57. Auf die evangelischen Lesungen dürfte sich auch das auffällige, in Ausleihverzeichnissen dokumentierte Interesse von männlichen und weiblichen Laien an Lektionaren gerichtet haben: So entlieh nach einem Kölner Dokument von c. 833 Heimbrat, der Bruder des Erzbischofs Hildebald ein Lektionar und ein Antiphonar; seine Schwester erhielt die gleichen Bücher; die Frau eines Werinbald ließ sich ein Lektionar geben; Graf Egilolf erhielt neben einem Lektionar ein Sakramentar und einen Band mit Sermones Gregors des Großen, «probably for use in his private chapel»; in Weißenburg im Speyergau entlieh um 900 ein Lantfrid ein Lektionar58. Hier wird gewiss eine sich verstärkende Frömmigkeit litterater Laien sichtbar.
Die biblischen mysteria: Fragen des Adels und der Könige Man muss hier auch die Zeugnisse erwähnen, die wir zu Gesprächen über Fragen der heiligen Schrift besitzen, die karolingische Könige mit Theologen ihrer Zeit führten: Alkuin antwortete Karl dem Großen auf der Grundlage des Korintherbriefes auf Fragen über den Tod als Preis der menschlichen Erlösung, die diesem (801/04) wiederum ein sapiens Grecus …, ein doctor prudentissimus und magister, gestellt habe59. Das geht einher mit der Forderung erhöhter Gebetsfrömmigkeit (Einhaltung der Stundengebete, der Horen) auch beim homo laicus60. In seinen für einen Grafen Wido geschriebenen Traktat De virtutibus et vitiis fügt Alkuin eigens ein Kapitel über die Bedeutung der Bibellektüre auch durch Laien ein61. Der Schwester Karls, Gisla, Äbtissin von Chelles, und Rodtruda, seiner Tochter, empfiehlt er nachdrücklich – auch unter Sendung von Bibelkommentaren und Hinweis auf seine Bibelrevision – die Lektüre der scripturae sacrae62. Sermo fuit inter nos de scripturis sacris, schreibt Hrabanus Maurus, der
57 P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 101; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 248-250; Wolfgang Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König als Anreger und Rezipienten des volkssprachigen Evangelienbuchs Otfrids von Weißenburg (a. 863/71)», Konstanz und Wandel. Religiöse Lebensformen im europäischen Mittelalter, hg. von G. Blennemann, Ch. Kleinjung und Th. Kohl, Affalterbach, Didymos-Verlag, 2016, S. 71-112, hier S. 91. 58 R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 263 f. 59 Alcuini Epist., Nr. 307 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 466-473). 60 Alcuini Epist., Nr. 304 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 462-463, a. 801/04). Weitere Hinweise auf die Auseinandersetzung mit der Bibel bei Laien im Umkreis Karls des Großen (Einhard, Adalard, Nithard, Angelbert, Dhuoda) bei J. Nelson, «Lay Readers…», S. 48-55; zur auch durch admonitiones und Legislation gestützten «biblical education» der Karolingerzeit vgl. J. J. Contreni, «Carolingian Biblical Studies», S. 74. 61 Donald A. Bullough, «Alcuin and Lay Virtue», Predicazione e società nel Medioevo. Riflessione etica, valori e modelli di comportamento, hg. von L. Graffuri und R. Quinto, Padova, Centro Studi Antoniani, 2002, S. 71-91, hier S. 84-90. 62 Alcuini Epist., Nr. 15, 195, 196, 213 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 40-42, 322-325, 354-358).
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große Bibelkommentator und Abt von Fulda63, an König Ludwig den Deutschen und bezieht sich auf eine Zusammenkunft der Jahre 843/44 in der Fuldaer Zelle Rasdorf mit dem sapientissimus rex, in omnibus bene eruditus. Man hat gerade für die Söhne Ludwigs des Frommen ein gesteigertes Interesse an der Allegorese, die die wahren mysteria der Schrift erschließt, festgestellt64. Und Hraban sendet Ludwig dem Deutschen c. 843/45 auf seine Anfrage einen Kommentar zu den biblischen cantica, die also auch der Laie bei den matutinas laudes (zumindest während der Fastenzeit) singen oder beten sollte65. Das erinnert an das fromme Mahnbuch der Dhuoda und an den Grafen Rorico von Maine († 841), der nach der Vita S. Mauri des Odo von Glanfeuil (a. 863) ein aktives, aber auch frommes Leben führte: «Dieser verehrungswürdige Graf erging sich in seiner Kapelle, die er an seinem Hof nach dem Brauch des hohen Adels auf das Schönste eingerichtet hatte, im Anschluss an die Morgenhymnen in heiligen Betrachtungen (divinis theoriis)». Graf Rorico, der nach 830 das Kloster Glanfeuil (Saint-Maur-sur-Loire) erneuert hatte, war auch im Besitze einer turonischen Bibel (Paris, B.N. lat. 3), die er seiner Gründung schenkte66. Auch dem Vater Ludwigs des Deutschen, Kaiser Ludwig
63 Zu Hraban vgl. Hrabanus Maurus. Lehrer, Abt und Bischof, hg. von R. Kottje und H. Zimmermann, Mainz-Wiesbaden, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 1982; Rabanus Maurus in seiner Zeit (790-1980), hg. von W. Weber, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 1980; Mayke De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 191-226, speziell zum Treffen in Rasdorf S. 209 f.; Rabanus Maurus. Auf den Spuren eines karolingischen Gelehrten, hg. von H.-J. Kotzur, verfasst von W. Wilhelmy, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 2006; Hrabanus Maurus. Gelehrter, Abt von Fulda und Erzbischof von Mainz, hg. von F. J. Felten und B. Nichtweiss, Mainz, Publikationen Bistum Mainz, 2006; Raban Maur et son temps, hg. von Ph. Depreux, St Lebecq, M. J.-L. Perrin und O. Szerwiniack, Turnhout, Brepols, 2010; Wolfgang Haubrichs, «Theodiske Schriftlichkeit und die Zentren Fulda und Mainz zur Zeit des Hrabanus Maurus», in: archa verbi 4 (2007), S. 45-67. 64 Hrabani Mauri Epist., Nr. 33 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 465-467). Auch in Nr. 37, ibid. S. 472, ist von Zusammenkünften zwischen Abt und König die Rede. Zu Ludwigs offensichtlichem «Interesse an theologischer Literatur» vgl. B. Bischoff, «Bücher am Hofe Ludwigs des Deutschen…», S. 187 f., 191 f.; zu seiner Frömmigkeit vgl. Raimund Kottje, «König Ludwig der Deutsche und die Fastenzeit», Mysterium der Gnade. Festschrift Johann Auer, hg. von H. Rossmann und J. Ratzinger, Regensburg, Verlag Friedrich Pustet, 1983, S. 307-311; N. Staubach, Rex Christianus…, Bd. 2, S. 12 Anm. 45; ferner allgemein zur «coopération entre religieux et rois» Sumi Shimahara, «L’éxégèse biblique et les élites: Qui sont les recteurs de l’église à l’époque carolingienne?», in La culture du Haut Moyen Âge une question d’élites?, hg. v. F. Bougard, R. Le Jan und R. McKitterick, Turnhout, Brepols, 2009, S. 201-217, hier S. 205-209. 65 Hrabani Mauri Epist., Nr. 33 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 466). Vgl. R. Kottje, «König Ludwig der Deutsche…», S. 310; M. De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 209 f. Vgl. auch M. De Jong, «Carolingian political discourse …», S. 91-94. 66 Odo von Glanfeuil, Vita S. Mauri, Acta Sanctorum Januarii, Bd. I, Sp. 1038-1050; Wilhelm Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, S. 165 f.; 381 f. Vgl. Wolfgang Haubrichs, Die Anfänge: Versuche volkssprachiger Schriftlichkeit im frühen Mittelalter, 2. Auflage, Tübingen, Niemeyer, 1995 (Geschichte der deutschen Literatur von den Anfängen bis zum Beginn der Neuzeit, Bd. I, 1), S. 45, 258. Auch Alkuin hatte schon Karl dem Großen auf seine Anfrage hin eine Anweisung zur Praxis der Gebetsstunden für Laien übersandt (Alcuini Epist., Nr. 304, coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 462-463): Sed quia vos rogastis, ut scriberemus vobis breviarium comatico sermone, qualiter homo laicus, qui adhic in activa vita consistit, per dinumeratas horas Deo supplicare debeat; et licet vos, qui christiano ordine vivitis et christiana opera facere desideratis, non ignoratis, qualiter Domino supplicetur… Und Alkuin spricht
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dem Frommen, hatte Hrabanus a. 834 Ermahnungen ex sancta scriptura, etwa zur im virulenten Streit des Kaisers mit seinen aufständischen Söhnen aktuellen Frage der zu übenden Ehrfurcht gegenüber den Eltern und zur Tugend- und Lasterlehre zukommen lassen67. Ludwigs ältester Sohn Lothar I. bat Hraban c. 854/55 um eine theologische Auslegung der Schriftlesungen in der Messe, der lectiones68. Und Lupus von Ferrières, ein Schüler Hrabans, empfahl dem jüngsten Sohn Ludwigs, Karl dem Kahlen, dringend das Studium der biblischen Schriften69. Was sind nun wiederum die Fragen der Könige und Adligen an die Bibel? Und was sind die Antworten der Theologen? Es fällt auf, dass neben den oben erörterten praktischen Frömmigkeitsfragen immer wieder die Einsicht in den geheimen Sinn, den allegoricus sensus angestrebt wird, das, was die Bibel über den Wort-Sinn, den historischen Sinn hinaus zu bieten hatte, und das nur durch die kundigen Theologen erschlossen werden kann. Der Herrscher soll rex atque theologus werden – wie David und Salomon –, er soll sich die tief religiös fundierte “Weisheit” als spezifische Herrschertugend erwerben. So ist es, um nur wenige Beispiele anzuführen, bei Ludwig dem Deutschen und Hraban, aber auch bei dem eingangs charakterisierten Angelomus von Luxeuil und Kaiser Lothar. Mit Hinblick auf die Proverbia Salomons (25, 2) fordert Angelomus von Lothar70: Es ist gloria regum investigare sermonem. Das wiederholt er und erläutert den Sinn: «Es sind die Könige, die nicht nur die irdischen Reiche, sondern auch ihre Körper und fleischlichen Begierden beherrschen und untersuchen sollen. Denen auch der Psalmist (2, 10) sagt: So sehet nun ein, ihr Könige, und lasst euch erziehen, die ihr auf Erden richtet etc. Der Ruhm der Könige ist also, das Wort zu erforschen, so wie das Lob der richtig Lebenden ist, die G e h e i m n i s s e der Gebote Gottes auszuforschen. Erforsche also, ruhmreicher Kaiser, die Schriften, auf dass, indem du die göttlichen G e h e i m n i s s e durchdringst und erkennst, deine Weisheit die fleischlichen Begierden und Bewegungen untersuchen und beherrschen lerne, und mit Bibelzitaten, um ethische Unterweisung zu geben, in Briefen auch Laien an, so etwa c. 791 einen fränkischen dux, der wahrscheinlich mit Gerold, dem Statthalter von Bayern, identifiziert werden darf, und seine Gemahlin (Alcuini Epist., Nr. 69 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. IV, S. 112 f.). Vgl. Donald A. Bullough, «Alcuin and lay virtue», S. 75; Id., Alcuin. Achievement and Reputation, Leiden, Brill, 2004, S. 371; J. Nelson, «Lay Readers…», S. 46, 202 Anm. 21. 67 Hrabani Mauri Epist., Nr. 15, 16 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 403-420). Zum theologischen Interesse von Ludwigs des Frommen Sohn Karl dem Kahlen vgl. o. Anm. 7. 68 Hrabani Mauri Epist., Nr. 49 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 503 f.). 69 Janet L. Nelson, «Charles le Chauve et les utilisations du savoir» (1991), Id., Rulers and Ruling Families in Earlier Medieval Europe, Aldershot, Ashgate, 1999, Nr. VII, S. 37-54. 70 Angelomus von Luxeuil, Epistola ad Lotharium imperatorem (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, pars XII, Suppl. Nr. 7, S. 628); dazu Eric P. Miller, «The political significance of Christ’s kingship in the biblical exegesis of Hrabanus Maurus and Angelomus of Luxeuil», in Biblical Studies in the early Middle Ages, hg. v. C. Leonardi und G. Orlandi, Firenze, Sismel Edizione del Galluzzo, 2005, S. 193-213. Vgl. zur Erarbeitung eines auf die Bibel gegründeten Herrscher-Idealbildes im Umkreis Karls des Kahlen N. Staubach, Rex Christianus…, S. 91-104; M. de Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 196 f.; ferner umfassend: Sumi Shimahara und Jens Schneider, «Gouverner avec la Bible. Les lettres de dédicace adressées aux souverains à l’époque carolingienne», Épistolaire politique I. Gouverner par les lettres, hg. v. B. Dumézil und L. Vissière, Paris, PUPS, 2014, S. 107-141.
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mit sollertia die deiner Herrschaft unterworfenen Menschen lehre und mit Heil, Klugheit und durch Rat auf das Ehrenhafteste regiere». Um den allegoricus sensus oder mysticus sensus erkennen zu können, schickt Hraban an Ludwig den Deutschen 834/38 einen Kommentar in librum Paralipomenon (der die historia regum Juda umfasse)71, 842/46 einen zum ja recht kriegerischen Makkabäerbuch72, aber auch zu gleicher Zeit einen Kommentar zum Propheten Daniel73: «Beeile dich, dass du in ständiger Meditation des göttlichen Gesetzes und, indem du dich in den Werken der Gerechtigkeit und der Barmherzigkeit übst, zur ewigen Krone gelangst» (festina, ut in assidua meditatione legis Dei et operibus iustitiae atque misericordiae temetipsum exercens ad coronam pervenias sempiternam). Dies ist die via regia: Gerechtigkeit und Barmherzigkeit.
Kommentare für Könige Erstaunlich, aber vielleicht aus der Ausrichtung auf die Erkenntnis des geheimen Sinns der heiligen Schrift heraus verständlich ist die hohe Anzahl von Kommentaren biblischer Bücher, die Königen und Adligen übersandt werden, auch mit Verweis auf die lectores, die Herrscher an ihrem Hofe beschäftigen und die zu Vorlesern und Erklärern geeignet sind. Hier eine kleine Liste, ungefähr geordnet nach der kanonischen Folge der biblischen Bücher, ausgenommen die schon oben behandelten Kommentare zum Pentateuch: 1) Hrabanus Maurus sendet a. 829 an Hilduin, Abt von St Denis und archicapellanus palatii, einen Kommentar librorum Regum (“Bücher der Könige”), den er passend für diesen Hofmann hält74. Den mit Hilfe eines jüdischen Gelehrten verfassten Kommentar überreicht er 832 in Fulda auch Kaiser Ludwig dem Frommen75; 834/38 erinnert er auch König Ludwig den Deutschen an dieses Werk (vgl. Nr. 2).
71 Hrabani Mauri Epist., Nr. 18 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 422-424). Vgl. Hrabanus Maurus, Carmina, Nr. III (coll. Monumenta Germaniae Historica PoetaeII, S. 164). Zu einer eventuellen Identifizierung dieses Exemplars unter Regensburger Handschriften vgl. B. Bischoff, «Bücher am Hofe Ludwigs des Deutschen…», S. 191. Vgl. auch Anm. 54. 72 Hrabani Mauri Epist., Nr. 35 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 469-470). Es ist wohl kein Zufall, dass gerade in den Annales Fuldenses die Erinnerung an die streitbaren Makkabäer im Zusammenhang mit einem im Heidenkampf erfolgreichen Feldherrn wiederbelebt wird. Zum Jahr 867 heißt es dort: Ruotbertus [Robert le Fort] Karoli regis comes apud Ligerim fluvium contra Nordmannos fortiter dimicans occiditur, alter quodammodo nostris temporibus Machabeus; cuius proelia, quae cum Brittonibus et Nordmannis gessit, si per omnia scripta fuissent, Machabei gestis aequiperari potuissent. Vgl. Quellen zur karolingischen Reichsgeschichte, Teil 3, hg. von R. Rau, Darmstadt, WBG, 1966, S. 70 f.; ferner J. Nelson, «Lay Readers…», S. 205; M. De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 211-221. 73 Hrabani Mauri Epist., Nr. 34 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 467-469). Vgl. M. De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 210. 74 Hrabani Mauri Epist., Nr. 14 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 401-403). 75 In einem Widmungsbrief an Ludwig den Deutschen (siehe nächste Anm.) erwähnt Hraban diese Übergabe:… sacratissimo genitori vestro Hludowico imperatori presentialiter in nostro monasterio tradidi… Vgl. M. De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 204. Auch andere Laien interessierten sich für das
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2) Gewissermaßen als Fortsetzung der Königsbücher hat Hraban einen Kommentar spirituali sensu … in librum Paralipomenon (“Bücher der Chroniken”) verfasst und a. 834 Ludwig dem Deutschen gewidmet76. Kaiser Lothar scheint a. 855 eine bibliotheca historiarum, vermutlich einen Band mit den alttestamentarischen, kriegerischen Geschichtsbüchern, besessen zu haben77. 3) Psalmen: Prudentius, der spätere Bischof von Troyes, jetzt capellanus palatinus, sendet mit einer kommentierenden Vorrede flores psalmorum an eine Adlige78: Cum quedam nobilis matrona (wahrscheinlich Kaiserin Judith) in civitatibus vel oppidis a pluribus fuisset oppressa atque ex accidentibus variis tribulationibus, ut plerique noverunt, adesset angustiata nimiisque tediis afflicta, direxit ad me, rogans obnixe, ut aliquid ex laude psalmorum ad consolationem compassionis suae brevissimis scriptitarem versiculis. Das Psalmen-Trostbuch wurde also von der matrona nobilis selbst angefordert79. 4) Kommentar des Angelomus von Luxeuil zum “Hohen Lied” für Kaiser Lothar (851/52)80. Karl der Kahle wiederum forderte (vor 856) von Erzbischof Hincmar von Reims (845-882) eine Auslegung des im Canticum Canticorum (2, 9-11) erwähnten Ferculum Salomonis, jenes repräsentativen, aus Gold und Silber und den Zedern des Libanons gefertigten Diwans des biblischen Vorbildkönigs, der ihn auf Grund der ihm am Hofe häufig dargereichten Vergleiche mit Salomo interessieren musste81. Mit Unterstützung des Fuldaer Meisterexegeten Hrabanus Maurus lieferte der Erzbischof eine allegorisch-zahlensymbolische Interpretation dieses Objekts der Begierde. 5) “Jesus Sirach” oder “Ecclesiasticus”: Aufgrund eines merkwürdigen Ausleiheverfahrens hören wir um die Mitte des 9. Jahrhunderts von der Anwesenheit eines Kommentars zu diesem Buch in einer Adelsbibliothek. Der aus dem Welfenhaus stammende Bruder der Kaiserin Judith, der illustrissimus comes Konrad, Graf mehrerer alemannischer Gaue und zugleich Laienabt von S. Germain d’Auxerre (839-849/56, † nach 862), Onkel also Karls des Kahlen, verheiratet mit Adelheid, der Tochter
tatenreiche Buch: so entlieh es nach einem Kölner Ausleihverzeichnis von c. 833 ein Engilhelm für sich: R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 263; E. P. Miller, «The political significance of Christ’s kingship», S. 197-205. 76 Hrabani Mauri Epist., Nr. 18 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 422-424). Vgl. M. De Jong, «The Empire as Ecclesia», S. 204 f.; allgemein zur politischen Bedeutung der biblischen Bücher bei Hraban: Dies.: «Carolingian political discourse…», S. 91-94. 77 M. De Jong, «The Empire as Ecclesia…», S. 192-194. 78 Vgl. o. Anm. 2. 79 Dazu ist die (freilich nicht mit der Kaiserin identische) veneranda matrona… nomine Judith zu vergleichen, die vor a. 863/71 Otfrid von Weißenburg zu seinem althochdeutschen “Evangelienbuch” anspornte. Vgl. W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 78-82. 80 Vgl. o. Anm. 1. 81 Hincmari archiepiscopi Rhemensis Explanatio in Ferculum Salomonis, coll. Patrologia Latina 125, 817-834; Hincmari Carmina, Nr. IV (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae III, S. 414 f.), mit Widmung an König Karl. Vgl. Jean Devisse, Hincmar, archevêque de Reims (845-882), Bd. 1, Genève, Librairie Droz, 1975, S. 54-59; Burkhard Taeger, «Zum “Ferculum Salomonis” Hincmars von Reims», Deutsches Archiv 33 (1977), S. 153-167; J. Nelson, «Charles le Chauve…», S. 49.
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des Etichonen Graf Hugo von Tours, hatte vom gelehrten scholasticus Haimo von Auxerre (c. 840/60) die Historia Alexandri Magni des Q. Curtius Rufus (Paris BN lat. 5716) ausgeliehen, wofür er Haimo als Gegengabe den Kommentar Hrabans zum “Ecclesiasticus” offerieren sollte, den der Graf also besaß. Wie im Falle des Markgrafen Eberhard von Friaul und des Grafen Eccard von Autun treffen wir also auch hier auf einen gebildeten Angehörigen der laikalen Oberschicht mit elaboriertem Bücherbesitz82. 6) Die Propheten: Karl der Große (iussit Domnvs rex Carolvs) lässt ex avtentico des (vermutlich seit c. 776) an seinem Hofe weilenden archidiaconvs Petrus von Pisa quaestivncvlae zum Propheten Daniel in Dialogform abschreiben, die dieser redigiert und dem Herrscher vor 799 dediziert hatte; erhalten sind sie in einer kurz nach 800 entstandenen Kopie (Bruxelles B.R. II, 2572)83. Daniel war dem frühen Mittelalter wegen der als Vorausdeutung der Auferstehung geltenden Errettung des Propheten aus der Löwengrube und der darin geschilderten göttlichen Untergangsprophezeiung, dem Mene-Tekel, an einen ungerechten König wichtig. Hrabanus sendet zwischen 842 und 846 auf Anforderung des Kaisers seine Kommentare zu «Jeremias» und «Ezechiel», die er noch unter Ludwig dem Frommen begonnen hatte, an Lothar I.84, übrigens mit zwei Briefen des Kaisers, von denen einer für die Publikation des Werkes bestimmt war, was zeigt, dass Kommentare – hier über die kaiserliche Zwischenstation – auch für größere Verbreitung bestimmt waren85. Zur selben Zeit schickt Hraban ad legendum et
82 Riccardo Quadri, Aimone di Auxerre alla luce dei «Collectanea» di Heiric di Auxerre, Padova, Editrice Antenore, 1964, S. 15 f.; J. Nelson, «Charles le Chauve…», S. 45; R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 261. Vgl. Michael Borgolte, Die Grafen Alemanniens in merowingischer und karolingischer Zeit. Eine Prosopographie, Sigmaringen, Jan Thorbecke Verlag, 1986, S. 165-170. Auch bei der Übermittlung des a. 841 gewidmeten Poenitentiale des Hrabanus Maurus an Bischof Heribald von Auxerre spielte Graf Konrad eine Rolle. 83 Michael M. Gorman, «Peter of Pisa and the “Quaestiunculae” copied for Charlemagne in Brussels II 2572», Revue Bénédictine 110 (2000), S. 238-260. Zu den bedeutsamen Erwerbs- und Kopieraktivitäten hinsichtlich patristischer exegetischer Werke (auch des Ostens) am Hofe Karls vgl. B. Bischoff, «Die Hofbibliothek Karls des Großen»; D. Bullough, «Charlemagne’s Court Library Revisited». 84 Hrabani Mauri Epist., Nr. 28, 38, 39 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 1, S. 422-424, 475-478). Vgl. J. J. Coltreni, «Carolingian Biblical Studies», S. 90; M. De Jong, «The Empire as Ecclesia», S. 207 f., 211 f. 85 Hiermit ist der in der Praefatio der altsächsischen Evangelienharmonie, des Heliand, aus herrscherlicher Sorge um das Wohl der Kirche und das Heil der Laiengläubigen formulierte Wunsch eines Ludowicus augustus um die Lesung und Verbreitung des Werkes zu vergleichen: Wolfgang Haubrichs, «Ludwig der Deutsche und die volkssprachige Literatur», Ludwig der Deutsche und seine Zeit, hg. v. W. Hartmann, Darmstadt, WBG, 2004, S. 203-232, hier S. 214-225, besonders S. 217 f. («damit nicht länger nur den Latein- und Schreibkundigen, sondern auch den Illiteraten die heilige Lesung der göttlichen Gesetze eröffnet werde»); Id., Die Anfänge, S. 272-281, besonders S. 275-276. Otfrid von Weißenburg bestimmt sein althochdeutsches Evangelienbuch ausdrücklich auch für die illitterati und bittet König Ludwig den Deutschen um Verbreitung des Buches: W. Haubrichs, Die Anfänge, S. 292-312, besonders S. 310; Id., «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 82-87; Chiara Staiti, «Das Evangelienbuch Otfrids von Weißenburg und Ludwig der Deutsche», Ludwig der Deutsche und seine Zeit (siehe oben), S. 233-254, hier S. 252-253 (vgl. u. Anm. 132-141). Zu Otfrids Evangelienbuch als «spezifischer Praxis der Frömmigkeit», die damit Herrscher, Laien und Kleriker einschließt, vgl. Stephan Müller, «Erzählen und Erlösen.
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probandum einen Daniel-Kommentar an König Ludwig den Deutschen86. Einen Augustin zugeschriebenen Kommentar zu «Ezechiel» findet man auch unter den Büchern des Markgrafen Eberhard von Friaul87. Richgardis, die Gemahlin Karls des Dritten und Stifterin des elsässischen Klosters Andlau (um 880), entlieh der St Galler Bibliothek Gregors des Großen Sermones zu «Ezechiel» und des Hieronymus Kommentar zu «Jonas»88. 7) Hrabanus widmet c. 834 der Kaiserin Judith Kommentare zu den Büchern «Judith» und «Esther»89, quarum unam coequatis nomine, alteram dignitate – Esther war nach biblischer Quelle Königin als Gemahlin des persischen Königs Ahasver gewesen. Den Esther-Kommentar hat Hraban nach 841 mit einem Widmungsgedicht Lothars I. Gemahlin, der Kaiserin Irmingarda, überreicht90. 8) Hraban sendet dem archidiaconus sacri palatii Gerolt, einem Angehörigen der capella regis also, den auf dessen Bitte verfassten Kommentar zu den kriegerischen libri Machabeorum91; 842/46 überreicht er diesen sensu historico simul et allegorico verfassten Kommentar, den er als Ergänzung zu den “Libri regum” betrachtet (vgl. oben Nr. 1), auch Ludwig dem Deutschen92. 9) Evangelien: Seinen noch nicht vollendeten Johannes-Kommentar schickt Alkuin a. 800 an Gisla, die Schwester Karls des Großen, Äbtissin von Chelles, und an
Wege ins Heil und die Produktion. von Präsenz im Evangelienbuch Otfrids von Weißenburg (I, 1, 1-50)», Narration und Ethik, hg. von C. Öhlschläger, München, Wilhelm Fink, 2009, S. 183-199, hier S. 198; ferner: Nicola Zotz, «Otfrid von Weißenburg: Evangelienbuch (863/871)», Literarische Performativität. Lektüren vormoderner Texte, hg. von C. Herberichs und Ch. Kiening, Zürich, Chronos Verlag, 2008, S. 44-61. 86 Hrabani Mauri Epist., Nr. 34 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 467-469); vgl. o. Anm. 64. Vgl. Sumi Shimahara, «Le Commentaire sur Daniel de Raban Maur», Raban Maur et son temps, hg. v. Philippe Depreux et al., Turnhout, Brepols, 2010, S. 275-291. 87 P. Riché, «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 98. 88 R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 262. 89 Hrabani Mauri Epist., Nr. 17, 17a (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 420-422). Vgl. Hrabanus Maurus, Carmina, Nr. VI (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae II, S. 166-168); Rabano Mauro, Commentario al Libro di Giuditta, hg. v. Adele Simonetti, Firenze, Ed. del Galluzzo, 2008. Ferner: Joan M. Ferrante, «Women’s role in Latin letters from the fourth to the early twelfth century», The Cultural Patronage of Medieval Women, hg. von H. McCash, Atlanta, The University of Georgia Press, 1996, S. 73-104, hier S. 78 f.; Id., To the glory of her sex: Women’s Roles in the Composition of Medieval Texts, Bloomington, Indiana Univ. Press, 1997, S. 55 f.; D. Green, Women Readers in the Middle Ages, Cambridge, CUP, 2007, S. 193; M. De Jong, «The Empire as Ecclesia», S. 206 f., 215; Martin Gravel, «Judith écrit, Raban Maur répond. Premier échange d’une longue alliance», in Ad libros! Mélanges d’études médiévales offerts à Denise Angers et Joseph-Claude Poulin, Montréal, Les Presses de l’Université de Montréal, 2010, S. 35-48. 90 Hrabani Mauri Epist., Nr. 46 (coll. Monumenta Germaniae Historica Epist. V, 2, S. 500-501). Vgl. Hrabanus Maurus, Carmina, Nr. VI, 2, S. 167. Ferner: J. M. Ferrante, «Women’s role…», S. 99, note 15. 91 Hrabani Mauri Epist., Nr. 19 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 424-425). Der Sendung ging a. 829 ein Gespräch beider de eminentia sanctarum scripturarum et de difficultate divinarum historiarum in der Pfalz zu Worms, in palatio Wangionum, voraus. Vgl. o. Anm. 64. 92 Hrabani Mauri Epist., Nr. 35 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 469-470).Vgl. M. De Jong, «The empire as ecclesia …», S. 191-226; G. Bührer-Thierry, Aux marges du monde germanique, Turnhout, Brépols, 2014, S. 86.
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dessen Tochter Rodtruda93: Quia optimum est in tali studio hos sanctissimos peragere dies [d. h. Ostern]; et maxime in beati Iohannis evangelistae evangelio, in quo sunt altiora mysteria divinitatis, illius quoque evangelii sanctissima verba domini nostri Iesu Christi, quae locutus est ea nocte, qua tradi voluit pro mundi salute. Die beiden Frauen hatten um diesen Kommentar mit präzisen Anweisungen zur Gestaltung und zur Auswertung der theologischen Exegese gebeten, da ihnen die oft dunkle Auslegung des Augustinus nicht genügte. Sie erklärten ihr brennendes Verlangen, die Heilige Schrift, inspiriert durch Alkuins Ausführungen, zu erforschen: nur so entstehe die wahre Weisheit. Anfang des Jahres 801 kann Alkuin den vollendeten Johannes-Kommentar überreichen und betont nochmals die Tiefe gerade dieses Evangeliums: … inter ipsos evangeliorum scriptores valde beatum Iohannem in divinorum profunditate mysteriorum eminentiorem esse.94 Auch königliches Interesse an exegetischen Werken ist bezeugt: Karl III. (876-888) entlieh z. B. der Bibliothek von St Gallen die Homilien Gregors des Großen zu den Evangelien95. Der große irische Gelehrte Johannes Scotus, am Hofe Karls des Kahlen lebend, verfasste zwischen 859 und 869 für den König und seine Gattin Irmindrudis in Gedichtform eine theologische Auslegung des evangelischen Geschehens. In einer späteren Beischrift “ad marginem” wird die Linie, die von Karl dem Großen über Ludwig den Frommen zum Enkel führt, die Königslinie gewissermaßen, akzentuiert: UERSUS IOHANNIS SAPIENTISSIMI AD KAROLUM CALUUM FILIUM LUDOUICI PII CUIUS AUUS FUIT KARLUS MAGNUS96. 10) Epistolae: Winidhari, Schreiber und Dekan im Kloster St Gallen (zwischen 760 und 780)97, kopierte für Karl den Großen des Origenes Kommentar zum RömerBrief (Cod. Wien Österreichische NB 743 s. VIII ex.)98. Der presbyter und spätere
93 Hrabani Mauri Epist., Nr. 195 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 322-323). Siehe auch Nr. 196, S. 323-325, in der Gisla und Rodtruda an die Vollendung des Johanneskommentars mahnen. Vgl. J. J. Contreni, «Carolingian Biblical Studies», S. 90 f.; Id., «Learning in the Early Middle Ages», S. 15; R. McKitterick, «Women and Literacy…», S. 17, 34; Ferrante, «Women’s role», S. 77 f.; Ferrante, To the glory of her sex, S. 54; D. Green, Women Readers…, S. 205. 94 Hrabani Mauri Epist., Nr. 213, 214 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 354-358), hier S. 354. 95 R. McKitterick, The Carolingians and the Written Word, S. 262. Vgl. o. mit Anm. 58 den Grafen Egilolf, der sich aus der Kölner Dombibliothek ein Lektionar, ein Sakramentar und die “Sermones” Gregors des Großen auslieh. 96 Iohannis Scotti carmina, Nr. II, 1-8 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae III, 2, S. 527-540). 97 Vgl. zu Winidhari Beat von Scarpatetti, «Schreiber-Zuweisungen in St Galler Handschriften des achten und neunten Jahrhunderts», Codices Sangallenses. Festschrift für Johannes Duft, hg. von P. Ochsenbein und E. Ziegler, Sigmaringen, Thorbecke-Verlag, 1995, S. 25-56, besonders S. 27-29; Franziska Schnoor, «Das Ringen um das Wort: Auseinandersetzung mit dem Bibeltext im frühmittelalterlichen Kloster St Gallen», Im Anfang war das Wort. Die Bibel im Kloster St Gallen, St Gallen, Verlag am Klosterhof, 2012, S. 21-33, S. 112, hier S. 21 f.; Natalie Maag, Alemannische Minuskel (744-846 n. Chr.). Frühe Schriftkultur im Bodenseeraum und Voralpenland, Stuttgart, Anton Hiersemann Verlag, 2014, S. 36-48. Winidhari hat auch zwei Bände mit den Paulus-Briefen (Cod. Sang. 70) und den sog. Katholischen Briefen (Cod. Sang. 907) geschrieben. 98 Versus libris saeculi octavi adiecti, Nr. II (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae IV, S. 87, 89-90): Qui sternit per bella truces fortissimus heros, / Rex Carolus, nulli cordis fulgore secundus, / Non passus sentes mendarum serpere libris, / En, bene correxit studio sublimis in omni / Winidharius peccator scripsit istum librum. Amen.
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Bischof Claudius von Turin sandte um 816/17 seine expositiones zum Epheser- und Philipper-Brief, Teile eines größeren Werks zu allen Paulus-Briefen, an Kaiser Ludwig den Frommen99. Auch Eberhard von Friaul besaß einen Kommentar zu den Paulus-Briefen (Beda?) und den an Hieronymus gerichteten Traktat Augustins über den Brief des Apostel Jakobus100. Will man diese Liste und den vorher analysierten Bücherbesitz des Adels qualitativ bewerten, dann liegt der Interessenschwerpunkt des hohen Adels, ohne die evangelischen Schriften und die Paulusbriefe vergessen zu wollen, doch eindeutig auf dem Alten Testament, neben den allgegenwärtigen Psalmen vor allem auf den kriegerischen, heroischen und gewissermaßen königlichen Büchern der “Libri regum”, der “Chroniken”, der Judith und der Esther, schließlich der Makkabäerkriege. Erstaunlich lebhaft ist daneben das Interesse an den großen Propheten, vor allem an Ezechiel und Daniel.
Die imitatio der biblischen Vorzeitkönige Was sind nun die Motive dieses Interesses? Zunächst eine ganz allgemeine admonitio, die jedoch speziell und in erster Linie die Regenten betrifft. Die Lektüre der heiligen Schriften und ihre legitimierte Auslegung soll den Herrschern helfen, ihre eigenen Affekte zu zügeln, gute Regierung auszuüben und die Aufgabe wahrzunehmen, die Untertanen in den Lehren der heiligen Schrift zu unterweisen. In Einzelfällen, wie bei den Flores psalmorum des Prudentius und der Auslegung des Canticum Canticorum des Angelomus, geht es auch um die consolatio der adligen Adressaten in calamitatibus, in den Nöten der Welt. Das zentrale Motiv der Bibelexegese für Könige und Adlige ist jedoch die imitatio der biblischen Vorbildkönige und anderer Heroen. Es ist Kaiser Lothar selbst (oder die lectores an seinem Hofe), der 842/46 Hrabanus Maurus um Kommentare bittet und gleichzeitig ihn nach dem Empfang des entsprechenden Kommentars an die Bedeutung des israelischen Landnahme-Heroen Joshua erinnert101: tu contulisti muneribus tuis nobis maximum librum ducis nobilissimi Iesu Nave, qui tipum veri regis aeterni Iesu Christi preferebat, ut Iesum comitemur armati, nec aliter ad capessendam victoriam valemus accedere, nisi Domino virtutum adhereamus. Optandum vero nobis est, et votis omnibus ambiendum, sub tali magistro victricem tolerare militiam peragendam triumpho illius. «Du hast uns durch deine Gaben das gewaltige Buch über den alleredelsten dux Joshua zugänglich gemacht, der den Typus des wahren und ewigen Königs Jesus Christus vorbildet, auf dass wir bewaffnet Jesus begleiten, 99 Claudii Taurinensis episcopi Epist., Nr. 4 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. 4, S. 597-599). Vgl. E. Dümmler, «Über Leben und Lehre…», S. 430 f.; J. Heil, «Claudius von Turin…», S. 394-396. Vgl. o. Anm. 33. 100 P. Riché , «Les bibliothèques de trois aristocrates…», S. 97-98. Die Paulusbriefe werden auch von Dhuoda in ihrem “Liber Manualis” zitiert (ibid., S. 94). 101 Hrabani Mauri Epist., Nr. 38, 39 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 475-478).
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und wir werden den Sieg nur erringen können, wenn wir dem Herrn aller virtus nacheifern. Es ist uns zu wünschen und mit der Unterstützung aller zu erstreben, unter solchem Heerführer den siegesgewissen Kriegsdienst zu leisten und ihn zu seinem Triumph zu vollenden». Man bemerke die durchgehende und noch fortgesetzte militärische Terminologie, die letzten Endes akzentuieren will, dass auch in der gottgeleiteten militia eines edlen Königs und dux, wie es Joshua war, der Sieg Jesu Christi vorgebildet ist. Es ist die Aufgabe der alten biblischen Bücher, wie es beim Paralipomena-Kommentar heißt, «an Hand der Beispiele der Vorväter darüber zu unterrichten, wie die Regierung des Reiches dem Recht entsprechend zu vollziehen sei» (regni gubernacula secundum patrum precedentium exempla legitime tenenda instruere)102. Neben Josua wurden vor allem David wegen seiner Siege und Salomo wegen seiner Weisheit und Gerechtigkeit als Vorbildkönige genannt. Nach dem Daniel-Kommentar Hrabans sollen in assidua meditatione legis Dei die opera iustitiae atque misericordiae der Könige angeregt werden103. Den alttestamentarischen Königen und Helden eine Vorbildfunktion für das frühmittelalterliche Herrscher- und Kriegertum zuzuschreiben, gehört in die Sphäre der seit Papst Gregor dem Großen praktizierten und legitimierten Akkomodation des Christentums an die Kultur der Zeit. Sie ist mit Strategien in den karolingischen volkssprachigen Bibelepen zu vergleichen (s.u.). In der Altsächsischen Genesis (c. Mitte 9. Jahrhundert) wird der Höllensturz Luzifers und der aufständischen Engel und die Bestrafung der sündigen und ungehorsamen Städte Sodom und Gomorrha in Warnungen vor Ungehorsam und Rebellion gegenüber dem rechtmäßigen Herrscher und Lehnsherrn umgesetzt. In der altsächsischen Evangeliendichtung des Heliand werden Szenen in frühmittelalterlichem, heldenepischem Stil aufgebaut, um alsdann dementiert zu werden, z. B. bei der Szene der Gefangennahme Christi in Gethsemane, wo Simon Petrus, der «kühne Schwertmann» in Treue gegenüber seinem drohtin, «seinem Gefolgsherrn», kämpfen will bis zum Tode und in 22 Stabreimzeilen (v. 4861-4882), weit über die Evangelien (Matthäus 26, 51; Markus 14, 47; Lukas 22, 50; Johannes 18, 10) hinaus, dem Kriegsknecht Malchus das Ohr «in Todeswunde» zerschlägt: «Da wurde an seiner Wange schartig der vorderste der Feinde. Da wich das Kriegsvolk, sie scheuten den Biss des Schwertes». Doch folgt in der Szene selbst der christliche Umschlag sofort; die heroische Kampfkulisse ist vom Autor nur aufgebaut worden, um die Botschaft Christi von der Gewaltlosigkeit, von ihm selbst ausgesprochen, um so eindrucksvoller hervortreten zu lassen: «wir dürfen nicht zürnen, nicht widersetzen uns ihrem Streiten … wir mit unseren Taten können nichts wenden». Das ist die völlige Negierung des heroischen Ethos und Tatensinns, aber doch eine ganz andere Herrscherlehre, als sie Lothar und seine Berater aus den Taten des biblischen Heros Joshuas gezogen haben, obwohl die Vorbildfunktion des biblischen Geschehens für aktuelles Handeln erhalten bleibt104.
102 Hrabani Mauri Epist., Nr. 18 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 422). 103 Hrabani Mauri Epist., Nr. 34 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 469). 104 Vgl. W. Haubrichs, Die Anfänge, S. 287-292, 283-284.
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Ganz vergleichbar werden für Königinnen die Heroin Judith und die erfolgreiche Königin Esther gepriesen. In seinem Begleitbrief an Kaiserin Judith (c. 834) zu seinem Judith- und Esther-Kommentar beschreibt Hraban als erstrebtes Resultat der Lektüre105, «den Tugenden und dem Streben nach guten Werken der heiligen Frauen, welche die heilige Schrift würdigt, nachzufolgen» (sanctorum mulierum, quas scriptura sacra commemorat, virtutes ac studium in bono opere imitari). Judith und Esther sind «wegen der außerordentlichen Verdienste, die sie sich durch ihre Tugend erworben haben, Vorbilder sowohl für Männer als auch für Frauen, weil sie die geistigen Feinde mit der Kraft ihres Mutes, und die körperlichen Feinde mit verständigem Ratschlag besiegten» (Quae quidem ob insigne meritum virtutis tam viris quam etiam sunt imitabiles, eo quod spiritales hostes animi vigore, et corporales consilii maturitate vicerunt). «So wird auch eure lobenswerte Klugheit […] alle ihre Feinde glücklich besiegen, wenn sie den guten Anfang verstetigt und bestrebt ist, sich selber stets zu vervollkommnen» (Sic et vestra nunc laudabilis prudentia […], si in bono cepto perseverare atque semetipsam semper meliorare contenderit, cunctos adversarios suos feliciter superabit). «Nehmt also die gleichnamige Judith an, dieses Beispiel der Keuschheit, und verkündet den Lobpreis ihres Triumphes in andauerndem Bemühen und preist vor allem den, der ihr solche Kraft verlieh, dass sie den von allen Menschen Unbesiegten besiegte, den Unüberwindlichen überwand» (Accipite ergo Judith omonimam vestram, castitatis exemplar, et triumphali laude perpetuis eam preconiis declarate, ipsumque super omnia benedicite, qui ei talem virtutem tribuit, ut invictum omnibus hominibus vinceret, insuperabilem superasset). «Esther aber, auch sie Königin und für eine Königin in allen Werken ihrer Frömmigkeit und Heiligkeit nachahmenswert, stellt sie euch immer vor die Augen des Herzens, auf dass ihr die Verdienste von Esthers Heiligkeit erreicht, und es euch gelingt, vom irdischen Reich zur Höhe des himmlischen Reiches aufzusteigen – durch die Gnade dessen, der diese heiligen Frauen triumphieren ließ und zugleich seine gesamte Kirche, die sie dem Typus nach praefigurieren, […] Jesus nämlich» (Hester quoque similiter reginam regina in omni pietatis et sanctitatis actione imitabilem vobis ante oculos cordis semper ponite, quatinus illius sanctitatis meritum adaequantes, de terreno regno ad caelestis regni apicem conscendere valeatis: per ipsius scilicet gratiam, qui illas sanctas mulieres triumphare fecerat et universam aecclesiam suam, quam ipsae typo praeferebant, […] Iesus videlicet). Auch der Kaiserin Irmengarda, Lothars Gemahlin, stellt Hraban gerade Esther als Vorbild dar106: «Ich sandte euch den Kommentar zum Buch über die Königin Esther, deren Klugheit und Stärke des Herzens und deren Sieg über die Feinde euch und den Gläubigen ein edles Beispiel gibt, auf dass alle, die das göttliche Gesetz befolgen und feste Hoffnung in die Güte Gottes haben, darauf vertrauen können, von allen Feinden befreit zu werden» (expositionem libri Hester reginae transmisi, cuius prudentia et constantia mentis victoriaque de hostibus nobilissimum quibusque fidelibus
105 Hrabani Mauri Epist., Nr. 17a° (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 420-421). Vgl. Nr. 17b, ibid., S. 421-422. 106 Hrabani Mauri Epist., Nr. 46 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 500-501), a. 841/51.
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praebet exemplum, ut divinam legem servantes et spem formam in Die bonitate habentes confidant se de universis inimicis liberandos). Das Interesse gerade von weiblichen Adligen an den Projektfiguren von Judith und Esther ist deutlich. Wodurch aber erklärt sich das Interesse der Herrscher an den großen Propheten, vor allem an Ezechiel und Daniel? Wahrscheinlich aus dem in der Karolingerzeit ansteigenden Verlangen nach divinen Weisungen in (auch politisch genutzten) Visionen und Träumen. In den Kommentaren Hrabans zu diesen Propheten werden auch Visionen behandelt, ja schon in den Widmungsbriefen als relevant für die Rezipienten angesprochen, so etwa die Deutung der nächtlich an der Wand von Belsazars/Balthasars Palast in Babylon erscheinenden, Unheil für König und regnum verkündenden Schrift (Daniel 5, 25): mane thecel fares (var. mene tekel upharsin)107. Schon Alkuin zeigte in seinen Reflexionen über die tria genera visionum108 auf, wie die Könige der Bibel, der Pharao und auch Belsazar zwar zur Erfassung der Wörter und der Bilder fähig sind, aber zur visio intellectualis, zur Einsicht in die obscuras et mysticas significationes der Träume und Visionen der Deutung durch Kundige wie Joseph und Daniel bedürfen.
Lateinische Bibeldichtung der Karolingerzeit Während die Bibelkommentare als Zusammenfassung des patristischen exegetischen Wissens in der Karolingerzeit eine mit dem Namen des Hrabanus, dem Abt von Fulda, verknüpfte Blüte erlebten109, während die spätantiken Bibeldichtungen des Arator, Juvencus und Sedulius zur Schullektüre gehörten110, hat diese Zeit doch kaum ein größeres bibelepisches Werk in lateinischer Sprache hervorgebracht, und – mit einer Ausnahme – auch keine Dichtung, die einem Laien gewidmet wurde, oder im Besitz von Herrschern und Adligen war. Die kurzen Rithmi, die sich mit beliebten biblischen Stoffen wie Joseph in Ägypten, den weiblichen Heroen Judith und 107 Hrabani Mauri Epist., Nr. 34, 38 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. V, 2, S. 468, 475). 108 Alcuini Epist., Nr. 135 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epist. IV, S. 203-204). 109 Vgl. den Überblick bei Silvia Cantelli, «L’esegesi della Rinascita carolingia», La Bibbia nel Medioevo, hg. von G. Cremascoli und Claudio Leonardi, Bologna, Edizioni Dehoniane Bologna, 1996, S. 267-198. 110 Vgl. Dieter Kartschoke, Bibeldichtung, S. 123; Wolfgang Haubrichs, «Bibeldichtung (Kontinent)», in: Reallexikon der Germanischen Altertumskunde, Bd. 2, Berlin-New York, De Gruyter, 1976, S. 492-497. Vgl. zur Schullektüre P. Riché, Éducation et culture, S. 317 f.; Günter Glauche, Schullektüre im Mittelalter. Entstehung und Wandlungen des Lektürekanons bis 1200 nach den Quellen dargestellt, München, ArbeoGesellschaft, 1970; Detlef Illmer, Formen der Erziehung und Wissensvermittlung im frühen Mittelalter. Quellenstudien zur Frage der Kontinuität des abendländischen Erziehungswesens, München, Arbeo-Gesellschaft, 1971; M. Lapidge, «Versifying the Bible in the Middle Ages», in The Text in the Community. Essays on Medieval Works, Manuscripts, Authors, and Readers, hg. v. J. Mann und M. Nolan, Notre Dame (Indiana), University of Notre Dame Press, 2006, S. 11-40. Otfrid von Weißenburg, im Approbationsschreiben seines Liber Evangeliorum (863/71) an Erzbischof Liutbert von Mainz, erwähnt – zweifellos vom Kanon der Schullektüre inspiriert – neben den lateinischen Klassikern Vergil, Lukan und Ovid die lateinischen Bibeldichter Juvencus, Arator und Prudentius als Vorbilder: Otfrids Evangelienbuch, hg. von O. Erdmann, 4. Auflage von L. Wolff, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1962 (Altdeutsche Textbibliothek, Bd. 49), S. 4.
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Esther, mit Verkündigung, Geburt Christi, Lazarus, mit Passion und Auferstehung, der Höllenfahrt Christi und dem Jüngsten Gericht befassten, waren wohl für den erbaulichen Vortrag in geistlichen Gemeinschaften gedacht111. Theodulf, Bischof von Orléans, scheint vor 780 verlorene Dichtungen zur Epiphanie, den Wundern und Taten Christi verfasst zu haben112. Audradus Modicus, Chorbischof in Sens, dedizierte a. 849 einige kleinere carmina an Papst Leo IV., die von Gottvater und der Trinität, vom Aufstand Luzifers und dem Engelsturz, vom Sündenfall des ersten Menschenpaares und von der Höllenfahrt Christi erzählen113. Seine Erzbischof Hincmar von Reims gewidmete komplexe Dichtung De fonte vitae handelt von der Inkarnation Gottes als der geistlichen Mitte der Heilsgeschichte zwischen Schöpfung, Sündenfall und der Erneuerung der Schöpfung in der erlösenden Passion Christi.114 Bibeldichtung darf man nur in einem erweiterten Sinne einige nicht allzu lange Hexameter-Gedichte des Florus, Diakons der Kirche von Lyon († um 860), nennen, welche die auch sonst beliebte Episode der «Drei Jünglinge im Feuerofen» oder die Miracula Christi behandeln oder paraphrasierend die Evangelien des Matthäus, Lukas (für die Kindheit Jesu) und Johannes aufrufen. Sie erzählen nicht eigentlich, sondern folgen einem kommemorativen, fast liturgischen Prinzip, in dem man zum Verständnis des heiligen Geschehens dieses eigentlich schon kennen muss115. Doch lässt sich an umfangreicheren Texten fast nur des Milo von St Amand in zwei Büchern, 54 Kapiteln und nahezu 2000 Versen verfasstes Werk De sobrietate («Von der Nüchternheit» bzw. «Mäßigkeit») nennen, das er um 871/72 dem westfränkischen König Karl dem Kahlen widmete116. Das Thema wird freilich nicht jedem am Hofe gefallen haben. Das Werk ist eigentlich eine Tugendlehre, die sich vorwiegend mit der Mäßigkeit und den ihr entgegenstehenden Lastern beschäftigt
111 Vgl. D. Kartschoke, Bibeldichtung…, S. 229-246. Zur karolingischen Bibeldichtung ein Überblick bei: Francesco Stella, La poesia carolingia latina a tema biblico, Spoleto, CISAM, 1993; Francesco Stella, «La trasmissione nella letteratura: la poesia», La Bibbia nel Medioevo, hg. von G. Cremascoli und C. Leonardi, Bologna, Edizione Dehoniane Bologna, 1996, S. 47-64, hier S. 53-57. 112 D. Kartschoke, Bibeldichtung…, S. 240 f. 113 Audradus Modicus von Sens, Carmina (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae III, S. 67-121; 739-745). Vgl. D. Kartschoke, Bibeldichtung…, S. 244 f. Weitere kleinere Gedichte über Christi Geburt und Taten sind verloren. Er besaß als ehemaliger Schüler von Saint-Martin in Tours auch ein turonisches Sakramentar: vgl. W. Koehler, Die karolingischen Miniaturen, Bd. I, 1, S. 243 f. 408 f. Vgl. o. Anm. 7. 114 Audradus Modicus von Sens, Carmina (coll. Monumenta Germaniae Historica Poetae III, S. 73-84). Vgl. Wolfgang Haubrichs, Ordo als Form. Strukturstudien zur Zahlenkomposition bei Otfrid von Weißenburg und in karolingischer Literatur, Tübingen, Niemeyer, 1969, S. 114-118; F. Stella, «La trasmissione nella letteratura», S. 55 f. 115 Flori Lugdunensis Carmina, Nr. I (In evangelium Mathei), Nr. II (Gesta Christi Domini), Nr. III (In evangelium Iohannis), IV (Oratio cum commemoratione antiquorum miraculorum Christi Dei nostri), Nr. IX (Ymnus Ananiae, Azariae, Misahelis sanctorum trium puerorum) etc. (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae II, S. 507-566). Vgl. D. Kartschoke, Bibeldichtung…, S. 245 f., 247-253; F. Stella, La poesia carolingia, S. 212-252. 116 Milo von St Amand, Carmina (coll. Monumenta Germaniae Historica, Poetae III, S. 575-675). Die Widmungsgedichte (Nr. III, 1 und III, 2, S. 610-613) stammen von Hucbald von St Amand und dem verstorbenen Milo, seinem Onkel und Lehrer, selbst. In einem dritten Prologgedicht (III, 3, S. 613-614) erläutert Milo die causae operis. Vgl. P. Godman, Poets and Emperors, S. 173 f.
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und ihre Empfehlungen und Mahnungen durchgehend mit biblischen Exempla belegt, die im 1. Buch mit Sodom, Esau, Samuel, Daniel, Judith, Esther usw. aus dem Alten Testament stammen, im 2. Buch jedoch mit Maria, ihrer Mutter Anna, Johannes Baptista, dem Verlorenen Sohn, Christus etc. aus dem Neuen Testament genommen sind.
Volkssprachige Bibelepik Ganz anders steht es mit der auf dem Kontinent einzigartigen, im 9. Jahrhundert entstandenen volkssprachigen, theodisken Bibelepik: 1) Um 840/50 verfasste ein unbekannter non ignobilis vates aus dem Stamme der Sachsen im Stile der Heldenepik, also in der Technik des germanischen Stabreims, ein in mindestens sechs – davon einer in England geschriebenen – Handschriften überliefertes altsächsisches Evangelienbuch, den sogenannten Heliand117, auf der Grundlage der in Fulda liegenden lateinischen Evangelienharmonie des Tatian (in der Übersetzung des Victor von Capua) und mit Benutzung von Hrabans Matthäus-Kommentar118. 2) Zwischen 863 und 871 vollendete der Mönch, magister und Theologe Otfrid von Weissenburg (in der Diözese Speyer), ein Schüler Hrabans, seinen Liber evangeliorum, eine in eigener Auswahl zusammengestellte poetische Evangelienharmonie, verfasst in althochdeutschen Reimversen119. Man muss mit mindestens acht überlieferten oder indirekt bezeugten Handschriften rechnen120. Beide volkssprachigen Dichtungen entstanden in intensivem Kontakt mit dem karolingischen Königtum121. Nach seiner lateinischen Praefatio122 ist der altsächsische Heliand im Auftrag eines um das Seelenheil seiner Untertanen besorgten frommen 117 Heliand und Genesis, hg. von Otto Behaghel – Burkhard Taeger, 10. Auflage, Tübingen, Niemeyer, 1996 (Altdeutsche Textbibliothek, Bd. 4). Vgl. dazu die oben in Anm. 85 angegebene Literatur; ferner Wolfgang Haubrichs, «“Heliand”», Althochdeutsche und altsächsische Literatur, hg. von R. Bergmann, Berlin-Boston, De Gruyter, 2013, S. 154-163. 118 Wolfgang Huber, Heliand und Mathäusexegese. Quellenstudien insbesondere zu Sedulius Scottus, München, Fink, 1969. 119 Otfrids Evangelienbuch, hg. v. O. Erdmann, 4. Auflage von L. Wolff; Otfrid von Weissenburg, Evangelienbuch. Auswahl. Althochdeutsch/Neuhochdeutsch, hg., übersetzt und kommentiert von G. Vollmann-Profe, Stuttgart, Philipp Reclam Jun., 1987 (Universalbibliothek Nr. 8384). Vgl. W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 292-312; Id., «Ludwig der Deutsche…», S. 227-232. 120 W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 311 f.; Id., «Ludwig der Deutsche», S. 231; Id., «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 91-104. 121 J. J. Contreni, «Learning in the Middle Ages», S. 10 betont zu Recht die initiative Rolle des karolingischen Königtums seit Karl dem Großen für educatio und Bibel-Studien und Bibel-Verbreitung: «it is significant that learning came under the consistent and generous patronage of political leaders for more than a century – some of those leaders actually participated personally in the life of learning. Nothing as sustained and as consistent as the involvement of Carolingian leaders in learning had been since the Roman Empire». 122 Heliand und Genesis, hg. von B. Taeger, S. 1 f.
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augustus Ludowicus entstanden und ist Teil eines herrscherlichen Programms zur Übersetzung der heiligen Schriften, mit dem Ziel, allem Volk, das seiner Herrschaft unterworfen ist und der theodisca lingua nicht kundig ist, also vor allem auch den Laien, die Kenntnis dieser Texte zu verschaffen123. Die Praefatio ist schon nach Sprache und Stil eine an herrscherliche Urkunden und analoge Publikationen mit ihren Arengen angelehnte “Staatsschrift”124: Cum plurimas Rei publicae utilitates Ludouicus piissimus Augustus summo atque praeclaro ingenio prudenter statuere atque ordinare contendat, maxime tamen quod ad sacrosanctam religionem aeternamque animarum salubritatem attinet, studiosus ac devotus esse comprobatur hoc quotidie solicite tractans, ut populum sibi a Deo subiectum sapienter instruendo ad potiora atque excellentiora semper accendat, et nociva quaeque atque superstitiosa comprimendo compescat. In talibus ergo studiis suus iugiter benevolus versatur animus, talibus delectamentis pascitur, ut meliora semper augendo multiplicet et deteriora vetando extinguat. Verum sicut in aliis innumerabilibus infirmioribusque rebus eius comprobari potest affectus, ita quoque in hoc magno opusculo sua non mediocriter commendatur benevolentia. Nam cum divinorum librorum solummodo literati atque eruditi prius notitiam haberent, eius studio atque imperii tempore [sed Dei omnipotentia atque inchoantia mirabiliter] actum est nuper, ut cunctus populus suae ditioni subditus, Theudisca loquens lingua, eiusdem divinae lectionis nihilominus notionem acceperit. Praecepit namque cuidam viro de gente Saxonum, qui apud suos non ignobilis vates habebatur, ut [vetus ac] novum Testamentum in Germanicam linguam poetice transferre studeret, quatenus non solum literatis, verum etiam illiteratis sacra divinorum praeceptorum lectio panderetur … Bemerkenswert ist, dass dieses anspruchsvolle königliche Unternehmen zur Verbreitung der Bibelkenntnis in Volkssprache zunächst auf alle Sprecher der theodisca lingua, also nach zeitgenössischem Sprachgebrauch auf die Sprecher einer 123 Am Ende der Heliand-Praefatio findet sich eine völlig andere, auch stilistisch verschieden formulierte und an die Caedmon-Legende von Beda angelehnte, nämlich göttliche Motivation der Abfassung des Werkes, nach der der Dichter als noch in der Kunst der Stabreimdichtung Unerfahrener im Traume ermahnt worden sei, die «Gebote des heiligen Gesetzes» in heimischer Liedkunst zu formulieren. Es handelt sich hier um eine Anpassung an ein der Praefatio folgendes Versstück (Versus de poeta et interprete huius codicis), nach dem – entsprechend Bedas Hirten Caedmon – ein Landmann im Schlaf durch eine göttliche Stimme zum Dichter der göttlichen Gesetze und Schriften in der eigenen Sprache berufen wird. Insofern ist es sinnvoll, von einer die Enthistorisierung und Sakralisierung der Werkgenese betreibenden Interpolation der ursprünglichen Praefatio auszugehen. Vgl. dazu W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 272-287; Id., «Ludwig der Deutsche…», S. 216-225. Dagegen postulieren B. Taeger (Heliand und Genesis, S. XXXV-XXXVIII) und Ernst Hellgardt, «Die “Praefatio in librum Antiquum lingua Saxonica conscriptum”, die “Versus de poeta et interprete huius codicis” und die altsächsische Bibelepik», Entstehung des Deutschen. Festschrift für Heinrich Tiefenbach, hg. v. A. Greule et al., Heidelberg, Winter, 2004, S. 173-230, in recht kunstvoller Interpretation eine ursprüngliche Einheit der Praefatio. Doch möge man unter echten karolingischen Texten einen beibringen, in dem in der Narratio zwei so gegensätzliche Motivationen bzw. Ursprungserzählungen nebeneinander stehen. 124 Hier wird nur der für unseren Zusammenhang relevante Anfang des Textes wiedergegeben, die vermutlich interpolierten Wendungen in eckigen Klammern.
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nichtlateinischen, “germanischen” Volkssprache125 gerichtet war (womit in der Praxis des Reiches vor allem Althochdeutsch, Altniederfränkisch, Altfriesisch und Altsächsisch gemeint sein mussten). Der spezielle Fokus des Herrschers richtet sich dann aber für Werk und Autor (non ignobilis vates)126 auf das Altsächsische, das mit Germanica lingua bezeichnet wird, so der vor allem in Fulda betriebenen Gleichsetzung der Germani des Tacitus mit den erst vor nicht allzu langer Zeit bekehrten Sachsen Rechnung tragend127. Neben dem Großepos des Heliand existierte auch eine altsächsische Genesisdichtung, ebenfalls in Stabreimform, vermutlich jedoch nicht vom gleichen vates verfasst128. Ihre fragmentarische Erhaltung verdankt man einerseits Exzerpten, die – wohl zu Predigtzwecken – in den sechziger Jahren des 9. Jahrhunderts im Umkreis des Mainzer Erzbischofs aus Heliand und Genesis in eine komputistische Sammelhandschrift eingetragen wurden, andererseits aber der Integration einer großen Passage der sächsischen Genesis in die altenglische Genesis B. Für diese altsächsische Genesis hat man überzeugend Aktualisierungen des biblischen Stoffes aufgezeigt, die auf fundamentale Probleme der karolingischen Adelsgesellschaft und ihres Herrschaftssystems zielten129. In drei Szenarien, dem Aufstand Luzifers und dem Engelsturz, dem Sündenfall des ersten Menschenpaares, und dem Untergang Sodoms, wird über die biblische Vorlage hinaus das Thema des Ungehorsams, des verwerflichen Hochmuts und der unrechten Auflehnung gegen den gesetzten Herrn und Herrscher, dem
125 Vgl. zum Sinngehalt von theodiscus in karolingischer Zeit Wolfgang Haubrichs – Herwig Wolfram, «Theodiscus», Reallexikon der Germanischen Altertumskunde 30 (2005), S. 421-433. 126 Eine frühere Parallele zu dem non ignobilis vates, zu dem «in seinem Stamme nicht unbekannten SängerDichter» findet sich in der nahezu gleichzeitigen, von Bischof Altfrid von Hildesheim mit Kennerschaft verfassten Vita Liudgeri mit Bezug auf die Zeit um 790: Liudger, Bischof von Münster, aus friesischem Adelsgeschlecht, traf auf dem Landgut einer friesischen Dame von Stand den blinden Sänger Bernlef, der «von den Umwohnenden sehr geschätzt wurde, weil er angenehm im Umgang war und es wohl verstand, die Taten der Alten und die Kämpfe der Könige zur Begleitung eines Saiteninstruments vorzutragen (psallendo promere)». Der Bischof lässt den Blinden Buße tun, legt ihm die Hände in Kreuzform auf die Augen und heilt ihn. Der heidnische Sänger bekehrt sich, wird von Liudger im friesischen Missionswerk verwandt und lernt schließlich von seinem Förderer die Psalmen, die er in sein Vortragsrepertoire aufnimmt. Die Szene zeigt zugleich die Nähe von Heldenlied und im gleichen Stil verfasstem Bibellied – man vergleiche im althochdeutschen Bereich den Psalm 138 (s.o. Anm. 31) und das Reimstück von Christus und der Samariterin (s.u. Anm. 143) – im adligen Milieu. Vgl. W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 63 f. 127 Vgl. W. Haubrichs, «Ludwig der Deutsche…», S. 223 mit Anm. 57. Zum vorwiegend, aber sicherlich nicht ausschleßlich laikalen Publikum des Heliand vgl. Harald Haferland, Mündlichkeit, Gedächtnis und Medialität. Heldendichtung im deutschen Mittelalter, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2004, S. 25-72; Ingrid Rembold, «The Christian Message and the Laity: The “Heliand” in Post-Conquest Saxony», Transforming Landscapes of Belief in the Early Medieval Insular World and Beyond. Converting the Isles II, hg. von N. Edwards, M. Ní Mhanonaigh und R. Flechner, Turnhout, Brepols, 2017, S. 175-206. 128 Heliand und Genesis, hg. von O. Behaghel – B. Taeger, S. XXIX-XXXIII, 217-256. Vgl. W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 287-292; Id., «Ludwig der Deutsche…», S. 225 f. 129 Vgl. Hans Schottmann, «Die Darstellung des Sündenfalls in der “Altsächsischen Genesis”», Literaturwissenschaftliches Jahrbuch N. F. 13 (1972), S. 1-11; Ute Schwab, «Ansätze zu einer Interpretation der altsächsischen Genesisdichtung» I-II, Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, Sez. Germanica 17 (1974), S. 111-186; 18 (1975), S. 7-86; Chiara Staiti, «La “Genesis B” e il sesso degli angeli», Linguistica e Filologia 10 (1993), S. 187-217.
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man als christlicher und weltlicher fidelis Treue schuldet. Alles geht dabei vom Vater der superbia, Satan, dem ewigen Verführer aus, der in der Gestalt eines “Engels des Lichts” erscheint, geradeso wie man es später, 873, auf dem Reichstag zu Frankfurt in aller Öffentlichkeit erlebte, als – nach den Worten der Annales Sancti Bertini – zu Ludwigs Sohn Karl «der Teufel in der Gestalt eines Engels des Lichts kam», um ihn zum Aufstand gegen den Vater aufzureizen130. In der germanischen Stabreim-Form sind auch zwei Bruchstücke geschrieben, die in althochdeutscher Sprache auf uns gekommen sind – zunächst der vielleicht seiner süddeutschen Überlieferung nach noch ins 8. Jahrhundert zurückreichende, die Weltentstehung in negativer Theologie schildernde Wessobrunner Schöpfungshymnus, dann das den Weltuntergang und das Jüngste Gericht schildernde Muspilli-Gedicht (103 Zeilen), das im späteren neunten Jahrhundert wahrscheinlich am Regensburger Hofe Ludwigs des Deutschen «durch eine des Bücherschreibens ungewohnte Hand» (Bernhard Bischoff) auf einigen freien Seiten und freigebliebenen Seitenrändern einer dem König gehörenden Handschrift (Clm. 14098) fragmentarisch eingetragen wurde131. Otfrids in Endreimen gehaltener Liber evangeliorum wiederum beruft sich in einem an den zuständigen Erzbischof von Mainz gerichteten Approbationsbrief für sein Vorhaben, weit zurückgreifend, auf das Vorbild der spätantiken Bibeldichter, die auch in ihrer lingua nativa bzw. sua lingua geschrieben hätten132. Er selbst habe sein Werk in fränkischer Sprache verfasst, «damit auf diese Weise alle, die vor der Schwierigkeit einer fremden Sprache zurückschrecken, hier in der eigenen Sprache die hochheiligen Worte verstehen lernen und, das Gesetz Gottes im Medium ihrer eigenen Sprache begreifend, davon Abstand nehmen, sich im Geiste auch nur ein wenig davon zu entfernen» (ut qui in alienae linguae difficultatem horrescit, hic propria lingua cognoscat sanctissima verba, deique legem sua lingua intellegens, inde se vel parum quid deviare mente propria pertimescat). Wird hier für das Evangelium in der Volkssprache noch ein starker Akzent auf ein moralisches Ziel gelegt, so hat Otfrid im einleitenden Kapitel seines Werks, in dem er auf die Frage Cur scriptor hunc librum theotisce dictaverit antwortet, ein reichspolitisches Motiv in den Vordergrund gestellt133: Die Franken haben ein Recht darauf, Christus in ihrer Sprache zu besingen, ebenso wie die Römer, da sie als Reichsvolk diese abgelöst 130 Annales Bertiniani, hg. von R. Rau, in: Quellen zur karolingischen Reichsgeschichte, Teil 2, Darmstadt, WBG, 1966, S. 228: … diabolus transformans se in angelum lucis… 131 Bernhard Bischoff, «Paläographische Fragen deutscher Denkmäler der Karolingerzeit», Frühmittelalterliche Studien 5 (1971), S. 101-134, hier S. 122 f.; W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 243-247, 318-323; Mathias Herweg, «Anfang und Ende der Welt im Stabreim – Kosmologische Entwürfe der ältesten deutschen Literatur», Anfang und Ende. Vormoderne Szenarien von Weltentstehung und Weltuntergang, hg. von M. Gindhart und T. Pommerening, Darmstadt, WBG, 2016, S. 105-139. 132 Otfrids Evangelienbuch, hg. v. O. Erdmann – L. Wolff, S. 4-7. Vgl. D. Kartschoke, Bibeldichtung, S. 290-293; Johannes Schwind, «Otfrid von Weißenburg und die Tradition der lateinischen Bibeldichtung der Spätantike», Metamorphosen der Bibel, hg. von R. Plate und A. Rapp, Bern-Berlin, Peter Lang, 2004, S. 77-101; W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 82-84 (vgl. o. Anm. 85); S. Shimahara und J. Schneider, «Gouverner avec la Bible», S. 117-130. 133 Otfrids Evangelienbuch, hg. von O. Erdmann – L. Wolff, S. 11-14.
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haben und ihnen, wie er an mehreren Beispielen darlegt, in Macht, Oekonomie und Klugheit gleichwertig sind. Otfrids Abt Grimald war zugleich der archicapellanus und archicancellarius König Ludwigs des Deutschen, also Vorsitzender des engsten Beratergremiums des Königs. Er war ein politisch-geistlicher Multifunktionär, zugleich auch Abt des Schweizer Klosters St Gallen134. Es ist daher nicht zufällig, dass Otfrid sein revolutionäres Werk an die führenden Mönche von St Gallen schickte135. Und genausowenig kann es zufällig sein, dass Otfrid sein Werk – neben dem Bischof Salomo I. von Konstanz und den Mönchen Hartmuot und Werinbert von St Gallen – dem König Ludwig dem Deutschen in einem Preisgedicht widmete, das Chiara Staiti vor einiger Zeit einer erhellenden Analyse unterzogen hat136 . Darin heißt es (v. 87-90): Themo díhton ich thiz búah; oba er hábet iro rúah ódo er thaz giwéizit, thaz er sa lésan heizit; Er híar in thesen rédion mag hóren evangelión, waz Kríst in then gibíete Fránkono thíete. («Für ihn dichte ich dieses Buch; wenn er ihm Beachtung schenkt, oder er anweist, dass er sie lesen heißt, dann kann er hier in diesen Sätzen das Evangelium hören, was Christus darin dem Volk der Franken gebietet»)137. Der Verfasser des Evangelienbuchs formuliert hier eine Widmung, aber auch einen Lesewunsch für den König und die Bitte um Verbreitung. Das ist eine Konsequenz jenes oben bereits skizzierten programmatischen Status, den die Könige, ihre Theologen, ihre lectores und capellani seit der ersten Hälfte des neunten Jahrhunderts der Bibel und den Evangelien zumaßen. Wie mit den bekannten königlichen Prachtbibeln, ihren Illustrationen, Herrscherbildern und Widmungsversen wird hier ein Dialog zwischen König und biblischen, vor allem alttestamentarischen Vorbildern begonnen. Wie weit freilich Bitte und Wunsch Otfrids sich erfüllten, wissen wir nicht. Doch befand sich nach Otfrid schon unter den Anregern seines Werkes eine 134 Vgl. zu Grimald B. Bischoff, «Bücher am Hofe Ludwigs des Deutschen…»; Dieter Geuenich, «Beobachtungen zu Grimald von St Gallen, Erzkaplan und Oberkanzler Ludwigs des Deutschen», Litterae Medii Aevi. Festschrift für Johanne Autenrieth, hg. von M. Borgolte und H. Spilling, Sigmaringen, Thorbecke, 1988, S. 55-68; Thomas Zotz, «Grimald», Lexikon des Mittelalters, Bd. 4, München-Zürich, Artemis Verlag, 1989, Sp. 1713 f. 135 Otfrids Evangelienbuch, hg. von O. Erdmann – L. Wolff, S. 266-270. Vgl. Wolfgang Haubrichs, «Otfrids St Galler “Studienfreunde”», Amsterdamer Beiträge zur Älteren Germanistik 4 (1973), S. 49-112; Id., «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 89 f. 136 Vgl. o. Anm. 85. Eine weitere Verbindung zwischen dem Hof Ludwigs des Deutschen und Otfrid wird geschaffen durch die nahe ikonologische Verwandtschaft zwischen der Kreuzigungsabbildung in der originalen Wiener Handschrift des Evangelienbuchs (f. 153v), der Kreuzigung im Lorscher Codex Vaticanus Pal. lat. 834 und dem nachträglich, wohl im letzten Drittel des 9. Jh.s eingefügten Crucifixus des Psalters Ludwigs des Deutschen (s.o. Anm. 21). Vgl. dazu E. Jammers, «Der sog. Ludwigspsalter…», S. 96; siehe auch den Beitrag von Chiara Staiti in diesem Band, S. 120. 137 Otfrids Evangelienbuch, hg. von O. Erdmann – L. Wolff, S. 1-3. Vgl. W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 84-87.
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sicherlich vornehme matrona veneranda namens Judith138. Von den Handschriften befand sich der Palatinus (in Weißenburg kurz nach dem Original entstanden) im Besitz oder im Umfeld der schwäbischen Herzogsfamilie der Burkhardinger139: In diese, und zwar an einer Stelle, wo es um die Schlüsselgewalt Petri geht (III, 12), trug sich mit ungeübter Hand eine Leserin, also wohl eine laikale Leserin des frühen 10. Jahrhunderts, mit einem eigenständigen dreizeiligen, versartigen Griffel-Vermerk über ihre intensive Lektüre ein (f. 90r)140, so dass man doch von einem Gebrauch des Werkes in adligen Familien der Karolingerzeit sprechen darf, wobei die gebildeten lectores, die gewiss in einer Adresse Hrabans an Ludwig den Deutschen und anscheinend auch in der Heliand-Praefatio angesprochen sind und auch sonst als Mitglieder der königlichen Hofkapelle und adliger Höfe bezeugt sind, eine bedeutsame Vermittlerrolle gespielt haben können141. Otfrid wünscht sich, daß der König seine Evangeliendichtung zu «lesen» gebiete. Hrabanus Maurus spricht die peritissimi, sagacissimi lectores, die sich am Hofe Ludwigs des Deutschen befinden, ausdrücklich als Vermittler und Interpreten seiner Schriften gegenüber dem König an142. Eine technisch-stilistische Nachfolge lässt sich für Otfrid fast nur in zwei kleineren, bezeichnenderweise ebenfalls zur Bibelepik gehörigen Reimdichtungen nachweisen, im bereits behandelten althochdeutschen Psalm 138 und in dem von mündlicher, balladenhafter Erzählweise geprägten, wohl im Bodenseekloster Reichenau im frühen 10. Jahrhundert nach fränkischer Vorlage geschriebenen (aber nur fragmentarisch
138 Vgl. zu dieser Judith W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 78-82. Diese Anregerin, wenn nicht Mäzenin wird in den sonst umfassenden Arbeiten von Joan M. Ferrante (siehe Anm. 89) zur Rolle der Frauen in der früh- und hochmittelalterlichen Literatur merkwürdigerweise nicht erwähnt. 139 Vgl. Wolfgang Haubrichs, «Die alemannische Herzogsfamilie des 10. Jahrhunderts als Rezipient von Otfrids Evangelienbuch? Das Spendenverzeichnis im Codex Heidelberg Palatinus lat. 52», Festschrift für Eduard Hlawitschka, hg. von K. R. Schnith und R. Pauler, Kallmünz Opf., Lassleben, 1993, S. 165-211; W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 92-100. Die Ausführungen von Heiko Hartmann, «“Hicila-Vers”», Althochdeutsche und altsächsische Literatur, hg. von R. Bergmann, Berlin-Boston, De Gruyter, 2013, S. 163-164, zu diesem Punkt berücksichtigen das “Spendenverzeichnis” nicht und sind deshalb hinfällig. 140 F. 90r: Kicila (oder Hicila) / diu scona min filo / l(a)s. Vgl. W. Haubrichs, «Laien, Klerus, Mönche, König…», S. 100 f. (mit weiterer Literatur). Vgl. auch, D. Green, Women Readers…, S. 123. 141 Vgl. D. Green, Women Readers…, S. 18. Angesichts der Widmung und der Wünsche zur Publikation an den König, angesichts der anregenden Rolle der matrona Judith, angesichts der eigenen Worte Otfrids über seine Adressaten in seinem Approbationsschreiben an den Erzbischof Liutbert von Mainz, angesichts der Verortung des Palatinus im Umkreis einer bedeutenden alemannisch-fränkischen Adelsfamilie, angesichts des laienhaften Eintrags einer Leserin in eben dieser Handschrift, ist die Skepsis, die Beate Kellner, «Wort Gottes – Stimme des Menschen. Textstatus und Profile von Autorschaft in Otfrids von Weißenburg “Evangelienbuch”», Geltung der Literatur. Formen ihrer Autorisierung und Legitimierung im Mittelalter, hg. von B. Kellner, P. Strohschneider und F. Wenzel, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 2005, S. 139-162, hier S. 159-161, hegt, eher nicht berechtigt. Ein Indizienbeweis ist keine Spekulation. Vgl. auch Elke Koch und Harald Haferland, «Heilsteilhabe bei Otfrid», Inkulturation. Strategien bibelepischen Schreibens in Mittelalter und Früher Neuzeit, hg. von B. Quast und S. Spreckelmeier, Berlin-Boston, De Gruyter, 2017, S. 73-107, hier S. 88-91. 142 Hrabani Mauri Epist., Nr. 34, Nr. 37 (coll. Monumenta Germaniae Historica, Epistulae V, S. 468, 473).
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erhaltenen) Exempelstück Christus und die Samariterin (nach Io 4, 3-42), in dem die Geschichte nach kurzer Exposition – durchaus nach dem Vorbild des Evangelisten – ganz aus dem Dialog der Protagonisten heraus entwickelt wird: Christus offenbart sich der Samariterin und ihrem Volk am Brunnen des Altvaters Jakob als der erwartete Messias, der das göttliche «Wasser des Lebens» bringt, nach dessen Genuss niemand mehr Durst leiden wird143. Diese Geschichte von der Enthüllung des wandernden Rabbi als des Erlösers nicht nur der Juden, sondern auch anderer Völker war wohl als paränetischer Meditationsstoff auch für Laien, seien sie nun selbst schriftkundig oder eines vermittelnden lector bedürftig, gut geeignet.
Fazit: Ein neues Bewusstsein Fragen wir nun nochmals nach der Stellung der volkssprachigen Dichtungen in der Entwicklung der karolingischen Bibelkultur, so müssen wir auf die Bedeutung der großen königlichen Prunkhandschriften und ihrer Miniaturen und Paratexte, ihrer Widmungsverse zurückgreifen. Bernice M. Kaczynski hat bereits 1995 in einem bedeutsamen Aufsatz auf das neuartige Aufkommen von Hieronymus-Porträts in repräsentativen Bibelhandschriften der Karolingerzeit hingewiesen144. Das beginnt mit dem berühmten Dagulf-Psalter (zwischen 783 und 795) und den gleichzeitigen Elfenbeinplatten des Einbandes. Die Stirnseite zeigt, wie zu erwarten, König David, wie er die Psalmen komponiert und diktiert und die Harfe spielt; die Rückseite aber zeigt den Übersetzer, den zweiten, diesmal lateinischen Verfasser Hieronymus im Prozess des Schreibens und Diktierens. Der Dagulf-Psalter feiert, vorbereitet durch praefationale Texte, die Revision und Verbreitung des Psalters durch Hieronymus. Hier sind im Bereich der Hofschule Karls des Kahlen seit der Mitte des 9. Jahrhunderts die für den westfränkischen König gefertigte Vivian-Bibel, ebenso die für ihn bestimmte Bibel von San Paolo und der Pariser Psalter Karls anzuschließen. Es handelt sich um Autor-Portraits von Hieronymus, die den Evangelisten-Bildern der Evangeliare gleichkommen. In den Hieronymus-Bildern drückt sich eine steigende Wertschätzung der Übersetzung, die erst den Erfolg der biblischen Unterweisung im Frankenreich, im Bereich der lateinischen Kultur ermöglichten. Dies ist ein neues Bewusstsein. Es ist zu überlegen, ob sich nicht in den vom Königtum geförderten volkssprachigen Bibelübersetzungen und Bibeldichtungen ein weiterer, letzter progressiver Schritt zur Einbeziehung auch der Nicht-Latein-Kundigen, der illitterati in die pastorale Kultur des frühen Mittelalters ausprägt. Zum Schluss eine Bemerkung, die die Bedeutung der volkssprachigen Bibelepik in der Karolingerzeit auch quantitativ zu erhellen vermag: Es ist ein erstaunliches Faktum, dass mit diesen im Umkreis des Königtums entstandenen theodisken
143 Vgl. W. Haubrichs, Die Anfänge…, S. 312-314. 144 Bernice M. Kaczynski, «Edition, Translation and Exegesis. The Carolingians and the Bible», «The Gentle Voices of Teachers». Aspects of Learning in the Carolingian Age, hg. von R. E. Sullivan, Columbus, Ohio State Univ. Press, 1995, S. 171-185.
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Bibelepen von c. 6000 (Heliand) und 7104 (Otfrid von Weißenburg) Langzeilen die beiden umfangreichsten Dichtungen der Karolingerzeit in zwei Volkssprachen, nicht in der lateinischen Theologen- und Gelehrtensprache verfasst wurden145.
145 Schon Heinz Rupp, «Über das Verhältnis von deutscher und lateinischer Dichtung im 9. bis 12. Jahrhundert», Germanisch-Romanische Monatsschrift 39 (1958), S. 19-24; neu in: Mittellateinische Dichtung. Ausgewählte Beiträge zu ihrer Erforschung, hg. von Karl Langosch, Darmstadt, WBG, 1969, S. 36-48, hier S. 43, bemerkte: «Eine solch umfangreiche Dichtung wie die Otfrids […] ist einmalig im Reich der karolingischen Literatur»; sie kann nur durch den bewussten Rückgriff auf die spätantiken lateinischen Bibeldichtungen erklärt werden, übertrifft aber – wie auch der “Heliand” – diese den Verszahlen nach bei weitem. Vgl. auch D. Kartschoke, Bibeldichtung, S. 272; Klaus Kipf, «Erzähler und Autorinstanz im “Heliand” und in Otfrids “Evangelienbuch”», in: LiLi. Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik 47, H. 2 (2017), S. 239-255, hier S. 240.
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Abstracts
Franca Ela Consolino The article examines the use of both biblical and historical exempla, and the way they interact, in Sedulius Scottus’ de rectoribus Christianis. What emerges is that, while the biblical exempla retain their authoritativeness, they are meaningfully supplemented by the examples from non-biblical history, which address circumstances and issues that are far removed from those of the Old Testament. These are particularly concerned with three aspects of Christian kingship: the proper exercise of power, the transcendent horizons of the Faith and the existence of the institution of the Church. Giuseppe Cremascoli This essay outlines incidences and aspects in Medieval Latin culture of exegesis focussing on the exhortation, attributed to the Apostle Peter, to venerate God and honour the King. As foreigners and pilgrims on earth in accordance with their commitment as citizens of the Kingdom of God, Christians felt constrained to measure themselves against the saeculare dominium especially in cases of conflict or, at any rate, in each circumstance defined by the need to bear good witness to the values of salvation inherent in the Christian message. Among the various positions assumed, references to the Gospel teaching to render to God what is God’s and to Caesar what is Caesar’s, as well as the duty to show reverence with loyal devotion propter Deum to principes gentium stand out, at least to the extent that one is allowed to act and live in his quae non sunt contra Deum. There are many authors for whom the honour that Christians owed to the potentes is also seen as captatio benevolentiae to avoid persecution or to protect oneself from harmful interference in the profession of exemplary faith and an authentic Christian life. Dora Faraci The Old English Prose Psalter (Paris, B.N., lat. 8824, eleventh century) poses a variety of problems to the reader, one of which is its debated attribution to king Alfred the Great. After an overview of the diffusion of the Psalter in Anglo-Saxon England, of the king’s tendency to appropriate scriptural voices and of the early development of the Alfredian myth, the present paper focuses on Psalm 43, which represents a classical example of a plea against the oppression of the enemies. The analysis of some key terms to be found in it and a comparison to other vernacular Psalm translations or glosses contribute to state the distinctive feature of the prose Paris Psalter and to attribute the work to the difficult period of the Viking’s wars in Alfred’s time rather than to the eleventh century manuscript context.
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Wolfgang Haubrichs Since the times of Charlemagne, who ordered the correction and emendation of the extant biblical manuscripts, splendid bibles (Prachtbibeln), pentateuches, psalters and gospel books, often richly illustrated and, for the iconography, dependent on antique models, were often dedicated to rulers. The kings themselves, especially Charles the Bald (840-874), initiated the production of such magnificent holy codices. But for kings, for members of the high nobility, for their capellae and libraries, also biblical manuscripta for everyday use can be proved. Amazing, above all, is the dedication of complex bible commentaries to rulers by distinguished theologians like Hrabanus Maurus (780-856), abbot of the monastery of Fulda, which intended to open the allegorical sense of the Holy Scriptures also to the layity. Dedication poems and dedication letters supply evidence that for the rulers the bible books were spiritual remedies, giving comfort and consolation. The kings and the aristocrats searched, guided by theological exegesis, for the mysteria Dei, the secrets of the Holy Scriptures. Especially the books of the Old Testament provided models for the imitatio of the ancient just kings and, at the same time, gave instructions and admonitiones for good government. The last stage is reached with the (scanty) late Carolingian Latin bible-epics and with contemporaneous vernacular bible poetry, producing the most extensive poems of the time, always in relation to kings. The gospel harmony of the Old Saxon Heliand (c. 840/50) was ordered by Ludovicus piissimus Augustus, while the Frankish Liber Evangeliorum of the Wissembourg monk Otfrid (863/71) is dedicated to Louis the German, king of the orientalia regna Francorum. Lucia Lazzerini The murder of the archbishop Thomas Becket in Canterbury Cathedral (1170) after a long period of serious contrasts with the king Henry II Plantagenet deeply shocked Christendom. The topic of the education and duties of the good sovereign, peculiar to the specula principis (an ancient literary genre also cultivated in the Middle Ages), became then hotly relevant: the matter to which John of Salisbury had devoted quite a few thoughts in his Policraticus was resumed with a great variety of considerations in the Latin and vernacular texts subsequent to the brutal crime. In the successful Latin poem Alexandreis by Walter of Châtillon, the figure of Alexander is the perfect example of the ruinous fall to which haughtiness can lead even the most fortunate. In the rising vernacular literatures a complex meditation on the difficult relationship between the priest and the king, between spiritual authority and secular power, developed under the pleasant integumentum of fantastic and engaging adventure stories. A unique moral, obviously based on the Scriptures, stands out in the different texts produced from France to Spain, ranging from Chrétien de Troyes’ Erec et Enide – written shortly before the Becket’s murder – to the the Libro de Alexandre: Sapientia must govern all the sovereign’s actions (Per me reges regnant, Prov. 8, 15). The prince must be learned, but he cannot be the holder of wisdom: he will always have to rely on wise counselors, avoiding treacherous courtiers like the plague. And it is still the Bible that can enlighten him in choosing good advisers, as John of Salisbury had written, quoting the Levitic tribe of Deuteronomy and its clear symbolic meaning, corresponding to the main point of his theocratic conception of society.
ab st ract s
Elena Malaspina The available documentation concerning some doctrinal discussions between Gundobad (d. 516), the king of Burgundians, and the bishop Avitus of Vienne (d. 518) shows the endurance of the patristic tradition that even in violent times valued the human reason, supporting it with the authoritative witness of God’s word, drawn on biblical examples. Francesco Marzella One of the characteristics of Aelred of Rievaulx’s writings is his frequent use of biblical quotations. In two texts dedicated to Henry II, De genealogia regum Anglorum and Vita sancti Ædwardi regis et Confessoris, Aelred uses biblical expressions or exempla to delineate an ideal image of kingship and to show how the history of the English kings can be considered as a continuation of the sacred history narrated in the Bible. This paper illustrates some characteristics of the biblical quotations in these two texts, focusing on three main aspects: the rulers’ relationship with the Bible, references to biblical models, biblical quotations and kingship. Paola F. Moretti A survey of Ambrose’s works from 388-390 reveals the importance of David, who is singled out as a model for both the common Christian and the Christian emperor. Rooted as it is in love for God, David’s humilitas is a Christian virtue rather than a moral weapon which Ambrose cunningly devises and to which he resorts in a calculated response to the events of 388-390 (Callinicum and Thessalonica). Accordingly, De obitu Theodosii (395) should not be read as a merely political speech. It is a homily addressed by a sacerdos to a (dead) imperator and to his sons, preached within a religious context and strongly shaped by liturgical readings. Amongst them, Psalm 114 is better understood in the light of the scriptural quotations brought to mind by the word dilexi, which is to be read first of all as a personal confession of faith. Most importantly, the emphasis on dilexi shows that love for God forms the core of the life of any Christian, and thus also of the figure of the emperor portrayed in the text. Chiara Staiti Through a close reading of some passages from Liber Evangeliorum by Otfrid von Weissenburg (mainly I, 11 and V, 16) and of the Nativity part from Heliand, this paper analyzes the portrayal of the imperial authority in literature and paintings, its development in Christological epics in German vernacular and its assimilation to the figure of Christ, notably through the imagery of the “world in his hands”, expressed by the rhyme henti : woroltenti as a description, at first, of Augustus’s power, and, later on, of the crucified and resurrected Messiah. Giuseppa G. Zanichelli In the Middle Ages the visual narrative of the Books of Kings is second for extension only to the Pentateuch and it reveals an extraordinary ability to adapt and perform
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both on regard to the theological conception or to the historical situation in which it is executed. If isolated episodes as David and Goliath or Elijah in a chariot of fire have a constant meaning, the narration of the beginning of the Jewish hereditary monarchy changes its significance in different contexts. The study focuses on four moments: the Late Antique in which the narration follows the pattern of classical epic; the Carolingian Era in which David becomes the model of the dynasty and the betrayal of Absalom recalls the dynastic struggles; the period between XI and XII Century when the contrast between prophets and kings presages the clash between Sacerdotium and Regnum; the time of the crusades, when Sacred History develops to Histoire d’Outremer.
The Authors
Franca Ela Consolino is Professor Emerita of Latin language and literature at the Università dell’Aquila. Her research focuses on literary, historical, philological aspects of late antique and early Medieval Latin literature, with contributions on profane and Christian authors, literary genres and cultural milieus. She is also author of several essays dealing with the elaboration of episcopal and female sanctity models, as well as the role of women in the Christianization of the western aristocracy, and ideal portraits of saintly queens between Late Antiquity and the early Middle Ages. She is editor in chief (with Carla Lo Cicero) of the collection «Studi e Testi tardoantichi. Profane and Christian culture in late antiquity» published by Brepols. Giuseppe Cremascoli is Professor Emeritus of History of Medieval Latin Literature at the University of Bologna and the author of over six hundred works on medieval spirituality and culture, including specialist studies of Uguccione da Pisa (Bishop of Ferrara), Gregory the Great, Durand of St. Pourçain, Roland of Cremona. Dora Faraci is Professor of Filologia germanica at the Università degli Studi di Roma Tre (Dipartimento di lingue, letterature e culture straniere). Her interests are in the field of medieval Germanic texts, mainly in Old and Middle English, and on their relationship with works belonging to different cultural milieus. She has written widely on the medieval Physiologus tradition and has edited the Middle English Bestiary. She is currently working on the fortune of Anglo-Saxon texts in Italian literature, in order to investigate how they have been received and re-envisioned in a modern perspective in the Romance world. Wolfgang Haubrichs has been Professor for Medieval German Literature and History of the German Language at the University of the Saarland (Saarbruecken) since 1977. He is a member of the Mainz Academy of Sciences and Literature and the Austrian Academy of Sciences. His research focus is on Early Medieval literature, hagiography, Middle High German poetry, Late Medieval prose novels and the early history of German, particularly the area of Germanic, Frankish and Langobardic onomastics. Lucia Lazzerini is former Professor of Romance Philology at the University of Florence. Her best-known works include two volumes on Troubadours poetry (Letteratura medievale in lingua d’oc, 20102; Les troubadours et la Sagesse, «Cahiers de Carrefour Ventadour», 2013), studies on the folkloric roots of Old French texts (Audigier, 2003), as well as a great number of articles and essays which propose innovative interpretations of early Romance texts and of the most important medieval literary
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masterpieces (Chrétien de Troyes’s novels, the Occitan novels Flamenca and Jaufre, and the Spanish Libro de Alexandre). The common thread in all papers, partly collected in the volume Silva portentosa (2010), is the analysis of the close relationships between vernacular cultures and medieval Latin culture, in the footsteps of Ernst R. Curtius and Erich Auerbach. She made fundamental contributions on the polyglot comedy of the sixteenth century (critical editions of Spagnolas by Andrea Calmo, 1979; of the Commedie by Gigio Artemio Giancarli, 1991), on Teofilo Folengo, and the Provençal macaronic poet Antonius Arena. She also dealt with the Félibrige and its complex cultural context in her most recent book, La Fée et la diablesse, «Cahiers de Carrefour Ventadour», 2018. She is currently working on a new edition of the Old Spanish poem Libro de Alexandre. Elena Malaspina has been Associate Professor of Latin Language and Literature of Romano-Barbaric Age and of History of Latin Language at the University Roma Tre (1992-2018). Her research activity is centred on the studies about the contacts between Romans and other cultures (IV-VI century). She is member of the Pontificia Academia Latinitatis. Francesco Marzella is a Research Associate at the University of Cambridge. His primary research interests are in the field of Latin hagiography and Arthurian literature. He edited Aelred of Rievaulx’s Life of St Edward the Confessor and its anonymous versification (both published in Corpus Christianorum – Continuatio Maedievalis, 3A). He is currently involved in the ‘Latin Arthurian Literature and the Rise of Fiction’ project, funded by the Leverhulme Trust and hosted by the Department of Anglo-Saxon, Norse and Celtic. Paola Francesca Moretti teaches Latin language and literature at the Università degli Studi in Milan. In 2014, she was Fulbright visiting scholar at Notre Dame University (US). Her research focuses on late Latin language and literature, and mostly on the language and culture of the Latin Fathers (Ambrose, Jerome, Augustine). Chiara Staiti is Associate Professor of Germanic Philology at the Università dell’Aquila. Her scientific production focuses on Old and Middle German, Old Saxon and Old English, with particular reference to the means of transmission and reception of medieval texts, to relationship between literature and iconography and between literature and scientific knowledge, as well as semasiological, onomasiological and graphic-phonological perspectives, and to word formation. Giuseppa Z. Zanichelli has been Full Professor of history of Medieval Art in the Università degli Studi di Salerno; her field of research concerns the Italian illuminated manuscripts of the Middle Ages and the Renaissance. The most recent projects are the catalogue of the manuscripts of the monastery of San Benedetto al Polirone, near Mantua, developed between 1998 and 2019, and the analysis of illuminated manuscripts produced in Salerno between the eleventh and fifteenth century (2019). In these studies, as in the previous ones on the illuminated book production in Parma,
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Piacenza, Cremona, Pavia etc., the focus of the research is on the manuscripts, their owners planners, recipients, but also the agency and ability to perform. Giuseppa Zanichelli is a member of I.C.M.A., M.A.A., I.A.S., Société nationale des Antiquaires de Frances and Società internazionale di Storia della Miniatura; she is member of the scientific board and review editor of Rivista di Storia della Miniatura.
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