Cleopatra. Regina dei re 9788869734748, 9788869733031

Bella d’un fascino che ammaliava chi la incontrava, tanto colta e poliglotta da poter offrire una compagnia irresistibil

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Italian Pages 259 Year 2019

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Table of contents :
Cleopatra
Frontespizio
Introduzione
I. Alessandria, gloria dei Tolomei
II. Cleopatra VII
III. All’ombra di Roma
IV. Nel nome di Cesare
V. Una nuova era: con Marco Antonio
VI. L’ultima stagione, dentro la Storia
VII. Bellezza e potere: la fortuna di Cleopatra
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Cleopatra. Regina dei re
 9788869734748, 9788869733031

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Bella d’un fascino che ammaliava chi la incontrava, tanto colta e poliglotta da poter offrire una compagnia irresistibile a chi le parlava, estroversa coraggiosa intelligente e astuta, spregiudicata e saggia, scandalosa e disperata, fragile e spietata, maestra nei trucchi della seduzione, madre premurosa nella cura dei figli, pronta allo scherzo quanto alla guerra, allo stratagemma e al gioco, alla minaccia come alla promessa, cosí la presentano gli antichi: è Cleopatra, ultima Lagide sul trono d’Egitto, la regina “inimitabile”, la piú grande del mondo antico. Il libro racconta la sua vita e soprattutto la storia dei ventuno anni che la impegnarono prima nella lotta per il potere contro gli intrighi di palazzo e quindi nei rapporti con la sua gente e i Romani, a difesa dell’indipendenza del suo regno e della gloria dei Tolomei, nel gioco d’amore e guerra che la fece, unica donna in un mondo di uomini, protagonista del suo tempo.

MOSAIC I COLLANA DIRETTA DA

LU I G I M A S C I L L I M I G L I O R I N I

7 11

MARIAGRAZIA EVRE ARENA GUIDO SAMARANI

LACLEOPATRA RIVOLUZIONE INREGINA CAMMINO DEI RE LA CINA DELLA LUNGA MARCIA

SALERNO EDITRICE ROMA

Copertina: Progetto grafico a cura di Mariavittoria Mancini. Realizzazione tecnica a cura di Grafica Elettronica, Napoli.

edizione pdf: novembre 2019 ISBN 978-88-6973-474-8 1a edizione cartacea: novembre 2019 isbn 978-88-6973-303-1 1a

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2019 by Salerno Editrice S.r.l., Roma

a Giorgio e Teresa con gratitudine

INTRODUZIONE Sono un Lagide, re. La mia forza e ricchezza mi fa maestro e donno del piacere. Non c’è nessuno, fra i Macedoni e i barbari, che a me s’agguagli o che soltanto s’appressi a tanta altezza. È grottesco il Selèucide, con le sue voluttà volgari. Altro chiedete? Ecco la verità: maestra, panellenico vertice, la Città, la piú sapiente in ogni arte, in ogni attività. C. Kavafis, La Gloria dei Tolomei

« Io sono una Lagide, regina ». Queste parole, prendendole in prestito dalla lirica La gloria dei Tolomei di Costantino Kavafis, le potremmo immaginare dette da Cleopatra. Non sarebbe una forzatura. Cleopatra, ultima regina della casata sul trono d’Egitto, nelle sue scelte e nei suoi atti mostrò sempre un profondo sentimento d’appartenenza alla dinastia dei Lagidi. La regina vantava, infatti, fra i suoi avi personaggi di spicco. Tolomeo I Sotér, il fondatore della dinastia, e i suoi immediati discendenti, Tolomeo II Filadelfo e Tolomeo III Evergete, tra il IV e il III secolo a.C., avevano fatto dell’Egitto una delle piú grandi e ricche potenze del Mediterraneo e di tutto il mondo antico. Avevano costruito la gloria dei Tolomei, una gloria che aveva lasciato ampia traccia nella storia e che Cleopatra, regina discendente, conosceva bene. Nel I secolo a.C., quando la regina salí al potere, l’Egitto era un regno fiorente, il piú grande granaio del Mediterraneo, ma il suo impero, per terra e per mare, era ormai ridimensionato e tutt’intorno s’era sistemata Roma che ne minacciava sempre piú da vicino l’indipendenza. Con l’Urbe i Tolomei avevano cominciato a fare i conti già dalle guerre puniche, stringendo qualche trattato d’alleanza che metteva 9

introduzione in pari posizioni e ruoli. Nel tempo, però, l’alleata s’era fatta piú “invadente” e le conquiste in Oriente avevano sbilanciato a suo vantaggio il rapporto. Gli intrighi e le contese per il potere all’interno della famiglia reale, le ambizioni dei cortigiani e le congiure di palazzo avevano poi reso il regno sempre piú fragile e facile mira di conquista. Nel giro di due secoli e mezzo l’Egitto aveva cosí perso la gran parte dell’impero conquistato dai padri e i suoi sovrani per non perdere la corona dalla testa e il trono su cui sedere avevano concesso ai Romani di entrare nelle loro questioni e farsi tutori del loro potere. Gli immediati predecessori di Cleopatra avevano fatto testamenti in favore di Roma, che pendevano sul paese e sulla sua indipendenza come su Damocle la spada, e il padre s’era addirittura indebitato con i signori di quella città per poter regnare sul suo paese. L’Egitto era nelle mire dell’Urbe, ultimo regno da conquistare sul Mediterraneo, quando Cleopatra salí al potere. La regina si trovò cosí al bivio d’una scelta: cedere a Roma o inseguire un sogno di indipendenza. Fra i due corni, scelse quello che le rese la strada piú difficile e pericolosa: volle inseguire il sogno. Con rara intelligenza politica, giocò fra i Romani contro Roma e per l’Egitto. Nella sua vita entrarono i piú grandi uomini della storia del I secolo a.C. e i tre Romani piú influenti del tempo, quelli che fecero della Res publica un’altra cosa. Dei tre due le furono compagni e uno le fu nemico. Con Cesare e Marco Antonio ricostruí il suo regno, con Ottaviano combatté fino alla rovina. Di lei nella storia restano poche schegge di ricordi, tanta maldicenza, ma anche la traccia del suo fascino, il racconto di una fra le piú belle storie d’amore, l’ombra del suo impegno per il paese, per i figli e per un sogno. In lei, la gloria dei Tolomei trovò l’ultimo lampo di splendore, l’ultima e piú grande regina d’Egitto, la regina di tutti i re, la regina piú regina.

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I ALESSANDRIA, GLORIA DEI TOLOMEI 1. Egitto: forza, ricchezza e potere La dinastia dei Lagidi era stata fondata sul finire del IV secolo a.C. dal macedone Tolomeo, figlio di Lagos e generale, abile e fidato, di Alessandro Magno. Nei dodici anni in cui Alessandro si era lanciato alla conquista del mondo costruendo il suo impero, Tolomeo ne aveva condiviso il sogno, l’aveva accompagnato nell’impresa, occupando un posto nello stato maggiore macedone, e si era distinto per valore e intelligenza. Dopo la morte improvvisa di Alessandro nel 323 a.C., Tolomeo, nella prima spartizione dei poteri che fu l’accordo di Babilonia del 322 a.C., si era guadagnato il controllo dell’Egitto come satrapo e negli anni delle guerre dei diadochi (‘successori’, i generali di Alessandro) aveva mirato esclusivamente a consolidare e difendere tale controllo sul paese. Aveva avuto la meglio su Perdicca, quando questi nel 321 a.C. aveva tentato l’invasione dell’Egitto. Nello stesso anno, in autunno, aveva consolidato la sua posizione nella seconda spartizione fissata dall’accordo di Triparadiso. Nel 306 a.C. aveva sconfitto Antigono e Demetrio, quando avevano minacciato l’attacco e una nuova invasione del paese assediando Pelusio, sul confine nord-orientale egiziano. Il 7 novembre del 305 a.C. Tolomeo fu incoronato re d’Egitto ed è appunto da questa data che ha inizio la dinastia che da lui prende il nome ed è anche detta “lagide” da Lagos, il padre del suo fondatore. Tolomeo I, riconosciuto dal 304 a.C. come Sotér (‘Salvatore’) per aver difeso l’isola di Rodi dalle mire di Antigono e Demetrio, fu senz’altro un generale au11

cleopatra dace e coraggioso, ma anche e soprattutto un uomo colto e astuto: di queste qualità aveva già dato ampie prove negli anni al seguito di Alessandro e ne diede ancora una fondando in Egitto il suo regno. L’Egitto era un paese strategicamente sicuro e ricco di risorse, come lo stesso Tolomeo aveva potuto osservare quando con Alessandro l’aveva conquistato nel 332 a.C. Le ampie plaghe del deserto libico riparavano il paese da occidente e le poche e sparse tribú africane che abitavano a sud non facevano temere da lí alcun attacco. Da nord e da est il paese era quasi inespugnabile. A nord, la via d’accesso era solo quella del mare, visto che su quel lato l’Egitto affaccia tutto sul Mediterraneo e, quindi, per la difesa bastava allestire una buona flotta da guerra e posizionarla lungo la costa. La via d’oriente, in ultimo, si presentava come un percorso a ostacoli: prima bisognava passare per il deserto dell’Ecregma e la palude di Serbonide, poi affrontare le varie fortezze posizionate da Pelusio in giú e quindi attraversare il Nilo. Quando nel 321 a.C. Perdicca tentò l’invasione dell’Egitto cercando di penetrare da oriente, riuscí a superare il primo ostacolo, poi, non potendo prendere né Pelusio né la fortezza del “muro del cammello”, cercò di passare per il Nilo, tentativo che gli fu fatale. Per la traversata aveva posto affidamento sulla presenza di un isolotto, che, lungo il corso meridionale all’altezza di Menfi, si trovava in mezzo al fiume, ma non aveva considerato quanto poco ospitali potessero essere i coccodrilli che abitavano quella zona: mille dei suoi uomini, come racconta Diodoro Siculo, finirono divorati. Perdicca, ritenuto colpevole dell’atroce banchetto, fu ucciso dai suoi stessi soldati, e Tolomeo I si trovò la vittoria in mano, l’Egitto salvo e un nemico in meno. L’abile generale che era in Tolomeo aveva quindi saputo riconoscere facilmente nella posizione del paese una garanzia di sicurezza, ma l’astuto politico che era in lui seppe anche 12

i. alessandria, gloria dei tolomei vedere quanto grandi fossero le ricchezze che l’Egitto di fatto offriva e quanto grandi quelle che avrebbe potuto offrire. Alcuni decenni prima, nella seconda metà del V secolo a.C., Erodoto, scrivendo dell’Egitto, l’aveva definito come un « dono del Nilo », e non aveva sbagliato, perché di fatto la ricchezza del paese derivava innanzitutto dal suo fiume. Diversi secoli dopo, nel X d.C., lo scrittore arabo Al-Masūdū avrebbe rappresentato la terra attorno al Nilo come un piccolo tesoro, bello quanto prezioso, che muta attraverso le stagioni: una bianca perla, scriveva, è la terra d’Egitto in estate, quando il fiume l’inonda e la veste delle sue acque in cui si specchia la luce del cielo e del sole; nero muschio diventa, quando in autunno il fiume torna al suo letto lasciandola di limo coperta; è, poi, un verde smeraldo, quando, lungo l’inverno, germoglia di erbe e di piante; a primavera splende come un pane d’oro rosso, quando si copre di gialle spighe di grano e l’erba fra queste s’arrossa sotto il sole. Un granaio del mondo antico, il piú ricco e il piú importante, era innanzitutto l’Egitto, ma non era solo questo. Il Nilo donava agli Egiziani terra fertile e nella terra fertile essi potevano praticare varie colture: oltre ai cereali, coltivavano di fatto ortaggi e legumi, impiantavano oliveti e vigneti, alberi da frutta, piante da cui traevano balsami, palme da datteri. Sugli stessi campi praticavano l’allevamento del bestiame, dei piccioni e delle api. Nelle paludi del delta cresceva abbondante il papiro, che i piú poveri impiegavano come alimento, ma che sottoposto a un processo di lavorazione poteva essere trasformato in fibre per farne stoffe, indumenti e intrecci vari, e soprattutto i famosi fogli per la scrittura (i papiri), di cui l’Egitto fu il primo e il piú grande produttore ed esportatore del mondo antico. Sul Nilo si praticava la pesca. Il Nilo era anche la principale arteria delle comunicazioni dell’antico Egitto: sulle sue acque salivano e scendevano di continuo imbarcazioni che 13

cleopatra portavano da un capo all’altro del paese uomini e merci. Di là dalla valle del Nilo, la terra era ricca di risorse minerarie, di cave e miniere. Il granito rosso, il porfido, l’alabastro e l’arenaria, il rame, il piombo, il ferro e l’oro, le gemme e le pietre piú preziose, tutti i beni custoditi nel sottosuolo venivano estratti e poi convogliati lungo il fiume. La ricchezza del paese veniva, quindi, principalmente dal Nilo ed era legata alla terra e all’agricoltura. La terra piú ricca, però – si sa –, non dà frutto se l’uomo non ci mette la fatica e l’intelligenza. L’agricoltura fu uno dei piú fiorenti settori dell’economia dell’antico Egitto: lo fu grazie al Nilo sicuramente, ma lo fu anche grazie all’operosità degli uomini e all’organizzazione del loro lavoro. In età tolemaica essa raggiunse i piú alti livelli di produzione e fu, appunto, un merito dei primi re della dinastia aver promosso su larga scala la diversificazione della produzione (anche attraverso l’introduzione di nuove coltivazioni), l’adozione sistematica di tecniche specifiche (come quella della rotazione delle colture), e, soprattutto, lo sviluppo delle tecnologie e l’applicazione di innovativi o perfezionati strumenti capaci di garantire il drenaggio delle acque e l’irrigazione artificiale dei campi (fino ai margini del deserto) e di sovvenire, nel caso, agli scarsi livelli di piena. Dall’agricoltura, pilastro dell’economia, dipendeva soprattutto la ricchezza del re, il quale, essendo il maggior proprietario terriero del paese (la gran parte del territorio era basilikè ghè, ‘terra reale’), gestiva dal centro la produttività del regno, favorendo la coltivazione di specifici prodotti cosí da incrementare le esportazioni e limitare le importazioni. Il dirigismo economico era un tratto caratteristico dello Stato tolemaico e dall’agricoltura si estendeva a ogni settore della produzione: i Tolomei favorirono l’industria, la scienza applicata alla produzione e i commerci. I loro esploratori si spinsero al di là dei confini, nel profondo dell’Africa e oltre. 14

i. alessandria, gloria dei tolomei Sistematiche erano le relazioni commerciali con l’India: da qui arrivavano spezie e aromi, pietre preziose e sete, il riso e il cotone. Basi per il commercio erano collocate lungo il Mar Rosso e fra gli amministratori dello Stato era annoverato un « Ispettore dei mari Eritreo e Indiano ». L’organizzazione e il controllo dei vari settori produttivi e delle varie attività economiche erano fondamentali per il re ed erano di fatto affidati a una miriade di amministratori che operavano per suo conto e per arricchire le sue casse. L’amministrazione era quindi l’ossatura dello Stato e ne garantiva il funzionamento. La struttura era piramidale: il vertice era occupato dal re, che, in un paese di tradizione forte e millenaria, era anche incoronato faraone e considerato figlio della divinità e dio egli stesso. Il potere del re-faraone era assoluto: egli era l’incarnazione vivente della legge e la sua volontà non poteva essere messa in discussione. Accanto al re stava la regina: era con lui coreggente e come lui divina. Dopo le nozze di Tolomeo II Filadelfo con la sorella Arsinoe II, nel protocollo della dinastia fu introdotto, forse riprendendolo dalle tradizioni faraoniche, l’uso del matrimonio fra consanguinei: la regina era, quindi, di regola una sorella o, talvolta, la madre del sovrano. L’uso durò per tutta la durata della dinastia, senza esser mai messo in discussione o eluso: ancora nel I secolo a.C., l’ultima sovrana, Cleopatra VII, regnò sia come sposa-coreggente in successione di due dei suoi fratelli-re sia, poi, come sposa-coreggente del proprio figlio maggiore. Figura di rilievo del regno, la regina tolemaica si mostrava sempre accanto al re, presenziava alle cerimonie di corte e alle celebrazioni e ai riti della religione, e il suo nome affiancava sempre quello dello sposo nelle leggi e nei decreti da lui emanati. In taluni casi, la presenza della regina si spinse oltre i limiti della corte e del culto, sul campo di battaglia: nel 217 a.C., Arsinoe III, sorella-coreggente di Tolomeo IV Filopa15

cleopatra tore, affiancò il re-sposo nel comando della battaglia di Raphia. Fu una delle regine piú amate d’Egitto anche per questo. Dopo quasi due secoli, il suo esempio fu seguito da Cleopatra VII, che per ben due volte si mise a capo della flotta egiziana come ammiraglia: nel 42 a.C. per condurre a Filippi le navi che aveva promesso a Marco Antonio e Ottaviano contro i cesaricidi e nel 31 a.C. ad Azio nella guerra che Roma le aveva dichiarato contro. Subito sotto la coppia reale, nel quadro amministrativo del regno, si collocava una ristretta schiera di alti funzionari di nomina regia, che, di fatto, occupavano i piú alti gradi della burocrazia tolemaica: erano subordinati soltanto al re, avevano competenze su tutto il territorio egiziano, ricoprivano i piú importanti incarichi di governo provvedendo all’amministrazione di settori fondamentali quali, ad esempio, la conduzione della giustizia, affidata all’arcidicasta, o il controllo delle finanze, che spettava al dioceta. Dopo questo primo ordine di funzionari, la struttura burocratica assumeva una configurazione piú complessa e articolata: il numero degli amministratori aumentava gradatamente scendendo di livello, i rapporti erano da un grado all’altro rigidamente gerarchizzati, le sfere di competenza ricadevano nell’amministrazione locale e venivano quindi definite entro ambiti geografici sempre piú piccoli e delimitati (dai nomoi alle toparchie e infine ai villaggi). Alla base, il regno, con il peso della sua struttura piramidata, poggiava interamente sui sudditi, che spesso delle risorse del paese e della sua ricchezza usufruivano solo per quel poco che bastava alla loro sopravvivenza. Il compito degli amministratori era innanzitutto quello di arricchire le casse del sovrano. Benché in una struttura cosí complessa e articolata non siano mancati funzionari che, nei vari livelli e anche ai piú alti gradi, abbiano pensato di approfittare della loro posizione per arricchire un po’ se stessi, ciò 16

i. alessandria, gloria dei tolomei nondimeno, per quello che era il suo fine, la burocrazia tolemaica ha sempre retto e funzionato alla meglio. I Tolomei, per quanto tempo durò la loro dinastia, poterono sempre disporre di una ricchezza esorbitante. Dalle fonti sappiamo, ad esempio, che Tolomeo II Filadelfo, a inizio della dinastia, aveva in cassa 14.800 talenti, che Tolomeo XII, il padre di Cleopatra, nonostante la crisi del suo regno, poté sperperare ben 12.500 talenti in tangenti, e che la stessa Cleopatra, alla fine del suo regno e della casata, finanziò l’impresa di Azio con 20.000 talenti. Cifre da sogno e solo per pochi, la cui portata si può cogliere al meglio dal racconto di Plutarco di una disavventura capitata al giovane Giulio Cesare. Questi, in viaggio verso Rodi, cadde prigioniero dei pirati di Cilicia, i quali, per restituirgli la libertà, chiesero la cifra di 20 talenti. Giovane, ma già dotato della temerarietà che l’avrebbe in seguito distinto, il Romano rispose sprezzante di valer ben oltre la cifra richiesta e che di talenti ne avrebbe dati addirittura 50. L’avventura di Cesare si concluse col pagamento del riscatto, la liberazione e la vendetta sui pirati, in gran numero finiti impalati. 20 e 50 talenti: per i pirati una vita, per Cesare un massacro, per i Tolomei appena una miseria. Una cosí grande ricchezza dava sostanza al prestigio del re, un prestigio che poteva ottenere e doveva difendere imponendo il segno della propria forza: la guerra e le conquiste. Gloria dei Tolomei fu la conquista da parte dei primi dinasti di un vero e proprio impero, che nel momento della sua massima espansione travalicava abbondantemente i confini del paese e comprendeva sul fianco occidentale la Cirenaica (passaggio obbligato attraverso il deserto libico) e sul lato orientale la Celesiria (nell’angolo al confine con la Siria meridionale), e poi, risalendo per il Mediterraneo, Cipro, la Panfilia, la Licia, posizioni sulle coste dell’Anatolia e della Tracia, e l’egemonia sulla confederazione dei Nesioti, insulari delle Cicladi. 17

cleopatra Con la guerra il re guadagnava al suo paese e al suo trono la sicurezza, assicurando le aree lungo i confini, e dalla guerra ricavava ricchezza, quella garantita dal controllo di territori e commerci e quella che veniva dalla conquista dei beni dei vinti. A inizio della dinastia, Tolomeo III si meritò sul campo di battaglia l’epiteto di Evergete non per aver ottenuto la vittoria e aver conquistato terre, ma per il ricco bottino ricavato a spese dei Seleucidi nella guerra che è passata alla storia prendendo il nome da Laodice, la donna che con la sua ambizione e i suoi intrighi l’aveva di fatto determinata. Sul bellicoso scacchiere dei regni ellenistici, un Tolomeo poteva garantirsi la sicurezza e, quindi, la pace senza dover necessariamente muovere prima alla guerra: la mossa era in tal caso quella di cercare l’alleanza col re nemico e il mezzo era un matrimonio che la sigillasse. Sul finire del 252 a.C., Tolomeo II aveva per l’appunto scelto questa strada: per ridimensionare la minaccia seleucide sul confine orientale, aveva dato in sposa la figlia Berenice al re di Siria Antioco II, che per sposare la principessa tolemaica aveva dovuto allontanare in Asia Minore la prima moglie, Laodice, dalla quale aveva già avuto due figli. Dopo la morte di Tolomeo II, Laodice era tornata sulla scena: aveva convinto l’ex marito a far testamento in favore dei suoi due figli, s’era, forse, prodigata per procurare la morte di lui e, comunque, morto Antioco, aveva ottenuto che il figlio Seleuco II salisse al trono e aveva poi provveduto a fare assassinare Berenice e il figlioletto che questa aveva nel frattempo dato alla luce. La guerra non poteva essere evitata: Tolomeo III mosse in difesa della sorella Berenice contro la Siria, riportò vari successi, ma fu costretto ad abbandonare la campagna in corso d’opera, perché richiamato in Egitto dalla notizia dei tumulti che si erano sollevati ad Alessandria in sua assenza. La guerra si concluse di fatto con la restituzione dei territori conquistati a Seleuco II Callinico, il figlio di Laodice e nuovo re di Siria, 18

i. alessandria, gloria dei tolomei ma Tolomeo III si era assicurato un ingente bottino e il controllo di Seleucia di Pieria, il porto di Antiochia. Bastò questo al suo prestigio: col bottino il re riuscí a placare le agitazioni interne e il popolo che ne fu contento gli attribuí come titolo onorifico l’epiteto di “Evergete” (‘Colui che è benefattore’). L’evergetismo, del resto, fu un tratto caratteristico di tutti i re della dinastia tolemaica, il segno piú evidente della loro gloria, uno strumento efficace di propaganda, il miglior mezzo per acquistare consenso presso la popolazione. La munificenza dei Tolomei si esprimeva innanzitutto in campo religioso. Il re, novello faraone, figlio di divinità e dio egli stesso, nel rispetto della doppia anima del suo paese e quindi della millenaria religione indigena e di quella greca, offriva generosi e splendidi doni alle divinità e ai loro sacerdoti: si preoccupava di restaurare i templi piú antichi, provvedeva a realizzarne di nuovi e piú belli, elargiva offerte agli dèi e ai santuari, accordava ai ministri del culto il suo favore e concedeva loro immunità e altri privilegi. Nel corso dei secoli, i Tolomei, favorendo quanto piú possibile il sincretismo religioso, non si risparmiarono mai nelle loro offerte e nei doni agli dèi tutti: arricchirono, ad esempio, l’area sacra dedicata al culto di Ammone a Karnak e il tempio di Horo a Edfu, innalzarono templi nell’area sacra di Denderah, in quella di Esna e in molte altre, posero accanto alle divinità egizie quelle greche, erigendo per queste ultime in tutto l’Egitto statue e templi, dedicarono santuari a Serapide e ne crearono di nuovi per il culto dei sovrani ad Alessandria, a Tolemaide, a Teadelfia e, ancora, per gli dèi e i loro ministri in terra dispensarono sempre a piene mani la loro ricchezza. Con tale generosità il re, di fatto, si garantiva l’appoggio e il favore degli uomini di culto che lo ricambiavano riconoscendo ufficialmente la sua legittimità sul trono: a opera dei sommi sacerdoti egli veniva incoronato re-faraone a Menfi, era assimilato a una divinità (il dio Horo per il re e Iside, in genere, per la 19

cleopatra regina), era celebrato con i propri antenati e congiunti nel culto reale, riceveva tributi vari e molti onori nei santuari e nei templi. Con la generosità con cui abbelliva le aree sacre, donando splendidi templi e fornendoli di ricchi arredi, il re costruiva in modo tangibile sotto gli occhi dei sudditi la sua gloria e innalzava insieme con i monumenti il suo prestigio: la forza, la ricchezza, il potere e anche la bellezza. Con la stessa generosità il re offriva al suo popolo magnifiche feste, spettacoli e giochi straordinari. Quando Tolomeo II Filadelfo, agli inizi del suo regno, nel 280-279 a.C., celebrò per la prima volta gli Ptolemaia, giochi isolimpici in onore di Tolomeo I Sotér, il fondatore della dinastia, lo spettacolo che si offrí a quanti poterono assistere alla cerimonia d’apertura della manifestazione fu strabiliante. Nello stadio di Alessandria sfilarono dall’alba alla sera, uno dietro l’altro, cortei meravigliosi e maestosi: da quello che rappresentava la Stella Mattutina e apriva la processione a quello che la chiudeva rappresentando Vespero, la stella della sera, e, fra questi, il corteo dei genitori del re, degli dèi con Dioniso e Zeus in posizione di rilevanza, e le statue di Tolomeo I e di Alessandro Magno, al quale poi era dedicato tutto un corteo con la sua effigie d’oro fra quelle della Vittoria e della dea Atena. Quadri animati, trainati su carri, rappresentavano le quattro stagioni, la palma della vittoria e la cornucopia dell’abbondanza. Su un carro del corteo di Dioniso era portato un tino immenso, d’undici metri per sette, e in esso Sileno e sessanta satiri, accompagnandosi con musiche e canti, provvedevano alla pigiatura dell’uva, il cui mosto, poi, scivolava giú dal carro bagnando la strada. Splendide erano le statue portate in processione. Fonte di meraviglia erano quelle meccaniche. Una di queste, ad esempio, rappresentava Nysa, la città della Caria nella quale, secondo il mito, Dioniso era stato allevato dalle ninfe. La portava un carro grande e alto, che sessanta uomini trascinavano 20

i. alessandria, gloria dei tolomei per lo stadio: era alta quattro metri circa, abbigliata d’una tunica trapuntata d’oro e d’un mantello di Laconia, portava al capo una corona di edera, da cui pendevano grappoli d’uva fatti d’oro e gemme varie e teneva un tirso in una mano e nell’altra una brocca, anch’essa d’oro. La statua era rappresentata seduta, ma, poi, a un punto, per lo stupore generale, si alzava, versava dalla brocca del latte in una coppa e tornava quindi di nuovo a sedersi come prima. Su un altro carro era rappresentato il ritorno di Dioniso dalle Indie: il dio montava su un immenso elefante ed era accompagnato da un piccolo satiro che portava alle labbra come a volerlo suonare un corno di capra. La rappresentazione era grandiosa e sfavillante: il tirso del dio e la sua corona erano d’oro, come pure d’oro erano le bardature dell’elefante e la coroncina al capo del piccolo satiro e il suo corno di capra. Per l’incanto del pubblico, sfilarono in mostra vasi e coppe d’ogni foggia e tutti d’oro, moltissime opere d’arte, rare e preziose, carri carichi di spezie e aromi e animali d’ogni specie e razza, anche selvatici e feroci, che erano stati fatti portare dall’Arabia, dalle Indie e dall’Etiopia. Per la pubblica gioia, poi, durante la sfilata furono impiegati musici e danzatori e piú di trecento fanciulli che andavano offrendo lungo lo stadio vino buono in coppe d’oro. Da un carro furono anche liberati in volo colombi e tortorelle dalle cui zampe pendevano lunghi lacci cosí che chi volesse ne potesse fare preda. Chiudeva la giornata, a fine corteo, un’imponente parata militare con fanti e cavalieri armati di tutto punto e magnificamente. Questo è, all’incirca, il racconto che sopravvive di quella giornata. Tolomeo II Filadelfo in quell’occasione non aveva certo badato a spese: sapeva bene che sulla pista dello stadio di Alessandria, insieme ai cortei e ai carri, fra musiche e danze, avrebbe sfilato la gloria dei Tolomei, la potenza d’un regno, la sua forza e la sua ricchezza, offerta agli occhi ammira21

cleopatra ti dei sudditi e messa in scena per abbagliare quelli dei molti delegati, che, come era tradizione nei giochi olimpici e isolimpici, erano venuti da ogni dove per assistere e partecipare alle gare e che, fra l’altro, erano stati alloggiati dal loro ospite nel modo piú confortevole e sontuoso. Anche in questo stava la gloria dei Tolomei, nello sfoggio della ricchezza del regno, nell’esibizione della sua forza. Con la stessa grandiosità, secoli dopo, si sarebbe presentata al mondo Cleopatra VII, ultima sovrana d’Egitto e ultima dei Tolomei a regnare. La regina conosceva i fatti dei suoi avi, le loro imprese e vicende, e, custode della passata grandezza, volle nutrire il suo sogno di potere della stessa gloria, quella che fra l’altro le aveva lasciato il piú grande monumento, la capitale del regno, Alessandria, la città che per gli antichi era la piú bella del mondo o, comunque, una tra le piú belle. 2. Una grande eredità La storia di Alessandria ha avuto inizio nel 331 a.C., quando Alessandro Magno, occupato l’Egitto, decise di fondarvi una città che portasse il suo nome. Lo stesso Alessandro scelse il luogo per la fondazione, indicandolo nello stretto promontorio che, non lontano dal ramo canopico del Nilo, si apre sul Mediterraneo alle spalle dell’isola di Faro ed è bagnato da dietro dal lago Mareotide. Prima di allora, solo l’isola di Faro aveva avuto una certa rinomanza: i poeti greci, da Omero in poi, l’avevano talvolta cantata come sede mitica di Proteo e tappa nelle peregrinazioni di Elena e di Io. Il promontorio dietro l’isola, invece, non aveva avuto alcuna fortuna: vi sorgeva un piccolo villaggio, Rhakotis, abitato da pescatori e dai soldati di una guarnigione che i faraoni avevano piazzato sul posto per impedire le scorrerie dei pirati e per tener lontani dall’Egitto nemici e stranieri. Fino ad allora rimasto fuori dalla storia, di fatto era il luogo ideale perché vi sorgesse una 22

i. alessandria, gloria dei tolomei città grande e potente, capace di giocare un ruolo di primo piano nel Mediterraneo e – perché no? – di dominarlo. Il promontorio si affacciava sul mare come un porto naturale a due bracci che l’isola di Faro riparava da tempeste e mareggiate; il Nilo era vicino, portava i doni delle sue acque e poteva essere collegato facilmente al lago Mareotide; il clima era quello mediterraneo ed era raddolcito in estate dal soffio leggero e fresco dei venti etesi. Alessandro affidò i lavori di progettazione a Dinocrate di Rodi, famoso architetto del suo seguito, il cui nome è stato spesso associato dagli autori antichi alle opere piú originali e grandiose del tempo. Questi disegnò la pianta di Alessandria sotto gli occhi ammirati di Alessandro Magno: la città aveva la forma d’una clamide, il corto mantello che, affibbiato su una spalla o sul petto, si portava durante i viaggi o quando si andava a far la guerra; l’impianto era quello fissato da Ippodamo di Mileto per cui le strade si intersecavano ad angolo retto e determinavano cosí la divisione della città e la disposizione dei monumenti e delle case; la grandezza era già nella pianta notevole, perché le sue strade sarebbero state ampie da passarci agevolmente cocchi e carri e quelle principali sarebbero state larghe un peltro, quasi trenta metri. Era il 7 aprile del 331 a.C.: Alessandro fondava in Egitto ancora un’altra città che portava il suo nome, ma questa fra tutte sarebbe stata la piú grande e la piú ricca. Se n’era avuto presagio già al momento della fondazione. Dopo che era stata tracciata sul terreno la pianta, uno stormo di uccelli d’ogni razza s’era alzato d’improvviso in volo su di essa, venendo dal lago e dal fiume come un’immensa nuvola nera, e, poiché nell’operazione per mancanza di gesso era stata usata farina d’orzo, aveva fatto banchetto senza che restasse poi un sol granello di traccia. Il fatto aveva lasciato tutti i presenti esterrefatti e lo stesso Alessandro ne era rimasto tanto sbalordito che avrebbe interrotto i lavori, se i suoi indovini non gli aves23

cleopatra sero presentato l’accaduto come un segno di buon augurio: la città che stavano fondando sarebbe stata ricca d’ogni bene e lo sarebbe stata tanto da poter dare nutrimento a uomini venuti da ogni nazione. Gli indovini ebbero poi solo per parte ragione. Nella realtà, come è nella natura delle cose umane, anche ad Alessandria non mancarono mai i poveri disgraziati, quelli che campano la giornata solo piegando la testa e spaccandosi la schiena, quelli che non ci riescono perché fragili e indifesi e quelli che per farlo s’inventano maestri dell’espediente, del furto o della truffa: la città non fu un paradiso terrestre da poter nutrire gli uomini d’ogni nazione o tutti i suoi figli, ma la sua storia dimostrò che gli indovini avevano visto giusto e Alessandro aveva avuto ragione nel porre su quel promontorio la prima pietra. Il merito della grandezza e della bellezza della città, però, spetta anche e soprattutto a chi su quella prima pietra ha posto le altre e quindi ai Tolomei, perché Alessandria fu, a partire dal 320 a.C., la capitale del loro regno e il centro del loro potere, l’emblema della loro potenza e lo specchio in cui potevano ammirare la loro gloria. Tutti i re della dinastia, da Tolomeo I Sotér a Cleopatra VII, posero di fatto una loro pietra su quella che aveva lasciato Alessandro e contribuirono, pietra su pietra, a rendere la loro città sempre piú grande e piú bella: la spinsero nel Mediterraneo come scalo obbligato delle principali rotte commerciali, la riempirono di magnifici palazzi e monumenti, le fecero conquistare il primato come polo culturale favorendo le arti, lo studio e le scienze. Il primo merito dei Tolomei fu appunto quello di aver saputo valorizzare la posizione della città in Egitto e nel Mediterraneo. Il sito si presentava come un ampio porto naturale non lontano dal ricco Nilo. Per questo Alessandro aveva scelto il promontorio per fondarvi la sua Alessandria in Egitto: una porta aperta sul Mediterraneo. Di fatto, però, furono 24

i. alessandria, gloria dei tolomei i Tolomei a dare forma alla materia e corpo all’idea, creando le condizioni piú favorevoli per lo sviluppo della città. Grazie all’opera dei primi re della dinastia Alessandria acquisí quella particolare fisionomia che determinò durante il regno tolemaico la sua fortuna e la rese nei secoli avvenire una città di crocevia, per la quale transitavano senza posa navi da ogni dove e tutti i beni e le merci che il mondo antico ha conosciuto: fece da ponte fra Occidente e Oriente, fu il porto fra il Mediterraneo e il Nilo. I primi Tolomei provvidero innanzitutto ad attrezzare sui due versanti con cui il promontorio s’allungava in mare due grandi porti: l’uno, il Porto Eunostos (‘Porto del buon ritorno’), stava sul braccio sinistro, nella parte occidentale della città, proprio dietro l’isola di Faro, e l’altro, il Grande Porto, era sul braccio destro, nella zona orientale, là dove sorgeva il quartiere reale. All’uno e all’altro furono annessi due porticcioli artificiali: il Kibotos (‘Scatola’) fu collegato al Porto Eunostos e un porticciolo a uso esclusivo dei re fu realizzato come parte del Grande Porto. I quattro porti affacciavano sul Mediterraneo, ma erano anche collegati con il Nilo: furono, infatti, fatti scavare due ampli canali che, partendo dal ramo canopico del fiume, raggiungevano la città e le correvano intorno cingendola, l’uno procedeva lungo il margine meridionale, fra l’abitato e il lago Mareotide, per poi risalire fino al Kibotos, e l’altro, attraversando da sud a nord la città lungo il suo confine orientale, saliva al Grande Porto. I canali riversavano le acque del Nilo nella complessa rete idrica che, tramite cisterne e condotti sotterranei, alimentava la città, e, soprattutto, permettevano di dirottare sui porti alessandrini i traffici con l’interno del paese e, attraverso il Nilo e gli scali collocati sul Mar Rosso, con l’Etiopia, l’India e l’Arabia. Ad Alessandria non mancava nulla. Divenne presto il piú grande mercato del mondo antico e, grazie al grano prodotto 25

cleopatra nella valle, uno dei piú importanti granai sul Mediterraneo. I suoi porti erano fra i piú fiorenti, le sue industrie, da quella cantieristica a quella dei papiri, erano fra le piú importanti. I suoi artigiani potevano offrire al mondo i cosiddetti “articoli di Alessandria”, splendidi oggetti in bronzo, in argento o anche in oro, cammei meravigliosi, vetri e gioielli d’un lusso senza pari, e molto altro ancora. Ma Alessandria non fu soltanto un immenso centro commerciale e un importante polo industriale: era la capitale del regno. Era qui che i re avevano i loro palazzi, era da qui che il loro potere, ad opera di amministratori e funzionari vari, si estendeva sul resto del paese, ed era da qui che il loro regno si affacciava sul Mediterraneo, mostrandosi al mondo intero. La città divenne lo specchio su cui riverberare la gloria della dinastia, la sua potenza e la sua ricchezza, e tutti i Tolomei, dai primi re all’ultima regina, si adoperarono con generosità per renderla una superba e magnifica metropoli, di pietra in pietra, aggiungendo nuove costruzioni, le opere piú grandiose e gli arredi piú preziosi. Nel I secolo a.C., al tempo di Cleopatra, era ormai tanto bella che, stando al racconto di Appiano, Cesare sbarcandovi ne era rimasto ammirato. Nello stesso secolo Diodoro Siculo la giudicò come la prima città del mondo civile, a tutte le altre superiore per estensione, eleganza, ricchezza e lusso. Alessandria di fatto era piuttosto grande, almeno per il mondo antico: nonostante fosse stretta sul suo promontorio fra il mare a nord e il lago Mareotide a sud e nonostante i limiti che il sito poneva al suo sviluppo, possibile soprattutto in lunghezza e poco in larghezza, stava, nel momento della sua massima estensione, entro una cerchia muraria di almeno 15 km. di perimetro e, secondo le misure che ci fornisce Strabone, si allungava per 30 stadi da est a ovest e per 7 o 8 stadi da nord a sud e, cioè, per 5,350 km. in lunghezza e 1,245 o 1,420 km. in larghezza. 26

i. alessandria, gloria dei tolomei La grandezza della città non era legata esclusivamente alle sue dimensioni, all’area che occupava e alla lunghezza delle sue mura: in certo senso risultava già grande a prima vista proprio per come si presentava, per quanta gente l’abitava, per quella che era l’organizzazione dei suoi spazi, per la qualità architettonica delle sue costruzioni e per la strabiliante monumentalità che la caratterizzava. Nel I secolo a.C. era di fatto una delle metropoli piú popolose del Mediterraneo. Secondo una stima dello storico Diodoro Siculo, superava abbondantemente il mezzo milione di abitanti: trecentomila erano gli uomini liberi e almeno altrettanti o anche di piú dovevano essere gli schiavi. La sua gente era venuta da ogni dove perché vi si poteva viver bene e perché, per le opportunità d’impiego che offriva, si poteva comunque sperare di trovare un modo per farlo. Nel tempo la città aveva assunto l’aspetto di una metropoli cosmopolita, nella quale i Greci e i Macedoni, venuti con Tolomeo I o attirati dalla grandezza del regno, avevano imparato a convivere con gli Egizi, e con questi e con quelli s’erano mischiati tanti immigrati dalle isole dell’Egeo o dalle città costiere dell’Asia Minore, e poi Persiani, Traci e Siriani e gli Ebrei della vicina Giudea. Ciascun gruppo etnico occupava uno dei cinque quartieri in cui era divisa la città e ai quali era stato dato nome semplicemente utilizzando le prime lettere dell’alfabeto greco, nelle quali, almeno secondo l’interpretazione che è data nel Romanzo d’Alessandro attribuito allo Pseudo-Callistene, Alessandria avrebbe conservato la firma del suo fondatore offrendogli cosí un perpetuo omaggio: “alfa” stava per Alessandro, “beta” per basileus (‘il re’), “gamma” per génos (‘stirpe’), “delta” per Dios (‘di Zeus’), “epsilon” per ektisen (che significa ‘ha fondato’). Una folla immensa al mattino si riversava per le vie di Alessandria, decine di migliaia di persone, in un viavai senza posa, che poteva impressionare lo straniero che vi veniva per 27

cleopatra la prima volta. Le strade raggiungevano per ampiezza i trenta metri sui corsi principali, erano larghe fino a sei metri nelle vie secondarie e anche deserte riuscivano a suscitare l’impressione della grandiosità in chi vi si trovasse in mezzo. Il visitatore poteva restar colpito dal fatto che la città era quasi integralmente costruita in pietra. Per questo era abbastanza al sicuro dagli incendi, che altrove portavano spesso rovina e distruzione. Inoltre, cosa all’epoca altrettanto rara, grazie alla complessa rete idrica impiantata sotto la città, poteva disporre di una discreta riserva d’acqua, quella buona, dolce e potabile del Nilo, che alimentava direttamente i palazzi reali e alcune abitazioni private, quelle, ovviamente, degli Alessandrini piú ricchi. I Tolomei, con atti di larga munificenza, la vollero rendere anche straordinariamente bella, una vera e propria città delle meraviglie, tale quale doveva essere la nuova capitale d’un paese che alle spalle aveva secoli di splendore nei templi e in tutti i monumenti e che con i nuovi re veniva posto al centro del mondo come una delle piú grandi potenze. Furono i primi re della dinastia ad aprire la strada, sulla quale poi s’incamminarono tutti i loro discendenti fino a Cleopatra, che alla sua città donò gli ultimi gioielli tolemaici, aedificia magna et admiranda (‘edifici grandi e degni di suscitare la meraviglia’). Ai suoi tempi, Alessandria era di fatto una delle piú belle città del mondo. Proprio al suo centro i re precedenti avevano fatto alzare come belvedere una collinetta artificiale a forma di pigna che avevano chiamato Paneion. Era un po’ come un giardino a piú piani, ai quali si accedeva con una scala che girava tutt’intorno fino alla sua cima. Da qui si poteva spingere lo sguardo su tutta la città e la visione doveva esser tale da mozzare il fiato: Alessandria riluceva d’una vivida bellezza per le bianche pietre calcaree, per i tanti marmi e per il rosso granito d’Assuan con cui erano realizzate le sue opere maggiori; era ricca di magnifici monumenti, palazzi e 28

i. alessandria, gloria dei tolomei templi; aveva piazze e giardini d’incanto, e dappertutto per le strade, agli incroci e alle porte, era costellata di statue, sfingi e obelischi stupendi, che potevano esser alti talvolta nove e piú metri. Dal Paneion, guardando a occidente verso il margine meridionale, là dove era stato originariamente il villaggio di Rhakotis, era possibile scorgere in lontananza uno dei monumenti piú belli e antichi, il Serapeo, un santuario che Tolomeo III Evergete aveva dedicato nella metà del III secolo a.C. a Serapide, il dio mezzo greco e mezzo egizio che Tolomeo I Sotér aveva portato in Egitto diffondendone il culto. Il tempio del dio si ergeva sulla sommità di una collina, alla quale si saliva per una grande scalinata di cento gradini, ed era collocato fra parchi e colonnati, un tempietto dedicato alla dea Iside e un sacello per il dio Arpocrate, le case dei sacerdoti e una fonte sacra, statue, obelischi e una miriade di altre opere d’arte. In omaggio agli dèi, l’intero complesso era stato costruito utilizzando i marmi piú rari e pregiati e all’interno degli edifici le pareti erano rivestite di lastre di bronzo, d’argento e soprattutto d’oro. Nel tempio principale era custodita l’opera maggiore, un’immensa statua di Serapide, un vero e proprio capolavoro, che richiamava al tempio una moltitudine di pellegrini e di turisti e lasciava tutti sbalorditi sia per le dimensioni colossali sia perché, rivestita di sei metalli e tempestata delle gemme piú rare e preziose e d’ogni pietra che fosse luminosa, pareva cangiare continuamente aspetto, e nel gioco di colori, fra luci e ombre, sembrava addirittura esser cosa viva. La collina di Serapide, oltre alla statua, ai templi e agli altri monumenti, custodiva un altro gioiello. Dal tempio del dio, passando per un bel portico, si poteva raggiungere una biblioteca, la seconda della città. Gli Alessandrini comunemente la conoscevano come “la biblioteca figlia”, perché piú piccola dell’altra, ma contava piú di quarantamila rotoli, un vero 29

cleopatra e proprio tesoro se si pensa che in un rotolo di papiro potevano essere comprese tutte le opere di un autore o quelle di piú autori insieme. Dal Paneion era possibile percorrere dall’alto con lo sguardo la via Canopica, il viale piú grande, che prendeva nome dalla porta di Canopo, quella che si apriva sul fianco orientale verso il Nilo, e da est a ovest tagliava tutt’intera la città. Era qui che pulsava il cuore di Alessandria. Su questa strada si affacciavano i palazzi e gli edifici piú belli, come il Ginnasio, che colpí Strabone per un imponente portico tutto di marmo che misurava piú d’uno stadio, o il Dikastèrion, dove era la sede della corte di giustizia, o l’Homereion, destinato al culto di Omero. Sulla via Canopica s’apriva la maestosa Agorà, la piazza, con colonnati a perdita d’occhio e arredi meravigliosi, e lungo il suo corso stavano, sparsi qua e là, deliziosi giardini con fontane incantevoli e riccamente adorne, dalle quali zampillava senza mai arrestarsi l’acqua dolce del Nilo. Vi si trovava un secondo tempio dedicato a Serapide, accomunato qui nel culto a Iside, e il Tychaion, dedicato alla Tyche (‘Sorte’) e destinato alla celebrazione dei sovrani. Da questa via potevano essere raggiunti facilmente altri splendidi templi come l’Arsinoeion, che Tolomeo II aveva dedicato alla memoria della sposa-sorella Arsinoe II, il tempio di Nemesi, dove Cesare, a inizio del regno di Cleopatra, fece interrare i poveri resti di Pompeo Magno, e molti santuari dedicati a tutte le divinità del pantheon tolemaico, ad Afrodite Urania, a Dioniso, a Hermes ed Efesto e, soprattutto, alla dea Iside, che ad Alessandria aveva i suoi templi piú ricchi e, poi, ai Theòi Soteres (‘gli dèi salvatori’), a quelli Adelphoi (‘gli dèi fratelli’) e a quelli Euerghetai (‘gli dèi benefattori’), che giovavano al culto del sovrano e della sua dinastia. Procedendo verso il mare, dalla via Canopica si poteva salire ai Neoria, i cantieri navali alessandrini che potevano arrivare a contenere piú di centoventi navi, all’Emporion, una 30

i. alessandria, gloria dei tolomei piazza tutta lastricata dove si teneva il mercato, e alle Apostàseis, i grandi magazzini. Sul mare, fra i cantieri e il centro commerciale, stava un tempio per Poseidone, presso il quale, dopo Azio, nel 31 a.C., su un breve braccio di terra che sporgeva sul mare, Marco Antonio fece costruire un suo palazzo, il Timonium. A pochi passi dal grande viale, forse proprio ai piedi del Paneion e vicino al centro della città, si trovava uno dei suoi monumenti piú importanti, un’attrattiva per quelli che venivano ad Alessandria: lo chiamavano Soma (‘il corpo’) o Sema (‘il segno’). Era la tomba dove era custodita la salma di Alessandro Magno, che Tolomeo I Sotér era riuscito ad accaparrarsi in Egitto durante il viaggio progettato da Perdicca per riportare il corpo del grande generale in Macedonia, ad Aigai (Ege) dove era la necropoli reale dei suoi avi. Dopo una prima sepoltura a Menfi, la salma era stata trasferita da Tolomeo II Filadelfo ad Alessandria, nuova capitale del regno, e qui da allora Alessandro riposava in un bel tempio chiuso entro un recinto sacro, disteso su un letto che al tempo di Cleopatra era di vetro o alabastro, ma che prima, fino a quando Tolomeo X non l’aveva sostituito (tra il 108 e l’89 a.C.), era stato d’oro massiccio. Era qui che i Tolomei celebravano gli onori dovuti al Macedone, fondatore della loro capitale, ed era qui che venivano frotte di pellegrini a omaggiare la sua salma. Qui vennero i piú importanti uomini della vita di Cleopatra nell’ultima stagione del regno tolemaico: Cesare, Marco Antonio e Ottaviano, e dopo di loro sarebbero venuti molti fra i successivi imperatori romani. Al tempio di Alessandro erano contigue e collegate le tombe dei Tolomei. In questa stessa zona, Cleopatra diede avvio ai lavori per la realizzazione del suo mausoleo, lavori che erano ancora in corso nel 30 a.C., quando la regina vi cercò un primo rifugio dopo la vicenda di Azio per non finire 31

cleopatra in mano romana. Dopo la morte vi fu sepolta, insieme a Marco Antonio. Il tempio di Alessandro e le tombe reali erano parte del piú grande quartiere di Alessandria, quello dei re, che, stando a una stima di Strabone, occupava un quarto o addirittura un terzo della città. In questa zona, che partendo da capo Lochiàs, dove era il Porto Grande, arrivava fino al centro, sorgevano i Basileia, i palazzi reali, una reggia senza pari, perché, a quanto ci dice sempre Strabone, ogni re della dinastia si era costruito il suo palazzo aggiungendolo agli altri che aveva già a disposizione, e uno di questi, forse quello di Cleopatra, si trovava su un isolotto vicino al porto che gli Alessandrini chiamavano Antirrhodos, come se potesse rivaleggiare con la piú famosa isola di Rodi. Nel quartiere dei re, oltre ai loro palazzi e a quelli della corte e alle tombe della dinastia, c’era molto altro. Qui i Tolomei avevano posto il Teatro e una Palestra, ai quali s’erano garantiti un accesso esclusivo attraverso corridoi coperti e porticati che partivano direttamente dai loro palazzi. Nel loro quartiere i re avevano fatto realizzare altri templi, terme, parchi e splendidi giardini, un grande zoo e un’uccelliera immensa dove era possibile ammirare tutte le specie animali, anche le piú esotiche e rare. Al tempo di Cleopatra erano in pieno corso i lavori per la costruzione di un nuovo e imponente complesso monumentale, l’ultima opera dalla dinastia dei Lagidi donata ad Alessandria, un immenso santuario che la regina avrebbe voluto destinare al compagno Marco Antonio, ma che, ultimato dai Romani, alla fine fu da Augusto consacrato al culto imperiale come Cesareo o, in greco, Sebasteion. Il disegno seguito per costruire l’opera doveva essere quasi interamente della regina: il tempio, una volta compiuto, per grandezza, magnificenza e splendore si inseriva pienamente nel solco della piú pura tradizione tolemaica. Collocato su un’altura proprio dietro il teatro e con vista sul 32

i. alessandria, gloria dei tolomei Grande Porto, il Cesareo era di fatto un santuario senza pari, che si alzava maestoso da dentro un recinto immenso e oltre al tempio comprendeva cortili, viali, boschetti e colonnati, una biblioteca e vari altri ambienti, tutti abbelliti da statue d’oro e d’argento, pitture e colonne, le piú preziose offerte votive e obelischi, due dei quali, i cosiddetti “aghi di Cleopatra”, stanno oggi, uno, al Central Park di New York e, l’altro, sulle rive del Tamigi a Londra. Nel quartiere dei re, a sud rispetto al luogo scelto da Cleopatra per il Cesareo, si trovavano già dagli inizi del III secolo a.C., due delle piú importanti e famose opere realizzate dai Tolomei, il fiore all’occhiello della dinastia: il Museion (‘Museo’) e la Biblioteca di Alessandria, il piú grande complesso culturale del mondo antico e il segno piú profondo che della città e dei suoi re è rimasto nella storia. 3. La città delle arti e delle scienze Il Museion era stato pensato e istituito da Tolomeo I Sotér perché fosse la dimora e il tempio delle Muse: qui, in omaggio alle dee dell’arte e delle scienze, dovevano essere coltivati gli studi e il pensiero e, qui, nel corso dei tre secoli che durò la dinastia, vennero accolti sapienti, poeti e scienziati d’ogni origine e provenienza. Le migliori intelligenze e le piú acute sensibilità poterono dare un contributo sostanzioso a quella rivoluzione del gusto, della letteratura e delle scienze che è stato l’Ellenismo. Al tempo di Tolomeo II Filadelfo ad Alessandria e fra le pareti del Museion e nella Biblioteca, i poeti Callimaco e Apollonio Rodio aprivano alla letteratura i nuovi sentieri della loro poesia, Teocrito, venuto da Siracusa, scriveva i suoi Idilli. Rileggendo le opere del passato, raccolte insieme fra i libri della Biblioteca, i poeti e gli studiosi cominciavano a interrogarsi sui testi e, per meglio comprenderli e 33

cleopatra restituirli alla forma corretta e originale, definivano i principi e il metodo di una nuova disciplina, la filologia. Nello stesso periodo, sulle orme che Euclide, ponendo i fondamenti della geometria e dell’algebra, aveva lasciato al tempo del primo Tolomeo, Archimede di Siracusa e Apollonio di Perge portavano un contributo notevole alla fisica, alla meccanica e alla matematica, mentre Eratostene di Cirene, versatile per passioni e interessi, dedicandosi allo studio della Terra per primo affermava che essa è tonda e riusciva a misurarne, con poco scarto all’esattezza, la circonferenza, e Aristarco di Samo poneva al centro del cosmo il Sole e postulava che il nostro pianeta gli girasse attorno. Nel Museo si studiava il corpo umano ed Erofilo, venuto dalla Bitinia, si addestrava a scoprirne l’anatomia, istituendo una scuola di medicina che insieme a quella di Cos sarebbe stata la piú importante del mondo antico. Tutto questo fu possibile proprio per come il Museion era organizzato e per il favore che i Tolomei concessero agli studi e alla conoscenza. Era infatti una sorta di collegio, nel quale i saggi e dotti ospiti trascorrevano per intero le loro giornate: lungo un bel corridoio porticato e fra le pareti di una esedra svolgevano le loro attività di studio e ricerca, tenevano lezioni, convegni e conferenze, si incontravano e si confrontavano su qualche questione, un’ipotesi, una teoria o un’opinione, e poi, in un grande refettorio, per non allontanarsi troppo dal loro lavoro, consumavano insieme i pasti, potendo anche qui, fra un boccone e l’altro, continuare la discussione. Del vitto e dell’alloggio degli studiosi si facevano carico i re, che ai loro ospiti garantivano uno stipendio e l’esenzione dalle tasse e fornivano ogni mezzo e strumento che potesse giovare alle loro attività e agli studi. Scienziati e studiosi avevano libero accesso allo zoo della città e all’immensa uccelliera dei re e potevano frequentare l’osservatorio astronomico 34

i. alessandria, gloria dei tolomei fatto realizzare sul tetto del Museo per lo studio dei corpi celesti e delle loro evoluzioni in cielo. Disponevano della piú grande biblioteca del mondo antico, il tesoro dei Tolomei, un patrimonio inestimabile, che al tempo di Tolomeo II Filadelfo comprendeva cinquecentomila rotoli, settecentomila al tempo di Cleopatra, e per ogni rotolo, come si è già detto, molte opere o l’intera produzione d’un autore. A collezionare libri i Tolomei avevano cominciato per tempo, con i primi due re della dinastia, e per arricchire la loro biblioteca erano ricorsi a ogni mezzo. Agli inizi del regno si datano sia la tassa sui generis che imponeva alle navi approdate ad Alessandria la consegna di tutti i libri presenti a bordo perché se ne potesse ottenere una copia per la biblioteca, sia lo scoppio della cosiddetta “guerra della carta” tra Tolomeo II Filadelfo e gli Attalidi di Pergamo. Lo “scontro” aveva avuto come occasione l’allestimento di un’importante biblioteca nel piccolo regno dell’Asia Minore, che minacciò presto di poter gareggiare in prestigio con quella di Alessandria. La risposta egizia non s’era fatta aspettare e Tolomeo II, per privare i rivali del principale materiale scrittorio dell’epoca, aveva deciso di bloccare le esportazioni di papiro a Pergamo, dove, nella crisi, fu perfezionato l’uso delle pelli animali per farne i fogli che furono detti appunto “pergamene”. Per la loro collezione, i Tolomei erano disposti a sborsare ingenti somme di denaro. Si raccontava di come per amore dei libri e per la sua biblioteca Tolomeo III avesse chiesto in prestito agli Ateniesi alcuni testi dei tragici greci e di come, poi, per non restituirli, avesse preferito perdere i quindici talenti che aveva versato come garanzia per ottenerli. Qualcuno, a completamento della storia, aggiungeva che il re, per non riconsegnare i testi, aveva tentato prima l’imbroglio, facendo confezionare con arte sopraffina copie false che, al posto degli originali, aveva mandato ad Atene dove, accortisi del giochetto, avevano trattenuto il pegno come risarcimen35

cleopatra to. La storiella, come qualcuno crede, non poggia su un fatto realmente accaduto, forse è stata semplicemente inventata, nel corso della guerra della carta, dai saggi di Pergamo per screditare i Tolomei ed è poi sopravvissuta fino a noi come “leggenda metropolitana”. In essa c’è indubbiamente un fondo di vero: l’interesse dei Lagidi per i testi e l’importanza che attribuivano alla loro biblioteca. Questa, fra l’altro, di re in re si arricchiva sempre di piú, perché ai libri che venivano acquistati o ricopiati, grazie al favore di cui a corte godevano gli studiosi, si aggiungevano di anno in anno le tante opere che venivano prodotte all’interno del Museion: opere originali di poeti, storici e filosofi e nuove edizioni dei testi dei grandi maestri rivisti con lo scrupolo e il metodo dei filologi; trattati e saggi; compendi dei principi fondamentali delle singole dottrine e grandi summae delle conoscenze raggiunte in un determinato campo oppure su uno specifico argomento, traduzioni in greco dei testi stranieri ritenuti piú importanti e via dicendo. L’interesse dei re per i testi, per la cultura e per le scienze e l’importanza da loro attribuita ai due istituti culturali della città non erano determinati solo da amore per la lettura e per le conoscenze. Alla passione, in alcuni re probabilmente affatto genuina, si aggiungeva il calcolo politico che nella promozione degli studi, nell’arte e nell’applicazione delle scienze aveva saputo riconoscere un buon guadagno al potere. Lo stesso Demetrio di Falero, uomo di buona cultura e versatile di ingegno, in gioventú allievo di Aristotele e amico di Teofrasto, era giunto ad Alessandria fuggendo da Atene al tempo del primo Tolomeo, aveva incoraggiato il re che lo ospitava ad allestire la biblioteca e a raccogliervi i libri di tutti i popoli della terra. Egli sosteneva quanto appreso dal suo maestro ovvero che i libri, favorendo la memoria, potevano essere di grande utilità per gli studiosi del Museo e aggiungeva che la lettura dei testi sulla regalità e su come esercitarla poteva es36

i. alessandria, gloria dei tolomei sere di giovamento al sovrano per consolidare il proprio governo. L’attenta e generosa politica culturale dei Tolomei poggiava su un principio di utilità: conoscere per governare nel miglior modo e per poter avere poteri piú saldi. Macedoni d’origine e greci per lingua e cultura, i Tolomei erano divenuti re di un paese “straniero”, che vantava una storia prestigiosa e millenaria e che per esser governato doveva essere conosciuto. La capitale del regno, pur essendo una città fondamentalmente greca, al suo interno aveva accolto molte e diverse realtà etniche, che era bene capire attraverso i testi piú importanti della loro cultura e della religione. Per questo i re promuovevano le traduzioni in greco dei libri stranieri. Ad esempio, per meglio conoscere la componente ebraica che era assai numerosa ad Alessandria, Tolomeo Filadelfo aveva invitato in Egitto settantadue fra i piú grandi saggi di Giudea per tradurre il libro sacro degli Ebrei, quello che poi divenne in greco il libro dei Settanta e nella Bibbia è l’Antico Testamento. Dalla cultura, con il Museion e la Biblioteca, la dinastia dei Lagidi aveva ottenuto e otteneva un notevole prestigio. Ad Alessandria venivano le migliori intelligenze e per dar prestigio ai Tolomei ciascuno metteva in opera il suo talento, fosse arte o ingegno: nei versi dei poeti non mancavano l’omaggio e le lodi dei re e gli scienziati applicavano spesso le loro conoscenze per favorire la crescita economica del regno e migliorarne il prestigio. Potere arte e scienza procedevano di pari passo e non è forse un caso che l’opera che piú ha esaltato la gloria dei Tolomei ed è passata alla storia come una delle sette meraviglie del mondo antico fosse di fatto il risultato del connubio perfetto dell’arte con la scienza: il Faro di Alessandria.

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cleopatra 4. Il Faro del mondo La tradizione vuole che autore del Faro sia stato Sostrato di Cnido, il cui nome campeggiava in lettere alte un cubito (mezzo metro) nell’iscrizione posta a dedica del monumento agli inizi del regno di Tolomeo Filadelfo. Sostrato era un uomo di corte, un “amico dei re”, come allora si diceva per i ministri, e godeva del privilegio di essere confidente del sovrano e suo ambasciatore in terra straniera. Era un architetto e per la sua arte nutriva una vera e propria passione, tanto che, si diceva, per realizzare le opere che aveva in testa era disposto a finanziarle interamente di sua tasca. Le sue erano opere ardite, che rendeva uniche e strabilianti grazie a ingegnosi congegni meccanici inseriti al loro interno. Nel suo curriculum poteva vantare opere d’eccezione: a Cnido aveva montato splendidi giardini pensili e, per permettere a Tolomeo Filadelfo la conquista di Menfi, aveva deviato il corso del Nilo. La sua opera maggiore fu quella di Alessandria. Per realizzarla lo stesso Sostrato mise ingegno e mano a un’altra opera importante, un imponente ponte gettato fra la città e l’isola di Faro. Fu chiamato Heptastadion perché era lungo sette stadi (un chilometro e mezzo circa). Era anche un acquedotto che all’isola portava l’acqua buona del Nilo e, con due passaggi, permetteva di collegare in sicurezza il Porto Grande e il Porto Eunosto. Per realizzare il Faro Sostrato impiegò quasi vent’anni a cavallo fra il regno del primo re della dinastia e quello del secondo e spese di suo ben ottocento talenti. Il risultato fu un’opera senza pari, la torre piú alta del mondo e la piú bella. A chi guardava dalla collinetta del Paneion o a chi giungeva dal mare appariva come un’immensa torre bianca che si alzava proprio davanti alla città, sull’isola di Faro, e sembrava venir su direttamente dal mare e salire tanto in alto che pareva arrivare a toccare il cielo, fra le cui nuvole portava un no38

i. alessandria, gloria dei tolomei vello sole, acceso per gli uomini anche la notte e capace di spingere la sua luce fino a trecento stadi lontano, 50 km. da Alessandria. La torre con il suo fuoco era un’opera di pubblica utilità. Nelle città di mare era un uso antico accendere fuochi di segnalazione che dall’alto indirizzassero al porto e piazzare opportunamente avamposti a difesa della costa. Ad Alessandria, che era priva di alture e che poteva essere attaccata soprattutto dal mare, si pensò di costruire una torre sull’isola di Faro, da dove si poteva guardare bene sul mare e al contempo controllare i due porti. La torre giovava ai due scopi: faceva da vedetta per avvistare dall’alto e in tempo utile l’avvicinarsi di nemici dal mare e serviva per segnalare l’imbocco ai porti e guidare all’ormeggio le navi che vi venivano a commerciare e che, per approdare, dovevano superare le secche e gli scogli che caratterizzavano i fondali dinanzi alla città, affrontare i venti che talvolta vi soffiavano violenti e passare per la foschia che fitta e impenetrabile s’addensava di sovente sul mare alla foce del Nilo. L’isola di Faro era sulla porta principale della città, quella che dava sul Mediterraneo: da qui i Tolomei presentavano il loro regno al resto del mondo. Per questo, quando agli inizi del III sec. a.C., fra il regno di Tolomeo I Sotér e quello di Tolomeo II Filadelfo, si pensò di sistemare sull’isola una torre, questa fu costruita come si conveniva per essere il primo segno della grandezza della casata regnante. Risultò poi tanto straordinaria che, non potendo esser confrontata con nessun’altra opera già esistente, le fu dato il nome stesso dell’isola su cui si trovava, il “Faro”, parola che da lí in poi è entrata nel linguaggio comune in riferimento a tutte le torri da cui parte una segnalazione luminosa a guida e soccorso delle navi in mare. Il Faro di Alessandria era un’opera immensa e impressionante, un vero e proprio capolavoro dell’architettura e dell’ingegneria, dimostrazione pura che l’utile può far la cop39

cleopatra pia con il bello. La struttura stava dentro un recinto porticato e si sviluppava su tre livelli. Il primo piano era il piú grande e piú alto ed era costituito da un blocco a pianta quadrata, rastremato nella parte superiore e su tutti i suoi lati munito di ordini sovrapposti di finestre: al suo interno comprendeva piú di trecento stanze, un pozzo e scalinate a doppia spirale che permettevano di salire ai piani successivi e a una terrazza. Su quest’ultima, come secondo piano, si alzava un blocco piú piccolo a pianta ottagonale, dotato anch’esso di diverse finestre e scale, sul quale, in ultimo, poggiava il terzo piano, la lanterna del Faro, un piccolo corpo cilindrico a colonnato chiuso in alto da un tetto a cupola. Nel complesso, la torre superava i cento metri d’altezza (forse 115 o 120 o addirittura 135 m.) e, in virtú della sua struttura a gradi decrescenti, sembrava svettare anche piú in alto: era, dopo la piramide di Cheope, la piú alta opera creata dall’ingegno umano e tale restò almeno per tutti i secoli del mondo antico. La torre era eccezionalmente bella: di giorno, spiccava dal mare come un monte meravigliosamente bianco, perché la pietra calcarea con cui era costruita splendeva al sole come marmo, e, al buio, s’illuminava sul mare come un immenso fuoco acceso, perché tutte le sue finestre rilucevano e, come una stella, balenava in alto la fiamma della lanterna. Era abbellita da maestose e splendide statue. Quelle di Tolomeo I Sotér e della moglie Berenice, ricavate da blocchi di granito rosso di Assuan, affiancavano la porta monumentale d’accesso al Faro, che s’apriva sul lato in faccia al mare. Una statua imponente che teneva in una mano uno scettro o il tridente e nell’altra una patera stava sulla cima della torre e raffigurava il dio che presta soccorso ai naviganti, Poseidone o Zeus Sotér. Agli angoli della terrazza al primo piano si affacciavano quattro tritoni, uno a ogni angolo, ed erano rappresentati nell’atto di suonare un corno: quando si avvistava un nemico o quando, in caso di foschia, una nave entrava in porto, da 40

i. alessandria, gloria dei tolomei tutte e quattro le statue si diffondeva un suono che dava il segnale d’avviso o d’allarme. La torre, alta e bella, era una straordinaria opera d’ingegneria meccanica, un capolavoro della technê (‘arte’) di Sostrato, un esempio di scienza applicata per ottenere l’utile e destare la meraviglia: il suo cuore era costituito da un complesso sistema di pompe idrauliche e di altri meccanismi che, opportunamente azionati, permettevano agli addetti al funzionamento del faro di far emettere alle statue le diverse segnalazioni acustiche e di alimentare il fuoco che bruciava sulla lanterna e che parabole metalliche riflettevano all’orizzonte, lontano sul mare per trenta miglia e tanto alto da poter esser confuso con lo scintillio d’una stella. Cosí il Faro portava soccorso ai naviganti in mare, incantandone lo sguardo e alimentandone la fantasia. Si diceva, ad esempio, che sotto la torre fosse stato sepolto l’immenso tesoro di Alessandro Magno, o che a fondamenta del faro fossero posti meravigliosi granchi di vetro, o ancora che sulla sua cima, nella lanterna, fosse collocato uno specchio capace di avvistare a miglia di distanza le navi in arrivo, o che micidiali specchi ustori da lí potessero appiccare il fuoco sulle navi dei nemici e farle affondare. Alessandria e i suoi re si affacciavano sul Mediterraneo, con una torre senza precedenti e senza pari che, posta sulla porta principale della città, annunciava lo splendore e la grandezza del regno ed era il segno piú vistoso e quello che maggiormente sarebbe durato della gloria dei Tolomei, che da lí, come la luce del faro, si irradiava quasi a voler illuminare il mondo intero.

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II CLEOPATRA VII 1. La gloria del padre Nel 69 a.C., quando ebbe inizio questa storia, il Faro era una delle sette meraviglie del mondo, si alzava fino al cielo e gettava la sua luce sul mare d’Egitto da piú di due secoli. Da ancora piú tempo i Tolomei avevano fondato sulle orme di Alessandro il loro regno sul paese e la loro capitale ad Alessandria, ormai la città piú bella e piú grande del mondo o, almeno, di questo gli Alessandrini e i loro re si facevano vanto. Qui, nell’inverno del 69 a.C., in un giorno che non sappiamo, a inizio d’anno, il palazzo reale deve essersi illuminato in tutto il suo splendore per una festa alla maniera tolemaica: era nata una principessa, la seconda figlia del re Tolomeo XII Filopatore Filadelfo Novello Dioniso, che piú semplicemente fra la gente di Alessandria era chiamato l’ “Aulete” (Auletés, ‘suonatore di aulós’), perché amava suonare l’aulós (uno strumento a fiato simile all’odierno oboe), e che fra i piú maligni e i suoi nemici era conosciuto col nomignolo “Nothós” (‘Bastardo’), perché si sapeva che era un figlio spurio della dinastia, nato dalla relazione fra il re precedente e una delle sue amanti. Alla bambina fu dato il nome di “Cleopatra”, ‘Gloria di padre’. Avrebbe appreso presto che il suo era un nome importante, quello di molte regine e quello, soprattutto, dell’unica sorella di Alessandro Magno. Come succedeva alle fanciulle di sangue reale, la principessa macedone aveva dovuto obbedire alle leggi della ragion di Stato ed era entrata come pedina nelle vicende dell’epoca. Il padre Filippo II, nel quadro della sua politica di alleanze, per salvaguardare i confini 42

ii. cleopatra vii di Macedonia da occidente, come s’usava, l’aveva data in sposa allo zio materno Alessandro che regnava in Epiro e l’aveva fatta regina. Il ruolo piú importante la donna l’aveva giocato dopo la morte del marito e, soprattutto, dopo quella del fratello. I diadochi l’avevano messa in mezzo alle loro contese e fatta oggetto delle loro profferte. Sapevano tutti che sposarla avrebbe legittimato le pretese di chi ambiva a succedere come erede ad Alessandro. Anche la donna doveva saperlo e, forse, aveva tentato di giocare un suo ruolo nella faccenda. Alla fine morí a Sardi, vittima dell’ambizione di Antigono I Monoftalmo che la fece uccidere perché convinto che ella avesse ormai scelto fra i pretendenti Tolomeo, il figlio di Lagos, allora satrapo d’Egitto (309 a.C.) e fra i contendenti quello meglio piazzato. Cleopatra era un nome che poteva piacere a chi vantava la parentela col grande generale macedone. Da tempo apparteneva alla tradizione onomastica tolemaica. Vi era entrato quando, agli inizi del II secolo (193 o 192 a.C.), Tolomeo V Epifane, il quinto re della dinastia, per mere ragioni di opportunità politica, aveva sposato la figlia di Antioco III, il re della Siria, chiamata Cleopatra. Da allora, già sei fra le regine e le principesse tolemaiche avevano portato questo nome e cosí la bambina nata ricevendolo fu poi a tutti nota come Cleopatra VII. La nuova principessa aveva già una sorella, di qualche anno piú grande di lei, Berenice IV (nata tra il 79 e il 75 a.C.), e, nel giro di pochi anni, avrebbe avuto tre fratelli piú piccoli: Arsinoe IV (nata tra il 68 e il 65 a.C.), Tolomeo XIII (nato nel 61 a.C.) e Tolomeo XIV (nato nel 59 a.C.). Della madre gli autori antichi e le altre fonti non fanno parola e non ne hanno registrato il nome. Verrebbe da pensare che la principessa sia nata dall’unione del re con la regina e che sia figlia di Tolomeo XII e di Cleopatra VI, la sorella (o sorellastra) sposata nell’80 a.C., come da cerimoniale, quando 43

cleopatra era salito al trono. Ma di questa regina, proprio dal 69 a.C., si perde ogni traccia. Si ipotizza allora che la principessa possa essere nata da un successivo matrimonio del sovrano e, comunque, da un’altra donna. Non dovette trattarsi di una semplice concubina o una schiava con cui amoreggiare o togliersi un capriccio perché una tale notizia non sarebbe passata certo sotto silenzio: i tanti nemici che alla futura regina hanno poi mosso ogni sorta di attacco non avrebbero tralasciato di ricordarle e di tramandare che era una figlia spuria, una bastarda, la figlia di una certa donna, dalla quale avrebbe potuto ereditare una particolare dote e per la quale non avrebbe meritato di diventare legittimamente regina. La madre della principessa, se non fu Cleopatra VI, sarà stata una donna di buon lignaggio, dell’élite alessandrina o di un’importante famiglia sacerdotale, come ad esempio quella consacrata al culto del dio egizio Ptah (‘Creatore’), che con i Tolomei da tempo era imparentata: un’intoccabile, insomma, che Tolomeo XII forse sposò in seconde nozze dopo aver allontanato la prima regina. Come che sia, in quel giorno del 69 a.C. la festa a corte e per le strade di Alessandria deve essere stata grande: era nata una principessa lagide e – nessuno ancora lo sapeva – sarebbe stata l’ultima regina d’Egitto. 2. L’infanzia Fra il 69 e il 58 a.C., la principessa Cleopatra VII avrà vissuto i suoi anni piú spensierati, quelli dell’innocenza e della formazione. Del primo periodo della sua vita, in realtà, si sa assai poco, ma non è difficile immaginare che la secondogenita del re d’Egitto abbia mosso i suoi primi passi all’interno dei Basileia, i palazzi reali dei Tolomei, palazzi tanto ricchi da non essercene altrove di uguali, e che qui abbia appreso presto quanto grande fosse il privilegio d’esser nata Lagide, figlia 44

ii. cleopatra vii di re e di stirpe divina. Ai suoi occhi si aprivano sale immense, dall’una all’altra ala della reggia correvano lunghissimi corridoi e portici nei quali si alzavano colonne gigantesche. Tutt’attorno splendeva la gloria della casata, un lusso che poco doveva avere da invidiare a quello immaginato qualche tempo dopo da Lucano, quando nella Farsalia descrive la corte dei Tolomei al tempo in cui Cesare incontrò la principessa Cleopatra: pavimenti di onice, splendidi soffitti a cassettoni e alle pareti l’ebano di Meroe, fra i legni il piú pregiato, blocchi di agata e di porfido, oro massiccio e avorio impiegati senza risparmio sulle travi e nei rivestimenti, tappeti di Tiro sparsi ovunque e ai battenti corazze di testuggini indiane, dipinte a mano e tempestate di smeraldi. Gli arredi e le suppellettili erano certo i piú raffinati prodotti dei maestri alessandrini, che dappertutto avevano fama per i loro lavori d’oro e d’argento, d’alabastro e di vetro soffiato. Agli alloggi di una principessa non doveva mancare alcun conforto e una moltitudine di ancelle e servitori era sempre pronta ai suoi comandi. In questi anni Cleopatra cominciava a conoscere la corte, i riti e il cerimoniale; veniva introdotta al culto degli dèi e a quello del sovrano, della sua sposa e degli avi; s’affacciava bambina su Alessandria e della città imparava a conoscere i luoghi, i templi e i monumenti, ammirava lo splendore dell’arte e apprendeva la storia dei suoi antenati. Negli stessi anni sarà stata affidata alle cure di un precettore, perché una principessa, in casa dei Tolomei e nella città del Museion e della Biblioteca, doveva ricevere fin da bambina una buona educazione e una formazione adeguata. Del suo primo maestro e degli altri venuti poi per condurla negli studi superiori non si è conservato il nome, tuttavia Cleopatra ha dimostrato presto nella sua vita di aver avuto buoni insegnanti e di esser stata un’ottima allieva, di cui andare orgogliosi. Parlava oltre al greco la lingua egiziana, che prima di lei tutti i Tolomei avevano ignorato, e moltissime altre lin45

cleopatra gue, come racconta Plutarco, anche quelle di molti barbari, dei Trogloditi e degli Etiopi, di Ebrei, Arabi e Parti, di quelli della Siria e della Media, con i quali tutti sapeva discorrere e trattare senza bisogno di interpreti e intermediari. La sua padronanza linguistica era tale che, secondo quanto racconta ancora Plutarco, riusciva a passare senza impaccio da una lingua a un’altra e la sua voce pareva uno strumento musicale dalle molte corde da lei cosí abilmente suonato da incantare chi l’ascoltava. Era una donna straordinariamente colta e intelligente, amava la compagnia degli uomini di cultura e di pensiero, si interessava agli esperimenti dei medici e dei chirurghi. Per tutta la sua vita coltivò gli studi, perché l’apprendere e l’esperimentare le procuravano un piacere tanto grande da essere quasi fisico e che l’avrebbe portata, nel tempo, a scrivere libri, trattati di cosmesi e di medicina, famosi nel mondo antico, ma a noi arrivati solo per sei frammenti citati nelle opere piú tarde di Galeno, Aezio di Amida e Paolo di Egina. Per i primi dieci anni, la vita di Cleopatra deve essere stata quella che possiamo immaginare per una principessa, una vita di giorno in giorno trascorsa serena tra gli agi, le cui preoccupazioni erano solo quelle legate allo studio e ai doveri del cerimoniale, probabilmente felice. Ma in un giorno di fine estate del 58 a.C. la traumatica svolta: ad appena undici anni, la principessa si trovò di colpo ad assistere a lezioni molto diverse da quelle che le erano impartite dai suoi maestri. Per la prima volta si trovò seduta ai banchi d’una scuola che finora non aveva conosciuto, la scuola piú dura e piú cruda, quella dove fanno da maestre la Realtà e la Storia. Quel giorno la città, all’improvviso, era esplosa di rabbia e una folla inferocita aveva circondato il palazzo reale, strappando, nel terrore generale, la principessa da giochi e balocchi. Suo padre lasciò il palazzo e Alessandria e fuggí via lontano. Il re sapeva bene che solo cosí poteva placare la rivolta 46

ii. cleopatra vii e aver salva la testa. Ventidue anni prima, nell’estate dell’80 a.C., la sua ascesa al trono era stata determinata da una situazione molto simile a quella che ora lo costringeva alla fuga. Anche allora gli Alessandrini avevano assalito il palazzo reale e anche quella volta il re era stato detronizzato, ma nel modo peggiore che si possa immaginare. La folla era riuscita a penetrare nel palazzo e aveva fatto del sovrano la sua preda: lo aveva tratto, fra sputi e insulti, per le strade di Alessandria e trucidato fra i bei portici del Ginnasio. Solo cosí, col re morto in terra e ridotto in brani, gli Alessandrini si erano placati. Tolomeo XII conosceva il fatto e, dopo vent’anni, aveva imparato a conoscere la sua gente. La principessa sua figlia, Cleopatra VII, imparava a conoscere la paura e scopriva un’altra faccia di Alessandria, quella della gente fuori dal palazzo. Era la sua prima lezione alla scuola nuova. 3. La fama degli Alessandrini Gli Alessandrini non erano facili da trattare e fra i contemporanei non godevano d’una buona nomea. Gente frivola e leggera, una massa di perdigiorno per dirla come la dice Dione di Prusa in una sapida orazione in cui agli Alessandrini fa la ramanzina, rimproverandoli d’esser buoni solo a passare il tempo fra trastulli, spettacoli e divertimenti, ad affollare i teatri cittadini e a fare un tifo scalmanato all’ippodromo e allo stadio. Alessandria di svaghi ne offriva tanti: quattordici teatri, due ippodromi e uno stadio, nei quali, spesso, piú di musici e attori, di atleti e corridori, era il pubblico a far spettacolo di urla, risse e insulti. La città passava poi per una metropoli dell’amore. Si diceva che la dea Afrodite vi si sentisse a casa. Gli Alessandrini avevano fama d’essere dei libertini, dediti a ogni sorta di piacere, dai piú innocui ai meno innocenti, e visto che per le vie cittadine, fra cerimonie e processioni, baz47

cleopatra zicava spesso il dio Bacco, erano soliti darsi alla crapula e far baldoria allegramente. Erano rissaioli, facili alle zuffe e ai tumulti, spesso violenti e talvolta spietati. I tafferugli erano all’ordine del giorno allo stadio o alle corse, dove le tifoserie passavano facilmente dalle facezie alle mani e dalle ingiurie ai bastoni. Si accapigliavano a teatro, e risse e liti potevano scoppiare per strada durante le feste e i cortei, nella calca o fra avvinazzati. Sempre piú spesso Alessandria era teatro di vere e proprie rivolte popolari. Le prime tensioni si erano manifestate già sul finire del III secolo a.C., al tempo di Tolomeo IV Filopatore, avevano attecchito un po’ dappertutto e si erano sempre piú inasprite a causa dell’abulia dei sovrani e dei loro consiglieri. Nel Sud del paese e in particolare nella Tebaide, dove forte batteva il cuore sacro dell’antico Egitto, fra il III e il II secolo a.C., le tensioni sociali erano sfociate in moti nazionalistici e autonomistici e avevano addirittura portato all’affermazione di sovrani antagonisti ai Tolomei, che rivendicavano diritti su quei territori, si presentavano nell’abito e con la titolatura degli antichi faraoni e avevano trovato un saldo appoggio nel clero. Per porre riparo alla situazione era stato necessario ricorrere alle armi e fare ampie concessioni al clero e alle popolazioni di quei luoghi e, per far fronte all’ammanco economico che cosí si creava nelle entrate dello Stato, era stato necessario rifarsi tassando in modo spropositato gli altri sudditi con aggravio del disagio socio-economico del paese. Le principali città, e soprattutto Alessandria, erano diventate ricettacolo di poveri disgraziati, contadini e piccoli artigiani che, tormentati dalle tasse, erano stati costretti a lasciare le loro case, i campi e le attività, e, con povere prospettive dinanzi e pochi mezzi a disposizione, campavano alla giornata. Nella capitale il divario fra la vita dei sovrani e quello di parte della popolazione era piú netto che altrove e, qui, per 48

ii. cleopatra vii questo, i sommovimenti erano piú frequenti. A esacerbare l’animo dei cittadini e a innescare le rivolte erano soprattutto le notizie che arrivavano dai Basileia. A palazzo si viveva nelle mollezze e fra i vizi, la corte era diventata un vero e proprio covo di serpi, dove l’ambizione tesseva gli intrighi piú velenosi e compiva i delitti piú efferati e vergognosi. Le voci si diffondevano presto fra la gente e, di notizia in notizia, il disagio montava a rabbia e, quando la misura era colma, a un punto esplodeva in rivolta. A partire dalla fine del III sec. a.C. e fino agli inizi del regno di Cleopatra VII, Alessandria ha fatto cosí piú e piú volte da scenario alla furia dei suoi cittadini, ai loro tumulti e agli assassinii piú atroci. Le cause che scatenavano la rabbia della gente erano di volta in volta diverse, ma alla miccia che faceva esplodere la piazza il fuoco era dato da dentro il palazzo reale. 4. Primi tumulti La prima grande rivolta era scoppiata nel 203 a.C., alla notizia della morte di entrambi i sovrani, Tolomeo IV Filopatore e Arsinoe III. Gli Alessandrini erano insorti sia perché tutti in città amavano la regina e la sua morte per molti era a dir poco sospetta, sia perché ritenevano opportuno difendere il diritto di successione del principe erede Tolomeo V, che, in ragione di uno strano testamento veniva posto sotto la tutela di Agatocle, un uomo di corte che fino ad allora aveva goduto di molti privilegi e aveva avuto grande influenza come consigliere personale del sovrano. L’uomo era noto. Tolomeo IV, che agli occhi degli Alessandrini era stato un buon re solo due volte nella sua vita, per aver riportato la vittoria nella battaglia di Raphia contro i Seleucidi e per aver sposato la sorella Arsinoe, aveva, per tutta la durata del suo regno, posto il paese in mano a due suoi consiglieri: Sosibio, passato alla storia come “macchina di morte”, e Agatocle, privo di scru49

cleopatra poli e crudele come il collega, che godeva di particolari favori a corte perché fratello di Agatocleia, la beniamina fra le amanti del sovrano. Durante il regno del Filopatore, mentre il re se la spassava con l’amante e con tutti i fanciulli e le fanciulle che poteva, Sosibio e Agatocle avevano fatto il buono e il cattivo tempo, ad Alessandria e nel paese. Le loro soverchierie erano note a tutti e si sapeva che i due, in combutta con Agatocleia, avevano fatto relegare in un’ala del palazzo la buona Arsinoe, che sola aveva resistito alle loro ingerenze e avrebbe voluto riportare lo sposo-fratello sulla buona strada. La rabbia fra la gente era già tanta e non poté che esplodere in rivolta quando, nel 203 a.C., furono annunciate la morte del re e quella della regina e si seppe che per testamento la tutela del piccolo principe era affidata ai due consiglieri e che Sosibio nel frattempo misteriosamente era morto. La misura era colma e Agatocle era l’unico colpevole che restava da punire. Tutti conoscevano la sua mancanza di scrupoli e la sua ambizione, e, fatti due conti, molti erano convinti che aveva certo macchinato per falsificare il testamento del re, qualcuno sosteneva anche che per non avere impicci aveva ucciso la regina e Sosibio, e tutti temevano la sua tutela sul principino. Gli Alessandrini si erano quindi mobilitati marciando contro i Basileia a far vendetta dell’usurpatore e, quando, una volta giunti, avevano saputo che Agatocle era stato già giustiziato dai soldati macedoni a guardia del palazzo, si erano precipitati contro la casa dell’impostore, avevano tratto di lí la sorella Agatocleia, che aveva la colpa di esser stata la sconcia amante del Filopatore, e la madre di lei, che aveva l’unica colpa di quei due figli, e avevano trascinato le due donne, nude e terrorizzate, per tutte le strade della città, lasciandole solo quando ormai erano morte, in terra e fatte a pezzi. Questa poteva essere la rabbia di Alessandria, una rabbia sconsi50

ii. cleopatra vii derata e sanguinaria, che ribolliva d’un malessere diffuso, di bisogni e di stenti, e che era facile a scatenarsi e poteva essere facilmente sobillata da chi volesse e sapesse approfittarne. E cosí, una quarantina d’anni dopo la rivolta contro Agatocle, a corte c’era ormai chi, diffondendo voci e informazioni, cercava di manovrare la folla per ottenerne il favore e trarne vantaggio. I fatti avvenivano in uno dei periodi piú torbidi e difficili della storia della dinastia lagide. La rivolta del 203 a.C. aveva portato sul trono d’Egitto Tolomeo V Epifane, legittimo erede di Tolomeo IV Filopatore e dell’amata Arsinoe III, ma ancora un bambino di cinque o sei anni. Un piccolo re su un trono cosí grande aveva subito suscitato gli appetiti di tanti e su questa ghiottoneria avevano allungato leste le mani sia i Macedoni insieme con i Seleucidi sia i Romani. Gli Alessandrini e l’intero paese avevano assistito all’attacco congiunto di Filippo V di Macedonia e di Antioco III di Siria, che, approfittando della situazione e del re bambino, avevano mosso la guerra su piú fronti contro l’Egitto e gli avevano tolto la gran parte dei suoi possedimenti esteri. Subito era entrata nel gioco Roma, che ovviamente alla spartizione del granaio egiziano non voleva restare estranea. Gli Alessandrini si erano ritrovati a dover accogliere in pompa magna un’ambasciata romana con a capo Marco Emilio Lepido, che ufficialmente si presentava col compito di annunciare al paese la vittoria riportata dai Romani contro Annibale e ringraziare il sovrano per non aver preso alcuna parte a quel conflitto, ma che di fatto era lí a portare un altro messaggio. L’ambasciatore, già che il re d’Egitto stava per essere messo sotto scacco dai Macedoni e dai Seleucidi, offriva al paese la protezione romana. Traducendo dal linguaggio diplomatico, ai Macedoni e ai Seleucidi si aggiungevano i Romani, e questi ultimi avevano ormai messo un piede sul regno (201 a.C.). I fatti avevano suscitato un certo malcontento, che, nel 180 51

cleopatra a.C., alla morte di Tolomeo V Epifane, era al colmo. Il re lasciava un paese allo sbando: il regno aveva ormai perso tutti i suoi possedimenti tranne Cipro e Cirene e su di esso pesavano la minaccia della Siria, che cominciava ad avanzare pretese territoriali, e la protezione di Roma, che si faceva sempre piú invadente. Sul trono mancava un re in grado di tenere il timone della situazione. Tolomeo V Epifane, morendo anzitempo, aveva lasciato tre figli ancora ragazzini, che, dopo la morte della regina madre Cleopatra I, erano rimasti alla mercé degli alti dignitari di corte, degli eunuchi e dei cortigiani, e che per le ambiziose macchinazioni, gli intrallazzi e i complotti dei loro consiglieri e tutori erano presto finiti a farsi la guerra per la successione al trono. Gli anni fra il 176 (morte di Cleopatra I) e il 145 a.C. furono i piú tristi della dinastia tolemaica. Il primo re dopo Tolomeo V Epifane era stato, per diritto di successione, il figlio maggiore, Tolomeo VI Filometore, che dapprincipio aveva regnato sotto la tutela della regina madre e che, dopo la morte di lei, era caduto nelle grinfie dei suoi ambiziosi consiglieri. L’eunuco Eunaios e il siriano Leonias avevano imbarcato il giovane re in una disastrosa guerra contro la Siria di Antioco IV: Tolomeo VI non solo era stato sconfitto, ma era finito prigioniero del Seleucide e aveva permesso che i nemici penetrassero in Egitto occupando addirittura Menfi. Col trono vacante e col nemico in patria, gli Alessandrini avevano imposto con una delle loro intemperanti manifestazioni l’intronizzazione dell’altro figlio dell’Epifane, Tolomeo VIII Evergete II. Era un tentativo per contenere l’avanzata di Antioco IV, il quale, piú abile e avveduto, aveva subito risposto facendo incoronare per la seconda volta il Filometore a Menfi. L’Egitto era precipitato nella confusione: due re, due capitali e un nemico che avanzava inarrestabile per prendere Alessandria. Tuttavia, si sa, i conti fatti senza l’oste non tornano. Antio52

ii. cleopatra vii co IV, nella sua avanzata, a Pelusio aveva trovato la strada sbarrata dai Romani. Il Senato Romano, bene attento a quanto accadeva nel piú grande granaio del mondo, per contenere e ridimensionare le pretese seleucidi, aveva subito inviato in Egitto un proprio messo, Caio Popilio Lenate, che aveva saputo gestire la faccenda in modo mirabile. Aveva ingiunto all’invasore di ritirarsi in Siria e, siccome il re aveva cercato di prender tempo chiedendo di consultarsi con i propri consiglieri, per fare giusto intendere che le sue parole non erano un invito ma un comando, aveva raccolto da terra un bastone e tracciato sulla sabbia tutt’intorno ad Antioco un cerchio, imponendogli di prendere la sua decisione da lí, senza fare un sol passo fuori da quella linea. Con la sua mossa, mettendo il re sotto scacco, Caio Popilio Lenate era riuscito d’autorità a rimandare in Siria Antioco IV, ma ad Alessandria la liberazione dall’invasore aveva un sapore amaro: con quel cerchio tracciato a Pelusio, su territorio egiziano, Roma lasciava la sua impronta sul regno ed era un segno difficile da cancellare (168 a.C.). Il trono d’Egitto restava traballante per la lite fra i due Tolomei fratelli. Cleopatra II, la regina del tempo, che stava fra i due litiganti come sorella e che aveva sposato Tolomeo VI Filometore, era riuscita a ricomporre la situazione in una sorta di diarchia, ma era solo una pace di facciata. In realtà, a corte i rapporti erano tesi e fra i cortigiani c’era chi parteggiava per un sovrano e chi per l’altro e fra le due fazioni c’era anche chi pensava a fare gli affari suoi o a inseguire alte e personali ambizioni. Dioniso Petosarapis, un alto dignitario di corte, aveva riacceso la miccia, propalando la notizia che il re Tolomeo VI Filometore stava organizzando un attentato contro il fratello re Tolomeo VIII. La gente di Alessandria, che aspettava la goccia per traboccare di rabbia, era scesa immediatamente in strada muovendo contro i Basileia. Il re maggiore, Tolomeo 53

cleopatra Filometore, era riuscito a stento a riportare un po’ di calma, mostrandosi alla folla insieme col fratello e facendo pubblico giuramento di non volere attentare alla diarchia. La calma era solo apparente. Mentre Tolomeo VI si lanciava all’inseguimento di Dioniso Petosarapis per punirlo della sua impostura, Tolomeo VIII, rimasto ad Alessandria, dell’impostore seguiva l’esempio e, per scalzare il fratello dal trono, da corte pungolava contro quello lo scontento popolare e suscitava rivolte tanto grandi e violente che il Filometore, al suo ritorno, fu costretto a lasciare il trono, Alessandria e l’Egitto. Passato poco tempo Tolomeo VI Filometore riuscí a rientrare nel paese e nel ruolo di sovrano, perché cosí piaceva e s’era deciso a Roma, che, contestualmente, aveva fatto Tolomeo VIII re di Cirene e poi di Cipro. Gli Alessandrini abbozzarono al nuovo intervento romano senza punto reagire, forse perché alla fine, dopo tanti intrighi e rivolte, preferivano un re meno litigioso e un po’ di pace attorno. Il problema però non era risolto. I torbidi esplosero nuovamente per le strade dopo la morte di Tolomeo VI Filometore, nel 145 a.C. Tolomeo VIII era tornato per reclamare il trono e per averlo non aveva avuto scrupoli di sorta: aveva attuato una durissima e, spesso, feroce repressione dei suoi antichi oppositori, condannandoli a morte o costringendoli all’esilio; aveva assassinato con le proprie mani il nipote, Tolomeo VII Eupatore, che era stato coreggente con il padre e ne era l’erede; aveva sposato la sorella e regina Cleopatra II, con lei congiungendosi, si diceva, ancora lordo del sangue del figlio che le aveva ammazzato, e aveva portato a corte la moglie-nipote, Cleopatra III, figlia del Filometore e di Cleopatra II, che, ambiziosa, non voleva esser seconda a nessuna, neanche alla madre. Era troppo per la regina ed era troppo per gli Alessandrini. Nella città montava nuovamente la rabbia e aumentava di 54

ii. cleopatra vii giorno in giorno perché, da corte, Cleopatra II sapeva orchestrare abilmente la resistenza contro il fratello e la figlia. Le rivolte erano tanto violente che Tolomeo VIII e Cleopatra III, alla fine, quando ormai il popolo minacciava per loro la forca, furono costretti alla fuga. Il loro esilio durò poco: Tolomeo VIII nel 127 a.C. era nuovamente ad Alessandria e sul trono. Restò re d’Egitto fino al 116 a.C., anno della sua morte (naturale) e cercò negli ultimi anni di riparare al malfatto con una politica piú attenta ai bisogni dei sudditi e molto munifica, soprattutto nei confronti del clero. Gli Alessandrini, tuttavia, ormai lo odiavano e, per spregio, lo avevano soprannominato “Fiscone” (‘Ciccione’) per quanto era grasso e “Kakerghetés” (‘Malfattore’) per le sue troppe malefatte. Non gli perdonavano tutto il sangue versato per appagare la folle ambizione di sedere sul trono. Lo sapevano colpevole dell’assassinio del nipote e sapevano che senza farsi scrupolo alcuno di affetto o di pietà, dopo esser stato scacciato da Alessandria, per punire la sorella-sposa, Cleopatra II, aveva addirittura fatto uccidere il figlio, nato dalla loro unione, il piccolo Tolomeo Menfita, ne aveva fatto fare a pezzi le carni e le aveva poi inviate in dono alla regina-sorella nel giorno in cui lei festeggiava il compleanno. Nonostante i bei templi e gli splendidi monumenti che il re aveva dedicato per la città e nel paese, non gli perdonavano la persecuzione e repressione dei sudditi, tutti quelli che erano stati proscritti e tutti quelli che aveva fatto ammazzare. Dopo la morte, non gli perdonarono neanche le sue ultime volontà. Il re, a quel che si sapeva, aveva lasciato due testamenti, uno peggiore dell’altro: nel primo Tolomeo VIII Evergete II, qualora non avesse avuto eredi legittimi, lasciava il regno al Senato Romano, e nell’altro, contro le regole del protocollo, stabiliva che fosse la regina Cleopatra III a designare tra i figli quello che doveva salire al trono. 55

cleopatra Il re fortunatamente aveva avuto figli, ma quel primo testamento gettava un’ombra pesante su Alessandria che prometteva male, era l’ombra di Roma. 5. I gatti di Alessandria Nel 59 a.C., appena un anno prima dell’assalto al palazzo reale di Tolomeo XII, Diodoro Siculo, che nella città si trovava per studiare alla Biblioteca, aveva potuto assistere al linciaggio d’un cittadino romano, la cui colpa era aver ucciso un gatto, ignorando probabilmente che ad Alessandria quelle bestiole erano sacre e che non bisognava punto toccarle. Non aveva avuto scampo: gli Alessandrini in massa l’avevano raggiunto nella casa dove alloggiava e s’era alla bell’e meglio barricato, l’avevano di lí sottratto a forza e massacrato per strada. A nulla era valso l’intervento dei messi reali che Tolomeo XII, allora in trattative proprio con i Romani per essere riconosciuto loro “amico e alleato” e proprio in quei giorni ospite generoso di una loro delegazione, aveva d’immediato inviato sul posto per evitare che l’uomo venisse ammazzato. Gli Alessandrini non avevano sentito ragione: non avevano temuto il loro sovrano, non si erano curati minimamente dell’incidente diplomatico che la loro azione poteva creare, non si erano preoccupati di un’eventuale reazione romana. Nella sua Biblioteca storica Diodoro annovera l’episodio come mera testimonianza della singolare devozione che gli Alessandrini e, piú in generale, gli Egiziani nutrivano per alcuni animali e per i gatti in particolare, limitandosi cosí ad ammonire chi capitasse nella città a farsi alla larga dai felini e consigliando a chi si trovasse a ucciderne uno o incappasse in una simile carcassa di prendere un’opportuna distanza e di gridare, piangendo e giurando, che la bestiola era già morta. Il fatto, per come lo stesso Diodoro da buon cronista lo contestualizza, avveniva in un momento politicamente deli56

ii. cleopatra vii cato: a corte fra il re e gli ambasciatori romani erano in corso le trattative per l’alleanza dell’Egitto con Roma. Il linciaggio di un Romano nella capitale del regno, vuoi anche per l’uccisione d’un animale sacro, poteva essere indizio di quel sentimento antiromano che già da tempo montava fra la gente e negli anni precedenti aveva giocato come concausa nelle rivolte e nella destituzione dei sovrani. Nella storia piú recente, Tolomeo X Alessandro I, soprannominato “Vecchia Pustola” per quanto era brutto, era stato cacciato dal paese e tolto dal trono per ben due volte, nel 96 a.C. e nell’88 a.C., perché agli occhi del suo popolo si era macchiato di una serie di imperdonabili colpe. Si diceva, infatti, che il suo primo atto di sovrano era stato quello di provvedere, nel 101 a.C., alla morte della regina Cleopatra III, sua madre, che per ironia della sorte, per averlo con sé sul trono, aveva fatto allontanare l’altro suo figlio, Tolomeo IX Sotér II, accusandolo di aver tentato il matricidio. Il re era un malvagio e un ingrato, secondo l’opinione pubblica, e tutti lo odiavano, salvo i suoi cortigiani e i ruffiani, compagni servizievoli e sempre proni delle sue giornate. Viveva nel lusso e nella bambagia, a tutto indifferente salvo che ai banchetti e alle danze. Per il ballo pare nutrisse una passione cosí grande che, pur essendo tanto grasso da dover essere normalmente sorretto da due persone per camminare, al primo trillo di musica balzava in piedi e fra salti e piroette era piú bravo d’un ballerino provetto. “Vecchia Pustola”, fra balletti e sollazzi, era rimasto del tutto indifferente quando, nel 96 a.C., era morto il fratellastro Tolomeo Apione, re di Cirene, e s’era scoperto che nel proprio testamento aveva nominato come erede del suo regno il Senato di Roma. Alessandria, invece, aveva scatenato una nuova tremenda rivolta. L’Egitto aveva da tempo perso quasi tutti i suoi possedimenti esteri, salvo Cipro e appunto Cirene, e il re, agli occhi dei suoi sudditi, non poteva restare indif57

cleopatra ferente a quanto stava accadendo. Cirene era stata fino ad allora nella zona d’influenza dell’Egitto ed era sempre stata un’area importante sia perché rappresentava una sponda di sicurezza sul fianco occidentale contro eventuali attacchi attraverso il deserto, sia perché il paese era uno dei piú importanti produttori di silphium, una pianta medicinale della quale si faceva largo uso nel mondo antico e della quale fino ad allora l’Egitto aveva potuto fruire in modo agevolato. Tolomeo X Alessandro I “Vecchia Pustola” era stato quindi cacciato e a nulla gli era valso presso la sua gente che i Romani non avessero preso sul momento il pieno possesso del territorio ereditato (avrebbero, infatti, creato la provincia di Cirenaica soltanto nel 74 a.C., al tempo di Tolomeo XII) e avessero piuttosto lasciato all’area la possibilità di autogovernarsi, garantendo soltanto la loro protezione e riservandosi in cambio la riscossione dei tributi derivati dallo smercio del silphium. Non arrendendosi alla sorte era poco dopo rientrato in Egitto. Grazie a un esercito di mercenari assoldato all’uopo si era riconquistato il trono, restandoci sopra fino all’88 a.C., anno in cui tremenda scoppiò ancora una rivolta. Il re con il potere aveva ripreso la sua precedente condotta e s’era macchiato di nuove colpe. Per pagare il suo esercito mercenario aveva dovuto batter cassa ad Alessandria, aumentando spropositatamente le tasse e requisendo i beni di molti cittadini, e, per far moneta, era arrivato a sottrarre dalla tomba di Alessandro Magno il sarcofago d’oro nel quale era custodita la salma del grande generale sostituendolo con quello d’alabastro. Il re era stato quindi defenestrato per la seconda volta, s’era rifugiato a Cipro e, nel tentativo di rientrare in Egitto, era morto o, forse, era stato assassinato. Suo figlio Tolomeo XI Alessandro II avrebbe avuto di lí a poco un destino anche peggiore. Liberatisi della “Vecchia Pustola”, gli Alessandrini non 58

ii. cleopatra vii avevano voluto che gli succedesse il figlio e avevano richiamato a essere re d’Egitto il fratello maggiore dell’ex sovrano, quel Tolomeo IX Sotér II che la regina madre, Cleopatra III, nel 107 a.C. aveva fatto cacciare inscenando il tentato matricidio. Neanche Tolomeo IX era molto amato. Nei pochi anni in cui aveva regnato non aveva fatto molto, salvo meritarsi il soprannome scherzoso di “Lathyros” (‘Cece’). Era apparso come un fantoccio fra le mani della regina madre Cleopatra III, donna terribile quanto ambiziosa, che lo aveva sopraffatto e agli occhi di tutti teneva lo scettro al posto del figlio, al punto che su tutti gli atti e in ogni documento il suo nome compariva sempre prima di quello del sovrano. Era arrivata a costringere il figlio a ripudiare la moglie-sorella Cleopatra IV, perché aveva osato mostrare di gradire poco l’ingombrante presenza della regina madre nella reggenza, e il Cece aveva obbedito sposando la sorella minore Cleopatra Selene, piú docile e accondiscendente. Quando il re aveva finalmente cercato di acquistare una sua autonomia, la madre per liberarsene aveva inventato la storia del matricidio. Gli eunuchi del suo corteggio si erano precipitati per le strade, sporchi di sangue e feriti, gridando disperatamente che il re aveva ammazzato la regina sua madre, e gli Alessandrini, sensibili a delitti di tal fatta, si erano subito mobilitati contro l’assassino, che riuscí a salvarsi da morte certa solo perché, per una volta lesto, prima del loro arrivo si imbarcò, fuggendo alla volta di Cipro. Da lí era stato richiamato nell’88 a.C., perché, dopo le malefatte della Vecchia Pustola, Tolomeo IX Sotér II Lathyros sembrava ormai il male minore. Nuovamente sul trono, Tolomeo IX, che probabilmente amava poco il suo ruolo e non doveva essere molto ambizioso, aveva regnato come poteva, senza eccellere né per meriti né per crimini, fino all’80 a.C. Alla sua morte lasciava cinque figli, di cui solo una, Cleo59

cleopatra patra Berenice III, era legittima ed era destinata al trono, anche perché era stata la sposa di Tolomeo X Alessandro I, suo zio. Gli altri quattro figli del Lathyros, due maschi e due femmine, erano nati da sue unioni con concubine e in quanto figli naturali non avevano di fatto diritto alla successione. L’erede che poteva essere affiancato alla regina Cleopatra Berenice c’era e apparteneva al ramo principale e diretto della dinastia in quanto figlio di Tolomeo X Alessandro I. Nell’88 a.C., quando il padre era morto, gli Alessandrini lo avevano potuto ignorare nella successione perché del giovane si erano in certo senso perse le tracce. La nonna, Cleopatra III, da buona compagna di Tolomeo Fiscone Kakerghetés, nel periodo delle lotte dinastiche, aveva allontanato il bambino da corte perché non finisse vittima di qualche complotto, e lo aveva messo al sicuro con un ingente tesoro nell’isola di Coo. Da lí il giovane principe era finito prima prigioniero di Mitridate VI Eupatore, il grande re del Ponto, quando questi aveva conquistato l’isola, e poi, durante la guerra che il re aveva ingaggiato con Roma, era riuscito a sfuggire dalla sua prigionia e aveva raggiunto l’accampamento romano, trovando la protezione di Lucio Cornelio Silla, che l’aveva poi portato con sé a Roma. Nell’80 a.C. l’erede legittimo del trono d’Egitto non era piú irreperibile come nell’88 a.C.: il principe si trovava a Roma ed era ospite e protetto del piú influente Romano del tempo. La sua legittimità a salire sul trono non poteva esser messa in discussione. Nell’estate dell’80 a.C., dopo circa sei mesi dalla morte del Lathryos, il principe Tolomeo XI Alessandro II, in quanto figlio di Tolomeo X Alessandro I e protetto del dictator Lucio Cornelio Silla, tornava ad Alessandria e in virtú di un decreto del Senato Romano veniva posto sul trono come sposo della regina vedova Cleopatra Berenice III. Il nuovo re, per come era arrivato, piaceva già poco e sul 60

ii. cleopatra vii seggio reale piacque anche meno. Appena diciannove giorni dopo la sua ascesa al trono, Tolomeo XI Alessandro II venne detronizzato e massacrato durante un’insurrezione popolare, esplosa perché la gente aveva saputo che il re aveva ammazzato la regina Cleopatra Berenice III. La crudeltà dell’assassinio era solo un pretesto: l’affetto per la regina uccisa aveva senz’altro scosso la gente alla rivolta (causa immediata), ma piú in profondo faceva rabbia l’eccessiva vicinanza del sovrano-assassino a Roma (causa profonda). In quella stessa estate, con la morte del re e della regina si estingueva il ramo diretto della dinastia lagide, ma restava quello spurio rappresentato dai quattro figli “bastardi” del Lathryos. I notabili alessandrini, senza badare al sangue e ai protocolli, si erano precipitati per questa strada di successione, per evitare un’ulteriore ingerenza romana e soprattutto perché temevano il contenuto del testamento di Tolomeo XI, che, infame canaglia, aveva deciso di lasciare il regno in eredità al Senato Romano. Per questo, nell’estate dell’80 a.C., veniva scelto come nuovo re un adolescente e per di piú spurio e veniva incoronato come Tolomeo XII Philopator (‘Colui che ama il padre’) Philadelfos (‘Colui che ama il fratello’) e Neos Dionysos (‘Novello Dioniso’). E fu cosí che il padre di Cleopatra VII divenne il nuovo re sul trono d’Egitto. 6. La rivolta I primi quindici anni di regno erano trascorsi per Tolomeo XII senza grosse difficoltà: le entrate erano abbondanti (alla cassa del re venivano versati tributi per 12.500 talenti, piú di trecentoventicinquemila tonnellate d’oro), il paese sembrava esser tornato alla pace e il re poteva anche dilettarsi con l’aulós e organizzare festini e agoni musicali ai quali egli stesso spesso partecipava come concorrente. I problemi, però, era61

cleopatra no alle porte e, pochi anni dopo l’ascesa al trono dell’Aulete, avevano ricominciato ad affacciarsi e a far ombra sul regno. Nel 74 a.C., Roma, rendendo finalmente esecutivo il testamento con cui nel 96 a.C. Tolomeo Apione l’aveva fatta erede del regno di Cirene, aveva preso possesso di quei territori e aveva creato, proprio sul confine occidentale dell’Egitto, la provincia di Cirenaica. Avere i Romani alle porte non era rassicurante per il regno di Tolomeo: gli Alessandrini non gradivano i nuovi vicini, i quali potevano ormai avanzare pretese da una posizione molto favorevole. Nel 65 a.C., quindici anni dopo l’intronizzazione dell’Aulete, a Roma Marco Licinio Crasso, all’epoca censore, attraverso un tribuno e con l’appoggio di Gaio Giulio Cesare in carica di edile, presentava, per la prima volta, una proposta d’annessione dell’Egitto. Veniva addotto come pretesto dell’azione il testamento di Tolomeo XI Alessandro II, che, nel documento, aveva designato come propria erede la città di Roma. Le ragioni alla base della proposta di Crasso, tuttavia, erano piú profonde ed esclusivamente economiche e politiche: prendere possesso dell’Egitto significava appropriarsi del primo granaio del mondo e di tutte le altre sue ricchezze, diventare forti e potenti e aspirare a essere i primi anche e soprattutto a Roma. Il testamento faceva paura a molti Romani e proprio per questo per ben quindici anni non era stato preso in considerazione e si era lasciato che finisse sul trono l’Aulete e ci restasse indisturbato. Qualcosa, però, stava cambiando e la proposta di Crasso, benché bocciata, ne era un chiaro indizio: nell’Urbe l’Egitto era divenuto oggetto di un diverso interesse. Qualcuno metteva in discussione il protettorato romano sul paese, tirava in ballo il testamento dell’ultimo Tolomeo legittimo e pensava all’annessione. Qualcuno, insomma, cominciava ad ambire alle immense ricchezze del regno lagide e qualche altro cominciava a temere quelle stesse ambizioni, difendeva il pro62

ii. cleopatra vii tettorato e preferiva avere sul trono un re spurio ma arrendevole e obbediente. L’interesse era grande e Crasso ritentava l’attacco nel 63 a.C., con una legge agraria proposta dal tribuno della plebe Publio Servilio Rullo. Il tentativo falliva di nuovo, ma il messaggio era chiaro e in Egitto cominciava a montare la paura. Tanto piú che il paese cominciava a esser stretto su ogni lato. I Romani si erano in quegli anni lanciati alla conquista dell’Oriente e avevano esteso i loro domini in Asia Minore, dove nel 64 a.C. avevano creato la provincia di Bitinia e del Ponto e dove, grazie alle imprese di Pompeo Magno, nello stesso anno avevano pacificato e conquistato il regno seleucide e vi avevano istituito la provincia di Siria. Tolomeo XII, avendo probabilmente compreso la posizione che nel contesto degli interessi romani cominciava ad assumere l’Egitto e sentendosi quindi stretto nella situazione, aveva deciso finalmente di prender partito e, abbracciando la strategia politica che gli suggeriva il suo consigliere Cheremon, provava la strada dell’amicizia con Roma. Nel 63 a.C., un messo del re d’Egitto lasciava Alessandria alla volta di Damasco, perché nella città siriana si trovava in quel periodo Pompeo, che da lí stava preparando una campagna contro la Giudea. La fama del generale romano in quegli anni era assai grande un po’ dappertutto per il mondo e anche, ovviamente, in Egitto. Per Tolomeo XII amicarsi quello che appariva a tutti il piú forte e il piú potente fra i Romani significava poter avere un protettore a Roma contro il partito dell’annessione e non avere un nemico che combatteva in Giudea, terribilmente vicino al suo paese. Il messo portava al Magno una preziosa corona tutta d’oro massiccio come omaggio alla sua forza e alla sua potenza, l’offerta di ben 8000 cavalieri per la conquista della Giudea e un’ambasciata di Tolomeo XII che lo invitava in Egitto per un incontro amichevole. 63

cleopatra Non era un invito disinteressato. Ad Alessandria, infatti, si cominciava a respirare una certa irrequietezza perché le tasse aumentavano, i Romani stavano tutt’intorno e si apprestavano addirittura a combattere in Giudea, e il Nothós suonava il suo aulós, faceva male o, comunque, faceva troppo poco per il paese. La presenza di Pompeo, scortato da qualche legione e ospite del sovrano, avrebbe fatto comodo all’Aulete per placare gli animi e rassicurarsi sul trono. Il Romano aveva declinato l’invito, accettando solo i doni. Poteva bastare: il re aveva trovato un appoggio a Roma. Nel 60 a.C. la posizione dell’Aulete si era complicata. A Roma Cesare, Crasso e Pompeo avevano stipulato il cosiddetto “primo triumvirato”. Per Tolomeo XII il referente romano non poteva essere piú il solo Pompeo: doveva accattivarsi la protezione del “mostro a tre teste”, i tre signori di Roma. Crasso aveva già preso pubblica posizione per l’annessione dell’Egitto e Cesare gli era stato vicino. Per restare sul trono una corona d’oro era ormai poco e cosí l’Aulete aveva versato seimila talenti al triumviro Cesare, che, in virtú della mazzetta, nel 59 a.C., anno del suo primo consolato, in accordo con gli altri triumviri, con una legge (la Lex Iulia de Ptolomeo Aulete) e un decreto del Senato faceva riconoscere Tolomeo XII come re legittimo e come « socius et amicus populi Romani » (‘alleato e amico del popolo romano’). Seimila talenti erano troppi anche ad Alessandria, dove il sovrano batteva cassa. Nella capitale, poi, i referenti del re e la sua politica filoromana piacevano poco e lí, proprio nel 59 a.C. nel corso delle trattative dell’Aulete con i Romani, gli Alessandrini non si erano trattenuti dal linciaggio di quel Romano che aveva ucciso il povero gatto. L’accordo con i triumviri garantiva soltanto il re d’Egitto e non riguardava i pochi possedimenti del paese. E, infatti, nel 58 a.C., su iniziativa del tribuno della plebe Clodio Pulcro, Roma annetteva l’isola di Cipro, che veniva cosí a esser parte 64

ii. cleopatra vii della provincia di Cilicia. Il re cipriota era stato accusato di aver coperto e aiutato i pirati nelle loro scorrerie contro le navi romane. L’accusa era affatto gratuita, ma giovava bene come pretesto per agire. In realtà le ragioni dell’intervento romano a Cipro erano verosimilmente altre: da una parte, l’esigenza di allontanare da Roma un personaggio politicamente scomodo per i triumviri come Catone il Giovane, che veniva inviato come pro quaestore pro praetore a compiere l’impresa, e, dall’altra, la possibilità di potersi impadronire dei beni della corona cipriota (settemila talenti). L’annessione dell’isola e la morte del suo re, che preferí suicidarsi piuttosto che sottomettersi a Roma e accettare un esilio interno come sacerdote di Apollo al santuario di Pafos, non potevano non avere un’immediata ripercussione. Cipro era sempre stata fin dai tempi dei primi Tolomei nell’area di influenza egiziana, era rimasta « per colpa dei Romani » l’unico possedimento estero del paese e il suo re era fratellastro di Tolomeo XII e, come questi, era stato posto dagli Alessandrini sul trono cipriota nell’80 a.C. per evitare ingerenze romane. Una volta appresa la notizia dell’annessione romana di Cipro, gli Alessandrini erano insorti, rimproverando al loro re di non aver preso partito contro Roma, di non aver impedito la conquista dell’isola, di non aver difeso il proprio fratellastro. Era l’estate del 58 a.C.: una nuova rivolta scuoteva tremenda il palazzo reale, il re lasciava il trono e la città fuggendo in esilio. La principessa Cleopatra VII, a undici anni, si congedava cosí dall’infanzia e si avviava lungo la strada dell’incertezza. 7. Tolomeo a Roma Con la fuga del re, il trono d’Egitto tornava a essere pericolosamente vacante. La situazione era delicata e i notabili 65

cleopatra dovevano provvedere a rimpiazzare Tolomeo XII, per non dare adito a sgradite intromissioni nelle faccende alessandrine e, soprattutto, per non legittimare un qualche intervento a tutela dei diritti dinastici dell’Aulete. Bisognava, insomma, tenere lontani i Romani e si pensò che la soluzione migliore fosse elevare al trono un altro Lagide. La scelta era obbligata, perché ormai l’unico ramo superstite della dinastia era quello dell’Aulete e fra i suoi figli la maggiore era Berenice IV, che veniva insediata sul trono come nuova regina. Bisognava trovarle uno sposo, perché in Egitto una donna non poteva regnare senza un re al suo fianco. In casa lagide era regola, ormai da secoli, che il matrimonio dei regnanti venisse combinato in famiglia fra congiunti, genitori con figli o fratello con sorella. I notabili preferirono non seguire la tradizione in questo caso. I fratelli di Berenice IV erano due bambinetti, il maggiore aveva appena tre anni, troppo pochi, si disse, per un matrimonio, troppo pochi, in realtà, perché il piccolo re non si portasse sul trono un corteggio di tutori e consiglieri, gente facile alle ambizioni e alle brighe, e troppo pochi per garantire al regno la stabilità necessaria in un momento cosí difficile, in cui era opportuno scongiurare intrighi, macchinazioni e delitti. Alla giovane regina bisognava affiancare un re capace di fronteggiare adeguatamente la situazione, un giovane di buon lignaggio e, magari, non troppo disposto all’amicizia con i Romani. La scelta anche in questo caso era obbligata: bisognava cercare lo sposo in casa seleucide, fra i principi di quella antica e nobile casata alla quale i Romani avevano di recente tolto con le armi il regno. I Tolomei e i Seleucidi per secoli si erano fatti la guerra per la Celesiria e altri territori di confine fra i loro due regni, ma da secoli erano imparentati. Per la scelta dello sposo di Berenice si guardò quindi da quella parte, ma senza fortuna. Il principe prescelto morí ancor prima di partire alla volta di 66

ii. cleopatra vii Alessandria. Un secondo fu trattenuto in Siria dal proconsole romano Aulo Gabinio che gli negò il permesso di imbarcarsi per l’Egitto. Il terzo era un impostore che si spacciava per Seleucide, ma che di fatto con quella casata c’entrava assai poco. Il quarto era un Seleuco di sangue, ma era malfatto, brutto e volgare e anche avido e meschino tanto che era stato appellato “Cibiosatte” (‘Quello che vende il pesce salato’) e che Berenice, la sposa, per non averlo attorno, fece subito ammazzare. Solo dopo un bel po’ di tempo si trovò uno sposo degno di stare sul trono con la regina. Era il nobile Archelao, originario di Cappadocia e di famiglia reale, uomo forte e valoroso che per raggiungere la sposa era addirittura sfuggito alle carceri del proconsole Aulo Gabinio in Siria. In realtà, Cassio Dione racconta che in quella fuga la vera forza fu quella del denaro, quello che il promesso sposo aveva abbondantemente versato nelle mani del proconsole romano. In quel momento, della mazzetta a Gabinio importava poco. Come che fosse arrivato, Archelao era il miglior partito che si potesse sperare: l’Egitto aveva un re accanto alla regina. Intanto, mentre ad Alessandria succedevano questi fatti, Tolomeo XII nella sua fuga aveva fatto tappa prima a Rodi, poi ad Atene e quindi a Roma, dove, ospite di Pompeo nella villa che questi possedeva sui Colli Albani, passava i mesi brigando come poteva, dispensando immense somme di denaro per accattivarsi l’appoggio dei Romani piú influenti e poter essere cosí al piú presto reintegrato sul suo trono. Il pane, si sa, è sempre troppo salato per l’esule, ancor di piú per un re dal palato fine come l’Aulete, che facendo la spola da questo a quel Romano, non badava a spese e di giorno in giorno s’indebitava fino al collo e apprendeva amaramente quanto fosse vero che l’ingordigia dei signori di Roma era senza fondo. Glielo aveva detto Marco Porcio Catone il Giovane a Ro67

cleopatra di. Il re, infatti, quando nella sua fuga come primo approdo era giunto nell’isola, aveva appreso che lí si trovava anche il Romano e aveva voluto incontrarlo per avere consiglio e aiuto. Era stato un incontro particolare, fuori dall’etichetta e da ogni protocollo, uno di quegli incontri che capita una volta nella vita e non si può dimenticare. Catone non era molto sensibile a scettri e corone. Quando il re d’Egitto gli aveva fatto annunciare il suo arrivo non si era mosso da dov’era e aveva piuttosto risposto che una cura purgativa gli impediva di lasciare i suoi alloggi, dove, comunque, il sovrano, se proprio ci teneva, avrebbe potuto raggiungerlo e incontrarlo. Tolomeo XII ovviamente era andato ed era stato accolto senza gli inchini o i salamelecchi a cui era abituato, ma semplicemente come un comune essere umano. Per via della purga, Catone non si era neanche alzato né gli si era fatto incontro, ma, uomo tutto d’un pezzo e onesto qual era, gli aveva parlato con saggezza e sincerità e l’aveva messo sull’avviso dall’andare a Roma, perché, gli aveva detto, per soddisfare i padroni dell’Urbe e averne in cambio un po’ d’attenzione avrebbe speso una vera fortuna e, forse, per appagarli non gli sarebbe bastato tutt’intero l’Egitto ridotto in moneta sonante. L’unico consiglio che si sentiva di dargli era quello di lasciar perdere Roma, di tornarsene ad Alessandria e di riconciliarsi con i suoi sudditi, e l’aiuto che gli poteva offrire era quello di riaccompagnarlo in Egitto e di collaborare con lui per favorire la riappacificazione del paese. Altro non disse, solo poche parole, ma saggio era il consiglio e sincero l’aiuto. L’Aulete, dopo un iniziale tentennamento, aveva preferito non dargli retta. Probabilmente, dopo la rivolta che l’aveva cacciato, senza avere un buon appoggio, temeva di tornare ad Alessandria come si può temere la morte. Catone aveva offerto il suo aiuto, ma di essere accompagnato e spalleggiato per la reintegrazione sul trono proprio dall’uomo che aveva 68

ii. cleopatra vii annesso Cipro a Roma e che, per questo, ad Alessandria e in Egitto godeva della peggior fama, non se l’era proprio sentita. Meglio, quindi, pagar qualcosa per un Pompeo o per quel Cesare che andavano in quegli anni conquistando mezzo mondo, con le armi e non soltanto con le belle parole. L’Aulete aveva preso la strada per Roma e, qui, esule e privo di grandi mezzi, per far bottino di consensi e di amici s’era presto ridotto a dover chiedere prestiti sempre piú ricchi ai banchieri romani, soprattutto a Gaio Rabirio Postumo, che, calcolatore abile e astuto, s’era subito precipitato ad assecondare ogni richiesta del sovrano, applicando, però, ai suoi crediti un tasso d’interesse cosí alto da rasentare lo strozzinaggio. Fisso nel suo proposito di tornare re ad Alessandria, Tolomeo XII s’era preoccupato solo di acquistare appoggi, senza curarsi del come e del costo, e alla fine, dopo mesi spesi a corteggiare questo e quello e a distribuire mazzette a tutti e dappertutto, nel 57 a.C., a un anno dalla sua fuga, era già nella gabbia dorata dell’usura, ma poteva sentirsi comunque soddisfatto della sua scelta, perché da quanto aveva seminato coglieva il primo frutto: il Senato del Popolo Romano decideva di acconsentire alla sua richiesta di reintegrazione sul trono d’Egitto. Per l’intervento, tuttavia, bisognava mettersi d’accordo. Il re premeva e brigava perché l’impresa fosse affidata al grande Pompeo, che gli sembrava il piú influente e il piú forte, ma, per quanto insistesse e sborsasse, la sua proposta non veniva recepita. L’utile del sovrano, infatti, si scontrava contro l’interesse romano e soprattutto contro l’interesse degli altri grandi di Roma, i quali temevano che attraverso una tale impresa Pompeo potesse diventare a loro danno ancora piú forte e piú influente di quel che già era. Il problema, in realtà, non era solo Pompeo: chiunque avesse ricondotto in Egitto Tolomeo XII, avrebbe avuto la 69

cleopatra possibilità di un lauto guadagno, e questo mentre era al comando d’un grande esercito, quello necessario al compimento dell’impresa. Chi, avendo a disposizione soldati e denari, non avrebbe cercato di farne un uso personale e di tentare il colpo di prendere il sopravvento a Roma? Questo era il problema e per questo, visti gli interessi economico-politici che metteva in gioco, la questione egizia non veniva risolta ed era oggetto di un vivace e aspro confronto politico. Si dibatteva e, larvatamente, si combatteva sulle modalità con cui l’intervento dovesse essere portato a termine e sui personaggi ai quali si potesse affidare l’incarico. Dapprincipio, per togliere di mezzo Pompeo, si era trovato l’accordo nell’affidare l’intervento a Publio Cornelio Lentulo Spintere, che nel 56 a.C. avrebbe ricoperto la carica di proconsole in Cilicia, da dove avrebbe potuto condurre l’impresa sbarcando in Egitto con una legione. La faccenda, però, non era risolta: perché affidare l’impresa proprio a Lentulo Spintere che era un pompeiano e non a un altro? Per Tolomeo XII, insomma, dopo il primo successo si metteva male. I Romani non si decidevano all’intervento e a rendere piú complessa la situazione c’erano gli Alessandrini, che, venuti a conoscenza della presenza del re a Roma, avevano avuto la bella pensata di inviare nell’Urbe una loro delegazione di cento cittadini con a capo il filosofo Dione per scongiurare il ritorno dell’Aulete sul trono. Per il re era un grosso problema: i suoi sudditi avrebbero certo difeso l’intronizzazione di Berenice IV e di Archelao, per lui due usurpatori, e avrebbero anzi giustificato la loro azione come legittima e necessaria, perché il re era fuggito e aveva lasciato il trono vacante e perché dal momento della fuga l’Aulete non aveva piú dato sue notizie e aveva lasciato che in città si pensasse che fosse ormai morto. I delegati l’avrebbero ovviamente anche accusato: troppi tributi, troppi festini e l’incapacità di regnare. 70

ii. cleopatra vii Tolomeo non poteva accettare che, dopo tanta fatica e tanti denari, la sua reintegrazione sul trono, che già procedeva a rilento, potesse essere rimessa in discussione dall’arrivo dei suoi concittadini. Aveva cosí assoldato un buon numero di sicari e, quando i cento erano sbarcati a Puteoli (l’odierna Pozzuoli), li aveva fatti per la gran parte ammazzare, dei sopravvissuti s’era comprato il silenzio e a Dione, che era scampato alla morte e aveva raggiunto Roma per parlare, aveva fatto propinare un veleno micidiale. Una strage, corruzione e un assassinio per avvelenamento. Da Puteoli a Roma la notizia s’era diffusa suscitando scalpore. Era la fine del 57 a.C. Per lo scandalo il Senato Romano era costretto ad aprire sull’accaduto un’inchiesta che accertasse l’effettivo svolgimento dei fatti e Tolomeo XII, che dalla pubblica opinione era indiziato come il responsabile di tutto, doveva allontanarsi dalla città. Lasciava a Roma Ammonio, suo ambasciatore, per seguire l’andamento in Senato delle due faccende e cercare di intervenire adeguatamente, dispensando denaro in modo tale che l’inchiesta fosse insabbiata e che la missione in Egitto fosse affidata a Pompeo. Con l’azione corruttrice avviata dal suo ambasciatore, il re riusciva a ottenere che la faccenda di Puteoli e di Dione fosse presto messa a tacere, ma sull’altro fronte, quello della sua reintegrazione sul trono, non otteneva alcun risultato. In Senato non si raggiungeva un accordo e anzi era un vero e proprio putiferio di insulti e schiamazzi a ogni seduta. Dopo l’episodio di Puteoli, appariva ormai inevitabile che il re dovesse essere scortato ad Alessandria in modo adeguato, con i soldati, e questo dava pensiero a Roma. La situazione si metteva anche peggio per Tolomeo agli inizi del 56 a.C. Nel dibattito politico sulla questione egizia, a inizio dell’anno nuovo, s’intrometteva addirittura Giove, inviando un suo segno dal cielo. A Roma quelli erano anni di grandi prodigi, che si verificavano soprattutto in coincidenza 71

cleopatra con le gravi crisi politiche o nel caso di scontri particolarmente animati e duri. Qualche mese addietro, quando Clodio aveva mosso il suo piú aspro attacco contro Cicerone, un piccolo tempio di Giunone si era girato su se stesso, mutando il suo orientamento da oriente a settentrione, un lupo si era intrufolato in città, c’era stato un terremoto e fulmini erano caduti un po’ dappertutto, anche su molti cittadini. Gli indovini avevano subito dedotto che gli dèi erano arrabbiati e Clodio ne aveva trovato la ragione: la colpa era di Cicerone che si era fatto ricostruire la casa là dove l’aveva avuta prima di essere mandato in esilio, in un luogo, però, che durante la sua assenza era stato destinato proprio da Clodio alla dea Libertas e che quindi l’oratore aveva imperdonabilmente profanato. A inizio del 56 a.C., in quel guazzabuglio che era diventata la questione egizia, non poteva mancare un segno divino: un fulmine aveva colpito la statua di Giove sul monte Albano. L’avvenimento era di quelli che a Roma imponevano la consultazione dei Libri Sibillini. L’oracolo tratto dai sacri libri era oltremodo chiaro e preciso e per Tolomeo XII suonava male: « Se il re d’Egitto viene e chiede aiuto, non negategli l’amicizia, ma non precipitatevi a offrirgli un aiuto consistente cum multitudine hominum (e, cioè, con i soldati); altrimenti ne avrete pericoli e sofferenze ». In soldoni, significava che i Romani, poiché cosí gli dèi comandavano, non potevano piú garantire al sovrano d’Egitto un aiuto consistente, quell’aiuto militare che dopo la rivolta del 58 a.C. e dopo il fatto di Puteoli gli era necessario per essere reintegrato sul trono ad Alessandria. Il dibattito era infuocato. Alle pressioni di Tolomeo si aggiungevano insistenti quelle dei suoi molti creditori romani, i quali temevano che senza la reintegrazione il re non potesse estinguere i tanti debiti con loro contratti. In molti poi non volevano rinunciare alla possibilità di ricondurlo sul trono, perché, an72

ii. cleopatra vii che senza un comando militare, l’incarico era comunque proficuo e prestigioso. La lotta fra interessi e ambizioni continuava e c’era chi si ingegnava per superare l’ostacolo della prescrizione religiosa e il divieto d’impiegare soldati romani nella missione. Cicerone, ad esempio, aveva escogitato un modo per riportare Tolomeo in Egitto senza dover rinunciare ai soldati e senza che, per questo, si potesse esser poi giudicati empi. Il piano era semplice e sicuro e Cicerone lo suggeriva all’amico Lentulo Spintere, il proconsole di Cilicia che nella faccenda della reintegrazione di Tolomeo era impicciato fin dall’inizio e che all’incarico non voleva rinunciare. Bastavano di fatto appena tre mosse, senza aver problemi né ad Alessandria né a Roma. Lentulo avrebbe dovuto condurre e alloggiare il re a Tolemaide o in qualche altra città a quella vicina. Una volta collocato il sovrano a debita distanza, in qualità di proconsole avrebbe potuto recarsi ad Alessandria con l’esercito, raggiungere un accordo con gli Alessandrini e, a maggior garanzia d’ordine, guarnire la città di presidi. Quindi, avendo in pugno la situazione, sarebbe ritornato a Tolemaide o dove aveva lasciato l’Aulete, l’avrebbe preso con sé e l’avrebbe riportato ad Alessandria e sul trono senza avere bisogno d’un seguito militare, come piaceva alla Sibilla e agli dèi di Roma. L’idea era buona, ma era un rischio esporsi senza un mandato ufficiale. In Senato, nella bagarre generale e fra proposte d’ogni sorta non si riusciva a trovare una soluzione e neanche a scegliere un nome. Lentulo era sempre in corsa, ma accanto a lui c’era l’ombra di Pompeo e fra i due c’era ai voti la proposta d’una commissione a tre. Ogni seduta finiva sempre e solo in inutili schiamazzi, con scambio di accuse e di insulti. Per creare maggior scompiglio il tribuno della plebe Gaio Catone, partigiano di Clodio e Crasso, aveva addirittura diffuso fra la popolazione il contenuto del responso sibillino, costringendo i sacerdoti a leggerne il testo nel Foro e, poi, 73

cleopatra tappezzando i muri della città con la traduzione latina del vaticinio. Tolomeo XII si trovava nella triste posizione di avere piú di mezza Roma contro: gli dèi, la gente e parte del Senato, dove appunto per questo una risoluzione sulla sua questione sembrava ormai difficile o, comunque, piuttosto lontana. Nella situazione di stallo, nel 55 a.C., l’Aulete decideva di risolvere da sé e al suo solito modo la questione: in accordo forse con Pompeo, promettendo il lauto compenso di diecimila talenti, riusciva a garantirsi l’appoggio del pompeiano Aulo Gabinio, all’epoca proconsole di Siria, uomo venale e spregiudicato. Il proconsole si era subito impegnato con l’Aulete senza curarsi minimamente di ottenere il benestare del Senato Romano e, nonostante la prescrizione dei Libri Sibillini, aveva garantito per l’impresa l’impiego delle legioni romane stanziate in Siria. Nel 55 a.C. Gabinio decideva l’attacco, accusando gli Alessandrini di stare allestendo a danno di Roma una flotta, di minacciare la Siria e di mettere a repentaglio la sicurezza dei commerci favorendo la pirateria. L’accusa era gratuita, ma era l’unica che poteva giustificare la missione. 8. Restaurazione A primavera tutto era pronto e le truppe del proconsole di Siria potevano partire alla conquista. La cavalleria era affidata a un giovane comandante di ventisette anni, alla prima esperienza militare: Marco Antonio. Il giovane romano cominciava proprio in quegli anni ad affacciarsi sulla scena politica, carico di sogni di gloria e ambizioso di onori. Il compito che gli era affidato non era facile né sicuro: con le sue truppe doveva aprire la strada fra la Siria e Alessandria e questo significava dover attraversare i deserti dell’Ecregma e superare i cosiddetti “respiri di Tifone”, la palude Serboni74

ii. cleopatra vii de dove l’aria era tanto greve e fetida da aver fatto pensare che lí si fosse nascosto Tifone-Set, il tremendo mostro nemico di Zeus per i Greci come d’Osiride per gli Egizi. Poi bisognava conquistare Pelusio e da lí marciare fino ad Alessandria. La prova era difficile, ma per il giovane Marco Antonio era un’occasione da afferrare al volo. Il comando della cavalleria di Gabinio per lui era il primo incarico importante, l’inizio d’un sogno e la possibilità di riscattare un passato che probabilmente avvertiva come ingombrante. Suo padre non aveva brillato a Roma né come politico né come uomo. Gli aveva lasciato in eredità pochi denari e un nome illustre ma screditato. Il giovane comandante doveva difendere la gloria di un nome importante, quello della gens Antonia per parte di padre e quello della gens Iulia per parte di madre, e cancellare via da sé l’ignominia del soprannome “Cretico” che era stato appioppato a suo padre per il modo sconsiderato e vergognoso con cui aveva gestito il comando conferitogli per combattere la pirateria. Marco Antonio padre, il Cretico, non solo non aveva saputo svolgere l’incarico affidatogli, ma aveva abusato del suo potere ladroneggiando a destra e a manca sulle province e sugli alleati e, poi, quando, per far qualcosa di serio e degno, aveva deciso di attaccare l’isola di Creta credendola un covo di pirati, aveva subito una disastrosa sconfitta: i suoi uomini erano stati fatti prigionieri dai Cretesi e, a maggior vergogna, erano stati legati e appesi alle funi e alle vele delle alberature delle navi nemiche. Lo stesso Marco Antonio figlio non aveva dato il meglio di sé negli anni della giovinezza. Gagliardo nel corpo e generoso e facilone per carattere aveva condotto una vita un po’ troppo allegra e scioperata, che aveva fatto arricciare il naso ai benpensanti dell’Urbe e lo aveva ridotto quasi sul lastrico. Poi si era trasferito in Grecia, come s’usava, per studiare, da lí aveva seguito Gabinio in Siria e qui era diventato comandante di cavalleria, la miglior strada per recuperare la gloria della 75

cleopatra sua nobile casata e inseguire i suoi sogni, nutriti dal mito di Alessandro Magno, il quale proprio a comando della cavalleria aveva combattuto le sue battaglie piú importanti, a Granico a Isso a Gaugamena, senza nulla temere e senza mai tirarsi indietro. Marco Antonio era finalmente comandante di cavalleria e l’Ecregma e la Serbonide, Pelusio e Alessandria erano solo l’inizio di un sogno, la possibilità di compiere un’impresa tanto piú grande quanto piú era difficile e pericolosa. Nella primavera del 55 a.C., si lanciava nell’impresa e, a marce forzate, senza fermarsi neanche la notte, riusciva nel giro di pochi giorni a superare deserto e paludi e a condurre le truppe fino a Pelusio, dove era piazzata una delle piú importanti roccaforti egiziane sul confine con la Siria e da dove si poteva piú facilmente e rapidamente raggiungere Alessandria. Qui riportava la sua prima vittoria. Al primo attacco la guarnigione egiziana stanziata a difesa del passo si era arresa quasi senza combattere e aveva lasciato la roccaforte in mano dei Romani. Non c’era stata invero una grande battaglia, ma questo poco toglieva alla gloria del condottiero romano, il quale, conquistando la roccaforte, era riuscito nell’impresa di aprire la strada al grosso dell’esercito di Gabinio che, in tutta sicurezza, procedeva alla volta di Alessandria. Qui la notizia della disfatta di Pelusio era arrivata subito e Archelao, coreggente con Berenice IV, aveva organizzato la difesa: un immenso esercito di Alessandrini e mercenari era stato schierato alle porte della città, in bell’ordine e con il re alla guida. Non era facile aver la meglio su un esercito tanto grande e su Archelao, soldato abile e valoroso, ma i Romani in poche battaglie erano riusciti a conquistare Alessandria e il merito della vittoria spettava soprattutto al giovane comandante romano Marco Antonio, che con le sue truppe, nella battaglia decisiva, aveva circondato e attaccato da dietro i nemici, disperdendone le forze e favorendo le altre truppe di Gabinio 76

ii. cleopatra vii che combattevano sulla fronte. I Romani potevano cosí entrare ad Alessandria senza difficoltà: il valoroso Archelao era morto sul campo di battaglia e gli Alessandrini, privi ormai della guida del re e con un esercito decimato, si erano arresi ai nemici invasori senza opporre alcuna resistenza al loro ingresso in città e al rientro dell’Aulete con loro. Ad aprile Tolomeo XII era nuovamente sul trono d’Egitto, tornava a corte e in famiglia. Non doveva, tuttavia, sentirsi molto sicuro. Il suo ritorno era stato imposto dagli odiati Romani con la guerra e a prezzo di moltissimi morti e questo la gente di Alessandria non poteva certo perdonarglielo né l’avrebbe dimenticato. I suoi nemici erano ancora tanti, li aveva a corte e in famiglia: dopo la partenza dei Romani, gli avrebbero sobillato contro la sofferenza popolare e avrebbero macchinato qualche intrigo o una congiura per toglierselo di mezzo. Per non aver problemi, il re aveva un’unica carta da giocare: il Terrore. I Romani gli avevano imposto il rispetto dei prigionieri e gli avevano suggerito di evitare inutili atti di violenza. Marco Antonio aveva dato il buon esempio facendo recuperare il cadavere di Archelao e facendolo seppellire con onori degni di chi era stato re-faraone e di chi aveva combattuto da prode in difesa del suo regno. Tolomeo XII, tuttavia, presumeva evidentemente di conoscere meglio dei suoi protettori la sua gente e, cosí, appena reintegrato ordinava una rappresaglia. La figlia Berenice IV veniva giustiziata come usurpatrice e con lei cadevano, per ordine del re, tutti i notabili alessandrini che l’avevano sostenuta. Cosí si prendeva la sua rivalsa: eliminava i nemici, accaparrandosi fra l’altro tutti i loro beni, e lanciava un chiaro avvertimento a quanti un domani avessero voluto contrastare il suo potere. Ad Alessandria dovevano capacitarsi che a vincere era stato l’Aulete e rassegnarsi a vivere fianco a fianco con gli odiati Romani che aveva portato con sé in Egitto. Gabinio, 77

cleopatra prima di ripartire per la Siria, aveva lasciato una guarnigione dei suoi soldati a presidio e tutela del sovrano. Del suo corteggio faceva parte una nutrita schiera di finanzieri e strozzini romani, quelli che negli anni dell’esilio gli avevano fatto credito e poi l’avevano seguito nelle successive peregrinazioni fino ad Alessandria, dove se la passavano da padroni. Il re era ancora tanto indebitato con quei signori che per compensare i favori da loro ricevuti a Roma fu costretto ad aumentare in modo spropositato le tasse sui sudditi. Arrivò addirittura a nominare alla carica di dioceta, amministratore delle finanze dello Stato e soprintendente alla riscossione delle tasse, un romano, Gaio Rabirio Postumo. Nell’Urbe era stato fra i suoi maggiori creditori e ad Alessandria abusò con tale spregiudicatezza della sua carica da suscitare presto i malumori dei cittadini e generare nel giro di un anno una vera e propria sollevazione popolare, dalla quale l’Aulete lo salvò a stento rispedendolo in Italia dove sarebbe stato processato e dove, per i molti agganci importanti che vantava, sarebbe stato assolto senza macchia. Anche il proconsole Gabinio di lí a poco sarebbe finito sotto processo. A Roma lo straripamento del Tevere aveva causato per piú e piú giorni danni e morti e la gente si era convinta che dietro al flagello stesse la volontà di un dio e, meglio, che si inverasse in esso la predizione della Sibilla. La colpa era stata attribuita al proconsole di Siria che, aiutando il re d’Egitto, aveva trasgredito la prescrizione divina. La sua testa sarebbe piaciuta a tanti e certo egli sarebbe stato condannato a morte con l’accusa di alto tradimento e sacrilegio, se non avesse fatto appello alle sue importanti conoscenze e non avesse versato molto denaro ai giudici. Alla fine non fu giustiziato ma semplicemente esiliato per qualche tempo, con l’accusa di corruzione. Nessuno, comunque, mise in discussione la reintegrazione di Tolomeo XII sul trono ad Alessandria: meglio un re 78

ii. cleopatra vii debole e manovrabile in Egitto che una guerra civile a Roma. Cosí l’Aulete restava re e, poiché aveva fatto ammazzare Berenice IV, sceglieva come propria erede la figlia secondogenita, Cleopatra VII e, forse, l’associava a sé come coreggente. Cleopatra aveva ormai quattordici anni. Negli ultimi tre anni era cresciuta avendo sotto gli occhi intrighi e delitti, circondata da cortigiani falsi e ambiziosi, abili nel far mostra della piú servile piaggeria ma pronti a tramare congiure e assassinii. Aveva appreso la paura e l’orrore: l’assalto dei Basileia, la cacciata del padre, il suo rientro con l’esercito romano, la guerra e lo sterminio. Nel 55 a.C. probabilmente Cleopatra incontrava per la prima volta il giovane Marco Antonio, di lí a qualche anno il suo piú caro compagno. Cominciava a fare esperienza diretta dei Romani attraverso i legionari di Gabinio e i creditori del padre che, con Rabirio in prima fila, facevano ad Alessandria il bello e il cattivo tempo e con la loro ingordigia facevano davvero poco per non farsi disprezzare e odiare dalla gente. A corte, dopo il rientro dell’Aulete, la vita era ricominciata come ai bei tempi: banchetti e feste, qualche concorso musicale, le pubbliche cerimonie e le celebrazioni delle sacre ricorrenze, il lusso e la grandigia dei Tolomei. Cleopatra, erede al trono e forse già coreggente col padre, apprendeva i primi importanti rudimenti di politica. Il tempio di Edfu veniva finalmente completato da Tolomeo XII e a Dendera il re avviava i lavori per la realizzazione di un nuovo complesso monumentale: un buon atto evergetico era importante per ottenere consenso e favore. Per ricucire un rapporto con il suo paese il re-padre si volgeva attento alla religione: Cleopatra imparava quanto fosse importante per un sovrano partecipare ai culti, ai riti e alle sacre cerimonie e avere cosí l’appoggio della casta sacerdotale. Viaggiando per il paese, la futura regina si rendeva conto di quanto fosse importante ascoltare e parlare alla propria gente e che il regno, benché 79

cleopatra ormai povero di territori, aveva nel Nilo e nei commerci con l’Oriente la possibilità della piú grande ricchezza. Del valore delle arti e delle scienze sapeva già e anche di quanto facili fossero a corte le trame e i delitti per ambizione e di come fosse necessario circondarsi di persone affidabili e fidate. Nel 52 a.C. Tolomeo XII faceva testamento e designava Cleopatra come propria erede in coreggenza con Tolomeo XIII, dei suoi figli maschi il piú grande. I due fratelli assumevano il titolo di Neoi Theoi Philadelphoi (‘Nuovi dèi e fratelli che s’amano’). Era primavera, Cleopatra aveva appena diciassette anni, ma era già una regina fatta.

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III ALL’OMBRA DI ROMA 1. I primi anni sul trono Nel 51 a.C., a inizio d’anno, Tolomeo XII usciva di scena. La morte, che non ha uso farsi scrupoli dinanzi a scettri o a denari, alla fine era venuta anche per lui e se l’era preso a sessantacinque anni, dopo appena cinque anni dal ritorno ad Alessandria e dalla sua restaurazione sul trono. Per molti non era stato un buon sovrano e lasciava poco di che rimpiangerlo. Catapultato come re di ripiego su un trono traballante, non aveva avuto il coraggio né la preparazione per fronteggiare la situazione e, non potendosi permettere d’avere a un tempo la botte piena e la moglie ubriaca, aveva scelto la via meno complicata e pericolosa: ubriacare Roma svuotando la botte d’Egitto. La sua scelta politica non era piaciuta: il re era stato troppo filoromano, spendendo e spandendo per comprarsi l’appoggio dei signori di Roma. L’Aulete aveva pensato soprattutto a se stesso e a come potersela spassare nella bambagia suonando il suo aulós e non s’era dato pensiero degli interessi del paese. Aveva lasciato che Roma facesse di Cirene una sua provincia, non aveva fiatato per la Celesiria che diventava parte della provincia romana di Siria e non aveva mosso un dito quando i Romani s’erano presi anche Cipro. Dopo la cacciata del 58 a.C., si era incapricciato a voler tornare sul trono, si era rifugiato a Roma, aveva brigato per ottenere aiuti e appoggi, si era indebitato per una fortuna e, alla fine, l’aveva spuntata grazie all’intervento armato di Gabinio e compagnia ed era rientrato di forza re ad Alessandria. Per completare l’opera, il Nothós s’era lordato anche della strage di 81

cleopatra Puteoli, della guerra ad Alessandria, dell’assassinio della figlia Berenice e della vergogna di quel farabutto di Rabirio come dioceta. Cinque anni erano troppo pochi perché la gente potesse dimenticare, anche se il re si era impegnato a ricucire il rapporto con i sudditi e a rimettere un po’ d’ordine e di pace, riuscendo a guadagnarsi il favore della casta sacerdotale e mostrandosi piú attento alle esigenze del paese. Non si era conquistato l’affetto della sua gente, ma era riuscito a evitare gravi sommovimenti e, quando la popolazione aveva reagito alle soverchierie del dioceta Rabirio, minacciando la rivolta, il re era intervenuto prontamente prendendo sotto custodia il Romano, rispedendolo nella sua patria e ristabilendo cosí la calma. Negli ultimi tempi Tolomeo XII si era dovuto preoccupare della sua successione. La questione era scottante: sul trono d’Egitto pesava l’ombra di Roma, designata erede del regno nel testamento di Tolomeo XI Alessandro II, predecessore dell’Aulete. Il re doveva giocare d’abilità: mantenere il trono in casa lagide senza mancare di rispetto ai Romani, conservare l’amicizia di Roma senza irritare la suscettibilità degli Alessandrini. Nel 52 a.C. aveva quindi fatto testamento e designato come eredi i due figli maggiori, Cleopatra VII e Tolomeo XIII, e, in nome dell’alleanza che lo legava a Roma, aveva riconosciuto il Senato del Popolo Romano tutore delle sue volontà e, quindi, del diritto di successione dei figli. Era un tentativo per scongiurare che la pace e la stabilità del regno potessero essere ancora una volta messe a repentaglio da beghe intrighi rivolte e conflitti. Tolomeo aveva provveduto a rendere note le sue ultime volontà, facendo esporre in pubblico ad Alessandria una copia del testamento e inviandone un’altra a Roma, perché fosse depositata nell’erario, al tempio di Saturno, là dove i Romani custodivano il loro tesoro e i loro archivi e dove, però, a causa dei torbidi che 82

iii. all’ombra di roma in quel periodo scuotevano l’Urbe, il documento non era poi stato portato: i messi del re, nella confusione del momento, avevano ritenuto piú sicuro affidarlo a Pompeo Magno, il grande protettore del sovrano d’Egitto. Tolomeo aveva assegnato ai principi eredi i titoli di Neoi Theoi Philadelphoi, titolatura che ricalcava quella di altri Tolomei ma racchiudeva anche la speranza che i due prescelti potessero in futuro regnare d’amore e d’accordo senza finire a contendersi lo scettro come molti dei loro predecessori avevano già fatto a danno del paese. Com’era uso in casa lagide, aveva associato a sé come coreggente la figlia Cleopatra, fra i due eredi la maggiore. Si era mostrato un sovrano accorto e prudente: voleva favorire il passaggio delle consegne reali e aveva scelto, fra i due figli, quella che poteva meglio comprendere i meccanismi del potere e che aveva stoffa, ingegno e capacità per regnare. Tutto sommato, l’Aulete, negli ultimi cinque anni, aveva cercato di essere un buon re e si era preoccupato, per come poteva, di mettere a posto il regno. Non si era guadagnato l’affetto della sua gente, ma non ne aveva neanche scatenato la rabbia e la disperazione e, alla fine, cosa ormai rara fra i Tolomei, era riuscito a raggiungere i sessantacinque anni e a morire secondo natura, senza cadere anzitempo vittima di complotti congiure e rivolte. Aveva cercato di essere piú attento e accorto nelle scelte ed era stato nelle sue decisioni lungimirante. Aveva provveduto a salvare il salvabile e, dal suo punto di vista, probabilmente c’era riuscito. Sta che nel 51 a.C., alla morte del re era tutto pronto per la successione. Cleopatra VII e Tolomeo XIII, una giovane di diciotto anni e un ragazzetto di dieci, com’era nell’uso dinastico tolemaico, venivano uniti in matrimonio e salivano sul trono d’Egitto come coppia regnante, aggiungendo nella loro titolatura anche l’epiteto di Philopatores (‘Coloro che amano 83

cleopatra il padre’), un omaggio alla memoria paterna e alla tradizione familiare. La successione avveniva secondo la volontà di Tolomeo XII, che aveva predisposto tutto per tempo e che, però, non aveva potuto prevedere l’imprevedibile, la sua morte. Nel 51 a.C., infatti, quando il re moriva, il regno era in certo senso pacificato all’interno e aveva ottenuto il riconoscimento di autonomo alleato di Roma, ma non era ancora uscito dalla crisi economica, aggravata dai bassi livelli di piena del Nilo e dai poveri raccolti, aveva ormai perduto a vantaggio dell’importante alleata territori economicamente e militarmente importanti come la Celesiria, Cirene e Cipro e, soprattutto, con gli alleati romani era ancora pesantemente indebitato. Non era una bella eredità per i due giovani sovrani. Su di loro pendevano i debiti contratti a Roma dal padre e le richieste di estinzione da parte dei creditori, che, dall’estate del 51 a.C., dopo che la notizia della morte dell’Aulete fu data per certa anche nell’Urbe, cominciarono a batter cassa alla corte degli eredi. Inoltre, insieme alla coppia si insediava al potere un consiglio di reggenza per guidare nel governo il piccolo nuovo re: l’eunuco Potino, tutore del nuovo sovrano, Teodoto di Chio, che del ragazzo era il maestro di retorica, e Achilla, comandante dell’esercito del regno. Sul trono d’Egitto salivano in cinque e non era una garanzia di stabilità per il paese. Troppo spesso tutori e consiglieri in passato si erano intromessi fra il re e la regina, scombinando i rapporti e gli equilibri di corte, troppo spesso s’erano messi in testa di poter regnare al posto dei sovrani e troppo spesso s’erano resi protagonisti di intrighi e macchinazioni per inseguire ambizioni personali e curare i propri affari. Con un re bambino sul trono e una giovane donna per regina era facile e quasi inevitabile che i tre tutori aspirassero a prendere le redini del regno o che ritenessero, in buona fede, che questo fosse il loro compito. 84

iii. all’ombra di roma Era, però, anche facile (e quasi inevitabile) che fosse la giovane Cleopatra a considerare la reggenza come un suo diritto e, di piú, come un suo dovere. Il regno le spettava per testamento e per sangue: era lei la regina d’Egitto, sposa e sorella maggiore di re Tolomeo XIII, già coreggente con Tolomeo XII, col quale aveva imparato a conoscere (e, forse, a temere) la sua corte. Con queste premesse l’amore e l’accordo sul trono erano destinati a durare assai poco e, infatti, già nella primavera del 51 a.C., Cleopatra VII si presentava ai suoi sudditi come regina d’Egitto e compiva da sola, senza fratello e senza coreggenti, il suo primo atto ufficiale di cui resta traccia nella storia. In quell’anno era morto il toro Buchis, venerato in Egitto come sacra incarnazione del dio Ammon-Râ e custodito e allevato nel tempio che gli era dedicato a Hermonthis, poco lontano da Tebe, nell’Alto Egitto, sulla riva sinistra del Nilo. Era tradizione che alla morte del bue sacro un altro torello fosse consacrato al tempio ed era compito del faraone-re procurare un toro che avesse i segni distintivi della divinità (bianco il manto del corpo e nero il muso) e presenziare all’insediamento del nuovo Buchis. La giovane regina coglieva la palla al balzo. Una lunga processione di barche scendeva lungo il Nilo. Alla testa del corteo era la barca sacra con il bianco torello dal muso nero: la bestiola portava i sacri paramenti, d’oro massiccio e ricoperti di lapislazzuli, e sulla testa il grande disco simbolo del sole da cui spiccavano due splendide piume. Dietro, ad accompagnare e scortare il torello, le navi reali con i massimi sacerdoti e la nuova regina d’Egitto, Cleopatra VII, Signora delle due terre e Dea che ama il padre. Dopo un viaggio lungo piú di novecento chilometri, durante il quale le rive del Nilo si erano riempite di gente che da ogni dove, dalle città come dalle campagne, era accorsa festante per assistere al passaggio della processione e per ve85

cleopatra dere e salutare il novello Buchis e la nuova regina, il 22 marzo del 51 a.C., alla presenza dei sacri sacerdoti, degli abitanti tutti di Tebe e di Hermonthis e di una miriade di pellegrini venuti per assistere all’evento, Cleopatra VII consegnava al tempio il toro e presenziava ai riti di consacrazione. Era la prima volta che un Tolomeo accompagnava di persona il bue sacro e partecipava alla sacra cerimonia. Ai sacerdoti e ai nativi d’Egitto la nuova regina già piaceva, era la loro regina, la regina anche dell’Alto Egitto, la prima che parlava la loro lingua e mostrava d’avere davvero a cuore le loro sacre tradizioni. E cosí, l’iscrizione che, com’era uso, fu poi apposta a Hermonthis per registrare l’insediamento di Buchis, omaggiava solo la regina Cleopatra, perché era lei che aveva donato il sacro toro e aveva partecipato al rito, mentre il re, sposo e fratello, Tolomeo XIII, assente alla cerimonia, non veniva punto menzionato. Nella primavera del suo primo anno di regno, Cleopatra riusciva ad allontanare dalla sovranità il fratello e, soprattutto, il suo consiglio di reggenza. Gli editti e le leggi erano emanati per volontà della regina e sulle monete erano il suo viso e il suo nome a primeggiare. Il trono era della regina Cleopatra VII e appunto dal 51 a.C. cominciava la datazione del suo regno. In certi ambienti, però, la regina era guardata con sospetto. La sua intraprendenza non piaceva innanzitutto ai tre tutori del re-fratello, che erano stati messi alla porta del potere, non avevano alcuna voce in capitolo nelle decisioni di governo e non erano tenuti in alcuna considerazione dalla regina. A Potino, Teodoto e Achilla come arma restava solo la tutela del re, che cominciarono presto a usare sotto banco contro Cleopatra. Sfruttando l’influenza di cui godevano presso il loro pupillo, lo convinsero che la sorella gli aveva fatto una prepotenza e che – era sotto gli occhi di tutti – l’aveva estromesso dal trono usurpando i suoi diritti di successione. Per questa 86

iii. all’ombra di roma via, Potino e compagni rientravano di fatto dalla finestra e, da corte, organizzavano l’opposizione contro la regina. Ad Alessandria, del resto, non mancavano gli scontenti che potevano essere facilmente convinti ad abbracciare la causa di Tolomeo XIII. Fra i notabili e i cortigiani in molti, dopo la morte dell’Aulete, avevano sperato di poter approfittare della giovane età dei nuovi sovrani per ottenere cariche e ruoli o per far meglio i loro affari e in molti e a malincuore avevano dovuto poi rinunciare ai loro bei progetti per la prontezza e la fermezza con cui la regina s’era piazzata sul trono e governava. A mietere malumori c’erano poi le scarse piene del Nilo, che negli ultimi anni e anche nel 51 a.C. avevano raggiunto livelli preoccupanti e facevano temere l’inizio d’una brutta stagione: cattivi raccolti, carestia e fame. Su questo terreno era facile seminare dubbi sulle capacità di Cleopatra: la regina era troppo giovane, si diceva, e non aveva la giusta esperienza per fronteggiare adeguatamente un’eventuale crisi. I dubbi diventarono certezza nel 50 a.C. Sul fronte economico la situazione restava allarmante perché la piena del Nilo, pur essendo stata un po’ piú generosa, non bastava a garantire per l’annata buoni raccolti. A peggiorare le cose, sul finire della primavera, la regina dovette fare i conti con una vera e propria patata bollente, di quelle che come la si prendeva c’era comunque da restarci bruciati. Il governatore romano di Siria, Marco Calpurnio Bibulo, in giugno, aveva inviato i propri due figli ad Alessandria, per ottenere dai sovrani d’Egitto, e cioè da Cleopatra, la “restituzione” dei gabiniani, i legionari romani che Aulo Gabinio, nel 55 a.C., dopo la reintegrazione di Tolomeo XII, aveva lasciato nel paese a presidio del re. La richiesta non era fatta a capriccio. I Parti premevano ai confini della Siria, minacciando l’invasione della provincia, e il proconsole Bibulo aveva bisogno immediato di rinforzi: 87

cleopatra l’Egitto era vicino e i gabiniani erano, in fin dei conti, soldati romani. La risposta della regina non poteva che essere una: la restituzione dei legionari. Ad appena un anno di regno non conveniva proprio che Cleopatra si mettesse contro un proconsole romano. I gabiniani dovevano quindi partire al piú presto alla volta della Siria. Ma proprio qui stava il problema: i soldati romani, dopo cinque anni trascorsi ad Alessandria, non avevano alcuna intenzione di lasciare il loro incarico per andare a fare la guerra. Se la passavano fin troppo bene dov’erano: la città era una delle piú belle al mondo, la paga era buona e i rischi erano tutto sommato pochi. In molti, poi, in Egitto avevano messo su casa e famiglia, avevano i loro affetti, gli affari e la roba e d’andare a far la guerra non avevano cuore, perché i Parti, dopo i fatti di Carre, facevano ormai paura anche ai piú intrepidi e temerari. I gabiniani, forse con il beneplacito di qualche pezzo grosso alessandrino dell’opposizione e, certo, per non andare in Siria, misero nei guai la regina, uccidendo i due figli di Bibulo ad Alessandria. L’incidente diplomatico sembrava inevitabile. Lasciar correre non si poteva, perché i due uccisi erano cittadini romani e, come se non bastasse, erano venuti come ambasciatori d’un proconsole romano di cui erano, per giunta, i figli. Roma non avrebbe perdonato. Bisognava trovare i colpevoli. Ma una volta individuati, cosa farne? Gli assassini erano anch’essi cittadini romani e, per di piú, soldati dell’esercito romano. Giudicarli ad Alessandria non si poteva, sarebbe stata un’ingerenza nelle questioni romane che difficilmente gli alleati avrebbero tollerato; non giudicarli sarebbe stato ovviamente anche peggio, perché avrebbe mostrato una debolezza compiacente, quando non complice, verso i responsabili del delitto. Il problema era serio, bisognava risolverlo con solerzia e la soluzione doveva evitare lo scontro con Roma. Per Cleopatra era il primo atto diplomatico sulla 88

iii. all’ombra di roma scena del mondo come regina d’Egitto, il primo contatto diretto con l’importante alleata, il banco di prova negli affari internazionali: la sua decisione sarebbe stata un biglietto da visita e doveva essere accorta e lungimirante. La regina fece arrestare i gabiniani colpevoli del delitto e li inviò in catene direttamente in Siria da Bibulo, perché il proconsole-padre potesse avere giustizia dei figli. L’azione era stata tempestiva e la decisione presa senz’altro ragionevole e pacifica. La giovane regina mancava di esperienza nel campo dei rapporti internazionali e mostrava una certa ingenuità nel credere che il buonsenso potesse bastare a risolvere una questione diplomatica. I suoi sforzi non sortirono i risultati sperati: il proconsole di Siria Marco Calpurnio Bibulo non gradí l’intervento e, rispedendo indietro i prigionieri, l’ammoní a non intromettersi piú, per l’avvenire, nelle faccende romane, perché, come le mandò a dire, le decisioni di giustizia e le eventuali punizioni di cittadini romani erano di esclusiva competenza del Senato Romano e non la riguardavano. Lo smacco per Cleopatra fu grande. La sua decisione non solo non era stata apprezzata dal proconsole, ma le costava cara soprattutto in Egitto, dove le inimicava i gabiniani, che dalla regina si sentivano ormai traditi, e dove le toglieva il favore di quegli Alessandrini (ed erano tanti) che avevano sempre mal digerito i rapporti con Roma e che consideravano una grave colpa la troppa accondiscendenza e l’arrendevolezza che la loro regina aveva mostrato proprio verso i Romani. Lo scontento popolare era fra l’altro alimentato dalla profonda crisi economica. I contadini avevano abbandonato in massa villaggi e campagne, confluendo nelle città e, in particolare, ad Alessandria, dove la vita si faceva sempre piú difficile per tutti. Le derrate scarseggiavano, i prezzi erano saliti alle stelle e i furti erano all’ordine del giorno. Anche la casta sacerdotale aveva di che lagnarsi, perché ai templi i sacerdoti 89

cleopatra non potevano officiare i loro riti come necessario, e pure i ricchi e i notabili non se la passavano piú tanto bene. La crisi era grave e pesava tutta sulle spalle della giovane sovrana, che, pur non avendo responsabilità dirette, faceva inevitabilmente da capro espiatorio. In una tale situazione era facile soffiare sul fuoco della disperazione sociale per mettere la regina in cattiva luce. E questo appunto aveva fatto nel corso dei mesi il partito dell’opposizione per rilanciare sulla scena Tolomeo XIII e il suo consiglio di reggenza, che nell’ottobre del 50 a.C. presero nuovamente posizione sul trono d’Egitto al fianco di Cleopatra. I due figli di Tolomeo XII tornavano cosí a far coppia nel governo del paese e il 27 ottobre emanavano insieme un editto per ridimensionare con incentivi, sovvenzioni e anche sanzioni la portata della crisi e per arginare il fenomeno dell’abbandono dei campi e la fuga verso le città. I sovrani cercavano di favorire la ripresa economica e allontanare quanto piú possibile fame, povertà e rabbia da Alessandria, dove c’erano ormai tutti i presupposti perché esplodesse una nuova rivolta e dove, per evitarla, furono convogliate tutte le derrate alimentari disponibili sul territorio. La regina Cleopatra, per il bene del suo paese, aveva dovuto fare un passo indietro e due passi avanti faceva contestualmente Tolomeo XIII con al seguito il suo consiglio di reggenza. L’editto veniva firmato da entrambi i sovrani e il nome della regina seguiva quello del fratello. Tolomeo XIII aveva preso il sopravvento su Cleopatra e, a partire dal 49 a.C., faceva iniziare la datazione del suo regno. Agli inizi di quello stesso anno, la storia cambiava anche altrove: Roma, la grande alleata, precipitava nella guerra civile. Il 10 di gennaio Giulio Cesare con i suoi legionari passava in armi il Rubicone diretto verso Roma. Non era mai successo nella storia dell’Urbe. Per l’ordinamento della Res publica, non doveva succedere. La notizia del passaggio del Rubicone 90

iii. all’ombra di roma era arrivata come un fulmine a ciel sereno. La città non era preparata ad affrontare una situazione che sembrava incontrollabile e faceva temere il peggio: una guerra fra Romani alle porte e dentro Roma. La gravità del momento si manifestava con tutta evidenza pochi giorni dopo, il 17 gennaio, quando, per ragioni di opportunità politica, Pompeo Magno e molti senatori lasciavano la città. Le due legioni che erano in Italia e avrebbero potuto difendere l’Urbe erano costituite da soldati che avevano militato con Cesare e gli erano probabilmente rimasti fedeli. Per organizzare la resistenza in difesa della Res publica, bisognava arruolare altre truppe. Pompeo e i senatori si erano spostati prima lungo l’Italia e poi in Grecia, da dove le richieste d’appoggio avevano raggiunto le province e i regni “clienti”. Il dado era tratto e la guerra non riguardava piú soltanto Roma. L’Egitto non poteva mancare all’appello. In primavera o in estate, Pompeo, il grande protettore di Tolomeo XII, inviava nel paese come messo il figlio Gneo a chiedere rifornimenti e l’appoggio del regno nella guerra contro Cesare. Tolomeo XIII e Cleopatra VII, loro malgrado, venivano coinvolti nella guerra civile romana e, non potendo sottrarsi dal prendere una posizione, fatti due conti d’opportunità, si schieravano al fianco di Pompeo Magno e gli inviavano cinquecento soldati scelti fra i gabiniani e sessanta navi cariche di grano. La decisione per i due sovrani non poteva essere politicamente diversa: l’Egitto era un paese alleato e Pompeo Magno, in quel momento, si schierava a difesa della Repubblica contro l’attacco di Cesare, il quale, a sua volta, appariva come un pericoloso sovversivo. Con Pompeo, poi, stava la gran parte dei senatori e dei notabili romani, gente che era bene non inimicarsi, anche perché, in quel momento, si pensava che Cesare sarebbe stato sconfitto facilmente dal Magno, grandissimo generale con trentaquattro anni di battaglie e vittorie alle spalle e con forze considerevoli a disposizione. 91

cleopatra Pesavano, poi, sui due sovrani d’Egitto vincoli d’ospitalità. Pompeo Magno era stato il principale protettore di Tolomeo XII, l’aveva ospitato nell’esilio, l’aveva appoggiato per fargli riottenere il trono e aveva la copia del testamento che il re padre aveva inviato ai Romani. Non potevano rifiutargli il loro appoggio nella guerra contro Cesare. Però, in un paese piegato ancora dalla crisi economica, affamato dalla carestia e sottoposto a dure misure d’emergenza, la loro decisione e soprattutto l’invio di grano, sottratto alla popolazione per rifornire gli odiati Romani, piacevano poco. Fra la gente d’Egitto serpeggiava nuovamente e pericolosamente il malcontento ed era probabile che da un momento all’altro esplodesse in rivolta. I nemici di Cleopatra, per evitare che la rabbia si riversasse sul re (e sul suo consiglio di reggenza), da corte, restando però nell’ombra, lasciavano trapelare indiscrezioni e notizie che, aggiustate alla meglio, facevano ricadere la decisione presa sulla regina. Cosí contro di lei animavano e indirizzavano le proteste. Fra la fine del 49 e gli inizi del 48 a.C., la situazione obbligava la regina a lasciare in gran fretta Alessandria, costretta all’esilio o, comunque, alla fuga. Cleopatra VII, Signora delle due terre e Dea che ama il padre, scendeva dal trono e non era piú la regina d’Egitto, almeno cosí sembrava . . . 2. « Un cadavere non morde » Sembra che la cicala, quando le si strizzino le ali, strilli piú forte e canti cosí la sua rabbia. Nel 48 a.C., Cleopatra, scacciata dal trono, dai Basileia e da Alessandria, ha fatto un po’ come la cicala e contro il complotto e l’ingiustizia con cui era stata detronizzata ha messo a frutto le sue migliori qualità, l’audacia e l’intelligenza. Si sa poco di quei mesi della sua vita, ma è certo che, scendendo lungo il Nilo, abbia raggiunto dapprima l’Alto Egitto 92

iii. all’ombra di roma e abbia trovato un primo rifugio nella Tebaide, la regione sacra dove la cura che un tempo aveva mostrato verso i sacri culti e le generose offerte che aveva fatto in occasione dei riti e delle cerimonie religiose le avevano fatto guadagnare il saldo appoggio dei sacerdoti e l’affetto fedele della gente. Da qui si era poi spostata in Siria, dove, a dispetto della giovane età (aveva ancora ventuno anni) e della spiacevole condizione in cui si trovava, era riuscita nondimeno a metter su un vero e proprio esercito, reclutando uomini fra le tribú stanziate nella regione, e a capo di esso era poi risalita verso nord, affrontando le mille difficoltà del deserto e raggiungendo alla fine Pelusio. La regina d’Egitto non voleva cedere al brutto tiro giocatole contro dal fratello e dai suoi consiglieri e, per non farlo, aveva un’unica strada da percorrere: doveva marciare in armi contro il proprio paese e riprendersi il trono, da sola e con le sue forze, senza l’aiuto di nessuno, senza chiedere la protezione di quei Romani che tante volte erano intervenuti nelle vicende alessandrine e che proprio in quei mesi erano in ben altre e piú gravi faccende affaccendati, perché una guerra piú grande li impegnava al di là del mare, nella terra greca di Tessaglia. Nell’estate del 48 a.C., Cleopatra con le sue truppe era di fatto già accampata sulla porta orientale dell’Egitto, a Pelusio, e di fronte, a difendere la piazzaforte e bloccarle la strada, era schierato l’esercito del fratello guidato dal generale Achilla. Il re e la regina d’Egitto, un fratello e una sorella di sangue lagide, si contendevano nuovamente lo scettro e stavolta fra loro era armata una guerra vera. I loro eserciti si fronteggiavano ormai pronti alla battaglia, quando il 28 di settembre, al largo di Pelusio, si affacciò una strana e piccola flottiglia, al cui capo stava una trireme di Seleucia seguita da navi d’ogni tipo, da guerra e da commercio insieme. Da quell’accozzaglia di barche non c’era da aspettar93

cleopatra si un attacco. I messi che poco dopo raggiungevano la riva e si presentavano all’accampamento di Tolomeo venivano in pace ad annunziare l’arrivo di Pompeo Magno, che, per loro mezzo, chiedeva al sovrano d’Egitto il salvacondotto necessario per entrare e soggiornare un po’ nel paese come amico e alleato. Il generale romano sopraggiungeva del tutto inaspettato e, per come si presentava, con una flotta raccozzata a quel modo e senza alcuna pompa, non se la doveva passare molto bene. E, infatti, in quella fine di settembre, Pompeo, il grande generale romano che aveva ricevuto imberbe l’onore d’esser chiamato Magno, aveva sconfitto Sertorio in Spagna e vantava di avere estirpato la guerra servile dalle radici, l’imperator che aveva liberato i mari dalla pirateria e aveva conquistato per Roma mezzo Oriente, non era piú soltanto vittorie e trionfi, era anche Farsalo, la sua peggiore battaglia, la piú dolorosa, quella che avrebbe dovuto vincere e che invece aveva perso. Era successo tutto in un sol giorno, il 9 di agosto del 48 a.C., sotto il sole indifferente dell’estate, fra i campi di grano della piana attorno a Farsalo, in Tessaglia. La guerra civile romana aveva trovato proprio in quei luoghi il teatro per una nuova battaglia e lungo l’ampia piana i Romani avevano schierato le loro legioni, le une contro le altre, ventiduemila uomini con Cesare e oltre sessantamila con Pompeo, mille cavalieri con il primo e settemila con l’altro. Quella mattina i numeri erano tutti per Pompeo, che sopravanzava su Cesare del triplo degli uomini, aveva una cavalleria che era sette volte quella nemica e a disposizione aveva una grande flotta. Quella mattina Pompeo doveva sentire d’avere la vittoria in tasca. Dall’altra parte, però, non c’era un pivello da poter beffare facilmente: Cesare era anche lui un uomo di guerra, di battaglie ne aveva già combattute tante e ne aveva vinte di importanti in Gallia e in Spagna, sul 94

iii. all’ombra di roma Reno e nella Britannia. Sulla piana di Farsalo, con i due eserciti schierati l’un contro l’altro, quella mattina Cesare non aveva certo la vittoria in pugno, ma poteva afferrarla con una buona strategia e con i suoi ventiduemila uomini e mille cavalieri, pochi, ma forti e gagliardi e sempre pronti a dar la vita per il loro generale. A fine giornata, Cesare e i suoi uomini erano riusciti ad avere ragione di Pompeo e dei pompeiani. La strategia aveva avuto la meglio sulla forza. Quando Pompeo, al comando della cavalleria s’era lanciato contro il fianco destro dello schieramento nemico per tentarne l’accerchiamento, i suoi uomini erano stati travolti dal contrattacco degli avversari. Cesare, che aveva previsto la mossa, aveva infatti collocato proprio dietro la sua ala destra una linea di otto coorti, che, al momento opportuno, s’erano lanciate al contrattacco, mirando alto con i giavellotti e colpendo diritto agli occhi e al viso i nemici per sfregiarli o accecarli. Attaccati a quel modo, i pompeiani non avevano resistito e avevano presto battuto in ritirata, fuggendo da ogni lato. I cavalieri di Pompeo erano usciti dai ranghi e s’erano poi dispersi nella piana, allo sbando. Con la cavalleria in rotta, il Magno, che aveva puntato soprattutto su di essa per la vittoria, aveva deciso sconsideratamente di abbandonare il campo e di ritirarsi nel pretorio ad attendere l’esito della battaglia. Da lí in poi era andato tutto storto. Cesare, approfittando della situazione, aveva sferrato l’attacco dal centro, lanciando all’assalto la terza linea della sua fanteria, uomini piú freschi e piú arditi, e aveva avuto anche in questo la meglio, riuscendo a spingersi addirittura contro l’accampamento nemico. A quel punto la battaglia di Farsalo era finita: sulla piana restavano quindicimila pompeiani morti e in ventiquattromila finivano prigionieri di Cesare, che aveva perso appena duecento uomini. Pompeo, spogliatosi delle insegne, aveva abbandonato il campo e s’era dato alla fuga alla volta di Larissa e quindi di 95

cleopatra Tempe, e da qui era sceso con un piccolo battello per il fiume Peone fino al mare e, imbarcato di fortuna sulla nave del commerciante romano Peticio, aveva peregrinato per un po’ nel Mediterraneo orientale, raggiungendo prima Anfipoli, poi Mitilene, dove aveva preso con sé la moglie Cornelia e il figlio Sesto, e quindi Attalia di Panfilia e la Cilicia di fronte a Cipro. E finalmente, in settembre, giungeva in Egitto, nel mare che fronteggia Pelusio, là dove aveva appreso che avrebbe potuto trovare il sovrano e dove, presso il monte Cassio, stavano l’un contro l’altra armati Tolomeo XIII e la sorella Cleopatra. In quel frangente Pompeo e gli uomini che gli facevano seguito avevano bisogno d’un asilo sicuro: la flotta del Magno, come egli aveva appreso in Cilicia, era salva e intatta e Catone s’era spostato in Africa e là stava già radunando le forze per un nuovo scontro. Se una battaglia era andata persa, la guerra restava ancora aperta. Bisognava riflettere e preparare al meglio le mosse. Per questo era necessario riparare in un luogo amico, dove fosse possibile tirar le fila della situazione e riorganizzare le forze rimaste a disposizione. In consiglio erano state prese in considerazione diverse opzioni: chiedere aiuto ai Parti, fieri nemici dei Romani, contro i quali probabilmente Cesare non avrebbe tentato un attacco immediato; raggiungere la Numidia, il cui re Giuba aveva mostrato d’essere un alleato forte e fidato; riparare in Egitto, scelta che Teofane di Lesbo aveva difeso come la migliore. Il paese, infatti, stava ad appena tre giorni di mare da Cipro, il regno era amico e alleato di Roma e aveva inviato il suo aiuto in navi e frumento in appoggio al partito pompeiano. I sovrani erano in debito di riconoscenza con Pompeo e la corte di Alessandria era certo fra i possibili il luogo piú consono a ospitare una donna nobile di stirpe e di costumi come Cornelia, la sposa del Magno. L’Egitto era al sicuro dagli attacchi e ricco e si poteva sperare in una buona ospita96

iii. all’ombra di roma lità, in un saldo aiuto e in un onorevole congedo al momento opportuno. Pompeo e i suoi avevano quindi fatto vela verso il paese dei Tolomei e con la flottiglia che avevano potuto mettere insieme si presentavano il 28 settembre nel mare di Pelusio a chiedere quel salvacondotto che gli era dovuto. La venuta di Pompeo, a quel modo e in quel momento, per il giovane sovrano d’Egitto e per il suo consiglio di reggenza non era certo una bella sorpresa. Il grande generale che aveva domato per Roma mezzo Oriente ed era stato il grande protettore della corona d’Egitto, se si presentava a quel modo, non doveva navigare nelle migliori acque. Peggio ancora, la richiesta d’asilo che i messi portavano per suo conto non solo era prova della situazione, ma lasciava intendere che la guerra fra Pompeo e Cesare era ancora aperta, che quello che veniva si portava appresso l’altro, che accogliere il primo significava inimicarsi il secondo. Tentando la mossa di rilancio, Pompeo metteva quindi l’Egitto in mezzo fra i due eserciti romani come campo di battaglia e faceva della corona lagide la posta che puntava nel piatto della guerra. Per difendere il paese e il trono dalle armi romane bisognava a rigore respingere il Magno, ma la posta in gioco restava alta perché Pompeo non avrebbe perdonato quel tradimento e Cesare di suo non avrebbe apprezzato come dichiarazione di neutralità il rifiuto egiziano che lasciava andare il suo nemico a cercar ricovero altrove e costringeva lui a corrergli dietro ancora. Del resto, si sa, la Fortuna è ballerina e nella sua danza, cosí nella vita come nella guerra, s’accompagna a capriccio ora con l’uno ora con l’altro, tanto che talvolta proprio quello che sembrava spacciato s’alza, mentre l’altro che si credeva forte ecco che cade. Farsalo proprio questo alla fine aveva dimostrato e in una nuova battaglia Pompeo, che ora pareva sconfitto, avrebbe potuto ottenere la vittoria e 97

cleopatra l’Egitto, allora, avrebbe dovuto pagare il prezzo alla sua vendetta e il conto, ovviamente, sarebbe stato salato. Gli uomini di Tolomeo XIII, i suoi amici e parenti, riunitisi in consiglio, dopo una discussione lunga e animata, decidevano per il meglio del loro paese e del sovrano e, già che l’utile, come al riguardo si legge in Lucano, dista da ciò che è giusto come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare, l’eunuco Potino, Achilla il generale e Teodoto, maestro prezzolato, per illuminazione di quest’ultimo, mettevano da parte gli obblighi d’ospitalità a cui li impegnavano i benefici che il loro protetto aveva ricevuto da Pompeo e tessevano l’inganno che poteva carpire la fiducia del Magno senza dargli scampo e guadagnare l’amicizia di Cesare obbligandolo alla riconoscenza. Una piccola imbarcazione aveva quindi lasciato Pelusio alla volta della trireme di Pompeo. Su di essa gli uomini incaricati dell’impresa erano il generale Achilla e due soldati romani scelti fra i gabiniani, Lucio Settimio, che aveva militato come ufficiale proprio sotto il Magno contro i pirati, e un centurione di nome Savio. A Pompeo, dopo averlo salutato come si conveniva, i tre avevano portato la risposta del loro sovrano: per accordargli il salvacondotto gli concedeva udienza, a riva, dove era accampato e dove il generale poteva raggiungerlo scendendo dalla sua nave nella piccola barca che all’uopo gli aveva mandato. La giustificazione per convincerlo era stata confezionata con arte di verosimiglianza: era risaputo, e glielo ricordava l’egizio Achilla, che il fondo del mare di Pelusio era basso e sabbioso, che una trireme o un’altra nave d’un certo pescaggio poteva facilmente restare incagliata in qualche secca e che le correnti urtandosi formavano mulinelli pericolosi per chi non fosse un marinaio esperto. Pompeo s’era quindi imbarcato con i tre uomini e con il piccolo seguito d’equipaggio che li accompagnava per raggiungere il sovrano e concordare con lui le garanzie della sua 98

iii. all’ombra di roma permanenza in Egitto, ma, quando la barca era ormai prossima alla riva e il generale faceva già per alzarsi, sotto gli occhi della moglie Cornelia, del figlio e dei suoi compagni che guardavano dalla flottiglia rimasta al largo e davanti al re bambino, al suo corteggio e ai suoi soldati che s’erano affollati sulla spiaggia per assistere all’evento e partecipare all’accoglienza, proprio allora i tre messi, prima Settimio e poi Savio e quindi Achilla, avevano sguainato le loro spade e senza indugiare avevano colpito a morte l’ospite. Era questa la soluzione che il consiglio d’Egitto aveva preso per risolvere il problema che Pompeo rappresentava per il paese e per il regno: un’uccisione a tradimento, su una barchetta da niente e senza possibilità alcuna di difesa, perché, come aveva sentenziato arguto il maestro di retorica Teodoto, concludendo quel suo discorso e convincendo gli altri tutori del sovrano e i suoi amici e parenti, « un cadavere non morde » e quello in questione, fra l’altro, avrebbe giovato doppio perché scampava il paese dalla guerra romana e perché avrebbe obbligato Cesare al favore e alla riconoscenza verso un suo nuovo e valido alleato. Per questo, per farne prova all’altro generale romano che sarebbe di lí a poco venuto, a Pompeo veniva tolto l’anello sul quale era il suo sigillo, un leone armato di spada, e veniva spiccata la testa dal corpo e imbalsamata perché potesse durare il necessario per essere all’uopo appunto mostrata. Per Cleopatra, la regina che a Pelusio era accampata contro il re fratello per riprendersi il trono, la morte di Pompeo era un nuovo insegnamento. Aveva appreso una delle leggi della ragion di Stato: per il potere spesso un cadavere e il tradimento sono il giusto e il meglio. 3. La marcia di Cesare Alla ragione, nel tessere l’ordito di una soluzione, talvolta può sfuggire un punto alla maglia e l’intreccio filato ecco che 99

cleopatra d’un tratto non serve piú a niente. Al consiglio di reggenza di Tolomeo XIII era sembrato che uccidere Pompeo fosse l’unica soluzione possibile e la migliore, quella che appariva senza costi per il paese e che avrebbe guadagnato al sovrano l’appoggio di colui che a Roma restava ormai il piú potente. Per Cesare, però? Certo, per lui, che aveva avuto in Pompeo l’avversario d’una guerra tanto importante, la morte del rivale poteva essere oggettivamente un guadagno, ma l’obbligo di riconoscenza a cui sarebbe rimasto impegnato col sovrano d’Egitto non poteva senz’altro essere il meglio. Cosí come alla tavola da gioco si sta sempre almeno in due e la mossa che all’uno sembra la migliore non sempre sortisce l’effetto sperato e l’altro piuttosto, valutato ogni suo pezzo, fa poi la giocata che ribalta e riapre la partita, tal quale si svolsero i fatti quattro giorni dopo l’omicidio del Magno, il 2 ottobre del 48 a.C., quando Cesare giunse con la sua flotta al largo di Alessandria e, ancora in mare, fu raggiunto dal maestro Teodoto che, in rappresentanza del sovrano d’Egitto, gli portava in omaggio il macabro dono di quel che restava dell’altro Romano, l’anello e la testa imbalsamata. A dispetto dell’arte con cui gli abili maestri egizi confezionarono sicuramente il “pezzo” e nonostante quella profusa senz’altro da Teodoto per inscenare l’offerta, Cesare, che pure di membra sparse e teste tronche in guerra ne aveva viste tante, alla vista di Pompeo ridotto in quel modo provò probabilmente un turbamento. Fra l’uno e l’altro c’era stato troppo, in tempo e in rapporti, perché egli non provasse una qualche commozione o fosse percorso da un brivido d’orrore. Probabilmente egli fece anche due conti. Considerò quanto facile sia per gli uomini cambiar faccia, come al mutar della sorte chi nella buona era amico nella cattiva diventi nemico d’un tratto e come, quando la fortuna ti sorride, chi ti ha giurato il suo odio sia spesso meno infido e piú sicuro di chi 100

iii. all’ombra di roma viene promettendo la sua amicizia. Dei Tolomei Cesare sapeva bene che non c’era da fidarsi. Non era stato Pompeo il loro piú saldo alleato a Roma? Non aveva il Magno ospitato Tolomeo XII quando questi era in ambasce per il suo trono? Non era a lui che principalmente dovevano tuttora scettro e corona? Non avevano a lui che sembrava il piú forte garantito poco innanzi nella guerra romana il loro appoggio in uomini navi e grano? Eppure gli avevano tagliato via la testa colpendolo a tradimento, nella miseria. Con quali diversi onori l’avrebbero però accolto se a Farsalo fosse andata altrimenti? Qual testa avrebbero offerto su quel piatto, se fosse stato Cesare, vinto, a chiedere accoglienza? E poi c’era dell’altro. Il servigio che il sovrano d’Egitto aveva voluto rendere a Cesare a ben guardare aveva un costo maggiore del guadagno. Quanto piú gli avrebbe giovato alla vittoria trovar vivo l’avversario, farlo suo e imporgli la sua clemenza! La morte di Pompeo in quel momento era appena un palliativo: non risolveva la situazione e nel tempo avrebbe potuto addirittura peggiorarla, non segnava la fine della guerra civile e, per come era avvenuta e per la mano che l’aveva provocata, avrebbe dato fiamma al partito dei pompeiani. Se è vero che un cadavere non morde, resta che per assurdo può “parlare”. Quale reazione avrebbero avuto i Romani nel sapere che il Magno, uno dei cittadini piú importanti della Res publica e della sua storia, era morto ucciso da mano straniera a tradimento? Quali sentimenti avrebbe suscitato la notizia che il re d’Egitto si era intromesso nelle questioni di Roma? Quali turbamenti avrebbe risvegliato nella città dove ancora vivo era lo sconcerto per la morte di Crasso a opera dei Parti, in quella che però era una guerra? Quale scandalo avrebbe mosso il pensiero che il fatto era stato compiuto e a quel modo in un paese che tutti sapevano legato da vincoli d’amicizia con Roma e che molti potevano immaginare soltanto sulla 101

cleopatra base del ricordo delle stravaganze che nel suo soggiorno nell’Urbs aveva lasciato un sovrano, l’Aulete, che tanto lontano doveva essere apparso rispetto ai mores romani? Come avrebbero voluto i Romani che dinanzi a quella testa mozzata agisse Cesare, che, prima d’esserne l’avversario, del Magno era stato parente e alleato e che soprattutto era ora console di Roma? Quanti l’avrebbero disapprovato se egli avesse accettato quel dono e in quanti sarebbero corsi ad allargare le file del partito nemico, che, come probabilmente già sapeva, stava riorganizzando le forze per un nuovo scontro e avrebbe fatto della morte di Pompeo un’arma di propaganda, un crimine da vendicare, un’insegna sotto la quale lottare? Troppi fili tengono e muovono un uomo. Cosí Cesare, che pure, dinanzi al massacro di Tessaglia, era passato oltre sospirando alla necessità della guerra, davanti alla testa di Pompeo dovette fermarsi ché, se questa chiudeva la porta allo scontro in Egitto, apriva il portone a un conflitto ben piú grosso. Da buon generale, sapeva bene che avrebbe avuto bisogno di molti denari e, all’uopo, dovette anche ricordare che i Tolomei per la reintegrazione dell’Aulete gli erano ancora debitori di una cospicua somma e considerare che, per la posizione e la ricchezza del loro regno, gli era necessario impegnarli all’alleanza. Ora che Pompeo era morto, era Cesare a poter vantare nei confronti del sovrano d’Egitto il ruolo di alleato amico e tutore e non solo perché egli rappresentava l’Urbe, ma anche perché, a suo tempo, nel 59 a.C., quando per la prima volta era stato console, con la Lex Iulia de Ptolomeo Aulete aveva fatto sí che il Senato Romano con un apposito decreto riconoscesse Tolomeo XII come re legittimo d’Egitto e socius et amicus di Roma. Ora che poteva averne bisogno, era per lui necessario anche batter cassa e reclamare il saldo del debito contratto a suo tempo dall’Aulete. La somma pattuita, per la parte che gli spettava, ammontava in origine a ben diciassette milioni e 102

iii. all’ombra di roma cinquecento dracme che, per condono, egli, dopo la morte del re, aveva ridotto a dieci milioni di dracme, una cifra da sogno che al tempo solo dall’Egitto si poteva sperare di ricavare. Dinanzi a sé Cesare aveva Alessandria, la piú bella città del mondo, che lo invitava a fermarsi col suo Faro, che era tra le sette meraviglie del tempo, con gli splendidi marmi dei suoi templi e dell’abitato, con la fama del Museo e della Biblioteca e con la tomba del Grande Alessandro, cui egli da sempre guardava come al modello da emulare. Insomma, incontrando Teodoto, Cesare dovette fare i suoi conti: si guardò attorno, sentí su di sé lo sguardo di Roma, vide all’orizzonte la bella e ricca Alessandria e, valutati tutti i pezzi che aveva a disposizione, fece la sua mossa, quella che a corte fra le possibili non avevano contemplato, quella che lo faceva passare per la maglia rotta. Nella trama ordita da Tolomeo XIII e dai suoi consiglieri Cesare, il piú grande nemico di Pompeo, quello che piú l’odiava, quello che per far battaglia l’aveva inseguito per mezza Italia e poi da Brindisi a Durazzo e da qui a Farsalo, quello che per lo stesso veniva in Egitto su dieci navi rodie da guerra, con 3200 fanti e 800 cavalieri, quello che verosimilmente aveva desiderato la morte del Magno piú di chiunque altro, si rivelò contro ogni aspettativa il punto mancato che produce lo strappo. Vedendo la testa, che da Teodoto gli veniva con preziosa pompa offerta, mostrò orrore e pianse e, tenendo il sigillo del suo nemico in mano, ricordò la parentela e l’amicizia e i favori che a quello lo legavano. Poi si disse offeso dell’ingerenza egiziana nelle questioni romane e rimproverò Teodoto e quindi il sovrano per quell’omaggio osceno e spaventoso con cui gli erano stati tolti il merito d’una vittoria e la gloria d’essere il piú forte e quindi anche benevolo e clemente. Uno soltanto, scriveva allora ai suoi amici a Roma, è il 103

cleopatra premio che merita il vincitore, il suo piú grande e dolce piacere, far salva la vita di quelli contro i quali ha combattuto. Il consiglio d’Egitto, insomma, aveva fatto male i suoi conti e scelto la mossa sbagliata. Se per Cesare la morte di Pompeo poteva essere sul momento un guadagno, a cosa compiuta, ciò che piú gli conveniva era di quella morte non mostrarsi contento né soddisfatto e aggiungere l’offesa agli obblighi che già, dopo la reintegrazione dell’Aulete e in ragione del suo testamento, legavano il paese a lui e a Roma. Forte della sua posizione e convinto del ruolo che poteva giocare ad Alessandria, dopo aver congedato il messo regio, Cesare decise di sbarcare in città in gran pompa. Vestito della toga purpurea del console romano, preceduto dai dodici littori coi fasci di verghe e la scure e accompagnato da tutto il suo esercito di fanti e cavalieri in marcia, mosse per le vie alessandrine alla volta dei Basileia, senza curarsi minimamente dell’assenza del sovrano. Cosí facendo anche lui nei fatti sbagliava a fare qualche conto, ché poco ne sapeva di quel paese e della sua gente. Probabilmente ignorava che per gli Alessandrini l’arrivo d’un Romano era un evento poco gradito e non poteva immaginare quanto questi fossero animosi negli impeti e nelle azioni e come al suo sfilare in parata, nella veste d’un potere straniero, avrebbero potuto reagire. Già allo sbarco l’avevano accolto le grida dei soldati lasciati da Tolomeo a presidio del porto. Tutta la città si era risvegliata e riversata in strada tumultuosa. Nel breve tragitto dal porto ai Basileia, il corteo era stato investito da una folla turbolenta che non aveva risparmiato ai soldati romani le sue urla, la sua rabbia e qualche morto. Cesare era entrato col piede sbagliato. Si era insediato senza invito nel palazzo reale. E, altro passo falso, esortò Tolomeo XIII e Cleopatra a smobilitare le truppe schierate a Pelusio e convocò entrambi ad Alessandria per dirimere in sua presenza la loro controversia, perché, mandava a dire loro, il 104

iii. all’ombra di roma diritto vale piú delle armi e della forza e, guarda un po’, il diritto era arrivato e li aspettava in carne e ossa a palazzo reale. Per gli Alessandrini era una chiara minaccia all’indipendenza del loro regno, un’offesa al loro sovrano, un’ingerenza che non si poteva tollerare. Poco valeva a giustificare il comportamento del Romano sapere che i venti etesii in quella stagione avevano ripreso a soffiare tanto da impedirgli di riprendere il mare per sloggiare. Poco convincevano le sue visite ammirate ai templi e ai monumenti della bella Alessandria. Poco servivano le parole con cui egli cercava di presentarsi come un amico che, capitato nel momento opportuno, si disponeva come paciere fra i due sovrani litiganti per evitare una guerra e far rispettare le ultime volontà del re padre, Tolomeo Aulete, il quale, come egli ora ricordava a quella gente, aveva designato entrambi i figli come successori e, inviando il proprio testamento a Roma, aveva assegnato all’Urbe e, quindi, ai suoi rappresentanti il compito di tutelare le sue decisioni. Cesare poteva a parole dichiararsi nel diritto di agire a quel modo, ma nei fatti il suo gioco veniva inteso in altra maniera: gli animi degli Alessandrini gli restavano ostili, nella città continuavano assembramenti e agitazioni e negli scontri i soldati romani, sorpresi ad andar soli, rischiavano grosso e qualcuno cadde morto. La situazione era tale che lo stesso Cesare, trincerato nei Basileia, come se vi fosse assediato, per fronteggiarla fu costretto a inviare in segreto un suo ambasciatore al governatore d’Asia Gneo Domizio Calvino perché questi gli inviasse quanto prima due legioni in ausilio. La mossa di Cesare di passar per la maglia rotta della trama ordita da Tolomeo XIII e consiglieri produceva lo strappo. Per esso, senza colpo ferire, sembrava poter tornare in gioco la figlia dell’Aulete che era stata cacciata dal trono e che, per riaverlo, era schierata in armi a Pelusio. Per esso la giovane Cleopatra poteva trovare la sua occasione per rientrare ad 105

cleopatra Alessandria a dispetto del re fratello e dei suoi tre tutori, che, dopo essersi spesi per mesi in un’abile politica di propaganda che le mettesse la gente della capitale contro e dopo esser riusciti a detronizzarla solo grazie allo spauracchio di Roma e della fame, stavano in quel momento sulla frontiera orientale del regno con l’esercito apparecchiato a impedirle il passo e pronto a farle la guerra. Le notizie che giungevano erano tutte preoccupanti: un Romano nel palazzo reale, una città in subbuglio . . . le dracme . . . Cleopatra. Bisognava prevenire il peggio. A Pelusio la corte del re bambino dovette nuovamente riunirsi in consiglio: era necessario allontanare Cesare dall’Egitto, sviarlo dalle pretese accampate e impedire che Cleopatra raggiungesse Alessandria. Tolomeo XIII e Potino sarebbero quindi rientrati in città per affrontare l’uno e Achilla sarebbe rimasto con l’esercito schierato nei ranghi per sbarrare la strada all’altra. A metà mese si era creata una situazione di stallo. Tolomeo XIII e Potino avevano raggiunto Alessandria, ma non erano riusciti a liberarsi dell’ospite indesiderato. L’eunuco aveva cercato di indirizzare il Romano verso altri lidi e le grandi imprese cui era chiamato, garantendo che il sovrano d’Egitto avrebbe senz’altro saldato nel tempo il debito del padre, ma le sue promesse non avevano sortito il risultato sperato. Cesare, che di denari aveva bisogno nell’immediato e che, fra l’altro, in veste di paciere s’era esposto per ottenere un certo controllo del paese, non aveva inteso cambiar partito e aveva piuttosto insistito sulla fine delle ostilità fra il sovrano e la regina, sullo scioglimento delle loro truppe a Pelusio, sulla presenza di Cleopatra a corte e, ovviamente, sul pagamento di quanto gli era dovuto. Cosí facendo, i tre convivevano, probabilmente acquartierati in ali diverse dei Basileia, in un clima di tensione appena stemperato dalle opportune ipocrisie dei ruoli. Tutto intorno serpeggiava il malcontento. Ai soldati romani, come al loro 106

iii. all’ombra di roma generale, su disposizione di Potino, cominciò a essere distribuito grano di infima qualità in terraglie d’argilla povera o di legno, perché questo passava la casa per chi intendeva mangiare sulle altrui spalle. Per loro diventava sempre piú pericoloso uscire dai Basileia per la città, perché, a opera del tutore del re, si era diffusa la voce che Cesare si era già impossessato degli ori e degli argenti di corte, lasciando al sovrano solo vasellame di nessun valore, e che avrebbe allungato le mani anche sugli arredi dei templi e nelle loro tasche. 4. La notte di Alessandria A diversi stadi di distanza, anche Cleopatra sembrava senza uscita, bloccata a Pelusio dalle truppe di Achilla e dalla flotta del fratello. La giovane, però, sapeva che doveva raggiungere Alessandria dove Cesare, col quale era probabilmente in contatto tramite alcuni suoi messi, l’aveva già piú volte convocata. Il generale romano era per lei l’occasione per poter ancora sperare, quella per aver fortuna, quella che il suo talento doveva incontrare. Si dice che solo il marinaio senza meta non conosce vento che gli sia favorevole, perché quello che sa dove arrivare un vento cui affidare le vele riesce a trovarlo. Cleopatra, degna erede di quell’Alessandro da cui vantava la discendenza, trovò la “soluzione alessandrina”, il taglio che recide il nodo, e in una sera di quello scorcio di ottobre prese con sé il solo Apollodoro di Sicilia, fra i suoi amici il piú fedele, e s’imbarcò di nascosto su una barchetta tanto piccola da passare inosservata. Nella notte raggiunse il Porto Grande di Alessandria e da qui, avvolta in un sacco da viaggio o in un tappeto o in una coperta che il compagno portava sulle spalle, riuscí a passare i posti di guardia alessandrini e romani e a farsi introdurre negli alloggi di Cesare, dove dal fardello che il siciliano offri107

cleopatra va come omaggio, sciolti i nodi, s’alzò, come per magia, per conferire personalmente col Romano. L’entrata in scena della giovane regina era un colpo da maestro che non poteva lasciare indifferente il generale e che dava prova d’un carattere straordinario, di coraggio e audacia insieme. Temeraria, si era imbarcata all’avventura affrontando le insidie della notte, aveva corso il pericolo di essere scoperta dalle guardie del fratello e quindi di essere messa a morte e, sfidando le ostilità di una città e gli intrighi di Potino, era venuta ad affidarsi a un uomo di cui conosceva gesta e fama, ma di cui ignorava l’indole e la posizione. Nella notte che, come ci raccontano le fonti, i due trascorsero insieme, la giovane dovette fare appello a ogni sua arte per conquistare l’amicizia di colui che per lei, a conti fatti, rappresentava ormai la sola possibilità di salvezza. Cleopatra era già stata regina d’Egitto e conosceva tanto bene il suo paese, la corte e la gente, da poter offrire al generale un valido supporto e da potersi promettere salda alleata. A ventuno anni, inoltre, ella era già una donna formata per cultura e educazione: aveva fatto ottimi studi, s’interessava di medicina e filosofia, sapeva amabilmente intrattenere una conversazione, era incantevole per la grazia dei modi e delle forme, aveva uno spirito vivace ed estroso da saper tener bene la scena, saper essere di bella compagnia, far di lei curioso chi l’ascoltava. Del suo aspetto si sa il poco che resta in alcuni tondi di moneta o su qualche bassorilievo di tempio, dove l’intenzione piú che al ritratto mirava alla propaganda. La regina doveva comunque essere di piccola statura e snella per star dentro un sacco da viaggio e in viso i suoi tratti non dovevano essere molto regolari. Aveva il naso pronunciato e adunco e labbra carnose, ma gli occhi erano grandi. Cleopatra sapeva essere bella, d’una bellezza particolare che non stava nella somma di dettagli perfetti in un sol corpo cosí da prendere all’incanto 108

iii. all’ombra di roma d’immediato chi la guardava, ma che risultava da tutt’intera la sua persona e le conferiva un fascino irresistibile che ammaliava chi la incontrava, come il pungiglione che tocca e penetra profondo nella preda che ha scelto. Nonostante i trent’anni che stavano fra loro, Cesare e Cleopatra, in quella prima notte, dovettero parlare a lungo di politica e d’altro. La giovane seppe tener testa all’uomo e conquistarlo. I due si trovarono d’intesa e condivisero una strategia, probabilmente si piacquero e, forse, già in quella notte cominciarono fra loro a giocare d’amore. Certo sta che l’indomani, quando Cesare convocò Tolomeo XIII in sua presenza, questi ebbe l’amara sorpresa di trovare l’odiata sorella accanto al Romano. Anche la regina era entrata in gioco e aveva saputo fare la sua mossa, tanto abile quanto inaspettata. La reazione del piccolo sovrano che, spinto probabilmente dal suo tutore, si precipitò fuori dai Basileia per le strade di Alessandria gridando al tradimento e dinanzi alla folla raccolta gettò in terra il suo diadema incitando la sua gente alla rivolta, dimostrò presto che la regina aveva ripreso posto a corte. Il pronto intervento dei legionari romani che, riacciuffato il sovrano, lo condussero nei palazzi, esasperò lo stato di tensione e sdegnò gli Alessandrini al punto che, pensando che il re fosse fatto prigioniero, insorsero assaltando i Basileia e cingendoli d’assedio. Fu probabilmente Cleopatra, che conosceva la sua gente, a consigliare il compagno romano sul da farsi. Cesare, infatti, per sedare gli animi, si presentò promettendo iniziative che avrebbero soddisfatto i dimostranti. Convocato il popolo in assemblea, lesse il testamento dell’Aulete proclamando che Tolomeo XIII e Cleopatra dovevano insieme regnare sotto la tutela del popolo romano. Per sigillare l’accordo, si impegnava nel nome di Roma a restituire all’Egitto l’isola di Cipro che i Romani avevano fatta propria dieci anni addietro scatenando quella rivolta per la quale Tolomeo XII era stato de109

cleopatra tronizzato. Sull’isola avrebbero regnato i fratelli piú piccoli dei sovrani d’Egitto: Arsinoe IV e Tolomeo XIV. Cosí facendo Cesare, a dispetto del Senato e del Popolo di Roma, cedeva, sua sponte, un territorio della Res publica all’Egitto. E questo avrebbe senz’altro suscitato non pochi malumori nell’Urbe. La sua decisione, tuttavia, per quanto clamorosa, era in quel momento la sola che egli potesse prendere per evitare il peggio. Il generale, se non poteva dire di aver avuto ancora la meglio su Potino e compagnia, certo poteva prendere un po’ di respiro in attesa dei rinforzi che di lí a breve sarebbero arrivati in ausilio. Per Cleopatra era un successo pieno: nel giro d’una notte e d’un giorno tornava a essere regina, riacquisiva un territorio fondamentale per l’economia del regno, allontanava da corte i fratelli minori, possibili rivali al trono, e trovava in Cesare, il piú potente dei Romani, un amico e un alleato personale. Per Tolomeo XIII e i suoi tutori era un duro colpo, contro il quale preparare la risposta. Con Cleopatra di nuovo regina e Cesare che non se ne andava, per Potino e il suo sovrano restava una sola carta da giocare: richiamare le truppe schierate a Pelusio perché marciassero contro Alessandria e far opera di propaganda per incitare la popolazione alla rivolta. Nei giorni che seguirono la pacificazione voluta da Cesare, Potino probabilmente organizzò la sua mossa. Il primo passo fu quello di inviare un messo ad Achilla perché abbandonasse l’avamposto a Pelusio e quanto prima rientrasse nella capitale. L’esercito di cui poteva disporre il sovrano era in realtà un’accozzaglia di individui di varia provenienza e spesso di poca esperienza sul campo di guerra. In esso militavano i gabiniani, i soli a vantare un buon addestramento ma ormai, avendo messo su in Egitto casa e famiglia, avevano abbracciato la causa alessandrina ed erano pronti a imbracciare le armi contro chiunque, fosse anche un Romano, avesse minacciato la loro posizione. Accanto a loro si schieravano pirati ormai 110

iii. all’ombra di roma invecchiati per continuare a depredare per mare, predoni venuti dalla Siria e dalla Cilicia, schiavi fuggiti dai loro padroni, criminali scampati alla prigione o alla pena capitale, esuli d’ogni dove e guerriglieri e ribelli d’ogni sorta. Si trattava di una genia di avanzi di galera e di disperati, usi alla violenza, che avrebbero combattuto con ogni mezzo per salvarsi quel ricetto che ad Alessandria avevano trovato e che altrove non gli sarebbe stato certo offerto. Tirando le somme, quindi, con Achilla sarebbero arrivati ventimila fanti e duemila cavalieri a cui si sarebbero aggiunti gli Alessandrini, fra i quali nel frattempo si diffondeva la voce, abilmente confezionata a palazzo, che il Romano mirava, col benestare della regina amante, a far dell’Egitto una provincia romana e che per far ciò teneva Tolomeo XIII prigioniero. Contro un esercito cinque volte superiore alle sue truppe e una città, Cesare non avrebbe avuto scampo e con lui sarebbe caduta anche Cleopatra. La scelta del piccolo sovrano e del suo tutore portava la guerra ad Alessandria. In pochi giorni la città si tramutò in una fucina a cielo aperto per produrre armi d’ogni tipo e una massa enorme si riversò contro il palazzo. Achilla sopraggiungeva alle porte agguerrito per liberare il suo sovrano. Nulla avevano potuto Dioscoride e Serapione, due importanti parlamentari alessandrini, già messi di corte sotto l’Aulete, che Tolomeo, costretto da Cesare, aveva inviato al suo generale per fermarlo. Gli accordi con Potino erano altri e cosí dei due l’uno era stato ammazzato e l’altro, gravemente ferito, l’aveva scampata solo perché era stato creduto morto. Vano era stato il tentativo di spiegare agli Alessandrini che il loro sovrano non era trattenuto in arresto e che poco c’entrava con quelle manovre bellicose. La guerra era ormai apparecchiata e al suo banchetto di sangue bisognava accomodarsi. Da metà novembre alla fine di marzo Cesare e con lui Cleopatra si trovarono a dover af111

cleopatra frontare una delle stagioni piú difficili della loro esistenza. La cronaca di quanto avvenne si può leggere nei Commentarii di Cesare, nel Bellum civile che egli scrisse di suo pugno e nel Bellum alexandrinum che scrisse per lui Aulo Irzio o un altro luogotenente presente ai fatti. In questi libri come nei cenni che alla vicenda si trovano in altre fonti romane, Cleopatra è appena una comparsa, ma bisogna pensare che sia stata al fianco del generale romano come fida alleata e compagna in ogni momento dello scontro. 5. Sotto scacco Tutto ebbe inizio quando l’esercito di Achilla, seguito da una folla immensa di civili, attaccò il palazzo reale, costringendo Cesare a trincerarvisi dentro con tutta la famiglia dei Tolomei, i tutori e la corte. I Basileia furono presto trasformati dai Romani in una vera e propria fortezza e, in segreto, Cesare inviò i suoi messi per chiedere rinforzi via terra a Mitridate di Pergamo e ai Nabatei e tutte le navi possibili dalla Cilicia e da Rodi. Nel frattempo bisognava resistere battagliando per le strade della città con le poche coorti a disposizione e cercare di guadagnare il controllo del Porto Grande, quello sul quale affacciava il quartiere reale e dal quale era possibile la via del mare. Là stavano alla fonda le poche navi della flotta romana e piú di settanta navi da guerra egizie, le cinquanta che erano state inviate a Pompeo in Tessaglia e una ventina che di regola stavano a presidio di Alessandria. Tenere il porto per Cesare significava garantirsi l’unica via di scampo, quella dei viveri e degli aiuti, per Achilla rappresentava la molla che fa scattare sulla preda la trappola. Il generale alessandrino, dopo aver cinto l’assedio da terra, mosse a prendere la flotta da mare e in risposta il generale romano, che solo nel mare poteva sperare, decise di dare a 112

iii. all’ombra di roma quella fuoco. L’incendio divampò tremendo e, nutrito dai venti che spazzavano la città, si propagò presto fino a lambire lo stesso palazzo reale: dalle navi in mare, dai magazzini e dagli arsenali in porto le fiamme si spinsero ad alcuni edifici del quartiere e toccarono la grande biblioteca che, secondo alcune fonti, fu in quell’occasione distrutta in parte o per intero. Cesare aveva evitato d’esser messo sotto scacco e, mentre i combattimenti infuriavano, poté aggirare il nemico, sbarcare sull’isolotto di Faro e porvi una guarnigione. L’occupazione dell’isola era per lui come per Achilla di fondamentale importanza: lí si alzava l’alta torre che permetteva con la sua lanterna l’accesso ai due porti e da lí il lungo molo dell’Heptastadion portava dritto in città. Si apriva un nuovo fronte che allentava la morsa intorno ai Basileia dove i vari fatti guastavano sempre piú l’equilibrio già precario dei rapporti e serpeggiavano malumori e rancori sempre piú insidiosi. A corte bisognava guardarsi da ogni lato. La guerra portata nel cuore d’Alessandria faceva temere per l’indipendenza del regno e della corona e poteva essere un’occasione da non lasciarsi scappare per salvar l’uno e prendere l’altra. Ben presto non fu piú solo Potino a tramare contro la regina e il suo protettore, soffiando sospetti sugli animi già infiammati degli Alessandrini e inviando messi ad Achilla. Nei giorni degli scontri per conquistare Faro, l’ambizione toccò il cuore e mosse le corde di altri personaggi della corte. Arsinoe, la sorella minore dei sovrani, che Cesare aveva destinato a essere regina di Cipro, e il suo precettore Ganimede pensarono che fosse il momento di cogliere l’occasione. Fuggiti dal palazzo reale, si unirono alle truppe di Achilla e alla gente: la principessa, tra i sedici e i diciassette anni, fu subito proclamata regina d’Egitto e associata al trono con Tolomeo XIII. La sua presenza a capo dell’esercito alessandrino legittimava la guerra contro lo straniero invasore e la sorella del trono usurpatrice. Bisognava liberare il re-fratello dalla prigionia dei 113

cleopatra Romani e riportare la pace. Ganimede aveva idee chiare: la prima cosa da fare era eliminare dalla scena Achilla come generale e prenderne il posto. Nello stesso periodo, a palazzo, usciva di scena anche Potino. A Cesare, dal suo barbiere o, come altri pensano, dalla stessa Arsinoe prima della fuga, arrivò voce del rapporto che l’eunuco teneva con Achilla, del ruolo che giocava nella guerra, dei suoi intrallazzi e di una congiura che gli stava architettando contro. Il tutore di Tolomeo fu quindi, come il generale suo alleato, accusato di tradimento e messo a morte. La guerra alessandrina perdeva i suoi due principali fautori, ma restava in campo e Cesare trovava in Ganimede, promosso a capo dell’esercito nemico, un avversario abile quanto spregiudicato. Ganimede riuscí a mettere fin da subito i Romani in gravi difficoltà attaccandoli non con le armi ma con l’astuzia. Il suo piano era probabilmente quello di portare i nemici allo stremo e costringerli alla resa o alla ritirata. Fece murare tutti i canali che convogliavano le potabili acque del Nilo in città e nelle condotte che rifornivano le cisterne e il quartiere reale fece pian piano pompare acqua di mare. Ben presto i Romani si trovarono senza acqua da bere e, vinti dalla sete, cominciarono a temere il peggio e a dar voce a tutte le paure dell’occasione, quelle di chi voleva reimbarcarsi e non capiva cosa mai trattenesse Cesare dal farlo e quelle di chi ormai si vedeva senza scampo. Contro l’astuzia la può solo la ragione e solo riportando in essa i suoi soldati Cesare riuscí a scongiurare il pericolo. Il reimbarco era improponibile come soluzione: abbandonando gli avamposti di difesa, i legionari avrebbero lasciato strada ai nemici e questi, prendendo posizione negli edifici e nei luoghi piú alti della città, da lí avrebbero potuto facilmente tagliare la rotta alle scialuppe romane messe in mare per raggiungere le navi e partire. Quanto all’acqua un rimedio si 114

iii. all’ombra di roma poteva trovare scavando pozzi lungo il litorale dove per natura sono presenti vene d’acqua dolce e, quand’anche quello alessandrino ne fosse stato privo, non sarebbe stato difficile per le navi romane far rifornimento nelle vicinanze. Di conforto alle truppe doveva poi giovare sapere che era prossimo l’arrivo dei rinforzi e che si trattava solo di aspettare. Di lí a poco, come Cesare aveva detto, i Romani trovarono l’acqua nei pozzi scavati sulla costa e, come egli aveva promesso, videro comparire all’orizzonte la flotta con cui Domizio Calvino portava da Rodi gli uomini della xxxvii legione e un carico di armi e vettovaglie varie. La ragione la spuntava sull’astuzia, ma Ganimede aveva dato prova di poter essere un temibile avversario e, proprio con l’arrivo dei rinforzi, seppe darne un’altra di misura anche maggiore. In quei giorni soffiava forte lo scirocco e le navi di Domizio Calvino, sbattute dai venti, erano costrette al largo non potendo prendere la via per il porto. Per affrontare la difficoltà il comandante aveva inviato alcuni uomini per chiedere il soccorso di Cesare. Altri ne mandò per far rifornimento d’acqua a terra. Questi, sorpresi da alcuni cavalieri alessandrini, avevano rivelato quanto stava accadendo fra i Romani e, soprattutto, che il generale aveva lasciato Alessandria senza truppe di scorta. Per Ganimede l’occasione era da cogliere al volo e, con le navi che gli erano rimaste dopo l’incendio del Gran Porto, s’era messo in acqua muovendo all’attacco. La guerra in mare si prospettava per lui come la possibilità di tentare il colpo senza rischiare la partita: in caso di vittoria, per Cesare e i suoi non ci sarebbe stata possibilità di scampo, in caso contrario la sconfitta avrebbe cambiato poco e non avrebbe precluso la via per nuove battaglie. Gli Alessandrini attaccarono Cesare nel pomeriggio, intorno alla decima ora del giorno, mentre questi cercava di portare la sua flotta in porto. Il momento era per loro propi115

cleopatra zio: il nemico disponeva di pochi uomini e non abbastanza freschi per affrontare una battaglia e, conoscendo poco i luoghi, sull’imbrunire avrebbe avuto non poche difficoltà a orientarsi e a resistere al confronto. Dal canto suo, per scongiurare il peggio, Cesare doveva cercare di evitare lo scontro. Individuato un luogo sulla riva che gli pareva sicuro, diede ai suoi l’ordine di tirarvi a secco tutte le imbarcazioni. Nel corso delle manovre, una nave rodia che navigava con un po’ di ritardo e distacco rispetto alle altre, rimasta indietro, fu assalita dai nemici. I propositi di Cesare andavano cosí in fumo e, suo malgrado, dovette impegnarsi nella battaglia. Ma fu breve: durò appena un giro d’ore, fino al calar della notte, e, nonostante i numeri e l’orario, si concluse con un successo dei Romani che presero una quadrireme nemica e ne affondarono un’altra, fecero prigionieri i marinai di due navi e uccisero molti soldati nelle altre. Non era però la vittoria. Se i Romani potevano tornare a sperare e gli Alessandrini subivano un duro colpo, la guerra non era finita. Era ormai chiaro che la si sarebbe combattuta in mare, che bisognava giocarla sul tempo e che a deciderla sarebbe stata la supremazia della flotta. Per Cesare era vitale guadagnare giorni in attesa dei rinforzi, garantendosi il controllo del porto e del faro; per Ganimede era fondamentale anticipare i tempi, chiudendo ai Romani la via della fuga o degli aiuti. Dopo gli ultimi fatti, mancava ormai agli Alessandrini una vera e propria flotta. Ganimede tenne quindi un discorso alla sua gente e dimostrò ancora una volta il suo valore politico e militare. Alessandria divenne in breve un arsenale a cielo aperto dal quale uscirono in mare ventidue quadriremi, cinque quinqueremi e imbarcazioni d’ogni sorta, una vera e propria flotta che fu radunata nel secondo porto della città, quello di Eunosto che s’apriva dietro l’isola di Faro. Si era ormai a inizio di febbraio e a breve per i Romani sarebbero arrivati gli attesi rinforzi. Cesare che lo sapeva lan116

iii. all’ombra di roma ciò quindi l’offensiva. Con gli Alessandrini piazzati a quel modo non poteva piú garantirsi il controllo della torre, per lui fondamentale, e mosse a prendere tutta l’isola e pure il suo molo. L’attacco all’inizio fu fortunato: i Romani occuparono l’isola e la misero a sacco e fuoco, saccheggiando e distruggendo le case di chi vi abitava e uccidendo e costringendo alla fuga parte della popolazione. Dovevano, però, assicurare l’accesso all’isola da sud ovvero dal braccio che la legava alla terra ferma e al cuore di Alessandria. Si spinsero alla conquista dell’Heptastadion, per porre una barricata laddove la diga s’agganciava alla costa. Fu a questo punto che Ganimede sferrò il suo attacco: gli Alessandrini assaltarono il molo di Faro e vi sbarcarono costringendo le navi romane a prendere il largo e intrappolando tra l’isola e la città i soldati impegnati nell’opera di fortificazione. Molti di loro, vedendo le navi che si allontanavano e temendo di restar chiusi nella morsa nemica, si precipitarono presi dal panico sulle barche rimaste in mare e, riempiendole oltre il consentito, finirono con l’affogare. Altri, incerti sul da farsi e rimasti allo sbando, opposero la resistenza che potevano e in gran parte furono sopraffatti. Lo stesso Cesare, alla fine, quando comprese che lo sbandamento era tale da non poterlo controllare, fu costretto a optare per la ritirata. Rischiò anche la vita, perché la sua imbarcazione, per il carico degli uomini che su essa l’avevano seguito, calò in mare. Poté scamparla solo perché, senza temere le gelide acque invernali né i nemici che lo incalzavano, riuscí a raggiungere le altre navi nuotando con un sol braccio – nell’altro teneva alte sul pelo dell’acqua alcune carte di grande importanza. Il fatto costò ben quattrocento legionari e molti fra marinai e rematori, troppo considerate le forze che Cesare aveva a disposizione. Per gli Alessandrini era il piú grande successo. Ganimede dimostrò sul campo di essere 117

cleopatra tanto forte da rappresentare per i Romani un problema che quanto prima doveva essere risolto. L’occasione fu offerta di lí a poco dagli stessi Alessandrini: la vittoria li convinse ad alzare il tiro e a chiedere che Tolomeo XIII fosse riconsegnato alla sua gente. Cesare acconsentí. Al sovrano, congedandolo, disse che sperava in lui perché tornasse la pace e, pur sapendo che ben altro era il sentimento del fanciullo, lo incoraggiò ad andare nonostante quegli, fingendo il pianto, protestasse per restare a corte con lui e la sorella e dichiarasse di esser disposto a rinunciare financo al trono pur di non lasciarli. In realtà, per Cesare e per Cleopatra liberare il re era il mezzo con cui speravano di far fuori Ganimede. Tolomeo, dimenticate le lacrime prima versate, una volta fuori da palazzo, si precipitò a far la guerra con la furia del corsiero che, tolto dal recinto, si lancia libero al galoppo. Ganimede fu subito deposto e il sovrano si mise a capo degli Alessandrini e prese a condurre da solo la guerra, con grande furore ma senza testa e senza creare grossi problemi ai Romani. I rinforzi erano ormai prossimi ad arrivare e a Cesare fu data notizia del loro avvicinarsi nei primi giorni di marzo. A condurre le truppe d’ausilio, reclutate in Siria e Cilicia, era Mitridate di Pergamo. Ad Ascalona, si erano aggiunti tremila fanti ebrei sotto la guida di Antipatro, ministro e consigliere dell’esarca Icarno II di Giudea. Venivano da oriente e presero dapprima Pelusio, poi scesero a Menfi, e da qui risalirono costeggiando il braccio occidentale del Nilo per muovere poi alla volta di Alessandria. Tolomeo XIII, informato del loro avvicinarsi, inviò immediatamente un suo contingente per sbarrargli la strada al Delta. Prendendo la via del fiume, si mosse per porsi a capo dell’esercito. Anche Cesare, raggiunto da messi di Mitridate, lasciò Alessandria con le poche truppe rimaste. Per evitare lo scontro nelle acque del fiume con la flottiglia del sovrano, 118

iii. all’ombra di roma ricorse a uno stratagemma: con le sue navi illuminate dalle torce prese il mare verso oriente; a luci spente, rientrò verso la città e, sbarcato presso il lago Mareotide, prese la via di terra e a marce forzate riuscí a raggiungere il Delta. Stretti fra le truppe nemiche, Tolomeo XIII e i suoi capitolarono presto e si diedero alla fuga abbandonando posizioni e accampamento e cercando scampo attraverso il fiume. Qui trovò la morte il piccolo sovrano ad appena tredici anni, inghiottito dal Nilo quando cercò di imbarcarsi seguito da una gran folla sulla nave che doveva portarlo al riparo. Il suo cadavere fu recuperato dai Romani per sottrarlo alla benedizione di Osiride che, si diceva, faceva divino chi fosse nel Nilo annegato e gli dava la possibilità di poter risuscitare e ritornare alla sua terra. La sua splendida armatura di faraone, nella sera, quando Cesare tornò ad Alessandria, fu mostrata a tutti gli Alessandrini che, vestiti degli abiti con cui erano usi implorare i loro signori e portando i sacri oggetti con cui a loro si prostravano, si riversarono per le strade arrendendosi al vincitore. Era il 27 marzo del 47 a.C. Dopo un inverno di lotte, incertezza e orrore, la guerra era ormai finita e aveva inghiottito, togliendoli via di scena, tutti i nemici di Cesare e Cleopatra: Potino e Achilla, giustiziati per tradimento, l’uno a corte e l’altro da Ganimede; Arsinoe e il suo tutore, l’una fatta prigioniera e l’altro fuggito chissà dove; Tolomeo XIII affogato nel Nilo durante la battaglia, e Teodoto, il suo maestro, fuggito in Asia per esservi pescato qualche anno dopo dai Romani e ucciso da Marco Bruto. In quel giorno di primavera, Cesare teneva ormai in mano il destino del paese piú ricco del mondo e si trovò al bivio: poteva annetterlo a Roma o farne dell’Urbe un regno cliente, socio e alleato. Fra i corni del dilemma i Romani s’erano già trovati e sul partito dell’annessione aveva sempre finito col prevalere quello della clientela. Era sembrato troppo rischio119

cleopatra so riporre tanta ricchezza nelle mani di un solo uomo e soprattutto di un senatore: i denari alimentano facilmente in chi li ha sogni di supremazia e di potere, e nell’Urbe s’era già cominciato ad avvertire qualche tremore istituzionale. Coi pompeiani pronti a battagliare a difesa del Senato e dell’ordine repubblicano e nella necessità di disporre di denari e di una base nel Mediterraneo, Cesare scartò la possibilità dell’annessione e optò per la restituzione del regno ai Tolomei. Dei figli dell’Aulete sopravvivevano soltanto la maggiore e il piú piccolo, Tolomeo XIV, di undici o dodici anni appena. A loro, nel rispetto della tradizione e del testamento del padre, che, forse, conteneva anche disposizioni in materia di successione, Cesare, che già dall’autunno grazie all’opera del suo delfino Marco Antonio era di Roma Dictator, restituí il regno e concesse il controllo diretto dell’isola di Cipro, che cosí tornava finalmente territorio d’Egitto. I due giovani furono fatti sposare e assunsero i titoli di Filopatori e di Filadelfi, cosí da legittimare il loro ruolo nel solco della dinastia e, forse, scongiurare condotte fratricide e lotte di potere. Per Cesare e Cleopatra era la soluzione migliore. Il fratello coreggente era troppo piccolo per nutrire ambizioni e il suo consiglio di reggenza fu, verosimilmente, scelto con gran cautela. Il piccolo doveva restare in ombra e nei fatti non ha lasciato di sé gran traccia. A regnare doveva essere soltanto la sorella: da lei prese il nome e le date il nuovo regno, di lei soltanto portano il ritratto e la firma le monete e i documenti. In lei Cesare aveva la sua personale alleata oltre che l’amante. A dispetto di Roma, di fatto controllava la regione e poteva disporne alla bisogna. Si usciva, però, da una guerra e la regina era giovane e, almeno nella capitale, non ancora molto amata. Il dittatore decise perciò di lasciare in sua difesa tre legioni e, per evitare che facessero la fine dei gabiniani, non le pose in mercede dei sovrani, ma sotto la guida d’un 120

iii. all’ombra di roma suo uomo di fiducia. Lo scelse con oculatezza. Non poteva permettersi di affidare migliaia di uomini a chi avrebbe potuto decidere di disporne a proprio comodo e vantaggio. Non scelse un senatore, come era di regola e nella prassi. Preferí un tal Rufio, figlio di un liberto che tra i suoi avi contava soltanto schiavi e, cresciuto come soldato valente e coraggioso, sarebbe stato leale e onesto verso il suo generale. La presenza delle truppe avrebbe potuto fare da deterrente all’occorrenza, ma, all’indomani della guerra, era necessario dare una parvenza immediata di pace. Bisognava far contenti gli Alessandrini, far superare loro lo scotto, indurli a sperare in un futuro migliore e, soprattutto, convincerli a non temere il giogo del protettorato romano, che, proprio per l’acquartieramento dei legionari in città, poteva generare sospetti. Per mesi Alessandria era stata messa a sacco e fuoco. La sua gente aveva combattuto e sofferto prendendo partito contro Cesare e la sua protetta. Per le strade restavano in bella vista i resti di incendi, proiettili e barricate. In tanti avevano avuto le case distrutte o saccheggiate e portavano dentro il ricordo dei fatti, l’odore del sangue o qualche lutto. 6. Il trionfo Ora che Cleopatra era di nuovo sul trono e Cesare il vincitore bisognava promettere e far dimenticare. L’intronizzazione dei nuovi sovrani fu probabilmente accompagnata, com’era nella tradizione dei Tolomei, da faraonici festeggiamenti, pubblici banchetti ed elargizioni. Con la regina e il re dovette presenziare anche il generale romano, nella veste di chi ha ottenuto la pace e si impegna a proteggere il paese e la corona. Purtroppo le cronache antiche non raccontano cosa di preciso accadde in quei giorni, e la propaganda augustea, qualche tempo dopo, sputò tanto veleno contro la regina d’Egitto che associare al suo il nome di Cesare, padre adottivo 121

cleopatra del principe di Roma, da molti probabilmente non fu ritenuto opportuno. Alcuni autori accennano a una crociera sul Nilo, avvenuta proprio in quel periodo, che portò Cleopatra e Cesare da Alessandria fino all’Alto Egitto. L’evento, per quel che ci vien detto, fu organizzato in gran pompa. La regina e il generale viaggiavano con la Thalamegos, l’imponente e splendido battello che i Tolomei usavano per risalire il fiume. Ai tempi di Tolomeo IV, la nave, dotata di doppie prua e poppa e costruita su piú piani con pregiato legno di cedro e cipresso, era tanto grande da raggiungere i cento metri quasi di lunghezza, da superare abbondantemente i dieci metri in larghezza e da toccare, quando il tendale era montato, i venti metri circa d’altezza. I ponti che le correvano tutt’intorno per le passeggiate esterne riproducevano un peristilio e un criptoportico. Tra essi stavano camere da letto e camere da pranzo in abbondanza, ambienti destinati alle attività di svago o a quelle di servizio, un tempietto rotondo per il culto di Afrodite, una sala per quello di Dioniso e una grotta artificiale nella quale statue in marmo di Paro raffiguravano tutt’intera la famiglia reale. Il tutto era riccamente decorato in stile greco o egizio, con suppellettili e arredi preziosi, colonne e statue, trabeazioni e fregi e architravi, rilievi e finissimi intarsi realizzati nei materiali piú pregiati: cedro di Siria e cipresso di Mileto, marmo pario o indiano e oro e avorio a iosa. A questa del Filopatore, certo la Thalamegos di Cleopatra non dovette essere in nulla inferiore. In essa era la grandezza dei Tolomei e della nuova regina che cosí, splendidamente solcando le acque del Nilo, si presentava alla sua gente, con a fianco il compagno romano e un seguito di ben quattrocento navi sulle quali era imbarcato l’esercito del generale. Non fu soltanto un viaggio di piacere e un omaggio all’ospite per soddisfarne le curiosità geografico-culturali. Per Cleopatra e Cesare la crociera offriva concrete opportunità politiche. En122

iii. all’ombra di roma trambi sapevano che l’Egitto non era la sola Alessandria e che, dopo una guerra fratricida la cui eco doveva essersi estesa in tutto il regno e dopo la carestia che l’anno prima lo aveva colpito, bisognava per tutto il paese portare l’immagine visiva della pace e del potere e infondere speranza per il presente e il futuro. La regina tornata sul trono si mostrava cosí alla sua gente sia per rinsaldare i rapporti con quanti, soprattutto nell’Alto Egitto, le erano rimasti fedeli, sia per far segno ai nemici dell’appoggio che i Romani le avrebbero garantito in caso di turbolenze o rivolte. Il dittatore, dal canto suo, affiancando Cleopatra e portando un serto di fiori come usavano i Tolomei, aveva l’opportunità di conoscere direttamente il territorio e i beni su cui personalmente estendeva da ora il suo protettorato, di mostrarsi come garante della regina cosí da scoraggiare eventuali azioni contro di lei e di poter quindi partire lasciando un paese sicuro e pacificato. Il viaggio, ci raccontano le fonti, fu interrotto prima del previsto, prima che il corteo raggiungesse l’Etiopia, a sud dell’Egitto, là dove nasce il Nilo, a causa delle rimostranze dei legionari romani che a un punto non intesero andare oltre. Rientrati ad Alessandria, già che l’Egitto era ormai pacificato e sicuro e già che contro Farnace II e i pompeiani e in Asia e a Roma era necessario che intervenisse di persona, Cesare partí lasciando alla regina qualche certezza, forse un sogno e certo un bimbo in grembo. Nacque il 23 giugno del 47 a.C., giorno in cui l’Egitto tutto festeggiava Iside, la dea piú grande. La regina lo chiamò Tolomeo Cesare: in lui c’era il sangue dei Lagidi e quello del dittatore romano, la gloria dei Tolomei e la forza di Roma. A Hermonthis, la madre fece per il piccolo erigere un mammisi a celebrarne la nascita come Horus nato da Iside e sulle monete di Cipro, vestendo i paramenti della dea, si fece raf123

cleopatra figurare sul verso col piccolo al seno e sul retro volle la cornucopia della prosperità e della buona fortuna. Il piccolo era già da subito destinato a diventare il sovrano d’Egitto e, nei progetti di sua madre, il suo regno sarebbe stato il piú grande e il piú ricco. Gli Alessandrini per gusto di burla lo ribattezzarono bonariamente Cesarione (‘Piccolo Cesare’). A Roma ebbe presto altra fortuna: pur essendo troppo simile nell’aspetto e nel portamento al padre – e forse proprio per questo –, morto Cesare si cominciò da subito a questionare sulla paternità del bambino. Marco Antonio la difese, sostenendo che il dittatore aveva riconosciuto il piccolo come suo figlio; Caio Oppio, dopo aver sostenuto lo stesso, cambiò partito e ci scrisse sopra un libretto, Dimostrazione che non è figlio di Cesare quello che Cleopatra fa passare per tale; alcuni sostennero che il riconoscimento c’era stato ma solo in privato; e i piú finirono col credere che era tutta un’invenzione della regina o a ignorare del tutto la cosa. Certo è che Cesare non si fece problema nel lasciare che il piccolo portasse il suo nome e certo sta che Caio Elvio Cinna, tribuno della plebe per l’anno 44 a.C., nei giorni che seguirono la morte del dittatore ebbe a dire a molti che quegli gli avrebbe ordinato di proporre in assemblea un editto particolare, una legge ad personam, tale da liberarlo dai vincoli normativi romani della monogamia. Superati i cinquanta, sposato con Calpurnia, nobile matrona romana, alla quale era legato dal tempo e dall’affetto, ma dalla quale non aveva avuto figli, Cesare, stando a Cinna, avrebbe voluto che con quell’editto, a eccezion di regola, gli fosse permesso di « prendere quali e quante donne volesse per averne una discendenza ». Se il fatto è vero, il suo pensiero in quel momento era rivolto alla giovane regina, alla loro unione, a un sogno che probabilmente avevano condiviso, a quel bimbo che, ancora di pochi mesi, portato a Roma poté probabilmente tenere fra le braccia. 124

iii. all’ombra di roma 7. Roma A Farsalo, nell’agosto del 48 a.C., preparandosi ad affrontare tra tutte la battaglia in quel momento piú difficile e importante, Cesare aveva fatto voto: se l’avesse spuntata, a Roma avrebbe eretto uno splendido tempio, il piú ricco e bello, e l’avrebbe dedicato a Venere Genitrice, la dea da cui discendeva la gens Iulia. Nel 46 a.C., quando finalmente poté rientrare a Roma dopo due anni di guerre tremende ad Alessandria e poi contro Farnace e ancora in Africa contro Catone e la resistenza pompeiana, il dittatore non dimenticò quella promessa e fece subito iniziare i lavori. Il 26 settembre di quello stesso anno, dopo aver celebrato i suoi quattro trionfi per le vittorie in Gallia e in Egitto, sul Ponto e in Africa, Cesare donò una festa ancora ai Romani e, benché non fosse ultimato, inaugurò il Foro Iulio, dove nel fondo, alto su un gran podio, si alzava il tempio della dea. In esso tra opere d’arte fra le piú belle e preziose, il dittatore volle dedicare una statua di bronzo dorato di Cleopatra, che proprio allora aveva invitato nell’Urbe e ospitava negli Horti Caesaris dove, di là dal pomerio (e cioè fuori Roma), aveva la sua villa suburbana. La giovane regina era arrivata poco prima, verosimilmente dopo la celebrazione dei trionfi e dopo quello d’Egitto in particolare. Sarebbe stato sconveniente che ella presenziasse a quella parata. Certo avrebbe potuto lusingarla la meraviglia ammirata dei Romani dinanzi alle ricchezze del suo regno, al modello che riproduceva il Faro di Alessandria, alla statua monumentale del dio Nilo, all’ippopotamo che quel fiume abitava ma che a Roma non era stato mai visto. Probabilmente avrebbero potuto darle una qualche soddisfazione le grida di gioia con cui la gente salutò i quadri in cui erano raffigurate le morti di Potino e Achilla, suoi acerrimi e odiati nemici. Nel trionfo, però, fra i trofei e i prigionieri sfilò, stretta fra catene, 125

cleopatra anche la sorella Arsinoe e, per quanto alla regina potesse far piacere vederla ridotta in quel modo, certo per lei lo spettacolo sarebbe stato comunque imbarazzante, tanto piú che la giovane principessa lagide suscitò nei presenti una commozione tale che il dittatore dovette poi, contro l’uso, farle salva la vita e lasciare che trovasse rifugio a Efeso, nel santuario di Artemide come anni addietro aveva fatto il padre. Cleopatra era sempre la regina d’Egitto e assistere alla celebrazione di quel trionfo sarebbe stato poco opportuno, come ammettere che il suo paese era stato vinto e sottomesso e che il suo ruolo era ormai una mera parvenza senza corpo o sostanza. Fu a Roma quindi dopo i trionfi. Giunse dal mare, sbarcando forse a Brindisi e poi risalendo per la via Appia. Con lei lo sposo-fratello, Tolomeo XIV, il figlioletto Cesarione e tutto il seguito della sua corte, i servitori e le ancelle. Il suo arrivo non passò inosservato e lo stesso bisogna pensare relativamente al suo soggiorno, che fu, fra l’altro, piuttosto lungo, dal settembre del 46 alla primavera del 44 a.C., con una probabile pausa di rientro in Egitto per qualche mese, dal dicembre del 46 all’ottobre dell’anno dopo, in concomitanza con la campagna del dittatore in Spagna contro le ultime resistenze pompeiane, lí organizzate da Sesto e Gneo, i figli del Magno. Giovane di qualche anno oltre i venti, bella d’un fascino esotico da orientale, ricca oltre l’immaginabile . . . e, di piú, con un figlio di Cesare tra le braccia e dal dittatore personalmente ospitata, la regina non poteva non lasciar di sé parlare. La sua venuta era giustificata dalla necessità politica che il Senato di Roma ratificasse il patto di amicizia e alleanza che Cesare aveva con lei stretto ad Alessandria. E di fatto Tolomeo XIV e Cleopatra furono allora ufficialmente riconosciuti come socii et amici del popolo romano. La regina e il suo seguito, però, rimasero anche oltre quell’occasione, per trop126

iii. all’ombra di roma pi mesi perché la loro permanenza potesse essere ricondotta soltanto alla definizione del rapporto del regno con Roma. Un’altra ragione stava ai confini dell’impero. In quel periodo la pressione dei Parti da oriente aveva cominciato a farsi sempre piú minacciosa. Cesare per impegnarsi in quella campagna, la piú importante di tutta la sua vita e quella che l’avrebbe potuto mettere al pari o addirittura al di sopra del grande Alessandro, aveva l’urgenza dell’appoggio strategico ed economico dell’Egitto, regno alleato ma indipendente. La regina stava quindi ancora a Roma nel 44 a.C., a ridosso di quell’impresa, anche per definire le misure del suo intervento in quella guerra. Questo ufficialmente giustificava il suo soggiorno. C’erano probabilmente poi altre ragioni a trattenerla, ragioni piú profonde, quelle della necessità e dell’affetto. La giovane regina era ormai legata a filo doppio al dittatore. A lui aveva donato una parte di sé come succede in amore e con lui aveva avuto un figlio per il cui futuro era opportuno già da subito impegnarsi. Era del resto noto quanto l’uomo fosse facile all’amore. Cassio Dione sostiene che Cesare non si lasciava scappare nessuna delle donne che davanti gli capitasse. Le sue avventure amorose con matrone romane o principesse lontane erano risapute e l’elenco era parecchio lungo. In parte, era stato di recente snocciolato dai legionari durante la celebrazione degli ultimi trionfi; in quello gallico, in particolare, i soldati avevano canzonato il generale al punto da mettere in guardia i concittadini dall’ “adultero calvo” che, dopo aver posseduto il meglio che gli aveva offerto la Gallia, non si sarebbe trattenuto dal prendere in prestito a loro spese tutte le mogli di Roma. Cleopatra rischiava di restare una fra le altre e questo poteva minacciare oltre all’affetto anche la sua posizione. La regina doveva ben sapere che l’Egitto, nonostante l’accordo di alleanza, restava per molti Romani una mira di conquista. 127

cleopatra L’indipendenza del suo regno era quindi ancora in gioco e, probabilmente, stando a Roma, la regina volle poter comprendere meglio la situazione, la città e i Romani. Nei mesi del suo soggiorno, Cleopatra tenne la scena della vita mondana. La villa agli Orti divenne in breve un vero e proprio salotto: i protetti della regina, come il filosofo Filostrato o il musico e cantante Marco Tigellio Ermogene, esibivano le loro arti e tutta l’aristocrazia romana che vi era invitata cercò agli eventi di non mancare, perché, come succede, nessuno voleva esser da meno rispetto agli altri e perché, com’era evidente, incontrare il favore della signora poteva essere una buona scorciatoia per arrivare al dittatore e ottenere qualche vantaggio, un appoggio o una concessione. Dal “salotto” romano della regina d’Egitto si tornava poi sempre con qualcosa: il vanto d’esser stati nella cerchia dei pochi, la promessa di un favore, qualche cortesia o raccomandazione, e, soprattutto, qualche pettegolezzo da riferire in altri salotti, quelli di qua dal Tevere, nella città vera e propria. Della regina a Roma si parlò tanto durante il suo soggiorno. Troppo il dittatore la teneva in considerazione se dell’Egitto non aveva fatto una provincia romana e l’aveva lasciata sul trono senza che, come aveva fatto il padre, pagasse una qualche somma. Troppo l’aveva cara per ospitarla a quel modo, nella sua villa di là dal fiume, a dispetto della moglie Calpurnia e di ogni tradizione. Troppo fra loro c’era se il piccolo della regina portava oltre al nome di famiglia quell’altro nome e del dittatore, senza che questi lo impedisse, era spacciato per figlio. Troppo c’era da dire e si disse soprattutto dopo la dedica della statua della regina nelle vesti di Iside-Afrodite nel tempio di Venere Genitrice: benché altrove e in Egitto s’usasse, per i Romani era inaccettabile che nel tempio d’un proprio dio si potesse fare un tale omaggio a una donna straniera, regina d’un regno vassallo, e, soprattutto, che un essere umano fosse come un dio rappresentato. 128

iii. all’ombra di roma L’atteggiamento della giovane sovrana e del suo corteggio, del resto, poco aiutavano nell’ottenerle le simpatie dei Romani. Cicerone, scrivendo all’amico Attico, non nasconde il suo risentimento nei confronti della regina (reginam odi). Lamenta l’alterigia di lei e la spocchia di alcuni dei suoi consiglieri, un tale Ammone e un Saras in particolare, che, a quel che scrive, non gli risparmiarono l’umiliazione di un atteggiamento arrogante e non mantennero la promessa di un certo favoretto, dei philologa, ovvero forse qualche testo raro dalla Biblioteca d’Alessandria, di cui aveva parlato probabilmente con Cleopatra quando fra gli altri era stato suo ospite nella villa agli Orti. In tanti in città probabilmente nutrirono gli stessi sentimenti dell’oratore contro la regina, soprattutto quanti, cercando di profittare della sua vicinanza al dittatore, non si erano limitati a chiederle in prestito o dono qualche libretto raro. In questo gioco Cleopatra dovette tenere una parte che anche a chi ottenne il suo favore dovette sembrare di troppo e a tanti dovette far fiele. Educata alle maniere della corte egizia e abituata a vivere nello sfarzo, la regina del resto non poteva non risultare a tanti superba e antipatica e, certo, s’impegnò poco nel non far sfoggio di sé in una città che doveva apparirle davvero poca cosa rispetto alla sua Alessandria e nel tenere il regale suo ruolo nella mascherata d’ipocrisia e opportunismo che le offrivano i notabili romani, pronti a adulare di faccia con omaggi ossequiosi e a offendere alle spalle col pugnale della maldicenza. Le voci che circolano sul conto di qualcuno, si sa, di bocca in bocca finiscono prima o poi con l’arrivare alle sue orecchie e Cleopatra, nei mesi romani, dovette apprendere facilmente di essere poco amata e che chiacchierati erano la sua condotta, i suoi rapporti con Cesare, gli omaggi che lui le destinava, l’influenza che lei su di lui esercitava. In tanti cominciarono presto a temere l’ascendente della 129

cleopatra regina sul dittatore e a leggerne traccia nelle riforme che quegli, di ritorno dall’Egitto, andava introducendo e in taluni atteggiamenti che aveva assunto e sembravano annunciare una deriva monarchica di stampo orientale. Cesare, infatti, era tornato a Roma col pallino di cambiar questo e quello. In cantiere aveva la costruzione di uno splendido teatro ai piedi della rupe Tarpeia e di un grandioso tempio da dedicare a Marte al Campo Marzio, il prosciugamento di laghi e paludi, la realizzazione di argini e canali per contenere le acque del Tevere in piena e per portar l’acqua in città. In progetto, per facilitare i commerci, c’era anche la realizzazione di un istmo a Corinto e di impianti portuali a Ostia. A un occhio attento e informato non poteva sfuggire che Cesare era ispirato da quanto aveva visto ad Alessandria. A tanti il collegamento dovette saltar piú facilmente in testa quando il dittatore chiamò a sé Marco Terenzio Varrone, all’epoca considerato un campione di cultura ed erudizione, e gli affidò il compito di allestire una ricca e bella biblioteca. L’Egitto e la sua regina c’entravano senz’altro con la riforma del calendario con cui i Romani dovettero fare i conti già nel 46 a.C., l’anno piú lungo della storia. Fino ad allora il tempo a Roma era stato scandito sulla base delle fasi lunari, un anno misurava 355 giorni e ad anni alterni era cura del pontefice aggiungere un mese per pareggiare i conti secondo il ritmo delle stagioni. L’avvicendarsi dei fatti e qualche interesse politico avevano fatto sí che il mese complementare andasse qualche volta dimenticato e si era prodotta una sfasatura di un certo rilievo. Nel 46 a.C. il tempo dei Romani scorreva ormai con due mesi d’anticipo rispetto al ciclo delle stagioni. Per mettere rimedio alla situazione ed evitare che si finisse con l’avere l’estate ancora in autunno, Cesare, che ad Alessandria aveva visto quanto funzionasse bene il calendario solare, decise di riformare quello romano, abbandonando la scansione delle lune e preferendole quella fissata dalla po130

iii. all’ombra di roma sizione del sole. Il pontefice massimo affidò il compito all’astronomo alessandrino Sosigene, tanto caro alla regina da esserne un consigliere e da averla seguita a Roma. Sosigene fece durare il 46 a.C. 455 giorni e poi al 456o fece iniziare il nuovo anno, il 45. Da allora anche a Roma la misura fu data dall’anno solare di 365 giorni e un quarto e fu necessario ogni quattro anni far l’anno bisestile e aggiungere un giorno soltanto. Il nuovo calendario, nonostante avesse regalato cento giorni alla vita di ciascuno e inquadrasse finalmente il tempo nelle stagioni, portava però la firma d’un Egizio. E questo poteva bastare ad alimentare il malcontento che già covava in alcuni contro la regina e il suo corteggio. Cesare, poi, dal canto suo, dopo il rientro dall’Egitto aveva assunto atteggiamenti che in tanti avevano insinuato dubbi e che per alcuni erano già un chiaro segno d’allarme. Il dittatore, che aveva ormai poteri assoluti e a vita, aveva fatto talvolta mostra di una certa noncuranza nei confronti delle istituzioni repubblicane e del Senato in particolare e aveva anche mancato di rispetto a taluni personaggi importanti. Per lui era un fatto che la Res publica avesse ormai perso di sostanza e, senza farsi scrupolo degli usi patrii, in quel che ne restava non s’era peritato di portar gente di sua fiducia e di nominare magistrati a suo piacimento. Aveva accettato di buon grado onori e titoli di troppo. Per le tante battaglie e i successi gli fu riconosciuto il titolo di Imperator a vita e l’onore che fossero celebrati gli anniversari di alcune delle sue vittorie. Gli fu concesso di portare la corona d’alloro e di vestire la veste trionfale. A spese dello Stato, gli fu accordato un palazzo sul Quirinale e fu stabilito di festeggiare il suo compleanno nel quinto mese del calendario romano che in suo onore fu da allora chiamato Iulius, da cui il nostro luglio. Una sua statua cominciò a essere portata in processione fra quella degli dèi e un’altra fu collocata fra quelle dei re di Roma e su quella che 131

cleopatra gli fu dedicata nel tempio di Quirino l’epigrafe lo salutò come “dio invitto”. Cesare non rifiutò nessuno di tali onori e anzi arrivò a non alzarsi quando i senatori, tutti quanti erano, si presentarono a lui dinanzi al tempio di Venere Genitrice con un decreto che fra gli altri omaggi gli dedicava quello di poter essere venerato come un dio nel tempio dedicato alla dea Clementia. Sul suo nome in molti già giuravano e per la sua salute pregavano e qualcuno cominciò a salutarlo nella folla come “re” e qualche altro nella notte lasciò una corona su una sua statua. Ai Lupercalia del 44 a.C. fece rumore la corona che qualcuno dalla folla lanciò ai suoi piedi e che, raccolta, gli fu da Marco Antonio piú volte posta sul capo. Tutto questo a molti fece presto sospettare e temere che Cesare, ispirato dal suo soggiorno in Egitto e da Cleopatra come consigliera, tentasse il colpo di riportare la monarchia a Roma. A poco valsero contro il tarlo che s’era ormai insinuato in tanti che il dittatore ricordasse a chi lo salutava re che egli era Cesare e non altri, che giustificasse la mancanza verso i senatori in ragione d’un malore e che facesse dedicare la corona dei Lupercalia al re dei cieli, Giove. Era piú facile dar credito alla voce che gli attribuiva l’intenzione di voler fondare un regno di stampo orientale e di spostare la capitale ad Alessandria. Del resto nell’imminenza della campagna contro i Parti erano stati consultati come d’uopo i Libri Sibillini e il responso aveva predetto che i Romani avrebbero potuto avere la meglio soltanto se a guidarli fosse stato un re. Per questo il 15 marzo del 44 a.C. il Senato era convocato per conferire a Cesare il titolo di sovrano delle province orientali. Bastava a far del tarlo una certezza. Come non temere da lí il passo che, al rientro dalla campagna contro i Parti, avrebbe potuto fare di Cesare anche il re delle province occidentali e di Roma? Come non ricordare l’esempio di Lucio Giunio Bruto che, 132

iii. all’ombra di roma obbedendo ai precetti della Res publica, aveva fatto decapitare i propri figli che avevano tentato di restituire la monarchia? Come non lasciarsi guidare da quell’esempio e dagli ideali che in sé portava? Sta che alla seduta del Senato delle Idi di marzo, sessanta senatori circa e fra essi uomini vicini al dittatore, da lui graziati con clemenza come Cassio o a lui legati da affetto come Bruto, impugnarono contro Cesare i loro pugnali e lo colpirono per ventitré volte fino a lasciarlo ai piedi di una statua di Pompeo cadavere in una pozza di sangue e coperto dalla toga che aveva tirato sulla testa per nascondersi nell’ultimo respiro del dolore e della morte. Dalla Curia la notizia dell’assassinio si diffuse presto per tutta la città e, come un fulmine che d’improvviso squarcia il cielo promettendo pioggia, lasciò una nube cupa, carica d’orrore e presaga di sciagura, che sbandò tutti e generò un fuggi fuggi generale. Cleopatra, ancora in città, ospite nella villa agli Orti, certo fu informata di quanto accaduto fra i primi e nel dettaglio. Fu subito temporale. Come non temere che i pugnali che avevano ucciso il dittatore non raggiungessero pure lei che di quello era stata la protetta e l’amante? Come non temere per il piccolo Cesarione che già solo nel nome portava la firma dell’ucciso? Come non temere per l’Egitto, per il proprio regno e per l’alleanza ora che il garante del patto e della situazione era morto? Da chi, poi, poter sperare aiuto in una città in cui tutti sembravano aver paura di tutti e bisognava guardarsi da ogni parte? La giovane regina, morto Cesare, si rese ben conto d’essere sola e che restare a Roma non solo non aveva piú un senso, ma, soprattutto, era pericoloso. Dopo la lettura del testamento del dittatore, il suo orizzonte si faceva nell’Urbe piú stretto. A tanti sapeva di dispiacere. E, se fino allora i tanti si erano limitati a sussurrare i loro malumori nel chiuso di qualche salotto, ora potevano dar fiato alle trombe. A loro si aggiun133

cleopatra sero i molti che avevano mal sopportato la sua ingerenza sull’amante e che la lettura del testamento fece certi che la donna non era andata molto in là rispetto a quanto stava sotto gli occhi di tutti: la regina e quel suo figlio, contrariamente a certi timori, non erano stati punto ricordati da Cesare fra i destinatari delle sue ultime volontà. Alla fine dei conti, restava quanto già tutti sapevano da tempo: l’una aveva semplicemente ottenuto il riconoscimento del titolo reale e la ratifica del patto d’alleanza con Roma e all’altro era stato soltanto concesso di portare il nome del padre. Per la regina non era piú tempo di restare in una città straniera dove tanto poco era amata. Per lei e per il figlio l’unica via possibile per evitare il peggio era tornare in Egitto. Non sappiamo quando e come Cleopatra e i suoi lasciarono la città. Il tutto, come conveniva, dovette avvenire in gran silenzio e non fece gran notizia. Alla partenza fa appena un cenno Cicerone in una lettera all’amico Attico che della cosa l’aveva informato: poche parole di gioia, con cui l’oratore volle salutare la fuga dell’odiata regina, ci fanno sapere che già il 15 aprile degli Egizi non c’era piú traccia. I Romani avevano altro cui pensare. Nel giro di un mese qualcosa era cambiato. I funerali di Stato dedicati a Cesare e la sua divinizzazione, il compromesso raggiunto fra le parti e l’amnistia generale, l’allontanamento dei cesaricidi con incarichi nelle province dell’impero e il sopravvento di Marco Antonio avevano disperso le nubi dei primi giorni, ma l’orizzonte restava incerto. Negli stessi giorni in cui la regina d’Egitto lasciava Roma, nella città rientrava da Apollonia Ottavio, il nipote che Cesare aveva nel suo testamento designato come principale erede.

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IV NEL NOME DI CESARE 1. Tra il Tevere e il Nilo La regina con lo sposo-fratello e il figlioletto e tutto il corteggio di ancelle e servitori e cortigiani rientrò in Egitto in un giorno della tarda primavera o d’inizio estate del 44 a.C. I fatti romani, il dolore lasciatole in corpo dalla morte di Cesare e, forse, anche quello di un aborto avvenuto durante i giorni del viaggio, i mille pensieri che la assalivano e l’ansia e la paura per sé e il figlio e il regno, forse furono appena attenuati dalla vista del Faro alto fra i due porti, dal sole che illuminava gli splendidi marmi di Alessandria e dall’accoglienza festosa degli Alessandrini che, all’arrivo dei due sovrani, dovettero scendere in mare con tutta la flotta e riversarsi in strada a salutarli. Roma era lontana dall’Egitto tutto un mare, ma la giovane regina sapeva fin troppo bene ormai che i chilometri e i giorni che facevano quella distanza erano poca cosa per i signori dell’Urbe e che sulla scacchiera che quelli stavano apparecchiando il suo regno restava una pedina che qualcuno avrebbe potuto voler giocare e altri avrebbe voluto poter mangiare. La situazione romana appariva poco chiara e, di giorno in giorno, andava ingarbugliandosi tanto che era difficile raccapezzarcisi dentro per trovar la maglia di una previsione e individuare l’amico che alla regina avrebbe conservato il trono e avrebbe mantenuto il patto che dell’Egitto faceva un paese libero e alleato. Cleopatra aveva lasciato dietro di sé una città allo sbando e le notizie che le arrivavano dagli emissari rimasti lí per suo conto facevano sperare poco in una pacifica so135

cleopatra luzione. L’accordo che Marco Antonio, console in carica nel 44 a.C., aveva raggiunto coi congiurati, concedendogli l’amnistia per il crimine compiuto, era durato appena qualche giorno. Già ai funerali del dittatore, lo stesso console, chiamato per carica e parentela a pronunciare l’elogio del defunto, non si era limitato a ricordarne le gesta e le opere, ma, volendo ottenere vantaggio dalla situazione, per divenire su tutti il primo e prendere di Cesare il posto, aveva alle lodi aggiunto il compianto e l’orrore e, alzando sulla folla ormai commossa la toga del morto lacerata dai colpi dei pugnali che l’avevano ucciso e lorda ancora del suo sangue, aveva gridato al tradimento e chiamato scellerati e assassini gli autori di quel misfatto. Sulla scena del Foro, Marco Antonio aveva tenuto una parte magistrale, riuscendo con le sue parole e i gesti ad appiccare nei presenti il fuoco della rabbia e della commozione. In un niente s’erano alzati strazianti i lamenti delle donne e i veterani avevano cominciato a battere sugli scudi le loro spade e al letto d’avorio su cui stava il corpo di Cesare qualcuno aveva d’un tratto pensato di dar fuoco perché fosse pubblicamente cremato. Il rogo s’era alzato subito alto, alimentato con tutto quanto si poteva, arredi e legni tolti da ogni edificio intorno. Su di esso, come ultimo omaggio al dittatore, la gente si era spogliata di quanto aveva, armi e gioielli e anche vesti. Da esso in tanti avevano tolto tizzoni ardenti per correre a dar fuoco alle case degli uccisori. I congiurati, quella volta, la scamparono solo perché avevano messo a guardia di sé e delle proprie cose schiavi armati e gladiatori prezzolati, ma gli incendi e le stragi non mancarono e, come scrive Cassio Dione, si rischiò che la città finisse distrutta tra le fiamme. Col suo discorso Marco Antonio aveva dato una prova della forza su cui poteva contare contro congiurati e Senato, ma aveva anche fatto irrompere sulla scena politica la rabbia dei veterani e dei popolani, che, come 136

iv. nel nome di cesare fiume in piena, si era scatenata per le vie tanto che sembrava ormai difficile farla rientrare entro gli argini dell’ordine sociale. Sotto la cenere che aveva bruciato il dittatore, la brace restava accesa e bastava soffiarci un po’ sopra perché prendesse forza e fuoco. Cosí, a dispetto della politica di Marco Antonio, che, dopo il discorso, era tornato sui passi della pacificazione sociale, nei giorni successivi al funerale di Cesare, orde di sobillatori cominciarono a organizzarsi per difendere la memoria del dittatore e far vendetta della sua morte. Nonostante il pugno di ferro subito adottato da Marco Antonio e Dolabella, consoli in carica per quell’anno, e nonostante gli arresti, le condanne senza processo e la strage di tanti a monito fatti precipitare dalla Rupe Tarpeia, l’aria si faceva sempre piú fosca e pesante: la massa di seguaci alla causa della vendetta e del disordine si allargava sempre piú e per la città ormai quotidianamente divampavano caos e violenza. La situazione era tale che Bruto e Cassio, i capi della congiura, già a inizio aprile decisero di allontanarsi, rifugiandosi poco lontano, fra Lavinio e Anzio, e che tanti, fra congiurati e senatori, ne seguirono l’esempio. Lo stesso Marco Antonio non doveva sentirsi molto sicuro: dalla Campania, dove si era recato a metà aprile per regolamentare la distribuzione di terre ai veterani, era tornato con una scorta di uomini armati come corpo di guardia. A complicare il quadro si era messo anche Ottavio, il giovane nipote che Cesare, nelle sue ultime volontà, aveva indicato come proprio erede. Appena arrivato in città, aveva assunto il nome del padre adottivo facendosi chiamare Iulius Caesar Octavianus e, forte del riconoscimento testamentario e di una nutrita schiera di veterani al seguito, aveva presto cominciato a brigare per prender posto nelle faccende romane. Aveva avvicinato Marco Antonio, erede politico e amministratore del tesoro di Cesare, ma l’incontro era andato ma137

cleopatra le: il console lo aveva accolto con indifferenza, senza prenderlo molto sul serio e senza dargli gran conto, e non gli aveva neanche corrisposto i denari che gli toccavano in eredità e che egli era venuto a riscuotere e reclamava. Ottaviano allora aveva cominciato a stringere intese sotterranee coi nemici del console, benché fossero del partito dei cesaricidi, a questi vicini o dagli stessi ideali animati, e a far opera di demagogia fra popolani e veterani, promettendo ai primi che avrebbe rispettato le volontà del padre e pagato i trecento sesterzi che a ciascun cittadino il dittatore aveva lasciato e giurando agli altri e a tutti che come figlio avrebbe onorato la pietas che si doveva al genitore e vendicato la sua morte facendo giustizia dei congiurati. In città, da ogni tribuna, il giovane aveva presto cominciato a inveire contro il console rimproverandogli la politica di pacificazione che favoriva, come era sotto gli occhi di tutti, gli uccisori di Cesare, contro i quali bisognava invece agire per far giustizia del loro crimine. A ciò Ottaviano, da buon demagogo, aggiungeva contro Marco Antonio l’accusa di trattenere per sé il patrimonio che il dittatore aveva destinato ai propri concittadini e si impegnava nella promessa di rispettare le volontà del padre adottivo, proclamando di esser pronto a sborsare di tasca propria, anche a rischio di ridursi in povertà, quanto a ciascuno era dovuto. Entrambi, il giovane e il console, l’uno per testamento e l’altro per carriera, si dichiaravano eredi di Cesare, ma le invettive di Ottaviano raggiungevano piú facilmente il cuore e lo stomaco dei veterani e della gente di Roma e rubavano a Marco Antonio i consensi su cui poggiava la sua forza. La politica di pacificazione concordata col Senato alla fin fine aveva lasciato impuniti gli uccisori di Cesare e, di piú, li aveva favoriti conservandoli per il 43 a.C. nei governatorati provinciali e nei comandi militari cui il dittatore, prima di morire, li aveva destinati. 138

iv. nel nome di cesare Bruto e Cassio, benché fuori Roma, mantenevano un ruolo politico di primo piano; il Senato, temendo di perder posizione e privilegi, assecondava le ambizioni di Ottaviano per spaccare il fronte cesariano, e Cicerone, l’uomo piú influente dell’Urbe, aveva cominciato a tessere una trama di intese contro il console e aveva guadagnato alla sua causa anche Dolabella, il console collega. Marco Antonio, stretto tra il fronte repubblicano che ingrossava le sue file e le pretese di Ottaviano, in perdita di consenso e incerto sulle mosse del collega di consolato, a giugno aveva fatto la sua mossa, quella che era legittima per un console e gli permetteva di rompere il fronte avversario e rafforzare la sua posizione politica e militare. Da buon allievo del grande Cesare egli pensò innanzitutto di redistribuire a proprio vantaggio i governi delle province. La Macedonia che si era fatta assegnare per il 43 a.C., togliendola a Bruto col pretesto di una prossima invasione da parte dei Geti, era di fatto una buona provincia e gli garantiva una certa forza militare, ma nella situazione creatasi gli sembrava un po’ troppo lontana per controllare bene gli affari romani. Ad alcuni cesaricidi era poi andata anche meglio che a lui: Decimo Bruto e Cassio, che avevano giocato un ruolo da protagonisti nella congiura contro Cesare, avevano avuto ad esempio l’uno la Gallia Cisalpina e l’altro la Siria, province che erano molto favorevoli, l’una per la posizione e l’altra per la ricchezza, e che avrebbero potuto fare da base per un’eventuale azione a conquista di Roma. Volendo sistemar meglio le posizioni, Marco Antonio convocò una seduta del Senato e, già che questa andò deserta, seguendo l’esempio di Cesare, si presentò ai comizi tributi da cui fece approvare la Lex de permutatione provinciarum con cui destinava a sé il governo della Gallia Cisalpina e al collega Dolabella quello della Siria. La Macedonia restava in famiglia perché veniva assegnata al fratello del console, Gaio Antonio, 139

cleopatra e Bruto e Cassio venivano mandati a governare l’uno Creta e l’altro la Cirenaica, bei posti ma province pretorie in cui non era previsto che fosse di stanza una legione. Cosí facendo Marco Antonio riusciva a ridimensionare il partito dei cesaricidi, cui, fra l’altro, toglieva anche l’appoggio di Dolabella, e guadagnava il controllo di una provincia che era tanto vicina a Roma da poter essere, come era stato qualche anno addietro per Cesare, un buon trampolino per la conquista del potere. Dagli stessi comizi, inoltre, egli si faceva riconoscere l’imperium militare che gli permetteva di trasferire nella nuova provincia le truppe stanziate in Macedonia. Per star tranquillo nel suo gioco fino all’assunzione dei governatorati e tener lontane quindi eventuali opposizioni, Marco Antonio riusciva anche a ottenere che Bruto e Cassio, in qualità di pretori e a titolo d’onore, fossero incaricati di provvedere al rifornimento di grano dalla Sicilia e dall’Asia e da qualunque altra regione dell’impero. La posizione presa rispetto ai congiurati riabilitava il console agli occhi di molti popolani e veterani, per guadagnarsi il favore dei quali egli varava due leggi, una sui tribunali con cui favoriva gli ex centurioni e l’altra agraria. Il gioco era fatto: Marco Antonio aveva scoperto le sue carte e rilanciava alla mossa dei suoi avversari. Si era ormai alla stretta finale e l’estate che seguí fu da ognuno spesa a organizzare forze e posizione perché all’orizzonte, pronta a divampare, era un’altra guerra. Bruto e Cassio, in agosto, ritenendo oltraggiosa l’onorificenza che li incaricava dell’acquisto del frumento, decisero di lasciare la penisola e di muovere verso oriente per far proprie le province che, a dispetto di Marco Antonio e della sua lex di permutazione, gli erano state affidate dal dittatore Cesare: la Macedonia all’uno e la Siria all’altro. Intanto a Roma Cicerone tra incertezze varie, ma certo della guerra prossima, tesseva sotto banco possibili alleanze 140

iv. nel nome di cesare contro il console e si avvicinava sempre piú a Ottaviano, che non lo convinceva molto ma che era bene sostenere per separarlo almeno dall’altro cesariano. Dal canto suo il giovane erede di Cesare, nel nome del padre adottivo, si adoprava per celebrarne pubblicamente la memoria a ogni occasione, si prodigava in promesse di donativi, reclutava veterani alla vendetta, faceva stuolo di amici fra banchieri appaltatori e usurai per racimolar denari, e si affaccendava per ottenere contro Marco Antonio l’appoggio politico necessario, quello che gli poteva venire puntando sull’odio che il “grande consolare”, l’illustre Cicerone, nutriva contro il console. Lo spettro della guerra s’apprestava sempre piú e, come dai fatti si poteva facilmente prevedere, si sarebbe allargato oltre i confini dell’Urbe, fra le province, ad abbracciare l’intero Mediterraneo. 2. La mossa: Cesarione come compagno al trono In Egitto, Cleopatra doveva tenere ben d’occhio i fatti romani ed essere informata costantemente di quanto avveniva. Lo sviluppo delle vicende dovette preoccuparla. L’adagio antico non sbagliava del resto nell’avvertire che, se il fuoco prende la casa del vicino, bisogna stare in guardia per la propria perché anch’essa è già in pericolo. La regina aveva fatto esperienza dell’umano e sapeva bene che nessuna belva è tanto selvaggia e crudele quanto l’uomo in cui l’ambizione abbia preso dimora, possa combinarsi con la forza e voglia aspirare al potere. I signori dell’Urbe sarebbero tornati a sbranarsi e non l’avrebbero certo risparmiata dall’immischiarla nei fatti loro. Dinanzi a Roma la regina senza Cesare era ormai sola, senza un amico cui poter chiedere un conforto, senza un contatto in cui poter fidare o sperare. La solitudine cominciò forse a pesarle anche nel proprio paese. L’odio, si sa, non muore e certo ad Alessandria, sotto 141

cleopatra l’apparente pace, poteva ancora covare la serpe dell’opposizione e del tradimento. Stretta tra le vicende romane che s’andavano aggrovigliando nel nome di Cesare fra i suoi due eredi e il timore che ad Alessandria potesse ricompattarsi un fronte di opposizione interna, in quella stessa estate, la regina d’Egitto fece i suoi conti e poi si mise sulla sola strada che la ragione le indicava. Se a Roma si battagliava nel nome del dittatore, c’era un solo Romano su cui la regina poteva contare e contro il quale un erede di Cesare non avrebbe facilmente alzato la sua mano; se ad Alessandria si fossero risvegliati sentimenti di ostilità contro la regina, solo il sovrano-sposo avrebbe potuto tenere l’insegna della legittimità: la sola strada che poteva essere presa da Cleopatra era proclamare il proprio figlio Tolomeo Cesare come coreggente e sbarazzarsi di Tolomeo XIV come sovrano. Alla fine del mese di luglio si data l’ultimo papiro che porta la firma del sovrano-fratello. Poco dopo il piccolo Cesarione salí al trono come re d’Egitto, coreggente con la madre. Tolomeo XIV usciva di scena per una morte che forse, come qualcuno poi insinuò, fu procurata, mezzo veleno o altra azione proditoria, dalla volontà della sorella che da essa, come che fu, ebbe comunque tutto un guadagno alla sua strategia di conservazione. Il nuovo sovrano d’Egitto, un bimbo di tre anni, assunse il titolo di Tolomeo Theo Filopatore Filometore Cesare. Era il quindicesimo Tolomeo a salire al trono e, come si conveniva, fu titolato nel solco della tradizione come dio che ama il proprio padre e che ama la madre, ma, a dispetto d’uso e protocollo ed etichette, egli era nato al di fuori della coppia regale e, come volle la regina, assieme al nome della dinastia portò ufficialmente anche quello del padre romano. Sulla scena del mondo il nuovo re d’Egitto veniva presentato come l’unico Cesare sopravvissuto al dittatore, il solo 142

iv. nel nome di cesare che ne portava il sangue in corpo, quello che lo continuava. La regina ancora una volta giocava di rischio e lo faceva soprattutto nella sua Alessandria, dove portare sul trono, dopo la morte sospetta del legittimo sovrano, un figlio spurio, nato dalla relazione con un Romano, poteva risvegliare sentimenti di rabbia e ribellione. Cleopatra riuscí bene ad affrontare la situazione, a prevenire un possibile risveglio di passioni antiromane e a sedurre la sua gente con l’arma sola che può incantare, quella della propaganda. Sulla scena egizia vestí gli abiti della tradizione che la voleva nel suo ruolo come incarnazione di Iside, la dea-sovrana, e sul suo presente pose il velo di quell’antica vicenda. Il mito della triade divina che aveva dato origine al regno dei faraoni si faceva agli occhi degli Alessandrini e di tutte le genti d’Egitto realtà. Millenni addietro, Iside, la Dea Regina, aveva perso il suo Osiride, il dio-fratello con cui regnava, a seguito di una congiura di palazzo e, sola, forte del coraggio che nasce dall’amore e dalla sofferenza, aveva affrontato pericoli e peripezie, aveva riportato in vita per ben due volte lo sposo e con lui aveva concepito Horus, il dio che avrebbe vendicato il padre e, primo faraone, avrebbe con la madre regnato nel segno del benessere e della pace. Cosí Cleopatra era tornata da Roma, dopo che il compagno le era stato tolto, a tradimento ucciso in una congiura, e portava sul trono il figlio con lui concepito, il piccolo Cesarione, il novello Horus che con la madre regnava e che il padre avrebbe vendicato. I due nuovi sovrani d’Egitto si presentavano alla loro gente come la manifestazione terrena degli dèi: nei fatti ne ripetevano la vicenda, nelle pubbliche cerimonie e in ogni loro raffigurazione, sui muri dei templi come sulle monete, ne portavano vesti e paramenti e la madre era sempre al fianco del suo bambino, lo teneva in grembo e lo accompagnava. 143

cleopatra Iside e Horus erano tornati a regnare in Egitto e promettevano una nuova età dell’oro, il dono di ricchezza che è nella cornucopia. Cosí, intrecciando la realtà al mito e facendo un’accorta opera di propaganda, la giovane regina riuscí a conquistare al suo progetto la sua gente. Il messaggio, sotto la favola, era probabilmente a tutti chiaro: l’ascesa di Cesarione era l’unica carta che l’Egitto poteva giocare contro Roma per tentare di salvare la sua indipendenza e Cleopatra era la sola che poteva provarsi su questa strada. 3. La scelta: con Dolabella contro Cassio Nel febbraio del 43 a.C., a inizio mese, Cicerone scrivendo a Cassio lo salutava con l’augurio che da oriente risplendesse finalmente la luce del suo valore, la stella della vittoria del partito repubblicano. Nel giro di pochi mesi, i Romani, com’era prevedibile, avevano cominciato a portare le loro beghe in seno al Mediterraneo. Sul finire del 44 a.C., lo scontro interno al fronte cesariano s’era inasprito sempre piú. In novembre, Marco Antonio, prossimo alla restituzione del mandato consolare, aveva raggiunto la Gallia Cisalpina per assumerne il governo, ma aveva trovato la provincia già occupata da Decimo Bruto, il quale, ritenendo illegittima la legge di permutazione votata in giugno dai comizi, da Munda, dove s’era insediato, aveva opposto alle pretese del console un ostinato rifiuto e messo sotto assedio dalle legioni di quello, aveva fatto appello al Senato e a Cicerone perché dall’Urbe gli arrivasse un qualche aiuto. A inizio del nuovo anno, dopo un lungo dibattito, il Senato aveva dichiarato Marco Antonio nemico pubblico e aveva incaricato i nuovi consoli di arruolare le truppe necessarie per muovere alla volta di Munda e liberarla dall’assedio con cui l’ex console la cingeva. All’azione si era proposto di par144

iv. nel nome di cesare tecipare con le sue legioni anche Ottaviano che cosí sperava di eliminare il principale ostacolo alle sue mire. La decisione con cui il giovane Cesare si schierava alla difesa di un cesaricida aveva rotto il fronte cesariano, dando cosí allo schieramento opposto la possibilità di ricostituirsi. Mentre nella penisola armeggiavano per la guerra contro Marco Antonio, già a inizio d’anno Bruto e Cassio avevano preso posizione l’uno in Macedonia e l’altro in Siria e da lí raccoglievano partigiani alla loro causa fra i governatori delle province orientali e i regni vassalli di Roma. La faccenda riguardava ormai anche l’Egitto e la sua regina. I Romani la chiamarono in causa nella primavera del 43 a.C., quando ad Alessandria si presentò Aulo Allieno come legato di Publio Cornelio Dolabella, il quale, nominato dai comizi proconsole per la Siria, durante il viaggio per la nuova destinazione, avendo appreso della presenza di Cassio nella provincia, lo inviava chiedendo le legioni che Cesare aveva lí lasciato a difesa del regno e che nel tempo da tre erano salite a quattro. La visita di un rappresentante romano era già da qualche tempo attesa nel paese. La presenza di Cassio in Siria, a un passo dal regno, e la cronaca degli ultimi mesi la annunciavano. Allieno difatti veniva dopo che Dolabella, in gennaio, aveva preso Smirne, dove il proconsole d’Asia Gaio Trebonio in accordo con Cassio, di cui era stato compagno nella congiura delle Idi e poi era divenuto alleato nella difesa della causa repubblicana, aveva cercato di sbarrargli la strada. L’uccisione del proconsole, la cui testa, spiccata dal corpo, era stata platealmente gettata come omaggio ai piedi di una statua di Cesare, aveva dato inizio alla guerra civile romana in Oriente, proprio alle porte dell’Egitto, e, soprattutto, definiva gli attori dello scontro che di lí a poco si sarebbe combattuto: a Smirne un cesaricida era stato giustiziato da un cesariano, in 145

cleopatra Siria e poi in Oriente si sarebbe fatta vendetta di tutti gli altri membri della congiura contro il dittatore. Nel nome di Cesare e di chi si proponeva di vendicarlo, veniva Allieno in Egitto con la sua richiesta e, probabilmente, si faceva ambasciatore della promessa che, in caso di vittoria, i cesariani avrebbero mantenuto il regno socio e amico di Roma e riconosciuto Cesarione come legittimo sovrano insieme con la madre. La regina non poteva tirarsi indietro dal garantire il suo appoggio alla causa e decise di cedere quanto richiesto. La decisione non deve essere stata facile per lei in quel momento. Se, da una parte, l’ascesa al trono del piccolo Cesarione e la politica di propaganda con cui l’aveva giustificata agli occhi della sua gente e del mondo, la obbligavano su questa strada, dall’altra, il suo paese si trovava proprio in quella primavera ad affrontare una profonda crisi economica, determinata dallo scarso livello raggiunto dalla piena del Nilo. Cacciarsi in un conflitto poteva essere un atto temerario e pericoloso. Nei fatti, però, proprio questo era l’appoggio accordato a Dolabella, una chiara presa di posizione dell’Egitto dalla parte dei cesariani e, nel contempo, un’esplicita dichiarazione di guerra contro Cassio e compagni. La scelta di consegnare le legioni ad Allieno era poi parecchio rischiosa perché sguarniva la regina di truppe che avrebbero potuto esserle utili per affrontare i possibili sviluppi dei fronti su cui era impegnata in quella primavera: l’eventualità di tumulti interni legati alla carestia e la probabilità di un attacco dalla Siria da parte di Cassio erano tutt’altro che remote e non andavano prese sotto gamba. Le urgenze che si ponevano dinanzi alla regina erano quindi tre: provvedere alla sua gente per limitare i danni della fame, che già si manifestavano anche nella forma di una grave pestilenza, cercare di organizzare le risorse del regno per far fronte a una guerra e allestire una flotta per garantire 146

iv. nel nome di cesare la sicurezza del paese e, nel caso, per supportare l’azione dei cesariani. Per lenire le sofferenze della carestia, la regina avviò una serie di misure in favore dei lavoratori dei campi, esentandoli in parte dal pagamento delle imposte e cercando di supportarli nelle loro esigenze; quindi, aprí i granai reali e distribuí il frumento dei sovrani alla sua gente. Tali provvedimenti non erano certo risolutivi, ma erano la pezza per evitare il peggio e soprattutto conquistarono a Cleopatra il favore dei suoi sudditi, che, sentendo, forse per la prima volta, una regina a loro vicina e apprezzandone gli sforzi, senza ribellarsi lasciarono che ella s’imbarcasse anche nell’allestimento di una possente flotta. Le notizie che arrivavano dal mare ad Alessandria non erano certo confortanti. La crisi imperversava in tutto il Mediterraneo, come confermavano le voci al porto. Alcuni mercati erano stati chiusi, come quelli del Nord Africa, per far riserva soltanto a Roma, in Siria e altrove il prezzo del grano era arrivato addirittura a dodici dracme e la fame si pativa un po’ dovunque. C’era poi la guerra, pronta a esplodere da ogni lato. A occidente s’era combattuto a sangue fino a maggio per conquistare Munda e la momentanea tregua seguita a quel conflitto non prometteva per l’estate nulla di buono. Marco Antonio, nonostante fosse stato costretto alla ritirata, aveva trovato un nuovo alleato in Marco Emilio Lepido, ai bei tempi di Cesare magister equitum e ora governatore della Gallia Narbonense. Ai due si andavano unendo tutti i proconsoli delle province occidentali per far la guerra ai cesaricidi e alla fazione antiantoniana. A Roma, la gioia di Cicerone e dei senatori per la vittoria di Munda era durata appena pochi giorni. La città si trovava ormai senza i due consoli, morti entrambi in quella guerra, e il voltafaccia di Lepido e degli altri governatori lasciava inten147

cleopatra dere che quanto accaduto era solo un episodio di un conflitto che sarebbe stato piú grande. A complicare la situazione s’era messo pure Ottaviano. Il giovane, pur essendo stato promosso propretore per la sua partecipazione alla guerra e pur avendo ricevuto statue onorifiche e la concessione di poter partecipare alle cariche pubbliche con dieci anni d’anticipo rispetto ai limiti d’età previsti, dopo il ritorno vittorioso, aveva cominciato a tirar la corda e a rivelare la sua vera faccia: l’aspirazione ad assumere ruoli sempre piú sostanziosi e, a dispetto d’ogni norma, il desiderio di diventare console. Per il partito repubblicano la speranza stava ormai a Oriente, riposta soprattutto in Cassio che teneva la Siria contro Dolabella, il quale, giunto nella provincia, s’era accampato a Laodicea, una città sulla costa che affaccia su Cipro. Col cesariano si era schierata la regina d’Egitto restituendogli le legioni romane e promettendogli la flotta appena allestita. A causa dei venti che battevano il mare d’Alessandria, le navi erano ancora ferme in porto quando in luglio arrivò la notizia che Dolabella, vittima di tradimento, aveva perso Laodicea e, per non finire in mano a Cassio, si era fatto addirittura tagliar via la testa da un suo fedele luogotenente. Le brutte notizie non vengono mai da sole. Morto Dolabella, le truppe consegnate ad Allieno, senza alcun indugio, erano passate al vincitore, la gran parte dei regni orientali si era schierata con i repubblicani e, quello che per la regina fu il rospo peggiore, Serapione, che per conto della corona d’Egitto governava Cipro, aveva di suo fornito le proprie navi e l’appoggio dell’isola al nemico. Il tradimento del governatore era parecchio preoccupante. La regina aveva ancora nemici con cui fare i conti. In quei mesi, aveva appreso che, facendosi forte dell’antica leggenda secondo la quale chi nel Nilo è morto dal fiume rinasce, un tale andava spacciandosi per il fratello Tolomeo XIII, che vi era annegato ai tempi della guerra alessandrina e ora era tor148

iv. nel nome di cesare nato in vita per riprendersi il trono. Serapione con costui non aveva certo a che fare, ma poteva essere in contatto con l’unica persona ancora in vita che poteva aspirare al trono d’Egitto e legittimare l’azione del governatore contro Cleopatra. Efeso era piú vicina a Cipro di quanto lo fosse Alessandria. Lí Arsinoe, la giovane sorella della regina che aveva già manifestato le sue mire al trono e che Cesare aveva comunque risparmiato dalla morte, era salutata dal sacerdote del tempio come “regina d’Egitto”. Da lí la giovane poteva aver preso contatto col governatore dell’isola, di cui ai tempi era stata designata come regina, e i due forse avevano già avuto assicurazioni da Cassio sul trono d’Egitto. Mentre da Roma si guardava all’Oriente per sperare, da Alessandria Cleopatra cominciò a guardare all’Urbe, perché solo da lí poteva venirle l’aiuto contro Cassio. In quell’estate, qualcosa stava cambiando sul fronte cesariano. Marco Antonio aveva preso forza e Ottaviano era entrato in rotta con il Senato per via del consolato. Qualcuno s’era messo fra i due, c’era stato qualche segreto contatto e s’era raggiunto un accordo. Le frizioni e la guerra che c’erano state furono facilmente dimenticate. In politica, e spesso anche nella vita, accade proprio come dice il poeta: chi monta il cavallo chiamato “Proprio interesse” ha piú fortuna di quello che sceglie il cavallo che ha nome “Morale” perché questo, per quanto purosangue, va sempre piú piano e non porta come quello lontano. 4. Dentro la rivoluzione romana Nell’estate del 43 a.C. in Occidente la storia cambiava. In agosto, forte del suo esercito, dopo aver passato il Rubicone e aver marciato su Roma, il giovane erede di Cesare otteneva il consolato con il cugino Pedio e come primo atto faceva approvare la Lex Pedia de interfectoribus Caesaris, con la quale si 149

cleopatra istruiva una quaestio extraordinaria, un processo per direttissima, contro quanti avevano macchinato per l’uccisione di Cesare e in qualche modo, di mano o alle spalle, avevano partecipato alla congiura delle Idi. La volontà di vendetta stava nel personaggio, che, fin dal suo arrivo a Roma, come erede del dittatore aveva fatto d’essa la base della sua propaganda coi veterani e la buona gente, ma nei fatti la legge era il tradimento dell’alleanza con Cicerone e il partito repubblicano. Il provvedimento era innanzitutto un atto politico e poteva essere inteso solo in un modo. Ottaviano aveva preso un’altra strada, ben indicata dalla legge che configurava l’atto giudiziario come un processo non solo all’azione ma anche alle intenzioni e allargava il numero dei colpevoli ai potenziali mandanti o simpatizzanti, che – era questo quel che si leggeva – potevano essere condannati pure in contumacia, sulla base di una semplice denuncia, alla pena dell’interdizione dell’acqua e del fuoco e alla confisca di tutti i beni, il che voleva dire all’esilio e alla povertà. Poteva finire in questa trama anche chi con quei fatti non c’entrava. Capitò a Sesto Pompeo, il figlio del Magno, che al tempo dalla congiura era chilometri lontano. Si trovò fra i condannati per il semplice fatto che, mosso dalla smania di voler vendicare il padre, per i cesariani rappresentava una mina vagante pronta a far danno sia perché aveva avuto affidato dal Senato, proprio nel 43 a.C., il controllo di tutta la flotta romana occidentale, sia perché, per come era fatto, fra i due partiti avrebbe scelto di stare senz’altro con quello repubblicano. Tra le righe della legge c’era altro. Oltre a condannare i congiurati, revocava tutti i decreti emessi dal Senato contro Marco Antonio, Lepido e Dolabella: non erano piú considerati nemici della patria. La legge, insomma, mirava a ridimensionare il partito repubblicano, i cui maggiori rappresentanti, i congiurati Marco Bruto, Caio Cassio e Decimo Giu150

iv. nel nome di cesare nio Bruto, furono condannati fra i primi, perdendo insieme con la patria e i beni anche i diritti che vantavano per il governatorato di Macedonia, Siria e Gallia Cisalpina. Da qui la strada era aperta alle truppe di Marco Antonio e Lepido che, passate le Alpi, in autunno erano già in Italia per incontrare Ottaviano. I tre si trovarono insieme in novembre, per tre giorni, a parlare su un isolotto nel Reno, in un’ansa che il fiume forma nel tratto tra Bologna e Perniceto. Dall’incontro venne fuori una legge. Il tribuno della plebe Publio Tizio fu incaricato di proporla al popolo romano che la votò nel plebiscito del 27 novembre del 43 a.C. La Lex Titia istituiva una nuova magistratura, a carattere straordinario e per la durata di cinque anni, quella dei triumviri rei publicae costituendae, che venivano individuati nei tre novelli alleati della causa cesariana. Ai tre l’Urbe conferiva ufficialmente il mandato di ricostituire la Res publica e riportare la pace. Per iniziare si dovevano eliminare i nemici dello Stato, i cesaricidi che, uccidendo il dittatore, ormai padre della patria, avevano portato le armi fra i Romani e indebitamente occupavano le province d’Oriente e lí avevano assoldato truppe per prendere anche l’Urbe. Ai triumviri venivano riconosciuti pieni poteri nelle decisioni di politica estera e la facoltà di indicare i candidati delle magistrature tradizionali. Si dividevano l’imperium sulle province occidentali. Quello sulle Gallie, Cisalpina e Comata, toccava a Marco Antonio, quello sulla Narbonense e sulla Spagna a Lepido, e quello sull’Africa con Sardegna e Sicilia a Ottaviano. Era stato partorito un nuovo mostro a tre teste, che, forte dei poteri conferitigli dal plebiscito, si alzava ora tremendo sulla città e verso il Mediterraneo. Il giorno dopo la nomina, il 28 novembre, i tre magistrati rendevano pubblica una lista coi nomi di centotrenta cittadini, fra cavalieri e senatori. Era la prima di una serie. La seconda con centocinquanta nomi apparve qualche tempo dopo e 151

cleopatra ne seguirono altre fino a raggiungere il numero di trecento senatori e duemila cavalieri, tutti cittadini condannati alla proscrizione. In vista della guerra in Oriente, per vendicare Cesare e, soprattutto, per racimolar denari, il mostro seminava terrore e morte. Con un accorto e spietato provvedimento di legge i triumviri chiamavano i Romani al delitto e alla delazione, minacciavano di metter nell’elenco chi a uno di quei disgraziati avesse offerto un qualche aiuto, una speranza anche minima di salvezza, e promettevano ricompense per chi avesse ucciso un proscritto. Per ogni testa consegnata ai tre magistrati il premio era allettante: venticinquemila dracme attiche a ogni uomo libero; la libertà, diecimila e il riconoscimento dello status sociale che era stato dell’ucciso a ogni schiavo. Fra i primi, diciassettesimo nome della prima lista, cadde Cicerone, il grande consolare nemico giurato di Marco Antonio che Ottaviano tradiva per la seconda volta destinandolo alla morte. Poi vennero tutti gli altri, fra i piú ricchi cittadini. I loro beni confiscati per legge servirono solo in minima parte per pagare quelli che ne erano stati sicari, il resto finí nelle casse del triumvirato. Se a Roma il mostro faceva paura, in Egitto, per Cleopatra, era una speranza cui affidarsi. Nei mesi dopo i fatti di Laodicea, Cassio aveva dalla Siria cominciato a far pressioni per avere la flotta che l’Egitto aveva promesso a Dolabella. La regina, che temeva dopo il tradimento di Serapione un’intesa fra la sorella Arsinoe e il cesaricida e non si sentiva probabilmente di fidarsi di chi le aveva ucciso il compagno, per togliersi dall’impaccio, aveva rifiutato l’appoggio rispondendo che il suo paese stava attraversando una crisi troppo grande e la carestia, la fame e le malattie che affliggevano la sua gente non le permettevano di impegnarsi in un conflitto. Il Romano non le aveva creduto. Alle richieste pacifiche aveva fatto seguire la minaccia di dichiarare guerra. 152

iv. nel nome di cesare In Egitto era Cassio il mostro che faceva paura. Le notizie correvano veloci in quel tratto di Mediterraneo e davano fama agli atti di violenza e alle spogliazioni e stragi che egli andava compiendo, forte di un esercito ben addestrato e dell’appoggio terribile dei Parti. Gli Ebrei, i Rodesi e i Cappadoci ne avevano fatto esperienza e si sapeva bene quanto il cesaricida agisse di forza sui regni e sulla gente. Ciò che accadeva a Roma probabilmente lo preoccupava e aveva cominciato a temere per il mantenimento della sua posizione, a irrompere nei paesi che avrebbero potuto allearsi coi cesariani e a far lí bottino di armi e denari per la guerra prossima ventura. Sapendo dell’appoggio della regina a Dolabella, la flotta egizia era diventata troppo importante e gli sembrava allettante poter metter mano sui tesori del regno piú ricco di tutto l’Oriente. Cleopatra sapeva bene che ormai toccava all’Egitto e sapeva che non sarebbe stata in grado di opporre una qualche resistenza. Guardava a occidente e sperava in un intervento dei nuovi padroni di Roma. Non sbagliava. Furono i triumviri a salvarla. Proprio quando Cassio era pronto ad attaccare l’Egitto, fu convocato d’urgenza dall’altro cesaricida perché Marco Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido a difesa della penisola, avevano passato l’Adriatico e muovevano contro la Macedonia. L’Egitto fu chiamato di nuovo nel gioco della guerra romana e prese partito coi cesariani assicurando il proprio sostegno e il suo famoso naviglio. La regina in persona mosse alla guerra come ammiraglia della sua flotta. Il suo era un contributo importante, ma l’impresa era difficile. Bisognava affrontare innanzitutto il mare e i suoi umori autunnali. E poi c’era Cassio, che, prevedendo la mossa, aveva collocato al largo di capo Tenaro, porta meridionale della Grecia per il Peloponneso e il mar Egeo, sessanta navi e una legione col compito di controllare quell’accesso e impedire che i rinforzi 153

cleopatra egizi potessero raggiungere i triumviri. La regina doveva necessariamente passare di lí, perché gli eserciti romani si erano schierati nei pressi di Filippi, città della Macedonia, su un’altura presso la via Egnazia, ai confini con la Tracia e non lontana dalla costa. Con l’ammiraglio di Cassio, però, non ci fu alcuno scontro. Durante la traversata, prima di raggiungere Tenaro, Cleopatra era stata sorpresa da una tempesta che fece a pezzi buona parte della sua flotta ed era stata poi toccata da un male che le aveva tolto la forza di continuare. Con quel che restava delle sue navi aveva deciso di rientrare in Egitto per rimettersi dalla malattia e rinnovare il naviglio. A fine ottobre, la regina era di nuovo pronta alla partenza, ma di lei, dall’altra parte del Mediterraneo, nella guerra romana, non c’era piú bisogno. A Filippi la guerra era ormai conclusa. Si era risolta in due grandi scontri, a inizio e a fine ottobre, e sulla piana aveva lasciato migliaia e migliaia di caduti dell’una e dell’altra parte, un’immensa “tomba di cittadini” romani. Fra i morti anche Cassio e Bruto: avevano preferito il suicidio alla possibilità di finire prigionieri e vittime dei nemici. La Repubblica restava in mano ai triumviri, che da quel campo di morte potevano vantarsi di aver finalmente vendicato l’uccisione di Cesare, già padre della patria e consacrato divo nel gennaio di quell’anno, e aver con ciò riconquistato ai Romani la pace. Per Cleopatra era una buona notizia solo in parte perché, pur avendo preso posizione contro i cesaricidi, in concreto non aveva mantenuto i suoi impegni e poteva esser chiamata a rispondere nei nuovi rapporti che avrebbe dovuto intavolare con l’Urbe. Seppe presto che, dopo la vittoria, avendo ripulito la scena romana dalla presenza dei principali avversari, i triumviri avevano messo mano al resto del loro programma e al piú importante compito che gli era stato affidato: costruire la pace ricostituendo lo Stato. All’indomani di Filippi, an154

iv. nel nome di cesare cora in Macedonia, Marco Antonio e Ottaviano, a dispetto di Lepido che stava in Italia, avevano concordato una nuova spartizione dei territori romani fra i triumviri e diviso fra loro i principali compiti per dar corpo alla pacificazione. La spartizione riguardava solo l’Occidente che finiva diviso in tre parti: la Spagna e la Numidia a Ottaviano, la Gallia a Marco Antonio e l’Africa a Lepido. Quanto ai compiti, restavano alcune urgenze cui provvedere. Il Mediterraneo occidentale era infestato dalla flotta di Sesto Pompeo, che, ultimo avversario rimasto a difesa delle posizioni repubblicane, in Sicilia, dove si era acquartierato dopo esser stato dichiarato nemico pubblico, accoglieva, già dal tempo delle proscrizioni, gli irriducibili partigiani del partito dei congiurati, gli scampati alla condanna a morte e i reduci di guerra, e da lí compiva atti di pirateria contro le navi dirette a Roma. Per la pace era necessario toglierlo di scena e il compito era stato assunto da Ottaviano, che, rientrando, doveva anche provvedere a ricompensare i veterani con la distribuzione delle terre che nella penisola gli spettavano come premio. Marco Antonio nel frattempo si sarebbe occupato dell’Oriente, dove l’azione di Bruto e Cassio aveva coinvolto molti governatori provinciali e quasi tutti i sovrani dei regni alleati. Lí era necessario riportare l’ordine di Roma, cercando anche di approfittare delle ricchezze orientali per recuperare quanto giovava a pagare i soldati che, allettati dalle promesse di laute ricompense e donativi, avevano per i triumviri combattuto e, non corrisposti, avrebbero potuto ribellarsi e imbracciare le armi a difesa del loro tornaconto. A Marco Antonio doveva quindi guardare Cleopatra. 5. Marco Antonio, triumviro d’Oriente La regina conosceva il triumviro da tempo. Il loro primo incontro risaliva addirittura al 58 a.C., all’anno in cui i gabi155

cleopatra niani avevano rimesso sul trono Tolomeo XII. Cleopatra aveva all’epoca appena quattordici anni e Marco Antonio ventisette. Entrambi si affacciavano sulla loro vita. La principessa lagide tra congiure e stragi e guerre, col sangue di tanti che le colava attorno da ogni parte e con la paura che si prendeva la sua adolescenza, in quella stagione veniva scelta come erede al trono e apprendeva i primi rudimenti di politica per mantenere il regno: il potere, per essere e restar tale, non deve farsi scrupolo d’accompagnarsi con la crudeltà o la morte. I sovrani d’Egitto inoltre dovevano imparare a tener buona l’Urbe, saper intrecciare con essa un rapporto e riuscire a farne uso a proprio vantaggio. Marco Antonio, nel 58 a.C. comandante della cavalleria di Gabinio, iniziava proprio allora a fare i primi passi a Roma dove sapeva già bene che la gloria militare era un buon biglietto per far carriera nella politica e accedere alle magistrature della repubblica. Il giovane, nell’impresa egiziana, si era distinto per il coraggio, l’abilità e la generosità nel risparmiar la vita o rispettare la dignità degli sconfitti, e aveva conquistato, roba rara per un cittadino romano, la simpatia degli Alessandrini. Dopo la reintegrazione del re aveva lasciato il paese continuando per un’altra strada. Nella principessa e nel cavaliere, stretti nell’urgenza della situazione e dal rispetto dei ruoli, quel primo incontro deve quindi aver lasciato la traccia che può restare dopo una lieve infatuazione o per l’entusiasmo che dà una prova superata. Quel che nel 42 a.C. la regina sapeva del triumviro le veniva da quanto probabilmente le aveva raccontato Cesare e dalla frequentazione che ne aveva fatto durante i soggiorni romani. Marco Antonio, allora delfino del dittatore, non avrà certo disertato le serate conviviali organizzate dalla regina nella villa agli Orti e i due probabilmente si poterono trovare piú volte a parlare. Uomo di guerra e di piacere, intrepido e coraggioso nell’una quanto gozzovigliatore e compagnone 156

iv. nel nome di cesare nell’altro, impavido e ardimentoso fino allo stremo quanto amante di letto gioco e scherzo, ingenuo quanto scaltro, spesso vanitoso, a volte tracotante e sempre generoso, spendaccione oltre la misura e libertino impenitente ma anche amico sincero e nemico leale, impetuoso ma onesto, crudele a volte ma pietoso e rispettoso d’ogni altro . . . Marco Antonio era nato per stare sulla scena, eroe di guerra e campione delle cronache mondane. Fra i triumviri era il miglior referente che a Cleopatra potesse capitare per farne un possibile alleato e forse un amico, ma era pur sempre un romano con in mano le sorti dell’Oriente e la fame d’oro in corpo. Le notizie che di giorno in giorno giungevano ad Alessandria dalla Grecia e poi dall’Asia erano a doppio taglio, confortanti quanto preoccupanti. In Grecia Marco Antonio si era recato dopo Filippi e vi aveva trascorso tutto l’inverno, piacevolmente impegnando il suo tempo fra conversazioni letterarie e spettacoli agonistici e iniziazioni misteriche, e agendo con tanta equità e dispensando tali doni che si era conquistato il titolo di amico dei Greci e degli Ateniesi in particolare. A primavera era passato in Asia. Il suo compito era chiaro: era lí per il ricambio dei ruoli e per punire i traditori. Doveva nominare i giusti governatori e clienti, tessere nuove e piú salde alleanze, concedere qualche immunità e, soprattutto, batter cassa con esazioni piú intense e straordinarie. A ogni soldato che per i triumviri aveva combattuto erano state promesse ben cinquemila dracme, pari a cinquemila denari e a ventimila sesterzi, a somma fatta erano parecchi soldi. Poi c’erano i Parti che si erano fatti coraggio alleandosi con Cassio e ora premevano al confine. Nel segno di Cesare bisognava farli indietreggiare, vendicando anche lo sfregio della testa di Crasso che a suo tempo avevano impalato dopo averla spiccata dal resto e averla riempita di incandescente oro fuso. Marco Antonio attraversò tutta l’Asia da Pergamo alla Cilicia, passando per Rodi, la Licia e la Frigia, Misia Galazia e 157

cleopatra Cappadocia. Con chi gli aveva combattuto contro nelle file dei cesaricidi fu umano e sanguigno, perdonò con liberalità chi gli si presentò innanzi supplice e pentito, ma nel nome di Cesare condannò senza pietà chi aveva partecipato o era stato complice nella congiura delle Idi. Tra i popoli quanti avevano sofferto le razzie e la violenza dei cesaricidi Bruto e Cassio ricevettero alcuni benefici: i Rodesi, ad esempio, furono gratificati col dono di Andro e Teno e Mindo e Nasso; in Licia Xantho, da Bruto distrutta, fu ricostruita e la popolazione di tutta la regione fu resa immune dal versar tributi; Laodicea, che aveva subito l’assedio di Cassio, fu fatta libera ed esentata dal pagar dazi come fu poi anche per Tarso. Con altri, province romane e regni vassalli, il suo atteggiamento fu piú duro: pretese imposte straordinarie gravosissime, lasciò che i suoi uomini, magistrati e pubblicani quanto ufficiali e appaltatori, a suo nome facessero il bello e il cattivo tempo per prender questo e quello. Egli stesso compí qualche ingiustizia di troppo come quando a Magnesia tolse la casa a un cittadino per farne dono a un cuoco che gli aveva offerto per pranzo qualche prelibatezza. Erano fatti di cui arrivava notizia ad Alessandria, ma c’era anche altro che veniva raccontato. Dalla Grecia venendo in Asia, Marco Antonio si era presentato ed era stato acclamato come un novello Dioniso, e come il dio aveva poi dimostrato di saper essere benefico e soave quanto crudele e selvaggio. A Efeso era entrato preceduto da un corteo di giovani donne in veste di Baccanti e di fanciulli abbigliati da satiri o come il dio Pan, e tutt’intorno rami d’edera e tirsi e una festa di cetre zampogne e flauti. Nelle altre città d’Asia, lo spettacolo non era stato diverso. Cosí si usava in Oriente coi potenti e al triumviro, che vi arrivava col potere piú grande e amava vantarsi come discendente di Eracle per gens e sangue, non dovette dispiacere esser tenuto per dio e come un dio potersi comportare. Anche queste notizie arrivavano in Egitto. Per Cleopatra 158

iv. nel nome di cesare si apparecchiava il tavolo su cui poter giocare la sua carta, quando di lí a poco si presentò alla sua corte un messo romano. Marco Antonio, pensando alla destinataria dell’ambasciata, aveva scelto all’impresa Quinto Dellio, un romano della pasta del tempo, che, dopo aver fatto un balletto fra i vari fronti della guerra civile, era approdato momentaneamente nel corteggio del triumviro e gli aveva promesso i suoi servigi d’uomo dotto quanto pronto al calcolo e all’adulazione. Il novello dio d’Oriente, il triumviro Marco Antonio, convocava a Tarso, dove si era alloggiato, la regina d’Egitto Cleopatra perché ella rispondesse del ruolo tenuto nella guerra romana tra cesaricidi e cesariani e quindi dell’accordo con Dolabella, della defezione delle quattro legioni affidate ad Aulo Allieno e della flotta cipriota di Serapione a favore di Cassio, del mancato intervento a Filippi e della fedeltà al triumvirato. Dellio doveva saper portare questa ambasciata, dire e non dire a un tempo, esser cortese e spregiudicato, quello che di fatto probabilmente gli veniva meglio. L’invito sotto sotto era un’ingiunzione e la richiesta di chiarimento e giustificazione cui era chiamata Cleopatra definiva bene il piano subalterno sul quale era posta. Marco Antonio sapeva che bisognava prendere la regina in un certo modo per addomesticarla alla situazione, in modo da restare il suo unico referente romano e poter con lei stringere un’alleanza personale. Dellio aveva il compito di blandire la regina e, per indorare la pillola che le portava, s’industriò a rappresentare il triumviro come il piú amabile e benevolo dei comandanti. La esortò quindi a farsi bella e a non temere l’incontro, perché nulla quel tal uomo le avrebbe mai fatto di male. Toccava anche alla regina d’Egitto passare sotto il giogo del triumviro romano e far atto d’obbedienza, ma i modi cortesi e le parole con cui il messo l’incoraggiava rivelavano altro. La solfa alla fine era sempre la stessa e Cleopatra la cono159

cleopatra sceva bene: Roma era grande e potente e Marco Antonio la rappresentava, ma l’Egitto era troppo ricco e ben posizionato e il triumviro ne aveva bisogno sia perché s’era impegnato a far la guerra ai Parti e gli giovava poter batter lí cassa e avere una base, sia perché averne l’appoggio avrebbe potuto far la differenza nei rapporti e nei ruoli all’interno del triumvirato. Su questo tavolo per una donna come Cleopatra era facile trovare l’occasione per giocare ancora una volta la carta del talento. A Tarso, al novello Dioniso avrebbe ricordato di essere Iside-Afrodite, la dea amabile che coi suoi doni conquista uomini e dèi, la dea della vita e della rinascita, la dea piú cara lungo il Nilo e amata in tutto l’Oriente, la dea con cui quel certo dio, Dioniso che per gli Egizi era Osiride, avrebbe fatto bene a far coppia. 6. I giorni di Tarso: l’incontro Era ormai estate quando Cleopatra giunse in Cilicia e per raggiungere Tarso risalí il fiume Cidno, lungo il cui corso quella città aveva il suo porto. Da quando Dellio si era presentato ad Alessandria era passato già un bel po’ di tempo e molte lettere del triumviro e di altri Romani l’avevano raggiunta per sollecitarla a far presto. L’attesa, talvolta, è l’arma migliore per toccare il proprio avversario e la regina, che probabilmente lo sapeva, aveva lasciato Alessandria con tutta calma, quando piú le era stato comodo, e di quelle lettere non s’era punto curata. Con sé portava un vero e proprio tesoro: doni gioielli e ornamenti, tanti e tali come solo il regno piú ricco e potente poteva averne, e denaro da far brillar gli occhi e comprare gente su gente. Una dea giungeva in Asia, dal mare, e la nave che la portava era immensa e tanto bella che mai se n’era vista una uguale: d’oro aveva la poppa e alte vele purpuree spiegate contro 160

iv. nel nome di cesare il vento fino al cielo. Remi d’argento, splendidi di riflessi al sole, battevano le acque al suono di flauti e cetre e zampogne. Tutt’intorno emanava lungo le sponde del fiume un incantevole profumo di essenze e aromi bruciati. Meravigliose fanciulle, le piú belle fra le ancelle della regina, stavano al timone o alle funi come fossero Nereidi o le Grazie. Un corteggio di ragazzetti, i piú graziosi tra gli schiavi di corte, facevano ala ai due lati d’uno splendido baldacchino tutto ricamato d’oro e, come deliziosi Amorini, sventagliavano verso il centro della tenda, dove, cosí come la si vedeva nei dipinti, stava sdraiata la dea: Cleopatra che era Iside e Afrodite passava per l’Asia. Nel breve tratto del Cidno che dalla foce portava a Tarso tutte le genti erano accorse a vedere il gran spettacolo della dea venuta in terra e la voce s’era presto diffusa ed era arrivata in città prima ancora della nave. Quel giorno il triumviro era impegnato a sbrigare faccende di amministrazione e giustizia nella piazza del mercato, già piena zeppa di gente quando giunse la notizia. Di bocca in bocca corse veloce come può il vento. Come una piena tutti si precipitarono al fiume e lasciarono solo Marco Antonio: Afrodite era giunta con tutto il suo corteo di Nereidi e Grazie e Amorini e veniva proprio a Tarso a incontrare Dioniso per il bene dell’Asia. Lungo le sponde e al porto l’entusiasmo e il tripudio della gente, conquistata da tanta grandezza e dalla bella promessa che portava, erano esplosi come un’immensa festa che, presto, avrebbe varcato i confini cittadini per diffondersi in tutta la regione. Cleopatra aveva fatto sua la scena e spiazzato Marco Antonio. Era evidente che la regina non era venuta con tutto quell’apparato per piegarsi obbediente a Roma, come gli altri sovrani d’Oriente prima di lei convocati. Quello stesso giorno, per non venir meno alla dignità del suo ruolo di dea, non si degnò di annunciarsi al Romano né tanto meno si recò a ossequiarlo come d’uopo con una visita o altro omaggio. Fu Marco Antonio, vista la situazione e dopo aver atteso un pez161

cleopatra zo, a dover fare il primo passo pregandola di raggiungerlo a pranzo. E fu solo allora che Cleopatra lo prese in considerazione, ricusando però l’invito e chiedendogli piuttosto di accettare per la sera di essere suo ospite a banchetto. La Thalamegos della regina era arrivata con una scorta di altre navi a seguito, con tutto il necessario per metter su lo spettacolo. Quella sera la meraviglia fu allestita per Marco Antonio soltanto. Il triumviro, cosí si racconta, fu preso da un fantasmagorico gioco di luci che raggiavano tutt’intorno, sparse con arte per la sala, a terra a disegnar cerchi o quadrati o altre forme e pendenti dal soffitto, luccicando da specchi o nei riflessi dei tanti ori e degli argenti. La scena era probabilmente completata da splendidi arredi tempestati di gioielli o ricamati d’oro e argento e dalle piú preziose stoviglie. Un soave profumo doveva spargersi per la sala, dove fanciulli bellissimi, efebi o ancelle, stavano pronti a rispondere a ogni cenno dei commensali o andavano e venivano per portare squisite pietanze o mescere vini prelibati. Cosí Cleopatra, la dea d’Egitto, accoglieva il divino Marco Antonio e a lui di tutto quel tesoro di oggetti fece poi dono. Cosa fra i due successe e quanto si dissero in quella sera non sappiamo, ché gli autori antichi nulla riferiscono al riguardo. Nei loro racconti si dice d’un secondo appuntamento per la sera successiva e di come Cleopatra, ospite di nuovo, per imbandire una cena piú degna della grandezza dell’eroe di Filippi, abbia superato lo sfarzo del primo incontro, e a tutti gli invitati, il triumviro col suo corteggio di ufficiali e magistrati locali, abbia donato a fine serata i divani sui quali ognuno aveva cenato e gli stupendi piatti, le coppe d’oro e tutto il vasellame pregiato che ciascuno aveva usato. La regina aggiunse la lettiga coi suoi portatori, che aveva destinato per i personaggi piú influenti, splendidi cavalli arabi con barde d’argento, che aveva voluto per tutti gli altri, e gli schiavi 162

iv. nel nome di cesare etiopi che accompagnarono ogni invitato a casa reggendogli fiaccole a illuminar la notte. Ci furono altre due serate a Tarso fra Cleopatra e Marco Antonio. Il terzo giorno fu il triumviro a voler ricambiare la generosità della regina. Nonostante gli sforzi per recuperare da tutta la regione il meglio che potesse essere offerto, la serata riuscí dal confronto con le precedenti alquanto modesta e, a quel che ci vien detto da chi poi ne scrisse, il Romano ci scherzò sopra ironizzando allegramente sulle proprie disponibilità e sulla miseria e rozzezza della sua accoglienza. Era nella semplicità di modi e d’animo una delle qualità di Marco Antonio e forse fu quella che piú delle altre saldò successivamente il suo rapporto con la regina, la quale, comunque, a Tarso chiuse la partita il quarto giorno con una festa piú ricca e bella delle precedenti. Per allestirla, ci vien detto, Cleopatra superò se stessa e spese addirittura un talento, una cifra enorme, per comprare rose con cui fare un tappeto d’un cubito d’altezza e festoni appesi alle pareti e sparsi per tutta la sala. Il giorno dopo la regina d’Egitto partí per rientrare ad Alessandria. Del suo soggiorno in Cilicia e dell’incontro con Marco Antonio resta poco nelle fonti antiche, stralci da cronaca mondana, in cui tra le rose di Tarso coloro che ne hanno scritto si sono dilettati a far sbocciare fra la donna e l’uomo quel fiore strano e vago che è l’amore. È senz’altro bello immaginare che in quella cornice abbia avuto principio una delle vicende d’amore piú affascinanti della storia umana, ma è bene anche pensare che fra i due prima del sentimento ci sia stato altro, di piú importante e urgente. In quell’occasione Marco Antonio e Cleopatra si preoccuparono innanzitutto di mantenere il loro ruolo di triumviro e regina, e fra loro, giocando una partita di strategia, sciolsero i nodi della questione e trovarono verosimilmente un accordo. La sovrana d’Egitto, convocata per chiarire la sua posizione nella faccenda della guerra civile romana, seppe con ogni 163

cleopatra probabilità discolparsi dalle accuse di opportunismo cui poteva far pensare la sua assenza da Filippi e fugare gli ultimi eventuali sospetti che potevano far dubitare della sua fedeltà. Accordò o, comunque, promise al triumviro il suo appoggio di base e denari per la guerra contro i Parti. Certo è che lasciò la Cilicia da amica e, come tale, ottenne anche qualche favore. Dopo l’incontro di Tarso, per ordine del triumviro, a Efeso Arsinoe IV fu uccisa da sicari romani e con lei trovò la morte il sacerdote del tempio che l’aveva salutata come regina d’Egitto; ad Aradnos, in Fenicia, fu scovato e fatto fuori quel tale che si spacciava per Tolomeo XIII. Cleopatra rientrò in Egitto con la legittimità sul trono assicurata e, probabilmente, mantenne il controllo di Cipro, il cui governatore, il traditore Serapione, cadde anche lui assassinato e probabilmente vittima dell’accordo col triumviro. Marco Antonio rimase a Tarso a sbrigare le questioni d’Oriente, perché in Giudea bisognava assicurare il regno a un buon cliente, in Siria mancava il governatore e contro i Parti c’era la guerra da organizzare. Fra i due c’erano altri punti da mettere in chiaro per saldare l’accordo, forse già un sentimento o una simpatia, certo la promessa di ritrovarsi. Lasciando Tarso, la regina aveva invitato il triumviro a raggiungerla ad Alessandria per trascorrere insieme l’inverno ormai alle porte.

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V UNA NUOVA ERA: CON MARCO ANTONIO 1. La vita inimitabile La vita è una pedina che si gioca una volta e basta, puntando sul tavoliere la sola cosa che possediamo e che è preziosa. Cosí aveva a un dipresso scritto Antifonte sofista, che sapeva che nel gioco come nella vita non si può tornare indietro una volta che si è fatta una mossa e che il tempo è il solo bene che ciascuno possiede, il solo che alla fine vale davvero. Nella Vita d’Antonio Plutarco lo cita per dar sostanza alle parole di biasimo che indirizza al triumviro per quanto fece nei mesi in cui fu ospite di Cleopatra, tra l’autunno del 41 a.C. e la primavera del 40 a.C. Per il suo biografo, Marco Antonio, trascurando i suoi doveri e non preoccupandosi di quanto accadeva ai confini orientali e in Italia, si comportò come un ragazzetto senza pensieri dedito solo a quel che gli può dar piacere e, standosene in Egitto, consumò scialacquandolo con la regina tempo prezioso che non andava sprecato. Per tanti, come per Plutarco, il comportamento di Marco Antonio in quella stagione della sua vita fu deplorevole, per tanti egli avrebbe dovuto occuparsi d’altro ed essere piú accorto e attento, per tanti egli allora fece la mossa che avrebbe segnato tutta la sua strada: ai Parti e alle faccende d’Italia preferí Cleopatra. Per la regina e il triumviro invece era quella la pedina da giocare sul tavoliere, la mossa necessaria per saldare fra loro il legame stretto a Tarso, un dovere della politica e dell’affetto. Marco Antonio arrivò in Egitto in autunno, dopo aver alloggiato le truppe in varie regioni d’Asia per lo svernamento e senza lasciarsi alle spalle molte preoccupazioni, perché 165

cleopatra grosso modo aveva sistemato gli affari piú urgenti e non aveva molto altro da fare in vista della campagna contro i Parti in primavera. Aveva quarantadue anni ed era uno degli uomini piú potenti del mondo, vantava una carriera militare di tutto prestigio e a Roma come triumviro aveva il sommo potere insieme agli altri due colleghi della magistratura. Ciò nondimeno, scendendo al porto di Alessandria, egli si mostrò in abiti da privato, coi bianchi calzari alla greca che andavano di moda anche in Egitto e senza insegne e soldati appresso. Il Romano conosceva la Grecia e l’Oriente e degli Alessandrini aveva già fatto esperienza e doveva anche conoscere molto bene i fatti della guerra che contro quelli Cesare aveva combattuto a suo tempo, quando in bella parata d’armi e fasci littori era giunto da Farsalo. Il triumviro, invece, veniva da ospite, amico e alleato, e come tale fu accolto dalla sovrana e dalla sua gente, con grande magnificenza e in gran pompa, com’era d’uso in Egitto. Di quei mesi sappiamo qualcosa appena, quanto basta per credere che rispetto all’accoglienza e ai giorni alessandrini le feste di Tarso furono poca cosa. Splendida nei suoi ventotto anni, nell’età in cui per una donna la bellezza fiorisce e l’intelligenza matura, maestra nell’arte della cosmesi e regina del regno piú ricco d’Oriente, con corte in quella che al tempo era la capitale della cultura, Cleopatra, forse, come qualcuno ha malignato, per adulazione e certo, com’è facile immaginare, per amore volle offrire al suo amico il meglio e per lui seppe escogitare ogni forma di attrazione e divertimento. I due stavano sempre insieme, di giorno come di notte, a godere di quanto poteva offrire Alessandria. Frequentavano i ginnasi e il Museo, assistevano a conferenze e lezioni di filosofi e oratori, visitavano i templi e i monumenti piú belli. Giocavano anche ai dadi o andavano a caccia o a pesca o alla palestra, dove Marco Antonio si addestrava negli esercizi militari. 166

v. una nuova era: con marco antonio I pranzi poi erano luculliani e si dice che i due si invitavano reciprocamente, gareggiando in spese incredibili e smisurate. Plutarco racconta quanto il nonno Lampria aveva appreso da un suo amico, tal Filota di Anfissa, che da giovane era andato a studiare medicina ad Alessandria e lí aveva stretto amicizia con un cuoco di corte. Filota una sera era stato nelle cucine dei Basileia invitato dall’amico ad assistere ai sontuosi preparativi per una cena di Marco Antonio e Cleopatra. La favola di quei banchetti correva per la città e Filota vide con i suoi occhi lo sfarzo e lo spreco. Sugli spiedi arrostivano ben otto cinghiali e vivande d’ogni tipo cuocevano tutt’intorno. Curioso, alla vista di tanta abbondanza, di quanti potessero essere gli invitati, il giovane studente ne aveva domandato all’amico: i commensali per quella sera sarebbero stati al piú una dozzina. Nella cucina di corte si lavorava senza sosta per soddisfare ogni capriccio dei convitati e per un banchetto si cucinava come per dieci cosí da essere pronti a servire le vivande al momento opportuno, quando fosse comodo ai signori, sempre al punto giusto di cottura. Erano di questa portata le cene degli amimetobioi (‘i viventi inimitabili’), un circolo particolare che raccoglieva attorno a Cleopatra e Marco Antonio gli amici di quelle sere e dell’idea d’una vita da vivere a pieno, senza freno e nella gioia del piacere . . . inimitabile per i comuni mortali come quella che si poteva immaginare per gli dèi. Di tanto in tanto, soprattutto di notte, i due dèi scendevano in terra e, vestiti degli abiti piú poveri e laceri, come due servi d’infimo grado, se ne andavano giocando per la città a far scherzi agli Alessandrini che, importunati nel mezzo del sonno e ignorando l’identità dei due rompitasche, li ricambiavano sempre a insulti e spesso a botte. Fra i giochi e le feste, la regina e il triumviro non devono aver dimenticato i loro ruoli e i doveri che li attendevano: all’orizzonte stava la campagna contro i Parti che Marco An167

cleopatra tonio avrebbe condotto con l’aiuto di Cleopatra e, forse, fra loro condividevano lungo quella via anche altri sogni di conquista. Plutarco racconta un fatto in cui nell’atmosfera di scherzo è possibile rintracciare il peso della responsabilità e il tarlo dell’ambizione. Un giorno, mentre erano a pesca, Marco Antonio che non tirava alla lenza un sol pesce, per far bella figura con la compagna, aveva corrotto alcuni pescatori convincendoli a tuffarsi in acqua e a infilzare di nascosto al suo amo i pesci piú belli e grossi che avevano pescato in quella giornata. Il trucchetto non era sfuggito alla regina, la quale, senza prendersela e fra sé sorridendo di quell’ingenuità, aveva finto entusiasmo e lodato l’amante con gli amici fino al punto da organizzare per il giorno successivo un’altra giornata di pesca con tutta la compagnia in barca. All’indomani, tornarono a pescare perché Marco Antonio potesse dar spettacolo ed essere da tutti ammirato, ma quando il triumviro davanti alla folla in attesa tirò fuori dall’acqua la sua lenza, tra le risate generali trovò all’amo un bel pesce del Ponto in salamoia. Gli uomini di Cleopatra s’erano mossi prima di quelli di Marco Antonio e, mentre lui rimasto di stucco guardava la preda, lei gli si era avvicinata e pubblicamente l’aveva confortato ricordandogli che la canna da pesca poteva esser l’arma della gente di mare, degli Egizi di Canopo o di Faro, e non di un grande generale, destinato a far preda di città e regni e regioni. Marco Antonio aveva programmato per la primavera l’impresa piú grande, quella che aveva tentato Crasso e quella che Cesare aveva sognato, la conquista della Partia, e Cleopatra, che lo sapeva e che con lui condivideva quel sogno, glielo aveva ricordato fra le righe di uno scherzo. La vacanza alessandrina si concluse prima del previsto. Fra febbraio e marzo Marco Antonio fu raggiunto da notizie sempre piú preoccupanti. In Oriente, Quinto Labieno, un repubblicano che Cassio aveva al tempo inviato presso i Par168

v. una nuova era: con marco antonio ti a concordare l’alleanza e che dopo Filippi aveva cercato lí rifugio per scampare alla vendetta dei triumviri, insieme a Pacoro, figlio del re partico Orode II, aveva approfittato dell’inverno per avviare le manovre di conquista dei territori romani. In breve e con successo i Parti erano entrati in Siria dove avevano conquistato Apamea, messo in fuga il governatore romano e guadagnato le legioni lí stanziate che avevano deciso di seguire Labieno. Labieno e Pacoro si erano poi divisi: il primo s’era diretto con le sue truppe a nord, conquistando la Cilicia e l’Asia Minore; il secondo s’era spinto a sud, prendendo la Palestina e invadendo la Giudea. Qui la sistemazione che il triumviro aveva dato prima di raggiungere l’Egitto, mettendo sul trono Icarno II e affiancandogli come tetrarchi i due figli di Antipatro di Ascalona, Fasaele ed Erode, era stata stravolta da Pacoro che aveva arrestato il sovrano, ucciso Fasaele, costretto alla fuga Erode e messo sul trono Antigono II, figlio di Aristobulo II, che poteva vantare di appartenere alla famiglia degli Asmonei ed era un fido alleato dei Parti, tanto da poter essere considerato non piú che una marionetta nelle loro mani. La situazione rischiava di travolgere tutto l’Oriente e preoccupava soprattutto la regina d’Egitto, che, vista la vicinanza del suo regno a quei territori, impegnò subito una flottiglia di duecento navi e un buon contributo economico per appoggiare l’amico e amante. Marco Antonio, chiamato alle armi, lasciò in gran fretta l’Egitto per raggiungere l’Asia Minore e organizzare la resistenza. Apprese con grande sconforto che la situazione era piú grave di quanto potesse immaginare e che il peggio per lui era accaduto in Italia. Senza che ne sapesse cosa, la moglie Fulvia e il fratello Lucio Antonio avevano preso partito e armi contro Ottaviano che in Italia, territorio sotto la giurisdizione di tutti i triumviri, aveva fatto come fosse cosa sua. Per ricompensare i centomila veterani portati con sé da Filippi 169

cleopatra aveva espropriato terre a destra e a manca, creando un gran malcontento e dimostrando di infischiarsene degli accordi e di volersi impossessare delle aree migliori per darle ai suoi. Lucio Antonio, nel 41 a.C. console, e la cognata avevano raccolto le file dell’opposizione tra senatori ed espropriati, avevano combattuto per tutto l’inverno a Perugia ed erano stati alla fine amaramente sconfitti da Ottaviano dopo un assedio di mesi, presi dalla fame. Marco Antonio doveva risolvere la questione romana prima di combattere i Parti. Aveva lasciato l’Asia Minore, era passato per Atene, dove aveva avuto l’ultimo e burrascoso incontro con la moglie Fulvia, di lí a poco morta in esilio a Sicione, e aveva alla fine raggiunto l’Italia per sistemare la crisi con Ottaviano. I due s’incontrarono in ottobre a Brundisium (Brindisi) e stipularono un nuovo trattato che fino alla scadenza del triumvirato manteneva le posizioni già acquisite: l’Africa a Lepido, l’Occidente a Ottaviano e a Marco Antonio l’Oriente con la possibilità, in vista della campagna contro i Parti, di reclutar soldati in Italia e di potervi ottenere terre per i veterani. L’accordo non cambiava molto nella sostanza rispetto al precedente, ma giovava a ricucire lo strappo fra i due triumviri, i quali, per assicurare meglio la ricomposizione dei loro rapporti, su quanto avvenuto e per il futuro mettevano su una toppa: il matrimonio tra Marco Antonio, appena rimasto vedovo di Fulvia, e Ottavia, giovane e bella sorella di Ottaviano, anche lei rimasta vedova da poco. Tutto sembrava poter tornare come prima: Ottaviano si sarebbe occupato dell’Occidente e Marco Antonio sarebbe tornato in Oriente e avrebbe combattuto come previsto contro i Parti. Ma qualcosa era cambiato. Il matrimonio della riconciliazione ricomponeva la frattura fra i triumviri, ma toglieva dalla vita di Marco Antonio Cleopatra. Un astrologo egizio entrato nel corteggio del Romano doveva aver informato di quanto accadeva passo su passo la regina, dalla par170

v. una nuova era: con marco antonio tenza in poi. Con l’accordo di Brindisi poteva tirare un respiro di sollievo, perché la presenza di Marco Antonio in Oriente le garantiva una certa sicurezza e avrebbe mantenuto l’indipendenza del suo regno, ma la donna, che tra la primavera e l’autunno di quello stesso anno avrebbe dato alla luce due gemelli, frutto della relazione col triumviro, con quel matrimonio pagava un prezzo parecchio caro, quello dell’assenza e del dolore. C’era qualcos’altro piú in profondo in cui poter sperare. Sotto la toppa c’era ancora il segno dello strappo e, forse, il rammendo non avrebbe tenuto a lungo, e l’impresa contro i Parti avrebbe potuto far saltare tutti i punti. Per quella guerra Cleopatra doveva tornare in gioco e una vittoria non sarebbe rimasta senza ripercussioni sul triumvirato e su quei rapporti appena rabberciati. Qualcosa poteva ancora cambiare. 2. L’abbandono e il ritorno Sul finire del 37 a.C. un altro romano si presentò alla corte di Cleopatra. Era Gaio Fonteio Capitone, al tempo l’uomo piú vicino a Marco Antonio, suo amico e suo legato. Poco prima di raggiungere l’Egitto, in autunno, Fonteio aveva accompagnato l’amico a Taranto per incontrare Ottaviano. Il momento era importante e difficile. Il triumvirato era scaduto alla fine del 38 a.C. ed era passato già quasi un anno senza che i tre magistrati si riunissero per decidere il da farsi. Il problema riguardava soprattutto i due cognati, Marco Antonio e Ottaviano, fra i quali s’era messo in mezzo anche Sesto Pompeo. Col figlio del Magno i due triumviri avevano cercato di ricomporre i rapporti dopo l’accordo di Brindisi. Per evitare che continuasse con le sue scorrerie nel Mediterraneo occidentale, lo avevano incontrato a Miseno e gli avevano accordato il controllo della Sicilia e della Sardegna, dove 171

cleopatra era già ben posizionato, e, in aggiunta, anche quello della Corsica e del Peloponneso. L’accordo di Miseno era poi saltato. Se da un lato Sesto non aveva rinunciato alle sue imprese in mare contro le navi che portavano grano e beni a Roma, dall’altro Marco Antonio non aveva ceduto il Peloponneso, che ricadeva nella sua sfera di controllo, e Ottaviano nel 38 a.C. aveva divorziato da Scribonia, sorella del suocero di Sesto, che aveva sposato poco dopo l’incontro di Miseno per saldare il patto e la pace. Cosí, mentre Marco Antonio insieme alla novella sposa Ottavia trascorreva l’anno ad Atene, il Mediterraneo si era infiammato e fra Ottaviano e Sesto era scoppiata la guerra. Nella prima battaglia Ottaviano aveva avuto la peggio e aveva convocato d’urgenza il cognato a Brindisi per un incontro. All’appuntamento, però, non si era presentato, perché nel frattempo il suo luogotenente Vipsanio Agrippa gli aveva portato da servire in pubblico il successo ottenuto in Gallia contro un gruppo di ribelli. Marco Antonio, piantato in asso, era tornato in Grecia, ma poco dopo, in autunno, era stato riconvocato dal cognato di nuovo sconfitto da Sesto. Era quindi rientrato in Italia, stavolta accompagnato dalla moglie Ottavia e dal fido Fonteio, che in quell’occasione evitarono che scoppiasse un vero e proprio quarantotto quando, all’arrivo, poiché Ottaviano aveva ancora una volta cambiato partito, alle loro navi fu negato l’acceso al porto. Fu allora, grazie all’intercessione di Ottavia e alla mediazione di Fonteio, che i due cognati si incontrarono a Taranto, sul fiume Bradano, rinnovarono il triumvirato per altri cinque anni e concordarono uno scambio di truppe: per la guerra contro Sesto Marco Antonio garantí centoventi navi delle sue migliori e Ottaviano gli promise in cambio l’invio di ventimila legionari per la spedizione contro i Parti. L’accordo era stato suggellato ancora una volta da un legame combinato a tavolino: i due triumviri avevano deciso per il 172

v. una nuova era: con marco antonio fidanzamento del figlio maggiore di Marco Antonio, Antillo, un bambino di nove anni, con Giulia, la figlia che Ottaviano due anni addietro aveva avuto dalle nozze con Scribonia. I due, poi, si erano separati. Marco Antonio, con la moglie e l’amico, aveva ripreso la via per l’Oriente per metter mano alla grande impresa. Aveva fatto tappa prima a Corcira, da dove aveva rimandato indietro in Italia Ottavia, perché, incinta di pochi mesi, avrebbe fatto fatica a seguirlo e avrebbe anche potuto soffrir peggio. Poi aveva fatto scalo ad Antiochia in Siria dove si era acquartierato per l’inverno. Da lí giungeva Fonteio ad Alessandria. La regina attendeva già da un po’ che un messo romano arrivasse in vista della campagna decisiva. I Parti, dopo aver seminato il terrore per mezzo Oriente ed essersi spinti fino quasi alle porte dell’Egitto, negli ultimi due anni erano stati ricacciati indietro da una serie di azioni condotte da alcuni generali romani. Dopo l’accordo di Brindisi del 40 a.C., Marco Antonio si era trasferito con la moglie Ottavia ad Atene, ma non aveva dimenticato il problema partico. L’intervento dei Romani era necessario ed era stato richiesto da importanti alleati. Dalla Giudea, ad esempio, era arrivato direttamente a Roma Erode chiedendo aiuto per sé e la sua gente. Il tetrarca, scampato con difficoltà alla prigionia e alla morte, dopo esser stato per qualche tempo in Egitto ospite di Cleopatra, era giunto a Roma sul finire del 40 a.C., quando ancora i triumviri erano insieme, e, introdotto in Senato, aveva raccontato i fatti, le violenze le ruberie e i massacri perpetrati dai Parti. Per la sua fedeltà aveva in quell’occasione ottenuto il titolo di re di Giudea e la promessa che non sarebbe rimasto un sovrano a spasso, perché l’Urbe con il triumviro d’Oriente gli avrebbe ridato insieme alla corona il suo paese. Marco Antonio aveva quindi lasciato l’Italia con un duplice compito: liberare l’Oriente dai Parti e invaderne il regno. Intanto quelli non l’avevano certo aspettato senza far niente. 173

cleopatra Bisognava agire prontamente ma con prudenza. La strategia del triumviro fu quella di scegliere i suoi uomini migliori, generali esperti e coraggiosi, e di mandarli in prima linea per respingere il nemico e riconquistare l’Asia Minore, la Siria e la Giudea. In un secondo momento, una volta creata la base per l’attacco, sarebbe intervenuto di persona alla guida delle legioni per invadere la Partia. Negli ultimi due anni, i generali di Marco Antonio e Ventidio Basso in particolare, che di tutti era il piú bravo, avevano ripreso posizione in Oriente. I capi delle colonne partiche, Labieno e Pacaro, erano stati fatti fuori e i territori da quelli occupati erano stati liberati. Tornando in Oriente nel 37 a.C., Marco Antonio poteva organizzare la grande campagna d’invasione da avviare in primavera. Nel frattempo era necessario preparare il campo creando una corona di Stati alleati, governati in modo stabile e da persone affidabili, cosí da alzare una barriera difensiva contro eventuali attacchi del nemico e disporre di un appoggio per l’approvvigionamento o, nel caso, per il ripiegamento delle truppe. Il triumviro aveva per questo già assegnato la Galazia ad Amnita e il Ponto a Polemone, la Cappadocia ad Archelao e la Giudea a Erode e creato in tutta l’Asia Minore una catena di Stati clienti ai cui sovrani aveva concesso generosi ampliamenti territoriali. Nel quadro strategico era necessario garantirsi l’appoggio del regno piú importante d’Oriente. Marco Antonio aveva bisogno dell’Egitto e per questo Fonteio si presentò alla corte di Cleopatra: il triumviro romano voleva conferire con la regina e la convocava in Siria, ad Antiochia, la terza città del mondo antico. 3. Thea Neotera Philopator Philopatris Ad Antiochia Cleopatra arrivò sul finire del 37 a.C. Stavolta non si fece aspettare dal triumviro né si presentò in appa174

v. una nuova era: con marco antonio rato scenico come a Tarso. Con sé portava doni piú preziosi dei profumi, degli ori e delle rose di Cilicia: la regina era accompagnata dai due gemelli che aveva partorito nel 40 a.C. e che in omaggio all’altro genitore aveva chiamato coi nomi piú belli e importanti della tradizione lagide, Alessandro nel segno del piú grande conquistatore, il maschio, e Cleopatra, gloria di padre, la bambina. Cleopatra portava il regalo piú bello e Marco Antonio poteva corrispondere soltanto con un dono altrettanto importante, il riconoscimento di essere dei due bimbi il padre. Cosí fu e a coronamento dell’evento i due piccoli completarono i loro nomi con gli epiteti di Elios e di Selene, nei quali a fin di propaganda si intrecciavano tre fili diversi in un’unica volontà e con un sol proposito, la promessa alle genti d’Oriente d’un nuovo orizzonte. Il primo filo era tratto dal mondo ellenico, dove il Sole e la Luna, come i due bimbi, erano gemelli ed erano considerati apportatori di vittoria e felicità e quindi di una novella età dell’oro. Il secondo era legato all’Egitto, dove il culto del Sole si celebrava da millenni e dove, dalla notte dei tempi, al dio e a sua sorella la Luna era associata la triade di Iside Osiride e Horus. L’ultimo filo della treccia era quello del buon augurio per il triumviro padre che, in primavera, come genitore di Elios e Selene, avrebbe combattuto col re dei Parti che del Sole e della Luna aveva in titolo d’essere il fratello. Cleopatra e Marco Antonio, poi, parlarono dell’impresa per conquistare la Partia. La regina era consapevole dell’importanza che il suo regno aveva nel disegno strategico del triumviro e, probabilmente, era anche ben informata di come e quanto quegli fosse stato generoso con gli altri monarchi orientali. Fra tutti quei paesi era senz’altro l’Egitto l’alleato piú importante, quello meglio posizionato e quello con maggiori risorse. Su questo la sovrana avrebbe giocato le sue carte migliori, ma in lei, forse, c’era anche altro che agiva in 175

cleopatra quell’incontro. Alla consapevolezza politica si mischiava il sentimento e poteva essere questo l’asso da mettere sul tavolo: Marco Antonio, il padre dei due bimbi, si presentava dopo piú di tre anni d’assenza e aveva lasciato una moglie a Roma. Da regina e da donna, Cleopatra pose le sue condizioni e il triumviro fu accomodante e generoso. L’Egitto ampliò i suoi confini fino alla Fenicia, alla Cilicia e alla Celesiria e acquisí tutta Cipro, la Decapoli e l’Iturea. La sovrana ottenne anche le piantagioni di Gerico, che in Giudea producevano palme da dattero e arbusti da balsamo, e, dall’Arabia Nabatea, un’ampia fascia costiera sul Mar Rosso e la regione che sul Mar Morto godeva del diritto di sfruttamento del bitume, all’epoca ampiamente utilizzato per ottenere medicamenti e incensi, per farne malta o un insetticida e per rendere stagne le navi. Le concessioni territoriali riportavano l’Egitto allo splendore dei primi Tolomei, ma rientravano anche nella politica che il triumviro aveva adottato con gli altri Stati alleati. Marco Antonio aveva la necessità di lasciarsi alle spalle durante la sua campagna contro la Partia sovrani che fossero affidabili e pochi altri lo sarebbero stati quanto Cleopatra. Inoltre, era opportuno che una flotta pattugliasse il Mediterraneo. Le regioni cedute a Cleopatra non a caso erano ricche di boschi, in particolare di alberi di cedro, il che le avrebbe permesso di allestire un imponente naviglio. L’Egitto, inoltre, era l’unico regno in grado di offrire l’appoggio finanziario occorrente e Cleopatra non si sarebbe certo trattenuta dal farlo. L’accordo, insomma, soddisfaceva il triumviro, ma la notizia, quando giunse a Roma, piacque poco e suscitò non pochi malumori, soprattutto per come Ottaviano la presentò e seppe orchestrarla a danno del cognato-collega. Contro il triumviro d’Oriente cominciò a soffiare, debole ancora, quel venticello leggero e sottile che di bocca in bocca e da orecchio a orecchio diffonde la calunnia. Si parlò di territori romani regalati alla regina per quell’amore malato e 176

v. una nuova era: con marco antonio folle che aveva preso il triumviro. Si cominciò a malignare sulla relazione e su quei figli avuti fuori da un regolare matrimonio e con una straniera. Le voci giravano e arrivarono all’orecchio del calunniato. Marco Antonio, come racconta Plutarco, ebbe a dire che la grandezza di Roma stava piú nel donare che nel prendere e che, quanto a figli e relazioni, egli s’era soltanto e sempre comportato da buon discendente del grande Eracle che, dando sempre sfogo alla natura e non curandosi punto dei limiti dell’umana legge sui matrimoni, aveva sparso figli a destra e a manca, seminando qua e là perché molti fossero i capostipiti e i germogli della sua stirpe. Forse anche a questo aspirava Marco Antonio, a essere padre di sovrani e di quelli del regno piú grande e importante e, forse, con la compagna già allora cominciava a sognare un mondo diverso, con a capo una grande dinastia romano-tolemaica discendente dagli Antonii e dai Lagidi. Nel 37 a.C., sedicesimo anno da che era regina, Cleopatra assunse la nuova titolatura di Thea Neotera Philopator Philopatris (‘Regina e dea, la piú giovane, colei che ama il padre e ama la patria’) e accanto alla data tradizionale ne aggiunse da allora in poi una seconda che ricominciava il conto: era per lei e l’Egitto l’inizio di una nuova era. 4. Gli affari, un figlio, l’attesa Cleopatra e Marco Antonio trascorsero insieme tutto l’inverno tra il 37 e il 36 a.C., ad Antiochia, e intrecciarono di nuovo fra loro tempo e affetto. Poi venne la primavera della campagna contro i Parti e lasciarono la capitale della Siria raggiungendo insieme Zeugma, dove si separarono, l’uno per andare in guerra e l’altra per tornare in patria. La regina aveva deciso di non prendere il mare, ma di procedere via terra cosí da poter visitare e conoscere direttamente alcuni dei territori rientrati sotto il suo controllo. La tappa 177

cleopatra piú importante fu un breve soggiorno a Gerusalemme, dove Cleopatra fu ospite del re di Giudea Erode. I due si conoscevano da qualche anno perché il giudeo, all’epoca ancora tetrarca, aveva trovato scampo in Egitto quando era stato costretto a lasciare la Giudea invasa dai Parti. In quell’occasione la regina si era mostrata amica tanto da proporgli il comando dell’esercito egizio e, al rifiuto, gli aveva poi offerto la nave con cui raggiunse Roma. Erode, che aveva trovato in Marco Antonio il suo principale protettore, era poi stato messo sul trono di Giudea ed era un importante alleato nella campagna contro i Parti. A seguito degli accordi di Antiochia, il re aveva dovuto cedere alla regina d’Egitto Gerico, la bella città delle palme, con le sue preziose piantagioni e questo era un gran dispiacere. Erode non poteva rinunciare ai guadagni che derivavano al suo regno dallo sfruttamento delle palme da dattero e degli arbusti di balsamo di Gerico. I balsami di Gilead che lí si coltivavano erano molto pregiati e non se ne trovavano di uguali in tutto il Mediterraneo. I profumi e gli unguenti e i medicinali da quelle piante ottenuti tenevano sempre molto bene sul mercato e, nonostante il costo elevato e a volte per molti proibitivo, erano sempre molto richiesti. Il regno di Giudea avrebbe sofferto troppo nel non poter sfruttare quelle piantagioni, perché era da lí che derivava la sua ricchezza. Per questo Cleopatra si fermò a Gerusalemme, per rinsaldare il rapporto fra i due regni e definire termini e modi della gestione dei territori egizi di Giudea. I due sovrani trovarono un accordo: Erode avrebbe tenuto in affitto le piantagioni di Gerico pagando alla regina una cospicua somma. Anche coi Nabatei sarebbe stato opportuno fare lo stesso e il sovrano di Giudea si offrí alla regina come garante della convenzione, prendendo in carico la riscossione del canone che quelli avrebbero dovuto corrispondere all’Egitto per lo sfruttamento dei giacimenti di bitume. Per Erode era un mo178

v. una nuova era: con marco antonio do per immischiarsi nelle faccende dei Nabatei, al cui sovrano Malco non aveva perdonato di avergli rifiutato l’aiuto nel momento del bisogno, quando in fuga dai Parti, l’allora tetrarca era arrivato in Arabia e, in ragione delle parentele e dei favori fatti, aveva chiesto denaro in prestito o in dono, cosí da poter salvare il fratello rimasto in patria. Erode si sarebbe rifatto sui Nabatei e a Cleopatra per il momento andava bene cosí, perché l’accordo le toglieva di torno tutta una serie di noie di organizzazione amministrativa sia in Giudea che col sovrano nabateo. Sotto l’accordo restavano, però, scontento e malumore: Erode doveva pagare per terre che erano nel suo regno e Malco doveva farlo a Erode per conto di Cleopatra, ormai la proprietaria del bitume del Mar Morto ovvero della principale risorsa per il sovrano arabo. I due, l’ebreo e l’arabo, non avrebbero mai perdonato la regina e avrebbero presto preso posizione contro di lei e il triumviro nel momento piú importante della loro vita. E anche Cleopatra non doveva essere molto contenta. Dopo le concessioni territoriali di Antiochia, si trovava a governare un’ampia regione in cui la continuità era spezzata dall’autonomia della Giudea, il cui re, Erode, probabilmente, non le doveva piacere molto. Per il momento bisognava far buon viso a cattivo gioco e aspettare l’occasione per cercar di cambiare la situazione. A Gerusalemme la regina non colloquiò solo col sovrano. Ospite importante, frequentò famiglia e corte e, durante il suo soggiorno, si legò d’amicizia con Alessandra Asmonea, la suocera del re e di lui acerrima nemica. Di lí a poco, nel 35 a.C. sarebbe stata proprio Alessandra a chiedere la mediazione di Cleopatra con Marco Antonio per difenderla dai soprusi del genero e a offrirle ben due occasioni per intervenire nelle faccende interne di Giudea contro Erode. La prima occasione sarebbe stata determinata dalla decisione del sovrano di far sacerdote sommo di Gerusalemme, a 179

cleopatra dispetto di prassi e tradizione, un certo Ananel, che gli era amico, al posto del giovane cognato Aristobulo che ne aveva maggior diritto in quanto membro della famiglia degli Asmonei. Alessandra avrebbe mandato un messaggio alla regina d’Egitto per chiederle un intervento di Marco Antonio e l’amica si sarebbe premurata tanto da far rientrare nella sua scelta il re di Giudea e da fargli nominare come sacerdote il cognato. La seconda occasione sarebbe intervenuta di lí a poco, dopo la morte sospetta per annegamento del novello sacerdote. Anche in questo caso Alessandra, già in contatto con Cleopatra per trovare asilo in Egitto, le avrebbe chiesto un intervento contro il genero accusandolo di aver voluto e architettato quella morte. Le due donne, allora, avrebbero però ottenuto dal triumviro soltanto la convocazione del presunto mandante a Laodicea, dove all’epoca il Romano si trovava. Erode sarebbe poi tornato in Giudea, riconfermato sul trono e con l’odio della vendetta in corpo contro entrambe, tanto da eliminare nel tempo la suocera condannandola a morte e da malignare in seguito contro l’Egizia presentandola come una donna di malaffare, pronta a ogni capriccio sessuale e disposta a tradire con lui il suo Marco Antonio proprio durante un soggiorno a Gerusalemme. Questi fatti, però, sarebbero accaduti nel tempo e dopo il primo soggiorno della regina in Giudea. Nella primavera del 36 a.C., dopo avere raggiunto l’accordo, Erode e Cleopatra si lasciarono con cordiale reciproca antipatia, in attesa entrambi della migliore occasione per far cadere l’altro. La regina dopo il suo tour rientrò ad Alessandria, dove, tra l’estate e gli inizi di autunno di quello stesso anno, diede alla luce il suo quarto figlio, il terzo nato dalla relazione con Marco Antonio. Cleopatra volle chiamarlo Tolomeo, come nella tradizione di famiglia, e tra gli epiteti scelse per lui quello di Filadelfo, in cui, nel ricordo del secondo dei Tolomei, mag180

v. una nuova era: con marco antonio giormente risplendeva la storia e la gloria dei Lagidi. Poi la regina aspettò il ritorno del triumviro o, comunque, notizie dalla Partia. 5. La ritirata Ventiquattromila morti costò l’impresa contro i Parti e l’amarezza della ritirata. Marco Antonio, lasciata la regina, da Zeugma si era diretto a nord. Il piano era quello di invadere la Partia senza passare dalla Mesopotamia, muovendo da settentrione, attraverso i territori di Armenia e Media. Era maggio quando aveva cominciato la sua marcia ed era già tardi. I suoi avversari a Roma gli avrebbero poi rimproverato il ritardo e avrebbero fatto ricadere tutta la colpa sulla regina egizia e sul legame troppo passionale che li univa. Furono in realtà le iniziative diplomatiche preliminari alla guerra che presero tempo e la necessità di farsi strada in Armenia, dove i Romani riuscirono a ottenere dal re della regione il passaggio solo dopo che questi fu sconfitto da Publio Canidio Crasso, il miglior generale del triumviro. L’esercito romano era grande, il piú grande, si disse, che Roma avesse mai avuto, gli uomini erano i piú validi e leali, e l’equipaggiamento era il migliore. Ciò nondimeno l’impresa si era risolta dopo nove mesi in un fallimento. Marco Antonio, per stare nei tempi – la marcia era parecchio rallentata dai carriaggi, che trasportavano le vettovaglie e i bagagli militari nonché tutti gli attrezzi e le macchine necessarie all’assedio –, nel passaggio dall’Armenia alla Media, era stato costretto a dividere le truppe in due contingenti, l’uno, a capo del quale s’era messo egli stesso, per aprir la strada, e l’altro, affidato a Oppio Staziano, per portar le salmerie. Quest’ultimo convoglio era stato attaccato da Parti e Medi e tutte le vettovaglie erano state date alle fiamme e distrutte, il che rese poi vano il prosieguo della campagna. Mar181

cleopatra co Antonio indugiò in Media fino a ottobre, ma, temendo l’inverno ormai alle porte, decise di affrontare con l’esercito superstite la ritirata. La regina lo raggiunse a inizio del 35 a.C. a Leuce Come, piccolo villaggio sulla costa fenicia, fra Berito e Sidone, dotato di un porto capace di accogliere la flottiglia egizia che portava il necessario: oro indumenti e provviste. La coppia, poi, rientrò ad Alessandria per trascorrere l’inverno. Lí Marco Antonio apprese quanto nel frattempo era accaduto dall’altra parte del Mediterraneo. Ottaviano in settembre aveva avuto la meglio finalmente su Sesto Pompeo, la cui flotta era stata sbaragliata nei pressi di capo Naulochus, in Sicilia, poco lontano da Milazzo. Lo sconfitto aveva riparato in Oriente e, da come stavano le cose, si sarebbe verosimilmente rivolto presto a Marco Antonio, il quale, quindi, si sarebbe trovato con questa bella gatta da pelare. C’era anche di piú. Il collega-cognato aveva fatto della vittoria un vessillo di gloria, sotto il quale si vantava d’aver liberato ormai la Sicilia le isole e i mari dall’infesta presenza del figlio del Magno e di aver posto fine alle guerre civili riportando in Roma la pace. Per l’amor proprio del generale Marco Antonio, che in guerra era stato sempre un campione e che, però, usciva proprio allora dal disastro contro i Parti, i vanti del collega, che di guerra ne capiva poco o niente e doveva la vittoria soltanto al suo generale Agrippa, furono già un piccolo rospo da ingoiare. Ma un rospo troppo grosso fu certo per il triumviro apprendere che, dopo la vittoria contro Sesto, Ottaviano aveva radunato le truppe e, davanti a tutti i soldati, aveva costretto il terzo triumviro, Marco Lepido, che pure in quella guerra gli era stato compagno e alleato, a chiedere pubblico perdono e poi l’aveva accomiatato deponendolo dalla magistratura. Nel prendere la decisione, il giovane Ottaviano non aveva 182

v. una nuova era: con marco antonio minimamente pensato di consultare il cognato e questo non era certo un buon segno per la tenuta del triumvirato. Le informazioni e, forse, le spiegazioni sull’accaduto, ad Alessandria arrivarono fra l’altro con un buon ritardo e la lettera che le portava certo giovò poco a ridimensionare quella che sembrava a giusta vista soltanto una prepotenza. C’era anche altro che probabilmente lasciava un tarlo in Marco Antonio. Nei suoi dispacci sulla campagna in Partia, il triumviro d’Oriente aveva cercato di presentare i fatti edulcorando la sconfitta attraverso l’esaltazione dei pochi successi. Era una fragilità che non dové sfuggire a Ottaviano. Le notizie correvano per il Mediterraneo e nell’Urbe la cronaca della ritirata doveva essere arrivata per filo e per segno. Ciò nondimeno a Roma la versione ufficiale fu quella presentata da Marco Antonio, i cui comunicati furono letti dal collega in Senato e si parlò di successo e di vittoria. Si disse che finalmente i nuovi territori conquistati in Media avrebbero soddisfatto le necessità del triumviro d’Oriente, che con insistenza aveva fino ad allora chiesto a Roma uomini e terre d’Italia per far legioni e premiare i veterani. Tanto piú grande era quindi il merito di Marco Antonio, perché con quelle conquiste toglieva finalmente il collega dall’impaccio di dovergli costantemente rifiutare l’una e l’altra cosa come piú volte era stato costretto a fare e come avrebbe dovuto far necessariamente per l’avvenire, visto che s’apparecchiava, proprio in quel mentre, a far guerra agli Illiri. Quei successi in Oriente, poi, cadevano a pennello e si combinavano troppo bene con la vittoria di Ottaviano contro Sesto. Entrambi i triumviri meritavano il premio della celebrazione e Ottaviano ottenne dal Senato che a entrambi fosse concesso di collocare le proprie statue nel Foro e nel Tempio della Concordia e di banchettare in quest’ultimo con le rispettive famiglie ovvero con le mogli e i figli. In Marco Antonio, che stava ad Alessandria, dall’altra par183

cleopatra te del Mediterraneo, notizie di tal fatta alimentavano il dubbio che Ottaviano potesse voler giocare sporco. Il fatto di Lepido, il discorso sugli uomini e le terre, quell’accenno a mogli e figli sotto sotto potevano dire altro: Marco Antonio contava meno del collega; con le sue richieste di aver appoggio dall’Italia avrebbe solo in futuro mostrato di non aver conquistato un bel niente; se la spassava ad Alessandria con la sua regina egizia senza pensare a Ottavia, la moglie lasciata a badare ai figli, la sposa migliore che un uomo potesse desiderare, il modello della perfetta matrona romana e anche giovane e bella. Nei fatti quel venticello che già da un po’ soffiava a Roma la sua arietta leggera e sottile contro Marco Antonio prendeva piú forza e sempre piú destramente si faceva strada per l’Urbe e, inavvertito, si ficcava nella mente della gente. Insomma, forse il gioco al triumviro d’Oriente cominciava a farsi chiaro. Col cognato sarebbe stato scontro. Ora che Lepido era stato fatto fuori, nel gioco restavano soltanto in due e la storia lo insegnava: Roma era ormai diventata troppo grande perché l’uno o l’altro non desiderasse di poterla tener stretta tutta in una sola mano. 6. La prescelta A conti fatti, nel 35 a.C. per Marco Antonio restava un’unica arma di riscatto: una nuova campagna contro i Parti. Nell’inverno che trascorse ad Alessandria, man mano che gli arrivavano notizie dall’Urbe e ragionava su quei fatti, l’idea si fece sempre piú strada in lui. Il suo intervento era fra l’altro richiesto dal re dei Medi che, entrato in dissidio con l’alleato sovrano dei Parti, gli prometteva l’appoggio di una base e dei suoi arcieri. I preparativi cominciarono per tempo e in primavera il triumviro, accompagnato ancora una volta da Cleopatra, era 184

v. una nuova era: con marco antonio già in Siria, ad Antiochia, pronto per la partenza. Qui però restò bloccato. Lo presero due questioni da sbrogliare e una certa inerzia. Dopo la sconfitta a Nauloco, Sesto si era spostato in Oriente dove aveva cercato un contatto con il triumviro mandandogli dei messi. Marco Antonio, per non entrare in rotta con Ottaviano, aveva deciso di non riceverli e di prender tempo. Arrivato in Siria aveva appreso che quel tempo era stato impiegato dal figlio del Magno per far basi, reclutare uomini e intavolare trattative con il re dei Parti per ottenere asilo e appoggio. Prima di ogni altra azione c’era da risolvere la questione e Marco Antonio aveva deciso di prendere posizione dando incarico a uno dei suoi uomini piú fidati, Marco Tizio. Questi era riuscito a sorprendere Sesto sulla via per l’Armenia, l’aveva fatto prigioniero e, condottolo a Mileto, l’aveva fatto giustiziare, cosí come a Roma si usava con i traditori. La faccenda aveva contribuito a ritardare l’impresa contro i Parti e avrebbe avuto un seguito. Quando a Roma, di lí a poco, fu portata la notizia della morte di Sesto, per Marco Antonio furono immediatamente decretati pubblici onori, ma la stessa vicenda nel tempo sarebbe stata presentata come un delitto gratuito e usata contro il triumviro per farne esempio della sua brutalità e crudeltà. Il secondo problema che Marco Antonio dovette in quella primavera affrontare fu l’annunciato arrivo della moglie Ottavia. In apprensione per il marito e in vista della novella spedizione che egli stava preparando per invadere la Partia, la donna, dopo aver chiesto probabilmente il parere del fratello Ottaviano, aveva preso l’iniziativa e, lasciata Roma, con al seguito duemila uomini ben equipaggiati, un carico di vesti e altri possibili rifornimenti, un po’ di denaro, molti doni e le settanta navi superstiti delle centoventi che Marco Antonio aveva imprestato all’altro triumviro per la guerra contro Se185

cleopatra sto, da Brindisi si era imbarcata alla volta di Atene e da qui chiedeva di poter andare in Siria. Ad Antiochia la notizia arrivò come un fulmine a ciel sereno, del tutto inaspettata. Che sotto ci fosse un tranello di Ottaviano fu il pensiero che non si poté evitare. Gli stessi storici antichi a detta di Plutarco sostennero poi in maggioranza che la povera Ottavia fu all’epoca utilizzata all’uopo da suo fratello per ottenere un pretesto alla guerra. La donna agiva in buona fede e per come poteva, ma giungendo a quel modo cosa avrebbe potuto aspettarsi? Il marito, in attesa che l’altro triumviro gli inviasse i ventimila legionari promessi nel 37 a.C. a Taranto, si vedeva arrivare Ottavia con appena duemila uomini, un decimo di quelli dovuti, e una flotta scalcagnata. Dei doni e dei denari importava poco. Marco Antonio aveva al suo fianco Cleopatra e sapeva quel che la compagna poteva nell’elargire entrambi. La ricchezza della regina non ammetteva paragoni e lo si sapeva anche a Roma. Si diceva, ad esempio, che Cleopatra portasse orecchini con le perle piú grandi mai viste. Si raccontò che una sera, proprio a un banchetto con Marco Antonio, durante una cena pantagruelica e principesca com’era abitudine fra loro, la regina per celia avesse lanciato una sfida scommettendo che avrebbe consumato lei sola ben dieci milioni di sesterzi. Cosí, mentre il compagno e gli altri convitati attendevano curiosi, aveva chiesto che le fosse servito dell’aceto, aveva sfilato dall’orecchio uno dei suoi orecchini, aveva tolto la perla, l’aveva fatta cadere nella coppa e aveva aspettato che si sciogliesse. Poi, d’un fiato aveva bevuto tutto, un po’ d’aceto e una perla sciolta di dieci milioni. Non si sa se l’episodio sia davvero accaduto e quando, ma la leggenda corrispondeva a realtà: con la regina non si poteva competere in ricchezza. Ottavia poteva giocare altre carte: era giovane e bella, docile e virtuosa, amava il suo sposo e, nel 40 a.C., l’aveva conquistato al punto che per piú di tre anni gli aveva fatto dimen186

v. una nuova era: con marco antonio ticare Cleopatra. Si racconta che in quei giorni l’Egizia perse la testa per la disperazione, smise di mangiare e cominciò a dimagrire e a sciuparsi. Aveva spesso uno sguardo smarrito e appariva angustiata ogni volta che il compagno si allontanava. Piú volte fu sorpresa in pianto e sempre cercò di nascondere quelle lacrime, raccogliendole dal viso per evitare che Marco Antonio potesse vederle. Forse fingeva, si disse, forse, meglio, era di quell’uomo innamorata e temeva soltanto di poterlo perdere e restar sola. Anche Marco Antonio, del resto, dovette essere scosso dalla notizia. Probabilmente sentí di trovarsi a un bivio, combattuto piú nella strategia da adottare che nei sentimenti. Il problema per lui riguardava i duemila uomini. Accettarli, cosí come glieli portava Ottavia, significava accontentarsi, ovvero rinunciare agli altri diciottomila che Ottaviano gli aveva promesso e che sarebbero stati tanto importanti in vista della campagna in Partia. Non accettandoli avrebbe offeso Ottavia, e lei non lo meritava, e soprattutto avrebbe offerto al cognato su un bel piatto d’argento la scusa per far questione e rompere rapporti e accordo. Tra due opposti meglio cercare la via di mezzo. Cosí insegna la prudenza e Marco Antonio cercò di seguirne la lezione e far quanto risultasse di minor danno: per non offendere Ottavia, accettò gli uomini e i rifornimenti, sapendo che al mancante avrebbe provveduto l’amante egizia; per non dispiacere a Cleopatra ingiunse all’altra di non raggiungerlo in Siria e di rientrare piuttosto a Roma, perché era a far la guerra che si andava e non sarebbe stato sicuro prender con lui quella strada. Cosí, Marco Antonio pensava di aver risolto il problema e di averla fatta a Ottaviano. Nei fatti aveva accettato una miseria senza questionare e aveva rispedito a casa la moglie per preservarla dalla guerra. A Roma, invece, quando Ottavia rientrò, contro di lui s’alzò un gran polverone e tanto piú la donna cercava di addolcire la tensione e difenderlo dagli at187

cleopatra tacchi tanto piú veniva chiamata in causa per danneggiarlo. Come aveva potuto Marco Antonio mettere alla porta una sposa come quella, la migliore che un uomo potesse desiderare, l’incarnazione piena delle virtú della matrona romana, una giovane tanto nobile quanto bella? E perché mai poi l’aveva fatto? Per spassarsela con la regina d’Egitto, per star fra le braccia d’una sgualdrina impenitente e malvagia, perché vinto da quel malanno di donna. Questo si disse. E intanto la stagione era trascorsa e non era piú la migliore per dare inizio alla campagna, e anche Marco Antonio forse non era piú pronto. La spedizione contro i Parti nel 35 a.C. si risolveva semplicemente come un viaggio di andata e ritorno, da Alessandria ad Antiochia e viceversa. La coppia tornò in Egitto. Per far qualcosa bisognava aspettare un’altra primavera. 7. La conquista e la festa Il ritorno della primavera nel 34 a.C. riaprí la strada per la guerra. Nel corso dell’anno Marco Antonio aveva inviato il suo Dellio, lo stesso dei bei tempi di Tarso, in Armenia presso il sovrano di quel regno, Artavasde, perché intavolasse trattative di alleanza da coronare col fidanzamento fra una principessa armena e il piccolo Alessandro Elios. L’Armenia e la Media erano tappe obbligate nel piano di conquista della Partia che, nel disegno di Marco Antonio, doveva avvenire scendendo da nord. I Medi, entrati in rotta con i Parti, s’erano già promessi alleati e avevano dall’anno precedente richiesto l’intervento del triumviro garantendo arcieri e cavalieri. Con gli Armeni il discorso era ancora aperto. Il loro re aveva assunto un atteggiamento ambiguo già ai tempi della prima campagna e, da alleato che era, alla prima difficoltà aveva abbandonato il campo di battaglia e se n’era ritornato a gambe levate in patria. Bisognava quindi trovare un accordo, con le buone o con le cattive. Per questo Dellio era 188

v. una nuova era: con marco antonio stato inviato in Armenia, ma ne era tornato a mani vuote. Artavasde, forse in contatto segreto con Ottaviano, alla proposta di matrimonio e all’invito ad Alessandria non aveva risposto, segno che all’alleanza non era interessato. E già che la via buona non aveva sortito effetto, Marco Antonio si decise per la via della guerra. A inizio di stagione, insieme a Cleopatra, aveva lasciato Alessandria. I due erano risaliti verso nord, avevano raggiunto la Siria e, nei pressi dell’Eufrate, si erano lasciati, l’uno diretto in Armenia per dar battaglia, e l’altra per un nuovo tour in Asia con tappe ad Apamea, a Emesa, a Damasco e in Giudea, per intrecciare le giuste relazioni con Stati liberi ma alleati. I due si ritrovarono ad Alessandria in autunno: Marco Antonio aveva conquistato l’Armenia e la festa fu grande. Il triumviro entrò nella città nei panni di Dioniso padre, il dio della gioia e della liberazione, e percorse le vie alessandrine, piene di gente scesa in strada per l’occasione, fino al tempio di Serapide dove, in trono, Cleopatra lo aspettava. Il triumviro-dio con la corona d’edera al capo, il sacro tirso in mano, una veste color zafferano trapuntata d’oro e i greci coturni ai piedi, si alzava su un cocchio addobbato di simboli bacchici, accompagnato da un corteo di legionari e da carri carichi delle ricchezze che erano state sottratte agli Armeni. Artavasde e la sua famiglia, stretti in solide catene d’oro, aprivano la strada: erano il premio piú prezioso, simbolo vivente della conquista avvenuta. La festa durò probabilmente alcuni giorni con pubbliche elargizioni e banchetti e si concluse al ginnasio dove, fra gli splendidi portici, fu chiamata tutta la gente di Alessandria per l’evento piú importante. Dinanzi alla moltitudine degli Alessandrini accorsi si alzava un palco tutto d’argento e a due gradi. Al centro, nella base piú alta, stavano due magnifici troni d’oro e di splendida fattura, ai quali sedettero la regina nelle vesti e coi paramenti di 189

cleopatra Iside-Afrodite e il suo compagno, il triumviro coi panni di Dioniso-Osiride. Ai loro lati, su un livello appena piú basso, stavano altri quattro troni, uno per Cesarione, primogenito di Cleopatra e con lei coreggente, e gli altri per i bimbi nati dall’unione con Marco Antonio. Anche i ragazzi erano abbigliati in modo particolare e fu Marco Antonio, presa la parola, a dare nel suo discorso il senso di quei panni. Salutò Cleopatra come “Regina di re” e quindi fregiò come “Re di re” anche il suo compagno di regno, il giovane Cesarione, che nei panni di Horus sedeva sul primo trono a lato. Ai due sovrani il triumviro riconosceva la corona d’Egitto con Cipro e la Celesiria e su di loro poneva la benedizione del divino Cesare, affermando a chiare lettere che l’una di quello era stata la sposa e l’altro ne era il figlio legittimo, il solo nato dal grande dittatore. A lato di Cesarione stava il fratello minore, di sei anni, il piccolo Alessandro Elios, abbigliato alla persiana, con la tiara armena e il copricapo regale dei Parti, una sorta di turbante bianco dal quale spuntava alta la piuma d’un pavone. Alle spalle del piccolo stava il suo corpo di guardia, nella veste dei soldati armeni. Dopo la vittoria in Armenia, fallito il fidanzamento con una delle figlie di Artavasde, era stato promesso a Iotope, principessa figlia del re della Media. Nel ginnasio di Alessandria, Marco Antonio andò oltre e lo proclamò re di Media e Armenia e della Partia, una volta che fosse stata conquistata. A fianco del piccolo re stava la sorella Cleopatra Selene, anche lei riccamente vestita e seduta in trono tra guardie. Fu indicata come la sovrana di Creta e della Cirenaica. Toccò poi al piú piccolino, Tolomeo Filadelfo, un bimbetto di poco piú di due anni, messo sul trono con un abitino macedone e il mantello purpureo, il diadema sul berretto e gli alti stivaletti. Ebbe il titolo di re anche lui. La Siria, la Cilicia e quasi tutta l’Asia Minore, dall’Eufrate all’Ellesponto, avevano ora un unico signore. 190

v. una nuova era: con marco antonio Marco Antonio riorganizzava cosí i territori d’Oriente e al suo fianco teneva Cleopatra. Con lei lo mostrano le monete che furono emesse dal triumviro in quegli anni. Sul diritto il generale con la legenda « Antonios Autokrator Trion Andron » e sul rovescio la compagna « Basilissa Kleopatra Thea Neotera », come si vede su una bella moneta d’argento rinvenuta ad Antiochia e che ha il suo terminus ante quem nel 33 a.C. In quegli stessi anni, giravano anche denarii in cui i due fanno la coppia: sul diritto sta Marco Antonio, con sguardo fiero e a capo nudo, una piccola tiara armena di fianco e la leggenda « Antoni, Armenia devicta », sul retro la regina, capelli raccolti sotto un diadema e vari gioielli, l’immagine stilizzata della prora di una piccola nave e la legenda « Cleopatrae reginae regum filiorum regum » a corona tutt’intorno. La regina aveva contribuito alla vittoria e certo l’avrebbe fatto anche contro i Parti. Il compagno per questo la omaggiava e la riconosceva sua alleata, conferendole il controllo sulla gran parte dei territori d’Oriente. Delle sue decisioni Marco Antonio mise al corrente Roma. Nell’Urbe aveva già inviato vari dispacci sulla sua impresa contro gli Armeni e sulla conquista della nuova provincia. Il fatto che egli non fosse corso subito in città a celebrare il trionfo a piú d’uno aveva fatto storcere il naso. Si cominciò presto a vociferare disapprovazione quando si seppe che aveva celebrato la vittoria ad Alessandria e, con l’arrivo delle ultime comunicazioni a firma del triumviro, scoppiò un vero e proprio pandemonio. Il comportamento di Marco Antonio era inaudito, senza precedenti e contro la tradizione. Aveva “donato” territori romani all’Egizia e le “donazioni” fecero diventare il venticello che soffiava contro di lui una tempesta: la sontuosità della cerimonia, con la carnevalata dei costumi e con tutti quei troni, era disdicevole. Che fine aveva fatto l’odium regi su cui Roma aveva costruito la sua Res publica grande e forte? E come si poteva accettare che quasi tutto 191

cleopatra l’Oriente fosse “riorganizzato” in favore di un’unica e potente dinastia, di re e di regine? Regina regum, poi, era troppo per i Romani e in tanti, anche fra gli amici di Marco Antonio, cominciarono a non capir piú cosa stesse succedendo. Su malumori e dubbi cominciò a soffiare Ottaviano, che non si poteva far scappare l’occasione per mettere in cattiva luce o, comunque, in discussione il suo collega e che era stato troppo toccato dalle dichiarazioni che quello gli aveva fatto contro. Marco Antonio, infatti, non solo aveva diviso mezzo Oriente per donarlo a Cleopatra, ma aveva dichiarato che la sua amante era stata sposa di Cesare, legittima, e che quel moccioso che si portava appresso sul trono era l’unico e solo figlio del dittatore, nato dal suo seme e con in corpo lo stesso sangue, un figlio legittimo e non per testamento adottato. Per Ottaviano era troppo, era ciò che piú gli bruciava in corpo, quanto poteva bastare a fargli tremare la terra di sotto. E cosí il collega cominciò sempre piú a essere presentato come un pupo nelle mani dell’Egizia, un burattino che quella muoveva a proprio piacimento, dentro di lui alimentando una passione insana e tremenda, una marionetta di cui l’insaziabile libido dominandi (‘desiderio di potere’) della regina teneva le fila. Si era ormai alle porte di un nuovo anno, quello in cui il triumvirato che scadeva poteva esser rinnovato.

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VI L’ULTIMA STAGIONE, DENTRO LA STORIA

1. Ottaviano contro Si racconta che Eracle, per aver ucciso in un impeto di follia Ifito, figlio di re Eurito, si ammalò e che per guarire interpellò l’oracolo di Delfi da cui soltanto poteva venire la giusta risposta. Come l’oracolo decretò, l’eroe divino era rimasto tre anni a servizio della regina di Lidia Onfale e lí per tre anni aveva portato vesti femminili e se l’era passata filando la lana e svolgendo lavori casalinghi vari. Ecco cosa il triumviro d’Oriente, che, in quanto membro della gens Antonia, da Eracle si diceva discendente, aveva ripetuto del suo avo. Nei crocicchi e nelle vie dell’Urbe, tra piazze e taverne, Marco Antonio era ormai chiamato “L’Eracle lidio” e i Romani si beffavano di lui riprendendo il mito su vasi e ceramiche dove Eracle-Marco Antonio veniva rappresentato in abiti femminili e Onfale-Cleopatra vestiva al suo posto la pelle di leone e portava la clava. Varie battute circolavano sull’amore fra i due e si spettegolava su come il Romano fosse ormai preda di quel mostro di donna, una maga che lo teneva avvinghiato tra le sue braccia e nel suo letto, una prostituta di pessimo affare che tanto piú risultava malvagia al paragone della buona e virtuosa Ottavia, la quale dei figli di Marco Antonio, anche di quelli avuti da Fulvia, si curava amorevolmente, nonostante l’assenza dello sposo, e agli amici di lui non faceva mai mancare presso il fratello l’appoggio o la raccomandazione. Si malignava sul comportamento di Marco Antonio, su come si vestiva, sui suoi vizi di crapula e di letto. Sembrava avesse ormai dimenticato i patrii valori e le vesti e le sacre 193

cleopatra insegne. Da come si presentava, vestito alla greca o, peggio, travestito da Dioniso, faceva pensar male. Insomma, gli mancava solo il diadema in capo per completare il quadro e permettergli finalmente di andare come un re a godere della sua regina. Le malizie della gente erano solo uno dei riflessi della tensione fra i triumviri-cognati: i due cominciarono a scambiarsi lettere infuocate e a scrivere a destra e a manca. Marco Antonio da Alessandria chiese ripetutamente che le sue epistole fossero lette dai consoli in quelle pubbliche sedute che erano le cotiones, in modo che il popolo di Roma fosse informato dei fatti e di quanto a Ottaviano poteva essere rimproverato. Come s’era comportato il triumviro con Lepido? Non l’aveva eliminato dalla scena senza consultare Marco Antonio e per prendersene le truppe? Perché non aveva inviato i ventimila uomini promessi in cambio delle centoventi navi che gli erano state date sulla base dell’accordo di Taranto per combattere Sesto? E della Sicilia conquistata che ne era stato? Perché il vittorioso Ottaviano non ne aveva concordato la spartizione? E cosa bisognava pensare delle terre d’Italia negate ai veterani antoniani? Ad Alessandria, poi, non c’era stato alcun trionfo alla romana, ma una celebrazione a carattere religioso. E sulle cosiddette “donazioni” c’era un disegno alla base: far sicuro l’Oriente degli Stati clienti affidandone il governo a un solo sovrano che fosse amico e sincero. Anche Marco Antonio, insomma, aveva le sue carte, ma Ottaviano aveva in mano quella d’oro, che piú delle altre contava, quella che, nella propaganda, a Roma gli garantiva la vittoria: la carta era la regina d’Egitto Cleopatra. A dicembre il triumvirato non fu piú rinnovato e la rottura prometteva la guerra.

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vi. l’ultima stagione, dentro la storia 2. Dalla propaganda alla guerra I venti della guerra si fecero sentire sempre piú forti e gelidi nel corso del 32 a.C. Fu quello un anno di sbando. Marco Antonio e Ottaviano non erano addivenuti a un accordo e non avevano rinnovato il triumvirato, ma non si erano neanche ritirati a vita privata – per il 31 a.C. erano comunque designati al consolato – e disponevano inoltre di immense truppe ai loro ordini. I due continuarono a scambiarsi lettere di accuse e offese e cercarono di far gioco in campo anche in virtú dei loro sostenitori. Cosí fece Marco Antonio con i due consoli nominati per quell’anno, Gneo Domizio Enobardo e Gaio Sosio, che gli erano vicini e si adoperarono da subito per difendere le sue scelte e ridimensionare le accuse di Ottaviano. Nel primo giorno di carica, il 1o di febbraio, Gaio Sosio pronunziò il suo discorso e con esso prese chiara posizione a favore dell’ex triumviro d’Oriente, proponendo una mozione di censura contro Ottaviano e la sua politica di offese. La mozione non fu approvata, ma di lí a qualche giorno, intorno alla metà del mese, non mancò la risposta dell’accusato che si presentò in Senato, in occasione di una nuova seduta, accompagnato dal suo corpo di guardia e da un gruppo di sostenitori. Ottaviano era ormai un privato cittadino e in Senato non aveva titolo d’entrare, eppure lo fece e parlò a senatori e consoli, dichiarando che aveva i documenti e avrebbe provato la giustezza di ogni accusa che muoveva contro il cognato. Il suo messaggio fu chiaro: sotto la toga dei suoi accompagnatori era facile vedere i pugnali che portavano, e tanto bastò a far capire quale uso ne avrebbero potuto fare. I venti della guerra civile soffiarono forte quel giorno nella Curia e fecero sentire in un brivido di gelo la loro forza. Nei primi giorni di marzo i due consoli, seguiti da trecen195

cleopatra to senatori, lasciarono Roma per raggiungere Marco Antonio in Oriente. La loro era una scelta di campo, un’attestazione di lealtà e un proposito d’appoggio, ma, cosí facendo, lasciarono che l’Urbe restasse campo libero per i giochi di Ottaviano, che, non dovendo piú temere una forte opposizione, poté da lí in poi fare senza alcun problema le sue mosse in vista della guerra che già si profilava inevitabile all’orizzonte. Anche Marco Antonio e Cleopatra stavano preparandosi. Si erano trasferiti a Efeso e avevano iniziato l’allestimento di un esercito e di una flotta. Li raggiunsero gli antoniani che avevano lasciato Roma. In loro era rimasto, però, il segno della propaganda di Ottaviano. In molti nutrivano sospetti e pregiudizi contro la regina d’Egitto, in molti volevano che non prendesse parte agli affari romani. Domizio Enobardo, che era fra questi e aveva un forte ascendente su Marco Antonio, riuscí quasi a convincerlo della necessità di allontanarla, sostenendo che da sempre le faccende romane erano state risolte fra Romani, come Silla aveva fatto con Mario e Cesare col Magno. L’Egizia doveva tornarsene nel suo bel regno e aspettare lí la fine del conflitto. Il ragionamento non poteva convincere Cleopatra. Delle ottocento navi ormeggiate al porto di Efeso duecento erano sue e la gran parte dei marinai erano egizi. La regina aveva messo a disposizione ben ventimila talenti per l’impresa e pagava il rancio quotidiano dei soldati. Fu un altro romano a prendere le sue difese, forse dopo aver ricevuto un bel dono. Era il piú importante fra i generali di Marco Antonio, l’invincibile Publio Canidio Crasso, il campione delle piú belle imprese. Cleopatra rimase in campo, ma fra mormorii e malumori. Alcuni dei compagni venuti da Roma ripresero la via dell’Urbe e con loro portarono informazioni che avrebbero lí dato spunto e argomenti a Ottaviano per la sua campagna propagandistica contro il cognato avversario. In primavera gli antoniani si spostarono a Samo. L’isola era 196

vi. l’ultima stagione, dentro la storia stata scelta per accogliere i re d’Asia a Marco Antonio alleati o soggetti e, per alcuni giorni, fu passerella per una grandiosa sfilata di sovrani che gareggiavano nel mettere in mostra le loro ricchezze, offrendo ricevimenti e distribuendo doni. Anche i migliori artisti del tempo vi erano stati convocati per spettacoli e cori in teatro o in concorsi e ogni città d’Oriente aveva mandato un toro da sacrificare per il successo della guerra. Dopo la festa di Samo, Marco Antonio e Cleopatra si spostarono ad Atene per trascorrervi l’estate. Gli artisti erano stati congedati a Priene ad aspettare l’esito dello scontro. Il clima fu anche nella città greca di serenità, come lontano dalle nubi di una guerra. La regina fu munifica e seppe conquistarsi gli Ateniesi, che le tributarono gli stessi onori già offerti a Ottavia e un omaggio straordinario: la collocazione di una sua statua nei panni di Iside-Afrodite sull’Acropoli. Cleopatra non seppe, però, conquistarsi i Romani che erano con Marco Antonio. Altri amici, durante l’estate ateniese, presero la via verso l’Italia. Probabilmente la serenità con cui il loro capo e la sua compagna affrontavano quella stagione li stordiva e sembrava loro inconcepibile in prossimità di una guerra. Tra gli antoniani erano stati accolti alcuni personaggi che non godevano di una gran fortuna a Roma e che a molti di coloro che erano venuti a sostenere l’ex triumviro d’Oriente non piacevano punto. Come potevano militare fianco a fianco con un Publio Turullio, un cesaricida convinto che, non contento, dopo aver partecipato alla congiura in prima persona, aveva militato con Cassio e Bruto e combattuto a Filippi? Come farlo con Gaio Cassio Parmense che di Turullio era stato sempre compagno? A far traboccare il vaso fu Marco Antonio che, nei giorni ateniesi, decise di ripudiare la moglie Ottavia e di farla cacciare dalla casa maritale alle Carine. Per molti dei suoi fu un errore che non poteva essere perdonato. Ottavia, si sapeva, 197

cleopatra era una brava donna, una buona sposa e un’ottima madre, e il fratello Ottaviano era una volpe e non si sarebbe fatto certo scappare l’occasione di affondare un ulteriore attacco contro l’avversario, accusandolo di ignominia morale. Nell’estate ateniese, insomma, Marco Antonio fu abbandonato da molti dei suoi sostenitori e anche da amici per lui importanti. Marco Tizio e Munazio Planco gli diedero probabilmente il dolore piú grande. Li aveva avuti per compagni di armi e di baldoria, con loro aveva condiviso il governo d’Oriente e le varie imprese, e con loro aveva trascorso le serate piú allegre. In quell’estate, in virtú dell’antica amicizia, li aveva scelti come testimoni delle sue ultime volontà, da loro aveva voluto che fosse siglato il suo testamento e a loro l’aveva affidato perché lo portassero a Roma, dove le Vestali, com’era uso, l’avrebbero custodito. Tizio e Planco non fecero piú ritorno. Dopo aver consegnato il testamento nel tempio, furono presi da Roma e preferirono passare dalla parte di Ottaviano, al quale fornirono l’arma decisiva contro il cognato riferendogli il perché del loro viaggio e anticipandogli, forse, parte di quelle che erano le disposizioni testamentarie dell’amico. Tizio e Planco, come spesso succede, avevano dimenticato l’amico e compagno d’un tempo. Le promesse di Ottaviano erano riuscite a conquistarli e nell’immediato futuro si sarebbero realizzate in prestigiose cariche e importanti incarichi. Nella storia, di entrambi resta poco altro oltre al gesto compiuto contro Marco Antonio: per l’uno, il sospetto d’essere stato il vero colpevole dell’uccisione di Sesto, e per l’altro, il ricordo d’una sua certa danza a tempo sincopato che, in una serata alessandrina, saltellando sulle ginocchia, avrebbe ballato come fosse il dio del mare Glauco, tutto nudo e dipinto d’azzurro, con una corona di canne in testa e una coda posticcia nel didietro, per far ridere il triumviro e la regina e tutti gli altri convitati. Il tradimento di Planco e Tizio fu la chiave che aprí la 198

vi. l’ultima stagione, dentro la storia porta alla guerra. Grazie a loro Ottaviano poté sferrare l’ultimo e decisivo attacco contro il rivale. Nell’autunno del 32 a.C., convocato d’urgenza il Senato, il figlio adottivo di Cesare diede pubblica lettura del testamento di Marco Antonio. Il documento era stato sottratto con la violenza alla custodia delle Vestali, trasgredendo in modo imperdonabile alle norme vincolanti della religione, ma la lettura che ne diede ad arte Ottaviano, selezionando abilmente le parti e, forse, contraffacendo i contenuti, fece presto dimenticare la colpa di cui s’era macchiato. Il criminale messo all’indice della pubblica opinione era soltanto Marco Antonio, l’Eracle lidio, lo zimbello di Cleopatra, che nelle ultime sue volontà ribadiva che Cesarione era il figlio legittimo di Cesare, designava fra i propri eredi i figli avuti con l’Egizia, destinando loro lasciti cospicui e importanti, e, soprattutto, disponeva che il suo corpo, da morto, fosse affidato alla regina e avesse sepoltura ad Alessandria, in Egitto. Quest’ultimo desiderio del triumviro d’Oriente a Roma non fu perdonato, perché fu presentato e inteso come tradimento della patria natale. A rincarar la dose, in quella stessa seduta del Senato, aveva preso la parola un tal Calvisio Sabino, amico di Ottaviano, che affermava di avere informazioni importanti da riferire. Calcò la mano sul rapporto fra Marco Antonio e Cleopatra e, per mostrare quanto l’uno fosse succube dell’altra, dichiarò che quegli le aveva donato, come fosse cosa sua, la biblioteca di Pergamo e tutti i duecentomila volumi che erano in essa, aveva permesso che in sua presenza a Efeso ella fosse salutata dagli abitanti come la loro signora, e, dulcis in fundo, per lei era stato sempre pronto a lasciar tutto, impegni in tribunale e udienze varie. Gli bastava leggere i messaggi d’amore che la donna gli inviava su tavolette d’onice o di cristallo o vederla passare per diventare un cagnolino obbediente. Cosí aveva spesso trascurato gli impegni ufficiali verso re e tetrarchi e, una volta, aveva piantato in asso nel mezzo di un’udienza 199

cleopatra Furnio, grande oratore romano, molto valente e di tutto rispetto, per correre appresso alla lettiga dell’Egizia che aveva intravisto passare. A poco valsero i tentativi di difesa degli ultimi pochi amici di Marco Antonio rimasti a Roma. Inutilmente avevano cercato di smontare a una a una le accuse contro l’amico e inutilmente uno di loro, tal Geminio, lo raggiunse in Grecia, a Patrasso, dove quegli s’era spostato, per convincerlo a presentarsi in Senato e cacciare in Egitto Cleopatra. Marco Antonio non accettò il consiglio e, offeso per quanto gli si proponeva, rispedí l’amico a Roma, dove, nel frattempo, il Senato aveva preso le sue decisioni. L’ex triumviro era stato dichiarato nemico pubblico e come tale non avrebbe potuto piú ricoprire alcuna carica pubblica. La decisione ebbe una ricaduta immediata: Marco Antonio era consul designatus per il 31 a.C., ma, ormai, aveva perso l’occasione per tornare a Roma, la magistratura gli era stata negata. Al consolato sarebbe salito Ottaviano, che completò l’anno facendo un’ultima mossa. Nell’ottobre del 32 a.C. organizzò una grandiosa e solenne processione al Campo Marzio. Là sorgeva il tempio della dea della guerra Bellona. A lei sacrificò pubblicamente una bestiola, nel sangue della quale immerse una lancia. Era un rito antichissimo che facevano i feziali al momento di dichiarare guerra a un popolo straniero. La lancia doveva esser scagliata in direzione del nemico e cosí la guerra sarebbe stata riconosciuta come sacra e giusta. Ottaviano scagliò la lancia e pronunciò il suo discorso, la dichiarazione di guerra . . . contro Cleopatra. 3. Azio: la battaglia Il 31 a.C. portò la guerra a primavera. Nell’inverno i due schieramenti si erano disposti l’uno contro l’altro sullo Ionio, quello di Marco Antonio e Cleopatra, a oriente, con posizio200

vi. l’ultima stagione, dentro la storia ni lungo la Grecia e fino all’Africa, l’altro, quello di Ottaviano, sulle coste italiane. Gli eserciti schierati in campo e in mare erano immensi. L’ex triumviro d’Oriente e la regina potevano contare su una flotta grandiosa di ben cinquecento navi da guerra, di cui molte poliremi a otto o dieci ordini di rematori, e trecento navi da carico. A capo stava l’Antoneide, la nave ammiraglia di Cleopatra che custodiva il tesoro per finanziare l’impresa. A terra centomila erano i fanti e dodicimila i cavalieri; si aggiungevano le truppe portate dai sovrani di Libia, Cilicia, Cappadocia, Paflagonia, Commagene e Tracia e quelle inviate dagli alleati di Ponto, Arabia, Giudea, Media e Galizia. Ottaviano, nominato al consolato per quell’anno insieme a Valerio Messalla Corvino, poteva contare sull’appoggio di tota Italia, ché i senatori e tutti i Romani e i Latini e i provinciali d’Occidente sotto le armi o in età da essere richiamati gli avevano giurato la lealtà e promesso coraggio. Schierava ottantamila fanti, dodicimila cavalieri e duecentocinquanta navi, la metà rispetto alla flotta degli avversari ma liburne, imbarcazioni di nuova fabbricazione per i Romani e molto strette e leggere per esser rapide e facili da manovrare in mare. Il suo asso era un sol uomo, l’amico di sempre, Marco Vipsanio Agrippa, a cui per l’occasione affidò il comando della flotta. Fu proprio Agrippa a dare inizio alle danze ai primi di marzo del 31 a.C. con un attacco a sorpresa via mare: riuscí a togliere a Marco Antonio il controllo di Methone, un porto fortificato di prima importanza per la tenuta della guerra. Controllarlo gli permise di poter avviare tutta una serie di attacchi, rapidi e imprevisti, contro le varie postazioni costiere e di intercettare le navi che dall’Egitto portavano il grano per le truppe. Insomma, Agrippa, presa Methone, poté gestire la guerra su mare e mise in gravi difficoltà l’avversario che, 201

cleopatra per ottenere di che sfamare i suoi soldati, fu costretto a rivalersi sulle genti di Grecia, che certo non era un buon granaio. Nei mesi successivi la guerra continuò con varie scaramucce via mare, che permisero però qualche acquisizione strategica: Ottaviano riuscí a prendere Corcyra, aprendosi cosí la strada per procedere anche via terra, e poi si spostò in Epiro prendendo Torine (‘Mestolo’), una cittadina sul mare che aveva il suo nome dalla forma a “mestolo” della costa su cui stava il suo porto. La guerra d’attacco si era tramutata in una guerra di posizione e logoramento che mise in difficoltà soprattutto le truppe di Marco Antonio. A nulla valse la battuta della regina, che per sdrammatizzare, scherzò su Ottaviano che si era accomodato su un “mestolo” e che, per questo, non poteva far danno né essere di pericolo. La situazione era un po’ piú seria e bisognava affrontarla. Il quartier generale di Marco Antonio e Cleopatra si spostò ad Azio, promontorio dell’Acarnania nella Grecia nord-occidentale, all’imbocco del golfo Atra. Ottima posizione: disponeva di un porto e offriva una piana, ma era anche acquitrinoso e povero d’acqua potabile. Da quelle parti si era spostato anche il nemico, che alla fine si sistemò sulla costa opposta, a mezzo miglio di distanza. Lí si sarebbe svolta la battaglia. L’estate fu pesante piú del previsto. L’esercito di Marco Antonio diverse volte cercò di rompere il blocco nemico senza riuscirci o di provocare battaglia. Nel frattempo Agrippa prendeva posizione e conquistava Leucade, Patrasso e Corinto. La situazione di giorno in giorno peggiorava. Bisognava uscirne al piú presto. Il caldo e la mancanza d’acqua erano un nemico difficile da battere: favorirono la diffusione di varie malattie, malaria e dissenteria innanzitutto. L’attesa si faceva insopportabile. I successi di Agrippa erano di volta in volta uno strappo alla stabilità delle truppe di Marco Antonio che, in pratica, non riusciva neanche a uscire dal golfo e co202

vi. l’ultima stagione, dentro la storia minciava ad avere difficoltà a reperire i rifornimenti. Molti uomini, frustrati dall’attesa o demoralizzati dalla situazione, non vedendo via d’uscita o temendo il peggio, cominciarono a perdere fiducia nel loro comandante. Molti amici, anche tra i piú cari come Domizio Enobardo, passarono dall’altra parte dello stretto. Cosí fecero alcuni dei re alleati. A fine agosto fu necessario prendere una decisione. Le fonti antiche riferiscono di una sorta di consiglio di guerra nel campo di Marco Antonio. La gran parte dei suoi generali e il grande Canidio Crasso gli suggerirono di non tentare la guerra in mare ma di organizzarsi per uno scontro campale in Macedonia o in Tracia e, ancora una volta, di rimandare in Egitto Cleopatra. Marco Antonio era oggettivamente piú forte quanto a fanti e cavalieri ed era un vero campione delle battaglie campali, stava in quelle la sua maggiore e migliore esperienza. La regina, scrivono gli antichi, si oppose e la spuntò sull’amante. Come avrebbe fatto a raggiungere l’Egitto, se Ottaviano bloccava il passaggio con la sua flotta? Un viaggio via terra non era certo proponibile. E poi non era forse lei che aveva finanziato la campagna e pagava tutto? E, soprattutto, non era a lei che era stata dichiarata la guerra? La decisione fu di non rinunciare alla flotta, di rompere il blocco nemico e di rischiare lo scontro in mare. Insomma, bisognava uscire dallo stallo, togliersi da Azio e spostare la guerra verso altri territori, forse in Egitto, cosí da poter sfruttare le sette legioni rimaste tra Siria e Cirenaica. Marco Antonio e Cleopatra avranno avuto un piano ben chiaro in testa e questo spiegherebbe l’incendio di molte delle navi da carico prima della battaglia e l’ordine del comandante di tenere in quelle rimaste le vele, nonostante fossero un peso in piú e un vero impaccio. Certo sta che all’alba del 2 di settembre del 31 a.C. la flotta di Marco Antonio cominciò 203

cleopatra a uscire dal golfo e a disporsi in semicerchio. Dietro stavano le navi egizie di Cleopatra col tesoro. L’intenzione probabilmente era di respingere il nemico procedendo in modo serrato, cosí da garantire l’uscita in mare aperto delle navi della regina e poi prendere il largo dietro quelle verso una nuova destinazione. Una volta disposte le navi, forse per questo, Marco Antonio aspettò l’ora sesta, mezzogiorno, per dare l’ordine di avanzare. Forse solo allora si alzò il vento necessario per andare. Le sue grandiose navi cominciarono a farsi avanti costringendo l’avversario a indietreggiare. A un tratto la situazione gli sfuggí di mano. Uno dei suoi comandanti, Publicola, vedendo Agrippa retrocedere, decise di prendere l’iniziativa e di trasgredire all’ordine che gli imponeva di far barriera procedendo con le altre navi. L’azione non fu priva di conseguenze: il generale di Ottaviano smise di indietreggiare e mosse all’attacco dando inizio alla battaglia. Lo scontro era inevitabile e cominciò ad allargarsi di nave in nave. La flottiglia di Cleopatra, approfittando del varco disponibile, prese il largo. La regina doveva salvare il suo tesoro, come nell’accordo. Il compagno la seguí, ma molte delle sue navi andarono perse. Dalle navi nemiche, a un punto cominciò a essere usata l’arma fatale, vere e proprie bombe di fuoco che colpito il bersaglio lo mandavano in fiamme. Molte delle navi di Marco Antonio finirono cosí, incendiate o affondate, e molti dei suoi uomini morirono bruciati o annegati. Altre navi non poterono seguire il comandante e si arresero. A fine giornata restarono migliaia di morti e relitti vari. Ottaviano e Agrippa salutarono la vittoria e a Cleopatra e Marco Antonio toccò l’onta di esser fuggiti abbandonando la battaglia. Con l’argomento della fuga vergognosa dietro l’Egizia e dell’abbandono dei suoi uomini, pochi giorni dopo, l’armata terrestre antoniana, che era in marcia per raggiunge204

vi. l’ultima stagione, dentro la storia re la Macedonia e da lí l’Asia, intercettata, fu convinta alla resa. La mossa di Azio era stata un azzardo ed era costata molto, troppo. Da quel che ci dicono gli autori antichi, Marco Antonio, raggiunta Cleopatra e imbarcatosi con lei sull’Antoneide, ebbe un crollo. Sedutosi sulla prua, senza aver rivolto la parola a nessuno e neanche alla sua Cleopatra, rimase a lungo in quel silenzio tenendosi la testa fra le mani. Nell’uomo piú che la vergogna agí il dolore. Egli non aveva da rimproverarsi una fuga, perché lasciare Azio era stato necessario come lo può essere l’unica possibilità, ma si rimproverò sicuramente la morte di tanti uomini, visti bruciare o annegare, e la fiducia riposta in tanti che aveva creduto amici e che, nel momento piú importante, lo abbandonarono per passare dall’altra parte. Forse ripensava a Dellio, che egli aveva scelto come suo messo tante e tante volte e aveva voluto sempre al suo fianco e che, proprio nella notte del 1o settembre, aveva lasciato il campo e raggiunto Ottaviano per spifferargli tutto, anche quanto era stato deciso per uscire dal blocco di Azio. Possiamo immaginare che per la mente e per il cuore gli passasse tutta la galleria dei tradimenti e dentro lo pizzicasse il rimorso di non aver cercato un’altra soluzione. Soltanto una volta raggiunto il Tenaro Cleopatra prese l’iniziativa e, attraverso alcune sue ancelle, lo convinse a tornare fra i mortali, a parlare e pranzare con lei e far fra loro il resto. I due raggiunsero Paretonio, un porto fra la Cirenaica e l’Egitto, dove si separarono: la regina prese la via del ritorno in patria, cosí da poter organizzare la difesa contro un possibile attacco e da prevenire eventuali disordini interni; Marco Antonio si spostò alla volta di Cirene, perché lí aveva appuntamento con Lucio Pinario Scarpo che dall’Africa doveva portargli quattro legioni. Al suo arrivo il triumviro apprese con amarezza che Pinario, tradendolo, aveva già consegnato 205

cleopatra le truppe al generale nemico Cornelio Gallo, il quale era già in marcia contro l’Egitto. Il colpo era piuttosto forte e arrivava dopo che allo sbarco a Paretonio Marco Antonio aveva saputo che le sue truppe rimaste per tornare via terra avevano contrattato la resa con Ottaviano, che altri re e principi fra i suoi alleati l’avevano abbandonato per quello e che la Macedonia, la Grecia e l’isola di Candia erano state ormai prese. Al suicidio lo tolsero solo due degli ultimi amici, il retore greco Aristocrate e il romano Lucilio, che lo convinsero a tornare ad Alessandria. Lí almeno c’era Cleopatra. 4. L’ultima stagione Una volta ad Alessandria, Cleopatra e Marco Antonio si separarono per un pezzo. Per la regina l’ultimo scorcio del 31 a.C. fu tutto un groviglio di azioni, di tentativi, di progetti. Marco Antonio, al suo arrivo, l’aveva trovata impegnata in un’impresa grandiosa: far portare la flotta nel Mar Rosso, attraverso l’istmo che divideva l’Egitto dall’Asia. Il suo progetto, che era quello di trovar scampo in un qualche paese lontano con i figli e le ricchezze, sarebbe presto fallito perché i Nabatei di re Malco, quello che le doveva pagare lo sfruttamento del bitume, le avrebbero bruciato buona parte delle navi, facendola desistere dal proseguire su quella strada. La regina si era messa anche su altri fronti: provvedeva a soffocare ogni forma di opposizione interna, cercava appoggi e alleanze fra i popoli d’Asia e altre genti piú lontane, preparava la successione di Tolomeo Cesare sul trono d’Egitto. Forse meditò pure di intavolare trattative con Ottaviano, il quale nel frattempo, dopo Azio, si era trasferito a Rodi, da dove pensava di condurre a termine la sua impresa: la conquista dell’Egitto e del tesoro dei Tolomei. Lí lo raggiunsero gli ultimi transfughi dello schieramento nemico, fra i quali il 206

vi. l’ultima stagione, dentro la storia re di Giudea, Erode, fra i piú stimati da Marco Antonio e che tanto doveva al triumviro, ma che, probabilmente, non gli aveva perdonato la faccenda di Gerico e dei balsami di Gilead e, soprattutto, non gli perdonò mai il legame con Cleopatra. Marco Antonio, toccato nel profondo e vinto da quel sentimento di dolore che nasce dalla delusione e per il disgusto del mondo e degli uomini, dopo l’arrivo aveva scelto l’isolamento e si era trasferito in una casupola che si era costruito al mare, presso l’isola di Faro, e che aveva chiamato Timonium in onore di Timone di Atene, l’uomo che odiava gli uomini, quello a cui in un epigramma alessandrino il poeta Callimaco fa dichiarare di preferire la vita alla morte solo perché il mondo di sotterra è troppo pieno d’uomini, piú di quello che sta sotto il cielo. Da quella sua vita lo tolse Canidio arrivato in Egitto. Il grande generale gli raccontò personalmente della resa delle truppe ad Azio e anche di Erode e di tanti altri sovrani che avevano tradito in favore di Ottaviano. Da Canidio Marco Antonio seppe che alla fine gli restava soltanto la gente d’Egitto e, cosí, come chi per aver abbandonato ormai ogni speranza non ha cuore neanche per le preoccupazioni, egli decise di tornare a palazzo da Cleopatra. Con lei e con tutta la città di Alessandria per piú e piú giorni, con banchetti e donazioni ricche e generose, volle festeggiare l’ingresso nell’età adulta di Tolomeo Cesare e di Antillo, il figlio che egli aveva avuto con Fulvia. Con l’amante e compagna presto ricostituí il circolo delle serate alessandrine che, uguale nella sostanza delle feste e dei bagordi, cambiò di nome e prese quello di Synapothanoumenoi (‘Coloro che stanno per morire insieme’) a indicare chi, avendo vissuto intensamente e avendo perso troppo, vuol permettersi, con una beffa ancora, di poter giocare anche con la morte. Con la regina, soprattutto, Marco Antonio collaborò nelle trattative con Ottaviano. In quei mesi i due inviarono ben tre messi al console romano. Il primo a nome della regina conse207

cleopatra gnò al nuovo Cesare le insegne regali e portò un messaggio: Cleopatra si dichiarava pronta ad abdicare al trono, ma chiedeva che il regno restasse in famiglia, ai suoi figli e, in particolare, a Cesarione. Il secondo giunse a nome di Marco Antonio ed era il figlio stesso dell’ex triumviro d’Oriente, il giovane Antillo, che aveva da poco compiuto quattordici anni ed era entrato cosí nel numero degli adulti. Il ragazzo portava un’ingente somma di denaro e un dono particolare: l’informazione sul luogo dov’era possibile trovare Turullio, uno degli ultimi cesaricidi ancora in vita, che Ottaviano avrebbe avuto la gioia di fare ammazzare. In cambio Marco Antonio chiedeva di potersi ritirare a vita privata. Il terzo messaggero fu un certo Eufronio, uno dei tutori dei figli della regina. Cleopatra chiedeva ancora una volta di poter lasciare il trono in famiglia, ai figli, e mandava una grossa somma di denaro. Ottaviano prese ogni volta tutto quanto gli si portava, ma non diede mai una vera e chiara risposta. In testa aveva altro. Troppo ricco era l’Egitto per non sfruttare l’occasione di poter mettere mano su quel tesoro e il novello Cesare aveva un oggettivo bisogno di denari. Una guerra costa sempre cara e a fine del 31 a.C. i veterani gli avevano presentato un conto piuttosto salato. Egli aveva dovuto lasciare di gran corsa Rodi, per recarsi in Italia dove il malcontento era esploso e i soldati chiedevano il rispetto delle promesse. La cosa fu tanto grave che rimase a Brindisi per un buon mese. Poi, una volta placati gli animi, a inizio dell’anno nuovo poté tornare in Grecia e riprese le trattative con l’Egitto, che durarono per tutto l’inverno, senza che mai si raggiungesse un accordo. In realtà egli preparava altro, doveva soddisfare i veterani, le nuove promesse che gli aveva fatto e la sua ambizione. Ottaviano aveva in testa il tesoro dei Tolomei, su quello voleva allungare la mano.

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vi. l’ultima stagione, dentro la storia 5. La morte inimitabile Nella primavera del 30 a.C. Ottaviano partí all’attacco e dalla Grecia si spostò in Asia. Qui poté contare sul solerte appoggio del re di Giudea Erode, che, dopo avergli già offerto il tradimento a Marco Antonio e una girandola di pettegolezzi contro Cleopatra, nell’occasione gli forní talenti e rifornimenti e quanto necessario a superare le difficoltà del territorio, caldo e deserto, e a raggiungere l’Egitto da oriente. Le postazioni di guardia a Pelusio, la roccaforte che era la porta del regno per chi veniva da est, s’arresero senza opporre alcuna resistenza e lasciarono entrare il nemico nel paese. Nel frattempo, Cornelio Gallo, il poeta generale, dopo uno scontro disperato con Marco Antonio, aveva preso Paretonio, a 300 km. circa da Alessandria, e muoveva da lí, premendo da occidente e dal mare. In estate, a fine luglio, con Ottaviano da una parte e Gallo dall’altra, Cleopatra e Marco Antonio organizzarono la resistenza. La regina diede l’ordine di trasferire nel suo mausoleo in costruzione presso il tempio di Iside tutto il suo tesoro, l’oro e l’argento, le pietre preziose e le splendide perle, l’ebano l’avorio e il cinnamomo, un patrimonio inestimabile per quantità e per valore. Nel monumento volle anche che fosse raccolta molta legna e fossero piazzate esche d’ogni sorta per appiccare, in caso, il fuoco a tutta la roba. Il messaggio era chiaro e arrivò presto a chi doveva arrivare. Ottaviano era ancora troppo lontano per poter evitare quell’incendio e cosí, per prender tempo, rispose con molte lettere di garanzie e promesse. Si era capito ormai che soltanto al tesoro d’Egitto egli aspirava e che tutto il resto per lui contava poco. Bisognava, quindi, organizzare il necessario per salvare il salvabile. Marco Antonio, al riguardo, ebbe un umore altalenante: in certi casi fu spavaldo, in altri rivelò una debolezza disperata. In un giro di giorni poteva passare dall’uno all’altro atteg209

cleopatra giamento. Una volta che un certo Tirso gli recapitò una lettera di Ottaviano, fu deciso e sprezzante tanto da rimandare al mittente il messo dopo averlo fatto prendere a colpi di sferza. Poco dopo, però, inviò di suo una lettera all’ex cognato supplicandolo di far salva la vita alla regina e ai figli e di conservare il regno ai Tolomei, accettando in cambio la sua morte. Questo era il grande condottiero in quella stagione, un uomo reso incerto dalla vita. Ciò nondimeno, in quello stralcio d’estate egli riuscí a improntare il necessario alla difesa e a ottenere anche un successo quando, il 31 luglio, ci fu un primo scontro. Il tutto avvenne alla periferia della città, presso l’ippodromo, dove Ottaviano, entrato, s’era accampato. Marco Antonio lo sorprese con una sortita e riuscí combattendo valorosamente a metterne in fuga la cavalleria e a respingerne le truppe inseguendole fuori dalle mura. Il risultato era stato incoraggiante, ma non bastò a rinfrancare i suoi uomini, che già avvertivano allungarsi sul loro presente l’ombra d’un futuro che vedeva Ottaviano vincitore. Quella sera Marco Antonio pagò il successo ancora una volta facendo esperienza del tradimento. Dopo la vittoria aveva raggiunto di corsa la regina a corte, con sé portando il soldato che fra tutti era stato il piú valoroso. Il comandante voleva cosí premiare il suo uomo e Cleopatra all’elogio aggiunse un’armatura e un elmo di purissimo oro. Il soldato, però, la notte stessa, senza farsi scrupolo alcuno, col suo bell’elmo e l’armatura tanto preziosa, lasciò la città per unirsi alle truppe di Ottaviano. Fu un altro duro colpo. Si dice che Marco Antonio, trovandosi stretto dalla situazione, abbia lanciato al rivale la sfida di risolvere la cosa fra loro due, con un duello. Ne ottenne un rifiuto e si decise allo scontro diretto. Un uomo che aveva vissuto la gran parte del suo tempo a far la guerra, alla fine solo su un campo di battaglia poteva giocare con la sorte in modo onesto. Gli restava questo per 210

vi. l’ultima stagione, dentro la storia salvare Cleopatra e i figli o per salvar la faccia: cercare la vittoria o trovare una morte gloriosa. Organizzò quindi le sue forze e, all’alba del 1o agosto, mandò in mare la flotta, sui colli posti di fronte alla città posizionò la cavalleria e con sé tenne i fanti. Le navi avrebbero attaccato quelle con cui Cornelio Gallo chiudeva il porto e la fanteria e la cavalleria avrebbero provveduto al resto. Anche quel giorno il diavolo non dimenticò di metterci lo zampino della defezione e del tradimento. Le navi di Marco Antonio, avvicinate quelle nemiche, le accolsero con i remi alti in segno di saluto e con quelle, come fossero un’unica flotta, fecero vela di nuovo verso il porto, battendo ormai la bandiera di Ottaviano. A quel punto, anche la cavalleria deluse il comandante, preferendo il tradimento al combattimento e i fanti, che gli erano rimasti a fianco a tentare la resistenza, scoraggiati, combatterono male e, in fin dei conti, inutilmente. Nel pomeriggio tutto era finito. Ottaviano, seguito dalle sue truppe, poté entrare in città vittorioso. L’orgoglio alessandrino non alzò barriere contro le insegne di Roma e lasciò il passo alla marcia di quei soldati che venivano scortando un nuovo signore. Per Alessandria era giunta l’ora fatale, quella contro cui non si può nulla fare. Molti fra i suoi abitanti si arresero semplicemente alla forza dell’evidenza e delle armi, altri tirarono in ballo gli dèi e le loro volontà nascoste e misteriose, e alcuni di loro trovarono il segno dell’ineluttabilità di quella sconfitta in un prodigio che aveva preceduto di qualche ora la battaglia e aveva colpito molto tutta la popolazione. La notte prima era accaduto qualcosa di strano, come un ultimo scherzo del fato e per molti appunto un segno premonitore di sventura. Era quasi mezzanotte e la città stava stretta in un angoscioso silenzio d’incertezza, nell’attesa di quanto sarebbe accaduto l’indomani. S’udí una melodia meraviglio211

cleopatra sa, un concerto di strumenti diversi che un coro di voci accompagnava. Sembrò che ci fosse una folla festante, un clamore di gente, una corsa combinata a passi di danza. Era come un corteo di satiri e baccanti che girò per varie vie della città dirigendo verso un punto preciso. Andava a Canopo, alla porta orientale, là dove s’era sistemato Ottaviano, là dove con un ultimo grido tutto finí. All’indomani fu facile per molti l’interpretazione: Dioniso, il dio della gioia e della liberazione, aveva abbandonato il suo Marco Antonio. Lo sconfitto fu visto correre per la città disperato, poi riuscí a raggiungere i Basileia. Alla sua fuga era meta Cleopatra. La regina, però, aveva già abbandonato il palazzo reale e con Iras e Carmio, le sue ancelle piú care, e con un eunuco fidato si era fatta rinchiudere nel mausoleo, facendo calare le saracinesche alle porte e assicurandole da dentro con varie assi e i chiavistelli piú pesanti. Con sé la regina aveva il tesoro dei Tolomei e un sacco di materiale incendiario. Le restava da giocare questa carta, ma prima doveva toglier l’asso in mano all’avversario. Marco Antonio non era con lei, era rimasto fuori dal mausoleo e, certo, nel giro di poche ore, sarebbe stato fatto prigioniero. Cleopatra non lo dimenticò, lo conosceva e gli voleva bene. Lo sapeva soldato e indovinava nel suo uomo i sentimenti e lo scoramento. Cosa gli aveva potuto lasciare in corpo quella sconfitta? Come poteva sentirsi, lui che sempre era stato intrepido e valoroso, nell’esser stato costretto alla fuga da uno come Ottaviano, che di guerra ne capiva poco o niente e che le battaglie le aveva sempre guardate da lontano affidando il comando ad altri? Per un cittadino romano a volte la morte era da preferire alla vita, come il bene a un male. Sui campi di guerra quanti vinti avevano scelto con un ultimo atto di forza di lasciar l’una per passare all’altra? Era per loro la sola strada dinanzi a una sconfitta, l’ultimo atto per salvare la propria dignità, il sublime coraggio dei vinti. 212

vi. l’ultima stagione, dentro la storia Marco Antonio in quelle ore era forse combattuto e pensava a come aprire la porta che chiude una vita. In altra occasione, quando s’era sentito disperato, aveva mostrato di volersi avviare per quella strada che porta dall’altra parte e forse sentiva che quello era quanto da generale doveva ormai fare. Forse per questo Cleopatra non lo mandò a cercare per invitarlo a raggiungerla al mausoleo. Fra loro dovevano averne parlato e forse l’argomento aveva anche impegnato qualche allegra serata dei Synapothanoumenoi, già che nella morte la brigata fissava l’ultimo appuntamento. Sta che in quello stesso pomeriggio Marco Antonio seppe che Cleopatra era morta e, come ci raccontano in tanti fra gli autori antichi, fu proprio la regina che volle farglielo sapere. Se fu cosí, forse volle aiutarlo su quella che era a conti fatti l’unica possibile strada, quella che avrebbe onorato il suo glorioso passato e lo avrebbe salvato dalle umiliazioni e dalle violenze del nemico. Cosa, infatti, gli sarebbe successo in mano a quell’Ottaviano che aveva tante volte mostrato d’essere un uomo gelido e spietato? Quel Cicerone che l’aveva scelto contro Marco Antonio com’era finito? Quale parola per salvarlo era stata pronunciata da quello che era stato il suo pupillo? E le liste di proscrizione? Il « bisogna morire » detto a chi dopo i fatti di Perugia lo supplicava di risparmiargli la vita? La testa fatta spiccare dal corpo di Bruto ormai morto? E la durezza mostrata contro i prigionieri? Tanto e molto altro sapeva Cleopatra sul conto di Ottaviano. Insomma, quale trattamento avrebbe riservato a Marco Antonio? E, soprattutto, cosa non gli avrebbe fatto per far forza sulla regina? L’unico partito possibile era togliere di mano a Ottaviano quell’ultima e sola carta e risparmiare a Marco Antonio la definitiva sconfitta. Bisognava sottrarre l’amico alla tortura e il padre dei propri figli all’ignominia. Per amore e in nome di quel patto che li legava come chi ha scelto d’esser compagno anche nella mor213

cleopatra te bisognava sacrificare l’amante. Forse fu Cleopatra a volere che a Marco Antonio arrivasse la notizia falsa della sua morte. Forse la notizia si sparse in giro nella confusione del momento senza altra ragione che la disperazione. Forse potrebbe esser stato anche Ottaviano a voler segnare di un’ultima ferita il cuore del nemico. Certo è che Marco Antonio quando apprese la notizia soffrí d’un dolore piú grande di quello della sconfitta. Cleopatra era la donna amata, l’unica e ultima ragione per poter amare la vita. Senza di lei tutto era ormai per sempre perduto. Si decise allora per quella strada che non si sa dove porti ma che almeno l’avrebbe tolto da quelle che gli si prospettavano innanzi. Aveva in quel momento con sé un servitore, il piú fedele, quello solo che gli era rimasto accanto. Per l’ironia che talvolta può la vita, costui si chiamava Eros e un giorno aveva promesso al suo padrone che gli avrebbe dato la morte quando glielo avesse chiesto. In quel pomeriggio, Marco Antonio, spogliatosi di quel che gli restava addosso della guerra e mostrando nudo il petto, chiese a Eros di ammazzarlo e gli diede in mano la spada con cui doveva farlo. Il pover’uomo, trovandosi al bivio tra obbedienza e affetto, non riuscí a far quanto doveva. Quando il suo padrone voltò indietro la faccia per non dover vedere quella dell’Ultima Signora, invece di colpirlo ferí se stesso a morte e si lasciò cadere ai piedi del suo generale che solo allora, dopo aver elogiato il suo bravo Eros, presa un’altra arma, fece quanto quegli gli aveva mostrato di saper fare. Quel che seguí fu molto triste. Marco Antonio, pur colpendosi con tutta la forza che aveva, si prese al ventre e la ferita non l’uccise di colpo. Cadde su un lettuccio svenuto tanto da sembrar morto, poi la sua ferita smise di sanguinare e riprese coscienza. Le sue grida disperate chiamarono alcuni amici al suo capezzale, li supplicò di dargli la morte, ma, ancora una volta, gli uomini gli voltarono le spalle mostrando la 214

vi. l’ultima stagione, dentro la storia loro vera faccia. Poi venne Diomede, il segretario personale di Cleopatra. La regina aveva appreso quanto era accaduto e che il suo uomo era moribondo. Lo voleva con sé nel mausoleo per abbracciarlo e tenerlo a sé un’ultima volta. Anche per lei c’era poco da sperare. Dal mausoleo stava tentando la resistenza, ma soltanto per salvare i figli e, in particolare, Cesarione, il maggiore, quello che nel nome portava ormai la sua condanna. Dal mausoleo la regina aveva cominciato a minacciare di dar tutto alle fiamme. Che andasse a fuoco con le sue due serve e con l’eunuco a Ottaviano, certo, importava assai poco, ma che mandasse in aria i suoi progetti e lo privasse del tesoro lagide gli importava parecchio. Per lui la posta in gioco era troppo alta per non fingere di scendere a patti. La donna, alla fine, chiedeva garanzie per il suo paese e i suoi figli. La si poteva prendere in giro illudendola su questo e su quell’altro che andava cercando. Nel frattempo, si sarebbe pensato a trovare il modo per entrare nel mausoleo e toglierle di mano l’esca incendiaria, l’unica sua forza. Per assurdo fu l’arrivo di Marco Antonio morente che regalò a Ottaviano l’occasione che aspettava. Quando l’uomo fu condotto al monumento, per farlo entrare, siccome le porte erano sprangate, si pensò a una finestrella del piano superiore. Per quella sarebbe passato. La regina e le sue ancelle calarono da lí corde e funi e con esse l’uomo fu subito ben imbracato cosí che potesse essere portato su senza rischio di cadere. La scena, per chi vi poté assistere, fu straziante e pietosa. Le tre donne, Cleopatra e le due ancelle, stavano alla finestra affacciate tenendo stretta stretta la corda e tirandola su come potevano. La regina era come mai era stata vista. Il suo viso era contratto per lo sforzo e tradiva la sua pena e il dolore. Marco Antonio, agonizzante e tutto coperto di sangue, mentre veniva issato, tendeva verso di lei le braccia e le tenne 215

cleopatra cosí fino a quando non fu raccolto fra quelle della sua regina. Poi fu portato dentro al mausoleo e sappiamo poco di quel che accadde fra quelle mura. Plutarco ci dice che la regina pianse il suo dolore stracciandosi le vesti e graffiandosi il petto, che abbracciò l’amato asciugando col proprio viso il sangue che la ferita mandava, che lo chiamò signore, marito e imperatore. L’uomo chiese solo del vino, per addolcire il sapore che ha la morte, e cercò di rassicurare l’amata. Le disse che alla fine del conto non gli era andata tanto male: aveva avuto una buona sorte nei beni e nei successi ed era stato un grandissimo generale e triumviro di Roma. Per un Romano non era ignobile finire a quel modo, vinto da un altro Romano. La pregò di non disperare e di pensare a salvarsi. Le raccomandò di fidarsi d’un sol uomo fra quelli di Ottaviano, un tal Proculeio, il cognato di Mecenate, l’amico che aveva sempre finanziato le imprese del triumviro d’Occidente, il secondo dei suoi amici dopo Agrippa. Poi spirò tra le braccia di Cleopatra, appena in tempo per non dover subire un’altra delusione. Poco dopo, al mausoleo si presentò proprio quel tal Proculeio. Una delle guardie di Marco Antonio, nel pomeriggio, dopo che egli aveva compiuto il suo gesto, era corsa da Ottaviano per dirgli quanto era accaduto e consegnargli la spada ancora lorda di sangue. Il novello Cesare aveva fatto i suoi conti e, appreso che il moribondo era stato portato al mausoleo, aveva mandato Proculeio perché prendesse tempo cosí che l’Egizia non appiccasse il fuoco al tesoro. La regina, nonostante la raccomandazione che il compagno le aveva fatto prima di morire, da greca si fidò poco dell’ambasciatore romano che veniva per conto di quell’altro e lo lasciò alla porta. Si doveva giungere a patti: Cleopatra avrebbe fatto del mausoleo una pira se non avesse avuto garanzie per i suoi figli. Proculeio, però, non era là per risolvere la questione, ma per prender tempo e valutare la situazione. Parlando con la 216

vi. l’ultima stagione, dentro la storia regina, notò la finestrella al piano superiore, proprio quella per la quale era passato poc’anzi Marco Antonio. Nella confusione del momento non si era pensato di serrarla bene e per essa si poteva entrare. Cosí, dopo un discorso inconcludente, in cui il Romano si limitò a dare garanzia della bontà del suo comandante invitando la regina a non considerarlo infido e malvagio, il colloquio finí com’era iniziato. Proculeio, l’ultimo traditore nella vita di Marco Antonio, corse da colui che l’aveva mandato a riferire quel che aveva scoperto e poi i Romani organizzarono il tutto, la fine di Cleopatra. Nel giro di poco tempo, alla porta del mausoleo si presentò un altro romano. Si trattava stavolta di Cornelio Gallo, il generale di Paretonio e dell’attacco con la flotta. Era un poeta della cerchia dei cosiddetti “alessandrini”, di coloro che a Roma scrivendo guardavano alla poesia dei grandi poeti di Alessandria e dell’ellenismo greco. Rimase alla porta. Il suo compito era restar lí e tenervi la regina. Mentre il poeta la distraeva, Proculeio con due compagni aveva appoggiato una scala sul lato del mausoleo dove si apriva la finestrella e da lí era quindi entrato, sorprendendo Cleopatra alle spalle. La donna tentò invano di liberarsi dalla stretta e di darsi anche lei la morte con un coltelletto che teneva alla cinta, ma era ormai tardi e fu fatta prigioniera. Il tesoro dei Tolomei cadeva finalmente nelle mani di Ottaviano, ma gli restava la regina fra i piedi. Che farne? Fu innanzitutto messa sotto custodia. Il compito fu dato a un tal Epafrodito, un liberto che doveva prendersi cura della regina e non farle mancare tutto ciò di cui potesse avere bisogno. Cleopatra chiese soltanto di poter provvedere personalmente alla sepoltura del compagno e, già che il cadavere di quello era per Ottaviano e compagni piú scomodo che importante, fu subito soddisfatta. Per due giorni si preoccupò del corpo dell’amante, lavandone via il sangue e preparandolo per l’ul217

cleopatra tima dimora. Poi, il 3 di agosto, lo accompagnò alla tomba con tutti gli onori che meritava. In quei giorni il dolore che aveva in corpo e che manifestò com’era uso delle donne greche fu tale e tanto che poco dopo la regina si ammalò. Si era battuta con tal forza il petto da infiammarlo e graffiarlo al punto che quelle ferite si erano infettate e le avevano fatto salire la febbre. La donna, rimessa sotto custodia e ormai ammalata, aveva poi smesso di mangiare e bere e chi la vide pensò, senza sbagliare, che la regina aveva in corpo solo la voglia di morire. Di quei giorni si sa poco. La propaganda successiva ha poi nascosto alcuni fatti, ne ha rigirati altri e, per non dispiacere a Ottaviano, ha raccontato la storia solo dalla sua parte, dal punto di vista che meglio lo poteva presentare. Ci viene raccontato che la regina dopo alcuni giorni si riprese dalla malattia e proprio per l’interessamento del suo peggior nemico, che, stando alle fonti, non voleva che la donna morisse a quel modo e, per evitarlo, avrebbe agito sia con le minacce, intimandole di cambiar partito in nome dei suoi figli, sia preoccupandosi di farle visita di persona. Nei fatti, però, i due figli maggiori di Marco Antonio e Cleopatra erano già stati presi di mira dal Romano, che aveva fatto catturare, bastonare e decapitare Antillo, e che sulle tracce di Cesarione, dalla madre inviato per riparare altrove, aveva già mandato i suoi scagnozzi. Non c’era al riguardo granché da sperare in compassione da Ottaviano. Certo la madre, ridotta in quello stato, non sapeva cos’era toccato al giovane Antillo né sapeva della decisione su Cesarione, ma, di sicuro, conosceva bene l’uomo con cui aveva a che fare e sapeva che di lui era meglio non fidarsi. Perché per salvarla venivano tirati in ballo i suoi figli dopo che per loro non le era stata fatta mai alcuna concessione, neanche quando, chiusa nel mausoleo, aveva minacciato di dar fuoco a tutto il tesoro 218

vi. l’ultima stagione, dentro la storia lagide? E perché poi Ottaviano sarebbe andato a farle visita e a parlarle? Leggendo dell’incontro si ha l’impressione che sia stato sceneggiato a tavolino per fare opera di propaganda. Contro Cleopatra Ottaviano aveva lanciato velenosi strali d’odio per anni, ma in quei giorni, preoccupato per lo stato di salute della regina, si sarebbe recato da lei per sincerarsi personalmente della situazione e incoraggiarla alla guarigione. Nell’occasione Cleopatra avrebbe dato spettacolo ancora una volta della sua natura opportunista e falsa: vedendolo, si sarebbe d’immediato precipitata alle ginocchia dell’uomo, avrebbe cercato di giustificare il suo comportamento facendo riferimento al timore che Marco Antonio le incuteva, lo avrebbe anche supplicato in tutti i modi e, soprattutto, gli avrebbe consegnato una lista in cui aveva elencato dettagliatamente ogni suo bene. Ottaviano l’avrebbe ascoltata con disponibilità cortese, avrebbe smontato certe giustificazioni di troppo, sarebbe stato forte ma comprensivo e, soprattutto, avrebbe sorriso della stupida furbizia della donna. La cronaca dell’incontro vuole che la regina fosse smascherata in un tentativo di “furto”: nel redigere quella lista avrebbe dimenticato a proposito di indicare alcuni oggetti del tesoro e un tal Seleuco, suo amministratore prima della disfatta, trovandosi lí con Ottaviano, avrebbe scoperto la truffa indicandoli a uno a uno. Intraprendente, la regina avrebbe cercato di giustificare il fallo adducendo di aver voluto mettere da parte dei piccoli omaggi per la sorella e la moglie di Ottaviano, il quale ne avrebbe semplicemente sorriso, perché, cosí facendo, la donna gli aveva dimostrato di aver abbandonato le smanie di morte. Ma perché Ottaviano non voleva la morte di Cleopatra? Si è detto che la voleva portare con sé a Roma per farla sfilare in catene durante il trionfo e offrirla al pubblico dileggio. Davvero, però, Ottaviano la voleva tenere in vita? Anni addietro 219

cleopatra al trionfo di Cesare per la guerra alessandrina, la vista di Arsinoe aveva commosso i Romani e la commozione aveva costretto il dittatore a farle salva la vita. E se la vista di Cleopatra, ridotta a quel modo, dopo che a Roma s’era presentata in tutta la sua bellezza, avesse suscitato la stessa reazione? Non era certo possibile far salva la vita a una donna d’una pasta tanto particolare come quella che aveva rivelato Cleopatra e che contro Ottaviano avrebbe certo speso ogni sua forza fino alla morte. Solo un cadavere non morde, come rivela spesso la storia. La morte della regina poteva essere solo di guadagno, ma non doveva essere quella di una derelitta, che si era lasciata morire d’amore e avrebbe suscitato compassione. La regina fu costretta a salvarsi, per poi morire, però, alcuni giorni dopo, il 10 di agosto del 30 a.C. Gli autori antichi raccontano che nei giorni della malattia Cleopatra suscitò la simpatia e la tenerezza di un giovane romano del seguito di Ottaviano, certo Cornelio Dolabella, aristocratico di gens e forse parente di quel piú famoso Publio che si era ammazzato quando Cassio l’aveva assediato a Laodicea. Messo a conoscenza dei piani di rientro a Roma, per pietà nei confronti della regina la informò sulla sorte che l’attendeva: nel terzo giorno della partenza anche lei e i suoi figli si sarebbero dovuti imbarcare per l’Urbe. Ad aspettarla c’era dunque il trionfo, l’umiliazione dinanzi alla folla raccolta, l’uccisione dopo la sfilata o, in caso di clemenza, le carceri a vita, quelle da cui si usciva solo da morti e che, si diceva, avevano fatto impazzire quanti ci erano finiti dentro. Cleopatra aveva ancora una possibilità per opporsi al destino. Chiese che le fosse concesso di fare le ultime libagioni a Marco Antonio, ne onorò la memoria, ne abbracciò l’urna, ne pianse l’assenza. Rientrata, chiese di poter fare un bagno e poi volle pranzare. Il resto che successe quel giorno è avvolto nella nebbia che la propaganda gli ha soffiato sopra. La donna, dopo il pranzo, chiese da scrivere, quindi si fece vestire 220

vi. l’ultima stagione, dentro la storia nei suoi abiti regali e, una volta pronta, si sdraiò su un letto d’oro ad aspettare. Di lí a poco, si presentarono gli uomini di Ottaviano. A lui aveva voluto scrivere la regina e su quella tavoletta stava la sua ultima richiesta, quella di essere unita nella tomba al suo Marco Antonio. Il giovane Cesare aveva capito. La trovarono che sembrava addormentata. Nessun segno sul corpo né nel colorito. Forse due puntini su un braccio. Si parlò di un serpente che la regina si sarebbe fatta portare di nascosto dentro un paniere pieno di bei fichi o in un cesto di fiori o dentro un’anfora. Si disse di un unguento particolare, di un fermaglio o di un pettine che la donna teneva tra i capelli. Qualcuno riferí di un morso che la regina si sarebbe data per poi iniettarsi una sostanza avvelenata. I poeti e gli artisti nel tempo vollero immaginarla che offriva il suo bel seno al morso di due aspidi a lei avvolti e questa è l’immagine che ha avuto piú fortuna fino a noi, lo smacco che l’arte ha voluto fare alla storia per omaggiare la bellezza di una donna che aveva saputo incantare di sé la vita, opporre la passione alla fredda logica, sfidare il tempo con un ideale e con un sogno difeso fino alla morte. Si disse allora che Cleopatra morí suicida. Nel tempo si sarebbe supposto che fu piuttosto spinta al suicidio. Poche certezze e troppi dubbi stanno attorno alle sue ultime ore e nessuna possibile verità. Si sa, però, che gli uomini di Ottaviano, quando arrivarono, trovarono Iras ormai moribonda ai piedi del letto della regina e Carmio, ancora in piedi ma assai barcollante, che aggiustava il diadema tra i capelli della sua padrona. Fu lei a darle l’estremo saluto e a pronunciarne l’epitaffio piú sincero. Quando uno di quegli uomini l’apostrofò elogiando la sua azione come bella, ella si voltò appena e, prima di cadere anche lei in terra, disse: « Bellissima, certo, e degna di una discendente di re tanto grandi! ». La regina Cleopatra VII, Regina di re, era morta. Aveva 221

cleopatra trentanove anni. Fu l’ultima regina sul trono d’Egitto, l’ultimo lampo di splendore per la sua dinastia. A fine mese, nel giorno del capodanno egizio, il 30 di agosto, il paese fu ufficialmente annesso a Roma come “proprietà privata” del suo conquistatore Ottaviano, il quale per i Romani retrodatò poi la vittoria al 1o agosto del 30 a.C. e al trionfo, celebrato nell’Urbe al rientro, fece sfilare una statua di Iside-Cleopatra con un serpente attorno. Il corpo della regina, come aveva chiesto, fu sepolto accanto a quello del suo Marco Antonio e con i due furono sepolte anche Iras e Carmio, che erano state fino all’ultimo fedeli alla loro padrona e compagne con lei nella morte. 6. I figli di Cleopatra Dei figli di Cleopatra restano poche notizie. Tolomeo Cesare, il maggiore, che la madre aveva allontanato perché potesse trovare scampo in Etiopia o in India, fu rintracciato dagli uomini di Ottaviano pochi giorni dopo la morte della regina. Il suo tutore Rhodon lo tradí consegnandolo al nemico. Ricondotto ad Alessandria, il ragazzo fu torturato e poi giustiziato. Aveva appena diciassette anni, ma era figlio della regina e di Cesare ed era stato associato dalla madre sul trono d’Egitto: la ragion politica non lo volle risparmiare. Ario Didimo, filosofo di Alessandria, entrato nelle grazie del conquistatore, parafrasando versi dall’Iliade di Omero, gli aveva suggerito che non è un bene che molti Cesari stiano sotto lo stesso cielo. Cesarione avrebbe, insomma, potuto rivendicare a Roma contro Ottaviano la discendenza dal divo Cesare e, per parte di madre, il trono d’Egitto. La stessa sorte era toccata al figlio di Marco Antonio, Antillo, di sedici anni, ucciso e decapitato il 1o agosto del 30 a.C., e a Petubastis, sacerdote di Ptah e cugino di Cleopatra, che, anche lui sedicenne, morí misteriosamente il 31 luglio del 30 222

vi. l’ultima stagione, dentro la storia a.C.: l’uno avrebbe potuto voler vendicare il padre, l’altro rivendicare il trono. I figli piú piccoli, Cleopatra Selene, Alessandro Elios e Tolomeo Filadelfo, avuti con Marco Antonio, furono condotti a Roma e affidati alle cure di Ottavia. Del piú piccolo, Tolomeo Filadelfo, l’ultima notizia che abbiamo è relativa al suo arrivo in città, aveva sei anni. Degli altri due sappiamo che furono fatti sfilare in catene, vestiti come il Sole e la Luna, nel trionfo celebrato da Ottaviano nel 29 a.C. L’ultima notizia su Alessandro Elios è relativa alla partecipazione al trionfo, aveva undici anni. La sorella, Cleopatra Selene, fu data in sposa nel 25 a.C. a Giuba II, col quale divenne regina di Mauretania. Morí nel 5 a.C. a venticinque anni. Qualche anno prima aveva avuto un figlio, che aveva voluto chiamare Tolomeo e che divenne re di Mauretania nel 23 o nel 24 d.C.: fu l’ultimo della dinastia dei Tolomei. Nel 40 d.C. lo fece giustiziare a Roma un suo cugino, l’imperatore Caligola, pronipote di Marco Antonio e pronipote di Ottaviano: il re di Mauretania si era mostrato in pubblico con un mantello piú sfarzoso del suo . . .

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VII BELLEZZA E POTERE: LA FORTUNA DI CLEOPATRA 1. Come Alessandro Amante di Cesare e di Marco Antonio, regina bellissima e suicida, Cleopatra gode di una “fortuna” che è toccata solo a pochi altri personaggi del mondo antico. Donna colta e intelligente ha saputo ridare corpo al suo regno e attraverso un’accorta opera di propaganda ha saputo presentarsi nel quadro del Mediterraneo alle genti d’Asia e ai Greci come contraltare al dominio romano. Per questo è stata ricordata e ammirata come donna saggia e grande benefattrice, la regina sulle cui orme muovere contro Roma e contro ogni oppressore. In Occidente, vittima designata della propaganda romana che, inchiodandola contro il modello della casta matrona e dei sacri mores, l’ha voluta rappresentare come femme fatale che incanta e rovina e come sovrana ambiziosa che non conosce freno o scrupoli, Cleopatra a dispetto dei suoi detrattori è diventata presto un’icona di femminilità e bellezza a cui donne e uomini hanno nel tempo guardato come modello o oggetto di desiderio e a cui si sono ispirati poeti e artisti cercando di darle una voce e un volto. Come lei di fatto ha avuto fortuna solo Alessandro, il grande condottiero di cui la regina vantava di esser discendente. Come lui Cleopatra ha attraversato i secoli giungendo fino a noi col suo bagaglio di vicende e incontri straordinari. Come lui ha avuto una vita breve e una morte che resta per parte avvolta nel mistero. Come lui ha inseguito un sogno grande e coraggioso. Come lui da subito è diventata un mito, la leggenda da raccontare, un enigma da indovinare. 224

vii. bellezza e potere: la fortuna di cleopatra 2. Per l’Oriente: una nuova Iside Nel mondo greco-orientale, dalla sua gente come dagli asiatici e dai Greci, Cleopatra seppe farsi amare, tanto che per secoli fu ammirata e celebrata per cultura e saggezza, come filosofa e benefattrice, fu la regina per antonomasia. Già all’indomani della sua morte, nell’agosto del 30 a.C., sappiamo che un ricco alessandrino di nome Archibio, ammiratore di Cleopatra, frequentatore della sua corte e forse amico, si presentò al vincitore Ottaviano con l’allettante offerta di duemila talenti in contanti per riscattare le statue della regina presenti in Alessandria e sottrarle cosí alla furia romana che, proprio in quei giorni, dava esempio di sé riducendo in pezzi tutto quanto aveva rappresentato Marco Antonio. Da buon alessandrino, Archibio sapeva bene che tutto al mondo si può comprare e certo bene seppe presentare la sua offerta se, come scrive Plutarco, riuscí a risparmiare le statue della sua regina. Lo scambio, in realtà, convenne innanzitutto a Ottaviano che, da abile politico qual era, seppe intuire quanto stava dietro quelle statue e quanto avrebbe potuto generare la loro distruzione. Cleopatra, ad Alessandria e per la sua gente, era stata una regina attenta e benevola, che, dopo i primi anni turbolenti, aveva riportato a corte la pace e aveva restituito benessere e terre al regno. La regina seppe farsi amare tanto che gli Alessandrini, da sempre acerrimi nemici d’ogni romano, la seguirono presto sulle strade delle alleanze con Roma e accolsero al suo fianco, come compagno al potere, un romano come Marco Antonio. Distruggere le statue della regina non sarebbe stata soltanto una pessima trovata, ma anche un atto sacrilego e imperdonabile. Cleopatra, come tutte le regine della dinastia tolemaica, per la sua gente era associata all’immagine di Iside e su questo punto ella, attraverso un’attenta quanto spettacolare 225

cleopatra propaganda, seppe insistere piú di ogni altra sua antenata e riuscí a farsi credere l’incarnazione in terra della dea. La vicenda divina della triade Iside Osiride e Horus, del resto, calzava a pennello sulla vicenda biografica della regina che, con grande abilità, seppe di volta in volta inscenare un ruolo: quello della dea che è madre e sposa, della dea che dona l’abbondanza e ogni bene, che protegge e cura, è terribile e benevola. Cleopatra, oltre a essere ammirata come sovrana, riuscí con abile gioco anche a farsi venerare come dea e come tale fu oggetto di un vero e proprio culto che ad Alessandria e in Egitto durò per molto tempo dopo la sua morte, come testimonia Ammiano Marcellino nella sua storia riferendo di scandalose attestazioni di devozione indirizzatele ancora nel IV secolo. In Oriente, la regina fu molto ammirata anche per la sua opera intellettuale. Egizi, Greci e Arabi frequentarono per molto tempo dopo la sua morte i libri scritti da Cleopatra sulla cosmesi e sull’alchimia, sulla medicina e la ginecologia, su pesi e misure e conio di monete e su molti altri argomenti. Fra i suoi ammiratori, il filosofo Filostrato l’ha voluta ricordare per il suo amore per i libri e gli studi piú che per le sue vicende erotiche e, parecchi secoli dopo, nel X secolo, l’enciclopedista arabo Al-Masūdū l’ha definita l’ultima dei saggi greci, donna colta, appassionata di filosofia e delle scienze. Ricordando la sua grandezza e la sua benevolenza, nel VII secolo il vescovo copto Giovanni Nikiu, nella sua Cronaca, aveva considerato Cleopatra come la donna fra tutte piú illustre e saggia, la regina piú grande che l’umanità avesse mai conosciuto, mirabile per le imprese compiute, per la statura politica di cui diede prova nel governo, per la benevolenza con cui, in opere e atti, trattò la sua gente. L’Egitto e l’Oriente a piú voci celebrarono Cleopatra per la sua grandezza di sovrana e donna intelligente colta e cari226

vii. bellezza e potere: la fortuna di cleopatra smatica. La regina divenne presto un modello da emulare. Senz’altro a lei guardò la figlia Cleopatra Selene come regina di Numidia; a lei volle richiamarsi esplicitamente Zenobia, regina di Palmira, la quale, nella sua coraggiosa posizione contro Roma, vantò di discendere dalla grande Egizia, si definí “Novella Cleopatra” e amò collezionare le coppe dove Quella aveva bevuto. Anche a Roma la regina toccò qualche cuore e s’insinuò addirittura in casa del suo peggior nemico, in petto alla figlia Giulia. Fra le tante colpe della giovane fu forse questa che il padre non poté perdonarle: aver guardato ammirata a Cleopatra, mentre lui con l’arte di propaganda piú abile e spregiudicata e i migliori poeti al soldo cercava di distruggerne la fama di donna e la gloria di grande sovrana. 3. Per Roma: un’altra Elena Il racconto che i Romani hanno tramandato dell’ultima regina d’Egitto, insieme a Marco Antonio fiera nemica dell’Urbs e di Ottaviano, ha inciso profondamente sulla rappresentazione che di Cleopatra è rimasta nell’immaginario collettivo e continua a stimolare la curiosità di lettori e studiosi. Arma sul tavolo dello scontro politico fra Ottaviano e i suoi avversari, le parole dei poeti e degli storici, assecondando le esigenze della propaganda augustea, indulgono spesso nel presentare la regina in modo negativo, come la grande meretrice della corrotta Canopo, il fatale mostro mosso alla rovina dell’impero, una maga che ammalia e inganna. Quando non è detto esplicitamente, Cleopatra è comunque dipinta come una donna animata da una smisurata ambizione e priva di ogni decoro femminile (quello della bona matrona), sfrenata nei piaceri e nei vizi, lasciva quanto libertina, crudele e insaziabile, ricchissima e manovratrice. Con una tale natura 227

cleopatra in corpo, una volta entrata nel campo degli affari di Roma, non si sarebbe fatta alcuno scrupolo di ricorrere a ogni arte e intrigo pur di sedurre i generali romani, tenendoli a sé con le gioie del letto e togliendoli ai loro impegni e doveri, come una novella Onfale che dell’eroe sa fare il suo schiavo e, presa a sé la clava, gli fa indossare la gonnella. Lucano, nella Pharsalia, la presenta come una pericolosissima Elena: anche Cleopatra fu considerata il principale motore di una guerra difficile e atroce e fu presentata e intesa come donna fatale e bella. Sul tavolo della propaganda, Ottaviano e i suoi, per mettere sotto scacco l’avversario, hanno azzardato la mossa e, insistendo nel presentarla come seduttrice impenitente, ne hanno esaltato fascino e bellezza e l’hanno portata sulla scena della storia come una femme fatale, pronta a sopraffare qualsiasi maschio potente le capitasse sotto mano per farne una marionetta ai suoi giochi, lo strumento per realizzare le sue ambizioni. Puntando contro la regina, Ottaviano voleva colpire anche e soprattutto il suo principale avversario, Marco Antonio, additandolo a fianco della donna e presentandolo alla sua gente come un traditore succube della lussuria e delle frivolezze che l’Egizia gli offriva, incapace di liberarsi dai lacci di quell’insana passione e tanto schiavo da dimenticare la patria, i doveri e gli affetti. Non era difficile manipolare i fatti su questa linea. Non aveva Marco Antonio mostrato chiaramente di essere vittima della regina e di Alessandria? Quante e quali notizie di stravizi e bagordi arrivavano da quella città e dalla corte? Quante volte il triumviro d’Oriente era venuto meno ai suoi impegni pur di correr dietro alla sua amante? Quante imprese non andava compiendo e come finivano quelle a cui metteva mano? Non aveva egli tradito Roma con le sue donazioni folli? Non aveva rinunciato alla casta Ottavia preferendole l’impudica regina? Cleopatra, calamitando su di sé in quanto donna regina e 228

vii. bellezza e potere: la fortuna di cleopatra orientale tutti i pregiudizi e le paure della gente dell’Urbs, dall’odium regis alla misoginia e alla xenofobia, fu facilmente presentata come depositaria di ogni male, ma divenne anche il metro migliore con cui giudicare la statura di chi le fu accanto e, per questo, fu fatta protagonista di episodi erotici che non ebbero probabilmente mai luogo. Cosí, fra le fonti antiche leggiamo dei suoi amori e di vari amanti o tentativi di seduzione. La regina non si sarebbe accontentata di star fra le braccia di Cesare (che, secondo la propaganda augustea, seppe comunque svincolarsi da quella passione, spassandosela solo per una stagione e tornando poi sulla scena politica di Roma e sui campi di battaglia), né di stare nel talamo con Marco Antonio, ma avrebbe fatto le sue profferte amorose anche a Gneo Pompeo figlio, a Erode e, dulcis in fundo, a Ottaviano. Che solo il vincitore e chi volle salire sul suo carro riuscirono a resisterle non è forse un caso. L’uomo vero non cade nella trappola della donna e tanto piú risulta forte quanto piú la tentazione è grande. Oltre che seducente e volitiva, diabolica e calcolatrice, perversa e sfrenata, Cleopatra fu resa come la donna fra tutte la piú bella. Ma lo era davvero? 4. Il volto di Cleopatra Sul volto di Cleopatra sono state scritte pagine su pagine senza di fatto poter arrivare a un punto di certezza. Alcuni ritratti della tradizione scultorea greco-romana, dal busto conservato a Berlino a quello del Museo Vaticano o alla statua della Venere Esquilina, sono stati di volta in volta presi in considerazione, ma l’assenza di un’iscrizione identificativa rende l’attribuzione a tutt’oggi dubbia. Le molte immagini che restano sui monumenti egizi non ci permettono di ricostruire l’aspetto della regina: pur essendo presenti iscrizioni e cartigli che la individuano, il peso della tradizione condiziona 229

cleopatra la rappresentazione che riporta i tratti tipici con cui, senza particolare distinzione, venivano da secoli raffigurati i faraoni. Piú sicuri, perché accompagnati dalla legenda ΚΛΕΟΠΑΤΡΑΣ ΒΑΣΙΛΙΣΣΗΣ (‘Cleopatra regina’), sembrano i ritratti che troviamo su varie monete rinvenute in diverse zone del Mediterraneo e databili con relativa certezza al suo regno. Nei ventuno anni che Cleopatra fu al potere come regina furono molte le monete emesse a suo nome ad Alessandria e nei territori annessi alla corona d’Egitto (Cipro, città della Siria, città della Fenicia). Le monete con il profilo della regina possono essere considerate come una testimonianza del suo vero volto. Nei regni ellenistici e, quindi, anche in Egitto, le zecche, già dai tempi dei successori di Alessandro, avevano scelto uno stile naturalistico-realistico per la resa dei ritratti monetali dei sovrani. Anche Cleopatra scelse questa via e per questo le sue monete sono spesso prese a modello per il confronto con altri pezzi monumentali in cui potrebbe essere riconosciuta la regina. Le monete di Cleopatra ebbero una grande diffusione. Spesso, per gli interessi commerciali del regno e dei suoi mercanti, valicarono i confini d’Egitto e raggiunsero il mare Adriatico, l’entroterra padano, ma anche e addirittura territori piú lontani come la Britannia. Sulle monete si cerca il volto di Cleopatra. E, sotto molti punti di vista, vi si possono individuare tratti della sua fisionomia. Bisogna però ricordare che alle monete la regina non volle affidare semplicemente il suo ritratto. I vari pezzi rappresentano lo stesso soggetto ma con evidenti differenze, legate agli usi delle diverse zecche ma forse anche al diverso pubblico cui erano indirizzate. Nei ritratti che troviamo sulle monete emesse dalla zecca di Alessandria, fin dall’inizio del suo regno, la regina appare da sola, di profilo, coronata dal diadema e con i capelli raccolti nella tradizionale acconciatura “a melone”, propria delle regine tolemaiche, fatta di trecce che partono dalla fronte per 230

vii. bellezza e potere: la fortuna di cleopatra essere riunite in uno chignon dietro la nuca e tenute sotto la fascia regale, dalla quale di tanto in tanto, sulla fronte e a cornice del viso, escono graziosi riccioli. Orecchini a goccia e fili di perle e la fibbia che tiene su una spalla l’himation sono gli ornamenti che indicano, insieme al diadema, la sua ricchezza regale. Sui tondi i tratti del volto risultano marcati e severi: il mento rigido, l’occhio grande e allungato, la bocca chiusa e angolata appena verso il basso, il naso prominente. Su queste monete la regina non appare tanto bella né tanto fascinosa come, leggendo alcune fonti antiche, immaginiamo la protagonista della relazione con Cesare e della storia d’amore con Marco Antonio. La bellezza era l’ultimo dei pensieri di Cleopatra. Con le monete voleva far valere le sue posizioni dinastiche. In particolare il naso, lungo o aquilino, era una caratteristica propria della dinastia tolemaica, da Tolomeo I Sotér fino a Tolomeo Aulete. Il richiamo alla casata e al genitore era per lei fondamentale per presentarsi alla sua gente e farsi accettare come legittima sovrana. Alla regina, insomma, avvalorare le sue pretese dinastiche stava piú a cuore che apparire bella. In Egitto, la pratica del ritratto era stata abbandonata dal tempo di Tolomeo X e del suo successore, ma Tolomeo Aulete l’aveva reintrodotta. Cleopatra, una volta divenuta regina, come abbiamo già visto altrove, sotto piú punti di vista, volle marcare le orme del padre e lo fece anche in politica monetaria. Per risollevare le sorti del regno investí sul valore nominale delle monete e, seguendo il padre, fece ridurre il tenore dei metalli utilizzati nei singoli pezzi. Piú accorta del genitore, la regina volle che ciascun pezzo portasse impressa l’indicazione del valore, in modo da tenere sotto controllo il mercato, evitando che i commercianti potessero giocare di bilancia, ovvero pretendere un quantitativo di monete che corrispondesse a un certo peso. La presenza del ritratto e della legenda, oltre a legare la nuova regina alla dinastia come 231

cleopatra legittima erede della corona, miravano a riconoscerle il merito di una riforma fondamentale per rifocillare le casse del regno e garantire la tenuta dei mercati. Con le monete Cleopatra, com’era uso in antico, veicolava precisi messaggi e faceva propaganda. Lo fece, ad esempio, nelle monete fatte emettere a Cipro per la nascita del figlio avuto da Cesare, sulle quali la regina si fece rappresentare nelle vesti di Iside e con la caratteristica stephane (‘corona divina’) della dea. Alle sue spalle compare uno scettro e davanti a lei, come portato al seno, sta il figlio, Cesarione-Horus. Il profilo della regina anche in questo caso appare abbondante e marcato, col naso appena adunco e i tratti del volto poco regolari. Sul verso sta la doppia cornucopia, chiaro simbolo di promessa abbondanza e fortuna, ma anche voluto rimando ad Arsinoe II, la grande regina tolemaica che fu sposa-sorella di Tolomeo Filadelfo, amata e venerata piú di ogni altra dalla sua gente. Anche in questo caso a Cleopatra piú che la sua bellezza fisica interessava il messaggio affidato a un’esplicita identificazione della coppia rappresentata con quella divina Iside-Horus e il rimando alla famiglia e, soprattutto, a una delle sue piú grandi e amate regine. In altre successive monete, Cleopatra compare in coppia con Marco Antonio, e anche lui, a dispetto della proverbiale bellezza che gli viene attribuita, appare bruttino sul tondo e, in talune emissioni, molto somigliante nei tratti del viso e lungo la linea del naso alla compagna. L’intento politico veniva sempre prima. La coppia affermava la propria legittimità divina, sulla cui base giustificava i sogni di conquista, le donazioni, la costruzione di un nuovo impero nel Mediterraneo. Studiando le monete ci si può fare un’idea sull’aspetto dell’ultima regina d’Egitto e si possono cogliere importanti caratteristiche della sua personalità storica. La regina era bella? È possibile una risposta? Stando alle monete, Cleopatra corrisponde poco all’idea d’una bellezza 232

vii. bellezza e potere: la fortuna di cleopatra fatale, ma il suo fascino emanava da tutta la persona, come scrive Plutarco. La regina era bella nell’incontro, era bella di parola pensiero e presenza, era bella per chi l’ha conosciuta e amata . . . e per noi, nel racconto del suo coraggio e del suo sogno, può esserlo, forse, ancora . . .

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BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA 1. Fonti antiche capitolo i Sull’Egitto e, in particolare, sul Nilo e sulla geografia del paese in antico: Erodoto, Storie, ii; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, i; Strabone, Geografia, xvii; Plinio il Vecchio, Storia naturale, v 55; Al-Masūdū (in M. Clauss, L’antico Egitto, Roma, Newton & Compton, 2002). Sulla ricchezza dei Tolomei: Girolamo, Commentario sul Libro di Daniele, xi 5; Strabone, Geografia, xvii 1 13; Plutarco, Vita di Antonio, lvi 2. Ulteriori informazioni si possono ricavare da: Diodoro Siculo, Biblioteca storica, xvii 52 6; Svetonio, Cesare, liv 2; Plutarco, Vita di Antonio, iii 4; Plinio il Vecchio, Storia naturale, xxxiii 136 119-20. Sull’episodio di Cesare e i pirati: Plutarco, Vita di Cesare, ii 4-7; Velleio Patercolo, Storia romana, ii 42 2-3; Svetonio, Cesare, lxxiv 1; Plutarco, Vita di Antonio, lxxx; Appiano, Le guerre civili, ii 89. Relativamente ai Ptolemaia: Ateneo, Deipnosofisti, v 197c-203b, che poggia sul trattato per noi perduto Su Alessandria di Callisseno di Rodi; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, i e iii. Su Alessandria, sulla sua grandezza e bellezza ai libri già citati di Diodoro Siculo e Strabone possono essere aggiunti: Dione di Prusa, Orazione agli Alessandrini, xxxii 36; Eroda, Mimiambi, partic. La mezzana; Ammiano, xxii 16. Sul Museo e sulla Biblioteca, oltre ai testi di Strabone e Ammiano: Anonimo, Lettera di Aristea a Filocrate; Epifanio, De mensuribus et ponderibus (trad. in L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo, Sellerio, 1988, p. 127); Joannes Tzetzes, Prolegomena de Comoedia Aristophanis; Aulo Gellio, Notti attiche, vii 17; Filostrato, Vite dei sofisti, i 22 3 e 22 5; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, v 57-58, 80-81; ix 113; Plutarco, Cesare, 49; Cassio Dione, lvii 7; Floro, Epitome, ii 13 59; Lucano, Farsalia, x 439-54 e 486-505; Seneca, La tranquillità dell’animo, ix 5; Id., Lettere a Lucilio, lxxxviii 37; Svetonio, Cesare, xlii; Pli-

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bibliografia nio il Vecchio, Storia naturale, xiii 70, xxv 6-7, xxx 4; Isidoro di Siviglia, Etimologie, vi 3; Tertulliano, Apologetico, xviii 5. Sull’isolotto di Faro, sull’omonima torre e sull’architetto Sostrato: Omero, Odissea, iv 354 sgg.; Strabone, Geografia, xvii 6; Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte, v 6; Plinio il Vecchio, Storia naturale, xxxvi 83; Posidippo di Pella, Epigrammi, lxxx; Ammiano, xxii 16; Luciano di Samosata, Come si deve scrivere la storia, lxii; Solino, Raccolta di fatti memorabili, xxxii 43; Basilio, Lettere, lxxxii. capitolo ii Sulla data di nascita di Cleopatra: Plutarco, Vita di Antonio, lxxxvi 8. Sul padre di Cleopatra, Tolomeo XII Aulete: Strabone, Geografia, xvii 1 11; Plutarco, Come distinguere l’adulatore dall’amico, xii; Ateneo, Deipnosofisti, v 206d; Cassio Dione, xxxix; Plutarco, Crasso, xiii 2, e Antonio, iii 5 11; Cesare, Guerra civile, iii 4 e 107; Svetonio, Cesare, liv 3; Cicerone: Pro Caelio, xxii; Epistulae ad Quintum fratem, ii 2-3; Lettere ai familiari, i 1 1; Epistole ad Attico, iv 10 1; Pro Rabirio Postumo, xxii 25-26. Sui Basileia: Lucano, Farsalia, x 111-26. Sulla sorella di Alessandro Magno: Diodoro Siculo, Biblioteca storica, xvi 91-95 e xx 37. Sui fratelli di Cleopatra: Strabone, Geografia, xvii 1 11, dove Cleopatra è presentata come figlia illegittima. Sulla passione di Cleopatra per la cultura, la sua abilità retorica in piú lingue e la sua possibile produzione: Filostrato, Vite dei Sofisti, v; Plutarco, Antonio, xxvii e lviii; Cassio Dione, xlii 34 4-5; Galeno, xii 403-5, 434-35, 492-93; xiii 432-34; xix 767-71; Aezio di Amida, viii 6; Paolo di Egina, iii 2 1. Sugli Alessandrini e i loro sovrani, in generale: alcuni passi dell’Anabasi di Arriano, alcuni estratti da Polibio e Giustino, alcuni libri della Biblioteca di Diodoro, notizie sparse nelle Vite parallele e in altre opere di Plutarco, il libro xvii della Geografia di Strabone (1 11), notizie sparse nell’opera di Appiano. In particolare, sulle rivolte degli Alessandrini: Giustino, xxx 2 37; Polibio, xiv 11 1, xv 25 e 29-33 (sulla rivolta al tempo di Tolomeo IV); Diodoro Siculo, Biblioteca

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bibliografia storica, xxxi 1 17b (su Dioniso Petosarapis); Giustino, xxxviii 8; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, xxxiv 14; Livio, Storie, lix 14; Valerio Massimo, ii ext. 5 (Tolomeo Menfita); Pausania, i 9 3, e Posidonio, fr. 26 Jacoby (sul matricidio di Cleopatra III e la cacciata di Tolomeo Alessandro); Appiano, Le guerre di Mitridate, 114; Strabone, Geografia, xvii 1 11 (sui disordini contro Tolomeo XII). Sui rapporti fra Alessandria e Roma: Diodoro Siculo, Biblioteca storica, i 83 (episodio del gatto); Cassio Dione, li 17 1; Cicerone, Pro Rabirio Postumo, xiii 35 (giudizio sulla gente d’Alessandria a Roma); Livio, Periochae, xiv 6; Appiano, Le guerre civili, v 1; Eutropio, ii 15 (sotto Tolomeo II Filadelfo, il primo accordo); Polibio, ix 11a (aiuto inviato a Roma da Tolomeo IV); Livio, Storie, xxxi 2 3; Giustino, xxx 3 4, e xxxi 1-2; Polibio, xxviii 49; Valerio Massimo, vi 6 1 (M. Emilio Lepido ambasciatore ad Alessandria); Polibio, xxvii 19, e xxviii 1; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, xxx 2; Livio, Storie, xlii 47 4 (Roma chiamata in causa a risolvere i rapporti fra Egitto e Siria); Polibio, xxix 23 e 27 2-6; Livio, Storie, xlii 26 6-9, xlv 11-13; Cicerone, Filippiche, viii 8 (episodio di G. Popilio Lenate); Giustino, xxxiv 2 8; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, xxxi 18, 23 e 33; xxxiii 28; Polibio, xxxi 2 14, 10 10, 17 4, 20 3; xxxiii 11 4-6; Livio, Periochae, xlvi-xlvii; Aulo Gellio, Notti attiche, xviii 9 1 (sui rapporti fra Tolomeo Filometore e Tolomeo Evergete II, sulle loro richieste a Roma, sul testamento di Tolomeo Evergete II); Giustino, xxxix 5; Cicerone, Legge agraria, ii 16 41-44 (sul testamento di Tolomeo Alessandro); ivi, i 1, ii 16, 42 e 17, 43-44 (sulla querelle relativa all’annessione dell’Egitto a Roma); Svetonio, Cesare, xi; Plutarco, Crasso, xiii (sugli interessi romani verso l’Egitto, proposte d’annessione, Cesare e Crasso); Appiano, Le guerre civili, ii 23; Cassio Dione, xxxviii 30 5; Strabone, Geografia, xiv 6 6; Plutarco, Catone, xxxiv-xxxv; Velleio Patercolo, ii 45; Valerio Massimo, ix 4 (sull’annessione di Cipro da parte dei Romani); Svetonio, Cesare, liv 3; Cassio Dione, xxxix 12-15 e 55-58; Cicerone, Pro Rabirio, ii, iii, viii e xi 6; Id., Pro Sestio, xxvi-xxvii; Id., Filippiche, ii 19; Livio, Periochae, civ; Pompeo Trogo, xl; Strabone, Geografia, xvii 1 11; Plutarco, Catone, xxxv; Id., Pompeo, xli 13; Id., Antonio, iii 4 sgg.; Appiano, Le guerre civili, v 8; Cesare, La guerra civile, iii 4 4 e 103 5; Plutarco, Antonio, iii 4 sgg. (sui rapporti di Tolomeo XII con Roma e sulla sua restituzio-

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bibliografia ne sul trono d’Egitto); Cicerone, Lettere ai familiari, viii 4 5 (notizia della morte di Tolomeo XII a Roma). capitolo iii Sul testamento di Tolomeo XII: Cesare, La guerra civile, iii 108; Cassio Dione, xlii 35 4; Lucano, viii 448-49. Sulle piene del Nilo: Plinio il Vecchio, Storia naturale, v 58. Sulla richiesta d’aiuto di Bibulo e sull’uccisione dei suoi due figli: Cesare, La guerra civile, iii 110; Valerio Massimo, iv 1 15; Cicerone, Epistole ad Attico, iv 5 119; Seneca, Consolazione a Marcia, xiv 2. Sulle resistenze interne al potere di Cleopatra: Cassio Dione, xlii 36 3; Cesare, La guerra civile, iii 103. Sui tutori di Tolomeo XIII: Cesare, La guerra civile, iii 103-4, 108, 112; Cassio Dione, xlii 36 (Potino); Plutarco, Pompeo, lxxvii, e Cesare, xlviii; Cesare, La guerra civile, iii 106 e 112; Anonimo, La guerra alessandrina; Appiano, Le guerre civili, ii 84; Cassio Dione, xli; Lucano, Farsalia, x 519 (Achilla); Plutarco, Pompeo, lxxvii 2-4, lxxx 6, e Bruto, xxxiii 3-6; Appiano, Le guerre civili, ii 84 e 90 (Teodoto). Sulla visita di Gneo Pompeo in Egitto e sulla sua richiesta: Plutarco, Antonio, xxv 3; Cesare, La guerra civile, iii 4 40; Appiano, Le guerre civili, ii 49 71. Sulla fuga di Cleopatra da Alessandria: Cesare, La guerra civile, iii 103 e 107; Livio, Periochae, cxi; Malala, Chronica, 10; Appiano, Le guerre civili, ii 84; Strabone, Geografia, xvii 1 11. Sulle vicende di Pompeo dopo Farsalo e sulla sua uccisione in Egitto: Cesare, La guerra civile, iii 103-4; Cassio Dione, xlii 2-5; Appiano, Le guerre civili, ii 84-86; Plutarco, Pompeo, lxxvii-lxxx; Lucano, Farsalia, viii 472-712. Su Cesare ad Alessandria, l’incontro con Cleopatra e la guerra alessandrina: Cesare, La guerra civile, iii 106-12; Anonimo, La guerra alessandrina; Appiano, Le guerre civili, ii 87-91, iii 78, iv 59, v 9; Cassio Dione, xlii 34-44; Plutarco, Cesare, xlviii-xlix, xxxviii, e Pompeo, lxxx 6; Svetonio, Cesare, xxxv, lii 1 e lxxvi 3; Lucano, Farsalia, x 56-60 e 82-84; Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, i 187-94; Id., Antichità giudaiche, xiv 127-31 e xv 89; Strabone, Geografia, xvii 1 11; Ammia-

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bibliografia no, xxii 16 13; Seneca, La tranquillità dell’animo, ix 5; Aulo Gellio, Notti attiche, vii 17 3; Ateneo, Deipnosofisti, v 204-6. Sulla statua che Cesare dedicò a Cleopatra nel tempio di Venere Genitrice: Appiano, Le guerre civili, ii 15 102; Cassio Dione, li 22 3. Sui trionfi di Cesare a Roma e sull’esilio di Arsinoe: Cassio Dione, xliii 19-22; Appiano, Le guerre civili, ii 101-2 e 134. Sulla nascita di Cesarione e la querelle relativa alla paternità di Cesare: Svetonio, Cesare, lii; Plutarco, Cesare, xlix 10 e liv 6; Cassio Dione, xlvii 31 5; Nicola Damasceno, Vita di Augusto, 20. Sulle relazioni di Cesare: Cassio Dione, xlii 34 3 e xliii 20 2; Svetonio, Cesare, l-lii. Sui soggiorni di Cleopatra a Roma: Cicerone, Epistole ad Attico, xv 15 2 e xiv 8. Sulla riforma del calendario e gli altri provvedimenti di Cesare: Cassio Dione, liii 26; Svetonio, Cesare, xliv; Plutarco, Cesare, xli. Sugli onori ricevuti da Cesare a Roma: Cassio Dione, xliv 3-7 e 11; Svetonio, Cesare, lxxvi-lxxvii; Plutarco, Cesare, lx-lxi; Id., Antonio, xii 1-7; Cicerone, Filippiche, ii 34 85-87; Livio, Periochae, cxvi; Velleio Patercolo, ii 56 4. Sulla congiura e sulla morte di Cesare: Appiano, Le guerre civili, ii 109-17; Cassio Dione, xviv 12-21; Svetonio, Cesare, lxxix-lxxxii; Plutarco, Cesare, lxiii-lxvi; Id., Antonio, xiii-xiv; Nicola Damasceno, Vita di Augusto, 24. capitolo iv Sul clima politico che si respirava a Roma e sugli avvenimenti che seguirono la morte di Cesare e che portarono alla costituzione del secondo triumvirato e alla battaglia di Filippi ci informano Cassio Dione, partic. xliv-li; Appiano, Le guerre civili, ii 144 sgg., iii, iv e v; Plutarco, Vita di Cesare, Vita di Antonio, Vita di Bruto, e Vita di Cicerone; Nicola Damasceno, Vita di Augusto; Svetonio, Cesare, e Augusto; Cicerone, Epistole ad Attico, xiv e xv; Floro, Epitome di Livio. Sulla partenza di Cleopatra: Cicerone, Epistole ad Attico, xiv 8 1. Sul possibile aborto: Cicerone, Epistole ad Attico, xiv 20. Sulla morte di Tolomeo XIV: Porfirio, 260 (in F. Jacoby, Frag-

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bibliografia mente der griechischen Historiker, Berlin-Leiden, Weidman-Brill, 1923-1958); Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, xv 39, e Contro Apione, ii 58. Sull’ascesa al trono di Cesarione: Cassio Dione, xlvii 31 5; Porfirio, 260. Sul coinvolgimento di Cleopatra fra Cesariani e Cesaricidi e sulla sua posizione: Appiano, Le guerre civili, iv 61-63, 74 e 82; v 8-9; Cassio Dione, xlvii. Sulla crisi economica in Egitto: Seneca, Naturales quaestiones, iv 2; Plinio il Vecchio, Storia naturale, v 58; Appiano, Le guerre civili, iv 61. Su Dellio e la sua ambasciata ad Alessandria: Cassio Dione, xliv 39; Seneca il Vecchio, Suasorie, i 7; Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, xiv 394, e xv 25; Id., La guerra giudaica, i 29; Plutarco, Antonio, xxv. Su Cleopatra a Tarso: Plutarco, Antonio, xxv-xxvii; Ateneo, Deipnosofisti, iv 147-48; Appiano, Le guerre civili, v 8-9. Sulla morte di Arsinoe IV e del presunto Tolomeo XIII redivivo: Appiano, Le guerre civili, v 9; Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, xv 89. capitolo v Sulla vicenda di Cleopatra e Marco Antonio, sulla loro relazione e sulla loro politica ci informano Cassio Dione, partic. xliv-li; Appiano, Le guerre civili, ii 144 sgg., iii, iv e v; Plutarco, Vita di Antonio, Vita di Bruto, e Vita di Cicerone; Nicola Damasceno, Vita di Augusto; Svetonio, Cesare, e Augusto; Cicerone, Epistole ad Attico, xiv e xv; e Floro, Epitome di Livio. Su Marco Antonio ad Alessandria: Appiano, Le guerre civili, v 10-11; Plutarco, Antonio, xxvii-xxxi; Cassio Dione, xlviii 24 1-3, e l; Plinio il Vecchio, Storia naturale, ix 57 (episodio delle perle); Velleio Patercolo, ii 83 1 (episodio di Planco che interpreta Glauco). Sulle concessioni territoriali a Cleopatra e sulle donazioni d’Alessandria: Velleio Patercolo, ii 82; Plutarco, Antonio, liv; Cassio Dione, xlix 32 e xlix 40-41. Sul rapporto con Erode: Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, i 359, e vii 300; Id., Antichità giudaiche, xv 24, 97 e 103.

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bibliografia capitolo vi Sulle vicende che portano ad Azio, sulla battaglia e sulle sue conseguenze ci informano Cassio Dione, partic. xliv-li; Appiano, Le guerre civili, ii 144 sgg., iii, iv e v; Plutarco, Vita di Antonio, Vita di Bruto, e Vita di Cicerone; Nicola Damasceno, Vita di Augusto; Svetonio, Cesare, e Augusto; Cicerone, Epistole ad Attico, xiv e xv; Floro, Epitome di Livio. In particolare, sul testamento di Marco Antonio e sulla propaganda contro di lui: Svetonio, Augusto, xvii 1; Plutarco, Antonio, lviii 5-8, e lxxxvi 9; Cassio Dione, xlviii 27 1-2, e l 5. Sui pregiudizi dei Romani contro la regina: Properzio, iii 2 29 sgg.; Orazio, Odi, i 37; Id., Epodi, ix; Virgilio, Eneide, viii 667-98. Sulla guerra dichiarata contro Cleopatra: Plutarco, Antonio, lx; Cassio Dione, l 4 35. Sulla battaglia di Azio e sugli avvenimenti successivi alla sconfitta, in particolare: Plutarco, Antonio, lxiii-lxiv; Velleio Patercolo, ii; Cassio Dione, l-li. Sulla morte di Antonio e di Cleopatra: Cassio Dione, li 5-14; Plutarco, Antonio, lxxvi e lxxxv-lxxxvi; Strabone, Geografia, xvii 1 11; Floro, Epitome, cxxxiii; Galeno, xiv 237 Kuhn. Vd. anche Properzio, iii 2 53. Sui trionfi di Ottaviano dopo Azio: Cassio Dione, li 2 e 19-22; Augusto, Res Gestae divi Augusti, iv 3; Virgilio, Eneide, viii 817; Id., Georgiche, iii 29; Livio, Periochae, ii 1 31 sgg.; Velleio Patercolo, ii 89; Strabone, Geografia, xii 3 6; Svetonio, Augusto, xxii, xxx e xliii. Sui figli di Cleopatra: Plutarco, Antonio, lxxxi 1 (Cesarione da uccidere); Cassio Dione, li 15 5-6 (assassinio di Antillo e Cesarione e sorte degli altri tre figli della regina) e 21 8 (Cleopatra Selene e Alessandro Elios al trionfo di Ottaviano). Su Tolomeo di Mauretania: Svetonio, Caligola, xxvi e xxxv; Cassio Dione, lix; Seneca, La tranquillità dell’animo, ii. *

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INDICI

INDICE DEI NOMI Achilla: 84, 86, 93, 98, 99, 106, 107, 110, 111, 112, 113, 114, 119, 125, 240. Aezio di Amida: 46, 248. Agatocle, consigliere di Tolomeo IV: 48, 50, 51. Agatocleia: 50. Agrippa Marco Vipsanio: 172, 182, 201, 202, 204, 216. Alessandra Asmonea, suocera di Erode: 179, 180. Alessandro, re d’Epiro: 43. Alessandro Elios, figlio di Cleopatra: 175, 188, 190, 223, 243. Alessandro Magno: 11, 12, 20, 22, 23, 24, 27, 31, 32, 41, 42, 43, 58, 76, 103, 107, 127, 224, 230, 238. Allieno Aulo: 145, 146, 148, 159. Al-Masūdū: 16, 226, 237. Ammiano Marcellino: 226. Ammone, segretario di Cleopatra: 129. Ammonio, ambasciatore di Tolomeo XII a Roma: 71. Amnita, re di Galazia: 174. Ananel: 180. Annibale: 51. Antifonte: 165. Antigono I Monoftalmo: 11, 43. Antigono II, figlio di Aristobulo II di Giudea: 169. Antillo, figlio di Marco Antonio: 173, 207, 208, 218, 222, 243. Antioco II, re di Siria: 18. Antioco III, re di Siria: 43, 51. Antioco IV, re di Siria: 52, 53. Antipatro di Ascalona: 165. Antipatro di Giudea: 118.

Antonio Gaio, fratello di Marco Antonio: 139. Antonio Lucio, fratello di Marco Antonio: 169, 170. Antonio Marco: 10, 16, 31, 32, 74, 75, 76, 77, 79, 120, 124, 132, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 144, 145, 147, 149-60, 161-64, 165-92, 193-223, 224, 225, 227, 228, 229, 231, 232, 242, 243. Antonio Marco Cretico, padre di Marco Antonio: 75. Apollodoro di Sicilia: 107. Apollonio di Perge: 34. Apollonio Rodio: 33. Appiano: 26. Archelao di Cappadocia, sposo di Berenice IV: 67, 70, 76, 77. Archelao IV di Cappadocia: 174. Archibio: 225. Archimede: 34. Aristarco di Samo: 34. Aristobulo, cognato di Erode: 180. Aristobulo II di Giudea: 169. Aristocrate: 206. Aristotele: 36. Arsinoe II: 15, 30, 232. Arsinoe III: 15, 49, 50, 51. Arsinoe IV: 43, 110, 113, 114, 119, 126, 149, 152, 164, 220, 241. Artavasde, re d’Armenia: 188, 189, 190. Attico Tito Pomponio: 129, 134. Augusto: vd. Ottaviano. Basso Ventidio: 174. Berenice, figlia di Tolomeo II: 18.

251

indice dei nomi Berenice, sposa di Tolomeo I: 40. Berenice IV: 43, 60, 66, 67, 70, 76, 77, 79, 82. Bibulo Marco Calpurnio: 87, 88, 89, 240. Bruto Decimo Giunio Albino: 139, 144, 150, 151. Bruto Lucio Giunio: 133. Bruto Marco Giunio: 119, 133, 137, 139, 140, 145, 150, 154, 155, 158, 197, 213. Caligola Gaio Cesare, imperatore: 223. Callimaco: 33, 207. Calpurnia Pisone, moglie di Cesare: 124, 128. Calvino Gneo Domizio: 105, 115. Calvisio Sabino Gaio: 199. Carmio: 212, 221, 222. Cassio Dione: 67, 127, 136. Cassio Gaio Longino: 133, 137, 139, 140, 144-50, 152, 153, 154, 155, 157, 158, 159, 168, 197, 220. Cassio Gaio Parmense: 197. Catone Gaio, tribuno della plebe: 73. Catone Marco Porcio Uticense: 65, 67, 68, 96, 125. Cesare Gaio Giulio: 10, 17, 26, 30, 31, 45, 62, 64, 69, 90-138, 140, 141, 142, 145, 146, 147, 149, 150, 152, 154, 156, 157, 158, 166, 168, 190, 192, 196, 199, 206, 207, 208, 216, 220, 222, 224, 229, 231, 232, 237, 239, 240, 241. Cesarione: 123, 124, 126, 133, 141, 142, 143, 144, 146, 190, 199, 206, 207, 208, 215, 218, 222, 232, 241, 243.

Cheremon, consigliere di Tolomeo XII: 63. Cicerone Marco Tullio: 72, 73, 129, 134, 139, 140, 141, 144, 147, 150, 152, 213. Cinna Gaio Elvio: 124. Cleopatra I, sposa di Tolomeo V: 43, 52. Cleopatra II, sposa di Tolomeo VI: 53, 54, 55. Cleopatra III: 54, 55, 57, 59, 60, 239. Cleopatra IV: 59. Cleopatra VI: 43, 45. Cleopatra Berenice III: 60, 61. Cleopatra di Macedonia, figlia di Filippo II: 42, 43. Cleopatra Selene, figlia di Cleopatra: 175, 190, 223, 227, 243. Cleopatra Selene, sorella e sposa di Tolomeo IX: 59. Cornelia Metella, moglie di Pompeo Magno: 96, 99. Crasso Marco Licinio: 62, 63, 64, 73, 101, 157, 168, 239. Crasso Publio Canidio: 181, 196, 203. Damocle: 10. Dellio Quinto: 159, 160, 188, 205, 242. Demetrio, figlio di Antigono: 11. Demetrio di Falero: 36. Didimo Ario: 222. Dinocrate di Rodi: 23. Diodoro Siculo: 12, 26, 27, 56. Diomede, segretario di Cleopatra: 215. Dione, filosofo alessandrino: 70, 71. Dione di Prusa: 47.

252

indice dei nomi Dioniso Petosarapis: 53, 54, 239. Dioscoride: 111. Dolabella Cornelio: 220. Dolabella Publio Cornelio: 137, 139, 140, 144, 145, 146, 148, 150, 152, 153, 159, 220. Domizio Enobardo Gneo: 195, 196, 203.

Gallo Gaio Cornelio: 206, 209, 211, 217. Ganimede: 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119. Geminio: 200. Giuba, re di Numidia: 96. Giuba II, re di Mauretania: 223. Giulia, figlia di Ottaviano: 173, 227.

Epafrodito: 217. Eratostene di Cirene: 34. Ermogene Marco Tigellio, musico della corte di Cleopatra: 128. Erode, re di Giudea: 169, 173, 174, 178, 179, 180, 207, 209, 229, 242. Erodoto: 13. Erofilo: 34. Eros: 214. Euclide: 34. Eufronio: 208. Eunaios, consigliere di Tolomeo VI Filometore: 52.

Icarno II, esarco di Giudea: 118, 169. Iotope, principessa della Media: 190. Ippodamo di Mileto: 23. Iras: 212, 221, 222. Irzio Aulo: 112.

Farnace II, re del Ponto: 123, 125. Fasaele, fratello di Erode: 169. Filippo II, re di Macedonia: 42. Filippo V, re di Macedonia: 51. Filostrato, filosofo: 226. Filostrato, filosofo al seguito di Cleopatra: 128. Filota di Anfissa: 167. Fonteio Capitone Gaio: 171, 172, 173, 174. Fulvia, moglie di Marco Antonio: 169, 170, 193, 207. Furnio: 200. Gabinio Aulo: 67, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 81, 87, 156. Galeno: 46.

Kavafis Costantino: 9. Labieno Quinto: 168, 169, 174. Lagos: 11, 43. Lampria, nonno di Plutarco: 167. Laodice: 18. Lenate Gaio Popilio: 53, 239. Lentulo Publio Cornelio Spintere: 70, 73. Leonias, consigliere di Tolomeo VI Filometore: 52. Lepido Marco Emilio: 51, 147, 150, 151, 153, 155, 170, 182, 184, 194, 239. Lucano Marco Anneo: 45, 98, 228. Lucilio: 206. Malco, re dei Nabatei: 179, 206. Mario Gaio: 196. Mecenate Gaio Cilnio: 216. Messalla Valerio Corvino: 201. Mitridate di Pergamo: 112, 118. Mitridate VI Eupatore: 60.

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indice dei nomi Nikiu Giovanni: 226. Omero: 22, 30, 222. Oppio Gaio: 124. Orode II, re dei Parti: 169. Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Marco Antonio: 170, 172, 173, 184, 185, 186, 187, 193, 197, 223. Ottaviano Augusto Gaio Giulio Cesare: 10, 16, 31, 32, 138, 139, 141, 145, 149, 150, 151, 152, 153, 155, 169, 170, 171, 172, 173, 176, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 189, 192, 193, 194, 195, 196, 198-223, 225, 227, 228, 229, 243. Pacoro, figlio di Orode II: 169. Paolo di Egina: 46. Pedio Quinto: 149. Perdicca: 11, 12, 31. Peticio: 96. Petubastis: 222. Pinario Lucio Scarpa: 205. Planco Munanzio: 198, 242. Plutarco: 17, 46, 165, 167, 168, 177, 186, 216, 225, 233. Polemone, re del Ponto: 174. Pompeo Gneo, figlio di Pompeo Magno: 91, 126, 229, 240. Pompeo Gneo Magno: 30, 63, 64, 67, 69, 70, 71, 73, 74, 83, 91, 92, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 112, 126, 133, 150, 171, 182, 185, 196, 240. Pompeo Sesto, figlio di Pompeo Magno: 96, 126, 150, 151, 155, 172, 182, 183, 185, 194, 198. Potino: 84, 86, 87, 98, 106, 107, 108, 110, 111, 113, 114, 119, 125, 240. Proculeio Gaio: 216, 217.

Pseudo-Callistene: 27. Publicola: 204. Pulcro Publio Clodio: 64. Rabirio Postumo Gaio: 69, 78, 79, 82. Rhodon: 222. Rufio: 121. Rullo Publio Servilio: 63. Saras, segretario di Cleopatra: 129. Savio: 98, 99. Scribonia, seconda moglie di Ottaviano: 172, 173. Seleuco, amministratore di Cleopatra: 219. Seleuco II Callinico: 18. Seleuco Cibiosatte: 67. Serapione: 111. Serapione, governatore di Cipro: 148, 149, 152, 159, 164. Sertorio Quinto: 94. Settimio Lucio: 98, 99. Silla Lucio Cornelio: 60, 196. Sosibio: 49. Sosigene, astronomo e consigliere di Cleopatra: 131. Sosio Gaio: 195. Sostrato di Cnido: 38, 41, 238. Staziano Oppio: 181. Strabone: 26, 30, 32. Teocrito: 33. Teodoto di Chio: 84, 86, 98, 99, 100, 103, 119, 240. Teofane di Lesbo: 96. Teofrasto: 36. Timone di Atene: 207. Tirso: 210.

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indice dei nomi Tizio Marco: 185, 198. Tizio Publio: 151. Tolomeo, re di Mauretania: 223, 243. Tolomeo I Sotér: 9, 11, 12, 20, 24, 27, 29, 31, 33, 34, 36, 39, 40, 43, 231. Tolomeo II Filadelfo: 9, 15, 17, 18, 20, 21, 30, 31, 33, 35, 37, 38, 39, 232, 239. Tolomeo III Evergete: 9, 18, 19, 29, 35. Tolomeo IV Filopatore: 15, 48, 49, 51, 122, 238, 239. Tolomeo V Epifane: 43, 49, 51, 52. Tolomeo VI Filometore: 52, 53, 54, 239. Tolomeo VII Eupatore: 54. Tolomeo VIII Evergete II: 52, 53, 54, 55, 60, 239. Tolomeo IX Sotér II: 57, 59. Tolomeo X Alessandro I: 31, 57, 58, 60, 231, 239.

Tolomeo XI Alessandro II: 58, 60, 61, 62, 82. Tolomeo XII Aulete: 17, 42, 43, 44, 47, 56, 58, 61, 62, 63, 64, 65-74, 7485, 87, 90, 91, 92, 101, 102, 104, 105, 109, 111, 120, 156, 231, 238, 239, 240. Tolomeo XIII: 43, 80, 82, 83, 85, 86, 87, 90, 91, 94, 96, 98, 100, 103, 104, 105, 106, 109, 110, 111, 113, 114, 118, 119, 148, 164, 240, 242. Tolomeo XIV: 43, 110, 120, 126, 142. Tolomeo XV: vd. Cesarione. Tolomeo Apione: 57, 62. Tolomeo Cesare: vd. Cesarione. Tolomeo Filadelfo, figlio di Cleopatra: 180, 190, 223, 232. Tolomeo Menfita: 55, 239. Trebonio Gaio: 145. Turullio Publio: 197, 208. Varrone Marco Terenzio: 130. Zenobia, regina di Palmira: 227.

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INDICE Introduzione

9

I. Alessandria, gloria dei Tolomei 1. Egitto: forza, ricchezza e potere 2. Una grande eredità 3. La città delle arti e delle scienze 4. Il Faro del mondo

11 22 33 38

II. Cleopatra VII 1. La gloria del padre 2. L’infanzia 3. La fama degli Alessandrini 4. Primi tumulti 5. I gatti di Alessandria 6. La rivolta 7. Tolomeo a Roma 8. Restaurazione

42 44 47 49 56 61 65 74

III. All’ombra di Roma 1. I primi anni sul trono 2. « Un cadavere non morde » 3. La marcia di Cesare 4. La notte di Alessandria 5. Sotto scacco 6. Il trionfo 7. Roma

257

81 92 99 107 112 121 125

indice IV. Nel nome di Cesare 1. Tra il Tevere e il Nilo 2. La mossa: Cesarione come compagno al trono 3. La scelta: con Dolabella contro Cassio 4. Dentro la rivoluzione romana 5. Marco Antonio, triumviro d’Oriente 6. I giorni di Tarso: l’incontro

135 141 144 149 155 160

V. Una nuova era: con Marco Antonio 1. La vita inimitabile 2. L’abbandono e il ritorno 3. Thea Neotera Philopator Philopatris 4. Gli affari, un figlio, l’attesa 5. La ritirata 6. La prescelta 7. La conquista e la festa

165 171 174 177 181 184 188

VI. L’ultima stagione, dentro la Storia 1. Ottaviano contro 2. Dalla propaganda alla guerra 3. Azio: la battaglia 4. L’ultima stagione 5. La morte inimitabile 6. I figli di Cleopatra

193 195 200 206 209 222

VII. Bellezza e potere: la fortuna di Cleopatra 1. Come Alessandro 2. Per l’Oriente: una nuova Iside 3. Per Roma: un’altra Elena 4. Il volto di Cleopatra 258

224 225 227 229

indice Bibliografia

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Indici Indice dei nomi

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