Angelo Colocci e gli studi romanzi. Ediz. italiana e spagnola 8821008428, 9788821008429


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Angelo Colocci e gli studi romanzi. Ediz. italiana e spagnola
 8821008428, 9788821008429

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ANGELO COLOCCI E GLI STUDI ROMANZI

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STUDI E TESTI 449

ANGELO COLOCCI E GLI STUDI ROMANZI a cura di

CORRADO BOLOGNA E MARCO BERNARDI

CITTÀ DEL VATICANO B I B L I O T E C A A P O S T O L I C A V AT I C A NA 2008

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Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va

Stampato con il contributo dell’associazione American Friends of the Vatican Library

–––––– Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008 ISBN 978-88-210-0842-9

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SOMMARIO C. BOLOGNA, M. BERNARDI, Il “punto” su Angelo Colocci . . . . . . . . . .

VII

I. La biblioteca colocciana (e altri modelli cinquecenteschi) C. BOLOGNA, La biblioteca di Angelo Colocci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. BERNARDI, Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. DANZI, La parte ispano-portoghese della biblioteca del Bembo (con una «postilla» colocciana) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. MOTOLESE, Per lo scaffale di Castelvetro: un nuovo documento e una vecchia lista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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II. I manoscritti, le postille M. BERNARDI, Intorno allo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831 . . . . . . N. CANNATA, Il primo trattato cinquecentesco di storia poetica e linguistica: le Annotationi sul vulgare ydioma di Angelo Colocci (ms. Vat. lat. 4831) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . C. F. BLANCO VALDÉS — A. Ma. DOMÍNGUEZ FERRO, Il codice Vat. lat. 4823: il laboratorio colocciano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. SPAMPINATO BERETTA, Il “caso” Cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . S. BIANCHINI, Colocci legge «Rosa fresca aulentissima» . . . . . . . . . . . M. BREA, De los lemosini a los siculi, Dante y Petrarca . . . . . . . . . . . F. COSTANTINI, Il Libro Reale, Colocci e il Canzoniere Laurenziano . . G. TAVANI, Le postille di collazione nel canzoniere portoghese della Vaticana (Vat. lat. 4803) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y la rima románica: aspectos estructurales (análisis de algunas apostillas coloccianas) . . . . . . . E. FIDALGO FRANCISCO, Apuntes para una Vida de Alfonso X en un códice de Colocci (Vat. lat. 4817) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E. CORRAL DÍAZ, Las notas coloccianas en el cancionero profano de Alfonso X . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. LORENZO GRADÍN, Colocci, los lais de Bretanha y las rúbricas explicativas en B y V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F. FERNÁNDEZ CAMPO, Apostillas petrarquescas de Colocci: nuevas posibilidades de lectura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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169 199 211 225 245 267 307 315 363 387 405 431

III. La poesia, i poeti C. PULSONI, Il De Vulgari Eloquentia tra Colocci e Bembo . . . . . . . . . A. ROSSI, Il Serafino di Angelo Colocci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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VI

SOMMARIO

C. VECCE, Sannazaro e Colocci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . U. SCHLEGELMILCH, Carmina de ruinis: Pomponio Leto, Angelo Colocci e la poesia antiquaria di Roma tra ’400 e ’500 . . . . . . . . . . . . .

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Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei manoscritti e degli stampati antichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CORRADO BOLOGNA — MARCO BERNARDI

IL “PUNTO” SU ANGELO COLOCCI «Io pensavo che gli studi miei, la gloria mia che nasceria dagli studi e lettere fosse l’ultimo riposo mio, ed io morirò che non si vedrà cosa alcuna di me». [A. COLOCCI, Vat. lat. 14869, f. 9v: copia moderna di lettera non datata ad un affinis]

1. Nel chiudere la sua comunicazione conclusiva negli ormai storici Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Samy Lattès auspicava la formazione di un gruppo di studi colocciani che potesse «sciogliere dopo quasi un secolo il voto già espresso da Pierre de Nolhac il quale nella sua opera su Fulvio Orsini esprimeva l’augurio che Angelo Colocci fosse l’oggetto della monografia che egli meritava dal nostro secolo; il “nostro” secolo per Pierre de Nolhac era il XIX» e aggiungeva «io spero che il XX realizzerà l’augurio di Pierre de Nolhac e che, tutti uniti riusciremo a dare al Colocci una vita nuova o se volete, giacché non si sa dove sia sepolto, una sepoltura intellettuale degna di lui nel Panteon ideale degli umanisti italiani» 1. A quasi quarant’anni di distanza dal Convegno di Jesi sembra ancora prematuro rinnovare un simile auspicio: non perché manchino elementi di novità documentaria, ma la contrario, proprio perché gli studi – che nel frattempo hanno proseguito l’indagine, sotto varie angolature, dei multiformi interessi dell’esinate in maniera diretta o indiretta – oggi mostrano forse più chiaramente di ieri quanto articolate, complesse e onnivore fossero le ricerche dell’umanista e quanto numerose le sue letture, quanto disparati i campi di applicazione del suo studium e quanto ramificata, eterogenea se non caotica, dispersa e sovrabbondante la trama delle annotazioni che, distillatesi a partire da ricerche, studium e letture, si vengono a disporre in reticoli al limite della decifrabilità su

1 S. LATTÈS, Studi letterari e filologici di Angelo Colocci, in Atti del Convegno di studi su

Angelo Colocci (Jesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 243-255, p. 255.

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CORRADO BOLOGNA



MARCO BERNARDI

un così cospicuo numero di carte negli zibaldoni vaticani e sui margini di tanti codici manoscritti, incunaboli, cinquecentine. Insomma, chi si occupa di Angelo Colocci non può che toccare con mano, pur nel progresso degli studi, e forse anzi proprio in ragion d’esso, quanto ponderato e verosimile fosse il giudizio di Vittorio Fanelli – forse lo studioso che fino ad oggi più si è avvicinato alla tessitura di un’opera complessiva sull’umanista – che nella Premessa alla sua magistrale edizione della Vita di Mons. Angelo Colocci dell’Ubaldini scriveva: «Allo stato attuale rimane ancora un vastissimo campo da esplorare ed è molto difficile, se non addirittura impossibile, che qualcuno possa scrivere un libro definitivo sul Colocci, data la varietà e la vastità dei suoi interessi»2. Non tutti i campi d’indagine possibile, dopo i contributi del Convegno, sono stati ripercorsi con la medesima frequenza dagli studiosi. Numerose direzioni di ricerca – spesso indicate dallo stesso Fanelli – per molte ragioni non sono tuttora state praticate o lo sono state solo marginalmente: è il caso, ad esempio, dello studio sulle collezioni e sugli interessi archeologici di Colocci, che si legano alle sue ricerche sui pesi e le misure antichi, e sul ricco materiale custodito in numerosi codici miscellanei (Vatt. latt. 3715, 3890, 3893-3896; 3901-3902; 3904-3906 per citare i principali). Manca di un adeguato approfondimento la figura di Colocci come studioso di letteratura e soprattutto lingua latina (con particolare riguardo alle numerosissime grammatiche della sua biblioteca, ai codici che contengono annotazioni autografe e spogli lessicali condotti sui testi di autori latini, e alle numerose edizioni a stampa già identificate i cui margini sono fittamente coperti di postille e glosse); né le postille apposte al suo Dizionario latino-francese (Vat. lat. 2748) hanno ancora ricevuta tutta l’attenzione che è invece stata riservata a quelle relative ai codici di lirica provenzale (in particolare M: Parigi, Bibliothèque Nationale, fr. 12474 e la sua copia Vat. lat. 3205, ma anche Vat. lat. 4796 e i frammenti di Vat. lat. 7182), galego-portoghese (Vat. lat. 4803 e canzoniere ColocciBrancuti: Lisbona, Biblioteca Nacional, cod. 10991, di qui in poi B; oltre ai frammenti presenti in Vat. lat. 4796, alla Tavola Colocciana – Vat. lat. 3217, ff. 300-307 – e ai Lais de Bretanha, in Vat. lat. 7182) e, ovviamente, italiana (Vat. lat. 3793 – di qui in poi V – e il codice che ne dipende Va: 2 F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969 (Studi e testi, 256), p. V. Il giudizio è riconfermato anche in V. FANELLI, La fortuna di Angelo Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 19-34, p. 32, quindi ricompreso in ID., Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Introduzione e note addizionali di J. RUYSSCHAERT. Indici di G. BALLISTRERI, Città del Vaticano 1979 (Studi e testi, 283), pp. 168-181, p. 180.

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PRESENTAZIONE : IL “ PUNTO ” SU ANGELO COLOCCI

IX

Vat. lat. 4823); poco più studiate le sue traduzioni dal catalano e dal castigliano (ff. 127-143 di Vat. lat. 4818). Numerosi aspetti della sua biografia, poi, devono ancora essere chiariti tramite puntuali ricerche d’archivio (oltre che sul materiale documentario relativo alla famiglia Colocci confluito nei due codici oggi Vatt. latt. 14869 e 14870) e anche attraverso un attento recupero ed edizione dell’epistolario3. Date queste premesse, appare evidente che uno studio complessivo della personalità e degli interessi, del pensiero e dell’opera di Colocci potrebbe risultare solo dalla convergenza dei contributi d’indagine di studiosi le cui competenze si esercitino normalmente in campi piuttosto disparati (l’archeologia, l’archivistica, la storia dell’arte, la storia delle scienze, la biblioteconomia…). Qui si è scelto di privilegiare lo studio filologico degli interessi linguistici e letterari rivolti ai volgari neolatini dell’umanista. Questo volume offre dunque i contributi più maturi e recenti delle ricerche relative ad Angelo Colocci nel panorama degli studi romanzi – segnatamente italiani, provenzali e galego-portoghesi – e li integra nel contesto culturale in cui si svilupparono, grazie all’apporto di alcuni saggi dedicati a figure di poeti e intellettuali che in vario modo entrarono in contatto con lui. Ciascuno degli scritti qui ospitati presenta infatti elementi di originalità e novità: o perché latore di nuove ed inedite acquisizioni; o perché pone in una nuova luce questioni già dibattute contribuendo a chiarirle grazie a recenti, puntuali e sistematici riscontri; o perché fornisce sintesi complessive di questioni di primo piano nel panorama degli studi colocciani, costituendo un’utile strumento di lavoro per sviluppi futuri. 2. I contributi confluiti nel volume sono stati ordinati secondo un criterio di organicità che consentisse di fare del presente non una semplice raccolta di saggi o di atti di convegno4, bensì un libro vero e proprio, la 3 Quattro codici vaticani, in particolare, conservano una ricca silloge di lettere indiriz-

zate al Colocci (Vatt. latt. 4103-4105 e Reg. lat. 2023): occorrerebbero anche qui estese ricerche d’archivio per recuperare negli epistolari dei destinatari (dove possibile) le missive dell’umanista, delle quali, tuttavia, alcuni esemplari si sono conservati anche tra i fogli dei codici indicati, o come brutte copie, o in quei casi in cui il destinatario aveva corrisposto all’invio colocciano vergando la propria risposta sulla lettera ricevuta e indirizzandola nuovamente al mittente. Alcuni dei pezzi forse più rilevanti di questo corpus sono tuttavia stati pubblicati (a questo proposito e anche per quanto riguarda gli altri campi di ricerca fin qui indicati si rimanda alla bibliografia essenziale al termine di questa Presentazione). 4 Anche se si potrà ricordare che il progetto concretizzato nel presente volume nacque

dai numerosi stimoli e spunti di ricerca scaturiti in due felici occasioni di incontro: il convegno di studi Riscrivere e riusare: Angelo Colocci e le Origini della poesia europea (maggio 2002) e il seminario Altre novità su Angelo Colocci e la poesia italiana delle Origini (marzo 2003), svoltisi entrambi presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

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CORRADO BOLOGNA



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cui struttura e organizzazione permettesse ai singoli lavori di rischiararsi a vicenda, disponendosi lungo le linee di un disegno razionale complessivo. Ne è risultata l’attuale tripartizione del volume che muove dallo studio, per così dire ‘macroscopico’, della biblioteca di Colocci quale luogo fisico (e anzitutto mentale, quasi un teatro della memoria) di conservazione, elaborazione e circolazione di conoscenza – si pensa ai fitti scambi librari che caratterizzavano le relazioni tra umanisti –, e ne illustra specifici aspetti anche attraverso il confronto con altri due modelli di biblioteca umanistica (quella dell’amico Bembo e del più tardo Castelvetro). L’indagine sposta poi il suo obiettivo su dettagli via via più minuti di alcuni item della biblioteca colocciana, fino allo studio ‘microscopico’ del pulviscolo di glosse e postille che screziano margini e interlinee dei suoi zibaldoni e delle sue raccolte di lirica volgare antica. Nella seconda parte si succedono dunque contributi ripartiti per area ed oggetto d’interesse: prima la poesia italiana delle origini, poi la lirica provenzale e quella galego-portoghese. In numerosi casi, tuttavia, i saggi ospitati in questa sezione si occupano contemporaneamente della produzione poetica in questi tre idiomi: un tipo di focalizzazione esattamente corrispondente alla natura intrinsecamente comparatistica delle annotazioni colocciane sui margini dei suoi canzonieri (specialmente Va, M e B), che continuamente implicano, in una fitta e dinamica triangolazione di rimandi, tutte e tre le tradizioni liriche citate. Il saggio sul De vulgari eloquentia – oggetto antico, ma assurto al centro delle più ferventi polemiche linguistiche del Cinquecento italiano – costituisce lo snodo più adeguato nel passaggio dallo studio degli interessi colocciani per la lirica volgare antica a quelli che riguardarono la cultura della sua contemporaneità. Questo dunque l’oggetto specifico della terza parte del libro, in cui si raccolgono contributi che si occupano di alcuni tra gli intellettuali più ammirati da Colocci – e in molti casi personalmente conosciuti (Sannazaro, l’Aquilano, il Leto) – e della produzione poetica volgare e latina degli anni a cavallo tra il XV e il XVI secolo. 3. Oltre alla organizzazione del materiale secondo il disegno di cui si è detto, abbiamo cercato di conferire ad esso, fin dove è stato possibile, una certa unitarietà, anche dal punto di vista grafico e delle modalità di citazione bibliografica. Abbiamo intrattenuto con tutti gli autori, specialmente nelle prime fasi di lavoro (che proprio per questo si è esteso nel tempo), intensi rapporti di scambio e confronto per garantire al libro uniformità anche nel rigore delle indagini e nell’affidabilità delle conclusioni scientifiche, della cui sostanza, ovviamente, rimane responsabile

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PRESENTAZIONE : IL “ PUNTO ” SU ANGELO COLOCCI

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ogni singolo autore. Abbiamo tuttavia provveduto ad un verifica delle trascrizioni realizzate dagli studiosi che contribuiscono al volume, procedendo ad un sistematico e – per quanto possibile – completo controllo degli originali manoscritti custoditi nella Biblioteca Vaticana. Infine abbiamo corredato il volume di due indici, uno relativo ai nomi di personaggi e studiosi e l’altro ai manoscritti e edizioni a stampa antiche (XV-XVI secolo) citati. Fatta salva l’ovvia perfettibilità di qualunque operazione umana, ci auguriamo in conclusione che gli eventuali difetti di questa pubblicazione – dei quali consuetudine vuole che ci chiamiamo responsabili – non inficino l’utilità e l’affidabilità di questo strumento, che in ogni caso segna una tappa nuova nel progresso degli studi su Angelo Colocci e forse in parte contribuisce risarcire il fallimento delle aspirazioni di gloria che l’umanista lamentava negli ultimi giorni della sua vita.

* *

*

A complemento di quanto fin ora esposto e come corredo e sfondo dei lavori raccolti nel presente volume si fornisce di seguito una bibliografia colocciana essenziale che, pur senza pretese di completezza, offre tuttavia un prospetto degli studi fondamentali intorno alla figura e all’attività dell’umanista.

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MARCO BERNARDI

BIBLIOGRAFIA COLOCCIANA ESSENZIALE5 Volumi miscellanei complessivi Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972. V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Introduzione e note addizionali di J. RUYSSCHAERT, indici di G. BALLISTRERI, Città del Vaticano 1979 (Studi e testi, 283). Notizie biografiche complessive e di dettaglio G. F. LANCELLOTTI, Poesie italiane e latine di mons. Angelo Colocci, Jesi 1772. L. BERRA, Come il Colocci conseguì il Vescovato di Nocera, in Giornale Storico della Letteratura Italiana 89 (1927), pp. 304-316. F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969 (Studi e testi, 256). V. FANELLI, La fortuna di Angelo Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 19-34. V. FANELLI, La ribellione di Jesi durante la congiura dei baroni, in Rendiconti dell’Istituto marchigiano di Scienze, Lettere e Arti di Ancona 19 (1955-1960), pp 139-150, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 19-29. V. FANELLI, Adriano VI e Angelo Colocci, in Studi romani 8 (1960), pp 13-24, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 30-44. S. LATTÈS, Premessa metodologica per l’indagine sulla biografia e gli autografi del Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 35-44. M. BERNARDI, C. BOLOGNA, C. PULSONI, Per la biblioteca e la biografia di Angelo Colocci: il ms. Vat. lat. 4787 della Biblioteca Vaticana, in Studii de Romanisticã (Volum dedicat profesorului Lorenzo Renzi) a cura di D. MARGA, V. MOLDOVAN, D. FEURDEAN, Cluj-Napoca (Romania) 2008, pp. 200-220. La biblioteca P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 18876. S. DEBENEDETTI, Le ansie di un bibliofilo durante il Sacco di Roma, in Mélanges offerts à Emile Picot, I, Paris 1913, pp. 511-514.

5 All’interno di ciascun raggruppamento, gli studi sono ordinati secondo la cronologia di pubblicazione (e quando necessario – in caso di studi interni al medesimo volume – alfabeticamente in base al nome degli autori). 6 Questo importante studio aveva ricevuto un’interessante recensione da parte di V. CIAN in Giornale Storico della Lettertura Italiana 11 (1888), pp. 230-249 (vd. oltre).

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PRESENTAZIONE : IL “ PUNTO ” SU ANGELO COLOCCI

XIII

S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (1931), pp. 308334. S. LATTÈS, La plus ancienne Bible en vers italiens (manuscrit Vatican Latin 4821), in Mélanges d’archéologie et d’histoire, publiés par l’École Française de Rome 49 (1932), pp. 180-215. G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo a Roma, in ID., Opere minori raccolte in occasione del settantesimo vitalizio, IV: (1917-1936), Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 79), pp. 524-545. V. FANELLI, Le lettere di Mons. Angelo Colocci nel Museo Britannico di Londra, in Rinascimento 6 (1959, ed. 1961), pp. 107-135, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 45-90. V. FANELLI, Aspetti della Roma cinquecentesca. Note sulla diffusione della cultura iberica a Roma nel Cinquecento, in Studi romani 15 (1967), pp. 277-288, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 154-167. V. FANELLI, Angelo Colocci e Cecco d’Ascoli, in Rinascimento II s. 8 (1968), pp. 331-349, poi in Atti del I Congresso di studi su Cecco d’Ascoli, Ascoli Piceno, Palazzo dei Congressi, 23-24 novembre 1969, Firenze 1976, pp. 42-64, e in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 182-205. R. AVESANI, Due codici appartenuti ad Angelo Colocci, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Macerata 7 (1974), pp. 379-385. L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 77-96. P. SMIRAGLIA, Le «Facetiae» del Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 221-230. R. BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-282. I. HEULLANT-DONAT, E. IRACE, «Amici d’istorie». La tradizione erudita delle cronache di Gualdo e la memoria urbana in Umbria tra Medioevo ed età moderna, in Quaderni storici n. s. 93 (1996), pp. 549-581. C. BOLOGNA, Colocci e l’Arte (di «misurare» e «pesare» le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407.

Gli interessi archeologici, antiquari e artistici, le case, le collezioni R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma, Roma 1902, I, pp. 192 e 202-204; II, p. 19. E. RODOCANACHI, Rome au temps de Jules II et de Léon X, Parigi 1912, p. 123, nt. 3 e p. 164, nt. 1, pp. 146 e 402. V. FANELLI, Aspetti della roma cinquecentesca. Le case e le raccolte archeologiche del Colocci, in Studi romani 10 (1962), pp. 391-402, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 111-125. V. FANELLI, Le raccolte archeologiche del Colocci, pp. 126-134, in Studi di bibliografia e di storia in onore di Tammaro de Marinis, II, Verona 1964, pp. 281288, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 126-134.

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CORRADO BOLOGNA



MARCO BERNARDI

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7 Recensito da R. BIANCHI in Roma nel Rinascimento 1992, pp. 304-306.

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PRESENTAZIONE : IL “ PUNTO ” SU ANGELO COLOCCI

XV

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PRESENTAZIONE : IL “ PUNTO ” SU ANGELO COLOCCI

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G. SALVADORI, Lingua fiorentina e lingua italiana nel Cinquecento, in Fanfulla della domenica 31 (1909), nr. 28 (11 luglio), pp. 1-2. S. LATTÈS, La conoscenza e l’interpretazione del «De vulgari eloquentia» nei primi anni del Cinquecento in Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle arti di Napoli n.s. 17 (1937), pp. 156-168 O. OLIVIERI, Gli elenchi di voci italiane di Angelo Colocci, in Lingua nostra 4/2 (1942), pp. 27-29. F. AGENO, Sulle controversie linguistiche in Italia, in Giornale storico della Letteratura italiana 138 (1961), pp. 90-100. R. AVESANI, Appunti del Colocci sulla poesia mediolatina, in Atti del Convegno cit., pp. 109-132. A. GRECO, L’apologia della “Rime” di Serafino Aquilano di Angelo Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 205-219. S. LATTÈS, Studi letterari e filologici di A. Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 243255. C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici cit., pp. 531-587. C. PULSONI, Per la fortuna del De Vulgari Eloquentia nel primo Cinquecento: Bembo e Barbieri, in Aevum. Rassegna di Scienze Storiche, Linguistiche e Filologiche 71/3 (1997), pp. 631-650. R. ANTONELLI, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 3-23. C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I canzonieri della lirica italiana cit, pp. 105-152. N. CANNATA SALAMONE, Il dibattito sulla lingua e la cultura letteraria e artistica del primo Rinascimento romano. Uno studio del ms. Vaticano Reg. lat. 1370, in Critica del testo 8/3 (2005), pp. 901-951. Relazioni umanistiche e intellettuali, curatele editoriali P. DE NOLHAC, Les correspondants d’Alde Manuce, in Studi e documenti di storia e diritto 8 (1887), p. 247-299 e 9 (1888), pp. 203-248. E. PERCOPO, Una lettera pontaniana inedita di Pietro Summonte ad Angelo Colocci (1519), in Studi di Letteratura italiana 1 (1899), pp. 388-395. M. MORICI, Due umanisti marchigiani vescovi di Nocera, in Bollettino della deputazione di Storia Patria per l’Umbria 7/I (1901), pp. 141-152. ADR. COLOCCI, Angelo Colocci e Hans Goritz, Fabriano 1922. G. VITALETTI, Federigo Ubaldini e Angelo Colocci, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche s. IV 1/I (1924), pp. 53-73. G. VITALETTI, Intorno ad una copia delle opere di Angelo Colocci inviata a Niccolò Claudio, signore di Peiresch, in La bibliofilia 26 (1924-1925), pp. 29-30. D. GNOLI, Gli orti letterari nella Roma di Leone X, in Nuova Antologia 65 (1930), pp. 3-19 e pp. 137-148.

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V. FANELLI, Il Ginnasio greco di Leone X a Roma, in Studi romani 9 (1961), pp. 379-393, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 91-110. G. BALLISTRERI, Due umanisti della Roma colocciana: il Britonio e il Borgia, in Atti del Convegno cit., pp. 169-176. F. BARBERI, E. CERULLI, Le edizioni greche «in Gymnasio Mediceo ad Caballinum montem», in Atti del Convegno cit., pp. 61-76. A. CAMPANA, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno cit., pp. 257-272. M. T. GRAZIOSI, Pacifico Massimi maestro del Colocci?, in Atti del Convegno cit., pp.157-168. S. SEIDEL MENCHI, Alcuni atteggiamenti della cultura italiana di fronte a Erasmo, in Miscellanea del Corpus Reformatorum Italicorum 1 (1974), pp. 69-133. N. CANNATA SALAMONE, Per l’edizione del Tebaldeo latino. Il progetto ColocciBembo, in Studi e problemi di critica testuale 47 (1993), pp. 49-76. L’epistolario: frammenti editi V. CIAN, recensione a P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, in Giornale storico della Letteratura italiana 11 (1888), pp. 230-249, pp. 242-243. MORICI, Due umanisti marchigiani vescovi di Nocera cit., p. 152. G. BERTONI, Per le relazioni del Colocci col Tebaldeo, Giornale storico della Letteratura italiana 47 (1906), pp. 451-453. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia cit., pp. 299-301, 304. BERRA, Come il Colocci conseguì il Vescovato di Nocera cit., pp. 310-312, 314-315. B. CROCE, Aneddoti di storia civile e letteraria, XXIII: Documenti umanistici napoletani, in La Critica 32 (1934), pp. 149-153. V. FANELLI, Le lettere di Mons. Angelo Colocci nell’Archivio comunale di Jesi, in Rinascimento 4 (1953; ed. 1954), pp. 79-88, poi in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 7-18. FANELLI, Le lettere di Mons. Angelo Colocci nel Museo Britannico cit., pp. 50-56. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., pp. 67-75 e FANELLI, nelle Appendici II-III, V-X e XII, ibid., ripettivamente pp. 110-113, 116-126, 129. BERNARDI, BOLOGNA, PULSONI, Per la biblioteca e la biografia cit., pp. 192-212, pp. 201-212.

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LA BIBLIOTECA DI ANGELO COLOCCI 1. Angelo Colocci al suo tavolo di lavoro: una penna in mano, davanti a sé pile di fogli bianchi o pieni di annotazioni, molti libri manoscritti e a stampa, frammisti senza alcuna distinzione, testimoni di discipline varie e anche incommensurabili, sparsi, dislocati sugli scaffali della biblioteca, aperti sul tavolo. Nell’umile posizione dello studioso che studia, trascrive, conserva, trasforma le tracce preziose del lavoro intellettuale proprio e altrui, Colocci è un modesto, appartato San Girolamo di Antonello da Messina o del suo maestro napoletano Colantonio; è un discretissimo, laicizzato e professionale Sant’Agostino di Vittore Carpaccio agli Schiavoni di Venezia o di Sandro Botticelli alla chiesa fiorentina d’Ognissanti. Lontano dal teatro della mondanità e del potere, è l’umanista moderno concentrato a leggere per studiare e capire e a ragionare al tavolo della sua cameretta segreta, nel riparato studiolo in cui solo può essere totus suus e contemporaneamente accendersi nel dialogo con i fantasmi degli scrittori che va scoprendo come ponte culturale necessario fra sé e le sterminate antichità del passato “classico”. Però «la complementarietà fra attività di lettura e attività di scrittura», che era stata dell’umanista antico, il quale «leggeva scrivendo, poiché annotava continuamente i libri nei margini e negli interlinei; e dunque scriveva praticamente leggendo, o subito dopo aver letto»1, è ridotta ormai dal campo della creazione a quello dell’impegno erudito, della ricostruzione storiografica. I suoi libri, poi, numerosi e di diversa natura, disposti in contenitori capaci di renderli facilmente ritrovabili e consultabili, sono ben diversi da quelli «appartenenti a diverse e arretrate tradizioni culturali»2 (che in quei dipinti ancora troneggiano, anacronisticamente aulici). Così, mentre ai giganti antichi accosta e 1 A. PETRUCCI, Le biblioteche antiche, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, II,

Torino 1983, pp. 527-554, p. 528. 2 A. PETRUCCI, Le immagini del libro, ibid., didascalia dell’ill. 3. Il «percorso iconografico intorno alle immagini del libro nella tradizione artistica italiana dal XIV ad oggi», curato da Petrucci nel II volume della Letteratura italiana einaudiana, precede immediatamente il suo saggio citato nella nota 1 (la frase fra virgolette è a p. 526). Un altro notevole percorso iconografico, Gli strumenti del letterato, Petrucci aveva approntato per il I volume della letteratura einaudiana, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982.

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pareggia i nani dell’attualità, di fatto ricuce lo strappo d’una storiografia impigliata in un “punto di vista” parziale e di parte, reintegrando l’inabissamento di secoli che agli storiografi suoi contemporanei appaiono, appunto, “bui” e “vuoti”. È, insomma, l’esatta figura dell’intellettuale plasmatosi all’origine del tempo che con lui ancora condividiamo, colto mentre “inventa” le Origini medioevali del Moderno, intuisce continuità invisibili e impensate filiazioni, incomincia a intravedere l’estensione europea della tradizione romanza, nella quale coglie però fratture e scarti innovativi, dislivelli necessarî. La biblioteca di Angelo Colocci è il suo capolavoro, la sintesi monumentale tra la paziente fatica collezionistica e l’urgenza spesso tumultuosa della ricerca, che trasforma libri e carte in laboratorî formicolanti. Quell’edificio librario virtuale ebbe, in tempi, luoghi, misure, modi diversi, una consistenza materialmente tangibile, solo in parte visibile attraverso la conservazione di manoscritti e stampati, soprattutto nei fondi della Biblioteca Apostolica Vaticana. Ma il valore della collezione libraria, come si sa, aumenta esponenzialmente per il “valore aggiunto” che ogni monumento ricava dal suo essere anche documento, giacché sui bordi di molti pezzi in genere antichi e unici, in feconda dialettica con il loro contenuto, le postille di studio conservano, fissato proprio nel suo farsi, il reticolo vivo del lavoro di comparazione, le tracce puntuali, dinamiche, dell’avventura del ricercare. Da questo punto di vista la biblioteca colocciana costituisce il tipico esempio di ricca, sofisticata raccolta di un sottile studioso d’età rinascimentale che, solidamente educato alle artes della parola e dell’immagine, imperniò la propria originalissima attività di ricerca sull’approfondimento analitico e comparatistico delle letterature volgari sui piani storicoletterario e storico-formale, retorico-stilistico, linguistico-lessicografico, metricologico. Per un altro verso, dall’immensa quantità di tracce che permettono di restituire i percorsi di ricerca nei libri e fra i libri, trasformati da beni preziosi per collezione in strumenti di un cammino culturale senza precedenti, trapela la natura complessa e originale di questa raccolta, che definirei macchina di analisi, di memoria e di confronto. Essa mette in discussione proprio la forma culturale della bibliotecacollezione di tutto il tardo umanesimo quattrocentesco, portando alla luce le pressioni entropiche e le accelerazioni evolutive che essa subisce nel passaggio fra Quattro e Cinquecento. Nel quadro della metamorfosi storico-culturale e concretamente organizzativa del sistema-biblioteca sancito dalle grandi collezioni private degli umanisti quattrocenteschi, la biblioteca colocciana costituisce uno straordinario, emblematico elemento di crisi, un punto di rottura epistemologico: una vera e propria

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LA BIBLIOTECA DI ANGELO COLOCCI

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katastrophé in un sistema di latenze e di crolli sistemici, il polo di focalizzazione entro una dinamica di equilibri intermittenti 3. La prima sezione di questo volume, imperniata sull’asse problematico della Biblioteca quale strumento di studio non solo accumulativo, ma strettamente connesso ad un progetto estetico-poetologico (il prender forma, dall’interno della ricerca sui libri, di un petrarchismo consapevole e meditato), per meglio illuminare l’apporto decisivo di Angelo Colocci a una così complessa svolta epocale pone a confronto la sua forma-biblioteca con altri modelli esemplari coevi o di poco più tardi (Bembo e Castelvetro). Le pagine d’apertura sono intese solo a tratteggiare in assoluta sintesi problematica e documentaria i termini della questione, rinviando una più completa messa a punto dei dettagli a studi successivi, da tempo impostati e dei quali ho già offerto i primi risultati4. D’altro canto l’eccellente, dettagliatissima sintesi documentaria ora realizzata per questo volume da Marco Bernardi5, con paziente intelligenza e lungo scavo, sulla base di tutte acquisizioni scientifiche moderne (dalle messe a punto inaugurali e ancora imprescindibili di Pierre de Nolhac e di Samy Lattès, alle aperture di nuovi indirizzi problematici e valutativi di Santorre Debenedetti, fino a quelle che io stesso, Rossella Bianchi ed altri abbiamo proposto negli ultimi anni)6, consente già di ricostruire con sicurezza e 3 Rinvio alle considerazioni che ho svolto in Per una filologia degli scarti, dei dislivelli,

delle fratture, in Testi e tradizioni. Le prospettive delle filologie. Atti del seminario — Alghero 7 giugno 2003, a cura di P. MANINCHEDDA, Cagliari 2004 (Centro di Studi filologici sardi — Studi, 1), pp. 49-79, pp. 76-79. 4 Nel volume Scavi colocciani, da tempo in fase di approntamento, e che conto di condurre presto a buon fine, raccoglierò tutti i materiali analitici sul rapporto fra lettura e scrittura, nell’attività dell’umanista iesino, in un capitolo dedicato alla sua biblioteca. Come spiegherò meglio nelle pagine conclusive ho avviato, in stretta collaborazione con Marco Bernardi, l’edizione e il commento di tutti i materiali concernenti la biblioteca colocciana (inventari, elenchi di libri, postille, note di zibaldoni). Si vedano per ora, fra i miei studi: Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La Filologia romanza e i codici. Atti del Convegno. Messina — Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia, 1922 dicembre 1991, 2 voll., a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, Messina 1993, II, pp. 531-587; La copia colocciana del canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-152; Colocci e l’“Arte” (di “misurare” e “pesare” le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, Roma 1999, pp. 369-407 (nuova ed., con ritocchi, in: Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma 2004, pp. 59-86). Inoltre, nel volume Tradizione e fortuna dei classici italiani, 2 voll., Torino 1993, si vedano i richiami ad A. Colocci nell’indice dei nomi (vol. II, p. 811). 5 Cfr. M. BERNARDI, Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori, qui di seguito, pp. 21-83. 6 Si vedano soprattutto: P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contributions à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887 (ripr. anast. Genève

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dovizia di dettagli una mappatura della biblioteca colocciana, pur sempre provvisoria ma già sufficientemente vasta e puntuale, di rintracciare le principali informazioni bibliografiche relative a ciascuno dei pezzi fin qui identificati, e soprattutto di realizzare una tabella di corrispondenze fra il repertorio scientifico dei materiali sopravvissuti e le notizie offerte dallo stesso Colocci nei suoi elenchi bibliografici o nei suoi appunti di lavoro. Si avvia così a un compimento non più lontano il progetto antico di recupero e raccolta, negli scaffali virtuali a cui l’universo digitale ci ha abituati, di tutti i libri (manoscritti o stampati) sicuramente o assai probabilmente entrati a far parte della collezione colocciana, riconosciuti fra quelli conservati, mentre si distingue, a parte, un elenco dei libri identificabili come perduti. È indubbia l’urgenza di una simile ricostruzione virtuale della biblioteca del Colocci, «l’unica di un umanista che ci sia possibile ricostruire integralmente»7: e questo restauro è il «fondamento primo per ogni conoscenza di un personaggio così molteplice, complesso, ed anche contraddittorio e sfuggente»8. Tuttavia, proprio mentre la raccolta minuziosa e scientificamente controllata di tutti gli elementi documentari valutabili, assai progredita negli ultimi anni, permette di restituire l’oggetto di ricerca alla sua più probabile configurazione storica, mette conto ormai di affrontare sul piano più complesso e articolato della storia culturale il problema di quella che propongo di definire, appunto, la forma-biblioteca che Colocci lucidamente delinea sul piano teoricoideologico e realizza su quello operativo. Si tratta, insomma, di identificare in primo luogo il grado di consapevolezza e di intenzionalità, rispetto all’innovazione epistemologica a cui sto accennando, con cui il grande studioso si mosse nel lavoro di ricerca del materiale librario fra gli ultimi anni del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, a noi testimoniata soprattutto fra gli anni successivi alla crisi terribile del Sacco di Roma e la morte (1527-1549). — Paris 1976), ed anche ID., Pétrarque et l’Humanisme, 2 voll., Paris 1907 (2a ed.), specie vol. I, pp. 87-122 (Les livres de Pétrarque après sa mort); S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in Zeitschrift für romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93 (ora in ID., Studi filologici, con una nota di C. SEGRE, Milano 1986, pp. 169-208); S. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire 48 (1931), pp. 308-344; R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-82, che fa il punto sullo stato della questione, fornendo il regesto degli inventari bibliografici colocciani e introducendo utili elementi di novità nella loro disamina. 7 S. LATTÈS, Premessa metodologica per l’indagine sulla biografia e gli autografi del Co-

locci, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 35-44, p. 40. 8 L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, ibid., pp. 77-96, p. 83.

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A cogliere la peculiarità della collezione libraria colocciana, la sua variegata originalità, il senso della sua “invenzione” come strumento di ricerca (oltre che come specchio di un modo inedito di concepire la storia linguistico-letteraria e l’individuazione del valore storiografico delle strutture metrico-formali), gioverà comunque il confronto, a cui sono dedicati i saggi che seguono, con altri modelli di grande biblioteca cinquecentesca: soprattutto quello coevo di Bembo e l’altro, più tardo e tipologicamente difforme, ma non meno significativo, di Ludovico Castelvetro9. 2. Alla mente di Colocci era chiaro almeno il modello bibliotecario di uno dei più grandi eruditi vissuti nel secolo precedente: fra i volumi in suo possesso figurava l’«Indice de libri del Pico della Mirandola, scritto di mano d’huomo dotto, in papiro in foglio, coperto di carta pecora», conservato nell’attuale Vat. lat. 3436 (ff. 263r-296v) e passato nella collezione di Fulvio Orsini10. Un rapido sguardo alle conoscenze intorno alle biblioteche di grandi umanisti del Quattrocento gioverà a mettere a fuoco la novità del modello colocciano. Della biblioteca di Pico conosciamo la topografia, riuscendo a individuare «le numéro de chaque volume et celui du coffre où il était placé»11: stando all’inventario 1498 l’insieme sembra ammontasse a 1190 volumi, di cui poco meno della metà (489) a 9 Sui quali si vedano, qui di seguito, i saggi di M. Danzi e di M. Motolese. Nelle more della stampa sono apparsi alcuni notevoli lavori di sintesi, ai quali si ricorrerà per integrare ed ampliare i dati che, nei contributi qui presentati, sono intesi fondamentalmente ad illustrare la fisionomia dei modelli biblioteconomici e storico-culturali peculiari ai due grandi umanisti come punto di confronto rispetto a quello colocciano: M. DANZI, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève 2005 (Travaux d’Humanisme et Renaissance, 399); M. MOTOLESE, L’esemplare delle Prose appartenuto a Lodovico Castelvetro, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Atti del convegno di Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000, a cura di S. MORGANA, M. PIOTTI, M. PRADA, Milano 2001 (Quaderni di Acme, 46), pp. 509-551; L. CASTELVETRO, Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de’ verbi di messer Pietro Bembo, a cura di M. MOTOLESE, Roma — Padova 2004; A. RONCACCIA, Il metodo critico di Ludovico Castelvetro, Roma 2006 (Europa delle Corti. Centro studi sulle società di antico regime. Biblioteca del Cinquecento 123); Ludovico Castelvetro. Filologia e ascesi, a cura di R. GIGLIUCCI, Roma 2007. 10 Cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 251-252 e p. 381, nr. 295

della Nota de libri latini scripti a penna (pp. 358-381) compresa nell’Inventaire de la Bibliothèque dell’Orsini che il de Nolhac estrasse dall’attuale Vat. lat. 7205 (su questo codice si vedano le pp. 116 e sgg.). Come Inventarius librorum Io. Pici Mirandulae, con indicazione del numero e della cassa, l’elenco fu edito più tardi da P. KIBRE, The library of Pico della Mirandola, New York 1936, Appendix, pp. 119-297. Un altro inventario, del 1498, era stato pubblicato da F. CALORI CESIS, Giovanni Pico della Mirandola detto la Fenice degli Ingegni, cenni biografici, Mirandola 1897 (Memorie storiche della città e dell’antico ducato della Mirandola 11), pp. 31-76. 11 DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 251.

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stampa12. Dovette trattarsi della «largest of the private libraries of the period»13 (la biblioteca del Bessarione assorbita dalla Marciana di Venezia constava di circa 900 libri; quella di Giorgio Valla di 800; 792 manoscritti, senza contare gli stampati, possedeva Federico da Montefeltro), che da un punto di vista cronologico si organizza nel periodo in cui viene introdotta la stampa a caratteri mobili, e anche nella sua articolazione interna «reflects to a considerable extent many contemporary interests»14. Tuttavia, pur nella vastità e varietà dei campi in cui si struttura, la connota uno spiccato carattere di biblioteca specialistica: 900 libri in latino, 157 greci, 70 ebraici, 7 arabi, ma pochissimi in volgare, soprattutto italiano (ovviamente Dante, ma accanto a lui solo Cecco d’Ascoli, Jacopo da Varazze, che non ci si stupisce dovessero sembrare interessanti a Pico) e francese. Il progetto di Pico, con tutta evidenza, era la formazione di una biblioteca totale, «un thesaurus completo della cultura scritta nell’ambito dell’ecumene a lui nota»15. Raccoglieva libri come schegge della sapienza universale, e accanto ai libri collezionava cataloghi di libri, regesti delle principali biblioteche del tempo (l’inventario della libreria di Sisto IV e di quella urbinate). Pietro Crinito, che poté fruirne con altri intimi, ne rilevò la natura composita e onnicomprensiva («ostendebat […] egregie instructam atque copiosam bibliothecam, librisque affatim omnigenis refertam»), definendola con affetto e stupore «suppellectilem nostram atque librorum thesaurus»16. Per il possessore e per i suoi amici quella raccolta cartacea coincideva con un modello epistemologico, era la traccia visibile di una mathesis universalis e di un theatrum memoriae. La visione del mondo tardo-umanistica che trapela dagli scaffali di Pico si identifica proprio nell’apertura verso innumerevoli e nuovissime prospettive disciplinari e contemporaneamente nell’armonizzazione di tante dimensioni del sapere. Infrangendo le barriere fra i saperi a lungo riservati e separati, la biblioteca umanistica offre soprattutto la prima, precoce immagine di una multiplanarità e di una compresenza di livelli culturali che maturerà pienamente nell’epoca di Leonardo e di Michelangelo: che è, appunto, l’epoca di Colocci. La stessa contiguità, prima impensabile, nelle nuove bibliote12 Cfr. KIBRE, The library of Pico della Mirandola cit. 13 Ibid., p. 21. 14 Ibid., p. 112. 15 PETRUCCI, Le biblioteche antiche cit., p. 552. 16 P. CRINITO, De honesta disciplina, a cura di C. ANGELERI, Roma 1955, p. 84 (il passo è

ricordato anche da Petrucci).

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che, di libri di letteratura antica e moderna, di storiografia e di scienze naturali, rimescola le carte del sapere scolastico, e offre lo schema coerente della nuova episteme. Angelo Poliziano, anche lui frequentatore assiduo della biblioteca di Pico, possedeva, secondo la definizione di Augusto Campana, «una piccola e povera biblioteca» personale: «assai scarsa e misera cosa, al paragone delle grandi raccolte signorili e monastiche del suo tempo, persino al paragone di quelle di alcuni suoi colleghi o meglio provveduti o di vita non così breve e bruciata come la sua»17. Dopo la sua morte quella biblioteca fu completamente smembrata, e rimase priva di un inventario sia pur parziale. Non a caso il tipo perfetto dell’auctor umanistico di epoca neosignorile rinunciò a formarsi un suo studium pieno degli strumenti di lavoro quotidiano: agendo a stretto contatto con Lorenzo quale punta di diamante della politica culturale della signoria medicea, Poliziano fece ampio ricorso alla strepitosa collezione raccolta per il principe, poco curandosi del destino materiale della propria18. Quella biblioteca scabra, volatilizzata con la scomparsa dello studioso, ombra ormai senza corpo, ci sta di fronte come un inquietante modello, che mi sembra opposto a quello pichiano. È un modello legato alla logica e alla pratica del grande mecenatismo, che invita a ricorrere al tesoro nobiliare, incommensurabile per estensione e ricchezza complessiva con uno privato, il quale appare di sicuro più ridotto e focalizzato, richiede una vita per essere accumulato, è simpatetico rispetto alla concreta attività dello studio quotidiano, ed è irriproducibile, una volta disperso: però proprio per questa natura e questi limiti è altamente significativo, coincidendo con un progetto soggettivo di indagine culturale. A riemergere con forza un secolo più tardi, sbocciando nella formabiblioteca dei grandi umanisti di primo Cinquecento e imponendosi fino ai nostri giorni come strumento organico al lavoro intellettuale, compagno nell’avventura dello studio e specchio in cui la stessa opera di ricerca si riflette e si cristallizza, non sarà il modello-Poliziano, ma il modelloPico, lo stesso a cui aveva dato vita il primo umanista, Francesco Petrarca, con una biblioteca che rappresentava il presupposto e il sostegno d’una raccolta degli sparsa fragmenta poetici, il correlativo oggettivo del raccoglimento interiore, l’agostiniana recollectio degli sparsa fragmenta animae. 17 A. CAMPANA, Contributi alla biblioteca del Poliziano, in Il Poliziano e il suo tempo. Atti del IV Convegno Internazionale di studi sul Rinascimento. Firenze — Palazzo Strozzi, 23-26 settembre 1954, Firenze 1957, pp. 173-229, p. 174. 18 Cfr. ibid., p. 174: «È evidente che il Poliziano dovette studiare assai più che sui libri proprii su quelli altrui».

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Personale e individualistica, selettiva e incompleta, magmatica e mobile, varia e curiosa, nell’età di Ludovico Ariosto e di Giulio Camillo la Biblioteca è ormai quello strumento di metamorfosi e della cultura dell’interiorità che continuerà ad essere fino all’ultimo umanista, uomo del tempo nostro, Aby Warburg, e alla sua Mnemosyne, immensa raccolta di immagini e di libri disposti in “luoghi” di una mnemotecnica culturalmente feconda, e a mio parere ispirata direttamente al Teatro della Sapienza di Camillo. Come per loro, anche per Angelo Colocci la Biblioteca è Theatrum memoriae, Arca sapientiae, edificio materiale e spirituale costruito secondo un’architettura e una pedagogia delle affinità e delle armonie, a immagine e somiglianza della propria Mente. 3. Nella biblioteca colocciana, ancor più che in quelle di Pico e di Poliziano e in altre importanti tardo-quattrocentesche, è evidente il peso assunto dalla stampa, il ruolo del libro tipografico, «agente di trasformazioni importanti»19, anche se non decisive, giacché non incidono sul delicato momento di fissazione della memoria culturale che Armando Petrucci ha definito rapporto di scrittura, ma solo sull’ampiezza del mercato e del pubblico20. Libri stampati e manoscritti si accostano ormai sui ripiani di Colocci, di Bembo, di scrittori e studiosi nati intorno al 1470, senza dislivelli di valore, di primato o priorità. Dalle lettere conservate si deduce quanto intensi fossero la ricerca e lo scambio di manoscritti rari (Santorre Debenedetti e Michele Barbi hanno avviato su questa base le loro ricerche fondative sulla tradizione poetica in volgare)21: ma da elenchi di prestito di biblioteche importanti (ne sono conservati anche per la Vaticana) si deduce quanto rapida, intelligente e indolore sia stata l’omologazione del libro stampato, colto immediatamente nella sua funzione di strumento agile e utile, eccellente servizio per l’aumento e la circolazione delle conoscenze. Eppure è un elemento negativo che, paradossalmente, invita a cogliere il valore speciale che assume il lavoro di Colocci nel suo rapporto con la fruizione e la produzione libraria. Onnivoro, interessato solo a soddisfare la propria straordinaria curiosità di ricercatore e collezionista di libri utili, rari ma non preziosi (almeno nel senso venale del termine), si 19 E. EISENSTEIN, The Printing Press as an Agent of Change. Communications and Cultural Transformations in Early-Modern Europe, 1979; tr. it. La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna 1986. 20 Rinvio alle considerazioni che altrove ho svolto su questo punto, che continua a sembrarmi cruciale per una riflessione sul rapporto biblioteca-editoria nel primo Cinquecento: BOLOGNA, Tradizione e fortuna dei classici italiani cit., I: Dalle origini al Tasso, pp. 189-194. 21 Cfr. DEBENEDETTI, Studi filologici cit.; M. BARBI, Studi sul canzoniere di Dante, Firenze 1915.

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dedicò freneticamente e insaziabilmente a trascrivere e collazionare, a studiare e, per la prima volta, a mettere in rapporto fra loro i testi volgari: ma pochissimo a stampare o far stampare. La concentrazione sull’attività pionieristica di ricerca fu pressoché assoluta, e l’impostazione dell’immenso apparato reticolare, soprattutto di rilevamenti intertestuali, lessicografici e retorico-formali, che costituisce la principale ragione della sua fama, di fatto rallentò, fino a contrastarlo del tutto, l’adempimento editoriale di quel grande piano di lavoro sulla poesia delle origini romanze che emerge sempre più nitidamente dalla ricerca di settore come il programma di fondo di tutta la sua vita di studioso. Significativamente l’unica opera a stampa di Colocci è dedicata non a un’edizione dei siciliani e degli stilnovisti (che soprattutto dopo il successo della Giuntina del 1527 sarebbe stata il più prevedibile e opportuno dei disegni: a cui infatti anche Bembo era interessato)22, dei provenzali (progettata da più di un filologo di quegli anni) o dei portoghesi (che lui solo avrebbe potuto mettere in luce), ma all’Apologia del maggiore poeta cortigiano del suo tempo, Serafino Aquilano23, che Colocci aveva conosciuto personalmente a Roma nel 1498 e del quale aveva ritrovato tracce importanti durante il suo soggiorno napoletano. Si tratta di un episodio isolato, che probabilmente avrà rappresentato la punta di un iceberg editoriale, nel vastissimo e innovativo progetto di un lavoro sul petrarchismo e sul suo rapporto con le sue fonti riconosciute nella poesia trobadorica, siciliana e stilnovistica. Nel quadro del discorso qui condotto l’eccezionalità del reperto dimostra come l’interesse praticamente unico di Colocci sia stato un uso della propria biblioteca attivo e approfondito, in sostanza autoreferenziale rispetto a un progetto originalissimo, tutto suo, a caccia di un materiale mai preso in esame prima d’allora: un lavorìo di collazione e di analisi finalizzato unicamente all’illuminazione dei problemi posti dallo studio, ininterrotto, effervescente e metamorfico, svolto sui libri posseduti e su quelli ottenuti in lettura, e affidato a schede e appunti disordinati, comunque di scarsa organicità, tracciati per lo più su fogli volanti, che solo dopo la morte dello studioso vennero raccolti in zibaldoni fattizi e arbitrari; al loro esame di dettaglio e d’insieme è ormai urgente dedicare attenzione come allo specchio in cui si riflette ed amplifica il profilo 22 Sulla formazione e sul successo del canone giuntino rinvio a BOLOGNA, Tradizione e

fortuna dei classici italiani cit., I, pp. 261-273. Per il canone antico del Bembo rinvio a ID., Bembo e i poeti italiani del Duecento, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo cit., pp. 95-122. 23 In questo volume, alle pp. 473-486, si veda il saggio di A. ROSSI, Il Serafino di Angelo Colocci.

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della biblioteca resa attiva sul tavolo di lavoro (ora, per la prima volta, Marco Bernardi ne pubblica e studia uno dei più notevoli, il Vat. lat. 4831)24. Quella biblioteca rivoluzionaria per accostamenti inediti e impensati (filologia e metrologia, metrica e archeologia, antiquaria e scienze naturali, storia locale e geografia, biografia e retorica, storia dell’arte e cosmografia) si trasformò nel più formidabile laboratorio culturale che il primo Cinquecento abbia conosciuto in Italia, e forse in tutt’Europa: ma proprio a causa di questa sua natura la ricerca per la quale la collezione libraria fu messa insieme, e che dalla collezione stessa uscì rinvigorita, non giunse a coagularsi in un prodotto editoriale finito, come invece riuscì, ad esempio, al Bembo, al Trissino, al Castelvetro, al Barbieri. L’atteggiamento di Colocci, così come trapela dalla ricostruzione della biblioteca e dall’esame delle postille librarie e degli appunti, fu diversissimo dalla mentalità e dalla prassi editoriale del Bembo, fautore di una «filologia della distinzione, della abolizione, della separazione categoriale, della disgiunzione dei nessi di continuità passato-presente, del veto normativo, prodotta da una coscienza di distanza tra le qualità, i bisogni del proprio tempo storico e l’accumulo pluriforme, indiscriminato che il passato riversa su di esso»25. La filologia colocciana, curiosa degli scarti entro la linea della tradizione, capace di riconoscere le continuità ma anche le fratture e i dislivelli, è enciclopedica e storicizzante, selettiva nell’accumulazione, soprattutto proiettata verso l’impiego in sede di poetica e di scrittura di poesia. Altrove si è detto del rapporto dinamico, in certa misura perfino creativo, instaurato da Colocci con i grandi monumenti della lirica medioevale, talora smembrati e integrati sulla base di esigenze di aggiornamento del canone: neppure un gesto di carattere rituale-sacrale nel trattare libri preziosi, ma un uso pragmatico e strumentale (lo dimostra al massimo grado il lavoro sul Vat. lat. 3793)26. L’accurata edizione di 24 Di M. BERNARDI si vedano il saggio qui alle pp. 123-167, e soprattutto l’importante volume Lo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831. Edizione e Commento, in corso di stampa in questa stessa collana Studi e Testi (la pubblicazione è prevista entro il 2008). Si tratta della prima edizione completa, criticamente sorvegliata e arricchita da un prezioso, ricchissimo commentario analitico, di uno zibaldone di notevole interesse per le ricerche di storia letteraria, specie provenzale e italiana antica, svolte da Colocci: libro di notevole importanza anche per la ricostruzione dei suoi rapporti con il mondo letterario contemporaneo, in particolare con Antonio Tebaldeo. 25 G. MAZZACURATI, Pietro Bembo e il primato della scrittura, in ID., Il Rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna 1985, pp. 65147, p. 116. 26 Rinvio alle considerazioni già svolte in: BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici cit.; ID., La copia colocciana del Canzoniere Vaticano cit.

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Marco Bernardi del Vat. lat. 4831 offre ora notevoli elementi valutativi quanto al rapporto fra la varietà della biblioteca e la mobilità dello scrittoio; a suo tempo, concentrandosi sull’abbozzo di schema («una guida, un itinerario marittimo che ci permette di orientarci nella navigazione»)27 dell’opera dedicata ai pesi e alle misure oggi nel Vat. lat. 3906, f. 71r, Samy Lattès concludeva: «il progetto del Colocci era gigantesco; era insieme descrittivo, giacché voleva descrivere l’universo intero, e critico, giacché voleva studiare l’origine di tutte le misure in uso nel mondo. Per compiere quell’opera immensa, storica geografica cosmografica, insomma universale, il Colocci aveva riunito nella sua biblioteca un imponente numero di testi antichi e medioevali, dai quali aveva tratto una quantità notevole di appunti». Ma soprattutto, vediamo oggi più chiaramente, aveva correlato quell’erudizione cartacea a una ricerca antiquaria e archeologica basata sulla raccolta di oggetti trovati durante personali indagini ed esplorazioni28. 4. Nella biblioteca di Colocci, come si sa, accanto al canzoniere italiano V, il celeberrimo Vat. lat. 3793, furono pezzi fondamentali della letterature romanze: il provenzale M, il portoghese Colocci-Brancuti, l’autografo hamiltoniano del Decameron, per qualche tempo l’autografo vaticano del Canzoniere petrarchesco. Quanti altri libri importanti presero posto nella congerie di più usuali strumenti di lavoro, e risultano oggi irriconoscibili, opacizzati dalla designazione scelta da Colocci per propria memoria? Per far combaciare la denominazione colocciana con l’identificazione di un libro concreto occorrerà anzitutto decrittare la grande serie di nomi raccolti negli elenchi bibliografici, autografi e no, verificando anche l’eventualità di un ricorso ad appellativi diversi per uno stesso libro (talora addirittura trasformato, lungo gli anni, nella sua consistenza materiale) in liste redatte in momenti successivi, dunque da storicizzare mediante confronti incrociati. Né ci si dovrà limitare a tener conto degli elenchi di libri. Sviluppando il lavoro svolto da un secolo a questa parte, egregiamente sintetizzato e integrato da Marco Bernardi nel saggio che segue queste pagine, si dovranno tenere in conto, verificando se siano o no riconoscibili nelle liste conservateci, anche i volumi indiscutibilmente posseduti o comunque studiati da Colocci perché portano traccia sicura della sua mano. 27 S. LATTÈS, A proposito dell’opera incompiuta “De ponderibus et mensuris” di Angelo Colocci, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 97-108, p. 100; una fotografia del f. 71r (per errore indicato come «Vat. lat. 3006, f. 71v» nella didascalia) è fra le pp. 104 e 105. 28 Ibid., p. 102.

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Altri numeri della biblioteca si aggiungeranno poi sulla base degli indici di manoscritti oggi perduti, che Colocci com’è noto trascrisse e collazionò offrendoci una vera e propria radiografia quasi sempre esattissima della struttura testuale (lo si verifica mediante riscontri incrociati fra gli indici e le annotazioni di lettura); con lavoro paziente e sofisticato si potrà sperare di identificare, come magistralmente insegnò a fare Michele Barbi, le opere a cui Colocci con scelta personalissima attribuì nomi non sempre immediatamente perspicui (Libro d’Augubio, Libro reale, Cino in quarto con Salvagio, Cino e moderni…), magari scoprendo frammenti di quei libri o di loro copie materialmente scorporati e ricontestualizzati in altri codici dallo studioso (riagganciandomi allo studio di Barbi io stesso per questa via ho interpretato la ricomposizione della prima e dell’ultima parte del Vat. lat. 4823). Ma in tale direzione molto rimane da fare, inserendo nell’orizzonte valutativo anche lo studio delle postille di lavoro che Colocci disseminò nei libri suoi e forse anche altrui (meritevoli di per sé di pubblicazione integrale e di studio micro- e macroscopico, come ribadiscono numerosi saggi di questo volume, raccolti nella seconda sezione), riconoscendo e ponendo in risalto quelle che rinviano immediatamente a libri, conservati o no, e che vanno quindi collegate agli elenchi bibliografici 29. Le liste su cui dovranno basarsi i riscontri sono una dozzina. Ricordo anzitutto, siglandoli con lettere maiuscole, i 5 inventarî a me noti30, ampi e relativamente organici, alcuni (soprattutto A) assai ricchi, ma difficile dire se completi o parziali, databili tutti agli ultimi anni del Colocci (A ed E, parzialmente autografo, furono redatti durante la sua vita, dal momento che contengono sue intestazioni con rinvio ai luoghi di conservazione dei libri e qualche integrazione autografa alle liste di copisti)31, o addirittura (C e D) stilati dopo la sua morte, articolati spesso 29 Ad esempio il libro (o i libri) che Colocci identifica con la postilla «Antico» in una serie di note apposte nello stesso V: rinvio ai dati raccolti e alle considerazioni avanzate in BOLOGNA La copia colocciana del canzoniere Vaticano cit., pp. 137-140 e pp. 146-151 (qui, nel II elenco in Appendice, l’edizione completa delle postille, che trasformano anche quel prezioso monumento lirico in un laboratorio vivo, colmo di promettenti novità). 30 Nella lista che segue, per praticità e per ridurre il margine di oscillazione, riprendo le sigle maiuscole utilizzate da BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci cit. 31 Si veda, come esemplificazione essenziale limitata ai primi due fogli dell’elenco A: f. 44r, in alto, «Humanita» (mano del copista) – «In forzier lungo» (mano di Colocci); f. 44v, dopo una linea di divisione dovuta in apparenza al copista, a sinistra: «Capsa cu(m) un Nodo alla finestra» (mano di Colocci); f. 45r, sulla prima riga, le parole «Tariffa i(n) 8uo» mi sembrano integrate da Colocci, come pure «Quadrantes» alla riga 5 (in correzione parziale di quel che il copista aveva evidentemente trascritto: «Hellementor(um) situs et quadrantes Duplicato»), e «De Alex° et Jason» – «Scipionis dup» (aggiunto da Colocci) alle righe 11-12.

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tematicamente, talvolta anche topograficamente 32: A: Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Bibl., 15, ff. 44r-63r (databile entro il 1549)33 B: Vat. lat. 3963, ff. 4v-5v (databile al maggio-giugno 1549) C: Vat. lat. 3958, ff. 184r-196r (datato al 27 ottobre 1558) D: Vat. lat. 7205, ff. 1r-52r (del 1582 ca.: è l’Inventarium librorum Fulvii Ursini, contenente anche i libri colocciani confluiti in quel fondo) E: Vat. lat. 14065, ff. 50r-63r (del 1543-49 ca., in parte autografo) Siglando con lettere minuscole stilo invece una seconda serie (che potrà forse venire arricchita da nuove ricerche) di elenchi “di lavoro” redatti da Colocci stesso, probabilmente generati per differenti finalità prati32 In più casi sembra di cogliere una duplice, forse diacronicamente differenziata (e sovrapposta), volontà distributiva di Colocci, una di carattere tematico e un’altra di carattere topografico: nell’elenco A si vedano, oltre ai dati raccolti nella nota seguente (per il f. 44r), soprattutto il f. 57r (num. antica di copista: 277; num., probabilmente di Colocci: 54): «Theolog» (sottolineato, in alto a sin.); «CAMERA NOVA AD ALTO» (al centro, in caratteri maiuscoli); «In capsa prima» (sottolineato, a destra): tutte e tre le indicazioni, la tematica e le due topografiche, sono di mano di Colocci. Un esempio di possibili richiami ad un medesimo armadio in elenchi diversi: nel Vat. lat. 14065, f. 55r, riga 1, dopo «Item sequita» (la seconda parola, aggiunta da Colocci nell’interlinea superiore, richiama al «sequita» in basso nel f. 54v), il copista ha trascritto quella che doveva essere un’indicazione topografica di Colocci stesso: «Forziero roscio d(e) mezo». Si tratterà di un armadio (o altro contenitore) dipinto o coperto di stoffa rossa e collocato “nel mezzo” di una stanza; potrebbe essere identificabile con quello che nell’inventario E, f. 52r, il copista trascrive come «forziero roscio accanto allo stu/diolo quin [?]» (le ultime lettere sono di mano di Colocci), e di certo con quello che nell’elenco e (Vat. lat. 3903, f. 222r), di pugno di Colocci, viene descritto nella formula «Forziero rossio di mezo duplicato / acanto la credenza» (dove la barretta indica una riga orizzontale che separa la prima parte della frase dalla seconda, che tuttavia a me pare aggiunta in un secondo momento al fine di meglio identificare il contenitore dei libri sotto elencati). Nella riga sottostante, a sinistra, la frase «Qui de Mundo» funge, credo, da etichetta generale relativa alle opere elencate nella I colonna (e quindi, se non vedo male, non andrà collegata all’«acanto la credenza» scritto poco più a destra, ma alla serie di opere cosmologiche, geografiche, odeporiche che seguono: Pomponio Mela, Solino, l’Itinerarium Antonini, Vibio Sequestre, la Periegesi di Dionisio, ecc.). 33 L’inventario è integrato da Colocci stesso in più luoghi, ma soprattutto nell’intera

facciata dell’attuale f. 63r. D’altra parte la numerazione moderna, meccanica, in basso a destra, va riveduta in rapporto alle altre due numerazioni a mano, in alto a destra: una delle quali, con numeri che (sia pure con grandi rimescolamenti) vanno da 270 (attuale f. 44r) a 266 (attuale f. 63r), è stata scomposta e sostituita, direi dallo stesso Colocci, con una diversa serie numerica che va da 41 (su 270, attuale f. 44r) a 60 (attuale f. 63r), con cassazione a partire dal n° 271. L’attuale f. 63r era, per il copista, il 266, e per Colocci 60 (se appunto è sua la mano che cassa e rinumera in alto); l’attuale f. 53r era per il copista 265, divenuto 50 per Colocci: l’intera fascicolazione, come si vede, è profondamente disturbata, e richiede uno studio accurato, anche sulla base delle filigrane, al fine di tentare una ricomposizione dei diversi stadi in cui l’elenco fu con tutta probabilità riadattato dallo stesso Colocci.

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che (quasi tutti sembrano successivi al Sacco di Roma, e dipenderanno quindi da un desiderio di riordino della biblioteca saccheggiata dai lanzichenecchi), e la cui natura andrà attentamente valutata, al fine di apprezzare l’effettiva presenza negli scaffali colocciani di tutti i libri in esse rammentati, o invece la pura funzione di richiamo mnemonico di alcuni lemmi connessi a libri da ricercare, da consultare, o di cui Colocci può aver avuto notizia da altri studiosi amici 34: a: Vat. lat. 2874, f. 112r35 b: Vat. lat. 3217, f. 329r-v (databile a dopo il 1526)36 c: Vat. lat. 3903, f. 199r-v d: Vat. lat. 3903, f. 206r-v e: Vat. lat. 3903, f. 222r-227v f: Vat. lat. 4817, f. 196r-v g: Vat. lat. 4817, f. 210r-211v

34 Rammento solo il caso di un libro che Colocci definisce «Julio Camillo» nell’elenco b (f. 329r, col. b, riga 12): altrove ho dimostrato che si tratta del ms. provenzale N2 – oggi a Berlino, Staatsbibliothek, Stiftung Preussische Kulturbesitz, Phillipps 1910 – di cui Colocci dovette avere conoscenza, diretta o indiretta (ad esempio mediante estratti o copia della tavola): cfr. C. BOLOGNA Giulio Camillo, il canzoniere provenzale N2 e un inedito commento al Petrarca, in Cultura Neolatina 47 (1987), p. 71-97 (quindi in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, 4 voll., Modena 1989, t. I, p. 187-213), specie pp. 92-93; ID., Tradizione e fortuna dei classici italiani cit., I, pp. 19-22. 35 In alto a destra la traccia di una paginazione antica: «123». 36 L’elenco, su due colonne, è composto da una sequenza di titoli separati l’uno dall’al-

tro mediante una lineetta orizzontale, e si apre con un paio di frasi di difficile interpretazione («Se nelle tenzon faceua ognuno la / parte sua // le discord uide ben le persone»), che collegherei alle ricerche di Colocci intorno alla tenzone (penso al “caso” eccezionale di Rosa fresca aulentissima, oppure alla curiosità scientifica per gli scambi di liriche a contrasto individuate nei canzonieri romanzi), e forse anche al genere del descort, ma non riferibili con certezza ad alcun titolo. L’elenco deve essere datato dopo il 1526, dal momento che vi è citato un «Libro francese ha La(m)pridio i(n) Venetia», che è il canzoniere provenzale A (Vat. lat. 5232), dalla copia del quale (nota come Aa, oggi alla Braidense, AG.XIV.49) Lampridio fece trarre «li nomi delli authori, et de canzone li principij» nella tavola oggi conservata nel Vat. lat. 4820: cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici cit., pp. 545548, che muove dalla lettera di Lampridio a Colocci del 31 dicembre 1526 pubblicata da S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995 [1911], nr. VII, p. 304. In Colocci e l’“Arte” (di “misurare” e “pesare” le parole, le cose) cit. ho fornito altra esemplificazione circa un possibile riconoscimento di libri databili, in rapporto a testi di arte, archeologia, metrologia ecc. Attraverso indagini puntuali di questo tipo, mediante un’escussione di tutte le possibili testimonianze interne dotate di carattere cronologicamente discriminante, si dovrà esplorare la possibilità di datare gli altri elenchi bibliografici, così come (nei limiti del possibile) anche le postille e gli appunti di studio.

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5. A proposito di questi materiali più di un problema rimane aperto, e andrà affrontato con adeguata riflessione di metodo e strumentazione concettuale e pragmatico-editoriale. Mi limito qui a pochi esempi lampanti, che si moltiplicheranno nel momento in cui pubblicherò i testi di tutti gli elenchi colocciani, accompagnandoli con opportuna annotazione. Prima di tutto un piccolo dettaglio abbastanza eccentrico, perfino stravagante, che fa cenno alla necessità di percorsi finora impensati per chi si sia limitato a ricerche chiuse in un orizzonte disciplinarmente limitato: ed è proprio la modalità di approfondimento più sterile, nel caso di Colocci, che impone, al contrario, grande dinamicità, elasticità e ampiezza di vedute in campi dello scibile anche molto lontani. È probabile che l’«Alcorano arabico et alii» dell’elenco intestato «Roma», conservato nell’elenco f, f. 196r, III colonna, coincida con l’«Alcorano» citato nell’elenco g (oggi rilegato nello stesso Vat. lat. 4817), f. 210r, II colonna. Si sarà trattato di un codice, o di una stampa? Ad ogni modo l’appunto risulta prezioso, tenuto conto della rarità di un Corano a quest’altezza cronologica e nella libreria di un umanista a Roma, e prova la curiosità collezionistica di Colocci, a digiuno di lingua araba ma interessato a quell’universo culturale, tanto da elencare, in e, f. 224r, I colonna, delle «Vite di arabi», subito dopo delle «Vite de lemosini» (difficili da identificare, non esistendo, che io sappia, una tradizione delle Vidas autonoma: tenderei a pensare a un estratto da un canzoniere, ad esempio A, dove le Vidas sono raccolte insieme e isolate dal corpo dei testi lirici). Non credo si siano mai compiute ricerche in questo settore in cerca di tracce di studio di Colocci, sia pure di una firma di possesso (visto che il libro sarà stato conservato per mero gusto collezionistico, al pari dell’«Alphabeto cyrillico» lemmatizzato nello stesso elenco e, f. 225v, II colonna). Il «Danti de materno [sic?] eloquio» dell’elenco g, f. 210r, III colonna, coinciderà assai probabilmente con il «Dante de uulgari eloquio» dell’altra lista d, f. 225r: e sarà, credo, il codice da cui deriva il foglio rilegato alla fine del Vat. lat. 4817, f. 284r-v (di pugno di Colocci). È difficile dire se questo foglio sia un appunto di lavoro isolato, o invece (come credo) l’unico rimasto di un intero (o parziale) De vulgari eloquentia oggi perduto, che Colocci avrebbe potuto copiare dalla copia bembiana oggi Reg. lat. 1370. Anche in questa direzione, della quale si intuisce l’importanza (anche se appare improbabile il ritrovamento di un esemplare fin qui sconosciuto del trattato dantesco) l’edizione e la collazione degli zibaldoni colocciani potrebbero riservare sorprese. Sarebbe di immenso interesse conoscere come l’umanista abbia lavorato, per le sue ricerche intorno alla lingua e alla poesia delle origini, sul De vulgari eloquentia,

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proprio negli anni in cui Trissino e Bembo contribuivano a farlo riemergere da un lungo silenzio, però “trasformandolo”, nella ricezione erudita, dal trattato sulla saldatura fra politica e cultura, letteratura e lingua, che Dante aveva voluto e la prima generazione dopo di lui ancora compreso, in una “grammatica”, quale predecessore illustre di quelle il cui modello moderno nasceva proprio nel primo Cinquecento37. Un altro dato che amplia la conoscenza intorno alla cultura dantesca di Colocci è il richiamo ad un codice di cui lo studioso copiò la tavola (oggi nel Vat. lat. 4823, ff. 474v-475v) definendolo «Dante nel libro delle Epistole d’Ovidio». Credo si possa legittimamente pensare ad un manoscritto contenente un volgarizzamento delle Heroides ovidiane o una loro rielaborazione, accanto al quale dovevano essere state trascritte o rilegate (meno probabilmente inserite da Colocci stesso) le Rime dantesche. Con relativa sicurezza questo libro si può identificare con il volume che, nell’«Inventario delli libri del Colotio di sacra scriptura / fatto alli 27 d’ottobre 1558» (C nella prima delle mie due liste)38, redatto quindi una diecina d’anni dopo la morte dello studioso e basato sulla divisione dei libri in 10 casse, viene schedato (f. 193v) «in capsa 8a», al numero 19, come «L’Ep(isto)le d’Ouidio in Rima volgare». Il riscontro, molto nitido, ci fa pressoché certi che Colocci non solo studiò quel libro, ma lo possedette. Si tratta con ogni probabilità di un libro interamente manoscritto: e con questi dati alla mano, muovendo dall’ipotesi che nella zona dantesca lo studioso abbia potuto compiere un lavoro di collazione, si potrà tentare di identificarlo (se ci è stato trasmesso), nella Biblioteca Apostolica Vaticana o altrove. A proposito di «Cino et moderni» e di «Cino in 4° con Saluagio» ho già scritto tempo fa39, collegando le due denominazioni (corrispondenti a libri diversi, dei quali abbiamo anche le tavole di pugno del Colocci) al «Cino» dell’elenco g, f. 210r, III colonna (ma in e, f. 225r, II colonna, è lemmatizzato un «Cyno sennuccio et alij»): ma è bene menzionare qui 37 Rinvio a C. BOLOGNA, Un’ipotesi sulla ricezione del De vulgari eloquentia: il codice Berlinese, in La cultura popolare padovana nell’età del Petrarca, a cura di F. BRUGNOLO e Z. L. VERLATO, Padova 2006, pp. 205-256. 38 Le parole «di sacra scriptura», che delimitano la materia delle prime 3 casse, mi sembrano aggiunte in un secondo momento, apparendo malamente centrate nel titolo. Il f. 187v del Vat. lat. 3958 si apre con «In Quarta Capsa Colotii libri Greci scripti»: ma anche qui le ultime tre parole, che determinano l’ambito biblioteconomico, mi paiono inserite successivamente; al f. 188r, fra i numeri 38 e 39, è inserita la parola «Impressi», per distinguere i manoscritti dagli stampati (però dalla V cassa, all’inizio del f. 188v, incominciano i libri latini, senza segnalazione distintiva). Al f. 196r, a conclusione della lista, si dà il conteggio complessivo: «sono in tutto libri 558 / li altri 406». 39 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici cit., specie pp. 567-579.

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l’esempio soprattutto perché, come ho dimostrato, il materiale ciniano interessò a Colocci, il quale, stupito della mancanza del grande stilnovista nel canone di V, spezzando materialmente un esemplare (che lui stesso, nel bordo superiore del Vat. lat. 4823, f. 13r, definì «[i]l diuiso») e associandolo forse anche a parte del Libro d’Augubio, lo inserì all’inizio della copia Va (Vat. lat. 4823), il suo Libraccio di lavoro (ossia «Sicilian in foglio»), per integrarne il canone antico sentito come gravemente lacunoso40. Un altro caso di libro meritevole di un’identificazione più precisa è il «Latino Juuenale» inserito nell’elenco e, f. 223r, I colonna: con beneficio di verifiche più approfondite lo ricondurrei alla conoscenza da parte di Colocci, che ho altrove ipotizzato41, di un importantissimo collaterale del canzoniere italiano V, oggi perduto ma a suo tempo posseduto a Roma appunto da Latino Giovenale. Anche per il perduto Libro Reale, a cui ho dedicato qualche anno fa ampie ricerche, pubblicando tutto il materiale disponibile nelle carte colocciane42, c’è qualche novità: nell’importante saggio di Fabrizio Costantini pubblicato in questo volume, attraverso una collazione fra gli appunti e le postille di Colocci e il testo del canzoniere Laurenziano Rediano 9 (L), si apre una prospettiva assai stimolante intorno alla possibilità che Colocci abbia potuto conoscere anche questo importantissimo testimone antico 43. 6. Chiudo rammentando una notevole recentissima identificazione, dovuta a Carlo Pulsoni44, la quale permette infine di identificare con certezza il libro appartenuto a Fabio Mazzatosta che quindici anni fa45 segnalai come fonte della sezione dantesca, ciniana e petrarchesca integrata di suo pugno da Colocci alla fine del canone del Vat. lat. 4823 (ff. 446r-448v), anche in questo caso per supplire alle carenze del canone di V: è il codice della Cornell University Library di Ithaca (New York), Rare Bd. MS. 4648 n° 22 (già Mss. Bd. Petrarch. P P49 R 519), che ai fogli 142v 40 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana del canzoniere Vaticano cit., in particolare pp. 140-

143. 41 Cfr. ibid., pp. 130-141. 42 Cfr. ibid., pp. 113-130. 43 Cfr. F. COSTANTINI, Il Libro Reale, Colocci e il canzoniere Laurenziano, in questo

volume alle pp. 267-306. 44 Cfr. M. BERNARDI, C. BOLOGNA, C. PULSONI, Per la biblioteca di Angelo Colocci: il ms.

Vat. lat. 4787 della Biblioteca Apostolica Vaticana, in Studii de Romanistica−. Volum dedicat profesorului Lorenzo Renzi, Cluj-Napoca (Romania) 2008, pp. 200-220, in particolare pp. 207-209 (nel § 2, dovuto a Carlo Pulsoni, ove si propone una puntuale collazione variantistica). 45 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici cit., pp. 577-579.

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e 143r conserva la nota di possesso «sum Mazatostae». Una puntuale collazione, compiuta da Pulsoni, fra la successione testuale, le rubriche e gli incipit delle liriche inserite nel Vat. lat. 4823 e quelli del codice di Mazzatosta ora a Ithaca conferma il riconoscimento. Almeno in maniera virtuale un nuovo libro può essere riportato, se non proprio in uno degli «armarioli», dei «forzieri» o delle «capse» di Colocci in quanto oggetto di sua proprietà, almeno sul suo tavolo di lavoro (proprio come può dirsi per il Libro Reale e forse addirittura per il Laurenziano Rediano 9)46 in qualità di libro assai probabilmente prestatogli, e da lui studiato e utilizzato per ampliare la disponibilità testimoniale offerta dai volumi già in suo possesso. Se gli inventarî, redatti in presenza materiale dei libri, garantiscono la corrispondenza fra le singole entrate bibliografiche e altrettante unità librarie, una cura particolare andrà posta nella valutazione della natura e del contenuto di ciascuno degli elenchi della seconda serie. Non tutte le liste bibliografiche, né tutte le voci di ciascuna lista, rappresentano effettive presenze negli scaffali della biblioteca colocciana; accanto ai molti libri posseduti figurano talora libri ottenuti in prestito, o dei quali lo studioso, venuto a conoscenza della loro esistenza, si riprometteva di chiedere la consultazione. Si danno anche forme miste, con elenchi di libri sicuramente di Colocci nei quali compaiono rinvii a volumi di proprietà di altri, senza separazione fra manoscritti e libri a stampa, e tanto meno fra letteratura ed altre discipline, o fra testi volgari e in altre lingue come il greco e l’ebraico. Estraggo dall’elenco autografo e della seconda serie un solo esempio che mi sembra particolarmente rappresentativo del sistema di regesto applicato da Colocci, e delle difficoltà interpretative connesse a questa modalità di lavoro: al f. 224v, I colonna, viene classificato un «petrarca di man p(ro)pria», che è senza dubbio il Vat. lat. 3195, posseduto da Bembo ma studiato da Colocci, che (cogliendo anche nel vacuum dei tre fogli 50-52 il segno chiaro di una fondamentale volontà d’autore per evidenziare lo scarto fra prima e seconda parte dei Rerum vulgarium fragmenta) lo collazionò con quello paterno (l’attuale Vat. lat. 4787, ricordato anche nel f. 210r dell’elenco g come il «petrarca d(e) mio p(ad)re», insieme con altri «due mei»). Questa compresenza del Vat. lat. 3195 e del Vat. lat. 4787 la dice lunga sulla cura e sulla prudenza a la sottigliezza con cui occorrerà muoversi nello studio di questa biblioteca. Il canzo46 Marco Bernardi sta seguendo una pista di ricerca intorno alla permanenza di alcuni

libri laurenziani a Roma, che meriterà approfondimento ulteriore, in particolare per ciò che riguarda il Laurenziano Rediano 9.

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niere petrarchesco autografo, riconosciuto e studiato come tale, viene inserito nelle liste librarie di Colocci, e probabilmente anche nella sua biblioteca, almeno per qualche tempo, accanto alla copia trascritta per suo uso da Nicolò, il padre di Angelo. Non è incongruo pensare che Angelo Colocci (il quale vi fermò alcune annotazioni di squisito carattere filologico, ove si sente risuonare l’eco umanissima di un’emozione non solo scientifica), sul libro di suo padre abbia avviato la sua iniziazione di studioso e di poeta petrarchista, proseguita poi sulle stampe aldine, sul codice di Mazzatosta, infine, probabilmente negli ultimi anni di vita, sull’autografo del poeta che attraverso questa fatica esegetica contribuì a trasformare nel supremo modellizzatore di lingua e di stile poetico in tutt’Italia. Mi sembra un magnifico esempio di come grande tradizione “monumentale” e tradizione di servizio, “documentaria”, si saldino nel lavoro colocciano in una prospettiva che non esito a definire a pieno titolo affettiva e familiare, oltre che culturale. 7. Gli inventarî e gli elenchi dovranno essere accuratamente pubblicati e analizzati, anche attraverso una delicata operazione di confronti incrociati, e quindi integrati con materiale d’altra origine, soprattutto con le postille e gli appunti degli zibaldoni. Se ne dedurrà una mappa della biblioteca, la più completa e precisa che sia dato restituire applicando un paradigma scientifico, e per certi aspetti veridica nel senso della rappresentazione “cartografica”, che in parte potrà trovare conferma, sperabilmente, attraverso l’identificazione di ogni lemma con un libro materialmente ancora esistente, agevolata dal riconoscimento della natura dei singoli pezzi (ad esempio grazie alla precisazione dello stesso Colocci, in qualche caso preziosa, che un libro era scritto «a mano» o «stampato», con cura particolare nell’indicazione delle stampe «di Aldo»). Una volta che l’edizione degli inventarî e degli elenchi sarà compiuta si entrerà virtualmente negli spazi del lavoro di Colocci: lo vedremo così proprio in quel suo “studiolo di meditazione” che tanto ci piacerebbe avesse potuto riprodurre per noi un Antonello da Messina. E del suo lavoro di ricercatore in biblioteca recupereremo anche alcuni aspetti assolutamente caratteristici e idiosincratici, le tappe di un faticoso esercizio di concentrazione: quasi una privatissima mnemotecnica basata su associazioni di idee e collegamenti tutti e solo suoi, applicata a quello straordinario universo librario calato in un contesto dall’incredibile sapore casalingo, da lui messo insieme e vivificato in uno spazio assai diverso dalla grande biblioteca pubblica, nella dimensione solitaria e affettuosa della vita domestica.

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Nessun caso come quello della biblioteca colocciana consente di toccare con mano, davvero nella misura semplice del gesto quotidiano, della rapida, efficace pratica di consultazione, il legame umanistico fra lo studioso e i suoi libri. Non solo conosceremo il formato di un volume, se Colocci avrà ritenuto necessario appuntarlo per sé (molti «in 4°», alcuni «in 8°» ed «in folio», altri determinati materialmente, e si vorrebbe dire otticamente, come «grande», «piccolo», «reale», «oblungo», o «in bastardello», «in carta buona»); sapremo anche (dettaglio importante in senso materiale, specie per i canzonieri lirici) se fosse dotato di indice («con tavola», o «intavolato»), ed eventualmente anche postillato o annotato («tocco», con «annotationes»). Numerosi volumi potremo idealmente ricollocare in una «cassa», in un «armariolo», in un «forziere», che riusciremo a distinguere per un appellativo legato all’origine o al contenuto o alla natura dei libri («amicorum», «de mundo», «d’intabulati»), per il colore («rosso» o «bianco»), per il formato («lungo», e se intendo bene anche «duplicato»), per qualche altra caratteristica peculiare solo all’esercizio di ritrovamento nella memoria («con una bandella», «con varie bandelle», «con due chiavi»). Nei casi più fortunati giungeremo a restituire addirittura il contenitore nello spazio della stanza di studio o in altri luoghi della casa («accanto alla credenza», «accanto allo studiolo», «all’uscio», «alla finestra», «all’armario de’ panni», oppure anche solo «nel mezzo»: ossia al centro della stanza, o forse fra altre librerie). Non più antica e non ancora del tutto moderna, la biblioteca di Colocci, in un dinamismo di energie molteplici, si equilibra fra due ere della civiltà occidentale, fra due forme mentali e culturali, di entrambe accogliendo elementi e modelli, entrambe fondendo in nuovissima, originale unità. Il libro, il più prezioso come il più umile, è anzitutto documento, anche quando è monumento; non è più un oggetto imbevuto di sacralità, da venerare e tesaurizzare per il suo pregio esteriore o per un suo particolare carisma, ma uno strumento di conoscenza da conservare per poter essere studiato, riempito di scrittura senza troppo riguardo. E così, impregnato di fatica, di idee, di cultura e di temporalità, va trasmesso all’umanità del futuro.

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MARCO BERNARDI

PER LA RICOSTRUZIONE DELLA BIBLIOTECA COLOCCIANA: LO STATO DEI LAVORI Non parrà senza frutto introdurre tra le recenti acquisizioni che questo volume raccoglie e presenta, qualche ragguaglio sullo stato pregresso degli studi inerenti alla biblioteca dell’umanista iesino. Queste pagine vogliono perciò fornire una sintetica e schematica notizia relativamente alla ricostruzione di questa notevole biblioteca umanistica, ripercorrendo le tappe scandite dai più perspicui contributi in merito, che si sono susseguiti tracciando una linea di ricerca preferenziale nel panorama degli studi colocciani. Questa linea, che muove dal ponderoso scavo orsiniano del De Nolhac1, per giungere ai contributi più recenti di Corrado Bologna sulla copia del Canzoniere Vaticano2, sarà dunque idealmente seguita attraverso poco più di un secolo di ricerche, per essere abbandonata in prossimità della nuova tappa che questo volume tenta di segnare sul suo percorso. Non si troveranno qui ripresi, perciò, i nuovi apporti relativi a codici e stampati che sono prerogativa di questo volume e per rintracciare i quali si rinvia all’indice dei mss. del volume. Simmetricamente, non sono stati registrati, in questo indice, i riferimenti ai codd. menzionati nella prima colonna (segnatura) delle tabelle presenti nelle pagine a seguire: si sarebbe trattato, come è facile intuire, di un lavoro pressoché inutile, dal momento che in esse gli item si susseguono con ordine progressivo di segnatura, ripartiti secondo le suddivisioni dei fondi delle biblioteche (la Vaticana in primis) che li custodiscono. Per ciascun codice o stampato, poi, si allegano le notizie desumibili dagli studi di cui si è fatta menzione, presentate nella maniera più dettagliata ed esauriente che la sede e le intenzioni di questo lavoro permettono. Tuttavia in molti casi è parso opportuno dare indicazioni più precise, anche attraverso il riferimento ai fogli dei singoli volumi. 1 P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887. 2 C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. Lat. 4823), in I Canzo-

nieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, pp. 105-152.

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L’estrema eterogeneità di molti dei codici appartenuti a Colocci, e specialmente dei suoi numerosi zibaldoni, infatti, ha spesso offerto materiale a studi di orientamenti d’una varietà pari solo a quella degli interessi dell’umanista. È dunque immediato comprendere come sovente le informazioni relative ad un’unica unità libraria si potessero trovare polverizzate e sparse all’interno degli studi più diversi. Per casi come questi, il presente lavoro vorrebbe offrire una modesta reductio ad unum che permetta di rendersi conto, con maggiore immediatezza e agilità di consultazione, dei contenuti dei singoli manoscritti, almeno di quelli finora indagati dalla critica. Questo lavoro, infatti, prescinde da una diretta verifica sui codici e sugli stampati dell’esattezza delle informazioni stratificatesi nelle pagine degli studiosi che se ne sono occupati, e, parimenti, dall’ampliamento delle stesse con informazioni di prima mano che contribuiscano a completare una presentazione esaustiva dei singoli item3. Una tale operazione sarebbe stata degno oggetto di un più ampio studio autonomo. Qui basti aver fornito una base piuttosto rudimentale ma, si spera, approssimativamente accettabile per lavori simili o di diverso ma affine genere. Le imprecisioni e l’incompletezza di certi rimandi andranno dunque imputati alle fonti bibliografiche oggetto di spoglio. Solo si è tentato, laddove possibile e dove la necessità ne apparisse evidente, di aggiungere rettifiche, precisazioni e di correggere errori e inesattezze, che fossero però emendabili sulla base di un confronto incrociato tra i vari testi della bibliografia consultata e pochi altri. A questo – e talora ad altro – proposito si sono inseriti qui e là alcuni rimandi bibliografici specifici ma essenziali, ed alcuni brevi e modesti interventi critici, evidenziati e distinti in entrambi i casi dall’essere posti tra parentesi quadre. Sarà però opportuno indicare il criterio che ha guidato la selezione dei testi da sottoporre allo spoglio, i cui risultati qui si presentano, e cioè, sostanzialmente, quello di una indiscutibile incidenza nel panorama degli studi colocciani, della quale la frequente occorrenza di citazione in quest’ambito costituisce un’indubbia spia. Partendo, come accennato, dal primo e pionieristico lavoro del De Nolhac, che trattando di un umanista della generazione successiva a quella di Colocci viene tuttavia ad abbozzare i contorni della biblioteca di quest’ultimo, si è perciò passato al vaglio quella serie di studi, o raccolte di studi, che avevano come nucleo fondamentale e aggregante la 3 L’unica eccezione a questo criterio riguarda alcune indicazioni del De Nolhac che ne-

cessitavano di un riscontro dal momento che impiegavano indicazioni di collocazione non più in uso. Di tutto questo si dà notizia nelle pagine che seguono (vd. in particolare nt. 22).

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figura del filologo marchigiano. A questa categoria appartengono i lavori di Vittorio Fanelli4, ma prima ancora, per precedenza cronologica e di inerenza alla specificità del tema, il contributo di Samy Lattès5. Sempre a quest’ambito andrà ricondotto il volume degli Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci, svoltosi a Jesi nel 19696, che, con il notevole saggio di Luigi Michelini Tocci, effettuava per la prima volta in maniera sistematica la ricognizione del fondo stampato di questa biblioteca. Vi sono poi contributi più generali e trasversali come i due grandi saggi di Debenedetti che inquadrando un secolo (anzi tre) di studi provenzali, rimandano l’immagine di un’epoca in cui Colocci non compare come semplice comprimario, e forniscono informazioni su un importante settore della sua biblioteca7. E ancora i saggi di Bologna su Colocci e l’Arte e sui descripti umanistici8. I lavori di Giovanni Mercati sul Virgilio Mediceo9 e di Bologna sul Vat. lat. 4823 affrontano magistralmente, invece, quelli che, nella complessa ed eterogenea stratigrafia bibliografica degli interessi dell’umanista, potremmo definire ‘dettagli’, ma dettagli d’una rilevanza assolutamente incontestabile e fondante. Da aggiungere, per completezza, è poi lo snello contributo di Rossella Bianchi per la biblioteca di 4 V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979 e F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969. 5 S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (1931) [Extrait, pp. 1-37]. 6 Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972. 7 Mi riferisco, come si può intuire, a S. DEBENEDETTI, Gli Studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, (editi rispettivamente nel 1911 a Torino e nel 1930 a Firenze) ora compresi in un’edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995. A questo volume fanno riferimento i rimandi di pagina delle tabelle. Al terzo celebre contributo debenedettiano agli studi colocciani – S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in Zeitschrift für romanische Philologie [d’ora in poi ZfRPh] 28 (1904), pp. 56-93 – si è semplicemente rimandato a proposito delle voci relative ai codd. Vat. lat. 3793 (sostanziata quasi esclusivamente da rimandi bibliografici: le notizie su questo ms. sono sovrabbondanti, sicché una loro presentazione avrebbe comportato la riproposizione dei saggi in bibliografia quasi nella loro interezza) e Vat. lat. 4817, perché, pur contributo acuto, originale e fondante, affronta questioni molto specifiche e non immediatamente riconducibili al tema di questa compilazione. 8 C. BOLOGNA, Colocci e l’Arte (di «misurare» e «pesare» le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407 e C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, II, Messina 1994, pp. 531-587. 9 G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio mediceo a Roma, in ID, Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 524-545.

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Angelo Colocci10, che, ultimo saggio in ordine di tempo a far il punto sulla situazione, offriva anche il nuovo apporto del reperimento di un ulteriore inventario dei possessi librari dell’umanista, che si andava perciò ad affiancare ai tre più un quarto già noti11. I risultati di questo spoglio, dunque, sono stati organizzati con questo ordine: la segnatura12, le notizie desumibili dalla bibliografia data e i rimandi alla medesima (con l’indicazione della pagina e del fatto che il riferimento si trovi in nota – con una ‘n’ accanto al numero di pagina – o meno). La lista viene perciò a contenere le indicazioni relative tanto a mss. e stampati materialmente identificati13 – e questi ripartiti in base al fondo o alla biblioteca di appartenenza – sia a quelli del cui possesso da parte di Colocci abbiamo notizia pressocché certa, ma i cui esemplari non sono ancora stati individuati (o sono andati perduti). A questa categoria appartiene, per esempio, un cospicuo catalogo di edizioni a stampa che De Nolhac desume dall’Inv4 e Bologna da alcuni approssimativi elenchi di libri che si trovano negli zibaldoni dell’umanista, o ancora la 10 R. BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-

282. 11 L’inventario segnalato dalla Bianchi, in buona parte di mano di Colocci, si trova ai ff. 50r-63r del codice Vat. lat. 14065 e per comodità lo chiameremo Inv5. Gli altri tre sono, in ordine cronologico di redazione, quello conservato nei ff. 44r-63r di Archivio della Biblioteca Apostolica Vaticana, tomo 15 (Inv1), redatto vivente Colocci, anteriormente al 1549; quello conservato nei ff. 4v-5v di Vat. lat. 3963, compilato dal Sirleto nel 1549 alla morte dell’umanista (Inv2; edito in MERCATI, Il soggiorno cit., p. 542 sgg.); quello conservato nel Vat. lat. 3958, ai ff. 184r-196r (Inv3), scritto nel 1558 al momento dell’ingresso dei libri nei fondi della Vaticana. Resta il quarto inventario che è, in realtà, quello della biblioteca di Fulvio Orsini, datato 1602, anno dell’ingresso nel patrimonio della Vaticana delle collezioni di questo personaggio dopo la sua morte (1600). Esso può essere letto nel cod. Vat. lat. 7205, ai ff. 1r-52r (Inv4) e reca, per ciascun item appartenuto a Colocci l’indicazione – non sempre certa – di questa provenienza (edito in DE NOLHAC, La bibliothèque cit., pp. 334-396). Nelle tabelle che seguiranno si farà riferimento a questi inventari citandoli con le formule abbreviate qui sopra proposte. 12 Accompagnata da una (z.) quando relativa ad uno zibaldone colocciano, dato l’inte-

resse per l’originalissima natura composita dei medesimi, o da un (?) nei casi di dubbia identificazione o attribuzione. 13 Solo alcuni casi incerti sono stati segnalati con punti interrogativi accanto alla segna-

tura. Vi sono infatti alcuni mss. la cui conoscenza e consultazione da parte di Colocci è accertata, ma il cui possesso non lo è altrettanto. Trattandosi, in alcuni casi, di monumenti celeberrimi (l’Hamilton 90, autografo del Decameron o l’autografo petrarchesco Vat. lat. 3195, per es.) la cautela si raccomandava. Del resto si è avuto modo di notare che spesso gli studiosi che hanno esplorato gli scaffali (o piuttosto i forzieri) della biblioteca dell’umanista si sono fatti guidare da un criterio di equivalenza tra consultazione – e quindi presenza di postille – e possesso: criterio certamente ragionevole e significativo ma, non necessario né sufficiente se non suffragato da altri riscontri.

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serie di edizioni curate o patrocinate da Colocci (come quelle del Ginnasio Greco14 o di poeti da lui stimati e protetti), o quella di certe raccolte miscellanee di poesia contemporanee come Coryciana e Suburbanum Augustini Chisii15. Ciascuno di questi casi è stato affrontato in un’apposita sezione, tuttavia solo approfondite e dirette ricerche avrebbero potuto permettere l’indicazione di una segnatura, che naturalmente non si troverà. Prima della presentazione dello spoglio, varrà ancora la pena spendere alcune righe sul contenuto, la natura, la disposizione e la consistenza delle notizie che si forniscono dopo la segnatura. Nella loro esposizione si è seguito l’ordine dei rimandi bibliografici presenti nella terza colonna (indicazioni bibliografiche), segnalando il passaggio dalle notizie relative ad un saggio a quelle desumibili da un altro con barrette oblique e con l’indicazione in grassetto della sigla relativa, in modo da rendere il più immediato e semplice possibile ricondurre una notizia al locus in cui la si poteva trovare. Tuttavia all’interno dello stesso rimando le informazioni seguono solo tendezialmente una sequenza corrispondente ai rimandi di pagina (o nota) della terza colonna: si è infatti privilegiato quanto più possibile un criterio di ordine e sintetica chiarezza, disponendo, per esempio, le notizie sul contenuto di un ms., in base alla topografia del medesimo piuttosto che a quella del saggio che ne trasmetteva ragguaglio. Si sono trascurate, per lo più, le ripetizioni di notizie, sia all’interno dello stesso rimando che relativamente ad altri rimandi, sicché, se uno di questi non aggiungeva elementi di novità al già scritto, si è posta la sigla e l’indicazione di pagina tra parentesi tonde nella terza colonna e, nella seconda (notizie), si è segnalata l’assenza di notizie significative con due barrette affiancate e l’indicazione in parentesi del rimando bibliografico in sigla (per es. / (R)/). Al contrario, laddove una certa fonte bibliografica apportava un’abbondante messe di nuove acquisizioni, le si è dato maggiore evidenza nella seconda colonna, ponendone la sigla di rimando in capo ad una sintesi quanto più possibile organica di queste acquisizioni (talora sostanziate da vere e proprie citazioni), o la si è comunque menzionata, completa di rimandi alle pagine, nel corso dell’esposizione. Il succedersi delle notizie nelle schede segue l’ordine cronologico degli studi appena elencati, precedute, però, da un’indicazione recante 14 Cfr. F. BARBERI, E. CERULLI, Le edizioni greche «in Gymnasio Mediceo ad Caballinum montem», in Atti del Convegno cit., pp. 61-76. 15 Si vedano in proposito, per una sintetica notizia, rispettivamente J. RUYSSCHAERT,

Les péripéties inconnues de l’édition des «Coryciana» de 1524 in Atti del Convegno cit., pp. 4560 e UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., ad indicem.

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nome dell’autore in maiuscoletto e – quando possibile – un’indicazione in corsivo che individui sinteticamente il carattere del volume. Si sono trascritti in corsivo e con la prima lettera maiuscola i titoli delle opere, qualora questi fossero esatti ed espliciti o inequivocabilmente individuabili sulla base delle informazioni date (nei casi in cui è stato possibile si sono tuttavia proposti titoli più precisi collocandoli tra parentesi quadre). Quando non si è potuto fare altrimenti si sono impiegate le designazioni dei cataloghi antichi, e specialmente di Inv4. Quando non diversamente indicato, i rimandi ai nomi degli autori nelle schede sono da considerarsi relativi alle opere citate. Per comodità do dunque qui sotto l’elenco, in ordine cronologico di pubblicazione, dei testi consultati con le sigle che nelle pagine seguenti li designano: De Nolhac = DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 188716. Debenedetti = S. DEBENEDETTI, Gli Studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 199517. L = S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (Paris 1931) [Extrait, pp. 1-37]. Mercati = G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio mediceo a Roma, in ID., Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 524-545. FU = F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano, Barb. lat. 4882, a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 196918. A = Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972. R = V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 197919. Bianchi = R. BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271282. 1Bologna = C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, II, Messina 1994, pp. 531-587.

16 Questo importante studio aveva ricevuto un’interessante recensione da parte di V.

CIAN in

Giornale Storico della Letteratura Italiana 11 (1888), pp. 230-249.

17 I rimandi di pagina relativi a questo volume non distinguono tra l’una e l’altra opera

se non tramite una barretta obliqua (/), si tenga comunque presente che Tre secoli cit. appare in coda Gli studi provenzali cit., tra p. 345 e p. 378. 18 Per quanto riguarda questo testo la numerazione si riferisce alle note. 19 Le notizie che R fornisce sui volumi citati, nelle schede seguenti precedono quelle di

A. Infatti, sebbene R sia successivo ad A quanto ad anno di pubblicazione, raccoglie articoli di V. Fanelli che, pur integrati e aggiornati per la cura di J. Ruysschaert, furono scritti in anni anteriori al Convegno di Jesi.

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2Bologna = C. BOLOGNA, Colocci e l’Arte (di «misurare» e «pesare» le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407. 3Bologna = C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, pp. 105-52.

BIBLIOTECA DI ANGELO COLOCCI MANOSCRITTI IDENTIFICATI

Biblioteca Apostolica Vaticana Fondo Vaticano latino ____________________________________________________________________________________ segnatura: notizie indicazioni bibliografiche ____________________________________________________________________________________ 1487: PRISCIANO, grammatica [Institutiones grammaticae?].

L: 22. 34

1492: Miscellanea Grammaticale (grammatici minori); LORENZO VALLA: trattato sul pronome riflessivo. L: 22. 23. 34 1494: Miscellanea di grammatica e storia; ARISTOTELE, Economia (tradotto in latino da L: 17. 23. 34 LEONARDO ARETINO); PIETRO CANDIDO DECEMBRIO, grammatica. 1495: CICERONE, Familiares, Paradoxa, Somnium Scipionis, De senectute; GUARINO VERONESE: De dipthonghis. L: 18. 23. 34 1496: Avesani lo dimostra di appartenenza colocciana. [R. AVESANI, Due codici appartenuti ad Angelo Colocci, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata 7 (1974), pp. 379-385]. In Inv3, f. 189, è probabilmente registrato al nr. 26 come «ortografia in pap(iro)». R: 172 1497: POMPONIO LETO, grammatica.

L: 22. 34

1498: GIOVANNI DA PESARO, grammatica.

L: 22. 35

1499: FRANCESCO BUTI, grammatica [Regule grammaticales e Regule rhetorice?].

L: 23. 35

1502: GIOVANNI GIACOMO BOCCABELLI, Ars Metrica [errore? nell’elenco di p. 35 Lattès lo registra come 1504]. L: 23. 35? 1514: GIOVANNI FLORENTINO, commentario sulle Bucoliche.

L: 23. 35

1522: Miscellanea Grammaticale (grammatici minori): VARRONE, SESTO RUFO./ R: MARCI TERENTII VARRONIS De lingua latina e RUFI FESTI [sic] Breviarium ab urbe condita. Note e postille fittissime spec. su termini utilizzabili per il lavoro su pesi e misure. Ci sono riferimenti ad una edizione Aldina non identificabile, usata per il confronto (in Inv3 è a f. 190v: «M. Varronis de lingua latina Sextus Rufus de Imperatoribus»). Serve di base per le postille apposte sul suo Varrone curato da Leto del 1474 (Inc. IV. 136). L: 22. 35/ R: 57. 63 1542: MACROBIO, Saturnalia.

L: 35

1546: MACROBIO, Commentarii in somnium Scipionis.

L: 23. 35

1561: LEONARDO BRUNI (Aretino), opere [?].

L: 23. 35

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1576: VIRGILIO, Bucoliche, Eneide e frammenti delle Georgiche.

L: 19. 35

1586: VIRGILIO, Bucoliche e Georgiche.

L: 18. 35

1610: Opere di TIBULLO e MARZIALE; PANORMITA, Hermaphroditus; FILIPPO BUONACCORSI (detto Callimacus Experiens), Epigrammata. L: 20. 23. 35 1662: PERSIO, Satire, seguite dalla vita dell’autore scritta da VALERIUS PROBUS.

L: 20. 35

1670: PORCELLIO PANDONIO, poesie latine./ FU: Colocci ebbe grande interesse per questo poeta, sciatto e cortigiano (ma incoronato a Napoli da Federico III), che pure, probabilmente, non conobbe di persona. In Inv3. (f. 191v, nr. 59 della VI cassa) si trova menzione di «Porcellus poeta de felicitate temporum Pij 2i», identificabile appunto col presente codice. L: 23. 35/ FU: n20 (p. 16) 1671: PETRONIO [Satyricon]. 1672: PORCELLIO PANDONIO, poesie latine./ (FU)/ 1677: BASINIO DE BASINIIS, Hesperidos.

L: 35 L: 23. 35/ (FU: n20) L: 23. 35

1708: CICERONE, De Oratore.

L: 18. 35

1713: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 18. 35

1716: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 35

1751: CICERONE, Catilinariae.

L: 18. 35

1754: CICERONE, Verrinae.

L: 18. 35

1758: CICERONE, De natura deorum; De legibus.

L: 18. 35

1790: F. FILELFO, Consolazione a Valerio Marcello [Ad I. A. Marcellum de obitu Valerii Filii consolatio]. L: 24. 35 1883: PLUTARCO, Alcune Vitae tradotte in latino da LEONARDO BRUNI (Aretino). L: 17. 23. 35 1916: CORNELIO NEPOTE [?].

L: 35

1948: BENVENUTO DE’ RAMBALDI [B. da Imola] [?].

L: 35

2003: MARIN SANUDO, Secreta Fidelium.

L: 35

2048: Epigrammi greci, tradotti in latino.

L: 26

2649: BARTOLOMEO BELLONCINO, opere sulla carità; De charitativo subsidio (nr. 16 della VI cassa di Inv3). L: 13. 35 2698?: «POLIBIUS traductus in papiro». Così in Inv2, dove è registrato al nr. 94; oltre a POLIBIO, contiene APPIANO, De rebus gestis per Romanos et Carthaginenses in Hispania. Mercati: 542 2713: CICERONE, Pro Marcello, Pro Deiotaro, Catilinariae, con SERVIO e PRISCIANO; frammenti di grammatica. L: 18. 22. 23. 35 2725: Miscellanea Grammaticale; Commenti di PRISCIANO, SERVIO e FULGENZIO su Virgilio. L: 22. 23. 35 2727: POMPONIO LETO, grammatica

L: 22. 35

2728: GASPARINO BARZIZZA, Ortographia; ANGELUS NUBIARIGENUS, De modo punctuandi, dedicato ad Elisabetta Malatesta (la dedica ci permette di collocare questo autore nella prima metà del XV sec). L: 22. 23. 35 2731: FESTO POMPEO.

L: 35

2736: FESTO POMPEO, De verborum significatione (nr. 53, cassa VII in Inv3), mutilo del principio [sarà in realtà il compendio redatto da Festo Sesto Pompeo di VERRIO FLACCO, De verborum significato]. L: 11. 35 2738: CODRO, commentario su Plauto.

L: 23. 35

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2741: Miscellanea grammaticale./ FU: A f. 32 c’è la lettera di GIROLAMO DONATO al TEBALDEO. L: 35/ FU: n72 2744: GIOVANNI SULPICIO DA VEROLI, commentario su Pharsalia di LUCANO.

L: 23. 35

2748: Dizionario latino-francese del XIV secolo, molto annotato da Colocci./ FU: Codicetto pergamenaceo; corrisponde al nr. 3 della VI cassa di Inv3; a f. 41v di questo codice ci sono alcune osservazioni sul termine francese «forsener», lat. «debaccare» [cfr. Vat. lat. 4817, f. 115] e a f. 44v, tra «delirare» e «delirer vel essotir», con l’annotazione di Colocci «for di senno bis»./ A: Ancora inedito (nel 1972). L: 29. 35/ FU: n173/ A: 39 2752: Miscellanea di grammatica, tra cui opere di PRISCIANO; poema apocrifo di REMUS FAVINUS su ‘pesi e misure’. L: 21. 35 2753: DONATO e SERVIO./ R: ELIO DONATO, De octo partibus orationis ed altre operette; «SERVII HONORATI grammatici De Syllabis»; a ff. 47v-48v c’è un frammento attribuito, ma erroneamente, da un titolo a VARRONE. Colocci postilla le operette di Servio e Donato (Inv3, f. 189r: nr. 33 della V cassa: «Donati gramm»). L: 22. 35/ R: 57 2770: ORAZIO, Ars poetica, Epistulae. In Inv3 è il nr. 50 di cassa IX: «Horatii Poetica et Epistulae et liber de naturis animalium». L: 10. 20. 35 2815: PLATONE, opere (Timeo, Fedone?) tradotte in latino.

L: 17

2833: Raccolta di poesie di poeti latini del Rinascimento (POLIZIANO, SANNAZARO, FILELFO, MOLZA, VIGILE, CALENZIO, BENIMBENE...)./ FU: Contiene versi – in parte citati da Ubaldini – di: ELISIO CALENTIO [Luigi Gallucci, vd. anche Vatt. latt. 3367 e 3909], BATTISTA CASALI (f. 238), FRANCESCO MARIA MOLZA (ff. 1 e 5), MARC’ANTONIO CASANOVA (ff. 179 sgg.; f. 203: epigramma giocoso sulla mancanza di figli per Colocci e per Tommaso Pietrasanta), FRANCESCO BELLINI di Staffolo (f. 126 e, forse, ff. 111, 121, 128-133, 137). Il codice fu letto probabilomente da Lancellotti e Ubaldini./ A: Contiene l’autografo di ELISIO CALENZIO delle Elegiae Aurimpiae ad Colotium, ai ff. 67r-103v. Questi fascicoli furono utilizzati per l’edizione degli Opuscula Elisii Calenti. Sono tuttavia andati persi un bifoglio (70-71) e un fascicolo che doveva collocarsi tra gli attuali ff. 74-75. L: 25. 26. 35/ FU: nn 20. 45. 71. 82. 165. 166/ A: 266 2834: Raccolta di Epigrammi, classificati metodicamente sotto diverse rubriche per argomento; comprende sia poeti moderni che antichi (è tutt’uno con Vatt. latt. 3353 e 3352). Passato a Fulvio Orsini./ FU: Contiene versi di: M. CASANOVA (gli stessi di cui sopra [Vat. lat. 2833], ma a f. 71v; e anche a ff. 6v, 39 sgg. e 79 sgg.), BENEDETTO CINGULO (ff. 7 e 22v). Da una postilla a foglio 79 («a far n. 500 volumi costa la stampa per la carta ducati 20») si ricava l’ipotesi che Colocci avesse intenzione di stampare gli epigrammi di CASANOVA. L: 25. 26. 35/ FU: nn 20. 71. 165 2835: TEBALDEO, poesie copiate in parte di mano dello stesso COLOCCI, tratte, probabilmente da 3389./ FU: A ff. 148v e 186r compaiono gli stessi versi di Tebaldeo, insieme ad altri «De fonte A. Colotii», di mano colocciana; versi di Tebaldeo ai ff. 1 e sgg. e 258-261. L: 24. 35/ FU: n72 2836: Raccolta di poesie di poeti latini del Rinascimento./ FU: Contiene versi di: ALTILIO (ff. 8 e 107), GIROLAMO CARBONE (a capo dell’Accademia di Pontano, dopo la morte di questi; ff. 8v, 55, 113v, 125v, 260), FRANCESCO MARIA MOLZA (f. 115), MARC’ANTONIO CASANOVA (ff. 228 e 262-263), PORCELIO PANDONI, SANNAZZARO (ff. 112v-113, 120, 123-124), VOPISCO (una composizione in greco a ff. 255v-260), PIETRO MELLINI (padre di Celso e Girolamo; f. 1), BATTISTA CASALI (ff. 27, 171v, 187-196), BERNARDINO CAPELLA (f. 34v), FILIPPO BEROALDO JR. (ff. 106, 125v), PIETRO BEMBO (ff. 118-119), BALDESAR CASTIGLIONE (ff. 11v e 119), ANDREA NAVAGERO (f. 108), GIAN GIORGIO TRISSINO (ff. 7v, 108v-110). A ff. 326 e sgg. c’è un’orazione tenuta da PIETRO TAMIRA nel 1484 alla festa delle Palilie. L: 25. 26. 35/ FU: nn 20. 40. 45. 71. 111. 113. 120. 121. 125. 170. 182. app. 1

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MARCO BERNARDI

2837: PONTANO, «De stellis» (così in Inv3: nr. 67 di cassa VII), autografo.

L: 24-25. 35

2838: PONTANO, «Metheora» [Meteororum liber] (così in Inv3: nr. 54 di cassa V), autografo./ A: Inviato dal Summonte a Colocci. L: 24-25. 35/ A: 146 2839: PONTANO, De rebus coelestibus. Non è menzionato in Inv3; identificabile, probabilmente con il ms. di Pontano che Summonte promette di inviare a Colocci in una lettera del 29 gennaio 1519/ FU: Autografo, con annotazioni di Colocci./ (2Bologna)/ L: 25. 35/ FU: n142 (2Bologna 374n) 2840: PONTANO, Dialogi (in Inv3, nr. 55, cassa VI,: «Asinus»), autografo.

L: 24-25. 35

2841: PONTANO, De Fortuna, autografo, con dedica a Colocci del III libro (f. 50v), e con aggiunte marginali in tre punti col nome di Colocci: si tratta probabilmente dell’esemplare stesso che Colocci ricevette da Pontano./ A: Tateo [A: 146] lo dice più probabilmente inviato dal Summonte. A ff. 52v e 47r due interventi di Colocci. A f. 50v la dedica a Colocci del III libro è in realtà interpolazione di mano di Pietro Summonte L: 25. 35/ A: 146. 271 2842: PONTANO, De Tumulis (nr. 69, cassa VII, di

Inv3),

autografo.

L: 24-25. 35

2843: PONTANO, Actius, dialogus de numeris poeticis (nr. 35, cassa V, di Inv3), autografo./ (A) L: 24-25. 35/ (A: 147 n.38) 2844: LORENZO BONINCONTRI, De rebus divinis et naturalibus, De rebus coelestibus. L: 23. 35 2847: Raccolta di lettere e poesie/ FU: Contiene: lettera dell’ALTILIO al CARITEO (f. 8), versi di SANNAZZARO (ff. 1 sgg.), il poemetto di EGIDIO GALLO, De viridario Augustini Chisii (Roma 1511), un’epistola di BLOSIO PALLADIO al Vicario di Tivoli (f. 175) L: 35/ FU: nn 20. 33. 113 2848: Raccolta di Epigrammi greci./ FU: Tutti tradotti in latino. 2856: PORCELLIO PANDONIO, poesie latine.

L: 35/ FU: n175 L: 23. 35

2862: PACIFICO MASSIMI, poesie./ R: Hecatelegium, Spartacidos [poema a G. Salvalio: A: 268], Libellus coniugationum verborum grecorum. Con pesanti correzioni e interpolazioni di Colocci, con doppia numerazione, molti fogli insudiciati e macchiati: manca di 44 fogli, di cui 37 si ritrovano in 7192 (ff. 26-64). Identificabile con il nr. 20 di f. 195r di Inv3; forse anche nel f. 63v dell’Inv1, segnalato come «Pacificus»./ A: Le opere del Massimi qui contenute recano numerose interpolazioni ed addirittura sostituzioni di dediche fatte da Colocci. Si tratta di un ms. cartaceo del XV secolo di 212 fogli di 215 × 128 mm [A: 161]. Alcune tra le poesie ritoccate contengono ingiurie nei confronti di Colocci. Dell’Hecatelegium contiene i libri I-X e VI-X [?sic in A: 268]. Il ms. di quest’opera va integrato con i cinque fascicoli dispersi in Vat. lat. 7192 (vd.). L: 23. 35/ R: 76-77/ A: 157. 161. 162. 167. 267 2874: Raccolta poetica./ R: Confusa raccolta di versi latini di moltissimi poeti contemporanei (databile intorno al 1514; altre sue parti sono però d’altre epoche). Tra gli altri, ci sono versi di «Giorgio Clelio [Jorge Coelho] lusitano»./ FU: Contiene inoltre testi di POLIZIANO, SANNAZARO, FILELFO, MOLZA, VIGILE, CALENZIO, BENIMBENE...?)./ 1Bologna: I versi di SANNAZZARO sono a f. 161, quelli di ANDREA NAVAGERO a f. 111v/ A f. 112r: elenco di libri latini moderni. L: 25. 26. 35/ R: 159/ FU: nn 20. 125/ 1Bologna: 552n 2888: CICERONE, De officiis (unico degli otto mss. identificato). 2893: CICERONE, trattati filosofici.

L: 18. 35 L: 35

2895: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 18. 35

2896: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 18. 35

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2898: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 28. 35

2900: CICERONE [sic!], Rhetorica ad Herennium.

L: 18. 35

2902: CICERONE (?); ISIDORO DI SIVIGLIA; Commento di BOEZIO alle Topiche. Porta il raro ex libris di Colocci. L: 18. 35 2906: PSEUDO CICERONE: invettive contro Catilina; discorsi latini e tradotti dal greco da LEONARDO BRUNI./ FU: Versi di PORCELIO PANDONIO. L: 18. 19. 23. 25. 35/ FU: n20 2910: CICERONE, De legibus; PLATONE, Fedone (tradotto in latino).

L: 17. 18. 35

2914: «FORTUNATIANI Rhetorica – RUTILIUS LUPUS: De figuris rhetoricis – AQUILA ROMANUS: De figuris» (così in Inv3, nr. 51 della VII cassa). L: 10. 22. 35 2915: COSTANZO DA VARANO, lettere e discorsi; UGOLINO PISANO [?].

L: 24. 35

2917: PIETRO CRINITO, Libri de poetis latinis.

L: 24. 35

2920: Raccolta di discorsi di umanisti [?].

L: 25. 35

2924: TREBANIO AURELIO [?].

L: 35

2929?: «MARSILIUS FICINUS in Convivium Platonis a mano», così in Inv1 (f. 59r). In Inv2 è registrato al nr. 127 come «Convivium Platonis in memb». Mercati non è certo dell’identificazione del codice./ R: Per Fanelli è forse il «MARSILIUS FICINUS, in convivium Platonis» (di Inv1, f. 62r): ne parla forse il Vettori in una sua lettera a Colocci. L’attribuzione alla biblioteca di Colocci è comunque incerta. Mercati: 544/ R: 74 2934: Raccolte di lettere e discorsi latini (di umanisti e sull’impero ottomano) e tradotti dal greco. SENOFONTE, Gerone, Memorabilia, tradotte in latino./ FU: Ai ff. 305 e sgg. della prima parte si trova l’orazione pronunciata da POMPONIO LETO di fronte a tre giudici in propria difesa, essa comincia parlando del significato del numero ternario. Il cod. è tutto postillatto da Colocci./ R: Raccolta di lettere e discorsi, di sicura appartenenenza colocciana, divisa in due tomi (di 323 e di 284 fogli rispettivamente); tra le altre una lettera di FICINO al Bessarione. L: 17. 19. 22. 25. 35/ FU: n176/ R: 74 2946: PLUTARCO, alcune Vitae tradotte in latino; Raccolta di lettere. 2947: GUIDO DELLE COLONNE; TURPINO.

L: 17. 35 L: 36

2951: SENOFONTE, Gerone, Memorabilia, tradotte in latino [?]. Raccolte di Discorsi latini (di umanisti) e tradotti dal greco. PSEUDO CICERONE, invettive contro Sallustio./ FU: A f. 299v è trascritto il sonetto Colotio di virtù vero cultore indirizzato all’umanista dal CARITEO. L: 17. 18. 19. 25. 36/ FU: n20 2957: DITTI CRETESE [Sono forse le De bello troianorum efemerides. Cfr. 3424].

L: 36

2962: ALBERTINO MUSSATO, cronaca [forse Historia Augusta Henrici VII Caesaris o De gestis italicorum post Henricum VII Caesarem?]. L: 36 2963: IACOPO MALVEZZI, Cronaca [della città di Brescia?].

L: 36

2966: SVETONIO.

L: 36

2968: APPIANO, opere e POLIBIO, frammenti (tradotti in latino), estratti dal libro VI [delle Storie?] (in Inv3, nr. 18, cassa X). L: 11. 17. 36 3076: FILOSTRATO, opere tradotte in latino.

L: 17. 36

3080: [si limita a segnalarne la dimenticanza da parte del Lattès tra le opere appartenute a Colocci]. Mercati: 233 3132: Raccolta d’Agrimensura, in parte copiata da Colocci stesso./ FU: NYPSO, opera di agrimensura, però attribuita, nel ms., a FRONTINO [cfr. anche Vatt. latt. 3895, 4498 e 5394]./ R: Questo è il maggiore dei diversi codici con opere di Nypso. Il cod. è annotato con riferimenti a numerosi libri stampati e a codici. L: 20. 36/ FU: nn 59./ R: 70. 71

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(3195?): PETRARCA, Rerum Vulgarium fragmenta, autografo. [La consultazione è certa, il possesso dubbio]. (2Bologna: 391) 3205: Canzoniere provenzale [g]: copia cartacea della prima metà del XVI secolo del canzoniere della Vaticana [M: vd. Vat. lat. 3794]. Venne fatta approntare da Colocci stesso come copia di lavoro, ed infatti è ricco di sue annotazioni. Passato a Fulvio Orsini, in Inv4 è registrato al nr. 25 dei mss. volgari come «Rime provenzali, in papiro in foglio, tocche dal Colotio, coperto di carta pecora»/ Debenedetti: A questo cod. appartengono 4 ff. – finitivi per errore – che vanno ricondotti al Canzoniere O (Vat. lat. 3208). I codd. g e O furono i primi due codici provenzali che la biblioteca di Orsini possedette [O era appartenuto a Torquato Bembo, dal quale Orsini lo acquistò nel 1582]. Orsini senz’altro possedeva già g all’epoca dei suoi acquisti di cose provenzali appartenute a Bembo come testimonia una lettera al Pinelli «Io ho copia d’uno che è qui nella Vaticana [M], che fu del Colotio...» (Lettera del 2 agosto 1582 contenuta in Ambros. D. 423 inf.; cfr. p. 117 e 276). Questi fogli sono dunque i ff. 1-4, contenenti alcune traduzioni dal provenzale in italiano (testi di Guglielmo di San Desiderio, Rambaldo di Vaqueiras, Folchetto di Marsiglia, Bernardo di Ventadorn, Uc Brunenc, Peroll) e alcuni saggi lessicali. Il cod. [g] è da far risalire al primo quarto del ’500. Può essere diviso, dal punto di vista paleografico, in due parti: la prima (ff. 1-117) è riconducibile a quel periodo di entusiasmo accesosi in Napoli alla fuga del ms. del Gareth [M: vd. Vat. lat. 3794] ed è una copia assai poco chiara; si potrebbe pensare a quella fatta realizzare da Gian Vincenzo Carafa, che mandò a Napoli un copista a questo proposito [Debenedetti suppone dubitativamente – p. 98 – che questa copia poco accurata sia poi stata donata a Colocci in quanto possessore dell’originale]. La seconda inizia a f. 121 (dopo tre ff. bianchi) ed è d’altra mano, più chiara, forse quella del copista di Colocci. Debenedetti individua annotazioni di mano di Fulvio Orsini che, però, ricalcano pedissequamente quelle di Colocci su M [cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in ZfRPh 28 (1904), p. 57]. Orsini collazionò O con g, traendo da quest’ultimo molte delle attribuzioni mancanti in quello, successivamente si avvalse anche di K (Parigi, Bibl. Nat. fr. 12473). 3205 è il cod. che Orsini offrì ad Alvise Mocenigo – se ne ha notizia in una lettera del I° sett. 1582 [cfr. de Nolhac pp. 108 e 320] – in cambio di K: in questa occasione Orsini lo definisce «un libro de provenzali LX[IV] bene ordinati et con gran copia de poesie, scritto già fanno 50 anni, o 60, o forse 70, et fu del Colotio». L’erudito barcellonese Antonio Bastero (nato nel 1675) lo copiò (vd. p. 372). Nelle sue integrazioni a Gli studi provenzali, Debenedetti suppose che il cod. b [Barb. lat. 4087] (secondo un’ipotesi di Mussafia) potesse essere una copia di g./ (L)/ (FU)/ 1Bologna: Il ms. risalirà, al più tardi al 1548-1549 (anno di morte dell’umanista iesino), perché esso fu collazionato di persona da Colocci su M, visto che di suo pugno vi appose (f. 127r) la postilla relativa ad una sezione erroneamente duplicata dal copista («hactenus bis scripta»)./ 3Bologna: La mano è probabilmente quella di uno dei copisti messi a disposizione dalla Curia pontificia e riproduce sui bordi molte delle postille colocciane di M; un’altra mano contemporanea probabilmente all’acquisizione da parte di Orsini del codice ricopiò più tardi altre annotazioni di medesime paternità e provenienza. De Nolhac: 107 (n.5). 108 (n.2). 126. 320. 394/ Debenedetti: 86. 87. 90. 94. 98. 109. 111. 117. 118. 251. 276. 288/ 350n. 361. 371. 372. 378. 401/ L: 36/ FU: n172/ 1Bologna: 546/ 3Bologna: 107 3217 (z.): Zibaldone colocciano. De Nolhac lo nomina en passant e rimanda a E. MONACI, Il canzoniere portoghese della Biblioteca Vaticana, Halle 1875. Passato a Fulvio Orsini, in Inv4 si trova al nr. 30 dei mss. volgari come «un libro per ordine d’alfabeto di tutte le parole usate dal Petrarca et altri poeti antichi, scritto di mano del Colotio, in papiro in foglio, coperto di carta pecora»./ L: Contiene liste di vocaboli italiani e provenzali e

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elenco di poeti italiani./ FU: L’indice di parole contenuto in questo codice ha per titolo – di mano di Orsini – «Index verborum seu vocum collectus per Angelum Colotium ex Petrarcha Siculo Rege Roberto Barbarino», cioè tratte da Petrarca, Roberto d’Angiò e Francesco da Barberino. Colocci ha scritto di sua mano quelli di Petrarca e re Roberto, ma questo codice contiene anche altri indici. O. OLIVIERI [Gli elenchi di voci italiane di Angelo Colocci, in Lingua nostra IV/2 (1942)] nota che il materiale di questo codice non si distingue da quello di Vatt. latt. 4817 e 4818. Contiene osservazioni sparse sulla lingua. Tra i nomi di autori portoghesi Colocci ha lasciato spazio per inserirvi notizie biografiche come ha fatto per il primo nome (questi fogli sono editi da Monaci nel 1875 [vd. supra]./ R: A ff. 300-307 c’è un lunghissimo elenco di nomi col titolo di «Autori Portoghesi»./ A: In appendice ha un catalogo di autori portoghesi da cui la BERTOLUCCI trascrive una rubrica (in A: 202) strettamente confrontabile con quelle del Colocci-Brancuti [vd. sotto in Altre biblioteche, Lisbona, Bibl. Nac. cod. 10991] e dei lais di Vat. lat. 7182. Contiene un lungo elenco di sicilianismi tolti da Petrarca: Colocci vuole dimostrare che quella di Petrarca «è una lingua mista [ma] è [diventata] comune a tutta l’Italia» (A: 247)./ 1Bologna: A f. 329r si legge, in uno degli elenchi bibliografici colocciani, fuso con appunti messi insieme per altre finalità di studio, «L(ibr)o francese ha la(m)pridio i(n) venetia»: una lettera datata 31 dicembre 1526 (contenuta in Vat. lat. 4104, f. 81: vd.) permette di fissare in questa data un terminus ante quem per questo elenco. Ai ff. 316r318r è conservata la tavola del cosiddetto Libro Reale. Ai ff. 329r-v: spogli tematico-bibliografici. Ai ff. 308 e sgg: tavola del cod. 4823 in cui si rispecchiano tutte le integrazioni che il nucleo derivato da Vat. lat. 3793 subì (vd. Vat. lat. 4823). A: f. 323r si trova una tavola alfabetica delle sole canzoni di un codice designato in un primo tempo Selvaggio, quindi, dopo cassatura, Guido Guinicelli. Il codice doveva essere affine al codice Mezzabarba (Marc. IX. It. 191), secondo le osservazioni già svolte da M. BARBI (Studi sul Canzoniere di Dante, con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze 1915, pp. 378-383)./ 2Bologna: A f. 329r in un elenco di libri si legge «libri di Pontano»./ 3Bologna: Ai ff. 114r-255r: spogli lessicali e appunti di mano di copista, ma con integrazioni colocciane e con richiami in cifre arabiche a Vat. lat. 4823; questa sezione è titolata SICULI. Ai ff. 348r-351v si trovano altri lemmi sotto la titolazione Sicul o SICULO, di mano di Colocci e biffati, forse al momento di una trascrizione in altra sede; anche questi hanno rimandi a Vat. lat. 4823. Come accennato, ai ff. 308r-314r, si trova l’indice topografico di Vat. lat. 4823 comprensivo delle integrazioni colocciane rispetto a Vat. lat. 3793, ma, ad esclusione della sezione dei sonetti e del f. 305, di mano di Colocci. De Nolhac: 126. 312. 394/ L: 33. 36/ FU: nn 167. 168. 173/ R: 159/ A: 199. (202) 247/ 1Bologna: 547. 550. 551n. 552. 568. 579/ 2Bologna: 374n/ 3Bologna: 112-114. 121 (3225?): Virgilio Vaticano. Appartenuto a Pietro Bembo, che lo acquistò forse dal Pontano (morto nel 1503) tramite suo padre Bernardo. Il codice fu studiato da Fabio Calvo, Fra Giocondo e Raffaello. Bologna suggerisce che Colocci lo possa aver posseduto: certamente lo conobbe. 2Bologna: 383. 390 3257: ORAZIO, opere. Il più ragguardevole dei testi antichi che portano la marca di possesso «A. Colotij», il nr. 9 dei mss. lat. di Inv4 («Horatio con Acrone, più antico di quello della Vaticana, che fù del Colotio, ligato in corame lionato, in foglio»). De Nolhac lo dice un Orazio dell’XI secolo con il commento di Acrone nei margini; costituito di 120 ff. in pergamena; comincia con il carmen I, XVII, 17 e finisce con l’Epistula II, II, 106./ L: ORAZIO, manoscritto del X secolo, passato a Fulvio Orsini. De Nolhac: 126. 250. 359/ L: 20. 35 3309: VARRONE, De lingua latina; PORFIRIONE, Commentum in Horatium. Si tratta del nr. 131 dei mss. lat. di Inv4 («Varrone de lingua latina et Porphyrione sopra Horatio, fu del

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Colotio, in corame bianco»). Il codice è una copia moderna fatta, a quanto pare, per Colocci. Costituito da 122 ff. cartacei, è vergato da tre mani diverse: 1) da f. 1 Varrone, De lingua latina; 2) da f. 62, Porfirione; 3) da f. 114, una traduzione dal greco e l’inizio di un’altra con dedica a Colocci. Il foglio di guardia in pergamena che reca l’ex libris «174, A. Colotij et amicorum» contiene anche un testo latino del XIV secolo sulle malattie degli occhi./ (L)/ R: «M. Varronis de lingua latina; Phorphyrionis commentum in Horatium; Epistole tres anonimi». Entrato alla Vaticana nel 1600 con la bibl. di Fulvio Orsini. Rare le postille di Colocci. Avvolto da foglio di guardia memebranaceo, ora capovolto (che faceva parte di opera di medicina), su cui Colocci scrisse «74. A. Colotii et amicorum – 171» (notazione frequente nei suoi codici)./ De Nolhac: 126. 250. 369/ L: 36/ R: 57/ 3351?: Raccolta di poesie: «Cahier de brouillons poètiques» di COLOCCI e altri, inframmezzati da annotazioni e date. Una parte deve essere di mano di BASILIO ZANCHI. Vi si leggono gli epigrammi contro i Borgia e la maggior parte dei versi composti in occasione del ritrovamento del Laocoonte sotto Giulio II, alcuni distici sulla morte di Raffaello ecc. Fu utilizzato dal Lancellotti ed andrebbe consultato per SADOLETO (ff. 37 e 129v), BEMBO (ff. 70, 129v), LORENZO CRASSO e altri (è il ms. lat. 113 dell. Inv4: «Epigrammi di varij auctori, scritti di mano di Basilio Zanco»)./ L: Raccolta di poesie (spec.) di Colocci e brogliacci. Passato a Fulvio Orsini./ FU: Contiene anche: versi di CARITEO e TEBALDEO (f. 154v), FILIPPO BEROALDO (f. 147v), BALDESAR CASTIGLIONE (ff. 144, 159v-162), GILIO GREGORIO GIRALDI (amico di Celio Calcagnini, Tebaldeo e di Colocci dagli anni napoletani; f. 158v), GIACOMO SADOLETO (f. 145), TOMMASO INGHIRAMI DA VOLTERRA (detto Phaedrus; f. 148), FAUSTO MADDALENI (un epigramma diretto a Camillo Porcari, detto Porzio, a f. 75). Il codice è di mano di Fausto Evangelista MADDALENI Capodiferro (l’appartenenza di questo codice a Colocci è solo probabile: vd. nota 113). De Nolhac: 126. 254. 367/ L: 25-26. 36/ FU: nn 20. 72. 108. 113. 117. 121. 137 3352: Raccolta di Epigrammi. Ms. di 320 ff., cartaceo, di mano di scriba accurato ed elegante. Enorme collezione – eseguita sotto il controllo di Colocci – di epigrammi metodicamente raggruppati sotto diversi titoli in ordine alfabetico. Gli epitaffi metrici cominciano a f. 153: Colocci ne inserisce molti che dice aver letto su tombe antiche. Tra i poeti moderni sono presenti POLIZIANO, BEMBO, CALENZIO, F. STROZZI, PIETRO GRAVINA, TEBALDEO, MARULLO, uno Ianus (il LASCARIS) e un Manilius Cabacius Rallus Spartanus (RHALLÈS CABACÈS). Il 3352 è il ms. lat. 78 di Inv4 («Epigrammi latini antichi et moderni, raccolti dal Colotio, in cartone»). Il Lancellotti (Poesie di Monsignor Angelo Colocci, Jesi 1772), pubblicando alcuni versi latini di Tebaldeo a Colocci, indica i versi inediti del primo che si trovano in questo e nel seguente ms./ L: Gli epigrammi sono classificati metodicamente sotto diverse rubriche, per argomento; comprende sia poeti moderni che antichi (è tutt’uno con i Vatt. latt. 3353 e 2834). Passato a Fulvio Orsini./ FU: Contiene versi di: EGIDIO GALLO (f. 9), TEBALDEO (ff. 21-24, 55, 85, 122, 124, 126, 128, 130-132, 137, 162, 266, 283), FILIPPO BEROALDO (ff. 25-26, 114, 273, 279, 310), BEMBO (f. 37), CASTIGLIONE (f. 127), ANDREA NAVAGERO (f. 280), PAOLO EMILIO BOCCABELLA (f. 143). Fanelli afferma che questo codice costituisce un unico epigrammatario con 3353 – che ne sarebbe la prima stesura – e Ottobon. lat. 2860. Contiene a f. 282 la composizione colocciana De hedera quercum annosam complectente trascritta da Ubaldini in appendice alla redazione latina della sua Vita./ A: Consta di 220 ff. (ma la numerazione ha alcuni scarti ed evidenti lacune, perché giunge fino a 320). Gli epigrammi sono rubricati in classi, tuttavia diverse da quelle di 3353 («Aenigmata, Amatoria, Arguta, Blanditiae, Casus Antiqui, Casus vel Historia, Fortitudo, Fatum, Genialia, Gratitudo, Gratulatio, Hortatio ad pacem, Ingrata, Invitatio, Ironia, Ithopia»; vd. A: 232). Il codice è titolato dall’Orsini «Epigrammi latini antichi, et moderni, raccolti dal Colotio-Ful. Urs.».

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Questo cod. sembrerebbe costituire la prima parte di una raccolta il cui completamento si ha solo nell’Ottob. (le sue rubriche infatti vanno da A a I). De Nolhac: 126. 255. 257. 364/ L: 25. 26. 36/ FU: nn 20?. 33. 72. 113. 120. 121. 125. 130. 175. 181/ A: 231. 232. 233. 271 3353: Raccolta miscellanea, spec. di epigrammi. Ms. di 382 ff. cartaceo. Continua in qualche modo il ms. precedente e ne riproduce alcune parti, ma con minori ordine e cura. A f. 143 inizia una serie di frammenti antichi di geografia, astronomia, meccanica, topografia romana ecc., raccolti da Colocci e carichi di annotazioni di sua mano. A f. 143, infatti, si trova il trattato moderno di geografia che inizia «Elementorum situs...» e che si legge anche in Vat. lat. 3436 (ff. 71-92). Qui c’è un rimando ad una seconda copia dell’opera. Tra gli altri si trova il De mundo di APULEIO ricopiato dall’Aldina dell’opera. Tra i poeti moderni sono presenti POLIZIANO, BEMBO, CALENZIO, F. STROZZI, PIETRO GRAVINA, TEBALDEO, MARULLO, uno Ianus (il LASCARIS) e un Manilius Cabacius Rallus Spartanus (RHALLÈS CABACÈS). Il 3353 è il ms. lat. 37 di Inv4 («Epigrammi latini antichi et moderni, raccolti dal Colotio. Nel med.mo libro sono varie cose di geographia, geometria, et astrologia et mechanice, tocco dal Colotio, in cipresso et coperto di corame rosso»). Il Lancellotti (Poesie di Monsignor Angelo Colocci), pubblicando alcuni versi latini di Tebaldeo a Colocci, indica i versi inediti del primo che si trovano in questo e nel precedente ms./ L: [si vedano anche Vatt. latt. 3352 e 2834] Raccolta di Epigrammi, classificati metodicamente sotto diverse rubriche, per argomento; comprende sia poeti moderni che antichi./ FU: Prima stesura dei codd. citati nella voce precedente (vd. nt. 175). Contiene versi di: BENEDETTO CINGULO (f. 168), SANNAZZARO (ff. 169-175), BATTISTA CASALI (ff. 4 e 105), TEBALDEO (ff. 9-14, 23, 25, 27-29, 33, 35, 47-50, 53, 55-56, 61-63, 6679, 87, 89, 93, 97, 99, 100, 109-114, 121-125, 127-133, 135-148, 181-185, 191, 199-210, 212, 215, 219, 225, 242-249, 252, 258), FILIPPO BEROALDO (f. 36), BLOSIO PALLADIO (f. 179), PAOLO E. BOCCABELLA (f. 149). Versi anonimi, ma attribuiti a COLOCCI dal Lancellotti, sull’Acqua Vergine (ff. 109-110; quello di f. 148v è forse di Tebaldeo, vd. Vat. lat. 2835), riportati da Ubaldini, come quelli di COLOCCI di ff. 136r e 144r. A ff. 113-114 e 209- 210, sono versi di TEBALDEO indirizzati a Pietro Corsi da Carpineto. A f. 13 contiene la composizione di Colocci De puella catulum lavante trascritta da Ubaldini in appendice alla redazione latina della sua Vita./ R: Questa miscellanea, giunta alla Vaticana con i libri di Fulvio Orsini, contiene per lo più Epigrammi divisi per argomento, più numerose operette e brani di geografia, di astronomia e di geometria. Da f. 307 contiene il De rebus bellicis di un autore latino anonimo della decadenza: il testo sembra apparentabile a quello esistente a Trento, presso la soprintendenza ai Monumenti (già cod. Vindobonensis lat. 3103)./ A: Inoltre contiene: I parte: Raccolta di epigrammi; De situ elementorum (ff. 268-289r; collocabile intorno al 1501 [vd. TATEO in A: 135-140]; Tateo ventila la proposta di attribuire al PONTANO l’operetta: [A: 150-151]) e De quadrante (ff. 290-297; [vd. TATEO in A: 140 sg.]). II parte: APULEIO, De mundo (ff. 331r-333); Situs et descriptio orbis terrarum (ff. 336-348); De mensura orbis terrae (ff. 349-369) e scritti di agrimensura e geometria. Questo è il più caotico dei tre Epigrammatari (Vat. lat. 3352 e Ottob. lat. 2860) appartenuti a Colocci, in esso si ritrova anche la mano dell’umanista. Consta di 267 ff. Gli epigrammi sono raccolti sotto varie rubriche («Amatoria, Arguta, Experientia, Casus vel Historia, Dedicatoria, Tumuli antiqui, Epitaphia, Fatu, Fortuna Fortitudo, Fructus, Gratitudo, Irrisio, Iudicium, Laudatio, Maledicta, Moralia, Monitoria, Munera, Oscena, Pastoralia, Pictura, Postulationes, Preces, Vitio, Virtus, Vota»; vd. A: 232). Si è spesso pensato che questo cod. fosse fonte degli altri due, ma la scarsità degli epigrammi comuni tra i tre lo fa dubitare fortemente (A: 233). Ai ff. 13, 56, 59, 60, 61, 62, 63, 82, 127, 140, 146 sono gli epigrammi per i cagnolini (vd. FAVA in A: 231-243).

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De Nolhac: 126. 252n. 255. 257. 361/ L: 22. 25-26. 36/ FU: nn 20. 45. 66. 67. 68. 69. 70. 72. 79. 83. 108. 113. 130. 175. 181/ R: 87-88/ A: 133. 231. 232. 233. 235. 236-242. 271 3367: ELISIO CALENZIO, raccolta frammentaria di poesie. Contiene due poesie di Calenzio inviate da suo figlio Lucio a Colocci perché le correggesse e le facesse pubblicare. La richiesta originale (si trova in capo al ms.) e il testamento del Calenzio sono allegati al volume, che doveva essere assai più completo a guardare la tavola posta in capo (di mano di Colocci). Mancano, in particolare i tre libri di elegie dedicate a Colocci stesso. L’edizione apparsa in Roma a cura di Colocci nel 1503 presenta molte più poesie. I versi del Calenzio sono rifatti da Colocci in numerosi punti con una libertà che oggi lascia stupiti (il cod. è il ms. lat. 224 dell’Inv4: «Calentio di varie poesie, scritto di mano sua, in papiro, in 4°, coperto di seta»)./ L: Il codice costituisce un frammento di una raccolta più consistente di poesie del Calenzio, formata da due suoi poemi inviati dal figlio del poeta a Colocci che ne curava l’edizione nel 1503. Passata a Fulvio Orsini./ FU: Contiene versi di Elisio Calenzio (come Vatt. latt. 2833 e 3909) e un suo bizzarro testamento in forma di lettera indirizzato a Colocci./ A: A f. IIIv compare l’abbozzo del frontespizio per l’edizione degli Opuscola Elisii Calenti editi da Colocci nel 1503. Al f. Ir-v, si legge l’originale autografo della dedica di Lucio Calenzio a Colocci. A f. 40r c’è la minuta autografa di un’epistola di Calenzio rimasta inedita. Ai ff. 2r-20v c’è De bello ranarum Croacum di Calenzio, minuta autografa, seguita, a f. 24v, da una serie di emendanda. Ai ff. 25r-38r c’è la minuta autografa di Hectoris libellus horrenda apparitio di Calenzio. Tutti questi autografi furono impiegati per l’edizione di Besicken (1503) delle opere di Calenzio. De Nolhac: 127. 256. 376/ L: 24. 36/ FU: n20/ A: 265. 267. 268 3388 (z.): Zibaldone poetico colocciano. Ms. di 329 ff. cartacei. In capo reca la marca di possesso «Colotius»; sotto Orsini ha aggiunto la scritta «raccolta di varie cose fatte dal Colotio in diversi fogli messi insieme dal card.le Sta Croce che fu poi Papa Marcello» poi cassata (questa è la dicitura del ms. lat. 292 di Inv4). Orsini l’ha poi corretta in «poesie del Colotio». Simile al 3351. In mezzo ai versi di Colocci ne figurano anche altri In hortulos Colotianos e ad fontem A. Colotii. Ve ne sono anche di quelli relativi al Goritz. A f. 122: «pro R.mo card. P. Bembo ad Paulum III P. M. ab Hieronimo Tastio»: versi latini del 1547 firmati dall’autore (G. TASTI) e inviati al Colocci. A f. 194: «Pro Lascari». A f. 200: epitaffio di G. LASCARIS per Molza. (3388 è il ms. lat. 60 di Inv4: «Poesie del Colotio, in dui volumi, uno in-4° et l’altro in foglio, di mano sua»)./ L: Comprende numerose poesie di COLOCCI. Passato a Fulvio Orsini/ FU: Molte pagine hanno doppia o tripla numerazione (vd. nota 22). Contiene versi di: GIROLAMO CARBONE (f. 73), BENEDETTO CINGULO (ff. 13-14), SANNAZZARO (ff. 262 e 265v), VOPISCO (f. 199v, riportati da Ubaldini – In hortulos colotianos – [ma Fanelli li dice in greco a nota 20]), COLOCCI stesso (f. 78: componimento sul ritorno a Roma cit. da Ubaldini; gli epigrammi contro Adriano VI, ff. 76 e 289; in saluto di Clemente VII, f. 189; sull’Acqua Vergine, ff. 106r e 310v; f. 194: epitaffio in morte dell’amico Giovanni Lascaris; encomio di Paolo III, ff. 107 e 311), SCIPIONE CARTEROMACO (f. 35), BATTISTA CASALI (f. 199r, riportato da Ubaldini), F. M. MOLZA (ff. 200-264), M. A. CASANOVA (ff. 195, 199, 262 e sgg., 266 e sgg), TEBALDEO (f. 267), GIROLAMO TASTI (f. 122r, cit. da Ubaldini), GIACOMO SADOLETO (ff. 26-30), BLOSIO PALLADIO (f. 103, versi ripetuti da Vat. lat. 3353), TOMMASO INGHIRAMI da Volterra, detto Phaedrus (ff. 53 e 68), ANDREA NAVAGERO (ff. 123 sgg., 264v, 266, 267), LAZZARO BONAMICO (f. 3), FRANCESCO BELLINI (di Staffolo o di Sacile? F. 4, vd. nt. 166)./ R: Contiene Epigrammi – tra gli altri, otto contro Adriano VI –: da qui attinse il Lancellotti per la sua edizione delle poesie latine e italiane di Colocci del 1772. A f. 122 si trova l’epitafio composto da GIROLAMO TASTI in morte di Bembo e inviato a Paolo III

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(che Lancellotti pubblica)./ A: Consultato da Lancellotti per la sua edizione delle poesie di Colocci. De Nolhac: 127. 254. 363/ L: 25-26. 36/ FU: nn 20. 22. 32. 41. 42. 45. 71. 74. 81. 86. 90. 108. 113. 117. 125. 146. 153. 166. 167/ R: 34. 40. 145/ A: 235 3389: TEBALDEO, raccolta autografa di poesie. Presenta numerose e pesanti correzioni di mano di Colocci. Il ms. si compone di 100 ff. cartacei. Al f. 3 si legge: «Antonii Thebaldei liber ad Timoteum Bendedeum Philosophum amicum optimum». Sul primo e sull’ultimo foglio vi sono componimenti isolati ma autografi come il resto: a Guido duca d’Urbino, a Francesco Gonzaga, a Isabella d’Este ecc. Oltre alla mano di Colocci nelle correzioni di questo autografo si vede quella di Bembo: i due umanisti fecero fare una doppia copia della loro redazione per consegnarla alle stampe, ma il fratello del Tebaldeo, che doveva farla stampare a Venezia, non agì, come sembra, secondo le indicazioni dei due editori. Queste informazioni sono tratte dal f. 59 di Vat. lat. 4104 (lettera di Colocci a messer Endimio; vd.). Il cod. è il ms. lat. 61 di Inv4 («Poesie del Thebaldeo, di mano sua, senza coperta»)./ L: TEBALDEO, poesie autografe, con segni di revisione da parte di Colocci (vd. Vat. lat. 2835) che sembrano mostrare il progetto di una edizione (mai apparsa); cod. poi passato a Fulvio Orsini./ (FU) De Nolhac: 127. 257. 363/ L: 24. 36/ FU: n72 3390: CATONE, De re rustica incompleto. Reca l’ex libris «A. Colotij et amicorum» senza numero. È il ms. lat. 97 di Inv4 «Catone, de re rustica, coperto di cartone». Costituito di 38 ff. cartacei, del XV secolo./ L: Passato a Fulvio Orsini. De Nolhac: 127. 250. 366/ L: 36 3404: NICCOLÒ GIUDECO, Introductio Nicolai Iudaeci ad libros Aristotelis de syllogismo. Ms. cartaceo di 26 ff. A f. 1 epistola dedicatoria a Colocci; f. 2: titolo (vd. supra). È il ms. lat. 69 di Inv4: «Nicolao Iudaeco ad libros Aristotelis, con l’epistola al Colotio, coperto di cartone»./ L: Passato a Fulvio Orsini. De Nolhac: 127. 251. 364/ L: 36 3410: LUCIANO, Macrobii, tradotti da FABIO VIGILE (vescovo di Spoleto) autografo. È il ms. lat. 126 dell’Inv4: «Luciani liber de Macrobiis, translatus a Fabio Vigile libro originale di mano d’esso Fabio, coperto di corame rosso». Cartaceo; al f. 6: «Luciani Samosatensis Macrobii, Fabio Vigili interprete, ad Rmum cardinalem S.ti Georgii» (è il card. Raffaele Riario). Sul foglio di guardia due versi di un proprietario: «Gioan Paulo de Turre son ciamato/ Mel renda in cortesia chi l’a trovato». Due fogli non rilegati sono uniti a questo curioso libretto: un biglietto originale di Colocci a Vigile e la risposta di quest’ultimo che dice che nelle iscrizioni lo stesso segno può significare Centurio o Caia e si rammarica di non aver fatto una ricerca in Bonifacio VIII; il secondo foglietto è una lunga lettera italiana originale assai interessante di Vigile a Colocci./ L: LUCIANO, Macrobii. Passato a Fulvio Orsini. De Nolhac: 127. 253. 368/ L: 36 3424: ERMOLAO BARABARO, opuscola. Ms. cartaceo di 18 ff. con copertina di cartone e seta rosa. Contiene i nrr. 225 e 289 dell’Inv4 («Hermolao Barbaro, un libretto scritto a Iacomo Antiquario contra il Cornucopia del Sypontino, in papiro, in 4°, coperto di seta» e «Un libro della Sybilla Erithrea, tradotto di greco in latino, in papiro, in-4°, coperto di seta»). Uno (ff. 1-6; ff. 7-9 sono bianchi) è una copia di mano di Colocci dell’opuscolo di Ermolao Barbaro contro la Cornucopia di Niccolò Perotti con titolo «H. Barbarus Jacobo Antiquario suo S.», del 1489. Al f. 10r dopo 5 righe di scrittura c’è la notazione «Ditis cretensis de bello troianorum efemerides finit» [cfr. Vat. lat. 2957]. Al f. 10v: «Extracta de libro, qui dicitur Vasilographia id est imperialis scriptura, quem Erythea Babilonica ad petitionem Graecorum tempore Priami regis edidit, quem de Caldeo sermone Dothapater peritissimus in graecum transtulit tandem de aerario Hemmanuelis imp. deductum Eugenii regis Siciliae admiratus de graeco transtulit in latinum». L’opera inizia «exquiritis me, o illustrissima turba Danaum» e termina «comperta in calce Bibliae ve-

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tustissimae quae Romae apud S. Petrum in reliquiis habetur, quippe quam affirmant scriptam manu sanctissimi maximique Hieronimi». Il ms. è del XV-XVI secolo./ L: ERMOLAO BARBARO. Passato a Fulvio Orsini. De Nolhac: 127. 251. 376. 380/ L: 36 3436: Raccolta miscellanea. Codice risultante dall’aggregazione di diversi item che compaiono ancora distinti in Inv4. Eccone l’elenco secondo la ricostruzione del De Nolhac. Item 1: ANTONIO DA TEMPO, Ars rythmica [composto nel 1332], si trova ai ff. 1-15 del ms. cartaceo (il trattato è la prima opera contenuta in Vat. lat. 3436 e corrisponde al ms. lat. 122 di Inv4: «Antonij civis patavini summa artis rythmicae, libro scritto di 30 fa [sic], tocco dal Colotio») con la notazione «Incipit summa artis rithmice composita ab Antonio da Tempo cive paduano anno Dni millo ccco trigesimo secundo indictione quarta decima». G. GRION [Delle rime volgari trattato di Antonio da Tempo giudice padovano, Bologna 1869, p. 14] lo dice scritto per Bembo, ma la mano dei titoli e delle sottolineature è inconfondibilmente quella di Colocci. Item 2: – ff. 16-20 – De manibus ex libro Meletii de structura hominis: frammento di MELEZIO annotato da Colocci (ms. lat. 244 di Inv4: «Meletio de structura hominis, tocco dal Colotio»). Item 3: – ff. 22-55 – Minute di discorsi latini pronunciati da PIETRO ALCIONIO in occasioni ufficiali sotto Clemente VII: f. 23: Petri Alcioni pro S.P.Q.R. oratio de Rep. reddenda atque custodia liberando Clemente VII Pont. Max. ad Carolum Caes. designatum; f. 35: a Clemente VII sul sacco di Roma; f. 42: P. Alcyonii oratio pro S.P.Q.R. ad Pompeium Colonnam de Urbe servata; al f. 22 Colocci ha scritto una nota che interessa gli studi provenzali nel XVI secolo: «Memorie. Bartholomeo Casassaggia. se vive in Napoli che tradusse Lemosini» (ms. lat. 275 di Inv4: «Alcune orationi di Pietro Alcyonio, in 4 quinterni, in papiro, in foglio»). Item 4: – ff. 56-59 – quadernetto contenente il racconto in prosa di un’avventura contemporanea in cui Pietro Corsi gioca il ruolo principale; il racconto ha la forma di una lettera indirizzata a Marc’Antonio Colocci dalla Ninfa dell’Acqua Vergine (è il ms. lat. 276 di Inv4: «Una epistola scritta in nome dell’Acqua Vergine a Marc’Antonio Colotio, in papiro, in foglio»). Item 5: – ff. 61-69 – memoria della guerra intercorsa tra Sigismondo di Polonia e il gran duca di Russia Basilio, firmata BERNARDUS VAPOVICIUS de Radochonijczo canonicus Cracoviensis (inc.: «scripturus de bello quod gestum est inter Sigismundum...»; ms. lat. 277 di Inv4: «Bernardo Vapovisio canonico cracoviense de bello Voscomitarum [sic] sontra Polonos»). Item 6: – ff. 71-92 – trattato moderno di geografia che inizia «Elementorum situs...». Questo libro si trova anche a f. 143 di Vat. lat. 3353, dove Colocci indica di possederne una seconda copia (il presente è il ms. lat. 279 dell’Inv4: «Libro intitolato Situ Elementorum, in papiro in foglio, et tocco dal Colotio»). Item 7: – ff. 101-109 – Discorso di PIETRO CORSI da Carpineto al Cardinal Ridolfi (Inv4 parla a torto di un discorso indirizzato a Colocci: è il ms. lat. 280 «Oratione di Pietro Curtio scritta al Colotio, in papiro in foglio, et con l’emendationi del suddetto Curtio»). Item 8: – ff. 110-127 – Testo scritto da un segretario e assai corretto dalla mano di Pietro Corsi, indirizzato a Lodovico Beccadelli in seguito ad una convito presso il card. Contarini con Beccadelli medesimo, Danès e altri personaggi (inc.: «in eo igitur ut scis convivio, quod forte de Aristotelis et Plinii voluminibus, quae de animalibus scripserunt, sermo incidit...»; ms. lat. 281 di Inv4: «Oratione del med.mo scritta à Ludovico Beccadello, in papiro, in foglio et coll’emendationi del suddetto Curtio»). Item 9: – ff. 128-147 – Commentario anonimo sul primo libro della Historia Naturalis di Plinio (inc.: «de vita Plinii multa habentur in epistola...»; ms. lat. 282 di Inv4: «Commento de innominato autore sopra il primo libro di Plinio, in papiro, in foglio, et tocco dal Colotio»). Item 10: – ff. 150-168 – De mirabilibus civitatis Puteolorum et locorum vicinorum ac de nominibus et virtutibus balneorum. Del XV sec. Il primo foglietto contiene una tavola in italiano e in latino. L’autore cita gli storici classici, Virgilio e «Eustasius de balneis». De Nolhac consiglia un confronto con lo stampato Ottobon. 2110, De

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balneis puteoli del XV sec. (ms. lat. 283 dell’Inv4: «Libro d’incerto autore de mirabilibus civitatis Puteolorum, in papiro in foglio»). Item 11: – ff. 169-175 – i Sinonimi, sotto il nome di CICERONE. (ms. del XV secolo nonostante la diversa affermazione di Inv4: – ms. lat. 284 – che lo definisce «Synonimi di Cicerone, scritti di lettera vecchia, in papiro in foglio»). Item 12: – ff. 177-189 – Copia delle lettere (stampate ad Ingolstadt) scambiate tra SADOLETO e JEAN STURM nel 1539 (ms. lat. 286 di Inv4: «Epistola del Sadoleto a Gio. Sturmio et resposta sua al Sadoleto, in papiro in foglio»). Item 13: – ff. 191-241 – NICEPHORI geographia annotata da Colocci (ms. lat. 287 dell’Inv4: «Nicephori, geographica senza principio, tocco dal Colotio, in papiro in foglio»). Item 14: – ff. 243-252 – trattato di numismatica scritto sotto Alessandro VI (verso il 1500) da un anonimo che si dichiara allievo di Leto e che menziona particolari curiosi della storia del XV secolo (ms. lat. 293 di Inv4: «Un quinterno sopra le monete antiche romane et pesi, scritto di mano dell’autore, che mostra esser stato scolaro di Pomponio Laeto, in foglio et senza coperta»). Item 15: – ff. 253-257 – trattato di numismatica di mano di Colocci (ms. lat. nr. 294 di Inv4 «Un’altro quinterno de re nummaria, in papiro in foglio et senza coperta»). Item 16: – ff. 263-269 – contiene l’inventario dei libri di Pico della Mirandola (è il ms. lat. 295 di Inv4: «Indice de libri del Pico della Mirandola, scritto di mano d’huomo dotto, in papiro, in foglio, coperto di carta pecora») con titolo «Inventarium librorum Io. Pici Mirandulae»./ Debenedetti: Colocci lesse la Summa artis rithmici vulgaris dictaminis di Antonio da Tempo in questo ms. creduto di mano di Petrarca dall’Orsini [rimanda a De Nolhac p. 418]. Il GRION (Trattato delle Rime volgari cit., p. 14) lo ritenne eseguito per il Bembo, ma tolto il primo foglio supplito nel ’500, il resto del ms. è del XIV secolo./ L: Miscellanea: Ierone il tiranno e Memorabilia di SENOFONTE tradotte in latino. Passato a Fulvio Orsini./ FU: A f. 22 c’è un appunto sulle traduzioni dal provenzale di Casassagia: «Memorie/ bartholomeo casassagia/ se vive in napoli che/ tradusse lemosini». A ff. 56-61 c’è la lettera che Pietro Corsi (cfr. Vat. lat. 3353 e 3441) scrisse, con lo pseudonimo di «ninfa dell’Acqua Vergine», a Marcantonio Colocci, sulla lite avuta con F. M. Molza./ R: Contiene una redazione (copia di quella contenuta in Vat. lat. 5395) della dissertazione di Giacomo Aurelio QUESTENBERG De sestercio, dedicata ad Episcopum Wormaciensem; un commento Anonimo al primo libro delle Naturales Historiae di Plinio./ A: Contiene (ff. 1r-15r) il De rithmis vulgaribus di Antonio da Tempo: è sottolineato e postillato da Colocci (A: 117). De Nolhac: 127. 251-254. 256. 379-381/ Debenedetti: 182n/ L: 17. 36/ FU: nn 20. 108/ R: 58. 66/ A: 117 3441: Raccolta Miscellanea. Come la precedente è costituita da diversi item distinti in Inv4 e identificati da De Nolhac [si confronti la tabella di De Nolhac p. 127 con la trascrizione di Inv4 alle pp. 333-396. Si dà qui di seguito conto del contenuto dell’intero ms. risultato dall’aggregazione tarda – dopo Orsini – di materiali probabilmente irrelati. Non è dunque possibile sulla base della sola bibliografia consultata stabilire, se non in sporadici casi, quali di questi item siano passati per le mani di Colocci]. Codice cartaceo. Item 1: – ff. 2-8 – ERODOTO, Vita di Omero, tradotta da PELLEGRINO DA FIRENZE (il primo foglio porta infatti l’intestazione «Peregrinus cognomento Allius Florentinus transtulit»), trascritta per mano di Pomponio Leto, con estratti di Cicerone, Poggio e di altre traduzioni del greco; in Inv4 si trova al nr. 121 dei mss. lat.: «Erodoto della vita d’Homero, tradotta da Peregrino Fiorentino, di mano di Pomponio Leto» [non è esplicita l’appartenenza a Colocci di questo item]. Item 2: – ff. 12-31 – è il ms. lat. 288 di Inv4, «DIONYSIO LONGINO de altitudine et granditate orationis, in papiro in-4°» (inc.: «Caecilii quidem commentariolum...»). Item 3: – ff. 32-61 – è il ms. lat. 267 di Inv4: «PIETRO CIACONO de ponderibus et mensuris, scrito di mano sua in papiro, in foglio et senza coperta», a f. 32 c’è il De mensuris e a f. 48 inizia il De ponderibus. Item 4: – ff.

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62-95: con numerazione isolata – è il ms. lat. 264 di Inv4: «Le glosse di PLACIDO grammatico, in papiro in-4° et senza coperta». [Item 6 – ff. 97-109 – è di mano di Orsini che vi ha ricopiato frammenti di ACCIO e LIVIO ANDRONICO (De Nolhac: 169): è il ms. lat. 268 di Inv4: «Un libro di fragmenti delle tragedie di Actio et di Livio Andronico, raccolte da Antonio agustini, in papiro in 4° et senza coperta»]. Item 7: – ff. 120-134 – traduzioni dell’Axiochus di PLATONE (con dedica: «Rmo in Christo Domino A. Dei gratia episcopus Cavensis Rinutius») e del Principe (con dedica a f. 128v: «R.mmo in Christo patri Gabrieli tituli S. Clementis presb. cardinali Senensi Rinutius servorum minimis») di PLUTARCO fatte da un vescovo di La Cava e datate 1517. Il ms. porta la scrittura di Colocci (è il ms. lat. 269 di Inv4: «Un libro in-4° dell’Axiocho di Platone et di plutarco Quid principem deceat, in papiro in-4° et senza coperta»). Item 8: – ff. 135-144 – trattato di geometria: Quae figuare sub dimensionem cadant et mensurarum species (inc.: «Figurarum nomina quae sub dim. cadunt sunt triangula...»; è il ms. lat. 270 di Inv4., «Un quinterno del Portio de mensuris, in papiro in-4° et senza coperta») [cfr. R. I. IV. 2139]. Item 9: – ff. 145-156 – ms. lat. 271 di Inv4 del XVI sec. «Quinterno intitolato prognostica rei rusticae, in 4°». Item 10: – ff. 157-166 – ms. lat. 272 di Inv4: «Un quinterno di Omnibono Vicentino de re metrica, in-4° et senza coperta» (inc.: «Pes in metro dicitur...»), si tratterà dell’opera di di OGNIBENE DA LONIGO. Item 11 (è il ms. lat. 273 di Inv4: «Alcune egloghe di pietro Curtio, et altri versi d’altri poeti moderni, sciolto in più quinterni, et fogli in-4°»): tre egloghe di PIETRO CORSI recitate a Roma davanti a Giulio II. La prima si trova ai ff. 167-177 e porta la sottoscrizione «Petrus Cursius Carpinetanus canonicus Tarracinensis opinione Peripateticus». Questa egloga è allo stato di abbozzo ed accompagnata da musica; fu recitata il giorno dell’Assunzione del 1509 a S. Maria Maggiore da sei giovani nipoti del papa e dalla loro sorella, tutti figli di Bartolomeo della Rovere. La seconda e la terza si trovano ai ff. 193-204: la copia contenente queste ultime due egloghe appartenne a Giambattista Casali (portano in capo, infatti, la annotazione «Casalij» e su f. 103 si leggono le iniziali «Io. B. C.»; per la data della terza si legge un’annotazione a f. 167), altro poeta contemporaneo assai legato a Colocci. Di queste ultime due, la prima fu recitata ad Ognissanti nel 1509 e l’altra il giorno di S. Pietro nel 1510. Item 12: – ff. 180-192 – è il ms. lat. 296 di Inv4: «Un libro de poesie et altre cose di Lilio Tifernate greche et latine, in papiro in-4° et senza coperta»: contiene il secondo libro delle poesie di LILIO DA TIFERNO, intitolato «Secundum quodlibetum» (il testo greco e quello latino sono disposti su due pagine affrontate); c’è anche una lettera «Meliorus Crescius et Lilius Tyfernatis domino Aciarolo [Acciajuoli], Florentiae, Xkal. Nov. 1469». Item 13: – ff. 205-222 – scrittura fiorentina del XV sec. Frammenti di traduzioni dal greco di Leonardo Bruni (autografo probabilmente). Contiene traduzione di Hierone di SENOFONTE e l’inizio dei discorsi di DEMOSTENE ad Alessandro. In capo a questo item si trovano, scritte da Orsini, le parole: «Excerptum puto ex libro quae manu sua scripsit Leonardus Aretinus ad L. Vulscium, ut extat apud A. Colotium. nam haec ipsa folia extant ex ipsius librorum reliquiis» (è il ms. lat. 297 dell’Inv4: «Hierone di Zenophonte, tradotto da Leonardo Aretino, et scritto di mano sua, senza principio, in papiro, in-4° et senza coperta»). [Come si può notare dal conteggio mancherebbe l’item 5: credo che la mancanza si debba imputare ad un errore di conteggio del De Nolhac, che avrà forse contato il quinto item appunto come sesto introducendo un elemento di irregolarità nel resto del computo.]/ L: Passato a Fulvio Orsini./ FU: Contiene, tra l’altro, la trascrizione di una parte di un’opera di agrimensura di LEONARDO PORZIO: De sestertio pecuniis ponderibus et mensuris antiquis libri duo, fittamente annotato da Colocci (ff. 135-144 [è l’Item 8?]). A ff. 167-177 sono contenute tre egloghe composte e recitate da PIETRO CORSI nel 1509, assieme ai nipoti del papa, davanti a Giulio II, come spettacolo teatrale. De Nolhac: 127. 171. 196. 202. 252. 256. 261. 269. 378. 379. 381/ L: 36/ FU: nn 53. 108

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3446: «Index in Gellium di mano del Carteromacho» secondo la designazione di Inv4, di cui costituisce il ms. lat. 238, in base all’identificazione che De Nolhac fa a p. 127, ma su cui non ritorna in altro luogo./ R: Avesani dimostra l’ascrivibilità di questo codice alla biblioteca di Colocci [R. AVESANI, Due codici appartenuti ad Angelo Colocci, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata 7 (1974), pp. 379-385]. D Nolhac: 127. 377/ R: 172n 3450 (z.): Raccolta di Facezie (zibaldone colocciano). Il volume fu rilegato sotto Pio VI (17751799). Queste carte furono acquisite da Orsini solo nel 1574, secondo De Nolhac, che a sostegno riporta un brano di una lettera (24 luglio 1574; la si legge nell’Ambrosiano D. 422) di Orsini a G. V. Pinelli: «ho buscato de quà un epigrammatario de versi latini de poeti moderni, la maggior parte non mai stampati, fu ordinato da Angelo Colotio, et ovvi qualche cosa di buono. Item un Clemente Alexandrino, dove i libri del Pedagogo sono tutti schooliati, ma a me pare che le scholie non siano d’huomo molto dotto, sebbene le sono utile per molti luoghi difficili» [ma parrebbe che la lettera possa riferirsi piuttosto ai codd. Vatt. latt. 3352 e 3353]. Il cod. è segnato ms. lat. 291 nell’Inv4 («Facetie raccolte dal Colotio in varie carte, messe insieme di mano sua»)./ L: Contiene anche notazioni di metrica latina medioevale, ricerca unica per quei tempi./ FU: A f. 56 c’è un elenco di nomi di poeti e umanisti (stranamente manca Castiglione: nt. 121), probabilmente appartenenti all’‘accademia’ di Colocci (nt. 54), essi sono: recto: «pontano/ peto fundan./ pardo/ compar./ calentio/ altilio/ falcone/ judaeco/ bembo/ sadolet/ aegidio/ cervino/ thamyra/ iustolo/ clarelio/ g. delfino/ p. vittorio/ m. cavallo/ f. vigile/ pietra s.ta/ buccabella/ f. flavio/ fabritio varano/ tryphon/ hannibal caro/ claudio ptol./ actio/ thamyra/ volterrano/ septempedano/ rhallo/ sumontio/ caserta/ casalio/ casanova/ cartheromaco/ calymacho/ m.sylvio/ g. delfino/ cursio/ buccabella/ p. vectorio/ anysio/ chariteo/ lascari/ falcone/ turrio/ thebaldeo/ mucciarel./ hier.o nigro/ cotta/ correggio/ mannuccio [Aldo Manuzio?]/ pistoia/ pietro/ calmeta/ jo. pugliese/ pomponio/ b. cingulo/ ariosto/ bellino/ giberto/ pietras.cta/ gismondo/ fulignate/ vida/ trissino/ britonio/ marino caraccioli/ bitonto/ motta/ cotta/ alemanni/ p. arret. [verso:] leonic./ franchino/ petro arret.o». Di questo codice parla diffusamente V. CIAN nella sua recensione a De Nolhac [La bibliothèque de F. O. in Giornale Storico della Letteratura italiana 11 (1888), nt. 177)] e lo descrive così: «questo curioso ms. è costituito in gran parte da piccoli foglietti o schede incollate nei fogli, dove si leggono (quando si riesce a leggere) dei motti, delle facezie frammentarie e appena abbozzate, degli appunti varii gittati alla rinfusa e spesso interrotti, scritti tutti dalla mano nervosa e rapida del letterato jesino che, com’è noto, ha sollevato colla sua cachigrafia tante discussioni paleografiche». Ubaldini (p. 101) parla di questa sua raccolta di facezie messe insieme «a emulatione del Poggio Fiorentino»./ R: Codice cartaceo di 105 fogli; (mm 290 × 208; ricevette l’assetto attuale nel XVIII secolo allorché fu rilegato: la rilegatura riporta gli stemmi di Pio VI e del Card. F. S. de Zelada [17791799]. Cfr. A: 222). Ha per titolo «Facetie raccolte dal Colotio in varie carte messe insieme di mano sua. Ful. Urs» (così il titolo sul f. 1r per mano di G. S. Assemani, bibliotecario del XVIII secolo [cfr. A. CAMPANA, Scritture di umanisti, in Rinascimento 1 (1950), p. 228, nt. 1; cit. in A: 221]). Il codice è passato a Fulvio Orsini. Primi 72 fogli bianchi con striscioline incollate con su scritti motti, titoli o brevi testi faceti. Fanelli trascrive quella del protonotaro Agnello (f. 19r). Molte sono relative a Re Alfonso (rivelano origine dall’ambiente Aragonese della corte di Napoli). L’ultima parte è costituita da un pezzo d’altro codice (si vede dalla numerazione): appunti d’argomento letterario e grammaticale./ A: Ai ff. 90r-105r ci sono appunti di metrica biffati, copia di quelli di 4817 [cfr. AVESANI in A: 111]. Questa sezione del ms. (ad eccezione dei ff. 92 e 103) presenta una doppia numerazione: quella più antica va da 149 a 171. Simili irregolarità si trovano anche in 4817, segno che nei due codici, i quali hanno il medesimo formato,

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confluirono in disordine fogli aventi la stessa origine (A: 11-112, nt. 8). [Dallo studio di P. SMIRAGLIA, Le «facetiae» del Colocci, in A: 221-230:] Il codice è il nr. 291 dei «libri latini scritti a penna» di Inv4. È composto di due parti: la seconda è formata da normali fogli scritti di mano di Colocci, la prima di fogli moderni (XVIII sec.) e bianchi su cui si incollarono, per il lembo sinistro o per l’intera lunghezza, le striscioline (indicabili per comodità come schedae) e dei fogli lasciati da Colocci e su cui aveva scritto o racconti interi o semplici titoli o battute salienti. PRIMA PARTE: Le schedae non numerate si trovano ai ff. 1-5; 7-20; 36-41 e 55 e sono per lo più striscioline di carta (per le filigrane vd. nota 14 in A: 223). I fogli, intercalati alle schedae nella prima parte sono distribuiti nei ff. 21-35; 42; 45-51; 53-54; 56. I ff. 6, 43-44, 52 sono antichi e di mano di Colocci come quelli della seconda parte. Ai ff. 50r-51r ci sono facezie che si incontrano già nei fogli 21r-22r: quella di 50-51 è una stesura secondaria e definitiva di quel materiale. Le schedae numerate si trovano nei fogli 57r-68r (la numerazione va da 1 a 109). Ai ff. 68r69r c’è un’altra serie numerica (in tre pagine su due colonne, da 1 a 100): a 20 di questi numeri (1-6; 8-13; 36; 52; 65-70) corrispondono i titoli di altrettante facezie: si tratta dell’abbozzo di un indice-prontuario, segno della volontà di dare un ordine a questo materiale disparato, con la prospettiva di un’eventuale pubblicazione (A: 225). SECONDA PARTE: a partire da f. 73 il cod. è composto di fascioli originali: titoli, appunti promemoria, abbozzi di stesura ora in latino, ora, per brevità, in volgare. Questa parte si compone di tre sezioni ben individuabili: 1) ff. 73r-77v: il testo è disposto in maniera piuttosto disordinata e discontinua, come se si trattasse di appunti fissati a caso, man mano che se ne presentava l’occasione; 2) 78r-81v: molto più ordinata, il testo è su due colonne e vi trovano posto facezie riprodotte nella precedente sezione; 3) 82r-86r: ulteriore fase di riordinamento. Le 26 facezie qui raccolte hanno numerazione continua originale e sono raggruppate sotto il titolo di «Facetie Bern(ardini) Maffei» e sono per lo più brevi apologhi moraleggianti. Le fonti dell’intera raccolta sono molteplici (vd. nt. 23, A: 227). Numerose le storielle che hanno per protagonista un personaggio storico. I ff. 86v89v sono bianchi e i ff. 90r-105r sono occupati da appunti grammaticali e metrici./ (2Bologna rimanda a FU p. 109). De Nolhac: 255. 380/ L: 33/ FU: nn 18. 20. 32. 32. 42. 44. 45. 47. 54. 71. 72. 98. 108. 112. 114. 120. 121. 130. 146. 149. 166. 167. 169. 170. 177, app. 1/ R: 20. 27/ A: 111. 116. 221-230/ (2Bologna. 374n. 376) 3715: Miscellanea (per lo più) geografica. A f. 1r Mercati trova una citazione del Virgilio Mediceo./ FU: Il codice fu richiesto in prestito, tramite biglietto forse inviato al prefetto della Vaticana (trascritto in app. VII di FU), dal giurista e archeologo spagnolo Antonio Agustin, della generazione successiva a quella di Colocci./ R: Contiene – tra l’altro – De rebus bellicis; Notitia Dignitatum: copia con illustrazioni a colori (Fanelli segnala un errore di identificazione dell’operetta che nasce da un fraintendimento di DE NOLHAC (nt. 1, p. 251) su un articolo di C. JULLIAN, [Notes sur un manuscrit de la Notitia Dignitatum, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire 1 (1881), p. 286] perpetuato da Lattès). Colocci appone alcune postille a questo codice. È lacunoso (contiene solo la parte relativa all’Oriente) e non appartenne a Orsini e per questi motivi non è da identificare con quello (di derivazione colocciana) che Fulvio Orsini inviò al Panciroli, nel 1585, che curava l’edizione della Notitia. Colocci possedette dunque un’altra copia dell’opera. C’è una copia dell’opera, della sola parte orientale, compresa nell’inventario dei libri di Orsini, finiti a Napoli con quelli di Odoardo Farnese, ma, se è questa, non si sa come poté far ritorno alla Vaticana [Notizie in P. N. PAGLIARA in Ricerche di storia dell’arte 6 (1977) pp. 77-79]./ 2Bologna: Alle miniature di questo ms. della Notitia Dignitatum si ispirò Fabio Calvo per il suo Antiquae Urbis Romae cum Regionibus Simulachrum (edito nell’aprile del 1527). Mercati: 533/ FU: n 58/ R: 88-90/ 2Bologna: 383 3745: CONSTANTIUS FELICIUS, De coniuratione Catilinae [sic] L: 36

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3793: Canzoniere italiano. De Nolhac non ha ancora gli elementi per ricondurre il ms. alla bibl. di Colocci e si rifà, per le notizie, ad un’edizione D’Ancona-Comparetti del 1875 [il I vol. dell’edizione conclusasi nel 1888] e ad un articolo di M. GRION – in Romanische Studien 1 (1871) – che identifica la mano delle postille con quella di Bembo, anziché quella di Colocci./ Debenedetti rivendica alla mano di Colocci le postille di questo canzoniere [Le postille a questo ms. sono studiate, com’è noto, da S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, ZfRPh 28 (1904), vd. spec. p. 59]: l’umanista registra appunti metrici e suggerisce il confronto con il suo canzoniere provenzale./ L: È il più prezioso dei canzonieri italiani con poesia delle origini e della scuola siciliana. È contemporaneo alla giovinezza di Dante, di cui contiene la prima canzone (Donne che avete intelletto d’amore) e come lui è fiorentino, tanto che si può supporre – dice Lattès – che l’abbia conosciuto direttamente. In Inv3 è designato (nr. 15 della III cassa) come «Libro volgari de varie romanze». Presenta annotazioni e una tavola di mano di Colocci. Negli appunti dell’umanista è spesso indicato col nome di Siculo. Grazie a Colocci lo conobbe anche Bembo. Ve ne è una copia in Vat. lat. 4823./ R: Fanelli segnala una canzone marchigiana – a f. 26r – ricordata da Dante nel De Vulgari, ma non postillata da Colocci./ (A)/ (Bianchi)/ 1 e 3Bologna sono da leggere integralmente perché per l’enorme messe di informazioni che portano sul codice e sul suo particolarissimo descriptus Vat. lat. 4823, non si prestano ad una sintesi proporzionata alle intenzioni di queste schede. Importante, in particolare, 3Bologna che mostra con chiarezza e dovizia di particolari, come Vat. lat. 4823 non sia una semplice copia di 3793, ma una sorta di summa autoconfezionata da Colocci, del suo canone sulle origini della nostra letteratura volgare. Il codice, assai studiato, possiede un’ampia bibliografia; qui di seguito si danno le indicazioni di interesse colocciano, e quelle degli studi ormai classici in merito [BIBLIOGRAFIA: C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, II, Messina 1994; R. ANTONELLI, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano e C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, rispettivamente pp. 3-23 e pp. 105-152; R. ANTONELLI, Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura Italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Le Opere, I: Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992; A. D’ANCONA, D. COMPARETTI, Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, (5 voll.) Bologna, 1875-1888; IID., Il libro de varie romanze volgare. Cod. vat. lat. 3793, per la Società Filologica Romana, Roma 1902; F. EGIDI, Il libro de varie romanze volgare (Cod. Vat. 3793), Roma 1908; D. DE ROBERTIS, Censimento dei manoscritti di Rime di Dante (V), in Studi danteschi 41 (1964), pp. 115-118.]/ (2Bologna) De Nolhac: 309n/ Debenedetti: 62. 188/ 350/ L: 29-30.36/ R: 179. 185/ (A: 112)/ (Bianchi: 273)/ 1 e 3Bolgna: (tutti)/ (2Bologna: 391) 3794 (iam; ora Paris. Bibl. Nat. fr. 12474): Canzoniere provenzale (M). De Nolhac alle pp. 107-108 nomina genericamente questo ms. e la sua copia (vd. Vat. lat. 3205: g, fatta fare da Colocci), che Fulvio Orsini intendeva barattare, con Alvise Mocenigo, in cambio di un ms. provenzale appartenuto a Bembo [K: iam Vat. lat. 3704; nunc fr. 12473 della Bibl. Nat. di Parigi]. De Nolhac – pp. 318-21 – così lo descrive: codice pergamenaceo di 268 ff. in-4° (più 10 fogli di tavola e un foglio bianco), del XIV secolo, contenente opere di 68 poeti. Non v’è ragione di credere che il codice appartenesse a Bembo e del resto è ben distinguibile la mano di Colocci. Il codice appartenuto al Cariteo, alla sua morte, fu acquistato alla vedova da parte di Pietro Summonte, per conto di Colocci (lettera di Summonte da Napoli del 28 giugno 1515), suscitando l’invidia di Isabella d’Este che lo voleva a sua volta acquistare. Secondo De Nolhac (p. 319), Orsini lo studiò ed esaminò (vi sono testi di Arnaut Daniel a ff. 143-144, che lui cercava) e lo menziona

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nella sua corrsipondenza: «Ho veduto la informatione che lei me da intorno alli miei quesiti per il libro de provenzali [K]. Insomma questo vostro è ben più copioso, ma il nostro Vaticano [M] è più conservato, non havendo sorte alcuna di mancamento, ne smarrimento di lettere in luogo alcuno...» (Lettera di Orsini a Pinelli del 18 dicembre 1582, in Ambros. D. 423. inf., f. 295) [De Nolhac non si sbilancia a dire se Orsini lo possedette: Debenedetti ne dubita: vd. sotto]. Le note di collazione di Colocci fanno riferimento ad un canzoniere posseduto da Mario Equicola. Al fondo del ms. Colocci collocò una lettera di Bembo a lui indirizzata che Orsini leggeva ancora, ma che è oggi perduta: Orsini informa – in una lettera a Pinelli (19 nov. 1582) – che la lettera conteneva «tutti li nomi de tutti poeti provenzali et li principij di ciascuna cosa, che si contiene in detto libro», erano più di cento, in tre fogli e provenienti da più di un libro./ Debenedetti: I margini sono fittamente postillati da Colocci con osservazioni di ordine grammaticale (articoli, pronomi, preposizioni, possessivi, verbi...), dialettologico, relativi alla lingua cortigiana, ortografico, sintattico, lessicale (in gran numero), c’è qulache raro ricordo dantesco e petrarchesco (vd. anche p. 210) e osservazioni di carattere interno (rimandi tra componimenti e autori presenti in M). Vi sono anche annotazioni di varianti e confronti fatti su altri mss., spec. quello che l’umanista chiama «Liber Equicoli» o «Liber parvus Equicoli» (verosimilmente il canzoniere N: New York, Pierpont Morgan Library, 819) e ad un libro di Giulio Camillo (pp. 103 e 250) [le postille recanti varianti sono pubblicate da C. DE LOLLIS, Ricerche intorno a canzonieri provenzali, in Romania 18 (1889), pp. 453-468]. Queste postille vanno collocate cronologicamente tra il dicembre 1525 e il luglio 1526 (p. 104). Un altro postillatore del XVI secolo appare essere intervenuto sulle pagine di questo ms. e ve n’è ancora un terzo, francese, molto più tardo. Secondo la testimonianza di Orsini (lettera a Pinelli del 19 nov. 1582; vd. Debenedetti, p. 94), il codice conteneva una ricca tavola mandata da Bembo al Colocci e condotta su K, contenente «tutti li nomi de tutti poeti provenzali et li principi di ciascuna cosa»: di questi fogli (tre) non si è conservata traccia. Il ms. fu conosciuto da Gianmaria Barbieri che lo collazionò con il suo b [Barb. lat. 4087] segnandone le varianti. Alle pp. 112-3 Debenedetti considera alcune postille colocciane relative a problemi di attribuzione. La lezione di M (per alcune poesie di Arnaldo e di Folchetto) servì da base per le traduzioni di B. Casassagia (per cui si veda Vatt. latt. 4796 e 7182). Qui e là si trovano anche traduzioni di versi ad opera di Colocci, taluni addirittura in poesia: queste e altre annotazioni mostrano che Colocci «s’attendeva dalla lettura preziosi guadagni, o acquisti, di cui valersi poi, forse, in un’opera poetica»: Debendetti (pp. 128-130) dà l’elenco [credo pressocché completo] di queste traduzioni e osservazioni a fini poetici. Da M dipende ga [Bologna, Bibl. Univ. 1290]. Le postille relative alla metrica sono analizzate e in parte riprodotte da Debenedetti alle pp. 183-185. Sulla tavola del ms. [primi ff.] vi sono anche annotazioni ‘biografiche’ sugli autori (vd. p. 213). Numerosi sono i rimandi anche al De vulgari eloquentia sui margini di M (vd. p. 218) e accanto a molte poesie Colocci annota l’argomento o il loro carattere generale. Il Barbieri possedette una copia di M che chiamò Libro in assicelle (cfr. p. 270). Una lettera di Orsini a Pinelli (3 settembre 1583: Ambros. D. 422 inf., f. 129r) sembra alludere alla prospettiva di acquisizione di M da parte di Orsini, per concessione del Card. Sirleto (in cambio di un qualche altro cod. non posseduto dalla Vaticana): il bibliofilo si mostra interessato allo scambio, ma pare strano che l’acquisizione sia avvenuta, dal momento che non lasciò traccia né nella sua corrispondenza né nei suoi inventari (p. 288). Il ms. passò alla Vaticana prima della morte di Colocci (p. 350n)./ L: Colocci lo confrontò con N [New York, Pierpont Morgan Library, 819; membr. Sec. XIII ex.; appartenuto a Andrea da Mantova, corrispondente del Petrarca (Fam. V,11 e 12), come informa G. FRASSO, Petrarca, Andrea da Mantova e il Canzoniere provenzale N, in Italia Medievale e Umanistica 17 (1974), pp. 185-205]./ (FU)/ (R)/ A: Colocci si fece fare una traduzione interlineare di alcuni dei suoi testi ora

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contenuta nel Vat. lat. 4796, che, diffusa tra i suoi amici umanisti – spec. Bembo – diede il via agli studi provenzali in Italia nel ’500 (cfr. A: 39). Su alcune postille è possibile un confronto incrociato con quelle del canzoniere portoghese Colocci-Brancuti, finalizzate, come sembra, ad uno studio del lessico in riferimento ad autori come Dante e Petrarca (a f. 90r «Mal mio grado, Petr.4» e f. 260v «attendre, Così Dante et Petr»)./ (Bianchi) De Nolhac: 107-108. 318-321 Debenedetti: 72-76. 94. 98. 102-4. 108. 111. 112. 114. 123n. 125-30. 137. 138. 171. 183-184. 185n. 210. 213. 218-219. 251. 252. 256. 257. 269. 270. 271. 288. 349. 350. 358n. 359n. 377. 401/ L: 6. 28-29. 37/ (FU: n172)/ (R: 157)/ A: 39. 197. 198. 199/ (Bianchi: 273) L: 36 3815: PLATONE, Timeo. 3835: Omelie e sermoni dei Padri della chiesa (SAN LEONE, SANT’AGOSTINO, SAN PROCLO, SAN GEROLAMO, SAN GIOVANNI CRISOSTOMO...). Manoscritto dell’VIII secolo, in onciale, privo di annotazioni di Colocci (nr. 10, cassa I di Inv3: «Sermones Leonis PP.Xmi, in pergameno antichissimus liber manuscriptus»). L: 13-14. 36 3836: Omelie e sermoni dei Padri della chiesa (SAN LEONE, SANT’AGOSTINO, SAN PROCLO, SAN GEROLAMO, SAN GIOVANNI CRISOSTOMO...). Manoscritto dell’VIII secolo, in onciale, privo di annotazioni di Colocci (nr. 11, cassa I di Inv3: «Homelie Procli in pergameno liber antiquissimus manuscriptus»). L: 13-14. 36 3861: PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historia. Prestato ad Agostino Steuco./ FU: È la «Plinii Historia sine principio et fine in perg. scr.», secondo la dicitura di Inv3, f. 185r, nr. 18, se è corretta l’identificazione. Esemplare pergamenaceo dell’XI secolo, mutilo in principio e fine. Vi fa riferimento una postilla di Vat. lat. 3896, e alcune notazioni linguistiche di una lettera di Colocci a Vettori del 3 febbr. 1538. Postille sparse ma non fittissime. Consegnato ai Francesi nel 1796 e poi restituito./ (2Bologna) R: 65/ FU: n 59/ (2Bologna: 391) 3890: Miscellanea storico-geografica/ FU: Si tratta di una «miscellanea di storia riguardante quasi esclusivamente la lotta fra Carlo V e Francesco I durante il papato di Clemente VII; il Lattès ne attribuisce il possesso al Colocci, non sappiamo per quali ragioni, perché non ci sono sue note» [così in FU, ma in R, p. 103, nt. 37 questo possesso è dato per scontato]. Contiene (ff. 1r-10r) copia del discorso tenuto da GIOVANNI LASCARIS – ma attribuito a Colocci dall’Ubaldini – a Carlo V nel 1526: «Discorso fato per el s.r Ioanne Lascharis ad la Ces.a M.tà de Carloquinto in mandrile de lanno 1526». Il discorso si trova anche in Vat. lat. 4820 ed ha il duplice scopo di affrettare la liberazione di Francesco I, caduto prigioniero a Pavia, e preparare la guerra contro i Turchi./ R: Contiene estratti da autori classici e documenti moderni. Tra questi il citato discorso del Lascaris tenuto a Carlo V, per conto di Clemente VII, intorno alla lotta contro i Turchi che sarà da confrontare con cod. Barb. lat. 4000 – ff. 250 e sgg. – e Barb. lat. 4871 – ff. 155 sgg. –). Da questo cod. l’Ubaldini desunse (erroneamente) le notizie sull’attività diplomatica di Colocci, nella Vita che ne scrisse. L: 22/ FU: n 145/ R: 33. 103/ 3893: Raccolta d’Agrimensura. In Inv3 (nr. 23, cassa X) è citato come «Hyginus: De limitibus – Marcus Junius: De limitibus et de Mensuris»./ (FU)/ R: Contiene M. J. NYPSO, De mensuris ad Celsum libri II. Potrebbe trattarsi della copia del codice [oggi 756 (vict. 49) della Bibl. di Monaco, copiato da Pietro Crinito ma con un errore nel nome dell’autore] richiesto da Colocci a Pier Vettori con lettera del 3 febbraio 1538, come proverebbe il formato della carta «mezana bolognese» [tutto questo si può dire anche del codice seguente]. L: 20. 36/ (FU: n 59)/ R: 70-71 3894: Raccolta d’Agrimensura (vedi precedente): In parte di mano di Colocci stesso./ FU: Al principio c’è un foglietto con appunto colocciano che rimanda a notizie su Nypso, avute

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per lettera da Angelo Tifernate [e di un errore di Crinito nello scrivere il nome del gromatico cfr. R]. Il testo del biglietto (parte) è: «Angelus tiphernas per litteras significavit mihi Nypsum scripsisse de geometria»./ R: Contiene una redazione della dissertazione di GIACOMO AURELIO QUESTENBERG, De sestercio, dedicata ad Episcopum Wormaciensem (si vedano anche Vatt. latt. 3436 e 5395); a f. 15 c’è il brano di Plinio, segnato da Colocci come «pli. L°18 c°.34 mensur». L: 20. 36/ FU: n 29. 59/ R: 58. 69-71. 135 3895: Raccolta d’Agrimensura, in parte copiata dal precedente da Colocci stesso./ FU: Il materiale qui raccolto può considerarsi preparatorio per la progettata opera De ponderibus et mensuris (si vedano anche Vatt. latt. 3906, 4498, 4539, 5395). Ha l’indicazione di FRONTINO come autore dell’operetta di NYPSO [Vd. anche Vatt. latt. 3132, 4498 e 5394]./ R: È un codice messo insieme con parti diverse (per carta e scrittura; forse dopo la perdita subita nel sacco del 1527) e la prima – forse aggiunta più tardi – contiene (in 24 ff.) una copia del De mensuris di NYPSO (vd. anche Vat. lat. 3893). Il codice è menzionato in una lettera di Colocci a Vettori del 3 febbraio 1538, dove se ne dà un sommario indice che permette di identificarlo. Colocci dotò, poi, questo ms. anche di un indice al fondo (f. 134). Contiene inoltre: un frammento anonimo sui nomi delle misure; tre capitoli di Plinio; tre brani anonimi di astronomia e annotazioni su pesi e misure (f. 31) tratti dal codice di fra Giocondo (4539). Fogli divisi in tre parti, molti bianchi. A f. 140 c’è un brano di BEDA, non compreso nell’indice. Il Peiresc fece trarre una copia da questo volume dal Bouchard nel XVII secolo./ (2Bologna) L: 20. 21n. 36/ FU: n 59. 175/ R: 51. 60-61. 69-70/ (2Bologna: 388) 3896: Raccolta su aritmetica e misure. Mercati ascrive per primo il codice alla biblioteca di Colocci, dicendolo sfuggito all’attenzione del Lattès./ R: Il volume contiene opere e brani di antichi scrittori; nei primi fogli c’è copia di parti del codice di fra Giocondo (Vat. lat. 4539), con fogli bianchi e ordine diverso dall’originale, scritta da altra mano ma annotata in alto (f. 9r) da Colocci «In Iocundo. Scolastic. fol. 29» e altre simili indicazioni, anche di pagina che corrispondono appunto a Vat. lat. 4539. Ci sono notizie sul Calendario romano di marmo posseduto da Colocci e ricerche e osservazioni sul modo di scrivere i numeri in latino e in greco. A f. 188v fa menzione di un suo «antiquissimum plinii volumen quod pene nos est et supra quadringentis annis manuscriptum»: il riferimento è a Vat. lat. 3861./ A: Contiene testi aritmetici elementari molto annotati da Colocci./ 2Bologna: Ai ff. 93r-96r, 101r-107r Colocci parla a lungo di Fabio Calvo, autore dell’Antiquae Urbis Romae cum Regionibus Simulachrum (edito nell’aprile del 1527) [di mano colocciana i ff. 216v-232r secondo L. TONEATTO, Una raccolta epigrafica manoscritta dell’esinate Angelo Colocci (Cod. Vaticano, BAV, Vat. Lat. 3896, ff. 216v-232r, sec. XVI), in Cultus Splendore. Studi in onore di Giovanna Sotgiu, a cura di A. M. CORDA, Senorbì (CA) 2003, pp. 931-959.] Mercati: 533/ R: 60-61. 65. 69/ A: 102/ 2Bologna: 396 3898: Miscellanee di retorica e grammatica (con frammmenti). Tra questi, brani di ARISTOTELE, Retorica (tradotta in latino), Commentari a Virgilio di PRISCIANO, SERVIO, FULGENZIO./ FU: A f. 19 si trova un breve frammento, che il Colocci stesso ha ricopiato da un’opera di PONTANO annotando il numero del foglio o pagina del volume di provenienza («Pontan. 179»)./ Scritta in parte da Colocci, ai ff. 152-166 contiene elenchi di vocaboli tratti da Plinio [Sr.] (dai libri dal XV al XXXV [della Naturalis Historia suppongo])./ 2Bologna segnala la presenza in questo ms. di una copia della traduzione latina di LORENZO VALLA agli Hieroglyphica di «HORUS APOLLUS». L: 17. 23. 36/ FU: n 23 / R: 66/ 2Bologna: 401n 3899: [si limita a segnalarne la dimenticanza da parte del Lattès]

Mercati: 533

3900: Miscellanea di medicina. Contiene frammenti vari che precedono SCIPIONE CARTEROMACO, De cane rabido, dedicato a Colocci [si veda anche Vat. lat. 5194]./ FU: Questo codice «è una raccolta […] sull’argomento del cane idrofobo, che comprende, oltre il con-

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tenuto del Vat. lat 5194, un passo di GALENO ed altri due frammenti anonimi di medicina» [si veda anche Vat. lat. 6845, che contiene la stessa dissertazione del Carteromaco, mentre in Vat. lat. 5194 ve ne è l’autografo]./ (R) L: 22n. 36/ FU: n 32/ (R: 102) 3901: Miscellanea di Geografia/ R: Ai ff. 122r-127r contiene anche la Notitia Dignitatum; [Notizie in P. N. PAGLIARA in Ricerche di storia dell’arte 6 (1977), pp. 77-79]. L: 36/ R: 90 3902: Trattato di matematica (unico identificato dei numerosi che compaiono in Inv3). L: 22. 36 3903 (z.): Zibaldone colocciano. Contiene note grammaticali e storiche, brogliacci diversi: Ricerche sulla lingua comune italiana che ritiene di potersi trovare nel Canzoniere di Petrarca./ FU: Questo è un grosso e disordinato zibaldone di appunti del Colocci sugli argomenti più disparati. A f. 377 ci sono alcune note per la biografia del Calentio, riguardanti specialmente il suo testamento; Fanelli ne riporta uno stralcio: «Neapoli [il Calentio] amavit Franciscum Colotium patruum meum qui erat a consilio regis iuris consultus optimus et non solum legibus sed etiam studiis bonarum artium operam dabat quem Pontanus et ceteri ex illa Achademia non Franciscum sed Phaliscum vocabant ut in Sertorio». Vi si trovano elenchi di libri: a f. 222 libri di metrologia e geografia in un forziere; a ff. 223-227 libri anche non di proprietà del Colocci («Dante de vulgari eloquio», che Fanelli identifica col cod. Trivulziano). Contiene osservazioni sparse sulla lingua, da Ubaldini dette pretenziosamente Regole [si vedano anche Vatt. latt. 4817, 3217, 4818, 4831]./ R: Nella citata lista di libri ai fogli 222-227, troviamo, per es., «Lancillotti in francese», «motti spagnoli» [f. 223r: A: 178]; «vite de lemosini». Ai ff. 369-370, si trova una studio agiografico di Colocci intorno al Legendario di S. Francesco da Gualdo./ A: A f. 224v, nel citato elenco di libri scrive «so. di Aragonia», forse per indicare una raccolta di sonetti./ Bianchi: Contiene elenchi di libri ai ff. 222r-227v; 199; 206./ 1Bologna: Elenchi di libri: a f. 222, con intestazione «Forziero roscio di mezo duplicato/ acanto la credenza»; f. 223r, intestato «libro», vi si citano libri francesi, spagnoli, portoghesi; ff. 224r-227r sembra la continuazione del precedente./ 2Bologna: A f. 222r si legge un «Vitruvius» (II colonna) in un elenco di libri autografo. L’indicazione è preceduta da un «Numeri/ Pondera» e da un «Priscian[us] i(n) 4°» e «Leon[ardus] de Portis» (cioè Leonardo Porzio, testo importante per la formazione metrologica di Colocci [cfr. R. I. IV. 2139]). Vi si legge ancora un «Erontius de mensuris», forse l’Erone postillato da Colocci (il cod. Vat. Gr. 1054 o quello di cui parla il Cervini in un biglietto a Colocci ora a f. 57r di Vat. lat. 4104). Nella medesima lista compare anche un inatteso «Durerius Mensure», certamente l’Unterweisung der Messung composta nel 1525 da ALBRECHT DÜRER e tradotta in latino. Di seguito a questo lemma, ed uniti ad esso da una specie di parentesi, si leggono altri due titoli, il primo dei quali illeggibile e l’ultimo terminante per «de corpore». Questa circostanza invita ad identificare le due opere con altrettanti libri sempre del DÜRER: l’Unterrichtung zur Befestigung der Städte, Schlösser und Flecken del 1527 (ma edito in latino a Parigi nel 1535) e i Vier Bücher von menschlicher Proportion usciti a Norimberga – In aedibus Viduae Durerianae – in doppia edizione latina (come De simmetria partium in rectis formis humanorum corporum libri) e tedesca nel 1528 (postumi). Nello stesso elenco si leggono poi ancora un «Archimede greco» e un «Archimede latino», «De ponderibus multis et... [?]»; «Nymphe di Fiesole», «Rime di Lorenzo Medici», «Leon Bapt(ista) De Perspectiva». A f. 226v (col. 1) c’è un elenco di libri intitolato «Latini» in cui si leggono: «A. politian[o] d’Aldo», «Julio Firmico de Aldo» e «Poliphilus», forse la grandiosa edizione di Manuzio dell’Hypnerotomachia Poliphili di FRANCESCO COLONNA. L: 34. 36/ FU: nn 20. 59. 167/ R: 3n. 159. 181n/ A: 178. 182/ Bianchi: 282 1Bologna: 552n/ 2Bologna: 385-386. 388-389. 393

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3904 (z.): Zibaldone colocciano di carattere metrologico. Raccolta quasi interamente autografa di Colocci, costituita da note, riferimenti, estratti da autori antichi, per un opera De ponderibus et mensuris rimasta allo stato di semplice raccolta di materiale (si veda oltre ai due sgg., anche Vat. lat. 5395)./ R: Brogliaccio di appunti con notizie (oltre alle già dette) sul modo di scrivere i numeri usato dai Latini e dai Greci. A f. 53r è ricordato Pietro Vettori in un appunto: «p. Victor de figuris numerorum», forse con riferimento ad un qualche commento ad opere greche o latine dell’umanista fiorentino./ A: Ospita il lungo racconto autobiografico in latino sull’origine dei suoi interessi e delle sue ricerche archeologiche sulle misure: vi si cita fra Giocondo e l’eureka di Archimede [Lattès lo trascrive quasi integralmente questo racconto, ma traducendolo: A: 103-106]./ 2Bologna trascrive un lungo appunto di f. 316r sulla misurazione dei pesi intitolato «po(n)der[a]»: il suo lavoro è da COLOCCI accostato alla riflessione fisica e metafisica dei filosofi greci, in primis Aristotele: «et vide quot sint corporum figure/ aristoteles ibidem de extremo capitulum et de infinito capitulum (...) ego celi. aeris. Ignis. Stellarum. Marium. Insularum/ terre fluminum. Lacuum. Montium. Itinerum. Convallium./ planitiarum fossarum profunditatum./ ex capto igne(...) Mensura commune est vocabulum et urne et/ podismi. Alterum nam ab altero dependent/ sicut in quadrantuli et in vaste cesio [?]». A f. 300r-v + 272r-v [a p. 397n: osservazioni sulle filigrane e la fascicolazione], un interessante testo, fra saggistico, autobiografico e narrativo, descrive una straordinaria passeggiata (già esaminato da Lattès: cfr. A: 106) che avrebbe dovuto fare da proemio al De ponderibus. Ad ispirare questa narrazione è, secondo Bologna, la lettura dell’Hypnerotomachia Poliphili e l’amico e confidente delle scoperte di quella passeggiata è Fra Giocondo (un primo abbozzo di questo proemio si legge a f. IIv di Vat. lat. 4539, appartenente ad un fascicoletto da Colocci anteposto al cod.). L: 21. 36/ R: 50/ A: 103/ 2Bologna: 375. 388. 393. 397-403 3905 (z.): Zibaldone metrologico colocciano (vd. supra). Contiene note sulle colonie romane./ R: In un elenco di colonie romane con accanto il numero del foglio da cui sono tratte, a f. 159r c’è un rimando a Vat. lat. 3132, definito «Nyps. maior». L: 21. 36/ R: 71 3906 (z.): Miscellanea metrologica. Contiene materiale riguardante i numeri, i pesi, le monete e le misure di ogni genere [cfr. Vatt. latt. 3904, 3905, 5395]. Anche questo codice fu fatto copiare da J. J. Bouchard su istanza del Peiresc (L: 21n; vd. Vat. lat. 3895)./ FU: A f. 230r contiene la lettera De numero ternario scritta all’amico cardinale Trivulzi per spiegare il significato del suo cognome (ispirata all’orazione di Leto a f. 305 di Vat. lat. 2934). Contiene materiale per il De ponderibus et mensuris. L’inizio del brano «cum Rome essemus» citato è riportato anche da Ubaldini (pp. 40-41)./ R: Ai ff. 1-23 contiene il De sestercio di GIACOMO AURELIO QUESTENBER, «ad Episcopum Wormaciensem». Contiene poi 4 frammenti di VARRONE: 1) «Varr. De analogia L° 7 fol. 92», a ff. 29r-30r; 2) «Varro L° de lingua latina» ff. 42-43; 3) f. 174r ; 4) f. 227r. A f. 192r un testo intitolato «De equinotio» spiega come calcolare la data esatta degli equinozi e una frase consente la datazione del codice: «cum in hoc 1532 aequinoctium fiat XII martii». Ai ff. 36-40 ci sono estratti del commento di POMPONIO MELA ai luoghi di Plinio riguardanti le misure. A ff. 45-53 c’è lungo brano di PLINIO (l. XXXIII, f. 3) che parla della monetazione dei metalli preziosi. A f. 92 c’è il brano che sembra fare da proemio al progettato De ponderibus et mensuris: «cum Rome essemus in Hortis meis Sallustianis et adhibitis ad cenam, incidimus in sermonem de mundi huius partitione et qua ratione maiores nostri hunc orbem diviserunt et in miliaria et stadia metiti sunt. Hic .F. universis nobis scapulum iniecit. Quisnam ordo esset stadiorum quo tam greci quam latini usi sunt et longitudinem dimensi et omnes affermare stadium constare legitime ex milibus passuum passus autem et pedibus [...] omnes addubitati sunt quod non esset pedes mensura. Et quod digitis et quot cubitum palmis» (cfr. anche A: 97 sgg. e 2 Bologna 395) [R: 125: cfr.

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R. WEISS, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford 1969]./ A: A f. 71 – secondo l’ipotesi di Lattès (in A: 100; [il codice è erroneamente segnato 3006]) – c’è l’abbozzo di uno schema dell’opera De ponderibus et mensuris progettata./ 2Bologna cita un appunto di f. 110v «ego numero celi, stellarum, aeris, ignis, marium, insularum, terre, fluminum, lacuum, montium, vallium, itinerum, planitiarum, fossarum, fontium, profunditatum». A f. 103r: alcuni appunti di lettura «Pondera invenit Pithagora. Et nota Macrobium/ scribere Pythagoram examinasse pondera/ et casu inventam musicam. Et nota pithagoram oculos et aures adhibuisse macrobius in enarratione somnij scipionis». A f. 194r un appunto sulla primazia di Colocci relativa probabilmente agli studi metrologici: «Duo viri doctissimi post me scripsere ut Romanis et sue etatis fere omnibus notum est sed horum uterque cum me sua volumina edidit Portus». 2Bologna trascrive il testo già ricordato («cum Rome essemus...») e dà notizie codicologiche e relative alle filigrane del bifoglio 92-95. Il bifoglio 93-94 ha una precedente numerazione (234-241) che testimonia della sua eterogenea provenienza (pur essendo d’argomento metrologico anch’esso). Bologna richiama l’attenzione ancora sull’abbozzo schematico ad albero per la disposizione del materiale pensata da Colocci per il suo De ponderibus et mensuris (già rilevata da Lattès: A: 97-108) L: 21. 36/ FU: nn 48. 175. 176/ R: 57-58. 60. 62. 66. 117. 125/ A: 97. 100/ 2Bologna: 374. 388. 393. 395 3909: ELISIO CALENZIO, lettere./ FU: Il codice ne contiene anche versi./ A: Contiene la bella copia autografa di ELISIO CALENZIO, Ad Hiaracum epistolae. I testi mostrano interventi successivi dell’autore, di Lucio Clenzio e di Colocci (ff. 2r-45v) e a f. 49v c’è una nota autografa importante. L: 36/ FU: n 20/ A: 266. 267. 268 3934: PLATONE, opere tradotte in latino (Timeo, Fedone?). 3993: POGGIO BRACCIOLINI, Raccolta di «brevi pontifici».

L: 17 L: 23. 36

4042: Elenchi alfabetici di vocaboli (vol. I: vd. codd. sgg.). Compilati da Colocci stesso e tratti da diversi poeti latini. Ci dà informazioni su altri testi da lui posseduti ma non ancora identificati: Aldina di Catullo, Tibullo, Properzio [ma proporrei Ald. III. 19: vd. infra]; Aldina di Columella; edizione Giuntina (1513) delle Tragedie di Seneca; Metamorfosi di Ovidio. [Lattès sbaglia a p. 20 la segnatura di questo e dei due codd. sgg.: quella corretta si può ricavare da FU, nota 168]/ (FU)/ L: [20]. 36/ (FU: n 168) 4043: Elenchi alfabetici di vocaboli (vol. II: vd. cod. prec.). Compilati da Colocci stesso/ (FU)/ L: [20]. 36/ (FU: n 168) 4044: Elenchi alfabetici di vocaboli (vol. III: vd. codd. precc.). Compilati da Colocci stesso / (FU)/ L: [20]. 36/ FU: n 168 4048: Elenco alfabetico di vocaboli. Enorme volume composto da Colocci medesimo su Cicerone (ms. lat. nr. 252 dell’Inv4: «Indice sopra l’epistole familiari di Cicerone, in papiro in foglio»). Costituito di 572 ff. cartacei, con copertina moderna, in 2 voll./ L: Il lavoro è stato affidato da Colocci a copisti diversi. Passato a Fulvio Orsini. Una nota colocciana sul foglio di guardia informa che l’indice è stato tratto dall’edizione di Cicerone fatta da «Josse Badius e Jean Petit» (il che prova che Colocci ne possedette un esemplare)./ (FU)/ De Nolhac: 127. 250. 378/ L: 18-19/ (FU: n 168) 4049: Elenco di Vocaboli tratti dai quattro Scriptores de re rustica. Varrone occupa i fogli 4192 e fino a f. 97 si trovano i «modi Varronis familiares»./ (FU)/ R: 57. 62/ (FU: n 168) 4057: Elenco alfabetico di Vocaboli. Da f. 303 a 346 c’è un indice alfabetico di parole latine tratte dal De Sermone del Pontano. Troviamo, poi, un quaderno di 36 fogli (ff. 434-469) intitolato «Tabula in Strabonem per singulas litteras diducta ab opere incoato a Mancinello»: ogni vocabolo ha accanto il numero del foglio del codice da cui è tratto./ R: I primi 60 fogli sono da Plinio, divisi in ordine alfabetico e secondo i 37 libri delle Histo-

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MARCO BERNARDI

riae; a f. 303 compare anche un’indicazione bibliografica che permette l’identificazione di uno stampato (Inc. II. 242). FU: nn 23. 24/ R: 66 4058: Elenchi alfabetici di vocaboli. Tratti da diversi autori: quattro elenchi riguardano Plinio: 1) ff. 120-138, vocaboli in ordine alfabetico divisi per libro; 2) ff. 139-158, di mano di Colocci, contengono nomi propri con, accanto, l’indicazione del libro e del capitolo; 3) ff. 185-226, di mano di Colocci, elenchi di vocaboli tratti dal libro XXXVII della Naturalis Historia; 4) ff. 288-312, elenchi di mano di Colocci di vocaboli tratti dal III libro. Anche qui (f. 381) una indicazione bibliografica («Appiani externa Impressus Venetii per bernardum pictorem et radolt 1477»; cfr. Vatt. latt. 4048 e 4057) permette l’identificazione di uno stampato (Inc. III. 85)./ (FU)/ R: 66-67/ (FU: n 168) 4062: Elenco di vocaboli [?]. Reca sul principio, di mano di Colocci, «Ad Atticum et alios in magno volumine incipit» e, in Inv2, è indicato (al nr. 117) come «Tabula super epistolas ad Atticum» [Mercati ne segnala la dimenticanza da parte del Lattès]. Mercati: 533. 540. 543 4078: ABUBERTUS, De nativitatibus.

L: 36

4103: Epistolario. Contiene a f. 4 e a f. 46 due copie di una stessa lettera – d’epoca successiva alla morte di Colocci (1566) – di PIER VETTORI ad Orsini. Contiene lettere di: ROMANO AMASEO a Carteromacho (Bologna 1512: f. 34), a Bernardo Rutilio (Bologna 1532 e 1533: ff. 91-92) a Alessandro Farnese (Rimini, 1547: f. 110), al re di Spagna (1546: f. 140); GIORGIO BERNARDO a Carteromacho (Venezia, s.d.: f. 64); DENISE BRIÇONNET, vescovo di Tolone, a Carteromacho, a Frenacesco Piacentino ecc. (da Pisa 1511: ff. 25-95; a f. 67 c’è la brutta di una risposta del CARTEROMACHO al vescovo); CLARELIO LUPO a Colocci (Spoleto, 1509: f. 22); ANGELO COSPO a Carteromacho (Bologna 1511 e 1512: ff. 62 e 63); GIANPIETRO CRASSO al card. Ridolfi (Roma, 1533: ff. 85 e 87); PIETRO CORSI, versi latini (ff. 75 e 77) e lettere a lui indirizzate (ff. 71, 73, 81, 82); BERNARDINO MAFFEI a Tebaldeo (Venezia, s.d.: f. 88); ANTONIO TEBALDEO a Carteromacho (Lucca, 1512: f. 24); GIACOMO TEBALDEO a Antonio (Venezia, 1546: f. 69)./ Mercati: Contiene, a f. 66, i biglietti scambiati tra COLOCCI e CERVINI./ FU: Secondo Fanelli a f. 23 c’è un biglietto mandato da GIOVANNI LASCARIS a Colocci (ne dà il testo tradotto alla nota 144), col quale ebbe stretta amicizia [ma in R J. RUYSSCHAERT – p. 99 nt. 18a – corregge l’identificazione e attribuisce il biglietto (sulla scorta di uno studio di P. CANART, Un copiste expansif: Jean Sévére de Lacédémone, in Studia codicologica 124 (1977), p. 118 e nt. 6, p. 125) a GIOVANNI SEVERO Spartano]. A ff. 16-17 c’è una famosa lettera di GIACOMO SADOLETO a Colocci, in cui si parla delle riunioni della sua ‘accademia’ e si dà l’elenco dei personaggi che vi prendevano parte: Ubaldini la trascrive in gran parte a pp. 67-75./ R: A f. 66r contiene un biglietto mandato da COLOCCI a Marcello Cervini per chiedere l’aiuto di Sirleto per l’interpretazione di un libro («meum nescio quid de machinis») in greco, forse l’opera definita «Quinterno a mano in quarto de machinis» di Inv1 (f. 62r). Contiene note in lingua greca (f. 23). De Nolhac: 71. 127. 134-135/ Mercati: 535/ FU: nn 108. 144/ R: 89. 102. 114/ 4104: Epistolario. A f. 59 troviamo una lettera di COLOCCI a messer Endimio a proposito del progetto non andato in porto, a causa del fratello del poeta (vd. Vat. lat. 3389) di un’edizione dell’opera di Tebaldeo curata con Bembo. A f. 58 una lettera firmata GIROLAMO DE THEBALDI scritta a Colocci da Venezia il 4 aprile del 1547 con informazioni sulla famiglia di Antonio Tebaldeo per la vita che Colocci aveva intenzione di scrivere. Contiene inoltre lettere di: GIAMBATTISTA CASALI a Colocci (Roma, 1523: ff. 72, 74, 195); GIAMMATTEO GIBERTI a Giovanni de’ Medici (su Colocci, Roma, 1524: f. 89); LAMPRIDIO a Colocci (Venezia, 1526: f. 82); BERNARDINO MAFFEI a Colocci (Verona, 1532: f. 78); TOMMASO PIETRASANTA a Colocci (Roma, 1530: f. 76); ANTONIO TEBALDEO a Colocci (Roma,

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1527: f. 79); GIANLUIGI VOPISCO a Colocci (Napoli, 1517, 1519, 1535: ff. 67, 63, 65); MARCELLO CERVINI (come card. di S. Croce) a Colocci, L. BECCADELLI e RANUCCIO FARNESE (ff. 1-40)./ Debenedetti: A f. 79: lettera di ANTONIO TEBALDEO a Colocci del 20 novembre 1527 sul Sacco di Roma e sui danni alla Biblioteca di Colocci. Debenedetti dà il testo completo della citata lettera del LAMPRIDIO a Colocci del 31 dic. 1526./ FU: Ai ff. 6367 sono conservate tre lettere del VOPISCO a Colocci. A f. 46 c’è una lettera di COLOCCI a Carteromaco del 25 dicembre 1511, in cui l’amico è invitato a Roma a casa di Colocci. A ff. 72-75 ci sono tre lettere di BATTISTA CASALI al Colocci (sul governatorarto di Colocci ad Ascoli: append. V). A ff. 76-77 c’è una lettera scherzosa al Colocci inviata il 5 maggio 1530, da Tommaso Pighinuzzi da PIETRASANTA (in append. VI). A ff. 59 e 85 ci sono due lettere rispettivamente di COLOCCI e del cugino del Tebaldeo a proposito della pubblicazione delle opere del Tebaldeo stesso di cui si occupavano Colocci e Bembo (pubblicate da CIAN in Giornale Storico della Letteratura italiana 11 (1988) e 47 (1906): vd. FU nota 72). A f. 87 c’è una lettera di COLOCCI a Francesco Bellini di Staffolo, del 20 settembre 1525 (riportata da Fanelli in append. IX). A f. 54 c’è un sonetto di COLOCCI a M. Gandolfo Porrino, che compare nell’appendice della traduzione latina della Vita dell’Ubaldini. A f. 78 c’è una lettera di BERNARDINO MAFFEI a Colocci che informa intorno ai rapporti tra loro e con Lazzaro Bonamico e Marcantonio Flaminio (append. XII)./ R: F. 50 contiene una lettera di FRA GIOCONDO ad Aldo Manuzio, scritta il 2 agosto 1514. F. 17 e f. 23 ospitano due lettere di CERVINI a Colocci in cui quegli parla di un codice greco (Erone), forse identificabile con il Vat. gr. 1054. A: ff. 41-42: lettera di COLOCCI a Scipione Forteguerri (Carteromaco) sul suo studio, faticoso, del greco. A f. 57, lettera di COLOCCI a CERVINI, con risposta di quest’ultimo (relativa ad altro codice di Erone De ponderibus et mensuris). A ff. 55, 58 e 17, note in greco./ 1Bologna: A f. 82r: lettera del 31 dic. 1526 di BARTOLOMEO LAMPRIDIO a Colocci, in cui parla di un suo amico che in quella data già possiede un codice, leggendo il quale «se vede manifestamente che ’l Petrarca li [i provenzali] lesse» e da cui promette al corrispondente di far trascrivere da un francese «li nomi delli authori et de canzone li principi» e poi di far copiare eventualmente quanto vorrà. Questo appunto permette di datare uno degli elenchi bibliografici colocciani contenuto a f. 329r di Vat. lat. 3217 (vd.)./ 2Bologna: A f. 78r c’è una lettera di BERNARDINO MAFFEI (8 gennaio 1532) a Colocci in cui gli parla di Marc’Antonio Flaminio, intimo di Giulio Camillo, legato al gruppo – noto come Ecclesia Viterbensis – del card. Pole e di Vittoria Colonna. A f. 50r: lettera autografa di FRA GIOCONDO (Giovanni da Verona, 1433-1515) relativa ai suoi diritti editoriali sull’edizione Aldina (Venezia 1513) contenente Le Cornucopiae di N. PEROTTI e – a sua cura – il compendio del De verborum Significatione di VERRIO FLACCO compilato da Sesto Pompeo Festo e la compilazione di NONIO MARCELLO [su queste opere cfr. qui Vat. lat. 2736]. Ai ff. 66r e 68r vi sono lettere di SCIPIONE CARTEROMACHO inviate a Colocci da Bologna il 28 marzo 1509 e il 3 giugno 1510. De Nolhac: 127. 134-135. 257n/ Debenedetti: 32n. 304/ FU: nn 20. 32. 45. 47. 72. 166. 181; appendici: V, VI, IX, XII/ R: 60. 86. 87. 101. 102/ 1Bologna: 546/ 2Bologna: 374n. 382. 386. 391 4105: Epistolario. Contiene corrispondenza tra PIER VETTORI e Fulvio Orsini. A ff. 55-59 vi sono alcuni biglietti inviati da COLOCCI a Pietro Devaris nel 1540 e negli anni seguenti, che portano anche la risposta autografa dell’erudito greco (p. 160). Contiene lettere di: VINCENZO BALDO a Carteromacho (Roma, 1512: ff. 210, 314, 317); CARDINALE DI CARPI [Innocenzo del Monte?] a Colocci (Roma, 1542: f. 180); GIANPIETRO CRASSO a Rutilio (Roma 1533: ff. 97 e 281); GIAMMATTEO GIBERTI a Colocci (Bologna, 1533: f. 178; Venezia, 1534: f. 170; Verona, 1536: f. 138), al card. Trivulzio (Venezia, 1534: f. 90), a Rutilio (Verona, 1536: f. 95); CARD. GRIMANI a Colocci (Venezia, 1526: f. 128); ALFONSO MARCHISIO a Carteromacho (Firenze, 1512: f. 322); FRANCESCO MARCHISIO ELIO a Colocci (Napoli, 1510: f. 276); GEROLAMO MENOCHIO a Carteromacho (Lucca, 1511: f.

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311); MARZOTTO PACINI a Carteromacho (Roma, 1512: ff. 313, 316); BERNARDO PELLINI a Carteromacho (Roma, 1512: f. 318-320); «IO. FRANC. PHILONIUS praepositus Pisaurensis» a Colocci (Pesaro, 1510: f. 183); GIULIANO PIETINI a Carteromacho (Roma, 1512: f. 321); «FRANC. PLACENTINUS scriptor Archivi Roma. Curiae» a Carteromacho (Roma, 1511: f. 308); CARD. RIDOLFI a Rutilio (Bologna, 1537: f. 99); MICHELANGELO TONTI a Carteromacho (Pistoia, 1510: f. 312); CARD. TRIVULZIO a Colocci (Roma, 1542: ff. 121, 140)./ Mercati: A f. 176r c’è la «memoria del Colotio quando s’era per morire» (così a f. 177v) in cui, tra l’altro, nomina esecutore testamentario il Cervini: in Mercati p. 538, nt. 29 se ne legge la trascrizione./ FU: A f. 276 c’è una lettera del napoletano FRANCESCO ELIO MARCHESE che informa Colocci di non aver trovato, col Summonte terre da comperare nel Regno di Napoli (vd. append. II). A f. 346 una lettera del CARTEROMACO. Vi si trova la lettera di VARINO FAVORINO del 1534 a Colocci a proposito della sua bigamia (!): la lettera è pubblicata da BERRA [Come il Colocci conseguì il vescovato di Nocera in Giornale Storico della Letteratura italiana 89 (1927), pp. 304-316]. Ai ff. 98, 100 e 101 ci sono tre redazioni di una memoria del 24 gennaio 1533, scritta per Clemente VII, e forse fatta girare ad altri influenti prelati della corte pontificia, in cui Colocci difende il suo ‘diritto’ al vescovato di Nocera. A f. 195 lettera di BATTISTA CASALI del luglio-agosto 1523 (append. V). A f. 176 la citata «memoria del Colotio»: le sue ultime volontà sottoscritte da lui medesimo «con lettere sfigurate», in punto di morte, nella notte tra il 1° e il 2 maggio 1549./ R: Contiene, tra le altre, quattro lettere di PIER VETTORI a Colocci (ff. 194, 160-161, 163) i cui testi Fanelli riporta alle pp. 79-81 di R. A f. 276 la lettera del 12 giugno 1510 di FRANCESCO MARCHESE a Colocci sull’acquisto di terreni nel Regno di Napoli. A f. 195: lettera di BATTISTA CASALI a Colocci relativa alla turbolenza degli Ascolani e al comportamento di Colocci. De Nolhac 71-77. 127. 134-135. 160n/ Mercati: 538/ FU: nn 20. 32. 33. 43. 45. 157. 163. append. II. V/ R: 46. 79-81. 114. 199 4191: Raccolta di sermoni pronunciati al Concilio di Basilea (corrispondente a nr. 19, cassa I: «Sermones Gerardi Landriani, in bambacino»; oppure nr. 27, cassa II: «Acta in ConciL: 13. 36 lio Basiliensi»; di Inv3). 4252: ORAZIO, Poetica, Epistulae; BOETIUS (nr. 47 della IX cassa di Inv3).

L: 10. 20. 36

4276: SAN FACONDO. In Inv2 è registrato al nr. 110 come «Facundus ad Iustinianum in mem.», mentre nell’Inv1, è indicato «Sancti Facundi liber in carta bona». Mercati precisa che «in mem.» (pergamena) indica la copertura e non la materia del codice. Mercati: 543 4471: BRUNO DA LONGOBUCCO, trattato di medicina (menzionato a nr. 32, cassa VI di Inv3). L: 22n. 36 4498: Miscellanea storica [così la definisce Lattès]. Contiene «NYPSO, De limitibus; FRONTINUS: De aquaeductibus – RUFUS: De Provintiis – SVETONIUS: De grammaticis; De rhetoribus – PLINIUS: De viris illustribus – CORNELIUS TACITUS: De moribus Julii Agricole – CENSORINUS: De diebus natalibus» (così in Inv3 in cui è il nr. 26 della VI cassa)./ FU: Contiene materiale per la compilazione del De ponderibus et mensuris. Contiene l’indicazione di Frontino come autore (vd. nota 59 e cfr. Vatt. latt. 3132, 3895, 5394)./ R: È uno dei codici consultati dal Peiresc per conto del Bouchard nel XVII secolo./ (2Bologna)/ L: 10. 21. 36/ FU: nn 59. 175/ R: 60. 70/ (2Bologna. 388) 4507: [si limita a segnalarne la dimenticanza da parte del Lattès e aggiunge «cfr. Vat. lat. 3441, ff. 205-222»]. Mercati: 533 4514: COSTANZO DA VARANO, lettere e discorsi; GIOVANNI COLOCCI [zio di Angelo], trattato sui sinonimi, dedicato a Francesco Colocci [suo fratello e altro zio di Angelo], autografo./ FU: A f. 73v rimane ricordo degli studi petrarcheschi di FRANCESCO COLOCCI per

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mano del fratello Niccolò (vd. append. XIII). [Notizie sul codice in R. AVESANI, Quattro miscellanee medievali e umanistiche, Roma 1967, pp. 55-56]. L: 23. 24. 36/ FU: n 20, append. XIII 4538: RICCARDO RUFO DE CORNUBIA [?], In metaphisicam. Codice membranaceo del XIII secolo. Inc.: «Placet nobis nunc parumper disserere de quadam propositione quam dicit Aristot»; expl.: «Ad philosophum non pertinent, sed divine scientie que est divina simpliciter». L’opera non è conosciuta ed è l’unico ms. dell’opera nel fondo Vaticano antico. In Inv2 è registrato al nr. 123 come «Riccardus in Metaphisicam in t.». In Inv1 è designato «Ricardi metafisica». Mercati: 544 4539: GIOVANNI DA VERONA, opuscola. Si può annoverare anche questo tra i codici che costituivano il materiale preparatorio per il De ponderibus et mensuris./ R: Completamente autografo. È il celebre «Codice di fra Giocondo» (1433-1515). Si compone di 146 fogli in ottavo e raccoglie numerose operette di aritmetica medievale di alcune delle quali è indicato l’autore (come BERNELINO, GERBERTO, ADALBOLDO, SCOLASTICO). Moltissimo postillato da Colocci, spec. nei primi 7 fogli, in origine bianchi, in cui ha scritto l’indice, più appunti e annotazioni; a f. 132, anch’esso in origine bianco, Colocci ha trascritto i segni che Solone e gli antichi Greci usavano nelle leggi per indicare i numeri. A f. 56r c’è memoria del ‘Calendario’ romano di proprietà colocciana: «in hortulis A. Colotii» (R: 65: inserisce nel testo «meo» nel corrispondente punto della copia parziale di questo codice: Vat. lat. 3896, f. 55v). In questo codice si trovano anche sparute note in lingua greca (per es. f. 132)./ Bianchi: Il cod. è forse indicato come «Fra Iocundo a mano» nell’Inv5 (f. 62v)./ 2Bologna: Contiene varie opere di matematica di mano di FRA GIOCONDO [Bologna conferma l’identificazione della Bianchi], e anche l’abbozzo del proemio del progettato De ponderibus et mensuris di Colocci (una più compiuta redazione del medesimo testo si trova al f. 300 r-v di Vat. lat. 3904 [vd.]). FU: n 175/ R: 43. 60-61. 65. 102/ Bianchi: 281/ 2Bologna: 388. 407 4787: PETRARCA, opere. È copia di mano del padre di Angelo (Niccolò Colocci). Colocci ha rettificato l’ordine delle poesie sulla base dell’autografo petrarchesco posseduto da Bembo, e questo prova che i due umanisti hanno collaborato scambiandosi i loro testi. Contiene, al fondo [f. 192: FU, nota 166], note biografiche sulla famiglia Colocci e sulla nascita di Angelo (Lattès trascrive tutto in nota 3), scritte dal padre e poi da Angelo stesso. Eccone la trascrizione: «Angelus Colotius De Esio pater meus die Lucae de mense octobris millesimo quatricentesimo Quatragesimo nono ab hac fragili vita et caduca recessit cum optima fama. Habebat annos completos septuaginta. – Nicolaus Colotius, filius dicti Angeli duxit uxorem die octava Maii millesimo CCCC° LXVIIII° cum honore. – Domina Flora, uxor dicti Angeli et mater dicti Nicolai ab hac vita decessit die pascatis rosarum secunda die dicte festivitatis videlicet die vigesima tertia mensis Maii millesimo CCCC° LXVIIII° cum optima et bona fama: habebat annos completos quinquaginta quinque. – Angelus Colotius filius Nicolai natus est hodie videlicet vigesima quarta iulii ora decima millesimo CCCC° LXXIIII°. – Domina Ypolita plena omnium virtutm uxor Nicolai supradicti decessit de hac vita die VIa Julii 1477 et seppulta est in ecclesia Sancti Francischi de Mondamo. – Die secunda Junii Robertus Santonus inchoavit uindic (?) 1486. – Die octava januarii 1491, Isilerius de Ysileriis disponsavit Francescham Nicolai de Colotiis de Esio. – [di qui in poi la mano è di Angelo] Die 28 nuvembris 1524. Hodie Bernardina uxor Johannis Marie Stagnini peperit filium quem dicit esse meum, quod Deus bene vertat. – Die 30 novembris 1524. Hodie fuit baptizatus Marcus Antonius, filius Jo. Marie Stagnini bonis avibus. – Die 13 februarii 1526. Hodie Marcus Anotnius, filius Jo Marie Stagnini, est datus mihi in arrogationem pro filio»./ FU: A f. 183 c’è un sonetto probabilmente di Francesco Colocci, firmato appunto con le iniziali «F.C.». In base alle informazioni registrate in questo codice

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Colocci sarebbe nato nel 1474 (24 luglio), avrebbe avuto 12 anni al tempo dell’incontro con Pontano (1486) a Roma (?), sua madre si sarebbe chiamata Ypolita e non Fortunata (come scrive il Lancellotti) e sua sorella Francesca avrebbe sposato Ghisliero Ghislieri nel 1491 e non Tiberio Ripanti nel 1497 (Lancellotti). Una nota a f. 192 ci informa che il figlio di Angelo Colocci, Marc’Antonio, nacque il 28 novembre 1524./ (R)/ A: A f. 192 v: note sulla nascita adozione e battesimo del figlio adulterino Marc’Antonio./ 1Bologna: In 4 punti (ff. 8r, 16r, 68v, 77v) è menzionato un «Liber mazzatoste» che Colocci collazionò con questo codice deducendone delle varianti. Si tratta forse di un codice petrarchesco appartenuto a Fabio Ambustus Mazzatosta, di famiglia originaria di Viterbo, accademico romano. L: 31e n. 36/ FU: nn 9. 20. 23. 166/ (R: 30)/ A: 111/ 1Bologna: 578 4788: «BOETIUS de consolatione in lingua gal.» secondo la designazione di Inv2, dove è registrato al nr. 97. Mercati: 542 4792: Faits de Romains, ms. francese [così Lattès]./ FU: Questo codice può essere attribuito a Colocci solo sulla base di Inv3 (e corrisponderebbe al nr. 42 della IX cassa). L: 29. 36/ FU: n173 4796: Poesie provenzali tradotte. Ms. di mm 147 × 218, legatura del sec. XVIII (stemmi di Pio VI – 1755-1799 – e del card. F. S. de Zelada), di 30 fogli numerati, scritti dalla sola mano del Casassagia. Contiene le poesie con traduzione interlineare fatta da BARTOLOMEO CASASSAGIA: di ARNAUT DANIEL, Sim fos amors de ioi donar tan laria (f. 1); Lo ferm voler q’il cor m’intra (f. 3), Moutz braills e critz (f. 4), Era sabrai s’a ges de cortezia (f. 6) [in appendice, pp. 327-9, Debenedetti riporta la traduzione fatta dal Casassagia di queste 4 poesie]; di FOLQUET DE MARSEILHA, Per dieu amors, ne sabetz veramen (f. 10), Ben han mort mi e lor (f. 12), Amors merce, no mueira tan soven (f. 14), Greu fera nulls homs failhensa (f. 16), Mout i fes gran peccat amors (f. 18), A qan gen venz e ab qan pauc d’afan (f. 21), S’al cor plages be fora omaias sazos (f. 22), Uns volers outracuiatz (f. 25), Tan m’abellis l’amoros pensamens (f. 28). A f. 8 c’è una lettera di Bartolomeo CASASSAGIA a Colocci (28 luglio 1515: Debenedetti la trascrive in appendice, p. 301). Da queste traduzioni Colocci trasse i suoi appunti lessicali sul provenzale. Le traduzioni del Casassagia sono condotte certamente su una copia di M (già Vat. lat. 3794, vd.) fatta approntare dal Gareth. La lingua usata è fortemente mescidata di napoletano./ L: Contiene traduzione interlineare di testi provenzali fatta da Bartolomeo CASASSAGIA (nipote di Cariteo) per Colocci, tramite il Summonte (cfr. Vat. lat. 7182): furono inviati il 28 luglio del 1515, e tratti dal canz. prov. M (Vat. lat. 3794 iam)./ FU: La lettera del Summonte che accompagna le traduzioni dà brevi informazioni sul Casassagia (in parte riportate da Fanelli a nt. 20: forse figlio di una sorella di Cariteo e di un Baldassarre de Casasages, vissuto in Francia, uomo di grande ingegno ma di modesta condizione; conosce il catalano e il francese e traduce bene il limosino, ma le sue occupazioni non sono letterarie, a quanto sembra). Lettera e traduzioni si trovano qui ai ff. 1-30 e sono gli originali da cui sono tratte le due copie che si trovano ai ff. 287-333 di Vat. lat. 7182 (e si veda anche Vat. lat. 3436). Si tratta di traduzioni di alcune poesie di Arnaldo Daniello e Folchetto di Marsiglia./ (R)/ A: La traduzione interlineare di questi testi, diffusa tra gli amici umanisti di Colocci – spec. Bembo – diede il via agli studi provenzali in Italia nel ’500 (cfr. A: 39). Debenedetti: 77. 124. 301. 327-9. 349/ L: 28. 36/ FU: nn 20. 172/ (R: 160)/ A: 39. 178/ 4797: Codice di Medicina Miscellaneo in lingue iberiche; sul frontespizio Colocci annota «IOANNITIUS Tegni/ ARNAUT DE VILLANOVA de epidemia». Ff. 1-8: calendario di fasi lunari dal 1416 al 1515 (a f. 8 è segnato il 1476 come anno di compilazione del codice). Dopo fogli bianchi segue l’introduzione (Isagoge) a un’opera di GALENO intitolata Microtecne o Tegni, composta dal medico arabo IOANNITIUS. A f. 287 comincia il trattatello di ARNALDO DI VILLANOVA (scuola di Montpellier, morto nel 1311)./ (A)/ R: 160/ (A: 178)

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4798?: Cronaca in lingua spagnola del Regno di Castiglia (non certa l’appartenenza alla biblioteca di Colocci)./ (A)/ R: 161/ (A: 178) 4799?: Trattato in lingua spagnola sul peccato mortale (non certa l’appartenenza alla biblioteca di Colocci)./ (A)/ R: 161/ (A: 178) 4800?: «el libro intitulado espejo de la vida humana» (non certa l’appartenenza alla biblioteca di Colocci)./ (A)/ R: 161/ (A: 178) 4801?: Trattato sugli scacchi in catalano (non certa l’appartenenza alla biblioteca di Colocci)./ (A)/ R: 161/ (A: 178) 4802?: FRANCISCO DE MONER Y DE BARUTELL, opere. Contiene opere in poesia e in prosa in spagnolo e catalano Tra queste troviamo le due operette El anima d’Oliver (catalana) e La noche mas propriamente llamada vida humana (spagnola) che Colocci ha tradotto in Vat. lat. 4818. Secondo Fanelli questo è il codice su cui Colocci ha tentato la sua traduzione. Moner visse in Francia, partecipò alla guerra per la conquista di Granada e, deluso da un grande amore, si fece francescano, morendo un anno dopo. La sua opera è caratterizzata da un sentimentalismo cerebrale con intonazioni romantiche./ R: Il volume è un cod. cartaceo di 55 ff.; sembra copia di altro codice, fatta con intenzione di abbreviare dove possibile; l’ordine dei componimenti non è lo stesso della stampa uscita a Barcellona nel 1528: non ci sono note o postille di Colocci, ma da un confronto con Vat. lat. 4818 sembra che sia questo il codice su cui è stata condotta la traduzione, anche se del possesso non si può essere certi. Nella traduzione in Vat. lat. 4818 (f. 135r), infatti, vi sono alcune righe sostituite da puntini che corrispondono ad una lacuna del testo nel centro degli ultimi fogli di 4802. Oggi mancano il primo e l’ultimo foglio, che però dovevano esserci – o almeno l’ultimo – al tempo di Colocci, che traduce interamente la seconda delle due operette (El anima)./ A: Secondo SCUDIERI RUGGIERI (A: 179 sgg.) il ms. fu donato o segnalato o raccomandato al Colocci dal Cariteo che conobbe probabilmente Moner e Oliver. La noche – completo – occupa i ff. 12v-32v, ma alcuni suoi fogli si trovano spostati, al fondo dell’altro poemetto (catalano): si tratta dei ff. 51-52 che andrebbero collocati tra gli attuali 22 e 23; El anima invece si trova tra i ff. 45r-50v ed è incompleto. Il testo doveva invece essere completo ai tempi di Colocci che lo traduce integralmente (vd. Vat. lat. 4818): c’è una macchia che si allarga di f. in f. a partire da f. 40 fino a f. 50, [avrà forse deteriorato gli ultimi ff. del componimento suggerendone l’asportazione (?)]. Ai ff. 53-55 ci sono poesie in castigliano. FU: n 173/ R: 161. 163. 164/ A: 178. 179 4803: Canzoniere portoghese./ FU: Il canzoniere è stato pubblicato da Monaci nel 1875 [vd. Il canzoniere portoghese della Biblioteca Vaticana messo a stampa da E. MONACI, Halle 1875; qui anche una descrizione del codice: cartaceo di 210 fogli numerati e 18 non numerati (uno in principio, due dopo f. 2, uno dopo f. 10 e 14 in fine; tutti bianchi salvo il primo e l’ultimo); scrittura di due diverse mani del XV-XVI secolo: la seconda, che scrive i nomi degli autori, rimandi di foglio e annotazioni è quella di Colocci; i fogli sono numerati da 1 a 10 e di nuovo da 1 a 200] e Molteni nel 1880 l’ha integrato con i testi conservati nel codice Colocci-Brancuti (vd.), oggi a Lisbona./ (A)/ 3Bologna: La carta è quella delle cancellerie papali e anche lo scriba sarà uno di quelli da queste messi a disposizione dei prelati. L: 26. 36/ FU: n 173/ (A: 178. 197)/ 3Bologna: 107 4804: GUY DE CHAULIAC, Enventari ho collectori en part de cirurgia et de medicina [così il frontespizio del cod.]. È il «L° de cirurgia in lingua spagnola» (secondo Inv3, f. 190v, nr. 28, cassa VI); si tratta di un trattato di chirurgia composto nel 1363: cod. cartaceo (con primo foglio in pergamena) in caratteri gotici con otto miniature, scritto in «patois languedocien», una mescolanza di provenzale e catalano. In base alle osservazioni sulla fi-

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ligrana e sulle decorazioni si può con buona probabilità ascriverlo alla fine del Quattrocento./ (A)/ R: 161-162/ (A: 178) 4805?: Due operette in lingua spagnola sull’origine della coscienza e sul peccato mortale (senza segni di appartenenza)./ (A)/ R: 163/ (A:178) 4806?: JAIME ROIG, Llibre de les dones o spill. Testo catalano, tramandatoci solo da questo codice: edito a Barcellona nel 1928 da Francesco Almela y Vives; senza segni di appartenenza./ (A)/ R: 163/ (A:178) 4810: GIOVANNI VILLANI [Cronica?].

L: 36

4811: ARMANNINO GIUDICE, Fiorita (testo che nella lingua rivela una evidente provenienza marchigiana). Datato 1371 secondo Lattès. Opera interessante ed ancora inedita./ R la dice del 1381/ A: Reca l’annotazione «il vello dell’oro» [ma Lattès in A non indica il foglio] che illustra una regola bembina. L: 30. 36/ R: 185/ A: 249 4812: AGOSTINO GIUSTINIANI, Dialogo della Corsica.

L: 36

4813: BOCCACCIO, Philocolo. È il nr. 8, cassa VI di Inv3: «Philocolo senza principio». Il ms. è lacunoso nella prima parte. L: 11. 30. 36 4814: BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta. 4815: BOCCACCIO, L’Ameto.

L: 30. 36 L: 36

4817 (z.): Zibaldone colocciano. Debenedetti: Da f. 222r a f. 249r si trova un «ricco glossario provenzale-italiano per alfabeto»; un altro se ne trova ai ff. 251r-269v e porta in alto, a modo di intitolazione «Arnautz»; a f. 271r si trova una serie complessa di frasi e di modi provenzali; a f. 273v annotazione sull’uso sostantivato dell’infinito in provenzale; a f. 274r c’è una «raccoltina di vocaboli, talora accompagnati da traduzione, e disposti non più alfabeticamente, ma per poesie» (Debenedetti, p. 75). A f. 45r: appunti su diversi tipi di componimenti della poesia provenzale; f. 272: osservazioni sull sestina di Arnaldo. F. 273r: «lemosini molto fanno versi di monosyllabi per la lingua tagliata e sincopata et apocopata et sineresiata loro». Debenedetti – pp. 197-198 – dà ampi stralci di un testo (f. 8r-v) in cui Colocci indaga l’origine della rima e il suo venir soppiantata dalla poesia metrica («questa adunque quercia è stata l’arte poetica di Latini et di Greci che in varie sorti di versi … in tanta altezza e honore è ascesa...»), poi la caduta dell’impero, le invasioni barbariche, la mancanza di libri e di maestri hanno fatto sì che «le greche et le latine discipline et versi et prose si son venute annichilando et in nonnulla declinando», ma caduto l’impero e sorta la fede cristiana «li poeti che in Christo credevano furono li primi che alle sparse Rhyme cominciassero ad dar forma et latino et vulgare» e sul loro esempio «li nobili cavalieri et done amorose hanno dato tal principio che in brieve si spera di poter superare et Greci et Latini». A f. 168r, sempre a questo proposito cita passi di BEDA, l’inno Rex aeterne domini e Rosa fresca aulentissima, mentre a f. 129r aveva tentato di stabilire l’estensione della poesia ritmica. A p. 253 Debenedetti dà la trascrizione integrale dei ff. 39v-40v, che sono aperti da queste parole «Libro di Equicola/ CHANSON D’AMORS», in essa ai titoli e ai versi delle canzoni si inframmezzano osservazioni metriche e la pagina si conclude con la sottoscrizione «Guilhem Feraut cavalher senhor que fo de Cerda de Teunes/ Mil. e CCCLII», letta probabilmente sul codice da cui Colocci trasse questi appunti e dovuta a chi lo fece vergare. Ci dà insomma notizia di un codice perduto./ L: Contiene note sulle lingue romanze, un breve estratto del De vulgari Eloquentia, un ‘vocabolario’ di termini italiani e provenzali. Appunti per una storia della poesia; note sulla metrica latina medievale./ FU: A f. 114v è menzionato «Apollonius Tyanaeus» per il quale Colocci ha interessi (rimanda al Volterrano: Raffaele Maffei e il suo Commentariorum urbanorum octo et triginta libri, Basilea 1520); lo stesso foglio ospita la notizia della fonte (Pacifico Massimi) da cui ebbe informazioni su Cecco d’Ascoli e alcune notizie sul carattere riottoso degli Ascolani. A ff.

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210-211 c’è un elenco di libri: tra gli altri si trova un «Calmete Iuditii e Opere». A f. 214 c’è la postilla che dice «Calvo ha il canzoniero di libro reale dice el Molza». Questo è il codice più interessante per quanto riguarda quelle osservazioni sparse sulla lingua, da Ubaldini dette pretenziosamente Regole (si vedano anche Vatt. latt. 4818, 3217, 3903, 4831). Gran parte del codice (spec. ff. 151-157) è occupato da un’«opera sulla rima e sui ritmi nella quale il Colocci indaga il passaggio dalla poesia quantitativa degli antichi a quella moderna», che anticipa di quasi mezzo secolo le posizioni di Corbinelli, Barbieri, Quattromanni e Castelvetro. A f. 176v v’è cenno della riforma ortografica del Trissino: «et Trissino erra che fa hw, non ho; ibidem conciw, perciò, accioché». A f. 204v c’è un appunto interessante per la storia dei canzonieri portoghesi: «messer Octaviano di messer Lactantio ha il libro di portoghesi quel da Ribera l’ha lassato». A f. 212 e sgg. c’è una canzone di Colocci (Piagge riposte apriche, vd. anche Vat. lat. 4819), che Ubaldini riporta al fondo della sua Vita (pp. 104-106 di FU)./ R: Ff. 210r-211r: lista di libri; f. 114: nota sulla turbolenza degli ascolani; f. 114v: «Pacifico» (Massimi?) è designato come fonte delle notizie su Cecco d’Ascoli che qui riporta (sarebbero la prima redazione delle note sullo stesso argomento che compaiono in Vat. lat. 4831, secondo Fanelli in R). F. 204v: appunto sui canzonieri portoghesi già citato («messer Octaviano...»). A f. 115r: brano sulla lingua comune che viene ricondotto alle lingue preromane, tra cui la picena. [cfr. FU nt. 121: «Nui che componemo nella comune lingua de Italia, non la latina, ma la comune cerchiamo imitare» e – sempre da f. 115 – cfr. FU nt. 173 «Epo(i) el toscano quando non ha questo vocabulo Amens insensato recorrerà danti e politiano al francioso et dirà fuorsennato, che e fuor di senno et pigliara un vocabulo piceno et uno provenzale più tosto che uno mero latino»]./ A: [In A: 111, nt. 7: BIBLIOGRAFIA sugli appunti metrici di Colocci: V. BERTOLUCCI, Sulle postille metriche di A. C. ai canzonieri portoghesi, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale 8/I (1966), pp. 15, 21, nt. 2; G. SALVADORI, Lingua comune e lingua cortigiana negli appunti di A. Colocci, in Fanfulla della domenica (16 maggio 1909); B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze 19602, p. 343; S. LATTÈS, La conoscenza e l’interpretazione del «De vulgari eloquentia» nei primi anni del Cinquecento, in Rendiconti della R. Accademia di arch. Lett. e belle arti della Società reale di Napoli 17 (1937), pp. 165-166; O. OLIVIERI, Gli elenchi di voci italiane di A. Colocci, in Lingua nostra 4 (1942), pp. 27-29; S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911]. A f. 284r contiene un excerptum del De Vulgari Eloquentia [edito da S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in Zeitschrift für romanische Philologie 28 (1904), spec. pp. 91-93 e 76-90 che però non riconosce la mano di Colocci.]. I ff. 8-69 presentano doppie numerazioni, confrontabili con quelle di Vat. lat. 3450 (sono però più alte): segno che nei due codici, i quali hanno il medesimo formato, confluirono in disordine fogli aventi la stessa origine (A: 111-112, nt. 8). CONTENUTI (parziale: A: 115-118): f. 1r: la lingua comune di Petrarca fatta per imitatione [il passo è trascritto da A. GRECO in A: 214-215]; f. 2r: «hispani menstier, galli mestier»; f. 7: «traho lo spagnolo. Meno per mano, hispani et romani ue fuego»; f. 8: bella metafora dell’albero e dei fiori sul confronto tra rhyme e poesia classica (A: 126, n. 62); 9v e 10r: appunti vari (a f. 9v c’è una Facezia: cfr. A: 222); 11r-14r: esempi tra i più artificiosi della versificazione mediolatina; 16r-19v: lunga serie di appunti su vari inni cristiani, con note erudite e osservazioni metriche (derivano dal CLICHTOVE [cfr. Stampati: R. I. I. IV. 2245]; f. 39r: fa del castigliano e del provenzale una sola lingua [A: 177]; f. 41v: dice che la Coronacion de Juan de Mena è in «coble de octonarii»; f. 42r: confronto tra i classici greci (Pindaro) e Petrarca; f. 42v: nota con «beata virgo aiutami che non perisca a torto»; f. 45r: le ascendenze classiche dei versi cruciati (Virgilio, Orazio, Catullo); f. 49r: «spagnoli coraggio corazzon»; f. 53r si ricorda «mastro Ferrando de Eredia»; f. 53v: «lo h. hispani per f. lo pongono»; f. 64r: «il presente./. il dono si dice in Francia, Flandria, Italia, Spagna»; f. 68r: «m° Fernando»; f. 115r: spiega che dove allo scrittore manchi la

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parola esatta «pigliarà un vocabulo piceno et uno provenzale piutosto che uno mero latino»; f. 123r: «l’arte maggior di Spagna ha quasi due come»; f. 125: confronto tra endecasillabo sdrucciolo italiano e un trimetro giambico puro; f. 127v: il conteggio dei versi nei classici e nei volgari (con prima citazione di Rosa freca aulentissima); f. 129: si pone il problema dell’accento (ma non con molta attenzione); f. 130r: «li siculi imitarono Pindaro»; f. 134r: Rhytmi = rhyme [e cfr. tutti i rimandi alla nota 59 di A: 125]; f. 142r: «làstima»; f. 149: giochi di rime di ascendenza contadinesca e pastorale (ma anche Catullo); ff. 165r-168r: i cristiani e l’invenzione della poesia ritmica (Beda, Petrarca; A: 127, nt. 165) e citazione di Rosa fresca aulentissima. Gli appunti di Vat. lat. 4817 sono di qualche decennio posteriori all’edizione di Serafino Aquilano (1503; cfr A: 118); f. 171: è il passo in cui Colocci parla di Cielo d’Alcamo [A: 122: su cui vd. E. MONACI, Il poemetto di Cielo dal Camo con due documenti ad esso relativi, in Bullettino dell’Archivio paleografico italiano 1 (1908-1912), p. 276; F. M. MIRABELLA, Sul verso che precede la prima strofa del Contrasto di Cielo d’Alcamo ne’ notamenti di A. Colocci in Il Propugnatore 19/I (1886), pp. 122-132; E. MONACI, Archivio paleografico italiano, I, Roma 1882-1897 (cfr. anche le Notizie dei facsimili)]; f. 175r: «Spania immo hispania sicuti ignudo»; f. 176: Appunti sull’Epistola e sui Dubbi grammaticali di Trissino nella seconda edizione (1529); f. 198: nota riconducibile al 1528 (A: 128); f. 202r: «Spagnoli tio et Romani mio et tio»; f. 211r: elenco di libri, tra cui «libri hispani coble». Contiene abbozzi di componimenti sull’origine della poesia (A: 244). Ricompaiono qui appunti di comparazione linguistica già presi da Colocci sui margini, per es., del Colocci-Brancuti: qui sta rielaborando una teoria linguistica./ Bianchi: Contiene elenchi di libri a ff. 210r-211r./ 1Bologna: A f. 284 r-v: frammento del De vulgari dipendente dal Trivulziano 1088 pur con qualche scarto (1Bologna, p. 564). A f. 196 r-v c’è un elenco di libri con titolo «Roma»: vi si ricordano, tra gli altri, «portughesi, lemosin di cariteo» (col. b); «libro reale, francesco barbarino, Cino, Sicilian in foglio» (col. c). Ai ff. 210r-211v e 214v, ancora elenchi di libri tra cui «libri Gallici, lancilotto et alii, libri hispani, coble»./ 2Bologna riporta alcuni appunti di Colocci su f. 134v: «Terentiano parlando del dactylo. Sed non et sextum per hic sibi vendicat unquam/ Nisi quando Rhytmum, non metrum componimus/ Neque metrum certique pedes numerusque coercent/ Dimenza Rhythmum continet lex temporum»; f. 234r: «Lo Rhytmo che latino vuol dire modus è una certa legge et ordine delle vocali: intervallo et differentia, come definisce Aristoxeno, non l’uno e l’altro composto intervallo»./ 3Bologna: Ai ff. 171r-172r: Notamento Colocciano [3Bologna, pp. 132-133, ne dà una trascrizione completa ed attenta] con la citazione di Rosa fresca aulentissima e l’attribuzione a Cielo d’Alcamo. Una variante dello stesso verso («rosa fresca dulcissima/ che vieni in ver la state») è citata a f. 127v in una comparazione metricologica con versi di Catullo e di S. Ambrogio. Sul medesimo verso Colocci torna ancora a f. 125v («rosa fresca aulentissima/ che fai la state nascere») in un confronto con la poesia cristiana. Queste circostanze spingono Bologna a supporre che Colocci avesse in studio un altro codice affine a Vat. lat. 3793, ma diverso da questo e naturalmente da Vat. lat. 4823, mentre in questi anni (1528-1530) metteva su carta gli appunti preparatori al suo lavoro metrico-linguistico in Vat. lat. 4817. A f. 42v è citata «la canzon siciliana che dice Beata virgo aiutami che non perisca atorto» (che compariva ancora per comparazione nel Notamento a f. 171r) e ancora il verso è ripreso a f. 123r in questa forma «virgo beata aiutami cheo non perisca atorto». Il bifoglio 77r78v contiene «un elenco di passi realtivi al topos della sofferenza d’amore, tratti da poeti italiani, specie siciliani e occitanici» (però destinato ad ampliarsi nel progetto di Colocci): i rimandi sono appunto a M (per gli occitanici) e per gli altri a Vat. lat. 4823. A proposito dell’elenco «Roma» citato (ff. 196r-v) 3Bologna (p. 139) ipotizza si tratti di testi in gran parte spazzati via dal sacco del 1527. Fra di essi ricorda «L° Reale», «f. bar-

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barino», «L° della branca», «cino», «sicilian in foglio», «Danti de materno eloquio», «calmeti». Debenedetti: 72. 75-76. 183n. 185. 188. 198-199. 252-4/ L: 30. 33. 36/ FU: nn 32. 44. 45. 59. 71. 94. 121. 167. 168. 170. 172. 173. 183/ R: 3. 33. 76. 82. 159. 182-183. 184. 185. 186. 187-199/ A: 110 (cfr. tutto Avesani: pp. 108-132). 177. 178. 181. 182, n8. 214. 222. 244. 246. 248. 250/ (Bianchi: 282)/ 1Bologna: 564-565. 573. 552n. 566/ 2Bologna: 396/ 3Bologna: 132-136. 138. 139 4818 (z.): Zibaldone colocciano. Contiene liste di vocaboli italiani e provenzali, poesie, appunti linguistici e brogliacci./ FU: Contiene osservazioni sparse sulla lingua, da Ubaldini dette pretenziosamente Regole [si vedano anche Vatt. latt. 4817, 3217, 3903, 4831]. Contiene indici di parole da f. 1 a f. 98 (a f. 86r c’è suppa, [cfr. A: 193]). Il materiale lessicale di questo codice non si distingue sostanzialmente da quello radunato in Vatt. latt. 4817 e 3217. Ai ff. 127-138 si legge la traduzione colocciana de La noche e a ff. 139-143 quella de El anima de Oliver, operette del poeta catalano (ma El anima è in spagnolo) Francisco de Moner [l’originale in Vat. lat. 4802]./ R: Contiene lunghi elenchi di vocaboli e di locuzioni per lo più in ordine alfabetico, sonetti di poeti trecenteschi, rimari e indici di canzonieri; a ff. 127r-137 c’è l’«opera intitulada anima de Olyviero»; a ff. 139-143: «la nocte de Moner facta per epso»: questi ultimi due sono traduzioni dal catalano di altrettante operette di Moner, di Colocci./ A: La SCUDIERI RUGGIERI (in A: 183-192 per quella dal castigliano; 193-916 per l’altra) dà una parziale trascrizione delle versioni colocciane e le commenta ampiamente./ 1Bologna: Ai ff. 101-126 troviamo un frammento di quel libro «diviso» che, negli elenchi colocciani (cfr. Vat. lat. 4817 ff. 210-11) compariva designato come «moderni» insieme a «Cino» (cfr. Vat. lat. 4823): si tratta di lirici tardo quattrocenteschi d’estrazione cortigiana. In questi ff. si scorge una numerazione più antica: ff. 101-108 = 63-70 (vanno inseriti tra il f. 1 e il f. 2 di Vat. lat. 4823, che nella vecchia numerazione – del codice «Cino e moderni» di cui, coi presenti fogli di Vat. lat. 4818, erano parte – corrispondevano rispettivamente ai ff. 13 e 87); I ff. 109-116 corrispondevano, probabilmente, ai ff. 14-21 del medesimo codice. A f. 125r si rinviene addirittura la tavola di questo antico «libro diviso»./ 3Bologna: Contiene quelli che sono probabilmente versi dello stesso Colocci, preceduti da un «ego» che invita a questa interpretazione. L: 33. 36/ FU: nn 167. 168. 173/ R: 163-164/ A: 182. 184. 193 1Bologna: 573-577/ 3Bologna: 142 4819: Raccolta di poesie quasi tutte di COLOCCI autografe./ FU: Contiene rime ed epigrammi in italiano di COLOCCI: da qui (e da Vat. lat. 3388, oltre che dalle raccolte) ha attinto il Lancellotti. A ff. 30v e sgg. contiene altra redazione della canzone Piagge riposte apriche (per cui si veda Vat. lat. 4817)./ 1Bologna: Ai ff. 100r-103r: testi di lirica meridionale./ 3Bologna: Questi testi, di mano colocciana, andranno ricondotti a quelli che si leggono nei foglietti 453r-456v (anche a f. 451v) di Vat. lat. 4823. Il codice sembra destinato a tenere insieme un’antologia di poesia primo-cinquecentesca, con cose del MOLZA, di L: 26. 36/ FU: nn 167. 183. ANNIBAL CARO e indediti poetici dello stesso COLOCCI. 1Bologna: 566. 578/ 3Bologna: 137n 4820: Miscellanea storico-geografica. Note sull’impero Ottomano./ R: A ff. 42-49 c’è una redazione parziale del discorso tenuto da Giovanni Lascaris di fronte a Carlo V nel 1525 (o 1526) [si veda Vat. lat. 3890], intitolato De rebus Turcicis, redatto di mano del Colocci. Il quadernetto intitolato «Lemosini per alphabetum» si compone di 35 fogli./ FU: Contiene un quadernetto di formato minore con la Tavola del canzoniere provenzale A [Vat. lat. 5232, membr. Sec. XIII, appartenuto ad Aldo Manuzio]: «lemosini per alphabetum» e alcuni versi provenzali. [Le note integrative di Ruysschaert citano a questo proposito l’articolo di J. M. D’HEUR, Una tavola sconosciuta del canzoniere provenzale A, in Cultura neolatina 24 (1964), pp. 59-94]./ 1Bologna: Ai ff. 82r-104r si legge la tavola di un canzoniere provenzale che si rivela essere la copia Braidense (AG. XIV. 49, designata

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Aa) del canzoniere A (Vat. lat. 5232), approntata dalla stessa mano che ha trascritto Aa; la tavola è intestata da Colocci di suo pugno «lemosin per alphabetum in ordine» e dipende proprio dal descriptus e non da A. L: 22. 36/ R: 179/ FU: nn 145. 172. 176/ 1Bologna: 545-547 4821: CHIRIACO, Bibbia in versi in endecasillabi italiani con sistema rimico inusuale. L’autore dichiara di aver scritto la sua opera tra il 1395 e il 1402. Tinta linguistica marchigiana; è probabilmente un testo unico./ (R) [R scrive 4851 a testo, ma è probabilmente un errore. S. DEBENEDETTI, nella recensione a L, lo dice – su informazione del Lattès stesso, che gliene dà notizia «privatamente dopo la pubblicazione dell’opuscolo» – una versione composta da «un tal Chiriaco tra il 1395 e il 1402» dell’Historia scholastica di Pietro Comestore: cfr. Giornale Storico della Letteratura italiana 99 (1932), p. 321]. L: 31. 37/ [R.185] 4822: OVIDIO, Eroidi. Traduzione italiana in ottave.

L: 30. 37

4823: Canzoniere italiano. Copia di Vat. lat. 3793, fittamente annotato./ FU: A ff. 21-25 contiene indici di parole./ A: Nei suoi margini compaiono frequentemente annotazioni di metrica a f. 67r c’è la copia di Rosa fresca aulentissima: essa reca il rimando al «disticho in luxuria Iulii Caesaris» di Svetonio. A f. 22r è annotata la parola «suppa» all’interno di un indice di parole (A: 193; cfr. Vat. lat. 4818)./ 1Bologna: Il codice non è un semplice descriptus di Vat. lat. 3793 (fatto approntare da Colocci e da lui stesso costellato di postille e annotazioni – alcuni testi sono anche stati da lui trascritti nei primi 42 fogli del cod.: p. 540), ma risponde all’«idea di libro lirico totale» (p. 578), in cui, al nucleo di poesia siciliana e duecentesca mutuato da Vat. lat. 3793, si affiancano i nomi di Dante e soprattutto Cino e Guinizelli (Selvaggio), fino ai moderni poeti del ’400 e, prima di questi, Petrarca: «Colocci mirava all’integrazione del pur ricco canone lirico offerto dall’exemplar del 4823 attraverso l’aggiunta di materiali poetici esclusi per ragioni di cronologia ma anche di gusto selettivo, dal monumento antico» (p. 572). In Vat. lat. 4823 è in atto un «processo di innesto di materiali lirici antichi in un progetto di poetica “petrarchistica” ed insieme sulla costruzione di un canone di auctores moderni quali dialettici “continuatori” della produzione lirica antica» (p. 567). Il Vat. lat. 4823, infatti, è costituito di tre unità codicologiche: 1) I ff. 1-26: recano una seconda numerazione, oltre all’attuale, che appare più antica (f. 1 = 13; ff. 2-25 = 87-100) e ospitano componimenti non presenti in Vat. lat. 3793, quelli che Colocci possedeva in una raccolta che, nei suoi cataloghi di libri, definiva «Cino et moderni» (cfr. Vat. lat. 4817, ff. 210-214); prima di questa dicitura – e di questa condizione codicologica – questo fascicolo formava un’unità bibliografica con testi guinizzelliani sotto la dicitura «Cino in 4° con Salvagio»: ai ff. 473r-474r di Vat. lat. 4823 Colocci ha trascritto la tavola di questa unità; successivamente le due parti furono smembrate e anche del singolo Selvaggio – poi corretto in «Guido Guinicelli» – si conserva la tavola, in Vat. lat. 3217, f. 323r. A questo punto un solitario «Cino» può comparire in un elenco titolato «Roma», a f. 196 di Vat. lat. 4817, in sequenza con un «Siciliani in foglio» e un «De materno eloquio»; è a questo punto che Cino è accorpato ai moderni, come si è detto, e nei citati ff. 210-214 di Vat. lat. 4817 compare in un elenco, ben distinto ma accompagnato da «L° d’Augubio» [la cui tavola è conservata ai ff. 476r-477v di Vat. lat. 4823] e «Selvaggio». I moderni furono successivamente separati da Cino: ne ritroviamo alcune parti nei ff. 101-126 di Vat. lat. 4818 [per tutte queste vicende si vedano qui – 1Bologna – le pp. 568-573 e rimandi], ma anche nelle altre raccolte «Selvaggio» e in parte «Libro d’Augubio» (p. 569). 2) I ff. 27-445: copia di Vat. lat. 3793, costellata di annotazioni e varianti, richiami ad altri codici e osservazioni; il copista di questa parte si mostra piuttosto innovativo e poco aderente al modello di Vat. lat. 3793, dal punto di vista grafico. 3) I ff. 446-449 (cfr. pp. 577 sgg.) rivelano, già dall’intestazione, la loro fonte: «ex (ibr)o fr(ancisci) pet(rarce).C. Mazzato-

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ste». Intenzione di Colocci era infatti di chiudere la silloge con Petrarca e nella fonte è riconoscibile un codice appartenuto ad un membro della famiglia Viterbese, inurbata a Roma, dei Mazzatosta, forse Fabio, accademico pomponiano col nome di Ambustus. Ad un «Liber mazzatoste» Colocci fa riferimento anche nelle sue collazioni sul cod. petrarchesco Vat. lat. 4787 (vd.). Seguono, come in parte accennato, alcune tavole. Ai ff. 453r456v ci sono testi di lirica meridionale (p. 566). Del nuovo libro lirico totale Colocci redasse una tavola conservata nei ff. 308r e sgg. di Vat. lat. 3217 (vd.)./ 3Bologna: Codice cartaceo in quaderni in 8°, del formato medio di cm 29,5 × 22, attualmente composto di 479 fogli, numerati progressivamente a partire dal terzo (solo i ff. 453r-456v, contenenti strambotti siciliani, hanno dimensioni diverse: 29 × 10 cm). Il bifoglio iniziale (Ir-IIv) reca appunti lessicografici. I ff. 27r-42r sono di mano di Colocci e così anche i ff. 1r-25r, provenienti però da altra fonte [vd. infra]. Il f. 26 è seguito da un fascicoli di 6 ff. (numerati 26a-26f) contenente la tavola alfabetica delle canzoni presenti in Vat. lat. 3793 (esclude dunque quelle canzoni presenti nei fascicolo aggiunti da Colocci ad integrare il canone del canzoniere Vaticano) di mano di copista (cfr. p. 108); Il fascicolo è seguito da un altro fascicolo (numerato 26g-26n), di mano colocciana, contenente la tavola alfabetica dei sonetti di Vat. lat. 4823, mancante però della sezione relativa alle lettere A-N, che si ritrova, invece, ai ff. 462-472 (cfr. p. 111) [per la tavola topografica vd. Vat. lat. 3217, ff. 308r-314r]. Ai ff. 457r-458r Colocci ha trascritto di sua mano un elenco di nomi, intitolandolo «SON. Di siculi». Tra i fascicoli g e h (ff. 315 e 316) Colocci inserì un bifoglio numerato irregolarmente (305-306) contenente 2 canzoni di sua mano. I ff. 451-452 contengono – di mano di Colocci – disordinati incipit e versi non collegati al canzoniere. Ai ff. 459r-461v c’è una tavola alfabetica redatta da copista (diverso da quello di Vat. lat. 4823), intitolata «Messer Ant° .T. di Firenze». Ai ff. 473r-474r: tavola alfabetica di «Cino in 4° consalvagio» (da A a V); ai ff. 474v-475r: tavola alfabetica di «Dante Nellibro delle ep(isto)le dovidio» (da A a V); ff. 476r-477v: tavola alfabetica del «L° daugubio» (da A a V) [cfr. p. 105n]. L: 30. 37/ FU: n 168/ A: 112. 124. 193/ 1 e 3 Bologna (tutti) 4831(z.): Zibaldone colocciano. Debenedetti trascrive e dà notizia di alcuni degli appunti sui poeti provenzali contenuti nei fogli di questo ms. (Folchetto, «Arnaldo men famoso»...)./ L: Autografo di Colocci, con notizie su Cecco d’Ascoli a ff. 55-56. Note biografiche su trovatori e poeti italiani./ FU: Il f. 85 era destinato a contenere notizie su Girolamo Carbone, Elisio Calentio e Serafino Aquilano, ma è rimasto bianco con il solo nome. Ci sono alcuni brevi appunti su Benedetto Cingulo a f. 85v e sul comportamento dell’Aquilano a f. 86. Fanelli non vi trova menzionato Agostino Staccoli [ma sarà probabilmente l’Augusto da Urbino, per es. di f. 86v]. A f. 104 compare il nome di alcuni poeti contemporanei (titolo: «Hoggi») tra cui il Cariteo, il Tebaldeo, il Calmeta, il Cingulo (detto Piceno), Francesco Colocci, Bembo, Castiglione. Vi viene anche menzionata quella che Colocci chiama «la nostra Accademia» e genericamente «altri spagnoli». Il Moner è solo menzionato a f. 91v. A ff. 2-5v compaiono versi italiani che Fanelli attribuisce a Girolamo Vida [cfr. nt. 112; ma si veda nel presente volume M. BERNARDI, Intorno allo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831, nt. 15]./ R: Contiene notizie su Cecco d’Ascoli (ff. 55v, 56, 59r; solo questa fonte utilizzò il Castelli nella sua opera sul poeta, del 1882): Fanelli in R afferma che queste note sono lo svolgimento di quelle contenute in Vat. lat. 4817 (f. 114) – che per questo là sarebbero biffate – e riporta entrambe le stesure. Contiene appunti dai quali appare chiaramente che egli preparava una specie di raccolta di biografie di tutti i poeti, cominciando dai provenzali ed arrivando a quelli che si riunivano attorno alla sua Accademia (Poliziano, il Magnifico, Luigi Pulci, Alberti, Landino, Palmieri...). Cita il Moner (f. 91v) e, genericamente, «Spagnoli»./ A: Il ms. contiene appunti per le biografie di poeti provenzali e italiani fino ai tempi di Colocci stesso (così a f. 104r con l’intestazione «Hoggi») A f. 32r c’è una facezia [edita dal DEBENEDETTI, Gli

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studi provenzali cit., vd. oltre]. Vi si trovano dunque, tra le più estese e interessanti, le vite di Cecco d’Ascoli e Re Roberto [Ma Lattès in A non mostra di identificare la fonte petrarchesca per queste notizie]. Da queste notizie Lattès in A (p. 245) stralcia un brano relativo alla liceità dell’uso del volgare [«Cesare fu celebrato da Ovidio in lingua scitica...». Si veda in questo volume a questo proposito anche N. CANNATA, Il primo trattato cinquecentesco di storia poetica e linguistica: le Annotationi sul vulgare ydioma di Angelo Colocci (ms. Vat. lat. 4831)]. Debenedetti: 211-214/ L: 32-33. 34. 37/ FU: nn 20. 44. 72. 94. 107. 112. 120. 121. 167. 173/ R: 82. 145. 160. 182. 184. 186. 187-188. 192. 193. 194. 197. 200-205/ A: 178. 222. 244. 245/ 4841: «Regula di san Benedetto in vul.». Così in Inv2 al nr. 118. Si tratta dell’unico ms. del vecchio fondo Vaticano con la Regola Benedettina in volgare. In Inv1 è registrato sotto la sezione di Theologia come «Regula de S.to Benedeto vulgar». A f. 1r reca la sottoscrizione «Iste liber est Cong.nis S. Iustine deputatus Mon.rio S. Nicholai de buscheto Sig.us n.o 242». Mercati: 543 5194: Miscellanea. Contiene due redazioni autografe della dissertazione del CARTEROMACO, De cane rabido, sull’interpretazione di un controverso passo del De historia naturali di Aristotele, più una lettera di NICCOLÒ GIUDECCO (Iodocus) al Leoniceno sullo stesso argomento: a f. 21 c’è un’annotazione di Colocci che rimanda ad Apollonio di Tiana. Quelle qui contenute sono le prime due redazioni delle quattro a noi pervenute dell’operetta del Carteromaco (le altre due si trovano in Vat. lat. 3900, ff. 93-96, e in Vat. lat. 6845): esse sono incompiute e con molte correzioni del Carteromaco stesso./ R: Contiene due redazioni incomplete di una lettera di Scipione Carteromaco a Colocci per chiedergli un giudizio sull’interpretazione di un passo controverso di Aristotele. FU: n32/ R: 102 5394: Raccolta d’Agrimensura. In parte copiata da Colocci stesso, che dichiara di averla tratta da un codice di più di mille anni./ FU: Contiene l’indicazione di Frontino come autore dell’operetta di Nypso (vd. nt. 59 e cfr. Vatt. latt. 3132, 3895, 4498)./ R: Contiene tra l’altro frammenti dell’operetta del Nypso (si vedano anche i codd. Vatt. latt. 3893-94). L: 20. 37/ FU: n59/ R: 70 5395: Raccolta miscellanea di metrologia. Quasi interamente di mano di Colocci, ricca di note, riferimenti, estratti da autori antichi, per l’opera De ponderibus et mensuris, rimasta allo stato di semplice raccolta di materiale./ (FU)/ R: Contiene il De sestercio che il Mercati attribuisce correttamente al QUESTENBERG: da qui è copiata questa dissertazione che si ritrova anche nel Codice colocciano Vat. lat. 14871 [una specie di libro di memorie e appunti familiari dei Colocci]. Fu tra i libri consultati dal Bouchard per conto del Peiresc nel XVII secolo (R: 60). In questo cod. vi è copia di alcune parti del codice di fra Giocondo [Vat. lat. 4539] (vd. f. 162) [cfr. WEISS, The Renaissance Discovery cit.]. L: 21. 37/ FU: n175/ R: 58. 59. 60. 61. 66. 125 6803: Reca annotazioni di Colocci che consentono di riportare il cod. alla sua biblioteca [la notazione fa parte delle integrazioni dovute a J. RUYSSCHAERT]. R: 172 6841: Reca annotazioni di Colocci che consentono di riportare il cod. alla sua biblioteca [la R: 172 notazione fa parte delle integrazioni dovute a J. RUYSSCHAERT]. 6845: Raccolta di lettere e appunti di Colocci per il De ponderibus et mensuris./ FU: Vasta raccolta con alcune epistole di Giorgio TRAPEZUNTIO ed operette di altri tra cui la biografia anonima di Gregorio Tifernate ed un appunto del QUESTENBERG. È stato probabilmente messo insieme dopo la morte di Colocci, «che tuttavia ha posseduto certamente molte parti di esso e le ha annotate». A ff. 140-156 è contenuta l’epistola del CARTEROMACO De cane rabido, postillata molto sporadicamente da Colocci stesso. Si tratta della redazione definitiva del trattatello (si vedano anche Vatt. latt. 3900 e 5194) redatta pro-

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babilmente nel 1514 (scoperta nel 1809 e pubblicata da S. CIAMPI, Memore di Scipione Carteromaco, Pisa 1811, che ha lasciato anche segni della sua consultazione nel ms.)./ R: La vita di Gregorio Tifernate si trova ai ff. 157-161 e Fanelli avanza cautamente l’ipotesi che possa esserne autore Angelo Tifernate. L: 25. 37/ FU: n32/ R: 142. 143 6850: Reca annotazioni di Colocci che consentono di riportare il cod. alla sua biblioteca [la notazione fa parte delle integrazioni dovute a J. RUYSSCHAERT]. R: 172 6871: Reca annotazioni di Colocci che consentono di riportare il cod. alla sua biblioteca [la R: 172 notazione fa parte delle integrazioni dovute a J. RUYSSCHAERT]. 6875: Codice relativo agli interessi numismatici di Colocci [la notazione fa parte delle R: 125 integrazioni dovute a J. RUYSSCHAERT]. 6955: [Mercati si limita a segnalarne la dimenticanza da parte del Lattès].

Mercati, 533

7179?: Contiene materiale autografo di Pier Francesco GIUSTOLO [non si dice espressamente se anche questo codice sia appartenuto a Colocci]. A: 271 7182?: Raccolta miscellanea. Il ms. contiene un fascicolo di mano di un copista di Colocci – ff. 281-286 – comprendente 8 frammenti provenzali (il fascicolo è denominato n per l’affinità dei suoi testi con quelli di N [New York, Pierpont Morgan Library, 819]) [cfr. p. 254-5]. Ecco gli incipit degli otto frammenti: 1) riduzione in provenzale di 4 vv. di una canzone di crociate di CONONE DI BETHUNE; 2) «Amix Robert, fey que dey vos» (canz. del MONACO DI MONTAUDON); 3) «Tay servida e de tot mon poder» (Canzone di G. DE LA TOR, Qant hom reigna); 4) «Dona quavez la senhoria» (anonimo, presente nel solo N; il Barbieri sembra attribuirla a Alegret: cfr. p. 270); 5) «Et si tot ieu suy aytals» (canzone di G. DE PUEISIBOT, Una grans amo coral); 6) «Bens cuidet veniar amors» (canzone di G. DE PUEISIBOT); 7) «Breu vers per so que mens i ponh» (canzone di G. AMIEL); 8) «Sira damor tengues homen iausen» (canzone attr. a JORDAN BONEL). I componimenti sono lacunosi e si scorge una irregolare precedente numerazione sui fogli (ora in numeri romani ora in arabici). Ai ff. 287-294 e 305-325 si trova un «duplicato fedelissimo delle carte di 4796 con le traduzioni del CASASSAGIA» con il testo originale, mentre ai ff. 295-303 e 326-333 si trova «l’estratto della sola traduzione dall’originale del Casassagia»: sono queste le più antiche versioni a noi note d’un testo provenzale in prosa italiana. Debenedetti (p. 125 nt. 6) suppone che un fascicolo di Vat. lat. 7182 facesse originariamente parte di Vat. lat. 7190 [contenente traduzioni in distici latini di Rambaldo di Vaqueiras e versi di Ariosto]./ L: Contiene, insieme a fascicoli di diversa provenienza (non colocciana), dei lais portoghesi [cfr. in merito S. PELLEGRINI, I lais portoghesi del Cod. Vat. lat. 7182, in Archivium Romanicum 11 (1927), ora in Studi su trove e trovatori della prima lirica ispano portoghese, Bari 1959, pp. 184-199]; Frammenti provenzali; copia (parziale per uno dei due testi) delle due traduzioni dal provenzale fatte fare a Bartolomeo CASASSAGIA, da Summonte per conto del Colocci (per l’originale si veda Vat. lat. 4796)./ FU: Il codice contiene a ff. 287-333 una duplice copia delle traduzioni di Casassagia, tratta da Vat. lat. 4796. Vi si trovano, disordinatamente, le opere del GIUSTOLO (come in Vat. lat. 7192) e porta numerosi segni di appartenenza a Colocci (nt. 44). A ff. 130-131 si trovano alcuni versi dedicati a Colocci di PIETRO CORSI DI CARPINETO (che sarà suo esecutore testamentario). A ff. 497-500 c’è una lettera di GIROLAMO TASTI che accompagna alcuni versi di PICO DELLA MIRANDOLA inviati a Colocci su sua richiesta: in questa lettera Colocci è chiamato «litteratorum patrono»./ R: Ai ff. 160-167 troviamo un frammento (quaternione f) proveniente dal cod. Vat. lat. 7192 (vd. oltre) Il codice, che contiene anche brani provenzali e lais portoghesi, è appartenuto, almeno in certe sue parti, a Colocci. [sul cod. cfr J. M. D’HEUR, Traces d’une version occitanisée d’une chanson de croisade du trouvère Conon de Béthune in Cultura neolatina 23 (1963), pp. 73-89]. Il cod. fu esaminato da H. Fortoul nel 1846 che vi trova le traduzioni del Casassagia, ma solo dallo Chabaneau, dal Monaci e dal Canello fu individuato in Coloc-

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ci il destinatario delle traduzioni (R: 173)./ A: Contiene parte del ms. che servì per l’edizione dell’opera del Giustolo, le altre parti sono in Vat. lat. 7192. La loro ricomposizione è la seguente: 1) Vat. lat. 7182, ff. 40r-409r: autografo di GIUSTOLO; 2) Vat. lat. 7192, ff. 223r-120v; 3) Vat. lat. 7182, ff. 160r-167v; 4) Vat. lat. 7192, ff. 121r-136v. A f. 163r-165v c’è il componimento di Giustolo Ad divam Felisiam de Ruvere poi non compreso nella stampa; a f. 408r c’è un’interpolazione (2 versi) di Colocci (dono di una veste di seta all’amica Harmosine). Debenedetti: 97. 98. 124. 125n. 254-5. 270/ L: 27-28. 37/ FU: nn 20. 44. 47. 90. 172. 173/ R: 77. 157. 158. 173. 177/ A: 197. 202. 270 7192?: Raccolta miscellanea. Il codice contiene disordinatamente le opere di PIER FRANCESCO GIUSTOLO, poeta spoletino (come Vat. lat. 7182) e porta numerosi segni di appartenenza a Colocci. A f. 314 rimangono pochi versi del PONTANO e alcuni di Francesco Maria MOLZA./ R: Si tratta di una miscellanea di 404 ff. messa insieme nel ’700 raccogliendo quaderni di provenienza ed epoche diverse. Contiene molte parti appartenute al Colocci, tra queste, 37 fogli che appartenevano al Vat. lat. 2862, che mostra una lacuna di 44 ff. dopo f. 150. Appartenuti a Colocci anche i ff. 26-64 che contengono un brano di PACIFICO MASSIMI, un elenco di parole greche con la traduzione latina accanto, tutto di mano di Colocci. Da f. 113 a f. 136 ci sono opere di PIER FRANCESCO GIUSTOLO, postillate e corrette nelle dediche da Colocci (ai ff. 113-116 c’è l’Epicedion e tra ff. 125-131 c’è Musae Fanestres). Questa parte è composta da 3 quaternioni segnati e, g, h; il quaderno f è finito tra i ff. 160 e 167 di Vat. lat. 7182 (vd). Frammenti delle opere del Giustolo si trovano anche tra i ff. 145-164, ma senza postille di Colocci [su Giustolo e sul Vat. lat. 7192 si veda A. CAMPANA, Dal Calmeta al Colocci, in Tra latino e volgare per Carlo Dionisotti, in Medioevo e Umanesimo17-18 (1974), pp. 267-315]./ A: Ai ff. 28-64 sono contenuti i cinque fascicoli dispersi dell’Hecatelegium di PACIFICO MASSIMI derivanti da Vat. lat. 2862 (vd.). Contiene parte del ms. che servì per l’edizione dell’opera del Giustolo (vd. Vat. lat. 7182). Ai ff. 113v, 114r, 115r il nome di Colocci è sostituito nel titolo e nel testo dell’Epicedion Auriae pueri, al nome del Calmeta e di conseguenza Harmosine (amica di Colocci) è sostituita a Beatrix a f. 115r. FU: n 23. 44. 71/ R: 77. 78. 102/ A: 269. 270. 271 8492: Epigrammata Antiquae Urbis. In aedibus Jacobi Mazochii Romanae Academiae Bibliopolae. M. D. XXI. men. april. si tratta in realtà non di un ms. ma di uno stampato. Reca molte note di mano di Colocci tra cui, nel frontespizio, la notazione «A Colotii impensa», che dimostra che Colocci fu forse curatore dell’opera e probabilmente mecenate per la sua edizione, ma non il compilatore./ A: Identificato da MICHELINI TOCCI (in A) e sfuggito al Lattès. L’opera appartenne a Antonio Lelio che la annotò fittamente, donata da questi a Felice Trofino, vescovo di Chieti (dal 1524 al 1527: cfr. R. 124), e acquistata dal Colocci dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1527. R: 123/ A: 90n 8493: Epigrammata Antiquae Urbis. In aedibus Jacobi Mazochii Romanae Academiae Bibliopolae. M. D. XXI. men. april., si tratta in realtà non di un ms. ma di uno stampato. [Lattès a p. 37 scrive 8393, ma MICHELINI TOCCI in A: rettifica (p. 87, nt. 21): 8493]. Il cod. è sovraccarico di note marginali di mano di Colocci./ R: Queste note, con numerose giunte e correzioni, rivelano un interesse più per l’ortografia che per l’archeologia latina./ A: Si avanza l’ipotesi che quest’edizione sia stata curata da Colocci; in ogni caso questi fornì al Mazzocchi il testo di numerose iscrizioni da lui possedute. L: 2. (37)/ R: 124/ A: 87n/ 8494: PETRUS APIANUS, Raccolta di iscrizioni./ R: Si tratta di PETRUS APIANUS, Inscriptiones sacrosanctae vetustatis totius fere orbi, Ingolstadii 1534. Colocci lo ha postillato diligentemente facendovi anche un indice./ A: Lattès a p. 37 scriveva 8394, ma MICHELINI TOCCI in A: rettifica (p. 87, nt. 21): 8494, e informa trattarsi di uno stampato. L: 37/ R: 124/ A: 87n

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14065: Codice miscellaneo. Si tratta di un codice formato dal Card. Giovanni Mercati (18661957) con frammenti di cataloghi di libri del sec. XVI trovati sciolti e privi di segnatura [cfr. G. MERCATI, Codici Latini Pico Grimani Pio, Città del Vaticano 1938, p. 142, nt. 2]. Ai ff. 42r-45v il ms. contiene materiale proveniente dalla biblioteca di Colocci (liste di vocaboli da Livio), a f. 49v appunti di Colocci. Ai ff. 50r-63r contiene un inventario dei libri di Colocci (è un codice oblungo del formato detto vacchetta). Compilato da uno scriba professionista e integrato da Colocci che ne trascrive integralmente i ff. 60r-63r. I libri sono ripartiti a seconda della loro collocazione nella casa dell’umanista./ (1Bologna)/ 2Bologna: A f. 54r si legge in un elenco di libri di mano di copista (ma con titolo colocciano «forzier rossio di mezo»), l’«indicazione bibliografica» «quadrantes et pontano». A f. 55 si fa menzione di un «Vitruvius» e al f. 60r di un «Vitruvius meus tocco/ et Annotationes/ in 4°». In questi stessi fogli compaiono due menzioni di Erone: «Heron/ Geometria» e semplicemente «Heron». I ff. 54r-56r sembrano contenere per lo più le indicazioni di libri di argomento geografico-metrologico; altri libri relativi a Pondera e Numeri sono a f. 58r, conservati nel «forzier bianco da doi chiave all’armario de panni» e a f. 60r relativo al «Forzier biancho con una bandella». Quest’ultimo foglio è interamente di mano di Colocci come f. 62r che riferisce i titoli dei libri del «Forzier Nero/ chiave piccola». A f. 62r si leggono nell’elenco anche i lemmi «B. Albertus de pictura» (da identificare con il trattato di Leon Battista Alberti, scritto nel 1435) e «Fra Iocundo a mano» (cfr. Vat. lat. 4539). A f. 225v c’è il curioso appunto «Fa misurare Roma» e poco sotto «Via Aurelia». Bianchi: 277-282 1Bologna: 552n/ 2Bologna: 374n. 385. 386-7n. 388 14869: Codex Archetypus. Così definito da Fanelli, si tratta di un corpus di documenti archivistici riuniti durante la vita del Colocci (ff. 17v-51); seguito da un altro gruppo di docc. analoghi (ff. 54-114). I primi fogli ospitano un indice di mano di Colocci relativo ai ff. 17v-51. Da f. 116 a f. 222 c’è una copia del 1785 dei documenti precedenti. Il tutto è seguito da altre copie di documenti (ff. 223-235) e di autografi di Colocci (ff. 236-238). L’autore della copia del 1785 aggiunse a f. 11 un frontespizio con il titolo di Codex Archetypus. I ff. 1-10, infatti sono occupati da una copia moderna delle 12 lettere colocciane di Londra. I ff. 207r-208r consentono di correggere l’erronea data di uno dei testamenti colocciani, che va dunque ascritto al 31 luglio 1544 [sui numerosi testamenti di Colocci cfr. R: 11, 113-114; FU: pp. 40-41, ntt. 47, 89, 163, 91 166. Numerose indicazioni archivistiche di M. DEL PIAZZO, in Il Palazzo della Consulta, Roma 1975, p. 257]. R: 5. 6. 8. 9. 10. 11. 12

Altri Fondi Vaticani latini Barberiniano latino 2951 ?: Contiene epigrammi contro Adriano VI [Fanelli, però, salvo che nell’indice, non dice che il cod. sia colocciano]. R: 34 Ottoboniano latino 1882 ?: ARISTOTELE, Politica. Contiene la versione latina di LEONARDO BRUNI. Il codice fu copiato dall’accademico pomponiano Petreio per Giovanni Battista Petrucci; appartenne quindi a Marcello Cervini. La Bianchi ipotizza un passaggio intermedio del codice nelle mani di Colocci, come sembrerebbe dimostrare l’item «Aristoteles graeco et latino per Petreium» (l’indicazione riguarderebbe due distinti volumi) che si legge in Inv1 a f. 48v [si veda C. BIANCA, Petreio, Petrucci, Cervini. Il ms. Ottob. Lat. 1882 e la «Politica» di Aristotele, in Rinascimento II s., 26 (1986), pp. 259-275]. Bianchi: 274

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Ottoboniano latino 1980: Cronaca ascolana. Testo inedito (la cronaca va dal 1345 al 1523 [cfr. MERCATI, Codici Latini cit., p. 172]. Passò a Marcello Cervini./ R: Il codice è completato da Colocci stesso nelle parti lasciate in bianco dai precedenti compilatori e vi ha fatto numerose annotazioni./ Bianchi: Nell’inventario trovato da R. Bianchi in Vat. lat. 14065 (Inv5, f. 56r) è detta «Historia Asculana» (Colocci l’ha completata per gli anni tra 1365-1476). FU: n 44/ R: 19. 183. 192/ Bianchi: 280 Ottoboniano latino 2860: Epigrammatario latino. La mano è umanistica ma non è quella di Colocci. Ai ff. 22, 103-106, 118, 134, 171 ci sono versi di ELISIO CALENZIO. Ai ff. 79-81 ci sono versi del SANNAZZARO. A f. 192v, pochi versi del PONTANO. Ai ff. 7v-11v ci sono versi di B. CASALI. Ai ff. 110, 119, 184 versi di MARIO MAFFEI. A f. 144v versi di FRANCESCO MARIA MOLZA. Ai ff. 31-41, 85-93, 95, 107, 125, 129, 147, 148, 159-162, 172, 175, ci sono versi del TEBALDEO. A f. 186, versi di BERNARDINO CAPELLA. Ai ff. 29, 96, 137, 165 ci sono poesie di FILIPPO BEROALDO JR. Ai ff. 1, 2, 116, 146, 158, 177, poesie di ANDREA NAVAGERO. A ff. 142v-143 poesie di LAZZARO BONAMICO. A f. 97 versi di PAOLO EMILIO BOCCABELLA. A f. 141v, versi di un BELLINI (di Staffolo o di Sacile?; n 166)./ A: Consta di 198 ff. e porta come titolo «Illustrium poetarum carmina saeculi XV et XVI». Non riporta infatti epigrammi antichi, ma quelli di contemporanei e amici di Colocci. I componimenti sono rubricati in classi differenti da quelle dei Vatt. latt. 3352 e 3353 (per l’elenco vd. A: 233: «Laudes, Maledicta, Monitio, Monstrum, Moralia, Oscena, Pastoralia, Pictura, Pietas, Postulatio, Preces, Pudicitia, Varia, Virtus, Vitio»). Questo cod. parrebbe essere la continuazione di Vat. lat. 3352 (spec. in considerazione delle rubriche che sono totalmente differenti e sembrano continuarne l’elenco alfabetico da L a V). FU: nn 20. 23. 45. 47. 71. 72. 111. 113. 125. 130. 166. 175/ A: 231. 232. 233. 272 Reginense latino 1527: COLOCCI, poesie autografe./ Bianchi: Autografi del PONTANO [vd. J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI, Città del Vaticano 1973, p. 59]. L: 37/ Bianchi: 274

Fondo Vaticano Greco 220: Copia del Vat. gr. 1164.

R: 84-85. 90

252: ARISTOTELE [nr. 28 della IV cassa di Inv3]. Con l’ex libris seguente: «A. Colotius amicis hunc paravit». L: 16. 34 972: [Identificato da Mercati che non ne dice molto di più, salvo che anche ad esso vada riferita la glossa «de Asterio in Vergilio litteris maiusculis scripto ex comite [sic] largitionum»]./ (R) Mercati: 533/ (R: 101) 1043: EUCLIDE, Elementi. Codice di 42 fogli con la geometria di Euclide e poche righe di Erone. Il testo è di mano di Giovanni Onorio, come si rileva sulla base della grafia e anche di una lettera di Niccolò Maiorano a Colocci, incollata a f. 2v [G. MERCATI, Una lettera non bene edita né bene compresa del codice Vat. gr. 1043, in ID., Opere minori, III, Città del Vaticano 1937, p. 328; cit. in A]. Il volume può forse essere identificato con il nr. 34 della IV cassa dell’Inv3 (f. 188r)./ Il ms. è postillato da Colocci anche se «poco coR: 85. 86. 101/ A: 93 noscente di greco» (cfr. MERCATI, Una lettera cit.). 1054: ERONE, Perä pneumatik§n, perä aujtomatopoihtik§n. Codice di 78 fogli. Colocci lo ha annotato scrivendo tra le righe e in margine la traduzione latina di molte parole e in qualche luogo c’è anche qualche postilla di MARCELLO CERVINI. Di questo cod. parla il Cer-

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vini – secondo Fanelli – in due lettere al Colocci contenute nel Vat. lat. 4104 (ff. 17 e 23 e cfr. anche De Nolhac, p. 128, nt. 4)./ 2Bologna: Da identificare forse con l’«Erontius de mensuris» citato in un elenco di libri in Vat. lat., 3903, f. 222r. R: 86. 101/ 2Bologna: 386 1164: ATENEO, De machinis bellicis. Bel manoscritto bizantino illustrato dell’XI secolo contenente una raccolta di scrittori militari, giunto a Colocci dal Carteromaco (passato poi a F. Orsini)./ (Mercati)/ R: Secondo la testimonianza di Orsini (De Nolhac, p. 5 nt. 1; il De Nolhac non riuscì a identificare il codice: si veda in proposito p. 182 di De Nolhac), in una lettera al Pinelli, Colocci lesse l’opera sotto la guida del Sirleto su un codice che si può identificare con questo. Fu ritrovato dall’Orsini nella Guardaroba papale in una cassa d’anticaglie (R: 84); [forse andandovi con gli eredi di Colocci nel 1556: Mercati, p. 540]. Secondo Sabbadini fu portato in Italia da Giovanni Aurispa nel 1424. Contiene rare e sbiadite postille di Colocci./ (Bianchi)/ L: 16. 34/ (Mercati: 540)/ R: 44. 83. 84. 85. 86. 87. 89. 101. 102/ (Bianchi: 273) 1389: Elenchi di vocaboli. In Inv4 (ms. gr. nr. 82 [e non 33 come scrive a p. 182: lo conferma agevolemente un confronto tra le notizie di pp. 187 e 337]) è definito «Indice di mano del Carteromacho sopra Euripide, Apollonio Rhodio et Nicandro, in papiro in-4° folio». Contiene appunto quattro indici: il primo (f. 1) delle 4 tragedie allora conosciute di Euripide; il secondo (f. 5v) di altre 10 tragedie; il terzo (f. 17v) di Apollonio Rodio, da un ms. della stessa biblioteca; il quarto (f. 58v) di Nicandro. Molti fogli sono rimasti bianchi e Orsini vi ha poi scritto l’ode di SAFFO ad Afrodite. Prima di lui, però dei monaci di un convento romano avevano utilizzato le prime pagine bianche per segnare la ricevuta dei barili di vino agli eredi di Mons. Colocci./ L: Contiene quattro indici, tratti da Euripide, Apollonio Rodio e da Nicandro. Giunto a Colocci dal Carteromaco e passato a F. Orsini. De Nolhac: 125. 180. 182. 343/ L: 16. 34 1408: Raccolta Miscellanea. Codice cartaceo di 223 ff. con la presenza di sei mani del XVXVI secolo. Contiene: APHTONIO con commentario (f. 1); PROCLO (f. 136); *Ek t§n Afrikano™ perä staqm§n kaä metr§n; Brevi estratti di CRISOCCA, NICCOLÒ CALCONDILA e TZSETZÈS (f. 154); Note greche di G. LASCARIS (f. 162); tre lettere del SULTANO BAJAZET II a Innocenzo VIII (tra 1490-1492) e una del patriarca di Costantinopoli (f. 219). È il ms. gr. nr. 56 di Inv4 («Georgi Sardiani expositio in Aphtonium. Photii ejkloghV ejk t§n Prüklon cohstomaqei§n. Aphricanus de ponderibus et mensuris. Georgii Chrysoccae narratio quaedam et Nicolai Chalcondylae. Lascaris notae in Epigrammata Graeca. Sultan Imp. Turcarum epistolae ad Innocentium VIII, et alia, libro ligato alla graeca in corame rosso, scritto in papiro in 4° foglio»./ R: Colocci vi ha postillato un brano di GIULIO AFFRICANO riguardante i pesi e le misure (cfr. ff. 146-154). De Nolhac: 125. 340/ R: 86. 87. 101 1858: [Identificato da G. MERCATI, Scritti d’Isidoro il Cardinale Ruteno, Città del Vaticano 1926, p. 37 nt. 1]. R: 101 1878: [Identificato da P. CANART, Codices Vaticani Greci 1745-1962, Città del Vaticano 1970, p. 446]. R: 101 1902: [Identificato da CANART, Codices Vaticani Greci cit., p. 603].

R: 101

1904: Raccolta miscellanea [Identificata da MERCATI, Opere minori, III, p. 327 e IV, p. 532, nt. 14, Città del Vaticano 1937; cfr. R: 101]. Mercati (533) indica il contenuto del codice con la glossa «de Asterio in Virgilio litteris maiusculis scripto ex comite [sic] largitionum»./ R: La raccolta è divisa in due parti, delle quali la seconda non contiene niente del Colocci, mentre la prima parte è composta di sue cose o addirittura scritta da lui. Contiene duplice copia di alcune parti tratte dal Vat. gr. 1164 interessanti per Colocci e

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da lui fatta fare a Giovanni Onorio, copista di cui si serviva abitualmente (primi 11 fogli). Vi sono traduzioni (in latino) dalle copie dell’Onorio dei tattici greci, di mano del Colocci (da f. 90) e suoi espliciti rimandi ai fogli e alle figure del Vat. gr. 1164. Mercati: 533/ R: 85. 86. 87. 101 1949?: Raccolta miscellanea. Di 418 fogli, riunisce parti di formato e epoca diverse (alcune della fine del XVI secolo). Contiene un brano dell’AFRICANO su pesi e misure (ff. 198 sgg). L’appartenenza a Colocci è incerta: di lui troviamo solo una pagina isolata (f. 161). Questo foglio contiene 18 righe in greco di cui alcune sottolineate dall’umanista, mentre di mano sua sono una scritta in alto («ex primo eustathii») e in basso la parola «politica». R: 86. 87. 101

Manoscritti da altre Biblioteche Berlino, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, cod. Hamilton 90 (?): BOCCACCIO, Decameron. Copia autografa di mano dell’autore. Di incerta attribuzione alla biblioteca di Colocci [si veda la questione in V. BRANCA, Introduzione, in G. BOCCACCIO, Decameron. Facsimile dell’autografo conservato nel codice Hamilton 90 della Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz di Berlino, Firenze 1975, p. 31]. Bianchi: 273/ (2Bologna 391) Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, Virgilio Mediceo [Mediceus Laurentianus lat. XXXIX]: VIRGILIO, opere. De Nolhac lo cita indirettamente riportando un testo di Angelo Rocca (Bibliotheca Apostolica Vaticana... a frate Angelo Roccha a Camerino... illustrata, Roma, tipografia Vaticana, 1591). Le altre notizie che ne dà saranno approfondite da Mercati che ne indaga i diversi passaggi di proprietà e i periodi di permanenza in Roma [si veda sotto]. Varianti provenienti da questo codice furono annotate, da Orsini, sui margini del Virgilio di Vascosan uscito a Parigi in tre tomi nel 1543-1549 (segnatura: VIII. A. 6. 36: così De Nolhac, p. 271): al fondo dell’Eneide, infatti, Orsini annota «In calce Virgilii Colotiani qui nunc extat Florentiae in bilbioteca Medicea». Orsini dunque lo collazionò ma non lo possedette. Dopo Colocci il libro passò al card. Antonio Del Monte (morto nel 1533, dunque prima di quella data Colocci gli cedette il volume [ma perché?]), quindi a Giovanni Del Monte (papa Giulio III) quindi a suo nipote Innocenzo. Prima che di Colocci fu di Pomponio Leto, che lo utilizzò nella sua edizione di Virgilio. Il ms. venne a Roma dopo il 1461 (in quell’anno figura ancora a Bobbio)./ (L)/ Mercati: Preziosissimo codice del V secolo. [Rimando a questo saggio per ulteriori notizie, relative alle peripezie di questo ms., che esulano dall’interesse immediatamente colocciano di questo elenco]./ (2 Bologna)/ De Nolhac: 108. 271-273/ (L. 37)/ Mercati: (tutto, ma spec. 529. 532-535. 537-545)/ (2Bologna. 383n) Lisbona, Biblioteca Nazionale, Cod. 10991 (Colocci-Brancuti): Canzoniere Portoghese, posseduto, dopo Colocci, dalla famiglia Brancuti di Cagli che lo cedette ad Ernesto Monaci che a sua volta lo lasciò alla Bibl. Naz. di Lisbona. Ne esiste un’edizione diplomatica curata dal Molteni e fatta approntare prima del trasferimento del codice in Portogallo [E. MOLTENI, Il canzoniere portoghese Colocci – Brancuti pubblicato nelle parti che completano il cod. Vat. 4803, Halle 1880; una nuova – molto criticata – edizione uscì nel 1949 in Portogallo: Cancioneiro da Biblioteca Nacional antygo Colocci-Brancuti, a cura di E. PAXECO, J. P. MACHADO, Lisbona 1949; vd. R: 179; cfr. le ciritiche mosse a questa edizione da G. E. SANSONE, Note testuali ad una nuova edizione del canzoniere portoghese Colocci-Brancuti, in Filologia Romanza 1 (1954), pp. 89-101]./ R Al principio di questo

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canzoniere si trova un trattato portoghese di poetica copiato dallo stesso Colocci e da lui postillato trascrivendo a margine i principali termini tecnici. Il trattato, ignoto ad altri umanisti, non fu divulgato da Colocci che pure non ne approfondì lo studio [sul canzoniere cfr. J. RUGGIERI SCUDIERI, Le varianti del canzoniere portoghese Colocci-Brancuti, in Archivium Romanicum 11 (1927) e V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Sulle postille metriche di A. C. ai canzonieri portoghesi, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale 8/I (1966), pp. 13-30 e l’articolo della stessa autrice in A: 197-204]./ A: Colocci fu il primo e solo tra gli studiosi del suo tempo ad aver trasmesso ai posteri due celebri canzonieri portoghesi contenenti la lirica delle origini e fu eccezionale il suo interesse per la lirica gallego-portoghese. La BERTOLUCCI PIZZORUSSO (in A: 197-204) analizza con attenzione le postille lessicali, grammaticali e di traduzione apposte a questo canzoniere – che chiama B – e le confronta con M (Vat. lat. 3794 iam). Le ragioni di queste annotazioni sono individuate dalla studiosa nell’interesse di Colocci per il lessico di Petrarca e Dante, per la lingua in sé (articoli, pronomi, sintassi...), per l’etimologia di certe parole, per gli echi letterari da altri testi suscitati in lui dalla lettura delle poesie, per le figure dei poeti portoghesi stessi. Presso la cantiga 368 cita Rosa fresca aulentissima (A: 201)./ Bianchi: BIBLIOGRAFIA: A. FERRARI, Formazione e struttura del Canzoniere portoghese della Bibl. Naz. di Lisbona (cod. 10991: Colocci-Brancuti), Parigi 1979, recensito da E. GONÇALVES in Romania 104 (1983), pp. 403-412. FU: n 173/ R: 158. 159. 174. 177. 179/ A: 197-204/ Bianchi: 273 Londra, British Library, Cod. Add. 10265 (nn. 264-285): Carteggio di Pietro Vettori. Contiene le cosiddette «lettere di Londra» inviate all’umanista fiorentino da Colocci, per cui si veda integralmente V. FANELLI, Le lettere di Mons. Angelo Colocci nel Museo Britannico di Londra, in R: pp. 45-90. [Mi limito qui di seguito a dare luogo, data e indicazione di foglio, di ciascuna – dove possibile – delle 11 lettere, che sono suddivisibili in due gruppi, l’uno relativo al 1538, l’altro del 1548, separate da un’unica lettera del 1543 di mano diversa da quella di Colocci] 1) Roma, 3 febbraio 1538, ff. 264 (263)-265 (264) [fogli con doppia numerazione]. Contiene notizie su passi controversi di Varrone e chiede la copia di un codice di Varrone e Nypso (a f. 264v c’è l’elenco dei capitoli di Nypso posseduti da Colocci; 2) [s.l., ma Roma] 1 marzo, 1538, f. 266r (265). Parla della copia di Nypso; 3) Roma, 7 marzo, 1538, f. 268r (267): «annuncia la partenza per Nocera e comunica il recapito di Perugia»; 4) Nocera, 18 aprile, 1538, f. 270r (269). «Ripete il recapito perugino»; 5) Nocera, 4 maggio 1538, f. 272r (271). Ancora a proposito di Nypso e del recapito perugino. 6) Roma, 17 aprile 1543 (di altra mano), f. 274r (273). «Comunica il definitivo ritorno a Roma e chiede dell’ebano nero per farne una sfera»; 7) Roma, 21 aprile, 1548, f. 276r-v (274-275). Espone il parere di Colocci relativamente all’interpretazione dell’espressione sub axia e chiede copia delle lettere di Ficino e di poesie di Pacifico Massimi; 8) Roma, 6 giugno 1548, f. 278r (276-277). Dice di aver ricevuto le lettere di Ficino e ribadisce la richiesta di Massimi; 9) Roma, 20 giugno 1548, f. 280r (278-279). Ribadisce la richiesta di Massimi e allega un post scriptum su f. 282r (280281) in cui si parla di denaro dato a Benedetto Giunti. È indirizzata «Eidem P. Victori amico opt.°»; 10) Roma, 8 luglio 1548, f. 283r (281-282). Annuncia l’invio di denaro per l’acquisto delle poesie di Massimi e chiede una copia della sentenza contro Cecco d’Ascoli. 11) Roma, 1 settembre 1548, f. 285r (283-284). «Chiede notizia di un codice greco di arte militare simile ad uno da lui posseduto». R: 45-90 (tutto) Milano, Biblioteca Ambrosiana, G. 109. inf.: COLOCCI: brogliacci poetici, lettere e poesie a lui indirizzate. L: 37

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Modena, Biblioteca Estense, a T. 9. 18: TEBALDEO, poesie autografe.

L: 37

Monaco, Biblioteca...20: Notitia dignitatum. Il ms. riporta una nota che permette di individuare con questo il ms. della Notitia dignitatum che Colocci possedette e che Orsini, su preghiera di Gian Vincenzo Pinelli prestò al Panciroli (nel 1585) che evidentemente non lo restituì. Il testo della nota è «exemplum quod F. Ursinus precibus Io. Vincentii Pinellii, transmisit ad Pancirolium, quoque is usus est in opere suo corrigendo»./ (L)/ De Nolhac: 250-251/ (L: 37) Parigi, Biblioteca Nazionale, fr. 12474 (già Vat. lat. 3794).

Vd. Vat. lat. 3794

Parma, Biblioteca Palatina, Parm. Palat. 1280: Notitia Dignitatum [Notizie in P. N. PAGLIARA in Ricerche di storia dell’arte 6 (1977), pp. 77-79]. R: 90

LIBRI A STAMPA IDENTIFICATI della Biblioteca Vaticana Aldine I. 1 (1): FILOSTRATO, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1501, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 43 degli stampati greci dell’Inv4: «Philostrato et Herodiano, tutto scholiato et emendato dal Cartheromacho, ligato alla greca in corame rosso, d’Aldo»21; frammento di 121 fogli). A: 88 Aldine I. 1 (3): ERODIANO, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1503 (frammento di 35 fogli), appartenuto anche a F. Orsini (nr. 43 degli stampati greci dell’Inv4: «Philostrato et Herodiano, tutto scholiato et emendato dal Carteromacho, ligato alla greca in corame rosso, d’Aldo»). A: 88 Aldine I. 6 (1): TUCIDIDE, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1502, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 25 degli stampati greci dell’Inv4: «Thucydide con scholii, emendato dal Cartheromacho, ligato alla greca, in corame giallo, d’Aldo»). A: 88 Aldine I. 7 (1): ERODOTO, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1502, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 24 degli stampati greci dell’Inv4: «Herodoto emendato dal Cartheromacho, ligato alla greca in corame giallo, d’Aldo»). A: 88 20 Le informazioni fornite da De Nolhac a proposito di questo ms. sono prutroppo in-

complete. Ho trovato notizia di due mss. conservati a Monaco in Notitia dignitatum et administrationum... in partibus Orientis et Occidentis, recensuit E. BÖCKING, Bonn 1839-1853, p. 1: il Cod. Palat. c. figur. 41a e il codice della Bibl. Reg. Monacensis, Victorianus N. 99 (appartenuto a Pier Vettori). 21 La dicitura con cui è indicato questo stampato e gli altri che, individuati da MICHELINI TOCCI (A: pp. 77-96) o da FANELLI (R), appartennero alla biblioteca di Fulvio Orsini, è stata tratta, per ragioni di completezza, dall’opera del De Nolhac, che trascrive integralmente l’Inv4 alle pp. 333-396. Tuttavia nella terza colonna, né in questo né negli altri casi, comparirà il rimando alle pagine dello studioso francese (per altro agevolmente individuabili), perché in esse non si trova l’identificazione concreta dell’esemplare materialmente posseduto da Colocci, ma solo un’indicazione bibliografica.

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Aldine I. 7 (2): Scolii a TUCIDIDE [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1503, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 24 degli stampati greci dell’Inv4 [vd. supra]; frammento di 60 fogli). A: 88 Aldine I. 16*22: ESOPO [in greco], pubblicato da Aldo Manuzio, Venezia 1505. Nr. 38 dei libri greci a stampa dell’Inv4, con la dicitura: «Aesopo con li altri tocco del Carteromacho, coperto di corame nero, d’Aldo». Il volume venne a Colocci dal Carteromacho (una nota in greco di Orsini dà notizia della trafila) [De Nolhac, p. 181: A[ldine] 16 in-4°]./ (L) De Nolhac: 181. 182. 353/ (L: 16)/ Aldine I. 23-25: PLUTARCO, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1509. Appartenuto anche a F. Orsini (nrr. 17, 18 degli stampati greci dell’Inv4: «Plutharco emendato in margine, coperto di carta pecora d’Aldo»). A: 88 Aldine I. 44: TITO LIVIO, [Ab urbe condita libri], Venezia, Manuzio, 1520.

A: 88

Aldine II. 11: VARRONE, Libri de re rustica, Venezia, Aldo Manuzio, 1514. Il volume è ricco di fittissime postille, alcune riguardanti una lettera inviata da Colocci a Pier Vettori (vd. R: 50). È il nr. 84 degli stampati latini Inv4: «Catone, Varrone, Columella et Palladio, tocco dal Cartheromacho, in tavole». R: 63 Aldine III. 1*: «HORATIO con annotationi et emendationi varie, coperto di corame lionato», così al nr. 14 degli stampati latini di Inv4. HORATIUS FLACCUS, Opera, Venezia, Aldo Manuzio, 1501 [De Nolhac, p. 383: Aldine 1 in-8°]. De Nolhac: 258n. 383 Aldine III. 16*: OVIDIO, Metamorfosi, Venezia, Aldo Manuzio, 1502, in 8° (è lo stampato latino 16 dell’Inv4). Appartenuto ad Orsini. Conserva la rilegatura originale e un gran numero di correzioni nei margini dovute a G. G. Calandra nel 1510, approntate per Isabella d’Este. Nell’ultima pagina si legge la nota seguente: «Hi libri Ovidiani emendati fuerunt per Io. Ia. Calandram maxima diligentia, in gratiam divae Ysabellae Estensis Mantuae Marchionissae edito super his emendationum libro: vij Kal. Iunias. Anno salutis M. D. X°». In capo Orsini aggiunse il ritratto di Ovidio preparato per l’edizione di 22 La collocazione degli stampati contrassegnata dall’asterisco (*) non è quella adottata dal De Nolhac che si rifà a segnature non più in uso e neppure registrate nelle tavole di corrispondenza tra vecchie e nuove collocazioni reperibili nei cataloghi degli stampati antichi della Vaticana. Per l’identificazione degli incunaboli ci si è dunque serviti di Bibliothecae Apostolicae Vaticanae Incunabula, edited by W. J. SHEEHAN, 4 voll., Città del Vaticano 1997, che, riportando anche notizia della presenza di annotazioni manoscritte di umanisti (nel nostro caso di Colocci), forniva indicazioni sufficienti e tali da non richiedere un esame diretto dei volumi. Nella colonna centrale si troverà perciò riportata sia la vecchia collocazione di De Nolhac, sia la sigla dell’opera di Sheehan corrispondente all’item esaminato, corredata di indicazione del numero del volume (accanto al nome del compilatore) e dell’indicazione di pagina. L’indicazione «Sheehan III, V-45 (p. 1311): VARRO, MARCUS TERENTIUS, De lingua latina, Venezia, Johannes de Colonia e Johannes Manthen, Dic. 1474», per esempio, corrisponderà all’item siglato V-45 (cioè appunto l’opera citata di Varrone), che compare a p. 1311 del III volume dell’opera di Sheehan e la collocazione del volume sarà quella che si trova nella prima colonna. Per quanto riguarda le cinquecentine individuate da De Nolhac (e le aldine in specie), invece, mancando un catalogo analogo a quello dello Sheehan per le stampe cinquecentesche, si è proceduto ad uno spoglio dei cataloghi della Vaticana e ad un esame diretto – ed è l’unico caso – dei volumi, scegliendo gli esemplari in base alla presenza della grafia di Colocci tra le postille che ne costellano quasi sempre i margini. I casi di dubbia identificazione sono indicati in nota. Questo controllo ha permesso di rilevare l’identità di alcuni degli item individuati da De Nolhac, con quelli di cui trattano altri studiosi.

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Ercole Ciofano. [De Nolhac, p. 244: Aldine 14 a in-8°; rare le postille colocciane nel testo; alcune righe di suo pugno nei fogli di guardia]. De Nolhac: 244n. 257 Aldine III. 17*: «OVIDIO l’epistole et de arte amandi, tocco dal Carteromacho, et coperto di corame nero», così al nr. 58 degli stampati latini di Inv4. Venezia, Aldo Manuzio, 1502 (è il 2° volume dell’edizione aldina). [De Nolhac, p. 246: Aldine 14 a in-8°; in realtà il secondo volume di questa edizione aldina delle opere di Ovidio contiene le Eroidi, come si legge nel frontespizio: «PUBLII OVIDII NASONIS Heroidum epistolae»]. De Nolhac: 246. 258n. 386 Aldine III. 1823: OVIDIO, Fasti, Tristia, Ex Ponto. Frontespizio: «Publii Ovidii Nasonis quae hoc in libello continentur: / Fastorum libri VI / De tristibus libri V / De ponto libri IIII»; colophon: «Venetiis in Academia Aldi Mense / Febr. M.DIII» Aldine III. 1924*: «VALERII CATULLI VERONENSIS ad Cornelium Nepotem Libellum», Venezia, Aldo Manuzio, 1502. Il titolo è corretto a penna in «Valer. Catulli cla. Poetae ad Corne. Gallum». È – per De Nolhac – lo stampato latino nr. 12 di Inv4: «Catullo Tibullo et Propertio, con emendationi del Colotio et di Basilio Zancho», con correzioni accurate tratte da mss. da Colocci e Zanchi [De Nolhac, p. 258: Aldine 16 in-8°]. De Nolhac: 258. 382 Aldine III. 21: Anthologia di epigrammi greci, Venezia, Aldo Manuzio, 1503. Aldine III. 79: TITO LIVIO, [Ab urbe condita libri], Venezia, Aldo Manuzio, 1518.

FU: n175 A: 88

Inc. I. 20: SUIDA [Lexicon Graecum] edizione curata da Demetrio Calcondila, Milano (Bissolus e Mangius) 1499, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 13 degli stampati greci dell’Inv4: «Suida tocco dal Cartheromacho, ligato alla greca in corame lionato, foglio grande»). A: 88 Inc. I. 2125: «Lexico grecolatino, riveduto dal Carteromacho, ligato alla greca in corame lionato, di stampa vecchia» (stampato greco nr. 14 di Inv4; cfr. De Nolhac, p. 351). Oltre alla mano del Carteromaco compare una mano diversa che Luigi Ferreri attribuisce a Colocci. Sul recto della guardia posteriore compare anche la nota: «Vocabolarium Angeli Colotii». Inc. I. 33: LATTANZIO, Opera, stampato a Roma (U. Han e S. Nicolai) nel 1474.

A: 89

Inc. II. 16*: «VIRGILIO di stampa vecchia, con scholij di mano del Colotio, coperto di corame lionato», così in Inv4 in cui è il nr. 2 degli stampati latini. Stampato a Roma nel 23 A quanto mi consta questo volume, il terzo delle opere di Ovidio edite da Aldo tra il 1501 e il 1503, è sfuggito alle ricognizioni di quanti mi hanno preceduto nella ricostruzione della biblioteca colocciana. L’appartenenza alla biblioteca di Colocci è però certa, basti esaminare i fogli di guardia e le alette di entrambi i piatti del volume, coperti fittamente di lemmi tratti dal testo seguiti dall’indicazione di pagina. I numeri delle pagine del libro, poi, sono aggiunti a penna da Colocci stesso. 24 Questo esemplare fu di Fulvio Orsini (c’è la sua sigla – «Ful. Ur» – sull’interno del

piatto anteriore), ma non reca la correzione di cui parla De Nolhac. Contiene le opere di Catullo, Tibullo e Properzio con dedica a Marin Sanudo stampate dal Manuzio nel 1502. Presenta postille di due mani: una è particolarmente accurata, l’altra se fosse colocciana sarebbe assai lontana da quella a cui siamo abituati (anche se non è impossibile che si tratti della sua mano: l’edizione è di gran pregio con doublure in marocchino e taglio dorato). Si propone qui questa identificazione dunque solo dubitativamente. 25 Il presente item mi è stato segnalato gentilmente da Luigi Ferreri che vi si è im-

battuto nel corso dei suoi studi sui postillati del Carteromaco. Sua dunque l’identificazione del volume con l’item orsiniano e la paternità delle notizie che qui si allegano.

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1473 «per Uldericum Gallum et Simonem de Luca». [De Nolhac, p. 381: Inc. 84; Sheehan III, V-79 (p. 1320): VERGILIUS, M. P., Opera, Roma (U. Han e S. Nicolai) 1473]. De Nolhac: 258n. 381 Inc. II. 19*: LUCREZIO, De rerum natura, Verona, 1486. «Lucretio con scholij del Colotio, coperto di corame rosso» (stampati latini nr. 20 di Inv4). Annotato da Colocci in una ventina di punti: correzioni e riferimenti. Vi si trova la data 1524 e questa iscrizione: «Liber Colotii Bassi cuius sunt 22 annotationes in hoc libello». [De Nolhac, p. 258: Inc. 405; Sheehan II, L-165 (p. 792): LUCRETIUS CARUS, TITUS, De rerum natura, Verona, Paulus Fridenberger, 1486]. De Nolhac: 258. 383 Inc. II. 114: ALFARABIO e IBINROSDIN, commenti alla Retorica di ARISTOTELE (Venezia, Filippo di Pietro, 1481). Su un foglio di pergamena che precede il primo foglio bianco, Colocci ha scritto: «Alpharabii in Rhetoricen | Ibinrosin in poetice». Potrebbe corrispondere all’«Alfarabio» dell’Inv1 [f. 62r]. R: 83 Inc. II. 121: OVIDIO. Stampato a Venezia (Capcasa) nel 1489. Presso il verso «paene mihi puero cognite paene puer» (Ex Ponto, IV, 12, v. 20). Colocci annota «Pro Marco Caballo». A: 95 Inc. II. 151: CICERONE, Epistole. Stampato dal Silber a Roma nel 1490.

A: 88

Inc. II. 199: ASCONIO PEDIANO, Comentarii in Orationes Ciceronis, Venezia (de Colonia e Manthen) 1477. A: 89 Inc. II. 200 (1-2)*: «CATULLO et TIBULLO, con commento, di stampa vecchia, con scholij di mano del Pontano» (così al nr. 10 degli stampati latini in Inv4). Stampato a Brescia nel 1486. Contiene interessanti annotazioni in inchiostro rosso e nero – spec. su Tibullo – di mano di Pontano. Nei margini di Tibullo vi sono anche annotazioni di Colocci. Dunque prima che di Orsini fu di Pontano e Colocci. [De Nolhac, p. 226: Inc. 502; Sheehan III, T-178 (p. 1270): (1) TIBULLUS, ALBIUS, Elegiae [con il commento di «Bernardinus Cyllenius Veronensis»], (2) CATULLUS, VALERIUS, Carmina [con il commento di Antonio Partenio] Brescia (Boninus de Boninis) 1485-1486]. De Nolhac: 226. 258n. 382 Inc. II. 225: DIODORO SICULO, Bibliothecae historicae libri VI, tradotto da POGGIO BRACCIOLINI, stampato a Venezia (de Blavis) nel 1481. Con annotazioni personali (contro il Card. Pompeo Colonna: «Pro cardinali Columna») A: 94 Inc. II. 242 (1): CENSORINO, stampato a Bologna nel 1497, postillato da Colocci e da F. Orsini che lo possedette [una nota a f. 303 di Vat. lat. 4057 rimanda a quest’opera: «Censorin. impressum Mediolani 1497». La confusione sul luogo di edizione è dovuta al fatto che il Censorino bolognese ai tempi di Colocci era legato insieme ad un SIDONIO APOLLINARE, stampato a Milano nel 1498 che è l’item seguente. I due incunaboli erano stati separati, quindi rimessi insieme con l’attuale segnatura in tempi recenti. Cfr. Sheehan I, C-198 (p. 358): CENSORINUS, De die natali (con PSEUDO CEBETE, Tabula; PSEUDO LUCIANO, De virtute conquerente; EPITTETO, Enchiridion; BASILIO MAGNO, De legendis Antiquorum libri, De invidia; PLUTARCO, De invidia et odio; editi da Filippo BEROALDO), Bologna, Benedictus Hectoris, 12 maggio 1497]. R: 67 Inc. II. 242 (2)*: «CENSORINO. CEBETE Dialoghi di LUCIANO. EPICTETE. BASILIO. PLUTARCO. SIDONIO APOLLINARE, tocco dal Colotio in Tavole», così al nr. 34 degli stampati latini di Inv4 [L’indicazione di Orsini si riferisce a questo e all’item precedente legati insieme; il presente infatti contiene solo Sidonio, i riferimenti agli altri autori riguardano la stampa bolognese]. Contiene la revisione di Sidonio Apollinare (in folio) stampata a Milano nel 1498. La legatura è moderna [spiega De Nolhac, che probabilmente vide separate le due parti di Inc. II. 242] e lascia vedere che era la seconda parte di una raccolta la cui

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prima parte è da identificare con il nr. 66 degli stampati latini di Orsini (Inv4: «Sidonio Apollinare, tocco dal Cartheromacho, coperto in cartone» [non è evidentemente Inc. II. 242 (1)]) ed è annotata dal Carteromaco. [De Nolhac, p. 258: Inc. 988; Sheehan III, S209 (p. 1178): SIDONIUS APOLLINARIS, CAIUS SOLLIUS, Epistulae et Carmina, Milano, Uldericus Scinzenzeler per Hieronymus de Asula e Johannes de Abbatibus, 4 maggio 1498]. De Nolhac: 258. 384 Inc. II. 259: LORENZO VALLA, Elegantiae linguae latinae, Roma (Pannartz) 1475.

A: 89

Inc. II. 270: ARISTOFANE, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1498, appartenuto anche a F. Orsini (nr. 34 degli stampati greci dell’Inv4: «Aristophane simile, tocco dal medmo [Cartheromacho], ligato alla greca in corame rosso, d’Aldo»). A: 88 Inc. II. 490 (1-2): BERNARDO GIUSTINIANI, De origine Venetiarum... Orationes, Epistulae, Venezia (Benali), circa 1492. Con annotazioni di Colocci (in particolare la nota «pro Pisauro» a proposito della salubrità dell’aria di Venezia). A: 90. 94 Inc. II. 515: ARATO, opere [in greco], Venezia, Aldo Manuzio, 1499 negli Scriptores rei astronomicae. Reca in certe pagine la traduzione in latino, parola per parola del testo greco da parte di Colocci. L’esemplare risulta dall’integrazione di due o tre altri esemplari mutili. A: 93 Inc. II. 886 (2): ANDREA NAVAGERO, Orationes duae carminaque nonnulla, Venezia (Tacuino) 1530. A: 89 Inc. III. 6 (1): GIACOMO ZOCCHI, Canon «Omnis utriusque sexus» disputatum ac repetitum, Padova (Valdezocho) 1472 (appartenente ad una miscellanea smembrata). A: 90 Inc. III. 8: FESTO, De verborum significatione, edizione a cura di PANFILO CASTALDI, Milano (Zarotus) 1471. A: 89 Inc. III. 18*: «CATULLO, TIBULLO et PROPERTIO, di stampa vecchia, con scholij del Colotio, coperto di corame rosso» così in Inv4 in cui è il nr. 15 degli stampati latini. Stampato da Vindelino da Spira nel 1472 a Venezia, con capilettera ornati, frontespizio dorato e con uno scudo araldico annerito e di difficile identificazione. Fuori della legatura compaiono 5 fogli con testi di Stazio che sembrano aggiunti subito dopo l’edizione originariamente incompleta. [De Nolhac, p. 258: Inc. 73; Sheehan III, T-173 (p. 1268) TIBULLUS, ALBIUS, Elegiae; PROPERTIUS, Elegiae; CATULLUS, Carmina; OVIDIUS, Epistola de morte Tibulli; GUARINO VERONESE, Hexastichum; G. SQUARCIAFICO, Vitae Catulli, Tibulli, Propertii, Venezia, Vindelinus de Spira, 1472]. De Nolhac: 258. 383 Inc. III. 77*: Antologia Planudea, curata da GIOVANNI LASCARIS, Firenze 1494. Appartenuto a Orsini, identificabile forse con il nr. 44 dei libri greci a stampa di Inv4, con la dicitura: «epigrammatario greco, che fu del Colotio, in 4°, ligato alla greca in corame lionato». Il volume «porte des annotations sans intérêt d’Angelo Colocci». Orsini – trattandosi di copia mutila della fine – ha aggiunto al fondo l’epigramma di Lascaris ai tipografi, l’epistola di Pietro de Medici e l’achevé d’imprimer di Lorenzo d’Alopa dell’11 agosto 1494./ (L)/ [De Nolhac, p. 156: Inc. 813; Sheehan I, A-305 (p. 81): Anthologia Graeca Planudea, Firenze, Laurentius (Francisci) de Alopa, Venetus, (11 agosto) 1494]. De Nolhac: 178. 182. 158n. 354/ (L: 16) Inc. III. 85: APPIANO, Historia Romana. Il volume è incompleto e comprende solo la seconda parte dell’opera di Appiano, in cui sono descritte le guerre contro Cartagine e per la conquista dell’Asia [in contrapposizione alle guerre civili Colocci le chiama externa: a quest’opera rimanda infatti un’annotazione a f. 381 di Vat. lat. 4058: «Appiani externa Impressus Venetii per bernardum pictorem et radolt 1477»]. Il libro ha molte postille di

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Colocci e di altre mani. È probabilmente da identificare con il nr. 31 della IX cassa R: 67 dell’Inv3. Inc. IV. 108: ALFONSO DI CASTIGLIA, Tabulae astronomicae, Venezia (Ratdolt) 1483.

A: 91

Inc. IV. 110: NICCOLÒ BURZIO, Opusculum musices, Bologna 1487.

A: 90

Inc. IV. 118 (2): FLORO, Epitomae, edito dal BEROALDO, Siena (Rodt) ca. 1487.

A: 89

Inc. IV. 125 (1)*: APOLLONIO RODIO, Argonautiche [in greco]. Editio princeps, Firenze 1469, con le catenae in lettere capitali intorno al testo. È il nr. 78 dei libri greci a stampa dell’Inv4; reca la dicitura: «Apollonio Rhodio, tocco d’huomo dotto, ligato alla greca, in corame lionato, in 4° folio». Il volume, come attesta una iscrizione in greco posta al fondo, passò da Scipione Carteromaco a Colocci (e da questi a Settimio Orsini e dunque a Fulvio)/ (L)/ [De Nolhac, p. 178: Inc. 895; Sheehan I, A-384 (p. 105) APOLLONIUS RHODIUS, Argonautica (con gli scholia di Lucillio, Sofocle e Teone; edito da J. Lascaris), Firenze, Laurentius Francisci de Alopa Venetus, 1469]. De Nolhac: 178. 181. 356/ (L: 16) Inc. IV. 136*: VARRONE, De re rustica. Editio princeps curata da POMPONIO LETO. «Varrone de lingua latina, tocco dal Colotio, coperto di corame nero» secondo la dicitura di Inv4 in cui è lo stampato latino nr. 80. Ha capilettera ornati a mano. Al f. 44 presenta alcune note su Varrone sotto il titolo «sub Pomponio» (che indica la provenienza delle note dalle lezioni di Pomponio). Reca anche annotazioni e glosse di una mano anteriore a quella di Colocci [De Nolhac, p. 204: Arm 367. Inc. 1209; Sheehan III, V-45 (p. 1311): VARRO, MARCUS TERENTIUS, De lingua latina, Venezia, Johannes de Colonia e Johannes Manthen, Dic. 1474. Si noterà qui che Sheehan non fa menzione del De re rustica]./ R: Molto postillato da Colocci che lo ha confrontato con il suo ms. Vat. lat. 1522. De Nolhac: 204n. 257. 258n. 388/ R: 63 Inc. IV. 156 (1): AVIENO, Arati phaenomena, Venezia (de Strata) 1488.

A: 89

Inc. IV. 158 (1): CLAUDIANO, Venezia (Tacuino) 1495. Legato – fin dai tempi di Colocci – con LUCREZIO, Venezia (de Ragazonibus) 1495. A: 89 Inc. IV. 161: Raccolta miscellanea. Contiene rilegati insieme in pergamena: (1) IOHANNIS DE SACROBUSTO, Opus sphericum cum IOHANNIS DE MONTEREGIO disputatione, con postille di un astronomo spagnolo dei primi del XVI secolo (Venezia, Ratdolt, 1482); (2) IGINII Poeticon astronomicon con postille solo di mano di Colocci, fitte nelle prime pagine e di carattere letterario. (3) REGIOMONTANI IOHANNIS Caldarium con postille (forse per preparare oroscopi) dell’astrologo di cui si è detto. Le tre opere corrispondono forse all’indicazione «Sacrobusto et alii» del f. 60v dell’Inv1. R: 82 Inc. IV. 169: Raccolta miscellanea. Contiene: (1) AFRAGANI, Elementa astronomica; (2) MICHAELIS SCOTI, Questiones de Sphera (Bologna, de Rubeira, 1495); sul frontespizio Colocci aveva scritto «Afragani| Mich. Scoti in Sphera| Campani| Archimedis| Boetii| Tetragonismus» [per il terzo volume vd. qui Altre biblioteche (Sainte-Geneviève)]. Ha rare postille di Colocci riguardanti le misure della terra del sole e della luna. R: 83 Inc. IV. 410 (1-3): PACIFICO MASSIMI da Ascoli, Oratio habita in senatu Lucensi in vexillorum assignatione, Firenze ca. 1489; Carmen Iohanni Fatali Salvalio, Firenze ca. 1490; Hecatelegium, Firenze, per Antonio Miscomino, 1489. Le opere erano già riunite all’origine. Il volume appartenne – prima che a Colocci. – al vescovo di Troia Ferdinando Pandolfino (ce n’è una nota di possesso) e fu oggetto di un carteggio tra Colocci e Pier Vettori che glielo inviò (cfr. R p. 78 e pp. 54 e 55). Non tutte le parti recano postille colocciane./ (R) A: 90. 269/ (R: 78) Inc. IV. 560 (1): FORTUNAZIANO, Venezia (Tacuino) ca. 1500.

A: 89

Inc. IV. 560 (2): CASSIODORO, Basilea 1528.

A: 89

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Inc. S. 125-126: CICERONE, opere. Monumentale edizione di Cicerone del Minuziano, stampata a Milano nel 1498. Ha margini molto postillati da Colocci. A: 88 Inc. S. 4: TITO LIVIO, [Ab urbe condita libri], Roma (Sweynheym e Pannartz) 1469. A: 88 R. G. Neol. VI. 134: PACIFICI MAXIMI poetae Asculani Opera, Fano, H. Soncinus, 1506. FU: è questa l’edizione fatta fare da Colocci della Lucrezia e della Virginia dedicando il volumetto a se stesso. A questa edizione rimanda secondo Fanelli l’indicazione della dedica di versi latini nel testo della vita dell’Ubaldini (FU, p. 62)./ R: Reca l’ex-libris di Angelo Colocci [queste notizie derivano in realtà dall’Introduzione di J. RUYSSCHAERT a R. e sono perciò successive ad A: qui infatti CAMPANA non era riuscito ad individuare l’esemplare dell’operetta posseduto da Colocci: vd. qui di seguito]. A questa edizione fanno riferimento le paorle della lettera 9 di Londra «et io lo mandai a Fano alle stampe» [cfr. Londra, British Library, Cod. Add. 10265]. Il volumetto, pur contenendo nei suoi 66 ff. solo la Virginia e la Lucrezia, reca nel frontespizio la seguente dicitura «Pacifici Maximi Poetae Asculani Opera; Lucretiae libri duo. Virginiae libri duo. Elegiarum libri viginti. De bello Spartaco libri sex. De bello Cyri regis Persarum libri septem. De bello Syllae et Marii libri duo. De componendis carminibus. Grammatica. De declinatione verborum graecorum. Poema ad Joannem Salvalium. Invectiva in Angelum Politianum»: questo ha generato notevoli confusioni tra i bibliografi. In Inv3 sono ricordati – f. 195r – nella IX cassa un «Pacifici Maximi Poemata» al nr. 20 e un identico titolo al nr. 32, uno dei quali Fanelli ritiene si possa identificare con uno stampato./ A: Edizione in 8° di ff. 66. Contiene Lucretiae libri duo e Virginiae libri duo. Edizione pagata dal Colocci e verosimilmente curata da lui (si vedano, per le altre opere che doveva contenere di cui rimangono i mss. preparatori, Vatt. latt. 2862 e 7192). FU: nn 44. 94. 140/ R: 5-6 (n16) 47.48. 54. 55. 76-80/ A: 268 R. I. II. 243: PONTANO, De rebus coelestibus, Napoli (Mayr) 1512, Commentationes super centum sententiis Ptolomaei, Napoli (Mayr) 1513 a cura di PIETRO SUMMONTE; . Il volume appartenne, prima che a Colocci, al Cervini, ed entrambi lo postillarono anche sui piatti della rilegatura [le due opere erano dunque legate insieme già allora]./ (R)/ (A)/ 2Bologna: Hanno annotazioni di parole greche di mano di Colocci. FU: n23 (p. 21)/ (R: 102)/ (A: 155)/ 2Bologna: 374 R. I. II. 716: De re medica scriptores, Basilea (Cartandro) 1528.

A: 90

R. I. II. 947: ANDREA FULVIO, Antiquitates Urbis, Roma 1527.

A: 90

R. I. II. 994: TACITO, Annales, Roma (S. de Lothoringia) 1515. L’edizione è curata da FILIPPO BEROALDO il giovane ed è la prima edizione degli Annales tacitiani./ R: L’edizione è dedicata a Leone X. Nella prefazione il Beroaldo allude al Collegio greco fondato dal papa alla sua ascesa al soglio pontificio (1513). Il volume ospita interessanti postille di Colocci (e del Cervini), spec. in merito ai suoi horti sallustiani. FU: n113/ R: 91. 117/ R. I. II. 999: PLINIO [Sr., Naturalis Hisoria?], Venezia, «per Ioannem Rubeum et Bernardinum fratresque Vercellenses», 1507. Edizione curata da ALESSANDRO BENEDETTI con postille di Colocci (ff. 8v, 9v. 11r), ma più abbondanti quelle di altre mani. Corrisponde R: 68 forse al «Plinius impressus et emendatus» della IX cassa dell’Inv3. R. I. II. 1012: SVETONIO con vari scrittori della Storia Augusta «ex recognitione Erasmi», nell’edizione frobeniana del 1518; gremito di postille, emendamenti, aggiunte di Colocci./ Bianchi: Corrisponde a «Svetonio mio de Adriano» secondo la dicitura dell’Inv5 (f. 62r). Al fondo dello stampato sono inseriti otto fogli mss. da Colocci con appunti sull’imperatore Adriano. A: 88/ Bianchi: 279

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R. I. II. 1066: RAFFAELE VOLTERRANO, Commentariorum Urbanorum... octo et triginta libri, Basilea (Froben) 1530. Reca note di Colocci in margine, spec. in relazione ai nomi delle città marchigiane (e spec. Jesi). A: 89. 94 R. I. III. 177: MARIANGELO ACCURSIO, Diatribae, Roma (Argenteo) 1524.

A: 90

R. I. III. 183: CELIO AURELIANO, Basilea (H. Petrus) 1529.

A: 89

R. I. III. 242: PIETRO CRINITO, Libri de poetis latinis, Firenze (Giunta) 1505.

A: 90

R. I. III. 318 (1): CLAUDIO CANZIUNCOLA, Topica Legalia, Basilea (Cartandro) 1520.

A: 90

R. I. III. 318 (2): PETRUS AEGIDIUS, Argumenta legum, Lovanio (Alustense) 1517.

A: 90

R. I. IV. 190: CASSIO DIONE, Venezia (Zoppino) 1533. Traduzione italiana illustrata a cura di NICCOLÒ LEONICENO. A: 91 R. I. IV. 233 (1,2): JANUS PANONIUS, Sylva panegyrica in Guarini Veronensis … laudem condita; Panegyricus Jacobo A. Marcello, Bologna (de Benedictis) 1513 e 1522. A: 90 R. I. IV. 243: FRIDERICUS NAUSEA, Liber mirabilium septem, Colonia (Quentell) 1532.

A: 90

R. I. IV. 885: BASILIO ZANCHI, Epithetorum Commentarii, Roma, Antonio Blado, 1524. Riporta la dedica (f. 1r), forse autografa dello Zanchi, al «R. mo et doctissimo Angelo Colotio»./ Bianchi: Si tratta forse dello «Zanchi Epitheta» dell’Inv5. A: 90. 91/ Bianchi: 282 R. I. IV. 890: VARRONE, De re rustica, Firenze, Filippo Giunta, 1515 [frammento di soli 56 fogli; da identificare forse con il «Varro de re rustica impress.», il nr. 37 della VI cassa dell’Inv3 f. 191r]. Reca le postille richieste da Colocci a Pier Vettori dalla collazione con altro codice vetustissimus in possesso dell’amico fiorentino (lettera in R p. 50)./ Bianchi: Si tratta dello stralcio varroniano dell’edizione fiorentina del 1515 degli autori de re rustica. Il libro corrisponderebbe al «Varro coreto per P.Vitorio» di f. 62v dell’Inv1. R: 63/ Bianchi: 282 R. I. IV. 1394: P. CONSENZIO [grammatico narbonese del V secolo], Basilea (Bebelius) 1528. Studiato da Colocci spec. per le osservazioni di metrica. Appartenuto a F. Orsini (nr. 77 degli stampati latini dell’Inv4: «P. Conselio et altri autori. Apuleio Madaurense de syllogismo. Censorinus de die natali tocco dal Colotio coperto di cartone» [De Nolhac, che non lo identifica, ne parla però a p. 258n e 387]). A: 89 R. I. IV. 1276 (1): MANILIUS CABACIUS RHALLUS, Iuveniles ingenii lusus, Napoli 1535

A: 89

R. I. IV. 1276 (2): GUIDO POSTUMO DE’ SILVESTRI [poeta pesarese], Elegiarum Libri II, Bologna (de Benedictis) 1524. A: 89 R. I. IV. 2135*: AUSONIO, Venezia, Tacuino, 1507. «Ausonio, tocco dal Codro, in corame rosso» (stampato latino nr. 38 di Inv4). In realtà Orsini fa un errore ad attribuire al Codro (1446-1500) le annotazioni – lezioni da mss., ma poco numerose – che legge in questo libro del 1507 «impressum Venetiis per Ioannem Tacuinum de Tridino». Qua e là annotazioni del Colocci. [De Nolhac, p. 175 (nt. 3) identifica il nr. 38 con la segnatura: VII. A. VII. J. In realtà l’unica copia di Ausonio riconducibile alla biblioteca colocciana è quella contrassegnata appunto dalla collocazione R. I. IV. 2135 che però la Bianchi identifica con un altro degli item della biblioteca di Orsini (vd. qui di seguito), il nr. 30 degli stampati latini di cui invece De Nolhac non era riuscito a individuare la collocazione (cfr. nt. 4, p. 245). Il testo è molto postillato da Colocci: vi sono varianti, parole sottolineate e riscritte nei margini, rimandi a loci di altri autori, maniculae e persino alcuni interventi in greco e sul testo greco]./ Bianchi: Annotato da Colocci e dal Carteromaco. Passò all’Orsini e a f. IIIv riporta i nomi dei tre possessori seguiti dal numero «30» (corrispondente forse al nr. 30 degli stampati latini dell’Inv4 («Ausonio con scholii del Charteromacho e del Colotio, coperto di cartone» [Tuttavia Domenico

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Rainaldi dice il nr. 30 un’Aldina in 4° del 1501: cfr. De Nolhac, p. 384, nota al nr. 30, in cui compare l’indicazione (R)26; in altre parole R. I. IV. 2135 è senz’altro colocciano, ma resta almeno parzialmente dubbia la sua identificazione con un item dell’inventario orsiniano]). Al volume è attualmente allegato un ternione sciolto manoscritto con note marginali del Colocci con testi poi stampati per la prima volta nel 1524 in M. ACCURSII Diatribae [cfr. sopra R. I. III. 177]. Al ternione è accluso un foglietto con un epigramma su Ausonio sottoscritto da «Nicolaus Salernus». De Nolhac: 175n. 245n. 258n. 384/ Bianchi: 281 R. I. IV. 2139: LEONARDO PORTI, De sestertio, Venezia ca. 1520. [cfr. Vatt. latt. 3441 e 3903]. A: 91 R. I. IV. 2166: BARTOLOMEO PASI, Tariffa [in volgare], Venezia (A. de Cisona) 1503.

A: 91

R. I. IV. 2245: Innario, edito da GIACOMO ALOZA, Napoli (Mayr) 1504. Testimonia dell’interesse di Colocci per la poesia e la metrica del Medioevo. In capo al volume c’è un rimando all’Elucidatorium Ecclesiasticum ad Officium Ecclesiae pertinentia planius exponens et quatuor libros complectens, I. CLICHTOVEO explanatore, Basileae 1519, che, pur non trovandosi negli inventari dovette appartnere alla biblioteca (cfr. AVESANI in A: p. 119 e qui vd. Vat. lat. 4817). A: 91 R. I. V. 101: SENECA, Opere, Firenze, Giunta, 1513. Da questo volume l’amico di Colocci Giovanni Maria Cattaneo trasse una tabula di lemmi (lo testimonia l’annotazione «Catani tabula cum numero impresso»). A: 92. 93

Edizioni probabilmente possedute da Colocci ma non ancora identificate Edizioni del Ginnasio Greco (1517-1519)27 Scülia palaiaV t§n dokæmwn eij" thVn &Omhvrou *Iliavda. Editio Princeps dell’opera, curata da GIOVANNI LASCARIS, uscita nel 1517. Contiene, una sottoscrizione del curatore con una lusinghiera presentazione del Colocci – in greco –: è l’unica volta che il nome dell’ospite compare in un’edizione del ginnasio greco. A: 67 26 Con questa (R) De Nolhac indica le correzioni, integrazioni e identificazioni compiute da Domenico Rainaldi, il bibliotecario della Vaticana responsabile della ricognizione del fondo orsiniano, alla data della sua consegna alla BAV – nel 1602 –. De Nolhac, pur giudicandone gli interventi utili e più esatti di quelli di Orsini stesso sul catalogo della propria biblioteca, precisa che ne dà notizia ponendoli «entre crochets et sous toutes réserves» (De Nolhac p. 121, nt. 1). Si vedano anche infra gli item relativi agli stampati non identificati. 27 Come si ricorderà, Leone X Medici, al principio del suo pontificato istituì un Collegio greco (o Ginnasio mediceo) affidato alle cure di Giano Lascaris «allo scopo di tener desta nelle giovani generazioni la grecità intesa in senso linguistico, culturale e anche nazionalistico per un auspicabile, o piuttosto illusorio, destino migliore dell’Oriente già bizantino» (così si esprimono F. BARBERI e E. CERULLI in A, p. 63 e si veda l’intero saggio a proposito delle edizioni del Ginnasio, A: pp. 61-76). Il Collegio, dotato di una tipografia, era ospitato nella villa che Angelo Colocci possedeva al Quirinale. È dunque verosimile che l’umanista ne abbia posseduto le poche edizioni uscite negli anni tra il 1517 e il 1519 (cfr. A: 73). Finora tuttavia la ricerca biblioteconomica non si è occupata di svolgere accertamenti su questi possessi librari.

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Commentariis in septem tragedias Sophoclis. Altra Editio princeps curata dal LASCARIS ed edita nel 1518. A: 67. 68 PORFURIOU filosüfou ¿mhrikaV shthvmata; Peræ to™ ejn “dusseæa/ t§n numf§n a[ntrou. Le due operette di PORFIRIO sono ancora una editio princeps sempre curata dal LASCARIS: «Leoni decimi Pont. Max. benefitio e tenebris erutum impressumque Romae in gymnasio Mediceo ad caballinum montem. Cum privilegio ut caeteris M.D.XVIII». A: 68 Gevra" … spavnion t§n spoudaæon. Un florilegio, opera di ARSENIO APOSTOLIO (che ne fu anche il curatore), direttore del Collegio greco di Firenze, e dopo l’abbandono del Lascaris (1518) anche di quello romano. Uscito nel 1519. A: 70 *Apofqevgmata. Raccolta di detti famosi di filosofi, imperatori, oratori e poeti, tratti dalla compilazione composta da MICHELE APOSTOLIO, padre di ARSENIO che ne fu invece il curatore. Uscito nel 1519. A: 70. 71

Raccolte poetiche contemporanee28 Suburbanum Augustini Chisi, Roma, Mazzocchi, 1512. A f. 2 ci sono i versi di BATTISTA CASALI con i quali si apre la raccolta. Nello stesso foglio anche versi di FILIPPO BEROALDO. A f. 2v ci sono versi di MARC’ANTONIO CASANOVA e di FAUSO EVANGELISTA MADDALENI CAPODIFERRO; a f. 3 ci sono versi di PIETRO CORSI e di un non meglio identificato SAVOIA; a f. 3v ci sono versi di ANTON LELIO MASSIMI; a f. 4 c’è la dedica in prosa della raccolta ad Agostino Chigi da parte di BLOSIO PALLADIO (Biagio Pallai), seguita – ff. 513v – da un suo elegante poemetto. FU: nn. 45. 47. 71. 108. 113. 131 In Celsi Archelai Mellini funere Amicorum lachrymae, Roma, Mazzocchi, 1519. La raccolta fu pubblicata a perenne ricordo della morte del giovane Celso Mellini – difensore della romanità contro i Franchi, in un «giudizio di lesa romanità» sostenuto dal belga Cristoforo Longueil nel 1519 –, nobile romano, annegato in un torrente al ritorno da una partita di caccia con Leone X. Ai ff. 1 e 30 ci sono versi di PIETRO MELLINI, fratello di Celso; a f. 2 ci sono versi di PIERIO VALERIANO; a f. 5v c’è un’egloga di GEROLAMO VIDA; a f. 9 ci sono alcuni esametri di GIROLAMO NEGRI; a f. 17 ci sono versi di PIETRO CORSI; a ff. 23 e 25v ci sono versi di FRANCESCO MARIA MOLZA; a f. 25 ci sono versi di LEONE X; a f. 26 ci sono versi di MARC’ANTONIO CASANOVA; a f. 28 ci sono versi di GILIO GREGORIO GIRALDI. FU: 14. 40. 71. 108. 112. 114. 137 Coryciana, Roma, Lautizio Perugino e Ludovico degli Arrighi, 1524. De Nolhac rimanda ad un articolo di M. LUDWIG GEIGER, Der älteste römische Musenalmanach, in Vierteljahrsschrift für Kultur und Literatur der Renaissance 1 (1885-1886), pp. 145-161 e aggiunge la segnalazione di una copia manoscritta della raccolta in un codice di cui non si è dimostrata la proprietà colocciana, il Vat. lat. 9719, che contiene anche una tavola./ FU: La raccolta è preceduta da una lettera dedicatoria di BLOSIO PALLADIO SABINO (Biagio Pallai), che attribuisce al volume un’origine forse un po’ fantasiosa. A ff. 2, 14v, 22, 25, 38v, 40, 40v ci sono versi di BLOSIO PALLADIO; a ff. 14v, 35, 41, 44v ci sono 13 epigrammi di MARC’ANTONIO CASANOVA; a ff. 14v, 24 e 68 ci sono versi di PIETRO CORSI; a f. 15 ci sono versi di GIACOMO SADOLETO; a ff. 17v, 45v, 68v ci sono versi di TOMMASO PIGHINUZZI DI 28 Le tre opere che seguono sono state incluse in questa ricostruzione perché, contem-

poranee agli anni in cui fiorì la varia attività di Colocci, ne raccolgono in alcuni casi anche i versi, insieme a quelli di numerosi intellettuali che furono con lui in relazione. È dunque plausibile che copia di queste opere avesse fatto parte della biblioteca del prelato, sebbene, anche in questo caso, manchino accertamenti sistematici.

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PIETRASANTA e di ANTON LELIO MASSIMI (citato dall’Arsilli a f. 134r); a f. 17v c’è un epigramma di ANGELO COLOCCI sulle tre statue, di Maria, S. Anna e Gesù collocate dal Goritz nella Chiesa di S. Agostino [vd. sotto, A]; a f. 21 c’è un epigramma di CAMILLO PORZIO (Porcari; citato dall’Arsilli a f. 134); a f. 22v ci sono versi di BATTISTA CASALI (citato dall’Arsilli a f. 135); a ff. 22v e 23 ci sono versi di un non meglio identificato SAVOIA; a f. 24 tre mediocri epigrammi di EGIDIO GALLO (citato dall’Arsilli a f. 134); a f. 25 tre distici di PIETRO TAMIRA (citato dall’Arsilli a f. 134); a f. 30 c’è un epigramma di BERNARDINO CAPELLA; a ff. 33 ci sono versi di FAUSTO MADDALENI; a f. 36 ci sono versi di SCIPIONE CARTEROMACO; a ff. 37 e 123 ci sono versi di GEROLAMO VIDA (citato dall’Arsilli a f. 133v) a f. 55v, pochi versi del VOPISCO (citato dall’Arsilli a f. 136v); ai ff. 63 e 69 ci sono versi di PIETRO MELLINI [fratello di Celso, vd. sopra]; a f. 67v ci sono versi di BALDASSARRE CASTIGLIONE; a f. 73 c’è un epigramma latino di GIOVAN FRANCESCO BINI; a f. 91v ci sono versi di GILIO GREGORIO GIRALDI. A f. 131 c’è una lettera del GORITZ in risposta a Caio Silvano Germanico che gli aveva presentato il poemetto De Poetis Urbani di FRANCESCO ARSILLI dedicato a Paolo Giovio, edito, infatti, a partire da f. 132 della raccolta. A f. 136 – nel poemetto – è citato in un distico anche Colocci e a f. 135r, Mario Maffei./ R: [Nell’Introduzione, J. RUYSSCHAERT indica la collocazione di un’edizione di Coryciana appartenuta a Fanelli e da costui donata alla BAV: Ris. IV. 171 che reca l’ex libris di Francesco Colocci, zio di Angelo]. La raccolta fu probabilmente pubblicata a spese di Hans Goritz (Coricius). Ai ff. 132 sgg. del volume [in appendice] c’è il poemetto De poetis Urbanis di Francesco Arsilli. La raccolta non comprende autori provenienti dalla penisola iberica, ma ci sono sette autori tedeschi. [Le integrazioni di Ruysschaert in R rimandano ad un passo dei diari di Girolamo Aleandro – 27 luglio 1517 – in cui si ricordano le riunioni di umanisti nei giardini del Goritz e, tra gli invitati, si citano Niccolò Giudecco, Colocci, Ulisse Lanciarini da Fano, e Beroaldo il giovane. Il Lanciarini non è citato tra gli ccademici coriciani nelle liste di Colocci. Cfr. M. H. OMONT, Journal autobiographique du cardinal Jérome Aléandre, 1480-1530, in Notice et extraits des manuscrits de la Bibliotheque Nationale 35 (1896, Parigi), p. 17. Ruysschaert dà anche un’altra indicazione bibliografica P. P. BOBER, The «Coryciana» and the Nymph Corycia, in Journal of Warburg and Courtauld Institutes 40 (1977), pp. 223-239). Si veda ora Coryciana, ed. I. IJSEWIJN, Roma 1997./ A: [Rimando integralmente al saggio di J. RUYSSCHAERT, Les péripeties inconnues de l’édition des «Coryciana» de 1524, in A: 45-60]. Raccolta di 400 poesie latine offerte al Lussemburghese Hans Goritz. Questi aveva offerto alla chiesa romana di S. Agostino una statua eseguita da Sansovino con Gesù, la Vergine e S. Anna. Il giorno della festa di quest’ultima Goritz radunava i suoi amici che, dopo la funzione e prima di un banchetto, erano soliti lasciare ai piedi di questa statua dei componimenti poetici: questa è l’origine della raccolta. Biagio Pallai risulta essere l’editore del volume, sottratto, secondo quanto racconta nella lettera che fa da prefazione al volume, di nascosto al Goritz. La storia fu però più complessa. Vi furono cioè tre progetti di edizione successivi della Raccolta. Il primo risale al 1519 e deve essere attribuito a «Silvius Laurelius» – uno dei poeti – e comprendeva i testi fino al nr. 269. Il secondo è dovuto ai poeti umanisti Jacopo Cataneo e Gaio Silvano (un tedesco), e Giovan Francesco Vitali, databile agli ultimi anni del pontificato di Leone X (15131522). L’edizione definitivia data del pontificato di Clemente VII (1523-1534), sotto il quale fu redatta la prefazione di Biagio Pallai. Tuttavia quest’ultimo progetto risale al pontificato – precedente – di Adriano VI (1522-1523). Non si sa a chi si progettasse di affidare la stampa dei primi due abbozzi, ma l’edizione del ’24 è uno dei primi prodotti della bottega romana dell’Arrighi. Dalle lettere del Goritz si scopre tuttavia che un progetto di edizione era già abbozzato nel 1515 e comprendeva anche testi in greco, che non si sono conservati./ Bianchi segnala – oltre la curatela dell’edizione da parte di Blosio Palladio – anche la seguente indicazione bibliografica: R. ALHAIQUE PETTINELLI,

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Punti di vista sull’arte nei poeti dei «Coryciana», in La Rassegna della letteratura italiana VIII s., 90 (1986), pp. 41 e 46. De Nolhac: 255n/ FU: nn 20. 32. 33. 38. 40. 45. 47. 71. 108. 111. 112. 113. 114. 117. 121. 131. 137. 167. 181/ R: 5 (n16). 43. 112. 125. 157/ A: 45-60/ Bianchi: 272n

Edizioni curate o patrocinate da Colocci29 Sonecti, barzelle et capitoli del claro Poeta B. CINGULO (BENEDETTO DA CINGOLI), Roma, Jo. De Besicken, 1503./ R: comprende il poemetto Della Fortuna dedicato a Francesco Colocci./ A: Il poeta era stato un antico cliente di Francesco Colocci. La curatela dell’edizione è attribuibile ad Angelo Colocci per una testimonianza di P. F. Giustolo (secondo FU: nn 20/ R: 25/ A: 262 A. CAMPANA in A). (Sonetti) Opere dello elegante poeta SERAPHINO AQUILANO finite ed emendate con la loro Apologia et vita desso poeta [rispettivamente scritte da ANGELO COLOCCI e SILVIO PICCOLOMINI], Roma, Jo. De Besicken, 1503./ FU: Edizione postuma curata da Colocci a cui premise un’Apologia edita per la prima volta nell’edizione romana di Besicken. Una Vita di Serafino scritta dal Calmeta invece comparirà per la prima volta insieme all’Apologia in un’edizione veneziana del 1505 (FU nt. 95)./ (A) FU: nn 20. 72. 95/ A: 118. 262 Opuscola ELISII CALENTI poetae clarissimi, Roma, Joannes de Besicken, 12 dicembre 1503./ FU: Edizione curata da Colocci e dal figlio del Calenzio, Lucio, e uscita l’anno successivo alla morte del poeta. Ai ff. 108-109 c’è una lettera del Pontano. Comprende anche alcuni versi di COLOCCI (tra cui In Elegias Calentii a f. 109), in parte diretti al Tebaldeo. L’epistola dedicatoria (f. 1v) si chiude con le parole «Quod Elisii Calentii opuscula non nisi auctore Colotio, prodeunt in lucem»/ A: Edizione in folio, di 110 ff. non numerati. Preceduta da una dedica importante del figlio di Elisio, Lucio, al Colocci. Fu curato da Colocci e se ne conservano i mss. La minuta del frontespizio e l’autografo della dedica di Lucio sono in Vat. lat. 3367 (f. IIIv e IVr). Si vedano anche Vatt. latt. 2833 e 3909. L: 24/ FU: nn 20. 90. 92. 181/ A: 265 [Per l’edizione delle opere di Pacifico Massimi si veda sopra R. G. Neol. IV. 339] AGOSTINO STACCOLI, Rime, Roma, s. a. FU: di 32 ff., si può ritenere una stampa di Giovanni Besicken e Amartino da Amsterdam, degli anni tra il 1500 e il 1512. Ecco la descrizione dell’edizione: f. 1r: Sonecti et Canzone de Misser Augustino da Urbino; f. 2r: Tabula huius libri; f. 3v: B. Pactolus Angelo Colotio Abbreviatori Apostolico Mecenati suo S. D. (lettera dedicatoria fino a f. 4v, poi seguita dalle poesie dello Staccoli [Fanelli a nt. 94 traccia una sintesi dei temi più interessanti della dedica del Pattolo])./ (R)/ A: Nella dedica del FU: nn 94/ (R: 180)/ A: 262 PATTOLO, Colocci è designato come «mecenati suo». PETRI FRANCISCI IUSTOLI Spoletani Opera, Roma, Mazzocchi, 5 gennaio 1510. FU: Reca una dedica del GIUSTOLO a Colocci in cui si ricorda che questi si era occupato della sepoltura dei poeti che gli erano stati cari: «Quis Cingulum, quis Calentium Elysium, aut Pacificum Maximum, egregios vates paulo ante defunctos non oblivioni mandarat, cum tu nuper huic tumulum excitasti,...»./ A: Edizione in 4°, ff. 58. Dedica in prosa dell’autore a Colocci. Questi collaborò con l’autore alla confezione del codice: lo provano i due mss. Vatt. latt. 7182 e 7192, il cui materiale va così riordinato: 1) Vat. lat. 7182, ff. 40r29 Per le notizie relative a questa sezione di stampati non identificati si sono considerati i soli FU, R e A, perché, di fatto, negli studi precedenti non si faceva menzione di questi testi e in quelli successivi o non se ne trova citazione o si rimanda appunto alle tre ‘fonti’ bibliografiche esaminate.

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MARCO BERNARDI

409r autografo; 2) Vat. lat. 7192, ff. 223r-120v; 3) Vat. lat. 7182, ff. 160r-167v; 4) Vat. lat. 7192, ff. 121r-136v. FU: nn 44./ A: 269. 270 L. LAZZARELLI Septempedani Bombyx ad An. Colotium honestate indolis puerum, Roma, E. Silber, 1498?. FU: il Bombyx è dedicato ad Angelo Colocci fanciullo, in omaggio allo zio Francesco./ A: Promossa o pagata da Colocci. Non si conserva il ms. servito per la stampa, ma Colocci fu erede di altri autografi del Lazzarelli [Campana non precisa di quali volumi si tratti]. FU: n 20/ A: 262. 264. 265

Altre edizioni30 FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio, 1499. La lettura da parte di Colocci di questo testo sembra certa e la presenza di lemmi che ad essa possano rimandare in diversi suoi elenchi di libri (cfr. Vat. lat. 3903, f. 226v) non fa che confermare l’ipotesi che Bologna avanza sulla scorta di alcune immagini che si trovano in quest’opera descritte o disegnate e che sembrano riprese fedelmente da Colocci in alcuni suoi appunti (cfr. Vat. lat. 3904, f. 300r-v ecc.; Vat. lat. 4539, f. IIv). 2Bologna: 389. §§ 10-12 VITRUVIO, De architectura, curato da FRA GIOCONDO, edito nel 1511 [a Venezia da Giovanni da Trino]. A questa edizione, secondo l’ipotesi di Bologna, corrisponderebbe la voce «Vitruvius impress[us] in bam[bacino] cu(m) tabula» relativa ad un volume posto «in 2Bologna: 385 3a capsa Colotii» e così catalogato nell’Inv3, f. 186v. ALBRECHT DÜRER, Unterweisung der Messung composta nel 1525 [Traduzione latina]. Citata in un elenco di f. 222r di Vat. lat. 3903 come «Durerius Mensure». 2Bologna: 386 ALBRECHT DÜRER, Vier Bücher von menschlicher Proportion uscito a Norimberga «In Aedibus Viduae Durerianae» in doppia edizione latina (De Simmetria partium in rectis formis humanorum corporum libri) e tedesca nel 1528 (numerose le ristampe dal 1532). Di seguito al lemma citato in precedenza («Durerius Mensure»), ed uniti ad esso da una specie di parentesi, si leggono altri due titoli, il primo dei quali illeggibile e l’ultimo terminante per «de corpore». Questa circostanza invita ad identificare le due opere con altrettanti libri dello stesso artista. Si tratterà dunque nel secondo caso dei Vier Bücher [o piuttosto della loro versione latina]. 2Bologna: 386 ALBRECHT DÜRER, Unterrichtung zur Befestigung der Städte, Schlösser und Flecken del 1527. Se ne diede una versione latina edita a Parigi nel 1535, sarà verosimilmente questa edizione quella che Colocci potè possedere, non conoscendo il tedesco. Un lemma che sembra rimandare a questo testo compare in un elenco di libri di f. 222r di Vat. lat. 3903 (vd.). 2Bologna: 386 «VALERIO FLACCO, con emendationi del Carteromacho et del Colotio, senza coperta» (così in De Nolhac: 245n. 258n. 384 Inv4, dove è lo stampato latino nr. 32). «GEORGIO AGRICOLA de ponderibus et mensuris, tocco dal Colotio, coperto di cartone» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 78). (R [cfr. supra nt. 26]): «Basilea [Froben], 1533, in-4°» De Nolhac: 258n. 388 «PLUTARCO, alcune opere latine, et altre cose di diversi, tocco dal Colotio» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 79). (R): «PLUTARCHI de tranquill. animi et alia. BASILII MAGNI 30 Questi testi a stampa si possono immaginare aver fatto parte della biblioteca del pre-

lato jesino sulla base, rispettivemente, degli studi di Bologna e delle annotazioni di Orsini su Inv4, studiate da De Nolhac (più un paio di precisazioni della Bianchi).

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PER LA RICOSTRUZIONE DELLA BIBLIOTECA COLOCCIANA

de vita solitaria… Di stampa antica, in-4°» [ma cfr. Inc. II. 242 (1) che contiene sia Basilio che Plutarco]. De Nolhac: 258n. 388 «BEDA, de natura rerum et de temporum ratione, tocco dal Colotio, senza coperta» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 81). (R): «Basilea, 1529, in-fol.». De Nolhac: 258n. 388 «MARTIANUS CAPELLA. PHILELPHI orationes et alia, tocco dal Colotio, coperto in tavole» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 87).(R): «De nuptiis philologiae, Modena, 1500. Filelfo, Venezia, 1492, in-folio». De Nolhac: 258n. 388 «RUTILIO LUPO. AQUILA. IULIO RUFINIANO. SULPICIO VITTORE. Emporio et altri, tocco dal Colotio, coperto in tavole» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 89). Si tratta della collezione Rhetores Veteres latini, Basilea (Froben) 1521, in-4°. De Nolhac: 258n. 388 «CLEOMEDE de contemplatione orbium. ARISTIDIS et DIONIS orationes de concordia. PLUTARCHI quaedam et alia, tocco dal Colotio, coperto di corame rosso» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 90). (R): «Brescia, 1497, in-4°». De Nolhac: 258n. 388 «SOSIPATRO, tocco dal Colotio» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 102). (R): «Napoli, 1532, poco annotato». De Nolhac: 258n. 389 «PLAUTO con commento, tocco dal Colotio, coperto in tavole» (così in Inv4, dove è lo stampato latino 36). (R): «Plauto con il commento di GIOVAN BATTISTA PIO, stampato a Milano nel 1500, in-folio». De Nolhac: 258n. 384 «Bucolica del PETRARCA, con commento. PERSIO con Cornuto, tocco dal Colotio, coperto di corame rosso» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 37). (R): «Petrarca con il commento di Benvenuto da Imola, stampato in Venezia 1417 [sic], insieme a Persio con il commento di Giovanni Britannico, stampato in Brescia nel 1500, in-folio». De Nolhac: 258n. 384 «MARTIALE, tocco dal Colotio, in corame verde» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 52). (R): «Aldina del 1501». De Nolhac: 258n. 385 «MARTIALE tocco dal Cartromacho, di mano del Coloti, coperto di corame rosso» (così in Inv4, dove è lo stampato latino nr. 53). (R): «Aldina del 1501. Con un epigramma del Carteromaco al fondo». De Nolhac: 258n. 385 «CATULLO, TIBULLO et PROPERTIO, con emendationi del Pontano et del Colotio, coperto di corame rosso» (così in Inv4, dove è lo stamapato latino nr. 11). Catullo, Tibullo e Properzio stampati a Brescia nel 1486, in-folio, corretti a mano da Pontano e Colocci [De Nolhac, 232 ricava da Rainaldi queste informazioni ma non riesce ad identificare il pezzo]. De Nolhac: 232. 258n. 382 LAZARE DE BAIF, De re Vestiaria, De re navali, De vasculis. A questo testo ci si riferisce forse con l’indicazione «vestiaria, navalia, vascularia» dell’Inv5 (f. 50r): passato forse all’Orsini, se è il nr. 76 degli stampati latini dell’Inv4: «Lazaro Bayfio de re navali et alia, tocco dal Colotio, coperto di cartone» (De Nolhac p. 387). (R): «Basilea [Froben], 1537, in-4°»./ Bianchi: Le tre opere, composte rispettivamente nel 1526, 1536 e 1531 furono pubblicate insieme per la prima volta a Parigi (Estienne) 1536. De Nolhac: 258n. 387 e n./Bianchi: 280 GIOVIO, Commentari delle cose dei Turchi, 1531. In Inv5 è forse il «Iovio, Turchi» di f. 56r. Bianchi: 280

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MASSIMO DANZI

LA PARTE ISPANO-PORTOGHESE DELLA BIBLIOTECA DEL BEMBO (CON UNA «POSTILLA» COLOCCIANA)*

Sull’interesse di Bembo per la cultura e letteratura delle Spagne, in un secolo nel quale per tutta la prima metà il rapporto fra le due culture si presenta squilibrato e scarsa è stimata, più in generale, l’attenzione degli umanisti italiani per quella letteratura, abbiamo dati già nei primissimi anni del Cinquecento. Si tratta di documenti principalmente di parte bembesca, noti da tempo dopo la segnalazione che ne aveva fatto, nel Settecento, il Muratori, e che sull’arco degli ultimi cento anni a partire da un contributo di Emilio Teza del 1883 sono stati oggetto delle ricerche di vari studiosi, trovando tuttavia solo in tempi recenti – se si escludono le ricerche dell’ispanista Michaëlis de Vasconcellos e un notevolissimo studio del Rajna – una valutazione più adeguata nell’ambito dei lavori sulla tradizione dei «cancioneros» spagnoli in Italia di Giovanni Caravaggi e soprattutto Giuseppe Mazzocchi1. Una valutazione dell’«ispanismo» del Bembo tocca inevitabilmente il problema, che qui posso solo enunciare, del rapporto più generale dei letterati italiani con la lingua e la letteratura di Spagna nel Cinquecento, quale ha indagato il Croce in un noto e non meno vasto studio del 1915, rimasto all’origine di un filone degli studi iberistici nel quale hanno lasciato traccia, da parte italiana, studiosi come Arturo Farinelli, Fausto Nicolini, la stessa figlia di Croce, Alda (con un saggio invero assai disorganico del 1948) e più re* Ringrazio l’amico Giuseppe Mazzocchi per le attente e stimolanti osservazioni con cui ha accompagnato la lettura di questo lavoro. Per una trattazione più estesa dell’argomento si rimanda al recente volume di M. DANZI, La biblioteca del Cardinal Pietro Bembo, Genève 2005. 1 Cfr. P. RAJNA, I versi spagnoli di mano di Pietro Bembo e di Lucrezia Borgia serbati da un codice ambrosiano, in Homenaje ofrecido a Ramón Menéndez Pidal. Miscelánea de estudios lingüísticos, literarios e históricos, Madrid 1925, II, pp. 229-321. Il quadro, per quanto riguarda Bembo, è fatto nel lavoro di G. CARAVAGGI, Cancioneros spagnoli a Milano e più particolarmente in quello di R. MAZZOCCHI, Un manoscritto milanese (Biblioteca Ambrosiana S. P. II.100) e l’ispanismo del Bembo, in Cancioneros spagnoli a Milano a cura di G. CARAVAGGI, Firenze 1989 [Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia 51], rispettivamente pp. 9-66 e 67-100. Ivi anche la bibliografia pregressa.

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MASSIMO DANZI

centemente, per esempio, Franco Meregalli o ancora Mazzocchi, al quale si deve un’importante sintesi sulla situazione dei rapporti fra Italia e Spagna fra XVI e XVII secolo2. Già al Croce appariva assai diseguale l’incidenza reciproca delle due culture e letterature, e sostanzialmente squilibrata, con l’eccezione del Regno di Napoli per la sua antica sudditanza aragonese (che chiamava il «colonizzamento spagnuolo di Napoli»), verso l’ampia fortuna spagnola della cultura e delle opere italiane. Fuori del terreno militare, delle mode e dei costumi e della vita di una civiltà di corte, scarsissima gli pareva la considerazione e l’influenza di cui godeva in Italia la letteratura e la poesia spagnola presso gli stessi umanisti; e questo statuto di inferiorità era, come numerosi esempi allegati dicevano, sostanzialmente accettato anche da parte spagnola almeno fino alla metà del Cinquecento. Nel suo vasto affresco che dal tardo medioevo, castigliano e più catalano, giungeva nelle pagine conclusive a sfiorare il secolo di Fulvio Testi, Traiano Boccalini e Tommaso Campanella, centrale risultava ovviamente la cultura elaborata a Napoli fra secondo Quattrocento ed epoca del Tansillo; ma un capitolo trattava anche della Roma dei Borgia, dove l’elemento spagnolo si era introdotto con due papi di quella famiglia, Callisto III (1455-58) e suo nipote Alessandro VI (1492-1503), dei quali basta qui ricordare – sulla fonte del Pastor – l’alta percentuale di cardinali spagnoli creati durante i rispettivi pontificati3. Fuori di quei due centri maggiori, solo poche pagine erano dedicate ad altre realtà, quale quella dei rapporti fra il Regno e Ferrara (pp. 88-90), dove Ercole d’Este aveva pur sposato Eleonora d’Aragona, con uno di quei matrimoni misti che non saranno frequenti entro la nobiltà italiana. Nessuna attenzione veniva poi, per esempio, alla Toscana, le cui vicende dinastiche vedono il 2 B. CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari 19494 (la prima ediz. è del 1915) e A. CROCE, Relazioni della letteratura italiana con la letteratura spagnola, in Letterature comparate, a cura di A. VISCARDI, Milano 1948, pp. 101-145. Fra le date costituite da questi due lavori, andrebbero ricordati, se il nostro interesse non si volgesse esclusivamente alla prima metà del Cinquecento, i lavori ben altrimenti importanti di Farinelli, Nicolini e altri. Assai utile, ancorché non recentissima, è la documentata sintesi che dei rapporti fra Italia e Spagna sull’arco di tempo che va dal Medioevo al Novecento ha dato F. MEREGALLI nel suo più importannte studio, Presenza della letteratura spagnola in Italia, Firenze 1974 (per l’epoca fino al Cinquecento, si vedano le pp. 1-28). La bibliografia che importa si trova ora nell’innovativo studio di G. MAZZOCCHI, La imagen de España en la Italia de los siglos XVI y XVII, in Cancioneros spagnoli a Milano cit., al quale si rinvia per l’interpretazione e il quadro delle relazioni culturali fra Italia e Spagna, soprattutto nel Seicento. 3 Dei 43 cardinali creati da Callisto III, ben 19 erano spagnoli; mentre il nipote comple-

tava l’opera creando 16 cardinali spagnoli fra i 44 di sua nomina. Il fatto è ricordato anche da MEREGALLI, Presenza della letteratura spagnola cit. p. 11 e sgg.

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LA PARTE ISPANO - PORTOGHESE DELLA BIBLIOTECA DEL BEMBO

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matrimonio di Cosimo de’ Medici con Eleonora di Toledo e nella cui cultura si iscrivono letterati spagnoli anche ben radicati come un Francisco de Aldana. Anche più singolare appare oggi il silenzio crociano sulla situazione dell’Italia settentrionale, e in particolar modo sulla Lombardia in atto di diventar spagnola, dove, dal 1538 con Alfonso del Vasto, si succedevano una serie di governatori, la cui attività politico-amministrativa si coniugava in modo rilevante con una parallela rete di relazioni culturali e letterarie. Lo stesso Marchese del Vasto, uomo d’armi e protagonista, col cugino Ferrante (marito di Vittoria Colonna), di importanti successi militari (fra cui quello assai noto della cattura di Francesco I a Pavia), aveva nel tempo sempre più ricoperto una funzione e opera di generoso mecenatismo nei confronti di poeti e letterati del Milanesado, facendo della corte un importante cenacolo frequentato da letterati italiani di varia estrazione, ma altrettanto da figure del nuovo potere spagnolo, ambasciatori del calibro di Diego Hurtado de Mendoza, capitaniletterati come Hernando de Acuña e altri esponenti della vita politicoculturale del tempo a Milano4. Anche se le relazioni fra mondo culturale e letterario italiano e spagnolo appaiono maggiormente documentate e studiate per le epoche successive a quella di Bembo, il periodo che si chiude con la morte di Alfonso d’Avalos (1546) vede già un considerevole allinearsi dei letterati lombardi e milanesi su posizioni di una cortigiania filospagnola, con un atteggiamento in fondo non molto diverso da quello tenuto da un’ampia parte del mondo artistico e culturale all’arrivo dei Francesi nella Lombardia d’inizio secolo. Sotto questo profilo, il catalogo della recente mostra pavese sulla vita culturale e artistica nella «Lombardia spagnola» di4 Ai classici studi sulla Milano di Carlo V di Chabod, che l’opera del Croce avrebbe continuato come primo direttore dell’Istituto Italiano di Studi storici di Palazzo Filomarino, possono aggiungersi vari studi specifici sul d’Avalos nel quadro della Lombardia spagnola: rinvio per questo a G. MORELLI, Esperienze letterarie di Alfonso d’Avalos governatore di Milano, in Cancioneros spagnoli a Milano cit., pp. 233-259, nonché vari cataloghi di mostre d’argomento iberistico cinquecentesco (ricordate da Caravaggi a p. 32 del medesimo volume): si aggiunga Un’idea di Spagna. Cinquecentine di interesse iberistico della Biblioteca Universitaria di Pavia, a cura di G. MAZZOCCHI, P. PINTACUDA e V. TOCCO, Padova 1998. Recente è l’impresa collettiva dedicata alla letteratura principalmente poetica (con un appendice sui fatti artistici) nella Lombardia spagnola, il cui catalogo Sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706). Catalogo della mostra, Pavia, Castello Visconteo, Pavia 2002, illustra la situazione attraverso sezioni curate da studiosi di varie discipline (ivi anche l’elenco dei principali studi). Al Cinquecento sono dedicate le pp. 17-182, 335-359 con sezioni a cura di S. ALBONICO, Q. MARINI, F. SANTI, G. CARAVAGGI, A. STELLA, R. PESTARINO, G. RABONI e E. RAMPI. Importante la parte dei Libri spagnoli, con saggi di CARAVAGGI, alle pp. 32-39, e una ricca serie di schede su manoscritti e stampe, alle pp. 383-439.

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mostra la ricchezza di materiali con i quali deve fare i conti, già nella prima metà del Cinquecento, una valutazione approfondita delle relazioni fra Spagna e Italia. L’illustrazione a tutto campo di personaggi ed opere decisamente sconosciute o poco note finora (latine, volgari e spagnole, edite in Italia o in Spagna, e altre di pertinenza più genericamente iberistica), propone alla nostra attenzione l’implicarsi sempre più stretto del mondo letterario lombardo con i nuovi signori, attraverso l’esercizio cortigiano di dediche mirate, di omaggi diretti o indiretti all’Avalos, alla moglie Maria d’Aragona o anche alla ‘familia’ e al suo ‘entourage’. Con tutto questo, sul fronte delle relazioni fra Spagna e Italia, la situazione culturale nel Milanesado, con la forte autonomia nonostante tutto lasciata nella gestione del potere politico, non può – come è stato notato – essere posta a paragone con quella della Napoli aragonese e vicereale, dove fondamentale per la programmazione culturale era stato invece il ruolo centralistico assunto dalla corte5. Il rapporto e il reciproco riconoscimento fra le due culture continuavano così ad essere squilibrati: da un lato, la superiorità (fortemente sentita del resto da tutta Europa) di una civilizzazione, l’italiana, che attraverso l’Umanesimo aveva ipotecato un rapporto diretto e anche privilegiato coi classici; dall’altro, un mondo letterario spagnolo, i cui protagonisti – spesso esponenti di un mondo subalterno con al centro l’attività militare e diplomatica – apparivano spesso meno familiarizzati con le arti e il latino, secondo un caricaturato ritratto che una tantum si coglie nel Guicciardini della Relazione di Spagna6. Alla civiltà italiana gli Spagnoli insomma ancora guardavano per imparare e perfezionarsi, magari facendo un viaggio in Italia o ritrovandovisi nel vivo di una delle tante campagne militari consumate su quel suolo. Questa non paritaria attrazione reciproca risulta evidente anche dalla descrizione che il catalogo della mostra pavese propone per la Lombardia spagnola, attraverso molti ritratti di militari e letterati e la doppia fortuna di opere d’àmbito 5 Così G. MAZZOCCHI nella scheda redatta su Juan Sedeño, in Sul Tesin piantàro i tuoi

laureti cit., p. 405. 6 «Sono tenuti uomini sottili ed astuti, e nondimeno non vagliono in nessuna arte o meccanica o liberale […], si danno più tosto alle arme con piccola provisione, o a servire uno Grande con mille stenti e meschinità […]. Non sono vòlti alle lettere, e non si truova né nella nobiltà [né] negli altri, notizia alcuna, o molto piccola ed in pochi, di lingua latina» (F. GUICCIARDINI, Opere, a cura di V. DE CAPRARIIS, Milano — Napoli 1953, pp. 30-31). Sulla necessità di interpretare questi documenti secondo una sensibilità storico-geografica e con attenzione alla natura retorica del testo che li contiene, ritorna ora giustamente MAZZOCCHI, L’imagen de España cit., dimostrando come anche in presenza di momenti segnati da sentimenti antispagnoli, la ritrattistica dello Spagnolo che la letteratura del Cinque e del Seicento ci consegna non pervenga tuttavia mai a costruire un’immagine negativa della Spagna.

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spagnolo in Italia o italiane in Spagna, fra Cinque e Settecento. Così il discorso iniziato da Croce quasi cento anni fà riceve certo un’importante integrazione sui materiali dell’Italia settentrionale, ma l’impressione che era stata la sua di un interesse e curiosità dei letterati italiani per la lingua spagnola parallela alla scarsa considerazione per quella cultura letteraria, ne esce, particolarmente per il secolo di Bembo, sostanzialmente confermata. S’aggiunga che anche il vento delle traduzioni nelle due lingue – del quale poco si occupava il saggio del Croce e poco, mi pare, anche gli studi successivi – sembra soffiare, a Cinquecento inoltrato, in maniera importante prevalentemente dall’Italia verso la Spagna, con una serie di versioni in castigliano (e meno in catalano) dei principali autori italiani, solo in minima parte equilibrata da traduzioni di autori del medesimo livello nel senso opposto. Sull’altro fronte, per contro, più povero pare il transito di opere castigliane al volgare italiano e, se andiamo ad àmbiti specifici com’è quello della poesia in volgare, che pure la Spagna aveva mostrato di apprezzare, appare (stando alle opere approdate a stampa e per quanto si raccolga da censimenti e studi) di scarsa rilevanza; ma in questo campo gli studi hanno sofferto un maggiore ritardo (come denunciava precocemente uno studioso particolarmente attivo su questo fronte)7 e forse continuano a soffrirlo tuttora. Lo squilibrio nei rapporti fra Italia e Spagna è visibile particolarmente nella assoluta episodicità degli influssi della lirica spagnola in Italia, mentre il discorso sarebbe diverso, anche se le traduzioni non abbondano, per la letteratura religiosa, magari d’ispirazione erasmiana (basti pensare alla fortuna italiana dei fratelli Alfonso e Juan de Valdés), «morale» e di comportamento, come per le opere del francescano Antonio de Guevara (alla cui fortuna europea, l’Italia, e soprattutto Venezia, reca il contributo più importante)8, o per quella «romanzesca» e teatrale (le fortunate Cárcel de amor di Diego de San Pedro o Tragicomedia de Calisto y Melibea di Fernando de Rojas). A parte resta l’importante letteratura spagnola «geografica e di viaggio», diffusasi in Italia, soprattutto a partire da Venezia, sull’onda delle scoperte spagnole del Nuovo mondo e che il Ramusio giudicava «una delle

7 Sui motivi del ritardo e delle scarse conoscenze in questo campo degli studi iberistici, si veda F. MEREGALLI, La literatura española en Italia en el siglo XVII, in Annali di Ca’ Foscari 10 (1971), fasc. 1-2, pp. 173-185, p. 173. 8 Si veda l’Introduzione del Creus a A. DE GUEVARA, Avviso di favoriti e dottrina di cortigiani, a cura di E. CREUS VISIERS, Alessandria 1999, p. 36.

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più grandi e meravigliose cose, che siano intese a tempi nostri»9. Su di essa torneremo, poiché proprio di lì vengono alcuni testi posseduti da Bembo, ma si può fin d’ora ricordare quel Libro secondo delle Indie occidentali, apparso a Venezia nel 1534, che è traduzione del Sumario de la natural historia de las Indias del madrileno Gonzalo Fernández de Oviedo, testo ben noto a Bembo10. Per quanto si può dunque vedere, si tratta – con eccezioni che appartengono principalmente all’àmbito della letteratura cavalleresca – di opere in prosa, le cui traduzioni italiane escono di preferenza a Venezia, il centro editoriale che più importa in genere per la diffusione della letteratura spagnola in Italia fra Cinque e Seicento, e sono opera di traduttori come Fausto da Longiano, Giovanni Palus, Pietro Martire, Vincenzo Bondi, Mambrino Roseo, Lelio Manfredi o l’infaticabile Alfonso de Ulloa, per non richiamare che alcuni nomi attivi del periodo che ci interessa. Proprio dall’ultima classe letteraria ricordata, quella «geografica» e di viaggio provengono alcuni testi presenti nella biblioteca di Bembo, che ci aprono a dimensioni inedite della sua cultura e aggiungono un importante tassello a quanto sapevamo del suo «ispanismo»: si tratta di due edizioni di Lovanio delle opere del portoghese Damião de Goís, straordinario personaggio di matrice erasmiana, e della Historia de las Indias di Gonzalo Fernández de Oviedo, che pare presente (e il fatto ha carattere eccezionale) in manoscritto. Ma prima di affrontare questi testi e il loro significato nella cultura di Bembo, vanno ricordati i momenti in cui emerge una sua curiosità per la Spagna, quale ci è nota fin dai suoi anni giovanili. I. L’ispanismo del Bembo Tre sono i momenti in cui, nel primo trentennio del secolo, affiora un interesse del Bembo per la poesia e la letteratura iberica e il primo, e precoce, si colloca sullo sfondo della Ferrara cortigiana di Lucrezia d’Este, intorno agli anni 1502-1503. In realtà già nel secolo precedente, come aveva visto Bertoni identificando uno dei due canzonieri spagnoli che apparivano nell’inventario della biblioteca estense pubblicato dal 9 G. B. RAMUSIO, Delle Navigationi e viaggi, Venezia, T. Giunti, 1563, tomo I, p. 346): «Il

viaggio fatto per gli Spagnoli intorno al mondo è una delle più grandi e meravigliose cose, che si siano intese a’ tempi nostri: et anchor che in molte cose noi superiamo gli antichi, pur in questa passa di gran lunga tutte l’altre insino a questo tempo ritrovate». 10 G. FERNÁNDEZ DE OVIEDO, Libro secondo delle Indie occidentali (1534), edición facsimilar e introducción de Á. PÉREZ OVEJERO, Roma 1990.

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Beltrami, Ferrara aveva conosciuto un’eco della lingua spagnola con Eleonora d’Aragona andata sposa a Ercole I d’Este. Ma, come riconosceva poi lo stesso studioso, «soltanto a Lucrezia Borgia spetta il vanto di aver diffuso in Ferrara una più larga conoscenza della letteratura spagnola»11. Ora, a questo clima di maggiore diffusione a corte della lingua e di alcuni testi d’autori spagnoli è stato riferito anche l’esercizio che in quella lingua compì il giovane Bembo trascrivendo in quello che è oggi il manoscritto S.P. 100 della Biblioteca Ambrosiana una decina di testi di autori spagnoli. Del codicetto, il primo a dare notizia fu il Muratori, che aveva potuto esaminarlo con cura negli anni in cui, alla fine del secolo, era stato prefetto della biblioteca milanese. Ma gli interventi più importanti si devono, sulla scia di un contributo di Emilio Teza12, alle osservazioni che all’autore fece seguire oralmente (e che questi utilizzò in un suo secondo intervento del 1885) l’ispanista Carolina Michaëlis de Vasconcellos, la quale leggendo i versi del codice ambrosiano seppe collegarli alla tradizione della poesia cancioneril, riconoscendovi nella fattispecie una serie di citazioni da poeti presenti nel Cancionero general de muchos y diversos autores, edito a Valenza nel 1511. Quasi quarant’anni dopo, nel 1925, Pio Rajna rendeva omaggio alla studiosa, riaffrontando con nuove agnizioni rispetto a Bembo l’intero problema del codice in un fondamentale contributo dal titolo I versi spagnuoli di mano di Pietro Bembo e di Lucrezia Borgia serbati da un codice ambrosiano, per i quali – stante l’epoca ‘alta’ cui riferiva il codice bembesco – proponeva una fonte «di preferenza» manoscritta, ancora da individuare e tuttavia non identificabile con l’edizione valenziana del Cancionero general. Di quella fonte – era l’ipotesi del Rajna – «proprietaria e fornitrice» doveva essere stata la stessa Lucrezia, cui la lingua spagnola era fino a quel momento più familiare dell’italiana e che certo non aveva dovuto mancare, arrivando a Ferrara, di recare seco più di un manoscritto in lingua13. Accanto alle trascrizioni di vari testi provenienti dalla tradizione cancioneril, erano nel codice della Ambrosiana anche timidi tentativi di versificazione in proprio dello stesso Bembo. Una valutazione dell’ispanismo del Bembo, a questa altezza cronologica e sulla base del codicetto ambrosiano, è venuta una quindicina d’anni fa dal Mazzocchi, in quello che resta a mia conoscenza lo studio più diffuso sulla questione. Met11 G. BERTONI, La biblioteca estense e la coltura ferrarese ai tempi del duca Ercole I (1471-

1505), Torino 1903, p. 91 12 E. TEZA, Versi spagnoli di Pietro Bembo ristampati sull’autografo, in Giornale di Filologia romanza 4 (1883), pp. 73-77. 13 RAJNA, I versi spagnuoli di mano di Pietro Bembo cit., p. 319.

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tendo a frutto le nuove conoscenze fatte nel frattempo sulla tradizione della poesia cancioneril, lo studioso accompagnava l’indagine sulle diverse provenienze di quei testi a un equilibrato giudizio sull’ispanismo del Bembo, che segnalava un interesse episodico e tutto sommato modesto per quella letteratura. Aperto restava per contro, e ancora resta, il problema delle fonti utilizzate da Bembo in quegli esercizi giovanili, o anzi della «fonte», perché «poco plausibile» pareva allo studioso «un Bembo che scartabellasse più di un cancionero spagnolo»14. Con ciò attuale restava l’ipotesi del Rajna che Bembo si fosse servito più che di edizioni di qualche manoscritto, con l’osservazione aggiunta sulla base della tradizione della poesia cancioneril da Mazzocchi che il canzoniere spagnolo su cui Bembo lavorava doveva essere molto vicino alle fonti utilizzate dallo stesso Cancionero general di Hernando del Castillo, su cui resta oggi ancora grande il mistero. Ancora di recente, ritornando sul tema in una scheda dedicata al Cancionero general, Mazzocchi sembra confermare quest’ipotesi quando osserva: «Bembo, quando per approntare una quartina spagnola di ottosillabi da inviare a Lucrezia Borgia, vuole farsi l’orecchio a una modalità poetica poco aliena, copia in modo frammentario un manipoletto di liriche da un canzoniere perduto che risulta assai prossimo al Cancionero General»15. Oltre non pare si possa, per ora, andare nella conoscenza di questo primo ispanismo lirico del Bembo. Nello stesso periodo, che conosciamo segnato dall’amore per la duchessa, spagnolismi affiorano, quasi un gioco di società, anche nelle lettere a Lucrezia, della quale il codice ambrosiano contiene autografe nove missive al Bembo. Del 3 giugno 1503 è una lettera del Bembo a Lucrezia che accompagna l’invio di una «canzoncina, pur oggi nata a gara del vostro Yo pienso si me muriesse» composta – è stato riconosciuto – a partire da una copla di Lope de Estúñiga. Del 5 ottobre dello stesso anno è un’altra lettera in cui Bembo inserisce un proverbio direttamente in spagnolo e il 18 ottobre testimonia alla Borgia un suo tentativo abortito di traduzione: «Ho tentato di far toscano il vostro Crío el ciel i el mundo Dios, ma non truovo modo di dire questa sentenza con alcuna mia soddisfazione in questa lingua e massimamente in forma di cobla e con somiglianti parole»16. Non molto di più si raccoglie dalle lettere di questi 14 MAZZOCCHI, Un manoscritto milanese cit., p. 89. 15 Sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria cit., p. 388 16 P. BEMBO, Lettere, I: (1492-1507), edizione critica a cura di E. TRAVI, Bologna 1987,

rispettivamente pp. 144 e 163. Aggiungo qui altri nomi di spagnoli che affiorano dalle lettere: con un «Mons.or Villaruel da Valenzia», che non dovrebbe essere difficile identificare, dichiara d’essere in corrispondenza nel settembre del 1504 (ibid., I, p. 181); il 10 settembre 1533 raccomanda un amico al marchese del Vasto perché lo aiuti a «riscuotere certi suoi

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anni, nelle quali l’ispanismo testimonia il gusto e la curiosità per quella lingua, più che una vera e propria competenza linguistica e letteraria. Qualche anno dopo, tuttavia, nuovi piccoli indizi affiorano in un suo testo volgare che molto deve alla esperienza cortigiana. I Motti, che il Cian collocava al «soggiorno urbinate del Bembo, ma non anteriormente al febbrajo del 1507» inserendoli in un gusto per i «giochi di società» fiorente nell’àmbito cortigiano17, fanno emergere nel tessuto delle loro terzine dantesche due versi spagnoli («El mio pensar, senora, es muy doblado; / o[h] come fate ben lo descansado»), dei quali il primo è stato riconosciuto come una «citazione di un altro dei Cancioneros del Quattrocento»: fatto che è parso confermare «la conoscenza dello spagnolo da parte del Bembo e di opere, in quella lingua, probabilmente apprese nel cerchio della vita ferrarese»18. L’inserzione dello spagnolo nei Motti ricorda, d’altro canto, il caso analogo (ma non isolato) di Ariosto, che nella seconda satira inserisce dei versi spagnoli, e riceve conferma, su altro fronte, dall’allusione a un Amadis, intorno al quale sarebbe occupato l’amico «Valiero» (probabilmente un Amadis de Gaula o un suo rifacimento), presente in una lettera del Bembo al Ramusio del febbraio del 1512. Anche se non abbiamo prove in positivo, Bembo poteva certo conoscere quel testo, conosciuto e citato – se l’interpretazione del passo è corretta – anche dal Castiglione del Cortegiano19. Un terzo momento di questo rapporto con la letteratura di Spagna affiora, anche questo già noto, da due lettere, una italiana e l’altra in latino, che ci fanno conoscere l’ammirazione del Bembo per Garcilaso de la Vega, vissuto a lungo a Napoli dove lo sappiamo in rapporto anche con denari da un M. Ginon Pallas catalano» (ibid., III, p. 460); del 10 maggio 1534 è una lettera all’Ambasciatore imperiale a Venezia, Don Lope de Soria (ibid., III, p. 494). Infine si vorrebbe sapere chi è il «Frate Aloisio Spagnuolo» per il quale Bembo intercede chiedendo la grazia al generale degli Agostiniani, nel Natale del 1533 (ibid., III, p. 474, che erroneamente data 1543) e se il «Don Diego» mandato a riverire a Venezia il 25 marzo del 1541 «costretto dalla molta virtù sua» (ibid., IV, 2236) non sia per caso proprio Diego Hurtado de Mendoza, con il quale mi pare impossibile – pensando anche alla sua ricca biblioteca veneziana – che Bembo non avesse rapporti. 17 P. BEMBO, «Motti» inediti e sconosciuti, pubblicati e illustrati con introduzione di V. CIAN, Venezia 1888, p. 23. 18 Riporto i versi secondo la lezione probabilmente più corretta, proposta da M. MARTI,

Un nuovo manoscritto dei «Motti» di Pietro Bembo, in Giornale storico della letteratura italiana 136 (1959), p. 90. L’eco cancioneril è stata riconosciuta dal Macrì, cui il Marti s’era rivolto. 19 BEMBO, Lettere cit., II, Bologna 1990, p. 57. L’allusione di Castiglione cade nel Cortegiano, libro III, cap. 54 e per essa rinvio al commento del Cian (B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, annotato e illustrato da V. CIAN [1894], edizione riveduta e corretta, Firenze 1947, pp. 380-81).

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altri poeti e letterati italiani, fra i quali il Tansillo. La prima, scritta da Padova il 10 agosto 1535 a Onorato Fascitello, accenna alle odi di Garcilaso ricevute tramite Girolamo Seripando, in questi termini: «La terza cosa [alla quale rispondo] è delle ode del S. Garsilasso, che egli mi manda. Nella quale molto agevolmente e molto volentieri posso sodisfarlo, dicendogli che quel gentile uomo è anco un bello e gentil poeta, e queste cose sue tutte mi sono sommamente piaciute, e meritano singular commendazione e laude. E ha, quello honorato spirito, superato di gran lunga tutta la nazion sua, e potrà avenire, se egli non si stancherà nello studio e nella diligenza, che egli supererà anco dell’altre che si tengono maestre della poesia. Ma io sopra tutto ho con lui questo vantaggio, che a me pare che l’oda, che egli a me scrive, sia eziandio più vaga, elegante e monda e sonora e dolce, che le altre tutte non sono che in que’ fogli sono. Non mi meraviglio se ’l Marchese del Vasto l’ha voluto seco [cioè a Napoli] e àllo carissimo […]»20. La seconda, in latino del 26 agosto dello stesso anno («Octavo Kal. Septembres. MDXXXV»), è notevole per essere l’unica missiva che del Bembo resta indirizzata, sempre a Napoli, a Garcilaso, al quale tuttavia ricorda di essere «neque familiarem sibi hominem, neque de facie cognitum». Le lodi ricevute, sono qui ampiamente restituite a colui che «non solum Hispanos suos omnes, qui se Apollini Musisque dediderunt, longe numeris superet et praecurrat suis, sed Italis etiam hominibus stimulum addat»21. II. L’inventario dei libri ‘romani’ del Bembo Bembo morirà dodici anni dopo queste lettere, nel 1547 a Roma, dove si era trasferito in seguito alla nomina cardinalizia del marzo 1539. Lasciata da parte la stagione borromaica e a maggior ragione il secolo del barocco, che ho ricordato per le tracce più evidenti che la presenza spagnola lascia sulla scena italiana, questo suo ultimo periodo ‘romano’ coincide quasi esattamente con gli anni, più poveri sotto questo profilo, del governatorato lombardo del Marchese del Vasto (1538-1546). Non abbiamo per questo ultimo periodo alcun segno di interessi iberistici di Bembo, se non entro le pagine della sua Historia viniziana, dove il tema del «nuovo» mondo che affiora importa una parallela e sicura documentazione di prima mano sul fronte dei testi spagnoli, che tuttavia non sono mai nominati da Bembo, restìo a elucidare le sue fonti e a dichia20 BEMBO, Lettere cit., III: (1529-1536), Bologna 1992, p. 608. 21 BEMBO, Lettere cit., III, p. 613.

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rare in quell’àmbito i suoi autori. Un altro documento questa volta affiora a documentare gli interessi per i testi di autori spagnoli e portoghesi: si tratta dell’inventario, da poco acquisito agli studi bembeschi, della sua biblioteca romana22. La testimonianza eccezionale del codice Additional 565 della Biblioteca Universitaria di Cambridge porta finalmente luce su questo periodo della vita di Bembo, insieme ad una serie di notizie invece totalmente sconosciute sulla sua cultura libresca, sugli autori posseduti e sui libri e manoscritti di cui era dotata la biblioteca del cardinale. Essa a quell’altezza cronologica risulta, sintetizzando dati in mio possesso e senza entrare qui nel dettaglio di singole opere, dal trasferimento a Roma della sua biblioteca padovana, nella quale erano confluiti almeno in parte (e ora possiamo sapere quali) i manoscritti che avevano reso celebre la biblioteca paterna. La morte di Bernardo, a Venezia il 27 maggio 1519, e il trasferimento di un ventennio successivo della biblioteca a Roma, dovettero essere i momenti costitutivi del patrimonio che descrive l’inventario di Cambridge; e un’ulteriore parte di libri risultò poi, una volta Bembo a Roma, da acquisti in loco o omaggi d’amici e conoscenti, quali in parte si possono a ritroso documentare da citazioni ed allusioni contenute nel suo epistolario. Delle due biblioteche dei Bembo, quella umanistica di Bernardo è a tuttoggi la più nota perché la più studiata per i suoi importanti manoscritti (opera di copisti d’eccezionale qualità come Bartolomeo Sanvito, legati d’amicizia a Bernardo), attraverso i quali si fa lo studio del periodo che precede e accompagna l’età degli incunaboli. La qualità dei manufatti, spesso miniati, la notorietà di autori come Terenzio, Plauto, Virgilio, Ovidio, Vitruvio, ecc., la grafia di copisti come il Sanvito che li avevano esemplati (e che negli anni si è imparata a conoscere meglio grazie a studiosi come il Wardrop, la De la Mare e altri), la presenza spesso dell’arme dei Bembo in vari codici di famiglia o di note di possesso, una localizzazione dei manoscritti a volte denunciata già dai cataloghi dei fondi (come è il caso per il fondo di provenienza Wotton della biblioteca dell’Eton College), hanno facilitato l’identificazione dei libri di Bernardo, che è proceduta assai più spedita di quelli del figlio e, dopo un quarantennio di contributi vari, ha trovato nell’importante volume della Giannetto una prima ampia e nuova illustrazione23. Il contri22 Per Bembo, ho sfruttato questa testimonianza nel mio Cultura ebraica di Pietro Bembo, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di S. ALBONICO, A. COMBONI, G. PANIZZA, C. VELA, Milano 1996, pp. 283-387. 23 N. GIANNETTO, Bernardo Bembo umanista e politico veneziano, Firenze 1985. Sulla biblioteca vertono le pp. 259-357, intitolate Schede per la biblioteca di Bernardo Bembo, dove sono descritti 52 codici e due stampe (il Comento sopra la Comedia del Landino, Firenze,

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buto della Giannetto è un punto di partenza fondamentale per valutare la biblioteca di Pietro, che Dionisotti, accennando alla raccolta comprensiva dell’archivio e del Museo, giudicava «la più importante certo per la cultura italiana del primo Cinquecento»24. Caratteristica immediatamente distintiva del patrimonio librario del padre è la quasi totale natura manoscritta dei suoi manufatti, a fronte di un biblioteca di Pietro che possiamo ora incominciare a vedere invece costituita soprattutto di testi a stampa. Ma posso anticipare che un altro criterio, più meccanico ma altrettanto efficace, interviene a distinguere le due biblioteche: e cioè il fatto che gran parte delle edizioni possedute da Pietro rechino date di stampa successive al 1519, anno che, coincidendo con la morte di Bernardo, fissa un discrimine sicuro per le due provenienze. Il catalogo censisce 176 item, ma ciò corrisponde ad un totale di circa 200 testi poiché vari item accorpano più di un testo. Fra questi i libri a stampa sono all’incirca 180, cui s’aggiungono circa venticinque fra manoscritti e addirittura esemplari di lavoro. Fuori degli esemplari che ho identificato come comuni alle due biblioteche, e che dunque nel passaggio da Bernardo a Pietro segnalano la continuità «familiare» della raccolta (si tratta prevalentemente di manoscritti), si verifica dunque facilmente l’alterità dei due patrimoni librari: uno in toto appartenente all’età del codice, l’altro ormai decisamente ipotecato dall’era della stampa. L’inventario del codice di Cambridge è eccezionale anche in questo: segnalando gli esemplari a stampa, riporta tutti i dati bibliografici utili ad una perfetta identificazione. Un inventario della precisione dell’Additional 565 contiene inevitabilmente una grande tentazione per lo studioso, a cui ho ceduto volentieri pur sapendo che i tempi della ricerca erano così destinati a dilatarsi: quella di identificare gli esemplari fisicamente appartenuti a Bembo, attraverso la visione diretta del maggior numero possibile di copie conservate nelle biblioteche indiziate. Si tratta principalmente della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che acquisì una parte importante dei volumi Nicolò di Lorenzo della Magna, 1481 e Le cose volgari di M. Francesco Petrarca, Venezia, Aldo, 1501). In questo lavoro, che costituisce un solido, per quanto provvisorio, punto d’arrivo nella conoscenza della cultura di Bernardo, la studiosa ha potuto avvalersi, come risulta nel corso del volume, oltre che di una serie di contributi bibliografici, fra i quali emergono le ricerche di C. H. Clough, anche di una tesi di laurea dedicata a Bernardo Bembo da P. MALGAROTTO e realizzata all’Università di Padova, sotto la direzione di V. Branca, negli anni 1958-59. In extremis, otto nuovi codici le furono segnalati da Albinia Catherine de la Mare e si trovano elencati alle pp. 419-20: il che porta il numero dei manoscritti noti a 60. 24 M. SAVORGNAN, P. BEMBO, Carteggio d’amore (1500-1501), a cura di C. DIONISOTTI, Firenze 1950, p. XVI.

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bembeschi attraverso il collezionista napoletano Gian Vincenzo Pinelli, e della Biblioteca Vaticana, dove gli acquisti furono opera del bibliotecario Fulvio Orsini, spesso in aperta competizione con Pinelli. In entrambi i casi, sappiamo, dopo lunghe e a volte estenuanti contrattazioni con il figlio di Pietro, Torquato25. In queste due sedi, ho visto a tappeto tutti gli esemplari delle opere presenti nell’inventario. Di qui viene una prima costatazione. Diversamente che per la biblioteca di Bernardo, l’individuazione dei libri di Pietro non può avvalersi di note di possesso o dell’arme della famiglia, che l’umanista non pone mai né fa apporre dal copista com’era il caso dei materiali appartenuti, e addirittura a volte fatti esemplare, dal padre. Non so – è ancora presto per dirlo – se la diversa modalità del possesso sia un elemento distintivo delle raccolte; di sicuro gli esemplari a stampa appartenuti a Pietro che ho rinvenuti non recano note di possesso e l’appartenenza solo ha potuto essere decisa, sfogliate pazientemente le varie copie possedute da queste biblioteche, dal riconoscimento di segni o postille riconducibili alla sua mano entro il volume. Ciò non esclude, naturalmente, che Bembo abbia posseduto volumi (penso soprattutto a certe copie uniche ambrosiane e vaticane), che non recano annotazioni di sorta. Nel caso in cui si è ravvisata la sua mano, in generale si tratta di brevi (anche se talvolta numerosi) interventi marginali, quasi sempre in latino o in greco, a volte a carattere linguistico, più spesso con notazioni filologiche. Più che negli esemplari appartenuti al padre, quelli di Pietro serbano, mi pare, traccia di correzioni ai testi che appaiono il risultato di una doppia prassi filologica: quella frutto di confronto e collazione con altri codici spesso indicati attraverso definizioni della loro antichità («vetustus», «vetustissimus», ecc.) o l’altra della congettura apparentemente sostenuta dal solo «iudicium» dell’umanista. I casi fortunati di ritrovamento non sono mancati (fra tutti un Plutarco aldino del 1516 postillato quasi ad ogni pagina), ma rispetto alle forze messe in campo va detto che essi non sono stati numerosi e che molto resta ancora da fare in biblioteche come quelle inglesi in cui ho potuto passare un tempo insufficiente. Per un verso ciò era atteso e quasi inscritto nel carattere di una ricerca i cui risultati sono destinati a crescere esponenzialmente nel tempo solo a partire da un numero molto alto di copie prese in esame; 25 Per l’Ambrosiana, un primo sommario spoglio è possibile, per il fondo Pinelli, attraverso il catalogo di A. RIVOLTA, Catalogo dei codici pinelliani dell’Ambrosiana. Con una presentazione del prof. G. BERTONI Accademico d’Italia, Milano 1933. Per la Vaticana, è tuttora fondamentale – nella storia delle sue collezioni – l’opera di P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887.

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per un altro, le risultanze per Bembo sono state qua e là risarcite (anche questo era nelle attese) dall’emergere di copie appartenute ad altri umanisti, i quali invece usavano note di possesso. Un esempio è il libro appartenuto a Colocci, che segnalo in appendice di questo intervento. III. La «parte» dei testi ispano-portoghesi La biblioteca del cardinale documenta, fra i suoi vari filoni che la innervano, la presenza di una serie di testi d’autori spagnoli e portoghesi, principalmente in latino (ma in due casi, parrebbe, in lingua), che illustro qui anticipando il commento ai singoli lemmi che costituiranno la sostanza di un volume sulla biblioteca. Si tratta di cinque autori, uno solo dei quali portoghese, ma avverto che il numero delle opere che hanno una medesima origine raddoppierebbe se si aggiungessero i testi per gran parte medievali che, di origine spagnola o portoghese, sono presenti nella sezione ebraica, della quale qui non mi occupo26. Posso però ricordarne almeno brevemente i testi che sono tutti a stampa, ponendone fra parentesi il numero d’ordine del catalogo. Si tratta dei commenti al Pentateuco di due teologi entrambi di Saragozza, Bechai ben Asher vissuto nel sec. XIII (n. 76) e Meïr Isaac Aramaa invece contemporaneo a Bembo, 1460 ca-1545 (n. 80); di un commento ai Profeti posteriori del portoghese Isaac Abravanel, Lisbona 1437-Venezia 1508 (n. 81). Altri due commenti al Pentateuco sono opera del portoghese (pure di Lisbona) Antonio Seba, vissuto nella prima metà del sec. XVI – si tratta del Fasciculus Myrrhae (n. 84) e del catalano Mosé Nachmanide, originario di Girona e morto in Palestina (1194-1270: n. 85). Fanno infine indubbio riferimento alla Spagna altri testi posseduti da Bembo, come la Bibbia poliglotta di Alcalá de Henares, edita superbamente in 6 volumi in folio da Arnao Guillén de Brocar fra 1514 e 1517 (n. 91) e la versione di un testo di Mosè Aben Ezra, grammatico di Granada morto nel 1100, presente attraverso la versione che ne diede l’ebraista e cosmografo Sebastian Münster (n. 97 a). 26 Un confronto con altre biblioteche coeve, porta a dire che non il numero degli autori

bensì la qualità delle aperture culturali che essi suggeriscono, fanno l’interesse di questa sezione «ispanica». Potremmo ricordare, a confronto, gli inventari librari della duchessa Isabella d’Este e del duca Federico Gonzaga, editi dal A. LUZIO e R. RENIER, La coltura e le relazioni di Isabella d’Este Gonzaga. Appendice prima, in Giornale storico della letteratura italiana 42 (1903), pp. 75-87, dove per contro più numerosi sono i testi spagnoli o in lingua spagnola (nel primo, su 133 testi, sono spagnoli l’Amadis, Titirant lo Blanc, Don Tristano, Propaladia, Carcere de Amore, e forse Nove delle indie nove; nel secondo, su 179 testi ben 43 sono esplicitamente indicati come spagnoli).

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Dai nomi fatti ora si avverte l’importanza di un commento che accompagni i testi, pena non intendere la portata di una cultura di carattere «enciclopedico», secondo l’etichetta che ormai ottant’anni fa usava, per definire cultura e «metodo» di Bembo, Vittorio Cian in un suo importante intervento27. Si tratta di testi di medicina, di astrologia, di geografia; di edizioni e commenti biblici in varie lingue (compreso, come si è ricordato l’ebraico), di opere di controversia religiosa, di edizioni di classici e quant’altro. La loro varia natura, la vasta e diversa cultura che sottendono e in ultima analisi i dibattiti a cui libri e autori rinviano non possono essere dati per scontati nemmeno in un lettore colto. La ricostruzione della cultura bembesca, così diversa da quella cui siamo abituati del grammatico volgare e del poeta-letterato, dimostra il largo spettro disciplinare e conforta con prove certe l’opinione che il suo fu fra i saperi più illustri del secolo, anche sotto il profilo linguistico, quali poterono avere, per fare due nomi d’umanisti contemporanei dalle diverse origini, Erasmo o un Gessner. La parte ispano-portoghese di questa biblioteca non è facilmente misurabile, perché non frequente per quello che so è la presenza di libri spagnoli nelle biblioteche del primo Cinquecento; ma essa è sufficiente per misurare l’allargamento avvenuto rispetto all’epoca e alle preoccupazioni di Bernardo, ai principali temi che avevano rivoluzionato quel mondo: penso alle nuove cognizioni geografiche che emergono con il nome dell’Oviedo, all’allargamento della coscienza europea che recano le pagine sull’Etiopia e sui Lapponi di Damião de Goís, alle preoccupazioni didattiche che esprime la lunga prefazione della grammatica greca dell’erasmista Francisco Vergara o anche ai dibattiti politico-religiosi destinati a sfociare, per una parte importante, nelle tendenze conciliariste che porteranno alla tappa capitale e irrimediabile di Trento. Se dovessi citare un testo che in ordine ai problemi dibattuti mi pare esemplare fra quelli qui resi noti, indicherei l’opera appassionante di Damião de Góis, l’amico portoghese certo più importante di Bembo28. In essa, la trattazione del cristianesimo degli Etiopi e della situazione di sfruttamento e povertà in cui sono confinati i Lapponi si rivela una in27 V. CIAN, Contributo allo studio dell’enciclopedismo nell’età della Rinascita. Il «Metho-

dus studiorum» del Card. Pietro Bembo, in Miscellanea di studi storici in onore di G. Sforza, Lucca 1920, pp. 289-330. 28 Un censimento dei portoghesi citati nelle lettere, pur non esaustivo, fa emergere ac-

canto a vari cardinali «lusitani» di stanza a Roma, Georgio Coelio al quale è indirizzata una lettera del 9 aprile 1542 (BEMBO, Lettere cit., IV, 2239) e soprattutto quel Michele da Silva, cardinale di Viseu dal 1542, già amico del Castiglione che gli dedicò il Cortegiano, al quale è rivolta una lettera del 5 dicembre 1545 (ibid., 2528 A).

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tensa perorazione per il diritto all’esistenza e al riconoscimento delle minoranze: gli Etiopi bistrattati e guardati con sospetto da Roma per il loro cristianesimo arcaico, sincretistico e pericolosamente non ortodosso, i Lapponi come difesa di una popolazione che deve poter sussistere fuori dalle vessazioni e dalle prepotenze in cui la tengono i principi regnanti del Baltico. Nell’una e nell’altra istanza, i volumi posseduti da Bembo hanno una portata indubbiamente «militante», ci parlano una lingua viva, anzi possiamo dire la lingua più progressista dell’Europa del tempo. Non è dunque un caso che dietro a Damião appaia l’ombra del grande vecchio Erasmo e che sia lui ad indirizzare l’umanista portoghese al Bembo quando, nel 1534, decide di venire in Italia dalle Fiandre. Dando qui di seguito i volumi, avverto che il lemma del catalogo mantiene la numerazione che sarà del volume e al suo interno, con lettere in grassetto, distinguo le varie opere quando compaiono accorpate. Al frontespizio, dato per esteso, fa seguito una fascia in corpo minore che testimonia il tentativo di recuperare gli esemplari «fisicamente» appartenuti a Bembo. Le edizioni citate sono state viste direttamente e la fascia offre informazioni sulla presenza in esse di eventuali note manoscritte e sulla rarità, in qualche caso, dell’esemplare posseduto da Bembo. Lo stimolo a presentare non già la «biblioteca» di Bembo, ma la sola parte ispano-portoghese, non ci sarebbe stato senza questo convegno colocciano dove sono ricche le implicazioni ispano-lusitane connesse all’attività del bibliofilo e filologo iesino e dove il tema della biblioteca apre, senza dimenticare una dimensione italiana più familiare, ad analoghi interessi romanzi. IV. Testi e commenti29 13. a. Fides religio mores Aethiopum Pretiosi Joannis. a1. item deploratio lap. pianae g(en)tis per Damianum a goes Hisp. Lova. 4. 1540. et b. commentarij rer. gestar. in india citra ga(n)gem a Lusitanis a(n)no 153(9). Lova. 35. L. / E. /

29 Nelle pagine che seguono sono state adottate le seguenti abbreviazioni per indicare le biblioteche che ospitano i testi che verranno citati: BAM = Biblioteca Ambrosiana, Milano; BAR = Biblioteca Angelica, Roma; BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano; BCB = Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo; BCR = Biblioteca Casanatense, Roma; BLL = British Library, London; BMV = Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia; BNCF = Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze; MNMa = Biblioteca Nacional de Madrid; BNR = Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele, Roma; ONW = Oesterreichische National Bibliothek, Wien.

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a: FIDES, RELI-|GIO, MORESQUE AETHIOPVM SUB | Imperio Pretiosi Ioannis (quem vulgo Presby-|terum Ioannem vocant), degentium, vna cu(m)| enarratione confoederationis ac amicitiè | inter ipsos AEthiopum Imperato-|res, & Reges Lusitaniae initae,| DAMIANO a Goes | Equite Lusitano | autore ac in-|terprete.| – Aliquot item Epistolae ipsi operi insertae, ac lectu | dignissimae Helenae aviae Davidis Preciosi Ioannis,| ac ipsius etiam Davidis, ad Pontificem Romanum,| & Emanuelem, ac Ioannem Lusitaniè Reges, eodem | DAMIANO a Goes, ac Paulo Iovio interpretibus.| – Deploratio Lappianae gentis, ipso etiam | DAMIANO a Goes autore.| LOVANII | Ex officina Rutgeri Rescij | M.D.XL.| Men. Sep. Esemplari visti: BAV: Ross. 6966 (int. 2); Chigi IV 1618 int. 2 (appartenuto a Francesco Falesio e poi a Luca Sorrio (?). Piccole correzioni, ai ff. n.n. I4r, K3v). BMV: 213.C.127; Misc. 1490.2-3. BAM: S.I.G.IV.5 e S.C.F.I.88 (perduto). BAR: I I.6.38 (contiene, rilegati fin dal 500, a + a1 + b). a1: DEPLO-|RATIO LAPPI-|anae Gentis Damiano | a Goes autore (occupa i ff. N1r-N3v. A f. N3v explicit: «Ex Lovanio Cal. Septemb. Anno, M.D.XL.». Segue breve aggiunta e elenco delle errata: N3v-N4r) BAV: Ross. 6966 (int. 3). BNCF: Misc. 199. 2 (nota ms. del XVI sec. nel frontespizio: «18½»). BLL: G. 6219. a-a1: BAM: S.I.G.IV.5 b: COMMEN | TARII RERVM GESTARVM | in India citra Gangem a Lusitanis | anno. 1538. autore Damiano | a Goes Equite Lusitano.|| Lovanij ex officina Rutgeri Rescij,| An. M.D.XXXI X.| Men. Sep. BAV: Ross. 6966 int. 1 (alla fine, f. E vir nota di acquisto cinquecentesca. «Eremite et Amicorum | Emptus Rome xviij Junij | MDXLI.»). BLL: C.32.h.5 (altra copia: G.6718). BNCF: Misc. 1141.2 (perso nell’alluvione); Misc. 199.3 (perso: aprile ’96). BAM: S.I.G.IV.5. Le tre operette sono in BCR. X.III.19.2.

73. Francisci Vergarae de graecae linguae grammatica lib. V. Primo insunt inflessiones, Secundo nominum accidentia ubi declinationum coniugationumq(ue) praecepta, Tertio, octo partium constructio, Quarto de litteris syllabis et ear. accidentib. de orthographia, prosodia, i. tonis, spiritib. syllabar. quantitate, Quinto dialector. communis, Athicae, Ionicae, Doricae, Aolicae, idiomata, et Poetar. proprietates. Trib. medijs libris insunt scholia per ipsum auctorem. 8 Compluti, apud Michaelem d(e) Eguia. 1537. Continet pag. 335. FRANCISCI | VERGARAE DE GRAECAE LIN|GUAE GRAMMATICA LI|BRI QUINQUE.| Opus nunc primum natum & excusum.| Liber primus habet exempla inflexionum partium orationis decli|nabilium, & species indeclinabilium. | SECUNDUS Agit de omnium accidentibus. In quo praecepta im|primis declinandi coniugandiq(ue) traduntur.| TERTIUS est de constructione octo partium orationis.| QUARTUS De literis & syllabis. et de earum accidentibus. In quo | de Orthographia agitur: item de Prosodia copiosius, hoc est de tono|rum atq(ue) spirituum ratione, deq(ue) syllabarum quantitate.| QUINTUS Dialectorum, communis videlicet, Atticae, Ionicae, Dori-|cae, atq(ue) Aeolicae idiomata: et Poetarum proprie-

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tates recenset.| Adiecta sunt per Autorem tribus libris mediis SCHOLIA | non poenitenda. Item post Epistolam Nuncupatoriam Ad=|monitio quaedam ad lectorem praefationis vice, de | operis ordine, simulq(ue) de eius perdiscendi | modo, et de Graecanici studii ratione.| Deinde sequuntur Precatio Do|minica, Duae salutationes | ad beatam virginem,| Symbolum Apo|stolorum, & | octo Bea|titudi|nes iuxta Matthaeum | Cap. V. (colophon, p. 235: «Compluti apud Michaelem de Eguia. Anno | Domini M. D. XXXVII.»).

Esemplari visti: BNMa: R 8558 (note di due mani; una primocinquecentesca e probabilmente italiana). Altri esemplari segnala ABAD 199130, vol. 2, pp. 446-47 (uno solo in Italia: BCB, Ant. Gritti 3, 1066. Ma s’aggiunga anche BNR: 6.2.E.36: ff. II-VI + pp. 1-235 + 2 ff. n.n. Due distinte fascicolazioni: la seconda inizia alla p. 185: quaderni a-g.; prove di penna in spagnolo sui ff. di guardia).

74. Compendiosa historia Hispanica per Rodericum Santij v[triusque] I[uris] et artium professorem Ep(iscopu)m Palentinum Hispanum Pauli Pont[ificis] Max[imis] Castri S. Angeli p(re)fectum in Urbe ad Henricum IV Castellae et legionis Regem ante multos annos editus liber est forma folij. Nam in fine legitur sine loco [loco agg. in interl.] anno et die. «De mandato R[everendissimi] P[atris] D[omini] Roderici Episcopi Palentini auctoris huius libri, Ego Udalricus Galllus sine calamo aut pennis eundem librum impressi». Videtur autem fuisse Romae editus. scribit idem auctor in fine libri alios se libros scripsisse multos quorum catalogus hic est: 1. Magnum volumen defensorium status ecclesiastici co(n)tra quaerulos aemulos et detractores Praelator[um] et clericor[um] decem tractatib[us]. 2. De paupertate Christi et apostolor[um] et an Chr(istu)s et Ap(osto)li mendicarunt et quo sensu dici potest eos mendicasse: ubi ostenditur Praelatos et clericos modernos etsi propria habent, possessiones s . et distinctas praebendas, et segregatim proprijs in domib[us] habitent, non deviare tu(nc ?) ab Apostolica vita, et vitam communem a Sanctis patrib[us] institutam ducere. 3. An sine peccato licite fideles fugiant a locis ubi saevit pestis. [114v] 4. De monarchia orbis, et esse Pontificem totius orbis verum monarcham: et Reges Hispaniae ac Franciae Imperatori non esse subditos: Per quem quando et quomodo Reges delinquentes puniri possunt. 5. Liber defensorius superioris proximi contra quosdam detractores super Eisd[em] et alijs utilib[us]. materijs. 6. Apparatus sive commentum super bulla cruciatae indictae per Papam Pium contra Turcas. 7. Liber super commento bullae depositionis Regis Bohemiae per Paulum II pubblicatae. 8. De remedijs afflictae Ecclesiae militantis, ubi remedia contra omnes persecuctiones quas eccl(es)ia ab exteris et domesticis patitur. 9. Speculum vitae humanae de prosperis et adversis dulcib[us] et amaris omnium statuum vitae mortalis tam te(m)poralis quam spiritualis. 10. De regno dividendo et q(ua)n(do) primigenitura sit licita 11. De pace et bello et de necessitate et utilitate bellor[um]. 12. De eruditione 30 ABAD 1991 = J. MARTÍN ABAD, La imprenta en Alcalá de Henares (1502-1600). Introducción a la “Tipobibliografía Española” José Simón Díaz, Madrid 1991, 3 voll.

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pueror[um]. 13. Liber confutatorius sectae et superstitionis machometi et quorumdam error[um] co(n)tentor[um] in quibusd[am]. ep(istu)lis per quendam oratorem Turcae missis. 14. Dialogus d(e) auctoritate Ro[mani] Pont[ificis] et [ge]neralium concilior[um] et de poena subtrahentium obedientiam a sede Ap(os)t(oli)ca, et d(e) remediis scismatum. 15. Plurimi alij tractatus et epistolae ad eund[em] Paulum Pontificem, cuius mandato haec omnia conscripsisse testatum dicto castro S. Angeli. Principium historiae compendiosae dicturus de regione Hispaniae eiusq(ue) situ, descriptione ac Regis in ea regna (…)ab. et d(e) illor. genealogia et clariorib[us] gestis decre(?)vi paucula ex multis contexent(?): scio quidem lo(n)giora aut b(re)viora dici posse. Finis cui est «b(e)n(e)dictus in saecula amen». ecc. ecc.31. Descrizione: Incipit compendiosa historia hispanica. In qua agitur de | eius situ & descriptione. salubritate ac ubertate: gentisq(ue)| humanitate: & ad religionis cultum pietate: cèterisq(ue) ei-|usdem regionibus laudibus. Demum de Gothorum, Van-|dalorum: & cèterorum ad Hispanias accede(n)tium origine | & in Hispania regnantium antiquitate. Necnon de re-|gnorum erectione: regumq(ue) successione: ac claris illoru(m)| successibus. Tandem pro ampliore historiè ornatu inter | ipsa hispanica gesta inseruntur brevi Priscorum Roma-|norum: Grècorum. & aliorum exterorum antiquorum | clarissima gesta: dicta & insignia documenta ad cuius|vis principantis: potentis: seu nobilis: ac privati homi-|nis instructionem edita: a Roderico Santii utriusq(ue) iuris | ac artium professore Episcopo Palentino Hispano San-|ctissimi domini nostri domini Pauli Pontificis Maximi | in Castro suo Sancti Angeli de Urbe Romana Prè-|fecto. Prologus Prologo [C. I r-v n.n.]: Serenissimo ac invictissimo principi domi(n)o D. Henrico.IIII. Castellè & Legionis Regi excellentissimo. eiusdem regiè magestatis humilis capellanus, auditor & consiliarius Rodericus Santii de Arevalo utriusq(ue) iuris & artium professor, Episcopus Palentinus, Hispanus Castri sancti Angeli almè Urbis Romè. pro Sa(n)ctissimo domino domino Paulo secundo Pontifice Maximo Castellanus seipsum cum supplici recommendatione. Fallu(n)tur plurimum qui Hispaniarum laudes: patriè situm. gentis religionem. & cultum atq(ue) virtutes: & studia bellorum quoq(ue) victorias, aut nolunt aut scire negligu(n)t. Idq(ue) ut arbitror ob scriptorum inopiam contigisse puta(n)dum est: quemadmodum de gestis Roman(orum) Sallustius [fine primo foglio] in Cathelinario conqueritur. (...)

31 La descrizione del catalogo continua a questo punto nel codice, che la desume per la parte sui vari libri dell’Arévalo dalle ultime carte della Historia hispanica. L’inzio del testo è miniato nelle lettere iniziali e stampato in rosso. Do qui l’inizio, con la descrizione del prologo.

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(colophon, f. 156r n.n.: «(...) Qui est benedictus in secula amen. De mandato R.P.D. Roderici Episcopi Palendini auctoris huius libri. Ego Vdalricus Gallus sine calamo aut pennis eundem librum impressi»). Esemplari visti: BAV: Inc. II.470, Inc. Prop. II.165; Inc. Rossiano 80 (int. 2: la sola tavola). BMV: Inc. 434 (nel II f. di guardia: «Hic liber erat in capsa D et potius est in capsa S». Seguono postille e correzioni al testo che potrebbero in parte essere del Bembo, se pure per alcune di esse il Catalogue of Books printed in the XVth Century now in the British Museum, London, Printed by the Order of the Trustees, 1908 e sgg., vol. IV [1916] Subiaco and Rome, p. 20, ipotizza un’aggiunta «in the printer’s office»). BAR: Inc. 348 (postille di cinque mani diverse, fra le quali una quattrocentesca e altra assai vicina a quella di Bernardo Bembo: ff. 17r e 26r n.n.).

168. Luzero de la vita Chr(ist)iana. in spagnuolo. fo. en Salamanca 1501. Esemplari visti: ONW: 42.S.7 L’esemplare di Vienna (mm. 205 x 289, sulla costola di copertina, manoscritto: «Luzero dela vida christiana») pare l’unica copia sopravissuta di quest’opera. Mutilo di frontespizio e dei primi 8 ff. numerati, conta oggi i ff. IX-CXVIII e i 3 ff. n.n. della Tabla delos capitulos deste libro llamado luzero de la vida cristiana. Colophon, f. CXVIII v.: «Impresso en Salamanca [Juan de Porras ?] y acabosse a XII. de Setie(m)bre, año del Señor de mil. d. y un años» (segni di penna e note in spagnolo, particolarmente nelle ultime carte).

172. Gonsalos [sic] de Oviedo sopra le indie in 4. cop(erto) di p(er)g(amen)a. Manoscritto in-4° non identificato de La historia de las Indias dell’Oviedo, presumibilmente in lingua spagnola.

POSTILLA COLOCCIANA Le relazioni fra Bembo e Colocci risalgono agli ultimi anni del Quattrocento, se in una tarda lettera al novello vescovo di Nocera dell’11 marzo 1539 Bembo può scrivergli: «ricordo a V. S. che io di 40 anni son suo»32. Per quanto ne so, esse rimangono affidate soprattutto a due lettere di Bembo all’umanista iesino e l’epigramma «In Librum eiusdem de sacculo perforato», che è un invito scherzoso agli amici Accio e Bembo (inc. «Acci quaeris amice, amice Bembe») a giudicare di un’operetta del 32 P. BEMBO, Lettere cit., IV, 2018, p. 181.

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pontefice Adriano VI33. Delle lettere, la prima del 10 settembre 1531 ringrazia per il «vostro bello e legiadro sonetto che io a questi dì ho avuto dal nostro Antonio Tebaldeo» e la seconda è quella ora ricordata34. Nelle altre lettere, Colocci è solo ricordato, compresa quella al Gualteruzzi del 9 aprile 153535, in cui Bembo da Padova lo indica fra gli amici cui inviare l’esemplare fresco di stampa delle sue Rime: «Vi mando XII libretti delle mie Rime stampate, delle quali ne darete una a M. latino [Giovenale], e così al Tebaldeo, e Colozio, e Molza, e M. Giovanni della Casa e M. Giovanni Agostino». Fra i casi di fortunati ritrovamenti, c’è proprio un libro a carattere poetico appartenutogli e come tale già notato dal Michelini Tocci in un suo importante intervento, sul quale credo opportuno fermarmi con qualche nota di commento. Gli inventari che ci descrivono i suoi libri sono infatti lontani dal dettaglio di cui è stato capace Matal descrivendo i libri bembeschi, e registrano per solito non più che il nome dell’autore e un titolo compendioso, sì che è difficile il più delle volte anche riconoscere la natura manoscritta o a stampa delle opere. Ma la sua biblioteca dovette essere, come ora vediamo per Bembo e certo più di quello che si è ritenuto fino ad oggi, anche una biblioteca di testi a stampa 36. L’opera ricuperata sono gli Epithetorum Commentarii del bergamasco Basilio Zanchi, nell’edizione romana di Antonio Blado del 1542 che si conserva in una delle tre copie esistenti alla Biblioteca Vaticana compul33 Lo si veda commentato in V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca. Introduzione e note adizionali di J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1979, pp. 36-38. 34 Entrambe sono leggibili in BEMBO, Lettere cit., rispettivamente, III, 1281 e IV, 2019 e la prima dimostra una corrispondenza fra i due anche nel campo dell’ars poetica. 35 BEMBO, Lettere cit., III, 1674. 36 Hanno affrontato una ricostruzione della biblioteca colocciana, operando sui fronti

opposti dei manoscritti e degli stampati della Vaticana rispettivamente S. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (1931), pp. 308-34 e L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci, (Jesi, 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 77-96. Altre acquisizioni, su entrambi i fronti, in V. FANELLI, Le lettere di Mons. Angelo Colocci nel Museo Britannico di Londra [1959], ora in ID., Ricerche su Angelo Colocci cit., pp. 45-90. È probabile che la sproporzione già osservata da Lattès a p. 316 nt. 1, sulla base del Vat. lat. 3958, fra manoscritti (in numero di 503) e stampe (apparentemente solo 54) nella biblioteca di Colocci, vada corretta a favore delle seconde, vista l’imprecisione degli inventari colocciani. A questo proposito, lo studioso osservava, a p. 319 nt. 1: «Il se peut, étant donné la negligence dont fait preuve le copiste de l’Inventario, que la mention impressus ait été plus d’une fois omise et que certains livres figurant imprimés passent ainsi pour des manuscrits». Con la segnatura vaticana, il testo che qui interessa è citato dal MICHELINI TOCCI a p. 91 del suo saggio.

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sate da Bembo. Sul frontespizio è la nota, presumibilmente di mano dello Zanchi, «Rmo et Doctissimo Angelo Colotio»37. Non è l’unica opera che del fedele amico bergamasco Bembo possiede, che anzi l’inventario della biblioteca si apre con i suoi De horto Sophiae libri duo editi a Roma sempre dal Blado nel 1540. Ma qui importa Colocci, cui lo Zanchi con ogni evidenzia invia questa che dovrebbe essere la princeps degli epiteti latini, probabilmente fresca di stampa. Ricordata anche dal Tiraboschi, l’opera non è da confondere con quella sorta di dizionario, edito a Roma ancora dal Blado l’anno prima, sotto il titolo di Latinorum verborum ex variis auctoribus Epitome, e nella prefazione d’autore («Basilius Zanchus lectori s.», f. I iir-v) informa sull’epoca di composizione e la natura del testo. Lo Zanchi la iniziò a 17 anni, cioè verso il 1518, riunendo di sugli ottimi autori una «commodissimam suppellettilem» di epiteti che potesse venir utile nella composizione poetica: «vixdum annos septem et decem nati commentarios conficere ingressi sumus, in quos ex optimis quibusque poetis quantam potuimus Epithetorum copiam congessimus, rati eam nobis fore commodissimam supellectilem, siquando carmen scribere contigisset». I quali epiteti, osserva ancora dopo aver prodotto diversi esempi greci e latini, «neque in versu, neque in soluta oratione non nisi magna ratione ponuntur». Nel libro, i termini, ordinati alfabeticamente (del tipo, ad es., di «infelix Elisa», «pudica Lucretia», ecc.), sono riuniti sulla base di autori latini e greci in elenchi che in cui il sostantivo è accompagnato da una lista di epiteti («ALPES, altae Catull.; Aeriae, Virg.; Gelidae Tibull.; Latebrosae ventosae, Ovid.») o anche da glosse storico-culturali: «Thessalia regio hinc Atticam, illinc Macedoniam habens, multis antea nominibus dicta (...)». Si tratta, insomma, di un classico strumento, come dice la prefazione al lettore, per comporre versi latini, quale forse, nella sua scarsa ma non indegna esperienza poetica, il Colocci potè utilizzare negli ultimi anni della vita.

37 Questa la descrizione della copia segnata Racc. I.IV.885: BASILII ZANCHI BERGOMATIS | EPITHETORUM COMMENTARII.| INDEX eorum quae in hisce Commentariis extra | literarum ordinem continentur. (colophon, f. 132 r [n.n]: «Romae in aedibus Antonii Bladi asulani. XIX kal. Decemb. M.D.XLII»).

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MATTEO MOTOLESE

PER LO SCAFFALE DI CASTELVETRO: UN NUOVO DOCUMENTO E UNA VECCHIA LISTA 1. Quando si ragiona sulla biblioteca di Lodovico Castelvetro ci si scontra sempre con il problema di quali libri effettivamente il modenese potesse disporre mentre scriveva una determinata opera. Castelvetro abbandona la sua prima biblioteca nel 1561, quando lascia Modena per Chiavenna religionis causa. Da Chiavenna, dove rimane quasi tre anni, si sposta prima a Ginevra e poi a Lione. Qui sappiamo che ha ricostruito una biblioteca personale di oltre 400 volumi, alcuni dei quali spediti probabilmente da Modena o portati con sé nell’esilio. Anche da Lione, la notte del 26 settembre 1567, sarà costretto a fuggire, a piedi, abbandonando un’altra biblioteca. Si rifugerà a Ginevra, a Chiavenna, poi a Vienna e infine di nuovo a Chiavenna. Lì morirà nel febbraio 1571, dieci anni dopo essere scappato dall’Italia: i suoi ultimi libri e materiali rimarranno per testamento al fratello Giovanni Maria1. 2. Gli estratti pubblicati fino ad ora dell’ampio carteggio tra Jacopo Corbinelli e Gian Vincenzo Pinelli2 testimoniano l’interesse del bibliofilo 1 Il profilo generale più aggiornato sulle vicende biografiche di Castelvetro è la voce re-

datta da V. MARCHETTI e G. PATRIZI per il Dizionario biografico degli italiani, Roma 1960-. Rimangono tuttavia insostituibili, per l’ampiezza dei documenti che presentano, le più importanti biografie precedenti: L. CASTELVETRO Jr, Vita di Lodovico Castelvetro da Modena, in G. TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, VI 1, Modena 1786, pp. 61-82; L. A. MURATORI, Vita di L. Castelvetro, in L. CASTELVETRO, Opere varie critiche, Berna 1727 (ristampa anastatica in Poetiken des Cinquecento, München 1969); A. PLONCHER, Della vita e delle opere di Lodovico Castelvetro, Conegliano 1879; T. SANDONNINI, Lodovico Castelvetro e la sua famiglia, Bologna 1882; G. CAVAZZUTI, Lodovico Castelvetro, Modena 1903. Per la biblioteca castelvetrina si vedano G. FRASSO, Per Lodovico Castelvetro, in Aevum 65 (1991), pp. 453-478 e U. ROZZO, Il rogo postumo di due biblioteche cinquecentesche, in Bibliologia e critica dantesca. Studi offerti ad Enzo Esposito, a cura di V. DE GREGORIO, Ravenna 1997, pp. 159-186. Sulla consistenza della biblioteca del modenese a Lione dà notizie il nipote Lodovico Jr in un noto passo della Vita dello zio: «andorno in quel punto a male più di 400 pezzi di libri stampati de’ più belli e de’ migliori che si trovassero, oltre i scritti suoi, tra’ quali vi era la Grammatica volgare trattata molto diffusamente» (CASTELVETRO Jr, Vita cit., p. 72). 2 Cfr. FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., pp. 461-472. L’interessante carteggio, che ancora attende di essere pubblicato, è stato oggetto di due tesi di laurea discusse all’Università Cattolica di Milano nel 1981-82 (rel. G. Frasso): M. G. BIANCHI, Il carteggio J. Corbinelli — G.V. Pinelli (1565-1578). Erudizione e filologia tra Francia e Italia e M. GAZZOTTI, Il carteg-

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padovano per i materiali lasciati in eredità da Lodovico a Giovanni Maria. Un interesse di cui resta traccia, oltre che nel carteggio vero e proprio, anche in una lista rintracciata una decina di anni fa da Giuseppe Frasso tra le carte pinelliane conservate nella biblioteca Ambrosiana. Si tratta di un elenco di una trentina di titoli tra libri e manoscritti che è di grande interesse per chi si occupi di cose castelvetrine, anche perché descrive i volumi in modo analitico: luogo di stampa, formato, tipo di annotazioni presenti3. Grazie alla precisione delle descrizioni è stato possibile far combaciare alcune voci dell’elenco con esemplari presenti in varie biblioteche europee: già Frasso segnalava come, ad esempio, la voce «Rime de’ poeti antichi, raffrontate con assaissimi testi antichi scritti a mano, in ottavo, di stampa venetiana» corrisponda verosimilmente a un esemplare della ristampa del 1532 della cosiddetta Giuntina delle rime antiche oggi conservato a Parigi4; o come la voce «Ragione delle cose segnate ecc. con i numeri e le cittationi di tutti gli autori» sembri descrivere un esemplare della Ragione castelvetrina, oggi all’Estense di Modena5. 3. Un paio di anni fa, nell’ambito del convegno bembiano tenutosi a Gargnano, io stesso ho potuto dare notizia del ritrovamento di un altro gio J. Corbinelli — G. V. Pinelli (1578-1587). Contributo alla storia degli studi filologici e linguistici di Jacopo Corbinelli. È stato invece pubblicato in due volumi l’importante carteggio pinelliano con Dupuy: G. V. PINELLI et C. DUPUY, Une correspondance entre deux humanistes, éditée avec introduction, notes et index par A. M. RAUGEI, Firenze 2001. 3 L’elenco è pubblicato e commentato in FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit. Non è questo l’unico elenco dei libri castelvetrini in nostro possesso. Va qui citato l’importante rogito notarile redatto nel 1577, a Modena, che dà conto di 540 opere (da libri di legge a testi letterari) appartenenti alla famiglia Castelvetro e pubblicato in SANDONNINI, Lodovico Castelvetro cit., pp. 306-334 (non senza errori come notò già S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali. Edizione riveduta, con integrazioni inedite a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995, p. 84). L’estrema genericità con cui sono descritti i volumi di questo elenco lo rende però poco utile al nostro discorso. Basti qui segnalare che esso si riferisce a libri che molto probabilmente non si sono mai spostati da Modena o che vi sono tornati dopo la morte di Castelvetro, portati dall’erede Giovanni Maria (cfr. ROZZO, Il rogo postumo cit., pp. 171-172). 4 Rime di diversi autori toscani in dieci libri raccolte, Venetia, Io. Antonio, e fratelli da Sabio, 1532 (Paris, Bibliothèque Nationale, Rés. P. Yd 155). L’esemplare in questione – segnalato in FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., p. 474 – è stato studiato da M. LEONE in una tesi di laurea dal titolo Un postillato di lirica italiana antica attribuibile a Lodovico Castelvetro (Università di Chieti, a.a. 2000-2001; rel. C. Bologna) di cui è imminente la pubblicazione dei risultati. 5 [Lodovico CASTELVETRO], Ragione di alcune cose segnate nella canzone di Annibal Caro

‘Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro’, s.n.t. [ma Modona, Cornelio Gadaldino], 1559 (Modena, Biblioteca Estense, a &.2.10); cfr. FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., p. 475.

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libro descritto nella lista: un esemplare delle Prose della volgar lingua stampate da Torrentino nel 1549 [fig. 1], oggi conservato nel fondo palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze6. Si tratta di un postillato utile per ricostruire non solo il metodo di lavoro del filologo modenese ma anche la sua biblioteca: annotando un’opera a cui dedicherà un commento vastissimo e minuzioso come le Giunte, Castelvetro non fa infatti che segnarle «co’ numeri e con tutte le cittationi degli autori onde ha preso il Bembo le cose riposte in quel libro»7. Non aggiunge però una sola nota di commento. Un procedimento annotativo che si ritrova identico anche nella copia della Ragione conservata all’Estense cui abbiamo già fatto cenno: anche lì sono segnati solamente – come si dice nella lista Pinelli – «i numeri e le cittationi di tutti gli autori […] se, per aventura, il Caro, od altri per lui, havesse replicato». Anche i libri a cui si rimanda sono gli stessi: il Petrarca aldino del 15148, il Decameron pub-

6 È lo stampato Pal. [11] C 10 5 8. Cfr. M. MOTOLESE, L’esemplare delle Prose appartenuto a Lodovico Castelvetro, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Atti del convegno di Gargnano del Garda. 4-7 ottobre 2000, a cura di S. MORGANA, M. PIOTTI, M. PRADA, Milano 2001 (Quaderni di Acme 46), pp. 509-551. 7 Cito dalla lista Pinelli (da FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., p. 474). Il sistema di

citazione e le principali edizioni dei classici volgari utilizzate da Castelvetro sono ricordati dal nipote Giacomo nella sua prefazione alle Rime del Petrarca brevemente sposte per Lodovico Castelvetro, Basilea 1582, pp. 3r-v: «Et perché il nostro autore è ito dichiarando detti del Petrarca, con altri detti di lui, et allegandone molti a suoi propositi, et in farlo, egli non pur recita i versi o interi, o rotti, secondo che gli facevano ad uopo, ma anchora v’aggiugne il numero delle carte, et delle linee, dove nel predetto testo d’Aldo si truovano; noi habbiamo segnato nella margine del nostro il numero delle carte dell’aldino, aggiugnendo a tali numeri (a) per significare la prima faccia della carta, et (b) per significar la seconda, havendo parimente per questo medesimo usata l’a, et la b questo nostro autore oltre modo diligente, et aveduto in tali cose. Il quale haveva anchora in tutte l’altre sue allegationi copiosamente sparte per tutta questa sua opera segnati i numeri delle carte, et delle linee, dove sono riposte ne’ testi d’Aldo, o in altri, che egli usava delle migliori, et più lodate stampe, che si trovassero […] Ci siamo contentati di lasciar tali numeri solamente nell’allegationi della Comedia, come l’appellano, di Dante Alighieri, et nell’opere vulgari del Boccaccio, dichiarando che le allegationi della predetta opera di Dante sono fatte sopra i testi stampati dal medesimo Aldo in ottavo, et quelle dell’opere del Boccaccio sopra i testi stampati da’ Giunti in Firenze, cio è le novelle nell’anno 1527 in quarto, et l’altre qual pochi anni prima et qual non molti dopo in ottavo». Per il sistema di citazione presente negli autografi cfr. M. G. BIANCHI, Un poco noto trattatello grammaticale di Lodovico Castelvetro: De’ nomi significativi del numero incerto, in Aevum, 65/3 (1991), pp. 479-522 in particolare pp. 484 e 492493; P. TROVATO, Il frammento di Chicago ed altre schede su Lodovico Castelvetro e Petrarca, in Vetustatis indagator. Scritti offerti a Filippo di Benedetto, a cura di V. FERA e A. GUIDA, Messina 1999, pp. 253-276; MOTOLESE, L’esemplare delle Prose cit., p. 514. 8 Il Petrarcha, Venezia, Aldo, 1514 (cfr. Biblioteca del libro antico italiano, diretta da A. QUONDAM, I: La biblioteca volgare. Libri di poesia, a cura di I. PANTANI, Milano 1996, nr.

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blicato nel 1527 dai Giunti9, la ristampa veneziana della Giuntina di cui si è detto, l’edizione Gualteruzzi del Novellino del 152510, una delle due edizioni della Fiammetta edite sempre dai Giunti11. Una piccola biblioteca di classici volgari che, significativamente, si trova descritta, libro per libro, nella lista Pinelli. 4. È evidente che il postillato della Ragione e quello palatino delle Prose erano semplici strumenti di lavoro. Strumenti che però hanno senso solo in un determinato sistema: le decine di rinvii a pagina riga e facciata di una certa opera diventano infatti inservibili se la biblioteca di riferimento viene cambiata. Anche per questo, è verosimile, Castelvetro avrà avuto particolare cura di avere quella piccola biblioteca di classici sempre con sé. E non solo per comodità di consultazione: la lista Pinelli ci dice infatti che spesso tali rinvii alfanumerici, più che a un singolo passo, dovevano rimandare a un luogo cartaceo in cui si potevano incontrare, come in una moderna edizione critica, testo stampato e varianti manoscritte. È il caso, per rimanere nell’àmbito dei testi citati, della Giuntina delle rime antiche: un confronto tra le citazioni presenti nella Giunta pubblicata nel 1563 con l’esemplare parigino dell’edizione in questione mostra che Castelvetro cita non di rado lezioni frutto dell’integrazione tra postille annotate a penna e testo stampato12. In altri casi, si discosta nettamente dalle edizioni in circolazione che pur possedeva. È quanto accade per quel «Theseida, in quarto, di stampa vinetiana, raffrontata con più testi antichi, e erano tante le varietà che non ne restava parola della stampata, e la pistola scritta alla Fiammetta era tutta rinovata»13. Il 3559; Short-Title Catalogue of Italian Books printed in Italy and of Italian Books printed in other Countries from 1465 to 1600 now in The British Museum, London 1958, p. 503). 9 G. BOCCACCIO, Il Decamerone […] nuovamente corretto et con diligentia stampato, Firenze, eredi di Filippo Giunta, 1527 (cfr. Le edizioni italiane del XVI secolo. Censimento nazionale, Roma 1990, nr. 2411; Short-Title Catalogue of Italian Books cit., p. 110). 10 Le ciento novelle antike, Bologna, G. Benedetti, 1525 (Short-Title Catalogue of Italian Books cit., p. 470). 11 G. BOCCACCIO, Fiammetta, Firenze, eredi di Filippo Giunta, 1524 oppure G. BOCCACCIO,

Fiammetta, Firenze, Bernardo di Filippo Giunta, 1533 (rispettivamente, Le edizioni italiane del XVI secolo cit., nr. 2401; Short-Title Catalogue of Italian Books cit., p. 108 e Le edizioni italiane del XVI secolo cit., nr. 2428). A segnalare che le due edizioni sono sovrapponibili, per numero di pagine e di righe, era stata già BIANCHI, Un poco noto trattatello cit., p. 493. 12 Anticipo qui alcune rapide considerazioni sulle fonti a stampa della Giunta fatta al

ragionamento degli articoli et de’ verbi delle quali darò conto più compiutamente nella mia edizione del testo, di prossima pubblicazione presso la casa editrice Antenore. 13 Cfr. FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., p. 473.

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riferimento è ovviamente all’edizione curata da Tizzone Gaetano nel 152814, essendo le altre stampe disponibili al tempo due incunaboli stampati a Ferrara e Napoli15. Ebbene, se si confrontano le citazioni presenti nella Giunta del 1563 con il testo curato da Tizzone si vede che Castelvetro ricorre quasi sempre ad un’altra lezione che aveva desunto con ogni probabilità da manoscritti. Se aveva davanti a sé la stampa, la utilizzava dunque quasi come supporto cartaceo per le varianti16. Mi pare interessante segnalare qui anche il caso del Convivio di Dante. Attraverso rinvii marginali presenti sull’esemplare palatino delle Prose e su quello modenese della Ragione, mi è stato possibile stabilire che Castelvetro aveva a disposizione l’edizione del Convivio utilizzata già da Fortunio e da Bembo, ossia l’incunabolo curato da Bonaccorsi e pubblicato a Firenze nel 149017. Ad essa infatti egli rimanda attraverso le serie alfanumeriche in margine ai passi in cui si cita l’opera filosofica di Dante. Il che mi pare significativo alla luce del giudizio particolarmente 14 La Teseida da Tizzone Gaetano diligentemente rivista, Venezia, Girolamo Pentio, 1528 (cfr. Le edizioni italiane del XVI secolo cit., nr. 2416). 15 G. BOCCACCIO, Teseide, Ferrara, Augustinus Carnerius, 1475 (cfr. The Illustrated Incunabula Short-Title Catalogue on Cd-Rom, London 1999, nr. 761); G. BOCCACCIO, Teseide, [Napoli], Francesco del Tuppo, 26 Nov. [circa 1490] (cfr. The Illustrated Incunabula ShortTitle Catalogue cit., nr. 7615). 16 Ho potuto confrontare le lezioni solo con l’incunabolo ferrarese del 1475 e constatare che esse non sono quelle presenti nel testo della Giunta. Il testo del Boccaccio è citato da Bembo in Prose della volgar lingua, III, vii, 196 riguardo alla forma apocopata cava’; nell’esemplare palatino (p. 112) Castelvetro annota «Lib. I stanza 75» (è uno dei pochi casi in cui l’edizione Tizzone corrisponde: al passo corrispondente, il testo del 1528 legge infatti: «Sopra cava’, che a redine sbandite»). Ricordo che un «Theseida del Boccaccio» compare anche tra i libri a stampa negli elenchi pubblicati da SANDONNINI, Lodovico Castelvetro cit., pp. 314-34. 17 Convivio di Dante Alighieri fiorentino, Firenze, per ser Francesco Bonaccorsi, 1490 (cfr. The Illustrated Incunabula Short-Title Catalogue cit., nr. 36). Non si può escludere che a questa edizione si riferisca la voce: «Convito di Dante, ammendato di testa» presente nella lista Pinelli, anche se – come nota FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., p. 473 – l’assenza di specificazione tipografica fa pensare a un manoscritto. A proposito del Convivio appartenuto a Castelvetro, già Debenedetti citava una lettera di Corbinelli al Pinelli del 16 aprile 1578 in cui si legge: «D’altri libri, non ho spillato mai cosa alcuna. Di Basilea mi scrive ms. Francesco Betti del Convivio di Dante che era del Castelvetro e arebbe voluto saper se il mio era come quello» (cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., pp. 48 e 313). Come ricorda Claudio Vela, Barbara Marx ha rintracciato postille di mano del Bembo nell’esemplare del Convivio conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi con segnatura Rés. Yd. 208 (cfr. P. BEMBO, Prose della volgar lingua: l’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano lat. 3210, ed. critica a cura di C. VELA, Bologna 2001, p. 262). Sul Convivio di Bembo cfr. anche C. PULSONI, Per la ricostruzione della biblioteca bembiana: I. I libri di Dante, in Critica del testo, II/2 (1999), pp. 735-749; per Fortunio, cfr. quanto afferma Brian Richardson in G. F. FORTUNIO, Regole grammaticali della volgar lingua [1516], a cura di B. RICHARDSON, Padova 2001, p. LII.

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critico espresso da Castelvetro riguardo alle stampe in circolazione del testo18. 5. Recentemente, sfogliando il catalogo della collezione Rosenthal19 mi sono imbattuto in un altro postillato castelvetrino che, a quanto mi risulta, non è stato mai segnalato: a p. 65 del catalogo si trova infatti la riproduzione fotografica di una pagina dell’edizione Marcolini delle Prose della volgar lingua di Bembo (1538) con postille che, per grafia e tecnica annotativa, direi attribuibili alla mano di Castelvetro [fig. 2]. L’esemplare, come l’intera collezione messa insieme da Bernard Rosenthal, è oggi conservato nella Beinecke Library (cod. Rosenthal 14) dell’Università di Yale, negli Stati Uniti, e in passato era appartenuto anche al noto bibliografo Alfred Pollard. L’attribuzione delle postille al modenese si ricava facilmente, oltre che dalla grafia, dalla presenza dei caratteristici rinvii alfanumerici e da molti altri fattori di cui si tratterà nelle pagine seguenti20. 18 «Hora, è da dire che il luogo di Dante nel Convito è errato, percioché è da sapere che

tra tutti i libri contaminati non ha niuno che sia stato peggio trattato dallo stampatore di questo, et mi maraviglio del Bembo che adduca autorità di quel libro per istabilire regole di grammatica, essendovi degli errori a migliaia» (cfr. [L. CASTELVETRO], Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de’ verbi, Modona, Heredi di C. Gadaldino, 1563, f. 73v). 19 Beinecke Rare Book and Manuscript Library, The Rosenthal Collection of printed

Books with Manuscript Annotations; a Catalogue of 242 editions mostly before 1600 annotated by contemporary or near-contemporary readers, [by] B. M. ROSENTHAL, New Heaven 1997. Sul catalogo cfr. anche la recensione di L. BALSAMO in La Bibliofilìa 1 (1999), pp. 8184. 20 Riporto qui di séguito la scheda descrittiva che compare nel catalogo: «Prose di Mon-

signor Bembo. CXIII, [1] leaves; A-N8O10; 21.3 cm, nineteenth-century vellum-backed boards. Folium 114v contains a woodcut of three figures and the motto Veritas Filia Temporis, surrounded by the word Veritas. Venice: F. Marcolini, 1538. […] MANUSCRIPT ANNOTATIONS The annotations here are not very intensive; they are more substantial in Book 3 that in the preceding ones. Two types of notes occur: rather straightforward additions to the text, giving additional examples from Italian authors, chiefly Boccaccio and Petrarch, with at least one from Dante as well (fol. 68r), but also others, e.g. on fol. 65r: QUELLINO eziandio disse una volta Giovanni Villani nella sua historia in vece di quelli. Most of the notes, however, consist of neatly written sets of numbers, sometimes in combination with letters, e.g. 77b29 and 243b12 on fol. 43v; sometimes these numbers are grouped in rows, as on fol. 33r. They probably constitute some sort of cross reference system between this text and others which the annotator has left unnamed. All the errata indicated on the errata page have been corrected by the annotator; on the terminal blank he has added a few lines in Latin. Above them, someone else has recorded, in neat cancelleresca, that Cardinal Bembo died in 1547. Some Hebrew lettering appears below these entries. PROVENANCE On the inside front cover is the pencilled ownership entry of Alfred W. Pollard; on the flyleaf, the manuscript entry “A. Burnell, Bologna 1881”. CONDITION A fine copy, complete with terminal blank».

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Rispetto all’esemplare fiorentino (d’ora in poi F), a prima vista l’esemplare di Yale (d’ora in poi Y) presenta notevoli differenze. Oltre ai soliti rinvii alfanumerici, compaiono infatti, nel terzo libro, numerose postille discorsive. È bastato leggerne un paio per capire che si tratta però della semplice trascrizione dei passi nuovi dell’edizione 1549: Castelvetro doveva insomma aver aggiornato la stampa del 1538 in modo da renderla simile a quella definitiva curata da Varchi e Gualteruzzi. Una volta compiuto l’aggiornamento, doveva aver postillato l’esemplare rintracciando praticamente solo i rinvii bibliografici 21. Se si confrontano le postille presenti in Y con quelle presenti in F si nota che i numeri vergati sui margini di Y corrispondono quasi interamente a quelli presenti in F. Il che non stupisce: si tratta infatti delle stesse citazioni bembiane rintracciate perlopiù sugli stessi libri. Colpisce di più magari che, annotando in entrambi i volumi anche gli stessi banali notabilia22, Castelvetro costruisca due postillati sostanzialmente identici: strumenti di lavoro che permettano di reperire facilmente i loci sia all’interno dell’opera stessa, sia – soprattutto – all’esterno, nella biblioteca. Pur se molto simili tra loro, i rinvii di F e Y differiscono però per un dettaglio fondamentale. Mentre in F i rimandi alla Commedia di Dante corrispondono per numero di pagina, di facciata e di riga all’aldina del 150223, quelli presenti in Y sono sempre scalati di una o due pagine (rispettivamente nell’Inferno e nel Paradiso): essi si riferiscono infatti Segnalo altri dettagli omessi nella scheda descrittiva, giustamente sommaria: 1) l’indicazione manoscritta degli accenti per le forme quetámi, levámi, faráne in III, x; 2) la presenza sul margine esterno dello specchio di stampa di una serie di puntini per facilitare l’individuazione del numero di riga (un punto ogni dieci righe, due ogni cinque); 3) la presenza di notabilia nel II libro. Questi due ultimi particolari ci portano ancora a Castelvetro: anche nel postillato fiorentino delle Prose si ritrovano infatti non solo il procedimento di marcatura delle righe (presente anche in altri postillati castelvetrini), ma l’annotazione – come vedremo – degli stessi banali notabilia. 21 Ho potuto consultare il volume, purtroppo, solo tramite microfilm. Anche su supporto fotografico sono comunque distinguibili due inchiostri: uno con cui sono trascritte quasi tutte le aggiunte testuali; l’altro con cui sono segnati i rinvii e un paio di aggiunte (ad es. f. LVIIv). 22 Come si è detto i notabilia corrispondono, tranne in un paio di casi, a quelli presenti

nel postillato fiorentino delle Prose: «Elettione» in II, iv; «Compositione» in II, vii; «Suono» in II, x; «Rima» in II, xi; «Tempo» in II, xvii; «Variatione», in II, xviii; «Decoro» e, poche righe dopo, «Persuasione» in II, xix e, unico non presente anche in F, «Del verbo» in III, xxvii. Assenti dall’esemplare di Yale invece le annotazioni «gravita», «piacevolezza» e «Dante et Petrarca paragonati» che compaiono in F in corrispondenza, rispettivamente, di II, ix e II, xx. 23 Cfr. MOTOLESE, L’esemplare delle Prose cit., p. 515.

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all’aldina del 1515, ossia all’edizione che Castelvetro ha con sé negli ultimi anni dell’esilio dopo che, per la fuga da Lione nel 1567, perde la preziosa edizione del 1502 che usa nella maggior parte dei suoi scritti, comprese le Giunte. Poiché non risulta che l’uso dell’aldina del 1515 sia precedente al 1567, ci dovremmo trovare davanti ad uno dei libri che Castelvetro aveva con sé mentre riscriveva la Spositione a Dante24, a Vienna, o la Correttione a Varchi, a Chiavenna25: in entrambe le opere, infatti, ad essere usata è appunto l’edizione del 1515 e non più quella del 1502 che è invece usata nella maggior parte degli autografi castelvetrini, compreso il commento alla Poetica scritto a Lione26, nonché per i riscontri in F. Niente di più semplice d’altronde del fatto che, una volta perso F nei fatti di Lione, Castelvetro non potendo procurasi nuovamente per la propria biblioteca l’edizione definitiva del 1549 ne abbia “aggiornata” una del 1538 che evidentemente aveva a disposizione. E che poi su quella abbia ricostruito, con pazienza, la rete di riferimenti intra ed extratestuali che aveva rintracciato già in F27. La serie di differenze illustrate fino ad ora porta ad escludere che egli possa aver semplicemente copiato le postille da un testo all’altro. In un periodo in cui si dedica a rifare alcuni lavori perduti a Lione, dovette

24 Cfr. Spositione di Lodovico Castelvetro a XXIX canti dell’Inferno dantesco ora per la prima volta date in luce da Giovanni FRANCIOSI, Modena 1886. Nel trascrivere il testo, Franciosi ha purtroppo eliminato i riferimenti alfanumerici; alcuni di essi sono però visibili nei facsimili ospitati nel volume. 25 Cfr. L. CASTELVETRO, Correttione d’alcune cose del ‘Dialogo delle lingue’ di Benedetto Varchi, ed. critica a cura di V. GROHOVAZ, Padova 1999, p. 228 (su cui cfr. anche la recensione di E. GARAVELLI in Neuphilologische Mitteilungen 101/3 (2000), pp. 487-492). L’uso da parte di Castelvetro dell’aldina dantesca del 1515 nel periodo post Lione è testimoniato oltre che dalla Correttione, anche del cosiddetto zibaldone autografo conservato alla Biblioteca Estense di Modena (a S.5.1 [it. 284]). A f. 88r, ad esempio, là dove si parla di «Alcune cosette del primo canto del purgatorio» e «del secondo canto del purgatorio», i rinvii alfanumerici combaciano con la ristampa del testo di Dante. 26 L. CASTELVETRO, La Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta, Vienna, per Gaspar Stainhofer, 1570. I rinvii alfanumerici, assenti dall’edizione, sono visibili sull’autografo rintracciato da Frasso alla Biblioteca Antonio Panizzi di Reggio Emilia, collocazione Mss. Vari E 100 (cfr. FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., pp. 460-461). Ringrazio Roberto Marcuccio della Biblioteca Panizzi per aver controllato, con la consueta gentilezza, i rinvii sul manoscritto per mio conto. 27 Il confronto tra i due postillati non rivela mutamenti di interesse significativi; segna-

lo solamente una differenza nella distribuzione delle postille nella sezione dei pronomi (Prose III, 13 e 23): 12 annotazioni presenti solo in F; 72 solo in Y; appena 10 in comune.

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anche rifare uno strumento di riferimento come il testo delle Prose28. Poiché è impensabile che abbia ricostruito i riferimenti a memoria, deve essersi servito dei testi di cui poteva disporre, i quali (con la vistosa eccezione dell’aldina del 1515 di cui si è detto) risultano essere gli stessi sia di F sia degli altri scritti castelvetrini in cui siano presenti rinvii alfanumerici29. Sono libri, o almeno edizioni, che dunque lo accompagnano praticamente per tutta la vita: frammenti di biblioteca che evidentemente riesce a portare via con sé o in qualche modo a recuperare anche dopo la fuga da Lione nel 156730. Ancora qualche notazione sul postillato di Yale. Oltre ai testi volgari, fanno una timida comparsa anche alcuni riferimenti a testi latini: come già in F, anche in Y si ha il rinvio a Orazio in margine a Prose I, v; manca invece il richiamo a Quintiliano per II, xiv che si ha invece in F. In compenso a f. 22v si ha un rinvio al Brutus ciceroniano e, soprattutto, in margine a f. 31r, ossia alla celebre similitudine con l’arsenale veneziano, il riferimento al De compositione verborum di Dionigi d’Alicarnasso. E qui vale la pena di soffermarsi un momento. Non solo perché si ha una risposta documentaria alla domanda che Francesco Donadi si pose oltre

28 Cfr. CASTELVETRO, Vita cit., pp. 71-72 (corsivi miei): «Si perdé ancora un Commento o Discorso sopra la maggior parte delli Dialoghi di Platone, un giudizio sopra le Comedie di Plauto e di Terenzio, tutte cose scritte in lingua italiana. Andò ancora a male un giudizio fatto sopra le Novelle del Boccaccio, il quale fu poi rifatto da lui essendo in Chiavenna. Si perdettero le fatiche fatte sopra Dante, benché poi a Vienna d’Austria si desse di nuovo a rifare quel Commento, il quale non tirò più oltre dell’Inferno». Di questa opera di riscrittura si ha testimonianza anche in alcune annotazioni (ad es. a f. 161r-v) del già citato ms. a S. 5.1 dell’Estense di Modena. 29 Le notazioni marginali ci dicono che mentre postillava Y doveva avere anche una copia di Crescenzi: a f. 95v, ad esempio, si hanno riferimenti al volgarizzamento dei Ruralia commoda (presenti anche in F, nell’odierna carta di guardia: cfr. MOTOLESE, L’esemplare delle Prose cit., p. 525). È probabile però che, anche in questo caso, non si tratti dello stesso libro: mentre in F il testo è citato con i rinvii alfanumerici, in Y esso è citato solo per libro e capitolo. 30 Utile a questo proposito rileggere un passo della Correttione (corsivi miei): «Conciosia cosa che io sia stato per la ’nfermità costretto a fermarmi in parte nella quale non sono persone che studino o leggano libri, et spetialmente que’ che fa mestiere adoperare nelle dispute fatte come è questa, et per conseguente anchora non ci sono libri, o almeno così fatti, li quali non m’è prestato agio di mandare a prendere dove sono, sì per la spesa smoderata che si farebbe, sì per lo tempo spatioso che ci vorrebbe prima che fossero giunti qui. Per la qual cosa io sono sforzato a ricorrere in tanta necessità et ad attenermi ad un libro solo, fatto comunque si sia, che è quello della caduca et trascorrevole mia memoria. Il quale solo nella perdita di tutto ciò che io haveva con tutte le mie scritture et libri, che non erano pochi, la quale io feci in Lione sopra Rodano» (cfr. CASTELVETRO, Correttione cit., pp. 88-89).

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vent’anni fa (se Castelvetro avesse riconosciuto la fonte bembiana)31, ma anche perché è possibile fare una precisazione, proprio sull’edizione che Castelvetro utilizzava per i suoi confronti. In margine al passo di Prose II vii (f. XXXIr) Castelvetro scrive infatti «Dionigi Alicarnaseo / Peræ suntavxew" onomavtwn 513. 42»: un riferimento che non combacia con l’edizione curata dall’Estienne nel 154732 ma che si riferisce probabilmente a un manoscritto. A differenza dell’aldina, non siamo qui di fronte a un cambiamento di testo dovuto necessariamente a cause esterne. Se si vanno a vedere le postille che Castelvetro appose in margine al suo esemplare della Ragione, si vede che egli aveva a disposizione due testi di Dionigi. A f. 7r, là dove si parla delle lodi tributate a Lisia da Dionigi, egli annota infatti «Nella stampa di Parigi 100. 25», che corrisponde all’inizio dell’operetta dionisiana proprio nell’edizione del 1547. Quando però deve rinviare al De compositione verborum non usa più l’edizione parigina ma un volume molto più corposo: a f. 3r si legge infatti «Peræ sunqevsew" 661. 41». È verosimile dunque che il testo da cui cita postillando la Ragione sia lo stesso che utilizza postillando Y. Poiché non mi risultano edizioni che contengano l’operetta dionisiana che abbiano un numero di pagine sufficiente a giustificare un controllo, a meno di non pensare a un volume a stampa miscellaneo con numerazione progressiva, bisognerà pensare a un manoscritto. Un altro volume che, dunque, sembra accompagnare Castelvetro anche dopo Lione. La serie di rinvii alle fonti classiche si completa con un richiamo all’Epitoma rei militaris di Vegezio: a lato del passo bembiano in cui si legge «la quale usanza e studio…» (III, i) si ha infatti «Vitruvium Vegetius / lib. 3 c 20 simile». Il riferimento viene chiarito sul verso del penultimo foglio di guardia in cui Castelvetro trascrive per intero il passo individuato come «simile» a Prose III, i. Ossia: «omnes artes omniaque opera quotidiano usu et iugi exercitatione proficiunt. Quod si in parvis verum est quanto magis debet in maximis custodiri». Questo appunto, che direi autografo, non è l’unico che compare sul foglio di guardia. Vi compaiono anche altre annotazioni, forse precedenti e probabilmente non di mano di Castelvetro. È il caso dell’annotazione che si trova nella parte alta della pagina, e dice: «Nell’anno di christo 1547 il viiiesimo di 31 Cfr. F. DONADI, Il «Bembo baro» in Atti e memorie dell’accademia patavina di scienze

lettere ed arti. Memorie della classe di scienze morali lettere ed arti 102/III (1989), pp. 70-73. 32 Duonusæou *Alikarnassevw" Peræ sunqevsew" onomavtwn prü" &Roýfon, Lutetiae, Ex officina Roberti Stephani, Typographi Regii. Per l’uso di quest’edizione da parte di Castelvetro cfr. M. NASTA, Le fonctionnement des concepts dans un texte inédit de Castelvetro, Padova 1977, p. 29 e DONADI, Il «Bembo baro» cit., p. 70.

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Genaio passo di questa vita messer Pietro Bembo Cardinale della chiesa Romana» (con «christo» e «chiesa» privi della maiuscola). Al centro della pagina si ha poi, in caratteri ebraici, una citazione dal Salmo I 1a che recita – secondo la Vulgata – «Beatus vir, qui non abit in consilio impiorum». Si tratta di due annotazioni che è difficile attribuire con sicurezza a Castelvetro. Anche se non è da escludere: sappiamo che Castelvetro – come molti intellettuali del tempo – conosceva un poco d’ebraico33 e possedeva delle grammatiche di quella lingua (una di esse compare anche nella lista Pinelli)34; ma va segnalato che, almeno nell’autografo della Giunta ai verbi, egli scrive Christo con la maiuscola35. 6. Tiriamo le somme del nostro ragionamento. Abbiamo visto che le edizioni di riferimento a cui Castelvetro rimanda nei margini di Y non solo combaciano in gran parte con quelle di F ma si trovano anche nella lista Pinelli. Nella lista troviamo però anche il postillato palatino. Di quali libri dà notizia allora la lista se Castelvetro è costretto a rifare nuovamente uno strumento come F? Frasso ipotizza giustamente che la lista dia conto di materiali in gran parte castelvetrini del tempo dell’esilio. E che essa sia stata redatta dopo la morte di Castelvetro. Sappiamo che diversi materiali perduti nei fatti di Lione, in qualche modo riapparvero. Sappiamo anche che Castelvetro, con tenacia, cercò di ricostruire il materiale perduto, riscrivendolo. Non stupisce dunque che abbia rifatto uno strumento per lui importante come le Prose: avendo perduto F, allestisce Y. Non ci si può nascondere però una domanda: è possibile che Castelvetro, nell’esilio, si sia procurato nuovamente edizioni pregiate come l’aldina del 1514, il Boccaccio del 1527, il Novellino del 1525, la Giuntina del 1532 ma non fosse in grado di trovare un’edizione del 1549, tanto da essere costretto a copiarsi le aggiunte? Non è più verosimile che quei libri lo abbiano accompagnato anche dopo la fuga da Lione? Sospendiamo per un attimo la risposta. La lista Pinelli ci dà conto infatti anche di un altro cambiamento. Mentre in F si hanno riscontri con l’editio princeps di Villani edita da Zanetti nel 1537, un in-folio di cui l’esemplare postillato da Castelvetro è 33 Sulla conoscenza dell’ebraico da parte di Castelvetro cfr. M. G. BIANCHI, Lodovico

Castelvetro, la ricerca etimologica e lo studio della lingua letteraria in Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento, a cura di M. TAVONI, Modena 1996, vol. I., pp. 549-564, p. 553. 34 Cfr. ROZZO, Il rogo postumo cit., p.174. 35 L’autografo, segnalato da FRASSO, Per Lodovico Castelvetro cit., pp. 459-461, è conser-

vato presso la Biblioteca Antonio Panizzi di Reggio Emilia, con segnatura Mss. Vari C. 20; la parola è a f. 36r.

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oggi in Estense36, in Y non si ha alcun rinvio a Villani. Villani risulta inoltre pressoché assente dalla Correttione scritta negli ultimi mesi di vita di Castelvetro. Se si guarda poi all’autografo della Spositione a Dante, riscritta nello stesso periodo, si vede che il cronista fiorentino è segnato rinviando non alla pagina ma a libro e capitolo. E questo nella stessa pagina in cui i rinvii a Dante sono all’aldina del 1515. Ora, se prendiamo la lista Pinelli vediamo che la voce relativa a Villani dice: «Giovanni Villani, tutto in quarto, di stampa vinitiana». Nessun cenno dunque alle postille che riempiono l’esemplare estense, ma soprattutto una differenza di formato. Non solo. La voce successiva recita: «Matteo Villani, tutto in quarto, di detta stampa». È chiaro che allora la voce relativa a Giovanni Villani non va riferita all’edizione Zanetti, che Castelvetro aveva a disposizione mentre postillava F, ma a un’altra edizione. Ossia, con ogni probabilità, all’edizione stampata a Venezia dai Giunti del 1559, in-quarto; gli stessi Giunti che stamparono anche, nel 1562, sempre a Venezia, le Storie di Matteo Villani descritte nella lista37. Poiché Villani è citato dall’edizione Zanetti in F ma non – a quanto mi risulta – nei testi dell’esilio, ne deduciamo che, verosimilmente, non dovette seguire Castelvetro fuori d’Italia (forse anche a causa del formato in-folio del volume; si noti che tutti i libri della lista Pinelli sono in-8° o in-4°). E l’abbandono di un tesoro variantistico come il Villani modenese può avere avuto un peso nel determinare il ruolo, minoritario, che il cronachista del Trecento ha nelle opere dell’esilio. Concludiamo. Quanto ho detto fino ad ora mi pare avvalori l’ipotesi prospettata a suo tempo da Frasso: che la lista Pinelli registri materiali che accompagnarono Castelvetro nel suo esilio. Il ritrovamento di Y ci permette però di circoscrivere ancora di più il periodo e di mettere ancora un po’ di ordine sul tavolo del filologo modenese. L’assenza di Y dall’elenco porta a credere infatti che la lista Pinelli fotografi un momen36 G. VILLANI, Cronache, Venetia, Bartolomeo Zanetti (per Giacomo Fasolo), 1537 (Modena, Biblioteca Estense, a Z.4.24). Un’edizione delle postille è stata promessa da M. G. BIANCHI che ha studiato il volume nella sua tesi di dottorato dal titolo Ricerche di L. Castelvetro sulla prosa italiana antica: il Novellino e la Cronica di G. Villani, tesi di dottorato in Italianistica [letteratura umanistica] discussa nel 1993 all’Università Cattolica di Milano. 37 Ossia: G. VILLANI, La prima [e seconda] parte delle historie uniuersali de’ suoi tempi, Venetia, ad instantia de’ Giunti di Fiorenza, 1559 (stampata in Venetia, per Nicolo Bevilacqua trentino, ad instantia delli heredi di Bernardo Giunti di Firenze, 1559) e M. VILLANI, Historia, Venetia, ad instanzia de’ Giunti di Fiorenza, 1562 (stampata in Venetia, per Domenico Guerra, & Gio. Battista suo fratello, ad instanzia de gli heredi di Bernardo Giunti di Firenze, 1562). Per queste edizioni, anche in rapporto all’edizione Zanetti, basti il rinvio alle notazioni di Gino Belloni in V. BORGHINI, Lettera intorno a’ manoscritti antichi, a cura di G. BELLONI, Roma 1995, specialmente alle pp. XXIX-XLVI.

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to della disponibilità libraria castelvetrina che non pare essere quello della stesura delle ultime opere. I libri della lista – a quanto sembra – a un certo punto dovettero separarsi: alcuni furono perduti (così F), altri recuperati in qualche modo. La lista Pinelli ci aiuta a riempire lo scaffale dei classici volgari del periodo dell’esilio. L’esemplare di Yale mi pare possa aiutare a far un po’ di luce su quanto di quello scaffale ideale è andato perduto e quanto è rimasto al suo posto nonostante gli spostamenti, fino agli ultimissimi anni del modenese.

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Fig. 1 – (F) Firenze, Biblioteca Nazionale, Pal. [11] C 10 5 8, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana. PIETRO BEMBO, Prose della volgare lingua, Firenze, Torrentino, 1549, p. 21.

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Fig. 2 – (Y) Yale University (New Haven, Connecticut, U.S.A.), Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Rosenthal 14, [PIETRO BEMBO] Prose di monsignor Bembo, Venezia, Marcolini, 1538, ff. LXXXIVv – LXXXVr.

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INTORNO ALLO ZIBALDONE COLOCCIANO VAT. LAT. 4831 L’oggetto del mio intervento è un codicetto dalla forma singolare conservato, come tutti gli zibaldoni colocciani conosciuti, nel fondo latino della Biblioteca Apostolica Vaticana: il codice Vat. lat. 48311. Si tratta di un volumetto oblungo (approssimativamente di 11,5 cm di larghezza, per circa 29 di altezza), cartaceo, di 104 fogli integri – per la maggior parte numerati nel solo recto in alto a destra da Colocci2, in cifra araba – più 12 tagliati (o strappati) parallelamente al lato più lungo del codice (sono quelli compresi tra il foglio non numerato che segue il foglio 93 e quello non numerato che precede il 107) e uno aggiunto, al fondo del ms., probabilmente al momento della legatura del codice entro la copertina attuale3. L’attenzione alla forma del codice in questione è giustificata dalla sua singolarità: a quanto mi consta, non ci sono altri codici colocciani di simili dimensioni4. Questa singolarità potrà dunque deporre a favore (pur 1 Per brevità, nel corso di questa comunicazione, lo designerò semplicemente come 4831. Di questo codice sto curando l’edizione corredata da un commento. Ad essa fanno riferimento i rimandi alle righe del codice, la cui numerazione, quantunque opinabile, potrà tuttavia cosituire un’indicazione almeno approssimativa per chi tentasse di orientarsi in un esame diretto del ms. 2 Come è probabilmente noto, Colocci non distingue tra recto e verso, e la sua numerazione è perciò regolarmente progressiva di recto in recto (sull’originalità di questo sistema rispetto all’uso di altri filologi coevi, si veda C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, II, Messina 1994, pp. 531587, p. 574 e spec. nt. 84). Il nostro codice è interamente di mano di Colocci, salvo che per le tavole del terzo fascicolo, redatte da un copista, in cui l’intervento diretto dell’umanista si può notare solo sporadicamente, oltre che nella numerazione delle pagine, nelle correzioni dei numeri di foglio relativi ad alcuni incipit, nell’aggiunta di due parole («q(uan)to», f. 23r, r. 9 e «amore», f. 23v, r. 19), nella segnalazione, in margine ad alcuni incipit, della loro ripetizione. 3 Incollati tra i piatti anteriore e inferiore ed i relativi risguardi si notano i lacerti di alcuni fogli, anch’essi tagliati, che dovevano far parte della fascicolazione originaria del ms. 4 Risultano solo pochi fogli di dimensioni confrontabili con quelle dei fogli di 4831 in Vat. lat. 4823: li segnala C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. Lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, pp. 105-152, p. 105, nt. 1. Si tratta dei ff. 453-456, «leggeri foglietti di

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non essendo condizione sufficiente) della riconducibilità ad un progetto compilativo unitario del materiale raccolto in 4831. Per altro, se, come sembra, la numerazione è di mano colocciana, si dovrà scartare l’ipotesi che l’attuale codice sia risultato dall’aggregazione, posteriore a Colocci, di materiali irrelati. Ciò non toglie che questo manoscritto sia, non meno di altri zibaldoni dell’umanista, composito e vario, tanto per i contenuti quanto per la consistenza codicologica (strettamente correlate, come si vedrà), ma il fatto che l’unificazione di questo materiale possa essere ricondotta alla volontà dello stesso compilatore ci autorizzerà ad avanzare alcune provvisorie ipotesi sulle ragioni che vi presiedettero e a ricercare un qualche elemento agglutinante sotto l’apparente eterogeneità delle unità codicologiche e contenutistiche che lo compongono. L’interesse di questo zibaldone, dunque, sta nella sua varietà e quindi nella ricchezza di spunti di studio e ricerca di fonti che offre – cosa che formato ridotto, di cm 29 × 10 circa – di mano di copista i ff. 453r-456r e di Colocci il f. 456v – [che] contengono strambotti siciliani». La dimensione di questi fogli, per altro, è l’esatta metà di quella dei fogli impiegati negli altri zibaldoni (o per lo meno di quelli da me direttamente consultati: Vatt. latt. 4817, 4818, 4819 e anche di 4823): ciò mostra che essi sono stati ottenuti mediante un’ulteriore piegatura dello stesso tipo di bifolii usati in quelli. Per altro le stesse filigrane che compaiono in 4831 possono essere ritrovate facilmente in altri codici. Cito due casi a mo’ d’esempio: compare ai fogli 22 e 28 (e solo qui in questo zibaldone) la filigrana che C. BOLOGNA definisce «con cinque mezzelune in un cerchio», ritrovandola a f. 95 dello zibaldone d’argomento metrologico Vat. lat. 3906 (ID., Colocci e l’Arte (di «misurare» e «pesare» le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407, p. 395, nt. 109); ai fogli 16 e 27 (e solo qui) ritrovo, invece, quella che, nel medesimo studio (p. 397, nt. 120), viene definita «quadrupede sormontato da scudo, in un cerchio», essendo visibile ai fogli 277, 278 e 279 di Vat. lat. 3904. L’identificazione di queste due filigrane non è semplice: Zonghi (in Monumenta Chartae Papyraceae historiam illustrantia, III: Zonghi’s Watermarks, general editor: E. J. LABARRE, Hilversum 1953) ne riporta di simili (la seconda è definita «scudo più lupo»), ma tutte con datazioni troppo basse (per lo più della seconda metà del XVI secolo). Le altre filigrane che mi è stato possibile ritrovare sono un isolato e non identificato fiore a quattro petali (f. 60; che ho ritrovato però anche a f. 171 di Vat. lat. 3450, altro celebre zibaldone colocciano); una «sirena» (ff. 31-34, 36, 40-42, 44 [ma non numerato], 47, 48, 52-54, 57, 58, 61, 60, 95; confrontabili, ma senza nessuna possibilità di certa identificazione, con il nr. 13888 di C. M. BRIQUET, Les filigranes, ed. a cura di A. STEVENSON, Amsterdam 1968, che suggerisce però come terminus post quem il 1523); una «stadera entro circolo» (ff. 8-9: vagamente confrontabile con il nr. 1670 di Zonghi, (in Monumenta cit.) che suggerisce, per questa filigrana, circa il 1498, e, per altre filigrane simili, comunque datazioni relative agli ultimi anni del ’400); al foglio 6 si distingue poi una filigrana a sigla («RI») che non si è potuto in alcun modo identificare. Segnalo, da ultimo, che sul recto del f. 12 (bianco) è legato con un tratto di spago un foglietto di dimensioni inferiori a quelle della pagina coperto di scrittura nel recto e nel verso solo fino a metà: il suo contenuto è connesso con quello del II fascicolo. Per la distribuzione di queste filigrane si veda lo schema relativo alla fascicolazione del cod. in Appendice.

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si può dire forse di tutto il materiale autografo colocciano nella sua complessità – ma anche nella distesa (e piuttosto completa) discorsività di numerose sue parti – cosa che invece non si può dire di molto altro materiale colocciano, se si deve credere, col Lattès5, che sono rari i testi del Colocci che corrano dal principio alla fine e contengano un racconto. Qui, invece, di racconti (nel senso in cui Lattès intende la parola), se si vuole anticipare qualcosa, se ne trovano almeno tre, e anche di una discreta estensione: si tratta degli appunti biografici su tre intellettuali del XIV secolo, Cino da Pistoia (ff. 51v-53v), Cecco d’Ascoli (ff. 55r-56v e 59r) e re Roberto d’Angiò (ff. 68v-76v: la scheda biografica più ampia del ms.)6. Converrà perciò esaminare ciascuna delle parti che, sulla base della consistenza materiale del codice, si possono distinguere e che risulteranno anche piuttosto ben individuate nei rispettivi contenuti. Ad un esame anche approssimativo, il codice, infatti, appare costituito da cinque fascicoli di diversa entità, ed approfondendo l’esame si riesce, piuttosto agevolmente, a circoscriverne con precisione l’estensione. I primi due fascicoli (rispettivamente ff. 1-6 e 7-12: tre bifolii ciascuno) sono dei ternioni; il terzo è costituito da diciotto fogli (ff. 13-30: nove bifolii, di cui due inseriti successivamente alla preparazione del fascicolo ma prima della numerazione dell’intero cod.: sono i bifolii 15-16 e 25-267); il quarto è un imponente fascicolo di sessanta fogli (ff. 31 — foglio non numerato che segue f. 93) che, dalla numerazione, risulta però mancante di un 5 S. LATTÈS, A proposito dell’opera incompiuta “De ponderibus et mensuris” di Angelo Colocci in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 97-108; la frase qui richiamata si trova a p. 106; lo studioso parla di racconto riferendosi ad un breve testo conservato nel Vat. lat. 3904 (ff. 300r e sgg.) che egli intende come un ‘prologo’ destinato a collocarsi in testa al suo De ponderibus et mensuris. 6 A questi si potranno aggiungere le paginette sul Burchiello (ff. 87r-88r). Sarà bene ricordare, però, che la maggior parte delle pagine del nostro ms. non contiene testi propriamente narrativi, bensì appunti che raggiungono un qualche grado di coesa articolazione narrativa solo in quei punti in cui l’umanista volgarizza o sunteggia altri testi dotati di queste proprietà. Racconti veri e propri, oltre a quello già citato di Vat. lat. 3904, sono invece quelli oggetto delle considerazioni di BOLOGNA, in Colocci e l’Arte cit., §§ 9 e 12: quello già edito in F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano, Barb. Lat. 4882, a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969 – citato qui di seguito come UBALDINI — FANELLI – (pp. 40-41 e note relative) che si trova in Vat. lat. 3906, f. 92r, e specialmente quello che si trova al f. IIv di Vat. lat. 4539 e che costituisce un diverso abbozzo del brano citato di Vat. lat. 3904. 7 Da un esame attento del contenuto di questo fascicolo – la tavola alfabetica di un codice contenente componimenti del XVI secolo – e delle sue fasi redazionali, risultano evidenti le ragioni – insufficienza di spazio per registrare incipit che dovevano essere raggruppati sotto la medesima lettera – che hanno condotto a queste due inserzioni.

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quaderno, verosimilmente aggiunto allo stesso modo dei due citati bifolii8 (sicché sessantaquattro saranno stati in quella fase i fogli del presente fascicolo); il quinto doveva essere costituito da almeno ventotto fogli, ma ne rimangono attualmente integri e leggibili tredici9. Gli ultimi due fascicoli, sebbene codicologicamente distinti, possono da subito essere considerati congiuntamente in virtù del loro contenuto. Esaminerò dunque tutte le sezioni del presente ms., azzardando, in fine, qualche considerazione sulla loro unitarietà, o solo convergenza, o quantomeno gravitazione intorno ad un centro i cui contorni spero verranno delineandosi sempre più chiaramente nelle pagine a seguire.

8 Si tratta dei quattro (ipotetici) fogli 64-67, la cui estraneità alla legatura degli altri sessanta fogli sarà stata probabilmente alla base della loro successiva caduta: essi, infatti, si dovevano trovare, come quaderno autonomo, nella seconda metà del fascicolo, dal momento che la loro perdita non ha prodotto scarti nella numerazione della sua prima metà. 9 Le vicende di questo fascicolo devono essere state piuttosto tormentate, e la loro descrizione richiederebbe più spazio di quello qui disponibile: mi limiterò perciò a fornire le informazioni essenziali a motivare le mie affermazioni e a rendere conto della consistenza numerica di quest’ultimo gruppo di fogli. Qui troviamo i dodici fogli tagliati (per chiarezza di distinzione le designerò con numeri romani) a cui si è fatto cenno di sopra, che costituiscono la prima metà del fascicolo. Il primo foglio tagliato (I) sembra dovesse formare un bifolio con quello che presumibilimente sarà stato il foglio 106 dell’attuale numerazione, e che, tagliato a sua volta, come sembra da un esame del taglio di piede del volume, deve essere stato incollato sotto il risguardo sul piatto inferiore (cfr. nt. 3). Risulta poi mancare f. 103, la cui altra estremità, verosimilmente tagliata, si sarà dovuta collocare tra gli attuali fogli III e IV. Il foglio numerato attualmente 107 si trova in un punto (il centro del fascicolo) che, con ogni evidenza, non sarà stato quello originario (lo seguono regolarmente 94, 95 e poi un congruo numero di fogli non numerati fino a 101 e 102). Sarei propenso a ritenere che esso, con il foglio non numerato che lo precede e con cui forma bifolio, fosse quello più esterno al presente fascicolo – come anche il suo colore più scuro sembrerebbe provare – e ne costituisse una «camicia protettiva», secondo l’azzeccata definizione di BOLOGNA (La copia colocciana cit., p. 105, nt. 1), che la applica al bifolio non numerato in apertura di Vat lat. 4823. Là come qui il foglio protettivo è coperto di appunti disparati, sicché sul recto di 107 si leggono: un verso di mano di copista, alcuni appunti (la cui importanza sarà tutta da studiare, in ordine al progetto che sembra prendere corpo nelle pagine di questo codice) sul metodo da impiegare forse per compilare le schede biografiche che seguono e precedono questo foglio e alcune considerazioni linguistiche sull’uso della ‘o’ o della ‘u’ toniche in certe parole, con l’allusione all’auctoritas di Petrarca. Nel verso troviamo una lista di autori (forse relativi ad altrettanti libri) – tra cui ancora Petrarca – due righe che starebbero bene in un’introduzione al progetto d’opera citato e un’altra notazione linguistica. È possibile che gli appunti di questo fascicolo siano stati vergati su materiale di recupero: vecchie annotazioni che non si ritenevano più utili e che perciò, forse, Colocci stesso provvedette ad eliminare al momento della confezione del nuovo libro. La tendenziale convessità dei fogli di questa sezione, in prossimità delle legature, farebbe pensare anche ad un cambiamento di senso della piegatura del fascicolo.

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I Fascicolo (ff. 1-6) Contiene due componimenti in endecasillabi. Il primo, ospitato nelle due facciate del primo foglio, è articolato in terzine dantesche (secondo il consueto schema rimico ABA BCB CDC). Il metro, sia detto en passant è, com’è noto, quello, oltre che della Commedia, dei Trionfi di Petrarca. Il richiamo a quest’ultimo, e specialmente ai suoi Rerum Vulgarium Fragmenta (qui di seguito, per brevità, RVF), poi, è giustificato dai temi, dal tono e dalle immagini di questa prima composizione, che sembra opera, appunto, di un petrarchista e non dei più eccelsi. Domina il topos tutt’altro che originale del tentativo di fuga da un amore tormentoso, che si risolve in un ritorno sui propri passi, preferendo star «prigion» presso il proprio «bel sol … ch’en libertà senz’esso». Come si può immaginare la decisione è tutt’altro che semplice: «mille e mille pinsier sempre apparecchio/ e quando manca l’un l’altro rinasce». Affatto prevedibilmente, fuga e meditazioni si svolgono «fra boschi ove non vanno homini o dei» e, naturalmente «stando così sol si move un pianto». L’incipit, che introduce immediatamente nel clima sommariamente tratteggiato – «Voria poter com’io giurai lassarte» – stranamente non compare, a differenza di quello della composizione seguente, nel repertorio di Fabio Carboni10. Quest’ultimo infatti registra, nel terzo volume del suo repertorio, l’incipit «Da poi che semo in questa verde pratora» e fa riferimento appunto al nostro manoscritto. Questo secondo componimento è assai più esteso del precedente (occupa interamente i fogli 2-5) e presenta una grafia tanto corsiva da risultare in alcuni punti quasi indecifrabile. Di conseguenza le congetture e le osservazioni sul testo non si potranno fare che col massimo di incertezza. Quanto al genere sembra trattarsi di un’egloga dialogata in endecasillabi sdruccioli11. La forma metrica scelta ri10 F. CARBONI, Incipitario della Lirica Italiana dei secoli XV-XX. Biblioteca Apostolica

Vaticana. Fondo Vaticano Latino, 3 voll., Città del Vaticano 1982. 11 Segnalo, a questo proposito, di aver ritrovato nei ff. 117-124 di Vat. lat. 4818, liste di vocaboli sdruccioli, ripartiti per rima entro quattro colonne per ciascuna facciata. La maggior parte delle parole che vi si leggono sono impiegate in rima nell’egloga dei ff. 2-5 di 4831. Sembrerebbe infatti che Colocci-poeta costruisse i suoi componimenti a partire da un’ossatura rimica almeno parzialmente predeterminata (salvo modifiche che anche nel presente testo sono numerose). Una prova l’abbiamo alla r. 22 di f. 4v, dove il verso incompleto (perché modificato da una cassatura non più sostituita) reca isolata in clausola, e segnata nell’interlinea, la parola-rima che Colocci intendeva utilizzare in quel punto («al ventre al so(n)no e volse far i(n)tendere nuguli»; come accennato, la lettura è congetturale). Del resto questa osservazione sul metodo compositivo dell’umanista è già stata sviluppata da R. ANTONELLI, Tempo testuale e tempo rimico. Costruzione del testo e critica nella poesia rimata in Critica del testo 1/1 (1998), pp. 171-201. L’interesse di Colocci per forme prosodiche ba-

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chiama immediatamente due precedenti illustri (o tali sicuramente nell’opinione dell’umanista): il Sannazzaro dell’Arcadia e il Poliziano della Favola di Orfeo12, che adoperano, appunto, l’endecasillabo sdrucciolo. Anche in questo caso, il richiamo ad autori-modello (si potrebbe dire canonici, almeno per la sensibilità dell’umanista jesino) va oltre il dato puramente formale: il lessico, i temi, le immagini, oltre che naturalmente il contesto dell’azione di questa egloga, trovano precise rispondenze in entrambe le opere. I nomi dei due personaggi, Urano e Corido, sono tipicamente sannazzariani, non trovandosi altrove (penso specialmente ai precedenti classici di questo genere) il primo nome applicato a un pastore; sannazzariana è la patetica situazione: Corido vuole uccidersi perché disgustato dall’iniquità degli uomini e della sua sorte e Urano tenta di distoglierlo dall’insano proposito, ma con scarso successo, a quanto sembra di capire13. Per quanto riguarda Poliziano propongo un semplice confronto tra due passi che mi sembrano rivelare (pur nella loro topicità) una significativa dipendenza14:

sate sull’impiego delle sdrucciole è testimoniato anche da alcuni componimenti che si trovano ai ff. 15-8 di Vat. lat. 4823 e che sono introdotti da un ‘titolo’ (in capo alla prima colonna) di mano del Colocci che compare a f. 15v e a f. 16v, appunto, «Sdrucciole». Sulla base di un esame provvisoriamente corsivo di questi testi mi sembra di poter tuttavia affermare che essi non siano stati la fonte dei lemmi annotati in Vat. lat. 4818. 12 Per la conoscenza personale e la lettura del Sannazzaro da parte di Colocci rimando alla estesissima nota 20 (p. 17) di UBALDINI — FANELLI. Suoi versi si trovano nei codici colocciani Vatt. latt. 2833, 2836, 2847, 2874, 3353, 3388 e nell’Ottob. lat. 2860. Segnalo inoltre la presenza del nome dell’umanista napoletano, ma senza altre informazioni, al foglio 104r del presente codice. Per Poliziano rimando invece al foglio 82r, che ne riporta esclusivamente il nome; sue poesie latine si trovano nei codici Vatt. latt. 2833, 2874, 3352, 3353 secondo le informazioni per es. di S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (1931), di cui ho potuto consultare l’Extrait della miscellanea contenente l’articolo citato: qui il passo a cui faccio riferimento si trova a p. 26 (si vedano su entrambi gli autori, per più completi rimandi, le schede relativie ai codici citati nel mio Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori in questo volume). 13 Purtroppo lo stato del fondo dell’ultimo foglio e della scrittura in quel punto non ci

consente di conoscere con chiarezzza l’esito dell’‘avvincente’ storia che si dipana in questi fogli. L’opera, per altro, sembra formalmente incompiuta, visto che nell’ultima parte le rime non tornano e il dettato pare scivolare verso la prosa. 14 Cito il testo di 4831 dalla mia trascrizione, avvertendo che la lettura in questo punto non è agevole e che quindi la lezione del testo non è certa, e che la punteggiatura, assente nell’originale, è stata inserita per chiarezza. Per agevolare la lettura non ho poi riportato tutte le parentesi tonde con cui solitamente segnalo lo scioglimento di tituli e abbreviature.

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E’ non è tanto il mormorio piacevole delle fresche acque che d’un sasso piombano né quando soffia un ventolino agevole fra le cime de’ pini e quelle trombano; quanto le rime tue son sollazevole, le rime tue che per tutto rimbombano. A. POLIZIANO, Favola di Orfeo, vv. 85-90 Doncha è meglio sentir l’alber che trombano colle lor cime e gli ocellin che strillano et dolci limphe che dal monte piombano, o quando d’un bel pomice destillano queste fresche chiarite onde piacevole, che le tube e campan ch’a morte squillano, o poggiar qualche colle ameno agevole (Vat. lat. 4831, f. 4v, rr. 9-15)

Quanto all’interpretazione del senso di questa egloga, alcune espressioni («el viver pastoral nostro ap(osto)lico», r. 28 f. 2v; «secte sinodal crude e scismatiche», r. 8, f. 4r; «E dicon tai che n(ost)ra età reformano/ Senza dinar no(n) entri i(n) Babilonia», r. 36 f.4v) e il tono moraleggiante, mi indurrebbero a leggerla come una denuncia allegorizzante della corruzione della corte papale. Se l’interpretazione fosse giusta, e sempre se, come credo, questi versi sono di Colocci15, si potrà verosimilmente ritenere che a spingerlo in questa direzione, sarà stata la sua ammirazione letteraria per un autore che in molti testi aveva già dato voce alla propria indignazione contro la Curia pontificia «Fontana di dolore, albergo d’ira,/ scola d’errori et templo d’eresia»16 e che in questi versi egli tenti di

15 Fanelli proponeva dubitativamente di ascriverli a Girolamo Vida, perché questi si firma «Girolamo Vida Corydon» al fondo di una egloga latina nel volume In Celsi Archelai Mellini funere Amicorum lachrymae, pubblicato per i tipi del Mazzocchi nel 1519 (si veda la nt. 112 in UBALDINI — FANELLI). A questo proposito va notato che il nome Corydo – che non è quello dell’autore anche se campeggia a mo’ di titolo nella prima pagina in alto, ma funge da didascalia per indicare il primo interlocutore – è sostituito ad un precedente «Thyrsi» nel corso della composizione; inoltre, le correzioni e i rifacimenti sono talmente pesanti in certi punti, senza contare che l’operetta mostra un’evidente incompiutezza, che essa sembra composta nel momento della sua stesura su questi fogli. A questo si aggiunga che non pare si possa ragionevolmente dubitare che la mano che riempie questi fogli sia quella di Colocci. 16 Cito da F. PETRARCA, Canzoniere, a cura di M. SANTAGATA, Milano 1996. I versi sono i primi di RVF 138, l’ultimo dei tre contigui «sonetti babilonesi»; altri testi di riferimento potranno essere RVF 7, 10, 27, 114. Per un esempio di echi si confronti «qui non palazzi, non theatro o loggia,/ ma ’n lor vece un abete, un faggio, un pino…» (RVF 10, vv. 5-6) con «ch(e)

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imitarlo almeno nel tono polemico e nel bersaglio (ma ad un’analisi attenta si potranno trovare schegge sintagmatiche che riecheggiano, per esempio, i «sonetti babilonesi» o altri fragmenta riconducibili alla polemica anticuriale, ma in generale tutto il Canzoniere). Ne risulta insomma una sorta di pastiche in cui l’imitazione di forme e temi tratti da due auctoritates moderne si combinano con lo spirito dei testi di Petrarca, autore già canonico, ma con minor rigidezza prescrittiva, prima17 della codificazione un po’ sclerotizzante delle Prose bembiane. II Fascicolo (ff. 7-12) Questo fascicolo è, a mio avviso, uno dei più interessanti dell’intero codice: esso contiene appunti e annotazioni tratte dalla lettura di un trattato medievale sull’amore: non è stato molto difficile identificarlo con il De Amore di Andrea Capellano. Colocci scorse con attenzione e integralmente i primi due libri di questo testo18, ma, nell’annotare, ora copiò fedelmente, ora – e più frequentemente – sunteggiò rapidamente, ora impiegò le due modalità per parti diverse dello stesso paragrafo. Questo modo di seguire il testo, pur nella sua talora scarsa e desultoria adelor palazzi e loro amphiteatrïj/ era a cento fameglie u(n) sol tugurio/ e i pini e i faggi lor logge et th[e]atrï[j]» (righe 23-25 di f. 3v; il senso non è, in ogni caso, chiarissimo). 17 Quanto alla datazione di questo codice, non avendo raccolto ancora elementi a mio avviso sufficienti per esprimere con soddisfacente plausibilità un’ipotesi, rimando all’intervento di Nadia Cannata, in questo volume, che suggerisce una collocazione piuttosto alta, entro il primo decennio del XVI secolo, e comunque anteriore alla conoscenza da parte di Colocci del De Vulgari eloquentia, delle Prose, e alla compilazione del Vat. lat. 4817. Come si vedrà meglio oltre, la compilazione di 4831 andrà collocata anche anteriormente all’acquisizione, da parte di Colocci del canzoniere provenzale M (Paris, Bibl. Nat., fr. 12474, già Vat. lat. 3794) avvenuta, come è noto, nel 1515 (si veda in proposito S. DEBENEDETTI, Gli Studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911 [ora riedito in ID., Gli Studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995, da cui traggo le indicazioni di pagina:], pp. 32-33 e Appendice I) e probabilmente anche del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 3793), per l’acquisizione del quale, tuttavia è più difficile fissare una data. Resterebbe in questo caso confutata l’osservazione di Fanelli secondo cui, almeno per le annotazioni relative a Cecco d’Ascoli, il testo di 4831 rappresenta sicuramente lo svolgimento delle note raccolte a f. 114r di Vat. lat. 4817, ma è possibile che, in ogni caso, il rapporto diacronico che lega le diverse parti di tutti questi zibaldoni, data la loro natura composita, sia piuttosto elastico. 18 Il terzo è una poco convincente e poco originale palinodia dei primi due: il codice

consultato da Colocci forse non lo conteneva, o il suo contenuto non interessava all’umanista, fatto sta che non se ne trova menzione nelle pagine di questo fascicolo.

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renza, consente tuttavia di dire qualcosa su di esso. Dovette trattarsi di un volgarizzamento. A questa conclusione sono giunto tramite il confronto puntuale con i testi dei due volgarizzamenti che Battaglia pubblica, a fronte del testo latino del De Amore, nella sua edizione del trattato19: un’analitica ricerca di tutti i passi da cui Colocci ha tratto ciascuna delle sue annotazioni mostra evidenti coincidenze lessicali di parole, espressioni e, in alcuni punti, intere frasi. Tramite questi riscontri mi è stato anche possibile identificare la famiglia di volgarizzamenti a cui, con ogni probabilità, il testo consultato da Colocci doveva appartenere, e che è strettamente confrontabile con quella del ms. che Battaglia designa come R (Riccardiano 2318). In certi punti se ne discosta, per quel che è possibile capire dalla sinteticità delle allusioni, proponendo lezioni che, almeno in un paio di casi, sembrano riportarci più vicino al testo latino20. Scorrendo la tavola del manoscritto che allego in appendice si potrà facilmente notare la sistematicità con cui Colocci lesse il testo21. La lettura si svolse probabilmente in due tempi: nel primo fu piuttosto veloce e diede origine ad una serie di appunti rapidi e in molti casi oscuri e incompleti, presi su un foglietto di fortuna ma condotti ordinatamente 19 A. CAPELLANO, Trattato d’amore, a cura di S. BATTAGLIA, Roma 1947. 20 Le ragioni dell’identificazione della famiglia di volgarizzamenti sono legate, oltre che

alle numerose precise coincidenze di cui si è detto, ad una variante particolarmente significativa (ma non è l’unica) che è propria del solo R e che si ritrova in uno dei passi riportati da Colocci (è la variante «femina gravida» di contro al «cugina» del resto dell’esigua tradizione, in corrispondenza del latino «agnata»: Colocci, a r. 9 di f. 9r scrive «una gravida»; il passo riecheggiato e quello del VII giudizio d’amore, nel cap. VII del II libro). Il confronto con la tradizione, o piuttosto le tradizioni dei volgarizzamenti, comunque, è complicato dal fatto che esse, a quanto mi risulta, sono assai poco studiate, condividendo, in questo, la sorte di molti altri volgarizzamenti. Il discorso andrebbe tuttavia ampliato e rimando perciò al mio La (s)fortuna del De Amore nel primo Cinquecento italiano e un inedito documento colocciano, in L’immagine riflessa 15/II (2006), pp. 1-36. 21 Non è per ora possibile individuare il codice su cui Colocci condusse la sua lettura, e di conseguenza precisare se lo possedette o meno: la ricostruzione della biblioteca del prelato jesino è un argomento di studio tutt’altro che esaurito. Per quanto riguarda questo ramo di ricerca, rimando ancora alle Recherches già menzionate del Lattès, a G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio mediceo a Roma, in ID, Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 525-545, a V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979, e in particolare all’Introduzione di J. RUYSSCHAERT, a cui andranno aggiunti, l’intervento di L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 133-156, e lo scritto di R. BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci, apparso in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-282. Indicazioni utili anche in BOLOGNA, Colocci e l’Arte cit., pp. 385-389. Resta sempre utile la consultazione di P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887; per una sintesi della questione rimando al mio Per la ricostruzione della biblioteca cit.

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dall’inizio del primo libro, fino verso la metà del secondo; nel secondo tempo procedette dal punto a cui l’aveva condotto la prima scorsa data al testo fin quasi al termine del secondo libro, poi tornò indietro per completare gli appunti sulle parti già frettolosamente viste del primo, partendo dal completamento di un appunto lasciato a metà sul foglietto di fortuna; giunto nuovamente al termine del primo, saltò al fondo del secondo per recuperare un giudizio d’amore non ancora annotato (e che sembra avere avuto per lui una grande importanza, visto che è uno dei pochi passi, ad esclusione delle regole, che ricalcò quasi letteralmente22) e concluse con le «regole d’amore», annotando il tutto sugli attuali fogli 9-11. Bisognerà dunque riconoscere una certa logica costitutiva a questa lettura ‘a serpentina’: come spesso avviene, Colocci nei suoi appunti procede per associazione di idee e memoria di letture pregresse. L’umanista ci ha poi conservato il foglietto frutto della sua prima lettura: lo troviamo legato sul recto del dodicesimo foglio (cfr. nota 4). Le prime parole che riporta sono probabilmente quelle che avrà trovato scritte sul frontespizio del codice consultato: «Gualteri d’amore», un modo non insolito per designare il trattatello del Capellano, anzi, tradizionale23, e il nome «Gualtieri», sottolineato, campeggia a mo’ di titolo nel f. 7, per il resto bianco. L’interesse di questo ritrovamento, al di là di ogni osservazione sul testo e sulla sua fruizione, sta nel suo carattere di documento della conoscenza diretta del trattato in un’epoca non sospetta. L’operetta24, infatti, nota probabilmente alla corte siciliana di Federico II, conosciuta da Guittone, da Dante, da Guido Cavalcanti, da Cino, da Antonio Pucci, subì una sorta di eclissi dopo Boccaccio (che invece la conobbe bene) che durò, salvo qualche ripresa moralizzata e camuffata nel Seicento, fino al XIX secolo (la lesse Stendhal per comporre il suo De l’Amour). Mario Equicola, contemporaneo e amico, come noto, di Colocci, dovette averne notizia, ma l’unica allusione all’opera che ci è dato scorgere nel suo Libro de natura de amore è la menzione di «Gualtieri frances[e]» al22 Lo troviamo alle rr. 18-36 di f. 10v e fa riferimento al XXI giudizio d’amore del secondo libro: tratta dei doni che un amante può lecitamente fare alla sua amata e si conclude con un riferimento colocciano ad altri testi che non sono riuscito ad identificare («Sapho didascolos» e «Specchio di Venere»). 23 Si veda a questo proposito quanto scrive BATTAGLIA nella sua Notizia sul testo alle pp.

XXXV-XXVI dell’edizione da lui curata (vd. qui nt. 19). Lo studioso nota infatti che esistono alcuni codici fiorentini «che contengono la sola traduzione delle Regole d’Amore sotto il titolo generico di Gualtieri d’amore: quali i Laurenziani XLIII, 38; XL, 49; XC, 89, ecc.». 24 Traggo le notizie sulla fortuna dell’opera dall’introduzione di G. RUFFINI all’edizione da lui curata del De Amore, Parma 1980.

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l’interno di una lista di personaggi «per amore … disfacti»25: non una citazione diretta, dunque. Maggior peso acquista perciò, in un simile contesto, questo piccolo e fortunato ritrovamento. Ma a quale scopo l’umanista jesino registrò questi estesi e particolareggiati appunti? I suoi interessi letterari e il contesto stesso in cui si trovano queste pagine, consigliano di supporre che questo fosse materiale che avrebbe contribuito all’intelligenza di testi di poeti che verosimilmente conobbero il trattato, o la cui concezione e prassi (almeno letteraria) dell’amore potevano essere chiarite da questa conoscenza. Il fatto che il De Amore sia a lungo stato considerato il distillato ideologico e concettuale della poesia cortese (essendo posteriore alla sua prima e più genuina produzione, e costituendo perciò una cristallizzazione di quanto vi era in essa di vivo), poteva senz’altro interessare uno studioso di «poeti limosini» e della letteratura italiana che in maniera più o meno mediata ne discese, dai Siciliani fino a Petrarca. Qualche elemento a sostegno di questa tesi si coglie da alcuni dettagli del testo su cui torneremo al termine di questa esposizione. III Fascicolo (ff. 13-30) Il terzo fascicolo è costituito, come laconicamente annuncia l’appunto al foglio 13r26 – «copiati» – da una tavola alfabetica che raccoglie gli incipit di componimenti, probabilmente copiati da uno o più volumi su un qualche codice, per ora non identificato, che poté forse servire come copia di lavoro per l’umanista. La mano che ha compilato l’indice è quel-

25 Utilizzo la recente edizione curata da L. RICCI, La redazione manoscritta del Libro de natura de amore di Mario Equicola, Roma 1999; la menzione di «Gualtieri» si trova a p. 260 (libro I, § 9). Il riferimento a Gualtieri si colloca all’interno delle notizie che l’Equicola riferisce intorno al contenuto dell’Anteros, un trattato sull’amore di Battista Campo Fregoso: non esiste alcuna edizione moderna di quest’opera (l’unica, oltre una traduzione francese del XVI secolo, è la princeps: BAPTISTE C. FULGOSI, Anteros, Milano, Leonardo Pachel, 1596: si veda la nt. 16 di p. 49 del lavoro della Ricci), tuttavia stralci dell’opera e notizie sull’autore si possono leggere in C. GASPARINI, L’«Anteros» di Battista Fregoso, in Giornale Storico della Letteratura Italiana 162 (1985), pp. 225-249. 26 Nello stesso foglio appaiono, senza alcun apparente legame tanto con quanto segue

quanto con le pagine precedenti, due distici elegiaci tratti rispettivamente da Properzio (Elegiae, II, 19, vv. 21-22) e dai Fasti (V, 175-176) di Ovidio. Sono accomunati dall’identità dell’ultimo emistichio dei rispettivi pentametri, e hanno tutta l’aria di essere due appunti presi impromptu, forse a memoria (almeno quello di Properzio, che reca qualche errore e un’indicazione più generica della provenienza). Sono scritti parallelamente al lato più lungo della pagina, uno sotto l’altro.

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la di un copista, e la si ritrova in altri codici colocciani27. In queste pagine, gli incipit sono accompagnati da un’indicazione numerica di foglio («fo»), che ci permette di ricostruire approssimativamente la consistenza del codice di cui le pagine in esame dovettero costituire un indice: si trattava di un volume di medie dimensioni (circa 170 fogli). In esso confluirono componimenti probabilmente provenienti da fonti diverse: così ritengo infatti di potere ipoteticamente spiegare la presenza di numerosi incipit ripetuti (che staranno per altrettanti identici componimenti, almeno in quei casi in cui Colocci stesso, che rivide e corresse la tavola, lo segnalò apponendo un segno a chiave in corrispondenza delle ripetizioni), con indicazioni di pagina però differenti tra loro. Sarei portato a supporre che le fonti diverse per questa compilazione fossero raccolte miscellanee di poesie: trovandosi lo stesso componimento in più raccolte, il compilatore, non molto attento (specialmente se si trattò del medesimo estensore della tavola che sovente corregge, torna indietro e riprende il lavoro da capo per recuperare i componimenti tralasciati per distrazione28), l’avrà ricopiato, senza accorgersi della ripetizione, tutte le volte che se l’è trovato davanti. Per quanto riguarda la paternità dei componimenti, mi informa Nadia Cannata – al cui intervento in questa sede rimando – che una cospicua parte dei componimenti di cui troviamo menzione in queste pagine, va ascritta alla produzione di Antonio Tebaldeo29. La questione, 27 Non mi è stato possibile svolgere un’analisi attenta della questione: mi sembra di aver individuato la stessa scrittura in alcuni fogli di Vat. lat. 4818 e 4823, ma in assenza di repertori delle scriptae umanistiche (come quelli auspicati e progettati da Corrado Bologna, Giuseppe Frasso e Armando Petrucci, di cui dà notizia il primo di questi studiosi in Sull’utilità di alcuni descripti cit., p. 543), l’identificazione di mani di scribi è complicata dall’indiscutibile somiglianza che le caratterizza. 28 Ho potuto individuare tre fasi redazionali di questa tavola alfabetica, di cui la prima accurata, la seconda frettolosa e desultoria, la terza, correttiva e attenta, che riprende dal punto stesso in cui inizia la seconda. Le argomentazioni di queste conclusioni, ancora una volta, sarebbero troppo estese e perciò accompagneranno la mia trascrizione nell’edizione: qui aggiungo semplicemente che l’elemento grafico (variazione della qualità e quantità dell’inchiostro, dell’accuratezza del tratto, impaginazione e disposizione del testo ecc.) interviene a corroborare questa mia posizione. L’approssimazione e l’ordine poco rigoroso con cui è compilata questa sezione fa pensare al ‘metodo’ tipico di Colocci (si veda quanto detto a proposito del II fascicolo) e mi indurrebbe a ipotizzare che le pagine in questione possano essere state redatte sotto sua dettatura. 29 Già il Lattès, nel suo studio del 1931 (Recherches cit., p. 24), ascrive alla biblioteca

del Colocci alcuni testi del Tebaldeo: il suo autografo Vat. lat. 3389 e l’altro codice, invece di mano colocciana, che ne deriva, Vat. lat. 2835. Al f. 98r del nostro ms. compare la menzione di un «Egidio Thibaldeo» (cassato) – ma si tratterà di una svista dell’umanista – e semplicemente «Thibaldeo» si legge a r. 2 di f. 104r.

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tuttavia, esula dall’interesse di questo intervento, sicché basterà notare che la menzione, in questi incipit, dei nomi di diversi intellettuali e personaggi illustri contemporanei, o quasi, a Colocci, permette di abbozzare i contorni di un entourage accademico che, a giudicare dallo stile e dal lessico che si coglie in questi lacerti di versi – siano o no tutti del petrarchista Tebaldeo – doveva coltivare interessi di poetica petrarchista. Questa constatazione, tutt’altro che inattesa a questa altezza cronologica, trova conferma, per esempio, nel fatto che sia proprio il nome di Bembo uno dei primi ad essere citati (r. 13, f. 14v e r. 5 di f. 27r), insieme, per altro, a quello del suo amico e seguace – e più tardi oppositore – Antonio Brocardo (per es. rr. 8 e 11, f. 14v), poi Castiglione (r. 37, f. 17r) e probabilmente Ercole Strozzi30 (r. 7, f. 19v e r. 5 di f. 24v). Numerosi sono i personaggi menzionati, ma l’esiguità delle notizie che si riesce a trarre da questi fogli non permette, per molti, che di allineare, sull’instabile piano della congettura, ipotesi identificative. Così, per fare un esempio, incontro un Ser Niccolò (r. 13, f. 25r) che sarei tentato di far coincidere con «el Bucino» che lo precedeva di poco (r. 41, f. 24v), e di ricondurlo, sulla esigua base di una coincidenza onomastica e per una collocazione cronologica accettabile, alla figura di Niccolò Angeli da Bucine, curatore di numerose edizioni di grammatici e autori antichi, e grammatico egli stesso, attivo nella prima metà del Cinquecento31. Altri sono un Borgia (r. 5, f. 14v), probabilmente Gerolamo, poeta spagnolo amico di Colocci32; Niccolò Lelio Cosmico (Padova, 1420 — Teolo, Padova, 1500; citato, per es., alle rr. 14-17 di f. 14v) spregiudicato rimatore petrarchista; Blosio Palladio Sabino (r. 12, f. 22v), l’editore di Coryciana33; un «Teophilo» (r. 34, f. 24v), forse il figlio di Demetrio Calcondila, menzionato da Pierio Valeriano nel suo Contarenus, sive de infelicitate

30 Penso specialmente allo Strozzi poeta petrarchista (più che al difensore della poesia latina delle Prose bembine), quale ce lo presentano i cinque sonetti volgari trasmessi, col resto della sua produzione latina e con le opere del padre, da un’Aldina del 1513 (si veda la voce Strozzi, Ercole di G. REICHENBACH in Enciclopedia Italiana, XXXII, Roma 1936). 31 Per ciascuna ipotesi identificativa mi sono servito in primis di M. E. COSENZA, Bio-

graphical and Bibliographical Dictionary of the Italian Humanists and of the World of Classical Scholarship in Italy, 1300-1800, Boston 1962, in cinque volumi, e quindi dei suoi rimandi bibliografici. A questa opera rimando per ognuno dei personaggi menzionati qui di seguito a cui non siano connesse altre indicazioni bibliografiche. 32 Si veda FANELLI, Ricerche cit. p. 155. 33 Per dettagliate notizie su questa raccolta di componimenti provenienti dagli umanisti

raccolti intorno ad Hans Goritz, pubblicata nel 1524, si veda J. RUYSSCHAERT, Les péripéties inconnues de l’édition des “Coryciana” de 1524, in Atti del Convegno cit., pp. 45-60.

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Litteratorum34; un Crasso (r. 31, f. 24v), da far forse coincidere con Lorenzo dedicatario di versi di Fausto Maddaleni, poeta vicino a Colocci35; e infine un «Colotio» (r. 8, f. 17r) che la collocazione temporale che la maggior parte dei nomi suggerisce per questo gruppo di intellettuali mi spinge ad individuare in Francesco, piuttosto che nel nipote Angelo di cui ci si occupa in questo volume. In Appendice si potrà trovare menzione degli altri nomi, di meno certa identificazione, che compaiono in questo fascicolo. IV Fascicolo (ff. 31 — f. non numerato ma dopo f. 93)36 A questa sezione del manoscritto, e alla successiva (che sembrerebbe porre le premesse metodologiche per il tipo di lavoro che si concretizza in questo fascicolo, come vedremo), sembra attagliarsi la definizione che diede Fanelli di 4831 come «raccolta di schede per la biografia dei poeti»37. Credo sia immediato supporre, con lo studioso colocciano, che gli appunti contenuti in questi due fascicoli fossero ordinati per una raccolta di biografie, dai provenzali fino a quella che Colocci chiama la «nostra accademia» (f. 104r, r. 11). Essi si presentano, infatti, come una successione di schede, aperte dai nomi dei personaggi scritti a mo’ di titolo, seguiti da notizie biografiche, osservazioni di lingua e stile, aneddoti e facezie (ma in molti casi lo spazio è rimasto bianco), che rivelano una pluralità di fonti e di letture. Tuttavia è possibile scorgere, dietro questa pluralità, un disegno ordinatore per la successione di queste biografie e delle notizie ivi contenute, un polo di gravitazione (come si diceva), che da un lato ne offre l’ossatura per un’organizzazione sistematica, e dall’altro le sostanzia facendosi fonte documentaria. Questo è particolarmente vero per la prima delle due parti di questo fascicolo.

34 L’opera fu edita postuma nel 1620 a Venezia presso l’editore Sarzina; in essa è men-

zionato anche Colocci (si veda UBALDINI — FANELLI, ad indicem). 35 Si veda DE NOLHAC, La bibliothèque cit., p. 254, nt. 4 e p. 257, nt. 3, e ancora UBALDINI — FANELLI, p. 69 e nt. 113. 36 Per un ampio accenno ai contenuti specialmente di questo fascicolo di 4831, e per al-

cune illuminanti considerazioni sulla cultura provenzale di Colocci che sembrerebbe risultarne (corredate da rimandi alle postille di M), rinvio a DEBENEDETTI, Gli Studi provenzali in Italia cit., parte II, capitolo III, § 2. 37 La citazione è tratta da UBALDINI — FANELLI, p. 99 (nt. 173). Nelle righe immediata-

mente seguenti faccio riferimento anche a FANELLI, Ricerche cit., ad indicem e specialmente p. 145.

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Questa sezione, infatti, può essere bipartita in base ai suoi contenuti: la prima parte appare maggiormente organizzata e completa nelle informazioni, mentre la seconda, forse anche in considerazione della scarsa notorietà dei personaggi di cui riporta i nomi (salvo alcuni casi, naturalmente), appare disorganica, estemporaneamente abbozzata, caratterizzata per lo più da appunti brevi e lacunosi, o affatto assenti (numerosi, in essa, i nomi di personaggi che sono seguiti da uno spazio bianco). La disparità si mostra anche nella consistenza delle due parti: più cospicua la prima (42 fogli, da 31r a 76v, comprendendo anche i mancanti quattro di cui si è dato notizia a nota 8), più esigua la seconda (18 fogli). Quest’ultima caratterizzata spesso da singole facciate in cui si affastellano più nomi: tolto il caso del Burchiello, qui non capita mai, come era prassi costante nella prima parte (e le eccezioni potranno facilmente essere ricondotte all’esigenza di trovar spazio per una documentazione la cui ampiezza, in certi casi, finisce per subordinare topograficamente a sé quella meno esorbitante di altri) che ad un personaggio sia destinata più di una facciata. Questa circostanza sarà forse conseguenza della fondamentale difficoltà nel reperimento di informazioni relative ai personaggi citati in essa. La seconda parte, infatti, sembra edificarsi su basi documentarie assai più fragili e meno autorevoli di quelle della prima: racconti di conoscenti, amici, memorie familiari, conoscenze personali, sembrano le fonti delle notizie qui raccolte (salvo per le menzioni del Landino, che però non vanno oltre il foglio 7838), quando pur si faccia menzione di una fonte. Il gruppo di nomi di questa parte sembra perciò essere riportato quasi, diremmo, per ragioni affettive, un po’ come si prenderebbe nota di fatti personali su un diario. Come accennato, in questa prima parte (ff. 31r-76v), ad ogni biografia è programmaticamente assegnato un intero foglio39, ed è questo forse il 38 Si fa riferimento a questo autore come fonte («vide Landino») per le esigue notizie su «Mateo Palmieri» (Firenze, 1406-1475; f. 77r), «Mariano Genazano» (predicatore agostiniano, e oppositore di Savonarola, m. 1498), Leon Battista Alberti (f. 77v), Zanobi Acciaioli (Firenze, 1461 — Roma 1519; per lui si dice, con più precisione, «nel capit(ol)o di eloquentia»; f. 78r). Ci sono poi, nel f. 77r, brevi notizie anche sul Landino stesso e su suoi familiari illustri, come «Francesco ceco [sic]» (Fiesole, ca. 1325 — Firenze, 1397), organista e compositore. 39 Ci si accorgerà, scorrendo l’indice in appendice, che in alcuni punti questa regola è disattesa: in realtà ciascuna eccezione può essere spiegata. Come si vedrà poco oltre nel testo, gli autori sono selezionati in base ad un «catalogo» petrarchesco, ma, evidentemente, agli occhi di Colocci, questa base richiedeva di essere allargata con alcune aggiunte e integrazioni; così le brevissime e sommarie indicazioni relative a «Francesco Barbarino» (f. 46v), per esempio, sono inserite posteriormente nello spazio destinato a (ma non occupato da) Socrate, e lo stesso varrà per Bonagiunta da Lucca, che occupa metà dello spazio desti-

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dato materiale che maggiormente contribuisce a distinguere le due parti di questa sezione. Il secondo elemento distintivo è un tendenziale ordine nella successione dei nomi coi relativi appunti biografici. Un confronto con la seconda parte evidenzierà ulteriormente questo elemento: lì, infatti, non sembra intervenire alcun criterio, cronologico, estetico, geografico o d’altro genere, a mettere ordine nel coacervo di nomi, o nel migliore dei casi di gruppi vagamente intraconnessi di nomi, che si accumulano in incomprensibili accostamenti. Si è detto però, per la prima parte, che l’ordine è solo tendenziale, ma questo è comprensibile per un testo che non va molto al di là dell’appunto erudito. Tuttavia un disegno ordinatore può essere colto focalizzando l’attenzione su quel polo di gravitazione a cui si è accennato, e che, ancora una volta, si identifica con Petrarca: l’identità dei nomi registrati, la consistenza delle notizie ad essi relative, e, in certa misura, la successione topografica stessa con cui appaiono su queste pagine, indicano, in certi casi esplicitamente, le opere di Petrarca come nucleo generatore. Un testo-fonte in particolare costituisce quell’ossatura di cui si è detto, ed è il «catalogo» di coloro che «d’amor volgarmente ragiona[rono]», l’elenco (sarei tentato di dire il canone, se si volesse, momentaneamente,

nato a Dante (f. 48) che, con la citazione di Purgatorio XXIV, 34-38, viene a costituire anche la fonte principale delle notizie a lui relative (e che ne avrà forse anche indotto l’inserzione). V’è poi il caso di quelle biografie la cui esuberanza documentaria ha causato esondazioni di notizie negli spazi di schede circonvicine: è il caso, per esempio di quelle relative a Cino da Pistoia, che, riempito interamente il f. 52 a lui destinato, trasbordano nel verso del 51 – originariamente destinato a Guittone, ma le cui poche notizie potevano autorizzare un simile sconfinamento – e nel recto di 53, da cui, infatti, è depennato «Sennuccio» che trova una prima sistemazione nel verso del foglio a lui integralmente destinato ab origine, ma poi, ancora incalzato dalle notizie relative a Cino, e nuovamente depennato, finisce per condividere con «Franceschino» il f. 54, a quest’ultimo destinato: si spiega così un’ulteriore eccezione e la successione, invertita rispetto al canone petrarchesco, «Franceschino» (recto) – «Sennuccio» (verso). Lo stesso avviene con Cecco d’Ascoli che, dal ‘suo’ f. 56, si riversa nello spazio di «Honesto» da Bologna (f. 55). Questa prima parte si conclude poi con il lunghissimo testo relativo a Roberto d’Angiò (9 fogli: da 68 a 76), che interrompe qualsiasi regolarità. Da queste osservazioni emerge anche qualcosa del modo di procedere di Colocci, che, seguendo uno schema di base, dettato in questo caso dai criteri estetici fissati da un’auctoritas, organizza lo spazio disponibile secondo un ordine razionale, non rimanendo però ad esso vincolato, ma modificandolo liberamente, nell’ottica di un relativo risparmio di spazio (e di carta). È evidente che l’umanista avrà scritto dapprima tutti i nomi che leggeva nel testo-fonte che aveva sott’occhio (il Triumphus Cupidinis come si vedrà poco oltre), poi, a mano a mano che trovava notizie relative a ciascuno, le avrà integrate nello spazio ad esse deputato (o, come si è visto, anche oltre ad esso), quindi ha proceduto all’aggiunta di altri nomi, collocandoli negli spazi che trovava ancora liberi (è il caso, per esempio, di «Francesco Barbarino» e «Bonagiunta»), o di seguito all’ultimo nome desunto dal testo-fonte (è il caso di Cecco d’Ascoli e dei nomi che lo seguono).

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porre tra parentesi l’elemento del giudizio estetico e di valore che inevitabilmente si associa al termine) dei «poeti materni»40, che si legge nel IV capitolo del Triumphus Cupidinis (di qui in poi TC; vv. 28-69). Faccio dunque seguire un prospetto riassuntivo che dia conto dell’ordine e della consistenza della sequenza riportata da Colocci, raffrontata con quella che presentano i Trionfi. Le prime due colonne si riferiscono al testo petrarchesco, e le altre tre al nostro ms. In particolare, la terza riporta l’indicazione dei fogli di 4831; nella quarta si sono scritti in corsivo i nomi che hanno subito uno spostamento rispetto all’ordine proposto dal testo-fonte (e, ugualmente, si è impiegato il corsivo per gli stessi nomi nella seconda colonna); la quinta ospita i nomi aggiunti rispetto al catalogo di Petrarca. Va notato subito che Colocci, però, sembra introdurre un ulteriore elemento di ordine rispetto al catalogo petrarchesco. Quest’ultimo, infatti, si articola in tre blocchi: prima i poeti italiani volgari fino alla generazione di Cino, quella precedente a Petrarca, poi il blocco dei poeti provenzali, e infine i «nostri» (TC IV, v. 59), cioè i tre corrispondenti e amici di Petrarca, Tommaso, Socrate e Lelio. All’interno di ciascun blocco la sequenza dei nomi asseconda le esigenze del verso e del metro, piuttosto che un qualche criterio cronologico o di preminenza letteraria (salvo che per le prime posizioni tenute da Dante e Cino, ma già stupisce un Guittone in terza posizione). Colocci sembra invece introdurre un criterio geografico e cronologico, spostando in prima battuta il blocco dei provenzali e radunando poi, sotto il titolo «Nostri» – che compare sottolineato nella prima riga di f. 45r – tutti gli intellettuali italiani, a partire dai tre corrispondenti di Petrarca, forse indotto dalla contiguità dei nomi di quest’ultimi a quelli dei provenzali nel testo.

40 Le espressioni «catalogo» e «poeti materni» sono di Colocci, il quale le usa proprio in 4831 per riferirsi al testo dei Trionfi in questione. Un esempio, che permette, tra l’altro, di dire con certezza che con la prima espressione Colocci si riferisce proprio al testo dei Trionfi citato, si trova alle rr. 7-9 di f. 45r: «quanto fusse grato el Petrarca/ vedasi nel catalogo. in quella exclamatione/ “o fugace dolcezza o viver lasso”». L’«exclamatione» corrisponde al v. 61 di TC IV. Va notato, però, che con l’espressione «catalogo de poeti materni dal Petrarca scritto», che si trova alle rr. 29-30 di f. 46r, Colocci vuole, probabilmente, riferirsi alla lista di poeti italiani e provenzali che si estende da Dante a «Gauselmo» [Faidit] (Anselmo, per Colocci), dato che nel medesimo punto dice anche che Socrate (il musicista fiammingo Ludwig von Kempen, dedicatario delle Familiares) non rientra in esso, e si potrà supporre, se si considera l’articolazione del testo petrarchesco, che non vi rientrino neppure Lelio (Angelo di Pietro Stefano dei Tosetti) e Tommaso da Messina (Tommaso Caloria), entrambi corrispondenti delle Familiares e amici del poeta. La relazione tra il testo dei Trionfi e queste pagine di 4831 era in parte già stata indagata da DEBENEDETTI: si vedano in particolare le pp. 211-214 di Gli studi provenzali in Italia cit. in cui compare anche la trascrizione di alcuni brani del codice.

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MARCO BERNARDI

L’ordine interno ai due blocchi che così si formano è in gran parte rispettato per i provenzali, ma alterato per gli italiani e per di più integrato da alcune aggiunte che si è già avuto modo, in parte, di segnalare (nt. 39). Si dà dunque il prospetto, articolato in due tabelle, in modo da rispettare la ripartizione del testo di Colocci, segnalando solo che la prima tabella si riferisce al secondo e terzo blocco del testo dei Trionfi41. Verso di

Nome in TC IV

TC IV 40

Vat. lat. 4831

Foglio di

Nome in Vat. lat. 4831 Aggiunte di Vat. lat. 4831 rispetto a TC IV

31 recto

Folco (di Marseglia)

Arnaldo Daniello 32 recto

Arnaldo men famoso

44

Piero (Vidal)

33 recto

Pietro primo

44

Piero (Bremon o Rogier)

34 recto

Pietro secondo

44

Arnaldo (de Maruelh)

46

Raymbaldo (d’Aurenga)

35 recto

Raimbaldo primo

46

Raymbaldo (de Vaqueiras)

36 recto

Raimbaldo secondo

48

Pier d’Alvernia (’l vecchio)

37 recto

Pier d’Alverna el vechio42

48

Giraldo (de Bornelh)

38 recto

Giraldo

49

Folco (di Marsiglia)

52

Giaufrè Rudel

39 recto

Gianfrè Rudel

41 Per il testo dei Trionfi rimando a F. PETRARCA, Trionfi, Rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. PACCA e L. PAOLINO, Milano 1996). 42 Trascrivo qui le brevi notizie che si danno di questo personaggio per le informazioni interessanti che riportano: «fu abbate frate et vide in quel che lui compose/ nelli lamenti mei et che costui facesse/ quella facetia de abbate et lo Conte/ di provenza et pisciculi» (il corsivo è nostro e il «vide» è un imperativo che Colocci rivolge a se stesso secondo la sua abitudine). Qui dunque abbiamo forse notizia di un codice posseduto da Colocci che conteneva dei «lamenti» in provenzale (la lettura della parola è tuttavia incerta e DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia cit., p. 213, trascrive, pur non aggiungendo spiegazioni, «lemmati», il cui significato non è molto più trasparente). Non credo che si possa trattare del canzoniere M, di cui entrò in possesso nel 1515, che gli sarebbe potuto servire per rimpinguare le scarne biografie dei provenzali che compaiono in queste pagine o per integrare il catalogo, come fa per i poeti italiani attingendo da altre fonti. Mi limito per ora a ricordare che, secondo quanto ne dice il Lattès (Recherches cit., pp. 27-28), il codice composito Vat. lat. 7182 (in alcune parti sicuramente appartenuto a Colocci) contiene dei «lais portugais» e «quelques fragments provençaux». Per quanto riguarda la facezia «de abbate … et pisciculi», la si può probabilmente trovare a f. 29v di Vat. lat. 3450, dove tuttavia è riferita a Francesco Sforza e non al Conte di Provenza, e non vi si fa menzione di Piero d’Alvernia, ma genericamente di un «abbas … monasterii Clarevallis» (corsivo nostro): proprio questa fonte starà forse alla base della cassatura con cui si apre questa biografia.

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53

Guillielmo (de Cabestanh)

40 recto

Gullielmo (del Tino o de Cunio)

55

Amerigo (de Peguilhan)

41 recto

Amerigo

55

Bernardo (de Ventadorn)

42 recto

Bernardo

55

Ugo (de Saint Circ)

43 recto

Ugo

55

Gauselmo (Faidit)

44 recto

Anselmo

59

Thomasso (Caloria da Mes- 45r-v sina)

Thomasso da Messina

68

Socrate (Ludwig von Kempen) 46 recto

Socrate

46 verso 68

Lelio (Angelo dei Tosetti)

47 recto

Francesco Barbarino Lelio

Se ci si attiene, per cominciare, al dato topografico della disposizione e dell’ordine dei nomi, si possono fare subito alcune osservazioni. L’elemento più notevole è l’assenza, nel catalogo colocciano, di Arnaut Daniel, che stupisce ancor più se si constata invece la presenza del «men famoso Arnaldo» la cui designazione richiederebbe inevitabilmente la menzione dell’altro termine del paragone. Se si vuole prescindere da ipotesi attinenti al dato materiale (la caduta di un bifolio? lacuna d’altro genere?), si potrebbe immaginare che l’omissione sia dovuta alla notorietà del personaggio (basterà richiamare, per es., l’episodio dantesco di Purgatorio XXVI). La seconda irregolarità riguarda lo spostamento in capo agli altri di Folchetto e «Arnaldo men famoso» stesso: si potrà proporre che sia stato un giudizio estetico a guidare lo spostamento. Verrebbe da supporre, vista l’improbabilità di una diretta e approfondita conoscenza dei testi di questi autori da parte di Colocci (vd. nt. 42), che si tratti di un giudizio mediato e, azzardando un’ipotesi, si potrà, almeno per il primo caso, proporre il nome del Cariteo come mediatore, e, forse, come fonte delle esigue notizie qui raccolte. Del resto il poeta catalano fu a Roma tra il 1501 e il 1503, protetto da Agostino Chigi e da Colocci e con quest’ultimo (a cui indirizzò un sonetto elogiativo) parlò di un suo «Libro de poeti limosini» (il canzoniere M) e di una sua traduzione in volgare dei versi proprio di Folchetto di Marsiglia. Il Cariteo dovette accendere una qualche curiosità nell’umanista per l’opera del poeta genovese, se ancora nel 1515 Colocci affidava alle sollecitazioni del Summonte l’invio, da parte di Bartolomeo Casassagia, della traduzione interlineare, da lui eseguita, dei versi di Folchetto che ci è conservata dal Vat. lat. 479643. Per le noti43 Colocci per di più trasse due copie da queste traduzioni, conservate entrambe ai ff. 287-333 di Vat. lat. 7182. Le notizie, qui e nel testo riportate, le ricavo da UBALDINI —

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MARCO BERNARDI

zie su Arnaldo (di Maruelh: il «men famoso») è Colocci stesso a indicare in Fabio Vigile la sua fonte: si tratta però, qui come per molti altri personaggi («Raymbaldo», «Giraldo», «Gianfrè Rudel»), di aneddoti faceti senza significativi fondamenti, che denotano una sete di notizie che le fonti dell’umanista non sembrano per ora poter soddisfare. Un’ultima osservazione andrà fatta a proposito dell’identificazione di alcuni personaggi: le notizie che Colocci ha sui trovatori, a questa altezza cronologica, sono quanto di più nebuloso e impreciso si possa immaginare. Colocci perciò, probabilmente, lascia in bianco gli spazi relativi ai due «Pietro», a Ugo, Amerigo e Bernardo, a Raimbaldo primo, al secondo allega, oltre alle notizie che trova nei Trionfi, il riferimento forse ad una facezia che in Vat. lat. 3450 (ff. 23v-24r), è riferita a Borso d’Este, e di fronte alla sua dubbiosa identificazione di «Guiglielmo» («del Tino» o «de Cunio»?), nonostante la novella boccacciana, certamente nota all’umanista, che ha per protagonista «Guiglielmo Guardastagno» (Decameron IV, 9), Colocci sembra raccomandarsi perplesso «vide tra li lemosini si ce fu altro Guillelmo» (f. 40r, rr. 17-18). Addentrandosi invece nell’esplorazione dei contenuti di questa sezione, si possono avanzare alcune considerazioni sulle fonti. È a questo proposito che il nucleo che ha fornito l’ossatura si fa sostanza e sorgente documentaria: Petrarca fornisce, specialmente con le sue opere epistolari, il materiale di costruzione per le principali schede biografiche. Ne abbiamo un primo consistente esempio in quelle relative ai tre corrispondenti dell’umanista aretino, ma già in alcune di quelle dei provenzali (Folchetto, Arnaldo, e Guiglielmo) Petrarca, in particolare con il pur gracile materiale biografico ricavabile dai Trionfi, si era mostrato utile fonte di notizie. Nella scheda relativa a Tommaso da Messina, per esempio (f. 45r-v), sono impiegate le informazioni fornite da diverse epistole Familiares, ma anche in questo caso i fraintendimenti non sono pochi. Così Colocci dice diretta a Tommaso una lettera, relativa al dilemma della scelta del luogo più idoneo per ricevere la laurea, che Petrarca inviò invece a Giovanni Colonna, dal quale ricevette anche un autorevole consiglio in merito, che, nuovamente, Colocci attribuisce al Caloria (sono le Fam. IV, 4 e 5), citando anche un passo della lettera in questione. Ma i fraintendimenti continuano, ed ancora in Tommaso è riconosciuto il destinatario dell’epistola da cui desume l’informazione che questi si trovasse in GuaFANELLI, nt. 20, pp. 13 e 14 e nt. 172; FANELLI, Ricerche cit., p. 156 sgg.; LATTÈS, Recherches cit., pp. 27-28. Sul prestigio di Folchetto agli occhi di Colocci, può naturalmente aver influito anche la presentazione che del trovatore-vescovo fece Dante in Paradiso IX.

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scogna mentre Petrarca si recava a Roma: ancora una volta Tommaso è confuso con un Colonna, Giacomo, destinatario di Fam. IV, 6. Di seguito i rimandi si fanno più attenti e, un po’ citando letteralmente, in parte invece traducendo e un po’ sunteggiando – con una prassi che ricorda da vicino quella seguita nella lettura del De Amore – Colocci integra il materiale delle due epistole (10 e 11) in morte dell’amico, che si trovano nel IV libro dell’opera già citata, per creare un esauriente quadro – petrarcocentrico – della dipartita del messinese44. Anche le notizie su Socrate (f. 46r) attingono ampiamente dalle epistole di Petrarca, e non dalle Familiares solamente (si fa riferimento, piuttosto genericamente, alla circostanza, riferita in Fam. IX, 2, secondo cui Socrate sarebbe l’ultimo amico rimasto a Petrarca, e alla dedica a lui della raccolta), ma anche delle Seniles (di cui si allude forse al Proemio). In questa scheda ci sono fornite anche alcune gustose indicazioni di ricerca: alle rr. 18-22, per esempio si dice «è pervenuta all’età mia una epistola/ d’assai elegante stilo di Socrate/ in libro antiquissimo dove scrive/ una fabula non illepida quale/ sarà da me scripta» e poco più sotto si fa cenno ad una facezia «della scimia e dello anconitano». Un simile titolo si trova anche in Vat. lat. 3450 (f. 9r), ma niente di più di questo. Colocci ci dà poi un’informazione di prima mano sull’attività poetica di Socrate – «et poi ne ho visto alcune rime da non dispiacere» (rr. 27-28) – ma la motivazione che vi allega per non dilungarsi troppo su questo personaggio conferma chiaramente l’ipotesi che Petrarca sia la ‘fonte’ primaria di Colocci: «pur per non esser nel/ catalogo de poeti materni dal petrar/ca scripto io non m’extenderò più/ oltra» (rr. 28-31; vd. anche nt. 40). Ecco il senso in cui Petrarca e il suo catalogo trionfale si fanno canone (e un canone, come si vedrà meglio più avanti, opportunamente in44 Vi si trova anche un’allusione ad un sonetto che Petrarca avrebbe inviato a Jacopo da

Messina: il testo non è citato e solo dalla visione diretta del ms. si scorgono, poco sotto a questo rimando, alcune lettere sbiadite («Adven» o «Adver») che forse si riferivano al brano in questione. Non ho trovato composizioni con un simile destinatario nel corpus poetico volgare di Petrarca (Jacopo, fratello di Tommaso, è invece il destinatario della già citata Fam. IV, 11), e anche le concordanze (Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca, a cura dell’ufficio lessicografico dell’Accademia della Crusca, Opera del Vocabolario, 2 voll., Firenze 1971) non sono state di grande aiuto. Colocci trascrive invece al f. 448r-v di Vat. lat. 4823 due sonetti che si sarebbero scambiati Tommaso da Messina e Petrarca (inc.: «Miser Francesco sicome ognun dice», expl.: «ella vi sforza del parlar sì basso»; e la risposta del Petrarca sarebbe inc. «El mio desire ha sì ferma radice», expl.: «ha suo bel viso in me misser Thomassso»). Accanto al verso «Cossì di voi m’aviene a ciaschun passo» (v. 11) del testo di Tommaso, Colocci ha scritto la parola «Advien» (f. 448r), ma sarà forse azzardato supporre che a ciò alludesse (per altro riferendosi al fratello sbagliato) l’appunto sbiadito di 4831.

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tegrato), in grado di dare ragione dell’ordine e della consistenza delle notizie che vengono riportate e dello spazio stesso di cui ciascun personaggio è degno in questo zibaldone, anche qualora, come avviene per i provenzali, non lo si conoscesse quasi: l’auctoritas di Petrarca garantisce, e, con quella che si potrebbe dire una mise en abîme metodologica, garantisce anche di se stessa nel momento in cui afferma che «sepe autoritas pro ratione suscipitur» (Fam. IV, 5 §1)45. Ed ecco il secondo blocco di questa prima parte: Verso Nome in TC IV di TC IV 31 Dante

Foglio di Nome in Vat. lat. Vat. lat. 4831 4831 48 recto Dante 48 verso

Aggiunte di Vat. lat. 4831 rispetto a TC IV Bonagiunta da Lucca46

45 Le annotazioni che seguono, su Francesco (da) Barberino (f. 46v) e Lelio (f. 47r),

sono molto brevi (rispettivamente tre e quattro righe) e nel primo caso ospitano un rimando a Boccaccio («et Boccaccio lo allega per poeta ad cart (?) C.XIII»), che credo faccia riferimento al testo dei Genealogie Deorum Gentilium libri a cui si fa cenno più avanti (libro XV, cap. VI, § 157b: «Qui [Franciscus de Barbarino] (…) nonnulla tamen opuscula rithmis vulgari ydiomate splendidis (…) edidit»; si veda nota 56). Quanto a Lelio, il poco testo è occupato da erronee notizie sulla data di morte: Colocci, sulla scorta di Fam IX, 2 già citata, afferma Lelio essere morto prima di Socrate, forse 17 anni prima, nella peste del 1348 (se comprendo correttamente i sintetici appunti di queste righe: «çLçeçlçioæ morì prima ch(e) socrate ch(é) socrate/ fu l’ult(im)° forsan 17 a(n)ni prima v3 [=videlicet] alla/ peste del 48»). Da queste notizie si dovrebbe desumere che Socrate fosse morto nel 1365 e Lelio appunto nel ’48. Annotazioni sul medesimo argomento – e con il riferimento ai 17 anni – si trovano anche nelle prime righe relative a Socrate, il quale sarebbe morto quando Petrarca aveva 61 anni (r. 8, f. 46r), ma la notizia ci dice solo che Colocci conosceva correttamente l’anno di nascita di Petrarca (per altro trasmesso da lui stesso nell’epistola Posteritati [Seniles, XVIII, 1]) o la sua età nell’anno della morte di Socrate (per cui sarebbero i «17 anni» la deduzione). L’origine di questa erronea considerazione (Socrate morì nel 1361 e Lelio nel 1363) è forse da rintracciare in Giovan Battista Caccialupi, storico e giurista marchigiano (1420 ca. — 1496), citato più volte come fonte in questo codice, e a questo proposito alle righe 3 e 4 di f. 46r: «vide el caccialupo [:] che morì joh(ann)i andrea et socrate» e nell’interlinea, sopra queste parole, è scritto «depo 17 anni un a(n)no et(iam) pestilente» (notizie sul Caccialupi si possono trovare nel Dizionario biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, voce a cura di G. D’AMELIO). Colocci tornerà ancora su questo gruppo di dati e notizie a proposito di «Franceschino», a f. 54r (rr. 1-6), riuscendo a fare, per altro, una tripla confusione, come si vedrà. Il verso del foglio che contiene le notizie su Lelio, poi, è occupato dal sintetico riferimento ad una facezia di Castruccio Castracani la cui fonte, ancora una volta, è indicata in Petrarca («petrarca in q(ue)llo/ de memorabilib[us] la moneta non/ tocco»): si tratta probabilmente dell’episodo che si trova nei Rerum memorandarum libri (di qui in poi, brevemente, Rer. mem.), III, 30 e che Colocci riporterà estesamente, ma sunteggiando, da r. 26 di f. 59v a r. 2 di f. 60r, questa volta senza citare la fonte. Un’altra facezia relativa a Castruccio è riportata estesamente e seguita da due brevi lacerti che non si sa bene come interpretare. 46 Sull’inserzione di questo nome si veda nt. 39. Qui segnalo semplicemente che, nella scheda di Bonagiunta, si fa menzione di una canzone che proverrebbe da un «libro diviso», forse identificabile con quello di cui parla BOLOGNA (Sull’utilità di alcuni descripti cit., pp.

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INTORNO ALLO ZIBALDONE COLOCCIANO VAT. LAT. 4831

32 32 34 34

Cin da Pistoia Guitton d’Arezzo Guido (Cavalcanti) Guido (Guinizzelli)

35 35 37

Honesto bolognese I ‘Ciciliani’ Sennuccio (del Bene)

37

Franceschin (degli Al- 54 verso bizzi) 55 recto

49 recto 50 recto 51 recto 5v / 53v

54 recto

145

Guido Cavalcanti Guido Guinicelli Guitton d’Arezzo Cino da Pistoia

Franceschino Sennuccio47 Honesto bolognese

55r / 56v48 57 recto 58 recto

Cecco d’Ascoli Boccaccio Antonio da Ferrara

61 recto49

Petrarca

567-577), e di cui ai ff. 13r-20 (secondo la numerazione colocciana più recente) di Vat. lat. 4823 troviamo un lacerto. Così mi sembra infatti che si possano interpretare le parole «vedi se la canzo(n) del diviso che comincia/ o glorioso re dell’universo è sua» (rr. 2-3, f. 48v). Al f. 13v di questo codice, in effetti si trova trascritta questa canzone che inizia «O glorioso re deluniverso/ p(er) cui si volge el cielo…», preceduta nel margine superiore dall’indicazione a mo’ di titolo «canzon» e, di seguito, aggiunto verosimilmente successivamente con inchiostro leggermente più scuro e tra due punti «.Dal diviso.». 47 Sull’inversione dell’ordine dei nomi di questi ultimi due autori, e sulle sue ragioni, si

è detto già a nt. 39. 48 Su Cecco sono anche le righe 5-12 di f. 59r, dove si fa riferimento, a proposito dell’inevitabilità del fato e della «falsità e vanità de magi», ad alcuni tratti del quarto libro dei Rer. Mem., rispettivamente capitoli 39, 26, e 31-33 (forse a quest’ultimo gruppo di capitoli, intitolati «de Vaticinio Furentum», si allude infatti, con l’indicazione «vide el petrarca de vaticinio»). 49 Il foglio numerato «61» segue, essendo evidentemente stato spostato per qualche ragione dopo la numerazione, il foglio 58, e costituisce bifolio con il f. 62. I ff. 62 e 63 (non numerati, però) sono bianchi e sono seguiti immediatamente dal f. 68: si colloca infatti qui la lacuna dei due bifolii di cui si è detto a nt. 8. Il bifolio 59-60, che segue f. 61, poi, è occupato da alcune considerazioni generali sulla lingua, non immediatamente riferibili ad alcuno dei personaggi menzionati nel resto del ms. Il f. 59 porta come titolo «çpçoçrçtçeçnçtaæ» e ospita, oltre alle già ricordate notizie su Cecco d’Ascoli, alcuni riferimenti al libro «delle cose memorande del petrarca»; il titolo stesso sembrerebbe rimandare ai capitoli 101-122 del IV libro di Rer. mem. – De ominibus et portentis – mentre la menzione di «henrico sept(im)o» farebbe riferimento al capitolo 117. Vi si trova anche un’allusione ad un episodio di preveggenza relativo ad «Adelecta», madre di Ezzelino da Romano e un altro riferito invece a Pirro Epirota: entrambi hanno per fonte il IV dei Rer. mem. e, più specificamente, i capitoli 39 e 16, rispettivamente. Seguono poi alcune considerazioni sulla pari dignità di ogni lingua, finalizzate a giustificare l’uso celebrativo della «materna lingua» (così a rr. 14-15 di f. 59v, ma anche: «perché non dunque io debbo celebrar voi in quella lingua/ che ne acco[m]pagna dal dì che usciamo in questa/ luce infino all’extreme tenebre. Questa ne porge/

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68v / 76v

Roberto re (d’Angiò)

Cominciamo anche in questo caso ad analizzare la topografia del testo. L’ordine è molto più sconvolto che nella sezione precedente e non è facile motivarlo. Non potendo chiamare in causa criteri cronologici (Dante prima di Guittone e Guinizelli, Guinizelli dopo Cavalcanti, Onesto dopo Sennuccio e Franceschino), che per altro non avrebbero potuto fondarsi che su basi fragilissime, viste le conoscenze di Colocci in questo periodo, occorrerà, ma con tutta la cautela e il dubbio possibili, appellarsi a criteri estetici – almeno per i nomi che comparivano nei Trionfi – e l’esito in alcuni casi stupisce ugualmente (perché il pre-petrarchesco Cino segue Guittone, sul cui valore già Dante aveva avanzato dubbi in Purgatorio XXIV e XXVI?). Un’altra significativa assenza caratterizza poi questo secondo blocco, ed è quella dei «Ciciliani» (TC IV, v. 35): in tutto il ms. non compare menzione di alcuno di essi50. el lacte con le canzon della cuna…» rr. 14 e sgg di f. 59r; interessante sarebbe scoprire – se la lettura è corretta – chi potesse celarsi dietro quel «voi») con tanto di esempi che sembrerebbero più a proposito per un’opposta posizione teorica («… scripse Folchetto italiano in lingua lemosina…»). Di qui il discorso scivola sull’ambiguità e sull’equivoco, che la conoscenza e l’uso di una lingua consente di evitare, ma che è anche il nerbo della maggior parte delle facezie («et la maggior parte de le/ facetie in ogni lingua versa circa lo equivoco»: rr. 10-11, f. 60r): qui si collocano alcuni esempi faceti (come quello di Castruccio menzionato a nt. 45 e c’è anche il riferimento ad un epigramma di Elisio Calenzio) e il discorso sembra perdersi per un po’, frantumandosi in un pulviscolo di considerazioni che sembrano ricordi personali (già il Lattès aveva notato un simile, abituale, modo di procedere: si veda Atti del Convegno cit., p. 101). Poi riprende e tratta della difficoltà di rendere le facezie stesse e le metafore in lingue diverse da quella in cui furono formulate, cita Poggio Bracciolini riferendosi al suo Liber facetiarum e conclude con un confronto semantico tra una parola greca non ben leggibile (si intuisce solo la, del resto prevedibile, radice «log») e il volgare «ragionare». Verrebbe fatto di pensare che le considerazioni che qui si sviluppano, potessero costituire la traccia per una prefazione alla raccolta di facezie che Colocci andava via via formando sui fogli dell’attuale Vat. lat. 3450, sulla cui composizione e struttura si veda P. SMIRAGLIA, Le «Facetiae» del Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 221-230. 50 Unica eccezione, il «Celio», che compare con altri nomi a f. 102r, identificabile con Cielo d’Alcamo sulla base del passo del notamento colocciano (Vat. lat. 4817, ff. 171r-172r) recentemente ripubblicato, assieme agli altri passi colocciani relativi al ‘caso-Cielo’, da BOLOGNA, La copia colocciana cit., spec. pp. 130-137. Ecco il testo del notamento: «et io no(n) trovo alcuno se no(n) cielo/ dal camo che(e) tanto avanti scrivesse/ quale noi chiamaremo Celio». Resta sconosciuta la fonte che gli permise di individuare il nome di questo poeta e di attribuirgli Rosa fresca aulentissima, e le considerazioni qui svolte sembrerebbero solo provare che egli forse conobbe il nome di Cielo-Celio prima di conoscere il testo integrale del contrasto (o almeno la redazione contenuta nel Vat. lat. 3793, visto che le postille che apporrà a questo testo sul Canzoniere Vaticano, hanno indotto alcuni a pensare ad una collazione con altro ms, di cui, allo stato attuale della conoscenze in merito, nulla vieta di pensare che fosse già in possesso). L’assenza poi di altri nomi di poeti della scuola siciliana può forse essere un elemento che si muove nella direzione dell’ipotesi secondo cui la com-

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Per quanto riguarda i contenuti di questo secondo blocco, passerò in rassegna ciascuno degli autori menzionati che presenti notizie di qualche interesse, dando sinteticamente comunicazione di queste e delle fonti che, a loro riguardo, sono riuscito per il momento a rintracciare. Per Dante (f. 48r) abbiamo, ancora una volta, un riferimento esplicito ai Rer. Mem. («vide el petrarca nel/ 3. tracto delle memorande capi 46»: i numeri non hanno corrispondenze nelle edizioni moderne), forse al capitolo 83 del secondo libro, che è l’unico in cui sia menzionato Dante, e un breve rimando a Boccaccio che sembra lo stesso fatto per Francesco da Barberino. La scheda di Guido Cavalcanti (f. 49r), schiera, a sua volta, in prima battuta le fonti che intende adoperare: «la mandecta/ la facetia del boccaccio. quella tenzona nobile che cita el petrarca artificiosa docta comentata da …. cecco d’Ascoli/ la reprende». I riferimenti sono, naturalmente, al verso 31 di Era in penser d’amor quand’i’ trovai, alla novella 9 della sesta giornata del Decameron, infine alla canzone Donna mi priega, per ch’io voglio dire, citata, appunto da Petrarca nella notissima «canzone delle citazioni» (Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi: RVF 70, v. 20) e da Cecco ripresa nell’Acerba (v. 1941)51. Altre fonti sono citate al fondo di questi appunti biografici e fanno riferimento a Marsilio Ficino («e vide/ ficino nella vita e qui te poi extendere/ della baptaglia», rr. 1920), a Leonardo Bruni («e vide Leonardo areti/no…», rr. 20-21) e Cristoforo Landino («Vide Landino anchora nel capit(ol)o della/ eloquentia», rr. 23-24). Dopo i fogli bianchi di Guinizelli e Guittone, segue l’ampio racconto relativo a Cino da Pistoia (ff. 51v-53v). Qui i riferimenti si fanno più difficili da identificare e io mi limiterò a segnalare quello ad un «volterrano», che sembra seguito da una sua distesa citazione (r. 7 e sgg. di f. 51v), forse identificabile con un qualche componente della famiglia Maffei, ma l’identificazione con Mario e Raffaele, amici di Colocci, andrà suggerita con cautela, vista la collocazione temporale proposta per questo ms. Verso il primo, che si occupò di studi teologici e legali, sembrerebbe guidare la natura delle notizie di queste pagine: inaspettatamente la figura di Cino viene tratteggiata con una attenzione più marcata alle sue doti di giurista, di professore di diritto presso lo studio di Bologna (con un’abbondante messe di nomi di giuristi coevi) e alle sue pilazione del 4831 andrebbe collocata anteriormente all’acquisizione da parte di Colocci del Canzoniere Vaticano. 51 Edizioni di riferimento: G. CAVALCANTI, Rime. Con le rime di Jacopo Cavalcanti, a

cura di D. DE ROBERTIS, Torino 1986; G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Torino 1980; CECCO D’ASCOLI (F. STABILI), L’Acerba, a cura di M. ALBERTAZZI, Lavis (TN) 2002. Il verso dell’Acerba cui Colocci allude è il v. 31 del c. I del III libro (v. 1941 dell’intera opera) e suona «Donna mi priegha ch’io debia dire».

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opere di carattere giuridico, che alla sua rilevanza linguistica e letteraria (poche notizie solo a f. 53v: rr. 1-12). Una simile angolazione, ritengo, sarà proprio da imputare alla natura delle fonti utilizzate e, se l’indicazione a questo proposito di un Maffei è incerta, non lo sarà il rimando al già ricordato Caccialupi (si veda nt. 45), esplicita in ben due punti (rr. 910 di f. 52v e r. 32 di f. 53r). Vi sono poi due allusioni a facezie non identificate (rr. 40-42 di f. 52r e rr. 29-30 di f. 52v) e un rimando di questo tenore: «nota la vita del petrarca che cino lo admoniva/ alle leggi e non abhorebat leges humanita» (rr. 30-31 di f. 51v). Credo che la fonte di quest’ultimo rimando possa essere rintracciata in una frase della biografia di Petrarca compilata da Girolamo Squarciafico e premessa alla raccolta delle opere latine del poeta aretino, uscita in due edizioni veneziane nel 1501 (presso Simon de Luere) e nel 150352. Petrarca non è tuttavia presente solo in questa marginale allusione, ma anzi Colocci ne cita versi (per es. rr. 4-5 di f. 51v: RVF 222, v. 9 e naturalmente il sonetto in morte di Cino, RVF 92, citato a r. 42 di f. 52v), e allude a sue lettere, inventandosi una poco probabile corrispondenza con Cino (ma c’è anche un generico richiamo a una lettera a Giovanni d’Andrea, forse, Fam. V, 8, seguita dalla precisazione che però «non ho il/ libro apresso di me»: rr. 5-10, f. 53r), di cui afferma essere pervenuta ai suoi tempi alcuna lettera d’elegante stile (rr. 2-4, f. 53v). Da segnalare un ultimo rimando ancora a RVF 70 (v. 40): Colocci non cita solo l’incipit della canzone ciniana «da pretarca [sic!] anteposta alle altre canzone del suo seculo[:] la dolce vista el bel guardo suave», ma anche i suoi versi finali («amor p(er) e(ss)er micidial/ piatoso da(m)mi di morte gioia/ se col lo spirto mio torni ad pistoia»; le citazioni sono dalle rr. 17-23 di f. 51v), segno, probabilmente, che aveva avuto modo di leggere per intero la canzone. Questa circostanza potrebbe forse essere connessa con il possesso di quella raccolta che negli appunti di Colocci appare indicata ora come «Cino in 4° con salvagio» (Vat. lat. 4823, f. 473r), quindi semplicemente «Cino» (Vat. lat. 4817, f. 196), fino alla forma definitiva di «Cino et moderni» (Vat. lat. 4817, ff. 210-211, 214), in seguito alle operazioni di smembramento e ricomposizione di un codice, ricostruite da Corrado Bologna nello studio citato (si veda nt. 46). Di fatto però l’incipit in questione non compare nella tavola alfabetica della raccolta indicata «Cino in 4° con salvagio» che si può 52 Traggo queste notizie dalla raccolta di A. SOLERTI, Le vite di Dante Petrarca e Boccac-

cio scritte fino al secolo decimosesto, Milano 1904, in cui la biografia in questione si trova alle pagine 347-359; a p. 349 il passo che ci interessa: «Cynus humanitatis studia non haborrens, sed cum vacaret otio, illorum captus suavitate, saepe Franciscum secum habebat, nec desinebat etiam illum hortari ut inceptum studium persequeretur».

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leggere ai ff. 473-474 di Vat. lat. 4823, mentre lo si trova nella tavola di quell’altro canzoniere che doveva essere il «Libro d’Augubio» (Vat. lat. 4823, ff. 476-477) e, inoltre, la canzone è trascritta a f. 23r di Vat. lat. 4823, nei fogli, cioè, agggiunti da Colocci ad integrare il canone veicolato dal Canzoniere Vaticano 53. Alle confusioni relative all’identità di «Franceschino» (f. 54r) si è già accennato (nt. 45): Colocci non riconosce in questo personaggio Franceschino degli Albizzi e proponendosi con una nota in margine di verificare se per caso non si trattasse di Francesco da Barberino («vide si fu barbarino»), con un’allusione al proemio delle Seniles, mostra forse di identificarlo, almeno in un primo tempo, con Francesco Nelli, il Simonide dedicatario di questa raccolta epistolare. A proposito di Sennuccio (f. 54v), l’umanista cita naturalmente il sonetto RVF 112 e allude genericamente a «quell’altro e quell’altro» (f. 54v), probabilmente RVF 108 e 113. Su Cecco d’Ascoli (ff. 55r-56v) non mi dilungo, essendo pubblicate le pagine a lui relative (FANELLI, Ricerche cit., pp. 182-205); segnalo semplicemente, per l’interesse di questa comunicazione, una breve citazione petrarchesca («bavarico inganno»: RVF 128, v. 66 a f. 55r, r. 9), un’allusione all’epistolario («vide petrarca nell’ep(isto)le famil(iari) 36 de ma/tematicis»: f. 55v, rr. 41-42) che non è facile identificare e un parallelo tra la vita dei due autori, a proposito della persecuzione, che mi sembra poco fondato (se interpreto correttamente le ostiche righe 17-18 di f. 56r). Ultima curiosità, Colocci afferma aver visto «sonecti/ che si mandavano» Cecco e Dante (righe 6-8 e sgg. di f. 56r), un’indicazione forse utile in ordine alla ricostruzione delle conoscenze – e della biblioteca – dell’umanista in questo periodo. La scheda di Boccaccio (f. 57r) è sostanziata semplicemente dall’allusione ad una facezia e Antonio da Ferrara (f. 58r) sarà stato forse allegato perché destinatario di Seniles III, 7 e di diverse rime ‘estravaganti’, oltreché di RVF 120. Se queste fossero le ragioni, bisognerebbe supporre che Colocci conoscesse questi testi (una delle ‘estravaganti’ si trova in Vat. lat. 3196) magari con qualche com53 Come è noto, infatti, si può ritenere il Vat. lat. 4823 ‘copia’ di Vat. lat. 3793, anche se una copia davvero sui generis, in base a quanto dimostrato da Corrado Bologna nei due studi più volte citati (BOLOGNA, La copia colocciana cit. e Sull’utilità di alcuni descripti cit.), perché integrata da testi e indici di raccolte che ne avrebbero dovuto fare un «libro lirico totale» (BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., p. 578). L’incipit della canzone ciniana compare seguita da un’indicazione di foglio, nella tavola alfabetica del «L(ibr)o daugubio» a f. 476v: «la dolce vista el bel 10». Da un rapido confronto incrociato tra la tavola alfabetica e i testi riportati ai ff. 17r-20v (i ff. 21-22 contengono semplici elenchi di parole) si può notare che tutti i testi – cinque canzoni – ivi compresi (ad esclusione del primo e dell’ultimo) erano contenuti anche nel Libro d’augubio.

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mento (quello del Vellutello al Canzoniere, però, è solo del 1525), ma, visto che al nome non seguono notizie, sarà più semplice ipotizzare una conoscenza ‘per sentito dire’, come avveniva per i provenzali, anche se non si dovrà escludere la lettura del testo delle Seniles. Petrarca (f. 61r) era naturalmente un passaggio obbligato e stupisce perciò la brevità delle notizie, limitate all’allusione ad una facezia e forse alla precoce canizie del poeta54. Questa prima parte del quarto fascicolo si conclude con la lunga scheda relativa a re Roberto d’Angiò, «re et ph(ilosoph)o et poeta» (f. 68v, r. 2, interlinea), ed alla sua inserzione Colocci dovette essere indotto dalla grande ammirazione nutrita da Petrarca per questo contemporaneo di cui, nell’Africa55, ma specialmente nelle Familiares, e nei Rerum Memorandarum libri, tracciò un grandioso ritratto. I fogli che seguono, sono infatti occupati, per lo più, da traduzioni e appunti, al solito modo colocciano, dalle pagine di quest’ultime due opere; ma se Petrarca è fonte precipua, per estensione e importanza delle notizie che fornisce, non è però l’unica. Farò dunque una rapida menzione delle fonti concorrenti, precisando che non di tutte ho avuto ancora modo di rintracciare l’identità e verificarne la coerenza col testo appuntato dall’umanista. La prima è un «benvenuto» (f. 69v, r. 20), probabilmente Benvenuto da Imola, poi Bartolomeo Platina («Vide el Platino nella vita de Ponti/fici de clemente…»: f. 72r, rr. 2 e 3; con riferimento al De vita Christi et omnium pontificum, edito nel 1474), seguito da un elenco di fonti piuttosto compendioso: «et vide la historia de Antonino et/ Biondo et lo Petrarca et Bocca/ccio Sabellico et Leonardo aretino» (rr. 6-8, f. 72r). Nello stesso foglio si trova anche un riferimento ad un non meglio identificato Damaso (ibid. rr. 9 e 15) e, più oltre, (f. 73r e 74r) Boccaccio è chiamato in causa per le notizie sulla corte di Napoli al tempo di re Roberto, e sui suoi dotti frequentatori: l’opera che in questo caso Colocci ha sott’occhio sono i Genealogie Deorum Gentilium libri56. Ma, come accennato, la vita di Re 54 Così mi verrebbe fatto d’ intendere, il «se mutò nelli 40 anni», che nel verbo potrebbe conservare memoria dei versi 158-159 del testo-fonte TC IV: «… ove le penne usate/ mutai per tempo e la mia prima labbia». 55 Il riferimento più esplicito a quest’opera si trova a riga 15 di f. 76v: «rex ph(ilosoph)orum lo invoca nell’Africa», dove la parte che segue l’epiteto, stranamente, è vergata in rosso. 56 Benvenuto, e in particolare il suo commento alla Commedia, potrebbe essere fonte (ma piuttosto generica) delle notizie – che nel foglio seguono la menzione del suo nome – circa l’ostilità di Roberto e dei fiorentini ad Enrico VII (si veda il commento a Paradiso, XXX). Dell’espisodio dell’avvelenamento di Enrico VII, ho trovato attestazione in un’altra delle fonti dichiarate da Colocci, e cioè in Platina, nel capitolo relativo a Clemente V del De vita cit. Sull’identità dell’«Antonino» e del «Sabellico» si possono suggerire, sulla scorta

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Roberto si apre sotto il segno di Petrarca, con l’edificante narrazione del trapasso del sovrano (ff. 68v-69v): il testo dei Rerum Memorandarum libri è seguito senza soluzione di continuità dal paragrafo 5 al paragrafo 15 del capitolo 96 del terzo libro. Seguono alcune notizie incomplete su data di morte, luogo di sepoltura e epitaffio, le cui lacune non furono poi riempite. A f. 69v c’è un appunto: «et nota che nelle epistole famil. 33 ad tho/ma: de Messina ch’el chiama consultore…», ma il rimando è probabilmente scorretto e del resto abbiamo già visto come Colocci a volte confonda i corrispondenti di Petrarca. Nel recto del foglio che segue (f. 70), si tratta delle circostanze relative all’incoronazione poetica del Petrarca, per mano di Orso dell’Anguillara, in rappresentanza di re Roberto: il materiale qui è fornito da Fam. IV, 7 – a re Roberto – e 8 – a Barbato da Sulmona –. Il materiale sunteggiato alle righe 22-33 di f. 72r, invece, proviene da Fam. V, 1, lettera diretta al medesimo Barbato, per il quale Colocci si appunta un «vide si barbato era consigliere de re o che cosa»: e qui l’umanista torna a trattare delle conseguenze della morte di Roberto. Dopo alcune notizie sul periodo storico (discendenti forse da una delle altre fonti sopra menzionate) e il brano d’origine boccacciana, segue (f. 73v57) un altro passo dai Rerum Memorandarum libri delle informazioni di M. E. COSENZA (Biographical and Bibliographical Dictionary cit.), i nomi di Antonio Pierozzi (1389-1459, «Antoninus, Archiepiscopus florentinus») e di Marc’Antonio Coccio (1436-1506, «Antonius Sabellicus», storico e umanista veneto). Difficoltoso è dire a quale delle opere di Flavio Biondo faccia riferimento il rimando che segue (forse le Historiarum ab inclinatione Romanorum decades?). Di Leonardo Bruni («aretino»), invece, Colocci avrà forse voluto indicare le Historiae Florentinae (sulle fonti di questi appunti colocciani ritornerò più approfonditamente nell’edizione del codice in preparazione). Quanto all’opera di Boccaccio, qui sono sunteggiati e tradotti alcuni passi del capitolo VI del libro XV (ho utilizzato G. BOCCACCIO, Genealogie Deorum Gentilium libri, a cura di V. ROMANO, 2 voll., Bari 1951). Anche a f. 75v il certaldese è chiamato in causa, e forse le notizie delle righe 1-6 lo indicano come fonte (e la sua menzione, ma con Barlaam e Petrarca, a f. 76v, potrebbe invitare a far lo stesso per le righe 1-9 di questo foglio). 57 Al fondo di questa pagina si pùo leggere una nota d’interesse bibliografico: Colocci, raccontando di come Roberto «cominciò dare opera alla poesia» dopo l’incontro con Petrarca, afferma che, se la «morte invida» non avesse infranto questo suo disegno, sarebbe divenuto «splendore de poeti» e aggiunge «come appare/ in alcuni fragmenti del materno» (corsivo mio; rr. 40-41). A che cosa precisamente qui si alluda (un canzoniere volgare? Una raccolta di scritti di Roberto?) non saprei dire, fatto sta che, poche pagine più avanti, si trova un altro appunto che fa riferimento a dei «fragmenti» e viene citato anche un endecasillabo: «scripse in rima imitando lo stile de danti fu gran/dissimo ph(ilosoph)o come appare per molti suoi/ fragmenti alla n(ost)ra età pervenuti assai mo/rali e giocondi. ch(e) cominciano Amor che movi/ el ciel per tua virtute …» (rr. 38-42, f. 76r). Questo incipit compare registrato in CARBONI, Incipitario della Lirica Italiana cit., I, p. 53, nr. 837. che rimanda al f. 82r del codice Vat. lat. 13072. Ai ff. 82r-85v del codice (miscellanea di argomento morale e religioso) compare un componimento, vergato in una gotica che direi forse del secolo XIV ex.-XV in., con questo incipit. Da un rapido esame risulta essere una canzone sulle virtù a

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– libro I, capitolo 37, §§ 12-15 – relativo alla conversatio intercorsa tra Roberto e Petrarca e alla cultura del primo. Lo stesso capitolo sarà ripreso ai ff. 74v e 75r, dove appare con evidenza che è il secondo ad essere stato compilato per primo, visto che ospita i paragrafi dal 5 al 9 (sempre di Rer. Mem. I, 37) e che nelle prime righe di f. 74v, trova completamento il § 9 rimasto a mezzo al fondo del recto del foglio seguente. Anche in questo caso il f. 74v doveva essere destinato ad altro, visto che un nome poco leggibile vi campeggia ancora a mo’ di titolo («pandorfo»?), mentre il testo si dipana in una traduzione, a volte un po’ approssimata e svelta, anche dei paragrafi 10 e 11. Da f. 75v a 76r (r. 26) sono riportati passi di un nuovo capitolo dei Rerum Memorandarum libri: il decimo del primo libro (§§ 2-6). Si tratta di notizie sull’educazione di Roberto e sulle sue abitudini e, dove si parla del palazzo reale a Napoli, sembrano farsi largo i ricordi personali dell’umanista che, ornati di reminiscenze classiche, relative all’amenità dei luoghi, soltanto alluse, interrompono per alcune righe (21-32 di f. 75v) il ‘racconto’. Il f. 76v, infine, contiene gli ultimi quattro riferimenti alle Familiares, separati l’uno dall’altro da un breve tratto orizzontale prossimo al margine sinistro: Fam. IV, 3, sull’epitaffio scritto da re Roberto per la nipote (rr. 10-14); Fam. IV, 2, a Dionigi di Borgo San Sepolcro sulla laurea del Petrarca, sotto gli auspici di Roberto, (in particolare § 15: rr. 16-22); Fam. IV, 3 (§§ 8-12) sulla successione di Roberto (rr. 23-30); Fam. V, 4 (§§ 10-16) che narra l’incontro avuto da Roberto e da Petrarca con una nerboruta e virtuosa donna-guerriera di Pozzuoli (rr. 28-34). Sul carattere della seconda parte (ff. 77r — f. non numerato, ma dopo f. 93) di questo fascicolo basti quanto detto in apertura; mi limiterò solo ad addurre, in aggiunta, alcuni esempi che rendono conto della ‘familiarità’ delle fonti: su «Malatesta da Rimino» si dice «scripse all’avo mio» (f. 77v); le popolaresche notizie – corredate di filastrocca – su «fra Thomasuccio» (f. 79v) provengono da una curiosa trafila orale, «io udì da panu(n)tio/ haver odito dal p(ad)re»; di un «Lorenzo Spirito» annota «amico de mio tio» (f. 88r); di Alberto Orlando (f. 92v), «fu hospite de Angelo colotio mio/ avo». Ricompaiono poi numerosi i riferimenti alle

cui potrebbero adattarsi bene i qualificativi di morale e giocondo che Colocci adopera. Il testo è adespoto e sarebbe una facile tentazione quella di attribuire questo testo a Re Roberto e a Colocci il merito di un’altra identificazione unica e inedita come quella del contrasto cielino. Si tratta invece del Trattato delle volgari sentenze sulle virtù morali di Graziolo Bambaglioli; rimando tuttavia ad altra sede anche la trattazione di questo tema, dal momento che pare in ogni caso richiedere un confronto con gli spogli lessicali del codice Vat. lat. 3217.

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facezie, ed un paio ne ho rintracciate in Vat. lat. 345058, mentre Petrarca non è più menzionato (per i nomi degli altri personaggi che trovano posto in questa seconda parte, rimando all’indice in appendice). V Fascicolo (I foglio tagliato — f. 104r) Come accennato, questa breve ultima sezione sembrerebbe essere anteriore a quella da cui è preceduta: vi si trovano infatti liste di nomi di autori le cui biografie vengono sviluppate nel IV fascicolo e, oltre a questo, la presenza di alcune note sul metodo da seguire per la stesura di quella che potrebbe essere una compilazione biografica, dà a questi fogli l’aspetto di un quaderno di appunti preparatori. Queste note si possono leggere al f. numerato 107, ma, come già notato, posto al principio (o piuttosto a metà, se si contano anche i fogli tagliati) di questo fascicolo. Tra due righe di mano di copista e qualche nota di lingua, troviamo infatti questi due appunti con cui Colocci si rivolge a se stesso come con un pro memoria: «fa juditiio de ogni vita. (…) dello stilo ad un p(er) uno» (rr. 3-4) e «poni d’ognuno di questi qualche rima o sonecto o capitolo» (rr. 5-6). Se si fa eccezione per la registrazione di «rime sonetti e capitoli», a cui tuttavia rimanda rapidamente qualche appunto («e qui poni molte sue moralitate», f. 56v r. 17; «poni qui qualche sonecto de cino et qualche principio», f. 51v, rr. 28-29), credo che nel IV fascicolo si possa vedere applicato il progetto metodologico che si legge abbozzato abbastanza chiaramente in queste righe. Anche in queste pagine, in buon numero bianche, si fa riferimento a facezie e aneddoti, la cui consistenza documentaria appare, per altro, proporzionata all’oscurità di numerosi nomi che qui compaiono (Gianorbo, Octavio da Fano…). Sarà dunque opportuno soffermarsi brevemente su una59 delle tre liste di nomi che si 58 La prima è una storiella licenziosa riferita a proposito del Burchiello («faceva come

la monaca de Roma/ che andando per lo perdono se cavò/ la foia se(n)za peccato»; righe 1618 f. 87r) che si può leggere a f. 27r di Vat. lat. 3450; l’altra è quella «delli Apostoli personati» che si trova distesamente narrata nel medesimo codice (ff. 33r-34r) e alla quale si allude rapidamente sotto il nome del «Cingulo» (suppongo Benedetto da Cingoli, di cui Colocci curò l’edizione postuma dei versi nel 1503: si veda nt. 20 di UBALDINI — FANELLI, p. 15) a f. 85v di 4831. 59 Le altre due compaiono a f. 107v e 104r. La prima («philostrato/ plutarco/ Dione/ Pli-

nio e cornelio/ Petrarca») potrebbe, vista la sua eterogeneità, essere semplicemente un elenco di libri, da aggiungere a quegli elenchi non sistematici già trovati in altri zibaldoni (specialmente in Vat. lat. 4817). Sono infatti tutti nomi di autori presenti, per lo meno in traduzione, nella biblioteca di Colocci (per gli studi in proposito si veda la nt. 22). L’altro elenco, di cui per altro si dà conto in appendice, è stato ampiamente sfruttato da Fanelli in UBALDINI — FANELLI (si vedano, ad indicem, i rimandi a 4831).

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leggono in questi ultimi fogli: quella di f. 102r (rr. 1-11): «Celio/ Guitton frate d’Arezzo/ Arnaldo/ Guido Guini[c]elli/ Guido Cavalcanti/ Danti/ cecco das/ cino/ cicco d’ascoli/ Roberto re/ honesto bo[lognese]» e, spostato verso il margine destro, approssimativamente all’altezza di Dante, Colocci aggiunge «Folco». Credo si possa dire che l’ordine dei nomi non è casuale – la cassatura e lo spostamento di quello di Cecco d’Ascoli sembrerebbe provarlo – ma non è immediato stabilire il criterio che vi presiede. Se infatti si possono considerare approssimativamente contemporanei Cavalcanti, Dante, Cino, Cecco e Roberto, l’ordine degli altri inviterebbe, anche in questo caso, a rifiutare il criterio cronologico. Tuttavia le conoscenze (o piuttosto le «non conoscenze») di Colocci in questa fase del suo «apprendistato romanzo», potrebbero essere sufficienti a rendere ragione di queste incongruenze. Basti per ora notare che la sequenza non è confrontabile con quella dei Trionfi (ma solo per l’ordine, visto che otto di questi undici nomi, invece vi compaiono), né con la sua versione adattata che compare in 4831. Al di là di queste considerazioni, però, credo che vada sottolineata la posizione incipitaria di Cielo d’Alcamo (se si accetta la convincente identificazione di cui si è detto a nt. 50), che potrebbe provare che già a questo tempo, Colocci aveva a disposizione le conoscenze che sostanziano il notamento e che gli permisero perciò di scrivere che «io no(n) trovo alcuno se no(n) cielo/ dal camo che(e) tanto avanti scrivesse» e di annotare in margine quella che Corrado Bologna intende come una data: 116460. Qualche conclusione Ritengo che i contorni del centro di gravitazione delle diverse sezioni di questo ms., di cui si parlava in apertura, risultino ora un po’ più chiaramente delineati. Petrarca, con le sue opere latine e volgari, in prosa e in versi, sembra essere l’elemento agglutinante. Così nel primo fascicolo troviamo l’applicazione pratica, da parte di Colocci poeta in proprio, dell’ossequio per il concetto di canone: le due composizioni presuppongono modelli, nella loro artificiosità, e Petrarca, nel Cinquecento, era autore canonico nella prassi poetica, già prima di una consapevole codificazione che, con Bembo specialmente, interverrà a prendere atto e cristallizare una situazione di fatto. Qui Petrarca, però, non è presente solo nella sua identificazione col concetto di canone, bensì materialmente in molta parte dello spirito, oltre che naturalmente del lessico, dei due testi. Prova, poi, di questa canonicità di Petrarca per i poeti del primo Cinque60 Rimando ancora a BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 133, nt. 111.

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cento, ce la fornisce la tavola alfabetica del III fascicolo. Che si tratti integralmente del corpus dell’opera del petrarchista Tebaldeo o meno, da queste pagine emergono linee che contribuiscono, come accennato, a tratteggiare il profilo di un gruppo di intellettuali che nella poesia dell’aretino individuava il suo modello: compaiono infatti i nomi di Bembo, Castiglione, Brocardo, Gerolamo Borgia, del Cosmico, di Panfilo Sasso e forse di Ercole Strozzi. Sarà dunque significativo trovare alcuni di questi nel V fascicolo, nell’elenco di f. 104r (è il caso di Sasso, Bembo e Castiglione) che allarga ulteriormente il panorama dei poeti petrarchisti citati, con i nomi, per esempio, del Tebaldeo, di Bernardo Accolti, detto l’Unico, di Gerolamo Benivieni, del Cariteo, del Bendedei, di Giovan Francesco Caracciolo e del Perleoni («Rustico ro[mano]»). Del IV fascicolo si è detto ampiamente: Petrarca vi è fonte documentaria e nucleo strutturante. Tuttavia, come anche da queste pagine si avrà avuto modo di capire, la tendenza storiografica di Colocci è indirizzata piuttosto alla descrizione e all’accumulo – che ben sovente tocca la semplice erudizione antiquaria – piuttosto che alla prescrizione e alla selezione. Se si volesse azzardare un confronto con Bembo, infatti, non si potrebbe fare a meno di notare che laddove nell’umanista veneziano prevale la normativizzazione, coll’inevitabile conseguenza di un certo appiattimento sincronico, nelle pagine di Colocci, invece, ci si imbatte in un’esplosiva esuberanza documentaria, interessata e curiosa, magari approssimativa, ma dotata di una mobilità diacronica che, pur non sempre storicamente ben fondata e consapevole, risulta in ultima analisi estremamente vivace e propagginata. Si capirà anche, allora, come il concetto di canone, se applicato al metodo storiografico dell’umanista jesino, debba essere inteso in un senso piuttosto dilatato: a Petrarca si affiancano dunque altre auctoritates, in primo luogo quelle di Dante e di Boccaccio. Rimane il II fascicolo, quello sul De Amore, e, se non bastasse richiamare quanto già detto in proposito per ricondurlo entro quell’orbita le cui coordinate saranno ora forse più chiare e che ha Petrarca per centro, mi limiterò a ricordare che l’unico punto in cui Colocci sembra distaccarsi dal testo del volgarizzamento con qualcosa di suo, che abbia però una funzione diversa dal semplice sintetizzare, è quando appunta, accanto ad un precetto d’amore, «et nota p(er) Petrarca»61.

61 Il precetto in questione è «l’ardente amador della p(ropr)ia moglie/ tene ch(e) sia uno adulterio» e lo si può leggere, con la sua annotazione, alle rr. 1-3 di f. 10r. Un altro punto mostra un distacco dal testo (f. 10v, rr. 34-36: «Sapho didascolos: i(n)segna: et lo/ Specchio di Vene(re) et le nymphe li/ do…», seguono alcune lettere che non sono riuscito a leggere), ma in questo caso sembrerebbe trattarsi semplicemente del richiamo ad un concetto simile letto in altro luogo.

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APPENDICI I Tavola del ms. Vat. lat. 4831 I Fascicolo: Fogli 1-6 Foglio 1 Componimento in terzine dantesche di endecasillabi (inc.: «Voria poter com’io giurai lassarte»; expl.: «ch’io no(n) mi parto et crudeltà mi caci/ finis»). Foglio 2-5 Egloga in endecasillabi sdruccioli (inc.: «Da poi che semo in queste verdi pratora»; expl.: non leggibile). Foglio 6 (bianco).

II Fascicolo: Fogli 7-12 (Appunti presi sul testo volgarizzato del De Amore di Andrea Capellano62) Foglio 7 recto: titolo: «Gualtieri»; verso: (bianco). Foglio 8 (bianco). Foglio 9 recto: II, 7, 5; II, 7, 7; II, 7, 15; II, 7, 16; II, 7, 17; verso: II, 7, 18; II, 7, 19; I, 6, A*; I, 6, B; I, 6, F; I, 6, G (p. 155); I, 6, G (pp. 167-169). Foglio 10 recto: I, 6, G, (p. 173); I, 1; I, 6, G (p. 175); I, 6, G (p. 181); I, 6, H (p. 205); I, 6, H (pp. 213-215); I, 6, H (pp. 217-225); I, 6, H (p. 231); I, 6, H (pp. 241-243); verso: I, 6, H (p. 249-253); I, 6, H (pp. 253 o 255?); I, 9?; II, 7, 21 Foglio 11 recto: II, 8 (regole d’amore, numeri): 1; 2; 3; 4; 5; 7; 8; 9; 10; 11; 12; 13; 14; 15 e 16; 17; 18; 19; 20; 21; verso: 23; 22; 24; 25; 26; 27; 28; 29; 30; 31. Foglio 12 recto: I, 5; I, 2; I, 6, A*; II, 2; II, 4; II, 6; II, 7, 3a; verso: II, 7, 3b; II, 7, 4; II, 7, 5 (?).

III Fascicolo: Fogli 13-30 (Tavola alfabetica degli incipit di componimenti per lo più italiani)63 62 Si citano i loci facendo riferimento alla più sintetica ripartizione del testo latino, in

cui i tre elementi si riferiscono rispettivamente a libro, capitolo, sezione (qualora ve ne siano). Per il De amore si prende, come testo di riferimento l’edizione citata nel testo. 63 In corrispondenza di ciascun foglio di questa sezione si sono indicati i nomi dei per-

sonaggi che compaiono negli incipit in esso contenuti, ad integrazione delle brevi notizie date nel testo.

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Foglio 13 recto: titolo: «copiati» + due distici rispettivamente di Properzio e di Ovidio; verso: (bianco). Foglio 14 recto: titolo: «Copiati»; incipit in ‘A’; verso: incipit in ‘B’ – nomi di personaggi citati: Borgia, Bembo, Brocardo; ‘appendice’ di incipit in ‘C’ – nomi di personaggi citati: Cosmico. Fogli 15-16: tre incipit (in ‘C’) in 15r, il resto bianco. Foglio 17 recto: incipit in ‘C’ – nomi di personaggi citati: Colotio, Castiglione, Cosmico; verso: incipit in ‘D’ – nomi di personaggi citati: Guiscardo. Foglio 18 recto: incipit in ‘E’ – nomi di personaggi citati: Guiscardo; verso: incipit in ‘F’. Foglio 19 recto: incipit in ‘G’ – nomi di personaggi citati: Gripho, Guiscardo, Aloise; verso: incipit in ‘H’ – nomi di personaggi citati: Hercul. Foglio 20 recto: incipit in ‘I’ – nomi di personaggi citati: Iulio; verso: (bianco). Foglio 21 recto: incipit in ‘L’; verso: incipit in ‘M’ – nomi di personaggi citati: Mondella, Guiscardo. Foglio 22 recto: incipit in ‘N’; verso: incipit in ‘O’ – nomi di personaggi citati: Palladio; ‘appendice’ di incipit in ‘P’ – nomi di personaggi citati: Francesco. Foglio 23 recto: incipit in ‘P’ – nomi di personaggi citati: Phebo; verso: incipit in ‘Q’ – nomi di personaggi citati: Cosmico. Foglio 24 recto: incipit in ‘R’; appendice di incipit in ‘Q’; verso: incipit in ‘S’ – nomi di personaggi citati: Stroza, Dante, Crasso, Theophil, el Bucino. Fogli 25-26: incipit in ‘S’; a foglio 25r – nomi di personaggi citati: Sismonda/Sigismonda, Tancredo, Niccolò, Dante ; ‘appendice’ di incipit in ‘T’ a f. 26v. Foglio 27 recto: incipit in ‘T’ – nomi di personaggi citati: Bembo, Tancredo, Sigismonda; ‘appendice’ di incipit in ‘S’; verso: incipit in ‘V’ – nomi di personaggi citati: Cotrona. Foglio 28: (bianco). Foglio 29 recto: incipit in ‘Z’; verso: (bianco) Foglio 30 recto: (bianco); verso: titolo: «am /Amanti»64.

IV Fascicolo: Fogli 31-94 (Appunti biografici su numerosi personaggi)65 64 DEBENEDETTI (Gli studi provenzali cit., parte II, capitolo III, § 3) intende questo come titolo della sezione seguente: bisognerà supporre che esso sia stato introdotto dopo la legatura, visto che codicologicamente il foglio 30 appartiene al III fascicolo. 65 Quando nell’elenco che segue non compare l’indicazione «+ testo» significa che il nome, nel foglio, non è seguito da alcuna notizia. I nomi degli autori sono riportati secondo la lezione ricavabile (sempre piuttosto dubbiosamente) dal testo colocciano. La loro identificazione, possibile per la maggioranza, richiederebbe molto più spazio di quello qui dispo-

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Foglio 31 recto: Folco (Folchetto da Marsiglia) + testo; verso: (bianco). Foglio 32 recto: Arnaldo men famoso (R) + testo; verso: (bianco). Foglio 33 recto: Pietro primo; verso: (bianco). Foglio 34 recto: Pietro secondo; verso: (bianco). Foglio 35 recto: Raimbaldo primo; verso: (bianco). Foglio 36 recto: Raimbaldo secondo + testo; verso: (bianco). Foglio 37 recto: Pier d’Alverna el vechio + testo; verso: (bianco). Foglio 38 recto: Giraldo + testo; verso: (bianco). Foglio 39 recto: Gianfrè Rudel + testo; verso: (bianco). Foglio 40 recto: Guillelmo de Cunio/ del Tino + testo; verso: (bianco). Foglio 41 recto: Amerigo; verso: (bianco). Foglio 42 recto: Bernardo; verso: (bianco). Foglio (43) non numerato recto: Ugo; verso: (bianco). Foglio (44) non numerato recto: Anselmo; verso: (bianco). Foglio 45: titolo: «Nostri»: Thomasso da Messina (epistole, M, R) + testo. Foglio 46 recto: Socrate (F, S) + testo; verso: Francesco Barbarino + testo. Foglio 47 recto: Lelio + testo; verso: rimandi a loci petrarcheschi (M) e facezie (su Castruccio e altro). Foglio 48 recto: Dante (M) + testo; verso: Bonagiunta da Lucca + testo. Foglio 49 recto: Guido Cavalcanti (R) + testo; verso: (bianco). Foglio 50 recto: Guido Guinicelli; verso: (bianco). Foglio 51 recto: Guitton d’Arezzo; verso: Cino + testo (R). Foglio 52: Cino + testo (R). Foglio 53: Cino + testo (epistole) [recto: cassato «Sennuccio»]. Foglio 54 recto: Franceschino + testo (S); verso: Sennuccio + testo (R, epistole). Foglio 55 recto: Honesto Bolognese; Cecco d’Ascoli + testo; verso: Cecco d’Ascoli + testo (F). Foglio 56: Cecco d’Ascoli + testo. Foglio 57 recto: Boccaccio + testo ; verso: (bianco). Foglio 58 recto: Antonio da Ferrara; verso: (bianco). Foglio 61 recto: Petrarca + testo; verso: (bianco). Foglio 59-60 recto: titolo: «Portenta» (M; de vaticinio: M?); Considerazioni linguistiche (vd. nt. 49 e la parte di testo relativa). Foglio (62) non numerato: (bianco). nibile. Si sono inoltre segnalati i fogli in cui compare menzione esplicita delle opere petrarchesche, ponendo una lettera maiuscola corrispondente a ciascuna di quelle citate: M per i Rerum Memorandarum libri; F per le Epistulae ad Familiares; S per le Seniles; R genericamente per tutte le opere volgari in rima (quando il rimando è genericamente alle epistole si è semplicemente indicato epistole). Ho segnato un punto interrogativo accanto a quei rimandi, discussi nel testo, che avanzo come semplici ipotesi. Quanto alle fonti diverse da Petrarca mi limito a rimandare al testo di questa comunicazione: qui le si è escluse, visto il taglio interpretativo che ho voluto dare a questo intervento. Si sono segnati tra parentesi tonde i numeri – ipotetici – dei fogli che non risultano numerati.

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Foglio (63) non numerato: (bianco). Fogli 68-76: re Roberto: 68r: (bianco); opere di Petrarca citate: f. 69v: F (r. 32); f. 75v: M (rr. 7-8); 76v: Africa (r. 15), F (rr. 16-17, 23, 27). Foglio 77 recto: Landino + testo; Mateo Palmier + testo; verso: Mariano Genazano; Pandolfo ; Malatesta da Rimino + testo; Baptista Alberti + testo. Foglio 78 recto: Michelaccio; Zanobi Acciaioli + testo; verso: Bernardino da Sena; Marsilio + testo. Foglio 79 recto: Caterina da Sena; verso: B. da Montefeltro; fra Thomassuccio + testo. Foglio 80 recto: Jacobo della Marcha; Fra Jacopone; verso: s. d’unico (?). Foglio 81 recto: Iusto de Valmontone + testo; verso: cornazzano. Foglio 82 recto: Poliziano; verso: Lorenzo de’ Medici. Foglio (83) non numerato recto: Luigi Pulci; verso: Fatio. Foglio (84) non numerato recto: Federico Vesco di Foligno ; verso: Colecta. Foglio (85) non numerato recto: Carbon; verso: Cingulo + testo. Foglio 86 recto: Seraphino + testo; verso: Augustino da Urbino; Mateo Brocardo; Burchello + testo. Foglio 87 recto: Burchello + testo [cassato: Matteo Maria]; verso: Burchello + testo. Foglio 88 recto: Burchello + testo; Lorenzo Spirito; verso: Elisio Calentio + testo. Foglio 89 recto: Philelpho primo + testo; verso: Mario Philelpho secondo. Foglio 90 recto: Johanni da lenzina + testo; Quercente; verso: Alfonso da benediva (?). Foglio 91 recto: Diego (ursino)(?); verso: Moner. Foglio 92 recto: Baccio Ugolino; verso: Alberto Orlando + testo. Foglio 93 recto: seco fior … (?); verso: Bernardo Alcinio + testo. Foglio non numerata recto: Cosmico; verso: (bianco).

V Fascicolo: Fogli tagliati — Foglio 104 Foglio 107 recto: due versi, e alcuni appunti linguistici e di lavoro; verso: Philostrato, Plutarco, Dione, Plinio e Cornelio, Petrarca; appunti linguistici e di lavoro. Foglio 94 recto: Pistoia; verso: Johanni Agabito + testo. Foglio 95-(96-97) non numerati: (bianchi). Foglio (98) non numerato recto: titolo: «Vivono» [sic; cassato: «Egidio Thibaldeo»]; verso: (bianco). Fogli (99-100r) non numerati: (bianchi). Foglio 100 verso: Gianorbo + testo; Octavio da Fano (?). Foglio 101 recto: (bianco); verso: Quarqualio + testo. Ciriaco d’Ancona + testo.

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Foglio 102 recto: Celio, Guitton frate d’Arezzo, Arnaldo, Guido Guinicelli, Guido Cavalcanti, Folco, Danti, Cino, Cicco d’Asculi, Roberto re, honesto bo(lognese); verso: (bianco). Foglio 104 recto66: «Hoggi/ Jacobo Salazzaro [sic]. Tibaldeo. Piceno [Benedetto da Cingoli, m. Siena, 1495]. Calmeta/ l’unico [Bernardo Accolti, 1458-1535]. Beneveni [Girolamo Benivieni, Firenze, 1453-1542]. Baccio [Bartolomeo Ugolino, m. 1494]. Cortese [Paolo Cortese, Roma, 1465 — S. Gimignano, 1510]. Chariteo/ Ant(oni)o da Ferrara [forse attivo alla corte di Isabella d’Este tra il 1508 e il 1512]. J. dell’enzina [Juan del Encina, Encina, Salamanca, 1469 — Leòn, 1529]. Thimoteo [T. Bendedei, Ferrara, ca. 1447 — Reggio, 1522]. Paulio (?)/ Constantino (?). Antonecto Fregoso [Carrara, ca. 1460 — ca. 1530]. Marco [M. Cavallo, Ancona, XV sec. ex.-Roma, 1524]. Carbo(n) [Girolamo Carbone, Napoli, ? — m. 1528]/ Cynthio [forse Pietro Leone da Ceneda, medico del Magnifico e accademico romano]. Cornelio (?). Charisendo [Giovanni Andrea Garisendi, Bologna, ca. 1470-1525]. Alceo (?). Johan/ Franc(esc)o Caracciolo [Napoli, n. tra 1435 e 1440 — m. prima del 1506]. Egidio [da Viterbo, 1469 — Roma, 1532]. Rustico ro[mano] [Giuliano Perleoni, Roma, XV secolo]. Bilancio(n) [forse Bernardo Bellincioni, Firenze, 1452 — Milano, 1492]/ Saxo [Panfilo Sasso, Modena, 1455 — Forlì, 1527]. Janni orbo [Giovanni cieco da Parma, attivo alle corti di Ferrara e Mantova nel XV sec. ex.]. Lapuccin (?). Ang(e)lo Galli [Urbino, m. prima del 1459]./ Dolphi da Bologna [Floriano Dolfi, Bologna, ca. 1445 — 1506]. Quarqualio [Cherubino Q., n. a S. Gimignano, contemporaneo e amico di Ficino, del Cortesio e dell’Ugolino]. et altri spagnoli. San pero ad vi(n)cula [Galeotto della Rovere, m. 1508]. Alex(andr)o amati (?)/ et q(ui) raconta la nostra academia67. Frate Enea [Enea Irpino, rimatore petrarchesco, n. a Parma, e morto nel 1530]/ Gravina fallito [sic; Catania, ca. 1453 — Conca d’Abruzzo, 1528]. bembo: baldesar de Castiglione./ Cesar conzaga, Ciriaco d’Ancona antiquario [Ciriaco di Filippo Pizzicolli, Ancona, 1391 — Cremona, 1452]/ Joh(ann)i Agabito [bibliotecario di Federico da Montefeltro: sec. metà XV sec, Urbino]. Franc(esc)o Colotio. Cesarini(?)/ Bramante architechto. Pistoia giovine [Antonio Cammelli, Pistoia, 1436 — Mantova, 1502]/ thomasso rosello (?). Ant(oni)o Constantio [forse Antonio Costanzio, Fano, 1436-1490, allievo, tra l’altro, di Ciriaco d’Ancona]. Pontio da Missina (?). la rosa (i(n) francia?)

66 Allego, tra parentesi quadre, qualche essenziale notazione anagrafica per ciascuno dei personaggi meno noti qui di seguito citati, che mi è stato possibile identificare. 67 Difficile dire a che cosa Colocci alluda con l’espressione «nostra academia»: si potrà

immaginare che essa si riferisca alla Accademia Coriciana, di cui – ma solo per un breve periodo – Colocci fece parte (e si veda in proposito UBALDINI — FANELLI ad indicem), o più probabilmente al sodalizio di umanisti che si era formato intorno a lui – e in qualche misura in antagonismo con quello del Goritz (cfr. BOLOGNA, Colocci e l’Arte cit., pp. 376-379) – e che nei suoi giardini e palazzi si ritrovava (un’interessante lettera del Sadoleto ne dà notizia; cfr. UBALDINI — FANELLI, pp. 65-75 e spec. nt. 107).

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cinico [Giovanni Marco Cinico, calligrafo e tipografo, Parma, 1430 — Napoli, dopo il 1503]/ fabio Vigile»; verso: (bianco). Foglio (105) non numerato: (bianco).

II Fascicolazione del ms. Vat. lat. 4831 Primo Fascicolo 1 nf68 2 nf 3 nf 4 nf 5 nf 6 RI Secondo Fascicolo 7 nf 8 St↑ 9 St↓ 10 nf 11 nf 12 nf

68 Le sigle che accompagnano i numeri di foglio si riferiscono alle filigrane di questi (e le frecce al verso delle stesse): si veda in merito la nt. 4. Qui mi limito a precisare che «nf» indica l’assenza di filigrana; «RI», la filigrana a sigla di cui si è detto; «St» la «stadera entro circolo»; «Qsc» il «quadrupede sormontato da scudo in un cerchio»; «Cl», la filigrana con «cinque mezzelune in un cerchio»; «S» la «sirena»; «F4», il non identificato fiore a quattro petali.

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Terzo Fascicolo

13 nf 14 nf 15 nf 16 Qsc ↓ 17 nf 18 nf 19 nf 20 nf 21 nf 22 Cl ↓ 23 nf 24 nf 25 nf 26 nf 27 Qsc ↓ 28 Cl ↓ 29 nf 30 nf

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Quarto fascicolo 31 S↑ 32 S↑ 33 S↓ 34 S↓ 35 nf 36 S 37 nf 38 nf 39 nf 40 S↓ 41 S↓ 42 S↓ (nn. 43) nf (nn. 44) S↓ 45 nf 46 nf 47 S↑ 48 S↓ 49 nf 50 nf 51 nf 52 S↑ 53 S↑ 54 S↓ 55 nf 56 nf 57 S↓ 58 S↓ 61 S↓ 59 nf 60 F4 (nn. 62?) nf (nn. 63?) nf [64] [65] [66] [67] 68 nf 69 nf 70 nf 71 nf 72 nf 73 nf 74 nf 75 nf 76 nf 77 nf 78 nf 79 nf 80 nf 81 nf 82 nf (nn. 83) nf (nn. 84) nf (nn. 85) nf 86 nf 87 nf 88 nf 89 nf 90 nf 91 nf (nn. 92) nf 93 nf (nn.?) nf

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MARCO BERNARDI

Quinto Fascicolo I II III ... IV V VI VII VIII IX X XI XII (nn. ?) nf 107 nf 94 nf 95 nf (nn. 96) nf (nn. 97) nf (nn. 98) nf (nn. 99) nf (nn. 100) nf 101 nf 102 nf [103] 104 nf (nn. 105) nf risguardo (guardia libera) guardia incollata [106?]

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INTORNO ALLO ZIBALDONE COLOCCIANO VAT. LAT. 4831

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Fig. 1 — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4831 f. 102r.

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MARCO BERNARDI

Fig. 2 — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4831 f. 104r.

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INTORNO ALLO ZIBALDONE COLOCCIANO VAT. LAT. 4831

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Fig. 3 — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4831 f. 10r.

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NADIA CANNATA

IL PRIMO TRATTATO CINQUECENTESCO DI STORIA POETICA E LINGUISTICA: LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI ANGELO COLOCCI (MS VAT. LAT. 4831) «Lo storico sa che tutte le storie possibili sono contenute nel passato, la maggior parte ancora da scrivere e che non giungeranno mai ad essere scritte, sa bene che il passato è il nome corrente che diamo a ciò che io preferirei chiamare tempo informe, e che il compito che gli spetta, come storico, è proprio quello di trasformare quel tempo senza forma in storia che sempre ci sarà trasmessa come quel che di fatto è, una particella organizzata del passato, una scelta, una selezione, un’antologia, un accomodamento di fatti e circostanze.»1 JOSÉ SARAMAGO

1. Tre testimoni del pensiero linguistico di Angelo Colocci La Biblioteca Vaticana conserva tre manoscritti, segnati Vat. lat. 4831, Vat. lat. 3450 e Vat. lat. 4817, nei quali riposano, in grande disordine formale, senza data e apparentemente fuori da un contesto immediatamente riconoscibile, le elaborazioni successive di alcune opere relative alla storia della grammatica, della metrica e della lingua italiana la cui natura ricorda come un riflesso dello specchio il tempo informe di cui parla Saramago. Si tratta di testimonianze del passato, senza dubbio, ma di un passato dal quale fino ad ora non è riuscito di fare emergere la traccia della storia di cui pure esse fanno parte, cioè la storia della lingua, della coscienza linguistica, della filologia e della letteratura italiana. I tre manoscritti sono noti alla critica, alcuni, come il Vat. lat. 4817 addirittura notissimi e tuttavia in qualche misura ancora muti, perché privi di una collocazione nel tempo e nell’evoluzione del pensiero linguistico di Colocci e dei suoi contemporanei. I tre codici sono databili entro un periodo che va dai primissimi anni del Cinquecento al 1525 circa, 1 J. SARAMAGO, Dimenticare: il “buco nero” della galassia umana Lectio doctoralis tenuta il 21 novembre 2002 a Siena in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Lingua e Cultura Italiana presso l’Università per Stranieri di Siena (traduzione di Rita Desti).

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NADIA CANNATA

cioè nei decenni della nascita della letteratura e lingua italiana. Il meno noto e meno studiato dei tre conserva un trattatello che merita, mi pare, uno studio specifico, dal momento che si tratta del primo testo, dopo il De Vulgari Eloquentia, che tratti la storia della poesia volgare discutendo nel contempo anche delle qualità linguistiche del volgare. I manoscritti Vat. lat. 3450 e Vat. lat. 4817 sono invece dedicati a questioni di metrica, linguistica e dialettologia. Dico subito, prima di esaminare nel dettaglio la natura e il contenuto degli appunti contenuti nel primo dei tre codici, il Vat. lat. 4831, e di avanzare ipotesi per la sua datazione, che i manoscrittti sembrano databili con buona verosimiglianza in termini relativi. Nel Vat. lat. 4831 Colocci, come vedremo, dichiara l’intenzione di raccogliere testi che oggi si leggono nel Vat. lat. 3450 il quale a mio giudizio precede a sua volta (almeno per la maggioranza degli appunti che vi sono conservati) le annotazioni del Vat. lat. 4817. Nel Vat. lat. 3450, ai ff. 149r-v e 165r, si legge, ad esempio, una prima versione del cosiddetto «notamento colocciano» poi elaborata in quella oggi nota e conservata ai ff. 171r-172r del Vat. lat. 4817. Questa versione del «notamento» si occupa di metrica e da essa mancano completamente le ricche osservazioni linguistiche che introducono il brano nel Vat. lat. 4817; inoltre il testo è stato depennato da Colocci, il quale d’abitudine cassava i suoi appunti quando li copiava o rielaborava altrove. Trascrivo di seguito il testo conservato nel Vat. lat. 34502: [f. 149r; attuale f. 90r] li uersi erano de 15 syllabe appar/ apresso Suet(oni)o d(e) luxuria cesaris/ urbani seruate uxores moechu(m) Gallu(m) adducim(us)/ auro i(n) Gallis emisti: hic sumpsisti mutuu(m)3/ ss 15/ et e disticho sec(und)o Suet(oni)o/ Rosa fresca aulentiss(ima) ch(e) uene i(n) uer lastate/ Trageme deste focora si teste abolo(n)tate/ solo e d(iuisio)ne del dactylo ch(e) chi uolgesse/ et dicesse così/ Tu ueni i(n) uer lastate fresca rosa aulentiss(ima)/ si teste abolo(n)tate trageme deste focora/ et era disticho anchora ch(e) si scriue/ssero i(n) 4 uersi u(idelic)et dui septenarij/ et dui octonarij et pone exe(m)plu(m)/ cesaris et siculi u(idelicet)/ urbani seruate uxores/ mechu(m) Gallu(m) adducimus/ […]

2 Trascrivo il testo diplomaticamente. Per tutte le altre citazioni dai manoscritti ho in-

vece adottato una trascrizione interpretativa, ho cioè sciolto le abbreviazioni, distinto u e v e inserito i segni interpuntivi indispensabili. 3 Si tratta di una versione del distico citato da SUETONIO, De Vita Caesarum, lib. I, Divus

Iulius LI, 1: «Urbani, servate uxores: moechum calvum adducimus/ aurum in Gallia effutuisti, hic sumpsisti mutuum».

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LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI COLOCCI

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[f. 149v; attuale f. 90v] Benche alcuni alcuni [sic] autori christiani contano/ il uerso di .16. syllabe/ il che saria q(ua)n(do) si ponesse il datylo i(n) ult(im)o/ Rosa fresca aulentiss(ima) ch(e) fai lastate nasce[re] [sic]/ syll. 16/ Nota ch(e) Dante scripse d(e) num(er)o sylla/ barum et uersuu(m)/ […] [f. 150r; attuale f. 91r] Et se alcuni uersi i(n) Rhyt(mis) suis cantiones passassero/ 15. syllabe no(n) e fuor di p(re)cepto d(e) Alcuni scriptori/ di Rhyth(mi) come andrea Colot[io] c(he) (con)stituiscono/ li uersi di 16 syllabe/ […] [f. 164v; attuale f. 101v] Quella sicil [aggiunto nell’interlinea] uirgo beata aiutami ch(e) no(n) perisca atorto/ e nata da giochi triomfali et hymni christi/ani ponendo et(iam) nel primo hemistichio lo dactylo/ p(er) spondeo et fassene dui septenari/ […] [f. 165r; attuale f. 102r] Nota ch(e) li uersi erano di syllabe 15 ut s(upra)/ i(n) pri(n)cipio hui(u)s libri ap(ud) Ro[manos] Suet(oni)o de luxuria/ cesaris chiama disticho q(ue)sto/ Urbani seruate uxores mechu(m) gallu(m) adducim(u)s/ Auro i(n) gallis stupru(m) emisti hic sumpsisti mutuu(m)/ Et li siculi/ Rosa fresca aulentissima ch(e) uene i(n) uer lastate/ Tragemi deste focora si teste abolo(n)tate/ Disticho et q(ui) di de clausula/ et co(n) q(ue)llo di cesare no(n) ui e altra d(iuisio)ne se no(n)/ pone(n)[do] lo sdrucciolo hemistichio prima u(idelic)et/ Si teste abolo(n)tate Tragemi deste focora/ Tu ueni i(n) uer la state rosa fresca aule(n)tiss(ima)/ et e disticho et(iam) ch(e) si scriua i(n) 4 uersi u(idelic)et dui septenarij et dui octonarij hoc pacto/ urbani seruate uxores/ Mechu(m) Gallu(m) adducimus/ Auro i(n) Gallis stupru(m) emisti/ Hic sumpsisti mutuu(m)4

In questi appunti, come si è visto, Colocci cita il De Vulgari Eloquentia (d’ora in poi DVE) con una formula che appare curiosa, quasi che non ne conoscesse il primo libro e sapesse del secondo solo per sentito dire. Negli anni in cui scrisse il Vat. lat. 4831 Colocci ignorava del tutto il trattato dantesco; ma nel periodo in cui lavorò agli appunti conservati nel Vat. lat. 4817 egli ebbe sicuramente a disposizione il manoscritto del De Vulgari che apparteneva a Trissino, perché ne copiò di sua mano brani tratti dai capp. ix e x del II libro. In quel periodo Colocci conosceva bene anche il primo libro come risulta, ad esempio, da un appunto al f. 54r:

4 La riproduzione fotografica del «notamento» si trova in E. MONACI, Archivio Paleografico Italiano, I, Roma 1882-1897, Tavv. 12-13. C. BOLOGNA, La copia colocciana del canzoniere Vaticano (Vat. Lat. 4823), in I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-152, alle pp. 132-133 pubblica una trascrizione del «notamento» e, a p. 135 quella di un appunto dal f. 125v del Vat. lat. 4817 che riproduce quasi verbatim l’appunto di f. 150r del Vat. lat. 3450. Bologna segnala inoltre a p. 131 del suo articolo un rimando di Colocci al distico di Svetonio che si legge a f. 67r del Vat. lat. 4823 in corrispondenza dell’incipit di Rosa fresca aulentissima.

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NADIA CANNATA

Et in questo redarguiste dante che danna le lingue marchian pugliese circa le parole et non vede che le metaphore più importano quali hanno ad esser comuni ad tucta Italia

in cui si riconosce la citazione da DVE I, xii, 65; e da un appunto di poco seguente, «Roma douelle ubi est tuscia oue’è» dove si registra un uso linguistico già segnalato in DVE I, xiii, 26. Infine, i riferimenti nel Vat. lat. 4817 ad Equicola, a Trissino – chiamato in causa direttamente in almeno quattro luoghi7 – e alcuni puntuali rilievi alle osservazioni grammaticali del III libro delle Prose di Bembo8 indicano chiaramente che il manoscritto – come del resto già notato da Debenedetti sulla base di altre considerazioni – non è in nessun modo anteriore al 15259. 2. Contenuto e fonti del manoscritto Vat. lat. 4831 Il manoscritto Vat. lat. 4831 è un codicetto miscellaneo, di formato oblungo, alto e stretto, prevalentemente ma non esclusivamente autografo di Colocci e costituito da sei fascicoli di fogli numerati in modo

5 «Apuli quoque, vel a sui acerbitate, vel finitorum suorum contiguitate, qui Romani et Marchiani sunt, turpiter barbarizant. Dicunt enim, Volzera che chiangesse lo quatraro». 6 «Aretini: Vo’ tu venire ouelle?». 7 Ff. 2v, 4r, 62v, 132v. 8 F. 53r riguardo ad un rimprovero mosso all’Ariosto per l’uso di forsi vs. forse: argomento trattato in Prose della volgar lingua III, lxxvii: «Dicesi forse, che così si pose sempre dagli antichi. Forsi, che poi si è detta alcuna volta da quelli del nostro secolo, non dissero essi giamai». A f. 3r a proposito delle forme «in la» e «ne la» Colocci osserva che va preferita «in la» e a f. 62v mentre osserva che alcune parti di Italia solamente dicono «in la» adduce come esempio Rerum Vulgarium Fragmenta, 287 riferendosi, parrebbe, al v. 10 «Ma ben ti priego che ’n la terza spera» che anche Bembo cita, ma a supporto della tesi opposta, nelle Prose, III; 58 sostenendo che esso andrebbe emendato in «Ma ben ti prego, ne la terza spera». 9 S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in Zeitschrift für Romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93 ora in ID., Studi filologici. Con una nota di Cesare Segre, Milano 1986, pp. 169-208; V. FANELLI, Angelo Colocci e Cecco d’Ascoli, in Rinascimento, 2a serie, 8 (1968), pp. 331-349 ora in ID., Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979, pp. 182-205, ritiene il Vat. lat. 4831 posteriore al Vat. lat. 4817; R. AVESANI, Appunti del Colocci sulla poesia mediolatina, in Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci. (Jesi, 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 109-132 giudica i fogli relativi a problemi metrici del Vat. lat. 3450 e del Vat. lat. 4817 avere la stessa provenienza di quelle che costituiscono il Vat. lat. 4817, il che sembra verosimile, ma è – in realtà – assai difficile da dimostrare.

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LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI COLOCCI

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continuo da Colocci stesso, segno che esso fu legato nella forma che oggi gli conosciamo già in origine10. Il codice contiene, nel primo fascicolo, due composizioni poetiche in terzine, un’ecloga e un capitolo attribuibili a Colocci stesso; ai ff. 7-12 alcuni appunti di mano di Colocci desunti dal testo volgarizzato del De Amore di Andrea Cappellano11; ai ff. 13-30 l’indice, ordinato alfabeticamente, di un manoscritto di poesie in volgare, che doveva contare 170 fogli e che conservava 668 componimenti, 242 dei quali – più di un terzo – appartenenti sicuramente al Tebaldeo e provenienti, salvo un paio di eccezioni, tutti dai suoi autografi 12. 10 Fornisco qui una descrizione sommaria del manoscritto: Cartaceo, sec. XVI in. (probabilmente prima del 1508), mm. 294 × 110, ff. 107 numerati da un’unica mano, attribuibile ad Angelo Colocci; i ff. 43-44 risultano non numerati, f. 61 è legato erroneamente davanti a f. 59, f. 62 è seguito da due ff. n. num., la num. riprende a f. 68, ff. 83-85 n. num., f. 92 n. num., f. 94 risulta non numerato ed è seguito da un f. num. 94, ff. 96-100 n. num., 105 n. num., 106-107 legati erroneamente prima di f. 94. Fascicolazione: I (ff. 1-6), II (ff. 7-12), III (ff. 13-30), IV (ff. 31-[94]), V (ff. 94-105 mutilo dei primi 11), VI (ff. 106-107). Il manoscritto è stato esemplato principalmente in una caratteristica umanistica corsiva dall’andamento rapido e nervoso, identificabile senz’altro nella mano di Angelo Colocci. Il testo contenuto ai ff. 14r-29r si deve ad una diversa mano che scrive in un’elegante italica; nei primi 11 ff. del fasc. V e nei primi due righi del f. 107r sono intervenute una terza e forse una quarta mano che adoperano una corsiva coeva. Legatura in pelle chiara su assi di cartone, sul dorso la segnatura e lo stemma della Biblioteca Apostolica Vaticana. Contenuto: f. 1r-v adespoto e anepigrafo il capitolo Vorria poter com’io giurai lassarte; expl. Ch’io non mi parto per pinsier ch’io feci; ff. 2r-5v ecloga, interlocutori Corydo e Uranio, Inc.: Dapoi che semo in queste verde pratora; expl. illegibile (rifilato); f. 6 bianco; f. 7 intitolato Gualteri, bianco; f. 8 bianco; ff. 9r-12v excerpta da un volgarizzamento del De amore di Andrea Cappellano; f. 12v bianco; f. 13r porta al centro del margine superiore l’annotazione copiati che si riferisce probabilmente ai componimenti contenuti nell’indice che segue; di traverso, al centro della pagina si legge «proper(tius)» e a seguire Elegiae, II, 19, vv. 21-22, sotto, «Ovi in 5 fast.» e a seguire OVIDIO, Fasti, V, 175-176; f. 13v bianco; ff. 14r-29r: un indice contenente 668 incipit di rime in volgare per larga parte attribuibili al Tebaldeo; ff. 29v-30r bianchi; f. 30v intitolato «Amantes», bianco; ff. 31r-107: il testo delle Annotationi sul vulgare ydioma di Angelo Colocci. L’unico luogo di conservazione del codice noto è la Biblioteca Apostolica Vaticana. 11 Devo queste due notizie alla cortesia di Marco Bernardi che si è laureato presso l’Università di Torino con una tesi sul codice. Nella sua comunicazione tenutasi nell’ambito del seminario coordinato da Corrado Bologna nel marzo 2003 presso l’Università di Roma “La Sapienza” egli ha attribuito a Colocci, con ottimi argomenti, i due componimenti in terzine e identificato come provenienti dal De Amore i passi trascritti ai ff. 7-12 (si veda in proposito, in questo volume, M. BERNARDI, Intorno allo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831 e ora ID., La (s)fortuna del De Amore nel primo Cinquecento italiano e un inedito documento colocciano, in L’immagine riflessa 15 (2006), pp. 1-36). 12 La testimonianza fotografa un manoscritto straordinario per mole e unitarietà di contenuto: non esiste, infatti, fra i codici di rime volgari conservati, databili a cavallo fra Quattro e Cinquecento, un testimone che contenga tutte le rime qui elencate; le uniche at-

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NADIA CANNATA

Ai ff. 31-94 del codice si trova l’impianto, per così dire, di una breve storia della poesia romanza dalle origini al Quattrocento, costituito da una raccolta di annotazioni, interamente autografa di Colocci, corredata di alcune interessanti considerazioni sulla lingua. Si tratta, come spesso negli autografi colocciani, di appunti che durante la scrittura diventano sempre più confusi e lacunosi e ai quali si aggiungono nel tempo (come nel caso delle notazioni linguistiche di questo codice) materiali che arricchiscono l’impostazione originaria del lavoro. La storia che Colocci abbozza muove dai provenzali, ignora i siciliani, tratta Petrarca e alcuni autori a lui cari – Tommaso da Messina (Tommaso Caloiro), Socrate, (Ludwig van Kempen) e Sennuccio del Bene – e di seguito la grande tradizione bolognese e fiorentina, Guinizelli, Cavalcanti, Dante e Cino. L’autore raccoglie inoltre le poche o pochissime informazioni disponibili relative a Bonagiunta e Guittone e predispone spazi da riempire in futuro con la discussione delle opere di Francesco da Barberino e Onesto da Bologna. Ampie sezioni del codice sono inoltre dedicate a Re Roberto e Cecco d’Ascoli e vanno ad occupare anche la zona del codice pensata in origine per gli autori del Quattrocento. Qui Colocci elenca, talvolta sembrerebbe anche un po’ alla rinfusa, sia autori squisitamente fiorentini – Cristoforo Landino, Matteo Palmieri, Zanobi Acciaiuoli, Leon Battista Alberti, Poliziano, Lorenzo dei Medici, Luigi Pulci, Marsilio Ficino – sia gli autori di quella poesia fiorita nell’Italia centrale e coltivata fra Roma, Napoli, l’Umbria e le Marche a cui egli si sentiva molto vicino e che studiò con passione: Giusto dei Conti, Carbone, Benedetto da Cingoli, Bernardo Ilicino, Serafino Aquilano, naturalmente, Agostino Staccoli, Lorenzo Spirito, Elisio Calenzio, Baccio Ugolini, Fabio Vigile e il vescovo di Foligno Federico Frezzi. Quanto ai cosiddetti poeti cortigiani, Colocci approntò pagine per i soli Cornazzano, Cosmico e Quercente. Una citazione hanno i due Filelfo, Francesco e suo figlio Mario13 e alcuni poeti minimi, o comunque a tribuibili appartengono al Tebaldeo a cui sono tentata di attribuire l’intero corpus in base al fatto che in esso sono compresi incipit di componimenti che sappiamo Tebaldeo scrisse ma che non si sono conservati: fra di essi le corone di componimenti per la marchesa di Crotone, dama di compagnia di Isabella d’Este e la Sigismondea. 13 Mario Filelfo (1426-1480), citò nella sua Vita di Dante un incipit, probabilmente inventato, del De Vulgari Eloquentia. La vita, conservata nel codice Laur. Plut. LXV n. 50, è stata pubblicata in Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, raccolte da A. SOLERTI, Milano 1904, pp. 159-185. In essa Filelfo afferma (p. 183) : «Edidit vero Dantes et cantiones, et sonettos, quos vulgus appellat, quam plurimos. Sed cantionibus vicit ceteros omnes rhythmorum magistros, et ea in primis, qua sic incoepit, ut eius interpreter versum initii O cui vis superis, Amor, est data fortis ab armis» [traduzione di Amor che movi tua virtù dal cielo, citata in DVE II, 5]. Segue la citazione di Est labor hic triplex,

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LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI COLOCCI

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noi oggi sconosciuti, ma cari alla famiglia di Colocci: Giovanni Agabito da Sassoferrato e Alberto Orlando cancelliere di Ascoli e familiare del nonno di Colocci, anch’egli a nome Angelo. Sparse fra queste biografie o abbozzi o anche solo progetti di biografie a venire, sono brevi noterelle relative ad altri autori del Trecento volgare: Caterina da Siena, Bernardino da Siena, B. da Montefeltro, un fra’ Tommasuccio da Foligno, Iacopo della Marca, Iacopone da Todi. Fra i nomi a me del tutto sconosciuti compaiono un Alfonso Benediva e un Diego Orsini. A f. 91v si trova la prima menzione di Francisco de Moner, poeta catalano nato nel 1462 e morto nel 1491 che fu buon amico del Cariteo. Colocci tradusse in epoca imprecisata due suoi romanzi, scritti originariamente in catalano e castigliano: testi e traduzioni in volgare si conservano ancora presso la Biblioteca Vaticana rispettivamente nel Vat. lat. 4802 e nel Vat. lat. 481814. Ai ff. 94-107 si trova un fascicolo originariamente di 24 ff. oggi mutilo dei primi 11 che furono tagliati via di netto. Impossibile risalire al loro contenuto, ma da quel che rimane si intravvede un testo in volgare, probabilmente di argomento vicino al trattatello. Gli ultimi quattordici fogli del fascicolo, numerati 94-107, sono dedicati a poeti contemporanei viventi; essi contengono inoltre altri due elenchi di nomi di poeti di particolare interesse: al f. 102r poeti antichi fra i quali anche un «celio» e, al f. 104r, un elenco di poeti contemporanei molto utile per la datazione dell’intero trattatello. Su entrambi gli elenchi tornerò più avanti. Come si vede, dunque, in questo breve testo si sintetizza una storia di varie esperienze poetiche in diverse lingue: non la sola lirica amorosa e nemmeno solo la poesia di tradizione toscana, ma le espressioni di autori, epoche, ispirazioni e lingue fra le più varie, tenute insieme, si direbbe, dai personali interessi e affetti di Colocci, ma soprattutto dall’uso di volgari romanzi. Per molte delle informazioni contenute nel codice è possibile una prima identificazione delle fonti. Il trattatello, per il suo nucleo princime tres adiere puellae [trad. di Tre donne intorno al cor mi son venute] e infine O quibus est certus, dominae, iam sensus amoris, ovvero Donne che avete intelletto d’amore citata in DVE II, 8. Mette in sospetto la citazione di canzoni citate anche nel II libro del De Vulgari, ma potrebbe essere una coincidenza. Più avanti, nell’elenco delle opere di Dante, Filelfo cita il De Monarchia, di cui dà un incipit sbagliato (o inventato); una serie di opere immaginarie e il De Vulgari Eloquentia con il seguente incipit: «Ut Romana lingua in totum est orbem nobilitata terrarum, ita nostri cupiunt nobilitare suam; proptereaque difficilius est hodie recte nostra quam perite latina quidquam dicere». 14 Su Moner e sulle traduzioni di Colocci si veda J. SCUDIERI RUGGIERI, Le traduzioni di

Angelo Colocci dal castigliano e dal catalano, in Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci cit., pp. 177-196.

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NADIA CANNATA

pale, si apre con la sezione intitolata «Amantes». I primi autori in elenco sono Folchetto da Marsiglia e forse Arnaldo di Villanova, dei quali vengono fornite alcune informazioni biografiche, poi ci sono due Peire, primo e secondo, un «Raimbaldo primo» e ad un «Raimbaldo sec° pictore» di cui si dice che «canto beatrice in monferrato», Peire d’Alvernha «el vechio»; e poi «Giraldo», Giaufré Rudel – a ciascuno dei quali è dedicata una pagina, rimasta però bianca o con alcune, brevissime, annotazioni. Segue «Guillielmo dal tino» del quale invece Colocci ha molte notizie, interamente derivate – lo dice lui stesso – dal suo conterraneo Battista Caccialupi, giurista morto nel 1496, ma da lui conosciuto personalmente15, e infine un «Amerigo», un «bernardo», un «Ugo» ed un «Anselmo» per i quali pure Colocci aveva approntato una pagina in seguito rimasta bianca16. Non è difficile riconoscere la fonte di questa sequenza nel cap. IV del Triumphus Cupidinis, (vv. 42 e sgg.) al quale Colocci si riferisce chiamandolo in due luoghi il «catalogo»17, e che si direbbe abbia ispirato finanche il titolo della sezione iniziale: Eranvi quei ch’Amor sì leve afferra: l’un Piero e l’altro, e ’l men famoso Arnaldo; e quei che fur conquisi con più guerra: i’ dico l’uno e l’altro Raymbaldo che cantò pur Beatrice e Monferrato, e ’l vecchio Pier d’Alvernia con Giraldo; Folco, que’ che a Marsilia il nome à dato Ed a Genova tolto, ed a l’extremo Cangiò per miglior patria habito e stato; Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ’l remo 15 Giovan Battista Caccialupi (S. Severino Marche 1420 ca. — Roma 1496), giurista, erudito, conoscitore – secondo i suoi contemporanei – di antichi e moderni scrittori legali, avvocato concistoriale a Roma, fu forse una delle prime conoscenze romane di Colocci. Citato a f. 40r a proposito di Guglielmo dal Tino, ricorre nuovamente a f. 46r come fonte di notizie su Ludwig van Kempen, e ai ff. 52v e 53r a proposito di Cino. Caccialupi è inoltre citato nel Vat. lat. 3450 come fonte di una facezia sul prete di Lucignano riportata al f. 7r della raccolta; presumibilmente sempre da Caccialupi fu raccontata la facezia indicizzata a f. 78v del codice come «De castellano et notario et caccialupo». 16 Le annotazioni sui poeti provenzali, contenute ai fogli 31-44 sono parzialmente edite in S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995 [Torino 19111], pp. 211-214. 17 A f. 45r «Thomasso da Messina che ornò Bologna et morì in patria et ad questo scrive più epistole el petrarca et nota nella vita che partendo da Bologna dopo le lassate leggi Thomasso lo aiutò per il viaggio ad gire in avignone. Quanto fusse grato el petrarca vedasi nel catalogo in quella esclamation fugace dolcezza o viver lasso»; e ancora al f. 46r: «et poi ne ho visto alcune rime da non dispiacere pur per non esser nel catalogo de poeti materni del petrarca enscripto io non mi extenderò più oltra» (corsivi miei).

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LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI COLOCCI

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A cercar la sua morte, e quel Guillielmo Che per cantar à ’l fior de suoi dì scemo; Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo E molti altri ne vidi, a cui la lingua Lancia e spada fu sempre, e targia ed elmo.

Nei versi immediatamente seguenti a quelli citati, Petrarca ricordava Tommaso da Messina, Socrate e Lelio18 che aprono, in questo medesimo ordine, la sezione seguente del manoscritto, intitolata «Nostri». «Ornò Bologna» chiosa Colocci in apertura del brano dedicato a Tommaso da Messina e poi ricorda le molte epistole Familiari che Petrarca gli aveva indirizzato e, in particolare, la 58 (IV, 10 secondo la numerazione per libri usata modernamente) inviata a Pellegrino Caloiro in cui si piange la morte di Tommaso, e la 33, (III, 7) nella quale Tommaso sarebbe chiamato consigliere di un re, Re Roberto secondo Colocci. Secondo la testimonianza concorde delle rubriche dei manoscritti appartenenti al ramo a della tradizione, l’epistola III, 7 sarebbe, per la verità, indirizzata a Paganino da Bizzozzero, primo podestà di Parma, morto di peste nel 1349, e perciò il re di cui il destinatario era consigliere sarebbe stato Luchino Visconti. Tuttavia, secondo l’edizione V – evidentemente quella a cui apparteneva il testo posseduto da Colocci – essa era diretta ad un non meglio identificato «regius consultor». Secondo Fracassetti19, la lettera sarebbe stata scritta a Dionigi da Borgo S. Sepolcro, e il «verus rex» di cui si parla nella lettera sarebbe proprio Roberto d’Angiò, ma Colocci interpretò altrimenti la generica indicazione del destinatario che identificò invece con Tommaso20. L’edizione delle Familiares di Colocci, 18 Tommaso, nato a Messina nel 1302 e morto nel 1341, diffuse in Sicilia la poesia di Petrarca; Lello di Pietro Stefano dei Tosetti, conosciuto da Petrarca nel 1330, morì nel 1363. 19 Cfr. V. ROSSI nell’Introduzione alla sua edizione delle Familiares, Firenze 1933, p. CLXII. 20 Questo, comunque, il passo dell’epistola a cui allude Colocci: «Sane, quoniam pru-

dentis est non tam quid delectet quam quid expediat advertere, inque hoc ipso non principia rerum sed exitus contemplari, tibi, cuius ille consiliis agitur optimo consilio, cuius de prudentia et fide dubitari nusquam sinis, tibi, inquam, amice, cui animus meus notus est, hoc rusticum forte sed fidele consilium dedisse velim, ut suadeas sibi fines suos satis patere, sive opes sive gloriam spectet. [Ma poiché l’uomo prudente bada non tanto a quanto gli può far piacere ma a quanto gli è utile e, in questo senso, a misurare il successo non dagli inizi ma dal risultato finale, io vorrei che tu, dai cui consigli egli è assai saggiamente guidato e che non fai mai dubitare della tua prudenza e lealtà; che tu, amico mio, che conosci il mio cuore, gli dessi questo consiglio, un poco grossolano forse, ma sincero: che si persuada che i suoi confini sono abbastanza estesi, sia per gloria che per potenza.]» (F. PETRARCA, Le Familiari. Libri I-IV, traduzione, note e saggio introduttivo di U. DOTTI, Urbino 1970, testo a p. 374-379, p. 376, note alle pp. 637-8).

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che purtroppo non si conserva presso la Biblioteca Vaticana, doveva essere però per lui un oggetto caro e frequentemente consultato se interpreto bene il disappunto che egli esprime quando, a f. 53r, mostrandosi incerto circa qualche notizia relativa a Cino da Pistoia, si rammarica di non poterla ritrovare perché non ha «el libro apresso di [sé]» in quel momento. Sembrerebbe insomma che, alla ricerca di notizie per abbozzare una storia della poesia dell’ultimo Trecento, Colocci sia partito dai Trionfi e dalle Familiares, in cui trovavano posto van Kempen, Lello di Pietro Stefano dei Tosetti, Tommaso da Messina e Sennuccio del Bene, personalità che poca o nessuna influenza avranno sullo sviluppo della poesia italiana posteriore, ma che avevano suscitato la sua curiosità per il giudizio positivo ed affettuoso che di essi dava Petrarca. Altre notizie Colocci le ricavò dai Rerum memorandarum libri, fonte ricca di episodi eloquenti per la descrizione della natura e del carattere dei poeti e della loro epoca e ne fece uso a proposito di Castruccio Castracani, Dante, Cecco d’Ascoli e di alcuni portenti occorsi al tempo di Arrigo VII21. Dunque una storia della poesia fatta in larga parte di curiosità aneddotiche, per soddisfare le quali Colocci ricorse ripetutamente anche alla tradizione delle facezie, di cui stava contemporaneamente approntando una raccolta, conservata – se di conservazione si può trattare in questo caso – nel Vat. lat. 3450. Il manoscritto, infatti, raccoglie nella maggioranza dei casi i soli titoli di storielle di cui manca il testo che egli conobbe, per quanto posso capire, soprattutto per tradizione orale22. Così, ad esempio, nel ms. Vat. lat. 3450, all’appunto di f. 37r del Vat. lat. 4831 in cui Colocci dà notizia di una facezia concernente Peire d’Alvernia, un abate e «il conte di provenza e pisciculi» fa riscontro il f. 62 in cui compare una facezia su un argomento simile. Analogamente, al f. 46r del Vat. lat. 4831 Colocci, parlando di Socrate, l’amico del Petrarca, cita una sua facezia su una scimmia e un anconetano e avverte che la scriverà in «oratione obliqua». Una delle cartule incollate nel Vat. lat. 3450 (f. 9r) è intitolata «De anconitano et scimia». In realtà tutta la produzione letteraria trecentesca è fonte per Colocci di informazioni sulla vita e il carattere dei poeti sui quali si appunta la 21 Per le notizie su Castruccio Castracani (Vat. lat. 4831, ff. 47v e 59v) cfr. Rer. Mem. III,

30; per Dante (f. 48r) cfr. Rer. Mem. II, 83; per Cecco d’Ascoli (f. 59r) cfr. Rer. Mem. IV, 26 e IV, 39; per i portenti (f. 59r) cfr. Rer. Mem. IV, 117. 22 Sulla collezione di facezie che Colocci aveva in animo di approntare si veda P.

SMIRAGLIA, Le «Facetiae» del Colocci, in Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci cit., pp. 221-229.

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sua attenzione; e se la Commedia è ripetutamente citata per la vita e le opere di Bonagiunta, a proposito di Cavalcanti, di cui sa pochissimo, Colocci ricorda a f. 49r del Vat. lat. 4831, «la facezia del Boccaccio», ovvero, se capisco bene, la novella VI, 9 del Decameron, dalla quale, in effetti, emerge una descrizione assai vivida ed efficace del carattere di Guido. Inoltre, sempre a proposito di Cavalcanti, egli ricorda: [f. 49r] quella canzona nobile che cita el Petrarca artificiosa docta comentata da …. [sic] Cecco d’Ascoli la reprende. Non caruit heresi in operibus suis credebat enim animam cum corpore interire sicut lucretius vide historias. Con P. de Capella tolosano poi cardinale prenestino. Tolosa alhora episcopato non eretto. Tenne amicitia coi conti di provenza che furon re de scicilia [sic]. [...] Costui col Guinicelli dice al petrarca esser stato in prezzo. Et non di poca stima. Costui fu depo Guido Guinicelli. Guido Cavalcanti fu mandato in exilio dal magistrato de danti et vide ficino nella vita et qui te poi extender della baptaglia et vide Leonardo aretino. Et Danti venne ad campo con Arrigo 7. Vide Landino anchora nel capitolo della eloquentia23.

3. Alcune riflessioni di Colocci sul volgare e ipotesi sulla loro datazione Dopo il capitolo sulla poesia delle origini si legge una originale riflessione sulla lingua, edita parzialmente nel 197224 e che pubblico qui per intero. In essa Colocci argomenta che non vi sono differenze di sostanza, inerenti alla lingua stessa, che debbano guidare la scelta da parte di autori italiani della lingua da utilizzare; in Italia, nel corso dei secoli, lingua di cultura è stato il greco, il latino, il volgare e perfino la lingua degli Sciiti. Se non mi sbaglio, si tratta di una posizione molto originale per un umanista nel primo Cinquecento; tanto più che Colocci la sostiene in ambito sia sincronico sia diacronico, fornendo esempi tratti da letterature antiche, medievali e moderne: [ff. 59r-v] Cesar fu celebrato da Ovidio in lingua scythica. Perché non dunque io debbo celebrar voi in quella lingua che ne accompagna dal dì che usciamo in questa luce infino all’extreme tenebre? Questa ne porge el lacte con le canzon della cuna, questa ne dà li exempli della vita – con questa interprete 23 Si tratta di un capitolo contenuto nel commento landiniano alla Commedia di Dante. 24 S. LATTÈS, Studi letterari e filologici di Angelo Colocci, in Atti del Convegno di studi su

Angelo Colocci cit., pp. 243-255, p. 245.

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perveniamo alla cognitione delle lettere latine, con questa alle greche. Ché invero moltissime cose conforme sono tra la lingua italiana et greci como fra la latina et greci videlicet oime bastazo et cetera, perché in Italia non hanno fioriti men greci che latini. Cominciamo da Pythagora el quale lassò el tale el tale discepolo: et nomina tucti quelli che furono suoi scholari. Aggiungesi che etiam molti Picenti molti d’Umbria andavano ad nobil Pythagora come li nobili romani alli barbari Ethrusci. Et poi Archita Archimede Platone. Sono citati da Aristotele li itali pythagorici de quali Horatio de quali Ennio che essendo italiano et havendo studiato in Grecia et nutrito in quella lingua adricchò [sic: arricchì?] el parlare latino. Facile adunque cosa che tra Itali et Greci sia conformità de molte cose che Latini non hebbero. Voglio per questo inferire [a margine una manicula sottolinea l’importanza della conclusione] che Italiani in qual se voglia lingua che habbino scripto sempre hanno facto opere degne de laude. Scripse Ovidio in li[?], scripse Eliano romano in lingua greca, scripse Marullo greco in lingua latina, scripse Iosepo barbaro in greco, scripse Ennio greco in latino. Scripse Folchecto italiano in lingua lemosina. Scripse Virgilio italo in lingua latina. Livio patavino, non ben lassata la sua patavinità, fu fama [sic?] dello eloquio romano.

La notizia che Ovidio avesse composto versi in lingua getica arrivava a Colocci da Ovidio stesso, che questo dice nelle sue Epistole ex Ponto; che poi Colocci avesse familiarità con quel testo lo dimostra l’edizione di Ovidio del 1489 stampata a Venezia, oggi conservata presso la Biblioteca Vaticana (Incun. II. 121), interamente postillata da Colocci. Alla segnatura &3r del volume, infatti, in corrispondenza con i vv. 17-20 dell’epistola Tuticano25 si legge di mano di Colocci: «Getice scripsit Ovi». Forti dell’esempio ovidiano i moderni dunque potranno anch’essi – secondo Colocci – utilizzare il volgare, la lingua naturale che accompagna gli eventi di tutta la vita, incluso l’apprendimento del latino e del greco, che avvengono del resto solo grazie alla mediazione del volgare. Colpisce in questo contesto il ricordo di due passi del primo trattato del Convivio dantesco: anzitutto l’argomento inerente alla ‘naturalità’ del volgare e per quella via alla naturale consuetudine che con esso hanno gli scrittori moderni (Conv. I, xiii, 60-68); inoltre un brano precedente, in cui Dante sottolinea che il volgare è il tramite necessario per accedere al latino: «Ancora questo mio volgare fu introducitore di me nella via della scienza, ch’è l’ultima perfezione, in quanto con esso io entrai nello latino, e con esso mi fu mostrato: il quale latino poi mi fu via a più innanzi andare» (I, xiii, 37-44). Al latino Colocci aggiunge il greco, riflettendo per 25 Ex Pont. IV, 12: «Nec te mirari si sunt vitiosa decebit/ Carmina quae faciam pene

poeta Getes/ A! Pudet et Getico scripsi sermone libellum/ structaque sunt nostris barbara verba modis».

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giunta sui debiti linguistici che il volgare italiano ha con il greco anche in voci di uso comune come vastaso e oimé. Nell’ambito di un ragionamento in difesa dell’uso del volgare Colocci arriva perciò a discutere della mancata coincidenza fra lingua «materna» e lingua di cultura, notando che non si tratta di un fenomeno esclusivamente moderno né legato ad un bilinguismo strutturale – come credeva Dante o, più avanti nel tempo, anche il Bruni – bensì una realtà che i moderni hanno in comune con gli antichi e che deriva dalla mutabilità insita negli usi linguistici attraverso i secoli e non dal fatto che una sola sia l’unica lingua accettabile come ‘alta’. A questo proposito metteva conto di ricordare un Ovidio che scrisse in lingua getica, un Virgilio «italo» che scrisse in latino, un Giuseppe Flavio che scrisse in greco, un Folchetto italiano che scrive in provenzale, e Marullo, umanista greco e scrittore in latino; esempi tutti per chiunque, oggi, latino di cultura, magari addirittura parzialmente greco nella lingua, aspirasse legittimamente ad usare il volgare come lingua letteraria, in particolare come lingua della poesia: [f. 59v] Dico adunque che in qual se voglia lingua se possono le hystorie vere nude et expresse narrare. In ogni lingua se possono le passione d’amore exprimere et imprimerle nelli animi delle done et ad questo nisuno miglior instrumento trovo che la materna, lingua alle cui parole non interpreti bisognano non chiose non comenti non ambiguità et se alcuni equivoci vi sono la pratica, l’uso dimostra quel che significhino et qui dà exempio de equivoci et ambigui benché in ogni lingua è fatica fuggir lo equi[vo]co si dello scriver come del proferire, tanto significa fila proferendo quanto fila latino. Et nomi coi verbi videlicet le fila benedecte è nome filare et fila tu è secunda persona.

Colocci aveva dunque già avviato una riflessione sulle qualità linguistiche del volgare; e va notato anche, a questo proposito, che al dialogo con Dante Colocci non affianca la discussione di alcuno dei testi moderni che a partire dalla fine del primo decennio del Cinquecento si venivano occupando del volgare e del suo uso – legittimo o meno – in letteratura. Il ricordo del Convivio di Dante nel brano riportato più sopra si combina, inoltre, nel passo appena citato, con alcune valutazioni che si leggono anche nell’Apologia delle Rime di Serafino Aquilano pubblicata a stampa da Colocci in appendice alla sua edizione romana delle rime di Serafino uscita presso Besicken il 5 ottobre 1503. All’espressione «questa [la lingua volgare] ne porge el lacte con le canzon della cuna, questa ne dà li exempli della vita» corrisponde, nell’Apologia, «Dante, secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vernacula lingua […]

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benché nessuno edicto ne prohibisce proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon del la cuna et con l’arte n’ha insegnato»26. L’argomento che «in ogni lingua se possono le passione d’amore exprimere et imprimerle nelli animi delle done» nell’Apologia suona «el Seraphino per aver dato modo et da imprimere e da exprimere in rime le passione d’amore, più ch’alcuno altro mai per adietro sarà da essere celebrato» (corsivi miei) 27. Qualche paragrafo più avanti Colocci ricorda anche Elisio Calenzio e l’edizione dei suoi Opuscula che uscì per i tipi del Besicken sempre nel 1503, il 12 dicembre, firmata dal figlio di Elisio, Lucio, ma in realtà curata dallo stesso Colocci28: [f. 60r] Similmente elesio calentio splendor d’Olimpo nel libro de le sue cose latine [çmçeç çsçcçrçiçpçseæ: cassato] ad me intitulato scrive uno epigramma da ius et uis pur per la corsiva lettera. Che diremo noi che in soneto cum nos che diremo de mentula parva menta29 che diremo noi Danti in sul lito di chiassi questo hanno i Latini questo l’Ispani questo li Greci questo li volgari et Galli et la magior parte dele facetie in ogni lingua versa circa lo equivoco e anchora lo equivoco nelle metaphore et translato

Infine, nella sezione seguente del codice, nel testo dedicato a Re Roberto, Colocci si autocita nuovamente: Re Roberto – scrive Colocci a f. 76r «più volte haveva proposto se stato li fusse concesso, recuperare lo regno suo da hierosolimitani»; nell’Apologia di Serafino leggiamo che egli «se stato li fusse concesso» avrebbe ridotto le sue poesie ad una «qualche sua pensata dipositione»30. Dunque Colocci, mentre scriveva il suo trattatello di storia poetica con annesse considerazioni sulla lingua, utilizzò espressioni che si ritrovano anche in altri testi in volgare di ar26 Cito da S. DE’CIMINELLI DALL’AQUILA, Rime, a cura di M. MENGHINI, Bologna 1894, pp. 31-32. 27 DE’CIMINELLI DALL’AQUILA, Rime cit., p. 27. Si è parlato anche di una familiarità fra questi brani e il De Vulgari Eloquentia, cfr. S. LATTÈS, La conoscenza e l’interpretazione del De vulgari eloquentia nei primi anni del Cinquecento, in Rendiconti della R. Acc. Di Arch. Lett. E arti. Soc. Reale di Napoli 17 (1937); G. SALVADORI, Lingua comune e lingua cortigiana, in Il Fanfulla della domenica 16 maggio 1909; io ritengo più probabile che essi derivino, come dicevo dal Convivio, anche se è nel De Vulgari (I, i, 25-27) che si ritrova l’espressione «vulgarem locutionem asserimus, quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus». 28 Si veda, a questo proposito, A. CAMPANA, Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 257-272, in part. le pp. 265-268. 29 Cfr. Vat. lat. 3450 f. 80r:« M(esser) Asino da Fiorenza volendo battizare lo figlio disse chiamatelo mentula dolendosi del patre che li impose brutto nome». 30 DE’CIMINELLI DALL’AQUILA, Rime cit., p. 25.

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gomento simile, datati intorno al 1503; ma la menzione dell’edizione di Calenzio fa ritenere che le note del Vat. lat. 4831 siano immediatamente posteriori al dicembre di quell’anno. Le considerazioni linguistiche raccolte nelle Annotationi, interessantissime e inedite per impostazione, mole, nonché rilevanza, sono perciò strettamente legate a quella precedente esperienza editoriale e critica e verosimilmente la seguono di pochissimo. I passi appena citati dell’Apologia risultano particolarmente interessanti in quanto si leggono a ridosso di argomenti intesi a giustificare la legittimità degli usi fonetici dell’Aquilano, criticato da alcuni «nella loro infantia» di critici inesperti perché nelle sue rime si trova spesso la ‘u’ dove ci si aspetterebbe una ‘o’ (come in mustri per mostri o appunere per apponere) e ‘i’ per ‘e’ (pinsier anziché pensier), forme che, a detta di Colocci, «per la vicinità del suono indifferentemente da’ poeti del vulgare ydioma è stato preso»31. A riprova di ciò Colocci porta ad esempio gli usi di due illustri autori antichi: Cino nella canzone La dolce vista e il bel guardo soave e Cavalcanti in «una canzonetta da noi novamente retrovata […] Era in pinsier d’amor quando io trovai»32. A seguire, ancora una volta, Colocci cita come fonte autorevole per lo studio della poesia delle origini proprio la lettera di Petrarca a Socrate che apre la raccolta delle Familiari in cui Petrarca sostiene che «le rime che da’ Romani erano perse in Sicilia fertile provintia d’ingegni, furono retrovate et tanto più quanto la memoria di Pontio e di Coletta era ancor fresca». Non sono in grado di spiegare a chi esattamente questi due nomi possano corrispondere, ma noto che un Pontio da Messina è incluso in un elenco di poeti che si trova in calce al manoscritto, sul quale ritorneremo. Esaurita la parentesi dedicata a Re Roberto, notizie sul quale gli venivano, come abbiamo visto, da Petrarca, ma anche da Platina e Biondo Flavio33, Colocci passa ad occuparsi del Quattrocento. Molte notizie sui poeti fiorentini dell’epoca le trasse dal proemio alla Commedia di Cristoforo Landino; questa fu la sua fonte anche per quel che riguarda i poeti 31 DE’CIMINELLI DALL’AQUILA, Rime cit., p. 30. 32 La versione pubblicata da Colocci nell’Apologia non deriva da alcuno dei testimoni

noti: Biblioteca Apostolica Vaticana – d’ora in poi BAV – ms. Chigi. L VIII. 305; Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze: Magl., II, II, 40; Banco Rari, 69; Biblioteca Riccardiana: Ricc. 1050; Codice martelliano; Verona, Biblioteca Capitolare ms 445. Si veda G. CAVALCANTI, Le rime, a cura di G. FAVATI, Milano — Napoli 1957. Noto soltanto che c’è corrispondenza perfetta fra l’incipit che si legge nell’Apologia e quello trascritto da Colocci nel suo indice del Libro Reale (BAV, ms. Vat. lat. 3217, ff. 316r-318r, pubblicato in BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 118-121. 33 Cfr. Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio cit., p. 249

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antichi, segno che egli conobbe la Raccolta Aragonese solo in un’epoca posteriore. Sul Quattrocento fiorentino Colocci appunta le seguenti informazioni: [f. 77r] çLçaçnçdçiçnoæ temerario nello tradurre Plinio34 Eloquente assai et bon lettore latin(orum?) molto affectionato alla patria. Fu secretario comentò Virgilio comentò D[ante] vide che fu nepote de un Gabrielo maestro di Lorenzo vide in musica un Francesco ceco fratello de suo avolo si se pò dire maior patruus çMçaçtçeçoç çPçaçlçmçiçeçriæ vid[e] Landino se non fusse caduto [in] heresia, pigliò lo stilo de Danti credo sia sepulto in Araceli […] [f. 77v] çBçaçpçtçiçsçtçaç çAçlçbçeçrtiæ scripse assai vulgare vide Landino […] [f. 78r] çZçaçnçoçbçiç çAçcçcçiçaçiçoliæ poeta protonotario vide Landino nel capitolo di eloquentia [f. 78v] çBçeçrçnçaçrçdçiçnçoç çdçaç çSçeçnaæ çMçaçrçsçiçlioæ Fece opere volgare dalle sue de Trismegisto. Fu inimico del Pulci el qual fece como quello «iacet ingens littore truncus», era Marsilio un huomo che in suo secreto35

Più avanti nel codice si trovano pagine intitolate (ma senza che segua testo) a Poliziano, Lorenzo, Luigi Pulci e al Burchiello (del quale invece viene riportata qualche breve notizia); per Alberti c’è quell’unico rimando al Landino che ho citato. La poesia del Quattrocento per Colocci, se si escludono le informazioni apprese dal Landino, era soprattutto quella dell’Italia centrale; ed egli si occupò, intorno al 1503 di pubblicare o di far pubblicare ad altri le opere di alcuni di quei poeti – Battista Cingoli, Serafino Aquilano, Agostino Staccoli – presso la stamperia romana di Johann Besicken. La contiguità fra il nostro trattatello e l’attività editoriale di Colocci nei primissimi anni del Cinquecento fornisce inoltre alcuni ulteriori elementi utili ai fini della datazione del testo che meritano un’analisi più dettagliata. 34 Fonte di questo giudizio potrebbe essere stato il Brancati. Vedi G. PUGLIESE CARRATELLI, Due epistole di Giovanni Brancati su la “Naturalis Historia” di Plinio e la versione di Cristoforo Landino. Testi latini inediti del s. XV, in Atti dell’Accademia Pontaniana n.s. 3 (1951), pp. 178-193.

35 Queste notizie sono tratte dal Capitolo di eloquentia e dal capitolo dedicato ai Fiorentini eccellenti in musica entrambi contenuti nel citato commento alla Commedia di Dante, ed editi in C. LANDINO, Scritti critici e teorici, I, a cura di R. CARDINI, Roma 1974, pp. 118122.

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4. Ulteriori elementi di datazione L’edizione di Agostino Staccoli (Roma, Besicken, s.d., databile 15001512)36, contiene una lunga prefazione di un umanista fiorentino attivo a Roma, Bartolomeo Pattolo, il quale dedica le opere dello Staccoli a Colocci, «ornamento delli amatori delle bone arte così vulgare come latine», perché egli, «del prefato auctore observantissimo» possa trovargli posto «a’ piedi di tanto onorati vechioni, Cino, Guitone, et Dante et Petrarca» nelle «annotationi sul vulgare ydioma» che aveva composto37. Fanelli suggerisce di identificare con il Vat. lat. 4817 il codice contenente tali annotazioni anche se, avverte, né lì né nel Vat. lat. 4831 gli è riuscito di trovare menzione dello Staccoli38. Il manoscritto Vat. lat. 4817, contiene, com’è noto, osservazioni linguistiche, dialettologiche e metriche in cui Colocci fa esplicito riferimento sia al De Vulgari Eloquentia sia alla poesia siciliana, e va datato al 1526 circa. Non è perciò possibile che Pattolo, nel citare le «annotationi sul vulgare ydioma» alludesse a questo manoscritto, posteriore di molto alla sua lettera di dedica. Ci sono, per contro, gli elementi per avanzare ragionevolmente l’ipotesi che Pattolo alludesse piuttosto al nostro trattatello, che molti e diversi indizi inducono ad ascrivere a un’epoca assai vicina agli anni nei quali Colocci collaborava con Besicken alle sue edizioni di poesia volgare e neolatina. Al foglio 86v del Vat. lat. 4831 è citato poi proprio «Aug(ustin)o da urbino» al quale era stata riservata addirittura un’intera pagina del trattato (rimasta, però, bianca) posta per giunta «a’ piedi» dei «tanto onorati vechioni» Cino, Guittone, Dante e Petrarca. Dal testo tràdito nel Vat. lat. 4831 si possono raccogliere anche altri elementi di datazione, di peso magari inferiore, ma forse di qualche utilità: a f. 32r, ad esempio, Colocci qualifica Fabio Vigile, vescovo di Foligno dal 1523 al 1539 e vescovo di Spoleto dal 1540 fino alla morte avvenuta nel 1553, come «giovene singularissimo»39. L’espressione si

36 Si tratta delle date entro le quali è compresa l’attività di Besicken a Roma. È però probabile che l’edizione sia uscita intorno al 1502-1503 come le altre opere citate alla cui edizione Colocci partecipò direttamente o indirettamente. 37 Cfr. F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano, Barb. Lat. 4882, a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969, p. 63, nt. 94; e per il testo della prefazione N. CANNATA, Il canzoniere a stampa (1470-1530). Tradizione e fortuna di un genere fra storia del libro e letteratura, Roma 2000, p. 77-78. 38 Cfr. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., p. 63. 39 Fabio Vigile fu inoltre Segretario dei brevi sotto Adriano VI e segretario personale

del Cardinale Alessandro Farnese anche dopo la sua elevazione al Pontificato nel 1534

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adatta ad un uomo di età vicina ai venti anni; e se si presume che la nomina a vescovo fosse avvenuta quando Fabio aveva all’incirca quarant’anni, ne consegue che egli ne avrebbe avuti più o meno venti nel 1505, il che sarebbe compatibile con la datazione proposta e con il tono di compiaciuto distacco con cui lo nomina Colocci, di una diecina d’anni più anziano. Un ulteriore, piccolo indizio, lo fornisce anche la citazione del solo Giovanni Battista Caccialupi come fonte di informazioni su Cino da Pistoia. Il lungo capitolo che Colocci dedica a Cino si trova ai ff. 51v-53r del Vat. lat. 4831 e vale forse la pena citarne qualche brano: [ff. 51v-53r] çCçiçnoæ fu adunque Cino nella gravità delle leggi proclive ad amore et sì de animo come de stilo de poeta fu chiamato amoroso […] Era Pistoia città nobile ferace etc. Vide el volterrano ma di tanta perversità che come scrivono .… [sic] in questa terra nel m. … [sic] nacque l’origine di parte ghelfa et ghibellina de qua Panciatici de là Cancellieri. Come hoggi ad tempi nostri abbian veduti morder ne’ cuori de gli homini, occider l’infanti non perdonare ad nisun sexo. Qui nacque, qui fu notrito, qui fu inamorato. Come lui testifica in una sua canzona di partita dal Pretarca [sic] anteposta alle altre canzone del suo seculo «La dolce vista el bel guardo suave» dove nel fine così dice apostrofando ad amor: «Amor per esser micidial pietoso dammi di morte gioia sicché lo spirto mio torni ad Pistoia». Tanto forte li doliva la partenza da lì. Et veramente come dice Platone lo divider de duo amanti non è altro che morte. Poni qui qualche sonecto de Cino et qualche principio etc. Nota la vita del Petrarca che Cino lo admoniva alle leggi […] 40. Quando passò quel fiume che el villano non lo voleva passare se non li prometteva di darli un conseglio. Et non fu avaro avisando che volendo uno far fare uno consigl[i]o per 25 ducati ad uno suo coetaneo non lo volse fare et lui lo fe per dece et quello si fece dare un cavallo confessando che Cino era savio. çCçiçnçoç çdçaç çpçiçsçtçoçiaæ da casa Scinibaldi [nell’interlinea: «nobile famiglia»] fiorì nell’anni del Signore ccc. xiiii in quella che el dì di Sancto Barnaba finì la sua lectura sopra el C[odice] che haviva principiata l’anno passato [a margine si legge: «nell’anno che Candia contro Venetiani ribellatasi fu facta colonia»] et come Paolo III. cfr. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai giorni nostri, Venezia 1854, voll. 22 e 69). 40 Fonte di Colocci sarà qui la Vita di Petrarca di Girolamo Squarciafico, nella quale si

legge che Petrarca: «Inde ex Monte Pessulano Bononiam mittit, illic quidem primum cum Ioanne Andrea et Cyno Pistoriense, qui publice leges profitebantur, in amicitiam venit, et quoad vixerunt firmissimam habuit. Cynus humanitatis studia non abhorrens, sed cum vacaret otio, illorum captus suavitate, saepe Franciscum secum habebat, nec desinebat etiam illum hortari ut inceptum studium persequeretur», cito da Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio cit., p. 349

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fu quella lectura che affinò lo ingegno di Bartolo. In questi prati pigliò el pabulo, qui si impinguò el ferace ingegno di Bartholus, de qui ne nacque tanta luce come dice Bal[dus] in C. «si vasallus in titulo, si defensus fuerit controversia inter dominum et vassallum». Scripse ad pieno sopra la la [sic] prima parte del Digestum vecchio in fino al titulo «si noxali causa agatur inclusive» et sopra el titolo «de rebus creditis» nella secunda parte sopra lo resto poca additione scripse su questo Cino, amico de Ioan bolognese secundo che Iohan attesta nella additione nel titulo «de locato». Fu discipulo de Dino da Mugello quale chiama semper in mille lochi maestro venerandissimo. El quale Dino fioriva nell’anno m. cc. xc. al tempo di Bonifacio octavo, ducentesimo primo papa et Adolpho imperatore. Questo è quello che come dice Cino nella legge unica «de sententiis quae pro eo quod interest» che oltra li [interl.: «eleganti»] consegli et li sottilissimi scripti sopra Digestum et sopra al titulo «de institutione de actionibus» et oltra al mirabile comento sopra «de regulis iuris in vi». Ma dice Cino che disputando el suo venerandissimo preceptore et determinando qualche questione pariva haver innanzi tucta la synodo della legale philosophia. Fu degno adunque un tal maestro di tanto discipulo et tal discipulo meritò haver un tanto preceptore. Trovò Cino el modo ad quel povero homo de rihaver li soi forzieri. Vedi la facetia. Hebbe el nostro messer Cino infiniti scolari [sopra le due ultime parole Colocci aggiunse in inchiostro più scuro su due righe: «Francesco de Tiguro Tigri [sic]/ el Petrarca»] di elevato ingegno ma nissuno piu di Bortolo Saxoferrato. Questo amò sopra tucti l’altri et perché come di Platone successor optimo fu Aristo[te]le et Theofrasto di lui, così Cino lassò felice herede Bartolo di Saxoferrato, Bartolo, dico, che socto tale maestro fece la sua vindemia, quale da Iohanne Bapt. Caccialupo chiamato specchio, padre et lucerna de ragion civile. Ebbe contemporanei Cino, Lapo da Castiglioni, Recupero da San Miniato et Iohanne de Pagliaresi, del quale apresso Cino receta una facetia. Vide se è vero dallo disgratiato. Hebbe anchora Ioh. Andrea, Federico Petruccio da Sena, Iacomo Butrigario, Oldrado da Lodi advocato consistoriale, Nicolò de Materelli modonese […] Cognobbe Danti [la parola sembra però scritta «tanti»] et venerollo summamente, fu hom devoto et più ad gloria che ad robbe teneva. Affabile con li amici scripse piu volte al Petrarca et el Petrarca a.llui […]. El Petrarca nelle epistole li scrive del figliolo non so se dice dello naturale o dello adoptivo: non ho el libro apresso di me. Della origine de chiosatori Cino fu quello che aperse la via alli studiosi de ragion civile perché morto Dino non fu hom che più luce desse alle leggi che lui in civile et Io Andrea in canonico. Erano stati li volumi delle sanate [sic?] leggi digeste per Iustiniano imperatore «tronche mozze, incise» come scrisse Procopio et volendo fuggir lo errore della prolixità, incorse in quello della brevità et oscurità come se vede nelli codici theodosiani che anchora si trovano. Non bisognavano tante chiose non tanti consigli latini elegante copia di cose. Non è miraviglia se

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Gellio, se Festo, se tucta la schola de humanità erano docti in legge che copiosamente trovava la copia della lingua, diplorata cagion della ambition de Iustiniano et de imbecillitate delli ingegni. Soccorse ad questo Guarnerio overo Yrnerio come scrive el Caccialupi che studiò da se stesso et cominciò a.llegere in Bologna et aperse la scola dove fu in tal città assai famoso chiamato meritamente «lucerna et illuminator primo de ragion civile», como dice Odoffredo

Dunque come si vede, oltre al Caccialupi, l’unica altra fonte esplicitamente citata da Colocci è la Vita di Petrarca dello Squarciafico, stampata nel 1484, da cui Colocci deriva la notizia che Cino a Bologna conobbe Giovanni Andrea e che – benché egli fosse molto interessato agli studi di umanità – coltivava nondimeno gli studi di diritto ed esortava Petrarca a fare altrettanto. La menzione del solo Caccialupi e dello Squarciafico a proposito di Cino si spiegano senza molta difficoltà se si datano le pagine su Cino entro i primi anni del Cinquecento, meno agevole sarebbe spiegare l’assenza di riferimenti ad altri, per esempio Equicola, se si ritenesse il testo databile anche solo a qualche anno dopo: ricordo che nel 1510 il Libro de Natura de Amore era già in redazione manoscritta e le notizie relative al contenuto del trattato circolavano già fra gli studiosi; inoltre, nel 1514 Trissino, giunto a Roma, presumibilmente aveva con sé il De Vulgari, notizie sul quale si ritiene, mi pare a ragione, circolassero, se non in modo generalizzato, senz’altro per tradizione orale almeno fra Roma e Firenze già in quegli anni. Infine, al f. 104r, sotto il titolo «Hoggi» si trova un elenco in cui compaiono i principali poeti del tardo Quattrocento e primo Cinquecento che trascrivo di seguito, includendo fra parentesi quadre il nome del poeta per esteso o nella forma modernamente usata e, ove possibile, le date di nascita e di morte: Salazzaro Tibaldeo Piceno Calmeta Lunico Benivieni Baccio41

[Jacopo Sannazaro, 1457-1530] [Antonio Tebaldeo, 1462-1537] [Vincenzo Colli detto il Calmeta 1460-1508] [Bernardo Accolti, 1458-1535] [Girolamo Benivieni, 1453-1542] [Baccio Ugolino fl. XV ex — XVI in.]

41 Baccio Ugolino per il quale era stato approntato il f. 92r delle Annotationi rimasto, però, bianco, è autore di rime pubblicate nell’edizione Zoppino del Compendio di cose nove … di Vincenzo Calmeta et altri auctori (Venezia, 18 luglio 1507), cfr. CANNATA, Il canzoniere cit., p. 315. Suoi strambotti si leggono nel ms. Urb. lat. 729.

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Cortese [Paolo Cortese, 1465-prima del 15 novembre 1510] Chariteo [Benedetto Gareth, 1458?-1514] Ant[onio] da Ferrara [fl. 1505] [nome illeggibile] Thimoteo [Timoteo Bendedei, 1447-1522] Pontano [1429-1503] [nome non ben leggibile: Const-] [?] Antonietto Fregoso [1460-1530 circa]42 Marco [Marco Cavallo Anconetano?] [XV ex.-1524] Carbon Cynthio Cornelio [Giovanni Andrea Garisendi, 1470 ca.-1525] Charisendo43 Alceo Iohanne Franc[esco] Caracciolo [1436-1506] Egidio [da Viterbo? 1469-1532] Rustico ro.: [Giuliano Perleone, flor. XV ex.] [nome non ben leggibile: Bilan-] [?] Saxo [Panfilo Sasso, 1455-1527] F[?] orbo [se è Francesco Cieco da Ferrara, 1460-1506] Lapuccino [?] Angelo Galli [morto prima del 10 dicembre 1459] Dolphi da Bologna Quarqualio44 Et altri spagnoli Sanpero ad Vincola [Galeotto Franciotto della Rovere, morto l’11 settembre 1508] Alessandro Amati [?] Et qui reconta la nostra academia Frate Enea [flor. Ia decade del ’500 — morì nel 1530ca.] Gravina fallito [Pietro Gravina, 1452-1528] Bembo [1470-1547] Baldasar da Castiglione [1478-1529] 42 Suoi strambotti nell’Urb. lat. 729. 43 Dovrebbe trattarsi di G. A. Garisendi (1470-1525), notaio bolognese, amico di Gio-

vanni Filoteo Achillini e autore di quattro sonetti e tre carmi pubblicati Collettanee per Serafino Aquilano (Bologna, 1504): Quel Seraphin che da celeste nido; Vedendo Giove tanti casi adversi; Se brami viator saper mia sorte; Non passar viator che tu non piagni; Forte tot adversos casus dum Iuppiter altis; Si mea qui legis discere fata cupis; Adsta nec lachrymis qui legens ista viator. Due componimenti (uno in latino, uno in volgare) con relativa lettera di accompagnamento datata 1501 si leggono rispettivamente ai ff. 317 e 316 del Vat. lat. 2836, zibaldone in tutto colocciano, per larga parte anche autografo. 44 Questo autore è citato al f. 101v del Vat. lat. 4831, con il seguente commento: «Lon-

gum est dicere Quarqualium, amico del papiense et di più Pontifici frangit Iulius omnia impudenter». Suoi strambotti si leggono anche nel ms. Urb. lat. 729.

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Cesar Conzaga [1475-1512] Criaco d’Ancona antiquario [1391-1452] Ioh[ann]i Agabito45 Franc[esco] Colotio Cesarini Bramante architecto46 Pistoia giovine [1436-1502] Thomasso Rasello Ant[oni]o. Const- [?] Pontio da Messina La rosa in Francia Cinico [1430 — dopo il 1503] Fabio Vigile

Nessuno dei poeti in elenco risulta morto prima dei 150647; e l’elenco esclude, come si vede, Cornazzano, Luigi Pulci, Poliziano, Lorenzo, Giusto dei Conti, Agostino Staccoli; nonché il Cosmico e – sicuramente l’assenza più vistosa – Serafino Aquilano, tutti poeti morti entro il 1500. Il modo più economico per spiegare l’assenza di poeti a Colocci assai cari e per giunta discussi nel trattato in calce al quale compare l’elenco in questione, sarebbe forse quello di intendere quell’hoggi letteralmente, cioè come indicazione che l’elenco è relativo a poeti ancora viventi, e presumere dunque che esso sia stato stilato entro il 1506 circa. Verso la fine dell’elenco Colocci aggiunge disordinatamente anche altri nomi di autori e anche opere, da Ciriaco d’Ancona al Roman de la Rose includendo anche quel Pontio poeta siculo forse da identificare con il poeta citato nell’Apologia, a cui si è accennato al par. 2. Nell’elenco di Colocci compare anche «Sanpero ad Vincola»: si tratta di Galeotto Franciotto 45 Nel Vat. lat. 7182 ai ff. 209-222 in mezzo a varie opere di Pierfrancesco Iustolo si trova un poemetto intitolato In Croci cultum dedicato ad un «Agapytum Geraldinum Ducale Secretarium»; il f. 94v del Vat. lat. 4831, intitolato «Iohanne Agabito», fornisce le seguenti informazioni: «musico: signore di Sarsina […] nacque la guerra tra Malatesti et la chiesa et ne successe la rocta […] et pone qui li principi de alcune sue cose et morì in Asisi dove io Angelo li feci la sepoltura. Laqua el foco et la suspitione questa la dixe alli signori Malatesti. Lui scripse al signore Malatesta, el signore malatesta a.llui et Iusto et Angelo Galli […] Libro c(om)pose de balli dove conformava conla astrologia». Dal momento che a f. 77r di questo stesso codice si legge «çSçiçgçnçoçrç çMçaçlçaçtçeçsçtçaç çdçaç çRçiçmçiçnoæ scripse allavo mio, ad Angelo Galli, ad Iusto da Valmontone», ne deduco che Giovanni Agapito da Sassoferrato fosse un avo di Colocci. Rime di un Gerardino Agapito si trovano nel già citato Compendio delle rime del Calmeta (Venezia, Zoppino 1507). 46 Sul Bramante poeta cfr. D. BRAMANTE, Sonetti ed altri scritti, a cura di C. VECCE, Roma 1995. 47 Uniche eccezioni sarebbero Pontano, Angelo Galli e Ciriaco D’Ancona.

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della Rovere, nipote del papa Giulio II, mecenate di artisti e amico dei maggiori umanisti attivi a Roma e grande protettore di Colocci. Galeotto fu consacrato Cardinale di San Pietro in Vincoli nel 1505 e morì l’11 settembre del 1508. Ne consegue che l’elenco fu scritto nel periodo compreso fra queste due date. Nell’elenco in questione viene infine nominato fra i poeti contemporanei «Bramante architecto», la cui attività di poeta fu circoscritta al suo periodo milanese, conclusosi nel 1499, e non compare invece Raffaello Sanzio – amico di Bramante e poeta forse migliore di lui – che arrivò a Roma solo nel gennaio del 1508. 5. Colocci, i volgari romanzi e la lingua cortigiana Le Annotationi testimoniano di un interesse molto precoce, da parte di Colocci, non solo per la tradizione letteraria del volgare in Italia, ma anche per altri volgari romanzi, fra i quali, naturalmente, il provenzale. Come si è detto, Colocci intitolò un capitolo del suo trattato a Francisco Moner, autore di opere scritte in catalano e in castigliano e ricordò «Quarqualio et altri spagnoli» nell’elenco dei poeti attivi a Roma. È probabile che Cariteo – che visse a Roma fra 1501 e 1503 – gli abbia mostrato i romanzi di Moner, e che lo stesso Cariteo – ottimo conoscitore della poesia provenzale e poeta di rango – lo abbia anche introdotto e sostenuto nei suoi primi studi del provenzale. Resta ovviamente da spiegare come sia stato possibile per Colocci sviluppare un interesse così forte verso letterature scritte in lingue di cui egli non aveva all’epoca una conoscenza adeguata. Per abbozzare una risposta a questo interrogativo sarà forse necessario considerare gli studi e le passioni intellettuali di Colocci nel contesto della cultura linguistica e letteraria della Roma dei primi del secolo. A questo proposito risultano assai utili le pagine introduttive al bel libro di Riccardo Drusi sulla lingua cortigiana romana. Drusi rileva, ad esempio, che la presenza spagnola a Roma durante il pontificato Borgia (14921503) era notevole non soltanto come dato genericamente culturale, ma incideva in concreto sulla lingua usata quotidianamente e, a sostegno di questa affermazione, rimanda al capitolo I, 13 delle Prose di Bembo48 da cui risulta come lo spagnolo fosse una lingua di uso comune, utilizzata a Roma dai parlanti alla corte papale insieme con il francese, il lombardo, il toscano e il veneziano. 48 R. DRUSI, La lingua “cortigiana romana”. Note su un aspetto della questione cinquecentesca della lingua, Venezia 1995, pp. 35-37.

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È probabile che questa realtà linguistica abbia rappresentato, per Colocci, un incentivo ad occuparsi di questioni relative al concetto di lingua comune, al quale sappiamo che egli era fortemente interessato già a partire da un’epoca molto antica: suo è infatti il primo documento noto in cui è teorizzata la cosiddetta lingua cortigiana, vale a dire l’Apologia delle rime di Serafino Aquilano. Si spiegano perciò anche le sue traduzioni, di epoca altrettanto antica, dal catalano e dal castigliano, i lemmari e naturalmente anche l’acquisto e lo studio dei testimoni diretti di quelle lingue e letterature – dal codice di lirica provenzale del Cariteo, alla Raccolta Aragonese, al Vat. lat. 3793 (d’ora in poi V). Nell’Apologia, inoltre, pose a confronto gli usi linguistici di Serafino con quelli di Cavalcanti, Cino e di alcuni siciliani e dunque, partendo da argomenti di linguistica, arrivò ad occuparsi di lirica romanza ed italiana. Ricordo che Colocci fu anche fra i primi ad interessarsi del greco, dei suoi rapporti con il volgare e della sua terminologia grammaticale. Una prima testimonianza di questo interesse si trova già nelle osservazioni linguistiche del Vat. lat. 4831 citate sopra; nel Vat. lat. 4817, poi, in età più tarda, i riferimenti all’uso dei siciliani sono spesso messi in relazione con analoghi fenomeni riscontrabili nella koiné greca, che presumibilmente interessavano Colocci proprio in quanto nel contesto della curia federiciana una lingua italiana comune, di derivazione letteraria, ma adattabile agli usi correnti aveva un importante precedente storico, sul quale si era soffermato Dante stesso nel De Vulgari. È noto peraltro che i fautori della lingua cortigiana riconoscevano due importanti modelli di lingue comuni nate da basi letterarie: la koiné greca e la lingua poetica dei siciliani; e che a loro si deve la lettura del De Vulgari come primo trattato favorevole ad una lingua curiale comune. Ritengo perciò che gli interessi letterari di Colocci fossero subordinati a quelli linguistici, tanto che nei suoi scritti più tardi – primo fra tutti lo zibaldone conservato nel Vat. lat. 4817 – i problemi e le curiosità dialettologiche e linguistiche, analizzate in ambito soprattutto sincronico, prevarranno di gran lunga sull’interesse per la letteratura e per la poesia antiche. Che poi gli studiosi moderni si siano interessati a Colocci soprattutto grazie ai suoi studi di provenzale e di poesia delle origini è fenomeno senz’altro interessante e degno di discussione, ma solo finché rimanga inteso che esso attiene alla storia degli studi nostri, non a quella dei suoi. Mi soffermo ancora brevemente sulla conoscenza del poesia provenzale da parte di Colocci nei primi anni del secolo per chiarire qualche piccola incongruenza cronologica fra le date di inizio dei suoi studi di provenzale secondo le datazione ricostruita da Debenedetti e comune-

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mente accettata, e la testimonianza contenuta nelle sue Annotationi. Secondo Debenedetti, Colocci iniziò propriamente a studiare il provenzale in seguito all’acquisto del codice M (oggi ms. fr. 12474 della Bibliothèque Nationale di Parigi) vendutogli dalla vedova di Cariteo nel 1515. Le sue scarse conoscenze della poesia provenzale anteriori a quella data deriverebbero da colloqui avuti a Roma con lo stesso Cariteo, ma non da uno studio diretto di manoscritti. Il fatto che Colocci derivi la sua anagrafe di poeti lemosini inclusa nelle Annotationi dai Trionfi non fa che confermare questa ipotesi. Tutavia questo non significa necessariamente che Colocci non abbia mai visto manoscritti di poesie provenzali prima di quella data. In un passo del Vat. lat. 4831 che trascrivo di seguito Colocci accenna infatti ad una raccolta di lemosini: [f. 40r] çGçuçiçlçlçiçeçlçmoæ dal tino [in interl.: «De cunio»; nel margine superiore: «non pò esser questo»] tramontano, coetaneo de Dino da Mugello et dell’altri legeva gran tempo nello studio d’Orliens Aurelia. Fu illustre secundo el Caccialupo, se comprende esser stato questo perché in un Petrarca antico era una chiosa videlicet «dal tino» […]. Fiorì nel m. ccc. et circa quando fioriva in Italia Petro de bella pertica et Ricardo Malombra cremonese in Padua che pervenne alli tempi di Roberto re et Lampertin ramponiò et Bartholomeo da Bottrigarii et Roberto Odoffredo et Francesco d’Accursio et Bartholo da Napoli. Fu homo d’alto ingegno et compose in lingua lemosina et vide tra li lemosini si ce fu altro Guillelmo. Alii vocant hunc Gullielmum de Cunio non da tino vide supplementum

Qualche foglio più sopra, in un passo relativo a Peire D’Alvernhia, egli aveva anche accennato e ai suoi lemmari: [f. 37r] çpçiçeçrç çdçaçlçvçeçrçnaæ el vechio fu frate et vide in quel che lui compose nelli lemmari mei

Secondo Debenedetti stesso, l’invito che Colocci si fa di vedere «tra i lemosini» se ci sia stato un altro poeta a nome Guglielmo trova «se non una compiuta serie di risposte almeno una eco in M»49 dove alcuni dei dubbi qui espressi da Colocci si ripropongono. Poiché Debenedetti non si occupò di datare le note sui provenzali contenute nel manoscritto Vat. lat. 4831, egli non ravvisò alcuna incongruenza nelle date; ma avendo ora stabilito che il nostro trattatello è anteriore al 1515 la presenza di 49 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 213; si veda anche il saggio di M. DANZI, La

parte ispano-portoghese della biblioteca di Bembo (con una «postilla» colocciana) in questo volume.

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notizie che si fatica ad attribuire altrimenti se non al primo manoscritto di lirica provenzale studiato in Italia impone di riconsiderare la questione di quando tale manoscritto sia giunto a Roma o, naturalmente, di rivedere la data del codice che lo cita. Sulla base degli argomenti discussi fin qui non ritengo possibile datare il Vat. lat. 4831 a dopo il 1515. Quanto alla data in cui Colocci avrebbe potuto avere accesso al ‘libro lemosino’, il testo della lettera del Summonte a Colocci del 28 luglio 1515, mentre ci informa che Colocci a quella data già possedeva M, rivela anche che Cariteo, in occasione del primo esilio da Napoli (1495), durato per quattro mesi, si era premunito di lasciare tutta la sua biblioteca in custodia al Summonte. Nel 1501, alla caduta degli Aragonesi, Cariteo si trovò ad affrontare un altro e più lungo esilio, che poteva anche prefigurarsi come definitivo. Summonte non fa cenno a che ne fu allora della biblioteca, ma dalle sue parole si deduce che essa si conservò bene, che era fornita di numerosi libri e tenuta con cura e gelosia dalla vedova. Non sappiamo chi ne abbia avuto cura durante gli anni romani, ma sembrerebbe verosimile che Cariteo abbia portato con sé, nell’incertezza del futuro, almeno i suoi volumi più preziosi che avrà poi riportato a casa quando, inaspettatamente, gli si riaprì la via per tornarsene a Napoli. È possibile perciò che Colocci abbia avuto brevemente accesso al manoscritto in epoca assai antica, e lo abbia conosciuto in modo bastevole per trarne qualche appunto, apprezzarne il valore e per spiegare l’impazienza con cui trattò per comprarlo nel 1515 insieme a molti altri, fra cui, ad esempio, Isabella d’Este, che sapevano del codice e desideravano fortemente possederlo50. 6. Conclusioni Il dato più significativo che emerge dallo studio delle Annotationi di Colocci è la loro mancanza di una qualche impostazione storiografica. Di conseguenza, il trattatello dovrebbe collocarsi in una stagione precedente quella in cui, a seguito di una più diffusa conoscenza delle testimonianze dirette degli antichi testi in volgare, si diede avvio, anche fuori di Firenze, ad una sistemazione storica di quelle testimonianze e ad un profilo di storia della lingua e della letteratura italiane. 50 Sui rapporti fra Cariteo e Colocci nel biennio 1501-1503 e sulla datazione dell’inizio

degli studi di Colocci sulla poesia provenzali e sulla loro rilevanza per l’edizione moderna dei testi in forma-canzoniere cfr. CANNATA, Il canzoniere cit., pp. 114-115.

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Non si ravvisa invece dal testo del Vat. lat. 4831 l’intenzione (per non dire la capacità o l’interesse) di stabilire una distanza dalle proprie fonti, tutte acriticamente accettate, né tantomeno il desiderio di proporre una impostazione storiografica che dia conto dell’evoluzione della poesia italiana fra Due e Quattrocento e la differenzi dalla riflessione offerta dai fiorentini sul declinare del Quattrocento; in particolare Colocci non si preoccupò minimamente di stabilire un raccordo storico che unisse i provenzali con Cavalcanti, Dante, Guittone, Bonagiunta e Boccaccio, né con il Quattrocento fiorentino, secondo come era stato descritto dal Landino, o con gli autori quattrocenteschi dell’Italia centrale per i quali pure egli mostra grande attenzione critica e che conosce di prima mano. Una prospettiva di questo tipo, estranea alla tradizione fiorentina alla quale Colocci spesso ricorre, e a maggior ragione lontana dal pensiero critico del primo Cinquecento che da essa si sviluppa, presuppone una posizione storicamente ancora fluida, concentrata verso l’acquisizione da parte dell’autore del maggior numero di notizie piuttosto che sul loro vaglio critico. Le notizie risultano perciò organizzate secondo un criterio latamente cronologico, mentre manca – non solo nell’impianto generale del trattato, ma anche nella sostanza delle valutazioni che vi sono conservate – l’intento di individuare tradizioni distinte all’interno di testimonianze così diverse nel tempo e nello spazio, o di descrivere fenomeni linguistici o stilistici e di valutarli criticamente. Il manoscritto si presenta come un catalogo di cataloghi, cioè un elenco di autori e dei luoghi in cui essi sono citati e dai quali deriva notizia della loro opera; ed è perciò ricco di aneddoti sugli autori, accumulati senza un apparente criterio, perché manca alla radice una conoscenza del materiale sufficiente per tentarne una sistemazione critica. Unica eccezione lo spazio, importante benché limitato, dedicato alla riflessione sulla lingua. Come si è già detto, all’epoca in cui scrisse le Annotationi, Colocci ancora non aveva una conoscenza approfondita e diretta della poesia provenzale e, dal momento che mancano nel trattatello del tutto notizie sulla poesia siciliana, che egli certamente conobbe in seguito, quando possedette e postillò V, si può dedurre che egli ancora non possedeva il codice, né, come si diceva, aveva ancora visto il Libro di Ragona, che però Colocci cita ai ff. 113r, 114r, 115r del suo Vat. lat. 482351. Infine, nel Vat. lat. 4831 non si sente eco dell’aspra polemica ingaggiata dal Landino nel 1481 contro il giudizio espresso da Poliziano nella 51 Per il codice si veda il dettagliatissimo studio di BOLOGNA, La copia colocciana cit., e

per le citazioni dell’aragonese, p. 114. Bologna data la confezione del codice agli anni 15251535. Sicuramente non dopo il 1544.

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NADIA CANNATA

lettera dedicatoria alla Raccolta Aragonese su Dante e la rozzezza o meno della sua lingua e del suo dettato poetico. Mette conto in conclusione considerare anche l’elenco di poeti antichi che si legge al f. 102r: Celio Guitton frate d’Arezzo Arnaldo Guido Guinielli [sic] Guido Cavalcanti Danti [a fianco, aggiunto:] Folco Cino Cicco d’Ascoli Roberto re Honesto bo

Tutti i poeti citati sono trattati nelle Annotationi e conosciuti da Colocci attraverso le fonti che si è tentato fino a qui di identificare; unica, vistosa e importante eccezione quel «celio», appena nominato qui e mai citato nel testo del trattatello. Colocci è l’unico fra gli studiosi antichi a dare un nome all’autore del contrasto Rosa fresca aulentissima, che Dante cita, anonimo, nel De Vulgari Eloquentia e che noi assegniamo a Cielo d’Alcamo proprio in base alla nota attributiva apposta da Colocci in V. Egli, inoltre, mentre in questo codice e nella sua copia usa la grafia «cielo», nel Vat. lat. 4817 lo chiama proprio «celio» come qui nel nostro codice52. Dal momento che non si può sostenere che Colocci conoscesse V ma ignorasse di proposito i testi siciliani e solo quelli che in esso si conservano mentre si occupava di raccogliere nel Vat. lat. 4831 le informazioni disponibili sulla poesia romanza ed italiana a partire dai provenzali, bisognerà concludere che egli ebbe in epoca assai antica notizie di un «cielo» o «celio» da una fonte che risulta oggi per noi perduta. Del resto, visto che Dante non fornisce il nome dell’autore di Rosa fresca aulentissima e che il componimento compare anepigrafo anche in V, da quale fonte Colocci seppe che esso andava attribuito a Cielo d’Alcamo?53 Infine, suggestivo in questo senso è anche uno dei lacerti dei primi 11 fogli del V fascicolo del nostro codice in cui, appena visibile, si legge di mano del Colocci un «lemosin», immediatamente preceduto da «Appa-

52 «Et io non trovo alcun se non Cielo che tanto avanti scrivesse quale noi chiamiamo Celio .1164.» (cfr. Vat. lat. 4817, f. 171r). 53 Un’analoga ipotesi è suggerita anche da BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 140.

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LE ANNOTATIONI SUL VULGARE YDIOMA DI COLOCCI

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rebit». Dovrebbe trattarsi dell’incipit del ritmo citato da Colocci anche a f. 127r del Vat. lat. 4817 in rapporto a Rosa fresca aulentissima. Concludendo, se si accetta per il Vat. lat. 4831 la datazione proposta che lo colloca in epoca anteriore al 1508 potremmo utilizzare questa data anche come terminus post quem per l’arrivo dell’antiquissimo V e della Raccolta Aragonese nella biblioteca di Colocci; possiamo inoltre stabilire – pur nell’incertezza che circonda la data in cui il De Vulgari Eloquentia iniziò a circolare a Roma fra gli studiosi – che Colocci non ebbe notizie del trattato almeno fino al 1508. Ma la conoscenza del De Vulgari e con essa le osservazioni metriche conservate nel Vat. lat. 3450 non devono essere molto posteriori a questa data se Bembo, all’epoca a Roma, poteva trattare nel I libro delle Prose – scritto già nell’aprile del 1512 – di poesia siciliana ed elencare i poeti antichi secondo l’ordine utilizzato già da Dante nel I libro del De Vulgari. Le date 1508-1512 ci consentono perciò di collocare nel tempo, e dunque nella storia, la data di inizio, per Colocci e per gli altri umanisti all’epoca attivi a Roma, degli studi della poesia antica come tradizione e della sua importanza ai fini della definizione del canone poetico e linguistico a cui gli autori moderni avrebbero dovuto conformarsi e di porre al di là di questo discrimine temporale le valutazioni storico-linguistiche e storico-letterarie conservate nel Vat. lat. 4831.

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CARMEN F. BLANCO VALDÉS — ANA Ma. DOMÍNGUEZ FERRO

IL CODICE VAT. LAT. 4823: IL LABORATORIO COLOCCIANO Nel corso di questa esposizione, faremo riferimento al Codice Vat. lat. 4823 come ad un «laboratorio», appropriandoci di un’espressione utilizzata da Corrado Bologna1, perché crediamo, di fatto, che il termine definisca in modo molto chiaro e preciso questo codice interessante e complicato e inoltre perché questo lavoro è, nelle sue linee generali, lo sviluppo puntuale di uno dei molti aspetti dello studio condotto da Bologna intorno a questo manoscritto2. Alcuni anni fa un gruppo di ricercatori dell’Università di Santiago di Compostela decise, sotto la direzione della Prof.ssa Mercedes Brea, di addentrarsi nell’universo dell’umanista italiano Angelo Colocci partendo da prospettive diverse e affrontando un compito piuttosto arduo. La ricerca si presentava complicata anche per le molteplici incognite pertinenti al lavoro di questo filologo del Cinquecento, alcune delle quali ancora oggi irrisolte3. Mercedes Brea ci propose lo studio di una serie di manoscritti relativi alla poesia italiana, nello specifico i codici Vat. lat. 32174, Vat. lat. 47965 e Vat. lat. 4823 (d’ora in poi Va). Dopo aver iniziato la trascrizione di Va sul microfilm del manoscritto, ci recammo a Roma per una controprova 1 Cfr. C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La Filologia Romanza e i codici. Atti del Convegno (Messina — Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia 19-22 dicembre 1991), a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, Messina 1993, vol. II, pp. 531-587. 2 Cfr. C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. Lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, pp. 105-152. 3 Il punto di partenza di questo lavoro è un progetto di ricerca diretto da Mercedes Brea

López (Notas lingüísticas de Angelo Colocci PB94-0642) e finanziato dalla DGICYT nell’anno 1995. 4 Cfr. C. F. BLANCO VALDÉS, Descripción del códice Vat. lat. 3217 in Atti del XXI Congres-

so Internazionale di linguistica e filologia romanza (Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 18-24 settembre 1995), a cura di G. RUFFINO, Tübingen 1998, pp. 333-338. 5 Cfr. C. F. BLANCO VALDÉS, A. Mª DOMÍNGUEZ FERRO, Algunos aspectos sobre el Códice

Vat. lat. 4796, in Actas del VI Congreso de la Sociedad Española de Italianistas, Madrid 1994, vol. I, pp. 115-120.

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e per tentare di risolvere in situ molti dei dubbi sorti intorno al codice. Questo fu possibile solo per alcuni di essi, molti altri si sono chiariti solo con la pubblicazione del citato studio di Corrado Bologna6. Dato che la maggiore difficoltà presentata da questo manoscritto – la soluzione, cioé, dei problemi relativi alla sua creazione, fenomenologia e relazione con altri codici – era stata già affrontata da Bologna, decidemmo di impiegare quei mesi di studio presso la Biblioteca Vaticana per presentare una ricerca su questo manoscritto, considerato come modello del metodo di lavoro adottato da Colocci ed esempio rivelatore dei suoi molteplici interessi. È nostra intenzione, dunque, presentare Va come il laboratorio privato di Colocci in cui postille e annotazioni si condensano sui margini dei componimenti poetici, trasfmandoli negli oggetti di indagini e riflessioni che evidenziano problemi di carattere linguistico e letterario. È sufficiente aprire il manoscritto in una pagina qualsiasi per rendersi conto degli svariati interessi e aspetti che attiravano la curiosità di Colocci. Si prenda ad esempio il f. 307v: a) Il corpo centrale del foglio è occupato dai componimenti poetici, scritti per la maggior parte da copista in una sola colonna. b) Nel margine destro di ciascuno dei versi si ritrovano parole – tratte dai versi stessi – che entrano in un elenco che, come vedremo, verrà poi utilizzato in un altro manoscritto (il Vat. lat. 3217) con un intento preciso. c) Lungo le pagine di questo manoscritto si trovano poi postille di vario genere: – metriche: per esempio la separazione dello spazio tra fronte e sirma e la segnalazione nella fronte la distinzione tra pied(e) e pied(e), o indicazioni come ballata, sonetto, tornello, ecc.7 – retoriche: con indicazioni come: «silº» (= similitudo); «bisquizza», con allusione, per esempio, al gioco di parole nel verso «O tu che tosto tasti il duro testo»; «accorda imago»; «artificio» («artificiosa», «artific.»); «dialogo» – sul contenuto della canzone: per esempio indicazioni come «partenza», «parla una donna», «compositio infermis», «di sofferenza», «gaudio», «alegrezza», «gilosia»; o ancora come quella che si legge nel f. 449r dove, in margine al sonetto di Dante Molti uolendo dir(e) ch(e) 6 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit. 7 Per lo studio delle note metriche del Vat. lat. 4823, si veda, in questa medesima pub-

blicazione, il lavoro realizzato da G. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y la rima románica: aspectos estructurales (análisis de algunas apostillas coloccianas).

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IL CODICE VAT . LAT . 4823 : IL LABORATORIO COLOCCIANO

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fussi amor(e), a sinistra è postillato il nome «Amor» seguito da una serie di numeri in ordine decrescente che corrispondono ai fogli nei quali si trova la stessa postilla – indicazione del fatto che un componimeto si trova anche in un altro libro (per es. «in Reale», «in Ragona»): queste indicazioni sono a volte seguite da un numero che spesso corrisponde al numero della pagina o del componimento – correzioni al lavoro del copista: capita, infatti, a volte che questi scriva due versi nello stesso rigo e che Colocci intervenga a separarli; o che dimentichi di copiare una canzone, la cui integrazione Colocci indica con un segno di inserzione di forma triangolare (cfr. f. 70v), o attraverso l’espressione «manca una» (cfr. f. 115v). Una correzione molto singolare si trova al f. 404v: accanto al primo sonetto copiato, Colocci scrive «Ubertino 144». Al f. 144v si nota infatti la mancanza dei componimenti numerati 148, 149, 150 di Ubertino, che, anche in questo caso, Colocci segnala con un’integrazione e con il rimando «Ubertino i(n) 404». Prendendo in esame solamente le postille, dunque, potremmo concludere che questo manoscritto è, come precedentemente sottolineato, un autentico laboratorio filologico, linguistico e letterario. Apparentemente, a giudicare dalla dicitura che appare sulla copertina di questo codice – «Cod. 4623 [il 6 è corretto in 8 e il numero corretto – 4823 – è riscritto sotto] ricopiato dall’antichisso: 3793», – esso sembrerebe essere una copia del Vat. lat. 3793 (V)8, uno dei monumenti essenziali, come è noto, della poesia italiana delle origini9. Va, però, offre molto di più: Colocci collazionerà con questo codice altri libri – da lui posseduti, consultati, o di cui aveva semplicemente avuto notizia – contenenti testi poetici italiani. In Va perciò troviamo le tavole di alcuni di questi altri codici e copia di alcuni dei testi in essi contenuti. Si dovrà tenere presente inoltre che l’interesse di Colocci nel compilare questa antologia poetica era anche linguistico, e che essa fornisce informazioni basate su dati constatabili sul suo pensiero intorno alla Questione della lingua. Per questo motivo Colocci non si limita a copiare – o a far copiare – canzoni ma vi appone postille a margine, e crea elenchi di

8 Per le relazioni tra V e Va cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit. 9 Si veda in merito l’importante studio di R. ANTONELLI, Canzoniere Vaticano Latino

3793, in Letteratura Italiana, dir. A. ASOR ROSA, I: Le Opere. Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 27-44.

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parole che confluiranno negli indici di cui si compone il codice Vat. lat. 3217. Per quanto riguarda invece la consistenza codicologica di Va, esso è composto da un totale di 479 fogli ripartiti nel modo seguente: – ff. 1r-25r: in questi primi fogli, la numerazione che va da 1 a 25, posta nel margine superiore destro, appare corretta su una precedente numerazione cassata. Corrado Bologna suppone infatti che i fogli del codice siano stati numerati integralmente dopo che questo aveva raggiunto la sua consistenza attuale in seguito all’integrazione della copia di V con materiale proveniente da un’altra fonte10. Questa prima sezione contiene infatti componimenti provenienti da una fonte diversa dal Vat. lat. 3793, e, precisamente, dal cosiddetto Libro d’Augubio11. Il foglio 1 è preceduto da una copertina, un bifolio con funzione protettiva. – f. 22v: bianco – f. 26a — 26g: tavola alfabetica degli incipit delle canzoni e delle ballate (i sonetti sono copiati in un’altra tavola di cui si dirà poco oltre) copiate in Va e provenienti da V12. I componimenti sono ripartiti alfabeticamente in base alla prima lettera dell’incipit, ma, all’interno di ciascuna sezione alfabetica, gli incipit si susseguono secondo l’ordine di collocazione del relativo componimento in V. Ciascuno di essi è seguito da un numero, generalmente romano, che corrisponde al numero d’ordine del componimento nella raccolta. L’elaborazione di questa tavola è in evidente discordanza con l’originale, dal momento che qui i componimenti appaiono ordinati secondo la loro posizione, a cominciare dalla canzone inaugurale Madonna, dir vo voglio. La tavola è elaborata a due mani: quella del copista che scrive la maggior parte dell’indice, e quella di Colocci che aggiunge gli incipit dei componimenti che egli stesso copia in Va e cioè i primi 33, ed altri che il copista ha trascurato (quelli designati dai numeri arabi 147, 434, 433 e dal numero romano cccxvj). – f. 26gr: bianco

10 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 105, nt. 1. 11 Cfr. M. BARBI, Studi sul canzoniere di Dante, con nuove indagini sulle raccolte mano-

scritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze 1915, pp. 72-73. 12 Nel codice Vat. lat. 3217, ff. 308-314, Colocci fornisce un’altra tavola dei medesimi incipit, dove però vengono inseriti anche i componimenti presenti nei primi 25 fogli di Va.

Questa tavola porta l’intestazione «Siculi», accompagnata da «d’Augubio».

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– fol. 26gv — 26nr: tavola dei sonetti copiati su Va e che fanno la loro comparsa a partire dal f. 308v. Questa serie di incipit fu scritta per mano di Colocci secondo il medesimo sistema adottato per la tavola precedente (ripartizione alfabetica e ordine topograficamente determinato). Nel margine destro appare una numerazione, in numeri arabi, che in questo caso corrisponde al numero della pagina in cui compare il componimento in Va. Questa tavola presenta un problema – relativo all’ordine delle sezioni degli incipit di cui si compone – dovuto probabilmente a qualche errrore di fascicolazione o al fatto che Colocci possa averla iniziata dalla lettera O. La tavola si apre infatti con incipit che cominciano con questa lettera (in particolare con l’incipit del sonetto Oi deo damor(e), ate facio preghier(a) dell’Abate di Tivoli [308]) uniti a quelli che iniziano con la lettera N. I rimanenti incipit dei sonetti in Va si trovano tra i ff. 462r e 472v (bianco il f. 469r-v). La tavola è intitolata «Son. di Siculi.» e, secondo le argomentazioni di Corrado Bologna, fu elaborata da Colocci dopo che il copista ebbe terminato il suo lavoro. In questo indice, infatti, vengono inseriti anche sonetti – di cui parleremo più avanti – che non appartengono a V ma che si ritrovano copiati in Va tra i ff. 446v e 449v. Questi sonetti, nell’elenco, ricompaiono dopo quelli che appartengono effettivamente a V e, come i primi componimenti (ff. 1r-25r), derivano da una fonte diversa da V13. La cartulazione di questi fogli, con il numero 26 seguito da una lettera, è stata eseguita a matita in epoca più recente. – f. 26v: bianco – f. 27r-307v: copia delle canzoni e delle ballate di V. Nel margine superiore sinistro di f. 27r è scritto, con grafia differente, «Copiato dal Cod. Vat. 3793». Nel centro del foglio di mano di Colocci, «Notar Giacomo» e, sotto, la canzone Madonna dir ui uoglio. 1) Dal f. 27r al f. 42r Colocci stesso copia i componimenti dall’1 al 33 (come si è detto, gli stessi che egli aggiunge di sua mano alla tavola generale). La trascrizione della canzone numero 33 Ingioia mi tegno tucta la mia pena di Rinaldo d’Aquino è incominciata da Colocci, ma terminata dal copista, che ne riporta le ultime due stanze. 2) Dal f. 43r al 307v il copista trascrive in modo regolare, in genere in una sola colonna; nei margini compaiono gli indici scritti per mano di Colocci. 13 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 111.

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a) ff. 63v, 64, 65, 66r-v: bianchi. b) Nel f. 67r ricompare l’indicazione «Tratto dal Cod. 3793». c) A partire dal f. 90r ci troviamo nuovamente di fronte ad un problema di fascicolazione, dal momento che questo foglio è seguito da una pagina numerata 99. Seguono quindi regolarmente i ff. da 99 a 112, seguiti a loro volta, però, da quelli da 91 a 98. L’irregolarità andrà imputata ad una confusione prodottasi al momento di unire i fascicoli, poiché nel verso del f. 90 appare solo l’incipit del componimento di Matteo di Ricco da Messina: Lo core innamorato, che continua invece regolarmente quattro fogli dopo, nel f. 91. d) ff. 206r-210v: bianchi e) ff. 262r-266v: bianchi f) ff. 304v-306r-v: bianchi, eccetto f. 305r (v. oltre) g) Nel f. 304r il copista trascrive unicamente la prima strofa di un componimento che numera «cccxv». Rimangono in bianco il verso e il resto del foglio. Il copista continua la trascrizione nel f. 307 (anche il f. 306r-v è bianco) e numera il componimento successivo – Lo gra(n)de mio disire – «cccxvj», numero che non corrisponde all’originale V. Nel verso del foglio copia il componimento Stato son lungiamente e gli attribuisce nuovamente il numero «cccxvj» (che per altro è la numerazione corretta di V). Colocci si rende conto dell’errore e corregge quest’ultimo in «cccxvij». Inoltre nel f. 305 Colocci copia di suo pugno due componimenti – Lalto ualor diuoi donna piacente (ballata) e Amicho mio chemi ’nvitasti acena (sonetto) – numerando però solo il primo «cccxvij». I due componimenti non compaiono nell’indice generale, per cui Corrado Bologna suppone che si tratti di un foglio inserito tra due fascioli contigui da parte dello stesso Colocci14. f. 308-444v: Nuova sezione del manoscritto, occupata da sonetti non numerati, ma che lo sono in V. I componimenti sono trascritti in una sola colonna, mentre nel margine destro continuano ad essere annotate parole. Nel primo foglio compare anche un titolo per mano di Colocci che scrive in lettere maiuscole «SONETTI». f. 444r è occupato dall’ultimo sonetto di V. f. 445r-v: bianco f. 446r-449v: Contiene sonetti provenienti da una fonte diversa da V. Si tratta di componimenti di Cino da Pistoia e di Dante tra cui sonetti 14 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 109-110.

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di corrispondenza tra i due. Nella parte centrale e superiore del foglio Colocci scrive con una grafia minuta «ex L(ibro) fra(ncisi) Pet(rarce). C. Mazzatoste». Bologna ipotizza che questi componimenti provengano da un codice di proprietà della famiglia romana dei Mazzatosta e, in particolare, di uno dei suoi membri conosciuto nella Accademia Romana con il nome di Fabius Ambustus, e per il quale il Leto copiò di suo pugno splendidi codici di classici latini. Riferimento a questo Liber mazzatoste15 si trova anche nelle postille colocciane ai ff. 8r, 16r, 68v e 77v del codice petrarchesco Vat. lat. 4787, trascritto da Niccolò Colocci, padre di Angelo. Con il f. 449 si potrebbe considerare concluso il manoscritto, dal momento che nei ff. seguenti compaiono semplici indici di libri o di autori: – f. 450r-v: bianco – f. 451r-v: Indici disorganici di mano di Colocci, non riconducibili al materiale confluito nel resto del presente manoscritto16. – f. 452r-v: bianco – f. 453r-456v: Fogli in carta di riso di formato diverso, contenenti componimenti in siciliano, riconducibili alla mano di un diverso copista. Si tratta probabilmente, secondo l’opinione di Bologna, di «uno dei fascicoli di lirica meridionale noti al Colocci»17. – f. 457r-458v: Indice dei nomi dei poeti i cui componimenti sono copiati nel presente manoscritto. L’indice è intitolato «Son di siculi». – f. 459r-461v: tavola alfabetica, intitolata «Maestro Arr(ig)o T. Di Firenze», di mano di un copista diverso da quello che compila la copia di V. – f. 462r-472v: Tavola alfabetica recante gli incipit di tutti i sonetti presenti in Va, e comprensiva non solo di quelli che compaiono in V, ma anche di quelli che vengono trascritti in Va tra i fogli 446 e 449r, sotto la dicitura «ex L(ibro) fra(ncisi) Pet(rarca). C. Mazzatoste». Anche questa tavola reca il titolo «Son di Siculi». I sonetti vengono ordinati alfabeticamente e al margine destro di ciascun sonetto è posto un numero che corrisponde al numero della pagina di Va. Qui troviamo gli incipit di sonetti dalla lettera A alla lettera N. L’indice reca tracce di una collazione con il «libro Reale», secondo la lettera di una 15 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., p. 578. 16 «Il bifolio 451-452 parrebbe aggiunto successivamente, essendo su carta diversa, con

filigrana SIRENA A DUE CODE, difficilmente identificabile con sicurezza nella serie dei numeri di Briquet 13884-13892» (cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 105, nt. 1). 17 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., p. 566.

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postilla che Colocci pone accanto ad alcuni componimenti per segnalarne l’appartenenza a questo codice perduto. Questa stessa postilla si trova in corrispondenza dei medesimi componimenti (come già detto, il resto della tavola si trova tra i ff. 26gv e 26nr). Questo indice di sonetti è da mettere in relazione con l’indice di poeti che appare tra i ff. 457r-458v. f. 469r-v: bianco f. 473r-474r: tavola alfabetica intitolata «Cino in 4º con Selvaggio». Anche in questo caso nel margine destro compare un numero che si riferisce alla pagina del libro dal quale viene copiato. f. 474v-475v: indice alfabetico di componimenti intitolato «Dante nellibro delle ep(is)to(le) dovidio», compilato secondo i soliti criteri. Vi si trovano tracce di collazione con il Libro di Ragona. ff. 476r-477v: tavola dei componimenti del già citato Lo daugubio, che chiude il manoscritto.

Una volta analizzato il contenuto del manoscritto risulta evidente che la parte più cospicua dello stesso è costituita dalla copia di V (o da una copia intermedia tra V e Va, secondo un’ipotesi tratteggiata da Bologna18). Si può tuttavia notare che il vero interesse del manoscritto sta proprio in ciò che non è riconducibile a V: gli elenchi di parole, le postille – quelle a cui abbiamo fatto riferimento –, la copia di componimenti provenienti da altri libri che contenevano poesia italiana e la menzione di questi. Cominciamo con l’analizzare le liste di parole che appaiono già in apertura del manoscritto. Nel verso della copertina si trova una lista di parole provenienti dalle poesie copiate nel recto del medesimo foglio. Questi elenchi vengono elaborati successivamente alla redazione della copia, e la grafia è sempre di Colocci. Quando è egli stesso a trascrivere i componimenti (e ciò avviene dalla canzone 1 all’inizio della 33) le liste sono molto caotiche. Ciò è dovuto fondamentalmente al fatto che egli non lasciasse spazio sufficiente nel foglio copiando i testi. Per questo motivo possiamo supporre che l’intenzione di creare liste delle parole dei componimenti sia posteriore al desiderio di avere nello stesso manoscritto tutte le poesie e gli autori che lo compongono19. Quando è il copi18 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., nt. 4 e specialmente nt. 5 di p. 106, p. 110 e p.

127. 19 Nel f. 10v, per esempio, Colocci trascrive solamente i componimenti e i loro elenchi compaiono nel f. 11r. Tra i ff. 13r e 20v Colocci riproduce soltanto il testo mentre gli elenchi corrispondenti compariranno solo alla fine del fascicolo, tra i ff. 21r e 22r (il verso è bianco).

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sta a realizzare la copia gli elenchi sono più sistematici: egli infatti trascrive le poesie in una sola colonna, mentre gli elenchi si trovano sempre nel margine destro del foglio. Sicuramente lo scopo pratico che Colocci intendeva perseguire con queste operazioni di interesse lessicale e grammaticale era anche poter dimostrare le proprie idee linguistiche nell’ambito del contemporaneo dibattito sulla Questione della lingua, attraverso un panorama diacronico di testi e autori. A questa stessa finalità risponde un altro importante manoscritto, il Vat. lat. 3217, che reca il titolo «Index verborum seu vocum collectus per Angelum Colotium ex Petrarcha, Siculo, Rege Roberto, Barbarino», che può essere messo direttamente in relazione con Va. Gli indici dei siculi si trovano infatti tra i ff. 114r-255r, appunto sotto il titolo Siculi. Mentre gli indici che si riferiscono a Petrarca e a Re Roberto appartengono alla mano di Colocci, quelli dei Siculi e di Barbarino si devono allo stesso amanuense, a giudicare dal tipo di grafia, che realizzò la copia di V. Gli elenchi di parole sono ordinati alfabeticamente secondo la lettera iniziale di quelli, ma la struttura interna a ciascun raggruppamento alfabetico rispecchia l’ordine che le parole hanno nel testo. Un numero che corrisponde alla pagina di Va viene collocato, in corrispondenza di ciascuna delle parole o gruppi di parole20, nel margine destro. Per quanto riguarda i libri citati nel manoscritto, appare evidente che Colocci, con la raccolta di tutto questo materiale (componimenti poetici, indici di autori, riferimenti ad altri codici e loro tavole), voleva fare del manoscritto 4823 un significativo compendio della poesia italiana che radunasse, oltre al grande patrimonio poetico del 3793, tutti quei poeti già classici nella sua epoca, come Dante, Cavalcanti, Cino da Pistoia o Francesco Petrarca, e quelli presenti in altre raccolte di poesia italiana. Dal momento che lo studio di Bologna insiste soprattutto su questo argomento, e cioè sulle relazioni esistenti tra Va e gli altri libri, noi ci limiteremo semplicemente a sottolineare le peculiarità più evidenti. I vari libri che vengono citati o perché se ne crea la tavola, o perché vengono collazionati o, infine, perché se ne copiano i componimenti, sono: a) Libro daugubio: i suoi testi vengono copiati nei primi fogli del manoscritto, mentre la tavola viene collocata alla fine, dunque in apertura e chiusura del codice. Ricordiamo inoltre che nel Vat. lat. 3217 tra i ff. 308 e 314, Colocci fornisce una tavola, sotto il titolo «Siculi» a cui aggiunge-

20 Cfr. BLANCO VALDÉS, Descripción del códice cit., p. 334.

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CARMEN F . BLANCO VALDÉS



ANA M a . DOMÍNGUEZ FERRO

va «d’Augubio», che contiene tutti i componimenti provenienti da questa raccolta copiati in Va. b) Libro Reale: questo testo è semplicemente collazionato. Il ms Vat. lat. 3217 ne offre una tavola tra i ff. 316 e 318 e Colocci precisa che esso «ha la sua tavola». Si tratta di un libro oggi perduto, forse una copia redatta nel secolo XVI, elaborata su manoscritti di poesia italiana. c) Libro di Ragona: anch’esso semplicemente collazionato. Si tratta della Raccolta aragonese che Colocci potè consultare durante il suo soggiorno napoletano o di cui forse potè soltanto vedere la tavola quando era già a Roma. d) «Li(bro) fran(cisci) Pet(rarca). C. Mazzatoste» [in postilla]; «Dante nello libro delle ep(is)to(le) dovidio»; «Maestro Arr(ig)o T. Di Firenze»; «Cino in 4º con Selvaggio»: di queste raccolte sono date le tavole delle poesie. Per quanto riguarda l’ultimo codice citato è sempre Corrado Bologna a ricostruire perfettamente la sua complessa elaborazione. Secondo questa ricostruzione, molti dei componimenti presenti nella tavola intitolata «Cino in 4º con Selvaggio», lo sono anche nell’altra tavola che appare nel Vat. lat. 3217, a f. 323r, ma, in questo caso, sotto il titolo «Selvaggio» poi cassato e corretto in «Guinicelli» sebbene la maggior parte delle poesie siano, di fatto, di Cino da Pistoia. Il primo componimento di questa serie è La bella stella chel te(m)po misura, e, quando Colocci copia questa canzone, che fa parte del Libro d’augubio, in Va (f. 24), scrive «Selvaggio» e, sotto, «Guido Guinicelli». A questo proposito Bologna nota che: Lo studioso o sciolse in due parti una raccolta lirica in 4°, in precedenza compatta, contenente Cino e il codice chiamato Selvaggio o fuse il Selvaggio in coda a un Cino in 4º 21.

Ad ogni modo è certo che Colocci attribuisce ad un Selvaggio che confonde con Guinicelli una serie di componimenti che ritroveremo in Cino22. La finalità di questo contributo era, come dichiarato in apertura, di mostrare, in maniera quanto più possibile chiara, il metodo di lavoro – con questo complicato assemblaggio di libri tavole e codici – e i vari interessi di Angelo Colocci. Un metodo a volte caotico e difficile da decifrare perché il Vat. lat. 4823 fu sicuramente concepito anche come 21 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., p. 568. 22 Un magnifico ed esemplare percorso sulla storia di questi libri si può leggere ibid.,

pp. 568 e 577.

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IL CODICE VAT . LAT . 4823 : IL LABORATORIO COLOCCIANO

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una minuta, una copia destinata a contenere materiali di varia provenienza, su cui poter intervenire con annotazioni, sottolineature e confronti, in preparazione a studi e conclusioni successive. In definitiva, questo manoscritto appare, come si diceva: «un laboratorio, un’officina, un luogo d’ispirazioni e di sperimentazioni» 23.

23 Cfr. ibid., p. 579.

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MARGHERITA SPAMPINATO BERETTA

IL “CASO” CIELO Riassumerò in questa sede, un’occasione felicemente interlocutoria di scambi di idee, di esperienze e di dubbi più che di affermazioni di posizioni, tutte quelle dense e stimolanti riflessioni che Corrado Bologna ha riservato al “caso Cielo” nel corso di un’ampia ricerca, non di breve durata, dedicata ai canzonieri di Angelo Colocci, riflessione che si è concentrata sia sul Vat. lat. 4823, descriptus umanistico celeberrimo perché fatto approntare dal filologo su V (Vat. lat. 3793) e da lui costellato, lungo i margini, d’innumerevoli postille e annotazioni di lavoro, sia sul cosiddetto zibaldone Vat. lat. 4817. Tali considerazioni, tutte di profondo interesse metodologico, di recente sono state raccolte e sistematicamente esposte nel saggio La copia colocciana del canzoniere vaticano (Vat. lat. 4823), nel IV volume de I Canzonieri della lirica italiana delle origini, Studi Critici1. Vorrei ricordare rapidamente i dati finora accertati circa la tradizione del Contrasto. Nel Vat. lat. 3793 il Contrasto è anonimo e anepigrafo come nella tavola antica contenuta nel primo fascicolo, che Bologna ritiene copiata da quella dell’antigrafo anziché realizzata sullo stesso V2. Un’annotazione cinquecentesca per mano di Angelo Colocci in capo al foglio 15r segnala: «Dante cita questa», chiara indicazione dei legami fra il ms. e le citazioni dantesche nel De Vulgari eloquentia. La postilla è certamente precedente alla scoperta, in un’altra fonte, dell’attribuzione. Nella tavola alfabetica in ordine topografico inserita da Colocci, credibilmente prima di decidere una trascrizione dell’intero libro, il filologo cinquecentesco introdusse al f. 104v l’indicazione «Cielo 54», preceduta da un segno di inserzione ( a, r > t sono infatti gli errori più frequenti di meccanica lettura dell’exemplar. Sarà da notare che proprio su questi errori palesi di copia Colocci non interviene: non vuole ‘correggere’ tanto la trascrizione, ossia l’operato del suo copista, ma utilizzare questa copia per il suo lavoro che non è solo di ricerca (linguistica, metrica, storico-culturale in senso ampio, ecc.) ma è anche di collazione. Continuare a voler vedere Va, infatti, come semplice descriptus di V vuol dire non tener conto della globalità degli interventi colocciani o ridurre questi ultimi solo a quelli correttori desumibili da V, il che pone, già a priori, il significato della cosiddetta ‘correzione’: si può parlare, 4 Già nell’incipit del planh di Giacomino Pugliese, che compare in V, la lezione gran che

è un chiaro errore di lettura su una forma estesa grande. 5 Vedi C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La Filologia romanza e i codici. Atti del Convegno. Messina, Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia 19-22 dicembre 1991, 2 voll., a c. di S. GUIDA e F. LATELLA, Messina 1993; II, pp. 531-587, qui p. 538. 6 Cfr. G. GENETTE, Seuils, Paris 1987; trad. it. Soglie. I dintorni del testo, Torino 1989. 7 Difatti il copista non copia le parti sbiadite del primo foglio del fascicolo, segno, con

quanto si dirà dopo, che all’epoca il Vat. lat. 3793 ancora non era rilegato (vedi anche BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 109 e nota 14).

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COLOCCI LEGGE

«ROSA FRESCA AULENTISSIMA»

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anche in senso ‘tecnico’, di correzione: è questo l’intento di Colocci (ossia ricondurre il lavoro del copista alla lezione di V, exemplar unico) o, anche ove questi interventi sembrino ricondurre a V, riconducono invece a un exemplar diverso da V anche se a questo simile?8 Per poter attingere a qualche dato certo, o che alla certezza aspira, sarà il caso di esaminare al microscopio l’aspetto del contrasto nei due canzonieri, svuotando la mente da quanto finora discusso o dato per certo, per tener conto solo dei dati materiali. Presenterò, quindi, alcune tabelle di riscontri fra i due canzonieri, nelle quali i dati sono già stati differenziati per tipologia, per soffermarmi, infine, su sei casi emblematici, sei ‘schede’9 che riportano i casi a mio parere più significativi. 1.1. Note linguistiche e/o esplicative Le note colocciane che costellano il componimento sono in gran parte di carattere linguistico: sorta di ‘traduzione’ di alcune parole, segnalazione di grafie differenti dall’uso corrente, ecc. Do qui di seguito l’elenco di queste note esplicative, scritte indifferentemente in italiano o in latino (ribadendo che mi limito al solo contrasto di Cielo): 1. Avanti mi taglio la chioma, in testa al f. 67r, a spiegazione dell’espressione ritonno li cauelli di v. 10, riportata in margine; 2. boglio10. volo; 3. .i. io ti c(on)siglio, al margine sinistro come spiegazione di Consiglio che ti guardi11; 4. Ambari ha i(n) bari12; 5. et p(er) Aiunta agiunta, in testa al f. 67v, insieme all’altra annotazione Dauanti p avanti .d. onde do(n)de, richiamata a sua volta da ana-

8 Questa l’ipotesi portata avanti da BOLOGNA (La copia colocciana cit., passim), che propende per «una probabile derivazione di Va da una copia intermedia» (ibid., p. 110). 9 Il numero del verso si riferisce a quello dell’edizione Panvini del 1962 (Le rime della scuola siciliana, I, a cura di B. PANVINI, Firenze 1962, pp. 169-176), la forma del verso alla lezione di V. 10 Caso di betacismo, sul quale si ritornerà in seguito. 11 Anche BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 131, la considera semplice nota esplica-

tiva. 12 Nel caso specifico la correzione del testo con l’aggiunta di una h sopra la a di ambari

(hambari, sottolineato e con aggiunta sotto la nota ego ha i(n) bari) sembrerebbe dipendere proprio dall’interpretazione che Colocci offre del verso e non da probabile collazione con altra fonte; uguale l’interpretazione offerta a suo tempo da BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 131.

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228

SIMONETTA BIANCHINI

loga nota a margine di v. 36, Davanti il .d., e da Dava(n)ti ut s(uso)13 di v. 69; 6. podesta s(cilicet) potestate; 7. Boime heu; 8. p . poiche; 9. mare madre e l’analogo Mon peri mio patre; 10. vìtama mia vita i(dem), dove idem si riferisce al suso (Da(u)anti ut s(uso)) del rigo precedente; 11. bale14 vale; 12. Di Quaci di qua; 13. chiaci placet; 14. Mosera moveria; 15. Stao sta; 16. Abero habuer(unt), con l’analogo pottero potuer(unt); 17. massai .i. assaggi, annotato di seguito al verso; 18. Arma a(n)i(m)a; 19. chista cotesta; 20. mi sei amm, in testa al f. 69r, come spiegazione (?) di mise mente [«ch’entrata mi se’ ’n mente»], all’inizio di foglio [questo intervento colocciano può essere variamente interpretato e per questo motivo si trova inserito anche nella tavola seguente, p. 231]; 21. di qu(ando), spiegazione al margine sinistro di dicano del testo; 22. ittom mi gitto; 23. Mìsera . miteria; 24. Ancho no(n) udi spiegazione (?) del non udire dire ancheo del testo; 25. plazati . ti piaccia . piacciati, ripreso in fine di foglio con spiegazione più particolareggiata: piacciate altro e dire ch(e) ti piaccia p(er)che in q(ue)sto Sostegno prego ch(e). voglio che . ti piaccia (con cancellazione di una sillaba aggiunta piacciat); 26. Inanti potius; 27. ne e dato i(n)bentura .i. sorte, in fondo al f. 69v, spiegazione dell’ultimo verso del contrasto (ma vedi anche successiva p. 237). 13 Lo scioglimento della s credo sia più giusto nella forma suso (pur nell’oscillazione tanto frequente nella forma delle tachigrafie colocciane), quale si ritrova nello stesso Vat. lat. 4823, f. 257v, nel margine inferiore del foglio, dove l’indicazione è distesa: «Como suso [con so in inchiostro più chiaro, poi ripassata solo la s] Amor(e) amor(e)». A f. 256r troviamo ancora annotazioni riferentisi alla presenza della d, d’altronde frequentissime per tutto il codice: al margine destro della seconda strofa di Rosa aulente, anche qui anonima, accanto al verso «Comfortto nedaiuto» si trova «Ne .d. aiuto» con «.D.» richiamato al rigo sottostante. 14 Da notare quest’altro caso di betacismo nel contrasto cieliano.

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COLOCCI LEGGE

«ROSA FRESCA AULENTISSIMA»

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A questo tipo di annotazioni, abbastanza numerose, si affiancano quelle di tipo apparentemente enumerativo, che confluiranno poi nel glossario dei siculo-toscani, contenuto nel Vat. lat. 3217, sempre di mano di Colocci; la riprova che questa fosse l’intenzione di Colocci è data dal fatto che dei 122 lemmi da lui annotati in margine al contrasto di Cielo in Va, ne mancano solo 10 (una cifra statisticamente irrilevante, ascrivibile a semplice distrazione) nel glossario contenuto nel 3217, che non si limita a registrare i semplici lemmi di Va, ma li ricopia con le notazioni che abbiamo già esaminato e con l’indicazione del foglio nel quale compaiono. 1.2. Interventi che non riconducono a V Gli elementi che più farebbero pensare a collazione su altro manoscritto sono anch’essi piuttosto numerosi. Mi sembra utile fornirne qui di seguito l’elenco (la numerazione dei versi si riferisce, nell’ordine, a quella dei versi di ogni singolo foglio di Va), segnalando anche eventuali ipermetrie conseguenti all’intervento colocciano; non ritengo opportuno, invece, rifarmi a varianti derivanti da altre annotazioni colocciane contenute, frammentarie, nel Vat. lat. 481715 in quanto dovute quasi sicuramente a sbalzi di memoria; quelle di Va nascono invece con il preciso intento di correggere il testo approntato dal copista e, nel loro frequente anche se minimo discostarsi dalle lezioni di V, sembrano offrire una maggiore garanzia di attendibilità: foglio

verso

f. 67r

v. 3

Trami corretto, come già visto, in tragemi con ge trami soprascritto

Vat. lat. 4823

Vat. lat. 3793

f. 67v

v. 1

quanta corretto in quantha16 con h soprascritta

v. 4

e da motesta segnalato a sinistra, sul margine, da e damone|sta crocetta (da Colocci?)

quanta

15 Ma per le quali rimando sia a BOLOGNA, La copia colocciana cit., sia ad altri interventi in queste pagine ‘colocciane’. 16 La correzione sembrerebbe di mano colocciana (sua la forma della lettera aggiunta),

anche se l’inchiostro è diverso: forse da attribuire, come in altri casi, ai diversi tempi di intervento sul testo? In questo caso è comunque chiara l’intenzione di puntualizzare la presenza del verbo, come dimostrato anche dall’analoga aggiunta dell’h nel verso precedente (f. 67r: «quanto halo Saladino»); la correzione non compare, però, in casi analoghi più avanti nel testo (vedi, ad esempio, tutte le occorrenze di ma, mai = «m’ha», «m’hai», rimaste inalterate).

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230

f. 68r

f. 68v

SIMONETTA BIANCHINI

v. 10

Et sera: aggiunto heri tra et e sera (Et heri sera pas- ersera cipassasasti coren(n)o aladistesa); cancellato con due tratti sti coren(n)o ala verticali di penna l’avverbio ci17; le correzioni di distesa Colocci, in questo verso, sono in inchiostro più scuro (forse attribuibile a diversi momenti redazionali); verso ipermetro (+1)

v. 12

aggiunto al margine sinistro p(er)ch(e); verso ipermetro (+4)?18

v. 19

completato il secondo emistichio ego19 i(n) te le in teue mie belmie bellizze, accolto da Allacci lezze

v. 6

calabra corretto in calabria con i soprascritta

v. 16

Dicio chediciui tama diviso meglio da sottolineatura e poi riscritto sopra vìtama (come in V)

v. 7

abere corretto con h davanti e v soprascritta alla b, abere quindi ripetuto accanto havire20

v. 9

saua(n)tinon massay postillato al margine destro .i. sava(n)ti non assaggi massai

calabra

17 et è forma facilmente spiegabile come cattiva lettura di er di V, ma Colocci non corregge et, lo mantiene scrivendo, sopra, la forma distesa heri e cancellando il ci per poi aggiungerlo dopo passasti: viene così ad essere ricostituita la sdrucciola alla cesura, come ormai accettato, su emendamento di D’Ovidio (cfr. F. D’OVIDIO, Versificazione italiana ed arte poetica medioevale, Milano 1910, pp. 673 e 686-687), in quasi tutte le edizioni moderne (tranne A. PAGLIARO, Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in ID., Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958, pp. 193-232, qui p. 225: «ersera ci passasti»). Al margine destro del foglio il richiamo rimanda a ci passasti, fornendo una datazione relativa per la correzione, ovviamente posteriore al rimando. 18 [p(er)ch(e)] Le tua çpçarçaçboleæ: il sostantivo sottolineato rimanda solo all’interesse di Colocci per questo lemma (nella copia colocciana è sottolineato in tutto il contrasto – tranne v. 16 di f. 69r – e richiamato a margine, nell’elenco dei lemmi; quest’interesse non arriva però a concretizzarsi nella trascrizione dei lemmi in ordine alfabetico nel Vat. lat. 4817, f. 88r-v) e non alla coscienza di un errore ‘metrico’, facilmente sanabile sostituendo parabole con parole, come già operato da Contini (Poeti del Duecento, a cura di G. CONTINI, I, MilanoNapoli 1960, p. 179, senza spiegazioni neanche nelle note del secondo volume, p. 819; si veda anche S. BIANCHINI, Cielo d’Alcamo e il suo contrasto. Intertestualità romanze nella scuola poetica siciliana, Soveria Mannelli 1996, pp. 92-93); sarebbe più interessante l’aggettivo possessivo nella forma tua, quindi con un assetto linguistico che lo accosterebbe alle due occorrenze di la persone, se non ostasse la presenza dell’articolo al plurale (ma cfr. f. 68r, v. 17: «Cadele tuo parabole» e v. 23: «Prezo le tuo parabole», perfettamente aderenti alle lezioni di V; corsivi miei). Credo, però, che sarebbe interessante controllare a tappeto la presenza di simili ‘errori’ in tutta la copia colocciana. Per altre osservazioni sull’intervento colocciano si rimanda, nel testo, alla ‘scheda’ successiva. 19 Questo ego, che già si era ritrovato al f. 67r, accanto al verso p(er) quanto avere hambari (cfr. precedente nota 12), sarebbe da interpretare come abbreviazione di ‘Equicola’, secondo la supposizione di Vincenti (E. VINCENTI, Bibliografia antica dei trovatori, MilanoNapoli 1963, p. XXX); in tutti e due i casi in questione è chiarissima la lettura ego. 20 Ma vedi ‘scheda’ successiva, p. 232.

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COLOCCI LEGGE

f. 69r

«ROSA FRESCA AULENTISSIMA»

231

v. 19

Larma nandaria corretto (ma sembrerebbe mano larma nanderia posteriore) con L soprascritta alla r di arma ed e soprascritta alla seconda a di andaria (quest’ultimo ricondotto alla forma di V)21; la postilla di sicura mano colocciana al margine destro, arma a(n)i(m)a, confermerebbe un intervento posteriore

v. 25

p(er)dici lep(er)sone integrato al margine destro p(er)dici con ^ la (ripetuto il richiamo ^ tra perdici e leper- lep(er)sone sone, ma non corretto a v. 50 dove l’espressione si ripete)22

v. 1

mise mente aggiunto sopra (come spiegazione?)23 mise mente mi sei amm

v. 24

mami amoti integrato con et soprascritto; mami amoti ipermetro (+1), a meno di non ipotizzare una sinalefe

v. 15

giudero cancellata con un tratto di penna la r (per giudero la rima?)

21 La forma arma per anima si ritrova tre volte nel contrasto di Cielo: ai vv. 102, 145 e 155; a questi si oppone però la forma estesa animella di v. 95; tra gli altri siciliani troviamo solo alma, in attestazione unica in Pier delle Vigne, Amando con fin core e co speranza, v. 30. Cfr., per questa forma, anche quanto afferma Bezzola (R. R. BEZZOLA, Abbozzo di una storia dei gallicismi italiani nei primi secoli (750-1300), Zurigo 1924, p. 225 nota 2), che unifica le due forme, mentre Menichetti, nella sua edizione di Chiaro Davanzati (CHIARO DAVANZATI, Rime, ed. critica a cura di A. MENICHETTI, Bologna 1965, p. 418), scheda la forma arma come «sicil.- prov.»; in Vat. lat. 4823 e nell’altro manoscritto colocciano, il Vat. lat. 3217 contenente il glossario dei Siculi, sono numerosissime le note di Colocci che riguardano questa forma, anche se alcune volte viene spiegata con alma invece che con a(n)i(m)a, come in questo caso (cfr., a livello puramente esemplificativo, la nota a margine di f. 256r di Vat. lat. 4823, accanto all’ultimo verso della prima strofa di Rosa aulente, Larma mefallita: Arma alma, ripetuta identica a fondo foglio. 22 È probabile che nel manoscritto usato per la collazione ci fosse la persone, lezione ipotizzata già dagli editori nella presunzione che persone sia un singolare; una eventuale conferma all’ipotesi di collazione, che però contrasta con quella di Bologna che presumeva un codice di base con le stesse liriche di V, ci sarebbe offerta dal fatto che nel resto di Vat. lat. 4823 non si trovano altre correzioni del genere, neanche controllando specificatamente i brani in cui l’espressione di Cielo ricompare, ossia Part’io mi cavalcava (cclxvi, f. 272v) e Rosa aulente (cclxxi, f. 256r): cfr. Poeti del Duecento cit., I, p. 182: «Circa perdici la (anche qui, come 50, codice le) persone il perdoci la (ivi pure codice le) persone dei versi interpolati entro Rosa aulente e il muoia o perda la (codice sempre le) persone dell’altra anonima Part’io mi cavalcava dimostrano che è una frase tradizionale». 23 La forma sei amm, differente anche dall’italiano cinquecentesco oltre che dalla

lezione di V, farebbe pensare o a collazione, appunto, su testo diverso da V oppure a ‘ricordo’ di forma analoga in altro testo, annotata a futura memoria.

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232

SIMONETTA BIANCHINI

v. 27

f. 69v

Quisso timp(ro)metto sanza faglia integrato con ben quisso soprascritto dopo quisso e da eo soprascritto prima timp(ro)metto di sanza [«Quisso ben t’imprometto eo sanza fa- sanza faglia glia»]; ipermetro (+1); regolare se si ipotizza una sinalefe alla seconda integrazione

vv. 6 uangiele corretta la e finale in i e9

uangiele in ambedue i casi

v. 15

presenza corretto in presenzia con i soprascritta

presenza

v. 18

Inuentura corretto, sul testo, Inbentura, ripetuto jnuentura nella nota a pié di foglio24

1.3. Discrepanze mantenute tra V e Va A queste si possono aggiungere diverse correzioni di vocali finali, per esigenze di rima, parrebbe, e quindi non eccessivamente probanti. Più interessante, ai nostri fini, è notare che Colocci non corregge gli errori, pure frequenti e spesso vistosi, fatti dal copista nella trascrizione di V; può essere utile dare un elenco anche di questi (a sinistra le lezioni di Va e a destra quelle di V; anche in questa tabella l’indicazione del verso si riferisce alla sequenza nei singoli fogli di Va): foglio verso Vat. lat. 4823 f. 67r f. 67v

Vat. lat. 3793

v. 2

tedisiano

tidisiano

v. 6

trabalgliati

trabalgliti

v. 4

e da motesta

edamonesta

v. 5

p(er)cazala

p(er)cazela

v. 8

Cheo

Keo

v. 11

Aquisti

aquista

v. 14

purpenzando

purpenzano

v. 15

seculo

secolo

v. 20

adiuenessemi (corretta solo la seconda e in i)

adiuenissemi

v. 21

mateno

maren(n)o

v. 23

aete

clere

v. 24

e tennomi

erenomi

v. 25

uencierte

uencierti

v. 26

elomatino

elomaitino

v. 27

ch . songno

bisongne

24 Cfr. precedente p. 228.

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COLOCCI LEGGE

f. 68r

f. 68v

f. 69r f. 69v

v. 2

«ROSA FRESCA AULENTISSIMA»

delioro

del tuto

aitato

airato

v. 3

(concie, di mano più tarda) pistime

conciepistimi

v. 7

costantinopuli

costantinopoli

v. 18

sono ricadute

sonoticadute

v. 8

(manca)

ma non

v. 16

dingnara

dengnara

v. 19

cade

cadi

v. 24

mej

miei

v. 27

aiotare

aiatare

v. 8

iitomi

itomi

v. 13

epecare

apecare

v. 3

misinstella

misinfella

v. 11

sora esto

sour esto

233

Non ho compreso nell’elenco tutti i casi, e sono tanti, di quei raddoppiamenti consonantici tipici di V e non rispettati nella copia colocciana (mortto, colppo, ecc.). Questa tabella di raffronto serve essenzialmente a rendere evidente, anche visivamente, l’importanza delle vere e proprie correzioni che Colocci apporta alla sua copia: i suoi interventi, che spesso si limitano ad una sola lettera e non sono fatti su tutte le sviste del copista, potrebbero anche essere dovuti ad interesse specifico per quel determinato lemma, ma, insieme alle tabelle prima esaminate, danno anche l’impressione di ‘correzione’ su un manoscritto che certamente riportava il testo del contrasto con varianti minime rispetto a V, come più volte ipotizzato da Bologna. Colocci non interviene neanche per correggere eventuali ipermetrie del verso, nonostante il suo interesse, continuo nel tempo, per il metro usato da Cielo: spesso, anzi, i suoi interventi hanno un effetto turbativo che meraviglierebbe se non fossero riconducibili ad una fonte diversa da V. Non ho intenzione di approfondire l’argomento su una eventuale fonte lirica, rimandando ai numerosi ed eccellenti lavori di Bologna, ma in ogni caso la conseguenza più vistosa della presenza di fonti alternative è l’esclusione, mi sembra definitiva, di una tradizione orale del contrasto di Cielo fino a Dante, ipotizzata da Pagliaro in opposizione ad una tradizione scritta degli altri poeti della prima scuola. Altra conclusione, molto importante, è che le varianti che ritroviamo in Va presentano tratti molto meno toscanizzati rispetto al testo ‘ufficiale’

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234

SIMONETTA BIANCHINI

arrivato fino a noi25 e dovrebbero quindi far capo ad una tradizione precedente allo stesso V o almeno più vicina all’originale (tenendo per buona, anche se per parte mia nutro parecchi dubbi in proposito, una tradizione siciliana, o almeno sicilianeggiante, del contrasto). 2. Schede di discussione v. 3: «trami deste focora seteste abolontate» 1. trami di V, esattamente riportato dal copista, viene integrato da Colocci in trami (tra[ge]mi deste focora seteste abolontate)26; 2. Dante nel De Vulgari Eloquentia cita questo verso cieliano con il verbo tragemi (DVE, I, 12, 33: «si vulgare sicilianum accipere volumus, secundum quod prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur, prelationis honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur, ut puta ibi: Tragemi d’este focora, se t’este a bolontate.»); 3. Colocci ‘corregge’ la copia di V in tragemi, e questo prima delle annotazioni e richiami a margine (tragemi); 4. Colocci richiama spesso la canzone di Dante Traggemi de la mente Amor la stiua (ora perduta)27 citata dallo stesso Dante nel De vulgari eloquentia28 (la forma tragemi invece del trami che si trova in V, deriverebbe da questo codice perduto, già toscanizzato, oppure dall’uso dantesco?); 5. Colocci scrive in alto, sul f. 56r di V, Dante cita questa. La correzione di Colocci è fatta in base al DVE, in base alla forma del verbo in Dante (ipotesi meno probabile; l’interesse caso mai è inverso, dal contrasto a Dante), oppure per collazione su altro manoscritto (vicino, allora, a quello utilizzato da Dante)? Oppure, sempre sulla base delle 25 Un caso vistoso è quello della correzione rispetto a V, inbentura al posto di jnventura, f. 69v, v. 18, inserendo un caso di betacismo tipicamente meridionale; cfr. successiva p. 237. 26 Non entro nella discussione sulla trascrizione della palatale sonora, intensa o no; ri-

mando per questo all’analisi di Margherita Spampinato, presente in questo volume (p. 216), che puntualizza e rafforza le precedenti ipotesi di Bologna. 27 Ad es. nel Vat. lat. 3217, f. 329rb. Secondo Mengaldo (P. V. MENGALDO, Tragemi de la

mente amor la stiva, in Enciclopedia dantesca, direttore U. BOSCO, 5 voll., Roma 1970-1976; V, 1976, p. 684b) anche in Va, in una lista di rime di «Dante Nellibro delle eple douidio», con però accanto l’indicazione «deest». 28 DVE, II, 11, 5: «Quandoque versus frontem superant sillabis et carminibus, ut in illa quam diximus: “Traggemi de la mente amor la stiva”».

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attestazioni da lui conosciute, è un tentativo di ripristinare la misura del verso? v. 38: «ersera cipassasti coreno aladistesa» 1. Colocci cancella con due tratti verticali di penna l’avverbio ci e lo ‘sposta’ dopo passasti29: viene così ad essere ricostituita la sdrucciola alla cesura, come ormai accettato, su emendamento di D’Ovidio, in quasi tutte le edizioni moderne (tranne Pagliaro: «ersera ci passasti»)30; 2. al margine destro il richiamo colocciano rimanda a ci passasti (le correzioni di Colocci, in questo verso, sono in inchiostro più scuro delle annotazioni a margine; il tipo di annotazione a margine, unito al diverso inchiostro, dimostrano un intervento posteriore); 3. aggiunge (?) heri tra et e sera, anche se c’è il sospetto che, più che di integrazione, possa trattarsi di glossa di Et (= er di V)31; il verso ne risulta ipermetro (+ 2; + 1 se si considera heri come glossa e non come aggiunta); 4. non corregge Et in Er, come è in V (Et [heri] sera passasti[ci] coreno aladistesa). Ne consegue che l’intervento di Colocci non tende né a restituire la struttura metrica né ad adeguarsi a V; viene quindi ad essere indebolita una delle ipotesi finali della ‘scheda’ precedente. v. 40: «letue parabole a me nompiaciono gueri» 1. al margine sinistro del foglio aggiunge p(er)ch(e); 2. sottolinea sia parabole sia gueri; 3. non interviene sul possessivo tua riferito a parabole. Molto dubbia la spiegazione di questo intervento colocciano; se si tratta di una nota esplicativa non ci sono molti problemi, a parte la mancanza di interventi su altre parti del verso (non corregge, per esempio, tua di Va in tue); se si tratta, invece, di aggiunta, e non di spiega29 Ringrazio Corrado Bologna che ha ricontrollato direttamente su Va questa mia ‘anti-

ca’ lettura: si vede chiaramente l’avverbio ci con accanto un tratto obliquo sbiadito (segno di rimando a passasti?). 30 Cfr. precedente nota 17. 31 La sostituzione di r di V con una t è uno degli errori più frequenti del copista di Va.

Colocci neanche in questo caso corregge: dimostrazione che, almeno in questo momento, non gli interessava l’esatta lezione di V?

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zione, ne risulterebbe un verso anomalo e inquietante, un alessandrino dove parabole, al posto di parole, sarebbe del tutto legittimo e, anzi, con la sua forma sdrucciola, quasi obbligato in cesura, come dimostrato in altri alessandrini dove il lemma compare32. Accettare però, anche dubitativamente, una simile ipotesi porterebbe automaticamente a ipotizzare un errore in archetipo (?) che avrebbe portato a dislocare un alessandrino al posto di un endecasillabo (ma da dove?), e a mettere quindi in discussione l’assetto del componimento anche in altri luoghi problematici33. v. 108: «bello mi sofero p(er)dici lep(er)sone» 1. aggiunge la davanti a lepersone senza cancellare le (bello mi soscio p(er)dici [la] lep(er)sone)34; 2. non aveva corretto a v. 50 (V: avante chemar tochino lepersone; Va: [Avante]35 chemar tochino lepersone), dove si trovava la stessa espressione; 3. nel resto di Va non si trovano altre integrazioni o correzioni del genere, neanche controllando specificatamente i brani in cui l’espressione di Cielo ricompare, ossia Part’io mi cavalcava (cclxvi, f. 272v) e Rosa aulente (cclxxi, f. 256r); 4. non integra il primo emistichio del verso. Ne consegue che Colocci non corregge in base a V e non opera una restituzione congetturale, né della lingua (la invece di le) né del testo (mancata integrazione del primo emistichio). v. 139: «quisso timp(ro)metto sanza falglia» 1. integra ben, soprascritto dopo quisso, ed eo, soprascritto prima di sanza (quisso t’imprometto sanza falglia); 2. in V il verso è ipometro (- 1), in Va, dopo l’intervento colocciano, è ipermetro (+ 1)36.

32 Per un discorso più esteso sull’uso di questo lemma nel contrasto cieliano rinvio a BIANCHINI, Cielo d’Alcamo e il suo contrasto cit., pp. 92-93. 33 E rimettendo in discussione anche i versi spuri ad andamento latamente laudistico dell’inizio? 34 Vedi precedente p. 231. 35 La restituzione di avante di V è di mano posteriore, forse attribuibile ad Allacci. 36 In sede di discussione Antonelli mi suggerisce che l’ipermetria sarebbe facilmente sanata da una sinalefe fra imprometto ed eo, possibile in linea teorica, anche se non frequente in Cielo. Credo, però, che il ricorso alla sinalefe (troppo facile ‘scappatoia’ in presenza di

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Anche in questo caso Colocci non interviene né per motivi metrici né per restituire la lezione di V. v. 160: «chechissa cosa nedata jnuentura» 1. corregge jnuentura di V in jnbentura (chechissa cosa nedata jn[b]entura), richiamato in fondo al foglio (ne e dato i(n)bentura .i. sorte); quest’ultima annotazione sembrerebbe della stessa epoca di quella di v. 38, e quindi posteriore all’elenco dei lemmi sul margine destro; 2. non estende il betacismo di tipo meridionale ad altri lemmi del contrasto; infatti al v. 90 la forma abere di V viene ‘corretta’ (glossata?) in havere e riportata a margine, con inchiostro più scuro, come havire (forma, quest’ultima, che fa dubitare di un intento glossatorio). Difficile pensare, in quest’ultimo caso, che si tratti, da parte di Colocci, di restituzione congetturale della rima37, visto che negli altri casi non troviamo interventi di tal fatta. Da puntualizzare che, ad ogni modo, i casi di betacismo presenti nel contrasto non sono generalizzabili e non servono, quindi, a indicare con sicurezza una zona geo-linguistica di provenienza. 3. Conclusioni e ipotesi Questi i dati di fatto che emergono dalla lettura dei due codici, dei dati che, al momento, non sono ancora in grado di offrirci delle risposte non dico sicure, ma almeno accettabili. Bisogna quindi procedere per approssimazioni successive, guardare il contrasto da lontano, in una visione panoramica nella speranza che l’integrazione e la cernita delle varie ipotesi possa finalmente portare a qualche risultato meno aleatorio. Come si sa le fonti cui attinge Colocci sono composite, si va da codici antichi ad opere contemporanee, da canzonieri a cronache, da testi latini a testi romanzi38; altrettanto variegati, del resto, i suoi interessi che non sono soltanto di carattere metrico e linguistico ma anche storico-culturale39. ipermetrie non facilmente sanabili?) sia il più possibile da evitare, almeno in assenza di uno studio approfondito sull’argomento, soprattutto nella lirica italiana duecentesca. 37 Anche BOLOGNA (La copia colocciana cit., p. 136) avanza, con estrema cautela, l’ipotesi «che si tratti di una lezione da lui trovata nella stessa fonte che riportava il nome dell’autore». 38 Vedi anche BOLOGNA, Sull’utilità cit. (dove, per ovvi motivi, si privilegiano le raccolte liriche). 39 Sulla finalità colocciana di superare, non annullare, il canone antico per fondarne uno nuovo, ‘moderno’ e petrarchista, rimando a vari studi di BOLOGNA (Sull’utilità cit., ID.,

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A proposito dell’aggiunta del nome di Cielo nella Tavola colocciana di V e dei tempi successivi di redazione della stessa, con le incongruenze che presenta, Bologna osserva: L’aggiunta Cielo 54 (ove però il numero è relativo alla sequenza dei pezzi in V) fu perciò inserita, sulla base di altra fonte, quando la tavola con i numeri dei fogli era già stata completata: nello stesso momento in cui furono apposti i numeri delle liriche. È in prossimità di questo momento che, con un inchiostro che parrebbe uguale, nel Vat. Lat. 4823, fol. 67r, Colocci introdusse Cielo dalcamo (d’alcamo?) in testa alla sua poesia […], correggendo poi al v. 3 trami (che è lezione di V) in tragemi (ossia la stessa che è in Dante): quell’occasione sarà la medesima che vide nascere le postille apposte sul bordo destro del foglio nel 4823, ove compare infatti: tragemi40.

Se, però, nella Tavola Colocci integra solo il nome del poeta, Cielo, senza il toponimo (?), in altri appunti questo nome è riportato nelle forme più disparate41, tra le quali molto interessante quella che compare nel Vat. lat. 4817, f. 171r42, dove Colocci si sentì in dovere di aggiungere al nome del poeta (cielo dal camo) la precisazione «quale noi chiamaremo Celio», con la e corretta su precedente dittongo (Caelio? Coelio?)43. Questa correzione sembra indirizzare obbligatoriamente verso una fonte latina, non lirica, forse una delle fonti storiche o para-storiche dalle quali Colocci estrapolò tante delle notizie biografiche sui personaggi che andava studiando. Tra le varie prove di questi suoi interessi ne abbiamo una inequivocabile nello stesso Vat. lat. 4817, f. 128v, il riferimento ad una «cronica Neapolitana 1236»44, dalla quale l’umanista iesino copia

La copia colocciana cit. e, ultimamente, ID., Il Medioevo del Cinquecento, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2: Il Medioevo volgare, direttori P. BOITANI, M. MANCINI, A. VÀRVARO, III: La ricezione del testo, Roma 2003, pp. 527-557). 40 BOLOGNA, Sull’utilità cit., pp. 563-564, ma anche ID., La copia colocciana cit., p. 131, dove troviamo un’importante puntualizzazione: «l’integrazione < cielo 54, dunque, fa riferimento al numero progressivo di Rosa fresca aulentissima in V e non al foglio del codice ove la poesia s’inizia; e in questo senso è l’unica eccezione, se vedo bene, nell’intera tavola colocciana, giacché per tutti gli altri poeti al nome dell’autore l’umanista fece seguire anzitutto il richiamo ai fogli di V». 41 Per un velocissimo excursus sull’argomento si rimanda alla comunicazione di Margherita Spampinato, in questo stesso volume p. 224, con la relativa bibliografia. 42 Per la trascrizione e discussione sull’intero notamento colocciano vedi BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 132-133, e la riproduzione del foglio ibid, p. 161. 43 Ibid., p. 133 nota 111. 44 La ‘napoletanità’ di questa cronaca dovrebbe dipendere da motivi topografici, la

presenza in una biblioteca di Napoli, più che linguistici (completamente assenti tracce non

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uno stralcio degli ultimi anni di vita di Pier della Vigna45: [passola formali ?] | poi lo i(m)perator(e) fece a bacillare46 lo savio | ho(mo) mastro pietro dalle vigne lo bon doctor(e) | opponendoli tradisioni / ma cio li fu fatto | p(er) i(n)vidia / del gra(n)de suo stato / per la qual | cosa el ditto mastro pietro p(er) dolore e(ss)endo | i(m)presciunato alla torre di capua passando | lo imperatore p(er) disotto dalle ditte turri |/ se lasso cadire giu dalla turre et cosi | morio.

Sarà molto interessante notare, intanto, che al margine sinistro del foglio, in verticale accanto al brano riportato, Colocci fa riferimento (mi sembra sicuro) a Giovan Battista Gelli47, l’umanista fiorentino oppositore di Pietro Bembo, strenuo difensore di Dante e Petrarca (soprattutto del primo) e commentatore, fra l’altro, proprio della Commedia dantesca. Nel resto del foglio si trovano affastellate diverse note riguardanti l’alessandrino e riconducenti anche all’ausonio, appoggiate a varie auctoritates fra le quali anche Dante e Orazio («In horatio nullo verso passa qui(n)dece syllabe fuor ch(e) q(ue)llo...»). La versione riportata in questo stralcio sulla morte di Pier della Vigna si ritrova attestata, ma non accettata, solo da Benvenuto da Imola nei suoi commenti a Dante, anche se in questa cronaca neapolitana sarebbe sbagliato l’anno dell’evento. L’apparente errore cronologico è quasi sicuramente imputabile a veloce lettura della fonte48; questo stralcio di crosolo napoletane, ma neanche meridionali); ciò porterebbe a datare la conoscenza di questa cronaca, almeno approssimativamente, all’epoca del soggiorno napoletano, al quale sono da ricondurre anche gli studi sul canzoniere provenzale M (cfr. BOLOGNA, Il Medioevo del Cinquecento cit., pp. 539-541). 45 Le barre verticali indicano l’andata a capo nell’appunto colocciano, quelle oblique sono trascrizione delle analoghe colocciane. (cfr. S. BIANCHINI, La morte di Pier della Vigna fra realtà storica e topos letterario, in Le letterature romanze del Medioevo: testi, storia, intersezioni, Atti del V Convegno SIFR (Roma, 23-25 ottobre 1997), Soveria Mannelli, pp. 63-87, qui pp. 73, 74-75 e 84-85). 46 Ad bacillare, trasformazione, forse per cattiva lettura, da AD-BACINARE, «accecare con bacino arroventato», attestato anche nell’antico provenzale; questa forma del verbo (abbacinare) sarà attestata nella maggior parte delle cronache che riportano la morte del notaio imperiale. 47 I riferimenti colocciani a questo personaggio sono numerosi; per un esempio fra i

tanti rimando al f. 132v del Vat. lat. 4817, che inizia proprio con «Gelli Lo 18 . c° 8» e continua con appunti in gran parte dedicati a Dante e ai poeti toscani, con ripetuti rinvii a Gelli. 48 Ma quando prende i suoi appunti o estrapola notizie da una fonte qualsiasi Colocci non controlla i dati limitandosi a copiarli; si vedano anche gli errori cronologici riguardanti lo stesso Cielo, riportato al 1164 (nel notamento) o al 1185 (in fondo al f. 67r di Va, sulla scorta di Saladino che in quell’anno fiorì).

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naca, per il suo stesso contenuto, non può coincidere con l’Antiquus o Antica Historia a cui rinviano almeno 6 postille di Colocci in V, in particolare quella che, precisamente accanto all’attribuzione del n° «xxxviij», a proposito di Pier della Vigna puntualizza, con rinvio all’Antica (o forse un Antiquus): antica [? anto. ? anti. ?] . fol. 44 necatus a federico49

ma è sicuramente legata, anzi, in apparenza addirittura sovrapponibile, alla Cronica di Villani, almeno per la prima parte50 anche se non per quella che riporta il modo della morte di Piero; a tutto ciò sarà da aggiungere che, a quanto mi consta, c’è un solo testo che potrebbe giustificare la notizia di Piero «necatus a federico», ed è la Cronica scritta dal frate francescano Salimbene de Adam negli ultimi anni del ’200 e giuntaci autografa: patuit hoc [sc. l’incapacità di Federico di conservarsi un amico] in Petro de Vinea, qui in curia imperatoris maximus et consiliarius et dictator fuit nec non et ab imperatore appellatus est logotheta (...). Nam radicem verbi invenit contra eum nec non et calunniam, ut eum morti traderet. (...) Imperator miserat iudicem Tadeum et Petrum de Vinea, quem maxime diligebat, et super omnes alios in curia imperatoris erat, et quosdam alios Lugdunum ad papam Inocentium quartum, ut impedirent papam ne festinaret ad depositionem ipsius. Audierat enim quod propter hoc concilium congregabat; et preceperat eis quod nullus cum papa sine alio vel nisi presentibus aliis loqueretur. Postquam autem reversi sunt, accusaverunt socii Petrum de Vinea quod pluries sine eis cum papa familiare colloquium habuisset. Misit igitur imperator et fecit eum capi et mala morte mori. (...)

49 BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 130, dove si avanza anche l’ipotesi, «solo a titolo di possibilità ‘logica’» e quindi «ampiamente suscettibile di verifiche», che l’Antiquus (= Antica Historia?) potesse identificarsi «proprio con un affine ‘antico’ di V». Credo che il dubbio, almeno parzialmente, possa essere sciolto nel momento in cui si distinguano, come suggerirebbe lo stesso Bologna (ibid.), l’Antiquus, che potrebbe, a questo punto, coincidere «con un affine ‘antico’ di V», dall’Antica Historia, questa, invece, una fonte di tipo cronachistico, forse una di quelle utilizzate dallo stesso Villani (il che spiegherebbe anche l’identificazione proposta da Debenedetti). 50 «ciò fu gli anni di Cristo MCCXXXVI. Poi alquanto tempo lo ’mperadore fece abbacina-

re il savio uomo maestro Piero da le Vigne, il buono dittatore, opponendogli tradigione; ma ciò gli fu fatto per invidia di suo grande stato. Per la qual cosa il detto per dolore...» (cfr. BIANCHINI, La morte di Pier della Vigna cit., p. 83 e, per il confronto fra i due testi, ibid., pp. 74-75). Cfr. anche nota precedente.

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Octavum infortunium eius fuit quando principes et barones sui rebellaverunt contra eum, ut Tebaldus Franciscus, qui se inclusit in Cappacio, et postea male periit exoculatus et diversimode afflictus et interfectus ab eo; et Petrus de Vinea et plures alii, quos longum nominare foret 51

notizia che sembrerebbe confermata più oltre, quando inserisce, con una sorta di accessus che in quest’elenco troviamo dedicato solo ad un altro personaggio, il marchese Lancia («cuius soror vel neptis mater fuit principis Manfredi»; I, 635, 8-9)52, il nome di Petrus de Vinea fra i nobili del regno uccisi da Federico II («Fridericus imperator condam nobiles de regno Sicilie, Apulie et Calabrie Terreque Laboris interfecit atque delevit et alios surrogavit»; I, 634, 32-34). Sarà anche da aggiungere che queste notizie, e il riferimento all’octavum infortunium di Federico, all’interno dei dodici totali cui fa riferimento Salimbene in questa cronaca53, erano già state trattate, e con maggiore ampiezza e ricchezza di particolari, in una precedente cronaca del frate francescano («sicut in alia cronica posuimus, ubi descripsimus XII scelera Friderici»; I, 502, 12-13). A questo punto viene il sospetto che l’Antica historia, se è la stessa chiamata anche, a f. 24v, «uita federici Ant»54, possa identificarsi proprio con la storia di Federico II di cui parla spesso Salimbene, quella storia dei XII scelera Friderici oggi perduta. Salimbene d’abitudine copia i documenti che gli servono ad attestare la veridicità delle sue affermazioni e

51 SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di G. SCALIA, 2 voll., Bari 1966; I, pp. 288, 13-18 e 23; 289, 1-4; 501, 2-4 (cfr. anche BIANCHINI, La morte di Pier della Vigna cit., passim, e per i testi pp. 80-81). 52 Ma altrove (I, 509, 10-11) parla di Manfredi come «filius Friderici ex alia uxore, que marchionis Lancee neptis fuit». 53 «Istis decem infortuniis Frederici imperatoris condam possumus addere adhuc duo, ut duodenarium numerum habeamus» (I, 502, 5-6). Dodici come dodici, fra le tante, sono le stoltezze di Ghirardino Segalello raccontate dal frate (I, 393) o quelle, otto più quattro aggiunte «que XII faciunt», di Ghirardo da Gente, podestà di Parma (I, 649); «Il numero dodici è tra quelli che ricorrono con maggiore frequenza, insieme al dieci, per il quale Salimbene ha una predilezione pressoché ossessiva. Ma per il dodici è lecito il sospetto che, oltre la fortissima carica simbolica e la evidente radice biblica, giuochi anche il richiamo più o meno inconscio del sistema duodecimale» (D. ROMAGNOLI, Dal simbolo alla statistica. Il numero nella Cronica di Salimbene, in Salimbeniana. Atti del Convegno per il VII centenario di fra Salimbene. Parma 1987-1989, Bologna 1991, pp. 198-208, qui p. 201); va da sé che nel caso dei XII scelera bisognerà far capo alla numerologia biblica. 54 Per cui cfr. Egidi (Il libro de varie romanze volgare. Cod. Vat. 3793, a c. di F. EGIDI, con la collaborazione di S. SATTA, G. B. FESTA e G. CICCONE, Roma 1908, p. XX, nt. 3) che, a proposito di questo appunto («vide in vita federi Ant.... fo. 68 . 43»), suggeriva proprio di integrare con hist., identificando la fonte con l’Antica historia («Anche qui forse Ant. hist.»).

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accanto ad essi si collocano i non pochi testi letterari riprodotti, in funzione, si direbbe, quasi documentaria, anche questi della più varia estrazione, a corredo di situazioni illustrate, di personaggi che ne sono autori, di particolari eventi cui si richiamano, così come le innumerevoli citazioni bibliche55.

Dato l’interesse del francescano per la musica e la poesia56, l’ipotesi potrebbe essere portata avanti, soprattutto se si pensa a quelle che sono le sue abitudini: sembrerebbe, infatti, strano pensare che Salimbene, nella storia delle dodici «superstitiones et curiositates et maledictiones et incredulitates et perversitates et abusiones» (I, 512, 6-7) di Federico II, si sia limitato solo alla storia politica dell’imperatore e non abbia fatto cenno all’attività poetica della quale questi era stato promotore, soprattutto se si tiene conto della sua abitudine a mescolare fatti ‘storici’, ricordi personali, dicerie circolanti. Nella cronaca arrivata fino a noi egli evita di parlare degli uomini del sovrano («Habuit et multos alios per civitates Ytalie, quos ponebat ad defendendum imperium et ad confundendum ecclesiasticos viros. Quorum historiam ponere multum dedignor, quia non videtur michi digna relatu»; I, 635, 22-25); ma nel momento in cui la cronaca trattava del draco Federico e dei suoi seguaci la presentazione di questi notabili non era più superflua ma diveniva, anzi, necessaria per enfatizzare la malvagità dell’imperator condam, dell’imperatore che, però, «legere, scribere et cantare sciebat et cantilenas et cantiones invenire» (I, 508, 7-8), qualità, insieme a tutte le altre elencate (e tutte positive), che Salimbene ben conosceva perché, come afferma egli stesso, «vidi enim eum et aliquando dilexi» (ibid., 9). C’è anche da aggiungere, sulla scorta di Scalia, che È pressoché certo, dopo quanto scritto nel 1897 da Paul Scheffer-Boichorst e ribadito nel 1935 da Ferdinando Bernini, che Flavio Biondo si servì, nella II decade delle sue Historiae, della cronichetta federiciana andata poi perduta. Direi piuttosto che, del nostro frate, almeno a giudicare dalle Decadi, conobbe solo questa cronaca minore, e non quella a noi giunta sia pure in parte57.

55 G. SCALIA, Coscienza storiografica e cultura biblica nella “Cronica” di Salimbene, in Salimbeniana cit., pp. 209-220, qui p. 214. 56 Salimbene riporta spesso, nella cronaca superstite, brani di poesie non solo latine e religiose ma anche laiche (e talvolta popolari) in volgare. Tra gli ultimi interventi sull’argomento vedi C. GALLICO, Salimbene e la musica, in Salimbeniana cit., pp. 89-94. 57 SCALIA, Coscienza storiografica cit., p. 216; questa convinzione viene ribadita nella sua ultima edizione, approntata per la Brepols (SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di G. SCALIA, 2 voll., Turnhout 1998 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaeualis 125-125A),

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La conoscenza, e l’utilizzo, di questa cronaca da parte di Flavio Biondo concorre, pur con tutte le cautele del caso, a proporre l’identificazione della «Vita federici Ant» proprio con la storia dei XII scelera Friderici: da questa Colocci potrebbe aver ripreso, almeno stando alle annotazioni di cui si parlava, i nomi e le qualifiche dei poeti, anche se solo quelli e non varianti testuali, o almeno solo alcune varianti incipitarie, data l’abitudine del francescano di riportare, di norma, solo i primi versi delle composizioni che cita58. Per concludere il mio discorso in questa sede, e senza la presunzione di aver risolto alcunché, vorrei solo ribadire che le ipotesi di una fonte lirica ed una ‘cronachistica’ per gli interventi colocciani non solo non sono contrastanti fra di loro, ma possono plausibilmente integrarsi a vicenda, così come si integrano a vicenda appunti, note e integrazioni avvenuti in momenti diversi di quel continuum che è il prezioso lavoro di ricerca di Angelo Colocci.

p. 125, nella quale si aggiunge che Flavio Biondo si sarebbe servito di «un esemplare anonimo da cui era possibile dedurre che l’autore fosse di Parma, frate Minore, nonché testimone di almeno alcuni degli avvenimenti narrati» (I, p. XXXI). Nella sua edizione del 1966 (II, p. 1000) Scalia identificava ancora con la cronaca superstite di Salimbene, «con buona probabilità», quella utilizzata dall’umanista forlivese (anche se riportava anche le opinioni precedenti, ibid., p. 980). 58 Sarebbe inoltre tipico del francescano segnalare con l’inizio di una lauda l’insolito metro utilizzato da Cielo.

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MERCEDES BREA

DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI, DANTE Y PETRARCA1 Analizando los diversos códices conservados en la Biblioteca Vaticana que han estado en posesión de Angelo Colocci y que él ha estudiado y controlado de alguna manera, y confrontándolos con todas esas encuadernaciones misceláneas que contienen anotaciones, borradores, índices de palabras o de versos, etc.2, es posible reconstruir de forma aproximada su método de trabajo3. Primero leía4 los cancioneros (italianos, occitanos, gallegos) que le in1 Debemos agradecer a Francisco Fernández Campo y Gerardo Pérez Barcala tanto la ayuda prestada en la lectura de las notas coloccianas como las correcciones hechas al primer borrador. 2 Las notas sueltas y, en general, las marginales son de su puño y letra; los índices están escritos por él sólo parcialmente, pues, una vez que disponía adecuadamente los materiales para su elaboración, la transcripción ordenada podía ser encomendada a un copista de su confianza (vide infra). 3 Es obvio que estamos simplificando para recoger sólo los aspectos que nos interesan, porque su trabajo sobre los códices es mucho más completo. En alguna de estas fases, o en otras diferentes, incorporaba anotaciones de distinta tipología: métricas, retóricas, codicológicas, etc. 4 Podemos deducir que, en el caso de los cancioneros occitanos y gallego-portugueses, intentaría ir comprendiendo lo que querían decir, con ayudas como la que le podía proporcionar aquella traducción interlineal realizada para él por Bartolomeo Casassagia, de la que nos hemos ocupado en Traducir ‘de verbo ad verbo’ (El códice Vat. Lat. 4796), en Toulouse à la croisée des cultures. Actes du V Congrès international de l’Association Internationale d’Études Occitanes (Toulouse, 19-24 août 1996), éd. par J. GOURC et F. PIC, Toulouse 1998, I, pp. 103-107. Sobre el Vat. lat. 4796 y el vocabulario occitano-italiano que Colocci configura a partir de la traducción, cfr. también, entre otros, C. BLANCO VALDÉS, A. DOMÍNGUEZ FERRO, Algunos aspectos sobre el códice Vat. Lat. 4796, en Actas del VI Congreso Nacional de Italianistas, Madrid 1994, I, pp. 115-120; E. CORRAL, F. FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. Lat. 4796 de Angelo Colocci: a súa historia e as súas apostilas, en Critica del testo, III/2, 2000, pp. 725-752; y M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, El vocabulario provenzal-italiano de Angelo Colocci, en Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza (Palermo, 1824 settembre 1995), a cura di G. RUFFINO, Tübingen 1998, IV (sezione 6: Storia linguistica e culturale del Mediterraneo), pp. 339-350. Aunque no se encuentran entre las notas comentadas en este trabajo, Casassagia (responsable asimismo de la copia parcial de M realizada para la familia Carafa de Nápoles y conservada en la Biblioteca Universitaria di Bologna – Univ. 1290 –) dejó también su huella sobre M, como ha demostrado M. CARERI, Bartolomeo Casassagia e il canzoniere provenzale M, en La Filologia romanza e i codici. Atti del Convegno di Messina (19-22 dicembre 1991), a cura di S. GUIDA, F. LATELLA, Messina 1993, II, pp. 743-752.

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teresaban y, cuando disponía ya de copias que había encargado5, podía confrontarlas con el original para completar y/o corregir posibles defectos de transcripción; a la vez, o en una segunda lectura, subrayaba o marcaba de algún modo en el texto algunas palabras que le interesaban y, normalmente, las copiaba en los márgenes del folio6, como puede verse en el ejemplo reproducido en el apéndice I. A continuación (al menos para algunos casos, existe constancia de este procedimiento7), podía utilizar folios adicionales para ir anotando en ellos, debajo del número correspondiente al folio del manuscrito, las palabras que previamente había destacado del texto. La fase siguiente podía ser realizada por él mismo o encomendada a un copista de su confianza: se trataba de reproducir esa lista de palabras8, pero esta vez ordenándolas alfabéticamente (sólo por

5 En ocasiones, como sucede con los cancioneros gallego-portugueses, parece haber encargado copias porque no lograba hacerse con el original; en otros casos (como con el cancionero occitano M), el motivo podía ser diferente: el códice en pergamino era de su propiedad, pero deseaba disponer de una copia de trabajo en papel (Vat. lat. 3205), realizada después de su estudio directo del códice, pues el copista transcribe también las apostillas coloccianas (sobre esta copia, cfr. A. FERRARI, Le chansonnier et son double, en M. TYSSENS (ed.), Lyrique romane médiévale: La tradition des chansonniers. Actes du Colloque de Liège, 1989, Liège 1991, pp. 303-327, en particular pp. 318-319). Otras veces (piénsese en el Vat. lat. 3793 italiano y en su “copia”, el Vat. lat. 4823), la situación es más compleja, puesto que la copia (de trabajo, en papel) puede contener más textos que el original del que parte; sobre este códice, cfr. el completo estudio de C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), en I Canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-152, así como, del mismo autor, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, en La Filologia Romanza e i codici cit., II, pp. 531-587. 6 De hecho, por ejemplo, en el Vat. lat. 4823, a partir del f. 42 (que es el último de los copiados por el mismo Colocci), los textos están dispuestos en una sola columna, para dejar libre el espacio de la segunda con la finalidad de utilizarla para sus anotaciones. 7 Véase, en el apéndice II, el f. 21r del Vat. lat. 4823, que contiene un índice de este tipo de los folios anteriores, donde había aprovechado demasiado el espacio copiando los textos a doble columna; el folio numerado como 1 – antiguo 86, tachado – estaba también a doble columna, pero las palabras que le interesaban de éste están transcritas en el verso del que sirve de portada (sin numerar), y del f. 2 al 12 los textos aparecen en una sola columna, la izquierda, dedicándose la derecha a reproducir las formas que quiere conservar. Este índice termina en el f. 22r, y en el 23r retoma la práctica de copia a una sola columna y palabras destacadas en la segunda, aunque en el 24r vuelve a utilizar las dos columnas para el texto (en 24v, una sola), y ello lo obliga a emplear parte del 25r para anotar las palabras que le interesaban. 8 No creemos necesario recordar que, en no pocos casos, no se trata de palabras aisla-

das, sino de sintagmas o expresiones que le interesaba recoger bien como unidades complejas bien por alguno de sus componentes.

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

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la primera letra) y poniéndoles al lado el número del folio en el que se encontraban9. Era un trabajo bastante complejo, del que todavía no está suficientemente claro el objetivo final, aunque se hayan esbozado algunas ideas al respecto10; en todo caso, no parece que lo haya llevado a cabo sólo para aprender, sino también para estudiar detenidamente los materiales obtenidos con algún propósito concreto (aunque, quizás, no con carácter inmediato, sino después de una reflexión atenta). Por otra parte, su conocido comportamiento de romanista «avant la lettre»11 y, por lo tanto, su metodología comparatística se ponen de manifiesto en la gran cantidad de indicaciones que remiten de unos códices a otros, de manera especial los que establecen relaciones entre las tradiciones líricas occitana, italiana y gallego-portuguesa. En esta ocasión, vamos a centrarnos sólo en las apostillas localizadas en el cancionero occitano M (en la actualidad en la Bibliothèque Nationale de France, Paris, con la signatura fr. 1247412) que hacen referencia a formas previamente encontradas en sus estudios sobre lírica italiana, para intentar averiguar qué aspectos le interesaban y, a la vez, corroborar hasta qué punto era riguroso en la confrontación13. El análisis pro9 En el apéndice III reproducimos, como muestra, el f. 2r del Vat. lat. 3217, de mano

del propio Colocci, y el f. 114r del mismo códice, que inicia el índice de los Siculi y fue encomendado a un copista. 10 Probablemente los primeros que llamaron la atención sobre los intereses de Colocci

y de todo el círculo de humanistas con el que se relacionaba fueron C. DE LOLLIS, Ricerche intorno a canzonieri provenzali di eruditi italiani del sec. XVI, en Romania 18 (1889), pp. 453468, y, sobre todo, S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, en Zeitschrift für romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93 (recogido luego en Studi filologici, Milano 1986, pp. 169-208), y ID., Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta a cura di C. SEGRE, Padova 1995. 11 A. Ferrari señala que «les humanistes, et Angelo Colocci tout particulièrement, sont

des philologues romans avant la lettre» (cfr. FERRARI, Le chansonnier cit. p. 304). 12 Sobre la historia del cancionero, cfr., entre otros, A.-C. LAMUR-BAUDREU, Aux origines du chansonnier de troubadours M (Paris, Bibl. Nat., Fr. 12474), en Romania 109 (1988), vol. 2-3, pp. 183-198. Sobre su ordenación y contenido, S. ASPERTI, Sul canzoniere provenzale M: ordinamento interno e problemi di attribuzione, en Romanica Vulgaria 10-11. Studi provenzali e francesi 86-87 (1989), pp. 137-169, y F. ZUFFEREY, À propos du chansonnier provençal M, en Lyrique romane médiévale cit., pp. 221-243. 13 Seguimos, en cierto modo, la invitación lanzada (aunque con otro objetivo) por BOLOGNA (La copia colocciana cit., p. 139): «Qualcosa di più può dirsi in tal senso, facendo reagire i dati sul tirocinio romanzo del Colocci, quindi collegando quello occitanico e quello italiano, ricollocando insieme su uno stesso tavolo virtuale, là dove storicamente per qualche tempo quelle carte insieme dovettero pur trovarsi ed essere studiate, gli appunti sull’Ars metrico-linguistica (quindi i ff. 77-78 del Vat. lat. 4817), il canzoniere italiano V, il canzoniere provenzale M. I testi dei lemosini citati al f. 78r-v del Vat. lat. 4817 derivano indubbia-

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puesto resulta simplificado por la existencia de esos preciosos índices de Petrarca y de los Siculi contenidos (junto con los de Re Roberto y Barbarino) en el Vat. lat. 321714, que facilitan enormemente las búsquedas, pues hemos comprobado previamente que el segundo corresponde al Vat. lat. 4823 y que para el primero existen algunas correspondencias con el Vat. lat. 4787 (un códice petrarquesco que había heredado de su padre y sobre el que ha dejado algunas notas interesantes), aunque la mayoría podrían corresponder a una edición impresa (la Aldina de 1514, preparada probablemente por Pietro Bembo, o tal vez la de 152115). Salvo error u omisión involuntarios, las observaciones de este tipo que hemos podido leer son las siguientes16: folio

Ubicación

Anotación

4v

margen inferior17

fosse. petr. flore(n)tin fusse

10r

margen superior, col. a

Apellar(e) no(n) italo

11r

margen superior, col. a

šçteçmçeçnçza . çpçaçuçra no(n) itala

mente dal canzoniere M, già in possesso di Colocci dal 1515 (lo si evince dall’assai nota lettera di Pietro Summonte, edita da Debenedetti, oggi nel Reg. lat. 2023, f. 352r), e postillato forse intorno al 1525, con la memoria attenta altresì ai confronti con il Siculo, come indicano numerose glosse di rinvii incrociati fra i due libri». Precisaremos, en todo caso, que no hemos trabajado directamente sobre V, sino sobre Va, que, como «libraccio di lavoro del filologo» (ibid., p. 139), contiene gran cantidad de anotaciones coloccianas y que dejamos para otra ocasión el estudio de todas las apostillas del Vat. lat. 4823 que remiten a M; pretendemos tan sólo contribuir modestamente a la reconstrucción de esa «rete complessa dei richiami incrociati attraverso l’analisi delle postille di tutti i canzonieri lirici romanzi da lui posseduti e studiati (i già citati V italiano, M provenzale, B portoghese)» (ibid., p. 124). 14 En algunos casos, son simples elencos de formas con la indicación numérica del folio del que se han extraído, pero en otros – sobre todo en los índices de Petrarca y Re Roberto, transcritos por el mismo Colocci – se contienen interesantes comentarios adicionales (que, por ejemplo, relacionan formas y expresiones petrarquescas con otras de los “siculi”). Cfr., al respecto, C. F. BLANCO VALDÉS, Descripción del códice Vat. Lat. 3217, en Atti del XXI Convegno Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza cit., IV (sezione 6: Storia linguistica e culturale del Mediterraneo), pp. 333-338. 15 Debemos, y agradecemos, la indicación al Prof. Corrado Bologna. En cualquier caso,

como las dos coinciden en la paginación, no modificarían en absoluto estos comentarios. Por otra parte, si es correcta la suposición del mismo BOLOGNA (La copia colocciana cit.) de que las notas dejadas por Colocci sobre M corresponden a 1525, las dos opciones son igualmente válidas. 16 Además de desenvolver las abreviaturas entre paréntesis, separamos las palabras

según el uso actual y transcribimos como v la u colocciana con carácter consonántico. Señalamos también con / el cambio de líneas y respetamos los subrayados del texto. 17 Parece hacer referencia al «no(n) fos fermatz» que se encuentra un poco más arriba,

pues, si bien en este caso no lo subraya, añade la traducción de todo el verso en el espacio interestrófico.

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

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14v

col. a (a continuación de «de bon Sicul(i) aire»)

14v

margen inferior, col. b (debajo de aire due syllabe siculi et petrarca «aire»)

15r

margen derecho18

çseçmçbçlçeraæ no(n) çblaæ ma çbleæ . fiore(n)tini

18r

cuarta línea col. a, debajo de «çcçoçmçuçnalæ/men»

Siculi

18r

margen superior, col. a

Comunal siculi

19r

margen derecho

Siculi / Grana la spica

27v

margen superior, col. b

çmiæ ro(mani) lo(m)bar(di) lemosi siculi

41r

margen superior, col. a19

çpçloiaæ dante

56r

margen derecho (después de «drechura»)

Drittura sic/uli

64v

col. b, al final20

trar morte de vita /

79v

margen superior21

çAçrçnçeçseæ petrar(ca) nel capit(olo) reiecto çunæ stran arnese . singular ut hic

90r

margen derecho

Mal mio grado / petr(arca) 4

109r

margen inferior, col. b

Petr(arca) çdi voi don(n)a mi doglio

109v

col. b (cuatro líneas antes: «çcçonæçplçaiçnhæ»)

Compiango22 siculi

123r

margen superior

çpç(çer) çnçoçmçeæ çaçpçeçlloæ da[...]23 petrar(ca). 160 / Mentionar p(er) nome

143r

margen superior, col. a

Dante de vulgari eloquio / citat hanc bis

143r

margen superior, col. b

çBçeçlta24 itali bellezza

haver vita petrarca

18 En el verso de Giraut de Bornelh que se encuentra a la misma altura que la apostilla está subrayado «senblera». 19 En la col. a comienza la composición de Bernart de Ventadorn Lonc temps a q’ieu no(n) chantei mai, en la que, en el v. 3, subraya «ploia». 20 El último verso de la última estrofa dice «e mala mortz de vi/da.l trai», y Colocci su-

braya «de vidal trai». 21 «Arnes» figura subrayado al final del cuarto verso de la composición de Gaucelm Faiditz que comienza en este folio. 22 Podría ser también compiange, como lee DEBENEDETTI (Gli studi provenzali cit., p. 75), pero, además de que vemos una -o, la forma occitana «conplainh» es una primera persona. 23 El borde superior del folio está cortado, por lo que ni siquiera el copista del Vat. lat. 3205 fue capaz de reproducir lo que figuraba en la primera línea a partir de «apello». Con todo, «petrar 160» puede leerse con cierta seguridad. 24 En realidad, el texto dice – y Colocci lo subraya – «beutat» (y es tan consciente de ello que cuando, un poco más adelante, encuentra beltat, la subraya nuevamente y anota «çbçeçltçatæ alibi beutat», f. 145r), por lo que hay que interpretar que está poniéndolo en relación con la forma siciliana y, a la vez, glosándolo mediante su sinónimo bellezza.

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MERCEDES BREA

144r

margen inferior, col. b

149v

col. a (entre dos composiciones)

Dante cita questa

155r

margen inferior, col. a

Com petrarca25

159r

margen inferior, col. b26

Meglura s(upra) siciliani

159v

margen inferior, col. a27

Tormento sicul(i)

161r

margen inferior

vostro homo siculi donna vi vo dir como Re Joanni / io mi tengo v(ost)ro homo no(n) come28

170r

margen superior, col. a29

çomæ senza aspirazione homo / cosi petrarca

171r

margen superior, col. a

qet itali queto fior(entini) / cheto

171r

margen inferior

volera volgera30 çvçoçlçrçiaæ napoli et lemosin(i) et forse siculi tusci vorria

176r

margen superior, col. b

Huom petr(arca)31

177r

margen derecho

Petrarca 55 (?)32

204v

margen superior

çdeæ no(n) da ut co(mun)es, no(n) çdi ut flo(rentini)

232r

margen superior, derecha (subrayado «croia» en col. b)

Croia dante

232v

margen superior

Dante cita questa ed dice che questo beltramo tratta de guerra

244v

margen inferior, col. a

çDçuçrçeçnçzaæ petrar(ca) q(ua)n(do) gia nell’età s(upra)33

250v

margen inferior, col. b

çHçuçeçeçiçlçhsæ diphtho(n)g. Huocchi / et nota ch(e) scrivo(n) co(n) .h. no(n) come / toschani

253r

margen superior, col. a

çSçcçhçeçrçnçitoæ pre(terito) petr(arca) s(upra)

260v

margen superior34

çAçttender così fan Da(n)te et petr(arca)

Escampa tusci isca(m)pa

25 En el texto, en posición supralinear, puede verse la anotación «come» encima de un «con» subrayado. 26 En el texto está subrayado «meilhuran». 27 La forma subrayada en el texto es «turmen». 28 C. BOLOGNA (La copia colocciana cit., p. 139) sugiere que podría continuar u(ost)ro homo [?], pero «una rifilatura del foglio impedisce la piena, certa lettura delle ultime lettere». 29 Está subrayado «om» en la tercera línea de la columna izquierda. 30 La forma está poco clara. DEBENEDETTI (Gli studi provenzali cit., p. 73) lee volsera,

pero parece más bien volgera, que, por otra parte, estaría más próxima al occitano volgra. 31 En el texto está subrayado «hom». 32 Está al lado de «an plus onrat afan», subrayado. El número es poco legible: podría

ser 50 o 55. 33 No estamos del todo seguros de la lectura de esta apostilla, pues lo único que se lee con total claridad es «çDçuçrçeçnçzaæ petrar(ca) [...] nelleta s(upra)». 34 La forma subrayada en el texto es «atendre».

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

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Podríamos establecer varios tipos en estas apostillas: a) constataciones de formas occitanas utilizadas por Dante, Petrarca o los siculi; b) observaciones sobre vocablos o expresiones que no considera italianas; c) comentarios lingüísticos que le permiten confrontar distintas soluciones fonéticas en los dialectos italianos35. 1. Coincidencias entre formas occitanas y formas poéticas italianas36 A este grupo corresponden la mayoría de las notas registradas: Siculi

Dante

Petrarca

Referencias combinadas

f. 14v sicul («aire»)

f. 41r ploia dante

f. 64v trar morte de vita haver vita petrarca37

f. 18r comunal siculi38

f. 232r croia dante39

f. 79v çAçrçnçeçseæ petrar- f. 14v aire due sylla(ca) nel capit(olo) re- be siculi et petrariecto çunæ stran arnese ca41 . singular ut hic40

f. 4v fosse. petr(arca). Flore(n)tin fusse

35 Puede verse un estudio de conjunto de todas las anotaciones de tipo lingüístico que Colocci dejó en M – incluidas, naturalmente, las aquí comentadas – en S. GUTIÉRREZ GARCÍA, G. PÉREZ BARCALA, Notas morfosintácticas de Angelo Colocci no Cancioneiro provenzal M, en R. ÁLVAREZ, D. VILAVEDRA (coord.), Cinguidos por unha arela común. Homenaxe ó Prof. Xesús Alonso Montero, II, Santiago de Compostela 1999, pp. 677-697, y G. PÉREZ BARCALA, Aspectos fonéticos y léxicos de las anotaciones de Angelo Colocci en el libro di poeti limosini, en Critica del testo 3/III (2000), pp. 947-980. 36 Dejamos de lado algunas referencias ocasionales a los poetas del Dolce Stil, como la del f. 234r «Ioco damor guido caval(canti)», que puede encontrarse en la col. b, entre estrofas (está subrayado, un poco más arriba, «ioc damor») 37 En el f. 61v del Vat. lat. 3217 (correspondiente a la letra H del índice de Petrarca) aparece registrado, efectivamente, un «haver vita 83». 38 Efectivamente, en el índice correspondiente a los Siculi del Vat. lat. 3217, se registran, al menos, dos ejemplos: f. 139r, «Comunale 166»; f. 143v, «Comunale 324». En el texto occitano, de todos modos, aunque la línea aparezca cortada después de «comunal» (que es el elemento subrayado), lo que se lee es el adverbio «comunal/men» (adviértase que la indicación «siculi» se repite, precisamente, debajo de «comunal»), que no hemos localizado en ese índice de los Siculi, donde, en cambio, aparece, en el f. 147r, «comunemente 434». 39 En el Vat. lat. 4823, se destaca la forma croia en los ff. 31v, 147v, 156r, 213v, 389v,

que, excepto en un caso, corresponde a composiciones de Guittone d’Arezzo. En cualquier caso, la referencia a Dante, igual que la de ploia, pueden corresponder a la Divina Commedia, pues allí aparece croia en 1, 30, 102, y ploia en 3, 14, 27 y 3, 24, 91 (cfr., respecto a estas dos notas, PÉREZ BARCALA, Aspectos fonéticos y léxicos cit., p. 968).

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MERCEDES BREA

f. 19r siculi Grana la spica42

f. 90r Mal mio grado petr(arca) 443

f. 56r drittura siculi45

f. 109r petr(arca) di voi don(n)a mi doglio46

f. 109v compiango siculi47

f. 123r çpç(çeçrç)ç çnçoçmçeæ çaçpçeçlçlçoæ da[...] petrar(ca). 160 / Mentovar p(er) nome

f. 260v Attender così fan Da(n)te et petr(arca)44

40 En principio, en esta glosa parece interesarse por la palabra arnese, pero no deja de

destacar que es una forma singular y de subrayar la forma del artículo «un», con lo que, como en otras ocasiones, se entrecruza la atención al léxico con los aspectos gramaticales. 41 Aviértase cómo la referencia «sicul» aparece en el mismo folio, en la col. a, a conti-

nuación de la expresión «de bon aire» (vid. supra). 42 En los ff. 177 y 178 del Vat. lat. 3217 se encuentra copiada varias veces «grana», en correspondencia con las palabras que en diversos folios del Vat. lat. 4823 aparecen transcritas en los márgenes, como, por ej., en el f. 216v, donde se refiere al verso de Chiaro Davanzati «che tutora grana di li frutti rei», o en el f. 283v, que recoge «la gioia che flora e grana», de la composición Kome per diletanza. De todos modos, la asociación más próxima a esos dos elementos parece ser el v. 32 de Madonna dirvi voglio: «che’l mi lavoro spica e poi no(n) grana». 43 Curiosamente, a pesar de ser una de las escasas notas que precisa el número del folio en que lo ha localizado (y de recordarlo nuevamente en el f. 240v «Mal mio grat s(upra) 90»), Colocci no registra en su índice de Petrarca esta expresión (sí, en cambio, «Mal suo grado 65. 75» [f. 72r] y «Grado mal suo grado 75» [f. 59r]). 44 En el índice de Petrarca del Vat. lat. 3217 se registra varias veces la forma; en el f.

26v, además, puede verse la glosa «Attendo espero 137». 45 En el índice de Petrarca del Vat. lat. 3217 se registra, sobre todo, «dritto» (en los folios 44r, 47r, 47v, 48r etc.); la primera vez que aparece, en el f. 41v, va acompañado de un interesante comentario: «Dritto sic(uli). dritti. Umbri diricto quasi directo sic dritto per senso 12» (se advierte, una vez más, la preocupación por las distintas soluciones fonéticas de una misma palabra, y por los distintos matices semánticos que pueden desarrollar algunos de esos resultados). En el índice de los Siculi se observan, efectivamente, numerosos registros de dritto/a, pero el sustantivo es más frecuente en la variante dirittura (cfr., por ej., ff. 149v, 152r, 152v, 153v, 160r, 160v); sólo hemos localizado dos casos de drittura: «Drittura [113]» (f. 152v) y «Drittura 281» (f. 157r). En el primer caso, puede leerse claramente «Drittura» en el margen derecho del f. 114r del Vat. lat. 4823, pero no sabemos si se trata de una corrección colocciana, porque en el texto está escrito «diritura»; en el segundo, Colocci anota en el margen inferior «serve ad drittura» para recordar (¿o explicar?) la expresión que se encuentra en el último verso de la segunda estrofa de la canción cclxxxx, «chi serve adritura ed a lealtate». 46 Cfr. registros como «Mi doglio X6. Doleo 20» (Vat. lat. 3217, f. 71r), «Meco si duol / Mi doglio 119» (ibid., f. 73r), o «Dolgomi / Di voi [147]» (ibid., f. 47v). 47 En los Siculi se registra en varias ocasiones la primera persona «compiango» (ff. 85r, 160v, 162v del Vat. lat. 4823), y al menos una (f. 73r) la segunda «compiangi»; en todos los

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

f. 159r Meglura supra siciliani48

f. 155r com petrarca49

f. 159v tormento sicul50

f. 176r Huom petr(arca)51

253

f. 177r Petrarca 55 f. 244v Durenza petrar(ca) [...] nelleta s(upra) f. 253r Schernito pre(terito) petr(arca) s(upra)52

Aunque casi todas estas observaciones podrían ser objeto de comentarios más detenidos, llaman especialmente la atención algunas de ellas, como las dos contenidas en el f. 14v: «sicul» y «aire due syllabe siculi et petrarca». El carácter bisilábico de la palabra aire debió atraer su atención (tal vez porque le servía para corroborar los datos que le proporcionaba su estudio métrico de los sicilianos y de Petrarca), pues en el Vat. lat. 4817 puede verse un fragmento de un índice topográfico de M, y allí, en el f. 274r, se repite la indicación («Aire due syllab. siculi et petrarca 14», con esa oportuna remisión al f. 14 de M del que hemos partido). La consulta del Vat. lat. 3217 permite confirmar el interés que despertaba en él esa forma, pues en el índice correspondiente a Petrarca puede verse: casos, la forma aparece copiada en los márgenes y, excepto en el f. 85r, subrayada en el texto. 48 En el margen derecho del f. 52v del Vat. lat. 4823 se lee «Megliorar(e) bis», recogiendo las formas, en posición de rima en el texto, «melgliorare» y «melgliorato». 49 Aunque la forma registrada mayoritariamente en el índice de Petrarca es «come», puede encontrarse al menos un «Com 124», en el f. 37r. En cualquier caso, tanto aquí como en el índice de los Siculi, Colocci se detiene en la observación de las distintas formas que puede adoptar la conjunción (com, come, como), e incluso de algunos de sus valores particulares como «Com .i. q(ua)nto», que es una glosa al verso «e com piu mi lamento» (f. 117r del Vat. lat. 4823). El f. 2v del Vat. lat. 4817 es más explícito todavía en este sentido: «venetiani et fiorentini dicono Come, lo regno Como et la marca et li primi siciliani» (cfr. GUTIÉRREZ GARCÍA, PÉREZ BARCALA, Notas morfosintácticas cit., p. 693). 50 En el Vat lat. 4823, aparte de un «tormentava absoluto», repetido en los márgenes inferior y derecho del f. 90r, lo que aparece con más frecuencia es el adjetivo «tormentoso» (ff. 175v, 180v, 202r etc.). 51 Parece claro que le interesaban las diferentes formas de homo, pero no resulta sencillo determinar si aquí está señalando una diferencia (la diptongación italiana de la /o/ breve latina) o una semejanza, habida cuenta de que en otra de las notas (vide infra) destaca la ausencia de la /h/ inicial en occitano. 52 Se refiere probablemente al «schernito 181», recogido en el f. 103v del Vat. lat. 3217.

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f. 14v: «Aere 47» f. 15r: «Aria53 no(n) aere 51»; y (un poco más abajo) «Aer s(upra) aria 54» f. 28v: «aire 150»

Y en los Siculi se encuentran las siguientes ocurrencias: f. 114v: «aire 35» f. 118v: «Are aire 113»54 f. 124v: «Are aere 318» f. 125r: «Are aire 339»

También las diversas formas de huomo y las expresiones de las que entra a formar parte parecen interesarle de forma especial, como puede deducirse del simple hecho de que aparezca en tres de estas notas. Está presente, asimismo, ya en la primera anotación que se encuentra en el índice de Petrarca del Vat. lat. 3217 (aunque lo que subraya en ella es la construcción «altro ... da»): «çAçlçtçroæ huo(m) çdaæ quel chio sono .i(d est). q(ua)m 3» (f. 3r). Además de registrar numerosos elementos léxicos en los que encuentra coincidencias que confirman sus suposiciones55, no faltan las observaciones gramaticales (vd. infra), sean las relativas al uso de preposiciones, conjunciones, construcciones sintácticas, etc., sean las referidas a la morfología verbal, como, en este caso, la que advierte de la existencia de los alomorfos fosse / fusse, que se corresponde con la alternancia, posiblemente ya protorromance, de las formas fo- / fu- en los tiempos de perfecto del verbo SUM. En el f. 244v de M aparece «Durenza petrar […] nelleta s(upra)». Se trata de una curiosa observación, porque también en su códice de Petrarca Vat. lat. 4787, en el f. 157r56, recoge el reenvío recíproco: «Du53 «Aria» aparece recogida en más ocasiones en este índice. 54 Esta nota se encuentra, efectivamente, en el f. 113v del Vat. lat. 4823, aunque no

queda claro su sentido, pues está a la altura de un verso en el que se lee claramente: «che dan(n)o vertute al aire» («alaire» está escrito unido, y aparece subrayado por Colocci). En el f. 318v, en cambio, «Are aere» explica probablemente la variante textual (no subrayada en este caso) de «E per li razi che manda per l’are» (copiado «lare»), igual que en la composición de Guido Guinizzelli Volglio del vero la mia donna laudare, que finaliza el v. 5 como «lei sembro d’are» («dare», f. 339v). 55 «Prescindendo dai numerosissimi casi in cui colloca accanto alla parola provenzale la corrispondente italiana, senza rivelare alcun pensiero, abbiamo peraltro, anche in quest’ordine, un certo numero di note alquanto più significative, le quali provano che l’A. tenta di illustrare la lingua della più antica nostra scuola poetica, quella di siculi, e l’uso dantesco e il petrarchesco» (DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., pp. 74-75). 56 En el índice de Petrarca reproducido en el Vat. lat. 3217 puede verse asimismo, en el f. 44v, la indicación «Durenza 69», que, obviamente – por la indicación numérica –, no re-

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renza bertrand57 244 s(upra) 92»58. A la vista de semejante precisión, no parece caber duda de que Colocci trabajaba con todos los libros sobre la mesa; de otro modo, no tendrían explicación estas referencias tan precisas a los folios exactos en que se encontraba el dato en cuestión. Es posible que alguna vez haya trabajado “de memoria”59, pero lo habitual es constatar que comprobaba con detenimiento todo aquello que tenía a su disposición (o dejaba llamadas de atención iniciadas por «vide / vedi», como recordatorios de que debía buscar el dato del que no tenía constancia en ese momento). 2. Observaciones relativas a diferencias constatadas Aunque es posible que alguna de las anotaciones recogidas en el apartado anterior pretenda señalar diferencias y no semejanzas, las que resultan más claras en este sentido son las siguientes: f. 10r: «apellar(e) no(n) italo» f. 11r: «çteçmçeçnçzaæ . çpçaçuçraæ no(n) itala» f. 143r: «çbçeçltaæ itali bellezza» f. 170r: «çomæ senza aspirazione homo cosi petrarca»60

Las primeras resultan bastante sorprendentes, porque no queda claro a qué se refiere con «italo / itali». Desde luego, el índice de los Siculi registra más de veinte veces el verbo «apellare» («Apella 39», f. 115r; «Apellava 70», f. 116v; «Apellar 131», f. 119r; «Apello 271», f. 123r; etc.) y el de Petrarca recoge «Apella . / A lagrimar 17» (f. 8v) y «Appella[...] 160» (f. 29v). ¿Pretende indicar que no es una palabra de uso común en italiano61, que se trata de un préstamo occitano, que tiene usos o significados diferentes a los que le corresponden en el texto de Giraut de Bornelh en mite al códice Vat. lat. 4787, sino probablemente a la edición impresa que manejaba. En cualquier caso, es una nueva prueba del interés que la forma suscitaba en él. 57 El autor de la composición en que se registra es, efectivamente, Bertand d’Alamanon. 58 El supra puede reenviar, igual que en el f. 244v, a ese otro «çDçuçrçeçnçsaæ» que figura re-

producido, sin más indicaciones, en el margen derecho del f. 241r de M, a la altura de un verso del trobaire de Villarnaud cuya palabra en posición de rima es «durensa». 59 Al menos en algunos índices de palabras, al final de una letra, traza una línea y escribe «Nel cor», para reproducir a continuación algunas formas que recuerda de memoria, sin precisar en qué folio se localizan. 60 Esta anotación podría también corresponder al grupo anterior. 61 Recordemos que Colocci usa en muchas ocasiones la expresión com(m)unes para referirse a los italianos; cfr. infra su concepto de «lingua comune».

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el que lo destaca? En cualquier caso, convendrá confrontar esta anotación con la del f. 123r «çpç(çeçrç)ç çnçoçmçeç çaçpçeçlçloæ da[...] petrar. 160 / Mentionar p(er) nome», en la que tal vez atrae más su atención la expresión completa («apellar per nome», que es la que parece explicar mediante la segunda parte de la glosa) que la simple forma verbal, que es, sin embargo, la que aparece recogida (vd. supra) en el f. 29v del índice de Petrarca en el Vat. lat. 3217. Lo mismo sucede con la observación del f. 143r «belta itali bellezza», pues «bellezza» no aparece recogida una sola vez ni en el índice de Petrarca (probablemente porque sí la utiliza con más frecuencia que beltà) ni en el de los Siculi; por el contrario, en el primero de ellos aparece «beltade bis 159 169» (f. 34r), y en el segundo, entre las variantes belta, bielta, beltate, bieltate, se contabilizan una veintena de registros entre los folios 131 y 133 del Vat. lat. 3217. Y todavía puede verse alguna vez más en M, pues en el f. 137r insiste: «Beutat62 belta et nota ch(e) finisce p(er) t.» ¿Intenta Colocci con estas observaciones recuperar la forma beltà, avalada por los lemosinos y los sicilianos, aunque descartada por Dante y empleada minoritariamente63 por Petrarca?64. En cuanto a «çpçaçuçraæ no(n) itala», no reproduce en este caso la forma occitana, sino que proporciona una equivalencia italiana de la misma, por lo que parece que la indicación «non itala» se refiere a que non reconoce como tal el occitano paors, presente en el texto de Giraut de Bornelh en la asociación «temens’e paors», aunque percibe su relación con la voz italiana, de la que, en realidad, se diferencia sólo por el uso de un sufijo alternativo (pav-or / -ura). La última de las apostillas de este grupo corresponde al interés de Colocci por las variantes fonéticas (o, en este caso, fonético-ortográficas65).

62 Primero había escrito «Beutate», pero luego eliminó con un trazo diagonal la «-e». 63 Las Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca (editadas por la Accademia

della Crusca, Firenze 1971) registran la aparición de belta / beltate / beltade en un total de 19 ocasiones, mientras que las variantes de bellezza contabilizan 38 ocurrencias. 64 Aparte de que le convenga más por razones métricas, puede ser significativo el hecho de que sea beltà la forma que el propio Colocci utiliza en el último verso («della non sua beltà si fe’ più bella») de la canción suya que aparece reproducida al final de F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. Lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969, pp. 104-106. 65 Colocci ve que M escribe normalmente la palabra hom con h, pero, al llegar a este folio, se da cuenta de que está escrito om. Su interés por la forma queda demostrado por el hecho de que, tanto en el índice de Petrarca como en el de los Siculi, toma nota cuidadosamente de todas las variantes de la misma que encuentra. En otros códices pueden encontrarse también observaciones como la contenida en el Vat. lat. 4796, «homo .i(d est). vaxallo

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Además de la referencia citada más arriba, el índice de Petrarca anota «huo(m) mora 108» (f. 61v) y el de los «Siculi hom no(n) homo 27» (f. 281r), que procede de la nota marginal al verso «com hom che pinge e sturba» de la composición Madonna, dirvi voglio (a la que parece aludir la observación del f. 161r: «vostro homo siculi donna vi vo dir como Re Joanni / io mi tengo v(ost)ro homo no(n) come»66). Aunque Corrado Bologna supone que, en este caso, el reenvío es al f. 6r del Vat. lat. 3793 (que contiene esa misma composición), porque en él «troviamo due importanti postille, legate alle ricerche intorno al personaggio, su cui evidentemente Colocci cercava informazioni biografiche»67, la consulta tanto del índice de los Siculi (f. 181r) como del f. 38r del Vat. lat. 4823, donde se transcribe la composición de Re Giohanni que comienza «Don(n)a audite çcçoçmoæ / mi tengno v(ost)ro homo» confirma que el códice utilizado preferentemente por nuestro humanista para la selección de palabras y construcciones es siempre el Vat. lat. 4823, pues la anotación «çhçoç(çm)æ v(ost)ro» (que, sin embargo, no figura subrayado en el texto) se puede leer en la parte central del margen superior. 3. Observaciones de carácter lingüístico en general Al lado de las anotaciones de índole literaria (o lingüístico-literaria) ya comentadas, se registran otras que no hacen referencia directamente a la lírica italiana sino más bien a diversas soluciones fonéticas o morfológicas que permitían a Colocci establecer comparaciones entre los diferentes resultados románicos de algunas formas. De su interés por los problemas lingüísticos da fe el mismo códice Vat. lat. 3217, en el que, a partir del f. 33768 (y hasta el final, f. 36769) se encuentran, respecti/ huo(m) ligio» (cfr., al respecto, CORRAL, FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. lat. 4796 cit., p. 741), aunque en este caso el interés sea más léxico que fonético. 66 Parece evidente que, además de la expresión «vostro homo», en esta composición de Re Giovanni le interesa también – y una vez más – la forma de la conjunción como (adviértase que está subrayada en el texto en cuestión, f. 38r del Vat. lat. 4823). Cfr. PÉREZ BARCALA, Aspectos fonéticos y léxicos cit., pp. 971-972. 67 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 139. 68 Antes están los cuatro índices de palabras señalados, el elenco de Autori portughesi,

la relación de composiciones del «libraccio» de los Siculi (que llega sólo hasta el folio 307 del Vat. lat. 4823; los «SONETTI» que figuran a partir del f. 308v tienen un índice diferente, que puede verse – para los incipit comprendidos entre la letra A y la N – en los ff. 462-472 del propio Vat. lat. 4823), la correspondiente a otro libro de Dante (por la numeración de los folios, no se corresponde con el Vat. lat. 4823; debe tratarse de un libro en el que la última composición – Morte villana no(n) i(n)tendo – comienza en el f. 46), la del Libro Reale (el último incipit recogido de éste, con la anotación «fragm(en)to» delante, es Magna medela

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vamente, los epígrafes «O in Plant(us)», «Diminutivo», «Casus reg(imin)e (?)», «Sincopa», «coniugatio[n]e pa[ssiva]?», «Ablativo i(n) co(n)seque(n)tia (?)», «Accento (?)», «Constructio», «çTç.D.æ», «Diphtho(n)go», «prono(m)i(n)a a quis derivata70», «Articulo», «Substa(n)tivo», «Absoluto», «preterito», «plurali»71. Por eso no extraña advertir cómo se detiene sobre preposiciones y conjunciones72, pronombres o formas verbales: f. 15r: «çseçmçbçlçeraæ no(n) çblaæ ma çbleæ . fiore(n)tini» f. 27v: «mi ro lombar lemosi siculi» f. 171r: «volera volgera çvçoçlrçia napoli et lemosin et forse siculi tusci vorria» f. 204v: «çdeæ no(n) da ut co(mun)es, no(n) çdi ut flo(rentini)»

En la segunda de estas observaciones – si la apostilla corresponde al «çmiæ» subrayado que finaliza el último verso de la primera estrofa, debajo del cual anota la traducción italiana («io non ho voi ne voi non havete me») –, parece constatar la coincidencia de lemosinos, sicilianos, romanos y lombardos en cuanto a la forma tónica (mi, no me) utilizada para el pronombre complemento de primera persona73. El mantenimiento de la forma del pluscuamperfecto latino con valor de condicional es otro de los fenómenos que llaman la atención de Colocci74, como en general todas las innovaciones románicas del sistema verbal75 y, en particular, el distinto comportamiento con respecto a al-

a grave e perighosa, y la última indicación de folio remite al número 72), dos folios en blanco, un folio que lleva el epígrafe «Arte», con la indicación «çLç(çiçbçrç)çoç çdçaçgçuçbçbçio», otro índice de composiciones – esta vez de Guido Guinicelli (recogidas entre los folios 21 y 52 de algún libro) –, un índice de palabras de «Florius», un folio (329) con notas diversas y una lista de voces de «Augubio» (iniciadas por A y transcritas por un copista); sigue otro elenco de palabras, ya de mano de Colocci, que no señala a qué corresponden pero que, en todo caso, remiten siempre a un folio 1. 69 Con excepción de los folios 348-351, que vuelven a ir precedidos del epígrafe «Sicu-

lo». 70 Al principio está escrito «adverb.», pero aparece tachado. 71 La mayoría de estos listados parecen corresponder al cancionero de Petrarca, aun-

que algunos de ellos (en general, viene declarado expresamente) son de los Siculi. 72 Cfr. supra la nota 49 a propósito de com. 73 Adviértase que también en el f. 22v anota «a me no(n) a mi». Cfr. GUTIÉRREZ GARCÍA,

PÉREZ BARCALA, Notas morfosintácticas cit., p. 687. 74 Como es sabido, el occitano, igual que el italiano, conoce las dos posibilidades: ésta y

el uso de la perífrasis formada por el infinitivo + el imperfecto / perfecto de HABERE. 75 Para otros comentarios de Colocci sobre morfología verbal en M, cfr. GUTIÉRREZ GARCÍA, PÉREZ BARCALA, Notas morfosintácticas cit., pp. 680-685.

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gunas de ellas de las diferentes variedades lingüísticas76. En la misma línea, no deja de constatar formas como senblera, en la que llama su atención la desinencia -era en lugar de -ara, que sería la esperada en un verbo de la primera conjugación77. En cuanto a la preposición de, observa tanto la forma occitana heredada del latín como el distinto uso que, en esa construcción («Una donna çdeæ Tolosa»), muestran florentinos y “comunes” entre da y di. Una rápida consulta a los índices de palabras contenidos en el Vat. lat. 3217 permite comprobar la reiteración en el registro de las distintas formas preposicionales y de sus posibles contracciones con los artículos. La apostilla del f. 171r «qet itali queto fior cheto»78 sugiere una observación fonética sobre el distinto comportamiento de la labiovelar sorda inicial ante vocal palatal79. Podría atender también a un fenómeno fonético la nota del f. 144r «Escampa tusci isca(m)pa», dado que registra el distinto timbre de la vocal protética80, pero es asimismo posible que constate simplemente una coincidencia léxica. Sí es de tipo fonético (y, complementariamente, ortográfico81) el comentario del f. 250v «çHçuçeçeçiçlçhsæ diphtho(n)g. huocchi et nota ch(e) scrivo(n) co(n) .h. no(n) come toschani»82. De su interés por la diptongación proporciona una prueba el f. 356 del Vat. lat. 3217, aunque en él no aparezcan ni huom ni huocchi, sino sólo las formas siguientes: 76 En este caso, podemos compararla, por ejemplo, con la glosa «çFçoçra saria» del f. 246r del cancionero gallego-portugués de la Biblioteca Nacional de Lisboa (cfr. M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas de A. Colocci no Cancioneiro galego-português B, en Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie romanes (Zürich, 1992), publiés par G. HILTY, Tübingen 1993, V, pp. 41-56, pp. 46-47). 77 Téngase en cuenta, de todos modos, que el condicional en -ra no sólo es en la actualidad la forma predominante en la mayoría de la Italia meridional sino que, además, -era se ha propagado en esa zona a todas las conjugaciones, a expensas de -ara e -ira. 78 En el f. 27v del Vat. lat. 4823 hay una nota a «çcçhçiçto» (subrayado en el texto) que el índice reproduce sólo parcialmente y que no hemos logrado leer completa: «çcçhçito abento riposo. zitto. pare [...] / alii cheto e [...]sano». 79 Cfr., al respecto, nuestro comentario a la anotación «quero no(n) quero no(n) chero» del f. 182v del cancionero gallego-portugués de la Biblioteca Nacional de Lisboa (BREA, FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas cit., p. 44). 80 Sobre esta glosa, cfr. PÉREZ BARCALA, Aspectos fonéticos cit., p. 961. 81 Recuérdese lo dicho a propósito de homo (aunque no advierta que, en el caso de

hueilhs, la /h/ no es etimológica, a diferencia de lo que ocurría con huom). 82 Esta observación podría tener que ver con alguna otra de las que se encuentran di-

spersas en los papeles suyos que se han conservado, como, por ejemplo, la que se lee en el f. 110r del Vat. lat. 4817: «Toscani non adoperano mai la aspirazione se non ad diferentia . overo infine come dire larghi . praghe . hagghi». En este mismo códice hay también anotaciones sobre la /h/, por ejemplo, en el f. 178r.

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Suono non sono 3 Ambruogio tusci piceni regno Muodo romagnoli pisani romani regnicoli

4. Intencionalidad de las apostillas coloccianas Hemos dejado para el final anotaciones como la de «Dante cita questa» del f. 149v – que constata la referencia del autor italiano a Nulls hom non pot conplir adrechamen, de Aimeric de Belenoi83 – o «Dante cita questa et dice che questo beltramo tratta de guerra» del f. 232v – en relación a Non puesc mudar q’un chantar non esparja, de Bertran de Born84 –, o la todavía más explícita «Dante de vulgari eloquio citat hanc bis» del f. 143r (Si.m fos amors de ioi donar tan larja, de Arnaut Daniel85) porque vienen a corroborar – además de su conocimiento directo del De 83 Dante la cita dos veces en De vulgari eloquentia: a) en II, vi, 6, entre los distintos «gradus constructionum», en concreto como ejemplo – después de sendas composiciones de Giraut de Bornelh y Arnaut Daniel – del «[gradus] sapidus et venustus etiam et excelsus, qui est dictatorum illustrium […] Hoc solum illustres cantiones inveniuntur contexte»; b) en II, xii, 3, cuando habla del endecasílabo: «Hoc etiam Yspani usi sunt – et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc: Namericus de Belnui: Nuls hom non pot complir adrecciamen» (De vulgari eloquentia, a cura di P. V. MENGALDO, in DANTE ALIGHIERI, Opere minori, II, a cura di P. V. MENGALDO et alii, Milano — Napoli 1979, pp. 3-237, p. 184 y 220 respectivamente). En relación con las derivaciones de Aimeric en la lírica italiana – de Chiaro Davanzati a Petrarca –, puede verse, entre otros, M. RUFFINI, Il trovatore Aimeric de Belenoi, Torino 1951, pp. 91 y ss. 84 La cita de Dante se encuentra en De vulgari eloquentia, II, ii, 8, (ed. cit., p. 152) cuando menciona, efectivamente, a Bertran de Born entre los poetas famosos por haber cantado las armas. En el índice que figura al comienzo de M, al lado del nombre de Bertran de Born (f. 8r) hay otra anotación colocciana que dice: «i(n) convivio e(st) q(ui)de(m) cla(mat)us bertrano d(e)l bornio canta d’arme e dice Dante che pero no(n) va nel [...] / del petrarca» (cfr. DANTE ALIGHIERI, Il convivio, a cura di M. SIMONELLI, Bologna 1966, IV, xi, 14, p. 163). 85 Puede verse la cita de esta canción en De vulgari eloquentia, II, xiii, 2 (ed. cit., p. 226): «Unum est stantia sine rithimo, in qua nulla rithimorum habitudo actenditur: et huiusmodi stantiis usus est Arnaldus Danielis frequentissime, velut ibi: Se.m fos Amor de ioi donar; et nos dicimus Al poco giorno». Aunque Si.m fos Amor no la hemos encontrado mencionada una segunda vez, es posible que el «bis» colocciano se justifique porque (además de que, en II, ii, 8, cite L’aura amara, y, en II, vi, 6, Sols sui che sai lo sobraffan che.m sorz) en De vulgari eloquentia, II, x, 2 (ed. cit., p. 210-212), Dante señala: «et huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra». Sobre la serie de malentendidos a que dio lugar este pasaje en el s. XVI (sobre todo por la presencia de la variante est fere / ferme est), cfr. C. PULSONI, Per la fortuna del De Vulgari Eloquentia nel primo Cinquecento: Bembo e Barbieri, en Aevum. Rassegna di Scienze Storiche, Linguistiche e Filologiche 71/III (1997), pp. 631-650.

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Vulgari Eloquentia86 – la que presuponemos hipótesis de trabajo de Colocci de que tanto los poetas sicilianos como Dante y Petrarca conocían de primera mano la producción de los trovadores occitanos y, en cierto modo, los utilizan como modelos poéticos, incluso en la elección de determinadas opciones lingüísticas87. El estudio comparativo que lleva a cabo Colocci podría tener, pues, un objetivo doble: por una parte, ayudar a entender la historia de la lírica románica medieval (con esa línea que parte de los occitanos a los sicilianos, y de ambos a la vez a Dante y Petrarca)88 y, por otra, conocer los mecanismos que permitieran elaborar una “norma lingüística” para la lengua poética italiana, posiblemente para poder intervenir con argumentos sólidos en la controvertida Questione della lingua, que tanto preocupaba en su entorno89. Es sabido que Colocci defendía la existencia de una lingua comune («Nui che componemo nella comune lingua de Italia, non la latina, ma la comuna cercamo imitare», Vat. lat. 4817, f. 115r) como «quella che Petrarca di tanta lingua ha facto per imitazione» (Vat.

86 Recordemos que el conocimiento, y estudio, del tratado dantesco a comienzos del s. XVI se debió fundamentalmente a Gian Giorgio Trissino, que se había hecho con un códice que lo contenía (el actual 1088 de la Biblioteca Trivulziana de Milano) y que había facilitado una copia del mismo tanto a Colocci como a Bembo. De hecho, en el Vat. lat. 4817, f. 284r-v, puede verse un fragmento del libro II (ix-x, 1-4); cfr. al respecto DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., pp. 201-203, y PULSONI, Per la fortuna cit., pp. 631-633. 87 No debe olvidarse el importante esfuerzo realizado por los humanistas italianos en la recuperación y estudio de los trovadores occitanos, pues, a pesar de que entre finales del siglo XIII y el siglo XIV se realizaron en Italia no menos de 25 copias de cancioneros, se trataba más bien «d’un interesse collezionistico, viste le ormai poche persone in grado di leggere e di comprendere i testi ivi contenuti» (C. PULSONI, I versi provenzali della Commedia e le loro traduzioni antiche, en Romanica Vulgaria. Quaderni 15. Studi sulla traduzione 95/97 (2003), pp. 187-243, p. 242). 88 Cfr. al respecto, DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., pp. 196-199, en las que co-

menta diversos folios del Vat. lat. 4817 que parecen corresponder a un borrador de una historia de la rima que pretendía escribir Colocci. 89 Este asunto «costituiva il motivo centrale degli interessi culturali del Colocci e la

ragione delle sue ricerche di codici di lingue romanze» (V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979, p. 157). No olvidemos tampoco que Colocci no trabajaba de manera aislada, sino en permanente contacto con otros humanistas, con los que discutía frecuentemente e intercambiaba códices, opiniones e información; cfr. al respecto los ejemplos que proporciona C. PULSONI (Luigi da Porto e Pietro Bembo. Dal ms. Provenzale E all’antologia trobadorica bembiana, en Cultura Neolatina 52 (1992), pp. 323-351) del trabajo que realizaban conjuntamente Colocci y Bembo sobre filología occitana e italiana.

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lat. 4817, f. 1r)90, y que buscaba por todas partes argumentos sólidos con los que defender la postura que él mismo deja clara en alguna de sus anotaciones dispersas91: Tanti monstri di parole che sono in dante e non poche in petrarcha di tutto la cagion è stata la imitatione che poche parole vi sono che non siano o de gli antiqui siculi o de lemosini o di uicini allemosini, chiamo siculi tutti quelli che scripsero oltra el faro et di qua chiamo lemosin tutti francesi prouenza et catalogna (Vat. lat. 4817, f. 39r-v).

90 Como señala DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 74: «sta di fatto che la lettura di M non aveva per lui semplicemente un interesse a così dire poetico, o da semplice ricercatore, ma un valore eziandio pratico». 91 Cfr., por ejemplo, la carta que le dirige Benedetto Lampridio el 31 de diciembre de 1526 (contenida en el Vat. lat. 4104, f. 81, y reproducida por DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 304) y que deja constancia de su demanda permanente de nuevos testimonios: «Sono in Venetia et ho parlato cum quello mio amico, et visto el libro hozi. Sono canzone de diversi authori dalli quali se vede manifestamente che ’l Petrarca li lesse et pigliava delle cose, comme quello amico mio mi monstrò». O la de Federico Gonzaga al embajador de Mantua en Roma, de 4 de diciembre de 1525, indicándole que, cuando recupere «alcuni libri in lingua lemosina» que prestó su secretario Mario Equicola a Giangiorgio Trissino, «semo contenti che li prestate al S.r Benedetto Porto per compiacerne M. Angelo Colloccio che li faccia transcrivere» (DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 303).

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

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Apéndice I: Vat. lat. 4823, f. 27r.

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Apéndice II: Vat. lat. 4823, f. 211r.

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DE LOS LEMOSINI A LOS SICULI , DANTE Y PETRARCA

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Apéndice IIIa: Vat. lat. 3217, f. 2r.

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Apéndice IIIb: Vat. lat. 3217, f. 114r.

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FABRIZIO COSTANTINI

IL LIBRO REALE, COLOCCI E IL CANZONIERE LAURENZIANO* I.1 Coordinate introduttive È ben noto e documentato dalla presenza di numerose tracce e postille nelle carte colocciane che l’umanista iesino, studiando e compulsando raccolte e canzonieri di lirica italiana antica, ebbe presente, a fianco del celebre Vat. lat. 3793 (V), un codice oggi perduto, comunemente noto come Libro Reale (R): si può ipotizzare che esso sia stato conosciuto, forse acquistato da Colocci, e certamente da lui studiato in Roma in parallelo con lo studio di V, con ogni probabilità durante gli anni di più intensa ricerca sulla poesia romanza delle origini […]. Si giustifica così il fatto che esso è l’unico, fra i numerosi codici dei quali l’umanista iesino trascrisse la tavola nei fogli poi legati nel Vat. lat. 3217 e in coda a Va, a venire estensivamente collazionato con V.1

Se Ernesto Monaci2 fu il primo a pubblicare la tavola di R (ff. 316r-318r del Vat. lat. 3217) e le postille colocciane ad esso relative presenti fra le carte di V, a Enrico Molteni3 si deve l’aver riconosciuto l’aderenza pressoché totale delle sequenze di testi della tavola del Reale con l’ordine progressivo che gli stessi componimenti occupano nell’altra famosa silloge della lirica italiana delle Origini, ossia il Laurenziano Rediano 9 (L); l’ultimo tassello fu aggiunto da Napoleone Caix, che, nel suo studio com-

* Nel corso del saggio si citano in forma abbreviata i seguenti strumenti: CLPIO = Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, a c. di D’A. S. AVALLE, I, Milano — Napoli 1992; GDLI = S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, Torino 1961-2002. 1 C. BOLOGNA, La copia colocciana del canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I canzonieri della lirica italiana delle origini, 4 voll., Firenze 2001, IV: Studi critici, pp. 105-152, p. 114. 2 E. MONACI, Il Libro Reale, in Zeitschrift für romanische Philologie 1 (1877), pp. 375-

381. 3 E. MOLTENI, Sul Libro Reale, in Giornale di Filologia romanza 1 (1878), pp. 50-52.

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plessivo sull’antica lirica italiana4, definì maggiormente la coincidenza di R con L e segnalò l’ulteriore corrispondenza dell’ultima sequenza di testi del Reale (ballate) con componimenti contenuti nel codice Chigiano L.VIII.305 (C). All’inizio del secolo scorso il dossier sul Libro Reale fu riaperto da Santorre Debenedetti5, con una acuta e definitiva elaborazione dei dati fin allora emersi, da cui ancora oggi è necessario partire; le principali acquisizioni dell’ultimo contributo citato consistono nella identificazione del manufatto come codice cartaceo della fine del XV secolo (o entro il principio del successivo), esemplato in ambiente umanistico (Giulio Camillo) principalmente sulle due fonti L e C6. In tempi più recenti Corrado Bologna è tornato varie volte sulla questione7 e, specialmente nel contributo offerto in occasione della ricognizione delle postille colocciane fra V e Va (Vat. lat. 4823), ha proficuamente condotto nuove riflessioni sul Reale (fra le quali quella che mette in dubbio la paternità di Giulio Camillo), pubblicandone inoltre la tavola con correzioni e aggiunte rispetto a quella presentata da Monaci nel 1877: se la “triangolazione” (dia)sistematica fra V, Va e R è stata ben evidenziata da Bologna, credo che possa essere utile approfondire, se possibile, anche i rapporti fra R e L, canzoniere quest’ultimo che ricordiamo essere per il Reale fonte privilegiata per tutti i componimenti precedenti rispetto alla produzione stilnovistica. Fra i risultati prodotti dalla critica si dovrà rimarcare la valenza ancora ipotetica di talune asserzioni, date oggi per acquisite, ma in realtà non determinabili con buona certezza. Sarà dunque necessario specifi4 N. CAIX, Le origini della lingua poetica italiana. Principii di grammatica storica italiana ricavati dallo studio dei manoscritti, con una introduzione sulla formazione degli antichi canzonieri italiani, Firenze 1880, in particolare pp. 9-11. 5 S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, in Zeitschrift für romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93, ora in ID., Studi filologici, con una nota di C. SEGRE, Milano 1986, pp. 169-208 (da cui si cita). 6 «Il L. reale era un codice cartaceo cioè tardo, […] scritto su carta reale venuta in uso nel sec. XV ma largamente diffusa solo alla fine di esso e nel seguente. Le sue fonti sono il Laur. Red. 9 per i nn. 1-87, 97-98, secondo fu osservato dal Caix e per i nn. 82-96, il Chigiano L.VIII, 305 […]. Il tempo cui spetta questa silloge, compilata forse da Giulio Camillo Delminio, ondeggia fra la fine del ’400 e il principio del secolo seguente, in altre parole il L. reale è opera di uno studioso condotta sopra fonti conosciute» (DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 179). 7 Oltre a C. BOLOGNA, Tradizione e fortuna dei classici italiani, 2 voll., Torino 1993, I: Dalle origini al Tasso, pp. 103-sgg., di specifica pertinenza sono in particolar modo i due saggi: ID., Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, Atti del convegno. Messina — Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia, 12-22 Dicembre 1991, a c. di S. GUIDA e F. LATELLA, 2 voll., Messina 1993, II, pp. 531-587 e il già menzionato BOLOGNA, La copia colocciana cit.

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IL LIBRO REALE, COLOCCI E IL CANZONIERE LAURENZIANO

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care in primo luogo che, sebbene l’effettiva esistenza di una tavola dei componimenti contenuti nel Reale sia confermata proprio da Colocci8, a rigore non è provato che essa fosse originariamente concepita insieme allo stesso R (come invece è costatabile per V e il suo indice), o piuttosto che si tratti di un’elaborazione successiva, al limite anche cronologicamente vicinissima all’ispezione colocciana e forse ad essa stessa finalizzata; né è dimostrabile senz’ombra di dubbio che la “tavola” di R fosse necessariamente conforme alla trascrizione allestita da Colocci: invitano ad avanzare qualche sospetto non solo i salti nella numerazione dei fogli9, ma anche quelle che appaiono come probabili omissioni e selezioni di materiale operate dall’umanista10 e forse anche la sostanza stessa degli incipit trascritti. In secondo luogo, necessita qualche cautela anche la valutazione sull’entità codicologica del manufatto R a partire dal costante riferimento terminologico adottato da Colocci per contraddistinguerlo (Libro reale): come si è ricordato, secondo la ricostruzione di Debenedetti, tale “etichetta” indica che R doveva essere un codice cartaceo di dimensioni oscillanti fra un minimo di cm. 46 × 62 e un massimo di 50 × 6611; eppure, la compatibilità fra il formato, il supporto (carta) e la tipologia testuale (antica lirica volgare) sembrerebbe una rara eccezione, se si tengono presenti i parametri codicologico-librari che Petrucci ha evidenziato per la metà del Quattrocento12: colpisce in particolar modo il grande formato rispetto al contenuto testuale, sebbene lo stesso Petrucci ammetta per la categoria “libro umanistico” una certa libertà operativa,

8 L’indicazione è posta in apertura alla trascrizione colocciana: «Reale / ha la sua tauola» (Vat. lat. 3217, f. 316r). 9 Notevoli le lacune per ff. 14-20, 55-62, 68-71: cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p.

121. 10 Sull’omissione nella tavola colocciana di una sezione dedicata ai sonetti presente in R si vedano le considerazioni specialmente nei paragrafi conclusivi (§§ IV.2 e V.1). Si tenga comunque presente che Colocci in altri casi allestisce le tavole dai manoscritti in visione mutandone l’ordine (ad esempio da “topografico” ad alfabetico, come per la tavola di Va presente ai ff. 26a-f), anche per ricavare delle tavole “di servizio” a seconda delle necessità di collazione o reperimento dei testi. 11 Queste sono le dimensioni standard che ancora oggi sono applicate nei principali Paesi per il formato cartaceo detto “reale”: cfr. GDLI, s.v. reale, nr. 9; preziosa a riguardo la testimonianza di un’epigrafe bolognese del XIV secolo, che fissa per tale formato (“realle”) le dimensioni di cm. 44,5 × 61,5 (cfr. S. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973 [Sussidi eruditi 26], p. 48). 12 Cfr. A. PETRUCCI, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in Italia medievale e umanistica 12 (1969), pp. 295-313, alle pp. 297-299.

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specialmente sui formati, rispetto alle committenze13. Non sarà dunque da escludere che il termine “reale” possa essere stato adoperato da Colocci esclusivamente per indicare in senso più generale la grande taglia del codice a sua disposizione, così come non di rado avveniva in ambiente umanistico anche per codici pergamenacei di formato mediogrande14: in tal caso, il ventaglio cronologico, ristretto oltremodo da Debenedetti sulla base di un dato esile ed ambiguo15, potrebbe essere nuovamente spiegato per abbracciare una maggiore vetustà, a partire dagli anni subito successivi alla più recente fonte C (Chigiano). Un dato interessante che ci permette di spingere oltre la discussione relativa alla tipologia della taglia di R è ricavabile dall’indicazione nella tavola colocciana dei fogli16 in cui compaiono gli incipit: a tale scopo è utile porre in confronto la sequenza d’apertura del Reale con l’identica sequenza del Laurenziano, a partire dal primo testo della sezione “cortese” di Guittone (L 25, Se de voi donna gente17, incipit a f. 61ra, riga 1), in modo tale da avere una precisa coincidenza testuale e codicologico-fascicolare fra i due codici in posizione iniziale. Si osserva dunque che se in R l’incipit del terzo componimento (Chero con dirittura) è il primo di f. 2, in L (misure medie18: base e altezza mm. 174 × 238; semiperimetro corrispondente a mm. 412) esso cade ancora all’interno del f. 61v (= f. 1), alla quint’ultima riga della seconda colonna; tale discrepanza si perpetua in progressione determinando uno slittamento continuo che

13 «La produzione del libro umanistico, scritto cioè in o per ambienti umanistici e destinato a biblioteche di dotti o di signori protettori di dotti […], si rifaceva a modelli diversi […]; cosicché il suo aspetto esterno, specialmente per quanto riguarda il formato, risultava tutt’altro che uniforme nei vari ambienti di produzione e nei vari periodi, e al libro di medio formato, adatto sia allo scrittoio del dotto che alla lettura occasionale del signore o della dama, si accompagna spesso il grande esemplare di rappresentanza o il più piccolo e raffinato codicetto di dedica» (Ibid., p. 298). 14 Per il formato “reale” si hanno ad esempio interessanti usi del termine in inventarî del Piccolomini: cfr. RIZZO, Il lessico filologico cit., p. 49 («le indicazioni di formato nate per la carta venivano applicate anche alla pergamena»). 15 «Il L. reale era un codice cartaceo cioè tardo, se si pone in relazione questa circo-

stanza con il suo contenuto e se si considera che era scritto su carta reale venuta in uso nel sec. XV ma largamente diffusa solo alla fine di esso e nel seguente» (DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 179). 16 Da intendere con ogni probabilità secondo la più frequente terminologia umanistica come il recto e il verso di uno stesso foglio: cfr. RIZZO, Il lessico filologico cit., pp. 32-33. 17 Adotto le coordinate di CLPIO sia per l’indicazione numerica dei testi, sia per gli

incipit tratti da L. 18 Cfr. S. ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano: il codice, le mani, i tempi di confezione, in I canzonieri cit., IV, pp. 215-244, pp. 215-216.

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IL LIBRO REALE, COLOCCI E IL CANZONIERE LAURENZIANO

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ben si dimostra, ad esempio, fra l’incipit colocciano nr. 1119 (Hom ch’ama pregio et po) al principio di f. 6, presente in L alla riga 3 di f. 65ra, cioè all’inizio di un equivalente f. 5, con un notevole avanzamento di ben due facciate (recto e verso) da parte di R. Posto che ipotizzare la mise en page di un codice perduto e di cui si hanno pochi e malsicuri indizî tipologici è impresa ardua e scientificamente rischiosa, è lecito tuttavia chiedersi in che modo si possa giustificare uno scarto nella “capienza” di testo così notevole, che peraltro avvantaggia un codice di taglia media (L) a scapito di una manufatto di formato presumibilmente maggiore, nonostante le eventuali differenze tipologiche (scrittura, colonne, interlineo, margini, ecc.). Stando alle acquisizioni di uno studio codicologico applicato in particolare alla produzione di codici “umanistici” di varia tipologia esemplati fra l’Italia settentrionale (1435-1443) e la corte medicea di Firenze (1460-1468)20, la taglia media del codice pervenuta dall’analisi del suddetto corpus è di circa mm. 525 di semiperimetro (la somma di base e altezza) per i modelli a piena pagina, mentre «le dimensioni medie dei volumi umanistici a due colonne raggiungono quasi quelle, abbastanza standardizzate, dei libri giuridici (circa 660 mm)»21, codici che «serviranno da modello ai cartai per il formato ‘reale’»22; ciò che preme sottolineare è dunque che l’aumento della dimensione non implica un aumento della capienza testuale, anzi, determina forse proprio il fenomeno contrario, come risulta ad esempio dal confronto con codici “monastici” coevi al corpus analizzato23: l’ampliamento dell’unità di rigatura, dell’intercolunnio, e la modifica di altri elementi dello specchio24 cooperano insomma a restituire nel 19 Qui e sempre seguo testo e numerazione forniti nella trascrizione di BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 118-121. 20 M. A. CASAGRANDE MAZZOLI — E. ORNATO, Elementi per la tipologia del manoscritto

quattrocentesco dell’Italia centro-settentronale, in La fabbrica del codice. Materiali per la storia del libro nel tardo medioevo, Roma 1997, pp. 207-287. 21 Ibid., p. 218. 22 Ibid., p. 281, nt. 27. 23 «L’adozione di taglie spesso molto grandi per i codici umanistici non è soltanto una

questione di funzionalità o di scelte estetiche, ma anche di necessità, e ciò soprattutto quando si tratta di trascrivere testi copiosi che non si desidera frazionare in più volumi. L’aumento della taglia non è tuttavia sufficiente per ricuperare le perdite di rendimento e, per questa ragione, un codice umanistico dovrà anche, a parità di condizioni, contenere più carte di un codice “monastico”» (Ibid., p. 234). 24 Applicando in via sperimentale l’elaborazione dei parametri della Theorica et Pratica de modo scribendi fabricandique omnes litterarum species di Sigismondo Fanti, comunemente utilizzati fra Quattro e Cinquecento (cfr. G. MONTECCHI, Le dimensioni del libro secondo la Theorica et Pratica di Sigismondo Fanti, in ID., Il libro nel Rinascimento. Saggi di bibliolo-

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FABRIZIO COSTANTINI

codice umanistico «un’impressione di “areazione” della pagina che contrasta, invece, con la compattezza caratteristica della pagina “gotica”»25, e che può dunque giustificare lo squilibrio della quantità testuale fra L e R. II.1 Collazione degli incipit Come si è detto, la tavola colocciana (insieme alle postille dell’umanista iesino) è l’unico elemento concreto che oggi ci resta del Libro Reale, ed è pertanto da essa che si deve necessariamente procedere, in primo luogo con un’analisi specifica degli incipit, specialmente attraverso il confronto con le porzioni testuali corrispondenti in L e V, e quindi con la valutazione degli altri indicatori posti da Colocci per appuntare le localizzazioni dei brani e la loro classificazione metrico-strutturale. Per quel che riguarda l’analisi sinottica degli incipit, si riportano di seguito in trascrizione diplomatica i luoghi critici di maggior interesse, distinti a partire dal numero progressivo ricavato dalla tavola colocciana26 e organizzati in base ai raggruppamenti R vs. L e V, R e L vs. V, R e V vs. L ed, infine, R vs. L per i componimenti assenti in V27: come si vedrà specialmente per gli incipit dei componimenti guittoniani, in taluni casi le lezioni offerte dalla trascrizione dalla tavola di R, se valutate in chiave edotica28, possono mettere in luce degli interessanti risvolti della tradizione dei testi cui si riferiscono.

gia, Milano 1994, pp. 93-107), a partire dai dati del formato “reale” si ricaverebbe per R uno specchio di scrittura di circa cm. 24 × 15, dimensioni pressoché analoghe a quelle di L: cm. 23,8 × 17,4 (Cfr. ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., p. 216: «Come si può verificare, la pagina, pur conservando margini decorosi, è sfruttata con buona intensità»). 25 CASAGRANDE MAZZOLI — ORNATO, Elementi per la tipologia cit., p. 228. 26 Si segue il testo dalla trascrizione di BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 118-121,

verificato, grazie alla cortesia dell’autore, sulla riproduzione fotografica della tavola; per gli incipit di L e V, si adotta la numerazione progressiva di CLPIO e si fornisce la trascrizione a partire dal fac-simile I canzonieri della lirica cit, voll. I (Il canzoniere vaticano) e II (Il canzoniere laurenziano), indicando in parentesi tonde (..) gli scioglimenti per le abbreviazioni, in quadre [..] le integrazioni, in angolari le espunzioni, con la barra dritta | la fine di rigo di scrittura, con le barre oblique \../ l’inserimento di un elemento posto nell’interlineo superiore, o, se rovesciate /..\, inferiore. 27 Non si verificano invece casi in cui le tre lezioni sono tutte differenti (R vs. L vs. V). 28 La valenza della tavola come testimone utile ai fini ecdotici, dal momento che se ne

escluderà l’entità di puro e semplice descriptus rispetto a L (si vedano infra §§ II.2-II.5 e V.1), sarebbe in tal senso simile a quella, ad esempio, delle trascrizioni di Giovanni Maria Barbieri per i testi del cosiddetto Libro siciliano, o di altri casi di presunti codici descripti

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IL LIBRO REALE, COLOCCI E IL CANZONIERE LAURENZIANO

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II.2 R vs. L e V A.

De uoi don(n)a gente (nr. 1), SEdeuoi donna gente (L 25), Sediuoi don(n)a giente (V 140) – In Va la canzone manca: Colocci segnala in margine la lacuna (f. 138v), citando l’incipit corretto (Se di uoi don(n)a Gente) ricavato come di consueto dall’indice di V, e la corrispondenza nel Reale con l’esatta localizzazione («i(n) Lo reale fol. I.»). La regolare identificazione della canzone da parte dell’umanista, nonostante la lacuna (Se) collocata in significativa sede iniziale, fa supporre che nel momento dell’allestimento della tavola del Reale Colocci non fosse interessato alla registrazione di varianti o correzioni vere e proprie (come in questo caso), almeno di quelle provenienti da fonti differenti dalla tavola stessa (cfr. incipit nrr. 4 e 13). Resta difficile stabilire il motivo della lacuna di R: scartata la possibilità di errore della catena di trasmissione testuale, data la rilevanza della posizione assolutamente incipitaria, fra le varie ipotesi appare più verosimile l’asportazione intenzionale di un tassello di pagina corrispondente alla lacuna stessa. Si deve infatti osservare che, se già a a partire dal diretto modello L, codice «cortese di letteratura» ma di impianto decorativo affatto sfarzoso29, la prima lettera della congiunzione coincide con una delle «sei iniziali filigranate, che individuano le principali partizioni codicologiche e testuali del manoscritto»30, è possibile che in uno dei manufatti della tradizione successiva il segmento mancante, occupando tale posizione di rilievo, fosse riccamente decorato31 e dunque esposto ad eventuali asportazioni; è comunque da credere che l’ipotetica sottrazione si sia prodotta in un antigrafo a monte del Reale (anch’esso, peraltro, codice il cui nome suggerisce una fattura quasi sicuramente lussuosa), dal momento che essa è registrata anche nella tavola di R, dalla quale Colocci ricava la trascrizione («Reale: ha la sua tavola»). In alternativa all’asportazione, si può inoltre avanzare l’ipotesi, certo simile negli effetti, che dopo la stesura del testo il decoratore non abbia più avuto modo di riempire lo spazio

sempre di provenienza umanistica (cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., specie pp. 548-579). 29 Cfr. A. PETRUCCI, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA,

II: Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 499-524, p. 509. 30 ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., p. 218. 31 Si pensi ad esempio, per restare nell’ambito delle antiche sillogi italiane, al raffinato

impianto decorativo delle miniature del canzoniere Palatino, arricchite dalla presenza di sfoglie d’oro: cfr. M. SALMI, La miniatura fiorentina gotica, Roma 1954 (Quaderni di storia della miniatura 1), p. 4.

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FABRIZIO COSTANTINI

bianco con l’iniziale, come del resto è accaduto nel Laurenziano per i testi della sezione fiorentina della canzoni (cfr. sotto al punto F). B.

Ai /Deo\ bona donna uel achiediuenuto (nr. 4), Aj bona donna che edeuenu | to (L 28), Deo bona donna che diuenuto (V 147) – L’incipit è strutturato in modo complesso: al di sotto della particella esclamativa iniziale «Ai», conforme alla lezione di L, Colocci trascrive con stesso modulo del resto dell’incipit «Deo» (lezione di V), innestandolo sull’incipit con un tratto verticale che, dalla destra dell’elemento sottoscritto, giunge sul rigo fra «Ai» e «bona»; è importante sottolineare che tale operazione non si presenta come una correzione (dal momento che «Ai» non viene cassato), né come aggiunta (per la quale sarebbe stato impiegato un segno angolare e che comunque sarebbe risultata soluzione metricamente instabile). Dal confronto con gli incipit degli altri due canzonieri si osserva che è proprio nell’elemento iniziale che si determina l’opposizione «Ai» (L) vs. «Deo» (V, lezione confermata anche dal suo indice a f. 4*v). La trascrizione della tavola offre dunque una registrazione di varianti, così come si vedrà meglio per l’incipit nr. 1332; questa operazione non è tuttavia attribuibile all’iniziativa colocciana, dal momento che l’umanista anche altrove si astiene dal modificare la lezione della tavola di R, persino laddove essa si riveli del tutto erronea o comunque divergente dall’altro canzoniere italiano in suo possesso V (cfr. ad esempio il nr. 1). Interessante pure la seconda parte dell’incipit (uel achiediuenuto), che manifesta l’intenzione di Colocci di contraddistinguere ulteriormente l’attacco specifico della canzone con l’aggiunta della seconda metà del verso (si noti l’inserzione di «vel», ad introdurre l’ampliamento specificativo dell’incipit), operazione che si giustifica solo per la necessità di evitare fraintendimenti con l’identico attacco del sonetto guittoniano Ahi bona donna, or se tutto ch’eo sia, presente già in L (131) ed anche in V (445), ma in quest’ultimo con incipit differente33. Se Colocci è dunque spinto a marcare in modo netto la differenza fra i due incipit, per evitare ogni confusione, egli deve per forza aver avuto notizia dell’esistenza del 32 Lo stesso fenomeno si verifica anche per il sonetto Ai come matto è bene senza que-

stione, che, assente dalla tavola di R, è comunque assegnato al Reale (al f. 55) da una postilla presente in prossimità di questo componimento in Va (f. 337r), con la quale Colocci appunta la variante (anch’essa redazionale?) per il rimante ragione, con ogni probabilità desunta dallo stesso R: cfr. qui le conclusioni in § V.1. 33 Gientile mia don(n)a orse tutto chio sia (V, f. 122v); sulla divergenza redazionale di

incipit del sonetto cfr. le osservazioni di Leonardi in GUITTONE D’AREZZO, Canzoniere. I sonetti d’amore del codice laurenziano, a c. di L. LEONARDI, Torino 1994, pp. 21 e 271.

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sonetto guittoniano, certamente non attraverso l’accessibile V (che reca «Gientile mia donna…»), ma da un testimone che conservasse la variante redazionale di L; tale prospettiva spinge a ritenere che R, come il suo modello L, contenesse anche una sezione di sonetti34, nella quale era inserito appunto Ahi bona donna, or se tutto ch’eo sia, volutamente tralasciata da Colocci nella trascrizione della tavola di R. C.

Voglia didir Justa cagio(n) mapare (nr. 12), Uoglia dedir giusta ragion | maporta (L 36), Volglia didire giusta rasgione maportta (V 148) – In tal caso la lezione di R si discosta da quella degli altri due canzonieri e offre soluzioni proprie: se la variante adiafora «cagion» vs. «ragione» può essere intesa come semplice svista paleografica (r- > c-), al limite anche colocciana, più sostanziale e difficilmente imputabile all’attento metricista Colocci è l’errore «m’apare» vs. «m’aporta» (L e V), tanto più che esso incide sulla serie rimica su cui si fonda il gioco equivoco dell’intera prima stanza35 (porta : -porta, -porto: porto, porti: -porti).

D.

La mia dona \Gioia/ che di tutte altre e soura (nr. 13), Lagioia mia che detuttaltre | soura (L 37), Lamia donna che ditute altre esoura (V 158) – Al pari di quanto avviene per il nr. 4, anche in tal caso si osserva una sovrapposizione, strictu sensu, delle lezioni dei due canzonieri: la trascrizione che fornisce Colocci reca un incipit in una forma base vicina a V (dona), al di sopra della quale viene trascritta la variante che oggi si legge nell’incipit di L (Gioia), senza alcuna espunzione né, a differenza dell’incipit nr. 4, segni di raccordo36; tale rappresentazione grafica è quasi certamente da intendere come testimonianza di variante redazionale, fenomeno del resto diffuso e documentato anche al di fuori di R per analoghi contesti guittoniani in cui è variante incipitaria proprio il senhal «Gioia»37. Il confronto fra le modalità di resa con l’analogo fenomeno dell’incipit nr. 4 evidenzia una certa disomogeneità operativa che fa escludere che l’inserimento della variante sia imputabile a Colocci tramite collazione di R (= L) con V: infatti, poiché nel primo caso (nr. 4) la lezione di base (cioè

34 L’esistenza di questa tipologia testuale all’interno del Reale è inoltre garantita da altre postille colocciane nella tavola dei Sonetti de Siculi (Va, f. 462r), in riferimento a sonetti di

Giacomo da Lentini e di Guittone: l’argomento sarà ripreso specialmente infra, § V.1. 35 Si noti che Colocci nella ricognizione del canzoniere vaticano ha la premura di sotto-

lineare l’artificio rimico di questo stesso componimento (V 148, f. 46r) annotando all’inizio la dicitura «Equivoci». 36 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 118, nt. 54. 37 Cfr. GUITTONE, Canzoniere cit., p. 271.

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non in interlineo) è quella identica a L con sottoscritta variante redazionale di V, nel secondo caso (nr. 13) è difficile supporre che Colocci ponesse direttamente nell’incipit la variante desunta dalla collazione con V, relegando solo in interlineo la lezione che, prossima a L38, doveva con ogni probabilità recare il suo discendente R. L’assetto grafico che Colocci propone nella sua trascrizione testimonia dunque la presenza di varianti redazionali risalenti direttamente al Reale: una volta registrate sulla tavola, esse filtrarono come annotazioni e postille in Va, come ad esempio si legge per questo stesso componimento a f. 149r39. E.

Altra fiata hagio donne cantato (nr. 20), Altra fiata aggio donne par | lato (L 45), Altra fiata agio gia don(n)e parlato (V 165) – È invece poco probabile che sia dovuta all’esclusiva iniziativa colocciana la variante «cantato», presumibilmente già contenuta in R, contro «parlato» degli altri due canzonieri: si osservi inoltre che l’uso di cantare non è estraneo in contesti simili ad altri componimenti guittoniani40, fra i quali è l’avvio della celebre canzone Ora parrà s’eo saverò cantare, anche in tal caso con il lemma rimante in verso incipitario. Coincide invece con L, e ad esso probabilmente risale, la soppressione aplologica dopo «agio» dell’avverbio «già», conservato dal solo V.

F.

Lasso no(n) pensai (nr. 75), [O]Jlasso no(n) pensai (L 117), Oillasso nompensai (V 49) – L’omissione in R della particella esclamativa iniziale rende il caso analogo a quello osservato per il punto A, sebbene qui il confronto con L metta in luce degli elementi maggiormente produttivi. Si osserva infatti che il componimento è compreso nel Laurenziano all’interno della serie di testi che sono rimasti privi delle iniziali decorate (L 108-124, ff. 99r-104v): qui in particolare, l’assenza

38 Con la variante d’interlineo, a rigore, non si ripristina infatti l’esatta lezione dell’incipit che reca L («La gioia mia che…»), ma una soluzione ibrida che, stando alla trascrizione colocciana, inverte in R anche la posizione dell’aggettivo («La mia gioia che…»), secondo una struttura sintagmatica simile a quella di V («La mia donna che…»): si tratta tuttavia di uno scarto virtuale, che può anche essere imputato alla necessità per Colocci di registrare la variante dando, per semplificare la registrazione, la priorità al solo elemento lessicale. 39 «Sopra “La mia” con un tratto di penna che rinvia a un veloce appunto posto sopra la

“L” maiuscola, che sembrerebbe uo (piuttosto che ud, per uide), Colocci scrisse «Gioia» (BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 116), specificando in margine «nello reale»; si noti con attenzione la modalità differente di inserimento della variante: nella trascrizione della tavola di R è giustapposta e quasi intercambiabile, in Va è invece contrassegnata con apposito segno e ne viene indicata la provenienza. 40 Cfr. ad es. nell’edizione Egidi le canzoni VI 6, XVIII 5, XVIII 24, XXVII 28, ecc. (Le rime di Guittone d’Arezzo, a cura di F. EGIDI, Bari 1940).

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della «O» e il ravvicinamento della «J», divenuta iniziale, con la successiva «l» produce un effetto visivo tale da poter trarre in inganno e indurre ad intepretare erroneamente i due segni come un unico grafema («L»), secondo una trafila che ha infine generato l’assetto presente in R. Se gli altri incipit, in cui l’omissione dell’iniziale può essere risanata con facilità a senso dal copista (es. [T]roppo.., [G]Joiosame(n)te.., [A]morosa.., ecc.), non creano alcun problema, incertezze simili si registrano invece anche per alcuni casi in cui l’elemento iniziale può essere equivocato: perturbazioni nella parte iniziale interessano ad esempio gli incipit Dalcor41 mi uiene (nr. 67), [D]Alcore miuene (L 110), Dalcore miuene (V 5) – L Amoroso42 uedere (nr. 72), [L]Amoroso uedere (L 114), Lamoroso uedere (V 20) – D amoroso43 paese (nr. 73), [D]Amoroso paese (L 115), Damoroso paese (V 21). G.

Si raccolgono insieme due casi analoghi in cui le variazioni di R rispetto agli altri due canzonieri sono meno sostanziali e potrebbero essere state con più probabilità inserite da Colocci stesso. In A Rinformar(e) amor et fede spera (nr. 7), A renformare amore efede | espera (L 32), ARimformare amore efede espera (V 134) si osserva nella trascrizione della tavola la soppressione della congiunzione prima di «spera» (sebbene risanabile tramite la segmentazione dell’elemento precedente fede > «fed’ e»), forse per l’erronea interpretazione (di R o di Colocci?) di una lezione d’antigrafo espera intesa come verbo con appendice prostetica innanzi a s- impura44. Semplicemente legata ad una svista è invece con ogni probabilità l’inversione di ordine che riguarda sempre la congiunzione nell’incipit Amore da cui moue et tuttora uien (nr. 79), [A]More dacui moue | tuctora euenpregio (L 122), AMore dachui moue tutora eue presgio (V 40), anche in tal caso non ascrivibile con certezza a R o a Colocci.

41 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., 120, nt. 67: «Così, parrebbe, su un originario Thal… (forse per Thalor?)». 42 Cfr. ibid., nt. 68: «La “L” maiuscola è stata aggiunta alla “A” maiuscola, allineata in

origine agli altri incipit». 43 In tal caso l’incipit sembrerebbe regolare, se non fosse che la «D» iniziale appare piuttosto distaccata dal resto dell’unità grafica (tanto da essere separata anche nella trascrizione di Bologna, il quale aggiunge però un cauto «sic?»), ma l’assenza della maiuscola in amoroso e l’allineamento corretto porta ad escludere che si tratti di un aggiunta successiva simile a quella dell’incipit nr. 72; si osservi tuttavia che proprio per i contigui incipit nrr. 72 e 73 il tasso di ambiguità è alto già a partire da L, in cui essi sono presenti nella stessa forma ([..]Amoroso uedere, [..]Amoroso paese) raffrontati sulla stessa facciata (f. 101v). 44 Cfr. A. CASTELLANI, Grammatica storica della lingua italiana, I: Introduzione, Bologna 2000, pp. 356 e 365.

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H.

Di minor conto (ecdoticamente adiafora) la variante presente in Ahi lasso hor e stagio(n) didolor tanto (nr. 18), Ailasso ore stagion dedoler | tanto (L 43), AJllasso ore stasgione didolere tanto (V 150), per la quale resta ignota l’origine.

I.

Sono quasi certamente dovuti a sviste per la velocità di trascrizione dell’umanista gli errori evidenti in Gentil mia don(n)a gioi sensi Gioiosa (nr. 16), Gentil mia donna gioi sen | pre gioioza (L 40), GJentile mia donna gioia sempre gioiosa (V 139), e, forse per fraintendimento della grafia d’antigrafo (c > t), in Ai misero tapina hora sto perchio (nr. 41), Ajmizero taupino ora scop(er)chio (L 81), AJmisero tapino ora scop(er)chio (V 283).

II.3 R e L vs. V J.

Hom chama pregio et po (nr. 11), Hom cama pregio epo (L 35bis), Om(m)o chepresgio ama epo (V 141bis) – La sinossi in questo caso mostra chiaramente che fra le due differenti collocazioni degli elementi linguistici nei canzonieri (L «ama pregio» vs. V «pregio ama») R segue la versione del Laurenziano. Ben più interessante invece lo “sdoppiamento” del componimento guittoniano Tuttor s’eo veglio o dormo, presente nella tavola del Reale con l’incipit nr. 10: difatti il testo citato come incipit nr. 11 fa parte di tale canzone e ne costituisce il v. 25, posto all’inizio della terza strofa. Tale fenomeno non è altrimenti spiegabile se non come una svista generatasi a partire dalla trascrizione dell’apografo di L. Nel Laurenziano infatti la canzone in questione (L 35) incomincia nella metà inferiore della seconda colonna a f. 64v, per continuare e concludersi nella facciata successiva (f. 65ra-b): già dalla riproduzione fotografica del manoscritto è evidente che il testo risulta ben leggibile solo fino alla metà della prima riga di f. 65ra («… magnio»), mentre la porzione subito successiva, corrispondente ai versi finali della seconda strofa (vv. 23-24), è fortemente compromessa, probabilmente per cancellatura45; il cospicuo scolorimento delle due righe determina un’apparente stacco con l’inizio 45 Anche una ricognizione diretta sul manufatto conferma tale impressione: si osserva

infatti che, rispetto ad altri luoghi della stessa pagina in cui l’inchiostro appare oggi semplicemente sbiadito (si veda ad esempio la parte superiore della seconda colonna di f. 65r), il luogo in questione è caratterizzato da un evidente alone attorno al testo, tale da presupporre un’azione manuale e dunque volontaria; in aggiunta pare di osservare che il testo compromesso da questo procedimento sia successivamente stato persino ricalcato in alcuni punti, come si osserva ad esempio dall’aspetto delle lettere del nesso ch («chesi»).

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della strofe successiva (terza: «Hom cama pregio epo»), tale da poter indurre a credere che essa sia l’inizio di un componimento differente. Colocci, pur non omettendo di trascrivere fedelmente come in R il falso attacco, si avvede dell’erronea separazione, tanto che fra i due incipit (nrr. 10-11) pone un segno distintivo ed evita di aggiungere la superflua annotazione metrica al nr. 11. K.

Ai lasso doloroso piu no(n) posso (nr. 42), Ajlasso dolorozo piu no(n)posso (L 82), AJdoloroso lasso piu nomposso (V 281) – Anche in tal caso R si dimostra fedele al suo modello L nel seguire l’ordine degli elementi «lasso doloroso», contro l’inversione («doloroso lasso») del solo V.

II.4 R e V vs. L L.

Tutto mi stringe i(n)pensier et i(n)pian[to] (nr. 5), Tutto mistrugge inpensero | enpianto (L 30), TVtto mistringie jmpemsiero edimpianto (V 151) – La notevole convergenza di lezione fra R e V («stringe», confermato anche nell’indice del Vaticano) contro L («strugge») potrebbe però essere il prodotto poligenetico di un erroneo inserimento di un’asta con conseguente fraintendimento del nesso (-u- > - in-), eventualmente anche a carico di Colocci. Si noti che in analogo contesto tematico (inquietudine amorosa) stringere è registrato nell’uso di Guittone da varie attestazioni46, fra le quali spicca quella dell’incipit di V 152 Sì mi stringie fortte47, presente nel Vaticano sulla stessa facciata (f. 47v) dell’incipit qui in esame.

M.

Gioia Gioiosae plagiente (nr. 21), Gioia gioioza plagente (L 47), GJoia gioiosa epiagiente (V 160) – La corrispondenza fra R e V si rintraccia qui nella presenza dell’elemento «e» fra i due aggettivi, assente invece in L: in effetti il dato non è significativo, né si può escludere che l’inserto sia semplice iniziativa poligenetica di Colocci. Tuttavia, si devono notare due particolarità che ne chiariscono meglio la valenza: in primo luogo la «e» appare saldata all’elemento precedente in

46 Cfr. ad es. Lett. 24 «E in sua caritate e [15] amor bono stringavi bene», Lett. 28 «s’amorozo podere di voi mi stringe» (edizione delle lettere: GUITTONE D’AREZZO, Lettere, a c. di C. MARGUERON, Bologna 1990); Canz. XXXVIII, 17 «sì mi stringe amor»; VII, 38 «pur di veder lei che lo stringe amando»; son. 45, 11 «ch’amor mi stringe più ch’eo non v’assegno» (cfr. Le rime di Guittone d’Arezzo cit.). 47 Testo di CLPIO, corrispondente alla canzone XXIII Sì mi destringe forte dell’edizione Egidi (Le rime di Guittone cit., pp. 52-53).

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unità grafica, secondo una prassi non comune48; inoltre, essa manca della solita appendice dentale che in tutti gli altri incipit contraddistingue la congiunzione (et), dato che spinge a considerare l’interpretazione di Colocci dell’elemento come verbo («Gioia gioiosa è plagiente») e non congiunzione, come invece si ha in V (CLPIO: «Gioia gioiosa e piagiente»). II.5 R vs. L N.

Poi che mia uoglia pena (nr. 58), Poi chemia uogla uarcha (L 100) – Si tratta della più consistente opposizione nel gruppo di incipit comuni ai soli R e L: la variante di R («pena») costituisce l’intero rimante e si sostituisce al «varcha» di L che, nel contesto di alta tecnicità rimica che interessa tutta la canzone, si ripresenta anche al v. 4 («varch’ à», CLPIO). Sempre dal testo del Laurenziano si osserva però che il rimante «pena» è presente, in rima equivoca, soltanto ai vv. 5556; l’entità dello spostamento farebbe escludere che esso sia imputabile a una svista di Colocci, ma appare verosimilmente legato a più complesse dinamiche della trasmissione testuale fra L e R.

O.

Per gli incipit Di alta ualensa signoria (nr. 50), Djsialta ualensa signoria (L 90) e La dolorosa mia greue doglenza (nr. 53), Ladoloroza emia graue doglensa (L 93) si registrano omissioni di analoga natura: la minor incidenza sul piano ecdotico delle lezioni e l’impossibilità di determinare se esse siano ascrivibili a R o, più semplicemente, a una svista di Colocci, spinge a valutare con maggior cautela entrambi i dati.

P.

Ugualmente poco probante l’elemento che emerge dall’incipit Dolorosa doglenza adir madduce (nr. 56) e Doloroza doglensa indir madduce (L 96), in cui la variante è per lo più adiafora, sebbene la lezione di R («a dir») si rivela più conforme alla struttura sintattico-preposizionale del verbo addurre, come dimostrano alcuni riscontri per contesti analoghi in Guittone e Guinizzelli49.

48 Già a partire dalle soluzioni di segmentazione grafica dell’italiano antico gli elementi

morfo-sintattici di scarso corpo fonico e atoni (come appunto la congiunzione e) erano costantemente saldati in unità grafica con l’elemento successivo: cfr. F. COSTANTINI, Le unità di scrittura del Vaticano latino 3793, in Critica del testo 6 / 3 (2003), pp. 969-1008, pp. 10021005. 49 Cfr. GDLI, s.v. Addurre, § 4.

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III.1 Postille metriche Per quanto riguarda i segni e gli appunti che accompagnano gli incipit nella tavola, essi si distinguono essenzialmente in annotazioni metriche e indicatori atti a evidenziare localizzazioni e rimandi ad altri codici. Per il primo gruppo si constata l’uso di una terminologia in linea con quella dei principali trattati metrici dell’epoca50, volta a identificare quasi esclusivamente le partizioni strutturali dei testi (frons, pes, syrma, versus): tale fattore indica ancora una volta che la trascrizione colocciana non è stata approntata a partire dalla sola tavola del Reale, ma che Colocci abbia sfogliato il suo esemplare riscontrando direttamente sui testi la loro specifica struttura metrica; se infatti è già estremamente difficile che le indicazioni metriche fossero ricavabili dalla tavola di R, a ulteriore conferma del modus operandi si devono tener presenti alcune annotazioni supplementari in cui l’umanista dimostra di trovarsi di fronte a strutture metriche di interpretazione non univoca o comunque difficile. È il caso dell’incipit nr. 2 (Amor non ho podere), in cui Colocci annota «frons. uersus tres. possunt / esse frons et pedes vide»: lo schema della canzone guittoniana (a b b a; c c d d e e)51 è difatti organizzato in settenarî divisi fra una fronte e una sirma formata da distici a rima baciata che devono essere apparsi ciascuno come micro-struttura indipendente ([…]; c c, d d, e e = 3 volte)52; l’interesse («vide») con cui l’umanista prospetta l’eventualità di una differente ripartizione della prima parte della stanza (il dubbio di dividere la fronte in due piedi simmetrici si realizza forse spostando l’attacco della sirma: a b b, a c c; […]?) denota dunque una riflessione personale frutto di un’analisi completa del testo. Allo stesso modo si deve interpretare anche l’annotazione all’incipit nr. 39 (Amor tegnomi matto, peraltro assente in V), che nel consueto spazio alla sinistra del verso iniziale registra «p(es). versi», cui è aggiunta la specificazione «Quattro» e, nel margine destro, il dubbio «nota si .4. po50 Alla base resta comunque la classificazione operata da Dante in De vulgari eloquentia (da qui in poi D.V.E.), II, x, 2-4. 51 A. SOLIMENA, Repertorio metrico dei poeti siculo-toscani, Palermo 2000 (Supplementi

al bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani 14), nr. 204:1. 52 Tale procedimento è del resto identico a quello che Colocci applica al testo dell’incipit nr. 10 (Tuttor s’io veglio o dormo), in cui, con la formula «pes. versus tres», torna a distinguere tre micropartizioni di una sirma oggi classificata indivisibile (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 336:4 = a b c, a b c; d d e e f f > Colocci = a b c, a b c; d d, e e, f f). Stessa interpretazione anche per il testo dell’incipit nr. 61 (Lasso tapino in che punto crudele), come testimonia la nota «pes. syr(ma) uel Versiculi tres», per cui la sirma dello schema a b c, a b c; d d e e f f (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 336:8) deve essere stata intesa eventualmente frazionabile in a b c, a b c; d d, e e, f f (Colocci).

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t(est)»53: anche in questo contesto si evince che l’individuazione di ben 4 volte nella sirma54 deve essere stata condotta, con tutta l’incertezza che dimostra, sul testo completo. Sempre a valutazioni di ambito metrico potrebbe essere rapportata infine anche la nota all’incipit nr. 55 (La dolorosa noia) «n(on) i(n)telligo», ad indicare non tanto un dubbio quanto una vera e propria difficoltà nel discernimento della partizione strutturale (che di fatti non è riportata) di tale componimento, o per oggettiva complessità dello schema metrico55, o per problemi legati semplicemente alla lettura del testo in R; se la prospettiva è corretta, questo sarebbe dunque l’unico luogo in cui l’autore ammette esplicitamente l’impedimento interpretativo; su circa 80 incipit qui analizzati, vi sono solo 5 casi in cui è omessa qualsiasi indicazione di carattere metrico56, in ciascuno dei quali resta però misteriosa la lacuna, né essa è direttamente giustificata dall’autore, potendo dunque risultare causata anche solo da semplice dimenticanza. Se si osserva nello specifico la conformità delle indicazioni colocciane rispetto alle odierne partizioni dei repertorî, si nota che l’umanista, nel complesso, identifica correttamente la maggior parte delle strutture: veri 53 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 119, nt. 59. La possibilità di avere ben 4 volte nella sirma doveva apparire a Colocci un fenomeno inconsueto e rarissimo, ma di certo non del tutto estraneo alle partizioni “microanalitiche” che nello stesso De vulgari eloquentia sono contemplate per alcuni moduli (II, x, 4: «Si ante diesim repetitio fiat, stantia dicimus habere pedes; et duos habere decet, licet quandoque tres fiant, rarissime tamen»). 54 Come per i casi precedenti, ancora una volta Colocci intende parti autonome i distici a rima baciata contenuti nella sirma del componimento: dallo schema metrico a b c, a b c; d d e e f f g g (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 337:1), Colocci elabora la divisione a b c, a b c; d d, e e, f f, g g. 55 Lo schema è molto articolato ed è così razionalizzato: a b b C c D, a e e F f D; G g H h I i L L (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 290:1); cfr. inoltre, Poeti del Duecento, a c. di G. CONTINI, Milano — Napoli 1960, I, p. 304. 56 Si tratta degli incipit ai nrr. 5 (Tutto mi stringe in pensier et in pianto), 59 (Nova m’è volunta nel cor criata), 60 (Se doloroso a voler move dire), 66 (Amor non vol ch’i’ clami) e 78 (Assai credetti celare); l’assenza di annotazione non sembra dovuta a ragioni di difficoltà interpretativa, dal momento che i rispettivi schemi metrici non sono certo molto più complessi di quelli analizzati da Colocci per gli altri incipit: A B C, A B C; D e f f e D (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 362:2), A B B C C D D A; E F F G G E (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 291:1), A (a)B B (b)A; A C D (d)C (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 56:1), [ottonarî] a b, a b; c c d, e e d (R. ANTONELLI, Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo 1984 [Supplementi al bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani 7], nr. 87:1), a b b c, a b b c; d e e d F F (ANTONELLI, Repertorio metrico cit., nr. 181:1). Non si prende invece in considerazione l’omissione dei dati metrici per l’incipit 11 (Hom ch’ama pregio et pò), poiché, come si è detto (cfr. luogo critico J), il testo fu riconosciuto da Colocci come parte del componimento precedente (nr. 10 Tuttor s’io veglio), di cui aveva già fornito l’annotazione sulla struttura («pes. uersus tres»).

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e propri “errori”, se si escludono le peculiari ma sistematiche frammentazioni di sirme con moduli di distici a rima baciata (nrr. 2, 10, 39, 61: cfr. sopra), sono 17. Fra di essi il principale meccanismo che si riscontra è la mancata ripartizione in moduli inferiori effettivamente separabili (piedi e volte) di fronti e sirme: nella maggior parte dei casi si tratta probabilmente di sviste dovute alla velocità di ricognizione da parte dell’umanista o, più spesso, dalla complessità oggettiva (per lunghezza e/o varietà di modulo) di talune strutture, come ad esempio quelle corrispondenti agli incipit nrr. 45 o 6557. In altri casi è invece possibile intravedere in Colocci la convinzione della propria scelta, in virtù dell’osservanza scrupolosa del rigido precetto di matrice dantesca58, secondo il quale l’ulteriore divisione di fronte o sirma deve avvenire in sotto-strutture del tutto identiche per numero di sillabe e versi e per loro ordine59: si veda in tal senso l’esempio dell’incipit nr. 15 (Gente noioisa et villana), in cui dallo schema metrico a b b a; C c d d E, f f g g E (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 208:1) vengono unificate le due volte probabilmente perché sentite asimmetriche a causa della differenza di misura del quinto (C, endecasillabo) e decimo verso (f, settenario) di stanza; appare peraltro singolare la circostanza per la quale, se si effettua per questo testo un riscontro sul canzonieremodello a monte del Reale, L (L 39, ff. 66va-67rb), si deve constatare che anche in esso la sirma è indicata come indivisa60. Con ciò non si vuole pervicacemente sostenere, ipotesi non scartabile a priori, che anche il Reale fosse dotato, secondo il modello della sua tradizione, di simili de57 Si tratta rispettivamente di A San Giovanni a Monte mia canzone, per la quale Colocci unifica in sirma indivisibile («p[es]. syr[ma]») le due volte individuate nello schema complesso A B b A, B A a B; C c D (d)C, D d C (c)D (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 188:1), e di Grave di gioia pò l’om malenanza, anche qui con la fusione in unica sirma delle due volte dall’ampia gamma di rime in schema (n)A a B, (n)A a B; C d C d E e F g, H i H i L l M g (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 414:1). 58 Il De vulgari eloquentia non solo è ben noto a Colocci, ma costituisce un’autorità indiscussa nei suoi studi sulla metrica dei testi antichi: cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 114-115. 59 Cfr. D.V.E. II, xi, 13: «Nec etiam pretermictendum est quin iterum asseramus pedes ab invicem necessario carminum et sillabarum equalitatem et habitudine [corsivo mio] accipere, quia non aliter cantus repetitio fieri posset. Hoc idem in versibus esse servandum astruimus». 60 Si ricorda che nel Laurenziano, per i testi di mano pisana (La1 e La2: cfr. le rispetti-

ve aree del codice in ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., p. 245), il corredo decorativo prevede dei caratteristici “tocchi di giallo” a segnalare puntualmente tutte le ripartizioni della stanza (fronte / piedi — sirma / volte). Meno accurato invece il sistema del Vaticano, che si limita ad individuare soltanto lo stacco di diesis con un segno circolare di penna.

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marcatori metrico-strutturali, sui quali Colocci abbia più speditamente condotto la sua ispezione, né che essi coincidessero esattamente con quelli del canzoniere Laurenziano: tant’è che il confronto fra la classificazione degli assetti dei testi citati dall’umanista e quella di L ha messo in luce diverse occasioni in cui ad una ripartizione strutturale evidentemente erronea nella silloge antica corrisponde invece un’esatta valutazione per le indicazioni dello iesino61; appare comunque notevole la serie di convergenze che, oltre al primo caso sopra citato (Gente noioisa et villana), sembra avvicinare in parte il sistema classificatorio dei due contesti. Si rileva, ad esempio che anche per l’incipit nr. 25 (Membrando ciò ch’amore) sia Colocci («pes syr[ma]») che L considerano indivisa la sirma che, con ogni evidenza, risulta invece scomponibile in due volte secondo lo schema (e)a b (b)C, (e)a b (b)C; d d c, d d c (ANTONELLI, Repertorio metrico cit., nr. 363:1); ancor meno fortuita appare poi la coincidenza per la quale nell’incipit nr. 56 (Dolorosa doglienza a dir m’adduce) l’annotazione colocciana pone in risalto il frazionamento simmetrico sia di fronte sia di sirma («p[es]. vers[i]»), in sintonia con i “tocchi di giallo” del Laurenziano (L 96, ff. 92va-93ra), mentre il repertorio metrico ne dichiara al contrario l’indivisibilità A B B C C D D A; E F F G G H H E (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 292:1). Più in generale si deve inoltre notare che la maggior parte di “errori” da parte di Colocci, tutti accomunati dalla mancata divisione della fronte e della sirma nelle sotto-strutture (piedi o volte), si verificano per quei testi che si trovano nel Laurenziano all’interno della sezione fiorentina62, proprio quella in cui, eccetto l’unica demarcazione (come in V) del segno di diesis, non vi sono indicatori per evidenziare piedi e volte. Resta da commentare, infine, un piccolo gruppo di postille, sempre a carattere metrico, ma di tipologia differente e del tutto minoritaria: si tratta in particolare delle tre annotazioni che accompagnano gli incipit nrr. 67 (Dal cor mi vene), 81 (Tuttor la dolce speranza) e 73 (D’amoroso paese). Per i primi due casi l’unico appunto riguarda il genere metrico dell’intero testo, definito esplicitamente “discordo” (discor e Discort); si osservi che mentre nel testo di Giacomo da Lentini (nr. 67) tale indicazione poteva essere verosimilmente ricavata in modo immediato dall’an61 Ad esempio, ricordiamo i casi della sequenza di incipit nrr. 27 (Ancor che l’acqua per lo foco lasse), 28 (Assai mi placeria) e 29 (Avegna che partensa), tutti componimenti con stanza a sirma indivisibile per Colocci, frazionata invece in volte secondo il sistema decorativo del Laurenziano (cfr. L 66-68, ff. 78vb-79vb). 62 All’interno della sezione delle canzoni trascritte dalle mani fiorentine (ff. 99ra-104vb:

cfr. ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., pp. 231-232) sono presenti i testi che Colocci cita negli incipit nrr. 65-81.

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tigrafo, che è lecito supporre contenesse tale dicitura in analogia con quanto si osserva ora per L e V63, per il caso del testo di Giacomino Pugliese, per la rubrica del quale gli altri due canzonieri forniscono solo il nome dell’autore, resta incerta l’origine dell’identificazione della tipologia: tale lirica, costituita da una strofe polimetrica di una certa complessità, ma a rigore non ascrivibile al genere “discordo”64, potrebbe essere stata così classificata già a partire da R, ovvero da Colocci stesso (questo spiegherebbe l’indicazione aggiuntiva per il nr. 81 «no(n) ha numero», sempre come valutazione metrica), sebbene si debba far notare che fra le varie postille dell’umanista che contrassegnano questo specifico genere metrico all’interno di V65, nessuna si riferisce al testo in questione (V 56, f. 16v). Ancor più interessante, in quanto maggiormente inconsueta, l’indicazione «Strophe» apposta all’incipit nr. 73, senza riscontro nelle rubriche del corrispettivo di L (L 124, f. 110vb: «Tomaso di sSasso di Messina») e di V (V 21, f. 5r: «Tomaso di Sasso di Mesina»); l’utilizzo di tale termine, che altrove (ad esempio nelle postille ai canzonieri portoghesi66) compare per segnalare una parte dell’ode pindarica67, deve in tal caso essere valutato soltanto nell’ottica dell’opposizione fronte (o piedi) vs. sirma (o volte) che Colocci cerca di rintracciare anche per gli altri testi citati: «Strophe» sarà dunque da intendere come «stanza indivisibile», così come del resto è confermato anche indirettamente dagli altri due canzonieri (L e V), in cui le stanze del componimento non contengono neppure il consueto indicatore di diesis68. 63 Nel Laurenziano la rubrica del testo (L 110, ff. 99va-100rb) recita espressamente «Di-

scordio di Notar Giacomo», così come nel Vaticano (V 5, f. 2r-v) «Notaro giacomo discordo»; sull’eccezionale convergenza delle due rubriche, da valutare per la menzione specifica della tipologia “discordo” nella lirica italiana delle Origini, cfr. P. CANETTIERI, Descortz es dictatz mot divers. Ricerche su un genere lirico romanzo del XIII secolo, Roma 1995, pp. 290 e sgg. 64 Cfr. schema in ANTONELLI, Repertorio metrico cit, nr. 100:1, ricondotto al semplificato nr. 90:1 (8a 8b, 8a 8b; 10?c 7d C 7d C). 65 Ad esempio, sempre per Giacomino Pugliese, Colocci si premurò di aggiungere pres-

so la rubrica del testo subito successivo (V 57) la postilla «Discort» e di registrarlo anche nell’indice della tavola: cfr. Appendice I, nr. 3 e II, nr. 11 di BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 145 e 147. 66 Cfr. V. BERTOLUCCI, Le postille metriche di Angelo Colocci ai canzonieri portoghesi, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale 8/I (1966), pp. 13-30, p. 16. 67 All’interno del sistema macrostrutturale composto da strofe, antistrofe e epodo, tipico di questa rinnovata forma di canzone cinquecentesca (Trissino, Alamanni, Minturno): cfr. P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna 20024 [1991] (Strumenti. Filologia e critica letteraria), pp. 134, 347-349. 68 Sebbene il complesso schema metrico a B (b)C, c D (d)A; e (e)F (f)G, g (g)H (h)I (ANTONELLI,

Repertorio metrico cit, nr. 199:1) mostri una certa simmetria razionalizzabile, il

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Più chiaro invece nel significato immediato, sebbene non altrettanto nelle motivazioni di fondo, il commento apposto all’incipit nr. 46 (Stato son lungiamente) «nota artem»69, con il quale Colocci vuole mettere in risalto taluni aspetti della tecnica compositiva del componimento: ma il testo, che presenta lo schema metrico a B b C c D d E; f f G (g)H h I (SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 293:2), sebbene caratterizzato da struttura non comune, non sembra in effetti connotato da meccanismi metrico-stilistici tali da giustificare questa estrema attenzione, né può essere d’aiuto l’eventuale registrazione di altre postille colocciane per questo stesso componimento, che si limitano in Va esclusivamente alla sua collocazione70. La tecnica compositiva è invece elemento di rilievo per il nr. 58 (Poi che mia voglia pena), testo che, per come ci è stato tramandato dal solo Laurenziano (L 100, ff. 94rb-94vb), più che dalla complessità dello schema metrico (a b c, a b c; d d e e f f in SOLIMENA, Repertorio metrico cit., nr. 336:7) è contraddistinto da una notevole densità di tecnicismi rimici: se, come credo, l’appunto che segue l’incipit («nota») deve essere inteso come l’esteso «nota artem» di nr. 46, è probabile che in tal caso Colocci fosse interessato a sottolineare la peculiare trama di rime equivoche del componimento, apprezzando l’artifico71.

componimento appare a prima vista «senza vera distinzione di piedi e volte» (Poeti del Duecento cit., I, p. 91) e, in definitiva, in una forma metrica estremamente problematica: cfr. R. ANTONELLI, Ripetizione di rime neutralizzazione di rimemi? in Medioevo romanzo 5 (1978), pp. 169-206, pp. 179-180; il fattore di perturbazione è ben testimoniato dall’assenza totale nei testimoni antichi L 115 (ff. 101vb-102ra) e V 21 (f. 5r-v) dei minimi segni di partizione macro-strutturale adoperati costatemente dai rispettivi copisti. 69 Credo che il seguito della riga («i(n) utroq(ue) Lo / et i(n) reale») non vada messo in relazione a «nota artem», ma sia piuttosto da considerare come postilla separata, tipologicamente differente, poiché da intendere solo come indicazione topografica, alla stregua delle numerose formule «i(n) veteri» (cfr. nrr. 6, 7, 10, ecc.) o dell’analogo «i(n) utroque» al nr. 13: cfr. l’analisi infra (§ V.1). 70 In Va è soltanto ricordata la presenza in R (f. 307v «i(n) reale»): cfr. inoltre BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 117, nt. 48. 71 Mi sembra invece da escludere l’ipotesi che l’appunto possa essere riferito alla quali-

tà della lezione offerta dall’incipit: nel ricordare che uno dei fondamentali nodi di opposizione fra R e L (cfr. punto N) verta proprio qui sulla variante in sede rimica pena / varca, si deve tuttavia convenire che qualora Colocci, ispezionando il testo intero, avesse trovato un’erronea permutazione dello schema rimico, avrebbe con ogni probabilità segnalato il fenomeno con un appunto sul tipo vide (cfr. nr. 2) o, più anodinamente, non intelligo (cfr. nr. 55); che Colocci potesse conoscere la versione del testo oggi conservata è eventualità che non può procedere da V (manca qui il testo in questione), ma solo dalla collazione diretta con L o con un suo discendente fedele.

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IV.1 Postille di localizzazione Oltre alle annotazioni di tipo metrico, agli incipit sono associate spesso delle altre postille, di estensione ed intellegibilità variabile, atte principalmente a individuare per i rispettivi componimenti specifiche coordinate generalmente topografiche, con rimandi a luoghi o fonti anche esterni rispetto a R stesso, oppure, più raramente, autoriali: per quest’ultima tipologia si hanno in effetti soltanto due indicazioni, rispettivamente ai nrr. 27 e 29bis (sempre secondo la numerazione incipitaria fornita da Bologna). Il primo dei due casi, quello che segnala con l’incipit (Anchor che l’aqua per lo foco lasse) la paternità del brano al «Judice guido dalle colon(n)e», è in realtà l’unico in cui l’attribuzione è dotata di un assetto compiuto e dettagliato: l’eccezionalità di tale forma non aiuta certo a chiarire il motivo del suo inserimento. Si dovrà tuttavia riflettere sulla circostanza per cui tale componimento, assente dal Vaticano, è invece attestato dal Laurenziano con rubrica completa e sostanzialmente identica (L 66, f. 78vb, «Giudice guido delecolon(n)e»): escluso V, la segnalazione dell’autore può provenire in Colocci da parte di R, in cui con ogni probabilità i testi dovevano essere accompagnati da rubriche specifiche sul modello, visti i rapporti di dipendenza sul piano stemmatico, di quelle oggi presenti in L. Resta da chiarire perché Colocci abbia ritenuto opportuno inserire la specificità della rubrica solo per Guido delle Colonne. Se ripercorriamo la tavola di R verificando la presenza dei suoi testi in V, a parte il nr. 22 (Tutto ch’eo poco vaglia), per il quale sarebbe stato forse inutile aggiungere la rubrica72, è proprio il nr. 27 il primo testo che, assente nel Vaticano, è ragionevole pensare abbia indotto l’umanista a porvi l’attenzione per la “novità” documentaria rispetto al testimone già posseduto: l’appuntare di seguito all’incipit la rubrica attributiva per Guido delle Colonne potrebbe inoltre essere frutto del particolare interesse per il personaggio nella prospettiva dell’autorevole pluricitazione 72 L’incipit in questione fa parte del “pacchetto” di testi guittoniani per i quali, anche in

sequenze analoghe presenti negli altri canzonieri, la forte coesione del blocco ha reso superfluo l’iterazione della completa menzione autoriale: si pensi ad esempio all’uso in L di rendere solo le iniziali «F. G.» (per Frate Guittone) in canzoni e sonetti morali (cfr. L 2-24 e L 212-306) o il semplice «G. daresso» / «Guittone» in canzoni e sonetti cortesi (cfr. L 26-48 e L 126-209), così come alla sostituzione in V della rubrica completa con la formula ridotta «Guitone medesim(m)o / G.» (cfr. le canzoni V 153-160 e i sonetti, V 407-470). La coscienza che il testo facesse parte del corpus guittoniano doveva dunque essere forte anche in Colocci, inducendolo a risparmiare la menzione dell’autore; non si esclude tuttavia anche la semplice svista, causata dalla rapidità e dal sistema spesso “magmatico” di elaborazione dei dati da parte dell’umanista iesino.

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dantesca del De vulgari eloquentia73, ricordata da Colocci stesso anche in V (f. 98r), ma per altro testo, con apposita postilla74. Confermerebbe l’ipotesi che il Reale conteneva rubriche attributive la traccia di una seconda menzione autoriale, quella al nr. 29bis (), subito cassata prima della registrazione dell’incipit nr. 30 Fina consideransa di Bonangiunta da Lucca75. Ma la natura di questo intervento è differente dal precedente: se nel caso dell’annotazione al nr. 27 il nome dell’autore sembra posto successivamente rispetto all’incipit, forse nella fase in cui Colocci abbandonò la tavola per analizzare nel corpo del codice la struttura metrica del testo76, per il nr. 29bis si deve essere verificato un vero e proprio errore a partire dalla tavola stessa, dal momento che il nome incompleto, non solo è stato prontamente barrato, ma era stato posto da Colocci in posizione d’apertura, non come rubrica attributiva, ma come elemento proprio dell’incipit. In assenza di indizî sufficientemente concreti e dirimenti, è opportuno astenersi da ipotesi; sarà tuttavia da tenere in considerazione che nell’identica sequenza di testi nel Laurenziano (L 68, f. 79va, Avegna che partensa — L 69, f. 79vb, Fina consideransa: entrambe assegnate dalle rubriche al rimatore lucchese), la seconda rubrica («Bonagiunta»), anziché trovarsi come di regola in L su un rigo di scrittura apposito e superiore rispetto al testo, è stata inglobata in modo del tutto singolare all’incipit per ragioni di spazio, in modo da apparire su unica stringa «Fina (con)sid(e)ra(n)sa . Bonagiu(n)ta»77: 73 D.V.E., I, xii, 2 e II, v, 4; in entrambi i passi è citata Amor, che lungiamente m’hai me-

nato (= V 305), mentre nel primo Dante cita anche l’incipit di Ancor che l’aigua per lo foco lassi (= incipit nr. 22 di R). Per la particolare attenzione al trattato poetico-linguistico da parte di Colocci, si rimanda a BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 114. 74 Cfr. ibid., p 150, nr. 39. 75 Anche Bologna pone in evidenza il dato: «altro probabile error incipiens (la parola è

subito cassata). Esso potrebbe dipendere da una mera svista di Colocci (però la lirica che segue non è in V); l’ipotesi alternativa è che nel Reale fossero presenti delle attribuzioni» (ibid., p. 118, nr. 58). 76 Nella tavola si osserva che la stringa identificativa del nome dell’autore («Judice guido dalle colon(n)e») precede sulla stessa riga la consueta annotazione metrica dellla lirica («pe. syr.»); appare altrettanto chiaro che le due porzioni di testo sono realizzate in modulo sicuramente più piccolo e con un andamento molto più serrato rispetto alla stringa che all’inizio della riga riporta l’incipit (Anchor ch(e) laqua p(er) lofoco lasse), dalla quale sono peraltro divise anche da una spaziatura più consistente: l’impressione generale che si ricava è dunque quella di una realizzazione grafica articolata in due momenti differenti. 77 La canzone L 68 termina alla terzultima riga della seconda colonna della facciata (f. 79v), mentre la successiva L 69 inizia subito alla penultima. Poiché in genere l’iniziale di componimento nel Laurenziano occupa un’altezza pari a tre righe di scrittura, se il copista avesse posto fra i due componimenti la rubrica Bonagiunta in riga apposita, il già minimo (2 righe) spazio verticale residuo per la “F” iniziale di L 69 si sarebbe ridotto drasticamente

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tale anomalia di L potrebbe in qualche modo essere alla base di una perturbazione che ha alterato l’incipit fino alla tavola di R, riflettendosi da ultimo nella trascrizione colocciana. Si deve inoltre concentrare l’attenzione su un’altra tipologia di postille, quelle propriamente “localizzative”, grazie alle quali è possibile affermare che la tavola fu confrontata con una o più fonti differenti per verificare la corrispondenza dei componimenti, sebbene resti ancora difficile stabilire con precisione a quali codici si faccia riferimento. Il primo elemento da analizzare è l’annotazione colocciana «i(n) utroq(ue)» posta in chiusura dell’incipit nr. 13 (La mia dona \Gioia/ che di tutte altre e soura): se presa in assoluto, la formula potrebbe anche essere interpretata in relazione alla variante donna / Gioia, come promemoria (da intendere «in entrambi le versioni») della presenza in antigrafo della duplice lezione78; tuttavia, la critica ha mostrato che il senso da applicare sia piuttosto «in entrambi i luoghi», con rimando ai due codici V e Va79. Ma se l’identificazione con queste due fonti appare «tanto facilior quanto poco perspicua»80, soprattutto perché non si spiega l’assenza nella tavola di una notazione analoga, legittimamente attesa in quest’ottica per i non rari casi in cui, come qui, un componimento di R sia contenuto contemporaneamente in V e Va81, il rinvio a due fonti sembrerebbe confermato dall’unico altro luogo in cui compare «in utroque», cioè all’incipit 46 (Stato son lungiamente)82. In questo secondo caso, che a differenza del precedente non presenta varianti testuali cui poter eventualmente associare la misteriosa formula, la situazione è ancor più complessa, dal momento che la postilla colocciana per esteso recita «noa una sola riga: il problema è stato risolto dal copista inglobando nell’incipit di L 69 (penultima riga) anche la rubrica, con conseguente compressione del primo verso mediante il fitto utilizzo di abbreviazioni («Fina (con)sid(e)ra(n)sa . Bonagiu(n)ta»). 78 Non osterebbe in ciò l’aver tralasciato di segnalare con nota analoga l’incipit nr. 4, vista la differente valenza dell’inserimento nei due casi: lì (Ahi / Deo) aggiunta imputabile eventualmente anche a collazione con V, qui (donna / Gioia) risalente con più probabilità al solo R: cfr. sopra i punti B e D in § II.1. 79 MONACI, Il Libro reale cit., p. 378, nt. 6. 80 BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 128. 81 Esempi dei non pochi testi contenuti da entrambi i codici vaticani e citati nella tavo-

la di R si ricavano facilmente dalla lista in ibid., pp. 115-117. 82 Bologna identifica tre incipit in cui ricorre tale formula (ibid., pp. 128-129), conteggiandola anche per il nr. 45 (A San Giovanni a Monte mia canzone): tuttavia quest’ultima è da ritenere coincidente con quella delll’incipit successivo (nr. 46) poiché, cassata insieme a tutta la riga in cui compare, è affiancata al numero romano «cccxvi» (in V è il numero progressivo che indica appunto Stato son lungiamente, f. 103v) e sul margine sinistro una barra obliqua assegna l’«ubi», cui si accompagnava originariamente, all’incipit successivo.

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ta arte(m). i(n) utro(que) Lo | et i(n) reale». Si deve subito specificare che la prima parte dell’annotazione, in precedenza ascritta alla serie di tipologia metricologica (cfr. sopra, § III.1), non sembra avere attinenza con il resto della formula, tanto più che sulla riga si osserva separata da uno spazio più consistente e da un punto di divisione: ciò che più colpisce è invece la specificazione «et in Reale», apparentemente un vero controsenso visto che la tavola è proprio quella di R83; ma al di là della specifica funzione84, tale dato è per altri versi prezioso e decisivo, poiché, se inteso come «in entrambi i libri çeçdç çaçnçcçhe nel Reale», permette di affermare che i rimandi cui allude l’inizio della formula («in utroque») sono da trovare in fonti differenti dal Reale stesso, in una triangolazione di cui esso è vertice, ma per la quale mancano gli altri due poli, verosimilmente gli stessi citati anche al nr. 13. Che uno di essi sia V è abbastanza certo: in tale direzione spinge del resto la postilla che è stata cassata proprio al di sopra dell’incipit nr. 46 e che recita «» con chiara allusione al numero progressivo che nel Vaticano distingue appunto Stato son lungiamente85. Dovendo rintracciare altre possibili fonti o documenti differenti da R ma, al tempo stesso, interni al contesto di annotazione-citazione della sua tavola, all’incipit nr. 73 (D’amoroso paese) ci si imbatte nella nota «i(n)sicul no(n)e», che prospetta evidentemente il rimando a un Libro Siculo (o, a seconda dello scioglimento dell’aggettivo, Siculi, ovvero Siculorum): il manufatto, ancor più ignoto del Reale, è stato generalmente identificato dalla critica con lo stesso V86, sebbene questa sola indicazione non si riveli sufficientemente univoca, visto che solo per la nomenclatura colocciana potrebbero anche esistere almeno altri due manufatti (se non sono coincidenti) che, raccogliendo materiale della lirica federiciana contengono il termine nella loro denominazione («Liber Sicolorum meum»87

83 «E la giunta et i(n) reale, in sé contraddittoria (poiché ci si trova proprio nella tavola del Reale!), appunto per questo, nella sua spontaneità irrelata dà chiara testimonianza di un moto mentale complesso, legato ai rinvii in fase di collazione» (ibid., p. 129). 84 Se rapportata all’«in utroque» del nr. 13, anche qui la nota sarebbe stata apposta soltanto per segnalare il fenomeno abbastanza diffuso nella tavola di compresenza di un testo di R anche in V e Va? 85 In Va, invece, Colocci ha corretto tale numero in «cccxvij» (cfr. ibid., p. 113). 86 Si veda ad esempio MONACI, Il Libro reale, p. 377, o BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni de-

scripti cit., p. 567. 87 Sulla necessità per Colocci di distinguere fra un «Liber Siculorum» (o Siculo) e un

«Liber Siculorum meum» (o meo Siculo) si rimanda a BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 128.

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e «Sicilian in foglio»88), senza contare poi che la generica etichetta di Libro Siciliano può essere stata apposta di volta in volta a diversi manufatti, tra i quali ad esempio quello famosissimo citato dall’umanista Giovanni Maria Barbieri. La mancata identità di “questo” «sicul» con V sarebbe poi confermata, salvo la poco probabile ipotesi di svista da parte di Colocci89, dal fatto che la canzone di cui si dichiara l’assenza («in Sicul non è») è invece regolarmente presente nel canzoniere Vaticano (V 21, ff. 5r-v, anche nell’Indice), oltre che in Va (f. 36v, con regolare postilla che ne certifica la presenza anche «Nellibro reale»); si tenga inoltre presente che, come si vedrà poco oltre, nei non pochi casi in cui gli incipit di R indicano testi che effettivamente non sono presenti in V, la circostanza non è mai registrata con note di questo tenore. Mi sembra anzi di poter affermare, con buon conforto dell’effettivo dato documentario, e con ciò giungiamo alla tipologia più diffusa fra le note colocciane di “localizzazione” nella tavola di R, che laddove manca in V un componimento contenuto nel Reale, Colocci segnala il fatto con la peculiare dicitura «ubi» nel margine subito alla sinistra del rispettivo incipit. Tale demarcatatore, «sempre oscuro, nei 29 casi in cui compare»90, si posiziona con perfetta corrispondenza accanto alle 26 liriche complessive che, presenti nella tavola di R, sono invece assenti dal corpo di V: fanno eccezione soltanto i due incipit nrr. 46 (Stato son lungiamente, per il quale la causa può risiedere però nelle già citate varie perturbazioni connesse all’esatto reperimento fra V e Va e alla postilla «in utroque») e 68 (La namoranza disiosa, l’unica vera anomalia), entrambi con «ubi» sebbene entrambi presenti in V; non costituisce eccezione invece il nr. 28 (Assai mi placeria), per il quale la constatazione dell’effettiva pre-

88 Citato insieme al Reale nel famoso elenco di collettori lirici italiani al f. 196r del Vat. lat. 4817, cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., pp. 566-567. 89 Sarebbe difatti assai singolare che, deciso a registrare in modo unico e specifico un dato degno di tanta attenzione e cura, Colocci proprio in questa circostanza sia fuorviato da un errore. Mi pare ugualmente poco probabile che la postilla in «sicul non è» possa legarsi alla parola successiva «strophe», termine che, seppur sulla stessa riga, è decisamente separato da uno spazio più consistente ed è peraltro da interpretare in forma separata come valutazione di tipo metricologico (cfr. sopra al § III.1): un’ipotetica annotazione unitaria «in sicul non è strophe», da intendere come negazione dello status di “strofe” per il modulo metrico del componimento nel misterioso codice, porterebbe ugualmente lontano dall’effettiva conformazione strutturale che si osserva oggi negli unici due antichi testimoni L e V. 90 BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 129; i 29 casi diventano però 28 nella tavola di R pubblicata alle pp. 118-121 solo per una piccola svista che ha determinato l’omissione dell’«ubi» per l’incipit nr. 47 (Gravoso affanno et pena), sebbene esso sia regolarmente presente nella carta colocciana e non costituisca eccezione al nostro ragionamento.

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senza nel Vaticano ha fatto sì che un «ubi» “affrettato” fosse poi a ragione cassato. Da ultimo, vanno analizzati i quattro casi in cui compare la dicitura «in veteri», concentrati negli incipit nrr. 6 (Ahi Deo che dolorosa), 7 (A rinformare amore et fede spera), 9 (Manta stagion) e 10 (Tuttor s’io veglio o dormo). Per tali postille, che sono inserite nelle rispettive righe fra l’incipit e l’annotazione metricologica, è valsa finora l’intepretazione di Monaci, che le volle spiegare come riferimento all’antico canzoniere Vaticano, identificandole come «uno dei modi con cui Colocci suoleva accennare al codice 3793, spesso da lui chiamato anche il Sicolo, o Siculo»91. Si è visto tuttavia poco sopra che nel sistema nomenclatorio interno alla tavola di R il «Liber Sicul[…]» sia verosimilmente un’entità differente da V; allo stesso modo, potrebbe risultare poco economico pensare che Colocci, nella delicata fase di collazione del “nuovo” materiale lirico di R, faccia riferimento a una stessa fonte (V) impiegando due diciture opposte, peraltro con nomi differenti, in un contesto in cui l’immediatezza della polarità di soluzione («c’è» vs. «non c’è») rende superflua una delle due indicazioni: in altre parole, se «in veteri» avverte che il componimento di R cui si accompagna è presente in V, a che scopo apporre in seguito una postilla apposita che denunci l’assenza dallo stesso codice Vaticano di una lirica specifica («in Sicul[…] non è»), quando sarebbe sufficiente soltanto abbandonare la marca di presenza («in veteri»)? E inoltre, per quale motivo la compresenza di una medesima lirica in R e in V viene accertata solo per i quattro casi in questione, mentre tutti gli altri testi della tavola che trovano la stessa corrispondenza (oltre 50!) non hanno alcuna annotazione analoga? Mi sembra dunque di poter a ragione giungere alla conclusione che all’interno del contesto di R il «Liber Sicul[…]» non è identificabile né con V né con la fonte che potremmo indicare come Liber vetus: anche quest’ultimo, a sua volta, non può identificarsi con il canzoniere vaticano, e appare piuttosto come entità autonoma. Come ha evidenziato Bologna, Colocci in Va fa talvolta riferimento al suo modello V con un termine che pone in risalto la vetustà di quest’ultimo («i(n) antiquo»)92; tale uso deve essere messo in relazione con la postilla «in veteri», non perché ambedue indichino uno stesso specifico manufatto (Liber Antiquus / Vetus = V, con aggettivi peraltro differenti), ma piuttosto per la valenza che i termini assumono nel linguaggio filologico dell’umanista. Nell’ottica della trasmissione testuale i 91 MONACI Il libro Reale cit., p. 377; sostanzialmente sulla stessa linea anche BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 128. 92 BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 128.

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due aggettivi possono essere intesi come riferimento diretto al loro rispettivo antigrafo (a sottintendere exemplar93), che si rivela in effetti antico: se nel sistema dei due codici vaticani (V e Va) l’equazione in antiquo = “in antigrafo” pare funzionare correttamente, anche per ciò che riguarda R e il suo modello L («in veteri») si hanno delle singolari coincidenze. Una confronto fra la tavola del Reale e le carte del Laurenziano in cui compare la corrispondente sequenza di testi, ha messo in luce un peculiare fenomeno: sul lato sinistro in linea con la parte centrale dell’iniziale delle liriche L 26, L 27, L 28, L 30, L 35, L 46, L 47 e L 48 si osserva una piccola croce, sottile e di colore seppia chiaro, impiegata all’interno del codice esclusivamente per questi testi94, come ben risulta nei seguenti esempi:

a

b

c

d

Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, ms. Redi 9: ff. 61v (fig. a), 62r (figg. b-c), 71v (fig. d)

Si tenga ora presente che nella sequenza della tavola di R, escluso il nr. 1 che è viziato da un errore incipitario di cui già si è detto95, i nrr. 2, 3 e 4 corrispondono a L 26, L 27 e L 28, tutti con croce; nella tavola di R manca rispetto alla sequenza del Laurenziano il testo L 29, che si presenta difatti nel canzoniere antico senza il segno distintivo; il nr. 5 della tavola colocciana ritrova invece la corrispondenza con L 30, anch’esso di nuovo con croce. A questo punto la tavola di R reca la ricordata sequenza di testi con postilla «in veteri» (nrr. 6-10, tranne l’unica eccezione del nr. 8), tutti presenti nello stesso ordine e senza croce in L (L 3193 Cfr. RIZZO, Il lessico filologico cit., pp. 185-188; interessante inoltre l’uso in Poliziano

di antiquus / vetus con riferimento a un codice del XV secolo, per cui si rimanda alla complessa problematica discussa alle pp. 155-161. 94 L’unico segno assimilabile è per L 17 (f. 52r), ma escludo che faccia parte dello stesso

gruppo: esso è posizionato molto più in alto rispetto agli altri (nella zona in linea con l’estremità superiore dell’iniziale) e ha un’inclinazione che lo rende con chiarezza più simile a una “x” anziché a una croce. Evidentemente non vi sono elementi “morfologici” che confermino la paternità colocciana di tali segni, ma è comunque utile ricordare che l’umanista adottò un sistema di marcatura analogo (croci e barre) già all’interno del Vaticano: cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 124. 95 Cfr. sopra il punto A in § II.2.

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35); una croce torna invece nel Laurenziano esattamente laddove la tavola abbandona le postille «in veteri», in corrispondenza dell’incipit 11 di R, secondo l’erronea divisione del testo guittoniano Tuttor s’eo veglio o dormo già discussa in precedenza96; le croci di segnalazione tornano poi nel Laurenziano soltanto nel breve intervallo di testi L 46-L 48, corrispondenti agli incipit della tavola colocciana nrr. 21-23 ma in ordine progressivo differente. Questa intricata serie di corrispondenze, che risulta molto più limpida se si scorrono in parallelo le due serie direttamente fra la tavola di R e il corpo di L, suggerisce che fra l’utilizzo della postilla colocciana «in veteri» e le croci del Laurenziano vi sia un nesso abbastanza coerente che è alla base di un sistema di controllo e riscontro “quantitativo” fra le liriche presenti in R e il corpus completo del suo antecedente (L), come se con tale operazione si volesse verificare che i testi presenti nel Reale fossero effettivamente contenuti nella sua fonte di provenienza. Pur consapevole delle evidenti implicazioni e degli eventuali limiti che conseguono all’ipotesi di una diretta lettura del Laurenziano da parte di Colocci, mi preme avanzare come semplice “ipotesi di lavoro” una ricostruzione delle fasi del confronto: 1. L’umanista iesino ha la possibilità di verificare che il prezioso materiale di R (in cospicua parte “nuovo” rispetto a V, specie per il corpus guittoniano) sia realmente “antico” e proveniente da un codice altrettanto vetus. In tale fase non interessa la registrazione di varianti, dal momento che R, come si è visto, detiene delle lezioni differenti (forse anche migliori, eventualmente redazionali oppure derivate da trasmissione orizzontale) che lo affrancano dall’essere puro descriptus di L. 2. Nel veloce riscontro Colocci inizia ad apporre come segno di “spunta” direttamente sul codice vetus (sequenza L 26-3197) delle croci di fianco agli incipit corrispondenti con quelli della tavola (nrr. 2-5). 3. Giunto all’incipit nr. 6 Colocci sostituisce l’iniziale sistema di registrazione delle croci su L, certo più rapido, con quello di postillatura «in veteri» direttamente sulla tavola, più lento ma indispensabile per con96 Cfr. sopra il punto J in § II.3. 97 La croce non viene inserita per L 29 perché tale testo non è in R: si deve infatti tener

presente che in questa fase il controllo mira ad appurare esclusivamente che i testi presenti nel Reale siano anche nel Laurenziano, ma non, viceversa, a identificare omissioni che muovono in senso opposto (L > R): del resto le liriche che mancano in R non sono necessariamente da considerare “lacune” erronee, ma, come si vedrà oltre (§ V.1) possono rientrare in un progetto di volontaria e consapevole selezione già di R, ovvero di Colocci stesso.

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servare nelle proprie carte l’appunto del riscontro98: così procede per il blocco dei nrr. 6-10 (= L 31-35). 4. Dopo aver individuato anche il “falso” incipit nr. 11, contrassegnato anch’esso con croce nel corpo di L 35 solo per via della sua peculiarità, l’umanista è a ragione convinto che tutti i testi di R siano effettivamente contenuti in L e pertanto cessa di apporre ulteriori e superflui segni di registrazione, limitandosi ad un riscontro solo visivo, agevolato dall’identico ordine di successione nei due codici. 5. L’unica occasione in cui Colocci torna ad appuntare il riscontro, scegliendo la rapida soluzione della croce da apporre in L, si verifica proprio nell’unico luogo in cui il Reale, per ragioni che qui non è necessario appurare, produce una variazione nell’ordine progressivo dei componimenti rispetto alla sequenza del Laurenziano (R 21 = L 47; R 22 = L 48; R 23 = L 46): questi sono gli ultimi tre casi in cui si rintraccia la particolare croce in corrispondenza degli incipit di L. Tale ipotesi, suggestiva ma potenzialmente compatibile con il sistema logico-documentario offerto dalla tavola colocciana e dai riscontri in L, trova fra le principali opposizioni la difficoltà di indicare in quale modalità e contesto Colocci possa aver avuto acccesso diretto al canzoniere Laurenziano. Confermata la realizzazione di L a Pisa nell’ultimo quarto del Duecento, Stefano Zamponi, nella sua recente analisi ha dovuto ribadire che «i primi secoli di storia del manoscritto sono sostanzialmente ignoti»99 e che la prima traccia chiara della presenza del codice rimanda alla biblioteca della famiglia fiorentina Berti, poco dopo il 1581100; il trasferimento di L da Pisa a Firenze deve ad ogni modo essere avvenuto in precedenza, come si desume da indizî quali l’aggiunta di testi da parte di mani fiorentine101 e, soprattutto, la presenza nel codice (f. 58v) di un ap98 Ma il carattere ibrido del sistema di registrazione, nel concitato contesto di trascri-

zione e simultaneo riscontro, potrebbe più semplicemente rientrare fra gli aspetti caotici e desultorî che contraddistinguono qui come altrove il modus operandi colocciano. 99 ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., p. 219. 100 Ibid., p. 220, con relativa bibliografia. 101 L’apporto delle due mani fiorentine (cfr. ibid., pp. 231-232) che dopo i principali

compilatori pisani continuarono ad aggiungere liriche nel canzoniere, deve essere valutato non tanto nell’ottica di un loro intervento sul codice già in terra fiorentina (ipotesi peraltro scartata ma non del tutto confutata dallo stesso Zamponi e da L. LEONARDI, Il Canzoniere Laurenziano. Struttura, contenuti e fonti di una raccolta d’autore, in I canzonieri cit., IV, pp. 155-214, alle pp. 205-208, con esaustivo quadro bibliografico della questione), quanto piuttosto nel quadro complessivo di quel movimento, cronologicamente più esteso, attraverso il

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punto in una mercantesca che rimanda alla Firenze dell’ultimo quarto del Trecento102. Se è più che verosimile ritenere, secondo quel che si desume dalla biografia colocciana dell’Ubaldini103, che l’umanista iesino non si sia mai recato a Firenze, occorre supporre uno spostamento (anche brevissimo) di L verso Roma ad opera di un intermediario: l’anello di congiunzione potrebbe, fra le varie ipotesi, essere individuato nella figura di Giano (Giovanni) Lascaris. Sappiamo con certezza che il fine grecista fu da sempre legato a Colocci da fraterna amicizia104, con il quale strinse ancor più la frequentazione personale in occasione della chiamata a Roma per la fondazione del Collegio greco da parte di Leone X105; la scelta del pontefice mediceo non fu dettata soltanto dalle ottime competenze linguistico-letterarie del Lascaris, ma anche da una sorta di “referenza di famiglia”: l’umanista greco aveva infatti in precedenza trovato accoglienza a Firenze presso Lorenzo de’ Medici e, in anni di poco successivi all’allestimento della celebre Raccolta Aragonese106, era stato incaricato insieme a personaggi come Poliziano e Pico della Mirandola di reperire e conservare manoscritti antichi da destinare al progetto di una grandiosa biblioteca, la futura Laurenziana (1490), della quale fu in seguito anche direttore. Sebbene manchi una concreta prova, dal momento che il valore delle croci e dei richiami «in veteri» della nostra ricostruzione è puramente indiziario, si dovrà forse riflettere sulla possibilità che il Lascaris, al corrente degli interessi e dei lavori sugli antichi canzonieri del suo amico Colocci, gli abbia fornito per un breve lasso di quale dalla Toscana occidentale la produzione lirica (e non solo) delle Origini è giunta anche “fisicamente” sino a Firenze. 102 ZAMPONI, Il canzoniere Laurenziano cit., pp. 219-220. 103 F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb.

lat. 4882), a c. di V. FANELLI, Citta del Vaticano 1969 (Studi e testi 256). 104 Ibid., p. 78 «Col Lascari fin da fanciullo (…) contrasse Angelo amistà». 105 Fondamentale il contributo di V. FANELLI, Il ginnasio greco di Leone X a Roma, in

Studi Romani 9 (1961), pp. 379-393, ora in ID., Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979 (Studi e Testi 283), pp. 91-110; l’autore ricorda fra l’altro che il Lascaris a Roma «si adoperò (…) a fondare anche una tipografia greca che fu ospitata in una casa posseduta dall’umanista iesino Angelo Colocci alle falde del Quirinale» (p. 385). 106 Si ricorda che il nome di questa celebre antologia figura nella già citata lista di codici (al f. 196r del Vat. lat. 4817) che Colocci ebbe modo di compulsare, in cui compare anche il Reale; sulla silloge medicea, che, allo stesso modo del Reale, denuncia parzialmente una discendenza dal Laurenziano, si veda ancora l’imprescindibile analisi in M. BARBI, Studi sul Canzoniere di Dante, con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze 1915, pp. 217-326, oltre al saggio di D. DE ROBERTIS, La Raccolta Aragonese primogenita, in Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano 1978, pp. 50-65.

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tempo L, solo ai fini di una rapida collazione con l’esemplare del Libro Reale in suo possesso. IV.2 R in V e Va Fondamentali per verificare la fisionomia del perduto Reale, oltre che la preziosa tavola colocciana, anche le varie postille che l’umanista inserì, in fase di collazione, all’interno di Va e, in misura minore, di V: il dossier è del resto già stato finemente concluso dalla recente ricognizione di Corrado Bologna107 cui si rimanda senz’altro, ma sarà opportuno qui ricordare brevemente alcuni dati significativi. Nel blocco principale di Va (ff. 27r-449r) Colocci segnala specificatamente il Libro Reale come rimando per 45 canzoni, sia fra quelle effettivamente esemplate, sia fra quelle mancanti e desunte dalla collazione con V; se storniamo dalla tavola di R questi componimenti, ne restano comunque altri 8 di cui non si ha notizia alcuna nelle carte dei due codici vaticani: nr. 3 Chero co(n) dirittura, nr. 4 Ai \Deo/ bona donna uel achiediuenuto, nr. 8 Lasso pensando q(uan)to, nr. 20 Altra fiata hagio donne cantato, nr. 41 Ai misero tapina hora sto perchio, nr. 43 Amoroso uoler mhaue com(m)osso, nr. 66 Amor non uol chi chiami, nr. 67 Dalcor mi uiene. Al contrario, non si verificano casi in cui un componimento che in Va viene assegnato al Reale non sia concretamente nella tavola di R, eccezion fatta per i 7 sonetti che, come si vedrà in § V.1, fanno parte di una sezione che Colocci ha volutamente escluso dalla riproduzione della tavola. Per quanto riguarda le postille che si ricavano da V, si deve subito ricordare che il Reale è menzionato direttamente in un numero di casi assai esiguo: il primo è al f. 4r, in alto, e segnala la lacuna della parte inziale del componimento V 16 «poi no(n) mi ual merce ne ben seruire uide i(n) Lo regali fol 49 . 92 / hic deest pri(n)cipiu(m)». Tale indicazione corrisponde in pieno con i dati che si estraggono dalla tavola di R, nella quale il componimento è presente ed è collocato proprio al f. 49; ma ciò che interessa ancor di più è il secondo riferimento numerico («92»), che non essendo in altro modo giustificabile (non corrisponde infatti al numero progressivo in V né a quello dell’incipit nella tavola di R), è assumibile come indizio di una forma di numerazione contenuta in R108. 107 BOLOGNA, La copia colocciana cit., specialmente pp. 113-115, 121-130, con edizione delle postille alle tabelle I-III di pp. 115-117. 108 In tale prospettiva ci si chiede se non sia azzardato assumere anche la postilla dell’incipit nr. 81 (Tuttor la dolce speranza) della tavola di R «no(n) ha numero», in precedenza

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Difficile approfondire ulteriormente la questione, ma si noti fra l’altro che nel Laurenziano il testo in questione occupa la posizione nr. 113: se si tiene conto del fatto che L e R procedono secondo un’ordine topografico pressoché identico, in cui fa eccezione soltanto l’assenza sporadica di taluni testi nel secondo109, il divario dei due numeri progressivi (L 113, R 93) per questo stesso componimento può assumersi fino a questa lirica anche come indice di dispersione per un totale di 20 componimenti del Reale rispetto al Laurenziano, difetto che potrà spiegarsi come assestamento (più o meno volontario) nel processo di elaborazione-selezione di materiale lirico da un modello di base (L) verso un canone similare ma innovativo al tempo stesso (R). La lacuna che nel corpo di V ha sottratto l’avvio del componimento, ha coinvolto per intero anche le altre 6 canzoni precedenti, come si ricava dall’indice dello stesso Vaticano, tra i quali compare l’unica altra lirica presente anche nella tavola di R S’io doglio non è maraviglia. Entrambi i testi sono coinvolti in una intricata questione110, dal momento che furono esplicitamente dichiarati assenti dal Reale (per errore?) nell’appunto colocciano al f. 26er-v di Va, mentre si è appena visto che la postilla al f. 4r di V certifica con estrema precisione la presenza del primo in R; un’ulteriore complicazione è costituita poi dalle due postille che nell’indice di V, in corrispondenza soltanto delle due liriche, ne dichiarano la presenza «Allibro Grande», codice anch’esso perduto e pressoché ignoto, che Debenedetti ha ipotizzato coincidere con il Reale stesso111 e Bologna, in alternativa a R, con il «Libro di Latino Giovenale»112. La seconda ed ultima postilla che in V richiama di sicuro il Reale è apposta da Colocci a f. 97v per il componimento Donna di voi si rancura (V 303); ma la stringa colocciana, che a fianco dell’attribuzione originaria a «Monte» prosegue con «andrea da firenze nello reale . 31», non

associata alla sola valutazione metrica (Discort), come indizio di una numerazione progressiva dei testi nel Reale: ma la mancanza di altri elementi convincenti consiglia di sospendere il giudizio. 109 Cfr. infra il § V.1. 110 Si veda l’analisi di BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 144, Appendice I, nr. 1 e gli

ulteriori rimandi ivi contenuti. 111 Cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., pp. 172-173: si noti che la presunta corrispondenza fra l’aggettivo “grande” e “reale” nel riferimento colocciano a R, è nel saggio indicato uno dei pilastri su cui si fonda la classificazione del manufatto come codice cartaceo di grande formato. 112 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 144, Appendice I, nr. 1: pur non scartan-

dola del tutto, ridimensiona l’ipotesi di Debenedetti per proporre nuove e stimolanti prospettive di identificazione.

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deve essere intesa come rimando allo specifico testo, assente difatti nella tavola di R: come ha giustamente chiarito Debenedetti113, l’indicazione si riferisce esclusivamente all’integrazione del nome (V = Monte + R = andrea da firenze), che nel Vaticano non appare mai nella sua forma completa, cosa che invece doveva accadere in R (di nuovo indizio della presenza di attribuzioni), proprio nella sequenza di testi di quest’autore a partire da f. 31, così come del resto si ricava dalla rubriche di L («Mo(n)te andrea dafiorenza», f. 84ra) per la prima lirica del corrispondente blocco di Monte Andrea (L 80). V.1 Conclusioni In base ai dati esposti, cerchiamo di ricapitolare la fisionomia del perduto Libro Reale, a partire dalla sua collocazione rispetto alla tradizione testuale in cui si inserisce e tentando un’ipotesi ricostruttiva della sua macrostruttura; come si è già specificato fin dal titolo del contributo, l’analisi verte esclusivamente sulla sezione derivante dal canzoniere Laurenziano, mentre si esclude qui la breve sezione delle ballate (Chigiano): su di essa si tornerà comunque con un prossimo contributo specifico, con approfondimenti e sondaggi che metteranno definitivamente in luce la formazione complessiva di R, le scelte e le modalità che portarono al suo allestimento. Premesso che la tavola del Libro Reale non produce una quantità di testo adeguata per effettuare un confronto soddisfacente dei componimenti che cita con il resto della tradizione (in primo luogo L e, quando possibile, V), i dati che si sono evidenziati nei punti dei §§ II.2-II.5 permettono di tracciare per somme linee il quadro ecdotico in cui collocare il testimone, in aggiunta (e in appoggio) ai dati extra e paratestuali emersi in base alle valutazioni sull’assetto sequenziale dei testi e delle sezioni, sulle indicazioni metricologiche e sulle attribuzioni autoriali. In primo luogo si deve ribadire la condizione di descritpus che R assume nei confronti di L, seppur con deroghe alla stretta norma lachmanniana, data l’assenza di errori significativi che passino nella trasmissione dall’uno all’altro114: il rapporto di derivazione si confermerebbe comunque per 113 Cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 173. 114 Ma si tenga conto dell’incipit nr. 20 Altra fiata hagio donne cantato (cfr. supra punto

E in § II.2) che, al di là della variante per il rimante, coincide con L (Altra fiata aggio donne parlato) nell’omissione dell’avverbio «già» presente invece in V (Altra fiata agio già donne parlato): la lezione del Vaticano, con cui si restituisce il regolare profilo metrico-prosodico all’endecasillabo incipitario, è giudicata corretta dall’editore Egidi (Le Rime di Guittone cit.,

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l’erronea scissione nel Reale del testo guittoniano Tuttor s’eo veglio o dormo dovuta a cause meccaniche risalenti direttamente al Laurenziano (cfr. supra il punto J)115. Come ha dimostrato in contesti analoghi di descripti cinquecenteschi Corrado Bologna116, tale condizione ecdotica non rende completamente superflua la valenza del testimone nell’ottica della tradizione testuale: in particolare, fra le divergenze di lezione che R produce rispetto a L, oltre ad errori palesi e caratteristici del Reale117, si possono isolare varianti vere e proprie della cui specificità si dovrebbe tenere maggiormente conto. Ad esempio, i casi significativi del punto E (R «cantato» vs. L-V «parlato») e del già citato sonetto Ai come matto è bene senza questione (L-V vs. R «ragione»), se posti in relazione con i casi dei punti B e D, in cui il Reale riflette nella compresenza della lezione di L e V una sorta di editio variorum, potrebbero derivare da altro ramo della tradizione, parallelo o persino a monte di L118. In altri termini, a fianco della normale e predominante tradizione verticale (L > R) si potrebbe intravedere in isolati contesti tracce di una trasmissione orizzontale, in parte collegata a V e in parte non identificata; questa contaminazione «semplice e sporadica»119 riguarda non a caso testi provecanzone XLIX) e dovrebbe essere accolta anche nella nuova edizione cui attende Michelangelo Picone (cfr. il passo in M. PICONE, Guittone e i due tempi del “canzoniere”, in Guittone d'Arezzo. Nel settimo centenario della morte. Atti del Convegno Internazionale di Arezzo (22-24 aprile 1994), a cura di M. PICONE, Firenze 1995, pp. 73-88, p. 87). 115 «Qualche volta si può dimostrare la dipendenza di un testimonio da un altro conservato anche solo sul fondamento di un singolo passo del testo, e ciò nel caso che la condizione esteriore del testo nell’esemplare conservato sia stata evidentemente la causa del particolare errore nella copia derivata» (P. MAAS, Critica del testo, traduzione di N. MARTINELLI, presentazione di G. PASQUALI, Firenze 19753, pp. 5-6; cfr. inoltre F. BRAMBILLA AGENO, L’edizione critica dei testi volgari, Padova 1975, p. 88); sullo statuto dei descripti e sulle problematiche ad essi connessi ancora fondamentale è l’ampia trattazione in G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, pp. 41-108 (§§. III: Eliminatio codicum descriptorum e IV: Recentiores non deteriores). 116 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti cit., con particolare riguardo ai punti nrr. 3 e 4 (pp. 538-539), sviluppati nelle esemplificazioni della parte finale del saggio (§§. 812). 117 Errori significativi e propri di R, per i quali si tende ad escludere dunque la paternità colocciana, sono specialmente quelli descritti ai punti A («De» vs. «Se de»), C («m’apare» vs. «m’aporta»), F («Lasso» vs. «Oi lasso») e N («pena» vs. «varcha»). 118 Meno significativi, ma eventualmente da comprendere in quest’ottica, i casi dei punti C (R «cagion» vs. L-V «ragion»), H (R «dolor» vs. L-V «doler») e L (R-V «strugge» vs. L «stringe»). 119 La classificazione è tratta da C. SEGRE, Appunti sul problema delle contaminazioni nei testi in prosa, in Studi e problemi di critica testuale, Convegno di Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua (7-9 Aprile 1960), Bologna 1961, pp. 63-67, p. 64.

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nienti dal corpus guittoniano120, per la tradizione del quale è stato più volte ribadito il dinamismo e la presenza di varianti d’autore121. Passando poi alla struttura del codice R, si schematizza di seguito un’ipotesi ricostruttiva in base alle indicazioni ad oggi pervenute: a) ff.1-13 (R 1-23): canzoni guittoniane cortesi. b) ff. 14-20: assenti nella tavola gli incipit; ma in postilla a Va f. 332r «Aimala donna122 male uidoni deo Reale 19», testo confermato anche dalla postilla alla tavola dei «Sonetti de’ Siculi» (Va f. 462r) «Ai mala don(n)a mal uidoni deo 332 Real 17», ma con leggero sfasamento nella localizzazione puntuale (f. 19 vs. f. 17). c) ff. 21-54 (R 24-81): canzoni cortesi di autori varî. d) ff. 55-62: assenti nella tavola gli incipit; ma in postilla a Va f. 337r «Aicome matto ebene sanza quistione Reale 55». e) ff. 63-66 (R 81-95) ballate estratte dal Chigiano. f) ff. 72-… (R 97-98?) aggiunte e frammenti.

L’apertura del codice (blocco a) coincide esattamente con la sezione delle canzoni di Guittone cortese (L 25-48) che nel Laurenziano si apre con la rubrica «Guittone chanso(n)e damore» e occupa i ff. 61r-72r; le uniche due eccezioni sono costituite dall’omissione in R delle canzoni L 29 (Gioia e allegransa) e L 42 (Ora che la freddore), oltre alla posposizione nell’ordine progressivo di R del testo L 46 dopo L 48, a chiusura del blocco guittoniano: se non è possibile chiarire a fondo la genesi e la responsabilità delle due lacune (Colocci, R o, ancor prima, il suo anti-

120 Si osservi che, al di là dell’analisi caso per caso, in termini statistici anche la concentrazione di loci critici di una qualche rilevanza nel “blocco” guittoniano è lampante; sul totale degli incipit presenti nella tavola di R gli incipit dei componimenti guittoniani corrispondono a meno del 28%, a fronte del più consistente corpus dei siciliani e dei siculo-toscani (72%): eppure, il 79% delle lezioni divergenti di R si addensano proprio per i testi dell’aretino, contro un 21% da distribuire nel gruppo maggioritario dei restanti incipit. 121 In passato sull’argomento sono intervenuti a più riprese eminenti filologi quali Con-

tini, Picone, Minetti: per una messa a punto della questione e per l’ampia bibliografia si rimanda all’ottimo contributo di L. LEONARDI, Guittone nel Laurenziano. Struttura del canzoniere e traduzione testuale, in La Filologia romanza e i codici cit., II, pp. 443-480, specialmente i §§. 8-9 (pp. 470-480). 122 Si tenga presente che donna è lezione di V, mentre nel Laurenziano si ha la variante

Noia (redazionale?: cfr. l’edizione di Lino Leonardi al sonetto in GUITTONE, Canzoniere cit., pp. 159 e 271): difficile poter dire quale fosse la lezione contenuta nell’incipit di R e se anche in questo caso, come per i componimenti citati supra al punto B di § II.2, fosse distintamente segnalata una duplice versione.

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grafo?)123, lo spostamento che coinvolge R 21-23124, testo che nella tavola non viene peraltro localizzato come di norma con un numero di foglio specifico, deve essere messo in relazione con le ingenti alterazioni strutturali e testuali che in L si osservano proprio nella corrispondente sequenza L 46-48125, e che attraverso gli accidenti della trasmissione testuale (forse anche tramite testimone intermedio) devono aver determinato l’attuale situazione di R. Il blocco b costituiva verosimilmente una prima sezione di sonetti: l’unico elemento sicuro è il sonetto che rimanda a L 177 (Aimala noia mal uodoni deo, f. 111v), sempre proveniente dal corpus guittoniano cortese. Il salto nella numerazione della tavola indica con certezza che la soppressione fu operata da Colocci, evidentemente interessato in questo contesto a registrare solo le forme liriche “canzone” e “ballata”, con conseguente esclusione dei sonetti; si deve comunque porre l’attenzione sui numeri di foglio e sulla quantità dei testi. Se, in virtù della corrispondenza del blocco a con L (canzoni guittoniane cortesi), poniamo in parallelo anche la struttura del blocco b con quella altrettanto autonoma per tematica e genere metrico del Laurenziano («Sonetti damor diguitto(n)e daresso» recita la rubrica iniziale a f. 105r), si osserva che gli 86 sonetti che occupano i ff. 105r-115v per essere confluiti nei 7 fogli complessivi di R, nonostante il presunto formato “reale”, in varia misura devono di certo aver subito una riduzione. In tal caso è interessante notare che la collocazione al f. 19 del Reale ricavata dalla postilla di V a f. 332r colloca questo unico testo certo nel sesto foglio della sezione b, così come nel Laurenziano lo stesso componimento L 177 è trascritto al set123 La traccia in R al f. 72 di aggiunte di testi che, presenti nella regolare posizione all’interno del corpo di L, erano stati erroneamente omessi e poi reinseriti, suggerisce che anche le lacune qui segnalate debbano essersi prodotte prima della compilazione della tavola colocciana, dunque a carico di R o di un suo predecessore che abbia mediato la tradizione di L. 124 Non andrà sottovalutato in questo ragionamento il dato per cui proprio l’incipit del testo posticipato, R 23 Amor tanto altamente (= L 46), è l’unico nella tavola colocciana a non avere l’esatta localizzazione del foglio, insieme al frammento citato al nr. 98 (Magna medela grave et perigliosa), per il quale si rimanda alla riflessione della nota precedente. 125 In essa, ai ff. 71ra-72ra, si osserva specialmente per L 46 un’errata disposizione del

testo nella parte inferiore della prima colonna di f. 71r e un cospicuo spazio in bianco nella parte terminale della seconda colonna, come se il componimento fosse concluso alla quarta stanza: ma si tratta dello spazio che il copista ha lasciato per una ingente lacuna, dal momento che nella facciata successiva (f. 71va), dopo altre tre righe bianche, viene trascritto il congedo finale della stessa lirica; un’altra lacuna, minore ma lo stesso vistosa, è peraltro evidenziata da spazio bianco nella terza stanza del componimento successivo (L 47 Gioia gioioza plagente = R 21): la perdita è in tal caso corrispondente all’intera prima volta della stanza.

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timo foglio della suddetta sezione di sonetti cortesi guittoniani: la compatibilità “quantitativa” fra i due dati spinge dunque a ipotizzare che anche in questo blocco R e L procedano pressoché parallelamente e che la riduzione si sia verificata probabilmente soltanto per la parte terminale della sezione del Laurenziano, eccedente rispetto ai sette fogli di R126. Torna per il blocco c la trascrizione colocciana completa degli incipit, in modo tale da far agevolmente verificare di nuovo la perfetta coincidenza del Reale con la corrispondente sezione del Laurenziano L 62124127: dal gran numero di testi riportati si registrano qui solo quattro omissioni per la tavola di R, rispettivamente per L 65 (Seo trouasse pietansa) e L 75 (Dicio chelmeo cor sente), L 102 (Siforte macostretto) e L 118 (Poi lipiacie cauanzi), oltre alla posposizione di L 97-98 al blocco f, di cui si tratterà qui nelle righe successive. Se le 4 omissioni si giustificano come fisiologica dispersione nell’atto di trasmissione che coinvolge gli oltre 80 componimenti di questa sezione (fenomeno su cui può influire almeno in un caso anche una certa “instabilità” testuale già a partire dal capostipite128), gli elementi a nostra disposizione non consentono di spiegare la mancata coincidenza nell’attacco con la sezione di L delle canzoni cortesi non guittoniane, che inizia a f. 73r con L 49, con uno scarto di ben 14 liriche (specialmente di Guido Guinizzelli e Giacomo da Lentini). Il blocco d, assente dalla tavola, deve essere con ogni probabilità una partizione analoga alla sezione b, sia per consistenza (8 fogli), sia per genere lirico, come testimonia l’unico testo di cui abbiamo notizia, il sonetto del repertorio “morale” di Frate Guittone corrispondente a L 212 126 Come si vedrà poco oltre, all’ipotesi si conformano anche altri 4 sonetti guittoniani di R, con collocazione non espressa ma ricavabile in base al numero progressivo del Laurenziano: tali componimenti, tutti precedenti rispetto a L 177, anticiperebbero Ai mala Noia, mal uo doni Deo anche nella successione all’interno del Reale. 127 Nell’intervallo è compresa la lirica lentiniana S’io dollio non è meravillia, numerata in CLPIO L 112bis. Il componimento è stato erroneamente considerato dal rubricatore come proseguimento del precedente L 112 (Troppo sono dimorato), dal momento che inizia alla prima riga della prima colonna di f. 100v e lo spazio bianco per la consueta rubrica attributiva è invece stato lasciato incautamente all’ultima riga della seconda colonna della facciata precedente (f. 100r), in modo tale da passare del tutto inosservato e determinare la svista. L’errore non si è però prodotto in R, dal momento che esso distingue l’autonomia del testo e ne reca specifico incipit (nr. 70). 128 In L 118, così come nella corrispondente versione del Vaticano (V 29), fra la se-

conda e la terza strofa è inserito, a guisa di stanza, un sonetto estraneo al componimento e forse all’autore stesso della canzone (Rinaldo d’Aquino): su questa particolare circostanza si rimanda alle osservazioni (con relativa bibliografia) in Sonetti anonimi del Vaticano lat. 3793, a c. di P. GRESTI, Firenze 1992, p. 18.

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Aicomo matto eben sensa questione; la nota colocciana in Va che ne registra la presenza, non solo offre la notevole variante ragione per la parola in rima129, ma ci fornisce l’esatta collocazione del componimento in R, che risulta esemplato nel primo foglio del blocco d: come per i sonetti cortesi, tale indicazione trova preciso riscontro con la dislocazione del testo corrispondente L 212, anch’esso posto al primo foglio (f. 117r) della lunga serie di «Sonetti difrate Guittone daresso» (L 211-306 ai ff. 117r128v), e conferma anche per questo blocco la corrispondenza topografica (almeno in questa parte iniziale) con il materiale di L. A parte il blocco e, estraneo al Laurenziano e per il quale è necessario un supplemento da integrare alla presente analisi, degli indizî non trascurabili provengono dalla microsezione finale, qui indicata come blocco f e composta dalle due canzoni pisane Dela fera i(n)ferta et angosciosa e Magna medela graue etperigliosa. La loro corrispondenza con i componimenti del Laurenziano L 97-98 (ff. 93r-94r) suggerisce che esse avrebbero dovuto far parte, nell’equivalenza dell’ordine progressivo di R e L, del blocco c, dove si è appunto ritenuto di segnalarne la lacuna (cfr. sopra): questo spostamento non è addebitabile a una svista (poi rimediata) da parte di Colocci, ma deve essere avvenuto in una fase precedente rispetto alla trascrizione colocciana della tavola (R o il suo antecedente) come conferma l’apposizione del numero di foglio 72 per la prima delle due: si tratta dunque di una sorta di “risarcimento” con cui il responsabile di R (o altri), ha voluto colmare con aggiunte alla fine del codice130 le lacune di testi che nei blocchi precedenti si erano inavvertitamente prodotte. Si deve infine dare conto della presenza di altri 5 sonetti (citati sempre nella lista «Sonetti de’ Siculi» in Va, f. 462r131) che sicuramente erano presenti in R, sebbene le indicazioni in nostro possesso non ne dichiarino la precisa localizzazione: per i primi 4, vista la loro omogeneità per tipologia (tutti sonetti cortesi di Guittone) e numero progressivo all’interno del Laurenziano (L 125-126, L 134, L 160), si può a buona ragione 129 BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 117, nota 49 la segnala come «variante incipitaria del Reale»; dal momento che l’incipit in questione manca nella tavola di R, non è possibile aggiungere altro: si osservi solo che, come per gli incipit citati qui sopra nella nota al punto B di § II.2, non si esclude che ancora una volta la lezione possa rappresentare un caso di registrazione di variante redazionale, pervenuta al limite anche per via “orizzontale”. 130 Che questa sia la fine del codice è del resto confermato dalla stessa trascrizione colocciana, che qui s’arresta, e dall’impressione che si ricava dalla frammentarietà dell’ultimo testo (definito «fragmento» da Colocci) e dalla mancanza per esso di un numero di foglio. 131 Per tutti i dettagli circa tali componimenti si rimanda a BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 122-123.

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ipotizzare la loro presenza nel settore qui identificato con b, insieme al tipologicamente affine Aimala donna male uidoni deo (= L 177); per il restante sonetto di Giacomo da Lentini (A laria chiaro [sic] houisto piogia dar), corrispondente a L 380, è più difficile stabilire se la sua collocazione fosse sempre nello stesso settore b, o se esso sia più verosimilmente confluito in coda alla seconda serie di sonetti (d), oppure, al limite, persino nella sezione f. Sebbene il Reale possa dirsi “derivato” dal canzoniere Laurenziano per ciò che riguarda l’ordine progressivo delle microsezioni, è evidente che R sovverta completamente la macrostruttura di L, in special modo per ciò che concerne il peculiare e finissimo progetto culturale di «canzoniere d’autore» incentrato sulla produzione guittoniana132: a partire dall’ossatura fondamentale che nel Laurenziano suddivide il corpus di Guittone (per tema e per genere) nell’ordine in lettere, canzoni morali, canzoni d’amore (in coda l’intermezzo di altri autori), sonetti d’amore e sonetti morali (in coda altro intermezzo con autori differenti), il Reale esclude le lettere e le canzoni di Frate Guittone, per conservare al primo posto solo la produzione cortese dell’aretino, con il raggruppamento di canzoni (blocco a) e sonetti (blocco b), cui seguono le canzoni di altri autori (blocco c) e solo in ultimo minime tracce del Guittone morale, con i sonetti suoi e di altri autori (blocco d) che si trovano invece nella sezione finale di L. Caduta l’impalcatura tematica del Laurenziano, a vantaggio della nuova silloge R orientata con prevalenza verso la lirica erotico-cortese, anche la primigenia partizione per forme metriche (lettere > canzoni > sonetti) è scomposta nel suo nucleo (canzoni / sonetti / canzoni / sonetti) e riplasmata nel contorno con sottrazioni (lettere) e aggiunte eterogenee (ballate), in linea con il rinnovato gusto lirico-metricologico post-stilnovistico e soprattutto post-dantesco (nell’ottica del De vulgari eloquentia). Nonostante il Reale sia classificabile come descriptus di L, si deve infine convenire che il nostro codice si allontana da tale status già per scelta ideologica e impianto complessivo, oltre che per alcune delle lezioni che si ricavano dalla tavola e dalle postille colocciane: in tal caso, non è superfluo ricordare la valenza che assume R nella restituzione critica dei testi in cui il suo apporto possa essere nuovo (mi riferisco ad esempio 132 Per l’accezione del termine nel contesto guittoniano si rimanda a PICONE, Guittone e

i due tempi del “canzoniere”, cit., da leggere però alla luce della fondamentale analisi di LEONARDI, Il Canzoniere Laurenziano cit., pp. 174-185, che raccoglie e amplia le sue precedenti osservazioni in GUITTONE, Canzoniere cit., specialmente nell’Introduzione (pp. xxivxlii) e nella Nota al testo (pp. 261-269).

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FABRIZIO COSTANTINI

alla più volte citata questione delle varianti redazionali in Guittone) o persino dirimente, laddove sia terzo fra due testimoni (L vs. V). Con la speranza che sia stato mosso qualche passo in avanti per la messa a fuoco di questo notevole codice perduto (o, per lo meno, per la riapertura delle ricerche), resta tuttavia da dichiarare l’impossibilità in queste pagine di venire a capo in modo decisivo delle vicende che dal Laurenziano portarono al Libro Reale; nel complesso groviglio della trasmissione testuale che nell’arco di due secoli ha fatto riversare e selezionare il contenuto delle antologie liriche delle Origini nelle sillogi rinascimentali e umanistiche, resta arduo individuare la presenza di eventuali intermediarî nella trafila che ha prodotto R, così come, in base ai dati oggi disponibili, non è ancora stata chiarita la collocazione storicogeografica del codice scomparso: in tale prospettiva, oltre alla presenza del Reale nella biblioteca di Colocci133, si dovrà necessariamente tenere in considerazione la postilla colocciana al f. 214v del Vat. lat. 4817 «Caluo ha il canzoniero di libro reale / dice el Molza», e ripartire da essa con particolare attenzione agli ambienti e ai circuiti culturali legati ai personaggi menzionati nel veloce appunto134.

133 La messa a punto sui codici della biblioteca colocciana è ora disponibile, con biblio-

grafia esaustiva, nel contributo di M. BERNARDI, Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori in questo stesso volume. 134 Per la questione si rimanda a BOLOGNA, Tradizione e fortuna cit., pp. 103-104. A tale

proposito si deve osservare che la dicitura completa «il canzoniero di libro reale», se valutata nel senso comunemente accettato come perifrasi che indica il solo R, risulta quantomento ridondante nella sua parte centrale: «Calvo ha il [canzoniero di] libro reale...»; con tutte le cautele del caso, ci si chiede dunque se l’interpretazione alternativa «il canzoniere da cui proviene il Libro Reale», con la preposizione da intendere come indicatore di origineprovenienza, non possa gettare nuova luce direttamente sulla fonte del codice scomparso.

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GIUSEPPE TAVANI

LE POSTILLE DI COLLAZIONE NEL CANZONIERE PORTOGHESE DELLA VATICANA (VAT. LAT. 4803) È ben noto da tempo, e ormai non solo agli specialisti, che delle raccolte di poesie in volgare da lui commissionate o acquistate Angelo Colocci faceva un uso assolutamente privato: i canzonieri che gli appartenevano erano per lui strumenti di studio e di lavoro, non libri di fattura più o meno raffinata da leggere o da esibire. Filologo e comparatista ante litteram, dominato dal desiderio di conoscere le manifestazioni liriche del basso medioevo (soprattutto italiano, provenzale e galego-portoghese) e di confrontarne le particolarità, aveva cura di introdurre nei fogli dei suoi manoscritti osservazioni, annotazioni, postille, o di elaborare regesti – a volte riuniti in quaderni a parte – che gli servivano di supporto alle riflessioni suggeritegli dalle sue letture incrociate e dai riscontri che ne conseguivano. Osservazioni, note e postille, cataloghi e indici di uso personale, quindi non destinati ad essere divulgati, e dei quali – oggi che siamo in grado di utilizzarli liberamente – possiamo e dobbiamo tener conto, ma senza esigere che obbediscano a criteri di scientificità che la loro destinazione non poteva prevedere, e che in taluni casi risulterebbe anacronistico pretendere; e soprattutto senza indulgere ad atteggiamenti censori nei confronti del’umanista iesino, il quale certo li merita molto meno di quanto lo meriterebbero alcuni suoi esegeti contemporanei. Tra le postille colocciane del Vat. lat. 4803 – noto anche, e forse più, come Canzoniere Portoghese della Vaticana – ho ritenuto opportuno esaminare specificamente, in questa sede, quelle che denunciano, nel postillatore, un lavoro di collazione con altra o altre raccolte di poesia lirica galego-portoghese: postille, cioè, di carattere endogeno, quindi relative al solo corpus lirico del medioevo ispanico, dalle quali il canzoniere vaticano viene messo in relazione con uno o più canzonieri della stessa area linguistico-letteraria. Per forza di cose, sarò costretto a ripetere, in certa misura, quanto ho già avuto modo di esporre, con scarsa eco, in miei precedenti lavori sulla tradizione manoscritta della poesia profana elaborata in Galizia e in Portogallo, ma anche in Castiglia e in altre regioni della penisola iberica, tra la fine del XII e la metà del XIV secolo.

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GIUSEPPE TAVANI

Le annotazioni prese in esame sono di tre tipi: al primo pertengono quelle nelle quali, in forma più o meno esplicita, Colocci rileva una lacuna del suo manoscritto messo a confronto con un altro; al secondo una serie discontinua di numeri in cifre romane collocate in corrispondenza, in genere, del primo verso di una cantiga; al terzo, infine, un’altra serie anch’essa discontinua di numeri, questa volta in cifre arabe, trascritti quasi sempre nel margine superiore del foglio. Al primo tipo fa capo quella che, a mio avviso, è la più rilevante di queste postille, trascritta nel foglio avulso e non numerato che apre il manoscritto, precedendo il gruppo di dieci fogli (un quinione?), numerati da 1 a 10 in cifre arabe, tutte annullate con un frego di penna. Il canzoniere vero e proprio sembra in realtà avere inizio con il quaternione successivo, contraddistinto dalla lettera di registrazione A posta in fondo a sinistra nel recto del primo foglio e dal quale si avvia la nuova cartolazione, sempre in cifre arabe ma ora non annullate, da 1 a 8 (il foglio 9 è il primo del secondo quaternione – B – che si conclude con il f. 16; il 17 apre il terzo gruppo di fogli – C –, che è anche l’ultimo a riportare la cifra di fascicolazione in questa prima parte del codice). La postilla, della quale ho avuto occasione di parlare più volte, campeggia in una pagina per il resto bianca (non considerando ovviamente l’annotazione moderna di catalogazione «4803»), e dice: «Manca da fol ij infino a fol 43». La denuncia di una lacuna iniziale del canzoniere vaticano – 33 fogli, da 11 a 431, o 31 se non si considerano nel computo i due estremi – non potrebbe essere più esplicita. Ma una lacuna relativamente a che cosa? Evidentemente, almeno per me, in rapporto ad un altro canzoniere sul quale Colocci ha potuto condurre la collazione. Che quest’altro canzoniere sia da identificare con il Colocci-Brancuti, sembra da escludere, in quanto il punto di raccordo tra V e B si pone molto più avanti, a f. 88 di B, e il primo foglio del quaternione A del codice vaticano corrisponde al f. 96 del Colocci-Brancuti. Se si tiene conto che dal punto di vista testuale tra l’ultimo foglio del quinione (ammettiamo che lo sia) e il primo del quaternione non c’è soluzione di continuità (il f. 1 di questo inizia con i due versi della finda dell’ultimo testo di quello), possiamo concludere, provvisoriamente, che i 10 fogli aggiunti all’inizio di V siano stati commissionati ed eseguiti in un secondo momento, numerati da 1 a 10, e uniti al codice già fatto trascrivere dallo stesso Colocci, il quale a questo 1 Modifico in tal senso la mia precedente lettura della prima cifra, che avevo interpretato come un «2», e che – mi segnalano gli amici e colleghi Mercedes Brea e Corrado Bologna (che qui ringrazio) – sta invece per «11», come risulta da vari autografi colocciani, in cui, tra l’altro, non vengono mai mescolate, nella stessa serie, cifre romane e cifre arabe.

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LE POSTILLE DI COLLAZIONE NEL CANZIONIERE PORTOGHESE

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punto ha dovuto eliminarne la cartolazione, entrata in conflitto con quella del quaternione, e sostituirla parzialmente, nel verso dei primi due fogli, con il richiamo alla prima parola del foglio seguente (rispettivamente «sazon» e «senhor fremosa»). Questo rappezzo, come ho anticipato, non può derivare da una collazione condotta su B, in quanto del primo testo tràdito (Muytos vej’eu que con mengua de sen, di Fernan Gonçalvez de Seavra) V trascrive solo la prima delle tre strofe riportate dal Colocci-Brancuti: la fonte dell’integrazione era quindi diversa da B, poiché non è ipotesi ammissibile (o almeno non è economico ammetterlo) che un menante, per quanto distratto e frettoloso, possa copiare la prima strofa e, tralasciando le altre due, passi al testo successivo proseguendo poi, senza ulteriori inadempimenti, fino al termine; né è da ammettere che Colocci, collazionando V con B, non si sia reso conto della lacuna e non l’abbia segnalata come in altri luoghi. Ma nonostante l’aggiunta di questi 48 testi, l’umanista iesino ha potuto rilevare una ulteriore lacuna del suo canzoniere, e la segnala – in modi non si potrebbe più espliciti – con la postilla citata. Se è dunque probabile che B non sia fonte di V per i 10 nuovi fogli inseriti all’inizio, è ancora più probabile che anche la segnalazione della lacuna («Manca da fol. ij infino a fol. 43») sia frutto di un confronto con altro canzoniere, diverso da B: a questo, in effetti, non si attagliano in nessun modo le cifre indicate come confini della lacuna stessa. Da queste premesse, mi sembra lecito ribadire, nella scia della Michaëlis, quanto ho già reiteratamente proposto, e cioè che Colocci ha commissionato e fatto eseguire V prima di commissionare e far eseguire B: se così non fosse, tutti i riscontri leggibili nel codice vaticano avrebbero avuto come punto di riferimento B, al quale invece non possono essere ricondotte, ripeto, le caratteristiche strutturali implicite nella postilla in esame. Una conclusione cui la Michaëlis2 era già pervenuta, assumendo che Colocci non avrebbe fatto trarre da un codice più ricco in suo possesso un altro manoscritto di minore consistenza: argomento, questo, qualificato dalla Ferrari3 «poco consistente», in quanto «Colocci poteva avere ottime ragioni di far copiare V pur possedendo già B. Lo scopo poteva essere, per esempio, un dono o uno scambio, come spesso avveniva 2 Cancioneiro da Ajuda, ediçao critica e comentatda par C. MICHAËLIS DE VASCONCELLOS,

II, Halle 1904, p. 272.

3 A. FERRARI, Formazione e struttura del canzoniere portoghese della Biblioteca Nazionale

di Lisbona (Cod. 10991: Colocci-Brancuti. Premesse codicologiche alla critica del testo (Materiali e note problematiche), in Arquivos do Centro Cultural Poertuguês 14 (1979), pp. 27-142, p. 78.

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GIUSEPPE TAVANI

tra umanisti». Ma, mi domando, un codice confezionato con carta e inchiostro di pessima qualità, commissionato ad un copista abbastanza maldestro, probabilmente non professionista, un manoscritto costellato di appunti, postille, glosse di carattere e di interesse strettamente privati, verosimilmente di poco posteriori alla confezione di V, dunque un codice eseguito in regime di stretta economia e per uso, direi, personale, poteva essere oggetto di dono o di scambio? Ne dubito. Una seconda postilla di collazione è nel verso del terzo foglio del fascicolo registrato con la lettera A (f. 3 del primo fascicolo regolare); sotto la rubrica attributiva ad Alfonso X, spostata sulla sinistra dello specchio di pagina, sopra il primo dei versi trascritti nella prima colonna, si legge «Desunt»: manca, in effetti, la prima delle strofe (supposto che in origine il testo ne contasse 3) di una canzone di scherno del re di Castiglia, della quale in B è rimasto solo il primo verso, nell’ultima riga del f. 105v, ammesso che dello stesso testo si tratti. Nel recto del f. 3 di V, dopo i tre vv. della finda di una cantiga di Vasco Perez Pardal (V nr. 60, B nr. 453), il resto della colonna di sinistra e l’intera colonna di destra sono rimaste inutilizzate. La lacuna, quindi riguarda (forse) in misura minima B (che ometterebbe sei dei sette versi della I strofa e, per intero, le altre due strofe di Joan Rodriguiz, vejo-vos queixar) e in proporzioni più rilevanti V, in cui mancano la canzone in provenzale di Garcia Mendiz d’Eixo (B 454), la cantiga d’escarnho del conte Gonçalo Garcia (B 455) e 25 testi di Alfonso X (B 456-477, di cui tre non numerati). La distribuzione dei fogli appare in questa sezione molto confusa, e i tentativi di ricostruire la struttura primitiva del codice sembrano destinati a non chiarirla fino in fondo. Comunque, ritengo che in casi del genere sia prudente affidarsi all’elemento più sicuro di cui disponiamo per individuare le discrepanze tra i due relatori, cioè, la numerazione dei testi. È vero che spesso in questo conteggio sono rilevabili salti e ripetizioni, ma è altrettanto vero che se fra un testo e il successivo c’è continuità di numerazione, si può ragionevolmente supporre che nel momento in cui Colocci l’eseguiva non doveva esserci in B soluzione di questa continuità. Nella specie, tra il testo di Alfonso X di cui in B è rimasto solo l’incipit (Joan Rodriguiz, vejo-vos queyxar) numerato 478 e il successivo dello stesso autore (Vi hun coteyfe de muy gran granhon) contraddistinto con il numero 479 l’unica lacuna è rappresentata dai 6 versi mancanti della prima strofa del 478 e dalle due strofe riprodotte solo in V nel verso del f. 3. A questo punto conviene chiedersi se quel «Desunt» che campeggia nel verso del f. 3 di V si riferisca alla lacuna di 20 versi rilevabile in B (e che potrebbe dipendere dall’asportazione di un foglio, successivamente alla confezione del codice) o se non si riferisca piuttosto a quella ben più

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LE POSTILLE DI COLLAZIONE NEL CANZIONIERE PORTOGHESE

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vistosa che in V coinvolge 27 testi. Se, come ritengo probabile, è valida la seconda ipotesi, evidentemente la postilla colocciana si riferisce ad una collazione con un canzoniere diverso da B. Queste due postille attestano dunque, a mio parere (sempre revocabile di fronte ad altra più convincente spiegazione) che Colocci ha collazionato il suo V con un canzoniere più completo, che non può essere B ma che potrebbe essere stato l’esemplare di B, e che dunque V è copia di un canzoniere diverso sia da B che dall’antecedente di questo. In pratica, V deriverebbe da uno di quegli interpositi che ho a suo tempo ipotizzato tra il subarchetipo (ascendente comune di VB) e il canzoniere vaticano, ma dei quali si è da più parti e con persistente tenacia rifiutata non dico l’esistenza (che nessuno potrà mai garantire) ma l’ipotesi che possano essere esistiti. Che poi gli interpositi da proporre siano soltanto uno (come voleva Jean-Marie d’Heur) o due (come ancora oggi mi ostino a credere) non è in definitiva di grande importanza. Né mi sembra da tenere in gran conto l’obiezione più volte espressa che nell’Italia del primo Cinquecento i canzonieri galego-portoghesi in circolazione non potevano essere più d’uno e che il riferimento colocciano a «il libro di portughesi», lasciato (ad un certo Messer Ottaviano) da monsignor Antonio Ribeiro lo confermi: altrove ho avuto modo di precisare che l’uso di «il» in luogo di «un» non è sufficiente a suffragare l’ipotesi dell’unicità del libro in questione, in quanto «se vogliamo dare rilievo ad una annotazione personale di carattere esclusivamente mnemonico, dovremmo anche poter ammettere che l’uso del determinativo potrebbe avere soltanto carattere ipostatizzante, riferirsi cioè in concreto a quel che per Colocci in quel momento rappresenta il libro che desidera ottenere, prescindendo da quello ormai già acquisito»4 . Tralasciando altre postille del tipo finora analizzato, le cifre, romane e arabe, che compaiono, in modo discontinuo, nei primi fogli di V, sono anch’esse frutto di collazione. Le due serie sembrano, in buona parte almeno, integrarsi a vicenda, come appare dalla tabella seguente: Posizione in V

postilla

foglio corrispondente in B

f. 1r fascicolo iniziale

A fogli 90

f. 88r risulta da correz.

f. 1v id.

Lxxxvi

f. 88v id.

f. 3r id.

fol. 91

f. 5v id.

Lxxxiij

87

f. 89r id. f. 89v id.

4 G. TAVANI, Ancora sulla tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese (quarta e ultima puntata), in Rassegna Iberistica 65 (febbraio 1999), pp. 3-12, pp. 7-8.

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GIUSEPPE TAVANI

f. 8v id.

Lxxxiiij

f. 92r id.

f. 9v id.

xcvj

f. 94v id.

f. 10r id

> fol. 97 desunt multa

f. 97r corretto in 95

f. 10r id.

xcvij

come sopra

f. 10v id.

fol. 98

f. 97v corretto in 95

f. 1r nuova numeraz.

fol. 98

f. 2r nuova numeraz.

xcviij

f. 3v nuova numeraz.

car. 106

xcviij

f. 98r corretto in 96 f. 97r

Desunt

f. 107r (106 a sin.) *

cxij f. 5r

cxiiij

f. 108v

f. 6v

cxvij

f. 110r

f. 9r

110

f. 112r

Ho interrotto al f. 9r di V il raffronto, perché dai fogli iniziali di questo canzoniere si possono desumere i dati più interessanti per l’esame delle postille numeriche. La prima impressione che si ricava dalla lettura della tabella è che alcune cifre arabe rinviino decisamente a B: lo scarto di due unità sarà da attribuire alla struttura anomala del fascicolo, originariamente un quinione, con inizio dal foglio numerato (in alto a sinistra, di mano del Colocci) 77 (ora 75, nella numerazione di Molteni) e conclusione a foglio 86 (oggi 84), dove si legge la lettera di registrazione L. Il fascicolo originario è stato poi inserito, per decisione dello stesso Colocci, all’interno di un binione, estrapolato da quello che avrebbe dovuto essere il fascicolo segnato M, ma con la piegatura invertita. Sicché, il foglio che avrebbe dovuto concludere il quaderno non realizzato (e che è tuttora contraddistinta nel verso dalla lettera M) è ora il secondo, e nel suo verso si legge ancora l’antica (e non più valida) lettera di registrazione, M per l’appunto, mentre sul verso del secondo dei due fogli finali (14ª) dell’eptanione risultante dall’aggiunta (f. 86, ex 88) è ripetuta la lettera di registrazione L che già compariva, e tuttora compare, in calce al f. 84v, ex 86, il cui verso non reca altro segno di scrittura che la lettera di registrazione ripetuta e il richiamo al primo foglio del fascicolo seguente; indizio certo che tra i due fascicoli già per Colocci non c’era soluzione di continuità. Qui, in alto a sinistra e sempre di mano del Colocci, si legge il nr. 89 (nr. 87 di

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LE POSTILLE DI COLLAZIONE NEL CANZIONIERE PORTOGHESE

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Molteni) e dunque l’attuale foglio 88 era in origine proprio il f. 90, cui rinvia correttamente l’indicazione «A fol. 90» di V 5. Ma anche altre postille numeriche di V, tenendo conto dello scarto tra le due numerazioni, provano che Colocci ha collazionato il codice con B: se a f. 1r di V la postilla «A fogli 90» rimanda direttamente all’antico f. 90 di B, è evidente che «fol. 91» a f. 3r del fascicolo iniziale, corrispondeva al f. 91 di B (oggi 89); la postilla «xcvj» di f. 9v di V rimette al foglio 96 (oggi 94); e lo stesso si dica per le annotazioni «fol. 97» e «xcvij» del f. 10r, per «fol 98» e «xcviij» dei ff. 10v e 1r della nuova serie, e anche per la postilla a f. 2r, in cui la corrispondenza è tra «xcviij» di V e f. 95 (ex 97) di B, con una alterazione della corrispondenza dovuta alla lacuna di V denunciata dalla postilla «> fol. 97 desunt multa», già citata; lacuna che coinvolge le 2 strofe finali e la finda di Partir-m’eu de vós, mha senhor (V 43, B 431) e le prime due strofe di Meus amigos, muyt’estava eu ben (V 44, B 432), entrambe di Johan Vasquiz. Più avanti, alcuni tagli di fogli in B invertono lo scarto: il riferimento «car. 106» di f. 3v di V rimanda a f. 107 (ma ex 106) di B: in entrambi i luoghi compare infatti la stessa cantiga di Alfonso X; il nr. «110» a f. 9r di V rimanda all’ex f. 110 di B (ora 112, ma si noti che la precedente reca di mano colocciana il nr. 109). Non tutte le postille numeriche sembrano però riferirsi alla collazione eseguita su B: – a f. 3v (prima serie) di V è scritto, con tratto molto marcato, sotto la postilla «fol. 91», il nr. «87»; – nello stesso foglio e nei successivi le cifre romane non trovano invece nessuna corrispondenza nell’altro codice, o almeno a me non è riuscito di individuarle. Si tratterà anche in questi casi di collazione con l’antecedente di B? Non saprei rispondere. Resta comunque a mio avviso che Colocci ha lavorato su V in due tempi: in un primo momento lo ha collazionato con un codice «altro» rilevando le carenze del canzoniere da lui già fatto trascrivere; in un secondo momento, fatta eseguire una copia di quest’altro codice (l’attuale B), su questa copia esegue una seconda collazione, per stabilire le corrispondenze tra i due manoscritti ora in suo possesso e verificarne analogie e diversità. Mi sembra che anche chi sostiene che B e V sono manoscritti di pregio, degni di essere oggetto di scambio o di dono, abbia dovuto riconoscere che entrambi sono stati eseguiti quasi alla macchia, uti5 Cfr. FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 109-115.

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GIUSEPPE TAVANI

lizzando nel caso di B i menanti della Vaticana (nonostante che «Scrittori ci sono pochi», e non fosse «lor lecito a scriver per altri»6, nei (rari) momenti in cui erano liberi dalle mansioni ufficiali, e non alla pecia, ma alternando le mani di scrittura secondo le disponibilità del momento, e avvalendosi, per V, di un copista contrattato, per così dire, a tempo pieno, ma ignaro della lingua dei testi che trascriveva, abbastanza disordinato e distratto da tralasciare interi testi – lui che lavorava ad volumina –, e di prendere non di rado abbagli di una certa consistenza nello scioglimento dei compendi o nella abbreviatura di segmenti dati per esteso, e in genere correttamente, nell’altro canzoniere. La conclusione è che resta confermata la mia antica ipotesi secondo la quale V e B hanno antecedenti diversi, e che pertanto non derivano entrambi da un unico exemplar, come si tende a ripetere ormai da anni.

6 Da una lettera di Annibal Caro, trascritta da FERRARI, Formazione e struttura cit., p.

44.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

ANGELO COLOCCI Y LA RIMA ROMÁNICA: ASPECTOS ESTRUCTURALES (ANÁLISIS DE ALGUNAS APOSTILLAS COLOCCIANAS)

A Mercedes Brea, por animarme y ayudarme a seguir explorando el universo colocciano

1. Introducción Cualquiera que sea el enfoque adoptado, todos cuantos se han acercado a los intereses filológicos de Angelo Colocci se han visto en la necesidad de informar sobre la orientación romanística de los estudios del humanista, concluyendo con el aserto de que Colocci fue – citando a Valeria Bertolucci – «il più romanista degli umanisti»1. Coleccionista de códices diversos, el iesino los utilizaba como instrumento de trabajo en los que anotaba las más variadas cuestiones, destacando con frecuencia las semejanzas y diferencias entre lenguas y literaturas diversas, aunque el fin primordial de sus anotaciones fuese el de conferir autoridad a la lengua de Petrarca, figura de capital importancia en los estudios filológicos del Cinquecento italiano (centrados, como se recordará, en la questione della lingua). Por todas estas razones, y aunque las contribuciones parciales sobre Angelo Colocci arrojen una luz nada despreciable, para ahondar en los conocimientos filológicos del humanista se hace necesario adoptar una metodología de trabajo próxima a la de aquél.

1 Cfr. V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Note linguistiche e letterarie di Angelo Colocci in mar-

gine ai canzonieri portoghesi, en Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci (Iesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 197-203, p. 197. No podemos dejar de traer a colación en este punto las siguientes palabras de A. FERRARI, Le chansonnier et son double, en Lyrique romane médiévale: La tradition des chansonniers. Actes du Colloque de Liège, 1989, édités par M. TYSSENS, Liège 1991, pp. 303-327, p. 304: «avant de Raynouard, Diez ou Meyer-Lübke, Colocci nous a donné une première ébauche très rudimentaire de grammaire comparée des langues romanes, constituée par l’ensemble des notes grammaticales qu’il a éparpillées dans les marges de nombre de chansonniers lyriques romans, ainsi que la mise en évidence d’artifices métriques que Frank, dans son répertoire, n’a pas mieux analysés que lui».

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GERARDO PÉREZ BARCALA

Que ésta se aplique particularmente a la rima no es baladí, ya que éste fue uno de los aspectos que más llamaron la atención del humanista, a juzgar por el abultado número de anotaciones que le dedicó. Además de las notas incluidas en el Vat. lat. 3450 (ff. 90r-105r), el misceláneo y heterogéneo Vat. lat. 4817 reúne sobre el particular un buen número de observaciones. El estudio de éstas ha revelado que Colocci proyectaba la elaboración de un tratado formado por dos libros (en los que se proponía estudiar la historia de la rima en la Antigüedad y en la himnología cristiana) y que el humanista localiza ya en la poesía clásica ciertos procedimientos que serán característicos de la poesía escrita en lengua vulgar2. Son, por otro lado, cuantiosas las anotaciones coloccianas referidas a la rima de los textos romances, de cuya conservación fue responsable en buena medida el iesino. No es casual la atención prestada por el humanista a la rima, pues ésta constituye (junto con el cómputo silábico de los versos, cuestión también cara a Colocci) una innovación romance de tanta importancia que Samy Lattès clausuraba el célebre congreso de Iesi con la afirmación de que «il Colocci cercava nella poesia medievale l’origine della rima romanza»3. Ante la escasez de estudios dedicados a las anotaciones coloccianas relativas a la rima de los textos romances y dado el creciente interés que en ciertos ámbitos se observa por las apostillas del humanista, el presente trabajo se centra precisamente en ellas, con el fin inmediato de sistematizar los aspectos que más llamaron la atención del iesino en relación con este asunto y de trazar algunas de las líneas esenciales de un hipótetico tratado al que estas apostillas, como sucede con tantas otras, estarían probablemente destinadas. Que éste pudo haber sido el fin de los apuntes coloccianos es una opinión generalizada entre la crítica especializada, que encuentra apoyo en el agónico lamento del humanista poco antes de su muerte: io pensavo che gli studi miei, la gloria mia che nasceria dagli studi e lettere fosse l’ultimo riposo mio ed io morirò che non si vedrà cosa alcuna di me4.

2 Cfr. S. DEBENEDETTI [1911], Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di

studi provenzali, edizione riveduta con integrazioni inedite a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995, pp. 196-199 y, sobre todo, R. AVESANI, Appunti del Colocci sulla poesia mediolatina, en Atti del Convegno cit., pp. 109-132. 3 Cfr. S. LATTÈS, Studi letterari e filologici di Angelo Colocci, en Atti del Convegno cit., pp. 243-255, p. 243. 4 Ibid., p. 254.

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ANGELO COLOCCI Y LA RIMA ROMÁNICA

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1.1. Angelo Colocci y la lírica románica Los textos románicos para los que Angelo Colocci escribió anotaciones marginales referidas a la rima son los incluidos en los cancioneros que formaban parte de su biblioteca. Adquirida tras su muerte, en 1549, por la Biblioteca Vaticana5, se sabe que entre sus fondos figuraban códices pertenecientes a tres tradiciones líricas de prestigio: la provenzal, la gallego-portuguesa y, por supuesto, la italiana. A partir de esos cancioneros Colocci desplegó una intensa actividad filológica que se traduce en la elaboración de copias, en una profunda labor de cotejo con otros manuscritos y, para lo que aquí interesa, en un proceso de anotación de gran envergadura sobre los más variados aspectos. Notas relativas a la rima se localizan en los siguientes códices románicos de la biblioteca colocciana: a) el cancionero provenzal M (Paris, Bibliothèque Nationale, ms. franç. 12474, olim Vat. lat. 3794), comprado, no sin cierto escándalo, por Colocci a la viuda de su anterior propietario, el poeta catalán Benedetto Gareth (más conocido como Cariteo), en 1515, poco después de la muerte de éste, en 15146. Para la lectura de las apostillas de este códice7 resulta de gran utilidad el descriptus g1 (ms. Vat. lat. 3205)8, ya que en

5 Además del trabajo de M. BERNARDI, Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori, incluido en este mismo volumen, véanse para la cuestión S. LATTES, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci, en Mélanges d’Archéologie et d’Histoire publiées par l’École Française de Rome 48 (1931), pp. 308-344; R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, en Rinascimento 30 (1990), pp. 271-282. 6 Del interés de Colocci por la adquisición de este y otros ejemplares de la lírica provenzal da buena cuenta el clásico estudio de DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., en el que se recoge (pp. 129-301) la carta enviada por Pietro Summonte a Colocci en 1515, de innegable utilidad para reconstruir todo el proceso. 7 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 72, nt. 50, identifica, además de la de Co-

locci, otras dos manos en las apostillas del cancionero. M. CARERI, Bartolomeo Casassagia e il canzoniere provenzale M, en La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Università degli studi di Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 Dicembre 1991), a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, Messina 1993, II, pp. 743-752, cree posible que algunas de las notas del códice sean de Cariteo y otras de su sobrino Casassagia. 8 g1 fue «collazionato di persona dal Colocci su M» y «risalirà al più tardi al 1548-49 (anno, quest’ultimo, di morte dell’umanista)». Cfr. C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, en La Filologia Romanza e i codici cit., II, pp. 531587, p. 546. Además, el Marqués de Montesarchio encargaría probablemente a Summonte la elaboración de otra copia, g2 (Bologna, Bibl. Univ., cód. 1290), incompleta, según opina CARERI, Bartolomeo Casassagia cit., pp. 746-747.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

éste fueron copiadas de manera ordenada y mucho más legible las anotaciones de Colocci en M9. b) el cancionero gallego-portugués B (Lisboa, Biblioteca Nacional, Cód. 10991) que, junto con el Vat. lat. 480310, es depositario de la mayor parte del corpus gallego-portugués11. Ambas antologías poéticas fueron copiadas por orden de Colocci, en torno a los años 1525-1526, a partir del Libro de portughesi que António Ribeiro («quel da Ribera»), embajador de Portugal en el Vaticano al servicio de Clemente VII, le habría prestado a Lattanzio Tolomei, conocido de Colocci12. c) el cancionero italiano identificado como V, es decir, el llamado Libro de varie romanze volgare (Vat. lat. 3793)13, adquirido por Colocci en 9 Las notas coloccianas de M fueron copiadas en g1 por Fulvio Orsini. Así lo indicó ya S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, en ID., Studi Filologici, Milano 1986, pp. 169-208, especialmente pp. 169-171, trabajo recogido previamente en Zeitschrift für romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93. La teoría, retomada después por el estudioso en Gli studi provenzali cit., p. 111, es aceptada por la crítica especializada: cfr. FERRARI, Le chansonnier et son double cit., p. 318; CARERI, Bartolomeo Casassagia cit., p. 747; C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), en I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi Critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-152, concretamente p. 107, nt. 12. 10 Este cancionero no se ha tenido en cuenta en este momento, al no contener notas relacionadas con la rima. Para las escasas apostillas de Colocci en este códice, cfr. M. BREA, Las anotaciones de Angelo Colocci en el Cancionero de la Biblioteca Vaticana, en Revista de Filología Románica 14 (1997), pp. 515-519. 11 Cfr., entre otros, J. L. COUCEIRO, I. GONZÁLEZ, Un uomo non volgare, en El Renacimiento italiano. Actas del II Congreso Nacional de Italianistas (Murcia, 1984), Salamanca 1986, pp. 67-75. 12 Es la opinión de E. GONÇALVES, Quel da Ribera, en Cultura Neolatina 44 (1984), pp. 219-224; EAD., s.v. Colocci, Angelo, en Dicionário da Literatura Medieval Galega e Portuguesa, organização e coordenação de G. LANCIANI e G. TAVANI, Lisboa 1993, pp. 163-166. La derivación de los dos códices de un mismo ejemplar es también contemplada por A. FERRARI, Formazione e struttura del Canzoniere portoghese della Biblioteca Nazionale di Lisbona (Cod. 10991: Colocci-Brancuti. Premesse codicologiche alla critica del testo (Materiali e note problematiche), en Arquivos do Centro Cultural Português 14 (1979), pp. 27-142, concretamente p. 80, y J. M. D’HEUR, Sur la généalogie des chansonniers portugais d’Ange Colocci, en Boletim de Filologia 39 (1984), pp. 23-34. Cfr., en cambio, la opinión de G. TAVANI, para quien B y la copia vaticana proceden de fuentes distintas, idea defendida en reiteradas ocasiones por el filólogo italiano, que ha vuelto sobre el asunto en el estudio Le postille di collazione nel canzoniere portoghese della Vaticana (Vat. lat. 4803), recogido en este mismo volumen. 13 Fue DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., principalmente pp. 171-172, quien reivindicó la autoría de Angelo Colocci para las anotaciones de este cancionero, que otros estudiosos habían atribuido a Bembo. Cfr. también C. BOLOGNA, Bembo e i poeti italiani del Duecento, en Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000), a cura di S. MORGANA, M. PIOTTI, M. PRADA, Milano 2001 (Quaderni di Acme 46), pp. 95-122, especialmente p. 99.

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ANGELO COLOCCI Y LA RIMA ROMÁNICA

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fecha incierta14, pero, en cualquier caso, con anterioridad a 1525, ya que en torno a ese año se llevaría a cabo, según Corrado Bologna, la confección de la “copia” de ese códice, conocida como Va (Vat. lat. 4823)15. En este último, «alla tradizione esclusivamente prestilnovistica rappresentata dal Vaticano viene congiunta dal Colocci, [...], oltre ad altri autori, la poesia dei due grandi stilnovisti del De vulgari, Dante e Cino»16, lo que, unido a otros indicios codicológicos, lleva a Bologna a suponer que Va no es exactamente un descriptus de V y que probablemente existió entre ambos una copia intermedia. La calidad de las anotaciones de Colocci en este cancionero es tan variada que trasluce unas inquietudes filológicas extraordinarias; en palabras de Bologna, «il codice Va, fra quelli colocciani, è il più ricco di note, varianti, integrazioni, appunti tecnici di ogni genere distribuiti su tutti margini»17. d) Asimismo, se ha tenido en cuenta el códice Vat. lat. 4817, pues en él se reúnen apuntes varios de Angelo Colocci, algunos de los cuales señalan aspectos relativos a la rima de composiciones romances. Así, por ejemplo, se encuentran en él anotaciones que se refieren con seguridad a textos que forman parte del Vat. lat. 4796, en el que se recogen los textos de Arnaut Daniel y Folquet de Marselha traducidos al italiano por Bartolomeo Casassagia18. Tampoco faltan en él comentarios relativos a poe14 Para los propietarios de este monumento de la antigua lírica italiana en el Trecento,

cfr. R. ANTONELLI, Canzoniere Vaticano latino 3793, en Letteratura italiana. Le Opere, direttore A. ASOR ROSA, Torino 1992, I: Dalle Origini al Cinquecento, pp. 27-44, concretamente pp. 28-29. Véase ahora ID., Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano, en I canzonieri della lirica italiana delle origini cit., IV: Studi Critici, pp. 3-23. 15 La elaboración de Va podría fijarse «all’incirca nel decennio 1525-35», como apunta

BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 105. En cualquier caso, el estudioso italiano establece el año 1544 como término ante quem para la confección del cancionero (cfr. Ibid., p. 138, nt. 142). 16 Cfr. ANTONELLI, Canzoniere Vaticano latino 3793 cit., p. 29. 17 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 108. 18 Investigadores como C. DE LOLLIS, Ricerche intorno a canzonieri provenzali di eruditi

italiani del sec. XVI, en Romania 18 (1889), pp. 453-468, en particular, p. 462; DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 125; o, más recientemente, E. CORRAL DÍAZ y F. FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. Lat. 4796 de Angelo Colocci: a súa historia e as súas apostilas, en Critica del testo 3/II (2000), pp. 725-752, p. 731, suponen que el manuscrito que sirvió de base para esta traducción fue otra copia parcial del cancionero provenzal M. Con esta traducción el humanista trabajó insistentemente, como revelan las notas esparcidas por Colocci en sus márgenes (estudiadas por CORRAL DÍAZ, FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. Lat. 4796 de Angelo Colocci cit., especialmente pp. 733-752) o el glosario provenzal-italiano, contenido en otro de sus manuscritos, el variado Vat. lat. 4817 (ff. 222r-269r), sobre el que puede consultarse el trabajo de M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, El vocabulario provenzal-italiano de Angelo Colocci, en Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e di Filologia Romanza (Cen-

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mas de Petrarca; la producción del vate italiano era bien conocida por Colocci: su padre había copiado un manuscrito con el Canzoniere petrarquesco (Vat. lat. 4787), que probablemente cotejó con otro volumen que recogía la obra del italiano y que pertenecía a algún miembro de la familia Mazzatosta19. 2. Replicare rimantes Las anotaciones coloccianas relativas a la rima del cancionero provenzal M fueron analizadas por Santorre Debenedetti20. Este estudioso no había tomado en consideración el apunte colocciano «in ultimi uersi fa nome et uerbo» (M, f. 139v: Rb Or, En aital rimeta prima – BdT 389,26 –)21, cuya integración en el repertorio de apostillas relacionadas con la rima parece del todo pertinente. En efecto, la explicación del humanista se ocupa de un asunto que, si bien no afecta particularmente a la rima, tiene que ver con los procedimientos repetitivos que se producen en el vértice del verso, y más concretamente con el conocido como

tro di studi filologici e linguistici siciliani, Università di Palermo, 18-24 settembre 1995), a cura di G. RUFFINO, Tübingen 1998, IV, pp. 339-350. 19 Cfr. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici cit., pp. 577-578. 20 Cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., pp. 184-185. 21 Los incipits de los textos provenzales se reproducen a partir de la Bibliographie der

Troubadours de A. PILLET — H. CARSTENS, New York 1968, reimpresión de la edición de Halle 1933, que se abreviará como BdT, obra a la que remiten también los códigos numéricos con que se identifican las composiciones. Los nombres de los trobadors son reproducidos de forma abreviada, tomando como referencia I. FRANK, Répertoire métrique de la poésie des troubadours, Paris 1966, 2 vols. Por su parte, los textos italianos, salvo indicaciones de otro tipo, se citan a partir de las Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (CLPIO), a cura di D’A. S. AVALLE, Milano — Napoli 1992, 2 vols. Los textos se reproducen en la forma en que aparecen en esta obra, de la que se toman también las abreviaturas empleadas para referirse a los autores. Por último, los textos gallego-portugueses se citan a partir de Lírica Profana Galego-Portuguesa. Corpus completo das cantigas medievais con estudio biográfico, análise retórica e bibliografía específica, coordinado por M. BREA, 2 vols., Santiago de Compostela 1999 (1a reimpresión); a esta obra (referida como LPGP) remiten los códigos numéricos con que se individualiza cada texto. Las abreviaturas utilizadas para identificar a los trovadores están tomadas de G. TAVANI, Repertorio metrico della lirica galego-portoghese, Roma 1967. Las apostillas coloccianas se presentan desarrollando en cursiva las abreviaturas y señalando entre corchetes [ ] las integraciones; de las lecturas dudosas (aunque la lección pueda ser clara en los mss.) se da cuenta con un signo de interrogación, la marca se reserva para los segmentos ilegibles y con / se constata el salto de línea en el texto de la anotación colocciana.

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rimas derivadas22, que se produce cuando las palabras situadas en posición de rima en los versos «entretiennent une relation lexicale en principe déterminée par une forme spéciale de polypteuton»23 (que afecta a todos los versos de la estrofa y no, como parece dar a entender la anotación, a los versos finales, a no ser que se entienda «in ultimi uersi» como ‘en la parte final de los versos’). Véase la cobla inicial: En aital rimeta prima M’agradon lieu mot e prim Bastit ses regl’e ses úliúnúhaù, Pos mos volers s’i apila; E atozat ai mon úliúnhù Lai on ai cor que m’ apil Per totz temps, e qi·n GRONDILHA No tem’auzir mon GRODILH.24

Integrar consideraciones sobre los rimantes en un estudio dedicado a la rima parece inevitable, y más todavía en una época como la medieval, ya que la selección de una serie de rimas por parte de un poeta llevaba pareja la elección de un material léxico25 que la retórica explotaba dando 22 Al mismo aspecto remite la nota que acompaña a Rb Or, Cars, dous e feinz del bederesc (BdT 389,22): «il primo verso con l’ultimo de la stanza» (M, f. 140v). Cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 184. Véase el texto en W. T. PATTISON (ed.), The Life and Works of the Troubadour Raimbaut d’Orange, Minneapolis 1979, nr. I. En el descriptus g1 (f. 88r), la apostilla fue, por error, reproducida junto al texto copiado precedentemente, Rb Or, Brais, chans, quils, critz (BdT 389, 20). 23 Cfr. D. BILLY, L’Architecture lyrique médiévale. Analyse métrique et modélisation des structures interstrophiques dans la poésie lyrique des troubadours et des trouvères, Montpellier 1989, pp. 280-281. Para este procedimiento en la poesía provenzal, cfr. Las Leys d’Amors: manuscrit de l’Académie des Jeux Floraux, publié par J. ANGLADE, New York — London 1971 (reimp. de l’ed. de Toulouse 1919-1920), t. II, pp. 112-114; FRANK, Répertoire métrique cit., II, pp. 61-62; BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., pp. 193-195 y pp. 213220; A. FERRARI, Rima derivativa e critica testuale: Grimoart Gausmar, Lanquan lo temps renovelha (BdT 190,1), en Cultura Neolatina 51/3-4 (1991), pp. 121-206. 24 Cfr. PATTISON (ed.), The Life and Works of the Troubadour Raimbaut d’Orange cit., nr. II.

25 Cfr. R. ANTONELLI, Tempo testuale e tempo rimico. Costruzione del testo e critica nella poesia rimata, en Critica del testo 1/1 (1998), pp. 177-201 (en versión francesa se incluye también, bajo el título Rimique et poésie, en Metriques du Moyen Age et de la Renaissance. Actes du colloque international du Centre d’Etudes Métriques (1996), textes édités et présentés par D. BILLY, postface de M. DOMINICY, Paris 1999, pp. 1-13). Cfr. también ID., Rimario scatagliniano, en La poesia di Franco Scataglini. Convegno di Studi (Ancona 3-4 dicembre 1998), a cura di M. RAFFAELLI e F. SCARABICCHI, Ancona 2000 (Quaderni del Centro di Studi Franco Scataglini), pp. 23-34.

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origen a figuras de la repetición altamente rentabilizadas. Que al humanista le resulte difícil estudiar la rima separadamente de los rimantes no es de extrañar, pues ambos ocupan un papel central en la composición del texto al originar estructuras particulares. Éste fue un aspecto tan destacado por Colocci en sus anotaciones que podría afirmarse que el iesino estudia la rima atendiendo fundamentalmente a su función estructurante, en tanto que la disposición de las rimas es decisiva a la hora de generar estructuras estróficas26. Que Colocci preste atención a la rima desde esta perspectiva concuerda, por otro lado, con la naturaleza de unas apostillas que dibujan a un humanista siempre atento a las peculiaridades estructurales de los textos copiados en sus cancioneros, como se tendrá ocasión de comprobar en este trabajo. Idéntica función estructurante percibe Colocci, como acaba de decirse, en ciertas disposiciones de los rimantes, de lo que se puede colegir que el humanista parece decantarse por un tratamiento conjunto de la rima y de los rimantes. En este sentido, resulta significativo que Colocci utilice el sustantivo rima para referirse no sólo a la identidad fónica final de dos o más versos27, sino también a las palabras situadas en la posición final del verso. En efecto, utilizando el término rima, Colocci podría estar haciendo referencia a los rimantes en anotaciones como las que siguen: «replicata rima» (M, f. 69r): Gl Adem, El temps d’estiu, quan par la flors el broill (BdT 167,58) «fol 28 platz rima replicata» (Vat. lat. 4817, f. 273v): Fq Mars, Us volers outracuidatz (BdT 155,27)

26 «La funzione strutturante della rima consiste nel fatto che la disposizione delle rime è uno degli elementi di maggiore rilievo nella costruzione di strutture strofiche. Le forme metriche strutturate si definiscono perciò indicando non solo la misura dei versi, e il modo in cui eventualmente varie misure si alterano, ma anche lo schema delle rime». Cfr. P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna 19942, p. 53. Sobre la importancia de la rima en la producción trovadoresca, véase BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit.; ID., L’arte delle connessioni nei trobadores, en D. BILLY, P. CANETTIERI, C. PULSONI, A. ROSSEL, La lirica galego-portoghese. Saggi di metrica e musica comparata, Roma 2003, pp. 11-111; E. FINAZZIAGRÒ, Rima, en Dicionário da Literatura Medieval Galega e Portuguesa cit., pp. 576-577. 27 Además de ésta, Colocci emplea para referirse a la técnica de la rima las palabras

consonantia, desinentia y concordantia. La utilización de sinónimos para aludir a la rima se detecta en algunos tratados de la época, como los de Antonio da Tempo, Dante o Trissino. Cfr. ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, ed. R. ANDREWS, Bologna 1977; M. GIL ESTEVE y M. ROVIRA SOLER (eds.), Dante Alighieri. De vulgari eloquentia. En torno a la lengua común, Madrid 1997; G. TRISSINO, La Poetica (1529), München 1969.

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«Replica le rime sempre non equiuoce» (Va, f. 131v): Lo fino presgio avanzato (CLPIO, V 129) «Rime replicate çaçsçeçmçpçioæ» (Va, f. 150r): GuAr, Ai dolze e gaia terra aretina (CLPIO, V 159)

Las anotaciones reproducidas en segundo y último lugar, si se entienden como unitarias (y no como dos comentarios distintos) son sumamente explícitas al respecto, pues Colocci señala en ellas el término iterado, platz y asempio respectivamente. La apostilla con la que se destaca la repetición de platz, aunque se localiza en el Vat. lat. 4817, remite a un texto copiado en el f. 28 del códice Vat. lat. 4796, lugar en el que la palabra platz se reitera en la referida composición de Folquet de Marselha. De modo análogo, en la canción italiana Ai dolze e gaia terra aretina, Guittone d’Arezzo introduce el vocablo asempro al final de dos de sus versos. Aunque las otras dos apostillas recogidas no indican el rimante al que afecta el proceso iterativo, es probable que deban interpretarse en la misma dirección. En la composición de Guilhem Ademar, a la que concierne la nota «replicata rima», las repeticiones son de tal clase que nos hallamos ante un texto con refrán. Sin embargo, la copia de la canción en M no habría permitido a Colocci percibir con claridad esta estructura: el copista omite los dos últimos versos de la segunda estrofa por ser idénticos a los de la primera (claro indicio de que constituían el estribillo), pero la omisión de la tercera cobla en el manuscrito no dejaba ver al humanista que el refrán variaba en cada pareja de estrofas28. Sin embargo, éste había observado que el sintagma douss’amia se iteraba en todas las coblas del texto (y, de hecho, subraya todas sus ocurrencias y anota «Dolce mia» en el margen superior derecho del f. 68v), pues constituía el verso inicial del refrán, el único que se mantenía inalterable en todas las estrofas (pues, como se ha dicho, los dos versos restantes del estribillo se modifican en cada par de coblas29). Sin embargo, la ubicación de la apostilla colocciana podría ser un indicio de que su objetivo era destacar la repetición de la que era objeto la palabra en rima del verso final de la última estrofa (junto al que Colocci escribe la nota), be-

28 Véase el texto en K. ALMQUIST (ed.), Poésies du troubadour Guilhem Adémar, Stock-

holm 1951, nº I. 29 El texto es incluido por Frank entre las escasas composiciones con refrán de la lírica provenzal, pese a no repetirse éste de forma idéntica en todas las estrofas. Como explica FRANK (Répertoire métrique cit., p. XXXVIII, nt. 1) en esta composición (a la que asigna el esquema 25: 3), «le refrain change, avec les rimes, toutes les deux strophes».

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nezia, que también aparecía en la estrofa anterior30. Esta interpretación se ofrece como más plausible, ya que la copia de la canción en M difícilmente habría permitido al humanista percibir las restantes iteraciones (Cfr. Apéndices I-II). Otro tanto podría decirse a propósito de la anotación que acompaña a la pieza Lo fino presgio avanzato, donde, de forma simétrica y sistemática, se iteran rimantes, incluso cuando la rima es interna. El comentario de Colocci se centra, asimismo, en el valor equívoco de algunas de las palabras repetidas31. Los equívocos son, en ciertos casos, contrafag, pues la homofonía resultaría de la fusión de palabras diferentes32: I Lo fino presgio avanzato che, alo meo core, s’ arrea! A ciò, come sarrea? Ell’ à, ongne úvúaúloúre, inver’ me, co[m]provato! Perfino amore sarrea? Che, a dire (a! nno!), s’ arrea tuto quanto úvúaúloúre! Per ch’ eo non voria DIRE, perché mi· ’ncrescie DIRE, ch’ e’ nom posso el meo core , dimostrare , la mia vita. acioché, c’ ò, ·m II Finare mi· convene, ch’ Amore m’ à messo a tale

che non dicie mai: «Tal, e’», anzi mi·fa úoúrúgúoúlúgúliúaúnúzaù; c’ omo che pingie bene, colora viso tale che lli· convene ma·; tale è soferire úoúrúgúoúlúglúiaúnúzaù: per che a me CONVENE sofrire ciò CON’ VENE, ma eo volglio sofrire , tuto lo mio lunga per ch’ eo nonn- ò [stasgione.

III La sua bieltà piangiente e ’l fino amore ch’ è puro inver’ me che sono puro,

30 Así lo señala DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 184. El mismo valor puede darse a la apostilla «replica» (M, f. 112r: Rm Mirav, Bel m’es qu’eu chant e coindei – BdT 406,12 –): situada junto al último verso de la composición, la nota se refiere a la repetición de la palabra perdut en el verso final de las dos últimas coblas, como apunta DEBENEDETTI, Ibid. Cfr. también la nota «supra un’altra di questa replicatione» (M, f. 78v: Gc Faid, Tant sui ferms e fis vas amor – BdT 167,68 –), cuyo significado no alcanzamos a comprender, pese a que Debenedetti señale que «congiunge con una trattina la parola-rima della stanza con quella della seguente». 31 Para este procedimiento en la lírica italiana, cfr., sobre todo, R. ANTONELLI, Rima equivoca e tradizione rimica nella poesia di Giacomo da Lentini, en Bolletino del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani 13 (1977), pp. 1-107. Cfr. también BELTRAMI, La metrica italiana cit., pp. 190-192. 32 Cfr. BELTRAMI, La metrica italiana cit., p. 192: «l’equivocazione è ottenuta sommando

parole distinte, con alterazione d’accento (casi particolari di rima composta) o senza (casi particolari di rima ricca)».

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i[n] llei tut’ à úpúiúaúgúiúeúnzaù; rengn’ a presgio valente e ’l valore che nom pur’ ò dire sì alt’ o puro, tanto àve úpúiúaúgúiúeúnúzaù; già per chui lo meo CORE altiscie in ta· loCORE, che si· raluma como , salamandra im foco lo meo core. ché ’n ongne parte IV D’ inamorosa partte mi· viene volere, ch’ è sole, che inver’ me più s’ ole che nom fa la úpúaúnútúeúra, ched usa in una partte [ke] lavantiscie sole: ché di più-c’-olore s’ ole suo viso, ch’ è úpúaúnútúeúra. A[n]che in vo’i’ SPERO

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mercié che non diSPERO, perché ’n voi è pietade, , fin presgio, buono o meo core per ch’ è a voi [pare. V Radobla canoscienza chi ’n voi tutora mira ché chiunque a voi mira nonn- à úcúoúnúsúiúdúeúrúaúnúza; m’ avete bene sacienza che chi voi serve e mira, nom pò fallire, se mira vostra úcúoúmúsúiúdúeúrúaúnúzaù: per ch’ eo nonn- avrò FALLO, perch’ eo dimori im FFALLO, ch’ è già lunga speranza . in voi d’ amare ch’ eo , altro in ch’ e’ non credo, s’ eo v’ [voi venire.

Todas las anotaciones recogidas inciden, como se ve, en repeticiones de palabras ubicadas en la posición final del verso, aspecto referido bajo el término replicare33. Precisamente, en el cancionero gallego-portugués B Colocci anota algunas iteraciones que, realizadas simétrica y sistemáticamente, se engloban dentro de las técnicas de la palavra-rima y del dobre34, procedimientos que llamaron particularmente la atención del erudito italiano cuando el que los generaba era el sustantivo senhor, como revelan algunas de esas notas: 33 Para el valor del vocablo en la obra de Dante, cfr. L. ONDER, Replicare, y F. TATEO, Replicazione, en Enciclopedia Dantesca [1973], dir. U. BOSCO, Roma 19842, IV, p. 889. 34 Para el funcionamiento de estas técnicas repetitivas en la lírica gallego-portuguesa, cfr., entre otros, C. FERREIRA DA CUNHA, O dobre e o seu emprego nas cantigas de Paay Gomez Charinho, en ID., Estudos de Poética Trovadoresca. Versificação e ecdótica, Rio de Janeiro 1961, pp. 201-219; A. FERRARI, Parola-rima, en O Cantar dos Trobadores. Actas do Congreso celebrado en Santiago de Compostela entre os días 26 e 29 de abril de 1993, coord. por M. BREA, Santiago de Compostela 1993, pp. 121-136; P. LORENZO GRADÍN, Repetitio trobadorica, en Estudios galegos en homenaxe ó Profesor Giuseppe Tavani, coord. por E. FIDALGO y P. LORENZO GRADÍN, Santiago de Compostela 1994, pp. 79-106; EAD., El dobre gallego-portugués o la estética de la simetría, en Vox Romanica 56 (1997), pp. 212-241. Sobre las notas coloccianas del cancionero gallego-portugués B relativas a estos aspectos, cfr. G. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y los procedimientos repetitivos en el Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Cod. 10991), en Revista de Poética Medieval 7 (2001), pp. 53-96.

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PALAVRA-RIMA35 «Sel dissi et l’ultima parola del primo verso replica» (B 96, f. 25v): VaFdzSend, Como vos sodes, mia senhor (LPGP 151,2)36 «Ad due et replica le parole» (B 109, f. 28r): JSrzSom, Muitas vezes en meu cuidar (LPGP 78,10)37 «Sel diss[i] et replica la parola signore» (B 126, f. 32r): JSrzSom, Con vosso medo, mia senhor (LPGP 78,5) «Ad .2. replic[a] con epod[o]» (B 131, f. 32v): NunEaCer, Quer’ eu agora ja dizer (LPGP 104,5) «Replica signore per tutto · epod[o]» (B 162, f. 41v): MartSrz, En tal poder, fremosa mha senhor (LPGP 97,6)38

DOBRE «Replica le parole» (B 133, f. 33r): NunEaCer, Senhor ¿e assi ei eu a morrer? (LPGP 104,6) «La parola prima con l’ultima in ogni stanza non equ[iv]oca» (B 198, f. 51r): PGarBu, Sennor fremosa, pois vus vi (LPGP 125,50)

Todas estas apostillas dan cuenta del proceso iterativo a través, una vez más, del término replicare, si bien el vocablo rima (empleado por Colocci en los comentarios anteriormente analizados) es sustituido aquí por parola39, lo que constituye un claro indicio de que en los contextos analizados ambos términos eran equivalentes para el humanista. 35 Cfr. también la apostilla «due stanze in fine» (B 89, f. 23v), con la que se comenta VaFdzSend, A Deus grad’ oje, mha senhor (LPGP 151,1). Colocci parece estar tomando sólo en consideración la aparición de «mia senhor» en posición de rima en el verso final de las dos últimas estrofas de la composición, cuyo carácter circular lo genera, en realidad, el complejo empleo de las palabras en rima en los versos inicial y final de cada una de las cobras. Cfr. C. MICHAËLIS DE VASCONCELOS (ed.), Cancioneiro da Ajuda, Lisboa 1990 (reimp. de la ed. de Halle, 1904), I, p. 732. 36 La técnica repetitiva es localizada por Colocci también en la cantiga copiada a continuación en el cancionero (Vos que mi-assi cuitades, mia senhor – LPGP 151,29 –) y la constata con una nota de remisión al texto reproducido precedentemente (B 96): «Sel dissi simil[e] ut supra» (B 97, f. 25v). 37 Conforme a la renovación rimática que se opera en el tipo estrófico de las coblas doblas, la palavra-rima varía en cada par de estrofas. Para este particular remitimos a nuestro trabajo, Tipoloxía da palavra-rima galego-portuguesa, en Iberia cantat. Estudios sobre poesía hispánica medieval, edición a cargo de J. CASAS RIGALL y E. M. DÍAZ MARTÍNEZ, Santiago de Compostela 2002, pp. 93-108. 38 La ausencia de palavra-rima en el siguiente texto del manuscrito (Mal consselhado que fui, mha senhor – LPGP 97,14 –) provoca la apostilla «Simile ma non replica» (B 163, f. 41v). 39 Replicare aparece también acompañado de parola en la apostilla «replica tre parole all’ultimo / et lo principio della sequente / stanza et accordan addue addue» (M, f. 158r: PBlai, En est so fatz chansoneta novela – BdT 328,1 –). En el texto los juegos repetitivos se

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2.1. Artificiosa Consciente del innegable provecho estético y funcional que proporcionan tales iteraciones de rimantes, Colocci valora como artificiosas algunas de las composiciones del cancionero italiano Va en las que se introducen repeticiones como las comentadas. Si bien hay piezas para las que resulta difícil determinar el alcance de la apostilla artificiosa, la realidad de los textos confirma que en ocasiones Colocci utilizaba dicho término para constatar en ciertos poemas figuras de la repetición, aún cuando éstas no se focalicen exclusivamente en los rimantes. Sirva de ejemplo el soneto Alta del’ alteze più altera (CLPIO, V 933), al que el humanista refiere el comentario «Artif[iciosa]. in gioco» (Va, f. 428v), con el fin probable de destacar el empleo de figuras de dicción que pertenecen al ámbito de la annominatio: Alta del’ alteze più altera, cortese di cortese cortesia plagiente di plagiere contata di conteze se ’contia; chiara di chiareze tutora clara, valente c’ al valore dài valentia, Amore di te, amor, si· ’namorera, vedendo lo vedere che ’n te vedia Vegio vedendo lo sommo vedere, diletando diletto in diletanza, con compituo compire compimento agio avuto, avendo no-avere, e tengno non-tenere in mia tenenza per acolglienza d’acolto acolglimento.

Sin embargo, otras ocurrencias de la glosa artificiosa revelan que con ésta Colocci pretendía destacar la estructura generada por la repetición de aquellos términos que, situados en el remate de los versos (incluso

multiplican; además de la técnica de las rimas derivadas, el trovador pone en práctica diversas modalidades de anadiplosis: a la que enlaza un verso con el siguiente a través del procedimiento tipificado en los tratados poéticos como coblas capfinidas per bordos, hay que añadir la que, mediante la repetición de los rimantes (deporta, conorta, atenda, dezira, uira, albira), une el verso final de una estrofa con el inicial de la siguiente. Es muy probable que la apostilla se refiera concretamente al último de los mecanismos referidos, según se desprende de la sintaxis de la misma. Para este texto, cfr. BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., p. 194 y G. TAVANI, «Capfinida per bordos». Peire de Blai e la sua «chansoneta novelha» (BdT 328,1), en Critica del testo II/2 (1999), pp. 555-564.

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cuando la rima es interna), tienen valor equívoco40. Sabedor de las estrechas relaciones que existen entre la elaboración formal de un texto y el empleo de rimantes homónimos, Colocci incide en la importancia de ambos factores en la lírica italiana de los orígenes. No en vano el humanista constata los dos aspectos, con las indicaciones artificiosa y equiuoci, para algunas de las composiciones reproducidas en el cancionero Va: «artificio[sa] eq[ui]uoc[i]» (Va, f. 178r): Finf, Se longh’uso mi·mena (CLPIO, V 192) «artific[iosa] eq[ui]uoci» (Va, f. 179r): Finf, Vostro amoroso dire (CLPIO, V 193)41 «Artifici[osa] eq[ui]uoci» (Va, f. 279r): MoAn, Aimè lasso!, perché a figura d’omo (CLPIO, V 289) «artifi[ciosa] equiuoci acorda in mezo in principio» (Va, f. 345r): Rinu, Fonte c’ asenni, il mare di senno fò ’n te (CLPIO, V 509)

El texto de Maestro Rinucino es también comentado por Colocci en el códice Vat. lat. 3793 (V), si bien el humanista se limita a constatar que el soneto es artificioso. Este dato podría estar confirmando que bajo este término se englobaban, además de otros procedimientos repetitivos, aquellos basados en la homonimia de las palabras situadas en el vértice del verso. Así pues, en la mente de Colocci el carácter artificioso es inherente a todos aquellos textos en los que se incluyen rimantes equívocos. De este modo, la nota equiuoci permitiría obviar otros tipos de observaciones, pero no al revés, pues, como se ha visto, la artificiosidad de una pieza puede residir en otro tipo de juegos repetitivos. Lo confirma el hecho de que un buen número de textos de los cancioneros italianos (especialmente de Va) anotados por Colocci simplemente como equiuoci posea las mismas características formales que otros a los que el humanista dedica la apostilla artificioso.

40 Éste es el sentido que BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 152, ofrece también para

la apostilla «Inretiti 98» (V, f. 180 r). En opinión de este estudioso, la nota apunta al soneto Amor s’à il meo volere miso disovra (CLPIO, V 305b) de Panuccio del Bagno, copiado en el f. 98v del cancionero italiano V; la anotación daría cuenta de la peculiar organización del texto, que «il copista trascrisse incrociando e intrecciando le rime al mezzo equivoche (sovra / s’ovra e s’ovro / sovro) mediante l’artificio grafico di collocare al centro di due versi contigui la parola in comune, e di collegare ciascun verso ad essa, a sinistra e a destra, con trattini di penna» (p. 152). Para otras lecturas e interpretaciones de la anotación, cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 186. 41 Tanto este texto como el precedente aparecen apostillados también en el margen

inferior con una nota, «eq[ui]uoci supra et infra», con la que se da cuenta de la presencia de equívocos en otros lugares del cancionero.

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La atención prestada (sobre todo, para la lírica italiana de los orígenes) por Colocci a las estructuras generadas por las repeticiones de términos homónimos (especialmente situados en posición de rima) podría derivar, en opinión de Debenedetti42, de un conocimiento del tratado de Antonio da Tempo, que dedica a esa técnica una parte de su exposición43. La familiaridad de Colocci con esta obra (de la que poseía, entre los ff. 1r-15v del Vat. lat. 3436, una copia, subrayada y anotada por él44) podría explicar, asimismo, el empleo del término tornello (de uso mayoritario en el cancionero gallego-portugués B para individualizar el verso o grupo de versos que se repiten en todas las estrofas en la misma posición, es decir, el refrán o estribillo) para remitir a la estrofa que concluía un texto poético45. El término (tornello) es empleado, por ejemplo, para algunas piezas del cancionero italiano Va, en el que se localiza ya junto al trazo demarcativo de los dos últimos versos de la composición que se copia en el f. 1v, o para la pieza Poi sò ch’io fallo per troppo volere (CLPIO, V 599), que Colocci acompaña de la nota «4 septenarii infra 382 / lo chiama ritornello. / infra hic bis» (f. 365v)46. En el cancionero gallego-portugués el término se encuentra con el mismo valor en la apostilla «Sel dissi con tornelli dui» (B 159, f. 40v)47, referida a la cantiga de 42 Cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., pp. 179-180. 43 Cfr. ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis cit., §§ LXV-LXVI, pp. 87-90. 44 Dado que no ha podido consultarse el manuscrito referido, el dato se ha tomado de

AVESANI, Appunti del Colocci cit., p. 117, nt. 23. Cfr. también DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 182, nt. 2. 45 En el tratado de Antonio da Tempo, retornellus «designa qualche aggiunta alla struttura essenziale di un componimento» (cfr. ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis cit., p. 128). Con todo, el uso de tornello en el sentido apuntado era frecuente en otros tratados de la época, como recuerda V. BERTOLUCCI, Le postille metriche di Angelo Colocci ai canzonieri portoghesi, en Annali del’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza 8/1 (1966), pp. 1330 (concretamente, pp. 20-25). 46 Con la apostilla se remite a la composición copiada en el f. 382r bajo el incipit Daché savete, amico, indivinare (CLPIO, V 678): la pieza – en la que aparece, en efecto, el substantivo ritornello en el segmento del poema individualizado – aparece acompañada de la acotación «çTçoçrçnçeçlloæ supra / 365. 366» y sus dos versos finales aparecen marcados con un trazo en el margen derecho y acompañados de la anotación Tornello. La nota referida se dirige también a In ongni cosa vuole senno e misura (CLPIO, V 600) que, copiada en el mismo folio que V 599, aparece acompañada también de la nota de remisión «4 septenarij supra infra». 47 Cfr. también la apostilla que caracteriza a PGarBu, Ora vej’ eu que fiz mui gran folia (LPGP 125,32): «Simile et simul materia senza tornel[lo]» (B [213], f. 58v). Colocci refleja con la nota la semejanza de la referida composición con la copiada anteriormente, es decir, PGarBu, Joana, dix’ eu, [S]ancha e [M]aria (LPGP 125,17), que el humanista había comentado, entre otras, con la indicación «Sel dis[si]· Congedo» (B 212, f. 58r). Las diferencias entre ambas vienen determinadas por la ausencia de fiinda en B 213; téngase en cuenta,

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mestría Quando me nembra de vos (LPGP 97,38): el análisis de la pieza revela que, además, Colocci empleaba el vocablo epodo para referirse a ese mismo segmento del texto, ya que individualiza cada una de las dos fiindas como «epodo», como revelan las notas escritas por el humanista a la izquierda de cada fiinda. Que para Colocci epodo equivale a congedo viene confirmado claramente por la anotación de la que es objeto la cantiga MartSrz, Ay Paay Soarez, venho-vos rogar (LPGP 97,2): Colocci señala que se organiza «alle .2 et epod[o]» (B 144, f. 36r), en clara referencia a la disposición en coblas doblas y a la existencia de una fiinda, que Colocci delimita con un trazo vertical y para la que reserva el término congedo, como prueba la nota que la acompaña: «Congedo et ripiglia / li .3. ultimi della / stanza» (B 144, f. 36v). El empleo de este término (epodo) para referirse a la fiinda deriva del conocimiento de la poesía clásica, en la que aquél conformaba una estructura que estaba integrada también por la strofa y la antistrofa, y designaba el «periodo musicale conclusivo»48. El humanista percibe semejanzas entre esa estructura (vinculada a las odas de Píndaro) y ciertos textos italianos, como se desprende de algunos comentarios del Vat. lat. 4817 (cfr., por ejemplo, f. 42r). Tampoco deja Colocci de constatar la presencia de estructuras análogas en el códice lisboeta B, donde se aplica a aquellas cantigas que están consituidas por tres estrofas, de las que las dos primeras coinciden rimáticamente, frente a una tercera que varía el rimario49; esta circunstancia podría explicar el uso de Colocci del término epodo para referise a esa última cobra, ya que el epodo se caracterizaba por tener «una struttura propria e diversa»50 de las otras dos partes. Véanse las siguientes apostillas del códice gallego-portugués: «Le due con le due acord[ano] quasi çsçtçrçoçpçhçeç çeçtç çaçnçtçiçsçtçrçoçpçheæ» (B 92, f. 24v): VaFdzSend, Senhor fremosa, par Deus, gran razon (LPGP 151,25) «Strophe due et congedo. La 2a per antistrophe» (B 146, f. 37v): PaySrzTav, Entend’ eu ben, senhor, que faz mal sen (LPGP 115,6) además, que tornel[lo] no puede apuntar al refrán, pues la cantiga lo posee, por lo que la indicación «senza tornel[lo]» deberá ser interpretada en la otra dirección. 48 Cfr. A. PEROSA, Strofe, antistrofe ed epodo, en Annali della R. Scuola Normale Superio-

re di Pisa. Lettere, storia e filosofia II s., 3 (1934), pp. 136-154, p. 148. Cfr. también BELTRAMI, La metrica italiana cit., p. 310; G. LAVEZZI, Manuale di metrica italiana, Roma 1996, pp. 201204; A. M. RIBEIRO REBELO, Epodo, en Biblos. Enciclopédia Verbo das Literaturas de Língua Portuguesa, Lisboa 1997, II, pp. 339-342. 49 Cfr. A. CORREIA, O sistema das coblas doblas na lírica galego-portuguesa, en Medioevo

y Literatura. Actas del V Congreso de la Asociación Hispánica de Literatura Medieval (Granada, 27 septiembre — 1 octubre 1993), edición de J. PAREDES, Granada 1995, II, pp. 75-90. 50 Cfr. LAVEZZI, Manuale di metrica cit., p. 201.

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«due consone et uno epodo» (B 197, f. 50v): PGarBu, Pola verdade que digo, senhor (LPGP 125,36) «due conforme una non» (B 203, f. 56v): PGarBu, Ay eu! que mal dia naçi (LPGP 125,4)51 «due simile et una no[n]» (B 211, f. 58r): PGarBu, Que muit’ á ja que a terra non vi (LPGP 125,41) «due prime et congedo» (B 233, f. 62v): FerGarEsg, Sennor fremosa, quant’ eu cofondi (LPGP 43,17) «Stroph[e] ·ant[istrophe] · cong[edo]» (B 235, f. 62v): FerGarEsg, Quan muit’ eu am’ua moller (LPGP 43,12) «ad .2. et epod[o]» (B 1061, f. 225r): PVeer, Non sey eu tenpo quand’ eu nulha ren (LPGP 123,7)52

Por lo tanto, ambos términos (tornello, epodo) tendrían un valor próximo a congedo, sustantivo con el que Colocci se refiere mayoritariamente a la porción final del texto. En efecto, Colocci hace hincapié con frecuencia en la existencia de conexión rimática de la fiinda con el refrán o la estrofa final, según sea la tipología del texto, como se comenta desde la introductoria Poética: E se for a cantiga de mestria, debe a finda rimar com a prestumeira cobra; e se for de refram, debe de rimar com o refram (IV, 4)53.

Con todo, aunque la mayor de las apostillas sobre este asunto inciden en la correspondencia rimática del remate con el estribillo o la estrofa, no deja de anotar la falta de observancia de tal precepto54, como se observa en las siguientes apostillas, en las que el iesino advierte de que, pese a ser cantigas de refrán, la fiinda no reproduce las rimas del estribillo:

51 El apunte colocciano es correcto si se tiene en cuenta que en B sólo se transmitieron las tres primeras estrofas de la pieza, que consta, en realidad, de una estrofa más, como revela el cotejo con el Cancioneiro da Ajuda (A 96). 52 El empleo de la apostilla «ad 2. et congedo» para referirse a esta misma estructura es

una prueba inequívoca de que congedo y epodo eran intercambiables en ciertos contextos. 53 Cfr. G. TAVANI (ed.), Arte de Trovar do Cancioneiro da Biblioteca Nacional de Lisboa. Introdução, edição crítica e fac-símile, Lisboa 1999, pp. 48-49. 54 Para el comportamiento de las rimas en las fiindas, cfr. C. FERREIRA DA CUNHA, As

fiindas das cantigas de Paay Gomez Charinho, en ID., Estudos de Poética Trovadoresca cit., pp. 221-233; J. M. D’HEUR, Recherches internes sur la lyrique amoureuse des troubadours galiciens-portugais (XIIe-XIVe siècles). Contribution a l’étude du «Corpus des troubadours», s.l. 1975, pp. 217-230 (sobre todo, pp. 223-230).

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«tornel[lo] conged[o] .spic[ato]. da la stanza» (B 317, f. 70 r): JSrzCoe, Non me soub’ eu dos meus olhos melhor (LPGP 79,38) «tornel[lo] et conged[o] non spic[ato]» (B 323, f. 75v): JSrzCoe, Senhor e lume d’ estes olhos meus (LPGP 79,48) «tornel[lo] non spic[a] (?) el conged[o]» (B 353, f. 81 r): JLpzUlh, Quand’ og’ eu vi per u podia ir (LPGP 72,14)

Pero la atención prestada por Colocci a la rima de los versos conclusivos de las cantigas lo lleva otras veces a indicar con exactitud la procedencia del rimario de la fiinda, particularmente en aquellos casos en que la composición es de mestría y la fiinda no reproduce las rimas finales de la cobla precedente, como explica a propósito de la cantiga Juro-vus eu, fremosa mia senhor (LPGP 72,9), para la que Colocci apostilla «conged[o] parte spic[ato] da cim[a] parte in fondo» (B 355, f. 81v), en clara referencia a que las rimas de la fiinda coinciden con las de los versos inicial y final de las estrofas. Al particular había consagrado ya una anotación en el manuscrito provenzal M al comentar la cantiga Atressi cum la candela (BdT 355,5) de Peire Raimon de Tolosa: «lo primo verso et ultimo del congedo / accorda col primo de la prima stanza et / con l’ ultimo de la prima»55. 3. Replicare rimas Como se acaba de ver en el apartado anterior, Colocci podría estar utilizando en ocasiones el vocablo rima para referirse a los elementos gramaticales ubicados al final del verso y, en este sentido, rima podría considerarse sinónimo del sustantivo parola en rima: el empleo de ambos términos junto al verbo replicare parece confirmarlo, ya que tanto en uno como en otro caso la realidad textual muestra que el humanista incide en procedimientos retóricos de marcado valor estructural. El único ejemplo localizado en el que el término replicare no apunta a la iteración de rimantes lo constituye la nota «il penultimo non accorda et replica le rime» (Va, f. 123r), destinada a comentar la canción Nom pemssai che distretto (CLPIO, V 117). Con la primera parte de la glosa («il penultimo 55 Cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 184. Determinar el alcance de la nota

no es tarea fácil y podría pensarse en un error del humanista: si bien es verdad que la rima del primer verso de la tornada (-ela) se corresponde con la del verso que abre la estrofa inicial, no lo es que la rima del último verso de la estrofa de cierre (que también es -ela) coincida con la rima final de esa misma cobla, pues es -atge. La única estrofa que presenta -ela como última rima es la sexta. Para la organización del rimario de esta canción cfr. BILLY, L’Architecture lyrique cit., pp. 154-155.

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non accorda»), Colocci está destacando, sin duda, que el penúltimo verso del texto no posee un correspondiente rimático en la estrofa y constituye, por lo tanto, una muestra de una de las acepciones de lo que la tratadística provenzal identificaba como rims espars56. A este mismo aspecto remiten otras apostillas del mismo cancionero. En efecto, el humanista constata la ausencia de rima (probablemente por la importancia estructural que posee el procedimiento57) para las siguientes composiciones: «l’ultimo uerso con chi consona» (Va, f. 36v): ToSa, D’ amoroso paese (CLPIO, V 21) «non accorda l’ ultimo ne il .4. auanti a l’ultimo» (Va, f. 103v): Lasso!, c’ assai potrei chiedere Merzede (CLPIO, V 95) «l’ultimo uerso non accorda» (Va, f. 98r): Neri, Oi fortte inamoranza (CLPIO, V 90) «non ha consonanza» (Va, f. 212r): ChDa, Quando lo mare tempesta (CLPIO, V 225)58 «lo penultimo / verso non accorda» (Va, f. 287v): PoZo, La gran nobilitate (CLPIO, V 297) «non accorda» (Va, f. 287v): PoZo, La gran nobilitate (CLPIO, V 297)59

Frente a lo que sucede en algunos de estos textos (en los que la ausencia de rima no afecta sólo a la estrofa a la que Colocci refiere la apostilla, sino que se extiende al mismo verso de las restantes estrofas, presentando el verso carente de rima terminaciones diferentes en cada estrofa), en la canción Nom pemssai che distretto el verso desprovisto de correlato en la estrofa rima, en cambio, interestróficamente, pues la rima -are aparece en las tres primeras estrofas de la canción en el verso mencionado; es, sin duda, a este particular, próximo al de las rims dissolutz provenzales, al que Colocci se refiere con la indicación «replica le rime». El mismo fenómeno, es localizado por Colocci en el texto Verdi 56 Para este procedimiento y su tipología (rims espars, estramps y dissolutz), cfr., sobre todo, BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., pp. 96-97. 57 Al lado del verso «ma, sse la gioia ch’ io pemsso» del texto Al core tanta alegreza

(CLPIO, V 70) Colocci escribe la apostilla «con chi consona», al notar la ausencia de rima del mismo en el conjunto de la estrofa, si bien en las restantes el verso en cuestión rima con otros. 58 La nota se ubica junto al último verso (y no al lado del nombre del autor como en los casos anteriores), por lo que debe referirse a la ausencia de rima de ese verso, artificio que se produce en las restantes estrofas de la canción. 59 La anotación está junto al v. 9 de la segunda estrofa, pero la ausencia de rima de ese verso afecta a todas las estrofas de la canción.

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panni, sanguini, oscuri o persi, para el que, en el Vat. lat. 4817 (f. 41r), bajo el epígrafe Ars, analizando las medidas de sus versos, hace el siguiente comentario60 (Cfr. Apéndice III):

35 7 6.

In quella verdi panni Sanguigni Son tutti uersi con le sue rime Rimati Saluo l’octasyllab[o] . videlicet sibella rubella · Sapella (sic) Trisyllabo . Seco mi tira . ogni delira . pentasyllabo . non uesti donna un quanco. Septesylla[bo] · fal veder lei soaue. bel passo ond’io uegnio · septe sei syllab[e]. laqual piombo · o legnio l’alma et ella e degnio

En efecto, el iesino no deja de observar que Petrarca construye un poema en el que todos los versos carecen de rima intraestrófica, pero no interestrófica (de ahí que señale que todos los versos son «con le sue rime Rimati»), y que este procedimiento se detecta incluso cuando hay rima interna61. Véanse las dos primeras estrofas de la composición petrarquesca para una mejor comprensión de cuanto se ha expuesto: I

II

Verdi panni, sanguigni, oscuri o púeúrúsiù non vestì donna unquancho né d’òr capelli in bionda treccia attorse, com’ è questa che mi spoglia sì bella d’arbitrio, et dal camin de libertade sí ch’io non sostegno seco mi tira, alcun giogo men grave.

Et se pur s’arma talor a dolúeúrúsiù l’anima a cui vien mancho consiglio, ove ’l martir l’adduce in forse, lei da la sfrenata voglia rappella sùbita vista, ché del cor mi rade impresa, et ogni sdegno ogni delira fa ’l veder lei soave.62

60 Se ha recogido tan sólo el segmento que interesa para el aspecto que se está analizando. Asimismo, se ha reproducido tal cual aparece en el manuscrito, pues a la izquierda de la nota el humanista escribe unos números que se corresponden con las medidas de los versos que ha ido comentando a la derecha. Las dos últimas líneas de la apostilla están unidas con un trazo vertical. 61 El fenómeno es registrado por Colocci en el cancionero italiano Va bajo la indicación «acorda in mezo» para numerosas composiciones. Los únicos textos de otras tradiciones en los que el humanista detecta el fenómeno pertenecen a la lírica occitana: se trata de dos canciones de Gr Born (BdT 242,1 y 242,47) que fueron anotadas en el folio inicial del cancionero gallego-portugués B, en el que, como ha demostrado FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 54-62, el humanista, después de haber anotado M, escribió una serie de apuntes que remiten a este cancionero. 62 El texto se reproduce a partir de F. PETRARCA, Canzoniere, a cura di M. SANTAGATA, Milano 1996, nr. 29.

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3.1. Sel dissi La repetitio de rimas es comentada por Colocci tanto cuando es objeto de una aplicación local, como cuando se extiende a la totalidad del texto. Al primero de los aspectos referidos remite la apostilla «ogni stanza finisce in simul consonanza» (Va, f. 122r): la nota apunta la introducción de una rima fija en un contexto en el que (aunque rimas de una estrofa puedan reaparecer en otras de acuerdo con el principio de las rims tornatz) las rimas se renuevan en cada estrofa de la canción Tutto lo monddo vive sanza guerra (CLPIO, V 116); el rimema f de la fórmula rimática – abcabcdedef – se realiza en todas las estrofas de la canción a través de la rima -ori63. Pero otras veces el humanista incide con sus comentarios en tipos estróficos que vienen determinados por la aplicación total de las repeticiones de rimas. Concretamente, la clase de las coblas unissonans (caracterizada, como se recordará, por la reproducción del mismo rimario en idéntico orden en todas las estrofas64) es señalada para ciertas composiciones del cancionero italiano Va: «Di noue syllabe et ogni stanza ha le medesime rime» (Va, f. 32r): JaLe, La ’namoranza disiosa (CLPIO, V 6) «ogni stanza ha lle medesime rime» (Va, f. 32v): JaLe, Ben m’ è venuto, prima, al core dolglienza (CLPIO, V 7)

63 Fines semejantes tienen otras notas del humanista, con las que hace hincapié en la aplicación local de las técnicas de la alternantia (cfr. BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., p. 101). A este aspecto remiten las siguientes apostillas del cancionero provenzal M: «L’ultimi versi delle stanze accorda[no] alternis ut supra» (M, f. 115r): Rm Mirav, Cel cui jois taing ni chantar sap (BdT 406,18) (cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali, p. 184) «nelli ultimi uersi delle stanze le consonantie s’accor/dano interponendo alternis le stanze a.b.c» (M, f. 174v): Peirol, Be dei chantar, pos amors m’o enseigna (BdT 366,3) (cfr. Ibid.). En ambas piezas, en efecto, el rimema emplazado en el último verso se realiza a través de una rima en las coblas impares (-il en el texto de Rm Mirav y -endre en el de Peirol) y a través de otra en las pares (-ap en el primero, -eigna en el segundo). Ambas rimas aparecen también en el verso inicial de las estrofas (aunque no de forma alternativa, sino consecutiva), ya que tanto Raimon de Miravall como Peirol emplean el mecanismo de las coblas capcaudadas. Véanse los textos en las ediciones correspondientes: L. T. TOPSFIELD (ed.), Les poésies du troubadour Raimon de Miraval, Paris 1971, nr. XXVIII; S. C. ASTON (ed.), Peirol, troubadour of Auvergne, Cambridge 1953, nr. II. 64 «Unissonans es dicha [una cobla] en respieg de las autras cobblas d’u meteys dictat,

per so quar totas son d’u semblan amb aquela en compas de bordos e d’acordansas» (Cfr. ANGLADE (ed.), Leys d’ Amors cit., t. II, p. 137).

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«65 le rime in ogni stanza» (Va, f. 77v): In alta donna ò misa mia intendanza (CLPIO, V 64)

No deja de resultar curioso que Colocci caracterice estos mismos textos en el incipitario de las canciones de Va66 con la observación Sel dissi (Cfr. Apéndices IV-V): «La namoranza disiosa · çnçoçuçeç çsyçlçlabe · et ogni / stanza ha le medesime rime · Come · sel dissi / ha syrma 32» (Vat. lat. 3217, f. 308v): JaLe, La ’namoranza disiosa (CLPIO, V 6) «Ben mè uenuto · pes · syrma · come sel dissi 32» (Vat. lat. 3217, f. 308v): JaLe, Ben m’ è venuto, prima, al core dolglienza (CLPIO, V 7) «In alta donna ho misa · come · çsçeçlç çdçiçssiæ · pie · syr[ma] 77» (Vat. lat. 3217, f. 309v): In alta donna ò misa mia intendanza (CLPIO, V 64)

Esa indicación, una de las más recurrentes del humanista (particularmente en el cancionero gallego-portugués B), debía funcionar como reclamo con el que se remitía a la canción de Petrarca S’i ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella67. Cabría la opción de que, al menos para los textos italianos referidos, los apuntes del incipitario pudiesen interpretarse en otra dirección: ¿podría estar destacando Colocci que las tres canciones mencionadas poseen una organización de las estrofas semejante a la del escondit de Petrarca y que, como éste, aquéllas también tienen sirma? Aunque ésta sería una posibilidad, otras apostillas de Colocci revelan que, cuando éste escribía Sel dissi, estaba llamando la atención sobre el tipo estrófico de las coblas unissonans, como señaló también Valeria Bertolucci. En apoyo de esta interpretación, la estudiosa italiana había destacado ya la importancia de dos anotaciones coloccianas en B. Por un lado, en el f. 39r el humanista comenta la cantiga B 153, Qual senhor devi’ a filhar (LPGP 97,36), de Martin Soarez, con la glosa «quasi simil[e] ma uaria»; con ella deja constancia de la afinidad de la mencionada pieza con la que la precede en el cancionero, B 152 (Ay, mha senhor, se eu non merecess[e], LPGP 97,1), a la que el iesino consagra la nota «Sel 65 La parte inicial de la apostilla es de difícil interpretación. 66 Autógrafo de Colocci, este índice se incluye en el códice Vat. lat. 3217 (ff. 308r-314r)

bajo el epígrafe: «libraccio daugubio et Siculi / Non e fatta tauola». Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 112-113, y C. F. BLANCO VALDÉS, Descripción del códice Vat. Lat. 3217, en Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e di Filologia Romanza cit., IV, pp. 333338 (concretamente pp. 335-336). 67 Cfr. BERTOLUCCI, Le postille metriche cit., pp. 27-30. Una interpretación diferente de

la apostilla ha sido sugerida por F. FERNÁNDEZ CAMPO en el trabajo recogido en este mismo volumen bajo el título Apostillas petrarquescas de Colocci: nuevas posibilidades de lectura.

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dissi»: la semejanza entre ambas composiciones viene originada por una cercana, pero no idéntica, disposición del rimario; el primero de los textos de Martin Soarez modifica una de las rimas (c es, en efecto, singular), lo que provoca que sea «quasi simil[e]» al segundo, que se organiza en coblas unissonans. En el mismo sentido debe de interpretarse la apostilla que acompaña el texto de Pero Garcia Burgalês Nostro Senhor! E por que mi fezestes (LPGP 125,28): «quasi Sil dis[si]. ma muta L’antepenultima» (B 199, f. 57r). La anotación posee igualmente un importante valor aclaratorio, pues su sintaxis parece indicar que Sel dissi tiene como referente algo relativo a la repetición de las mismas rimas en las estrofas, estructura que en el texto gallego-portugués se ve alterada por la introducción de una rima singular en el antepenúltimo verso (y también en el penúltimo)68: I Nostro Senhor! e por que mi fezestes nacer no mundo? Pois me padecer muytas coytas e muy graves fezestes Deus! quando me fezestes hir veer hunha dona mui fremosa que vi, por que moyro, ca nunca dona vi con tanto ben quanto lhi vos fezestes!

III Ca de melhor conhocela fezestes, mays mansa e mays mesurada seer de quantas outras no mundo fezestes; sobre todas lhi destes tal poder. Non vus poss’ eu contar todo seu ben, non vus poss’ eu dizelo mui gram ben que lhe vos, meu Senhor, fazer fezestes.

II

IV

Per bõa fe, ca melhola fezestes, e mui melhor falar e parecer de quantas outras no mundo fezestes, e en doayr’ e en mui mais valer; e, Nostro Senhor, mays vus en direi: punh’ en dizer, ca ja nunca direi tanto de ben quanto lhi vos fezestes!

Dou o gram mal que vos a min fezestes, pois mh a fezestes tan gram ben querer, non tanto ben quanto lhi vos fezestes; neno meu mal nono posso dizer, nen como moiro nono direi ja, nen ar direi a dona nunca ja por que moiro, que mi veer fezestes.

Si leemos bien, la pieza S’ essere potesse ch’ io il potesse avere (CLPIO, V 221), de Chiaro Davanzati, figura en Va (f. 203v) acompañada de la apostilla «artificiosa repetita alla limosina (?) / come sel dissi mai». Si, como ya se ha dicho, con la indicación inicial el humanista incide en los estructurantes juegos repetitivos del texto (cfr. supra § 2.1), con la parte final de la anotación Colocci observa algún trazo del texto italiano que lo 68 El adjetivo «antepenultima» empleado por Colocci en la apostilla no puede referirse

a la rima, sino al antepenúltimo verso, el primero en el que el humanista habría percibido el cambio de rima, que también afecta al penúltimo.

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asemeja a piezas de la lírica provenzal, a las que se aproxima el escondit de Petrarca. El texto de Davanzati se organiza, en efecto, en coblas unissonans, aspecto que podría haber permitido a Colocci relacionar la tradición lírica provenzal (en la que el esquema estrófico mencionado era el más estimado) con la célebre composición petrarquesca, que, como explica Mario Fubini, representa «un regreso intencionado a lo antiguo», es decir, a la estética provenzal, en la que «se daban las mismas rimas, repetidas en la misma sede de las estancias o repetidas en un orden distinto, por lo que el poeta se imponía una repetición de esas rimas, y por consiguiente del mismo tema»69. Análogas valoraciones merece la apostilla «alla lemo/sina . Come sil Dissi mai» (Va, f. 93r), con la que Colocci analiza la pieza Sei anni ò travagliato de Mazeo di Ricco di Messina (CLPIO, V 82), también en coblas unissonans70. Resulta curioso que, pese a la asociación que Colocci establece entre el texto de Petrarca y la poesía de los trobadors, sea reducido el número de remisiones al famoso escondit para la lírica occitana. Ausentes en el cancionero M, las únicas anotaciones se hallan en el folio inicial del manuscrito gallego-portugués B, en el que, como ya se ha dicho (cfr. nt. 61), Colocci escribió una serie de apuntes que remiten al códice provenzal. De las apostillas presentes en B referidas a textos de M, sólo dos incluyen el envío a la composición petrarquesca: 10 discort et omni stanza fa sel dissi (B, f. 1r) 44 non fa come sel dissi (B, f. 1r)71

Si, como apunta Anna Ferrari, las cifras que figuran en las apostillas remiten a la numeración de los textos de M, la primera de las notas se referirá a Gr Born, Gen m’ aten (BdT 242,34) (M, f. 6v) y la segunda a Fq Mars, A! quan gen vens et ab quan pauc d’ afan (BdT 155,3) (M, f. 27v). La llamada Sel dissi podría interpretarse en ambos casos en el sentido que se viene apuntando, ya que la composición de Giraut de Bornelh se organiza, en efecto, en coblas unissonans72. Por su parte, en el texto de Fol69 Cfr. M. FUBINI, Métrica y Poesía, Barcelona 1970, p. 289 (manejamos la traducción del original italiano Metrica e Poesia). 70 Junto a los versos de cierre de GuAr, Deo!, bona donna, ch’ è divenuto (CLPIO, V 147),

Colocci escribe simplemente «alla lemosin» (Va, f. 144v). Se trata muy probablemente de un apunte destinado a indicar un valor del congedo de la canción cercano al de la tornada provenzal. 71 Cfr. FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 55-56. 72 Es el texto nr. 23 en A. KOLSEN (ed.), Sämtliche Lieder des trobadors Giraut de Bor-

nelh, Genève 1976 (reimpresión de la ed. de Halle an der Saale 1910-1935).

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quet73, aunque se repiten las mismas rimas en todas las estrofas, éstas ocupan distintas posiciones en cada cobla74; esta peculiaridad, aunque también se detecta en el escondit de Petrarca, se realiza de forma diferente en la pieza occitana, y de ahí la indicación colocciana «non fa come sel dissi». En efecto, en el texto del vate italiano se reproducen las mismas rimas en todas las estrofas, aunque alterando su posición conforme a un plan bien estudiado, que se caracteriza como coblas doblas retrogradadas75: las rimas aparecen en el mismo orden en cada pareja de estrofas y, aunque sean las mismas, su disposición se modifica en el siguiente par76. Por todas estas razones no sería extraño que, por un lado, Colocci haya percibido semejanzas entre las composiciones que repiten las mismas rimas en idéntico orden en todas las estrofas y el célebre texto de Petrarca, ya que, si bien el escondit no se ajusta al tipo estrófico de las coblas unissonans, reproduce las mismas rimas en todas las estrofas; por otro lado, la identidad del rimario por pares estróficos podría explicar que Colocci hubiese percibido semejanzas entre la composición petrarquesca y el tipo de las coblas doblas, y que, en consecuencia, se refiriese con la misma indicación (Sel dissi) a esta otra ordenación rimática77, como evidencia, por ejemplo, la apostilla «Sel diss[i]. ad ç.2. » æ (B 1383, f. 295v) para la cantiga Senhor, eu quer’ ora de vos saber (LPGP 125,49) atribuida a Pero Garcia Burgalês78. Más difícil resulta explicar el valor de la nota para textos que adoptan otras disposiciones rimáticas79, 73 Puede leerse en S. STROÑSKI (ed.), Le troubadour Folquet de Marseille, Genève 1968

(reimpresión de la ed. de Cracovie 1910), nr. x. 74 Cfr. BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., pp. 138-139. 75 Cfr., por ejemplo, F. BAUSI, M. MARTELLI, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze

1993, pp. 94-95. 76 Véase el texto en PETRARCA, Canzoniere cit., nr. 206. 77 BERTOLUCCI, Le postille metriche cit., p. 29, concluía también que «la formula “sel

dissi” indica quella rispondenza di rime tra le strofe e all’interno di esse, che si realizza nel modo più rigoroso nella perfetta consonanza e, parzialmente, nello schema a coblas doblas». 78 Cfr., por ejemplo, las siguientes cantigas en coblas doblas comentadas por Colocci con la apostilla «Sel dissi»: OsEa, Min pres forçadament’ Amor (LPGP 111,5); OsEa, E por quê me desamades (LPGP 111,3); PayGmzCha, Ora me venh’ eu, senhor, espedir (LPGP 114,13); PAmigo, Sey ben que quantus eno mund’ amaron (LPGP 116,33). Para la cantiga de PayGmz Cha, Oy eu sempre, mia sennor, dizer (LPGP 114,12), la indicación sería pertinente: tanto en B (donde se le asigna el número 816) como en el cancionero gallego-portugués de la Vaticana (donde le corresponde el número 400) sólo se transmiten las dos primeras estrofas, por lo que Colocci, al ver que éstas repetían las mismas rimas en idéntico orden, asimilaba, por consiguiente, el texto al tipo estrófico de las coblas unissonans. 79 La nota acompaña a cantigas como DieMnz, ¡Deus! que pouco que sabia (LPGP 27,1); PPon, Dun tal ricome vos quero contar (LPGP 120,13) – ambas en coblas alternadas –; PGarBu, Par Deus, sennor, ja eu non ei poder (LPGP 125,33); RodEaRed, O que vos diz,

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o justificar la omisión de la misma para otras muchas piezas que se organizan en coblas unissonans (aunque para esto podría apelarse al carácter riguroso, pero no sistemático, del iesino). 3.2. Unisono El interés prestado por Colocci a la rima por su importancia estructurante es también el que explica el valor del término unisono (localizado en algunas notas del cancionero B). En contra de lo que pudiera creerse, parece poco probable que tenga por objeto referir el tipo estrófico de la cantiga, es decir, que las coblas sean unissonans. Las notas en cuestión son las siguientes: «unisono tornel[lo]» (B 344, f. 79r): RoyPaezRib, A mha senhor, a que eu sey querer (LPGP 147,3) «unisono» (B 368bis, f. 84r): RodEaVas, Preguntei ua don[a] en como vos direi (LPGP 140,4) «Xiiij syl[labe]. et se ci fusse una sdrucciola saria come / Rosa fresca aulentissima · quale e unisona» (B 368bis, f. 84r): RodEaVas, Preguntei ua don[a] en como vos direi (LPGP 140,4) «vnisono tornel[lo]» (B 905, f. 194v): RoyFdzSant, Des que eu vi (LPGP 143,4) «Vnisona cantio» (B 1470, f. 307v): AfLpzBay, Sedia-xi Don Velpelho en hua sa mayson (LPGP 6,9) «Vnisona ut hic supra syllabe 13» (B 1470, f. 308r): AfLpzBay, Sedia-xi Don Velpelho en hua sa mayson (LPGP 6,9)

Para la cantiga de Roi Paez de Ribela (B 344) cabría la opción de que Colocci se refiriese a la igualdad rimática de los versos que forman el refrán y que, por lo tanto, las palabras unisono y tornel[lo] constituyesen una sola nota:

senhor, que outra ren desejo (LPGP 141,3) – las dos en coblas singulars –. La segmentación de los versos de la cantiga de Alf X, Ai eu coitada! Como vivo en gram cuidado (LPGP 18,2) llevaba a Colocci a verla en coblas unissonans, aunque en LPGP se opte por una disposición de la pieza en coblas singulars. Con todo, para las cantigas organizadas en coblas alternadas la indicación «Sel dissi» podría justificarse, en tanto que en ese tipo estrófico las rimas son las mismas en todas las estrofas, aunque se dispongan de un modo en las coblas impares y de otro en las pares (cfr. § 3.3).

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I

III

A mha senhor, a que eu sey querer melhor ca nunca quis hom’ a molher, poy-la tant’ amo e mh-o creer non quer, Nostro Senhor, que á mui gram poder, mi dê seu ben, se lh’ eu quero melhor ca nunca quis no mund’ om’ a senhor.

Porque lhi fez as do mundo vencer de mui bon prez e do que vus disser: de parecer mui ben hu estever, Deus, que lhi fez tam muyto ben aver, mi dê seu ben, se lh’ eu quero melhor [ca nunca quis no mund’ om’ a senhor].

II [E] se non é, [que] me leixe prender por ela morte, ca non m’ é mester d’ eu viver mays, se seu ben non ouver, mays Deus, que pod’ a verdade saber, mi dê seu ben, se lh’ eu quero melhor [ca nunca quis no mund’ om’ a senhor].

Sin embargo, el texto de Roi Fernandiz (B 905) parece desechar tal posibilidad, pues el estribillo está formado por un único verso: unisono y tornel[lo] son, por consiguiente, dos notas independientes. En la cantiga todos los versos presentan la misma rima en cada una de la estrofas, aunque se modifique de una a otra (coblas singulars), y ésta fue la realidad a la que, sin duda, Colocci remitía con la indicación unisono, al margen de que todas las estrofas repitan o no las mismas rimas: I

III

Des que eu vi a que eu vi, nunca dormi e, cuydand’ i, moyr’ eu.

Gran mal mi ven, e non mi ven, nen verrá ben end’ e por en moyr’ eu.

II

IV

Fez-me veer Deus e per veer quen me morrer faz e dizer: moyr’ eu.

E non mi val Deus, non mi val, e d’ este mal moyr’ eu, moyr’ eu, moyr’ eu.

Es, por consiguiente, el de Colocci un apunte destinado a destacar lo que las Leys d’ Amors provenzales catalogaban como rims continuatz:

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Continuatz es can quatre bordo o mays termeno enayssi per una meteysha maniera80.

De ser así, cabe pensar que para la composición de Roy Paez de Ribela (B 344) el humanista, guiado por la identidad de la secuencia fónica final de los versos (-er), no reparó en las diferencias de timbre de la vocal media81, pues la fórmula rimática de la misma es abba[CC], donde a se realiza como [e] y b como [e]. Cabe pensar, no obstante, que, a los ojos del humanista, este aspecto no era relevante para la identificación de la rima, o, al menos, es lo que parece desprenderse de la siguiente anotación del códice Vat. lat. 4817: La o chiara et o oscura fanno consonanza / indiferentemente. sicche (?) questa definitione non / bisogna per lei (Vat. lat. 4817, f. 39r)82 (Cfr. Apéndice VI).

Significativa es, para determinar el alcance de la voz unisono en los apuntes coloccianos, la anotación «Vnisona cantio», con la que, en el margen inferior izquierdo del f. 307v, se comenta la famosa gesta de Afonso Lopez de Baian. Es evidente que lo único que pudo llamarle aquí la atención fueron las extensas tiradas monorrimas del texto, a lo que concierne también la apostilla presente en el margen inferior izquierdo del folio siguiente: el apunte «vnisona ut hic supra syllabe 13» se refiere a la última tirada de la composición, que Colocci, guiándose por la rúbrica atributiva del copista que la encabeza, identifica como una cantiga diferente, lo que explica la remisión a un texto anterior, pues había percibido por error que las dos primeras tiradas formaban una cantiga distinta. 80 Cfr. ANGLADE (ed.), Leys d’ Amors cit., t. II, p. 100. 81 Así lo cree también MICHAËLIS (ed.), Cancioneiro da Ajuda cit., I, p. 378. Como es

sabido, en la lírica gallego-portuguesa no se permitía que rimasen las vocales de grado medio abiertas y cerradas. Cfr. J-M. MONTERO SANTALHA, Existe rima de vogal aberta com vogal fechada na poesia trovadoresca galego-portuguesa?, en Revista Galega de Filoloxía 3 (2002), pp. 107-143. 82 Sin duda, Colocci debía tener en mente la lírica italiana por ser la única en la que era

permitido que las diferencias de timbre de las vocales de grado medio no afectasen a la rima, probablemente por tratarse de textos destinados a la lectura. Como es sabido, en las restantes tradiciones líricas (donde los textos estaban acompañados de notación musical y destinados, por tanto, a ser cantados) esas diferencias no dejaban de ser pertinentes. Cfr. A. RONCAGLIA, Sul «divorzio tra musica e poesia» nel Duecento italiano, en L’Ars Nova italiana del Trecento, IV: Atti del 3º Congresso internazionale sul tema «La musica al tempo del Boccaccio e i suoi rapporti con la leteratura» (Siena — Certaldo 19-22 luglio 1975), edizione curata da A. ZIINO, Certaldo 1978, pp. 365-391.

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Queda por determinar el valor del término en la nota que encabeza el texto de Rodrig’ Eanes de Vasconcelos. Las estrofas no presentan una única rima, sino que combinan dos (distintas en cada estrofa) en correspondencia con el esquema aaabab. Es más que probable que Colocci haya sentido la necesidad de hacer constar que los tres primeros versos reproducen la misma rima, lo que no deja de recordarle, junto a otras peculiaridades métricas, el famoso contrasto de Cielo d’Alcamo83, en el que efectivamente se detecta el mismo fenómeno (no se olvide que su esquema es AAA BB) y que Colocci califica de unisona, como se comprueba en la nota ubicada en el margen inferior izquierdo del mismo folio: «Xiiij syl[labe]. et se ci fusse una sdrucciola saria come / Rosa fresca aulentissima · quale e unisona» (B 368bis, f. 84r). El análisis de los textos mencionados revela que la indicación unisono no se refiere a la tipología de las coblas, sino más bien a la concordancia rimática de todos o varios versos consecutivos de las estrofas (aunque la rima cambie de una a otra estrofa), siendo, por lo tanto, la estrofa (y no la totalidad del texto) el marco necesario para el establecimiento del valor del término. A esta particularidad había dedicado el humanista otras apostillas que, aunque no incluyan el elemento unisono, indican que la estructura generada por la identidad rimática de varios versos seguidos de la estrofa presentaba en la lírica gallego-portuguesa un desarrollo destacado. Así lo muestran, además de las anotaciones comentadas, estas otras: «Stanza di dui uersi et tornel[lo]» (B 132, f. 33r): NunEaCer, Mia senhor fremosa, direi-vus ua ren (LPGP 104,2) «Xiiij syllab[e] con tornel[lo] · duna consonantia» (B 140, f. 35v): NunEaCer, Par Deus, dona Maria, mia senhor ben-talhada (LPGP 104,3) «Duna consonantia con tornel[lo]» (B 141, f. 35v): NunEaCer, Quand’ ora fôr’ a mia senhor veer (LPGP 104,4) «conforma rima con tornello ut supra ma uersi piccoli» (B 147, f. 37v): PaySrzTav, A ren do mundo que melhor queria (LPGP 115,2)84 «ogni stanza tutta uniconsona et tre stanze ha tre congedi / singula singule »85 (B 191, f. 49r): PGarBu, Ay eu coitad’! e por que vi (LPGP 125,2) 83 Para la relación de Colocci con la transmisión de esta pieza, cfr. BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 130-137, así como la revisión del asunto llevada a cabo por M. SPAMPINATO BERETTA en el análisis que, con el título Il “caso” Cielo, se recoge en este libro. 84 La indicación «conforma rima» debe de entenderse como desvinculada del resto de la anotación, pues, de lo contrario, no reflejaría la realidad de la cantiga. 85 La parte final de la nota es de difícil lectura, si bien podría leerse algo así como virtuose, remitiendo a la destreza de Pero Garcia Burgalês en la composición del texto, ya que, además de repetirse la misma rima en cada estrofa y de otorgar a cada fiinda la misma

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«dui uersi et uno tornel[lo]» (B 239, f. 63v): FerGarEsg, Se Deus me leixe de vos ben aver (LPGP 43,15) «3· versi consoni et uno torne[llo]» (B 263, f. 68r): RoyQuey, Preguntou Joan Garcia (LPGP 148,19) «Rime di .3. in .3. conged[o]» (B 458, f. 101r): Alf X, Achei Sancha Anes encavalgada (LPGP 18,1)86 «ad .3. ad 3. tornel[lo] conged[o]» (B 587, f. 130r): Den, Gram temp’ a, meu amigo, que nom quis Deus (LPGP 25,39)

Como ha señalado Rino Avesani87, la indicación «duna consonantia» había sido incluida por el humanista en una apostilla destinada a caracterizar como monorrimas las estrofas del himno cristiano Deus plasmator cunctorum, del que Colocci, después de reproducir la primera estrofa, señala que «cosi ua de quattro in 4º duna consonantia» (Vat. lat. 4817, f. 17v)88. De igual modo, en todos los textos gallego-portugueses señalados, el iesino constata la igualdad rimática de todos los versos de la estrofa. No obstante, las cantigas de Nun’ Eanes Cêrzeo (104,3), Alfonso X (18,1) y Don Denis (25,39) se caracterizan por introducir dos rimas en su esquema (conforme a la disposición aaab[BB]89), pero, en cualquier caso, una de ellas se itera en versos correlativos, aspecto que el humanista había percibido para otros textos en cuya caracterización se había servido del término unisono (cfr. supra). En todos los casos mencionados, el contexto necesario para la comprensión de las apostillas es la estrofa. Sin embargo, Colocci escribe corima que a cada estrofa, se repite el mismo rimante, generando uno de los casos más elaborados de dobre del corpus gallego-portugués. La indicación tendría, por tanto, un valor muy próximo al de la anotación «artificiosa» (cfr. § 2.1). 86 Colocci identifica erroneamente como fiinda (y de ahí la indicación «conged[o]») el dístico inicial de la cantiga de Alfonso X Penhoremos o daian (LPGP 18,32), copiada a continuación y para la que Colocci desplaza también el número de identificación (B 459) para la primera estrofa, al no identificar el dístico inicial como el inicio de la cantiga, sino como el remate de la anterior. 87 Cfr. AVESANI, Appunti del Colocci cit., p. 120. 88 El soneto de Monte Andrea I baroni dela Mangna àm fatto impero (CLPIO, V 864)

aparece acompañado de la apostilla «doppio et duna concordanza ut supra» (Va, f. 414v). En este caso, cabe pensar que la indicación «duna concordanza» se refiere a la conservación en los tercetos de las dos rimas que se emplean en los cuartetos (es decir, -ero y -one). Se trata del sonetus continuus del que habla Antonio da Tempo (Cfr. ANTONIO DA TEMPO, Summa Artis cit., § XIX, pp. 25-26). Es más que posible que con la indicación «ut supra» el humanista esté remitiendo al soneto Non isperate, ghebellini, soccorsso (CLPIO, V 778), que Colocci acompaña, entre otras, de las observaciones «et e doppio in doe consonanze» (Va, f. 399v). 89 Sobre esta estructura, cfr. V. BELTRÁN, De zéjeles y dansas: orígenes y formación de la estrofa con vuelta, en Revista de Filología Española 64 (1984), pp. 239-266.

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mentarios semejantes a los dos últimos, cuyo ámbito de interpretación es la totalidad del texto: «L’ultimi ad .3. ad .3.» (B 482, f. 107v): Alf X, Ansur Moniz, muit’ ouve gran pesar (LPGP 18,3) «ad .3. et 3 . stanze tornel[lo]» (B 626, f. 137v): FerRdzCalh, Perdud’ ei, madre, cuid’ eu meu amigo (LPGP 47,23)90

En efecto, con el apunte que acompaña a la composición de Fernan Rodriguez de Calheiros el humanista está probablemente incidiendo en la organización del rimario en coblas ternas. Por último, el comentario «L’ultimi ad .3. ad .3.» debe de interpretarse en una dirección distinta de las señaladas: la errada segmentación del copista de los versos de la cantiga alfonsí Ansur Moniz, muit’ ouve gran pesar (LPGP 18,3) sólo permitía a Colocci constatar la igualdad de los tres últimos versos de las estrofas, cuando en realidad las coblas son unissonans y, por tanto, repiten las rimas correspondientes a todos los rimemas (Cfr. Apéndice VII). 3.2.1. Ut supra Al comentar la cantiga Senhor fremosa, poys me non queredes (LPGP 97,40), Colocci escribe «interzata prima et ultima» (B 158, f. 40v). Si la apostilla pretende comentar la disposición del rimario en coblas alternativas91, es probable que el humanista hubiese errado al escribirla, como sugiere Carolina Michaëlis:

90 Más difícil de percibir es el referente de la apostilla «Noua Rim[a]», escrita en el

margen inferior izquierdo del mismo folio y vinculada a la misma cantiga. Una nota semejante es escrita por Colocci en el margen inferior derecho del f. 133r a propósito de la cantiga Pero muito amo, muito nom desejo (B 605-606, LPGP 25,72): el apunte «noua Rima» (leído, en cambio, como «nova forma» por FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 71) señalaría en este caso el empleo del arte mayor, como apunta G. TAVANI, Sobre a atribuição a D. Dinis e a Juião Bolseiro de duas canções tardias, en ID., Ensaios Portugueses. Filologia e Linguística, Lisboa 1988, pp. 317-349 (concretamente, p. 322). Para el significado de otras apostillas coloccianas en las que concurre el adjetivo novo («lettera nova», «nova textura», «tornel[lo] novo»), remitimos a BERTOLUCCI, Le postille metriche cit., pp. 25-27, y FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 71-73. 91 Cfr. BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., pp. 101 y 288.

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Colocci diz: interzata pa et ulta, incorrectamente, se a nota se referir ás estrophes, visto que a 1a vem enlaçada com a 3a, e a 2a com a 4a92.

Pero fue, sin duda, a partir del f. 126r de este códice cuando más fijó su atención en esta organización del rimario de las estrofas. El punto de partida lo marca la cantiga dionísiaca Bom dia vi, amigo (LPGP 25,19), que el humanista acompaña de la glosa «interza le stanze»93 (B 565, f. 126r). Ésta se refiere con seguridad a la disposición de las rimas de las estrofas (formadas por un dístico monorrimo y un verso de refrán) conforme al tipo conocido como coblas alternativas, combinado, además, con las técnicas del paralelismo y del leixa-prén94. Esta misma estructura es identificada por el humanista en algunas de las cantigas copiadas a continuación, para las que señala tal similitud formal con notas que podrían tener como referente el mencionado texto del rey portugués. Tal es, en efecto, el sentido de la indicación «simile», que se registra para las composiciones siguientes B 566, Non chegou, madr’, o meu amigo (LPGP 25,50); B 567, De que morredes, filha, a do corpo velido? (LPGP 25,31), y B 568, Ai flores, ai flores do verde pino (LPGP 25,2). La introducción de un refrán intercalar produce una modificación de dicha estructura y esta 92 Cfr. MICHAËLIS (ed.), Cancioneiro da Ajuda cit., I, p. 100. La posibilidad de que la correspondencia rimática se produjese entre las coblas extremas de la composición, por un lado, y las intermedias, por otro, es percibida correctamente por Colocci y constatada en la glosa «La prima et l’ ultima et le due di mezo» (B 99, f. 26r), con la que comenta la cantiga VaFdzSend, De cuita grand(e) e de pesar (LPGP 151,4). Tavani (que asigna al texto el esquema 100:55) opta por alterar el orden de las estrofas presente en el apógrafo (y también en el Cancioneiro da Ajuda – A 9 –), entendiendo que el texto original debía estar organizado en coblas doblas: «È probabile che l’ordine delle strofe sia da modificare, inserendo la IV tra la I e la II» (Cfr. TAVANI, Repertorio metrico cit., p. 122). 93 Las notas coloccianas permiten constatar para el término interzare otro valor. A propósito de la mala cansó de Pero da Ponte Se eu podesse desamar (LPGP 120,46), Colocci comenta «ad .2. interzate» (B 980, f. 212r). La nota podría tener como objeto destacar la relación que, con base en la derivatio que afecta a los rimantes, enlaza cada par de versos consecutivos por medio del mecanismo de las rimas derivadas o mordobre. En consecuencia, en este caso la indicación «ad .2.» (utilizada frecuentemente por Colocci para constatar el tipo estrófico de las coblas doblas) debe entenderse como referida a los versos; dicho de otro modo, son los versos, y no las estrofas, los que están unidos de dos en dos a través del procedimiento señalado. 94 Cfr., entre otros, E. ASENSIO, Poética y realidad en el cancionero peninsular de la Edad Media [1957], Madrid 19702, pp. 78-83. Sobre la relación de estos elementos formales con

la poesía popularizante, véase, entre otros, M. BREA, Elementos popularizantes en las cantigas de amigo, en Con Alonso Zamora Vicente. Actas del Congreso Internacional «La lengua, la Academia, lo popular, los clásicos, los contemporáneos», edición de C. ALEMANY BAY, B. ARACIL VARÓN, R. MATAIX AZUAR, P. MENDIOLA OÑATE, E. VALERO JUAN, A. VILLAVERDE PÉREZ, Alicante 2003, II, pp. 450-463.

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circunstancia provoca en el humanista la apostilla «quasi simile», que acompaña a las cantigas B 569, Levantou-s’ a velida (LPGP 25,43), y B 570, Amad’ e meu amigo (LPGP 25,4). Para las piezas del mismo autor B 589 (Pera veer meu amigo, LPGP 25,70) y B 592 (Mha madre velida!, LPGP 25,44), Colocci escribe «come di supra» y «simile ut supra» respectivamente. Otras veces, textos con la misma disposición rimática aparecen comentados por el iesino con la nota de remisión «ut supra»: es el caso de tres composiciones de Nuno Fernandez Torneol: Levad’, amigo, que dormides as manhãas frias (B 641; LPGP 106,11), Aqui vej’ eu, filha, o voss’ amigo (B 642, LPGP 106,5) y Vy eu, mia madr’, andar (B 645, LPGP 106,22). Si bien es cierto que en estos casos Colocci podría estar enviando a la referida cantiga de Don Denis, la presencia de la misma nota para textos que no distribuyen su rimario en coblas alternativas y que no recurren a las técnicas anteriormente referidas lleva a buscar a dicha nota de remisión un sentido diferente: VaFdzSen, Meu amigo, pois vós tan gram pesar (B 636; LPGP 151,7) VaFdzSen, Quando vos eu, meu amigu’ e meu ben (B 637; LPGP 151,18) NuFdzTor, Ai, madr’, o meu amigo, que non vi (B 643; LPGP 106,2) NuFdzTor, Que coita tamanha ei a sofrer (B 644; LPGP 106,18) NuFdzTor, Trist’ anda, mia madr[e], o meu amigo (B 646; LPGP 106,21) NuFdzTor, Dized-m’ ora, filha, por santa Maria (B 648; LPGP 106,8) PGarBu, Ay madre! Ben vus digo (B 649; LPGP 125,5) VaGil, Irmãa, o meu amigo, que mi quer ben de coraçon (B 664; LPGP 152,3) JPrzAv, Vistes, madre, quando meu amigo (B 666; LPGP 75,22)

Para todos los textos mencionados, los trovadores recurren, en efecto, a una disposición de las rimas basada en mecanismos distintos de la alternantia95 y prescinden de las técnicas referidas; la única excepción la representa la cantiga B 644 en la que, con todo, un posible error de copia provocó la alteración del orden de las estrofas III y IV, por lo que difícilmente Colocci percibiría que las coblas eran alternativas. Todas las cantigas recogidas comparten, sin embargo, la misma estructura, ya que están formadas por dísticos monorrimos y un refrán. Ésta debió ser la característica que, al margen de la organización del rimario, llamó la atención de Colocci, por lo que sería esta peculiaridad del texto dionisíaco la que recordaba al escribir la nota de remisión «ut supra». Por 95 Para las cantigas que en LPGP llevan los códigos 106,2; 106,8; 152,3 y 106,21 el número de estrofas impide la realización de las coblas alternativas, pues para que ésta exista es necesario que la composición esté constituida por cuatro o más estrofas. Sin embargo, las tres primeras piezas mencionadas están formadas por tres coblas y la última por dos.

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ello, también cabría la posibilidad de que con dicha apostilla el humanista enviase a algunas de aquellas composiciones en cuya caracterización se había servido de los comentarios «unisono» o «duna consonantia». En cualquier caso, parece claro que con la nota «ut supra» el iesino advertía de la presencia en el códice lisboeta de la estructura basada en la repetición sistemática de una misma rima que se renueva (o no) de una estrofa a otra, al margen de que dicha organización se asocie a determinadas técnicas. 3.3. Varia le rime De igual modo que la apostilla unisono no señala la tipología estrófica en la que el mismo rimario se reproduce en todas las cobras, la nota colocciana «varia le rime» no tiene por objeto hacer hincapié en la renovación periódica de las rimas en cada estrofa (coblas singulars). La apostilla en cuestión se localiza tan sólo en el cancionero italiano Va, referida tanto a canciones como a sonetos. Dejando a un lado los sonetos (para los que es probable que la apostilla, u otra semejante – «varia le consonanze», «Muta consonanza», etc. –, trate de reflejar las posibilidades de organización del rimario de los tercetos), las canciones italianas que aparecen acompañadas de la referida nota son las siguientes: «varia le rime» (Va, f. 215r): ChDa, Daché mi convene fare (CLPIO, V 227) «varia le rime» (Va, f. 222v): ChDa, Talento agio di dire (CLPIO, V 235)96 «uaria le rim[e]» (Va, f. 238v): ChDa, Per la grande abondanza ch’ io sento (CLPIO, V 251) «uaria rima» (Va, f. 298v): Amore, per Deo, più non posso sofrire (CLPIO, V 308)

Para el primer texto (Daché mi convene fare) Colocci podría referirse a que sus coblas son singulars. Con todo, es probable que en la indicación del humanista haya que ver más bien una llamada de atención sobre la 96 En esta canción, la nota «uaria le rime» se localiza junto a la primera estrofa en dos ocasiones. En su segunda ocurrencia, la glosa, significativamente situada junto al v. 9, podría tener por objeto destacar el cambio de rima que permitiría establecer las partes de la canción, o más probablemente apuntar el hecho de que en el primer verso de la parte posterior a la diesis dantesca Chiaro Davanzati no haya repetido la rima del último verso de la parte precedente, como recomendaba Dante en su De vulgari eloquentia (II, XIII): «Sepissime tamen hoc fit in desinentia primi posteriorum, quam plerique rithimantur ei que est priorum posterioris, quod plerique rithimantur ei que est priorum posterioris, quod non aliud esse videtur quam quedam ipsius stantie concatenatio pulcra» (Cfr. GIL ESTEVE, ROVIRA SOLER (eds.), Dante Alighieri. De Vulgari Eloquentia cit., p. 234).

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renovación del rimario de los pedes de las estrofas: en la primera, la rima -are del pie inicial es sustituida en el siguiente por -ito; en la segunda, a -anza corresponde en el siguiente pie -ire, y así sucesivamente. Colocci podría estar apuntando el mismo fenómeno en la canción Oi lasso doloroso! (CLPIO, V 93) (Va, f. 102r), de Neri de Visdomini, cuya estructura sintetiza en el incipitario recogido en el Vat. lat. 3217 (f. 310r) con la nota «p[ie]· et syrma et li pei (?) non concor[dano]»: en efecto, las dos rimas del primer pie se modifican en el siguiente en todas las estrofas. Las otras tres canciones que están acompañadas de la apostilla que se está analizando modifican también su rimario en todas las estrofas (coblas singulars). Sin embargo, la nota colocciana tiene por objeto incidir en otro particular, estrechamente unido a la estructura de la canción italiana. El análisis de los textos referidos revela que Colocci pretendía destacar el intercambio recíproco de las rimas (commutatio)97 que aparecen en los pies de la estrofa98. En efecto, en las composiciones señaladas se observa que la rima a de un pie es la b del siguiente, y viceversa, como se aprecia en la disposición del rimario de los mismos en la primera estrofa:

97 BILLY, L’Architecture lyrique cit., p. 278, define la commutation como el «échange de

deux éléments». El tipo estrófico que resulta de la aplicación de este principio es el de las coblas alternadas (cfr. Ibid., p. 121 y ss.). 98 Un valor análogo podría darse a la apostilla «trasmuta le rime», que, en cancionero

italiano V (f. 115v), acompaña al texto de Chiaro Davanzati Come ’l fantino, ca nelo spelglio mira (CLPIO, V 769). Para la comprensión de la nota es necesario tomar en cuenta el soneto de Monte Andrea Sì come ciaschuno-ommo può sua figura (CLPIO, V 768), copiado precedentemente, con el que el de Chiaro Davanzati constituye una tensó: éste cambia, en efecto, las posiciones de las rimas de los cuartetos (-ura, -ira) de aquél: V 768 -ura -ira -ura -ira

V 769 -ira -ura -ira -ura

-ura -ira -ira -ura -ura -ira -ira -ura De igual modo, la ya mencionada apostilla «Inretiti 98» (cfr. supra, nt. 40) fue leída por algunos estudiosos como «innetiti 98» y por otros como «invertiti 98». Quienes optan por esta última lectura creen que la apostilla equivaldría a la indicación «trasmuta le rime». Cfr. la exposición de esta cuestión en BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 152.

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V 235

V 251

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-ire

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-ia

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-ento

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-ire

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-ia

-ento

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-ire

-ato

Que éste debe ser el sentido de la nota colocciana lo indica el comentario «varia le rime in pedibus ut supra» (Va, f. 211r) (Cfr. Apéndice VIII) con el que el humanista se refiere a la canción de Chiaro Davanzati Ai dolze e gaia terra florentina (CLPIO, V 224), en la que, en efecto, los rimemas a y b de los pies intercambian sus posiciones. Con la indicación «ut supra» Colocci podría estar remitiendo a algún texto copiado precedentemente con la misma distribución de las rimas, pero no se ha localizado en textos anteriores ninguna nota del tipo «ut infra» que envíe al texto de Chiaro Davanzati. Colocci podría estar remitiendo, por ejemplo, a las canciones Chi ’mprima disse amore (CLPIO, V 218) (Va, f. 201r), Orato di valore, dolze meo sire (CLPIO, V 216) (Va, f. 199r) o Io nom posso cielare né covrire (CLPIO, V 215) (Va, f. 198r), todas ellas del mismo autor. Sin embargo, es más probable que el envío del humanista se refiera a la canción Donna, ciaschuno fa chanto (CLPIO, V 203): aunque en el f. 188r de Va, donde se copia, carezca de nota alguna, el humanista consigna en el incipitario del códice Vat. lat. 3217 la peculiaridad formal del texto con la oportuna indicación «pes ma uaria le rime · syr[ma]» (Vat. lat. 3217, f. 312r) (Cfr. Apéndice IX). En los tres casos comentados, la nota tiene, pues, el mismo significado que la que acompaña en el cancionero provenzal M (f. 42v) a la canción Non es meravilla s’eu chan (BdT 70,31) de Bernart de Ventadorn: «varia le desinentie in an et in en». En efecto, el objetivo de la nota es incidir en la peculiar diposición de las rimas -an y -en, que intercambian sus posiciones en las estrofas99. Así pues, aunque todas las canciones comentadas se organicen en coblas singulars, la apostilla «varia le rime» destaca, ya la variación de las rimas, ya la variación de las posiciones. En cualquier caso, parece claro que el marco necesario para la interpretación de la nota lo constituye la estrofa (y no el conjunto de la canción), de lo que se puede colegir que el fin de la apostilla no es resaltar el tipo estrófico. El apunte colocciano pretende, en definitiva, constatar el carácter esencial de la rima en el es99 BILLY, L’Architecture lyrique médiévale cit., p. 121 y ss. Cfr. el texto en M. LAZAR (ed.), Bernard de Ventadour, troubadour du XIIe siècle. Chansons d’amour, Paris 1966, nr. 1.

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tablecimiento de las partes de la estrofa, como ya había reconocido Dante100, quien había explicado que: Si vero quelibet desinentia in altero pede rithimi consortium habeat, in altero prout libet referre vel innovare desientias licet, vel totaliter vel in parte, dumtaxat precedentium ordo servetur in totum (II, XIII)101.

El conocimiento del De vulgari eloquentia por parte de Angelo Colocci está fuera de toda duda. El humanista poseía una copia del fragmento del tratado (Vat. lat. 4817, f. 284r-v) dedicado al análisis de las partes de la canción; de este fragmento del De Vulgari Eloquentia102, anotado por el humanista, podría derivar su interés por fijar las partes de la estrofa. Sin embargo, ciertos datos apuntan que su conocimiento de la obra de Dante no se limitaba a la sección conservada en el Vat. lat. 4817. Piénsese, simplemente, en las numerosas apostillas del humanista en las que recuerda las referencias que Dante hace en su tratado a piezas de poetas occitanos103 o italianos104. Ténganse en cuenta, asimismo, las referencias al tratado dantesco que se encuentran en los inventarios de libros elaborados por el propio Colocci: en los listados incluidos en el Vat. lat. 4817 100 Cfr. I. BALDELLI, Rima, en Enciclopedia Dantesca cit., IV, pp. 930-949, concretamente p. 930. 101 Cfr. GIL ESTEVE, ROVIRA SOLER (eds.), Dante Alighieri. De Vulgari Eloquentia cit., p.

236. 102 El fragmento deriva del códice que con el tratado poseía Trissino (ms. Trivulziano 1088), al que Colocci pudo acceder cuando Trissino lo dio a conocer en Roma, entre los años 1524-1525. Cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., pp. 187-195 (entre las pp. 201-203 de este trabajo se incluye una transcripción del fragmento y de las apostillas que en los márgenes escribió Colocci). Cfr. también C. PULSONI, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia nel primo Cinquecento: Bembo e Barbieri, en Aevum. Rassegna di Scienze Storiche Linguistiche e Filologiche 71 (1997), pp. 631-650. 103 Cfr. E. MONACI (ed.), Poesie in lingua d’oc e in lingua d’oïl allegate da Dante nel De

Vulgari Eloquentia, Roma 1994. Véanse también H. J. CHAYTOR, The Troubadours of Dante: Being selections from the works of the provençal poets quoted by Dante, Genève 1974 (reimpresión de la ed. de Oxford 1902) y S. SANTANGELO, Dante e i trovatori provenzali, Genève 1982 (reimpresión de la ed. de Catania 1921). 104 Para las composiciones del cancionero provenzal M para las que Colocci remite en

sus apostillas al De vulgari eloquentia (y a otras obras de Dante), cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., pp. 213 y 218-219. Para los apuntes coloccianos que se localizan en el cancionero italiano V con envíos a la producción de Dante, remitimos a ID., Intorno ad alcune postille, p. 180, así como a BOLOGNA, La copia colocciana cit., pp. 146-151. Añádase a éstas la apostilla que acompaña en el cancionero italiano Va (f. 2r) al texto de Guido Cavalcanti Donna me prega, del que Colocci recuerda que «Dante nellarte cita questa / per la respondentia de eccho – / arte in duobus locis»: en efecto, en el De vulgari eloquentia (II, XII) se cita la referida canción en dos ocasiones.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

el humanista se refiere al volumen de Dante como «Danti [sic?] de materno [sic?] eloquio» (f. 196r) o «De uulgari eloquio» (f. 210r)105; en los catálogos que figuran en el Vat. lat. 3903 se menciona también un «Dante de uulgari eloquio» (f. 225r).

105 Cfr. BOLOGNA, La copia colocciana, p. 112 (y tablas VIa y VIb).

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Apéndice I — Paris, Bibliothèque Nationale, ms. franç. 12474 (M), f. 68v.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

Apéndice II — Paris, Bibliothèque Nationale, ms. franç. 12474 (M), f. 69r.

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Apéndice III — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4817, f. 41r.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

Apéndice IV — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3217, f. 308v.

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Apéndice V — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3217, f. 309v.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

Apéndice VI — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4817, f. 39r.

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ANGELO COLOCCI Y LA RIMA ROMÁNICA

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Apéndice VII — Lisboa, Biblioteca Nacional, Cód. 10991 (B), f. 107v.

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GERARDO PÉREZ BARCALA

Apéndice VIII — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4823 (Vª), f. 21r.

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ANGELO COLOCCI Y LA RIMA ROMÁNICA

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Apéndice IX — Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3217, f. 312r.

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ELVIRA FIDALGO FRANCISCO

APUNTES PARA UNA VIDA DE ALFONSO X EN UN CÓDICE DE COLOCCI (VAT. LAT. 4817)1 ¡Con qué poca razón se lamentaba Angelo Colocci cuando, en una carta escrita en los últimos años de su vida, decía: «Io pensavo che gli studi miei, la gloria mia che nasceria dagli studi e lettere fosse l’ultimo riposo mio, ed io morirò che non si vedrà cosa alcuna di me»2! Sin embargo, todavía hoy seguimos tratando de Colocci, aunque, en esta ocasión, el protagonista de esta intervención sea otro. A nadie se le escapa la importancia de su figura crucial en el humanismo italiano, y a los gallegos menos que a ningún otro, porque nuestra cultura le debe, al menos, la existencia de dos cancioneros de nuestra antigua poesía, los índices de uno de ellos3, además de abundantes testimonios de su interés personal por la lírica gallego-portuguesa. Su privilegiada posición en la administración papal le proporcionó los medios para la adquisición de un vasto patrimonio que le permitió erigirse en generoso mecenas, pero también le dio la posibilidad de dedicar mucho tiempo a una infatigable actividad de lector y anotador de códices. En el ambiente de la curia romana, en las tertulias literarias que casi a diario se desarrollaban en los Horti Colocciani tuvo la oportunidad de frecuentar a los más estimados eruditos del Cinquecento italiano, como Pietro Bembo o Baldassarre Castiglione.

1 Este trabajo forma parte de un Proyecto de Investigación sobre Las notas lingüísticas de Angelo Colocci, subvencionado por la DGICYT (PB94-0642). 2 Cfr. la voz Colocci, Angelo, en Dizionario Biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp.

105-111, p. 110. 3 Se trata del Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Lisboa, Biblioteca Nacional, ms. 10991), conocido también como Colocci-Brancuti, y el Cancioneiro da Vaticana (Vat. lat. 4803) profusamente anotados en los márgenes como era costumbre en él; el índice de autores es conocido como Tavola Colocciana (Vat. lat. 3217, ff. 300-307) y ha sido editado por E. GONÇALVES, La Tavola Colocciana. Autori Portoghesi, en Arquivos do Centro Cultural Português 10 (1976), pp. 387-448.

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ELIVRA FIDALGO FRANCISCO

Su nombre viene ligado al de su impresionante biblioteca4, conservada parcialmente en la Vaticana, y que aún no ha podido ser reconstruida en su totalidad, aunque cada vez falte menos. Confirmamos, así, que esta “proteiforme” biblioteca estaba integrada por códices de todo tipo, gramática, literatura, historia, arte; textos griegos, latinos, árabes y muchos en romance (lo que demuestra su interés por las lenguas románicas que despuntaban sobre el latín), todos con un denominador común: prevalece el interés por el contenido sobre la belleza del códice que podría haber impulsado al mero coleccionista. De entre ellos, me interesa hoy el códice Vat. lat. 4817, no porque en él se evidencie mejor que en ningún otro el compromiso de Colocci con la questione della lingua, sino porque contiene, para gran sorpresa, una especie de vida de Alfonso X, de la que quiero tratar. En realidad, no es, en sentido estricto, una vida al estilo de las vidas de los trovadores occitanos, ya que éstas proporcionaban al lector bastantes más detalles biográficos y anecdóticos, a poco que el trovador fuese tenido en cierta estima5. El texto colocciano referido al monarca castellano está constituido por unas cuantas notas que tal vez fueran tomadas con la idea de redactar una vida del «trovador Alfonso X» al estilo de otras biografías de trovadores provenzales y de poetas italianos que recoge en el códice Vat. lat. 4831 y donde, incluso, hablando de «spagnoli»6, se alude a un capítulo que, sin embargo, nunca fue cubierto, ni siquiera por las biografías de los poetas españoles contemporáneos a Colocci, como, probablemente, era su intención. Tal vez esta vida formase parte, con el resto del códice, de un boceto para incluir en aquella obra ambiciosa que no consiguió llevar a cabo: una especie de enciclopedia sobre las lenguas romances, tal como parecen insinuarlo el resto de anotaciones del Vat. lat. 4817 y el Vat. lat. 3903. 4 Cfr. S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, en Mélanges d’Archéologie et d’Histoire 48 (1931), pp. 308-344, estudio que se completa con el de R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, en Rinascimento 33 (1990), pp. 271-282. 5 Lo deja bien claro M. DE RIQUER, Vidas y retratos de trovadores, Barcelona 1995, p. xi: «El tipo más corriente de Vida suele dar el lugar de nacimiento del trovador, a veces precisando el señorío o la diócesis, su condición social (barón, caballero, caballero pobre, burgués, mercader, de humilde ascendencia, etc.), sus estudios o comienzos de carrera (aprendió letras, fue clérigo, fue juglar), las cortes que visitó o los viajes que hizo, los señores y damas que celebró en sus poesías, en ocasiones desvelando la identidad de las personas que el trovador ocultaba con senhals, o pseudónimos poéticos, algunas circunstancias de su fin (si ingresó en alguna orden religiosa, dónde murió) y un sintético juicio sobre el valor de su obra y sobre su fama o aceptación. (…)». La diferencia con el texto colocciano enseguida saltará a la vista. 6 Cfr. Vat. lat. 4831, f. 104r : «et altri spagnoli».

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APUNTES PARA UNA VIDA DE ALFONSO X

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El espíritu del humanista interesado por la literatura en vulgar permite avistar a un Colocci que recoge la antorcha de Dante7, en el deseo de confirmar la lengua común que él cree reconocer en el Canzoniere de Petrarca como lengua literaria para los italianos, y con esta finalidad va estableciendo un parangón minucioso entre la lengua utilizada por Dante y Petrarca con los dialectos itálicos. O podría, esta vida, haber formado parte del borrador que, con notas acerca de métrica medieval (también dispersas por el Vat. lat. 4817 o por el Vat. lat. 3450), y las notas tomadas en los márgenes de los cancioneros provenzal e italiano, testimonian el deseo de Colocci de elaborar una especie de historia de la poesía, que se completaría con las biografías de trovadores provenzales y poetas italianos del Vat. lat. 4831. El texto confirma, por otro lado, la condición de colector de datos del códice que lo alberga, libro para uso particular del propio Colocci que no necesita atender a la calidad estética del manuscrito, sacrificada ésta en aras de la cantidad y funcionalidad de la información salvaguardada. Recordemos, una vez más, que el Vat. lat. 4817 es, en realidad, un borrador donde hay esencialmente anotaciones de tipo gramatical. Los ff. 1-19 están llenos de notas sueltas, algún párrafo más o menos redactado sobre el «Rythmus» (este rótulo encabeza el códice), cosas de métrica, un poco de historia de la poesía …; entre los folios 41-44 se reflexiona sobre el «Ars»; el f. 46 está dedicado a la «Lingua sicula»; el 49, a la «Lingua Toscana»; el 51, a la «Lingua Lemosina»; el 62, «Lingua comuna»; el 65, «Lingua latina», e così via… Todo el códice viene conformado por apuntes gramaticales, lingüísticos y relativos a la poesía y a ciertos poetas (Dante, Petrarca, Piero della Vigna, Arnaut Daniel, Boccaccio…), y en el reverso del folio 4 nos encontramos con la vida de Alfonso X que a continuación intento transcribir con grandes dudas, porque la caligrafía colocciana, como ya señalaba Debenedetti8, dificulta enormemente la labor de comprensión. Ofrezco seguidamente el texto, tal como lo he leído en el códice:

7 Recordemos que Colocci conocía bien el De Vulgari Eloquentia, tal como demuestra S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci, en Zeitschrift für Romanische Philologie 28 (1904), pp. 56-93. 8 Cfr. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 57: «La scrittura del Colocci nervosa e pesante, irregolare e senza ombra d’eleganza, se non forse quell’apparente vaghezza che nasce dalla spezzatura e dalla rapidità, singolare nella forma della a e della e minuscole, che spesso confondonsi in un unico segno, nella duplice forma della e, […]».

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ELIVRA FIDALGO FRANCISCO

: Alfonsus rex hyspanie fecit tabulas et hic narra quod in eis continetur et in quo erravit, et a quibus postea emendatus fuerit. et multa q(uae) ille vaticinatus e(st) p(er) astrologiam qua(m) ab arabibus didicit et edidit multas cantiones sive canticas et fuit doctus i[n] musicis cuius libri nos vidimus notis musicis annotatum. et fuit peritissimus i(n) mathematicis amavit honesto Nobilissima. [tamen ?] amor(e) la donna de don

Aún después de haber salvado el nada despreciable escollo que supone la caligrafía colocciana, el texto, tal y como aparece en el Vat. lat. 4817 es prácticamente incomprensible. Está escrito – como puede fácilmente constatarse – en un latín, donde hay unos errores de concordancia (cuius libri … annotatum, línea 5) y, sobre todo, presenta una descuidadísima sintaxis que sugiere el apunte desordenado de notas tomadas al vuelo más que la auténtica redacción de un texto. Como resulta difícil creer que un humanista de la talla de Colocci tuviese tan profundas deficiencias en el conocimiento del latín, es más probable que copiara esta vida tal como la encontró en un lugar que desconocemos y que, fiel al original – por las razones que fuesen, desde la comodidad hasta la preservación de un material para su estudio – decidiese no enmendar los errores que contenía. Lo más convincente es que pudieran ser simples notas, recogidas de manera desordenada, a medida que iba leyendo en algún otro lugar, suficientes para contener la sinopsis de una biografía futura, más extensa y mejor trabada. A continuación, repartiéndose el folio, hay poco más de cuatro líneas dedicadas a cierta Elisabetta, igualmente culta, docta en matemáticas y en lengua árabe y latina, así como en astronomía y que también publicó cantiones; para mayor información, se aconseja al lector (o a él mismo, a modo de recordatorio) que acuda a la historia («vide in historiis»). Luego de estos datos, hay dos apuntes de Colocci marcados para insertar (en algún sitio que ignoramos): en uno se menciona a «Juliani apostata» y en el siguiente, a otro (o al mismo) «Julianus». Seguidamente propongo una lectura del fragmento, con las correcciones e integraciones que he considerado pertinentes9:

9 He encerrado entre corchetes las reconstrucciones, entre ángulos las palabras tachadas en el manuscrito y aparecen en cursiva las correcciones en la declinación. Aprovecho aquí para agradecer a la Prof a. Eva Castro Caridad su ayuda para la lectura de estas líneas, y hago extensiva mi gratitud a una larga nómina de personas que en algún momento me han aconsejado para mejorar este trabajo, de modo particular a los Profs. Julio Samsó y Corrado Bologna.

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APUNTES PARA UNA VIDA DE ALFONSO X

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: Alfonsus rex hyspaniae fecit Tabulas. Et hic narra quod in eis continetur, et in quo erravit10, et a quibus postea emendatus fuerit. Et multa quae ille vaticinatus est11 per astrologiam, quam ab arabibus didicit12. Et edidit multas cantiones sive canticas. Et fuit doctus in musicis cuius librum nos vidimus, notis musicis annotatum. Et fuit peritissimus in mathematicis. Amavit honesto tamen amore la donna de don Nobilissima Elisabetta fu doctissima in mathematicis et arabis linguis et latinis. Et praecipue in astronomia. Et vide in historiis cuius fuerit filia et cuius uxor vel mater et q(uae) de filiis vaticinata est. Edidit cantiones13.

Si hasta ahora he hablado con tanta seguridad de Alfonso X como el rex hispaniae que encabeza el texto es, como se ha tenido oportunidad de comprobar, porque ningún otro rey castellano, de entre la extensa nómina de los llamados Alfonso, responde a las cualidades apuntadas por Colocci. Pero, a juzgar por los datos sobre los que se reconstruye esta vida, al estudioso iesino parece haberle interesado más el aspecto literario del monarca castellano que el legislativo, puesto que el texto se articula en torno a dos ejes: su labor como traductor y difusor de la ciencia proveniente de los árabes y como autor de poesía que fue preservada en algún cancionero con su notación musical correspondiente. 1. Destaca, por su facilidad tanto en la lectura como en la interpretación, la alusión a los conocimientos de astrología o astronomía (estos 10 Aunque el texto dice claramente erravit, el sentido del mismo aconseja el cambio en el tiempo verbal por erratum erat. 11 El texto ofrece vaticinatus est, no obstante hay que darle el valor de vaticinavit. 12 En el transcurso de la escritura de esta frase, Colocci debió de haber cambiado el

sentido de la misma en su cabeza, sin llegar a plasmarlo en el pergamino, de modo que el período se abre con una cláusula y se cierra con otra distinta (anacoluto), sin puntuación ni corrección alguna. Suponemos que querría decir que había aprendido de los árabes muchos conocimientos («multa quae didicit»), pero cambia de idea, incluye una oración de relativo en medio y gramaticalmente construye la frase haciendo concordar didicit con astrologiam, con lo que se desprende que lo que aprendió de los árabes fue astrología. 13 Si nuestras interpretaciones son correctas, teniendo en cuenta el estado del manuscrito y todo lo anteriormente advertido, el texto podría traducirse así: «Alfonso, rey de Hispania, hizo unas Tablas. Narra aquí lo que se contiene en ellas y en que se equivocó, y por quienes fue después corregido. Vaticinó muchas cosas por medio de la astrología que aprendió de los árabes. Compuso muchas canciones o cantigas. Fue docto en música, cuyo libro anotado con notas musicales nosotros vimos. Y fue experto en matemáticas. Amó con honesto amor a la señora de don nobilísima… Elisabetta fue cultísima en matemáticas y en la lengua de los árabes y en latín (y) sobre todo, en astronomía. Véase en la historia de quien fue hija, (de quien fue) esposa y madre, y lo que vaticinó sobre los hijos. Compuso canciones».

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rótulos son intercambiables en la Edad Media) recibidos de los árabes. Suena ya a tópico el interés del monarca por esta ciencia: con lo contenido en el Setenario con respecto a este asunto sería bastante para corroborar esta afición. Su pretensión era, como se pone igualmente de manifiesto en otros campos del saber, recoger la totalidad del conocimiento científico de los árabes14 y ponerlo al servicio de sus súbditos con la traducción de estas obras al castellano15. Parece lógico pensar que las tabulas mencionadas sean las Tablas Alfonsíes, redactadas en el taller de Alfonso X el Sabio16, coincidiendo con la política imperial del rey castellano, que alarga sus horizontes pretendiendo la ordenación celeste a través de las Tablas, puesto que la Ordinatio Imperii ya la había acometido, como rey, en las Partidas. En las Tablas de Astronomía o Tablas Alfonsíes17 se compilaron los resultados de una serie de observaciones astronómicas ordenadas por el 14 Con anterioridad al s. X, la astronomía está presente en el mundo occidental apenas con conocimientos muy rudimentarios; el descubrimiento, a finales del s. X, de los conocimientos científicos de los árabes provoca la aparición de los primeros textos relativos a la cosmología y al astrolabio; el s. XII, con el imperio de los estudios árabes, supone el desarrollo de la astronomía planetaria (que sólo será puesta en duda hacia 1290 por Guillaume de Saint-Cloud), seguida por la difusión general, desde la universidad parisina, de la astronomía alfonsina que permanecerá vigente, con las adaptaciones oportunas, hasta finales del s. XVI. Cfr. E. POULLE, Les sources astronomiques (Textes, tables, instruments), Typologie des Sources du Moyen Age, fasc. 39, Turnhout 1981. 15 Se sabe que los colaboradores del rey recogieron un gran número de tratados árabes, compuestos entre los ss. IX y XII, relacionados con la astronomía/astrología, los tradujeron y los adaptaron o ampliaron. Finalmente, fueron recopilados en una gran obra titulada Libros del Saber de Astronomía, que, con ser de mayor envergadura, no tuvieron la difusión de las Tablas que llegaron a imprimirse en 1483. 16 Aunque hay que recordar la frecuencia con que Colocci usa tavola para referirse a incipitarios o índices de autores de los cancioneros que estudiaba. No obstante, en este caso no hay duda ya que en la época medieval, el conocimiento de las estrellas fijas se veía reflejado, siguiendo el ejemplo islámico, en una serie de listados (tabulas) de estrellas, ya sea en forma de catálogos o de tablas. Básicamente, los catálogos consisten, a imagen del que introduce Ptolomeo en su Almagesto (traducido por Gerardo de Cremona en Toledo en 1175) en una lista completa de las estrellas fijas observables a simple vista, siendo, por tanto, las únicas conocidas hasta la invención del telescopio. 17 Cfr. edición al cuidado de A. G. SOLALINDE (3 vols.), Madrid 1930, 1957 y 1960. To-

davía se discute, cada vez con menos vehemencia, bien es verdad, acerca del origen de las Tablas. Cfr. “Ochava espera” y “Astrofisica”. Textos y estudios sobre las fuentes árabes de la astronomía de Alfonso X, edición preparada por M. COMES, H. MIELGO, J. SAMSÓ, Barcelona 1990. Tanto Mercè Comes como el equipo en el trabajo se encuentran entre los más fervientes defensores de la procedencia alfonsí de las Tablas. Opiniones en contra sostienen G. BEAUJOUAN, La Science en Espagne aux XIVe et XVe siècle, Paris 1967 y E. POULLE, Les Tables alphonsines sont-elles d’Alphonse X? en De Astronomia Alphonsi Regis. Actas del Simposio sobre astronomía alfonsí (Berkeley, agosto 1985), Barcelona 1987, pp. 51-69.

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propio rey para señalar la posición de los planetas y las estrellas durante diez años, de 1262 a 1272. Las Tablas de Astronomía proporcionaban, así, información sobre catálogos de estrellas (que tenían su punto de referencia en el Almagesto), la localización de los planetas, coordenadas zodiacales, longitudes y latitudes, etc., y solían acompañarse de unos cánones (difundidos gracias a la traducción latina de Juan de Sajonia) que eran algo así como las instrucciones de empleo de las tablas, al tiempo que respondían implícitamente a las preguntas que aquéllas podían originar. El interés personal del soberano por la astrología le llevó a ordenar la construcción de los instrumentos mencionados en el Almagesto, con los que astrónomos toledanos pudieron corregir las observaciones del astrónomo cordobés del s. XI, Azarquiel. Todo ello hace del Libro de las Tablas Alfonsíes la obra cumbre de la astronomía medieval, ampliamente difundida por Europa a lo largo de toda la Baja Edad Media, siendo sólo sustituida a finales del s. XVI por las Tablas Prutéricas basadas en el sistema copernicano. A la renovación que supuso el sistema alfonsí en el mundo de la astronomía medieval y a las correcciones que el conocimiento y la precisión de sus colaboradores permitieron y gracias a las cuales se ajustó el conocimiento de las estrellas, debe hacer referencia Colocci en esta Vida, en la que el sintagma «in quo erravit» debe de referirse más a la obra de sus predecesores que a la de Alfonso ya que, por el contexto, el tono del documento y por cuestiones puramente cronológicas (Angelo Colocci muere en 1549) no debe de estar aludiendo a las modernas correcciones de las Tablas. A sus estudios sobre astronomía (o astrología) debe hacer referencia también la valoración sobre sus conocimientos en matemáticas («fuit peritissimus in mathematicis»), puesto que, según la propia definición alfonsina, matemático «quiere dezir como sabio del saber de adevinar et sabio otrossi de dezir bien et cierta mientre las adevinanças que dixiere ca por adevino es el matematico» (General Estoria, IV, ff. 168v, 99-169r, 1)18. Pero además, la matemática proporcionaba el método para su labor astronómica ya que, desde la Antigüedad clásica han coexistido dos tipos distintos de astronomía, una astronomía física, que aspiraba a describir una maquinaria celeste que tuviera existencia real, y una astronomía matemática que pretendía diseñar modelos geométricos imaginarios capaces de predecir posiciones de los astros en el firmamento que, como se ha visto, se corresponde con el contenido de la mayor parte de la obra 18 Cito por H. A. VAN SCOY, A Dictionary of Old Spanish Terms Defined in the Works of Alfonso X, Madison 1986, p. 67.

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astronómica del rey Alfonso. Sin embargo, quisiera llamar aquí la atención sobre una cuestión que podría pasar desapercibida en este contexto de astrofísica, pero que podría tener su importancia de cara a averiguar la finalidad de la redacción de estas líneas sobre Alfonso, y es que las matemáticas eran parte fundamental del saber del musicus en la Edad Media, por cuanto éste debería conocer los presupuestos aritméticos y las razones teóricas de la ars musica19, y Colocci destaca que el rey castellano «fuit doctus in musicis». 2. A esta faceta “técnica” del sabio, Colocci no añade la legislativa, tan importante, ni la historiográfica, crucial para el desarrollo del género en las letras castellanas, sino la poética, resaltada a través de la sinonimia que establece entre los dos términos arriba mencionados: «cantiones sive canticas». No es preciso recordar que en latín, el término que hacía referencia a ‘canto’ en el contexto literario, era carmen, -inis, y solía venir ligado al verbo canere ‘cantar’20; de éste deriva cantus, propiamente ‘canto’ y cantio, del mismo significado. A cano corresponde un intensivo cantare, ‘cantar’ que compite con el anterior desde los documentos más antiguos. La etimología de cantiga, en el texto, cantica, es todavía incierta, como insegura es su acentuación. Lo que no presenta dudas es su interpretación en los textos: una cantiga es una poesía compuesta para ser cantada: una canción, que diríamos hoy, por lo que cantiga mantiene la misma relación directa con el verbo cantar que cantione con canere. Que Colocci haya reparado en el término, debe responder a la curiosidad que despierta tan particular sustantivo romance, propio y de uso generalizado en los cancioneros que contienen la lírica gallego-portuguesa y que él poseía, y, por tanto, ya le resultaba familiar21. La vertiente musical de estas composiciones queda explícitamente subrayada con su mención al libro «notis musicis annotatum» que cobra verdaderamente importancia al hilo de lo que diremos seguidamente. 19 Cfr. F. PETROBELLI, Poesia e musica, F. A. GALLO, Dal Duecento al Quattrocento y G. CATTIN, Il Quattrocento, en Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, VI: Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 229-318 y J. CHAILLEY, Histoire musicale du Moyen Age, Paris 1950. 20 Para mayor información cfr. A. ERNOUT, A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots [1932], Paris 1985. 21 El término provenzal cansó, que habría podido originar términos como canción, cançon, no tuvo fortuna en el ámbito gallego-portugués, seguramente porque aquí ya era común la forma cantar. La novedad – y es esto lo que debió de llamar la atención del humanista – es la aparición, precisamente en el período alfonsino, de cantiga que acabó cristalizándose para hacer referencia a la canción escrita por los trovadores. Cfr. M. BREA, “Cantar et cantiga idem est”, en Homenaxe ó Profesor Camilo Flores, edición coordinada por M. T. GARCÍA-SABELL TORMO, Santiago de Compostela 1999, II, pp. 93-108.

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A primera vista, y teniendo en cuenta lo que hasta hoy nos ha llegado de la labor poética del rey, el comentario parece hacer referencia a las Cantigas de Santa Maria, las únicas preservadas en códices miniados y con notación musical, a menos que aluda a sus composiciones profanas, las cantigas de amor (no creo que a Colocci le interesaran las de escarnio, ni las entendiese, al estar tan lejos del contexto que permite el juego), lo cual nos induciría a suponer la existencia de un códice para nosotros desconocido. Sin embargo, con ser sorprendente esta noticia, no lo es menos la alusión a la contemplación personal del libro del rey: el relativo «cuius» no deja alternativa para otro libro que contuviese, entre otras composiciones, las alfonsinas, a menos que se tratase de un códice misceláneo, propiedad del monarca. Por otra parte, y en el intento de aclarar la referencia, hay que recordar que Lattès deja bien claro la existencia de ciertos códices de Colocci que contienen en la página de guarda la anotación «visus», escrita de su mano para indicar que ha examinado personalmente ese texto22, lo cual nos permite suponer que, efectivamente, ha tenido la oportunidad de echar una ojeada al desconocido libro alfonsí. Sabemos que la biblioteca colocciana contaba con los dos cancioneros gallego-portugueses, pero también que pudo haber tenido alguno más o, simplemente, haberlo tenido en algún momento en sus manos. Me cuesta creer que haya poseído un cancionero profano alfonsí, a menos que creyese que el libro di portoghesi que hace copiar en B y en V hubiese sido propiedad de Alfonso X. No obstante, aun aceptando esta posibilidad, sorprendería menos que se tratase de uno de los códices que guardan la producción mariana, que responderían sin mayor dificultad a la descripción colocciana, que uno profano. Conociendo como conocemos la transmisión textual de las Cantigas23, inmediatamente pensamos en el Códice F, hoy en la Biblioteca Nazionale di Firenze (Banco Rari 20), miniado y con la transcripción de las doscientas últimas cantigas que debería contener si no quedase incompleto. El camino recorrido por este códice hasta su llegada a Florencia continúa siendo una incógnita, y eso permite aventurar la posibilidad de un viaje a Italia (¿a Roma?, ¿a Nápoles?) del cancionero anterior a la fecha que lo sitúa por primera vez en una biblioteca conocida. 22 Como era de esperar, no figura en el catálogo que elabora LATTÈS, Recherches cit. 23 Se trata, como es bien sabido, de cuatro códices conservados: TO (Madrid, Bibl. Na-

cional, ms. 10069), T (Madrid, Bibl. Escorial T.j.1), E (Madrid, Bibl. Escorial J.b.2) y F (Firenze, Bibl. Nazionale Centrale, Banco Rari 20). Para más detalles puede verse E. FIDALGO, As Cantigas de Santa Maria, Vigo 2002, pp. 51-58.

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Jesús Montoya supone que este códice pudo haber sido llevado por Alfonso X a Beaucaire en 1275 para acabarlo enseguida y obsequiar con él al papa Gregorio X si salía satisfecho de la entrevista sostenida con él en donde trataría de las ambiciones imperialistas del monarca; el regalo sería, no sólo una muestra de su agradecimiento, sino una especie de “aval divino”, prueba de la protección especial y conformidad de la Virgen para el candidato idóneo a la corona de Carlomagno24. Sin embargo, Joaquín Hernández Serna está en desacuerdo con esta hipótesis. Sostiene, por el contrario, que, a la muerte del rey, el códice habría pasado a manos de uno de sus escribanos predilectos, Bonamic Zavilla, para que lo acabase en Murcia, aunque no llegó a hacerlo25. Lo que sí parece seguro, a la luz de posteriores investigaciones26 es que a finales del s. XV el códice todavía estaba en Sevilla al lado de los códices E y T, sin que se pueda determinar con exactitud qué ocurrió desde entonces hasta 1674, fecha en que figura en la biblioteca de Juan Lucas Cortés27, ni entre esta fecha y 1771 cuando queda depositado en la biblioteca florentina. Arcos temporales tan extensos (nos interesa, desde luego, el primero) y de tan impenetrable silencio en lo que al códice se refiere, no nos permiten suponer la ocasión para un viaje previo a Italia; pero tampoco descartarla. Todavía podemos barajar otra opción y es que las «cantiones sive canticas» del rey Alfonso se encontrasen en ese tercer manuscrito, hoy perdido, cuya existencia supone Samy Lattès después del examen de los 24 J. MONTOYA, El códice de Florencia: una nueva hipótesis de trabajo, en Romance Quarterly 33 (1986), pp. 323-329. 25 Cfr. J. HERNÁNDEZ SERNA, El códice de Florencia B.R. 20 de las CSM, en Murgetana 18 (1989), pp. 71-101. 26 Más recientes averiguaciones llevan a desechar hipótesis inicialmente barajadas, como la que sostiene que el rey o alguno de sus herederos lo hubiese regalado a algún miembro de la nobleza de Lorena, a través del cual llegaría a la biblioteca florentina fundada por Antonio Magliabechi en 1771, con una importante aportación de los fondos legados por Francisco III de Lorena, posteriormente emperador de Florencia. Cfr. el estudio preliminar a la edición facsimilar de A. SANTIAGO LUQUE, El códice de Florencia de las Cantigas de Santa María de Alfonso X el Sabio, Madrid 1991. 27 Es poco probable que hubiese pasado a la Biblioteca de El Escorial en 1591, cuando

Felipe II hizo trasladar los fondos de la Capilla Real de Sevilla y de la Capilla Real de Granada para crear una biblioteca de gran envergadura en el monasterio del Escorial. De todas formas, que no se guarde allí, con los otros, no significa que no haya estado en algún momento: el caso del Cancionero de Baena es similar, al haber sido custodiado en la biblioteca laurentina y conservarse hoy en la Biblioteca Nacional de París (cod. Esp. 37), sin que nada se sepa de cuándo y cómo salió de allí (Cfr. B. DUTTON, J. GONZÁLEZ CUENCA, eds., Cancionero de Juan Alfonso de Baena, Madrid 1993, pp. xxiii-xxvi). En cuanto a las Cantigas, me parece mucho viajar de incógnito para un códice tan particular.

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nombres de los trovadores que Colocci fue escribiendo al lado de las composiciones de los cancioneros conservados: La colection portugaise de Colocci ne se limitait pas à cela [a los dos cancioneros conocidos]: il a, sinon possédé, du moins certainement connu un autre manuscrit, aujourd’hui perdu, car dans les deux chansonniers les noms des auteurs sont écrits de sa main et il n’a pu tirer ces renseignements que d’un autre recueil28.

Otras opiniones no menos expertas29, conducen a presupuestos de la misma índole y aún multiplican las posibilidades para la existencia de otros códices distintos de los que ahora conocemos o inmediatamente suponemos; pues bien, la existencia de este «autre recueil» o de algún «recueil» más me da pie para lanzar una nueva hipótesis, arriesgada, que, de paso, vendría corroborada por la negación de la otra apenas propuesta y referida al códice mariano de Florencia. En primer lugar, y sin que ello suponga que adhiera la teoría de Hernández Serna, tengo que discrepar de la suposición de Montoya con respecto al códice F: cualquiera que conozca este códice se dará cuenta de que no sólo se trata de un códice inacabado, sino de que es un proyecto abandonado sin haber alcanzado siquiera la mitad de lo que había sido el proyecto inicial, confirmado éste por la perfección que exhibe su códice hermano, el códice T.j.1 que contiene las doscientas primeras cantigas. F, que debería ser un códice semejante en todo a T, excepto en que contendría las doscientas cantigas siguientes (en líneas generales) presenta un estado que dista mucho de T. Ambos debieran destacar por el preciosismo de sus miniaturas, por la perfección en la distribución del espacio del folio y el juego de colores que ofrece la alternancia de la tinta roja y la tinta negra, así como por la claridad de la notación musical que permitiría una ejecución perfecta. Sin embargo, el códice de Florencia presenta 113 láminas orladas con 6 viñetas cada una, de las que únicamente 48 fueron rematadas, 46 quedaron sin acabar y 19 sólo enmarcadas; en cuanto a la notación musical, la situación es todavía más lamentable: no llegó a escribirse y los pentagramas, que se dibujaron, están vacíos. El número de 28 Cfr. LATTÈS, Recherches cit., p. 334. 29 G. Tavani ha sugerido en varias ocasiones, y lo ha ratificado en este congreso, la exis-

tencia de antecedentes distintos para B y V, además de para la Tavola Colocciana. Véase, G. TAVANI, La tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese, en Cultura Neolatina 27 (1967), pp. 41-94, o, más recientemente, ID., Eterotopie ed eteronomie nella lettura dei canzonieri galego-portoghesi, en Tra Galizia e Provenza. Saggi sulla poesia medievale galego-portoghese, Roma 2002, pp. 13-28.

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textos transmitidos no compensa tanta ruina, ya que de las doscientas cantigas previstas, en F sólo se pueden leer 104 y no todas completas. ¿Quién podría ofrecer un códice semejante como regalo a un papa con la pretensión de que se pusiese de su lado en una cuestión tan delicada como la adjudicación de la corona imperial? El rey Alfonso habría ofrecido un códice bien hermoso – y, con toda probabilidad, en latín –, no parte de una de sus más estimadas obras y que aún estaba en proceso de construcción. Desechada, pues, esta posibilidad, se mantendría aún en pie aquella otra que propone que el códice viajase a Italia después de haber salido de la catedral sevillana y durante ese período en que le hemos perdido la pista. No obstante, por defectuosa que esté la vertiente iconográfica del códice F, éste sigue atrayendo la atención, precisamente, por sus páginas miniadas, que lo hacen, con toda su imperfección, superior a cualquier códice contemporáneo que transmita poesía con la debida notación musical (recordemos, inexistente en F). Sin embargo, no son las miniaturas lo que llama la atención de Colocci, que sin duda, lo habría hecho resaltar, del mismo modo que destaca la existencia de la notación musical, que debería de ser mucho más común en códices contemporáneos a los que estaba copiando. Que B y V no nos transmitan las melodías que sostenían la ejecución de las cantigas no quiere necesariamente decir que el códice de donde el iesino está copiando no la ofreciese, sino que al humanista, estudioso de las lenguas romances y de su expresión literaria, en aquel preciso momento, no le interesaba la música. Por eso, me inclino a creer que cuando Colocci apunta, en un borrador, que más que texto es un revoltijo de notas para la composición de un texto, que vio un «librum notis musicis annotatum» es porque el códice que tenía ante sus ojos era un códice que no poseía miniaturas que atrajesen de manera especial su atención, pero bien cuidado, probablemente con hermosa letra y curada anotación musical y este detalle le sorprende porque, tal vez en la biblioteca en la que Colocci estudiaba había más códices sin puntuación musical que con ella, bien porque fuesen copias que se ocupaban de transmitir el texto relegando el acompañamiento musical – y pensemos en los cancioneros provenzales e italianos due y trecentistas que atesoran el texto, confiando la transmisión del acompañamiento musical a la memoria o a la transmisión oral –, sea porque hubiese mayoría de códices cuatrocentistas, que ya no recogían «canciones» sino poemas (letras), como el Cancionero de Estúñiga, el Cancionero de Roma, el Cancionero de la Marciana y tantos otros que ha generado el ambiente cultural patrocinado por Alfonso el Magnánimo, rey de Nápoles, que respondiendo a otro momento de la historia de la poesía, ya no guardan

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más que los textos, como sucederá, por otra parte, en la mayoría de cancioneros románicos a partir de le segunda mitad del s. XIV; y esta suposición me lleva a pensar en el destinatario – ojalá que en el poseedor – de este libro que Colocci ha visto. Entre estos manuscritos, ¿habría visto Colocci el códice que reunía la producción profana del rey castellano? Creo que muchos desearíamos creer que Alfonso X, trovador y generoso mecenas de trovadores, se hubiese ocupado de reunir su producción poética no religiosa, aunque sólo fuese la burlesca, que parecía divertirlo tanto; alguno de sus colaboradores habría podido encargarse de ello, aunque no estuviese movido por la admiración sino sólo por una cuestión de deber para con el soberano. Claro que esta condición, que favoreció la pervivencia de su obra, choca frontalmente con la desaparición de este – conveniente a nuestros propósitos – cancionero. No sería descabellado pensar que, cuando es su deseo convertirse en trovador de la Virgen, decidiese conscientemente desmerecer su producción profana, despreocupándose de su eventual pervivencia, tal como declara en el Prólogo de las Cantigas, en unos versos que podrían ser algo más que una declaración puramente retórica provechosa para su nuevo propósito. Como no podemos aferrarnos a la opción, imposible de sostener, de la existencia de un cancionero profano, queda pensar en una copia de la producción poética que sí habría sobrevivido al propio rey, y esto nos conduce nuevamente a las Cantigas de Santa Maria, pero, por lo expuesto antes, parece que a ninguno de los cuatro códices conocidos de las Cantigas de Santa Maria30. Siendo así, ¿ha visto una copia de algunos de estos códices? ¿Quién poseyó una de estas copias? Es ahora cuando entra en juego Elisabetta. Pero vayamos por partes. 3. Que Elisabetta y Alfonsus compartan folio de un mismo códice no indica nada más que eso. A lo sumo, podría indicar que ambos personajes llaman la atención de Colocci por la misma razón, a mi juicio, su interés por la astronomía, que implica cierta familiaridad con la cultura árabe y el dominio de las matemáticas, y en segundo término, que ambos compartían su afición de componer cantiones, pero no tiene por qué existir un vínculo superior que los relacione, a menos que Elisabetta hubiese poseído el libro que ha visto Colocci. Quién se esconde detrás de este misterioso personaje femenino es lo que me gustaría saber. Lo que se nos dice de ella es aún más vago que las 30 Salvo, pero parece poco probable, que se trate de aquel primer Códice que Mettmann llama TO0, del que no sabemos nada.

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noticias que Colocci da sobre Alfonso: le basta con remitirnos ¿a las crónicas? («vide in historiis»), para saber de quién se trata, ya que allí se daría cumplida información acerca de ella. Todo apunta a que es, en efecto, un personaje importante, y eso me obliga a mencionar que lo primero que se lee en el f. 4v del Vat. lat. 4817, antes de la vida de Alfonso, es un «Elisabetta regina», entre tachaduras, como si fuese a tomar nota de algo referente a esta reina y, de repente, hubiese cambiado de opinión o interés y pasase a escribir sobre Alfonso. ¿O estaba leyendo algo sobre Elisabetta (o tenía entre manos algo de Elisabetta), que contenía algo referente a un tal «Alfonsus rex Hispaniae», se dispuso a tomar nota, inconscientemente escribe «Elisabetta regina», porque es lo que llena en ese momento su mente, y lo tacha al darse cuenta del error, ya que quiere anotar algo sobre Alfonsus? En cualquier caso, opino que la relación entre ambos personajes – ¿debería decir «entre ambos monarcas»? – queda establecida a través del libro que los menciona, a ambos, y saber porqué ayudaría mucho. Siguiendo este presupuesto, existen dos Isabeles, reinas, que podrían estar relacionadas con Alfonso el Sabio, por poseer una biblioteca en la que figuran copias de algunos de los libros del Sabio. Se trata, por un lado de la reina Isabel de Portugal (1271-1336), hija de Pedro el Grande de Aragón y de Constanza de Sicilia (nieta, por tanto, de Federico II de Sicilia), esposa del rey don Denis (nieto de Alfonso X por ser hijo de Doña Beatriz de Guillén, hija ilegítima de aquel) y madre de Alfonso IV (el Bravo) de Portugal. Aparte del lejano parentesco con el rey Alfonso, el vínculo de unión más fuerte es la posible existencia de un códice de las Cantigas de Santa Maria, que parece haber poseído don Denis. En honor a la verdad, debo decir que no hay constancia de ello. Lo único que sabemos es que Duarte Nunes de Leão, en su Chronica dos Reys de Portugal, cita al rey portugués como gran poeta «segundo vimos per hun cancioneiro seu que en Roma se achou em tempo del rey D. Joam III, e per outro questá na Torre do Tombo, de louvores da Virgem Maria Nossa Senhora»31. Esta misma noticia ha sido repetida en diferentes estudios, atribuyendo la autoría del cancionero mariano a Don Denis32, si bien con la misma cautela que personalmente tomo, ya que yo me pregunto, 31 Cito por el Dicionário da Literatura Medieval Galega e Portuguesa, organizção e coordinação de G. LANCIANI e G. TAVANI, Lisboa 1993: E. GONÇALVES, s. v. Denis, Dom, pp. 206212, p. 212. 32 Lo menciona X. F. FILGUEIRA VALVERDE, s.v. Alfonso X, en Gran Enciclopedia Galega, Santiago de Compostela 1986, vol. 1, pp. 242-252: «Aunque no falten autores (D. Nunes de Leão, A. de Sousa Macedo) que hayan otorgado también a don Denis un Cancioneiro de louvores da Virge, a imitación del rey sabio, que se habría perdido» .

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ante la ausencia de cualquier otra muestra de esta faceta poética del rey portugués33, si no se trataría más bien de la copia de las Cantigas compuestas por su abuelo, tal como insinúa Filgueira, ya fuese regalado el códice al nieto o a su propia hija, casada en Portugal34. Sea como fuere, si la suposición fuese correcta, no sería imposible que el códice en cuestión se creyese patrimonio de una reina que, por otras cuestiones, siempre ligadas a su carácter piadoso, se hará muy famosa, llegando a ser canonizada en 1625. La infortunada reina acaba sus días desterrada en Alenquer, por lo que su patrimonio pudo haber sido expropiado y diseminado, abocado parte de él a la pérdida sin que quede más rastro que esa referencia a la conservación (no fechada35) del códice que nos interesa en la Torre do Tombo, de donde pudo haber salido para ir a parar a Italia, al lado de la colectánea dionisíaca que hoy conocemos. Por qué otras razones Colocci siente curiosidad por esta mujer que conoce el árabe, el latín y sabe mucho de astronomía, se nos escapa, aunque, contra tanta sabiduría choca, sin embargo, la reina Isabel, de cuya formación nada se sabe, como tampoco de su labor literaria. Aunque pudiese suponérsele una buena formación en latín, por ser preparada para ser reina, pericia en árabe, matemáticas y astronomía sería demasiado suponer. Si acaso, pudiera atribuírsele sin demasiados escrúpulos que «edidit cantiones», entendiendo el verbo edere en el sentido de «promocionar, dar a conocer», por la misma razón que podemos atribuirle la posesión de un códice que, en realidad, de haber existido, perteneció a su marido. Tampoco el hecho de vaticinar sobre sus hijos descarta a esta Isabel como la mujer del texto, ya que otras veces Colocci ha confundido a Afonso Sanchez, el trovador, hijo de don Denis pero

33 Aparte, claro está, del conocimiento de las mismas, tal como lo demuestran los diferentes casos de intertextualidad que arrojan cantigas dionisíacas como Levantouse a velida (B 569, V 172; Cfr. E. GONÇALVES, Intertextualidades na poesía de Dom Dinis, en Actas do XIII Encontro de Profesores Universitários Brasileiros de Literatura Portuguesa, Rio de Janeiro 1992, pp. 146-155), que recupera el término alva con el mismo significado que detentaba en la cantiga 340 alfonsí (cfr. ALFONSO EL SABIO, Cantigas de Santa María, III, ed. W. METTMANN, Madrid 1989). 34 La relación entre doña Beatriz y su padre Alfonso debió de ser muy estrecha, a

juzgar por un dato, este sí corroborado históricamente: cuando Sancho IV se rebela contra su padre, don Denis se pone de parte aquel, mientras su esposa corre a Sevilla, en apoyo de su padre, acompañándolo hasta el día de su muerte. 35 Si bien la declaración de Nunes de Leão es ya de inicios del s. XVII, no hace más que reproducir noticias propagadas en el s. XV.

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engendrado fuera del matrimonio, con su hijo Alfonso, que será rey de Portugal36. La otra Isabel que podría ser el referente de este texto colocciano, sin que su figura encaje mejor que la anterior, es Isabel la Católica, reina de Castilla entre 1474 y 1504, hija de Juan II de Castilla y de su segunda esposa, Isabel de Portugal; casada con Fernando II de Aragón en 1469, con la definitiva expulsión del último rey de Granada, concluyen la trabajosa Reconquista en 1492. Además de por su labor política, donde demostró grandes dotes de estadista en situaciones delicadas37, destaca también por su ambiciosa labor cultural. Isabel reunió una excelente biblioteca, según algunos historiadores, sólo comparable a la que debió de haber poseído Alfonso X. Casi cuatrocientos volúmenes en pergamino y papel, a los que todavía hay que añadir los volúmenes impresos y las ediciones de los poetas más famosos en su tiempo que escapan al repertorio editado por Sánchez Cantón38. De esta colección, cabe destacar para nuestros propósitos, las copias de las Crónicas alfonsíes, de los Libros de astronomía, de las Siete Partidas, el Fuero real, el Libro de Axedrez y, como no, de las Cantigas de Santa Maria, que, en el inventario de bienes existentes en el Tesoro del Alcázar de Segovia de 1503, aparece descrito así: Otro libro de marca mayor, en rromançe, en pergamino, en lengua portuguesa, que son los Milagros de Nuestra Señora, con unas coberturas de cuero colorado, cinco bollones de latón de cada parte, que se çierra con dos correones, a partes apuntando de canto llano39.

Por su fiel cronista, Sánchez del Pulgar, sabemos de su interés por la literatura italiana del momento, de su deseo de imbuir a sus hijos el espíritu humanista proveniente de allí, mandando venir educadores ita36 Cfr. GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit. En el comentario a la rúbrica 405 (p. 437), se ofrece, además, bibliografía precisa que trata de responder por qué comete este error. 37 Para mayor información cfr. P. K. LISS, Isabel la Católica. Su vida y su tiempo (trad.

J. SÁNCHEZ e I. AZAR), Madrid 1998 (para su curiosa relación con la Virgen, véanse las pp. 153-155) o M. FERNÁNDEZ ÁLVAREZ, Isabel la Católica, Barcelona 2003. 38 F. SÁNCHEZ CANTÓN, Libros, tapices y cuadros que coleccionó Isabel la Católica, Ma-

drid 1950. Cfr. igualmente, C. SILIÓ, Isabel la Católica, fundadora de España. Su vida, su tiempo, su reinado, 1431-1504, Valladolid 1939. 39 Se trata, como es lógico pensar, del códice T. La información la ofrece E. RUÍZ

GARCÍA, Los libros de Isabel la Católica. Arqueología de un patrimonio escrito, Salamanca 2004, p. 299. En la p. 374 añade que en un inventario de los libros poseídos por la reina, pero llevado a cabo ya en 1576 «se menciona un segundo ms. que sería J.b.2 [es decir, el que conocemos como códice E], tal vez procedente de la catedral de Sevilla».

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lianos ex profeso, y que su inclinación por el latín, a cuyo estudio se dedicó con éxito, deriva igualmente de la admiración por la cultura italiana del momento. Pero no consta que el árabe y la astronomía le interesasen en igual medida; no obstante, sí sabemos de unas Tablas de astronomía que Alfonso de Córdoba le dedica, indicio de que podría haber patrocinado tal obra por ser materia que llamase su atención. En cuanto a la expresión «edidit cantiones» con que se cierra el breve espacio dedicado a Elisabetta, no podemos asegurar que Isabel compusiera canciones, aunque no es descartable el ejercicio de la poesía en quien es amante de este arte, que se rodea de músicos y poetas, patrocinando sus obras, dada su manifiesta satisfacción en la poesía, como describe Sánchez del Pulgar: … sabía fablar e entender latín, leya muy bien, placíanle muchos libros e estorias, oya de muy buen grado los decires rimados, e conocia los vicios dellos (…) sabía del arte de la música, cantaba e tañía bien40.

De cualquier modo, el sentido del verbo edere no exige ir más allá de la conocida labor de promoción ejercida por la reina. 4. Como se puede advertir, en ambos casos, no tengo más que conjeturas prendidas con alfileres para hacerlas encajar en el cuadro de nuestro puzzle. Creo, de todas formas, que el hilo conductor que lleva de Alfonso X hasta Colocci, pasando por esta misteriosa Isabel sin rostro, es la obra astronómica del primero y la biblioteca donde se encontró con el Alfonso astrónomo. ¿Le interesaba a Colocci la astronomía? Lattès41 identifica, entre los fondos en griego de su biblioteca, algunos volúmenes de Ptolomeo (Armonica, Quatri partium Ptolomei), Aristóteles (Aristotelis de celo, de generatione et corruptione et de metheoris) y de su fondo latino, dos libros de Pontano sobre astronomía, el De Stellis (De fortuna) y De rebus coelestibus (en catorce libros), al que todavía podrían añadirse De meteora que, aunque fuese un tratado que se ocupase de los fenómenos metereológicos, no estaba completamente desligado de la influencia de las estrellas. Más que curiosidad por la relación de las estrellas y la fortuna de los hombres, Angelo Colocci estaba interesado en lo que hoy llamaríamos las “ciencias naturales” y, bajo esta perspectiva, estudia el cielo hasta el punto de transcribir dos tratados encuadrables en la tradición de los estudios astronómicos, el De situ elementorum y el De qua40 Cfr. Semblanza de los Reyes Católicos, incluido en F. DEL PULGAR, Claros varones de Castilla, Madrid 1942, pp. 145-153. 41 Cfr. LATTÈS, Recherches cit.

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drante, «copie non trascritte della mano dell’autore (…) e assumendo appunto come titolo quello che di suo pugno il Colocci aveva aggiunto nel margine superiore dei fogli iniziali delle rispettive operette»42. La primera trata, entre cosas más generales, de la relación recíproca entre los cuatro elementos, de su posición y estratificación, de la orientación de la tierra con respecto a otros astros, particularmente, del sol; la segunda describe el orbe en base a cuadrantes, lo cual comporta el estudio de las relaciones entre el lugar de la tierra y la órbita zodiacal y el consiguiente influjo de los astros, revisando las teorías ptolemaicas a la luz de los más actuales estudios de Pontano. Colocci debió de empeñarse a fondo en el estudio de la astronomía, tal como lo demuestra la abundante colección de libros sobre el asunto que tenía en su poder y la admiración que sentía por Pontano, cuyos libros (autógrafos) acabaron en la biblioteca colocciana a la muerte del maestro napolitano. El ms. Arch. Bibl. 15 de la Biblioteca Vaticana conserva un elenco de los libros que guardaba su biblioteca en torno a 1543-1549; en el folio 60 r-v, bajo el rótulo «Astrologia», figura la relación (no autógrafa) de los volúmenes relativos a esta materia. Son muchos y variados, y van desde tratados de Euclides, al Almagesto, pasando por libros de aritmética y geometría o el Almanac, e incluyen un «Alfonsus tabulis» (60r), un «Liber d’Astronomia in carta bona» (60v) y al fondo del f. 60r, esta vez del puño de Colocci, una anotación: «Tabule astrologie i(n) un foglio cartha bona». En cuanto a la referencia «Alfonsus tabulis» no parece haber duda de a qué se refiere, y me inclino a creer que el «Liber d’Astronomia» pudiera ser también el libro que recogía los estudios astronómicos mandados traducir por el rey castellano, teniendo en cuenta, además, la aclaración «in carta bona», que podría hacer pensar en un soporte acorde a la calidad de la obra que contiene. Silvia Rizzo explica que los libros copiados con pretensión de que perdurasen en el tiempo se escribían en pergamino, mientras que los «manoscritti cartacei» eran normalmente copias provisorias, para uso personal, escritos manu veloci43; el problema es que, en el período humanista, «cartha» puede indicar, tanto el papel como el pergamino, de modo que no sabemos con qué material se había confeccionado el códice en cuestión, si bien el calificativo «bona» parece disuadir de que se trate de un libro para uso y estudio exclusivamente personal, puente para la elaboración de una obra más ambiciosa. Coloc42 Cfr. F. TATEO, Gli studi scientifici del Colocci e l’Umanesimo napoletano, en Atti del

Convegno di studi su Angelo Colocci (Iesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 133-155, p. 133. 43 S. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973 (Sussidi eruditi 26), p. 13.

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ci se había hecho con una copia de una obra que él consideraba meritoria de ser preservada para la posteridad y por ello la hace copiar «in cartha bona» que pueda desafiar el paso de los años. Podemos deducir de todo ello que Colocci poseía las obras astronómicas alfonsíes, sin necesidad de recurrir a noticias indirectas acerca de su existencia, pero, ¿dónde halló estos libros?, ¿dónde las habría copiado?, ¿en la misma biblioteca donde había visto el libro de cantigas? Francesco Tateo apunta que «alcune osservazioni su questi testi [el De situ elementorum y el De quadrante] ci pongono in grado di illuminare l’interessante legame che collega un aspetto non prevalente ma senza dubbio sintomatico della cultura colocciana con l’ambiente culturale della vicina Napoli»44, donde Pontano ejercía su hegemonía en este y otros campos del saber. Lo más fácil es creer que, al haber sido Alfonso el Sabio una figura de calado tal en la explicación de la ordenación celeste durante toda la Baja Edad Media, cualquier biblioteca medianamente guarnecida en la época contaría con un ejemplar, al menos de las Tablas, y esta biblioteca estaría en Nápoles. Lamentablemente, nada nos permite suponer que hubiesen sido éstos volúmenes que se ordenasen en medio de la vastísima biblioteca del rey Roberto de Anjou, tan aficionado al estudio de las estrellas que hizo venir al famoso astrónomo y astrólogo Andalò dal Negro a Nápoles, donde redactó el Introductorius ad iudicia astrologie, una de las obras que enseguida fueron admiradas y difundidas por el reino. Otra figura no menos importante de la corte angioína en la misma época fue la del agustino Dionigi Roberti da Borgo San Sepolcro, que además de teólogo formado en la universidad parisina, era maestro de retórica, poética e historia clásica y gozaba de buena fama de astrólogo. En 1337 se traslada a Nápoles, reclamado por el rey, para convertirse en su astrólogo y consejero45. Un astrólogo de la época conocería, sin lugar a dudas, la obra del rey castellano y no es difícil que poseyera unas Tablas. Si esto es así, podrían haber pasado a formar parte de la biblioteca real, siendo, el propietario rey, admirado y alabado por Petrarca dada su sabiduría. El esplendor de su biblioteca, desmembrada a su muerte, porque el invasor Luis de Hungría la confiscó y vendió, sólo será recuperado por el interés que en ello puso, casi un siglo más tarde, otro rey, tan amante del saber como el anterior: Alfonso el Magnánimo. Su biblioteca debió de ser impresionante, a juzgar por los catálogos que nos quedan y por los 44 Cfr. TATEO, Gli studi scientifici cit., p. 133. 45 Para más información, véase F. SABATINI, Napoli Angioina. Cultura e società, Cava dei

Tirreni (Napoli) 1975.

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libros de cuentas que detallan las elevadas cantidades de dinero dispendiadas en la compra, copia o encuadernación de algunos libros. Si en un primer momento el monarca aragonés, todavía de costumbres y gustos muy “españoles”, se afanó en recopilar aquellas obras fundamentales de la cultura medieval, que cubrían temas teológicos y filosóficos (San Agustín con La Ciudad de Dios; Las morales de san Gregorio…), obras religiosas (Biblias, Cánones), históricas (Las Partidas, las Crónicas del rey en Pere del regne de Aragó, los Furs d’Aragó…) y otras que contenían poesía trovadoresca provenzal, así como el Breviari d’Amors de Matfre Ermengau, a las que irá añadiendo, con el correr de los años y sus nuevos intereses, obras clave de la tradición clásica y de la literatura italiana contemporánea46. Esta impresión viene corroborada por las noticias que aporta Ryder en el mismo sentido, ya que de un inventario llevado a cabo en 1417 por su chambelán en Valencia, deduce que se interesaba por las obras clásicas (aún no bien representadas en este período temprano de su actividad cultural), legales, teológicas y devotas47. Pero, al menos, sabemos que se interesaba por este tipo de literatura que ya es más de lo que podemos decir con respecto a su inclinación por la astronomía: «Sólo los locos están gobernados por las estrellas», parece que decía para proclamar su desprecio por la astrología48, aunque, como es evidente, se refería a la influencia que los astros podrían ejercer en el destino y comportamiento humano. Sin embargo, sí consta que hubiese mandado comprar, en 1453, un espléndido ejemplar de la Cosmografía de Ptolomeo, que pagó carísimo, ya que era un ejemplar tan exquisito que la reina Isabel se vio obligada a empeñar en 1460 cuando le urgían grandes cantidades de dinero, siendo rescatado sólo doce años después por el rey Ferrante (Fernando I). Es posible que hubiese invertido tanto dinero con mero afán de coleccionista, con la sola intención de engrosar los fondos de su envidiable biblioteca; pero puede también que en sus estanterías hubiese espacio para obras que pretendiesen descifrar el mecanismo del exacto movimiento celeste. Los datos extraídos a partir de las Cédulas de la Tesorería Real Aragonesa trazan un camino bastante seguro para llegar a conocer la actividad cultural del rey, ya que ahí constan los pagos por encuadernar, traducir o decorar muchos volúmenes de su biblioteca; por eso sabemos la 46 Cfr. J. C. ROVIRA, Humanistas y poetas en la corte napolitana de Alfonso el Magnáni-

mo, Alicante 1990, p. 26. 47 Cfr. A. RYDER, Alfonso el Magnánimo, Rey de Aragón, Nápoles y Sicilia (1396-1458), Valencia 1992, p. 387. 48 Cfr. RYDER, Alfonso el Magnánimo cit., p. 383.

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cantidad que pagó (aunque eso aquí no nos importa) por encuadernar en piel y seda «Hun altre [libre] apellat de laudibus virginis»49. Tentadora la propuesta de identificar bajo este título una copia de las Cantigas, pero la tentación se resiste ante un título en latín tan poco concreto y ante la presencia de un De laudibus Mariae Virginis de Alberto Magno en el inventario de los manuscritos que habían formado parte de la biblioteca real napolitana y que pasaron a los fondos de la biblioteca del Monasterio de san Miguel de los Reyes en Valencia, cuando el Duque de Calabria se refugió en la ciudad levantina, hasta su muerte en 155050 así como un libro de Milagros de Nuestra Señora de Montserrat. Asimismo, queda constancia de la compra, entre otros volúmenes, de un Mariale de «Alexandri de Ales»51, adquirido por García de Urrea en 1455 para el rey, lo cual podría ser un indicio del deseo de abastecer su biblioteca también de este tipo de libros de exaltación mariana. Aventurándonos por este camino, podríamos suponer que, en la biblioteca que ha quedado dispersa con el transcurrir de los años, de los reyes menos amantes de los libros y de las penurias económicas ligadas casi siempre a guerras de sucesión, en tiempos del Magnánimo figurase, al lado de estos mariales, también uno de los libros de milagros de la Virgen, más cuidados y extensos de toda la Edad Media, las Cantigas alfonsíes, y que pudiera haber pasado a diferentes bibliotecas, incluso ajenas al reino de Nápoles, sin que hayamos vuelto a tener noticia de él, si no se hundió con el barco que llevaba un tercio de la biblioteca real que había saqueado Luis de Hungría. 5. Llegados a este punto, sería el momento de atar tanto cabo que he dejado suelto a lo largo de las páginas anteriores, pero tropiezo con la incapacidad de ligar la Vida esbozada por Colocci en el Vat. lat. 4817 al motivo que impulsó al humanista a coger estas notas al vuelo y, lo que sería más interesante, a las fuentes donde él recabó esa información. Si es cierta la estimación de Francesco Tateo que supone que Colocci hizó transcribir su De situ elementorum en torno a 1501, inspirado en la nueva fisionomía que estaba adquiriendo el mundo con los recientes de49 Cito por G. MAZZATINTI, La biblioteca dei Re d’Aragona in Napoli, Rocca S. Casciano 1879, p. XXV. 50 Cfr. MAZZATINTI, La biblioteca cit., p. CXXVII. 51 Alexandre de Halés, nacido en Halés, condado de Glocester, en 1185. Estudia en

París llegando a ser maestro de Teología. En la biblioteca de Federico III (último cuarto del s. XV), ya muy desmejorada con respecto a lo que había sido la biblioteca del Magnánimo, había todavía un ejemplar, vendido, junto con la Cosmografía de Ptolomeo, al Cardenal de Amboise, de la «Tercia pars Somma Alexandri de Halles, couvert de velours cramoysi, garni de troys fermans d’argent doré» (la cita está recogida, con los demás datos, de MAZZATINTI, La biblioteca cit., p. CXXV).

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scubrimientos, tenemos que admitir que el humanista debió de encontrarse con el Alfonso astrónomo con anterioridad a esa fecha, tal vez incluso cuando sus contactos con Pontano eran más intensos, a finales de la década de los ochenta, puesto que debió de admirar profundamente la sabiduría vertida en los dos tratados sobre la ordenación del cosmos que Colocci hereda. Al Alfonso trovador tal vez lo haya conocido un poco después, si atendemos a la fecha en que hace copiar los dos cancioneros de la lírica gallego-portuguesa (ca. 1525-26), por mucho que el listado de «Autori portughesi» pueda ser anterior a esta fecha52 y que el deseo de poseer los textos de esos autores derive de un interés y conocimiento de los mismos bastante anteriores, sin que pueda opinar sobre si ya antes había visto el «Librum notis musicis anotatum». De haberlo hecho – y si se trata en realidad de las Cantigas marianas –, tanto pudo haber sido en la corte napolitana, donde podría haber compartido anaqueles con las obras científicas del Sabio, como en la propia biblioteca papal, tiempo después, a dónde podría haber llegado sin dificultad una copia del códice alfonsino, teniendo en cuenta las estrechas relaciones que Isabel la Católica mantenía con el Papa, a quien deseaba tener favorable a sus múltiples peticiones53. Roma fue centro de gran importancia para la política de Isabel que tenía que asegurarse siempre una buena representación ante el Pontífice si quería conseguir tantos favores (reforma de las órdenes religiosas, implantación del tribunal de la Inquisición, pero sobre todo, imponer su autoridad en lo referente a la provisión de cargos eclesiásticos, de las sedes episcopales, que los reyes deseaban que fuese competencia exclusivamente suya). Es quizás eso lo que mejor explica la necesidad de mantener una alta frecuencia de embajadores castellanos en Roma, desde el Deán de Burgos, Diego López de Haro, Garcilaso de la Vega (padre del homónimo poeta), el Conde de Tendilla, Antonio de Fonseca y una larga nómina de ilustres castellanos, que permitieron, además, un flujo constante de humanistas Italianos en Castilla, tal como era el deseo de la soberana. Teniendo en cuenta que, de sus libros de cuentas, se deduce que destinaba importantes sumas de dinero para la iluminación de sus libros y que, de estos, los más preciosamente ilumi52 TAVANI, La tradizione cit., p. 127. 53 Se sabe que la reina solía pagar favores y servicios prestados con la donación de al-

guno de los libros de su fondo patrimonial. Así ocurrió con el códice F de las Cantigas, que, según RUÍZ GARCÍA (Los libros cit., pp. 120-122 y 374: «Otro libro estoriado de los milagros de Santa María, en portugués»), la reina regaló a Andrés de Cabrera, su mayordomo y miembro del Consejo Real. De su fiel servidor pasaría a manos de Juan Lucas Cortés y de él a la biblioteca florentina, lo que nos permite añadir algunas piezas al puzzle extendido páginas atrás.

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nados eran los libros de horas, misales y breviarios, cabe pensar que tal vez las Cantigas se viesen favorecidas de este especial cuidado, por ser su contenido objeto de idéntica devoción compartida por ambos monarcas, sobre todo bajo la advocación de la Anunciación, a cuyo misterio mariano dedicó las iglesias de Loja y de Málaga (recordando con esta costumbre al propio Alfonso X). Que mandase hacer una copia de alguno de los valiosos ejemplares que poseía para obsequiar a la curia romana no parece tan fuera de lugar, teniendo en cuenta sus costumbres y sus intereses. Pero también es verdad que el flujo de ilustres portugueses más o menos por la misma época no es menos destacable, aunque se intensificará una veintena de años después. De entre estas figuras notables de la cultura portuguesa haré referencia únicamente al ya bien conocido, gracias a Elsa Gonçalves54, António Ribeiro que pudo haber poseído el famoso «libro di portoghesi» y quién sabe, si un libro de las Cantigas de Santa Maria. Y no es menos cierto, que en la segunda mitad del s. XV, las coronas de Castilla, Aragón y Portugal estaban estrechamente relacionadas por vínculos matrimoniales entre sus miembros. Baste recordar el propio caso de Isabel la Católica, hija de la reina Isabel de Portugal y esposa del rey de Aragón (por tanto, de Nápoles); Pero ya Don Denis había desposado una princesa aragonesa, y una nieta suya, Leonor de Portugal, lo hace con Pedro IV de Aragón, mientras que la otra, María, será reina de Castilla por su matrimonio con Alfonso XI. Suponiendo la existencia de dos copias de las Cantigas, una en la corte portuguesa y la otra en la castellana, ambas han podido confluir, tanto en la biblioteca del Magnánimo como en la de algún Papa, y en cualquiera de las dos, ha podido “verlo” Angelo Colocci. La contemplación de este cancionero, del que destaca la notación musical, le habría permitido completar el retrato de un monarca que lo impresionaba por el dominio de las artes del Quadrivium; como Elisabetta.

54 E. GONÇALVES, Quel da Ribera, en Cultura Neolatina 64 (1984), pp. 219-224.

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ESTHER CORRAL DÍAZ

LAS NOTAS COLOCCIANAS EN EL CANCIONERO PROFANO DE ALFONSO X1 Desde distintos lugares y en múltiples ocasiones, se ha puesto de relevancia el afán de Angelo Colocci por desvelar las interioridades de la lírica románica y, en especial, de la italiana, occitana y gallego-portuguesa, y como, respecto a esta última, la labor y el bienhacer de este humanista han permitido la conservación de gran parte de su corpus lírico2. En nuestro caso, nos fijaremos en concreto en las anotaciones que realiza Colocci en la producción poética de Alfonso X, atendiendo a los dos cancioneros que recogen su poesía, Cancioneiro da Biblioteca Nacional y Cancioneiro da Vaticana (B y V)3, y cotejándolos con los comentarios que, de la misma, vierte en la Tavola Colocciana (C), puesto que todos ellos – en particular el último – muestran el interés que despertó en el humanista la obra del Rey de Castilla y León, al que ya percibió desde sus estudios como una de las figuras más importantes de las letras del Noroeste peninsular. Una evidencia palpable de la atención con la que debió estudiar la poesía de Alfonso X y de los conocimientos que debió poseer de su obra se percibe, así mismo, en el estudio de Elvira Fidalgo, incluído en esta miscelánea, en el que da cuenta de la confección por parte del mismo Colocci de un texto bastante inusual en los horizontes literarios gallego-portugueses: se trata de una especie de Vida del Rey Trovador (copiada en el Vat lat. 4817), muy sucinta, redactada a la manera de otros apuntes que sobre poetas occitanos e italianos dejó 1 El estudio se enmarca dentro de dos Proyectos de Investigación: Las notas lingüísticas de Angelo Colocci (PB94-0642), subvencionado por la DGICYT, dirigido por la Profª M. Brea, y Las notas literarias de Angelo Colocci (XUGA 20403A96), subvencionado por la Xunta de Galicia, dirigido por la Profª P. Lorenzo. 2 A pesar de ser un hecho sobradamente conocido, queremos insistir de nuevo en que

se conoce un repertorio tipológico poético más completo que el comprendido en el Cancioneiro da Ajuda gracias a su mediación, pues mandó copiar – entre otros escritos – los dos cancioneros citados en la nota siguiente y un valioso índice de autores, conocido como Tavola Colocciana (C). 3 Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Colocci-Brancuti). Cód. 10991, Lisboa 1982, ctgas.

456-496 ff. 101-110v y f. 37r; Cancioneiro Português da Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 4803), Lisboa 1973, ctgas. 61-79 ff. 13v-17v (otra numeración 3bis-7bis v).

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dispersos en el Vat. lat. 4831. De ella extraemos las palabras que refieren la labor poética de Alfonso X, y que muestran la lucidez que ya tenía el humanista de la extensa y fructífera producción profana y religiosa: Alfonsus... edidit multas cantiones sive canticas. Et fuit doctus in musicis cuius librum nos vidimus, notis musicis annotatum 4.

Hasta el momento se desconoce si Colocci llegó realmente a poseer – o a consultar – otra obra poética de Alfonso X distinta de la contenida en los dos cancioneros gallego-portugueses mandados copiar por él5. Las colecciones que fue atesorando a lo largo de su vida fueron estudiadas desde antiguo por su riqueza y complejidad a partir del famoso catálogo reproducido en el Vat. lat. 39586 y de otros inventarios7. Aún hoy sigue siendo una cuestión de viva actualidad, pues existen múltiples incógnitas por desvelar. La etiqueta genérica de «spagnoli» que Colocci colocaba en escritos y en títulos identificadores designaba a las lenguas habladas en la Península Ibérica (castellano, portugués y catalán), por lo que las referencias en los catálogos a títulos que contienen dicho apelativo son muy confusas8. Señalamos esto, porque más tarde analizaremos una

4 Cito por el trabajo de E. FIDALGO, Apuntes para una Vida de Alfonso X en un códice de Colocci (Vat. lat. 4817), en este volumen, en el que se realiza una edición, traducción y estudio del texto colocciano. Cfr., así mismo, sobre el Vat. lat. 4831, V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979, p. 160 y aquí M. BERNARDI, Intorno allo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831 y N. CANNATA SALAMONE, Il primo trattato cinquecentesco di storia poetica e linguistica le Annotationi sul vulgare ydioma di Angelo Colocci (ms. Vat. lat. 4831). 5 Fanelli (Ricerche cit., p. 160) especula sobre si el Vat. lat. 4798, una crónica en «lengua española» del reino de Castilla, podría haber pertenecido a Colocci, aunque no figura en el inventario de libros suyos. 6 Cfr. el estudio clásico de S. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci, en Mélanges d’Archeologie et d’Histoire publiées par l’École Française de Rome 48 (1931), I-V, pp. 308-344 (sobre todo, pp. 316 y ss.), que a pesar de su antigüedad sigue estando aún vigente; cfr. también L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, en Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Iesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Iesi 1972, pp. 77-96. 7 Como los incluídos en el volumen Arch. Bibl. 15 de la Biblioteca Vaticana, en el Vat. lat. 7205 y en el Vat. lat. 14065 (cfr. R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-282). 8 Son famosos los dos Libri Spagnoli di Romanze, nunca encontrados. Cfr. sobre el particular, LATTÈS, Recherches cit. pp. 308-344 (sobre todo, pp. 334 y 339), FANELLI, Ricerche cit., p. 160. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 91, da cuenta de que entre sus libros se encontraban las Tabulae de Alfonso X, de orientación astronómica.

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referencia colocciana problemática, en la que Colocci parece confundir a Alfonso X de Castilla con Alfonso II de Aragón. 1. Centrándonos en la obra realizada directa o indirectamente por Colocci referente al ámbito gallego-portugués, se sabe que el humanista iesino revisó, corrigió y estudió con particular atención la labor de los amanuenses de B y V – que copiaban un original que parece que le prestó «quel da Ribera»9 – por los numerosos comentarios que escribió en estos dos códices, más abundantes en B10. Las apostillas, como ya se puso de manifiesto, son de muy diferente naturaleza11, versando sobre cuestiones literarias varias (codicológicas, métricas, estilísticas, etc.), lingüísticas u organizativas12. A estos comentarios hay que añadir las múltiples marcas gráficas que salpican los márgenes de los folios: las más frecuentes son un ángulo obtuso invertido que hace referencia nor-

9 Cfr. E. GONÇALVES, Quel da Ribera, in Cultura Neolatina 44 (1984), pp. 29-224; sobre la tradición manuscrita, véase G. TAVANI, Eterotopie ed eteronomie nella lettura dei canzonieri galego-portoghesi, en ID., Tra Galizia e Provenza. Saggi sulla poesia medievale galego-portoghese, Roma 2002, pp. 13-28; A. FERRARI, Formazione e struttura del canzoniere portoghese della Bilblioteca Nazionale de Lisbona (Cod. 10991: Colocci-Brancuti), in Arquivos do Centro Cultural Português 14 (1979), pp. 27-142; E. GONÇALVES, Reseña de A. FERRARI, Formazione e struttura cit., in Romania 104 (1983), pp. 403-412. 10 Téngase en cuenta que, aunque B y V salen del mismo scriptorium curial: el primero debía ser una copia fundamentalmente destinada al estudio personal de Colocci, frente al segundo que se cree tenía como fin el intercambio o regalo (cfr. A. FERRARI, s.v. Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Colocci-Brancuti) y Cancioneiro da Biblioteca Vaticana, en Diccionario de Literatura Galega e Portuguesa, organização e coordinação de G. LANCIANI e G. TAVANI, Lisboa 1993, pp. 119-123, 123-126). 11 V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Le postille metriche di Angelo Colocci ai canzonieri portoghesi, en Annali dell’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza 8 (1966), pp. 13-30, recogiendo a su vez unas palabras anteriores de S. Debenedetti, señala sobre la disparidad de apostillas: «ora annotando banali fatti grammaticali, ora invece vocaboli d’intensa carica letteraria, trovadorica o petrarchesca; ora qualificando il genere del componimento, ora computando le sillabe di un verso (...) ora traducendo intere espressioni o versi». 12 Existen ya abundantes estudios sobre el particular, que no podemos dejar de citar.

Sobre las apostillas coloccianas en B y V conjuntamente, cfr. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Le postille metriche cit. e EAD., Note linguistiche e letterarie di Angelo Colocci in margine ai canzonieri portoghesi, en Atti del Convegno cit., pp. 197-203. Ciñéndose exclusivamente a B, cfr. M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas de A. Colocci no Cancioneiro galego-portugués B, en Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes, edición al cuidado de G. HILTY, Tübingen 1993, t. V, sect. VII, pp. 41-56. A propósito de V: M. BREA, Las anotaciones de Angelo Colocci, en el Cancionero de la Biblioteca Vaticana, en Revista de Filología Románica (Homenaje al Profesor Pedro Peira) 14 (1997), I, pp. 515-519.

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malmente a la individualización del refrán o a la separación de textos, las cruces que traza en los márgenes a modo de reclamo13, etc. a) Las apostillas literarias son las más abundantes y quizás las más interesantes, dado que orientan sobre los intereses y las investigaciones que realizaba Colocci sobre la lírica gallego-portuguesa. Referidas a la obra alfonsí, se encuentran: – alusiones catalogadoras al género de los textos: «tenzõ o pregunta», ctga. 465 f. 102v; «discor» (descordo), ctga. 470 f. 104r y 104v; «jocosa», ctga. 472 f. 104r. – indicios de elementos formales trovadorescos14, que abarcan desde comentarios en torno a las «molte sta(n)ze» (ctga. 103 f. 406r) que componen un texto, a elementos más complejos como: «co(n)gedo» (o «co(n)ged») para referirse supuestamente a la fiinda (ctga. 457 f. 101r, ctga. 458 f. 101r, ctga. 485 f. 108r y 108v)15, «tornel» (ctga. 462 f. 102r, ctga. 467 f. 103r, ctga. 473 f. 105r, ctga. 474 f. 105r, ctga. 494 f. 110r) y «tornel novo» (ctga. 463 f. 102r, ctga. 476 f. 105r y 105v, ctga. 496 f. 110v y 37r)16 para el refrán, «ad. 2. ad. 2.» (ctga. 481 f. 107r) o «ad 2» (ctga. 481 f. 107r)17, «rime di 3 i(n) 3» (ctga. 458 f. 101r), «nota la rima» (ctga. 13 Se observan las marcas siguientes en B, referidas a la obra alfonsí: en la ctga. 463, f. 102r, escribe + en el margen izquierdo, debajo del número 463; en la ctga. 464, f. 102r, en el v. 1 subraya «mordomo»; en la ctga. 466, ff. 102v y 103, se señalan tres cruces. 14 Las apostillas de este tipo son comentadas por extenso en el trabajo que presenta aquí G. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y la rima románica: aspectos estructurales (Análisis de algunas apostillas coloccianas); cfr. también ID., Angelo Colocci y los procedimientos repetitivos en el Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Cod. 10991), en Revista de poética medieval 7 (2001), pp. 53-96. 15 De estas tres composiciones señaladas, sólo la última (Pero da Pont’à feito gran pecado) contiene en realidad una fiinda. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y la rima románica cit., nota 86, indica que, en la ctga. 458, Colocci identifica erróneamente como fiinda el dístico inicial de la cantiga copiada a continuación, por lo tanto, en ese caso la disposición del poema en el manuscrito es la causa de tal confusión. En el mismo sentido se debe interpretar – en nuestra opinión – el problema de la ctga. 457: Colocci, al observar la disposición de los versos del poema que mantiene el códice, reconoce la última estrofa, incompleta, como fiinda, porque tiene menor número de versos, cuando, en realidad, se trata de una cobra más a la que le faltan versos. 16 Tornel novo parece querer indicar, en la ctga. 476, el refrán intercalado, esto es, la in-

serción de los dos versos del refrán dentro de la estrofa (cfr. PÉREZ BARCALA Angelo Colocci y los procedimientos repetitivos cit., p. 91). 17 Para «ad. 2 ad 2» y para las notas siguientes, Pérez Barcala apunta – con razón –

que, más que referirse a coblas doblas ou coblas ternas (para los casos siguientes), indican la «concordancia rimática de todos o varios versos consecutivos de las estrofas... siendo, por lo tanto, la estrofa (y no la totalidad del texto) el marco necesario para el establecimiento del valor del término» (Angelo Colocci y la rima románica cit., p. 343).

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467 f. 103r), «lultimi ad. 3 ad 3.» (ctga. 482 f. 107r) marcando tal vez tres rimas diferentes, y el famoso «sel dissi» (ctga. 456 f. 101r, ctga. 467 f. 103r, ctga. 485 f. 108r y 108v)18. b) Las anotaciones lingüísticas muestran al filólogo románico avant la lettre19 que escondía Colocci detrás de sus percepciones, haciendo mención a cuestiones fonéticas, morfológicas, sintácticas y léxicas, e incluso contrastivas, como cuando destaca que carvon es una forma gallego-portuguesa igual a la de su propio dialecto (piceno)20. c) Las de tipo organizativo reflejan el cuidado con que atendía la labor de sus copistas. Refiriéndonos siempre a la obra de Alfonso X, en V, se da cuenta de que no se copiaron una serie de composiciones y anota «desunt» al lado de la ctga. 61 (f. 3 bis v)21; en B percibe que la ctga. 475 (f. 105r) posee sólo una estrofa y da cuenta de su carácter incompleto mediante la indicación «deest« (ctga. 475 f. 105r). Así mismo, observa que la ctga. 496 de B, última de la sección alfonsí, copiada en el f. 110v continúa con nueve estrofas más en el f. 37 (sin numeración colocciana), por lo que anota en el margen inferior del f. 110v: «vide in hoc ma[nuscripto] 145 ubi sequitur», en alusión a la parte final que está escrita fuera de su lugar correspondiente, al lado de la ctga. 145, y que

18 Remite, según BERTOLUCCI, Le postille metriche cit., pp. 27-30, a la canción célebre de Petrarca S’i ’l dissi mai, ch’i vegna in odio a quella. Cfr. PÉREZ BARCALA, Angelo Colocci y la rima románica cit., en el que aporta nuevos datos de esta anotación; y F. FERNÁNDEZ CAMPO, Apostillas petrarquescas de Colocci: nuevas posibilidades de lectura, incluído también en este volumen, que sugiere una vía totalmente distinta de interpretación. 19 Cfr. A. FERRARI, Le chansonnier et son double, en Lyrique romane médiévale. La tradition des chansonniers. Actes du Colloque de Liège, éditées par M. TYSSENS, Liège 1991, pp. 303-327 (concretamente, p. 304). 20 Se lee concretamente en el f. 105r (ctga. 476) «Caruo(n) picen». Las otras notas de B escritas en textos alfonsís son: «papa» (ctga. 463 f. 102r), «que no(n) cui» (ctga. 469 f. 104r), «ffoão» (ctga. 480, f. 108v), «de Grado» (ctga. 492 f. 109v), «no(n) me cal» (ctga. 497 f. 111r). Cfr. BREA, FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas cit., de donde extraemos la información al respecto (sobre todo, pp. 44 y 54). De todos modos, hay que advertir que las notas a veces son de difícil clasificación: por ejemplo, «papa» está catalogada como lingüística, pero podría ser literaria, si se interpreta como una acotación de que este término tan peculiar se encuentra en posición de rima. 21 Cfr. BREA, Las anotaciones de Angelo Colocci cit., p. 516; sobre la forma en que se

produce la copia de la tradición manuscrita alfonsí resulta muy útil E. GONÇALVES, Appunti di filologia materiale per una edizione critica della poesia profana di Alfonso X, en Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno (Roma 25-27 maggio 1995), a cura di A. FERRARI, Spoleto 1998, pp. 411-427. Para esta nota cfr. p. 420.

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Colocci tacha. Estos problemas se explicarían por el proceso de copia y formación del cancionero en fascículos22. Además, existen las rúbricas atributivas en las que se aclara el nombre del trovador en la primera cantiga de la serie23. El monarca castellano aparece denominado de diferentes formas. En B, en el encabezamiento del folio de la primera composición se copia «El Rey don Affonso de Leon» (B f. 101r). Más tarde, en el f. 103r se completa con la alusión al reino de Castilla: «el Rey don Aff(on)/so de Castela/ e de Leon» (ctga. 359), en la margen externa de Deus te salve gloriosa reinha maria, refiriéndose – tal vez – al final de las canciones satíricas y al comienzo de las dos laudas marianas24. En V, el apelativo del monarca es completo. Al inicio de la sección del trovador se indica «El Rey Don Afonso de Castela e de Leon» (ctga. 61 f. 3 bis v); y se continúa en los cambios de folio: «El rey Don Affonso de castella he de Leom» (ctga. 64 f. 4 bis, ctga. 69 f. 4 bis v-5 bis, ctga. 76 f. 6 bis y 6 bis v). Aparte existe una rúbrica de tipo codicológico en el f. 100, final del cuaderno, que funciona a modo de reclamo de la sección que a continuación va a seguir: «Rolo outro. Rolo das cantigas que fez o mui nobre don Sancho de Portugal e diz ai eu coitada como vivo». Esta didascalia hace referencia por una parte al sistema de copia de los apógrafos (por cuadernos), incluye el nombre del autor, don Sancho de Portugal, y además da el incipit de la primera cantiga copiada en el folio siguiente25.

22 Más detalles en GONÇALVES, Appunti di filologia materiale cit., pp. 412-413 y FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 98 y 114. 23 Acerca de las rúbricas atributivas, cfr. E. GONÇALVES, O sistema das rubricas atributivas e explicativas nos cancioneiros trovadorescos galego-portugueses, en Actas do XIX Congreso Internacional de Lingüística e Filoloxía Románicas, publicadas por R. LORENZO, Santiago de Compostela 1994, VII, pp. 979-990. 24 En la Tavola aparece otro rey, que responde también al apelativo de «Alfonso de Castela y de León» y que es identificado con Alfonso XI de Castilla, hijo de Fernando IV y de Costanza de Portugal, epígono y último mecenas de trovadores en Castilla, al que el Conde de Barcelos destina su famoso Livro das Cantigas. De su autoría se conserva en B sólo un texto en español (Em huum tiempo cogi flores B 607 y V 209). Colocci percibe que se trata de dos monarcas castellanos diferentes, aunque no es muy explícito sobre este último, limitándose a reproducir simplemente la razó de la cantiga. Escribe en el índice: «607 El Rey don Alffonso de Castella et de Leon che vinse el rey de Bellamarin con o poder d’alem-mar a par de Tarifa» 25 Más tarde comentaremos más detalles de la rúbrica, cuando se estudie la autoría de la cantiga de amigo Ay eu coitada.

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2. Veamos ahora los comentarios vertidos sobre la obra alfonsí en la conocida Tavola Colocciana (C), contenida en el Vat lat. 3217 y designada por Colocci con la etiqueta de «Autori Portoghesi»26. Este índice destaca con fuerza propia, aparte de por su densidad y extensión, por ser un excelente reflejo – como instrumento de trabajo que era – de los intereses y orientaciones de los estudios de Colocci en el mundo literario gallegoportugués. Su forma de presentación es sencilla: contiene una serie de nombres de trovadores, al lado de los números correspondientes a las cantigas, y en ocasiones se acompaña de apostillas y de diversos signos de remisión. Según Vittorio Fanelli, en el ánimo de tal empresa podría estar tal vez la elaboración por parte de Colocci de una historia de literatura portuguesa27. El origen del manuscrito base de esta tabula es una cuestión no del todo resuelta. Para Giuseppe Tavani puede ser copia de una preexistente, perdida actualmente, que recogía el material de un cancionero estrechamente emparentado con B, pero más completo, o bien puede ser una copia directa de dicho cancionero28. Elsa Gonçalves, al igual que Jean Marie d’Heur, consideran que es un índice del Cancioneiro de la Biblioteca Nacional29. La prueba fehaciente de esta última hipótesis se hallaría, según la investigadora portuguesa, en que Colocci no accedería nunca a copiar de propia mano un índice previo, puesto que para esa labor existían otras personas a su servicio. Además, el paralelismo entre los comentarios de la Tavola y las rúbricas de B en muchos casos, entre los que se encuentra la serie que contiene las cantigas alfonsíes (ctgas. 456-496), reflejaría la conexión que mantienen ambos textos30. La elaboración por parte de Colocci de un catálogo de tales características no es un hecho excepcional ni en la época ni en él mismo, puesto que era un método de estudio habitual en el ambiente humanista. Luigi 26 Existe una edición semidiplomática del Cancioneiro da Biblioteca Nacional (ColocciBrancuti), transcrição, leitura, comentário e glossário por E. PAXECO MACHADO e J. PAXECO MACHADO, Lisboa 1950-1960, VII, pp. 265-284 y 287-309. Aquí seguimos la lectura que realiza E. GONÇALVES en La Tavola Colocciana. Autori Portoghesi, en Arquivos do Centro Cultural Português 10 (1976), pp. 387-448, que la edita, analiza con detalle y la acompaña de reproducción fotográfica de los ff. 300-307 del mss. Posteriomente lo completa en el trabajo: Tavola Colocciana (C), en Dicionário de Literatura Galega e Portuguesa cit., pp. 615-618. 27 FANELLI, Ricerche cit., p. 158. 28 G. TAVANI, A proposito della tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese, en

Medievo Romanzo 6 (1979), pp. 372-418. 29 Cfr. J. M. D’HEUR, Sur la tradition manuscrite des chansonniers galiciens-portugais, en

Arquivos do Centro Cultural Português 8 (1974), pp. 3-43 (concretamente p. 42), y GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit., p. 395 y ss. 30 Cfr. GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit., p. 399.

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Michelini Tocci31 apunta que debió de aprender la práctica directamente de uno de sus maestros más afamados, Scipione Forteguerri, conocido por el sobrenombre de Carteromaco por sus conocimientos y estudios del mundo griego. Este utilizaba las tabulae constantemente, sobre todo cuando analizaba la obra de los clásicos y no producía obras propias32. Colocci redacta a menudo y de forma muy desigual índices diferentes, legando listas de libros y de autores en sus códices misceláneos, entre los que destaca los contenidos en el Vat. lat. 321733. Otros catálogos se conocen a partir de noticias que se transmiten por la correspondencia entre humanistas de la época, como el que Fulvio Orsini decía haber visto en la Curia; en una de las cartas que dirije a su amigo Pinelli escribe: ho qui in librería del Papa un foglio con una lettera del carle Bo [Cardenale Bembo] al Colotio, dove li manda li nomi de tutti poeti provenzali et li principii di ciascuna cosa che si contiene in detto libro [K], e questo foglio è dietro el libro de’ provenzali del Colotio, del che io ho scritto a V. S. haber copia [g], e sono poeti LXVI [M]34.

31 MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 92. 32 Scipione Forteguerri se ocupa fundamentalmente del ejercicio de intavulare durante

el decenio que pasa en Venecia (1495-1505). Posteriormente, existen ya testimonios de la relación mantenida entre maestro y discípulo, en 1507, y en 1512, cuando Carteromaco, enfermo y con apuros económicos, atiende la llamada de Colocci para que lo acompañe en Roma. Cfr. F. PIOVAN, Forteguerri (Carteromaco), Scipione, en Dizionario Biografico degli Italiani, 49, Roma 1997, pp. 163-167 (particularmente, pp. 164-165). 33 El Vat. lat. 3217 inserta una serie de índices sobre Petrarca, los poetas llamados siculi, Re Roberto y Barbarino, confeccionados por Colocci y otro copista y de los que no se puede establecer con seguridad los códices base (cfr. C. F. BLANCO VALDÉS, Descripción del códice Vat Lat. 3217, en Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza (Università di Palermo, 18-24 set. 1995), a cura di G. RUFFINO, Tübingen 1998, IV, pp. 333-338). Por otra parte, realiza “glosarios” o simples listas de palabras, como el que incluye en el Vat. lat. 4817: un códice de trabajo de Colocci, que contiene al final un glosario bilingüe (occitano-italiano) de palabras y segmentos tomados de poemas de Folquet de Marselha y Arnaut Daniel, muy interesante, realizado por él mismo a partir del Vat. lat. 4796, que a su vez es copia parcial del célebre cancionero M o «libro limosino» (al que más tarde se hará referencia y se aportará bibliografía al respecto). Hay que notar que en el último período de su vida Colocci abandona esta práctica, realizando índices cada vez menos sistemáticos y menos extensos en materia (cfr. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa, cit., p. 93). 34 Y en otra carta rectifica que son tres los folios de la lista de Bembo y que «vi sono nomi di più di cento poeti» (cfr. S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e tre secoli di studi provenzali [1911], ed. riveduta, con integrazioni inedite a cura di C. SEGRE, Padova 1995, p. 94).

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Así pues, se trataría de un índice de características bastante similares a los Autori Portoghesi. Las anotaciones contenidas en la Tavola se caracterizan por enunciar de forma simple el nombre del trovador, acompañado de sus apellidos y, a veces, de su procedencia35, que puede aludir al origen social (jograr, cavaleiro, clérigo36) o bien al grado de parentesco (sobrinho, irmano, etc.37), a la situación cronológica38, etc. Los personajes de condición noble reciben comentarios más amplios. Estos versan acerca del grado de parentesco o del puesto que detentaban en la corte: 405 «D Alfonso Sanchez filho de Rey don Denis»; 455 «O con[de] don Gon[çal]o: o conde Don Gonçalo Garcia in cas do[n] Rodrigo Sanchez per Codorniz Coturnix»; 619 «Estevam de Guarda privado / d’el Re Don Denis». Sin embargo, son los monarcas los que más parecen llamar la atención de Colocci, pues acaparan las didascalias más amplias de toda la Tavola. En concreto, destacan por su extensión las anotaciones sobre Alfonso X, pues se reproducen las alusiones a sus reinos de las rúbricas atributivas de B, completadas con dos didascalias largas y complejas, que no aparecen en el cancionero lisboeta (cfr. infra). Curiosamente en los descendientes de D. Denis de Portugal se produce una incorrección, entre personajes de igual nombre, muy curiosa y que puede tener relación con otro equívoco entre monarcas que comentaremos más tarde. Don Afonso Sanchez, hijo natural del rey mencionado y poeta de la última generación de la escuela, es confundido con Alfonso IV, igualmente hijo del monarca y sucesor suyo en el reino portugués, en el encabezamiento de la ctga. B 1323, atribuyéndole al heredero una labor poética no documentada por la tradición manuscrita: «El rey Dom A[ffons]o filho d’el Rey dom Denis Alfonso iiij / successit D[i]onysio». La equivocación se puede explicar verosímilmente a partir de la interpretación errónea de la razon de la cantiga, segundo observa Gonçalves39. 35 Según GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit., p. 440, Colocci escribiría primero los

nombres y luego los números. 36 886: «Aº Gómez jograr de Sarria»; 1112: «Lopo jograr»; 1116: «Johan jograr»; 1102: «Lorenço jograr»; 921: «Pero Goterez cavale[y]ro»; 1610: «Afonso Ff[ernande]z Cubel ca[va]leyro»; 868: «Ayras Nunez clerigo»; 926: «Roy Fernández clérigo»; 933: «Pae de Cana clérigo»; 936: «Sancho Sanchez clérigo». 37 845: «Johan Garcia sobrinho / de Nun’Eanes»; 848: «Garsia Soarez irmano de / Martin Soarez». 38 1062: «Bernal de Bonavalle primeyro trovador».

39 «... per cui Colocci avrebbe capito che “el Rey Aº filho del Rey do[n] denis” aveva

fatto la cantiga invece di aver fatto “cavaleyro” il “Vilao Rico q auia nome Roy”» (GONÇAL-

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3. Analizando ya las anotaciones sobre la obra alfonsí en la Tavola Colocciana, escribe el humanista italiano, al inicio de las composiciones de Alfonso X: 456 Il Rei don Affonso de Leon Bembo dice di Ragona figlio de Berenghieri alia lectio in portugal Rey don Sancho deponit40.

Pietro Bembo y Angelo Colocci fueron contemporáneos y amigos, si bien apenas existe documentación al respecto, coincidiendo en los ambientes intelectuales romanos41. Según Santorre Debenedetti, su relación más estrecha remonta a los últimos años del pontificado de León X (1513-1521)42, un papa que promueve en Roma un clima denso en sugestiones culturales (literarias y artísticas), que protegió a Bembo y que se erigió en el gran benefactor de Colocci, según confiesa el mismo43. Entre los secretarios curiales de esta época se encontraban precisamente Bembo y Colocci. Ambos destacaron sobre todo en el ámbito lingüístico, participando activamente en la famosa questione della lingua que se debatía con tanto ardor en esa primera mitad del siglo XVI. Ambos defendían, en contra de otros sectores, la posición que buscaba establecer para Italia una “lingua comune” que respetase las variedades dialectales. A Bembo se le atribuye incluso la afirmación definitiva del toscano como lengua literaria44. En la perspectiva literaria, Bembo y Colocci participaban de un espíritu común a la hora de estudiar la lírica antigua y de buscar el canon45. Frente al escaso interés mostrado por la matriz occitana en el VES,

La Tavola Colocciana cit., p. 444). Cfr. también M. ARBOR ALDEA, O Cancioneiro de don Afonso Sanchez. Edición y estudio, Santiago de Compostela 2001, p. 81. 40 Seguimos la lectura de GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit., p. 413. 41 La carta de Fulvio Orsini a Gian V. Pinelli, comentada supra (nt. 34), atestigua su

relación cordial. 42 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 351. 43 Dice de esta etapa Colocci en una carta fechada en 1536: «Io sono stato trenta anni

molto felice in questa corte: de la morte di Lione in qua sempre infelice...» (s.v. Colocci, Angelo, en Dizionario biografico degli italiani cit., vol. 27, p. 105). 44 Cfr. C. SEGRE, Bembo e Ariosto, en Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000), a cura di S. MORGANA, M. PIOTTI, M. PRADA, Milano 2001 (Quaderni di Acme 46), pp. 1-8, concretamente p. 1. 45 «Come per Angelo Colocci, anche per Bembo studiare il cànone della lirica antica significa per un verso coglierne la metamorfosi e il progressivo farsi attraverso i libri, e per un altro verso condividere la forma culturale implicita nella selezione: sentirsi parte del

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ambiente intelectual italiano, ambos se cuentan entre las pocas excepciones que orientan sus estudios hacia la lengua d’oc; un hecho que hay que destacar ciertamente, puesto que sólo existen evidencias de estudios de poesía occitana en Mario Equicola (junto con personajes de menor influencia como Bartolomeo Casassagia y su tío Benedetto Gareth, relacionados ambos con empresas coloccianas)46. Colaboraron juntos en labores literarias y se comunicaron mutuamente textos, como muestra la más que posible participación de Colocci en la elaboración de la antología de trovadores occitanos que preparaba Pietro Bembo y que le envía a Colocci47. Pietro Bembo48, eminente latinista, marca una etapa importante en la evolución de los humanistas italianos, sobre todo, a partir de la publicación de sus Prose della volgar lingua (en 1525). El papel y la influencia de Bembo en la cultura italiana del primer Cinquecento han sido destacados en numerosas ocasiones, hasta el punto de que se piensa que el escritor influyó en artistas de la talla de Rafael y en el arte véneto49. Los conocimientos de literatura hispánica que pudo adquirir a lo largo de sus estudios son inciertos: «non ebbe dello spagnuolo quella conoscenza che un tempo si credeva, certo ad ogni modo questo idioma gli fu noto», dice Debenedetti50. El poder que ejerció en este sentido la ambiciosa Lucrecia Borgia, de familia de origen español y una de sus amantes más célebres, tanto en la historia de su tiempo como en la leyenda literaria que se generó a su muerte, no se puede confirmar, pero sí se puede aditutto, punto nel segmento, tappa nel percorso della formazione e fortuna di quel cànone stesso» (C. BOLOGNA, Bembo e i poeti italiani del Duecento, en Prose della volgar lingua cit., pp. 95-122, p. 100). 46 Sobre la relación entre Bembo y la literatura occitana, cfr. C. PULSONI, Bembo e la letteratura provenzale, en Prose della volgar lingua cit., pp. 37-54 (p. 37), en donde se apunta la hipótesis de que el interés de Equicola por el occitano parta de los estudios bembianos; y M. L. MENEGHETTI, Bembo, Equicola e i trovatori, ibid., pp. 23-35 (p. 28). Acerca de B. Casassagia y B. Gareth, cfr. E. CORRAL DÍAZ, F. FERNÁNDEZ CAMPO, El manuscrito 4796 de Angelo Colocci: a súa historia e as súas apostilas, en Critica del testo 3/2 (2000), pp. 725-752, en el que se aportan datos y bibliografía sobre estos dos personajes. 47 Cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 339; C. PULSONI, Luigi da Porto e

Pietro Bembo: dal canzoniere provenzale E all’antologia trobadorica bembiana, en Cultura Neolatina 52 (1992), pp. 323-351 (pp. 340-343); y DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 351. 48 Acerca de la figura de Bembo, cfr. C. DIONISOTTI, s.v. Bembo, Pietro, en Dizionario Biografico degli Italiani cit., vol. 6, pp. 133-155; C. PULSONI, Pietro Bembo filologo volgare, en Anticomoderno, I/3 (1998), pp. 89-102; ID., Luigi da Porto cit. 49 Cfr. C. DAMIANAKI, Liceità e pratica dell’imitazione nelle Prose, en Prose della volgar lingua cit., pp. 617-654 (p. 644). 50 Cfr. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 62.

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vinar en cierta medida51. El filólogo italiano Pio Rajna, en 1925, da cuenta de unos enigmáticos versos españoles que contiene un códice ambrosiano (H. 246. inf), atribuidos a Bembo desde las indagaciones que a finales del siglo XVII realiza Lodovico Antonio Muratori en la Biblioteca Ambrosiana52. Estos versos iban dirigidos a Lucrecia Borgia53, en aquellos momentos esposa en terceras nupcias de Alfonso de Este, duquesa de Ferrara, y a la que le dedica una edición de su obra juvenil Asolani, de fuerte imitación petrarquesca, y van acompañados en el manuscrito ambrosiano por poemas firmados por la misma Lucrecia, uno de ellos Yo pienso si me muriese tiene una relación evidente con un poema de Cartagena recogido en el Cancionero General, por lo que se especula sobre una emulación del texto. Rajna apunta que los versos bembianos son los primeros pasos de un amante que desea complacer a la amada a través de la poesía54. Así pues, los intereses de Bembo por el español pueden 51 Recordemos un poco la historia de los Borgia. La familia de Lucrecia, de origen aragonés y establecida en Valencia desde el siglo XIII, emigró a Italia en el siglo XV en vida de Alonso Borja, convertido en papa con el nombre de Calixto III en 1455. Lucrecia es hija de un sobrino de éste, Rodrigo, también elegido pontífice en 1492, bajo el apelativo de Alejandro VI. Como nació y vivió siempre en Italia, ella y sus hermanos italianizaron su apellido, aunque mantenían la lengua de ascendencia, en la correspondencia que escribían en catalán. Los amores de Lucrecia y de Bembo se reflejan en las cartas que aún se conservan de la pareja, cfr. algunas de ellas en PIETRO BEMBO, Lettere, II, edizione critica a cura di E. TRAVI, Bologna 1987. 52 P. RAJNA, I versi spagnuoli di mano di Pietro Bembo e di Lucrezia Borgia serbati da un codice ambrosiano, en Homenaje ofrecido a Menéndez Pidal. Miscelánea de estudios lingüísticos, literarios e históricos, Madrid 1925, II, pp. 299-321. En el artículo se examina la fortuna editorial de tales versos a lo largo de la historia. 53 Dice Muratori sobre los versos encontrados: [Bembo] «era egli giovane assai quando scrisse tai versi per piacere ad una gran Principessa di nazione Spagnuola. Ora vestì egli così bene il genio della Poesia Spagnuola, che alcuni di que’ versi possono parer troppo acutamente pensati, e non figlioli di chi con tanta leggiadria scrisse in Italiano» (Della perfetta poesia, Libro Secondo, cap. VIII: Dell’affettazione de’ pensieri, troppo raffinati, e ricercati, cita tomada de RAJNA, I versi spagnuoli cit., p. 299). La vida amorosa de Bembo fue bastante agitada y jalonada de amantes. Anterior a Lucrecia, Bembo tuvo otro amor “imposible”, Maria Savorgnan, y, después, continuó con una relación relativamente estable con Faustina Morosina della Torre, posiblemente de origen cortesano, con la que tiene sus tres hijos. A la muerte de ésta y cuando contaba ya con setenta años y estaba próximo al cardenalato, aún corteja a Elisabetta Massolo, hermana de uno de sus mejores amigos. Cfr., sobre estas relaciones, DIONISOTTI, s.v. Bembo, Pietro en Dizionario biografico cit. 54 RAJNA, I versi spagnuoli cit., p 318: «L’amore per Lucrezia, alla quale quella poesia

era cara di certo e che anche di essa si era servita per aprirgli l’animo suo, ebbe ad imporsi al suo gusto, e per far cosa grata a lei egli fece tacer le proprie inclinazioni. Venuto nell’idea di ricambiare con qualche cosa di congenere il passionato Yo pienso si me muriese, dovette darsi alla lettura di rime spagnuole».

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proceder no sólo de las ansias de saber que posee todo humanista que se precie, sino también de los avatares de la vida mundana que disfrutó con tanta intensidad hasta entrar en el mundo cardenalicio. Volviendo a la cita que se encuentra en la Tavola al inicio de la producción alfonsí, fijémonos en dos elementos destacados que ocupan la segunda, tercera y cuarta líneas: la cita de Alfonso de Aragón que menciona Bembo y el problema atributivo de la cantiga que inicia el cancionero en B. La noticia de Alfonso de Aragón podría estar referida a las Prose della volgar lingua de Bembo, según Gonçalves. En esta obra el erudito veneciano adopta una estrategia bastante compleja. Tiene presente los discursos humanísticos sobre la formación de la lengua y de los dialectos románicos, trazando dos partes, una normativa y otra histórica. En esta última, realiza un repaso de los orígenes de la poesía – entre Occitania e Italia – bastante sistemático, apoyándose en los conocimientos basados en los antiguos cancioneros55. Los capítulos VIII y IX del Primo libro de las Prose los dedica a la lírica occitana. En el primero de ellos se encuentra la cita de Alfonso II de Aragón, a la que se puede referir Colocci. Bembo, al hacer un repaso sobre la historia de la poesía occitana, señala: «Anzi ella [la lengua provenzal] tanto oltre passò in riputazione e fama, che non solamente Catalani, che vicinissimi sono alla Francia, e pure Spagniuoli più adentro, tra’ quali fu uno il Re Alfonso d’Aragona, figliuolo di Ramondo Beringhieri (...) si truova che scrissero e poetarono Provenzalmente»56. Esto es, Alfonso II, rey de Aragón, pero también conde de Barcelona y de Provenza, hijo de Raimon Berenguer IV y de Petronila de Aragón, fue una destacada figura española de las letras occitanas por ser él mismo trovador y por el mecenazgo que ejerce a finales del siglo XII, acogiendo en sus tierras a un gran número de poetas que compusieron en su lengua materna los textos; a su protección incluso se debe la redacción de la obra occitana Jaufré, el principal y casi único testimonio de narrativa artúrica en esa lengua57. Sólo transmiten la vida de Alfonso II de Aragón dos cancioneros provenzales, los mss. I y K, de los cuales se sabe que K (Bibliothèque Nationale de Paris, ms. fr. 12473) perteneció a Bembo en algún momento, entre otras cosas, por las apostillas que allí 55 Cfr. SEGRE, Bembo e Ariosto cit., p. 2. 56 P. BEMBO, Prose e rime, a cura di C. DIONISOTTI, Torino 1960 (rist. 1992), Prose della

volgar lingua, libro I, § VIII, p. 90 (la cursiva es nuestra). 57 Sobre la corte y la figura de Alfonso II de Aragón sigue estando vigente el estudio de

M. DE RIQUER, La litterature provençale à la cour d’Alphonse II d’Aragon, en Cahiers de Civilisation Médiévale 2 (1959), pp. 177-201.

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anotó58. Carlo Pulsoni, que rastrea las fuentes del aprendizaje lingüístico-literario de los conocimientos bembianos occitanos, atribuye el origen del comentario de las Prose al ms. K59, en el que se lee la siguiente Vida: «Lo reis d’Aragon, aquel que trobet, si ac nom Amfos; e fo lo premiers reis que fo en Arragon, fils d’En Raimon Berengier» (f. 94r)60. Se cree que en la biblioteca de Bembo se encontraban otras antologías occitanas como los mss. occitanos O (Vat. lat. 3208), H (Vat. lat. 3207) y L (Vat. lat. 3206)61. Recientemente Maria Luisa Meneghetti amplió el corpus conocido por el erudito veneciano, al considerar que por sus manos pudieron pasar dos más: el ms. E (Paris, Bibl. Nat., ms. fr. 1749), que se encontraba en las dependencias de los Estensi, cuando Bembo se encontraba en Ferrara, y el ms. A (Vat. lat. 5232)62. Ahora bien, ¿por qué Colocci trae a colacción aquí la cita bembiana? Silvio Pellegrini declara que no debe prestar atención a esta idea «sia perché niente fa supporre che Alfonso II d’Aragona abbia poetato anche in gallego-portoghese, sia, e soprattutto, perché Aragona non è León»63. Elsa Gonçalves considera, en cambio, que se debe interpretar como un «rimando del Colocci alla Prose»64. En nuestra opinión, se trata de un error cierto (de otro modo, ¿por qué Colocci señala que «Bembo dice di Ragona», cuando comenta la producción de Alfonso X de León?), producido por la confusión de nombres y que parte del erudito iesino, no de Bembo, quien parece tener claro que Alfonso II de Aragón es un rey hispánico, importante en las letras occitanas. Ignoramos la causa de la equivocación, habida cuenta de sus conocimientos tanto de la poesía 58 Las notas que Bembo escribe en este ms. de tipo métrico y de historia literaria son pocas, pues atiende más a otras cuestiones de tipo lingüístico y de atribución (véase el estudio de las mismas en DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 185 y pp. 219-224). 59 Cfr. PULSONI, Bembo e la letteratura provenzale cit., p. 47. 60 J. BOUTIÈRE, A. H. SCHUTZ, Biographies des troubadours, Toulouse-Paris 1950, p. 50. 61 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 250. Sobre la biblioteca de Bembo, se de-

sconocen bastantes datos, entre otras razones a causa de la dispersión tras su muerte en varias direcciones: parte fue a parar a manos de estudiosos que recogieron también materiales de Colocci, como Fulvio Orsini o Gian Vincenzo Pinelli, parte se alejó a tierras inglesas. Carlo Pulsoni está tratando de reconstruir la biblioteca bembiana en una serie de artículos: cfr. el primero de ellos Per la ricostruzione della biblioteca bembiana. I. I libri di Dante, en Critica del testo II/2 (1999), pp. 735-759. Anteriormente se ha publicado: C. H. CLOUGH, Die Bibliothek von Bernard und Pietro Bembo, en Librarium 23 (1980), pp. 41-56. 62 MENEGHETTI, Bembo, Equicola e i trovatori cit., pp. 31-32. 63 S. PELLEGRINI, Sancio I o Alfonso X?, en Studi su trove e trovatori della prima lirica

galego-portoghese, Bari 1959, pp. 78-93, antes publicado en Studj romanzi 25 (1935), pp. 7189, p. 82 (nt. 16). 64 GONÇALVES, La Tavola Colocciana cit., p. 413.

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occitana como de la gallego-portuguesa, aunque no es seguro que Colocci haya conocido la figura de Alfonso de Aragon, puesto que los estudios occitanos que lleva a cabo parten fundamentalmente del cancionero M, que comentaremos más tarde. Hay que señalar que en unos números anteriores de la Tavola se encuentra otra alusión a Bembo («Messer», aún no había sido nombrado Cardenal), que no podemos dejar de analizar, a pesar de que no está relacionada con la producción alfonsí. Se lee: 449 Bonifaz de Jenoa vide Bembo M[esser] Bonifazio Calvo de Genoa.

Bembo se detiene en sus Prose en Bonifaci Calvo, poeta de origen italiano que escribe en occitano, cuando estudia de cerca la obra de los italianos que escriben en esa lengua, por los que muestra un especial interés. El cancionero K recoge también la poética de este personaje, que curiosamente es de los pocos trovadores de los que existen testimonios de su paso por tierras hispánicas, concretamente permaneció una larga temporada en la corte de Alfonso X65. En segundo lugar, en relación con el problema atributivo, Colocci es consciente de que las rúbricas reproducidas en B y la cantiga Ay eu coitada, que inicia el cancionero del Rey Sabio, indican una autoría múltiple. La primera rúbrica, ya comentada páginas antes, estaba localizada al final del cuaderno (f. 100) y anunciaba que la composición pertenecía al «mui nobre Rey don Sancho de Portugal». En cambio, la segunda, escrita en el margen superior del folio siguiente (f. 101), atribuía la autoría a «El rei Dom Alfonso de Leom»66. Colocci, al repasar el códice lisboeta, percibe la doble autoría y señala oportunamente: «alia lectio in portugal Rey don Sancho/ deponit», en referencia evidente a la primera de las rúbricas. Ay eu coitada es una cantiga de amigo que presenta problemas varios. Aparte de que su edición no es tarea fácil, pues la distribución de versos y la interpretación del término guarda (como substantivo o como topónimo) que se repite en el refrán son discutibles, su autoría sigue siendo actualmente una cuestión de debate. Aunque existe cierto con65 Cfr. C. ALVAR, La poesía trovadoresca en España y Portugal, Barcelona 1977, pp. 181-

194. 66 A esta se suma una tercera, folios después, que indica «El rey don Affonso de castela

e Leon» (margen derecha inferior del f. 103, al lado de la cantiga mariana Deus te salve gloriosa reinha maria).

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senso por parte de la crítica en atribuirla definitivamente a Alfonso X, aun se oyen voces discordantes que se manifiestan a favor de Sancho I, como la de J. J. Nunes en su conocida antología del género de la cantiga de amigo67, o la de la misma Gonçalves que deja entreveer dudas razonables, basándose en las imprecisiones de algunas rúbricas y en que la primera anotación colocciana puede ser el resto de una recopilación de textos de Sancho II, del que sólo quedarían testimonios en esta cantiga de amigo68. 4. En la Tavola Colocciana se recoge otro comentario extenso, en el que se trae a colación otra vez la poética occitana con la cita expresa del cancionero lemosino, al que ya se hizo referencia en la carta de Fulvio Orsini a Pinelli: 467 Il Rey don Affonso de Castella et de Leon. Vide nel mio lemosino al re di Castella idem sepius al re Affonso. et Leon.

El manuscrito M (Paris, Bibl. Nat. ms. fr. 12474) es conocido también como Libro di Poeti Limosini o simplemente Limosino entre los humanistas69, entre los que gozó de gran favor a tenor de las referencias que de 67 Cantigas d’amigo dos trovadores galego-portugueses, edição crítica de J. J. NUNES, Coimbra 1932 (reimpr. Lisboa 1973), pp. 458-459, nr. 512. La primera en dar fe a la primera rúbrica, asegurando que pertenece a Sancho I el Viejo (1185-1211), fue C. Michaëlis de Vasconcelos; de ser así, la cantiga se situaría en los albores del trovadorismo gallego-portugués (cfr. Cancionero da Ajuda, Halle 1904 (reimpr. Lisboa 1990), II, pp. 594-595). S. Pellegrini, en cambio, ya se inclina por Alfonso X como autor, y corrige la interpretación del «muy nobre Sancho rei de Portugal» como una referencia no a Sancho I sino a Sancho II, monarca portugués que gozó de la amistad del rey castellano, como se evidencia en la ayuda prestada por Alfonso X en las luchas fratricidas contra Alfonso III (cfr. Sancho I o Alfonso X cit.). Posteriormente estudiosos relevantes en la materia, como G. TAVANI, Repertorio metrico della lirica galego-portoghese, Roma 1967, p. 387, o A. RESENDE DE OLIVEIRA, Depois do Espectáculo trovadoresco. A estrutura dos cancionerios peninsulares e as recolhas dos séculos XIII y XIV, Lisboa 1994, p. 226, ya se inclinan definitivamente por esta autoría. 68 Cfr. GONÇALVES, Appunti di filologia materiale cit., pp. 422-425. Sobre la problemática de esta cantiga cfr. El Cancionero profano de Alfonso X el Sabio, edición crítica con notas y glosario de J. PAREDES, L’Aquila 2001, pp. 93-97 y nuestro estudio, A poesía amorosa profana de Alfonso X, en Iberia Cantat. Estudios sobre poesía hispánica medieval, edición a cargo de J. CASAS RIGALL y E. M. DÍAZ MARTÍNEZ, Santiago de Compostela 2002, pp. 205236. 69 La historia de este manuscrito es bien conocida. A principios del siglo XVI era propiedad de un poeta de origen catalán, instalado en Nápoles, que ya mencionamos por su dominio del occitano, Benedeth Gareth. A la muerte de éste, en 1514, a través de Pietro Summonte, amigo íntimo del anterior, Colocci lo adquiere a su viuda con gran disgusto de

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él se reiteran y de las copias que se realizaron. Actualmente se conservan dos: el descriptus Vat. lat. 3205 (g1), mandado copiar por el humanista iesino y destinado a su uso personal70, y el ms. 1290 de la Biblioteca Univiversitaria de Bologna (g2), encargado probablemente por el Marqués de Montesarchio a Summonte. El aprecio de Colocci por este Limosino lo llevó, además a conseguir una traducción al italiano de las poesías de Arnaut Daniel y Folquet de Marselha que realizará Bartolomeo Casassagia (Vat. lat. 4796)71. Las numerosas anotaciones que escribió en los márgenes de M muestran fehacientemente el interés con que estudió este manuscrito72. La confrontación con M que Colocci inserta en el comentario de la Tavola no es un caso aislado. Debenedetti recoge ejemplos semejantes en cancioneros italianos coloccianos (concretamente, en el Vat. lat. 3793, y en un fragmento de copia del De vulgari Eloquentia, contenido en el Vat. lat. 4817)73. Colocci parece que está haciendo referencia a que en el citado M es designado nuestro trovador como rey de Castilla74 y como rey de León75. En este sentido, en el catálogo que está copiando Colocci de Aulos napolitanos. Cfr. A. C. LAMUR-BAUDREU, Aux origines du chansonnier de troubadours M (Paris, Bib. Nat. Fr. 12474), en Romania 109 (1988), pp. 183-198 (pp. 183-186); M. CARERI, Bartolomeo Casassagia e il canzoniere provenzale M, en La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Università degli Studi di Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 Dicembre 1991), a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, Messina 1993, II, pp. 743-752; S. ASPERTI, Sul canzoniere provenzale M: ordinamento interno e problemi d’atribuzione, en Romanica Vulgaria 10-11 (1986-87), pp. 137-169. 70 Cfr. C. BOLOGNA, Sulla utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, en La filologia romanza e i codici cit., II, pp. 531-587. 71 Cfr. M. BREA, Traducir “de verbo ad verbo”. El códice Vat. Lat. 4796, en Actes du Vº Congrès international de l’A.I.E.O. (Toulouse, 19-24 aout 1996), Toulouse 1998, I, pp. 103107; CORRAL DÍAZ, FERNÁNDEZ CAMPO, El manuscrito 4796 cit. 72 Cfr. G. PÉREZ BARCALA, Aspectos fonéticos y léxicos de las anotaciones de Angelo Colocci en el libro di poeti limosini, en Critica del testo 3/3 (2000), pp. 947-980; S. GUTIÉRREZ GARCÍA, G. PÉREZ BARCALA, Notas morfosintácticas de Angelo Colocci no cancioneiro provenzal M, en Cinguidos por unha arela común. Homenaxe ó Profesor X. A. Montero, edición coordinada por R. ALVÁREZ y D. VILAVEDRA, Santiago de Compostela 1999, II, pp. 676-697. 73 DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 188. Para el Vat. lat. 3793 cfr. R. ANTONELLI,

Canzoniere Vaticano Latino 3793, en Letteratura italiana. Le opere, I: Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 27-44. 74 Precisamente en las múltiples referencias que Bonifacio Calvo hace a Alfonso X en sus composiciones lo designa como «rei de Castella». Cfr. el sirventés trilingüe Un nou sirventes ses tardar en Le Rime di Bonifacio Calvo, a cura di F. BRANCIFORTI, Catania 1955, nr. VII, v. 2), en el también sirventés Tan auta dompna (Le Rime cit., nr. IV, v. 34). 75 Interpreta E. GONÇALVES (La Tavola Colocciana cit., p. 438) la apostilla del siguiente

modo: «nel mio lemosino, al posto di re di Castella figura del pari più spesso re Affonso de Castella et Leon».

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ESTHER CORRAL DÍAZ

tores Portugueses se observan distintas designaciones para el monarca, según se ha comentado páginas atrás. En conclusión, una vez más el estudio de las apostillas y de los comentarios coloccianos que deja dispersas en sus códices, evidencian el interés de este erudito por las letras gallego-portuguesas y las relaciones estrechas que se entretejían en los círculos intelectuales cinquecentescos en torno al mundo poético románico, en este caso entre dos humanistas que pertenecieron a la Curia romana, unos vínculos que, además, alcanzan dos ámbitos poéticos diferentes, el gallego-portugués y el occitano, cuando se alude a un personaje destacado de la época como Pietro Bembo en el marco literario del Noroeste hispánico. Además, se deja constancia de la atención que le prestó a la obra alfonsí tanto por las apostillas que coloca en los cancioneros apógrafos como por los comentarios que vierte en la Tavola, más densos que los que merecen otros trovadores.

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PILAR LORENZO GRADÍN

COLOCCI, LOS LAIS DE BRETANHA Y LAS RÚBRICAS EXPLICATIVAS EN B Y V* 1. El interés de Colocci por la filología – entendida en su sentido más amplio – fue providencial para la tradición lírica gallego-portuguesa, ya que en los ambientes humanistas europeos, y concretamente en Italia, sólo él parece haber dedicado una atención especial a la poesía de los trobadores peninsulares. Sus inquietudes e inclinaciones culturales determinaron que ordenase la copia de los apógrafos B1 y V2, que dispusiese una transcripción aparte de los denominados lais de Bretanha (Vat. lat. 7182, ff. 276r-278r) – que, como se recordará, son los poemas iniciales de B – y que él mismo escribiera el índice de autores conocido como Tavola colocciana3. La amplitud de sus horizontes intelectuales fue, por tanto, determinante para la historia de la poesía trovadoresca del Occidente ibérico, pues sin su intervención no sólo un gran número de textos y autores habrían sido totalmente desconocidos, sino que incluso la mayoría de la producción profana transmitida por el otro de los grandes testimonios de la tradición gallego-portuguesa – el Cancioneiro da Ajuda (A) – permanecería para siempre en las sombras del anonimato, ya que, como se sabe, las 310 cantigas presentes en el códice lisboeta carecen de rúbricas atributivas4. La actividad filológica del erudito iesino no es un ejercicio pasivo, puesto que no era un simple mecenas ni lo guiaba el mero coleccionismo o el afán por la recogida de materiales, sino que sus trabajos obedecían a * Este estudio forma parte del Proyecto de Investigación BFF2002-00958, subvencionado por el MCYT (Dirección General de Investigación) y por el FEDER. 1 Cancioneiro da Biblioteca Nacional (Colocci-Brancuti), Cód. 10991, reprodução facsi-

milada, Lisboa 1982. 2 Cancioneiro português da Biblioteca Vaticana (Cód. 4803), reprodução facsimilada, Lisboa 1973. 3 Véase E. GONÇALVES, La Tavola colocciana. Autori Portoghesi, en Arquivos do Centro

Cultural Português 10 (1976), pp. 387-406. 4 Para la importancia de Colocci en la transmisión de la lírica gallego-portuguesa, remitimos a los contenidos y bibliografía dados por E. GONÇALVES s. v. Colocci, Angelo en Dicionário da Literatura Medieval Galega e Portuguesa, organização e coordinação de G. LANCIANI y G. TAVANI, Lisboa 1993, pp. 163-166.

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la pasión por el saber, el estudio y la lectura. Este hecho explica – y, en cierto modo, también atenúa – las palabras de S. Debenedetti, cuando dice: «Il Colocci aveva la poco lodevole abitudine di battezzar variamente i manoscritti che studiava, il che, se a ciò s’aggiunge che l’ordine e, inteso pur vagamente, il metodo, non è la sua miglior qualità, produce dolorose incertezze»5. Todos los que alguna vez se hayan acercado a los códices “coloccianos” compartirán en gran medida dichas afirmaciones, pero también deberán tener presente que el prelado romano no cultivaba las artes filológicas para la posteridad, sino por propio placer intelectual en una Italia de amplios vuelos culturales. Los suyos son en la mayoría de los casos apuntes de trabajo personales, realizados, a veces, con una grafía enrevesada que no facilita la labor del estudioso. Sus anotaciones, remisiones, denominaciones de códices, intervenciones en los textos, uso de abreviaturas, etc. se integran en su particular mundo de trabajo y están presididas por un orden y una terminología que para él eran diáfanos, pero que todavía hoy enfrentan a los especialistas a muchas incertidumbres y incógnitas. En el caso de los testimonios gallego-portugueses B y V – pero, sobre todo, en el primero de ellos6 – Colocci tiene una participación muy activa, pues copia una parte del Arte de trovar que precede al antiguo Colocci-Brancuti, escribe las rúbricas atributivas de la mayoría de las cantigas (en V sólo lo hace con sistematicidad a partir del f. 32v), transcribe los reclamos de V y gran parte de los que figuran en B, numera los textos y cuadernos del manuscrito lisboeta, incorpora numerosas notas marginales, da cuenta de la ausencia de poemas, se encarga de la numeración de los folios de ambos códices, etc.7. Pero, además, el humanista italiano 5 S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi

provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995, p. 252. 6 A. FERRARI, s. v. Cancioneiro da Biblioteca Vaticana, en Dicionário cit., p. 125, señala a este propósito lo siguiente: «O Cancioneiro da Vaticana caracteriza-se por ser uma cópia com toda a probabilidade destinada a oferta ou troca (ambas praxes frequentíssimas entre os humanistas), por isso de maior valor como livro, mas de menor cuidado filológico em confronto com o seu gémeo B, destinado ao usso pessoal de Colocci. São disso claro indício, não só a maior unidade da cópia (uma única mão) mas também o comportamento do copista, mais atento ao aspecto estético do que à fidelidade (por exemplo, perante textos ilegíveis, enquanto os copistas de B tentam decifrar o texto, e portanto deixam espaço branco a indicar a lacuna, este normalmente passa à frente sem assinalar o problema, obtendo, como é óbvio, uma cópia mais limpa)». 7 Para el cancionero B, véase el estudio de A. FERRARI, Formazione e struttura del Canzoniere portoghese della Biblioteca Nazionale di Lisbona (Cod. 10991: Colocci-Brancuti). Premesse codicologiche alla critica del testo (Materiali e note problematiche), en Arquivos do Centro Cultural Português 14 (1979), pp. 27-142. Para V, cfr. las informaciones y bibliografía

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intervino en la copia de las denominadas rúbricas explicativas8 o razos, que, en la mayoría de las ocasiones, aparecen antepuestas o pospuestas – en función de la cronología de los autores y de su incorporación a los diversos niveles que conforman la tradición escrita9 – en cantigas de la modalidad satírica (escarnio e maldizer)10. 2. El sustantivo rubrica parece ser ya empleado por el propio Colocci11 como equivalente de razo en una de las notas presentes en el cancionero V. Así, en el recto del último folio de dicho testimonio, se lee el siguiente texto de mano del humanista: «a fol. 290 è cominciata una rubrica et non è finita di copiar». Anna Ferrari ha realizado las siguientes observaciones sobre dicha anotación: «alla c. 186v il primo 290 colocciano (lapsus per 289) affianca una razo effettivamente incompleta»12. Consultando el mencionado folio del códice vaticano, y confrontándolo con la parte correspondiente del testimonio B, se observa que la única razo (?) presente en ese lugar es la correspondiente a la cantiga de Pero d’Ambroa Pero d’Armea quando composestes (B 1603, V 1135, LPGP 126,1113), que está completa en ambos manuscritos14. Los únicos datos

que la misma autora proporciona en la referencia citada en la nota precedente (concretamente, Dicionário cit., pp. 123-126). 8 La denominación (de origen italiano) es empleada para la tradición gallego-portuguesa por E. GONÇALVES en O sistema das rubricas atributivas e explicativas nos cancioneiros trovadorescos galego-portugueses, en Actas do XIX Congreso Internacional de Lingüística e Filoloxía Románicas, ed. R. LORENZO, A Coruña 1994, VII, pp. 979-990, p. 980. 9 Para este aspecto véanse los siguientes estudios: G. TAVANI, Poesia del Duecento nella

Penisola Iberica. Problemi della lirica galego-portoghese, Roma 1969, pp. 77-179; ID., Ensaios portugueses. Filologia e Lingüística, Lisboa 1988, pp. 123-178; ID., Ancora sulla tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese (quarta e ultima puntata), en Rassegna Iberistica 65 (1999), pp. 3-12; J. M. D’HEUR, Sur la tradition manuscrite des chansonniers galiciens-portugais. Contribution à la Bibliographie générale et au CORPUS des troubadours, en Arquivos do Centro Cultural Português 8 (1974), pp. 3-43; E. GONÇALVES, Tradição manuscrita da poesia lírica, en Dicionário cit., pp. 627-632; A. RESENDE DE OLIVEIRA, Depois do espectáculo trovadoresco. A estrutura dos cancioneiros peninsulares e as recolhas dos séculos XIII e XIV, Lisboa 1994. 10 Cfr. P. LORENZO GRADÍN, Trovadores, cronología y razos en los cancioneros gallego-portugueses, en Actas del VIII Congreso Internacional de la AHLM, al cuidado de M. FREIXAS y S. IRISO, Santander 2000, vol. II, pp. 1105-1125; EAD., Las razos gallego-portuguesas, en Romania 121 (2003), pp. 99-132. 11 Para la equivalencia entre rubrica y titulus, cfr. S. RIZZO, Il lessico degli umanisti, Roma 1973, p. 59. 12 Cfr. A. FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 67. 13 Además de las referencias a los manuscritos, se proporciona al lector el número que

las cantigas ofrecen en Lírica profana galego-portuguesa. Corpus completo das cantigas me-

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que faltan en V son las atribuciones – presentes en B, de mano de Colocci – tanto de la cantiga mencionada, como de la precedente, es decir, la de Pero d’Armea – Donzela, quen quer entenderia, B 1602, V 1134, LPGP 121,8 –, a la que el de Ambroa replica de forma paródica. Desde nuestra perspectiva, creemos que, si Colocci quisiese referir la ausencia de autoría de los textos indicados en V, utilizaría el vocablo manca – acompañado probablemente del sintagma lo titolo – presente en diversas ocasiones en el famoso f. 303r del cancionero B15, y no la cláusula «non è finita di copiar». Si se repara en la (problemática) numeración arábiga que acompaña a diversas cantigas en el códice de la Vaticana16, se observa que en el f. 187v el número 290 aparece por tercera vez17 junto al texto de Johan Velho de Pedrogaez Con gran coita, rogar que dievais, con estudio biográfico, análise retórica e bibliografía específica, coordinado por M. BREA, Santiago de Compostela 1996, 2 vols. (a partir de ahora abreviado LPGP). 14 El contenido de la misma es el siguiente: «Estoutra cantica fez Pero d’Ambroa a Pero d’Armea por estoutra de çima que fezera» (LPGP, 126,11). Para la cantiga y la rúbrica, son de sumo interés las consideraciones de G. TAVANI, Os jograis galegos e portugueses. Considerações sobre a censura en Versants 28 (1995), pp. 175-189 (pp. 187-188). 15 FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 63-74. 16 Dicha numeración ha recibido diversas interpretaciones por parte de la crítica espe-

cializada y, en consecuencia, ha sido utilizada con argumentaciones diferentes para trazar el proceso filiativo de los apógrafos italianos. Así, para D’Heur, los números romanos indicarían la foliación del ejemplar sobre el que se copió V, mientras que las cifras arábigas remitirían al original de B: «Tout donne à penser que ces chiffres, justemente parce qu’ils sont des chiffres romains, sont le vestige d’une foliation ancienne, probablemente celle de l’original de V lui-même (...). On voit cependant que Colocci abandonne très vite ce genre de références. Pour quelle raison? Parce qu’ils disposent de l’original du chansonnier parallèle à V, qui est le chansonnier B, et que l’original de B l’emporte en quantité sur l’original de V, c’est à l’original de B que Colocci et son copiste vont faire référence du début à la fin du chansonnier V» (D’HEUR, Sur la tradition manuscrite cit., p. 12). Según Anna Ferrari, tanto una numeración como otra podrían referirse a los folios del modelo sobre el que se copiaron alla pecia B y V (cfr. FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 79-80; EAD., Cancioneiro da Biblioteca Vaticana, en Dicionário cit., pp. 123-126, p. 125). Por el contrario, Giuseppe Tavani considera que algunas de las apostillas numéricas presentes en V se refieren a una colación hecha sobre B, mientras que otras (entre las que estaría la que nos ocupa) provendrían de un códice diverso que no puede ser identificado con B ni con su antecedente (cfr. TAVANI, Ancora sulla tradizione manoscritta cit. pp. 3-12; ID, Trovadores e jograis. Introdução à poesia medieval galego-portuguesa, Lisboa, 2002, pp. 81-130, y ID., Le postille di collazione nel Canzoniere portoghese della Vaticana (Vat. lat. 4803) en este mismo volumen). 17 En efecto, se trata de la tercera ocurrencia del número 290, pues éste ya aparece por

primera vez en la columna b del verso del folio precedente, es decir, el f. 186v, a la altura del verso de incipit de la citada cantiga de Pero d’Ambroa, Pero d’Armea, quando composestes (B 1603, V 1135) y, por segunda vez, en el f. 187v, colocado junto al verso inicial del primer texto de Johan Velho de Pedrogaez, Lourenço Bouçon, o vosso vilão (B 1608, V 1141). Para la colocación de las indicaciones numéricas en B y V, cfr. las informaciones dadas por D’HEUR en Sur la tradition manuscrite cit., pp. 6-10.

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m’ajudasse (B 1609, V 1141, LPGP 82,1); justamente, en el fondo de la col. b del recto del folio sucesivo (es decir, el f. 188r), se encuentra una razo (sobre la que se volverá en páginas posteriores) escrita por Colocci – referida en concreto a la cantiga de Estevan Fernandiz Barreto [Don] Estev’Eanes, par Deus mandade, B 1611, V 1144, LPGP 32,1) – que no ha sido finalizada, como se observa al consultar B, donde el texto en prosa – de mano del copista c18 – aparece íntegro (B 1611, f. 341v). Consideramos que esta deficiencia “técnica” fue la que probablemente determinó la nota colocciana presente en el último folio escrito de V, en el que el humanista recogió también la existencia de la laguna textual que afecta al f. 10r del testimonio citado («fol. 97 desunt multa»). 3. Las primeras rúbricas explicativas y atributivas que acompañan a los poemas en el cancionero B se inician en el f. 10r y son transcritas, respectivamente, por el denominado copista b19 y por Colocci. Como se sabe, dichas rúbricas se refieren a los conocidos lais de Bretanha, de los que facilitan, en unos casos, la atribución ficticia y la contextualización en la obra narrativa en la que las piezas habrían estado incluidas previamente – es decir, antes de funcionar como poemas líricos autónomos (cfr. B 1, B 2, B 5) –, mientras que, en dos ocasiones – de mano de Colocci –, sólo remiten a la autoría ficticia del lai (Don Tristan [o namorado], B 3 y B 4). Como ya señaló Carolina Michaëlis en su clásico estudio sobre el Cancioneiro da Ajuda20, tres de estas cinco cantigas son adaptaciones de poemas insertos en la versión larga del Tristan en prose francés, en concreto de la denominada versión II compuesta a partir de 124021. Es el caso de los poemas Amor, des que m’a vos cheguei (B 1, LPGP 157,5), Don Amor, eu cant’e choro (B 4, LPGP 157,18) y Mui gran temp’á, par Deus, que eu non vi (B 3, LPGP 157,32); para los otros dos textos (O Maroot aja mal grado, B 2, LPGP 157,35, y Ledas sejamos ogemais, B 5, LPGP 157,28), a pesar de que se ha apuntado que el antecedente del primero podría ser el Lai voir disant del propio Tristan en prose y de que para el segundo se ha postulado como posible fuente un episodio de la Folie Lancelot del ciclo de la Post-Vulgata22, lo cierto es que to18 FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 137. 19 Ibid., p. 94. 20 C. MICHAËLIS DE VASCONCELOS, Cancioneiro da Ajuda, reimpresión de la ed. de Halle 1904, Lisboa 1990, vol. II, pp. 480-502. 21 Cfr. E. BAUMGARTNER, Le Tristan en prose. Essai d’interprétation d’un roman médiéval, Genève 1975, p. 40 y sgg. 22 Véanse los siguientes estudios: H. L. SHARRER, La materia de Bretaña en la poesía gallego-portuguesa, en Actas del I Congreso Internacional de la Asociación Hispánica de Lite-

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davía hoy se desconoce si pudieron haber existido modelos poéticos franceses concretos que fuesen utilizados por el imitador (o imitadores) gallego-portugués. Ya en su día la propia Michaëlis subrayó el valor sustancial de tales rúbricas23. En efecto, de no ser por dichas didascalias y por las atribuciones que preceden a algunas de las composiciones – que se las adjudican a personajes legendarios de la «materia de Bretaña» (Elis o Baço, Don Tristan (o namorado), quatro donzelas a Marot d’Irlanda, donzelas a don Ançaroth, etc.) –, el significado e interpretación de los textos tendrían un alcance muy limitado, pues las informaciones que se pueden recabar de los mismos no resultan suficientes para comprender el verdadero alcance de sus contenidos y no permiten establecer las oportunas relaciones con el macrotexto del que previamente habían formado parte. Es más, en una primera lectura, los poemas – a excepción de LPGP 157,35, que se inicia con la alusión a Maroot, y LPGP 157,28, que contiene el sustantivo lais en la estrofa inicial y en rima (v. 4) – podrían ser integrados en las dos grandes modalidades del registro amoroso cultivadas en la tradición gallego-portuguesa: cantigas de amor y cantigas de amigo24. Como se ha mencionado al inicio de este estudio, los lais han sido también transmitidos en otro testimonio manuscrito, el códice Vat. lat. 7182 (L), una miscelánea procedente de la biblioteca del propio Angelo ratura Medieval, edición a cargo de V. BELTRÁN, Barcelona pp. 561-569; ID., The Acclimatization of the Lancelot-Grail Cycle in Spain and Portugal, en W. W. KIBLER , The Lancelot-Grail Cycle: Text and Transformations, Austin 1994, pp. 175-190; S. GUTIÉRREZ GARCÍA, P. LORENZO GRADÍN, A literatura artúrica en Galicia e Portugal na Idade Media, Santiago de Compostela 2001, pp. 101-109. 23 Sus palabras dicen: «Mas sem as rubricas, que expõem os assumptos, ainda assim não teria sido facil reconhecer a proveniencia (...). Com ajuda d’ellas, não foi difficultoso determinar alguns distinctivos de todas como: não terem brotado directamente de impressões subjectivas e transes pessoaes de poetas, sendo pelo contrario as unicas no cancioneiro que foram ideiadas e architectadas como obra de personagens diversos, estrangeiros, ficticios. As unicas que por isso precisavam de explicações en prosa. As unicas que, pelo mesmo motivo, não estão assignadas por trovadores peninsulares, trazendo indicação só do nome dos heroes e das heroinas a que as novellas do cyclo bretão as attribuiam» (cfr. MICHAËLIS, Cancioneiro da Ajuda cit., vol. II, pp 479-480). 24 Para el carácter híbrido de los textos, cfr. G. TAVANI, La poesia lirica galego-portoghe-

se, en Grundriss der Romanischen Literaturen des Mittelalters, Heidelberg 1980, II (1), fasc. 6, pp. 144-146 (traducción gallega A poesía lírica galego-portuguesa, Vigo 1991, pp. 223-226). Incluso, desde el punto de vista métrico, los lais – salvo LPGP 157,5 y 157,18 – ofrecen esquemas muy empleados por los trovadores gallego-portugueses (para este aspecto, véanse los datos relativos a cada uno de los textos en G. TAVANI, Repertorio metrico della lirica galego-portoghese, Roma 1967).

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Colocci en la que dichos textos ocupan los ff. 276r-278r25. Por otra parte, la presencia de dichas composiciones se registra igualmente en la conocida Tavola colocciana (C), elaborada por el insigne humanista como índice de un cancionero – que es con una alta probabilidad B26 –, y en la que ocupan, al igual que en este último testimonio, los registros 1 a 527. El cotejo de B y L pone de manifiesto ciertas diferencias textuales (en las que, como resulta obvio, no cabe considerar los fragmentos actualmente ilegibles de la miscelánea vaticana – que, por otra parte, en el Colocci-Brancuti se aprecian con nitidez – ya que éstos no son más que el resultado del estado físico actual del códice), las cuales parecen indicar que uno no es copia directa del otro28. No obstante, y a pesar de su considerable número, la tipología de las variantes tampoco permite corroborar que éstas procedan de fuentes diversas. Para justificar esta hipótesis de trabajo, se facilita a continuación la edición crítica de las tres rúbricas explicativas de los lais. Para la edición de los textos se ha seguido la grafía de B por ser el códice (actualmente) más completo y el que ofrece el mayor número de lecturas correctas, si bien las divergencias entre los dos manuscritos son mínimas y se reducen en la mayoría de los casos a aspectos gráficos. Como resulta obvio, se ha recurrido a L en los casos en que dicho testimonio ofrece lecturas y grafías mejores respecto al Colocci-Brancuti, lo que sucede en un número reducidísimo de pasajes. Para la transcripción de las rúbricas se ha optado por la regularización gráfica, pudiendo el especialista interesado valorar las intervenciones del editor en el correspondiente aparato crítico; éste recoge en dos franjas diferenciadas los errores de los testimonios y las variantes gráficas que ambos presentan. Los criterios de edición adoptados son los siguientes: a) Nasalidad. Cuando el tilde de nasalidad figure sobre una vocal y represente una consonante nasal implosiva, esta se grafiará como vocal + n: ëton = enton; grã = gran; chamã = chaman; cõ = con, etc. Cuando el mismo signo registre una vocal nasal resultante de la caída de una —n- intervocálica, éste se colocará sobre la vocal que inicialmente se nasalizó: húu = úu, húa = úa. En el caso de la terminación —INA, presente en los derivados del sustantivo latino REGINA(M), se registrarán las dos formas presentes en los manuscritos: la primitiva Raya = raîa, en la que la i tónica antes de —n— intervocálica aparece nasalizada como consecuencia de la pérdida de la referida consonante (cfr. rúbrica III), y la forma Raynha = rainha, que se documenta a inicios del siglo XIV y que marca el desarrollo de la nasal palatal ante las dos vocales en hiato (cfr. rúbrica I).

25 S. PELLEGRINI, I ‘lais’ portoghesi del Codice Vaticano Lat. 7182, en Studi su trove e

trovatori della prima lirica ispano-portoghese, Bari 1959 (2ª ed.), pp. 184-199. 26 Véanse las informaciones y bibliografía dadas por E. GONÇALVES, s. v. Tavola colocciana (C), en Dicionário cit., pp. 615-618. 27 GONÇALVES, La Tavola colocciana cit., p. 27. 28 Esta observación ya fue realizada por D’HEUR en Sur la tradition manuscrite cit., p. 5.

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Ante las oclusivas bilabiales b/p se utilizará m: cõbater (B), con later (L) = combater. Tanto en posición implosiva como en posición final absoluta se grafiará siempre n, independientemente de que los manuscritos presenten tilde de nasalidad, m o n: grã = gran, tan/tam = tan etc. b) Grafías i/y. Habida cuenta de que ambos grafemas representan la vocal palatal, se usará siempre i con tal valor fonético: foy = foi, Raynha = rainha, envyavaas = enviavaas etc. c) Grafías u/v. Como es habitual en este caso, se empleará la grafía u con valor vocálico y v con valor consonántico: uyu = viu, seu = seu, leuaua = levava, etc. d) Consonantes lateral y nasal palatales. Para la representación de ambos sonidos se usarán respectivamente los dígrafos lh y nh, presentes en ambos testimonios manuscritos: Bretanha, Cornoalha, filhava, etc. e) Nasal y lateral alveolares. Para dichas consonantes se utilizarán las grafías n y l: andando = andando, Inssoa = Insoa, etc.; cavaleyros = cavaleiros, ela = ela, delles = deles, etc. La transcripción donzella(s) en L (cfr. rúbricas II y III) requiere un comentario particular, ya que la utilización sistemática de —ll— en dicho sustantivo parece obedecer a un hábito del propio copista y no parece venir determinada sólo por ecos etimológicos (como, por ejemplo, es el caso delles citado aquí arriba); de hecho el testimonio B ofrece siempre el grafema l para la forma comentada (donzelas). Aún siendo conscientes de que probablemente el ejemplar del que efectuaban la transcripción los amanuenses de ambos testimonios no ofrecía un sistema gráfico uniforme, consideramos que esta peculiaridad, junto a otras que se señalan en el siguiente subapartado, permite postular la intervención de un copista italiano o catalán en la transcripción de los lais de L. El sufijo latino —CELLU/-CELLA se conserva en un grupo reducido de palabras catalanas bajo la forma —cell/-cella, en las que el dígrafo indica la pronunciación palatal de la consonante; precisamente una de esas voces es donzella (< *DOMNICELLA). Véase información más detallada en F. DE B. MOLL, Gramàtica històrica catalana, València 1991, p. 187, y H. LAUSBERG, Lingüística románica, I: Fonética, Madrid 1985, p. 410. f) Oclusivas velares sorda y sonora. Para la oclusiva velar sorda y sonora se utilizarán las grafías c/g + a, o, u, y qu/gu + e, i: busca(B)-buscha(L) = busca, conquerer = conquerer, aqª = aca, cantiga = cantiga, etc. Se conservará sin embargo la semiconsonante velar en formas como quando, quatro y guarda, ya que en estos casos la grafía de los manuscritos (que podría ser latinizante) se presta a una interpretación incierta y podría reflejar la pronunciación de la wau. Véanse, a este respecto, las observaciones y bibliografía dadas por E. B. WILLIAMS, Do latim ao português, Rio de Janeiro 1975, pp. 75-76, y CL. DE AZEVEDO MAIA, História do galego-português. Estado lingüístico da Galiza e do noroeste de Portugal desde o século XIII ao século XVI (com referência à situação do galego moderno), Coimbra 1986, pp. 641-643). Hemos de señalar que en L la oclusiva velar sorda /k/ se representa por ch en el sustantivo buscha. Dicho grafema aparece en la documentación gallega y portuguesa medievales con esa función, si bien es empleado de forma muy esporádica (cfr. AZEVEDO MAIA, História do galego-português cit., pp. 430-431). Habida cuenta de la presencia de busca en B, creemos que el uso de ch en la transcripción de la rúbrica de L obedece a un hábito del copista. El mencionado dígrafo es, junto con c y qu, empleado en la lengua catalana para la transcripción de /k/ tanto en posición inicial de sílaba, como en final absoluta hasta bien entrado el siglo XVI. Dicha particularidad permitiría también explicar la grafía Ancharoth, utilizada por el amanuense en la razo del lai Ledas sejamos ogemais, B 5, L 5, LPGP 157,28 (cfr. la rúbrica III reproducida aquí abajo), habida cuenta de la presencia en el modelo que copiaba de la forma Ancaroth (cfr. la variante de B). Ésta habría sido interpretada de modo incorrecto – pues ante las vocales a, o, u la africada (más tarde fricativa) predorso-alveolar

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sorda era representada a menudo como c en los textos peninsulares de la Edad Media (AZEMAIA, História do galego-português cit., pp. 442-443) – y habría llevado al copista a la adaptación de una grafía que le resultaba más familiar para la oclusiva velar. Para estos datos, cfr. A. GRIERA, Gramática histórica catalana, Abadía de San Cugat del Vallès 1965, p. 25; MOLL, Gramàtica històrica catalana cit., p. 42. VEDO

Asimismo, el uso del dígrafo ch con valor velar aparece con frecuencia en textos no toscanos en la primera mitad del siglo XVI, localizándose en la documentación formas como charo, ochasione, cerchare, etc. Por tanto, la transcripción buscha en L podría venir, asimismo, motivada por el peso de una tradición escrita de carácter “regional” en una época en la que el proceso de normalización gráfica en la península italiana no era estable (de hecho, como es conocido, la cuestión ortográfica en Italia sólo se cerrará con cierta solidez y armonía a partir de 1584, año de la publicación de la obra de Leonardo Salviati Avvertimenti sopra la lingua del Decamerone). A este propósito, véanse las informaciones y referencias bibliográficas que figuran en N. MARASCHIO, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, en Storia della lingua italiana, a cura di L. SERIANNI e P. TRIFONE, I: I luoghi della codificazione, Torino 1993, pp. 139-227. Con los datos manejados hasta el momento, es difícil pronunciarse sobre la procedencia exacta del copista de L, si bien cabe recordar que Colocci empleó en la transcripción de B a seis amanuenses de la Curia vaticana que revelan hábitos gráficos ibéricos (cfr. FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 85-89); dicha elección parece lógica, habida cuenta de la procedencia de las cantigas que figuraban en el ejemplar (o ejemplares) que el humanista deseaba reproducir. En el caso de los lais de L, la hipótesis que se revela más plausible es la de la existencia de una mano catalana para la escritura de los textos, lo que vendría refrendado por el tipo de grafía empleado en la copia de los mencionados poemas: se trata de una minúscula gótica española del siglo XVI (cfr. PELLEGRINI, Studi su trove cit., p. 187). g) Oclusiva dental sorda. En todos los casos dicho fonema se representa en los testimonios como t, salvo en el antropónimo Ançarot que viene transcrito como ancaroth (B) o ancharoth (L). Habida cuenta de que la grafía th – usada en un principio en palabras de origen griego – no se justifica por razones etimológicas y carece de cualquier valor fonético se eliminará en el texto crítico. Para la presencia del grafema h después de t en textos gallegos y portugueses medievales, véanse los comentarios y bibliografía que figuran en AZEVEDO MAIA, História do galego-português cit., p. 428. h) Africadas predorsales sorda y sonora. Para el correspondiente fonema sordo (que se transforma en fricativo desde ca. el último cuarto del s. XIII) las intervenciones se limitan a la regularización de c ante e, i, y ç ante las restantes vocales (a, o, u): Baço = Baço, Ancaroth(B)-Ancharoth(L) = Ançaroth, Lidica = Lidiça, etc. Para la primitiva africada sonora en posición intervocálica se utilizará —z—, grafema, por otra parte, presente en ambos testimonios manuscritos: fazia = fazia, razon = razon, etc. i) Fricativa prepalatal sonora. Este sonido, que hasta inicios del siglo XIII era africado, se representará por j cuando en los manuscritos se emplee i con tal valor fonético: Ioyosa = Joiosa, leguaië = lenguajen. En los restantes casos se conservará la grafía g presente en los códices para el fonema citado: Genev = Genevra. j) Consonantes dobles. Se eliminarán todas a excepción de —rr— y —ss—, pues, como se recordará, éstas son las únicas consonantes que ofrecen oposición fonológica en ese contexto: donzellas = donzelas, Inssoa = Insoa, pero ingraterra = Ingraterra. k) H antietimológicos. Dicha grafía se eliminará en todos los casos, mientras que se conservará la forma de los manuscritos en aquellas palabras que procedan de formas con h etimológico: hûa = ûa; hû = un; hom = home.

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l) Unión y separación de palabras. Se utilizarán los criterios del gallego actual, por lo que las formas átonas enclíticas de los pronombres se unirán a la respectiva forma verbal sin recurrir al uso del guión: uyua = viua, envyavaas = enviavaas. m) Abreviaturas. Por razones de economía se resolverán sin indicarlo de manera específica en el texto y no se recogerán en el aparato, ya que no hay ninguna que revista características especiales y todas ellas son de uso común en la tradición paleográfica de los textos hispánicos medievales. n) Acentuación, puntuación y otras cuestiones. En el primer caso, sólo se recurrirá al acento con función diacrítica; por lo que respecta a la puntuación, se seguirán las normas vigentes en el gallego actual. El uso de las mayúsculas se reservará para los nombres propios y para los párrafos que se inician después de punto. Por último, se señalarán con paréntesis cuadrados [...] las integraciones realizadas en el texto; en el aparato crítico (y, como ya hizo Pellegrini, siguiendo las convenciones establecidas a propósito) se empleará el asterisco * para cada una de las letras actualmente ilegibles en L ; finalmente, se utilizarán los paréntesis redondos (...) para indicar letras o palabras que posteriormente fueron borradas por el copista. 1

5

I. Este lais fez Elis o Baço, que foi duc de Sansonha, quando pasou aa Gran Bretanha, que ora chaman Ingraterra. E pasou lá no tempo de Rei Artur pera se combater con Tristan, porque lhe matara o padre en üa batalha. E, andando üu dia en sa busca, foi pela Joiosa Guarda, u era a rainha Iseu de Cornoalha; e viua tan fremosa que adur lhe poderia home no mundo achar par. E namorouse enton dela e fez por ela este lais. Este lais posemos aca, porque era o melhor que foi fe[i]to.

B 1, f. 10r; L 1, f. 276r 3. con later L 5. podria L; ath^ par B, achatar L; 6. feh B; loax B, con s sobrepuesta sobre la x, q qa o melhn L; feto B L. 1. obaço B, Obaço L ; foy BL ; Sam Sonha BL ; agrã BL 2. chamã B; Ingra trra, con signo de abreviación horizontal sobre la segunda parte del topónimo L; 3. cõbater B; cõ B; Tristã B; ë BL; hüa BL; hüu B, *** L; 4. ë B; sabuscha L; foy BL; ioyosa BL; hu BL; era B, e**L; Raynha BL, con trazo vertical sobre la y 5. vyua BL; con ápice sobre la y, tam L; hom, con trazo horizontal sobre los dos últimos grafemas BL; müdo BL; 6. ëton BL; laix L; este laix p. L; aqª BL; 7. foy BL. 1

4

II. Esta cantiga fezeron quatro donzelas a Maroot d’Irlanda en tempo de rei Artur, porque Maroot filhava todalas donzelas que achava en guarda dos cavaleiros, se as podia conquerer deles; e enviavaas pera Irlanda pera seeren sempre en servidon da terra. E esto fazia el porque fora morto seu padre por razon düa donzela que levava en guarda.

B 2, f. 10r-v; L 2, f. 276v-f. 277r. 3. Ifllanda BL; sceren BL, con trazo horizontal después de la s sobre los grafemas iniciales c y e 5. rozon L. 1. fezerõ B, (fezen L) fezeron L; donzellas L; maroot BL, con trazo horizontal sobre las vocales velares en las dos ocurrencias del sustantivo en la misma línea 2. donzellas L; hachava L;

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ë B; 3. cavaleyros BL; cõqrer B, *onquerer L; dells BL, con trazo horizontal sobre las dos consonantes líquidas; ëuyauaas B, enuyauaas L; Iƒllanda BL; 4. enruydom B, (con L) en bvydon L; fa*ia L; (po) fora L; 5. dhüa B, dhuna L, con trazo horizontal sobre todo el indefinido; donzella L; ë B.

1 3

III. Este lais fezeron donzelas a don Ançarot quando estava na Insoa da Lidiça, quando a raia Genevra [o] achou con a filha de rei Peles e lhi defendeo que non parecese ant’ela.

B 5, f. 10v; L 5, f. 278r. 1. laye L; ancharoth L; quado BL; 2. Rayan L; ochou L; 3. ancela B. 1. layx B; fezerõ, BL, con trazo horizontal sobre la segunda e en B y sobre casi toda la palabra en L; dõzelas B, donzellas L; dom BL; ancaroth B; Inssoa BL; lidica BL; 2. qüado B,–; Raya B, con tilde de nasalidad sobre las dos últimas vocales del sustantivo; genev; Rey BL; lhy BL; 3. nõ BL.

El examen del aparato crítico de los textos indica que las divergencias de lectura entre B y L corresponden a variantes gráficas (lais/laix, chamã/ chaman, donzelas/donzellas, achava/hachava, busca/buscha, ë/en ...) y a lapsus calami que, la mayoría de las veces, entran en la categoría de los conocidos como «errores paleográficos» por sustitución29 (cõbater/ con later, feh/fez, razon/rozon, achou/ochou, ancela/antela, ath par/achatar, …). Podemos avanzar que las mismas conclusiones son válidas para los propios poemas, aunque no sea ahora el momento de detenernos en el análisis de su tradición textual. La única diferencia sustancial que se aprecia en la transmisión de los dos testimonios manejados se refiere al primer lai, ya que en L éste va provisto de una atribución ficticia («Elis obaço de Sam Sonha que foy muy cavaleiro darmas», f. 276r) que está ausente en B, lo que no deja de producir cierta perplejidad, pues es la composición que inicia el cancionero lisboeta. De todas formas, la ausencia de rúbrica atributiva podría obedecer a una decisión del propio Colocci, que quizás la consideró superflua habida cuenta del contenido de la razo que inicia el poema y que remite al autor legendario del mismo: «Este lais fez Elis o Baço...» ; en este caso, por tanto, la falta de rúbrica podría obedecer a criterios “organizativos” del propio humanista – que, como se recordará, es el responsable de transcribir los nombres de los autores –, el cual, en el caso de aquellos poemas (cfr. B 2 y B 5) que presentan razos de cierta extensión – en las que ya estaba incluida la atribución –, habría optado por no 29 A. BLECUA, Manual de crítica textual, Madrid 1990, p. 25.

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reproducir el nombre del trovador. En consecuencia, como ya apuntó brevemente Anna Ferrari30, y a diferencia de la hipótesis sostenida en su día por Pellegrini31, el cotejo de los dos testimonios apunta más bien a la procedencia de ambos de un modelo común, pudiendo atribuirse las diferencias presentes en los mismos a errores propios de la operación de copia. Pero lo que aquí nos interesa de modo particular es que Colocci reproduce una nueva versión de la rúbrica perteneciente a la pieza O Maroot aja mal grado (B 2, LPGP 157,35) al final del Arte de trovar que precede a B (Fig. I). Dicha rúbrica se aleja en sus contenidos tanto de la versión dada por el copista b en el propio Colocci-Brancuti (Fig. II), como de la reproducida por el amanuense que transcribe los lais en L. Así, el texto copiado por el filólogo iesino dice lo siguiente: Esta cantiga é a primeira que achamos que foi fe[i]ta e fezeronna quatro donzelas en32 tempo de rei Artur a Maraot d’Irlanda per la ... e tornamola33 en lenguajen palavra per palavra, e diz assi: O Maraot mal grado. [B, f. 4v]

Como se acaba de señalar pocas líneas antes, la versión de la razo proporcionada por los copistas de B y L procede de un mismo ejemplar; sin embargo, lo que llama poderosamente la atención es la varia lectio de la rúbrica del lai copiada por el humanista italiano, pues ésta ofrece una serie de elementos propios que están ausentes en los otros dos testimonios y que no pueden ser explicados de ningún modo por error de los copistas. El estudioso se encuentra ante divergencias motivadas no por el proceso de copia, sino por la intervención de una mano que modificó conscientemente el texto y alteró la redacción. Ante esta situación la hi30 A. FERRARI, s. v. Lai, en Dicionário cit., p. 378. 31 PELLEGRINI, Studi su trove cit., pp. 188-190. 32 Entre la preposición y el sustantivo hay una abreviatura que no hemos conseguido

interpretar, ya que no aparece recogida en ninguno de los manuales especializados a tal fin. De todas formas queremos dejar aquí constancia de la disponibilidad e interés mostrados por los paleógrafos consultados sobre este punto oscuro del texto: J. García Oro, A. Petrucci y Mª J. Portela. Vaya para los tres nuestro más sincero agradecimiento por su generosa y desinteresada colaboración. 33 E. y J. P. Machado leen en este pasaje cremos tornada (cfr. E. PAXECO MACHADO y J. PAXECO MACHADO, Cancioneiro da Biblioteca Nacional (antigo Colocci-Brancuti), Lisboa 1949-1964, vol. VII, p. 287, col. a). Habida cuenta de que el manuscrito no reproduce el morfema —s y que la sílaba mo se encuentra sobre la palabra tornada, se ha decidido enmendar la lectura del códice, ya que la confusión entre l y d se produce con cierta frecuencia en la transcripción de textos medievales.

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pótesis que se revela más acorde con los datos que poseemos (pero, creemos, que también se puede considerar la más plausible) es que la rúbrica tuvo dos redacciones durante el proceso de formación de la tradición manuscrita (y, concretamente, a nivel del subarquetipo a): en un primer momento, el poema dedicado a Maroot de Irlanda era el que iniciaba la serie de lais, de ahí la fórmula «é a primeira que achamos que foi fe[i]ta» presente en la versión “colocciana”, hasta que el compilador del último estadio de la tradición escrita decidió quebrantar tal orden y reorganizar la serie de textos en función de la presencia del lai de Elis o Baço, que juzgó de mejor calidad estética, como justifican las últimas palabras de la didascalia del referido poema en B y L: «Este lais posemos aca porque era o melhor que foi fe[i]to» (B 1, f. 10r; L 1, f. 276r). Desde el momento en que se efectuó este cambio en la colocación de los textos, y, en consecuencia, Amor, des que m’a vós cheguei pasó a ocupar el primer lugar de la serie (¿de un cancionero?), ya no tenía sentido conservar las palabras iniciales de la primera versión de la rúbrica de O Maroot aja mal grado, porque no se correspondía con la realidad codicológica y sólo podía producir desconcierto en el lector. Esta hipótesis no contradice el hecho de que el lai de Maroot estuviese en el Tristan en prose antes del de Elis o Baço y que la referencia «a primeira que achamos que foi fe[i]ta» tuviese un valor “cronotópico” respecto a la fuente narrativa de la que procedía. Por tanto, como ya señaló Michaëlis34, la cláusula mencionada podría especificar igualmente que dicha composición era la primera inserción lírica que se encontraba en la narración francesa empleada por el adaptador peninsular de los lais. En cualquier caso, éste sería un dato complementario más que no entraría en contradicción con las afirmaciones precedentes; para el organizador del último nivel de la tradición manuscrita gallego-portuguesa (y para los lectores de su antología) la conservación de la referencia de orden en el poema de Maroot sólo llevaría a confusión, ya que él, contraviniendo la disposición que presentaban las piezas líricas en la versión II del extenso Tristan en prose, privilegió en la serie de lais al poema de Elis o Baço, aunque fuese posterior en el roman, y le otorgó el puesto de honor, es decir, el inicio del códice, por lo que la cantiga de Maroot ya no era a primeira (¿de la antología, o en un primer momento, sólo de la serie de lais?). Este hecho indica que el compilador del subarquetipo a rechazó la estricta sucesión que presentaban los poemas en el roman francés, ya que los textos, desde el momento en que fueron adaptados como lais autónomos, eran valorados mediante otro tipo de criterios, que, en este caso, parecen ser de tipo 34 MICHAËLIS, Cancioneiro da Ajuda cit., II, p. 492 y p. 503.

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estético; concretamente, para el texto de Elis o Baço, cabe señalar la peculiar estructura atehuda que lo caracteriza, así como su propia extensión, ya que se trata de una cantiga de meestria de 10 coblas, lo que la convierte en un unicum en el corpus profano gallego-portugués. En todo este proceso de reorganización lo que, sin embargo, no deja de llamar la atención es que el compilador del último nivel haya eliminado las palabras finales de la que denominaremos versión 1 (es decir, la registrada por Colocci en el f. 4v de B), y que, como se observa, remite al proceso de “traducción” del lai en lenguajen palavra per palavra. Quizás la ausencia de tal cláusula obedezca al propio proceso de reubicación de la pieza en la tradición escrita, lo que, como ya se ha visto anteriormente, determinó la reelaboración de la rúbrica y, probablemente, ocasionó a su vez que el compilador rechazase la primera versión en su totalidad – pues el lai do Maroot ya no era el primero de la serie de composiciones ni tampoco era el único adaptado «palavra per palavra» –. Los datos hasta aquí expuestos permiten aventurar que el humanista italiano contó con dos testimonios distintos de la rúbrica (¿sólo de ésta?): el presente en el modelo de B y L, y el utilizado por él mismo para la copia del texto que figura al final de la Poética fragmentaria de B. Los indicios textuales (tanto de carácter interno como externo) no permiten extraer conclusiones definitivas sobre las dos versiones del texto en prosa y deben ser manejados con extrema cautela, pero, de todas formas, a priori parece poco económico pensar que el lugar de donde procede el texto transcrito por Colocci sea una fuente distinta a la utilizada para la copia del Arte de trovar. La posibilidad de que el lai, tal y como está reproducido en el f. 10r-v de B, tuviese en el modelo una anotación marginal (situada cerca de la propia rúbrica explicativa o, al menos, al inicio de la composición) que coincidiese en sus contenidos con la razo del f. 4v parece poco verosímil y económica, habida cuenta del modus operandi de Colocci. Si éste hubiese visto la variante de lectura en ese lugar concreto del modelo de B, la habría colocado en el propio f. 10 del apógrafo italiano (en el recto o en el verso), donde hay espacio suficiente en los márgenes (que, por otra parte, utiliza para otro tipo de anotaciones35), y no la hubiese desplazado al fascículo precedente (¡seis folios antes de donde le correspondería!). De hecho, la práctica habitual del estudioso 35 V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Note linguistiche e letterarie di Angelo Colocci in margine ai canzonieri portoghesi, en Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci, (Jesi, 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 197-203; M. BREA y F. FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas de Angelo Colocci no Cancioneiro galego-portugués B, en Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes (Université de Zürich, 6-11 avril 1992), publiés par G. HILTY, Tübingen 1993, vol. V, pp. 41-56.

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iesino cuando interviene en otras rúbricas explicativas del cancionero lisboeta es colocar el texto en prosa en los márgenes (o, en menor medida, en el espacio interlinear dejado entre cantiga y cantiga), pero situándolo siempre (como corresponde en buena lógica) cerca del poema de referencia para subrayar la correspondencia entre cantiga y razo (cfr. B 454, 455, 935, 1303, 1304, 1308, 1316, etc.). Habida cuenta de las consideraciones precedentes, que, sin duda, plantean numerosas incógnitas e incertidumbres, cabe recordar que el cuaderno (en este caso un quinión) en el que Colocci copia la que se ha considerado versión primigenia de la rúbrica del lai do Maroot presenta una serie de características materiales particulares, que Ferrari elencó de forma precisa en los siguientes términos: a) manca la lettera di registrazione: non per colpa d’eccessiva rifilatura, ma per volontà ordinatrice di Colocci (infatti al fascicolo seguente apre regolarmente la prima serie di litterazioni la lettera di registrazione a); b) i fogli dell’intero fascicolo non sono rigati (unico altro caso di foglio non rigato in B è il foglio 303-304, per cui cf. schema 36); c) la c. 1r contiene annotazioni colocciane relative al canzoniere provenzale M (cf. qui al paragrafo 3.1); d) le cc. 3 e 4 contengono l’Arte poetica acefala (...); e) il fascicolo è composto da tre diversi tipi di carta come risulta dall’esame delle filigrane.36

Con estos datos cabe plantear al menos dos hipótesis: o el ejemplar de B se iniciaba con una parte deteriorada, en la que se incluía la Poética fragmentaria y en la que figuraban restos del orden inicial de una antología (?) que comenzaba con el lai de Maroot, o los folios 3 y 4 del primer fascículo de B provienen de una fuente diversa (y anterior) a la utilizada para el resto del cancionero. En el caso de la primera opción, no deja de resultar extraño que Colocci haya usado folios que podemos calificar de aberrantes respecto a la tipología empleada en el resto del manuscrito y que haya dejado los folios 5, 6, 7, 8 y 9r en blanco si tenía a su disposición el resto (o al menos una parte) del cancionero; la segunda hipótesis se revela más económica, pero, faltando aquí la ayuda de V – que, como se sabe, cuenta en su parte inicial con una laguna considerable – o la de otros indicios externos, no permite llevar las deducciones más allá de lo que hasta aquí se ha señalado37. El hecho de que Colocci incluya al cua36 FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 93. 37 Los elementos de juicio con los que se cuenta no permiten probar que esa fuente de-

ba ser identificada, como señaló Michaëlis, con un tercer códice (MICHAËLIS, Cancioneiro

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derno en la numeración del códice (en el fascículo 2 anota el número 10 en el margen superior izquierdo38) pero no marque su signatura con ninguna letra apunta, desde nuestra perspectiva, a que lo introdujo en la posición actual en el momento final de organizar y encuadernar el manuscrito. El humanista sabía que en dos folios de ese cuadernillo inicial había información relativa a los trovadores gallego-portugueses que no había sido reproducida en ningún otro testimonio de los que le pertenecían y, tanto por coherencia como por la percepción que tenía del material que manejaba (o había manejado), consideró que ese era el lugar más oportuno para colocarla. El cuidado y precisión filológicos de Colocci son patentes en las notas de estudio que figuran en el fondo de la col. a del f. 4v y en el margen derecho de la col. b del f. 10r, notas que fueron realizadas cuando revisó la totalidad del códice, pues las características de la tinta apuntan a que las anotaciones fueron transcritas en un mismo momento, que, sin duda, es posterior a la copia de la primera rúbrica del lai do Maroot: se trata en este caso de las referencias «vide infra» (f. 4v, margen inferior izquierdo) y «vide supra» (f. 10r, margen inferior derecho a la altura de la primera línea de la rúbrica), que remiten de uno a otro texto para dejar constancia (cuando menos) de la variedad de lectura de la razo que precede al poema. El registro de la variante por parte de Colocci es fundamental, pues refleja – aunque sea a pequeña escala – que el proceso de constitución de la tradición manuscrita estuvo sometido a toda una serie de avatares en los que el último compilador desempeñó un papel de primer orden. Seguramente dicho antólogo fue el responsable de la divulgación de los lais (a través del proceso de traducción) y de su inclusión en la última Compilación general, pues este tipo de composiciones son ajenas (tanto por su procedencia, como por sus condiciones de producción) al resto del corpus trovadoresco. A este propósito, hay un dato sobre el que conviene llamar la atención, pues creemos que se trata de un indicio relevante que permitiría identificar al responsable de la inserción de esas peculiares piezas en la tradición manuscrita gallego-portuguesa. Tanto en la rúbrica del lai de Elis o Baço («o melhor que foi fe[i]to», B L), como en la primitiva del de Maroot («que achamos que foi fe[i]ta», B) se emplea la construcción pasiva, lo que lleva a relacionar ambos textos con gran parte de las razos pospuestas introducidas en algunas cantigas de

da Ajuda cit., II, p. 481, n.1), pero sí apuntan al probable manejo de otra fuente textual de la que resulta imposible apuntar sus características y el material que contenía. 38 FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 93.

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escarnio e maldizer de autores tardíos39. Como ya se ha señalado en un estudio precedente40, la mayoría de estos poetas (salvo Johan Fernandiz d’Ardeleiro y Johan Romeu para los que no existen documentos que permitan fijar las fechas de su producción41) desarrollaron su actividad en la corte del rey Don Denis o en la de su hijo Don Pedro. A la luz de las informaciones que se extraen de la cronología de los autores y del contenido de las propias razos, hemos asignado al conde de Barcelos un papel de primer orden en la concepción y redacción de esas rúbricas pospuestas42. Consideramos que este dato debe ser un elemento más a tener en cuenta en el momento de identificar al conde de Barcelos con el responsable de la introducción de los lais y sus correspondientes didascalias en la tradición manuscrita del Occidente peninsular. 4. La participación de Colocci en la copia de las rúbricas explicativas43 es mayor en B que en V, pues en este último testimonio sólo interviene en el último cuaderno del manuscrito, en el que reproduce (en los márgenes laterales o inferiores, pero siempre intentando evitar confusiones en las correspondencias entre didascalia y poema, sobre todo 39 Cfr. Estevan da Guarda (B 1303, V 908; B 1304, V 909; B 1305, V 910; B 1308, V 913; B 1309, V 914; B 1313, V 918; B 1314, V 919; B 1316, V 921; B 1322, V 927; B 1323-1325, V 928-929); Johan Fernandez d’Ardeleiro (B 1327, V 933); Don Pedro de Portugal (V 1037, 1038, 1039; B 1430, V 1040; B 1431, V 1041); Johan de Gaia (B 1448, V 1058; B 1452, V 1062); Johan Velho de Pedrogaez (B 1608, V 1141); Estevan Fernandiz Barreto (B 16111, V 1144); Fernan Rodriguez Redondo (B 1614, V 1147) y Johan Romeu de Lugo (B 1612, V 1145). 40 LORENZO GRADÍN, Trovadores, cronología y razos cit., pp. 1115-1116. 41 RESENDE DE OLIVEIRA, Depois do espectáculo cit., p. 364 y p. 369. 42 Dicha hipótesis fue apuntada en su momento por Dª C. Michaëlis, que utilizó para su

argumentación otra evidencia a considerar: el uso del plural mayestático, presente tanto en las rúbricas de algunos lais (achamos, posemos, tornamos), como en las cantigas de Vidal, judeu d’Elvas, autor que accedió a las compilaciones en época tardía por decisión del último responsable de la transmisión de las cantigas (mandamolo..., non sabemus..., B 1605, V 1138, LPGP 156,2). Las palabras de la ilustre estudiosa lusa a este respecto son las siguientes: «Entre as rubricas de canções alheias, ha apenas tres em que o mandatario falla. E, é preciso notá-lo, essas poucas referem-se a cantigas fóra do commun, cuja addição (talvez supplementar) ao Cancioneiro era forçoso justificar. Temos de um lado os Lais de assumpto bretão, (...), os quaes dispõs na vanguarda das canções subjectivas de amor; do outro lado, esparsas eroticas, não vasadas nos usuaes moldes palacianos de um Judeu de Elvas que apparecem deslocadas na Parte III. O mandatario falla d’ellas majestaticamente na primeira pessoa do plural, como convinha a um principe, mas sem outros esclarecimentos sobre a sua propia pessoa.» (MICHAËLIS, Cancioneiro da Ajuda cit., II, p. 252). 43 Más información sobre las particularidades de dichos textos puede verse en: GONÇALVES, O sistema das rubricas atributivas cit., pp. 979-990; LORENZO GRADÍN, Trovadores, cronología y razos cit., pp. 1105-1125; EAD., Las razos gallego-portuguesas en Romania 1 (2003), pp. 127-130.

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cuando en la misma columna del folio se encuentra la producción de dos autores distintos) los textos en prosa relativos a las cantigas V 1141, 1144, 1145 y 1147, que, como permite deducir B, estaban pospuestos en el antecedente. Este hecho suscita cierta perplejidad, ya que, hasta esa altura del manuscrito, el copista del Cancioneiro de la Biblioteca Vaticana había escrito las didascalias correspondientes a las cantigas que transcribía. No parece que dicha circunstancia pueda ser atribuida a un olvido del amanuense, que, como se sabe, es un copista “pasivo” que reproduce siempre el modelo que tiene a su disposición, a no ser en el caso de pasajes ilegibles o debido a otras circunstancias determinadas probablemente por el sistema de «pecia cruzada com o qual os dois cancioneiros coloccianos foram copiados de um mesmo antecedente»44. Cabe insistir, por tanto, en que la ausencia de la mano del copista en las rúbricas se produce en un sector preciso de V – concretamente, en dos folios consecutivos, 187v-188r-v – y en textos muy próximos. Habida cuenta de tales circunstancias, cabe pensar que fuese el propio Colocci el que diese instrucciones al amanuense para que no reprodujera las razos mencionadas. De las cuatro rúbricas explicativas referidas, el humanista deja una incompleta: se trata de la correspondiente a la cantiga de Estevan Fernandiz Barreto [E]stev’Eanes, por Deus mandade (V 1144), a la que ya se ha aludido en la parte inicial de este trabajo (Fig. III). La interrupción de la copia del texto en prosa parece obedecer a un acto involuntario, bien porque en ese momento el estudioso no disponía de la totalidad del texto de la razo y reprodujo el material con el que contaba45, bien debido a una interrupción ajena al proceso de copia. Cuando el copista retomó la transcripción de los textos en el f. 188v, Colocci no se percató de que había dejado incompleta la rúbrica del recto del mismo folio y continuó con la reproducción de una nueva didascalia (Fig. IV), en este caso la relativa a la cantiga de Johan Romeu de Lugo Loavan un dia en Lugo (V 1145). Sin embargo, si se acepta la hipótesis dada en las páginas iniciales de este estudio para la primera anotación que figura en el último folio del manuscrito (vide supra, § 2), sí registró tal deficiencia en un momento posterior, cuando procedió a realizar una revisión “rápida” de la copia del códice vaticano.

44 FERRARI, s. v. Cancioneiro da Biblioteca Vaticana, en Dicionário cit., p. 125ª. 45 La distribución gráfica del texto parece avalar esta hipótesis, pues el fragmento se

dispone en el margen inferior derecho en dos líneas consecutivas de idéntica extensión y el remate del segundo renglón de escritura coincide exactamente con el final de folio.

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Como ya se ha dicho anteriormente, Colocci tiene una mayor presencia en B. En este testimonio reproduce rúbricas en su totalidad, completa otras que los copistas han dejado truncadas (probablemente por el proceso de distribución del material de trabajo y por la peculiar pecia que caracteriza al cancionero lisboeta46 – vd. los casos relativos a B 143 y B 1431) – y vuelve a transcribir razos en las que los amanuenses incurrieron en errores accidentales cometidos de forma involuntaria durante el proceso de copia. Esto último es lo que ocurre, por ejemplo, con las didascalias de B 1308 de Estevan da Guarda – reproducida por la denominada mano e – y B 1448 de Johan de Gaia – transcrita por el copista a –, copiadas ambas después de la cantiga correspondiente. En el primer caso, Colocci subsana los errores por repetición cometidos por el amanuense (y que en V no se producen); en el segundo, su intervención es igualmente transcendental, ya que completa texto que el copista había omitido por homoioteleuton o salto de igual a igual (error que, al igual que el anterior, en V está ausente). En los apógrafos italianos las rúbricas explicativas ofrecen una tinta uniforme de color sepia oscuro y una disposición que, en la mayoría de las ocasiones, no permite diferenciarlas del poema al que van referidas, pero este no debía ser el aspecto que presentaban en el antecedente, en el que, como ya se ha apuntado en un estudio precedente47, debían existir divergencias gráficas entre textos de una y otra naturaleza. La homogeneidad material que ofrecen al lector razos y cantigas ocasionó ciertas dificultades al propio Colocci, pues en B, aunque suele señalar las didascalias con un enmarcado, un ángulo o la famosa manicula, no siempre consigue individualizarlas, como demuestra el caso de B 144, donde empieza a transcribir la rúbrica hasta que se da cuenta de que ya ha sido escrita en su totalidad por el copista (en este caso la mano d), o como se percibe en los textos B 143, B 1333 o B 1336, cuyas didascalias no presentan ningún signo particular. Por lo que respecta a las razos que el humanista reproduce en su totalidad, se observa que su intervención no es casual, pues en el ColocciBrancuti sólo copia en sectores compactos las rúbricas que en el modelo estaban pospuestas y, concretamente, sus intervenciones se localizan en las partes en las que intervienen los copistas d (en este caso se trata sólo 46 FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 87-89; E. GONÇALVES, Appunti di filologia materiale per un’edizione critica della poesia profana di Alfonso X, en Filologia classica e Filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto (Atti del Convegno, Roma 25-27 maggio 1995), Spoleto 1999, pp. 416-422. 47 LORENZO GRADÍN, Trovadores, cronología y razos cit., pp. 1106-1109.

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de los textos correspondientes a B 172 y B 455) y e. Dichos amanuenses debieron haber recibido instrucciones concretas al respecto, ya que en ciertas partes del manuscrito se observa que dejaron un espacio mayor del habitual entre cantiga y cantiga – recuérdese que en B la división entre los textos poéticos es de dos líneas – y que calcularon con gran precisión el número de renglones de escritura necesarios para que Colocci integrase la correspondiente rúbrica explicativa (cfr. B 172, B 1313, B 1314, B 1322 o B 1369). Esto demuestra que las intervenciones del humanista se producen siempre después de que los copistas hayan efectuado la transcripción de los poemas e, indirectamente, prueba que en el modelo de B las razos presentaban diferencias gráficas respecto a las cantigas. La presencia de la escritura colocciana en ciertas partes del manuscrito lisboeta tiene, por tanto, carácter funcional, es decir, permite diferenciar texto lírico y paratexto, pero lo cierto es que dicha práctica no parece obedecer a una planificación marcada desde la puesta en marcha de la copia del códice, de ahí que no se lleve a cabo en todos los cuadernos que lo constituyen. En un principio habíamos pensado en la posibilidad de que fuese una alternativa usada por el propio humanista para aquellos casos en los que en un mismo cuaderno existían rúbricas antepuestas y pospuestas, interviniendo él en el caso de estas últimas con una finalidad distintiva; dicha hipótesis cayó por su propio peso al verificar que los denominados copistas a y c reproducen razos de uno y otro tipo en las partes que se les han asignado (e incluso, a veces, en el interior de un mismo cuaderno48). Teniendo en cuenta las consideraciones realizadas hasta el momento, creemos que se puede establecer la suposición de que Colocci distribuyese inicialmente a cada copista el material que debía reproducir, y sólo, cuando se percató – quizás por una mayor atención al proceso de copia que coincidió con determinadas partes de elaboración del manuscrito – de que existían rúbricas de dos tipos (antepuestas y pospuestas), utilizó un procedimiento para diferenciarlas, ya que, como se ha señalado más arriba, incluso para él (sobre todo si no tenía ante sus ojos el modelo o realizaba una revisión rápida del material copiado) no era fácil discernir entre la estrofa inicial de la cantiga y la correspondiente razo.

48 Cfr., por ejemplo, B 1448, B 1452, B 1470, B 1477 en el cuaderno 36 (FERRARI, Formazione e struttura cit., pp. 133-134).

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El sistema de trabajo por fascículos de los copistas en esa pecia «rudimentale e intesa in un’ottica non strettamente tecnica»49 explicaría el comportamiento diverso que se percibe en la transcripción de las rúbricas en B. Cada uno de los amanuenses trabajó de forma independiente sobre un modelo probablemente «sfascicolato»50 – quizás por la rapidez que exigía el proceso de transcripción – y este factor sería el que explicaría las intervenciones del humanista en unas partes del manuscrito y no en otras. Dicha hipótesis podría igualmente esclarecer la intervención de Colocci en el último cuaderno de V, cuya elaboración podría haber coincidido con alguna de las partes de B en las que el humanista decidió escribir de su puño y letra las razos pospuestas. Los problemas que plantea la presencia del célebre «romanista»51 en ciertas partes de los apógrafos italianos B y V son extremadamente delicados y están conectados con el uso de las fuentes que tuvo a su disposición para la copia de las cantigas (¿una o más de una?) y con el análisis de conjunto de la tradición manuscrita gallego-portuguesa, que sigue suscitando dificultades, dudas e incógnitas en gran medida “coloccianas”.

49 La cita es de C. BOLOGNA, La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. Lat. 4823), en I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-152, p. 108. 50 FERRARI, Formazione e struttura cit., p. 88; GONÇALVES, Appunti di filologia materiale cit., p. 420. 51 Cfr. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Note linguistiche e letterarie cit., p. 198.

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PILAR LORENZO GRADÍN

Fig. I — B (Lisboa, Biblioteca Nacional, Còd. 10991), f. 4v.

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Fig. II — B (Lisboa, Biblioteca Nacional, Còd. 10991), f. 10r.

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PILAR LORENZO GRADÍN

Fig. III — V (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4803), f. 188r.

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Fig. IV — V (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4803), f. 188v.

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FRANCISCO FERNÁNDEZ CAMPO

APOSTILLAS PETRARQUESCAS DE COLOCCI: NUEVAS POSIBILIDADES DE LECTURA Hace casi ocho años que un grupo de investigadores del área de filología románica de la Universidad de Santiago de Compostela, dirigidos por la profesora Mercedes Brea, comenzamos un proyecto de investigación sobre la labor filológica del humanista italiano Angelo Colocci1. Desde entonces, y a pesar de que la financiación del proyecto sólo duró tres años, los diversos miembros del grupo no hemos dejado de ocuparnos del “Monsignore di Iesi”, sobre todo porque albergábamos la sensación de que en Galicia, en la Universidad de Santiago, no se había pagado la enorme deuda, contraída con este sabio renacentista, sin cuyos estudios y preocupaciones por la lírica medieval no podríamos estar hablando ahora de filología gallega. Y nuestro agradecimiento resulta todavía mayor por cuanto Colocci supone la primera etapa de la larga y fructífera dedicación de eruditos e investigadores italianos por nuestra literatura medieval; desearía que esta comunicación sirviera de homenaje – humilde pero lleno de admiración – a este personaje, gran demiurgo de nuestra filología. 1. Colocci, prerromanista En 1513 compró Colocci una villa con viñas y huertos en el Pincio, en la que fue guardando sus tesoros artísticos, entre ellos muchos libros clásicos de los que se sirvió no sólo él, sino también sus contertulios y amigos, en la que creó unos maravillosos jardines que trataban de emular la magnificencia de los «huertos salustianos». Los «huertos coloccianos» fueron punto de encuentro de académicos y grandes de la curia romana. Esta época de su vida es la más intensa de su actividad humanística y, probablemente, cuando consigue y ordena copiar los códices

1 Las notas lingüísticas de A. Colocci, proyecto de investigación subvencionado por la DGICYT (PB94-0642).

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FRANCISCO FERNÁNDEZ CAMPO

por él más queridos: el de los «siculi»2, el de los «limosini»3 y el de los «portoghesi»4. Sin embargo, parece que Angelo Colocci no ocupó un puesto de máxima relevancia entre los humanistas italianos de su tiempo – como Bembo, Trissino, Britonio, Girolamo Borgia5 etc. – por no haber publicado una obra impresa6 que recogiese sus preocupaciones literarias y gramaticales; pero también es cierto que no se conformó con ser un mero coleccionista de textos – de los que llegó a poseer una magna y variada biblioteca7 – sobre los que dejó numerosas huellas de su actividad como anotador. El interés de Colocci como compilador venía dado por su hambre de conocimiento y su deseo de recabar el máximo de datos posibles, no sólo sobre la literatura románica medieval, sino también sobre las diversas lenguas que servían de soporte. Seguramente deseaba redactar un tratado sobre el origen de la poesía «in lingua volgare», como confirman sus notas en los mss. Vat. lat. 4817 o las biografías de trovadores del Vat. lat. 4831. En el plano lingüístico, su interés no era menor: metido como estaba en la discusión de la questione del lingua, postulándose por la defensa del vulgar materno frente al latín8, seguramente tenía la intención de publicar un estudio comparado de las diferentes lenguas románicas y los diferentes dialectos italianos. El mejor ejemplo de ambas perspectivas, literaria y lingüística, lo encuentra, como tantos otros humanistas coetáneos, en Petrarca, cuya lengua define como toscano contaminado de dialectalismos (sobre todo sicilianismos); por tanto, Colocci se situa2 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3793 y su copia Vat. lat.

4823. 3 Paris, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 12474, anteriormente conservado en la Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3794. 4 Lisboa, Biblioteca Nacional, ms. 10991 y Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticano, Vat. lat. 4803, respectivamente. 5 Cfr. G. BALLISTRERI, Due umanisti della Roma colocciana: il Britonio e il Borgia, en Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci (Iesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Iesi 1972, pp. 169-176. Cfr. también V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979. 6 El mismo escribe en una carta pocos años antes de morir: «io pensavo che gli studi miei, la gloria mia che nasceria dagli studi e lettere fosse l’ultimo riposo mio ed io morirò che non si vedrà cosa alcuna di me» (Cfr. S. LATTÈS, Premessa metodologica per l’indagine sulla biografia e gli autografi del Colocci, en Atti del Convegno cit., pp. 35-44, y ID., Studi letterari e filologici di Angelo Colocci, ibid., pp. 243-256). 7 Cfr. R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-

282. 8 Cfr. LATTÈS, Studi letterari cit., pp. 243-255.

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APOSTILLAS PETRARQUESCAS DE COLOCCI

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ría entre los eclécticos, partidarios de una lengua común basada en el toscano petrarquesco, pero con participación de otros dialectos. 2. Colocci, Petrarca y los provenzales Está claro, por tanto, que su interés por Petrarca – también por Dante – no era menor que el de sus compañeros; pero ese interés aumentó en el momento en que llegó a sus manos – hacia 1515 – el famoso cancionero provenzal M que pertenecía a su amigo catalán Cariteo, fallecido un año antes. No tardó en hacer una copia de él9 e, incluso, en solicitar a un amigo común, Pietro Summonte – que ya había sido el intermediario de la adquisición del libro –, una traducción al italiano de la obra de Folquet de Marsella, de la que Cariteo le había comentado poseer una copia parcial (quizá del propio M) «in un poco di quaderno»10. Summonte no encuentra dicho cuaderno en casa de la viuda de Cariteo; pero, para no desencantar a Colocci, encarga a un sobrino de Cariteo, Bartolomeo Casassagia, que de sus “borradores de trabajo” o los de su tío11 realizase para Colocci una traducción de algunas composiciones de Folquet de Marsella; así lo hace Casassagia, enviándole además la traducción de cuatro composiciones de Arnaut Daniel, entre las que se encuentra la famosa sestina Lo ferm voler12. Colocci se hizo, pues, con el preciado tesoro lemosino; pero los nobles napolitanos no vieron con buenos ojos que el libro se fuese a Roma. Seguramente, tras intentar, sin conseguirlo, su devolución, pidieron a Summonte y Casassagia que, como compensación, éste último se desplazase a Roma con el fin de reali-

9 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3205 (g, para Jeanroy, g1, para Pillet-Carstens). 10 Cfr. carta de Summonte, conservada en Vat. Reg. lat. 2023, ff. 352r, 352v y 355r, publicada por G. LANCELLOTTI, Poesie italiane e latine di Mons. Angelo Colocci, Jesi 1772. 11 El propio Summonte, en la carta a Colocci, señala que tío y sobrino debatían sobre poesía provenzal; no sería extraño que ambos hiciesen o mandasen hacer copias parciales de los trovadores provenzales sobre las que trabajarían haciendo anotaciones. 12 Estas traducciones son interlineares y se conservan compiladas en el ms. Vat. lat. 4796. Para el estudio de este códice, cfr. C. BLANCO VALDÉS, A. DOMÍNGUEZ FERRO, Algunos aspectos sobre el códice Vat. Lat. 4796, en Actas VI Congreso Nacional de italianistas, Madrid 1994, pp. 115-120; E. CORRAL DÍAZ, F. FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. Lat. 4796 de A. Colocci: a sua historia e as súas apostilas, en Critica del Testo, 3/2 (2000), pp. 725-752; para el estudio de la traducción, cfr. M. BREA, Traducir de verbo ad verbo (el cód. Vat. Lat. 4796), en Actes du V Congrès international de l’A.I.E.O., ed J. GOURC y F. PIC, Toulouse 1998, pp. 103-107.

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zar una copia del libro13 y traerla a Nápoles. La investigadora Maria Careri, en un reciente estudio, demuestra que Casassagia consiguió realizar dicho encargo14. La posesión del manuscrito provenzal no sólo acercó a Colocci al conocimiento de esta lírica, sino que también suscitó en él el deseo de comprobar si era cierto que la poética de Petrarca tenía deudas con la provenzal, teoría que circulaba entre los eruditos de la Roma cinquecentesca15. Los mss. Vat. lat. 3205 y Vat. lat. 4796 vinieron muy bien a Colocci pues sustituyeron, como borradores para hacer sus anotaciones, al Libro lemosino que deseaba mantener lo más intacto posible, aunque sobre el cual ya había hecho algunas apostillas. Algunas de las anotaciones en Vat. lat. 4796 – ya analizadas en otro estudio16 – no hacen sino confirmar el interés de Colocci por poner de relieve la relación estrecha entre la poética de Petrarca y la lírica provenzal: son numerosas apostillas tales como «Petr(arca)» tanto en M como en sus copias. En Vat. lat. 4796 aparecen tres anotaciones en este sentido; en dos de ellas colaciona a Petrarca con Folquet: «ha potere i(n) voi. petrarca. forza» (f. 11) y «ha forza i(n) noi» (f. 24) en las que, con gran perspicacia propone una traducción del término provenzal poder más congruente que la de Casassagia, quien lo había traducido simplemente como potere. La tercera anotación – que en realidad son dos apostillas casi idénticas – la realiza sobre el texto de la sestina de Arnaut Daniel: «i(n) poca cella i(nfra)» y «i(n) poco cella s(upra)» (ff. 3v y 4r)17. La sestina arnaldiana era de sobra conocida en los ambientes literarios del Quattro y Cinquecento precisamente porque fue imitada por Dante y Petrarca, dándole a este subgénero una gran difusión en el Renacimiento italiano. Colocci, consciente de ello, no pierde la ocasión para anotar el término cambra (una de las palabras-rima de la sestina) con la glosa «poca cella», que Casassagia había traducido con excesiva literalidad como camera. Curiosamente,

13 Se trata de una copia parcial, conservada en la Biblioteca Universitaria di Bologna, ms. Univ. 1290; ga, para Jeanroy, g2, para Pillet-Carstens. 14 Cfr. M. CARERI, Bartolomeo Casassagia e il canzoniere provenzale M, en La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Università degli studi di Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 Dicembre 1991), Messina 1993, II, pp. 743-752. 15 Cfr. S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. SEGRE, Padova 1995; y FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci cit. 16 Cfr. CORRAL DÍAZ, FERNÁNDEZ CAMPO, O ms. Vat. Lat. 4796 de A. Colocci cit. 17 En la segunda parece leerse poco, aunque seguramente se trata o bien de una “a” mal

escrita o de un despiste gráfico de Colocci.

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APOSTILLAS PETRARQUESCAS DE COLOCCI

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esta palabra sólo aparece dos veces en Petrarca18 y precisamente en sus dos «canzoni alla provenzale», la nr. 29, Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi y la nr. 206, S’i’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella19. Con bastante probabilidad Colocci se refiere en su apostilla a la segunda composición petrarquesca, pues hay una estrecha similitud semántica entre los epítetos «fosca» y «poca» aplicados a cella. El tema del poeta encerrado en una cámara secreta, oscura y estrecha, escondido con su dama o a la espera de ella, es recurrente en la poesía provenzal ya desde Bertran de Born, cuyo escondig fue imitado en esta canción por Petrarca y antes por el propio Arnaut Daniel; compárense sino estas citas: S’ieu anc falhi ves vos neis del pensar, Quan serem sol en chambra o dinz vergier, (Bertran de Born, Ieu m’escondisc, Domna, que mal no mier, vv. 15-16)20 Del cors li fos, non de l’arma, E cossentis m’a celat dinz sa cambra! (Arnaut Daniel, Lo ferm voler q’el cor m’intra, vv. 13-14)21

Petrarca, retomando esta tradición, describe en algunas de sus composiciones el topos del ámbito amoroso: Con lei foss’io da che si parte il sole, E non ci vedess’altri che le stelle, Sol una nocte, et mai non fosse l’alba; (Canzoniere, 22, 31-33)22

18 Cfr. Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca, (2 voll.) a cura dell’ufficio lessicografico dell’ Accademia della Crusca. Opera del Vocabolario, Firenze 1971. 19 En la nr. 29 aparece en rima interna en el verso 53: «qual cella è di memoria in cui s’accoglia / quanta vede vertù, quanta beltade». En la nr. 206, aparece en rima del verso 33. Cfr. F. PETRARCA, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. SANTAGATA, Milano 1996. 20 I. FRANK, Répertoire métrique de la poêsie des troubadours, Paris 1953-57, 91:12. Cfr.

G. GOUIRAN, Le seigneur-troubadour d’Hautefort: l’oeuvre de Bertran de Born, Aix-enProvence 1987. 21 Cfr. Le canzoni di Arnaut Daniel, edizione critica a cura di M. PERUGI, Milano-Napoli

1978, pp. 619-650; Arnaut Daniel. Poesías, traducción, introducción y notas de M. DE RIQUER, Barcelona 1984, pp. 91-97; Arnaut Daniel. Il sirventese e le canzoni, a cura di M. EUSEBI, Milano 1984, pp. 128-136; Arnaut Daniel. Canzoni, edizione critica a cura di G. TOJA, Firenze 1960, pp. 373-385. 22 Cfr. PETRARCA, Canzoniere cit., p. 86.

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et quella ch’anzi vespro a me fa sera, con essa et con Amor in quella piaggia sola venisse a starsi ivi una notte; (Canzoniere, 237, 32-35)23

Pero en S’i’l dissi mai describe una sensación más pesimista en donde el espacio amoroso se convierte en una celda o en una cárcel en la que el poeta está solo y a oscuras: s’i’l dissi, io spiaccia a quella ch’i’ torrei sol, chiuso in fosca cella. (Canzoniere, 226, 32-33)24

Colocci equipara a Arnaut con Petrarca, interpretando este último sentido para el término cambra de la sestina provenzal. Celat (o acelat) tendría, pues, el significado de encerrado (en cámara estrecha y oscura) y no tanto el de nascosto como proponía Casassagia25. Por lo tanto, Colocci propone una traducción más petrarquesca del sintagma «acelat dinz sa cambra», es decir, como el «chiuso in fosca cella» de la canción de Petrarca y no como «nascosto dintro la sua camera», propuesto por Casassagia. Este es quizá el sentido de esta apostilla colocciana. 3. Colocci, Petrarca y los portugueses Si para Colocci la obtención del libro lemosino fue un acontecimiento de capital importancia para sus estudios, pues no sólo le permitió el acceso directo a la poesía provenzal, sino también poder compararla con la italiana del Duecento y Trecento – particularmente con Petrarca –, la llegada a sus manos del libro di portoghesi26 (por intermediación de Antonio Ribeiro, camarero de Clemente VII y muy relacionado con el embajador de Portugal ante la Santa Sede, D. Miguel da Silva, que prestó dicho libro a un tal «Messer Ottaviano di messer Lactantio», quien, a su 23 Ibid., p. 968 24 Ibid., p. 869. 25 E incluso así lo traducen todos los editores (cfr. nota 22), salvo Toja que lo traduce

por «in segreto». 26 Sobre la tradición manuscrita gallego-portuguesa, cfr. G. TAVANI, La tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese, en Cultura Neolatina 27 (1967), pp. 41-94; ID., A proposito della tradizione manoscritta della lirica galego-portoghese, en Medioevo Romanzo 6 (1979), pp. 372-418.

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APOSTILLAS PETRARQUESCAS DE COLOCCI

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vez, se lo dejaría a Colocci27), supuso para “Monsignore” la introducción al conocimiento de una lírica y una lengua – la gallego-portuguesa – de la que seguramente había oído hablar, pero más indirectamente que de la provenzal. No sabemos con exactitud de donde procede su interés por la lírica gallego-portuguesa, de la que parece haber sido el único en ocuparse en el ambiente humanístico romano. Probablemente también este libro llegó a sus manos después del limosino y, del mismo modo que con éste – aunque seguramente con más apremio, pues se trataba de un préstamo – no tardó en encargar copias, al menos dos, que se conservan en los códices B y V de la tradición manuscrita gallego-portuguesa. Del mismo modo que hizo con las copias de M, dedicó B y V para su estudio, sobre todo la primera, pues está plagada de anotaciones de su propia mano28: suyas son las rúbricas atributivas, la paginación, la numeración de las cantigas, el arte poética que da inicio al códice y, sobre todo – lo cual prueba la atención con que leyó y trabajó el cancionero – sus apostillas marginales. Como había hecho con M y sus copias de trabajo, dedicó sobre todo B para su estudio e, igualmente destina algunas anotaciones de nuevo a la comparación, en este caso entre Petrarca y los poetas portugueses29. En el presente trabajo nos ocuparemos de dos de las anotaciones del cancionero Colocci-Brancuti supuestamente dedicadas a la comparación entre la poesía italiana – particularmente de Petrarca – y la gallego-portuguesa. A) Sel dissi Esta glosa ha suscitado bastante interés ya desde los primeros maestros que se han ocupado de la lírica gallego-portuguesa30. De esta anotación se ha ocupado la profesora Valeria Bertolucci en un excelente ar-

27 Sobre como pudo llegar este libro a sus manos, cfr. E. GONÇALVES, Quel da Ribera, en Cultura Neolatina 44 (1984), pp. 219-224. 28 V contiene pocas anotaciones, quizá con la intención de conservarlo como códice

más limpio y “definitivo”. Cfr. M. BREA, Las anotaciones de Angelo Colocci en el cancionero de la Biblioteca Vaticana, en Revista de Filología Románica (Homenaje a Pedro Peira) 14 (1997), pp. 515-519. 29 Hay varias apostillas referentes a Petrarca a lo largo del cancionero; véanse, p.e.: «mal senno petrar(ca) bo(n) senno i(nfra) hic» (f. 37r); «fara meglior petrar(ca)» (f. 67v). 30 Cfr. C. MICHAËLIS, Geschichte des portugiesischen Litteratur, en Grundriss der romani-

sche Philologie (ed. de G. GRÖBER), II, Strasbourg 1897, p. 197; S. PELLEGRINI, Studi su trove e trovatori della prima lirica ispano-portoghese, Bari 1959 (2ª ed.), p. 81.

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tículo31, en el que señala la existencia de un centenar de ocurrencias («92 per la precisione»32) de esta glosa en B. Tras haber revisado el códice, hemos encontrado 97. En esta ocasión, parece que de nuevo estamos ante una referencia a la misma canción de Petrarca, pues como señala la profesora Bertolucci esta apostilla era «un riferimento da tempo individuato alla canzone petrarchesca S’i’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella, espresso con le prime parole del primo verso, ‘sel dis’, ‘sel dissi’, ‘sel dissi mai’ (quest’ultima è la formula la più completa reperibile)»33. Efectivamente, hemos computado una sola ocurrencia de sel dissi mai (en B 467), 21 de sel dissi y 53 de sel dis; pero, además de estas fórmulas, hemos encontrado también otras variantes, tales como sel diss, en 19 ocurrencias, 2 de sel (B 457 y B 1649) y una de sel d (B 813), lo que hace un total de 97 ocurrencias, tal como señalamos anteriormente. Indica Bertolucci34 que no parece haber ninguna analogía evidente entre la citada canción de Petrarca y el centenar de cantigas apostilladas con esta fórmula. Tras descartar, por inadecuados, algunos de los posibles denominadores comunes, tales como la medida del verso, el número de rimas, la alternancia de versos largos y breves, señala que quizá el único punto en común entre la canción de Petrarca y el grupo de cantigas sea la repetición de las mismas rimas, es decir, la estructura de coblas unissonans o «tendenzialmente tali», constatando que este es el sistema de rimas más utilizado por los poetas gallego-portugueses, al contrario de la estrutura en coblas singulars, preferido por «la canzone italiana, cioè dantesca e petrarchesca…quando non si tratti di sestine». Ya hemos señalado más arriba – y así lo hace también Bertolucci – que la canción S’i’l dissi mai, junto con Verdi panni, son las dos composiciones de Petrarca consideradas «alla provenzale», ya que presentan una estructura rímica unissonans, siendo muy conocidas y apreciadas en los círculos humanísticos35. El modelo, tanto formal como temático, sería el escondig antes citado de Bertran de Born Ieu m’escondisc, Domna, que mal no mier. Sobre esta cuestión concluye Valeria Bertolucci: «A ricerca compiuta, è lecito chiederci: perché Angelo Colocci non si è servito di un 31 Cfr. V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Le postille metriche di Angelo Colocci ai canzonieri portoghesi, en Annali dell’Istituto Universitario orientale 8 (1966), pp. 13-30. Cfr. también de la misma autora, Note linguistiche e letterarie di Angelo Colocci in margine ai canzonieri portoghesi, en Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 197-203. 32 Cfr. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Le postille cit., p. 15. 33 Ibid., p. 2. 34 Ibid., p. 27. 35 Ibid., p. 29, nt. 3.

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termine neutro equivalente al provenzale unissonans?» Y responde: «per un cultore del Petrarca quale egli era, un riferimento al canzoniere del grande lirico risultava più eloquente e familiare di una definizione»36. Efectivamente, la conclusión es congruente y convincente a tenor de los datos proporcionados por la investigadora italiana. Sin embargo, al intentar seguir el mismo camino propuesto por Bertolucci, nos hemos encontrado con algunos obstáculos, quizá no tenidos en cuenta por la profesora italiana, que al menos nos han planteado algunas dudas razonables sobre sus conclusiones. Veamos: En primer lugar, constatamos que, efectivamente, de las 97 ocurrencias de la apostilla sel dissi37 81 se refieren a cantigas unissonans, 7 a ctgas. en coblas doblas y 2 a ctgas. en coblas alternadas, todas ellas de mestría, es decir, sin refram. También encontramos dos ocurrencias en 2 ctgas. unissonans y de refram. Pero también nos hemos encontrado – y esto nos ha resultado muy sorprendente – con tres ocurrencias referidas a cantigas singulars y de refram (B 205, B 334 y B 456); más sorprendente resulta todavía la ocurrencia presente en la cantiga B 46738, que en este caso es doble, ya que Colocci anota sel dis en el encabezamiento de la composición y, en el margen inferior del folio, «tornel in cima» y «sel dissi mai», precisamente la única vez en que aparece la variante más completa39. En segundo lugar, hemos computado 100 cantigas unissonans y de mestria que Colocci no ha apostillado con sel dissi. Es cierto que 72 de ellas presentan numerosos problemas de tipo material y/o formal: se conservan desordenadas, mutiladas, lagunosas o incompletas, etc. Pero 28 de ellas, en principio, no presentan problema alguno, al menos como para que Colocci no las reconociera como unissonans y, por tanto, apostillarlas con sel dissi. Como ya hemos señalado al principio, se sabe que Colocci nunca dio a sus investigaciones y estudios una forma unitaria, debido a que sus múltiples intereses diversificaban muchísimo sus esfuerzos. Trabajaba a la vez sobre numerosos asuntos y su incansable actividad como lector y anotador impidieron que ordenase sus descubrimientos en forma de tratado o libro. Pero el hecho de que fuese desordenado no implica que careciera de rigor científico en el examen y análisis de los materiales que tenía entre manos; sus anotaciones y acotaciones 36 Ibid., pp. 29-30. 37 Utilizaremos en adelante esta variante para referirnos a esta apostilla. 38 Deus te salve, gloriosa, reinha Maria, de Alfonso X (f. 103r). 39 La lectura de la apostilla del margen inferior es dificultosa por la mutilación sufrida en el folio.

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sobre el cancionero B, parte de las cuales estamos analizando aquí, son buena prueba de ello. En nuestra opinión, no es achacable al despiste o al olvido del humanista el hecho de que, por ejemplo, no apostille con sel dissi las cantigas B 79, B 80, B 81, B 82 y B 87 (unissonans), cuando sí lo hace en las cantigas B 83, B 85, B 86 y B 88: no creeemos que se pueda pensar en que simplemente las pasó por alto; además, esta serie se encuentra en una de las partes del códice más nítidas y legibles, no sólo por la buena conservación de los folios, sino también porque está redactada por el amanuense más pulido de los seis utilizados por Colocci para la copia manuscrita del cancionero40. Hay otros ejemplos de series de cantigas unissonans en las que quedan cantigas sin apostillar41. En tercer lugar, quizá deberíamos tener en cuenta que la canción de Petrarca comienza con la fórmula anafórica S’i’l dissi, prótasis de la oración condicional que constituye la estructura sintáctico-semántica sobre la que se fundamenta toda la canción42, es decir, con tres palabras apocopadas: se, io, lo. Si ciertamente Colocci quisiera referirse con esta apostilla al gran poeta florentino, ¿por qué no utilizaría la fórmula idéntica «Sil» en lugar de «Sel»? De este modo resultaría – utillizando las palabras de Bertolucci – «più eloquente e familiare». ¿Por qué en la apostilla colocciana parece desaparecer el pronombre personal io? («Sel» = se lo). Petrarca no había sido el único imitador del escondig de Bertran de Born: un escondig anónimo (mutilado en la primera estrofa) fue presentado en los Jocs Florals de Tolosa (como sabemos, iniciados en 1324), el cual presenta el mismo sintagma anafórico «S’eu ho dixo»; otro imitador fue el poeta catalán Lorenç Mallol, que a partir de la tercera estrofa de su composición Moltes de vetz, dompna, ·m suy presentatz, repite la

40 Se trata del copista de mano ‘c’. Cfr. A. FERRARI, Formazione e struttura del canzoniere portoghese della Biblioteca Nazionale di Lisbona (Colocci-Brancuti), en Arquivos do centro cultural português 14 (1979), pp. 27-142 (cfr. especialmente el cap. 5, dedicado a «mani intervenute nella copiatura», pp. 81-89, sobre todo, pp. 85-86, en las que describe la mano ‘c’ como una letra probablemente portuguesa o, al menos, ibérica; al copista lo describe como «estremamente preciso ed ordinato (...) corretto alla trascrizione e mai lacunoso, tranne in Leonoreta, il che avallerebbe la tesi di una sua origine portoghese». 41 Por ejemplo: B 526 y B 527, sin apostillar frente a B 528; B 118 sin apostillar, frente a B 116 y B 117; B 126 frente a B 127; B 254 y B 257 frente a B 255; B 528 frente a B 526 y B 528; B 1383 y B 1385 frente a B 1380 y B 1381. 42 Como señala C. BERRA, La similitudine nei rerum vulgarium fragmenta, Lucca 1992, p. 62, el esquema «se…allora» (peccato-punizione) recuerda a la apología de Job (Libro de Job, 31); Santagata (F. PETRARCA, Canzoniere cit., p. 872), concuerda con Berra en legitimar las influencias bíblicas en esta canción de Petrarca.

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misma fórmula «S·i·u digui may»43. Según Perugi44 «l’influsso dei recenti prodotti tolosani è determinante per la scelta petrarchesca: anche se non esistono dati che permettono di appurare l’anteriorità di quei due testi rispetto a quello di Petrarca». Este modelo anafórico – con el pronombre personal – podría haber llegado hasta Petrarca. Si, como ya hemos señalado, esta «canzone alla provenzale» era muy apreciada y conocida por los humanistas italianos, entre ellos Colocci, parece extraño que el iesino no prefiriera la fórmula consagrada por la tradición y apostillase «Sil dissi» en lugar de «Sel dissi». Además es extraño que no haga referencia expresa, ni siquiera una sola vez, a Petrarca con la abreviatura «petr(arca)» que utiliza en varias ocasiones, como ya hemos indicado (cfr. nota 29). Por último, sería necesaria una revisión de la lectura de la apostilla de la cantiga B 520, Quer’eu em maneira de proençal (f. 118r)45, de D. Dinis, en la que hasta ahora también se leía «come sel dissi» – lo cual apoyaría la hipótesis petrarquesca –. Sin embargo, en mi opinión, la supuesta ‘d’ de «dissi» no sería tal, sino una ligatura ‘st’ tipicamente colocciana (cfr. p. e. como escribe Colocci las palabras «stanza» o «esta»)46. Podría tratarse de la abreviatura ‘Stissi’, es decir, suprascripsi47. Pues bien, todos estos datos permitirían tener al menos algunas dudas razonables sobre la hipótesis petrarquesca de esta apostilla. Pero, entonces, ¿qué significado podría tener «sel dissi»? En nuestra opinión podría tratarse de una abreviatura más de las muchas que Colocci utiliza en sus cancioneros. Descifrarla no resulta nada fácil, aunque se podría barajar la siguiente hipótesis tras un examen paleográfico más minucioso: El primer elemento, que desde la Michaëlis venía siendo leído como «Sel», en realidad podría ser leído como «Scl», abreviatura latina de Scilicet48; si revisamos la caligrafía colocciana, podremos observar que la le-

43 Ambos editados por M. DE RIQUER, El escondit provenzal y su pervivencia en la lírica románica, en Boletín de la Real Academia de Buenas Letras 24 (1951-52), pp. 201-24. 44 M. PERUGI, L’ escondit del Petrarca (Rime CCVI), en Lectura Petrarce 10 (1990), pp.

201-28. 45 En margen inferior, columna A, se venía leyendo: «In manera de prove(n)zal / faccio un ca(n)tar / d’amor .s. [o ‘.i.’] come sel dissi / Trovata da prove(n)zal». 46 Cfr. entre otros ejemplos: «sta(n)ze» (f. 14v); «sta(n)za» (f. 75r); «esta» (f. 44r). 47 Cfr. A. CAPPELLI, Dizionario delle abbreviature latine ed italiane, Milano 1995 (rist.), p.

365, col. B, línea 13. 48 Cfr. CAPPELLI, Dizionario cit., p. 345, col. A. Por tanto, la apostilla de B 520, antes citada, podría leerse: «Come sc(i)l(icet) s(upras)cri(p)si» (= como ya he escrito arriba); es de-

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tra ‘e’ la suele escribir con dos trazos en ángulo casi recto, de tal modo que casi parece una ‘r’, con el trazo horizontal terminado en una semicurva hacia abajo (cfr. por. ej. su caligrafía para las palabras «et» o «epodo», entre otras); sin embargo, en nuestra apostilla la segunda letra se presenta como un semicírculo abierto a la derecha muy semejante, por ejemplo, a la que presenta en su apostilla «congedo». El segundo elemento, como ya señalara Valeria Bertolucci, se presenta bajo tres formas: dissi, diss y dis. En este punto, habría que poner de manifiesto que las dos últimas variantes estarían en contradicción con el propio incipit petrarquesco. Por ello, cabría interpretarlas como las tres variantes posibles de la abreviatura latina para diuisi o variantes similares49. Por lo tanto, en nuestra opinión cabría la hipótesis (puramente conjetural) de la siguiente lectura de la apostilla: Scl dissi = sc[i]l[icet] di[vi]si

cuya traducción podría ser: «a saber, divididos ( o “separados”)», es decir, «entiéndase ya divididos o separados» (¿los versos?)50. La intención significativa que Colocci querría dar con esta apostilla abreviada podría ser el de señalar aquellas composiciones sobre las que ya realizó algún tipo de cómputo de los versos, bien sea sobre el número de los mismos o el número de sílabas que contienen. Sería una especie de marca automnemónica de cara a ulteriores revisiones de los textos. Por lo tanto, no sería ésta una apostilla de referencia externa, dedicada a la colación con Petrarca, sino una de las muchas abreviaturas de uso interno que Colocci utilizó para organizar el material que tenía entre manos. B) La apostilla de B 454. Entre los poetas italianos Petrarca no era el único que interesaba a Colocci, aunque quizá sí el que le suscitaba mayor interés. Como ya hemos señalado, también los siculi despertaban su curiosidad y a ellos dedicó mucho tiempo y esfuerzos, como lo prueba el hecho de que en sus cir, Colocci, a través de una explanatio indica que «In manera de provenzal» es igual a «Trovata da provenzal». 49 Ibid., p. 101. 50 Mi agradecimiento al profesor Jorge González Rodríguez, Catedrático de Latín, por

su inestimable ayuda en la traducción de las abreviaturas latinas.

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manos tuviese el Vat. lat. 3793 del que ordenó hacer una copia (Vat. lat. 4823), que anotó y glosó con la misma dedicación que los provenzales y gallego-portugueses. Como hemos visto, su ansia comparativa le llevó también a colacionar en ocasiones la poesía italiana del Duecento y Trecento con la gallego-portuguesa. En el cancionero gallego-portugués de la Biblioteca Nacional de Lisboa hay un buen número de apostillas lingüísticas en las que compara términos gallego-portugueses con italianos51. Tampoco faltan las apostillas métricas o literarias. Veremos ahora una que podría tener la intención de comparar la poética italiana con la portuguesa. La cantiga B 454 (f. 99r) contiene lo que parecen ser tres apostillas de mano de Colocci: en margen inferior izquierdo puede leerse «Esta cantiga foy feita a Roy de Spanha»; debajo de esta hay otra de difícil lectura cuya segunda parte podría leerse «con condado» (o «coudado»); por último, situada en margen superior derecho, se puede leer «asembrar», que hace referencia a la palabra «asenbrar», subrayada en el texto de la propia cantiga. La primera de ellas es sin duda una razo que ya fue estudiada – y creemos que descifrada con bastante claridad – por otros investigadores52. La última («asembrar») no presenta excesivos problemas de interpretación, pues se trata de una de las muchas anotaciones léxicogramaticales que Colocci glosa por todo el cancionero; probablemente se trate de una corrección ortográfica en la que propone el grupo -mb- en lugar del grupo -nb- del texto o, simplemente, una nota fonética o léxica. La segunda («a mi[n] FalV(…)ro. con condado» o «coudado») parece hacer referencia a la rúbrica atributiva de la cantiga B 455. Nos centraremos precisamente en ella. Ala uuaz que la Torona, de García Mendiz D’Eixo, ha sido objeto de intensos y conspicuos debates entre los estudiosos de la lírica gallegoportuguesa53 y su edición resultaba, hasta hace poco, cuando menos muy problemática debido al estado deplorable en que ha sido transmitida y a que B es el único relator en que se conserva. Afortunadamente, 51 Cfr. M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas de A. Colocci no Cancioneiro galego-portugués B, en Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes, edición al cuidado de G. HILTY, Tübingen 1993, t. V, sect. VII, pp. 41-56. Algunos ejemplos: «no .i. nel» (f. 9v), «vezes uece» (f. 4v), «sera non sara» (f.47r), «fror fiore» (64r), «caruô picen» (f. 105r).

52 Cfr. TAVANI, A proposito cit., pp. 412-15 y C. PÉREZ VARELA, Dona Guiomar Afonso e Dona Elvira A Toronha, en Estudios en homenaje a F. Jourdan e I. Sánchez Regueira, Santiago de Compostela 1995, pp. 495-504. 53 Cfr. TAVANI, A proposito cit.; J. M. D’HEUR, Troubadours d’oc et troubadours galiciensportugais, Paris 1973, pp. 93-104.

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hace apenas unos meses, Giuseppe Tavani acaba de publicar una propuesta de edición54 que, a pesar de que el autor manifiesta que todavía debe ser madurada, creemos que por su congruencia y equilibrio, puede ser considerada como óptima. El propio Tavani, en un estudio precedente55, indicaba que se trata de un texto redactado en provenzal, o al menos mayoritariamente en esta lengua, aunque plagado de galleguismos; en cualquier caso «piuttosto che in occitanico fosse scritto in una lingua mista, a base provenzale ma con numerosi innesti galego-portoghesi, non tutti ascrivibili – contro il parere del D’Heur – al copista, ma almeno in parte risalenti all’autore»56. Tanto D’Heur como Tavani – aunque con interpretaciones independientes – postulaban como una sola apostilla toda la línea bajo la razo: D’Heur lee: «a min falha V o. con condado», mientras que Tavani lee: «a min fal[ta] terminus rotuli con condado» (aunque también propone: «a min falta rolo con condado»). D’Heur lo traduce como «à moi fait défaut le comté», interpretándolo como el incipit de una supuesta canso occitana A mi falha lo comtats en la que el poeta portugués se habría inspirado para su canción de nostalgia. Tavani, sin embargo, propone una lectura más literal – y, por tanto, más respetuosa – de la apostilla: «a mî fal ( ) ro. con condado». Indica que con el paréntesis pretende señalar un signo irreproducible tipográficamente que «in nessun caso potrebbe essere ‘h’ come vorrebbe il D’Heur, ma che sembra piuttosto un ‘t’, arrotondato in basso in curva molto stretta, e continuato in un tratto ascendente obliquo, a sua volta concluso da un occhiello a punta di freccia rivolta in alto: un tipo di legamento abbastanza usuale, che può essere compendio di ‘ter’ o ‘tus’ (t9), l’uno e l’altro con valore di ‘terminus’ o ancora di ‘ta’ (ta), nel qual caso completerebbe invece el ‘fal’ precedente, a formare ‘falta’». En cuanto al siguiente signo que D’Heur interpreta como una ‘V’, Tavani opina que «si tratta del ben noto ‘r’ lungo di cui abbondano per di più gli esempi nel Colocci-Brancuti, e che, seguito da ‘o’ e da punto, è ovviamente abbreviatura (‘ro.’) sia di ‘rotulus’ che di ‘rolo’». El descuido material con que el texto fue transcrito llevó a Tavani a pensar que se trataba de una advertencia de copista para reclamar la atención de Colocci sobre la falta de un rótulo, o bien que el propio Colocci apostillase con un reclamo automnemónico un códice anterior «se non addirittura del curatore della silloge archetipica; in ogni caso, una 54 Cfr. G. TAVANI, Tra Galicia e Provenza. Saggi sulla poesia medievale galego-portoghese, Roma 2002, pp. 55-58. 55 Cfr. TAVANI, A proposito cit., pp. 412-15. 56 Ibid., p. 412.

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nota che dovrebbe risalire almeno all’ascendente diretto di B». El último grupo de palabras («con condado») lo considera Tavani como formando parte de una sola apostilla junto con «a min falta rolo», interpretando el total de la anotación como a min fal[ta] rolo [do] con[de] Gonçalo [Garcia]

O bien A min falta terminus rotuli [do] con[de] Gonçalo [Garcia]

Es decir: «mi manca la fine del rotulo del (oppure: il) conte Gonçalo Garcia». Relacionando, por tanto, la apostilla con la cantiga B 455 atribuida por la rúbrica a «O con don Gon» (= O Conde D. Gonzalo García), del que debería haber varias composiciones, aunque sólo fue transmitida esta. En nuestra opinión, como ya hemos señalado más arriba, no estaríamos delante de una sola apostilla, sino de dos independientes: por un lado «a min fal[¿?] ro.» Y, por otro, «con condado». Un dato a favor de esta hipótesis podría ser la separación entre ambas partes – exactamente 1 cm. –, la cual creemos que resulta gráficamente excesiva como para poder pensar que se trata de un solo sintagma; por otra parte, la reconstrucción propuesta por Tavani requeriría la presencia de varios elementos inexistentes en el texto ([do], [de]), aunque perfectamente conjeturables. Nuestra hipótesis implicaría que «con condado», de acuerdo con Tavani, sería efectivamente el reclamo automnemónico de que, después de la cantiga de Garcia Mendiz D’Eixo, debían seguir las cantigas de D. Gonçalo Garcia; esto supondría que posiblemente el espacio de la columna derecha, destinado a la cantiga B 455, podría estar todavía en blanco cuando se hizo esta apostilla, y de ahí el reclamo con condado (= conde gonçalo)

en donde, como muy bien señala Tavani, podría haber «un errore plausibile nella scrizione del nome» (condado por gonçalo). Partiendo, por tanto de la hipótesis de que «con condado» es independiente de «a min fal(¿?) ro.», entonces ¿qué significa esta última apostilla? Retomemos el análisis paleográfico de la misma. Tanto D’Heur como Tavani postulan que la segunda palabra debe leerse «min»; sin

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embargo, un examen más detallado nos muestra dos aspectos que podrían cambiar esta lectura: en primer lugar, el trazo superior abarca toda la palabra y no sólo la ‘i’, lo cual puede suponer la abreviación de algo más que una simple ‘n’; en segundo lugar, nos parece que la primera letra no es una ‘m’, pues el tercer trazo descendente se abre en exceso y oblicuamente a la derecha, lo cual podría representar, en la intrincada escritura colocciana, una ‘r’. Por lo tanto, la lectura de la abreviatura podría leerse «nri», es decir, «n(ost)ri». El siguiente grupo de signos podría representar la abreviatura de tres palabras. La dos primeras representadas por las tres primeras letras: Fal = fa’l = fa il

Es decir, la 3ª persona del presente de indicativo del verbo italiano fare a la que se une enclíticamente el artículo determinado, masculino singular. El tercer signo, algo más complicado de desentrañar, podría ser una abreviatura sui generis colocciana, confeccionada de una manera mixta, es decir, utilizando una ligazón usual y contemporánea a Colocci: Va = contra57

En cuanto a la segunda parte, creemos que podría leerse: sto = sto

Es decir, el primer signo podría ser la típica ‘s’ larga colocciana seguida de un trazo diagonal ascendente que representaría una ‘t’ y rematado con una ‘o’. Así pues, esta apostilla se leería: a nostri fa’l contrasto

Si aceptásemos esta conjetura, no resultaría excesivamente complicado descubrir a qué se refiere esta apostilla: Colocci, conocedor de los poetas italianos, y dándose perfecta cuenta de que el texto de Mendiz D’Eixo está escrito en una lengua mixta «entre provenzal y portuguesa», estaría señalando, de manera muy perspicaz, que esta composición podría muy bien compararse «coi contrasti mistilingui dei nostri (poeti)». 57 Cfr. CAPPELLI, Dizionario cit., p. 406, col. A, línea 8.

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Por tanto, está incluyendo esta cantiga dentro del género del contrasto, cuestión que ya le había llamado la atención en el mismo cancionero, en cuyo f. 84r, a propósito de la cantiga B 368bis, Preguntei ûa Don en como uos direy, de Rodrigu’Eanes de Vasconcelhos, escribe: Xiiij syl. et se ci fusse una sdrucciola saria come Rosa fresca aulentissima quale è unisona

Así pues, «a nostri fa’l contrasto» podría ser una referencia al célebre contrasto de Cielo D’Alcamo58 o a otras composiciones de este tipo. ¿Estaría pensando precisamente en esta composición sobradamente conocida? No olvidemos que fue el propio Colocci el que dio a conocer a este poeta, mediante una apostilla del Vat. lat. 481759. Por supuesto que esta lectura la presentamos aquí como una hipótesis con la finalidad de contribuir a la aclaración de esta apostilla que tantos quebraderos de cabeza ha dado a los investigadores. Todas estas propuestas son conjeturas que todavía necesitan corroborarse con un análisis de mayor calado, sobre todo desde el punto de vista paleográfico. Como conclusión, creemos poder afirmar que el genio comparatista de Angelo Colocci ha quedado bien demostrado. Su constante preocupación por relacionar las diversas poéticas medievales, llevado por su convencimiento de un origen común de las mismas, lo plasma continuamente en gran parte de las numerosas anotaciones y glosas que de su propia mano realiza en sus cancioneros.

58 El contrasto de Cielo D’Alcamo se conserva anónimo en Vat. lat. 3793 (V 054, ff. 15r16r; cfr. R. ANTONELLI, Repertorio metrico della scuola siciliana, Palermo 1984, 13:1), junto con las composiciones de la lírica siciliana, ocupando el 4º cuaderno reservado al «género mediocre», dado que se desconoce su nombre y proveniencia. En Vat. lat. 4823, Colocci rubrica la composición con «Cielo dalcamo»). Sobre el «contrasto», cfr. Poeti del Duecento, a cura di G. CONTINI, t. I, Milano-Napoli 1960, pp. 173-185; A. PAGLIARO, Il contrasto di Cielo D’Alcamo, en Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1953, pp. 229-281; A. ARVEDA, Contrasti amorosi nella poesia italiana antica, Roma-Salerno 1992; S. BIANCHINI, Cielo d’Alcamo e il suo contrasto, Soveria Mannelli 1996; sobre los aspectos lingüísticos, cfr. A. DOMÍNGUEZ FERRO, Aproximación al ‘contrasto’ de Cielo D’Alcamo. Estudio de los rasgos lingüísticos sicilianos, en Homenaje al Prof. Constantino García, I, Santiago de Compostela 1991, pp. 133-147. 59 En el f. 171r anota Colocci: «et io non trovo alcuno se non cielo dal camo che tanto avanti scrivesse quale noi chiamaremo Celio. Costui adunq(ue) fu celebre poeta dopo la ruina de gothi et scripse i(n) li(n)gua italiana o pur piu restri(n)gendolo sicilian(a)». Cfr. C. BOLOGNA, La copia colocciana del canzoniere vaticano (Vat. lat. 4823), en I canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi Critici, Firenze 2001, pp. 105152.

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CARLO PULSONI

IL DE VULGARI ELOQUENTIA TRA COLOCCI E BEMBO È cosa nota che nel secondo decennio del Cinquecento il letterato vicentino Giangiorgio Trissino permise che il codice del De vulgari eloquentia (da qui in avanti Dve) – l’attuale ms. 1088 della Biblioteca Trivulziana di Milano1 –, di cui era entrato in possesso, fosse copiato da due dei più importanti studiosi del periodo: Pietro Bembo e Angelo Colocci2. Mentre del primo si è conservata la copia integra (V), del secondo possediamo solo un frammento (V1) – autografo secondo Avesani3 –, relativo al capitolo IX e ai primi paragrafi del capitolo X. Ciò non significa che Colocci conoscesse solo questi pochi passi del trattato; prova ne è per esempio da un lato la citazione che egli ne fa in tre elenchi di libri, due dei quali conservati nello zibaldone Vat. lat. 4817, il terzo nel ms. Vat. lat. 3903; dall’altro quanto scrive in Vat. lat. 4817 riguardo ai dialetti italiani. 1 Nel corso di queste pagine farò ricorso alle seguenti sigle per indicare i codici del Dve: T = Milano, Biblioteca Trivulziana, ms. 1088; G = Grenoble, Bibliothèque Civique, ms. 580; B = Berlin, Staatsbibliothek, Lat fol. 437; V = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Reginense latino 1370; V1 = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vaticano latino 4817, f. 284r-v. Salvo differente indicazione, tutte le citazioni del Dve sono tratte da T. 2 C. PULSONI, Per la fortuna del De Vulgari Eloquentia nel primo Cinquecento: Bembo e Barbieri, in Aevum 71 (1997), pp. 631-50. Sulla tradizione manoscritta del trattato dantesco cfr. P. V. MENGALDO, Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Padova 1968, pp. CIII-CXII; P. G. RICCI, De vulgari eloquentia, in Enciclopedia dantesca, II, Roma 1976, pp. 399-401; C. BOLOGNA, Tradizione e fortuna dei classici italiani, I: Dalle origini al Tasso, Torino 1993, pp. 160-61; C. PULSONI, La tradizione “padovana” del De vulgari eloquentia, in La cultura a Padova nel tempo di Petrarca, Padova — Monselice 7-8 maggio 2004, a cura di F. BRUGNOLO e Z. L. VERLATO, Padova 2006, pp. 187-203. Ancora utile l’edizione di P. RAJNA, Dante Alighieri. Il trattato De vulgari eloquentia, Firenze 1896 (rist. anastatica, Milano 1965). Sull’attività filologica di Colocci in ambito italiano si veda C. BOLOGNA, La copia colocciana del canzoniere vaticano (Vat. lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. LEONARDI, IV: Studi critici, Firenze 2001, pp. 105-52; per quanto riguarda il dominio galego-portoghese cfr. da ultimo A. FERRARI, Sbagliando (loro), s’impara (noi): tipologia e interesse dell’incipiens error nel Colocci-Brancuti, in I canzonieri iberici. Colloquio, Padova 25-27 maggio 2000, A Coruña 2001, pp. 107-23. 3 R. AVESANI, Appunti del Colocci sulla poesia mediolatina, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci, Jesi 13-14 settembre 1969, Jesi 1972, pp. 109-32, p. 110, nt. 7.

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A riprova dell’incertezza relativa al titolo del trattato dantesco, già proprio della tradizione manoscritta (GT: Liber de vulgari eloquio sive idiomate, B: Rectorica4), Colocci lo nomina la prima volta, in modo del tutto insolito rispetto ai letterati del primo Cinquecento5, come «Danti 4 Come nota giustamente P. V. MENGALDO, De vulgari eloquentia, in Enciclopedia dante-

sca, II, Roma 1976, pp. 401-15, p. 402, l’autografo e l’archetipo del trattato dantesco erano certamente anepigrafi, e i titoli recati dai due rami della tradizione manoscritta risultano «entrambi apocrifi e insoddisfacenti». 5 Se fino al Benivieni risulta invalsa la denominazione già trecentesca di «De vulgari eloquentia», con la riscoperta dell’opera la sua intitolazione inizia a variegarsi: in V Bembo trascrive nei due fogli di guardia che precedono l’opera: «Dante della Volg. Ling.» e «Dantes. De vulgari Idiomate», alludendo ovviamente al titolo di T (noto, en passant, che nella propria copia del Convivio di Dante Alighieri Fiorentino, Firenze, Francesco Bonaccorsi, 1490, oggi conservata alla Bibliothèque Nationale de France, con la segnatura Rés. Yd 208, egli appone a f. 5r il promemoria «volgare eloquentia» a margine del seguente passo «Di questo si parlerà altrove più pienamente in uno libro ch’io intendo di fare Dio concedente di volgare eloquentia»); Niccolò Machiavelli nel suo Discorso intorno alla nostra lingua (a c. di P. TROVATO, Padova 1982, pp. 21-22), torna a chiamarlo «De vulgari eloquentia»: «Dante, in un suo libro ch’ei fa De vulgari eloquentia, dove egli danna tutta la lingua particulare d’Italia, afferma non havere scritto in fiorentino ma in una lingua curiale», pur se va notato che uno dei codici relatori dell’opera riporta su rasura «De vulgari eloquio». Entrambe le forme ma con la dicitura in italiano «Volgare eloquentia» sono nella Risposta alla Epistola del Trissino di Lodovico Martelli; anzi in quest’opera il problema del titolo si connette all’attribuzione stessa del trattato a Dante: «E qui parrà forse nuovo a costoro, che io così risoluto mi opponga a quello ch’ei dicono che ha lasciato scritto Dante nel suo libro De vulgari eloquio. Alli quali io voglio ben dire che io vorrei altro segnale che il titolo, a farmi certo che così fatta opera di Dante sia» (Trattati sull’Ortografia del Volgare 1524-1526, a cura di B. RICHARDSON, Exeter 1984, p. 46). Intitolazione italiana «Vulgare eloquenzia» anche ne Il Cesano de la lingua toscana di Claudio Tolomei: « […] accadde parlar di quel libro di Dante de la Vulgare Eloquenzia. Del quale assai distesamente ragionandosi, e per esser di sì nobile ingegno qual fu Dante, e per la vaghezza del soggetto suo, e ancora perché egli non è troppo divulgato, fu chi tra coloro stimasse non esser cotal libro opera di Dante» (a c. di O. CASTELLANI POLLIDORI, ed. critica riveduta e ampliata, Firenze 1996, p. 5). Di particolare interesse la citazione del trattato nel Libro de natura de amore di Mario Equicola, Venezia 1525, dove viene espresso il dubbio non sulla paternità dell’opera, come per esempio in Martelli, ma su quella del titolo: «Nel Libro de la volgare eloquentia, il quale, col titolo o vero o falso che sia del medesimo autore Dante, si lege in ciascuno idioma esser qualche cosa bella, ma non ne essere alcuno che habia tutte le parole belle» (f. 173v). Non si può escludere che nella scelta di tale titolo possa avere interagito anche il Trissino, revisore dell’opera dell’Equicola, visto che lui stesso nel Castellano usa la stessa forma: «Ma, sia come si voglia, tutte queste difficultà sono spianate e dichiarate da Dante, nel libro De la volgare eloquenzia, nel quale insegna a scelgere da tutte le lingue d’Italia una lingua illustre e cortigiana, la quale nomina lingua volgare italiana». Anzi subito dopo Trissino ripropone, per bocca dello Strozzi, i dubbi sul Dve, già avanzati dal Martelli, a partire dal titolo: «Io mi dava meraviglia che voi tanto indugiaste ad allegare il libro De la volgare eloquenzia di Dante: ma sappiate che, per il titolo solo, io non reputo quel libro essere di Dante» (G. G. TRISSINO, Scritti linguistici, a cura di A. CASTELVECCHI, Roma 1986, p. 72; nelle citazioni dal Trissino non riproduco i caratteri dell’alfabeto riformato). Lo stesso ‘titolo’ appare anche nelle due

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de materno eloquio» in Vat. lat. 4817, f. 196r. Con questa menzione egli allude verosimilmente a Dve I, i, 2: «Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur, dicimus, celeriter attendentes, quod vulgarem locutionem appelamus eam qua infantes adsuefiunt ab adsistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus» (T, p. 1), e in particolare per l’uso dell’aggettivo materno anche a I, vi, 2: «In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civitas amplissima est, et patria maiori parti filiorum Adam. Nam quicumque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare licetur, idem maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade» (T, p. 4) e I, xiv, 7: «Inter quos unum vidimus nitentem divertere a materno et ad curiale vulgare intendere, videlicet Illud Brandinum Paduanum» (T, p. 11). Pur nella sua topicità, può fornire qualche elemento di riscontro, soprattutto col primo passo citato, quanto scrive Colocci nel discorso su Cecco d’Ascoli in Vat. lat. 4831: «Cesare fu celebrato da Ovidio in lingua scitica, perché non dunque io debbo celebrar noi in quella lingua che ne accompagna dal dì che uscimmo in questa luce e fino alle estreme tenebre; questa ne porge el lacte con la canzon de la cuna, questa ne da gli esempi della vita»6. Ancora più generico è il testo dell’Apologia delle Rime di Serafino Aquilano (1503), dal quale, come ha giustamente sottolineato Lattès7, non si evince in alcun modo una precoce conoscenza del Dve da parte di Colocci: «pongasi da un lato l’autorità de’ Toscani, et dicamo ch’egli habbi usato el suo materno indicazioni indirette del Dve che si trovano all’interno del trattato stesso. Esse vengono così tradotte dal Trissino (DANTE, De la volgare eloquentia, Vicenza, Tolomeo Ianiculo, 1529): Dve I, i: «Non ritrovando io che alcuno avanti me habbia de la volgare Eloquenzia niuna cosa trattato…» (f. a2r); I, xix: «E conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio de l’opera promesso), sia de insegnare la dottrina de la Eloquenzia volgare…» (f. b5v). A prescindere insomma dal titolo Liber de vulgari eloquio sive idiomate trasmesso da T, Trissino preferisce affidarsi alla tradizione boccacciana per designare l’opera, come dimostra del resto la citazione del passo della Vita di Dante posto sia nel vecchio foglio di guardia all’inizio di T, sia nel frontespizio dell’edizione: «Giovanni di Boccaccio da Certaldo ne la vita di Dante. Appresso già vicino a la sua morte compose un libretto in prosa latina, il quale el si intitulò De Vulgari Eloquentia. E come che per lo detto libretto apparisca lui havere in animo di distinguerlo e di terminarlo in quattro libri, o che più non ne facesse da la morte sopropreso, o che perduti siano li altri, più non ne appariscono che i dui primi». 6 Cito il passo da S. LATTÈS, Studi letterari e filologici di Angelo Colocci, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 243-55, p. 245. 7 LATTÈS, Studi letterari e filologici cit., p. 245.

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ydioma, che ben era iusto che in tante carte da lui vergate et scripte qualche segno della sua propria ve ne rimanesse. Set lassamo star che Dante, secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vernacular lingua, et pur nell’alta Comedìa più tosto dicer volse la nostra pica che la sua ghiandaia e altri nostri vocabuli infiniti, in ciò scusandolo se alle volte non è stato verecundo delle novità delle vocabuli. Benché nessun edicto ne prohibisce proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon de la cuna e con l’arte n’ha insegnato, senza che essendo el S(eraphino) subdito e propinquo al regno di Napoli, non è fuor d’onestà ch’a Sicilia, matre delle rime, se sia alle volte conformato»8. Tornando alle citazioni del trattato dantesco, più tradizionali si rivelano le altre due, identiche, trasmesse da Vat. lat. 4817, f. 210r, e da Vat. lat. 3903, f. 225r: De vulgari eloquio, con adeguamento del titolo alla forma trasmessa da T. Ben altro discorso merita il passo sui dialetti presente in Vat. lat. 4817, f. 62r, posto per di più sotto l’intestazione programmatica di «Lingua comuna»: Dante de communi aulico. Dicas, quod hodie magis apparet, quid sit illud commune quia est curia romana. Et dico illud esse commune totius Sicilie quod in aula Ferdinandi frequentaretur et Federici, illud in veneta regione quod Venetiis aut Ferrara aut Mantua celebratur, illud commune apud Insubres quod Mediolani frequens est, sed illud commune quod Rome ex istis omnibus componitur ubi est universalis Curia. Vel, si magis placet, ex dictis aulis singulis sit unum universale inter dictos, quorum consensu facta est communis loquela.

È merito del Debenedetti aver notato che il passo richiama Dve I, xix, 1; nel riprenderlo, aggiunge lo studioso, il Colocci «lo modifica a seconda delle nuove condizioni assunte dall’Italia, e vedendo in Roma una Corte ove usava un linguaggio non certo nuovo né artificiale, ma con qualche elemento di novità e di voluto arbitrio, a Roma, alla corte papale appuntava i suoi sguardi, secondo gli intenti del Calmeta, pur non trascurando per apprendere la lingua, Dante e il Petrarca»9. Va però notato che il

8 Cito da A. GRECO, L’Apologia delle “Rime” di Serafino Aquilano di Angelo Colocci, in At-

ti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 205-19, p. 214. 9 S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille di Angelo Colocci (1904), in ID., Studi filologici, Milano 1986, pp. 169-208, p. 199.

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passo dantesco in questione risulta fortemente corrotto in T10, ma non al punto di comprometterne la comprensione da parte di Colocci (di seguito, tra parentesi quadre, la traduzione di Trissino): Dve I, xix, 1 (T, p. 14) Quod ydiomata italica ad unum reducuntur et illud appellatur latinum 10 RAJNA, Dante Alighieri, Il trattato cit., p. 102: «proprium est lombardie, correndo a ciò che vien poi. Visto subito l’errore, l’amanuense cancellò lombardie, ma sbadatamente gli soggiunse ç (est), raddoppiando per tal modo la copula» [l’errore è sanato in V, f. 34v] «In T il ripetersi delle parole lombardie ed est invenire aliquod ha prodotto l’omissione di et sic[ut] est invenire aliquod quod si[t] proprium lombardie». In realtà i problemi testuali del passo non riguardano solo T ma caratterizzano già il suo modello, visto che anche G presenta a f. 13v numerose varianti marginali per sanare il testo. Qui di seguito l’edizione del trattato curata da Corbinelli sulla base di G: «Hoc autem Vulgare, quod illustre cardinale aulicum esse et curiale ostensum est, dicimus esse illud, quod Vulgare Latinum appellatur. Nam sicut quoddam Vulgare est invenire quod proprium est Cremonae, sic quoddam est invenire, quod proprium est Lombardiae, sic est invenire aliquod, quod sit totius sinistre Italiae proprium. Et sicut omnia haec est invenire sic et illud quod totius Italiae est. Et sicut illud Cremonense ac illud Lombardum et tertium semilatium, sic istud quod totius Italiae est, Latinum Vulgare vocatur» (J. CORBINELLI, Dantis Aligerii praecellentiss. poetae De Vulgari Eloquentia. Libri duo, Parisiis, Apud Corbon, 1577, p. 32). Si aggiunga che questo passo è all’origine del fraintendimento del Tolomei che nel suo Cesano si riferisce al volgare chiamandolo «latino», a causa della lezione «latinum» tramandata da G e T o da un loro eventuale affine. Non a caso in V, f. 34v, per evitare malintesi viene apposta la glossa esplicativa «vulgare» dopo «latinum» del titolo. Per un quadro della questione cfr. CASTELLANI POLLIDORI, Claudio Tolomei, Il Cesano cit., pp. 99-102; M. TAVONI, rec. a N. MACHIAVELLI, Discorso intorno alla nostra lingua, a c. di P. TROVATO, Padova 1982, in Rivista di letteratura italiana 35/II (1984), pp. 563-86, p. 579. Da ultimo E. PISTOLESI, Con Dante attraverso il Cinquecento: il De Vulgari Eloquentia e la questione della lingua, in Rinascimento 40 (2000), pp. 269-96, che scrive: «È certo che le lezioni degli esempi delle parlate municipali toscane dipendono dal ms. G o da un testimone affine, e che il linguista senese dispose di una quantità di informazioni superiore a quella degli altri partecipanti al dibattito; resta però da chiarire come e quando il Tolomei ottenne questi dati, e soprattutto perché non dette maggior rilievo all’esistenza di un altro testimone del Dve. Le citazioni del Cesano non implicano necessariamente una consultazione diretta del testo ed è molto probabile, considerati il luogo e l’anno in cui fu composto il dialogo, che siano di seconda mano. Indagare in questa direzione, alla ricerca del corrispondente del Tolomei, potrebbe gettare una nuova luce sull’intera vicenda del Dve» (p. 280). Chissà che non vada proprio riconosciuto tra i probabili tramiti del Tolomei anche il Colocci: oltre ad essere entrambi tra i protagonisti del Dialogo delle lingue di Pierio Valeriano (in realtà nella fictio narrativa Colocci racconta ad Antonio Marostica e ad Antonio Lelio Massimi del dibattito sulla lingua italiana a cui ha assistito il giorno precedente, durante una cena in casa di Giulio de’ Medici, tra Alessandro de’ Pazzi, Tolomei, Trissino e Tebaldeo; cfr. R. DRUSI, La lingua “cortigiana romana”. Note su un aspetto della questione cinquecentesca della lingua, Venezia 1995, pp. 28-39), Tolomei appare tra i nomi scritti dal Colocci nel ms. Vat. lat. 3450, f. 56r (F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano, Barb. lat. 4882, a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969, p. 109).

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Hoc autem vulgare quod illustre, cardinale, aulicum est et curiale ostensum est, dicimus esse illud quod vulgare latium appellatur. Nam sicut quod quoddam vulgare est invenire quod proprium est Lombardie [depennato] est Cremone, sic quoddam est invenire quod primum [ma a margine, di mano probabilmente di Trissino, «proprium»] est Lombardie; est invenire aliquod quod sit totius sinistre Ytalie proprium; et sicut omnia hec est invenire, sic et illud quod totius Ytalie est. Et sicut illud cremonense ac illud lombardum et tertium semilatium dicitur, sic istud, quod totius Ytalie est, latinum vulgare vocatur. Hoc enim usi sunt doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt in Ytalia, ut Siculi, Apuli, Tuscis, Romandioli, Lombardi et utriusque Marchie viri [«Questo volgare adunque che essere Illustre, Cardinale, Aulico e Cortigiano havemo dimostrato, dicono esser quello che si chiama volgare Italiano; perciò che si come si può trovare un volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovare uno che è proprio di Lombardia, et un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d’Italia, e come tutti questi si ponno trovare così parimente si può trovare quello che è di tutta Italia; e si come quello si chiama Cremonese e quell’altro Lombardo, e quell’altro di meça Italia, così questo che è di tutta Italia, si chiama volgare Italiano»].

Pur non essendo possibile datare con precisione l’appunto del Colocci – a poco serve constatare che deve essere posteriore al 1501, anno dell’abdicazione del re Federico, figlio di Ferdinando –, appare fuor di dubbio che esso si riferisca alla Curia del grande papa umanista Leone X, dove si parla la lingua comune a tutta l’Italia, frutto dell’abbandono delle peculiarità idiomatiche che avviene spontaneamente nelle corti citate11. Per il Colocci il confronto reciproco tra le varie lingue parlate nelle corti italiane «porta alla soppressione dei superstiti tratti distintivi, favorendo un tipo di volgare che, sul piano italiano, rivendica di diritto la qualifica di universale»12. A Roma insomma «città cosmopolita per eccellenza, si realizza una sorta di superiore koinè delle koinè»13.

11 Si ricordi a tale proposito il noto passo della Dedicatoria ad Isabella d’Este presente nella redazione manoscritta del Libro de natura de amore dell’ Equicola: «Similmente adviene dela materna lingua. Havemo la cortesiana romana, la quale de tucti boni vocabuli de Italia è piena, per essere in quella corte de ciascheuna regione preclarissimi homini» (L. RICCI, La redazione manoscritta del Libro de natura de amore di Mario Equicola, Roma 1999, p. 213; sulle divergenze tra la posizione di Colocci e quella di Calmeta ed Equicola cfr. C. GIOVANARDI, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma 1998, p. 89). Sulle polemiche sorte intorno alla lingua “cortigiana”, cfr. da ultimo P. FLORIANI, Trissino, la “questione della lingua”, la poetica, in Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza 31 marzo — 1 aprile 1979, Vicenza 1980, pp. 53-66, pp. 58-9; TROVATO, N. Machiavelli, Discorso cit., pp. XIII-XIV; RICCI, La redazione cit., pp. 73-115. 12 DRUSI, La lingua “cortigiana romana” cit., p. 27. 13 GIOVANARDI, La teoria cortigiana cit., p. 48.

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Decisamente più frequenti sono comunque le chiose di altro tipo che Colocci desume dal Dve; esse possono essere semplici richiami al margine dei testi citati da Dante, oppure osservazioni di ordine metrico14. Per quanto riguarda le prime, trascrivo qui di seguito quelle presenti nel ms. Vat. lat. 3793 e nel ms. provenzale M (Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr. 12474)15: Vat. lat. 3793 f. 1r: Notaro giacomo, Madonna dir vi volglio Dante cita questa f. 7v: Messer Rinaldo d’Aquino, Per fin’amore vo si altamente Dante cita questa “vo si lietamente”16 f. 13r: Re Federigo, Dolze meo drudo e vatene infra hic Dante nomina federigo Cesare17 f. 14r: jperadore Federigo, De la mia dissianza Dante lo nomina supra hic18 14 Sono ovviamente assenti chiose relative al Dve nei codici galego-portoghesi fatti allestire da Colocci, nonostante si trovino al loro interno rimandi a Dante e Petrarca (cfr. V. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, Le postille metriche di Angelo Colocci ai canzonieri portoghesi, in Annali dell’Istituto Orientale, sez. romanza 8 (1966), pp. 13-30; EAD., Note linguistiche e letterarie di Angelo Colocci in margine ai canzonieri portoghesi, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci cit., pp. 197-203; M. BREA, F. FERNÁNDEZ CAMPO, Notas lingüísticas de A. Colocci no Cancioneiro galego-português B, in XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes, Zürich 6-11 Aprile 1992, V, Tubingen — Basel 1993, pp. 39-56). La ragione è ovviamente connessa al fatto che Dante non cita mai questa tradizione lirica. 15 Per le sigle dei codici provenzali cfr. A. PILLET, H. CARSTENS, Bibliographie der Troubadours, Halle 1933. Una descrizione sintetica del codice con relativa bibliografia in C. PULSONI, Repertorio delle attribuzioni discordanti nella lirica trobadorica, Modena 2001, pp. 66-68. 16 Colocci segnala la variante di lezione registrata da Dante (lietamente), rispetto al testo di V (altamente). Secondo R. ANTONELLI, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano, in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, IV cit., pp. 3-23, p. 6, la lezione «tràdita nel De vulgari eloquentia è confermata nel significato dal Palatino (allegramente, con cui il Chigiano L.VIII.305) e nel significante, quasi un anagramma, dal Vaticano (altamente), con possibile scambio nella memorizzazione di copia (meno probabile un “errore ottico”, Panvini): è qui, forse, l’origine dell’oscillazione di Contini (...) ma anche la necessità, oggi, di rimeditare la proposta Santangelo-Panvini che ritenevano di individuare proprio nella lezione dantesca quella dell’archetipo». 17 Seguo nello scioglimento dell’abbreviatura iniziale «ia» l’ipotesi di BOLOGNA, La copia

colocciana cit., p. 147, che così commenta le fasi di elaborazione di questa glossa: «Colocci avrà segnalato dapprima la citazione dantesca nel De vulgari eloquentia; quindi, probabilmente dopo aver inserito al f. 14r (...) l’altro richiamo dantesco, avrà scandito: là “s(upr)a [o] s(ecund)a hic” e al f. 13r, “i(nfr)a [o p(rim)a] hic”». 18 Seguo nella lettura lo scioglimento di «sa» con «supra» proposto da BOLOGNA, La

copia colocciana cit., p. 147. Grazie a tale lettura si ha un «evidente richiamo seriale alla prima parte della postilla immediatamente precedente».

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f. 15r: Rosa fresca aulentissima Dante cita questa19 f. 31v: Messer Guido di Guinizzello di Bolongna, Al core gientile rimpaira sempre amore Dante cita questa f. 33v: Ghalletto di Pisa, Credea esser lasso ego tenson / Dante nomina Gallo da Pisa20 f. 57v: Ser Burnetto Latini di Firenze, S’eo sono distretto jnamoratamente Dante lo nomina f. 98r: Messer Guido de Colonne di Mesina, Amore che lungiamente m’ai menato Dante cita questa in Libro de vulgari eloquio e poco sopra le prime due parole bis21.

Di tenore analogo sono le postille apposte in M: f. 6r: Girard de Borneilh, Er auziretz encabalitz chantars (242,17) Dante cita questa f. 19r: Girard de Borneilh, Si.m sentis fezels amics (242,72) Dante cita questa f. 143r: Arnautz Daniel, Si.m fos amors de ioi donar tan laria (29,17) Dante de vulgari eloquio citat hanc bis f. 149v: Aymerich de Bellenuech, Nulls hom non pot conplir adrechamen (9,14) Dante cita questa f. 232v: Bertran del Bort, No puesc mudar q’un chantar non esparia (80,29) Dante cita questa et dice che questo Bertramo tratta di guerra.

Per quanto riguarda le osservazioni di natura metrica segnalo la postilla che Colocci appone a f. 159r di Vat. lat. 4823 a margine della canzone Alegramente di «Donn Arrigo»: «contra Regulam Dantis pentesyllabo che questo e pentesyllabo. Eptasyllabo. endecasyllabo»22, dove con tale nota egli si riferisce verosimilmente al fatto che Dante sconsiglia il quinario in posizione incipitaria in Dve II, xii, 7: «De pentasillabo quo19 Si noti però che in Vat. lat. 4823 Colocci attribuì questo componimento a Cielo d’Al-

camo, paternità invece di cui non resta traccia in Vat. lat. 3793: evidentemente questo ms. «sarà stato postillato precedentemente alla scoperta in altra fonte dell’attribuzione» (BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 147). 20 Seguo la lettura proposta da BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 148. 21 La lettura bis proposta da BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 150, è confermata dal

fatto che anche in altre chiose Colocci utilizza l’avverbio bis per indicare la doppia presenza di un testo all’interno del Dve (cfr. infra: «Dante de vulgari eloquio citat hanc bis» per Si.m fos amors de ioi donar tan laria). 22 Seguo la lettura di BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 149.

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que non sic concedimus: in dictamine magno sufficit unicum pentasillabum in tota stantia conserii, vel duo ad plus [in pedibus]; et dico “pedibus” propter necessitatem qua pedibus, versibusque, qua cantantur» (T, p. 25); o ancora la chiosa a margine del frammento del Dve di Vat. lat. 4817, f. 284v, «Arnaldus.143. /sextine / Discort. 53. 56 / et Rosa fresca 54 / Disc. 120.123»23. Secondo Debenedetti, quest’ultimo genere di glosse giustifica il fatto che Colocci si sia fatto copiare solo pochi paragrafi del Dve; a suo avviso essi sono infatti i più interessanti per uno studioso del Cinquecento «insegnando a penetrare i segreti della stanza e per conseguenza della canzone, e ad un tempo i più malagevoli ad essere intesi e ritenuti, per la terminologia del tutto nuova; ed il taglio repentino del C. X si comprende benissimo, anche ammettendo che la copia non sia andata oltre il frammento che ci rimane, perché le osservazioni contenute negli ultimi due periodi non presentano il minimo interesse per chi ha letto i precedenti a scopo di erudizione metrica»24. Da quanto abbiamo avuto modo di vedere, Colocci pertanto, come già Bembo, utilizza il Dve per la sua attività filologica, anche se diversamente dallo studioso veneziano non riesce a inglobare il testo dantesco in un’opera organica. Dal punto di vista stemmatico sia il manoscritto di Bembo sia quello di Colocci sono descripti di T25. Eppure nonostante questa stretta paren23 La glossa è stata ottimamente commentata da BOLOGNA, La copia colocciana cit., p. 145: «Tolto il primo, che rinvia alla foliazione del provenzale M (ove infatti al f. 143v, è contenuta la sestina di Arnaut, con la postilla sextina di mano colocciana), i successivi richiami sono basati sulla numerazione di V: ma poiché mancano i rinvii ai fogli, è difficile dire se il richiamo sia proprio a V oppure a Va. Sta di fatto che al f. 17v di V, nella postilla a “.lxi. — giacomino pulgliese ‘Quando vegiorinverdire’”: vide lemosin discort ia [=infra] 120 […], si ritrova la stessa indicazione numerica, qui più ricca (con l’aggiunta di un richiamo al n° 123 dello stesso V, corrispondente a “Ser bonagiunta dallucha ‘Gioia nebene non(n)e sanza comfortto’”, V f. 36r, dove però Colocci non inserì la postilla Discort che è sulla facciata precedente […]). Il rinvio a Rosa fresca 54 è, ovviamente, alla tenzone […]. Quanto al numero 56 che segue Discort 53, lo intenderei come richiamo al n° 57 […] con una svista del Colocci, abbastanza comprensibile. Va notato infatti che la stessa svista compare in Va, f. 70v, ove la lirica “.lvi. – giacomino pulgliese ‘Tutora ladolze speranza’” manca, e la lacuna (la prima di questo genere nella parte del codice trascritta dal copista) è segnalata dal Colocci con una postilla erronea, inserita subito prima della successiva, la n° 57». 24 DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 188. 25 Ibid., pp. 188-92; MENGALDO, Dante Alighieri, De vulgari cit., pp. CVI e CXII. Per un

approccio metodologico ai codici descritti in ambito umanistico cfr. C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La Filologia romanza e i codici. Atti del Convegno. Messina — Università degli Studi — Facoltà di Lettere e Filosofia 19-22 dicembre 1991, a cura di S. GUIDA e F. LATELLA, II, Messina 1993, pp. 531-87.

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tela, essi presentano alcune divergenze testuali, tra cui la più interessante è senz’altro quella relativa al modo di comporre di Arnaut Daniel (II x 2)26. T, p. 23, riporta: et huiusmodi stantie usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco iorno et al gram ciercho d’ombra27.

Nel riprodurre il testo di T, il copista di V, f. 48r-v, apporta alcune piccole variazioni di ordine grafico-linguistico, ma soprattutto omette l’avverbio fere: et huiusmodi stantiae usus est in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco giorno et al gran cerchio d’ombra28.

Il frammento di Colocci, f. 284v, legge invece: et huiusmodi stancie . . . . usus ferme est in omnibus suis cantionibus Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco giorno et al gran cerchio d’ombra.

Va rilevato che dopo «stancie» viene lasciato dello spazio in bianco dove vengono trascritti alcuni puntini sospensivi: pare insomma che Colocci pensasse d’inserire un’altra parola29. 26 Per le altre differenze DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., pp. 192-93. 27 Il passo è evidenziato da una graffa al margine destro, cui segue una glossa che recita

«volta». La lezione «fere» del manoscritto si riflette nella traduzione di Trissino che così recita: «e queste stanzie di una oda sola, Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le sue canzoni, e noi havemo esso seguitato quando dicemmo Al poco giorno et al gran cerkio l’ombra» (Dante, De la volgare eloquentia cit., f. c5v). 28 In altra sede ho avuto modo di dimostrare che grazie a questa lacuna si può comprendere il motivo per cui Bembo in Prose I 9 scrive che Arnaut Daniel compose tutti i suoi componimenti in coblas dissolutas (PULSONI, Per la fortuna cit., p. 635). Non presenta variazioni in V l’altro passo del Dve (II, xiii, 2) dove Dante torna ad occuparsi della tecnica compositiva di Arnaut Daniel, anche se stavolta sono assenti glosse bembiane: «In principio huius capituli quedam resecanda videntur. Unum est stantia sine rithmos, in qua nulla rithmorum habitudo attenditur; et huiusmodi stantiis usus est Arnaldus Daniel frequentissime, velut in Sem fos Amor de joi donar; et nos dicimus: Al poco iorno. Aliud est stantia eius cuius omnia carmina eundem rithmum reddunt, in qua supperfluum esse constat habitudinem querere» (f. 52r). 29 Che questo passo fosse corrotto già nell’archetipo o quanto meno nel ramo a cui appartengono i codici finora citati lo testimonia anche G, che infatti legge: «et huiusmodi

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Per il Debenedetti, la trascrizione colocciana del trattato dantesco sarebbe successiva alla pubblicazione delle Prose di Bembo a causa della variante «ferme est», situandosi quindi tra la fine del 1525 e la prima metà del 152630. Il Bembo aveva infatti scritto in Prose I, 931: Senza che molte cose, come io dissi, hanno i suoi poeti prese da quelli, sì come sogliono far sempre i discepoli da’ loro maestri, che possono essere di ciò che io dico argomento, tra le quali sono primieramente molte maniere di canzoni, che hanno i Fiorentini, dalla Provenza pigliandole, recate in Thoscana: sì come si può dire delle sestine, delle quali mostra che fosse il ritrovatore Arnaldo Daniello, che una ne fe’, et non più; o come sono dell’altre canzoni, che hanno le rime tutte delle medesime voci, sì come ha quella di Dante: Amor, tu vedi ben che questa donna la tua virtù non cura in alcun tempo; il quale uso infino da Pietro Ruggiero incominciò; o come sono anchora quelle canzoni, nelle quali le rime solamente di stanza in stanza si rispondono, et tante volte ha luogo ciascuna rima, quante sono le stanze, né più né meno: nella qual maniera il medesimo Arnaldo tutte le sue canzoni compose, come che egli in alcuna canzone traponesse etiandio le rime ne’ mezzi versi, il che fecero assai sovente anchora degli altri poeti di quella lingua, e sopra tutti Giraldo Brunello, e imitarono, con più diligenza che mestiero non era loro, i Thoscani32.

La ricostruzione di Debenedetti, pur nella sua stringatezza logica, appare poco persuasiva: è mai possibile che il Colocci abbia dovuto attenstantie usus est ferre in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco iorno et al gram ciercho d’ombra» (f. 21v). A margine Corbinelli appose la variante «fere» per «ferre», probabile ipercorrettismo causato dall’origine settentrionale del copista. Resta tuttavia arduo stabilire se si tratti d’un intervento mediato dalla già ricordata traduzione del Trissino, che il Corbinelli, si noti bene «considerò opera di Dante almeno fino al 1575» (PISTOLESI, Con Dante attraverso il Cinquecento cit., p. 293); oppure se sia frutto di congettura. A poco giovano a tale proposito le glosse marginali che l’esule fiorentino vergò nei margini del proprio esemplare del Dve accanto al passo in questione (cfr. C. S. GUTKIND, Die handschriftlichen Glossen des Iacopo Corbinelli zu seiner Ausgabe der «De Vulgari Eloquentia» Paris, 1577, in Archivum Romanicum 18 (1934), pp. 19120, pp. 49 e 51). 30 DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 195. L’ipotesi è giudicata «non incontrovertibile» da MENGALDO, Dante Alighieri, De vulgari cit., p. CVII, nt. 3. 31 Pur riproducendo il testo della editio princeps ho adeguato la divisione delle parole e

l’interpunzione all’uso corrente (le indicazioni dei capitoli corrispondono a C. DIONISOTTI, Prose e rime di Pietro Bembo, Torino 1966). 32 P. BEMBO, Prose della volgar lingua, Venezia, Tacuino, 1525, f. 7v-8r. Non presenta

modifiche, se non qualche variazione di poco conto, il passo trasmesso dall’autografo delle Prose, Vat. lat. 3210, ff. 15v-16v.

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dere la pubblicazione delle Prose per sapere cosa pensava Bembo della tecnica compositiva di Arnaut Daniel? Non è forse più verosimile supporre che tra i due esistesse uno scambio d’informazioni, alla luce anche della testimonianza di Pinelli che riferisce di possedere una lettera del Bembo al Colocci con indicazioni relative a codici provenzali: Ho qui in libreria del Papa, un foglio con una lettera del cardinale Bembo al Colotio, dove li manda li nomi de tutti poeti provenzali, et li principii di ciascuna cosa, che si contiene in detto libro, et questo foglio è dietro il libro de’ provenzali del Colotio, del che io ho scritto a V.S. haver copia et sono poeti LXVI33.

In realtà alla ricostruzione di Debenedetti si può opporre innanzitutto un argomento di natura ‘linguistica’: «ferme» infatti è un sinonimo di «fere» e non un suo antonimo, come sembra proporre lo studioso. Non ci sarebbe quindi alcun rapporto fra la variante «ferme est» del ms. di Colocci e le Prose del Bembo. Dalle considerazioni finora espresse appare chiaro che, a mio avviso, va rivista la cronologia relativa alla diffusione del trattato dantesco nel primo Cinquecento: se nessun dubbio riguarda la sua riscoperta nel secondo decennio ad opera del Trissino (difficile risulta però stabilire l’anno preciso34), qualche incertezza si ha sul periodo nel quale il Dve arrivò tra le mani di Bembo e di Colocci. Per quanto riguarda Bembo possiamo aiutarci con l’esame stratigrafico del manoscritto autografo delle Prose della volgar lingua, Vat. lat. 3210. È noto infatti che all’interno di quest’opera Bembo utilizzò a più riprese il trattato dantesco, come dimostra il fitto reticolo di postille, notabilia e segni di richiamo che egli lasciò sui margini di V. Rilevo innanzitutto la manicula che lo studioso appose a Dve I, x, 2, aggiungendo il seguente promemoria: «Provenzali primi poeti: Petrus de Alvernia». Il passo è quello dove Dante si pronuncia sulla priorità della lirica provenzale: si tratta d’una constatazione ripresa an-

33 P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contribution à l’histoire des collec-

tions d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, p. 321. Un quadro delle relazioni Bembo-Colocci per quanto riguarda la filologia provenzale in C. PULSONI, Luigi Da Porto, Pietro Bembo: dal canzoniere provenzale E all’antologia trobadorica bembiana, in Cultura Neolatina 52 (1992), pp. 323-51, pp. 340-44; per il versante italiano, soprattutto dal punto di vista lessicografico, cfr. C. BOLOGNA, Bembo e i poeti italiani del Duecento, in Le Prose della volgar lingua. Convegno, Gargnano 5-7 ottobre 2000, Milano 2001, pp. 95-122, p. 105, nt. 19. 34 RAJNA, Dante Alighieri, Il trattato cit., pp. XXXV-XL; RICCI, De Vulgari Eloquentia cit., p. 399.

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che da Bembo, che però diversamente da Dante, stabilisce una dipendenza diretta fra la poesia provenzale e quella italiana: Dve I x 2 Pro se vero argumentatur alia, scilicet oc, quod vulgares eloquentes in ea primitus poetati sunt tanquam in perfectiori dulciorique loquela, ut puta Petrus de Alvernia et alii antiquiores doctores [f. 26r].

Prose I 8 Quando si vede che più antiche rime delle provenzali [Vat. lat. 3210, f. 15v: non si leggono in alcuna, frase depennata] altra lingua non ha, da quelle poche in fuori che si leggono nella latina, già caduta del suo stato et perduta. Il che se mi si conciede, non sarà da dubitare che la fiorentina lingua da’ provenzali poeti, più che da altri, le rime pigliate s’habbia, et essi havuti per maestri; quando medesimamente si vede che [ms: hora, depennato] al presente più antiche rime delle thoscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la provenzale35.

Altri promemoria bembiani sono posti a margine di Dve I xiii 1, I xv 6, II xii 6, II xiii 4, dove Dante enumera alcuni poeti che lo hanno preceduto, nonché dei suoi coetanei: Dve I xiii 1 Post hos veniamus ad Thuscos, qui propter amentiam suam in fronte titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur. Et in hoc non solum plebea dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curialem vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Ninum vocatum Senensem, Brunettum Florentinum [f. 29r-v; promemoria: Guittone, Bonagiunta, Gallo Pisano, Nino senese, Brunetto].

Dve I xv 6 Nec etenim est quod aulicum et illustre vocamus: quoniam, si fuisset, maximus Guido Guinizzelli, Guido Ghisilerius, Fabrutius et Honestus et alii poetantes Bononiae nunquam a primo divertissent: qui doctores fuerunt illustres et vulgarium discretione repleti. Maximus Guido: Madonna lo fermo core; Fabritius: Lo mio lontano gire; Honestus: Più non attendo il tuo soccorso amore [f. 31v; tutto il passo è evidenziato da una graffa laterale; a margine di essa, promemoria dei nomi citati].

35 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 7v.

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Dve II xii 6 Verumtamen quosdam ab eptasillabo tragice principasse invenimus, videlicet , Guidonem de Ghisileriis et Fabrutium Bononiensem: De fermo sofferire, et Donna, lo fermo core, et Lo meo lontano gire; et quosdam alios [f. 51r: Guido Ghisel. Fabrutio Bon.].

Dve II xiii 4 Et primo sciendum est quod in hoc amplissimam sibi licentiam fere omnes assumunt, et ex hoc maxime totius armoniae dulcedo intenditur. Sunt etenim quidam qui non omnes quandoque desinentias carminum rithmantur in eadem stantia, sed easdem repetunt sive rithimantur in aliis, sicut fuit Gottus Mantuanus, qui suas multas et bonas cantiones nobis oretenus intimavit: hic semper in stantia incommutatum texebat, quod clavem vocabat; et sic de uno licet, etiam de duobus, et forte de pluribus [f. 52r-v: Gotto mantovano, chiave].

Questo il testo di Prose II 2: … et Guido Ghisilieri et Fabrutio bolognesi et Gallo pisano et Gotto mantovano, che hebbe Dante ascoltatore delle sue canzoni, et Nino sanese et degli altri, de’ quali non così hora componimenti, che io sappia si leggono 36.

Si vedano infine i promemoria a margine dei passi dove Dante si sofferma ad analizzare i vari dialetti della penisola, passi che offriranno al Bembo lo spunto per la trattazione sulla mutevolezza degli idiomi nel tempo e nello spazio. Qui di seguito riproduco il passo relativo ai siciliani: Dve I xii 1-2 Exaceratis quodammodo vulgaribus italis, interea quae remanserunt in cribro comparationem facientes honorabilius atque honorificentius breviter seligamus. Et primo de siciliano examinemus ingenium: nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere eo quod quicquid poetantur Itali sicilianum vocatur, et eo quod per plures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse puta in cantionibus illis… [f. 28r: Siciliano idioma].

36 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 19v. Il «Nino sanese» del passo delle Prose dipende, come ho già dimostrato altrove (Per la fortuna cit., p. 636), dalla lezione «Ninum vocatum senensem» di Reg. lat. 1370, f. 29r-v, in luogo del vulgato «Minum Mocatum senensem». Identico il passo in Vat. lat. 3210, f. 42v.

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Prose I 7 Tuttavolta de’ Siciliani poco altro testimonio ci ha, che a noi rimaso sia, se none il grido; ché poeti antichi, che che se ne sia la cagione, essi non possono gran fatto mostrarci, se non sono cotali cose sciocche e di niun [Vat. lat. 3210, f. 13r: «nessun» cancellato e sostituito da «niun»] prezzo, che hoggimai poco si leggono [Vat. lat. 3210, ibidem: non si leggon per alcuno37]. Il qual grido nacque perciò, che trovandosi la corte de’ napoletani re a quelli tempi in Sicilia, il volgare, nel quale si scriveva, quantunque italiano fosse, et italiani altresì fossero per la maggior parte quelli scrittori, esso nondimeno si chiamava siciliano, et siciliano scrivere era detto a quella stagione lo scrivere volgarmente, et così infino al tempo di Dante si disse 38.

Considerato che l’insieme di questi passi non presenta nel manoscritto variazioni o aggiunte, ne consegue che il Bembo aveva già a disposizione il Dve durante la composizione dei primi due libri del proprio trattato. Ora se l’autografo delle Prose è databile agli anni 1521-2239, Bembo già all’epoca aveva letto e meditato quanto aveva scritto Dante nel Dve. A quando dunque il suo incontro con l’opera dantesca? In altra sede proponevo che, durante il suo terzo soggiorno romano, avvenuto ai primi di gennaio del 1517, il Trissino abbia consentito a qualche amanuense di Bembo di copiare il trattato dantesco40, ma nulla osta che ciò possa essere avvenuto anche in precedenza (il primo soggiorno risale al 1514). Se si accetta questo terminus post quem per la conoscenza bembiana del Dve possiamo avanzare qualche ipotesi anche sulla copia colocciana: è lecito infatti supporre che la variante «ferme est» della copia di Colocci, se interpretata come fa Debenedetti, possa dipendere dal fatto che nel manoscritto di Bembo era saltato l’avverbio «fere» del modello. Basandosi pertanto sulla convinzione bembiana riguardo al modo di comporre arnaldiano, Colocci si fa ricopiare – o copia, in caso d’autografia – il trattato e imbattendosi nel «fere» dell’antecedente decide di farlo emendare 37 Questa lezione doveva pertanto far parte di quel manoscritto che Bembo aveva tratto, o fatto trarre, dal Vat. lat. 3210 come antigrafo dell’edizione (C. VELA, Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210, Bologna 2001, pp. XXXVII). 38 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 6v. 39 P. TROVATO, Il primo Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. BRUNI,

Bologna 1994, p. 114; C. VECCE, Bembo, Boccaccio e due varianti al testo delle Prose, in Aevum 69 (1995), pp. 521-31, p. 528, nt. 19. Si veda ora anche VELA, Pietro Bembo, Prose cit., pp. XXII sgg. Di diversa opinione M. TAVOSANIS, La prima stesura delle Prose della volgar lingua: fonti e correzioni, Pisa 2002, p. 43, che propone di «fissare tra il 1515 e il novembre del 1523 (o poco dopo) il periodo in cui è stato copiato lo stato A del Vat. lat. 3210». 40 PULSONI, Per la fortuna cit., pp. 637-38.

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– o lo emenda – con «ferme» sulla base di quanto pensava Bembo. In ogni caso la copia colocciana del trattato deve essere necessariamente posteriore a quella del Bembo: anzi visto che essa deriva a sua volta da T e non da V dovrà essere ricondotta allo stesso soggiorno del Trissino a Roma41, dal momento che doveva ancora essere viva la memoria del passo bembiano. Questo terminus post quem si rivela inconsistente se si considera invece «ferme» in maniera corretta, vale a dire come sinonimo di «fere». Le chiose di Colocci riferibili al Dve non sono infatti databili; si può solo inferire che quelle apposte nel codice provenzale M sono successive al 1515, anno nel quale il Colocci aveva acquistato tale manoscritto dalla vedova del Cariteo42. Pur mancando qualsiasi elemento d’appoggio, non escluderei però che anche il Colocci possa aver letto il trattato dantesco entro la fine del secondo decennio, all’incirca nello stesso periodo di Bembo. Mi sembra insomma verosimile l’indicazione cronologica di Debenedetti secondo cui le postille del Colocci al Vat. lat. 3793, e, aggiungo, a M, pur «nella loro indeterminatezza tradiscono la rapida lettura del trattato, avvenuta probabilmente nel tempo della prima dimora del Trissino a Roma (1514-1518)»43. In questo stesso periodo, a mio avviso, ebbe luogo anche la copia o almeno la lettura integrale del trattato da parte di Colocci. Anzi, in ragione delle affinità di posizioni sulla questione linguistica fra Trissino e Colocci, non escluderei che i due abbiano discusso dei rispettivi punti di vista proprio davanti al trattato dantesco, che paradossalmente confermava, se letto in un’ottica ovviamente straniante e faziosa, il loro pensiero: «nel Dve si censuravano infatti tutte le parlate municipali (fiorentino incluso) a favore di un modello di lingua mescidato che costituiva la sintesi dei tratti più nobili dei volgari italiani; inoltre l’opera conteneva delle notizie imprescindibili sulla lirica coeva, confermando il carattere comune della

41 Dopo questo periodo il Trissino tornerà a Roma solo nel 1524 e poi dall’autunno del

1525 a quello del 1526 (B. MORSOLIN, Giangiorgio Trissino. Monografia d’un gentiluomo letterato nel secolo XVI, Firenze 1894, pp. 65-97). 42 S. DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento (1911), ed. riveduta a

cura di C. SEGRE, Padova 1995, p. 251: «Alla morte di Benedetto Gareth, per mediazione del Summonte, il Colocci acquistò dalla vedova un codice di rime provenzali, già appartenente a questo gentile poeta. Il Gareth morì nella seconda metà del 1514, e noi sappiamo che prima del dicembre dell’anno seguente il ms. era già a Roma». Sulla storia di M nel periodo in questione, si veda anche M. CARERI, Bartolomeo Casassaggia e il canzoniere provenzale M, in La filologia romanza e i codici cit., II, pp. 743-52. 43 DEBENEDETTI, Intorno alle postille cit., p. 187.

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lingua letteraria delle origini»44. Del resto è lo stesso Trissino nel Castellano a informarci di suggerimenti avuti da Colocci al fine di dimostrare la non fiorentinità di Petrarca: Pare, anchora, che ’l Petrarca medesimo, come già di ciò m’advertì il Colozio, dimostri sé haver scritto in lingua a tutta Italia comune, e da tutta Italia intesa, quando in quel sonetto dice del nome di Laura celebrato ne le sue Rime: Poi che portar nol posso in tutte quattro Parti del mondo, udrallo il bel paese Ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe. Ove, se havesse scritto in lingua toscana et havesse pensato di essere se non da i popoli di essa naturalmente intesa, havrebbe la Toscana sola e non la Italia tutta descritto. Adunque, per essere la preposizione di questo secondo argumento falsa, la conclusione parimenti è falsa; la quale, se fosse ben vera, non militerebbe per essere (come è detto) su ’l primo argumento fondata, il quale havemo mostrato che non milita 45.

Ed effettivamente in Vat. lat. 4817, f. 73v, riferendosi al sonetto citato da Trissino, Colocci scrive: «Prima che venghi a particulare da la lingua divisa, in che stato stava la Italia ch’Appenin parte e ’l mare e come questa è tutta una lingua in genere, ma li parlari vari»46; ed altrove «la lingua è comune; ma quando ben in Italia non sia lingua comune, certo quella che Petrarca di tante lingue ha facto per imitazione è comune» (f. 1r)47. Nell’esprimere questo pensiero, Colocci, da empirico qual è, ha dalla sua, per esempio, la ricerca svolta sui sicilianismi usati da Petrarca presente in Vat. lat. 321748. Grazie ad essa Colocci può dimostrare «non 44 PISTOLESI, Con Dante attraverso il Cinquecento cit., p. 282. Cfr. anche I. PACCAGNELLA, La questione della lingua, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, II: Dal Cinquecento alla metà del Settecento, Torino 1994, pp. 589-626, pp. 611-13. 45 TRISSINO, Scritti linguistici cit., pp. 57-8. 46 Questo passo è ricordato anche da BENEDETTO VARCHI, l’Hercolano, Vinetia, Filippo

Giunti, 1570, p. 276: «CONTE: Il bel paese partito dall’Appennino e circondato dal mare e dall’Alpe, non è né Firenze, né Toscana, ma Italia; dunque la lingua colla quale il Petrarca scrisse non è né Fiorentina, né Toscana, ma Italiana. VARCHI: M. Agnolo Colozio, huomo di grande nome, quando insegnò questo colpo al Trissino, non si devette ricordare questo argomento non valere. Questa lingua s’intende in Italia, dunque questa lingua è Italiana; perché la lingua Romana s’intendeva in Francia e in Ispagna, e non era per questo né Spagnuola, né Franzese» (sulla posizione del Varchi cfr. A. SORELLA, Benedetto Varchi, L’Hercolano, I, Pescara 1995). 47 DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 197. 48 Cfr. O. OLIVIERI, Gli elenchi di voci italiane di Angelo Colocci, in Lingua nostra 4

(1942), pp. 27-9.

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teoricamente, ma mediante citazioni precise e dati concreti, la sua opinione che la lingua del Petrarca sia una lingua mista cioè composta di elementi non soltanto toscani ma tolti da vari altri dialetti italiani ed in particolare dal siciliano»49. Anzi, proprio in virtù di questo lavoro preliminare, egli può estendere il discorso anche a Dante, secondo quanto scrive in Vat. lat. 4817, f. 39rv: «Tanti monstri di parole che sono in Dante et non poche in Petrarcha, di tutto la cagion è stata la imitatione, che poche parole vi sono, che non siano o degli antiqui Siculi o de Lemosini, o di vicini a Lemosini; chiamo Siculi tutti quelli che sursero oltra al Faro et di qua, chiamo Lemosini tutti Francesi, Provenza et Catalogna»50. Anche queste parole non dovettero passare inosservate a Trissino che nel Castellano scrive: Veduto adunque quali parole forestiere possano divenir toscane e quali no, et a che modo, per meglio conoscere poi la lingua di Dante e del Petrarca pigliamo i loro scritti in mano, e veggiamo se i vocaboli di quelli sono tutti fiorentini o no. E chiaramente vederemo che non saranno tutti fiorentini, perciò che et haggio e faraggio e dissero e scrissero e molti simili che sono formazioni siciliane, e poria e diria e molti simili che sono lombarde, e guidardone, alma, salma, despitto, respitto, strale, coraggio, menzonare, scempiare, dolzore, solìa, cria, scaltro, quadrella, mo’, adesso, sovente e moltissimi altri vi si leggono che non sono fiorentini. Adunque non essendo i loro vocaboli tutti fiorentini, né toscani, non si può la loro lingua con verità nominare fiorentina né toscana. Perciò che, essendo detta loro lingua sì de la toscana come de l’altre lingue d’Italia mescolata, e la specie con altre specie mescolate non si possendo insieme con verità se non per il nome del genere dire, però non si può la loro lingua per altro che per “italiana” con verità nominare. Et io mi ricordo una volta con messer Arrigo d’Oria qui haver preso il Petrarca in mano, e senza alcuna parzialità haver scelto i vocaboli fiorentini e toscani di esso da quelli che sono di altre regioni d’Italia e da quelli che sono quasi a tutta Italia comuni. Et in verità vi trovai assai meno de la decima parte di vocaboli nostri propri fiorentini, perciò che tutti gli altri erano comuni e forestieri. De la qual cosa reputo non picciolo argumento che, fra tanti vocaboli del primo sonetto del Petrarca, non ve n’è più che uno che sia nostro proprio: gli altri tutti sono comuni ad altre regioni d’Italia, et èvvi sovente, che certo è forestieri51.

49 LATTÈS, Studi letterari e filologici cit., p. 247. 50 Cito da DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 197. 51 TRISSINO, Scritti linguistici cit., pp. 64-6, con relative note; GIOVANARDI, La teoria cor-

tigiana cit., pp. 198-99.

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Considerato che solo alcuni «dei gallicismi (o presunti tali), in massima parte provenzalismi, qui citati […], compaiono nel lungo elenco di prestiti provenzali delle Prose bembiane, I X: alma, guiderdone (Trissino —ar—), quadrello, solia (l’imperf. in —ia è un noto sicilianismo della lingua poetica), sovente»52, non si può escludere che le altre parole possano provenire da scavi colocciani, o quantomeno risalire al Trissino stesso, ma su imitazione delle ricerche già eseguite dall’umanista di Jesi. Ed effettivamente nello spoglio sui «Siculi» presente in Vat. lat. 3217, si trovano menzionate alcune delle parole citate da Trissino, tra cui haggio (f. 182r) e faraggio (ff. 166v-167r). Non appaiono invece le forme «dissero» e «scrissero», erroneamente ascritte dal Trissino al siciliano53, che già Bembo attribuiva però correttamente, citando esplicitamente la prima, al toscano antico in Prose III, 35: Nelle altre due maniere ella termina poscia così volsero lessero et simili, alla terza loro voce del numero del meno la sillaba, che voi udite, sempre giugnendo, per questa del più formare, come vedete. Né vi muova ciò, che disse nella terza voce del numero del meno et dissero in quella del più medesimamente si dice: come che dire paia voce della quarta maniera. Percioché tutto il verbo per lo più da dicere; la qual voce non è in uso della Fiorentina lingua; et non da dire si forma, si come fecero da fece; et questa da facere, del quale si disse, et non da fare altresì54.

Non solo: lo zibaldone Vat. lat. 4817, f. 62v, testimonia di ulteriori discussioni tra Colocci e Trissino in merito ai vocaboli appartenenti alla lingua comune: «Feruto eo: è siciliano et francese. Non è lingua comune; et se Trissino dice che alhora se usano, lo riprovo che alhora non se usano per le prose qual sono toschane o comune»55; nel cui passo non sarà forse del tutto da escludere un’eco di quanto si trova nei Dubbi grammaticali del Trissino : 52 TRISSINO, Scritti linguistici cit., p. 65, nt. 156. 53 La svista del Trissino nasce probabilmente dal fatto che nel corso del Quattrocento le

forme etimologiche fiorentine «dissero» «scrissero», evolvono per influssi di varia provenienza toscano occidentale (pisana, lucchese, sangimignanese e volterrana) in «disseno» «scrisseno, -ono» (cfr. P. MANNI, Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, in Studi di grammatica italiana 8 (1979), pp. 115-71, p. 164). Evidentemente il Trissino avvertì proprio queste ultime come spiccatamente fiorentine. 54 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 65v. Non presenta variazioni il testo di Vat. lat. 3210, f. 132r-v. 55 I due lemmi sono ovviamente inseriti nella lista dei «Siculi» presenti in Vat. lat. 3217.

Per quanto riguarda feruto è attestato nelle varie forme flesse a ff. 165r; 166r-v; 167r; 171r, ecc. Eo si trova ai ff. 163r-v; 164r, ecc.

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E, cominciando da le vocali, dico che e, e, i sono di un medesimo ordine et hanno insieme molta affinità, di modo che i poemi et altrove spesse volte l’una per l’altra si truova e l’una ne l’altra si volge, come è Deo / Dio, eo / io, bello / bellissimo, ame / ami, diria / direi e simili56.

Insomma Colocci sembrerebbe svolgere un ruolo di ghost-writer, o più semplicemente di suggeritore del Trissino, ancora tutto da studiare e sul quale converrà riflettere, sulla base anche del noto passo dell’Ubaldini: «Non è da ammirarsi se Angelo, così esperto in questa favella, sia introdotto da Piero Valeriano nel dialogo di essa a raccontare il discorso seguito in una cena del Card. Giulio de’ Medici sopra il nome della nostra lingua: inclinava il Colocci, secondo si mostra nella sudetta narratione, all’opinione di Gio. Giorgio Trissino, anzi come si raccoglie dall’Ercolano del Varchi, il Colocci aiutò con alcune ragioni l’opinione di esso Trissino per chiamarla lingua Italiana: il che con ingenuità lombarda confessa l’istesso Trissino nel suo Castellano»57. Del resto non è un caso che proprio su T Trissino abbia voluto trascrivere un pensiero del Colocci su questioni di stile: «angelo colutio / Il numero secondo messer A. C. bello e / in altra forma ènsolito et alato / Brutto cioe senza numero / Di che s’adorna volentier’ il mondo»58. L’importanza degli studi di Bembo e di Colocci non si limita al solo aspetto filogico-testuale, ma si estende anche sul versante ‘terminologico’: è infatti grazie a loro – ma soprattutto a Bembo – che diviene corrente l’uso di «sestina» per indicare la particolare forma metrica inventata da Arnaut Daniel. Il termine infatti, pur essendo attestato già dalla seconda metà del Trecento59, non risulta particolarmente frequentato prima del Cinquecento: a livello puramente indicativo si può constatare che su cinque codici del XV secolo che conservano le sestine di Giusto de’ Conti, solo in uno esse vengono denominate come «sestine», mentre negli altri, a prescindere da quelli privi di didascalia, risultano rubricate come «canzone» o «cantilena»60. Colocci e Bembo fanno invece un uso ampio del termine «sestina»: il primo, per esempio, oltre a inserirlo come postilla nel manoscritto provenzale M, f. 143v, a margine di Lo ferm voler qu’el cor m’intra («sextina»), ne parla anche in Vat. lat. 4817, f. 272r 56 TRISSINO, Scritti linguistici cit., p. 116. 57 UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., pp. 94-96. 58 DEBENEDETTI, Intorno ad alcune postille cit., p. 194. In precedenza RAJNA, Dante

Alighieri, Il trattato cit., p. XXXV, nt. 5. 59 C. PULSONI, Petrarca e la codificazione del genere sestina, in La sestina, numero monografico di Anticomoderno 2 (1996), pp. 55-65. 60 Devo queste indicazioni a Italo Pantani, che qui ringrazio.

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(«Nota la sextina d’arnaldo ha un verso octonario come chiave et si serve delli equivoci. Come è dir arma arme et anima»), in Vat. lat. 3217, f. 315r, nella lista dei componimenti di Dante («sextina Al poco giorno»; «sextina dopia Amor tu vedi ben che questa donna», a lato del già richiamato frammento del Dve: «Arnaldus.143. /sextine»), ecc. Ancora più evidente il caso di Bembo che in Prose II, 12 scrive un vero e proprio elogio di questo genere metrico: Di queste tre guise adunque di rime, e di tutte quelle rime che in queste guise sono comprese, che possono senza fallo esser molte, più grave suono rendono quelle rime che sono tra sé più lontane; più piacevole quell’altre che più vicine sono. Lontane chiamo quelle rime che di lungo spatio si rispondono, altre rime tra esse et altri versi traposti havendo; vicine, allo ’ncontro, quell’altre che pochi versi d’altre rime hanno tra esse; più vicine anchora, quando esse non ve n’hanno niuno, ma finiscono in una medesima rima due versi; vicinissime poscia quell’altre, che in due versi rotti finiscono; e tanto più vicine anchora et quelle et queste, quanto esse in più versi interi et in più rotti finiscono, senza tramissione d’altra rima. Quantunque, non contenti de’ versi rotti, gli antichi huomini etiandio ne’ mezzi versi le trametteano, et alle volte più d’una ne traponevano in un verso. Ritorno a dirvi che più grave suono rendono le rime più lontane. Perché gravissimo suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente per li sei versi primieri, poi quando per alcun meno et quando per alcun più, ordinatissimamente la legge et la natura della canzone variandonegli. Senza che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicatione delle rime in altre voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità, perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si toccano nella fine dell’una et incominciamento dell’altra, la rima fosse vicina in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave; in quanto il riposo che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all’altra si passi, framette tra la continuata rima alquanto spatio, et men vicina ne la fa essere, che se ella in una stanza medesima si continuasse. Rendono adunque, come io dissi, le più lontane rime il suono e l’armonia più grave, posto nondimeno tuttavolta che convenevole tempo alla repetizione delle rime si dia61.

61 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 29r. Non presenta differenze, se non qualche modifica a livello stilistico, Vat. lat. 3210, ff. 60v-62r. L’aspetto più saliente riguarda la sostituzione di «soave» con «grave» nell’ultima frase citata («le più lontane rime il suono e

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Suggello finale a quanto aveva detto in precedenza nel già citato passo di Prose I, 9 e infine in II, 11: I, 9 Senza che molte cose, come io dissi, hanno i suoi poeti prese da quelli, sì come sogliono far sempre i discepoli da’ loro maestri, che possono essere di ciò che io dico argomento, tra le quali sono primieramente molte maniere di canzoni, che hanno i Fiorentini, dalla Provenza pigliandole, recate in Thoscana: sì come si può dire delle sestine, delle quali mostra che fosse il ritrovatore Arnaldo Daniello, che una ne fe’, et non più 62.

II, 11 Sono medesimamente regolate le sestine, ingenioso ritrovamento de’ provenzali compositori63.

Del resto non poteva essere altrimenti visto che lo stesso Bembo si era cimentato in gioventù (forse già prima del 150064) nella composizione di due sestine, di cui una doppia, I più soavi e riposati giorni, contenuta nel I libro degli Asolani65, e una seconda «antitetica o piuttosto complementare»66 alla precedente, Or che non s’odon per le fronde i venti, nelle Rime67. l’armonia più grave»), modifica che contribuisce ad amplificare ulteriormente il concetto di «gravità» espresso da Bembo. 62 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., ff. 7v-8r. 63 BEMBO, Prose della volgar lingua cit., f. 28r. Non presenta variazioni il passo in Vat. lat. 3210, f. 60r. 64 Cfr. C. VELA, Il primo canzoniere del Bembo (ms. Marc. It. IX. 143), in Studi di filologia italiana 46 (1988), pp. 163-251. 65 Pur non essendo attestato negli Asolani il termine «sestina», pare significativo che poco prima della comparsa di I più soavi e riposati giorni, Bembo usi già nella prima redazione dell’opera (P. BEMBO, Gli Asolani, ed. critica a cura di G. DILEMMI, Firenze 1991, p. 47) il termine gravezza: «Allora ci lamentiamo noi d’Amore, allora ci rammarichiamo di noi stessi, allora c’incresce il vivere: sì come io vi posso col mio misero essempio in queste rime far vedere. Le quali se per aventura più lunghe vi parranno dell’usato, fie per questo che hanno avuto rispetto alla gravezza de’ miei mali, la quale in pochi versi non parve loro che potesse capere. I più soavi e riposati giorni…». Gravezza ma soprattutto gravità diverrà in seguito, come si è visto grazie ai passi citati, uno dei termini chiave delle Prose (cfr. R. CASAPULLO, I termini della critica e della retorica nel II libro delle Prose, in Le Prose della volgar lingua. Convegno cit., pp. 391-408, pp. 404-05), in relazione proprio alla sestina. Si aggiunga inoltre che il passo degli Asolani che precede il componimento è una sorta di parafrasi ampliata di Rvf 332, 39: «et doppiando ’l dolor, doppia lo stile / che trae del cor sì lagrimose rime». 66 G. GORNI, Pietro Bembo, Rime, in Poeti del Cinquecento, a cura di G. GORNI, M. DANZI, S. LONGHI, Milano 1987, p. 69. Cfr. anche T. ZANATO, Indagine sulle Rime di Pietro Bembo, in Studi di filologia italiana 60 (2002), pp. 141-216, p. 154. 67 Sulla disposizione assegnata alle sestine nelle edizioni a stampa antiche, cfr. S. ALBONICO, Come leggere le «Rime» di Pietro Bembo, in Filologia italiana 1 (2004), pp. 161-82.

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La sestina rappresenta insomma uno dei principali punti d’incontro fra Provenza ed Italia: nata dal genio creativo di Arnaut Daniel e divenuta forma fissa a prescindere dalla volontà del suo autore68, ha acquisito autonomia rispetto alla canzone solo con Petrarca69, ed infine solo coi poeti petrarchisti, nonché coi filologi provenzali del Cinquecento70, è stata definitivamente designata, e non solo in Italia71, col nome che ancora oggi conserva.

68 P. CANETTIERI, Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Roma 1996, pp. 45-77. 69 PULSONI, Petrarca e la codificazione cit., p. 65. 70 Senz’altro da rilevare è anche l’attenzione con cui Bembo individua contraffazioni della sestina arnaldiana nei suoi codici provenzali: così a margine di En tal dezir mos cors intra di Bertholomei Çorzi (K, f. 83r) annota «“Tolta da Arnaldo Daniello. 51.3”, con rinvio allo stesso ms., ove riferendosi alla sestina d’Arnaldo nota: “Quaere 84.1”» (DEBENEDETTI, Gli studi provenzali cit., p. 185). 71 Per quanto riguarda la Francia si veda per esempio quanto scrive T. SEBILLET, Art Poétique François (Paris 1548), éd. critique par F. GAIFFE, nouvelle éd. mise à jour par F. GOYET, Paris 19883, pp. 193-4: «Sestines de Petrarque: Petrarque devant luy en avoit fait, comme tu pourras voir aus sizains dés neuf Sestines de sa prèmiere et seconde partie: mais avec autre analogie. Car, si tu y avises, les derniers mots de chaque vers répétéz proportionnéement au long dés sizains donnent modulation téle, qu’elle peut aiséement supplir la ryme defaillante au sizaine. Si tu veus faire dés vers non ryméz, et t’aider de l’exemple de Pétrarque, fay les en Sestines comme luy»; attestazione tanto più significativa visto che nello stesso anno Vaisquin de Philieul nella sua traduzione parziale del Canzoniere intitolata Laure d’Avignone (Paris, Jacques Gazeau, 1548), continua a denominare le sestine con un generico «Chant», pur rilevando la difficoltà insita nella loro composizione: «Icy monstre quelles sont ses amoureuses passions, et c’est un chant sans rithme, mais plus difficile à composer que toutes rithmes» (f. 17v). Si aggiunga però che nell’edizione Il Petrarca, Lione, Giovan di Tournes, 1545, Rvf 22 è preceduta dalla rubrica «Sest. I». Le altre sestine dal numero romano progressivo preceduto spesso da “s” puntata. Infine a p. 302 nella classificazione delle forme metriche presenti nella raccolta appare: «Sestine in tutto IX». Per la Spagna le attestazioni sono più antiche e risalgono al Cancionero General recopilado por Hernando del Castillo (Valencia 1511), dove il componimento La muerte que tira con tiros de piedra di Trillas e Crespí è preceduto dalla seguente rubrica: «Otra obra suya y de Trillas llamada sestí plañendo la muerte de la reyna doña Ysabel reyna d’España y de las dos Cecilias» (f. 198r). Dopo questa precoce comparsa del termine, in una forma peraltro che non sembra lasciar traccia in seguito (sestí), si hanno numerose occorrenze del lemma nei trattati di poetica di autori successivi, come J. Díaz de Rengifo, J. De la Cueva, M. Sanchez de Lima, ecc. (cfr. E. SCOLES, C. PULSONI, P. CANETTIERI, Tra teoria e prassi: innovazioni strutturali della sestina nella penisola iberica, in Il confronto letterario 12 (1995), pp. 345-88; in precedenza J. RIESZ, Die Sestine. Ihre Stellung in der literaturischen Kritik und ihre Geschichte als lyrisches Genus, München 1971, pp. 17-8).

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IL SERAFINO DI ANGELO COLOCCI Il 1503 è per Angelo Colocci un anno di intensa attività editoriale. Il 3 febbraio escono a Roma presso Giovanni Besicken i Sonecti, barzelle et capitoli di Benedetto da Cingoli, scomparso nel 14951. Il fratello del poeta, Gabriele, dedica l’edizione al Colocci, come si desume dal titolo della prefazione («Gabriel Cingulus Angelo Colotio umbro») e, ancor più esplicitamente, da un passo della medesima: (…) ho voluto alcune sue giovenili fatiche nella materna lingua elucubrate insieme ricorre, et al tuo nome felicemente inscriverle e dedicare, persuadendomi farte opera gratissima e di te degna: non possendo io più peregrini doni che del tuo e nostro paese mandarti, né più soavi canti che avessino a pascere le tue benigne orecchie, da longhe e gravi curiali molestie fastidite 2.

Oltre che dedicatario delle rime di Benedetto, il Colocci è presente nel volume con un testo in morte, la canzone Chi mai fonte sì largo, redatta sullo schema della canzone petrarchesca Se ’l pensier che mi strugge (RVF 125, abCabCcdeeDff-Abb)3; oltre a ciò, un suo coinvolgimento in veste di curatore è ritenuto probabile da Augusto Campana, che rinvia a una testimonianza di Pier Francesco Giustolo4. Il 5 ottobre dello stesso anno appaiono, sempre presso il Besicken, le Opere dello elegante poeta Seraphino Aquilano finite et emendate con la loro apologia et vita desso poeta: l’intervento del Colocci è qui di grande rilevanza, come si dirà fra poco. Infine, il 12 dicembre vedono la luce gli Opuscula di Elisio Calenzio, che il figlio dell’autore, Lucio, dedica al Colocci, promotore dell’edizione, come si evince dalle parole che concludono la prefazione («Elisii Calentii 1 Cfr. la voce Benedetto da Cingoli, a cura di E. MALATO, in Dizionario biografico degli Italiani (d’ora in poi DBI), VIII, Roma 1966, pp. 429-30. 2 Sonecti, barzelle et capitoli del claro poeta B. Cingulo, Roma, G. Besicken, 3 febbra-

io1503., f. A1v. 3 Il testo è ibid., ff. H1r-2v e cfr. Poesie italiane, e latine di Monsignor Angelo Colocci…, a cura di G. LANCELLOTTI, Jesi 1772, pp. 4-6. 4 A. CAMPANA, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del

Convegno di studi su Angelo Colocci. (Jesi, 13-14 settembre 1969. Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 257-72, p. 262.

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opuscula non nisi auctore Colotio produnt in lucem»)5. Anche questo volume reca versi di Angelo, questa volta latini: un epigramma sulle Elegiae del Calenzio, un altro (diretto al Tebaldeo) sul Croacus libellus6, opera pure contenuta negli Opuscula. Le tre edizioni uscirono presso Giovanni Besicken, stampatore con cui il Colocci doveva intrattenere uno stretto rapporto di collaborazione, avviato già in precedenza. Infatti l’edizione delle rime dello Staccoli (Sonecti et canzone de miser Augustino da Urbino), assegnata dai repertori a Giovanni Besicken e Martino da Amsterdam e datata «circa 1500», è dedicata da Bartolomeo Pattolo ad Angelo Colocci: Per tanto, essendomi ora pervenute nella mano per diverse vie alcune opere non di piccola stima dello excellente poeta Augustino da Urbino tuo collega (…) deliberai adunque, per non essere io de negligentia et impietà redarguito, trovandomi ora comodità, di metterle insieme e mandarle in luce; e cercando loco dove più secure collocarle potesse, tu precipuamente me venesti nello animo, che essendo stato sempre da’ teneri anni ornamento delli amatori delle bone arte così volgari come latine, conveniente cosa mi pareva al tuo felice nome doversi dedicare7.

È probabile che il Colocci, come è stato ipotizzato8, abbia avuto una parte nella pubblicazione di questo libro. In veste di curatore di testi egli fu attivo anche in anni precedenti e successivi: a lui si devono infatti le edizioni delle opere latine di Pacifico Massimi (Fano, Girolamo Soncino, 1506) e Pier Francesco Giustolo (Roma, Giacomo Mazzocchi, 1510), cui si affianca il poemetto Bombyx di Lodovico Lazzarelli (Roma, Eucario Silber, s.a., circa 1498?), apparso a stampa con il patrocinio del giovane Colocci9. In nessuna delle edizioni sopra ricordate egli lasciò una traccia così importante come nel volume serafiniano: basti dire che a esso è affidato 5 Opuscula Elisii Calentii Poetae Clarissimi, Roma, G. Besicken, 12 dicembre 1503, f.

A1v. 6 Ibid., f. c5r (Sumpserat Elisius calamum scripturus Amoris, Si quando Aonii cunabula

prima Calenti); una trascrizione moderna dei due epigrammi è proposta, con osservazioni, in ELISII CALENTII, Poemata, a cura di M. DE NICHILO, Bari 1981, p. 84. 7 Sonecti et canzone de misser Augustino da Urbino, s.n.t. [Roma, G. Besicken, ca. 1500],

ff. IIIv-IVr. 8 Cfr. CAMPANA, Angelo Colocci cit., p. 262, nonché la voce (non firmata) Colocci, Angelo, in DBI, XXVII, Roma 1982, pp. 105-111, p. 110. 9 Cfr. CAMPANA, Angelo Colocci cit., pp. 264-71 e ID., Dal Calmeta al Colocci. Testo nuovo

di un epicedio di P. F. Giustolo, in Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, a cura di G. BERNARDONI TREZZINI et alii, I-II, Padova 1974, I, pp. 267-315, passim.

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l’unico scritto critico colocciano a stampa, l’Apologia di Angelo Colotio nell’opere de Seraphino. Le rime dell’Aquilano erano state raccolte dopo la morte del poeta (avvenuta il 10 agosto 1500) da Francesco Flavio e pubblicate a Roma dal Besicken il 29 novembre 1502 (AqB1). Alla princeps seguì, a distanza di un mese, un’edizione veneta stampata da Manfredo Bonelli (24.XII.1502); altre edizioni apparvero l’anno successivo a Bologna (Girolamo Ruggeri, 10.II.1503), Milano (Pietro Martire Mantegazzi — Giovanni Giacomo e fratelli Da Legnano, 24.IV.1503), Bologna (Caligula Bazalieri, 30.V.1503: AqBz10) e Venezia (Manfredo Bonelli, 30.VIII. 1503). A quest’altezza cronologica si colloca l’edizione del Colocci (AqB2), di cui si forniscono gli estremi: OPERE DELLO ELEGANTE POETA / SERAPHINO AQVILANO / FINITE ET EMENDATE CON LA / LORO APOLOGIA ET VITA DES-/SO POETA. [f. f2v]: Impresso in Roma per maestro Ioanni de / Besicken. nel anno dala incarnatione del nostro / Segnore .M.CCCCCIII. a di .V. di Octobre. 4o, ff. 148 segn. A-K8, L-M6, a-b6, c-e8, f10, a10. [Esemplari noti: University Park, Pennsylvania — Pennsylvania State Libraries, PQ4619.C5.1503 (Rare Books, Italian Collection); Firenze, Biblioteca Riccardiana, ER 268 (es. incompleto)]11.

L’edizione ospita 99 sonetti, 6 epistole, 11 capitoli, 3 egloghe, 13 barzellette (3 aggiunte) e 250 strambotti (39 aggiunti, dei quali 19 già figurano nell’edizione AqBz; 4 strambotti sono stampati due volte), per un totale di 382 componimenti (effettivi 377). Le carte iniziali sono occupate dall’Apologia di Angelo Colotio nell’opere de Seraphino (ff. A2r-8r), quelle conclusive dalla Vita del facundo poeta vulgare Seraphino Aquilano per Vincentio Calmeta composta (ff. a1r-10r)12. Ai ff. f3r-9v si trova la tavola 10 Opere del facundissimo Seraphi(n)o Aq(ui)lano collette per Francesco Flavio. E per Caligula Bazalero aggiu(n)to qua(n)to e la terza parte de le altre i(m)pressio(n)i…, Bologna, C. Bazalieri, 30 maggio 1503. 11 Bibliografia in Le rime di Serafino de’ Ciminelli dall’Aquila, a cura di M. MENGHINI, I, Bologna 1896 (sul front. 1894), pp. LXVIII-LXXIV; SERAFINO AQUILANO, Strambotti, a cura di A. ROSSI, Milano — Parma 2002, pp. 354-56 e ID., Sonetti e altre rime, a cura di A. ROSSI, Roma 2005, pp. 470-71. La copia un tempo posseduta dalla Sächsische Landesbibliothek di Dresda è andata persa durante la Seconda guerra mondiale. 12 La presenza della Vita, segnalata nel Settecento in Biblioteca dell’eloquenza italiana di Monsignore Giusto Fontanini Arcivescovo d’Ancira con le annotazioni del signor Apostolo Zeno..., I-II, Venezia 1753, I, pp. 429-30 e da F. S. QUADRIO, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, II. 1, Milano 1741, p. 215, è sfuggita ai suoi editori moderni, Menghini (Le rime di Serafino de’ Ciminelli cit., pp. 1-15) e Grayson (V. CALMETA, Prose e lettere edite e inedite [con due appendici di altri inediti], a cura di C. GRAYSON, Bologna 1959, pp. 60-77), che pubblica-

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alfabetica delle rime, seguita (ff. f9v-10r) dall’errata («Errores presentis operis»). Si segnala che i due esemplari superstiti non sono identici. Nella copia riccardiana risultano sanati alcuni errori presenti nell’altra (a f. G7r fraudulento sostituisce frandulento, a f. b3r dolor corregge dodor, a f. b4v ai colpi subentra a ai colpo); all’opposto, l’esemplare statunitense si dimostra ricettivo nei confronti di alcuni errori segnalati nell’errata (vengono così corretti nell’Apologia a f. A3v exolica in explica e nei sonetti a f. D3v se è in se o = ‘se ho’). Una prima domanda che occorre porsi è come abbia lavorato il Colocci sul piano filologico. Si può intanto affermare che l’edizione deriva, per i 323 testi comuni, dall’editio princeps curata da Francesco Flavio (il cui nome viene singolarmente taciuto). Il Colocci corregge parecchi errori, mantenendone però altri (fra di essi una lacuna della seconda terzina del sonetto Ciascun vòl pur saper che cosa è quella); numerosi i guasti propri (una quarantina nei soli strambotti). Per l’edizione di questi testi l’umanista di Jesi si è dunque largamente avvalso del lavoro compiuto dal Flavio. A parzialissima esemplificazione di ciò si veda lo strambotto di apertura nelle due redazioni (trascrizione diplomatica): edizione Flavio Voi chascoltate mie iuste querele Deh? mouaui pieta de la mia sorte. Che a seguitar costei drizzai le uele Per tucto ognhor merce gridãdo forte La qual per ben amar mi rende fele Et per seruirla mi conduce a morte. Tal che pre amar un cor dalpestri sassi Perdo el tempo: el seruir: la uoce: e i passi.

edizione Colocci Voi chascoltate mie giuste querele Deh? uincaui pieta de la mia sorte. Che a seguitar costei drizzai le uele Per tucto ognhor merce gridando forte. Laqual per ben amar mi rende fele Et per seruir la mi conduce a morte. Tal che pre amar un cor dalpestri sassi Perdo el tempo: el seruir: la uoce: e i passi.

Come si può notare, il testo fornito dal Colocci coincide largamente con quello della princeps (anche nell’interpunzione: cfr. i vv. 2 e 8). La sola differenza di rilievo si ha al v. 2, dove movavi diviene vincavi (lezione pure testimoniata nella tradizione manoscritta)13; inoltre al v. 1 giuste sostituisce la forma latineggiante iuste (cfr. infra).

rono il documento sulla base della seconda redazione, apparsa nelle Collettanee Grece Latine e Vulgari per diuersi Auctori Moderni nella Morte de lardente Seraphino Aquilano Per Gioanne Philotheo Achillino Bolognese in uno corpo Redutte. Et alla Diua Helisabetta Feltria da Gonzaga Duchessa di Vrbino dicate, Bologna, C. Bazalieri, 1504. Cfr. sulla questione SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. 288-89 e 298-310 (con edizione della Vita). 13 Cfr. l’Apparato critico in SERAFINO AQUILANO, Strambott cit., p. 450.

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Quanto alle rime aggiunte, la maggior parte di esse figurano in fonti anteriori: Urb. lat. 729 (di seguito Ul729), Firenze, Bibl. Naz., cod. II.X.54 (di seguito FN II.X.54) e Palatino 219 (di seguito Palat219) fra i manoscritti, Amaestramento14, AqBz, AqMis15, Giustinian150016 fra le stampe. Con queste fonti non si delineano tuttavia dei sicuri rapporti diretti, tranne che con Amaestramento17. Occorre avvertire che il Colocci non pubblica tutti i testi di Serafino trasmessi dalle fonti dell’ultimo Quattrocento: decine di strambotti rimangono esclusi dalla sua silloge, pur essendo testimoniati in codici quali Ul729 e FN II.X.54. L’ordinamento dei componimenti differisce da quello della princeps: questa è aperta dagli strambotti, seguiti da sonetti, barzellette, egloghe, epistole e capitoli; mentre l’edizione Colocci, ad immagine di quanto accade nella stampa veneta del 1502, è inaugurata dai sonetti, cui seguono epistole e capitoli, egloghe, barzellette e strambotti18. All’interno di ciascun gruppo di rime si registrano alcune variazioni; si ha però l’impressione di trovarsi dinanzi a un’opera di rimescolamento, piuttosto che a una disposizione provvista di originalità e coerenza. Fra le novità introdotte figurano le rubriche che si affiancano ai testi, preziose in quanto forniscono notizie sui dedicatari e sull’occasione che ha dato origine al componimento. Sul piano attributivo AqB2, alla stregua della princeps, subisce un ridotto numero di smentite. Per i 323 testi che l’edizione condivide con la silloge del Flavio valgono i rilievi fatti per quest’ultima19; la paternità serafiniana dei testi aggiunti viene posta in dubbio nel caso dello strambotto Credi raquistar mai la libertà (f. a3v), assegnato ad «Abbatis» in Ul729 (f. 1v), e del sonetto So che gran miraviglia al cor ti prese (f. B2r), dato al Tebaldeo dal codice 1242 della Biblioteca Universitaria di Bologna, che solleva però perplessità, essendo in esso ascritti al Quercente 14 Amaestramento e sententie de Salamone..., s.n.t. (Roma, Biblioteca Casanatense, Inc.

1850). 15 Soneti del Seraphin, Brescia, B. Misinta, s.d. 16 Queste Sono le Canzonette et stramboti damore composte per el Magnifico miser Leo-

nardo Justiniano di Venetia, Venezia, Sessa, 14 aprile 1500. 17 Discendono da Amaestramento gli strambotti nn. 198-200 e 216 (in SERAFINO AQUILANO,

Strambotti cit.), nonché i sonetti 95-96, Quando sento sonar tu tu tu tu e Hau, hau, hau, parlar non so (SERAFINO AQUILANO, Sonetti e altre rime cit.). Cinque strambotti, tre sonetti e tre barzellette non figurano in fonti precedenti. 18 Nella stampa veneta del 24 dicembre 1502 (Manfredo Bonelli) l’ordinamento è il se-

guente: sonetti, egloghe, epistole, capitoli, strambotti, barzellette. 19 Si rinvia per questo argomento a SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. 415-20, 426 sgg. e ID., Sonetti e altre rime cit., in particolare pp. 501-2.

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più testi che sicuramente spettano al Tebaldeo20. Viene inoltre espunto tramite l’errata il sonetto Quel fier Vitel che venne, vide e vense (ff. E1v2r), con la dicitura «questo sonecto è de messer Angelo Colotio posto per errore». La veste linguistica di AqB2 21 coincide in buona misura con quella di AqB1 22 (dove spicca l’assenza di una vera e propria connotazione regionalistica, mentre marcatissimo è l’influsso del latino)23; tuttavia, si riconosce in essa una più decisa spinta verso l’esito toscano. Ad esempio, si registrano negli strambotti24 passaggi quali iuste → giuste 1 (cfr. supra), conmosse → commosse 2, retorno → ritorno 7, soi → suoi 11, ogne → ogni 13 e altrove, se humilie → se humili 13, lege:correge → legge:corregge 17, deritto → diritto 20, ionga → gionga 21, soe → sue 24, de → di 26, serrò → sarò 27, distino → destino 36, acurri → accorri 40, iace → giace 45, socto → sotto 473, e così via. Si danno però anche casi inversi: forme della princeps quali selve 2, leggiadri 12, mezzo 21, degno 25, tutta 32 e tutti 33 divengono in AqB2 sylve, legiadri, mezo, digno, tucta e tucti. Per inciso si può osservare che nell’Apologia lo stesso Colocci si mostra restio ad accogliere forme regionalmente connotate, che invece si incontrano, all’interno della stessa edizione besickeniana, nella Vita del Calmeta25. L’intervento filologico del Colocci sulle rime dell’Aquilano è dunque consistente, ma non ha il carattere dell’eccezionalità; eccezionale per contro si deve ritenere l’interpretazione critica delle rime serafiniane che il Colocci ha affidato all’Apologia. L’Apologia è dedicata a Silvio Todeschini Piccolomini in occasione dell’elevazione a pontefice dello zio Francesco (Pio III), succeduto ad Alessandro VI il 22 settembre 1503 e scomparso il 18 ottobre dello stesso anno; si tratta, come detto, dell’unico contributo critico del Colocci pervenuto a stampa. Ciò che soprattutto colpisce il lettore è il metodo applicato dal Colocci: un metodo critico a tutto campo del quale invano si cercherebbe un equivalente nella produzione di quegli anni. Della metodologia colocciana mi sembra utile offrire un compendio, evidenziando 20 Cfr. T. BASILE, Per il testo critico delle rime del Tebaldeo, Messina 1983, pp. 73-74 e A. TEBALDEO, Rime, a cura di T. BASILE, J.-J. MARCHAND, I-III, Modena 1989-92, I, pp. 34-35. 21 Opere dello elegante poeta Seraphino Aquilano finite et emendate con la loro apologia et

vita desso poeta, Roma, G. Besicken, 5 dicembre 1503. 22 Opere del facundissimo Seraphino Aquilano collecte per Francesco Flavio, Roma, G. Besicken, 29 novembre 1502. 23 Sulla lingua della princeps cfr. SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. 446-47. 24 Si assume, qui e più avanti, la numerazione adottata ibid. 25 Cfr. Ibid., pp. 288-89.

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direttamente attraverso citazioni i punti che l’umanista jesino sviluppa entro gli schemi propri del genere “apologia” (accuse degli avversari, confutazione tramite argomentazione ed esemplificazione). E x p u r g a t i o , cioè correzione e sistemazione dei testi destinati alla pubblicazione: Aggiongevasi ad questo che le fatiche de questo elegante poeta erano variamente da gl’invidi lacerate, alli quali el tacer saria stato non disdicevole resposta; ma per monstrarli che la virtù non solo per sé stessa se difende, ma facilmente trova defensore, d’alcune cose che più l’imputano, quanto in me sia possibile con brevitate expurgarle ho preso incarco (…) 26.

P r o b l e m i d i s e l e z i o n e e o r d i n a m e n t o d e l l e r i m e . Il Colocci si trova alle prese con un’opera poetica frammentaria, fatto di cui dimostra di essere ben consapevole: Né bisogna redarguirlo ne l’ordine de’ suo volumi, attento ch’a diverse dignissime persone per accidenti varii componeva. E questo affirmaremo, el Seraphino aver auto in animo (se stato li fusse concesso) far altra electione delle sue scede [‘abbozzi’] e parte, che con tumultuario impito furon facte, quasi abortivo parto refutarle, e ’l remanente redurre ad qualche sua pensata dispositione27.

M o d a l i t à d i c o m p o s i z i o n e . È luogo comune assai diffuso che Serafino improvvisasse i suoi versi. Non si può escludere che qualche volta l’abbia fatto; tuttavia, afferma il Colocci: Non componeva improviso, ancor che fusse di celere ingegno, dicendo che una sùbita extemporalità raro era sequita o da prosperitate o da laude 28.

L e f o n t i d i S e r a f i n o . L’individuazione delle fonti utilizzate dall’Aquilano occupa ampio spazio nella lettura del Colocci, che indica numerosi autori nei confronti dei quali il Ciminelli è debitore, spesso citando il componimento che di quell’autore reca traccia. – autori greci

26 Apologia di Angelo Colotio nell’opere de Seraphino al magnifico Sylvio Piccolomini S. e benefactore, in SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. 290-97, p. 290. 27 Ibid., p. 291. 28 Ibid., p. 292.

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Platone (bacio)29 – autori latini e neolatini Virgilio (cera, fango)30, Ovidio (ombra che segue l’uomo)31, Marziale (ritratto)32, Ausonio (epitaffio per Beatrice)33, Plinio (fulmine)34, Marullo35. – autori italiani Il Colocci menziona nell’ordine Dante (verme che ordisce la seta)36, Petrarca (per più casi)37, Cecco d’Ascoli (L’Acerba)38, Leon Battista Alberti (specchio mandato in frantumi)39, Lorenzo il Magnifico, Poliziano, Cornazano, Quarqualio, Tommaso Rosello, Sannazaro, Benedetto da Cingoli e Tebaldeo. I legami fra quest’ultimo autore e Serafino vengono in particolar modo sottolineati: Soggiungono questi tali nelle argutie aver imitato el Thebaldeo, di doctrina e d’ingegno singular poeta e suo negli anni equale: e noi provaremo aver imitato uno ch’al paragon di quella delli antiqui sol fa che la età nostra opponervi si possa40.

Ciò che gli avversari di Serafino chiamano «furto» rientra per il Colocci nell’antica e consueta prassi di ripresa e rielaborazione di testi altrui: Ad queste cotali obiectioni referiremo solo quel dicto di Afranio, scriptor delle Togate, che ad alcuni che pur similmente l’imputavano aver pigliato da Menandro comico più e diverse cose: “Confesso — respose — aver preso senza timor de vergogna non pur da Menandro, ma ancora da tucti greci e latini 29 Cfr. str. 128 (in SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit.). 30 Cfr. str. 148 (ibid.). 31 Cfr. str. 158 (ibid.). 32 Cfr. sonn. 15-18 (in SERAFINO AQUILANO, Sonetti e altre rime cit.). 33 Cfr. son. 87 (ibid.). 34 Cfr. son. 91 (ibid.). 35 Cfr. son. 46 (ibid.). 36 Cfr. str. 198 (in SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit.). 37 Cfr. il commento agli Strambotti, passim. 38 Il riferimento è forse ai sonn. 47 e 59 (in SERAFINO AQUILANO, Sonetti e altre rime cit.). 39 Cfr. str. 109 (in SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit.). 40 Apologia di Angelo Colotio cit., p. 291.

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che cose abbino ch’al mio proposito sia expediente, o che da me meglio explicar non si possa”; sì che mi persuado che tale exempio ne sia bastante ad excusare i fiori coi quali el nostro Seraphino da giardini diversi ha facta la sua ghirlanda, sì come anche Vergilio et altri infiniti scriptori non dai racemi d’un solo poeta hanno facta la loro vendemia copiosa 41.

T e c n i c h e , s t i l e . Il Colocci mostra un cospicuo interesse per la fisionomia stilistica della lirica di Serafino, della quale egli indica con esattezza alcune caratteristiche. In particolare: – esclamazioni: Lo imputano apresso a questo delle spesse exclamationi, e noi lo scusaremo, ché se conviene al cytharedo, al musico e alla persona che lui sosteneva42.

– concisione (brevitas), legge dell’epigramma: Vien l’altra schiera de stolidi, che vogliano sia stato arido e de brevitate extrema nella textura de gli suoi strambocti. Refutarassi questo con la legge dello epigramma (essendo stato non meno lepido che breve), negli quali quanto abbia facto proficto chiaro si poterà comprendere 43.

– metafora: Altri desideraria più sobrietà nelle metaphore, facendolo in quelle audace e che alle volte molto resta in una translatione, come del mare in quel capitulo del sole, ove del m(agnifico) Francesco di Gonzaga le laude si contengano44.

– iperbole: Vien poi chi allo excesso del modo delle yperbole fanno instantia de impugnarlo, e lui con grande industria inpugnando dice aver dato opera a l’alterar degli animi, al che fare optimo instrumento era la yperbole, e maxime ad uno amante esser conveniente 45.

– ipotiposi: 41 Ibid., p. 295. 42 Ibid., p. 291. 43 Ibid., pp. 291-92. 44 Ibid., p. 292; cfr. il cap. 8 in SERAFINO AQUILANO, Strambotti e altre rime cit. 45 Apologia di Angelo Colotio cit., p. 294.

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(…) con quella sua hypotyposis che non solo le cose te descrive, ma inanzi a gli occhi te si presentano e di men certe ti fa apparer vere 46.

– ripetizione di moduli: «mai» Usa sovente el Seraphino quella dictione «mai»: ne vogliono questi tali che in quel «mai» vi sia implicita la negativa, el che non ha observato el m(agnifico) Lorenzo né Politiano né Pulci, né infiniti altri moderni dicitori, perché essendo ben posta e chiaramente intesa, è stata recevuta dal comun uso47.

«che» Il Colocci mette in relazione il frequente uso da parte di Serafino della congiunzione che con l’esigenza di meglio assecondare l’esecuzione canora del brano: Et advenga fusse facile troppo nelle structure, non per questo era da dannarlo, ché gli adveniva solo per non fare el verso interropto, onde assai volte trovarete nei prencipii de’ suo versi questa diction «Che», per ciò che la clausula sempre nel superior verso era finita, e questo al suo cantare era più commodo48.

– rima siciliana: E non manca una secta di puerili ingegni, che solo alle syllabe intendano, con dir che queste due vocali u e o in confuso dal Seraphin sian state usate, come in quello «chi l’alma sua col cor franco vi duna» pro «dona», e quello «fa che l’error d’amor per tucto el mustri» pro «mostri», e nelle egloghe «ove non posi appunere» per «apponere», et altri simili, né sanno con la loro infantia che per la vicinità del suono indifferentemente da’ poeti nel vulgare ydioma è stato preso49.

46 Ibid., p. 292. 47 Ibid., p. 295. 48 Ibid., p. 293. 49 Ibid., p. 296.

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A documentazione dell’uso della rima siciliana l’estensore dell’Apologia riporta parzialmente la ballata del Cavalcanti Era in penser d’amor quand’i’ trovai, da lui «novamente retrovata»50. – anacronie narrative Il Colocci si dimostra attento alle discordanze fra l’ordine della storia e quello del racconto (analessi, prolessi)51, indicando tali anacronie con il termine preposterare (‘invertire, sovvertire un ordine logico’)52. Significativo al proposito è il passo relativo al capitolo in morte di Ferdinando I d’Aragona: Per che in quel del re Ferrando per accadervi i consigli delle cose era copioso, e trovaravvi sì grande artificio del preposterare l’ordine dell’ystoria regia, imperò che tucte le cose al signor re occursero depoi, con mirabile dextrezza son da lui narrate imprima, in modo che l’arte quasi da pochi è conosciuta53.

L a l i n g u a d i S e r a f i n o 54. Non sono stati a tutt’oggi reperiti autografi di Serafino, o manoscritti con certezza compilati sotto la sua sorveglianza; in queste condizioni risulta impossibile accertare le abitudini linguistiche dell’Aquilano. Ciò che sopravvive non è dunque la lingua dell’autore, bensì delle fonti che trasmettono le sue rime, ossia, in buona misura, la lingua dei trascrittori, curatori e correttori che a vario titolo si occuparono dei suoi testi, anche se non si può escludere che nei manoscritti e nelle stampe siano rimaste tracce della lingua del Ciminelli. Considerata la mancanza di fonti in grado di condurre con sicurezza alla lingua del poeta, assumono particolare rilievo le osservazioni fatte 50 Ibid., pp. 296-97; nel testo (per cui cfr. G. CAVALCANTI, Rime. Con le rime di Iacopo Cavalcanti, a cura di D. DE ROBERTIS, Torino 1986, XXXa) 4 noi è in rima fra l’altro con 12 fui, 20 costui e 44 lui. 51 Cfr. per queste nozioni G. GENETTE, Figures III, Paris 1972 (trad. it. Torino 1976)., p. 78 sgg. 52 Sull’originalità terminologica dell’Apologia (structure, verso interropto, clausula, ecc.)

ha richiamato l’attenzione A. GRECO, L’apologia delle “Rime” di Serafino Aquilano di Angelo Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 205-19, pp. 211-12. 53 Apologia di Angelo Colotio cit., p. 292; si tratta del capitolo Provato avea con ogne

studio et arte (cap. 9 in SERAFINO AQUILANO, Sonetti e altre rime cit.), composto in morte di Ferdinando I d’Aragona, che regnò a Napoli dal 1458 al 1494. 54 Si riprendono qui alcune osservazioni proposte in G. LA FACE BIANCONI, A. ROSSI, Le

rime di Serafino Aquilano in musica, Firenze 1999, pp. 96-99; SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. XXXV-IX; ID., Sonetti e altre rime cit., pp. 22-24.

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dal Colocci nell’Apologia. Egli si sofferma una prima volta sulla lingua dell’Aquilano all’inizio del documento: (…) la prima cosa li obiectano non aver in tucto familiare la toscana lingua, come che poche rime da singular poeti sian state scripte, ch’alla materna lingua de’ toscani non l’abbino accomodate. E che non ha molto imitato F(rancesco) Petrarca né Dante Allegheri, fuor che l’uno de questi nella simplicità e l’altro nella rotondità del verso55.

Di maggiore ampiezza una seconda annotazione, collocata nella parte conclusiva: Ma pongasi da un lato l’auctorità de’ toscani, e dicamo ch’egli abbi usato el suo materno ydioma, che ben era iusto che in tante carte da lui vergate e scripte qualche segno della sua propria ve rimanesse. E lassamo star che Dante, secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vernacula lingua, e pur nell’alta Comedia più tosto dicer volse la nostra «pica» che la sua «ghiandaia» et altri nostri vocabuli infiniti, in ciò scusandolo se alle volte non è stato verecundo nella novità delli vocabuli. Benché nisuno edicto ne proibisce proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon della cuna e con lacte n’ha insegnato; senza che essendo el S(eraphino) subdito e propinquo al Regno di Napoli, non è fuor d’onestà ch’a Sicilia, matre delle rime, se sia alle volte conformato56.

Dai passi citati si apprende che a Serafino veniva rimproverato l’impiego di voci provenienti dall’idioma materno; il ricorso a esse doveva tuttavia assumere dimensioni limitate, stando alle parole del Colocci («qualche segno», «se sia alle volte conformato»), che in precedenza aveva ricordato alcuni casi di rima siciliana usati dall’autore. Sembrerebbe perciò di intuire che l’Aquilano si muovesse in una prospettiva sovraregionale. A questo proposito, sappiamo che egli aveva studiato a lungo i testi del Petrarca: se dal Canzoniere e dai Trionfi il poeta-musico abruzzese poté desumere un ampio repertorio di materiali tematici e stilistici, è da pensare che il contatto coi medesimi testi avesse pure degli effetti sul versante linguistico. L’influsso avuto da Petrarca sulla lingua degli autori quattro-cinquecenteschi, favorito a partire dagli anni Settanta dalla diffusione a stampa del Canzoniere, resta da indagare57; è co55 Apologia di Angelo Colotio cit., p. 291. 56 Ibid., p. 297. 57 Per osservazioni su questo aspetto cfr. P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La

stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991, p. 121 sgg.

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munque sorprendente constatare come il testo dei Rerum vulgarium fragmenta, al di là delle prevedibili venature locali, circolasse a stampa in un assetto linguistico largamente omogeneo, proponendosi di fatto come riferimento privilegiato per i rimatori di ciascuna regione italiana58. D’altra parte, è stata accertata l’importanza che per l’Aquilano ebbero le opere dei fiorentini Lorenzo de’ Medici, Poliziano e Pulci59. La predilezione per gli autori toscani è una componente che contraddistingue l’attività dei letterati che operavano a Roma nell’àmbito dell’accademia di Paolo Cortese, il cui ruolo di promotore del volgare è stato sottolineato da Carlo Dionisotti nell’articolo Raffaele Maffei e Paolo Cortese, dove è riprodotta una lettera scritta il 1° giugno 1498 da Gasparo Visconti all’amico Leonardo Aristeo, in cui l’autore milanese, richiesto di un giudizio sul Cortese, riconosce a questi «sopra tutto una molta affectione a la lingua toscana»60. Sul finire del Quattrocento fanno inoltre la loro apparizione a Roma il Calmeta, entrato al servizio di Cesare Borgia nel 1499, e lo stesso Colocci, attivo presso la Curia in qualità di abbreviatore61. Al nome del Calmeta, è noto, viene tradizionalmente associata la cosiddetta “teoria cortigiana della lingua”. L’opera alla quale egli affidò le sue idee è andata smarrita. Ne consegue l’impossibilità di accertare il grado di aderenza alle idee calmetiane di coloro che ne riferirono: per il Bembo una lingua scritta frutto del mescolamento delle lingue di coloro che «in Roma fanno dimora», per il Castelvetro una lingua poetica con una base fiorentina — Dante e Petrarca — da affinare attraverso l’uso della corte di Roma, anche se dei due resoconti il più plausibile sembra quello del Castelvetro62. Non dissimili le idee linguistiche del Colocci, così come emergono dall’Apologia: una lingua fondata sull’autorità degli scrittori 58 Cfr. SERAFINO AQUILANO, Strambotti cit., pp. XXXVII-VIII, nota 79. 59 Cfr. Ibid., passim. 60 C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, pp.

38-77; la lettera è alle pp. 55-56. 61 TH. FRENZ, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1471-1527), Tübingen 1986,

nt. 161. 62 Sul Calmeta e la “teoria cortigiana” cfr. P. V. MENGALDO, Vincenzo Calmeta e la teoria cortigiana, in La Rassegna della Letteratura Italiana 64 (1960), pp. 446-69; C. MARAZZINI, Le teorie, in Storia della lingua italiana, I: I luoghi della codificazione, a cura di L. SERIANNI e P. TRIFONE, Torino 1993, pp. 231-329, pp. 249-52; R. DRUSI, La lingua «cortigiana romana». Note su un aspetto della questione cinquecentesca della lingua, Venezia 1995.; C. GIOVANARDI, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma 1998 (in particolare il cap. La lingua cortigiana romana, pp. 29-74); M. G. BIANCHI, Lodovico Castelvetro e Vincenzo Calmeta. Osservazioni sul compendio dei Libri della volgar poesia, in Italia medioevale e umanistica 39 (1996), pp. 265-300 (con l’edizione del compendio della Volgar Poesia calmetiana redatto dal Castelvetro).

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toscani (in primo luogo Petrarca e Dante, ma anche Cino da Pistoia e Cavalcanti), aperta al contributo della tradizione meridionale (la Sicilia è «matre delle rime») e all’apporto proveniente all’autore dalla propria lingua madre. Dopo la sua edizione il Colocci sembra disinteressarsi di Serafino, sul piano critico così come su quello editoriale63. Oltre a ciò, una sostanziale presa di distanza egli mostra nei confronti di quella produzione di carattere “cortigiano” ampiamente diffusa attraverso le numerose antologie primo-cinquecentesche. Altre diventano ben presto le attività su cui l’umanista jesino decide di concentrarsi: le discussioni da lui stesso promosse nell’àmbito dei cosiddetti Horti Colocciani o Sallustiani; la conservazione e lo studio delle antiche sillogi di rime romanze (italiane, provenzali, portoghesi, catalane, castigliane); la raccolta di statue, oggetti antichi e iscrizioni; la produzione in proprio (ancorché discontinua) di versi volgari improntati a un petrarchismo metrico-linguistico liberamente interpretato, nonché di versi latini64. Se queste furono per decenni le occupazioni predilette dal Colocci, esse non impedirono che qualche rammarico si producesse in lui verso la fine della sua vita, se in una lettera a un non identificato «affinis», databile al 1544/1545, egli afferma: Io pensava che li studii mei, la gloria mia che nasceria dalli studii et lectere fusse l’ultimo riposo mio, et io morirò che non se vederà cosa alcuna de me65.

Almeno una sua cosa in realtà si era vista a stampa, l’Apologia di Serafino: poche pagine di fronte allo straripare della produzione cinquecentesca, e tuttavia sufficienti a iscrivere il loro autore fra i migliori protagonisti della critica ‘militante’ italiana di quel periodo.

63 Di AqB2 non si ebbe nessuna ristampa; l’Apologia venne riproposta nell’edizione veneziana di Manfredo Bonelli datata 31[sic].XI.1505, ff. N1r-4v. 64 Per i versi italiani e latini del Colocci occorre a tutt’oggi rifarsi alla settecentesca

edizione del LANCELLOTTI, Poesie italiane, e latine di Monsignor Angelo Colocci cit. 65 V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, introduzione e note addizionali di J. RUYSSCHAERT, indici di G. BALLISTRERI, Città del Vaticano 1979, p. 17.

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CARLO VECCE

SANNAZARO E COLOCCI La storia delle relazioni tra Iacopo Sannazaro e Angelo Colocci si inserisce pienamente nell’ambito dei rapporti tra l’umanista esinate e gli intellettuali napoletani: rapporti che sappiamo intensi, fin dalla giovinezza di Angelo, quando questi si trovò a passare dalla Roma pomponiana alla Napoli del Pontano (ca. 1486-1491)1. Negli anni successivi, stabilitosi a Roma e diventato sotto Leone X abbreviatore e segretario apostolico, Colocci mantenne i contatti soprattutto con Pietro Summonte, che attendeva alle edizioni delle opere del Pontano. Come è noto, si trattava di edizioni problematiche dal punto di vista filologico: Summonte, depositario degli autografi e degli originali pontaniani, non si fece scrupolo di intervenire talvolta sul testo con interventi propri, o con nuove dediche di libri e trattati a personaggi ora influenti dell’orizzonte 1 Per una prima introduzione alla vita e all’opera di Angelo Colocci, cfr. Poesie italiane e latine di monsignor Angelo Colocci, a cura di G. LANCELLOTTI, Jesi 1772; C. GIOIA, Gli orti colocciani in Roma, Foligno 1893; F. UBALDINI, Vita di mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969; E. BILLANOVICH, Angelo Colocci e Francesco Bellini da Sacile, in Italia Medioevale e Umanistica 13 (1970), pp. 265-80; Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci (Jesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972; V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Introduzione e note addizionali di J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1979; Dizionario biografico degli italiani, 27, Roma 1982, pp. 105-11. Sui libri e la filologia di Colocci: P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Contributions à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887 (rist. Genève-Paris 1976), pp. 79-80, 133-35, 249-58; S. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire publiés par l’École Française de Rome 48 (1931), pp. 308-44 ; G. MERCATI, Il soggiorno romano del Virgilio Mediceo nei secoli XV-XVI, in Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 533-35 e 538-45; L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 77-96; R. AVESANI, Due codici appartenuti ad Angelo Colocci, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata 7 (1974), pp. 383-84; R. BIANCHI, Per la biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-82; N. CANNATA SALAMONE, Per l’edizione del Tebaldeo latino. Il progetto Colocci-Bembo, in Studi e problemi di critica testuale 47 (1993), pp. 49-76; C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni descripti umanistici di lirica volgare antica, in La filologia romanza e i codici, II, Messina 1994, pp. 531-87; ID., La copia colocciana del Canzoniere Vaticano (Vat. lat. 4823), in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, IV: Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze 2001, pp. 105-52. Si attende il volume dello stesso BOLOGNA, Scavi colocciani. Filologia volgare e petrarchismo a Roma nel primo Cinquecento.

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politico e culturale contemporaneo, soprattutto della curia romana, ma non altrettanto in vista all’epoca in cui Pontano era ancora vivo2. Tra gli altri, proprio al Colocci toccò la dedica (probabilmente aggiunta dal Summonte) di uno dei libri del De rebus coelestibus, stampato a Napoli da Sigismondo Mayr nel 1512: un testo posseduto nel manoscritto autografo, Vat. lat. 2839, inviatogli dal Summonte, e nella stessa edizione del Mayr (Vat. R.I II.243: legati insieme il De rebus coelestibus e le Commentationes super centum sententiis Ptolomaei, stampati rispettivamente a Napoli nel 1512 e nel 1513; un volume posseduto e postillato prima dal Cervini poi da Colocci); e riferimenti al De rebus coelestibus appaiono nelle postille colocciane a un De situ elementorum in Vat. lat. 33533. Il coinvolgimento nelle cure editoriali del Summonte significava infatti anche la collaborazione al salvataggio e alla diffusione della letteratura umanistica meridionale, nel periodo di crisi e incertezza che aveva colpito Napoli dopo la caduta della dinastia aragonese, nel 1501. Di Pontano, ricordato nell’elenco di umanisti in Vat. lat. 3450, f. 56r-v, Colocci aveva studiato attentamente il De sermone, compilandone un indice nel Vat. lat. 4057, evidentemente funzionale al suo lavoro di raccolta di facezie, testimoniato nello stesso Vat. lat. 34504: e lo stesso Pontano nel De sermone (1499) aveva ricordato la vena faceta di Angelo: «In hoc autem ipso iocandi genere comis est admodum ac periucundus A. Colotius noster, tum propter insitam ei a natura perraram quandam in dicendo hilaritatem tum propter egregiam literarum peritiam rerumque multarum usum»5: una citazione autentica, nell’autografo Viennese lat. 3413, cui Summonte aggiunse su rasura altre tre menzioni: «Iure igitur [Umber] meus [mihique] pernecessarius [A. Colotius Bassus, vir et doctus pariter et iucundus], usurpare consuevit»; «Simile est familiaris nostri [Colotii Bassi, viri] admodum iucundi»; «Extat exemplum quoque [A. Colotii] in lacessentem deque dictione met sua prorumpentem in cachinnos; nam cum discentem illum [Colotius] cerneret, “hia, inquit, hia, mea monedula: en [adest mater] cum lumbriculo, quae tibi pappam da-

2 L. MONTI SABIA, Pietro Summonte e l’editio princeps delle opere del Pontano, in L’umanesimo umbro, Perugia 1977; EAD., Manipolazioni onomastiche del Summonte in testi pontaniani, in Rinascimento meridionale e altri studi in onore di M. Santoro, Napoli 1987, pp. 293-311. 3 F. TATEO, Gli studi scientifici del Colocci e l’Umanesimo napoletano, in Atti del Conve-

gno cit., pp. 133-55. 4 P. SMIRAGLIA, Le Facetiae del Colocci, in Atti del Convegno cit., pp. 221-29. 5 IOANNIS IOVIANI PONTANI De sermone libri sex, ediderunt S. LUPI et A. RISICATO, Lucani

1954, p. 192, rr. 10-14 (VI 2,43).

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bit”»6. Allo stesso modo, Summonte dedicava a Colocci l’edizione del De magnanimitate, e ne inseriva il nome nel testo7; e probabilmente interpolava la dedica all’esinate nel III libro del De fortuna nell’autografo Vat. lat. 2841, f. 50v (anch’esso posseduto poi da Colocci), insieme ad altre tre menzioni dell’amico (ff. 46r, 50v, 53v)8. Altri testi pontaniani Colocci aveva posseduto (con interventi autografi, l’Actius in Vat. lat. 2843, e altri carmi in Vat. Reg. lat. 1527)9, o trascritto e fatto trascrivere, come un frammento in Vat. lat. 3898 f. 19r (un breve frammento che inizia con le parole «Absit ab ingenio», con rinvio ad un numero di foglio: «Pontan. 179»), o alcune poesie in Vat. lat. 7192 f. 314r e Vat. Ottob. lat. 2860, f. 192v. Non mancano nei suoi elenchi bibliografici rinvii a Pontano, come «Libri di Pontano» (Vat. lat. 3217, f. 329r), e «Quadrantes et Pontano» (Vat. lat. 14065, f. 54r)10. Dopo la sua morte, l’inventario steso il 27 ottobre del 1558 (Vat. lat. 3958) registra molti titoli pontaniani, che corrispondono ai manoscritti attualmente Vaticani latt. 2837-2843: f. 186r «Opera quedam Pontani in Bam. scr.» (Vat. lat. 2839, De rebus coelestibus?); f. 189v «Pontani dialogus de numeris poeticis» (Vat. lat. 2843, Actius), «Pontani metheora» (Vat. lat. 2838); f. 190v «Io. Iovianus Pontanus de fortuna» (Vat. lat. 2841); f. 191r «Dialogi Pontani» (Vat. lat. 2940, De immanitate?); f. 193r «Iovianus Pontanus de stellis» (Vat. lat. 2837), «Pontanus de tumullis» (Vat. lat. 2842). Colocci continuò anche a inseguire le tracce di una vita del Pontano, richiesta in anni più tardi all’umanista trevigiano Traiano Calcia, che gli scrisse nel 1548 di aver salvato dalle fiamme dell’assedio francese a Napoli nel 1528 il commento pontaniano a Catullo11.

6 PONTANI De sermone cit., p. 73, rr. 10-12 (II 13,6), p. 136, r. 14 (IV 3,32), p. 148, rr. 2-6 (IV,4). 7 IOANNIS IOVIANI PONTANI De magnanimitate, edidit F. TATEO, Firenze 1969. Cfr. anche IOANNIS IOVIANI PONTANI De immanitate liber, edidit L. MONTI SABIA, Napoli 1970, pp. 13940. 8 A. CAMPANA, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno cit., pp. 257-78, p. 271; TATEO, Gli studi scientifici cit., p. 146. 9 F. TATEO, Per l’edizione critica dell’Actius di G. Pontano, in Studi mediolatini e volgari

12 (1964), pp. 145-94; S. MONTI, Per la storia del testo dell’Actius di Giovanni Pontano, in Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli 44 (1969), pp. 259-92; M. CERRATI, Un autografo del Pontano, in Giornale Storico della Letteratura Italiana 62 (1913), pp. 106-112. 10 C. BOLOGNA, Colocci e l’Arte (di “misurare” e “pesare” le parole, le cose), in L’umana

compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407, p. 374. 11 J. HAIG GAISSER, Catullus and His Renaissance Readers, Oxford 1993, pp. 109-145.

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Allo stesso modo vengono raccolti testi di Gabriele Altilio, Francesco Elio Marchese, Girolamo Carbone, Girolamo Borgia, Pietro Tamira, Luigi Vopisco. Di Elisio Calenzio Colocci curò personalmente l’edizione degli Opuscula, a Roma presso Besicken nel 1503, l’anno dopo la morte dell’autore12. Nello stesso periodo a Roma dovette rinsaldarsi l’amicizia con il Cariteo, scomparso poi a Napoli nel 1514, e la cui collezione di testi iberici e provenzali sarebbe stata, per il tramite del nipote Bartolomeo Casassagia e il solito Summonte, la fonte di alcuni dei pezzi più preziosi della collezione colocciana di poesia volgare europea 13. In tutti questi scambi, e soprattutto accanto alla figura di Summonte, c’era probabilmente sempre Iacopo Sannazaro, ricordato come «actio» in testa alla seconda colonna dell’elenco di umanisti ‘accademici’ in Vat. lat. 3450, f. 56r. Il suo nome viene citato esplicitamente da Summonte quando nel 1519 invia a Colocci delle prove pontaniane di traduzione da Tolomeo: «traductioni dal graeco de verbo ad verbum, dico dele cose di Ptolomeo, le quali poi lo Pontano, in quanto se ne voleva servire in la opera de Rebus coelestibus, le riduceva in bona elocutione. Sì como si vede in questa divina opera de Rebus coelestibus, in la quale sola lo Pontano ha monstrato lo valor suo, sì ad rispecto dele materie sì bene intese et disputate da lui, secondo testificano tucti boni astrologi, come ancora per trovare espresse in lingua veramente latina et pura le cose di una scientia, che è tutta barbara di termini e vocabuli soi. Questo è quello che ’l Duca de Hatri e ’l Sannazaro mai cessano di predicare»14. In effetti, possiamo ragionevolmente credere che l’attività filologica e culturale di Summonte, dopo la morte di Pontano (1503) e il ritorno di Sannazaro dalla Francia (1505), fosse guidata dal magistero del poeta dell’Arcadia, come si osserva negli episodi di collaborazione nella trascrizione di alcuni dei testi classici ignoti scoperti da Sannazaro in Francia e nell’Italia del Nord (Grattio, nel codice Viennese lat. 277)15; e nella biblioteca di Sannazaro restarono probabilmente depositati alcuni autografi pontaniani utilizzati dal Summonte per le sue edizioni, come il Viennese lat. 3413 (De bello Neapolitano, De sermone, De prudentia, De magnanimi-

12 Cfr. in generale CAMPANA, Angelo Colocci conservatore cit., pp. 257-78. 13 In particolare il codice M (Parigi, Biliothèque Nationale, ms. fr. 12474) e il Vat. lat.

4796, per i quali cfr. l’Indice dei mss. al fondo del presente volume. 14 TATEO, Gli studi scientifici cit., p. 154. 15 C. VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Pa-

dova 1988.

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tate) e l’Additional 12027 della British Library (De prudentia)16. Ed era sempre Sannazaro l’ispiratore della ricognizione del patrimonio archeologico e artistico di Napoli registrata dal Summonte in una celebre lettera inviata a Marcantonio Michiel nel 1524: una ricognizione che avrebbe potuto interessare allo stesso modo il Colocci collezionista di antichità ed epigrafi nei suoi orti romani17. Ed anche intorno alla Tabula Isiaca (posseduta dopo il Sacco del 1527 dal Bembo) si può ipotizzare una comune attenzione di Colocci e Sannazaro, a cui, secondo Valeriano (nella dedica del XX libro degli Hierogliphica al poeta), sarebbe stato chiesto l’expertise, e un tentativo di decifrazione: «tum ex admirabili illa venerabilis antiquitatis Tabula aenea, quam simul apud Bembum inspeximus, potes edoceri, quae omnem Aegyptiorum historiam antiquiorem, argento atque auro delineatam ostentat»18. Notevoli sono infatti le convergenze che si registrano tra gli interessi del Colocci e quelli di Sannazaro nei primi decenni del Cinquecento. Nell’ambito geografico, traduzioni (non autografe) di testi greci sono conservate in uno degli zibaldoni di Sannazaro, il Viennese lat. 9477, mentre è attestata una forte attenzione, oltre che alla lettura di Tolomeo e Strabone, anche alla cartografia, alla navigazione e alle nuove scoperte geografiche nel circolo di Federico d’Aragona, intorno al quale convergono Antonio Galateo e il viaggiatore genovese Giorgio Interiano, comune amico di Sannazaro e Colocci (che lo ricorda nel già citato Vat. lat. 3353), e un cui resoconto di viaggio (in volgare, La vita et sito de Zichi) viene pubblicato da Aldo Manuzio nel 1502 con dedica allo stesso Sannazaro19. Colocci è ancora tra i primi a riflettere sulle origini della poesia ritmica nella tradizione latina medievale, e in particolare sull’innografia cristiana dei primi secoli, e sulla strofe ambrosiana: «Ambrosio et ano fecero molti hymni Rhytmici ad similitudine di Horatio. Di iambici metri fu facto quel bello hynno / Rex aeterne Domine / Rerum creator omnium / Qui eras ante saecula / Semper cum patre filius, / et molti altri simili ambrosiani, et così alla guisa del verso trochaico cantano ogni dì: / 16 C. VECCE, «In Actii Sinceri bibliotheca»: appunti sui libri di Sannazaro, in Studi vari di Lingua e Letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, Milano 2000, pp. 301-310. 17 F. NICOLINI, Pietro Summonte, Marcantonio Michiel e l’arte napoletana del Rinasci-

mento, Napoli 1925. 18 BOLOGNA, Colocci e l’Arte cit., p. 399; M. DERAMAIX, «Phoenix et ciconia». Il «De partu Virginis» di Sannazzaro e l’«Historia viginti saeculorum» di Egidio da Viterbo, in Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. DE NICHILO, G. DISTASO, A. IURILLI, Roma 2003, pp. 523-556. 19 C. VECCE, Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina 1998.

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Apparebit repentina / Dies magna Domini, etc. / et questo è come “Rosa fresca aulentissima”» (Vat. lat. 4817, f. 165r)20. Ed è singolare che negli appunti colocciani per questo trattato sulla storia della poesia mediolatina si registri anche la citazione di Pindaro, messo in relazione con i poeti siciliani e Petrarca: «Il principio de’ Siculi fu di canzone octonarie, nonarie, quinarie, septenarie, come in Pindaro, imitando li sui Greci … / Pindaro ode prima come quella Ben mi credea passar mio tempo homai / 4 strophe, quattro antistrophe, 4 epodi; et nota che la prima ode de Pindaro ha 12 stanze come Vergene bella, che è vero hymno…» (Vat. lat. 4817, f. 42r); «Li siculi imitarono Pindaro» (Vat. lat. 4817 f. 130r). Esattamente la stessa démarche aveva compiuto Sannazaro, quando alla fine del ’400 si era accostato al testo di Pindaro, traducendo l’inizio della prima Olimpica in una versione prima verbum de verbo, e poi in una prosa ritmica che sembra riprodurre l’andamento degli ictus della metrica greca; parallelamente, il poeta napoletano aveva iniziato un processo di innalzamento della propria produzione poetica, nella direzione dell’innografia religiosa, con gli inni a San Gaudioso e a San Nazario, una ‘conversione’ che coincideva con la prima ideazione di un poema religioso (la Lamentatio Christi domini, redatta anche in volgare) e con la relazione con Egidio da Viterbo, che predicava a Napoli tra 1499 e 1501. E negli anni successivi anche Sannazaro avrebbe approfondito le sue già squisite conoscenze di metrica latina con lo smontaggio minuzioso dei testi di Orazio, Ovidio, Stazio, nei repertori metrici del Viennese lat. 350321. Alla memoria pontaniana di Colocci esperto nell’arte della facezia (e alla raccolta di facezie compilata dallo stesso esinate) porta un’ulteriore testimonianza il manipolo di carmi latini scambiati con Sannazaro, talvolta di tale oscena imagery da costringere il probo editore settecentesco, il Lancellotti, ad operare alcune censure. Di Sannazaro è l’epigramma Ad Bassum de Phyllide (I, 63), che presenta la scena (raccontata poi anche da Girolamo Morlini) di una «mammosa Phyllis» alla quale «tunica mollis […] intravit illuc unde prodeunt aurae»22. Da parte sua, Colocci scherza con Sannazaro sugli amori senili di Pontano23, indirizza un altro epi-

20 R. AVESANI, Appunti del Colocci sulla poesia mediolatina, in Atti del Convegno cit., pp.

109-32. 21 C. VECCE, Esercizi di traduzione nella Napoli del Rinascimento. I: Sannazaro e Pindaro, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale, Sezione Romanza, 31/II (1989), pp. 309-29; ID., Gli zibaldoni cit. 22 Poesie italiane e latine cit., pp. 62-63. Cfr. G. MORLINI, Novelle e favole, a cura di G. VILLANI, Roma 1983. 23 Poesie italiane e latine cit., II, pp. 65-66.

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gramma osceno a Sannazaro e Manilio Rallo24, e satireggia papa Adriano VI in un epigramma rivolto a Sannazaro e Girolamo Carbone25. Ma soprattutto Colocci si preoccupava di raccogliere e conservare testi poetici di Sannazaro latino in Vat. lat. 3388 (ff. 262r, 265v), Vat. lat. 2836 (ff. 112v-113r, 120r, 123r-124r), Vat. lat. 2847 (ff. 1-sgg.), Vat. Ottob. lat. 2860 (ff. 79r-81r), Vat. lat. 3353 (ff. 169r-175r). Dei codici vaticani di provenienza colocciana che contengano carmi sannazariani, il più interessante è senz’altro il Vat. lat. 2874, che presenta ai ff. 137r-146r il testo della prima redazione del De partu Virginis, la cosiddetta Christias, in uno zibaldone poetico allestito dal Colocci intorno al 1514, e contenente anche le egloghe piscatorie II, III e IV (ff. 150r-156v), e l’epigramma In Nolam (f. 161v)26. Come è noto, Sannazaro aveva incominciato la composizione del poema sacro subito dopo il ritorno dall’esilio francese, ed era prossimo alla conclusione della Christias già verso il 150727. Il manoscritto del Colocci è testimonianza di una precoce circolazione, che dovette essere (secondo le abitudini del poeta) riservata ad una ristretta cerchia di amici, in grado di leggere con attenzione il testo in uno stadio provvisorio, e di fornirne consigli di miglioramento. Ne derivarono un altro codice, Firenze Biblioteca Nazionale Centrale II V 160, ff. 5r-10v, copia della prima metà del XVI secolo; e purtroppo anche una stampa veneziana non autorizzata, dopo il 1520, che suscitò l’amarezza e l’indignata reazione dell’autore, che si era troppo fidato dei suoi ‘amici’ romani. Ora, l’attenta analisi delle varianti di questi testimoni, condotta da Alessandro Perosa, ha dimostrato che essi discendono da un comune progenitore, ma per vie indipendenti: l’archetipo di Sannazaro, portato probabilmente a Roma prima del 1514 (data di compilazione del codice colocciano)28. Nuova luce sulla diffusione del testo nella cerchia del Colocci potrà ora dare un nuovo testimone della Christias, scoperto recentemente nella Biblioteca Capitular y Colombina di Siviglia, 7.1.19, ff. 109r-115v (acqui24 Poesie italiane e latine cit., pp. 62-63, nt. a. 25 Poesie italiane e latine cit., II, pp. 60-61. Diverse redazioni di questi carmi a Sanna-

zaro, con significative varianti non registrate dal Lancellotti, sono nell’epigrammatario colocciano Vat. lat. 3388. 26 LATTÈS, Recherches cit., pp. 332-33 e 342; FANELLI, Ricerche cit., p. 159; P. O.

KRISTELLER, Iter Italicum, II, London-Leiden 1967, pp. 355-56. 27 C. VECCE, Maiora numina. La prima poesia religiosa e la Lamentatio di Sannazaro, in Studi e Problemi di Critica Testuale 42 (1991), pp. 42-86; M. DERAMAIX, «Renouatio temporum». La signification du «De partu Virginis» de Sannazar, Genève, in corso di stampa. 28 I. SANNAZARO, De partu Virginis, ediderunt A. PEROSA e C. FANTAZZI, Firenze 1988, pp. LXV-LXX.

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stato nel 1530 da Hernán Colón), anch’esso disceso per via indipendente dall’originale di Sannazaro. Il testo del poema reca in calce la sottoscrizione «Rome die xxiiii Augusti 1513», che potrebbe essere la data in cui è stata compiuta la trascrizione, da un umanista che ha raccolto nel codice (e datato agli anni 1514-1516) un insieme di poesie latine di ambiente romano, come ad esempio i Coryciana: un umanista che si rivela essere quell’Aurelio Sereno da Monopoli, curiale di Leone X, custode di S. Stefano alla Regola, autore del Theatrum Capitolinum magnifico Iuliano institutum… et de Elephante carmen (Roma, Mazzocchi, 1514), un poemetto sul teatro capitolino eretto in occasione delle feste per la concessione a Giuliano de’ Medici del titolo di patrizio romano, feste che culminarono il 14 settembre 1513 con la rappresentazione del Poenulus curata da Tommaso Fedra Inghirami. Di più, la data 1513 torna, in modo enigmatico, nell’autografo sannazariano del De partu Virginis, con ognuna delle quattro cifre inscritta nella lettera iniziale di ognuno dei quattro pentametri della dedica a Leone X (Laur. Ashburn. 411 [343], f. 34v): segno di una probabile offerta del poema (nella prima redazione), al pontefice, che era stato eletto appunto l’11 marzo 1513. Un testo che, portato allora a Roma, non poteva sfuggire all’attenzione del Colocci29. Ma anche un breve epigramma del Colocci avrebbe potuto essere stato diffuso da Sannazaro, o accanto ad altri testi di Sannazaro. Mi riferisco all’epitaffio di Alessandro VI, Sevitia insidiae rabies furor ira libido, presente in Vat. lat. 3388, f. 207r30, attestato da Pietro Dolfin come «facto a Roma» (Brescia, Biblioteca Queriniana, F II 2, f. 117v), e ricomparso singolarmente accanto agli epigrammi antiborgiani di Sannazaro (I 59 e II 29), composti appunto nel 1503, in un foglio vergato da una mano francese contemporanea, in Vat. Reg. lat. 453, f. 48r-v: un foglio che è unito ad un frammento di un bifoglio membranaceo in scrittura francese del X secolo, la cui prima parte si trova ora nella miscellanea del Par. lat. 7561, che contiene il Cynegeticon di Nemesiano, scoperto appunto da 29 Cfr. al proposito gli studi di M. DERAMAIX, importanti anche per le relazioni culturali tra Napoli e Roma nel primo Cinquecento: «Sapientia Praeponitur Quibuscunque Rebus». Les loisirs académiques romains sous Léon X et la «Christias» de Sannazar dans un manuscrit inédit de Séville, in Chemins de la re-connaissance. En hommage à Alain Michel, in Helmantica 151-153 (1999), pp. 301-329; ID., «Christias, 1513». La forma antiquior du «De partu Virginis» de Sannazar et l’académie romaine sous Léon X dans un manuscrit inédit de Séville, in Les Cahiers de l’Humanisme 1 (2000), pp. 151-172 ; ID., «Phoenix et ciconia» cit.; ID., Renouantur saecula. Le quintum bonum du dixième âge selon Gilles de Viterbe dans l’Historia uiginti saeculorum et le De partu Virginis de Sannazar, in Humanisme et Eglise du XVe siècle au milieu du XVIe siècle (Italie et France méridionale), Roma, in corso di stampa. 30 Poesie italiane e latine cit., p. 78.

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Sannazaro nel 1503 nella biblioteca dell’abbazia di Saint-Denis a Parigi31. Questa insospettata presenza riporta il nome di Colocci accanto all’ultima grande stagione delle scoperte di codici di testi classici, quella compiuta in Francia nei primi anni del Cinquecento da Sannazaro, fra Giocondo (poi amico del Colocci, cui lascerà suoi manoscritti autografi), Giano Lascaris. E ad uno dei ricercatori di manoscritti francesi Colocci ebbe modo di avvicinarsi proprio a Roma, nella cerchia dei Grimani. Si trattava di Pietro Aleandro (cugino del più noto Girolamo, prima sodale e poi nemico di Erasmo), ricordato da Pierio Valeriano nella dedica del libro XXVII, De delphino, dei suoi Hieroglyphica (Basileae, M. Isingrin, 1556, f. 194r), come accompagnatore del patriarca Giovanni Grimani in una passeggiata archeologica tra le rovine romane, insieme al Colocci, Battista Casali (tra le cui lettere, riordinate dal Colocci nell’Ambr. G 33 inf., compare ancora il nome di Aleandro), Vincenzo Pimpinella e Antonio da Marostica: un episodio di grande importanza, databile verso il 1524, non sfuggito all’attenzione di Corrado Bologna in uno studio del 199932. Ora, Pietro Aleandro era stato, anni prima, studioso di antiquaria ed epigrafia, tra Giocondo e Taddeo Solazio, e anche editore del De regionibus urbis Romae libellus aureus, a Venezia presso il Tacuino nel 1505. Ed era lo stesso che, nel 1502 aveva inviato a Venezia a Girolamo Avanzi (che la pubblicò nello stesso anno sempre presso il Tacuino) una cospicua parte dell’ancora inedito X libro dell’epistolario di Plinio il Giovane, scoperto in un codice del VI secolo nell’abbazia di San Vittore a Parigi: lo stesso codice che, qualche anno dopo, Giocondo riuscì a portare in Italia, e ad affidare ad Aldo Manuzio per l’edizione del 150833. Non sappiamo a quale delle due edizioni Colocci facesse ricorso, quando nell’abbozzo di trattatello metrico citava da Plinio il Giovane, Epist. X 96, 7: «Cristiani. Cominciarono a cantare a Dio la matina et la sera hymni et laudi come scrive Plinio Cecilio …» (Vat. lat. 4817, f. 165r)34. Ma bastava quella citazione, da un testo classico riscoperto da pochi anni, a dimostrare la curiosità intellettuale del Colocci; e a incrociarne di nuovo il nome con quello di Pietro Aleandro, suo compagno nella peregrinatio archeologica del 1524, che aveva visitato, molti anni prima, insieme a fra Giocondo, le stesse biblioteche francesi esplorate da Sannazaro.

31 VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia cit., pp. 52-55. 32 BOLOGNA, Colocci e l’Arte cit., pp. 369-71. 33 VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia cit., pp. 19-20. 34 AVESANI, Appunti del Colocci cit., p. 115.

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CARMINA DE RUINIS: POMPONIO LETO, ANGELO COLOCCI E LA POESIA ANTIQUARIA DI ROMA TRA ’400 E ’500 Alla cara memoria di Domenico Magnino

Il campo in cui Angelo Colocci si mostra più legato alla cultura classica latina è sicuramente il collezionismo, o l’antiquaria. Ricordiamo però che un antiquario vero e proprio non è neanche stato, almeno se posto a confronto con i grandi antiquari del Cinque e Seicento come Giusto Lipsio, Cassiano dal Pozzo, Onofrio Panvinio o Pirro Ligorio1. Colocci non ha pubblicato alcun libro sulla cultura degli antichi, e neppure portò a termine il suo saggio sui pesi e le misure antiche2. Nondimeno è un punto di riferimento centrale nella Roma anteriore al Sacco, specialmente perché era diventato l’erede dell’altro grande studioso dell’antichità, Pomponio Leto. In questo contributo mi propongo di presentare un esempio recentemente scoperto di come l’antiquaria romana influenzò la poesia contemporanea, ma anche di dare uno sguardo alla tradizione stessa di questa poesia, che è una poesia delle rovine, e di mostrare alcuni dei suoi approcci diversi e cangianti durante il Cinquecento 3.

1 Vedi I. HERKLOTZ, Cassiano dal Pozzo und die Archäologie des 17. Jahrhunderts, München 1999. 2 Su questo, cfr. ora C. BOLOGNA, Colocci e l’arte (di “misurare” e “pesare” le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407. 3 Fra i contributi fondamentali a proposito della “poesia delle rovine” vanno elencati: W. REHM, Europäische Romdichtung, München 19602; R. MORTIER, La poétique des ruines en France, Genève 1974; Poesia e poetica delle rovine di Roma, a cura di V. DE CAPRIO, Roma 1987. L’immagine umanistica della città di Roma è stata trattata da T. M. GREENE, Resurrecting Rome – The Double Task of the Humanist Imagination, in Rome in the Renaissance, a cura di P. A. RAMSEY, Binghamton 1982, pp. 41-54, e da C. L. STINGER, Roman Humanist Images of Rome, in Roma Capitale 1447-1527, a cura di S. GENSINI, Pisa 1994, pp. 15-38.

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I. Angelo Colocci antiquario Il Colocci, nel campo dell’antiquaria, è soprattutto collezionista e mecenate. Basti ricordare che si occupava del restauro dell’Acqua Vergine (non senza interessi personali, dato che gli archi che ne restavano in Campo Marzio facevano parte dei suoi famosi Horti Colotiani) e che, se ha ragione il Fanelli4, curava l’edizione dell’opera epigrafica Epigrammata antiquae urbis. Nelle molte case e più che altro nei numerosi giardini che possedeva – nel rione Parione, sotto al Pincio e sul Quirinale – si trovavano statue e iscrizioni come ci ricorda il suo biografo Ubaldini5. Secondo il Ligorio, le iscrizioni sarebbero state più di 3006. La provenienza di questi tesori non è del tutto sicura. Sappiamo che il Colocci era praticamente l’erede del Leto, anche se i due uomini sembrano essersi incontrati per un anno solo, dato che il Colocci arrivò a Roma nel 1496-977 mentre il Leto morì nel ’98. Esistono comunque dei documenti notarili in cui si attesta che nel 1533 Mario Salamoni, ex membro dell’Accademia del Leto, cedeva gli orti del Quirinale e le Terme Costantiniane, dove aveva abitato Leto e dove si era riunita l’Accademia, al Colocci8. Era diventato dunque possessore dei luoghi dove si continuavano a riunire gli amici letterati, anche se sotto il titolo di una societas Literatorum S. Victoris in Esquiliis anziché di una vera Accademia9. Tra questi soci erano i più famosi umanisti, filologi e poeti del tempo; fra gli altri Girolamo Vida, Filippo Beroaldo, Paolo Giovio, Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione. Diversamente che per quanto riguarda la sede delle riunioni, Colocci non sembra aver ereditato le collezioni antiquarie intere: sappiamo che le iscrizioni di Pomponio Leto dopo la sua morte vennero disperse10. Alcuni pezzi scelti invece, tra cui una famosa iscrizione votiva su cui ritornerò, potrebbero essere rimaste nelle mani del Colocci.

4 V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Città del Vaticano 1979, pp. 123-124. 5 F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci, a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969, pp. 48-49. 6 FANELLI, Ricerche cit., p. 127. 7 UBALDINI, Vita cit., p. 66, nt. 103. 8 R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma, II, Roma 1912, p. 19; UBALDINI, Vita cit., p.

40, nt. 47. 9 LANCIANI, Storia degli scavi cit., I, Roma 1902, p. 115 e II, p. 20; UBALDINI, Vita cit., p. 65, nt. 103. 10 UBALDINI, Vita cit., p. 65, nt 103.

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Vediamo ora come le ricerche e le collezioni antiquarie del Colocci, ma anche e forse soprattutto del suo antecessore Leto, abbiano influenzato la poesia di umanisti che soggiornavano a Roma all’inizio del Cinquecento. II. L’Elegia III di Ursino Velio, poesia antiquaria romana tra Pomponio Leto, Angelo Colocci, Jacopo Sannazaro e Battista Mantovano Ursino Velio, nato a Schweidnitz in Slesia nel 1493, aveva diciotto anni quando accompagnò il vescovo e diplomatico imperiale Matthäus Lang in Italia11. Frequentò l’università di Bologna per qualche tempo per poi arrivare a Roma dove rimase dal 1512 alla fine del 1514, dunque negli anni d’oro della vita letteraria sotto papa Leone X. Il poeta, ottenuto il nome Ursino da Giovanni Cuspiniano12 e Velio secondo la regione Velia in cui abitava, partecipò alle riunioni della sodalitas Coryciana, il famoso orto letterario del prete lussemburghese Hans Goritz. Ma Velio era anche amico (nel senso più lato della parola) del Colocci, del quale parla nelle sue lettere anche dopo parecchi anni13. Tornato in patria, pubblicò, nel 1517, un volume di poesie latine14, ma è solo nella seconda edizione15 che troviamo la Terza Elegia, dedicata al suo mecenate Johann Thurzó, vescovo di Breslau. Questo poema riunisce due motivi: la riflessione sul proprio destino di esule – dato che Thurzó non sembra più sostenere la carriera del poeta – e la visita della città di Roma e delle sue rovine. Velio le descrive con una miscela di precisione visuale e di allusioni intertestuali, riferendosi, come pare, ai trattati antiquari del Leto da un lato, ed alle collezioni oppure ai luoghi favoriti dal Colocci dall’altro. 11 Su di lui, resta fondamentale lo studio di G. BAUCH, Caspar Ursinus Velius, in Ungarische Revue 7 (1887), pp. 1-43 e 201-240, validissimo anche per il grande numero di fonti manoscritte usate ma ora disperse o distrutte. Vedi anche Humanistische Lyrik des 16. Jahrhunderts, a cura di W. KÜHLMANN, Frankfurt 1997, pp. 1020-1032. 12 BAUCH, Caspar Ursinus Velius cit., p. 4. 13 Per ulteriori dettagli, rimando al mio saggio Die Romelegie des Ursinus Velius (el. 3),

in Mentis amore ligati. Lateinische Freundschaftsdichtung und Dichterfreundschaft in Mittelalter und Neuzeit. Festgabe für Reinhard Düchting zum 65. Geburtstag, a cura di B. KÖRKEL, Heidelberg 2001, pp. 435-459, p. 453, nt. 15. 14 Casparis Vrsini Velii Silesii epistolarum et epigrammatum liber, Wien, Singrenius,

1517. 15 Casparis Vrsini Velii e Germanis Slesii poematum libri quinque, Basel, Froben, 1522. L’edizione è anche disponibile in immagini JPG nella bancadati neolatina “Camena” della biblioteca universitaria di Mannheim, vedi www.uni-mannheim.de/mateo/camena/urs/te01. html.

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Hic, ubi facta patris nunc stant in colle Quirini Marmora Praxitelis Phidiacaque manu, Quos olim aurigas et equos e marmore uiuo Cepit ab Armenio munera rege Nero, Ducit in Exquilias demisso tramite cliuus, Area uimineum qua patet ante iugum. Vitigeros inter colles, Leneia dona, Ostendit uernas quaelibet arbor opes: Albicat hic cerasus foecunda, et amygdalus illic Purpureum profert deliciosa caput. Parte alia pingues oleas, aliaque cupressus Coniferas, alia citria parte uides. Ipsa etiam diues florum per amoena uireta Explicat herbosos undique terra sinus.

Questa è una loci descriptio relativa al luogo collinare in cui il poeta si è ritirato a meditare il suo destino. Quello che importa è che non si tratta di una descrizione topica, ma precisa, che permette di identificare questo belvedere con le pendici orientali del Quirinale, accanto al Viminale. Si tratta della zona direttamente adiacente alle Terme Costantiniane presso piazza del Quirinale, oppure delle vicinanze immediate della casa del Colocci (già del Leto) e dei raduni degli accademici cui Velio appartenne. Mentre da questi primi versi cogliamo già un’idea della precisione descrittiva del poema, bisogna anche considerare possibili modelli contemporanei. Chi legge attentamente il primo verso si interrogherà sul significato della parola nunc, dato che di un trasloco dei Cavalli del Quirinale non abbiamo notizie prima dell’anno 155816. Con un poco di cautela proporrei un’altra spiegazione: Velio, nel primo verso della sua elegia sulle rovine di Roma, potrebbe accennare ad un altro poema di simile contenuto, ma di una fama molto maggiore – l’elegia Ad ruinas Cumarum di Jacopo Sannazaro.

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Hic, ubi Cumeae surgebant inclyta famae Moenia, Tyrrheni gloria prima maris, Longinquos quo saepe hospes properabat ab oris, Visurus tripodas, Delie magne, tuos, Et vagus antiquos intrabat navita portus, Quaerens Daedaliae conscia signa fugae, (…) 16 Cfr. SCHLEGELMILCH, Die Romelegie cit., p. 441.

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Nunc silva agrestes occulit alta feras, Atque ubi fatidicae latuere arcana Sibyllae, Nunc claudit saturas vespere pastor oves.

L’argomento dell’elegia cumana (pubblicata soltanto nel 1526 ma scritta sicuramente prima)17 senz’altro è diverso da quello veliano. Il contrasto fra monumenti antichi e natura selvaggia, quasi distruttrice, proposto da Sannazaro viene addolcito, anzi, rovesciato nel suo contrario dal poeta tedesco. Il suo è un locus amoenus, forse uno dei primi esempi di una Ruinenromantik che vive della simbiosi dei monumenti di tempi passati con la natura circostante. C’è da chiedersi se Velio abbia creato questa scena, o se il nunc del v. 1, apparentemente superfluo, sia superstite di una trasformazione dell’immagine poetica dal golfo di Napoli. Mentre questo aspetto rimane da chiarire, possiamo dire con certezza quali fonti abbia usato Velio per le indicazioni topografiche dell’elegia18. Già nei primi versi, con l’aition dei Cavalli (di “Montecavallo”), siamo vicinissimi alla ricerca antiquaria di Pomponio Leto. Infatti, è soltanto nel pomponiano De antiquitatibus urbis Romae, altrimenti detto De romanae urbis uetustate, che troviamo sia la storia del re Tiridate sia la connessione di questi con i cavalli del Quirinale, mentre nel cosiddetto regionario dell’urbe – il registro tardoantico dei monumenti e dei quartieri – la notizia viene riferita ad un’altra statua equina fatta di rame e situata in un altro quartiere. Fu Leto a proporre una versione da lui interpolata del regionario, rimasta manoscritta, mentre il De antiquitatibus urbis appena menzionato venne stampato nel 151019 e ancora nel 1515 presso il Mazzocchi. Non si sa chi finanziò questa edizione ma sarà forse lecito proporre il nome di Angelo Colocci, grande sostenitore della stampa di autori contemporanei20, oppure di uno degli amici e allievi del Leto. Mi sembra interessante anche il titolo della versione manoscritta del testo antiquario pomponiano, conservato in un codice marciano, studia17 Cfr. MORTIER, La poétique cit., p. 39. 18 Per uno studio dettagliato delle fonti antiquarie del poema veliano rimando al mio

saggio (vd. qui nt. 13). 19 G. B. DE ROSSI, Note di topografia romana raccolte dalla bocca di Pomponio Leto, e testo pomponiano della Notitia regionum urbis Romae, in Studi e documenti di storia e diritto 3 (1882), pp. 49-87, p. 51. 20 Vedi l’articolo anonimo sul Colocci nel Dizionario biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 105-111 nonché A. CAMPANA, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno di Studi su Angelo Colocci, (Jesi 13-14 settembre1969, Palazzo della Signoria), Jesi 1972, pp. 257-272.

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to nell’Ottocento dal De Rossi, e in una copia oggi a Stoccarda su cui ritornerò: qui il testo reca il titolo Excerpta a Pomponio dum inter ambulandum cuidam domino ultramontano reliquias ac ruinas urbis ostenderet: si tratta dunque di una sorta di passeggiata archeologica commentata. Torniamo al testo di Velio: ai versi 61-68 parla di nuovo di resti antichi, e questa volta è ancor più preciso:

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Atque haec dum meditor, uentum est ad proxima Claudi Usque ruinosae tecta uetusta domus. Martius hanc subter campus iacet: hic, ubi Roma Consulibus fasces et noua iura dedit. Candidus his olim ciuis descendit ab hortis; Pone iacent Clario templa dicata deo. Despicio tumulo Romana palatia ab alto Et septem colles urbis, et urbis opes.

Per identificare i monumenti bisogna rendersi conto che tutti gli edifici elencati si possono osservare dallo stesso posto e che qui non si tratta più di una passeggiata. Velio dice di vedere il Campo Marzio sotto a lui, poi c’è una zona di giardini da dove «una volta i candidati discendevano», e finalmente «dietro c’è il tempio del deo di Klaros», di Apollo. La frase sui candidati delle antiche elezioni, che scendono ai comizi in Campo Marzio, si rivela ancora una volta citazione dallo scritto topografico del Leto, dal quale apprendiamo che «ex colle hortulorum descendebant candidati albis uestibus qui erant petituri magistratum»21. Più difficile è l’identificazione del Tempio di Apollo. Propongo di prendere il pone iacent del verso 66 in senso letterale. In questo caso, il poeta si troverebbe o sul Quirinale o sul Pincio – sono questi i due colli sopra al Campo Marzio – ed avrebbe un tempio di Apollo dietro di sé. Se le cose stessero così, dei parecchi templi attribuiti ad Apollo in quell’epoca, ne rimarebbe solo uno (che però già allora non si vedeva più, se mai esistette): è il cosiddetto Templum Apollinis et Clatrae sul dorso del Quirinale. Questo edificio sacro era famoso intorno al 1500, e lo era, ancora una volta, grazie a Pomponio Leto: anche il Templum Apollinis è una novità aggiunta al suo regionario interpolato, e nessuno fino a oggi sa veramen21 Opera Pomponii Laeti, Argentorati, Schürer, 1510, f. LVIr. Il collis hortulorum è il

Pincio (cfr. SVETONIUS, Vita Neronis, § 50, si veda ad es. SUETON, Leben des Claudius und Nero, edizione critica, traduzione e commento a cura di W. KIERDORF, Paderborn 1992).

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te perchè – dato che resti archeologici non ci sono. Il Templum sembra essere piuttosto una congettura basata sul ritrovamento (oppure sulla falsificazione, ma con quale fine non si sa) di un rilievo con epigrafe che riporta i nomi di Apollo e di una dea (altrimenti sconosciuta) Clatra o Clatia. Ora, sappiamo che questo rilievo, dal quale sarebbe partito il Leto, fece parte della collezione epigrafica di Angelo Colocci22, amico di Ursino Velio. Anche se queste non sono prove stricto sensu, si potrà dire che tutte le indicazioni topografiche dell’elegia veliana puntano assai chiaramente verso il colle del Quirinale e dunque verso la zona favorita da Leto e Colocci, per il quale il poema costituiva forse una sorta di ringraziamento da parte dell’umanista ultramontano ripartito più tardi per la Slesia e poi per Vienna dove morì, forse suicida, nel 1539. Rimane da dire che il codice pomponiano di Stoccarda23 proviene da Breslau e fu portato in Slesia dal canonico Peter Hornig nel 1503, dopo un periodo di studi a Roma cominciato nel 1500. Sembra che poco dopo la morte del Leto, i suoi seguaci abbiano continuato a far circolare i suoi scritti e che forse già prima della sua partenza per l’Italia, Ursino Velio ne abbia conosciuto gli studi antiquari a casa sua. II.1 Altri poeti antiquari ed il “culto” degli umanisti per Pomponio Leto Ursino Velio non è stato l’unico poeta ad ispirarsi alla ricerca antiquaria. Diamo un breve sguardo a due altri, questa volta italiani. Il primo è Egidio Gallo, noto per una descrizione poetica di Villa Chigi in cinque libri, recentemente ripubblicata24. Nell’opera intitolata Vera, con probabile allusione a ver (primavera), Venere discende dal cielo per visitare la villa. Lunghi brani sull’astrologia e sugli dei marini interrompono la narrazione, e sembra che in essi sia adombrata proprio la descrizione di affreschi e decorazioni della villa. Negli ultimi due libri, finalmente, troviamo dei lunghi cataloghi di località romane, e questi elenchi sono direttamente basati sullo scritto topografico di Pomponio Leto. Negli elenchi di membri dell’Accademia Colocciana pubblicati dal Fanelli, il Gallo non figura, ma lo ritroviamo tra i soci coryciani. Si tenga presente che le due cerchie non erano affatto divise, almeno fino al 1517 circa: 22 T. HACKENS, Mons Apollinis et Clatrae. Note de topographie romaine, in Rendiconti

della Pont. Accademia di Archeologia 33 (1960/61), pp. 185-196, p. 193. 23 Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek, cod. hist. 4° 316. 24 M. QUINLAN-MCGRATH, Aegidius Gallus: De viridario Augustini Chigii Vera libellus, in

Humanistica Lovaniensia 38 (1989), pp. 1-99.

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così si può forse dire che anche qui ci siano dei legami che vanno dal Leto al Colocci e ad altri studiosi e poeti. Anche Andrea Fulvio si è servito degli scritti topografici25. La sua opera principale sono gli Antiquaria urbis, due libri in esametri, elaborati forse durante un periodo abbastanza lungo, ma scritti e pubblicati nel 1513, dunque durante il soggiorno romano di Velio. Le intenzioni dell’opera sono diverse da quelle dell’elegia: Fulvio, che era solito percorrere la città insieme a Raffaello per indicargli, da specialista, i più notevoli luoghi di interesse artistico ed archeologico perché questi potesse disegnarli, non intende fornire un’impressione dei singoli punti della città, ma una sorta di inventario di tutti gli edifici, non solo antichi – scomparsi o superstiti – ma anche moderni, per attingere una laus urbis e anche una laus papae cioè del pontefice appena salito al solio, Leone X. Mentre Fulvio parla anche di grandi novità urbanistiche come S. Pietro, rispetto alle antichità segue gli autori antichi ed anche gli antiquari a lui precedenti: il Biondo, l’Albertini ed anche il Leto. Il risultato, in parte, è vicinissimo al testo veliano26, ma se questo sia dovuto alle fonti comuni o ad una relazione diretta tra i due poeti rimane da chiarire. Molto più chiaro, invece, è lo stretto legame con Pomponio Leto, la cui casa viene impiegata addirittura come punto di orientamento nel labirinto delle rovine: Hoc etiam dorso porrecti montis ad austros, Hic ubi Pomponi Laeti domus extat, et aedes Visuntur Platinae, sibi Constantinus ad auras Erexit thermas, ubi sunt in monte caballi Marmorei… 27

Gli Antiquaria Urbis sono un poema di stampo scientifico. Ma se anche personaggi come Ursino Velio ed Egidio Gallo si riferiscono agli 25 R. WEISS, Andrea Fulvio antiquario romano, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, IIa serie 28 (1959), pp. 1-44. 26 Si vedano per esempio i versi sul Quirinale (cito dalla ristampa intitolata De antiqui-

tatibus urbis libri II in Carmina illustrium poetarum Italorum, V, Firenze, Tartini & Franchi, 1720, p. 190): «Stant ubi marmorei geminique in monte Caballi, | Quos gemini aurigae nudi moderantur, et illud | Par opus artificum geminorum, et gloria coeli, | Usque ab Armenia quae munera missa Neroni. | Haud procul ingentes immani mole recumbunt, | Marmorei geminique senex Achelous et Ister, | In quorum manibus pleno stat copia cornu. | Nec longe mons Clatre et Apollinis eminet altus, | Tecta Dicarcheae stant in quo picta Caraphae | Gentis, Oliveri patris fastigia sacri | Qui montem excoluit totum et pomaria fecit.» (p. 190). 27 Cfr. De antiquitatibus urbis libri cit., p. 205.

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scritti del Leto nei loro poemi, si vede quanto peso esso abbia avuto in questi anni. Leto, di fatto, era diventato una figura quasi di culto per gli umanisti, romani e stranieri, un culto che forse nella stima di un Colocci e di una sua rinnovata Accademia si prolungava. Ci è tramandata una lettera di Johannes Rhagius (1457-1520) scritta a Conrad Celtis, il celebre umanista di Würzburg e uno dei primi grandi poeti neolatini della Germania, nella quale già nel 1500 paragona il “culto” della tomba di Pomponio Leto a quello che Silio Italico aveva istituito in onore del tumulo di Virgilio a Napoli: Nec quidem immerito [sc. tu laudaris], si enim Silius olim Virgilio et iam omnis doctorum turba Pomponio illi Laeto, cuius nuper sepulcrum quum in Urbe essem vidi, religiose etiam sacrificant 28.

Quando Celtis ed altri umanisti tedeschi come Hermann von dem Busche, discepolo del Leto per più di cinque anni, visitavano la città, la Roma instaurata di Flavio Biondo era appena stata pubblicata29. Quest’opera, la prima in assoluto a cercare un approccio esclusivamente scientifico (e non devozionale), è senza dubbio la fonte principale per tutti gli studi successivi, ma era forse ancora troppo confusa e contraddittoria per diventare fonte di poesia. Un altro punto importante mi sembra essere che ai tempi del Biondo sono ancora rari gli scavi, o meglio: non si vedeva ancora riemergere chiaramente la città antica30. Mancava dunque da molte parti quella che potremmo chiamare la “qualità sensuale” della rovina che parla allo spettatore. Potremmo anche, molto genericamente, dire che, nonostante l’opera illuminatrice del Biondo, gran parte delle rovine erano ancora avvolte nella foschia delle leggende che vi aveva lasciato il medioevo31. Quali che fossero i motivi dei singoli autori, sta di fatto che una vera e propria “poesia antiquaria” a Roma si trova soltanto durante il papato di Leone X, periodo senza dubbio straordinario anche per l’interesse che il pontefice nutriva riguardo alla ripresa dell’urbanistica e dell’archeologia in genere.

28 Johannes Rhagius Aesticampianus a Conrad Celtis, Bologna, 27 maggio 1500. Cito da H. RUPPRICH, Der Briefwechsel des Konrad Celtis, München 1934, nr. 241 (pp. 401-4, p. 403). 29 Di questo incunabolo dell’antiquaria, finalmente, sono in preparazione edizioni criti-

che moderne. Si veda per ora: FLAVIO BIONDO, Rome restaurée, I [libro I], a cura di A. RAFFARIN-DUPUIS, Paris 2005 (Les classiques de l’humanisme 24). 30 Cfr. LANCIANI, Storia degli scavi cit. 31 Cfr. A. GRAF, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medio evo, Torino 1923.

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La poesia “antiquaria” tuttavia non è l’unico modo in cui i poeti hanno affrontato la sfida delle rovine. Ma prima di volgere lo sguardo ad altri approcci contemporanei, sarà opportuno vedere a che fine le rovine di Roma vengano impiegate nell’immaginazione poetica del Velio. Si sa che le immagini di Roma possono assumere significati molto diversi nella poesia rinascimentale e barocca. C’è un intento descrittivo, ma c’è anche e soprattutto il ragionamento su temi morali (la questione del degrado), nonché l’enumerazione di luoghi storici con intenzione encomiastica, la lettura simbolica della città e a volte anche la creazione di un palcoscenico politico32. Dopo tutto ciò, sarebbe strano se la descrizione di Velio non avesse un ulteriore significato. La soluzione della questione mi sembra stare nella sua condizione di poeta cliente di un principe mecenate, il quale vorrebbe, ma al momento non può, tornare a casa. Nei versi 77-80, Quamuis perpetuo, Roma aurea, uere tepescis Totque pios uates ingenuosque foues, Quamuis et gelidam late iacet omnis ad arcton Slesia, non est te uilior illa tamen,

troviamo la Roma aurea descritta come il paradiso dell’età dell’oro, ma confrontata con la nativa Slesia, che non è di minor valore. Per il poeta preso dalla nostalgia, il fascino dei monumenti e della città eterna esiste, ma la contemplazione sotto gli alberi del Quirinale e in mezzo alle sue “memorie dell’antico” non può essere più che un conforto, bello ma inadeguato, per la perdita che in quei giorni il Velio credeva di vivere: «scilicet haec nobis restant solatia tantum» (v. 17). Forse neanche questo è un caso: già nel 1499, Battista Mantuano aveva impiegato lo stesso concetto nella sua Quaerimonia de morte Alexandri Cortesii ad Hermolaum Barbarum: Roma quid excellens dabit et sublime suorum, Barbare, nunc operum, quod uulnera mentis et altum Pellat ab afflicto iam dudum corde dolorem? Forte triumphales arcus signataque rerum Marmora nominibus claris, monumenta laboris Militiae, et stantes antiquo ex aere columnas 32 Per questi vari atteggiamenti, vedi MORTIER, La poétique cit. e Poesia e poetica cit. L’ultima opzione è quella specialmente del Du Bellay (ma si trova anche prima, dato che le fantasie petrarchesche di una rinascita urbana intorno al consolato di Cola non sono poi tanto diverse).

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Ostendebit: opem uanam et solamen inane. (…) Magna quidem et nulli post hoc imitabilis aeuo Roma fuit (…) Nil tamen inter tot ueterum decora alta laborum Lumina delectat: nihil est, quod leniat aegrum33.

Le rovine di Roma, dunque, come mezzo – inadeguato – di consolazione, che farebbero della Terza Elegia, oltre che una descrizione scientifica, anche una querimonia poetae, situata ingegnosamente tra i due principali poeti italiani del tempo, il Sannazaro e il Mantuano. III. Vari momenti di “poesia delle rovine”: ovvero perché elencare monumenti in versi latini? III.1 Poesie di rovine anteriori al 1500 Come si è visto, la poesia antiquaria sembra coincidere con un breve periodo di grande ottimismo quanto a una “rinascita” di Roma, sia nel senso architettonico (basti pensare a Raffaello34) sia come capitale della cultura. Si può avere l’impressione che elencare i monumenti significhi quasi un’invocazione della potenza nascosta in essi, un rassicurarsi di quanto sia ancora superstite della città antica talmente desiderata, come se la sola quantità bastasse a garantirne la gloria. Questo concetto non è una novità assoluta: l’Epistula metrica II, 3 del Petrarca, scritta a papa Clemente VI nel 1342, è concepita, in un modo quasi epico, come lamento della città di Roma perché il papa torni da Avignone. Un tema medievale? Anche qui c’è un elenco di monumenti romani, ma questa volta cristiani: reliquie, luoghi di martíri e di conversioni, il fonte d’olio di Trastevere ecc.35. Abbiamo qui, in ambito sacro, lo stesso fenomeno di trasformazione di trattati prosaici in poesia, perché è chiaro che i versi 33 Cito da MORTIER, La poétique cit., pp. 36-37. 34 Se ne veda in particolare la Lettera sull’architettura a Leone X, pur di discussa attribu-

zione (cfr. RAFFAELLO, Gli scritti, a cura di E. CAMESASCA, Milano 1994, pp. 257-322). 35 F. PETRARCA, Epistola metrica, 2,3,92-123: «Condita quin etiam supremo moenia

monte | aestiuae niuis indicio, delubraque partu | obruta uirgineo, et fontes torrentis oliui, | ac Tibridos commixta uadis noua flumina cernes, | quasque dedit scatebras Pauli sanctissima ceruix | dulcis aquae: quo Siluester latitarit in antro; | quo Constantino species oblata Deorum | in somnis (...)». Cito da Roma aeterna. Lateinische und griechische Romdichtung von der Antike bis in die Gegenwart, a cura di B. KYTZLER, Zürich — München 1972, pp. 446448.

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petrarcheschi non sono altro che una versificazione delle tipiche guide ai Mirabilia Romae. E abbiamo anche la stessa intenzione con cui Fulvio elencherà le antichità (ed anche, non dimentichiamolo, le chiese): lodare la città e invocare la massa immensa dei suoi tesori. Si tratta forse di un testo tipico del medioevo romano, ma non è tipico del Petrarca. Apprendiamo dalle sue lettere che era la Roma antica piuttosto che quella contemporanea ad ispirarlo, e questo non solo quando Cola di Rienzo ne tentava una strana rinascita secondo le sue idee bizzarre. Le passeggiate romane fatte insieme all’amico Giovanni Colonna lo inducevano a ragionare intensamente di questioni di storia e filosofia, mentre seduto nel «silentium ac votiva solitudo» delle Terme di Diocleziano guardava le rovine della città le quali in quest’istante, già nel Trecento, cominciavano a diventare piuttosto un simbolo del declino che un valore concreto che rischiasse di andare perduto36. In seguito, i concetti di declino e ruina da un lato e di rinascita e ricostruzione dall’altro si tengono in equilibrio. Come ha detto Vincenzo De Caprio, l’idea della Varietas Fortunae (titolo di un’opera di Poggio Bracciolini37 ma anche un concetto che vale più generalmente) porta in sé anche la possibilità di un risorgere. Sarà questo concetto la base delle idee di ricostruzione – ideale o idealizzante – di una nuova Roma basata sui resti superstiti, idee che troviamo soprattutto dai grandi architetti del Quattro e Cinquecento38. È una interpretazione molto ottimistica delle rovine, molto pratica anche, nel senso che ritiene possibili anche le più fantastiche costruzioni. Una tarda eco di questi piani sono le piante ideali di una Roma antica mai distrutta fatte dal Ligorio e anche dal Piranesi39. III.2 Poesia delle rovine nel ’500: simbolismo e “partenza da Roma” Sembra però che queste speranze di una rinascita materiale della città non siano state seguite a lungo dai poeti. Anche se lasciamo da parte gli epigrammi del Celtis o di Ulrich von Hutten, dove la polemica 36 F. PETRARCA, Epistolae Familiares, 6,2. Si veda a questo proposito V. DE CAPRIO, Sub

tanta diruta mole. Il fascino delle rovine di Roma nel ’400 e ’500, in ID., Poesia e poetica cit., pp. 21-52, p. 30. 37 Vedi adesso l’ediz. di J.-Y. BORIAUD, Le Pogge, Les Ruines de Rome (De varietate fortu-

nae livre I), Paris 1999. 38 DE CAPRIO, Sub tanta diruta mole cit., p. 41. 39 Cfr. M. MCGOWAN, The Vision of Rome in Late Renaissance France, New Haven —

London 2000, pp. 163-166.

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antiromana prima e dopo Lutero è dominante, rimangono numerosi i poeti che non credono in un grande futuro della città. In un’elegia molto nota del palermitano Giano Vitale, pubblicata per la prima volta (forse con decenni di ritardo) nel 1553, c’è un nuovo tono40: Qui Romam in media quaeris nouus aduena Roma, Et Romam in Roma uix reperis media, Aspice murorum moles praeruptaque saxa Obrutaque horrenti uasta theatra situ, Haec sunt Roma, uiden’ uelut ipsa cadauera tantae Vrbis, adhuc spirent imperiosa minas? Vicit ut haec mundum, nisa est se uincere, uicit, A se non uictum ne quid in orbe foret, Nunc uicta in Roma Roma illa inuicta sepulta est, Atque eadem uictrix uictaque Roma fuit, Albula Romani restabat nominis index, Quin fugit ille citis non rediturus aquis, Disce hinc quid possit Fortuna, immota labascunt Et quae perpetuo sunt agitata, manent 41.

Ci sono le rovine, senza che venissero specificate, ma soltanto “grandi” e “vaste”, in un paesaggio certamente non idilliaco, ma in mezzo a praerupta saxa e pienamente coperte di horrens situs, di squallore. È un paesaggio minaccioso, perché quei resti massicci del passato – il “cadavere” della città (un’immagine usata anche da Biondo e Raffaello, ma col proposito di rianimare questo cadavere) – sono talmente forti da creare paura. Peggio ancora: pare che la forza di Roma si sia rivolta contro se stessa: «vicit | a se non victum ne quid in orbe foret». È un’immagine inquietante, direi quasi di cannibalismo, di un mostro che tende all’autodistruzione. Non si tratta, come in molte altre poesie del tempo, dei romani che hanno distrutto la loro città, ma è una scena di disastro in cui non figura niente di vivo. Questa è una poesia d’eccezione, anche se non tanto singolare quanto talora si è creduto. Come ha mostrato George Tucker, questo De Roma 40 Sembra importante notare che anche Ursino Velio è stato in contatto, almeno episto-

lare, col Vitale, cfr. BAUCH, Caspar Ursinus Velius cit. (vd. nt. 11), p. 16. Non si conosce la data d’origine delle due elegie Roma prisca e Roma instaurata, sappiamo invece che Vitale si trovava a Roma già dal 1510, alcuni anni prima dell’arrivo di Velio. 41 Cito da G. H. TUCKER, The Poet’s Odyssey. Joachim du Bellay and the Antiquitez de Rome, Oxford 1990, p. 108.

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antiqua non è espressione monolitica di desolazione come pare: originariamente era intitolata Roma prisca ed era accompagnata da una seconda elegia, Roma instaurata, nella quale Vitale si dichiarava certo che la città era già risorta e che non c’era nulla di più grande42. I due poemi si trovano all’inizio dei Sacrosanctae Romanae Ecclesiae Elogia del domenicano Vitale, e non c’è da meravigliarsi che nel secondo siamo giunti alla Roma triumphans dei papi rinascimentali e barocchi; resta comunque l’impressione molto forte del primo pezzo che, infatti, è stato quello che ha avuto un influsso decisivo sul più grande commentatore poetico della Roma cinquecentesca, Joachim Du Bellay 43. Su di lui, basti ricordare due cose. 1. Du Bellay tende verso un’immagine di Roma che si stacca molto di più dalla realtà concreta: la sua non è assolutamente poesia “antiquaria” ma poesia morale. È stato Du Bellay ad isolare uno dei due Elogia del Vitale e ad inserirne la traduzione nelle sue Antiquitez. Soltanto in questo istante, Nouveau venu qui cherches Rome en Rome diventa realmente ciò che della Roma prisca si era spesso sospettato: è il pessimismo, e sono i concetti di vanità, che dominano tanto queste righe quanto l’intero ciclo di sonetti. Nouveau venu qui cherches Rome en Rome, Et rien de Rome en Rome n’apperçois, Ces vieux palais, ces vieux arcz que tu vois, Et ces vieux murs, c’est ce que Rome on nomme. Voy quel orgueil, quelle ruine: et comme Celle qui mist le monde sous ses loix Pour donter tout, se donta quelquefois, Et devint proye au temps, qui tout consomme. Rome de Rome est le seul monument, Et Rome Rome a vaincu seulement. 42 G. H. TUCKER, Sur les Elogia de Janus Vitalis et les Antiquitez de Rome de Joachim du

Bellay, in Bibliothèque d’humanisme et renaissance 47 (1985), pp. 103-112; ID., The Poet’s Odyssey cit., pp. 106-109 (da cui cito il testo della Roma instaurata: «Quicunque immensi septem miracula mundi | Fortunae arbitrio praecipitata stupes, | En quae Roma suo mundum comprehendit in orbe | Quantum sit spoliis facta decora nouis, | Quam uere est mundi Roma una unius imago, | Quamue unam Romam non nisi Roma refert, | En uelut expurgata repullulat ardua quercus, | Grandior e cinere est Roma renata suo, | En uelut hi montes, saxa haec immania passim | Excutiant Iulos Scipiadasque nouos | Uirtutemque animis, maiestatemque superbam | Infundant genii bellipotentis ope, | Ergo qui Romam hanc, mundumque tueris in illa | Nil debes oculis grandius inde tuis.»). 43 Sulla fortuna della Roma prisca nella poesia europea, vedi già MORTIER, La poétique cit., pp. 46-56; per Vitale e Du Bellay vedi TUCKER, The Poet’s Odyssey cit., pp. 131-157.

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Le Tybre seul, qui vers la mer s’enfuit, Reste de Rome. O mondaine inconstance! Ce qui est ferme, est par le temps destruit, Et ce qui fuit, au temps fait resistance 44.

Come hanno giustamente sottolineato Roland Mortier e Pierre Grimal, le poesie romane del Du Bellay non hanno niente a che fare con le rovine singole di Roma, ma piuttosto con i pensieri di uno spettatore filosofo o moralista, sono «une homélie morale»45. Ma è anche vero, e questo le collega anche con la Terza Elegia veliana, che le Antiquitez non sono, come spesso si è detto, la reazione immediata di questo spettatore, ma piuttosto il prodotto intellettuale combinato dello studio delle cose visibili e della più recente letteratura: gli scritti topografici nel caso del Velio, le poesie del Vitale e di altri (Antiquitez VII è traduzione del famoso Superbi Colli attribuita al Castiglione)46 nel caso del Du Bellay. La sua, fino ad un certo punto, è una Roma “cartacea”. 2. Più lontano va la seconda osservazione: si sa che uno degli scopi maggiori delle poesie romane di Du Bellay era di mettere in contrasto il vecchio caput mundi con uno nuovo, che per lui non poteva essere altro che la Parigi di Enrico II. Lo dice apertamente nel sonetto introduttivo delle Antiquitez: Au Roy. Ne vous pouvant donner ces ouvrages antiques Pour vostre Saint-Germain, ou pour Fontainebleau, Je les vous donne, Sire, en ce petit tableau Peint, le mieux que j’ay peu, de couleurs poëtiques. Qui mis sous vostre nom devant les yeux publiques, Si vous le daignez voir en son jour le plus beau, Se pourra bien vanter d’avoir hors du tumbeau Tiré des vieux Romains les poudreuses reliques. Que vous puissent les Dieux un jour donner tant d’heur, De rebastir en France une telle grandeur Que je la voudrois bien peindre en vostre langage: Et peult estre, qu’à lors vostre grand’ Majesté Repensant à mes vers, diroit qu’ilz ont esté 44 Cito da J. DU BELLAY, Les regrets et autres œuvres poëtiques, éd. J. JOLLIFFE, Genève

1966, p. 275. 45 Pierre Grimal nell’ediz. parigina di Regretz e Antiquitez, citato in MORTIER, La poétique cit., p. 66. 46 A proposito di Superbi colli, vedi MORTIER, La poétique cit., p. 56-59.

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De vostre Monarchie un bienheureux presage 47.

Questa è l’immagine della rinascita che già dai tempi del Biondo e di Raffaello dominava i discorsi su Roma, ma che ormai viene trasferita ad un altro luogo. Il concetto di una nuova Roma – che si chiami Parigi oppure sia comunque dominata dal re di Francia – diventa anche la base di ciò che a prima vista potrebbe sembrare una poesia antiquaria del Du Bellay. Nei suoi poemi latini, infatti, troviamo due elenchi molto dettagliati di opere d’arte, ma anche di edifici antichi e moderni, che il lettore delle sole Antiquitez non si sarebbe aspettato. Ma la Romae descriptio (1553) e l’Ad Ianum Avansonium (1555) non sono poesia antiquaria48. La Descriptio è piuttosto una recusatio molto raffinata, dato che alla fine Du Bellay dichiara che dell’antica Roma, quello che resta sono i poeti e che perciò anche nel presente l’unico scopo del poeta può essere la propria produzione letteraria49. Anche se in questo momento non lo dice francamente, vediamo già che l’autore della Deffence de la langue françoyse non se la sentirà di cantare a lungo le lodi di Roma in latino, ma che si orienterà sempre di più verso la Francia. La seconda poesia è un altro tentativo di dire Roma, ma di intendere altro: nell’Ad Ianum tutta la scena romana, evocata in forma di presagio dalla bocca del dio Tevere, serve come decorazione per un ingresso trionfale di re Enrico. In questa querelle de l’ancien et du moderne, dunque, è l’antico che vince perché, malgrado il declino avvenuto, non ha perso il suo valore di paragone o di misura-canone, ma vince soltanto in quanto tale: il proposito non è una nuova Roma che debba tornare al culmine delle cose, ma un nuovo culmine – francese – delle cose, adorno di tesori paragonabili a quelli di Roma, a loro volta imprescindibili perchè sono sempre i più grandi. Mentre alla metà del XVI secolo Du Bellay riuscì a trasformare la gloria di Roma in una gloire françoise, le guerre intestine che pochi anni dopo dilaniavano la Francia non permisero più ai poeti contemporanei di seguire questa strada. Al gusto di rovine, quel sentimento tra la nostal47 DU BELLAY, Les regrets cit., p. 271. 48 Per i testi, vedi J. DU BELLAY, Oeuvres poétiques, VII: Poemata, a cura di G. DEMERSON,

Paris 1984, pp. 36-53.

49 Romae descriptio, vv. 131-148: «Disce hinc humanis quae sit fiducia rebus: | Hic tanti

cursus tam breuis imperii. | Roma ingens periit, uiuit Maro doctus ubique, | Et uiuunt Latiae fila canora lyrae. (…) Forte etiam uiuent nostri monumenta laboris, | Caetera cum domino sunt peritura suo. | Sola uirum uirtus caeli super ardua tollit, | Virtutem caelo solaque Musa beat». Per questo motivo nella poesia delle rovine di Roma, vedi anche E. MARINOVA, Germanus Audebertus: Roma. Edition und Kommentar, Hamburg — Münster 2000, p. 295.

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gia e la meditazione dolorosa sulle cose umane50, si andava mescolando il terrore provocato dalle rovine recenti: le case e chiese distrutte nella stessa patria. Per Jacques Grévin, le rovine di Roma non sono più altro che un’immagine d’incubo che rispecchia la Francia51. A mia conoscenza è soltanto Germain Audebert, poeta latino di Orléans, a scrivere (poco prima della fine del secolo) una poesia romana che non solo sa des temps jadis, ma che è addirittura un poema “antiquario”. Questa situazione a prima vista paradossale si spiega col fatto che il viaggio in Italia di Germain aveva avuto luogo già nel lontano 1538 mentre la Roma non venne stampata che quasi mezzo secolo dopo con l’aiuto del figlio Nicolas, appena tornato, anch’egli, da un giro molto simile a quello del padre52. Germain Audebert, per la sua descrizione di Roma in esametri latini, utilizza ancora una volta gli scritti degli antiquari, probabilmente preferendo gli Antiquaria Vrbis del Fulvio perchè erano scritti anch’essi nel verso epico53. La Roma ebbe un grande successo dopo la prima edizione del 1585, ma rimase comunque una tarda eco di un’epoca lontana in cui, intorno a personaggi come Pomponio Leto ed Angelo Colocci, esisteva una sorta di simbiosi tra studiosi moderni e poeti delle antichità. Come si è visto, anche in questo campo, come in tanti altri, sappiamo ben poco di preciso sui rapporti che Colocci ebbe con i poeti del suo tempo. Potremmo dirne di più, e fors’anche della sua relazione con Ursino Velio, se conoscessimo il significato di una notizia che si trova in uno dei suoi elenchi di libri. Nel Vat. lat. 14065, a f. 52r, sotto l’intestazione «forziero roscio accanto allo studiolo», troviamo, oltre ad alcuni nomi di poeti italiani, l’indicazione «Carmina de ruinis regionum»54.

50 Sul goût des ruines, cfr. MORTIER La poétique cit., pp. 15-19. 51 Cfr. MCGOWAN, The Vision of Rome cit., pp. 267 sgg. 52 Si veda ora MARINOVA, Germanus Audebertus cit., pp. 4-26. 53 Sulle probabili fonti antiquarie della Roma di Audebert cfr. ibid., pp. 34-38. 54 Ringrazio vivamente il prof. Corrado Bologna per avermi fornito questi dettagli. L’ul-

tima parola è di difficile lettura, ma l’integrazione proposta (regionum) mi sembra dare un buon senso, viste opere come gli Antiquaria Vrbis.

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INDICE DEI NOMI L’indice seguente raccoglie tutti i nomi di persona a vario titolo citati nel volume. Si è escluso tuttavia quello di Angelo Colocci la cui menzione in indice non sarebbe risultata di particolare utilità dal momento che esso compare praticamente in tutte le pagine del volume, più volte per pagina, tanto nel testo quanto nelle note. È stato impiegato il corsivo per riprodurre la grafia con cui alcuni di essi compaiono nei manoscritti. Essi sono preceduti dalla grafia moderna nel caso in cui la loro citazione nei saggi non si rifaccia esclusivamente alla lezione dei codici. Solo in corsivo si presenteranno dunque i nomi di quei personaggi che sono solo citati nei versi di un componimento, o che non sono stati identificati, o che non lo sono stati con certezza; in quest’ultimo caso il nome è seguito anche da un punto interrogativo. I nomi di legisti, tipografi e umanisti poco noti compaiono per lo più nella forma latinizzata registrata dalle edizioni antiche o dalle annotazioni manoscritte dalle quali sono tratti. I nomi dei poeti provenzali si citano nella forma utilizzata da I. FRANK nel suo Répertoire métrique de la poésie des troubadours, Paris 1966, riportandone anche le sigle corrispondenti secondo i criteri di questo repertorio, quando queste siano utili all’identificazione del riferimento nei saggi. Per i nomi dei poeti galego-portoghesi si è tenuto presente G. TAVANI, Repertorio metrico della lirica galego-portoghese, Roma 1967, da cui si sono anche tratte le sigle corrispondenti. Per i poeti italiani delle origini, il repertorio di riferimento è invece D’ARCO. S. AVALLE, Concordanze della lingua italiana delle origini, Milano — Napoli 1992. I rimandi numerici che si trovano in corrispondenza di ciascun nome si riferiscono alle pagine del presente volume; quando sono seguiti da una semplice «n» minuscola (per es. 23n). Il rimando indica che il nome in questione compare in una (o più) delle note della pagina designata; quando precedono la dicitura «e n» (per es. 23 e n), il nome comparirà sia nel testo (come avviene per i rimandi costituiti dalla sola indicazione numerica), sia in nota nella pagina indicata. Un punto interrogativo può comparire accanto all’indicazione di pagina in relazione alla menzione di nomi della cui identificazione non si è certi, specialmente quando essi compaiono in liste manoscritte o in appunti di incerta decifrazione, di Colocci o di altri umanisti. Abate di Tivoli: 203 Abravanel, Isaac: 98 Abubertus: 50 Acciaioli, Zanobi: 40?, 174, 184 Accio, Lucio: 40 Accolti, Bernardo (detto l’Unico): 155, 160, 188 Accursio, Francesco: 193 Accursio, Mariangelo: 76, 78 Achillini, Giovanni Filoteo: 189n, 476n

Acrone, Elenio: 33 Acuña, Hernando de —: 87 Adalboldo: 53 Adolfo (di Nassau, 1291-1298?): 187 Adriano (imperatore): 76 Adriano VI (Adriano Florisz Boeyens di Utrecht), papa (1522-1523): XII, 65, 80, 105, 185n, 493 Aegidius, Petrus (Pierre Gilles): 77 Afonso Fernandez Cubel cavaleyro: 295n

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INDICE DEI NOMI

Afonso Lopez de Bayan (AfLpzBay): 340, 342 Afonso Sanchez: 396n Afragano: 75 Afranio, Lucio: 480 Agabito, Giovanni ?: 159, 160, 175, 190 e n Agapytus Geraldinus ?: 190n Ageno Brambilla, Franca: XVII, 300n Agnello (protonotaro ascolano): 41 Agostino (Santo): 1, 45, 382 Agostino, M. Giovanni: 105 Agricola, Georgius: 82 Agricola, Giulio: 52 Agustín, Antonio: 40, 42 Aimeric de Belenoi: 260 e n, 456 Aimeric de Peguilhan: 141, 142, 158, 176?, 177 Alamanni, Luigi: 285n Albertazzi, Marco: 147n Alberti, Leon Battista: 47, 61, 65, 137n, 159, 174, 184, 480 Albertin de Cisona (tipografo): 78 Albertini, Francesco: 504 Alberto Magno: 383 Albonico, Simone: 87n, 95n, 470n Alcalà de Henares: 98 Alceo: 160 Alcionio, Pietro: 38 Aldana, Francisco de —: 87 Aleandro, Girolamo: 80, 495 Aleandro, Pietro: 495 Alegret: 63 Alemany Bay, Carmen: 346n Alessandro Magno: 40 Alessandro VI (Rodrigo de Borja [Borgia]), papa (1492-1503): 39, 86, 191, 396n, 478, 494 Alexandre de Halés: 383 e n Alfarabio: 73 Alfonso de Córdoba (astronomo): 379, 384 Alfonso I d’Este (1476-1534): 398 Alfonso II d’Aragona (1164-1196): 389, 399 e n, 400, 401 Alfonso III (1248-1279) di Portogallo: 402n Alfonso IV, il Valoroso (re di Portogallo, 1291-1357): 376, 378, 395 Alfonso Sanchez: 377, 395 Alfonso V d’Aragona, II di Napoli, il Magnanimo (1448-1495): 41?, 374, 381, 382n, 383, 385

Alfonso X il Saggio (re di Castiglia e León, 1221-1284; Alf X): 75, 310, 313, 340n, 344 e n, 345, 364, 365, 366, 367 e n, 368, 369 e n, 370, 371, 372 e n, 374, 375, 376 e n, 377n, 378, 379, 380, 381, 385, 387, 388 e n, 389, 391 e n, 392, 395, 396, 400 e n, 401, 402 e n, 403n, 423n, 439n Alfonso XI di Castiglia (1311-1350): 385, 392n Alhaique Pettinelli, Rosanna: XIII, 23n, 27, 43, 80, 124n, 489n, 497n Alighieri, Dante (Danti): 6, 8n, 15, 16, 33, 45, 57, 59, 60, 61, 69, 109n, 111 e n, 112n, 113 e n, 114 e n, 115n, 118, 132, 138n, 139 e n, 142n, 144, 146, 147, 149, 154, 155, 157, 158, 160, 171, 172, 174 e n, 175n, 178 e n, 179 e n, 180, 181, 182, 183n, 184, 185, 186n, 187, 192, 195, 196, 197, 200, 202n, 204, 207, 208, 211, 212, 215n, 219, 220 e n, 223, 224n, 225nn, 233, 234 e n, 238, 239 e n, 249, 250, 251 e n, 252, 256, 257n, 260 e n, 261, 262, 281, 288n, 296n, 319, 322n, 325n, 348n, 351 e n, 352, 365, 400n, 433, 434, 449n, 450 e n, 451n, 452, 453, 455 e n, 456 e n, 457n, 458n, 459 e n, 460 e n, 461, 462, 463, 465, 466, 468n, 469, 480, 484, 485, 486 Allacci, Leone: 217, 236n Almela y Vives, Francisco: 56 Almquist, Karin: 323n Aloise: 157 Aloisi (frate spagnolo): 93n Alopa, Lorenzo Francesco de (tipografo): 74, 75 Aloza, Giacomo: 78 Altilio, Gabriele: 29, 30, 41, 490 Alustensis, Theodoricus, Martinus (tipografo): 77 Alvar, Carlos: 401n Alvárez, Rosario: XV, 251n, 403n Amartino da Amsterdam: 81 Amaseo, Romano: 50 Amati, Alessandro ?: 160, 189 Ambrogio (Santo): 58, 213 Ancaroth (don —): 410, 412, 413, 415 Andalò dal Negro: 381 Andrea da Mantova: XIV, 44 Andrews, Richard: 322n Angeleri, Carlo: 6n Angeli da Bucine, Niccolò: 135?, 157? Anglade, Joseph: 321n, 335n, 342n

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INDICE DEI NOMI

Anselmo: 158, 176 Antonelli, Roberto: XVII, 43, 127n, 201n, 218n, 220n, 223n, 236n, 282n, 284, 285n, 286n, 319n, 321n, 324n, 403n, 447n, 455n Antonello da Messina: 1, 19 Antonino da Firenze (santo): (vd. Pierozzi, Antonino) Antonio da Ferrara (commediografo, XVXVI sec.): 160, 189 Antonio da Ferrara (corrisp. di F. Petrarca): 145, 149, 158 Antonio da Tempo: 38, 39, 322n, 329 e n, 344n Antonio T. da Firenze: 61 Aphtonio: 67 Apiano, Pietro: 65 Apollonio di Tiana: 56, 62 Apollonio Rodio: 67, 75 Apostolio, Arsenio: 79 Apostolio, Michele: 79 Appiano: 28, 31, 49, 74 Apuleio, Lucio: 35, 77 Aquila Romano: 31, 83? Aracil Varón, Beatriz: 346n Arato: 74, 75 Arbor Aldea, Mariña: 396n Archimede: 47, 48, 75, 180 Archita: 180 Aretino, Leonardo: (vd. Bruni, Leonardo) Aretino, Pietro: 41 Argenteo, Marcello (tipografo): 76 Ariosto, Ludovico: 8, 41, 63, 93, 172n, 396n, 399n Aristeo, Leonardo: 485 Aristide: 83 Aristofane: 74 Aristosseno: 58 Aristotele: 27, 37, 38, 46, 48, 53, 62, 65, 66, 73, 114n, 180, 187, 379 Armannino, Giudice: 56 Arnaldo di Villanova: 54, 55, 176 Arnao Guillén de Brocar: 98 Arnaut Daniel: 43, 44, 54, 56, 140, 141, 154, 160, 196?, 224n, 260 e n, 319, 365, 394n, 403, 433, 434, 435 e n, 436, 456, 457 e n, 458 e n, 459 e n, 460, 468, 469, 470, 471 e n Arnaut de Maruelh: 140, 142 Arquès, Rossend: 223n Arrighi (tipografo): 80 Arrigo (Donn): 456

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Arrigo T. di Firenze: 205, 208 Arsilli, Francesco: 79, 80 Artur (Rei): 414, 416 Arveda, Antonia: 447n Asconio Pediano: 73 Asensio, Eugenio: 346n Asor Rosa, Alberto: 1n, 201n, 319n, 370n Asperti, Stefano: XIV, 43, 247n, 403n Assemani, Giuseppe Simonio: 41 Asterio: 66, 67 Aston, Stanley Collin: 335n Ateneo: 67 Attico, Tito Pomponio: 50 Audebert, Germain: 512n, 513 e n Audebert, Nicolas: 513 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano: 62, 179, 451 Aurispa, Giovanni: 67 Ausonio, Decimo Magno: 77, 78, 480 Avalle, D’Arco Silvio: 320n Avalos, Alfonso d’—: 87 e n, 88 Avanzi, Girolamo: 495 Avesani, Rino: XII, XVII, 27, 41, 53, 78, 172n, 214n, 316n, 329n, 344 e n, 449 e n, 487n, 492n, 495n Avieno, Rufio Festo: 75 Ayras Nunez clerigo: 395n Azar, Inés: 378n Azarquiel: 369 Azevedo Maia, Clarinda de —: 412, 413 Badius, Josse (tipografo): 49 Baïf, Lazare de —: 83 Bajazet II (sultano): 67 Baldelli, Ignazio: 351n Baldo degli Ubaldi: 187 Baldo, Vincenzo: 51 Ballistreri, Gianni: VIIIn, XII, XVIII, 432n, 486n Balsamo, Luigi: 112n Bambaglioli, Graziolo: 152n Barbaro, Ermolao: 37, 38, 506 Barbato da Sulmona: 151 Barberi, Francesco: XVIII, 25n, 78n Barberino, Francesco da —: (vd. Francesco da Barberino) Barbi, Michele: 8 e n, 12, 33, 202n, 220n, 296n Barbieri, Giovanni Maria: XVII, 10, 44, 57, 63, 260n, 272n, 291, 351n, 449n Bartolo da Napoli ?: 193

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INDICE DEI NOMI

Bartolo di Sassoferrato: 187 Barzizza, Gasparino: 28 Basile, Tania: 478n Basilio Magno (santo): 73, 82 Basilio, granduca di Russia: 38 Basiniis, Basinio de —: 28 Bastero, Antonio: 32 Battaglia, Salvatore: 131 e n, 132n Battista Mantuano: 499, 506, 507 Bauch, Gustav: 499n, 509n Baumgartner, Emmanuèle: 409n Bausi, Francesco: 339n Bazalieri, Caligula (tipografo): 475 e n, 476n Beatrice di Monferrato: 176 Beatriz de Guilléri (figlia illegittima di Alfonso X): 376, 377n Beaujouan, Guy: 368n Bebelius, Giovanni (tipografo): 77 Beccadelli, Antonio: (vd. Panormita) Beccadelli, Ludovico: 38, 51 Bechai ben Asher: 98 Becker, Philip A.: 218 e n Beda il Venerabile (Santo): 46, 56, 58, 83 Bellincioni, Bernardo: 160 Bellini, Francesco da Sacile: XIV, 36?, 41, 66?, 487n Bellini, Francesco da Staffolo: 29, 36?, 51, 66? Belloncino, Bartolomeo: 28 Belloni, Gino: 118n Beltrami, Pietro G.: 91, 285n, 322n, 324n, 330n Beltrán, Vicenç: 344n, 410n Bembo, Bernardo: 33, 95 e n, 96 e n, 97, 99, 104, 400n Bembo, Pietro: X, XV, XVII, XVIII, 3, 5 e n, 8, 9 e n, 10 e n, 15, 29, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 43, 45, 51, 53, 54, 61, 85 e n, 87, 89, 90, 91 e n, 92 e n, 93 e n, 94 e n, 95 e n, 96 e n, 97, 98, 99 e n, 100, 104 e n, 105 e n, 106, 109 e n, 111 e n, 112 e n, 116n, 117, 120, 121, 135, 154, 155, 157, 160, 172 e n, 189, 191, 193n, 197, 239, 248, 260n, 261n, 318n, 351n, 363, 394 e n, 396 e n, 397 e n, 398 e n, 399 e n, 400 e n, 401, 404, 432, 449 e n, 450n, 457, 458n, 459 e n, 460 e n, 461 e n, 462n, 463 e n, 464, 467 e n, 468, 469 e n, 470 e n, 471n, 485, 487n, 491, 498 Bembo, Torquato: 32, 97 Benalio, Bernardino (tipografo): 74

Bendedei, Timoteo: 37, 155, 160, 189 Benedetti, Alessandro: 76 Benedetti, Girolamo (tipografo): 110n Benedetto (santo): 62 Benedictis, Girolamo de — (tipografo): 77 Benediva, Alfonso ?: 159, 175 Benimbene ?: 29, 30 Benivieni, Gerolamo: 155, 160, 188, 450n Benvenuto (de’ Rambaldi) da Imola: 28, 83, 150 e n, 239 Bernal de Bonavalle: 395n Bernardi, Marco: XII, XVIII, 3 e n, 10 e n, 11, 17n, 18n, 61, 173n, 224n, 306n, 317n, 388n Bernardina (moglie di Giovanni Maria Stagnini): 53 Bernardino da Siena (Santo): 159, 175, 184 Bernardinus Cyllenius Veronensis: 73 Bernardo, Giorgio: 50 Bernardoni Trezzini, Gabrielle: 474n Bernardus, pictor (tipografo): (vd. Maler, Bernhard) Bernart de Ventadorn: 32, 141, 158, 176?, 177, 249n, 350 e n Bernelino: 53 Bernini, Ferdinando: 242 Beroaldo, Filippo jr: 29, 34, 35, 66, 73, 75, 76, 79, 80, 498 Berra, Claudia: 52, 440n Berra, Luigi: XII, XVIII Berti (famiglia): 295n Bertolucci Pizzorusso, Valeria: XV, 57, 69, 285n, 315 e n, 329n, 336 e n, 339n, 345n, 389n, 391n, 418n, 425n, 437, 438 e n, 440, 442, 455n Bertoni, Giulio: XVIII, 90, 91n, 97n Bertran de Born: 260 e n, 435 e n, 438, 440, 456 Bertrand de Alamanon: 255 e n Besicken, Johann (tipografo): 36, 81, 181, 182, 184, 185 e n, 473 e n, 474 e n, 475, 478n, 490 Bessarione, Giovanni: 6, 31 Betti, Francesco: 111n Bezzola, Reto Roberto: 231n Bianca, Concetta: 66 Bianchi, Maria Grazia: 107n, 109n, 110n, 117n, 118n, 485n Bianchi, Rossella: XIII, XIV, 3, 4n, 12n, 23, 24n, 26, 53, 65, 66, 77, 82n, 131n, 236n, 317n, 364n, 388n, 432n, 487n

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INDICE DEI NOMI

Bianchini, Simonetta: 218n, 220 e n, 230n, 239n, 240n, 241n, 447n Bignami Odier, Jean: 66 Billanovich, Eugenio: XIV, 487n Billy, Dominique: 321n, 322n, 327n, 332n, 333n, 335n, 339n, 345n, 349n, 350n Bini, Giovan Francesco: 80 Biondo, Flavio: 151n, 183, 242 e n, 243, 504, 505 e n, 509, 512 Blado, Antonio (tipografo): 77, 105, 106 Blanco Valdés, Carmen F.: XV, XVI, 199n, 207n, 245n, 248n, 336n, 394n, 433n Blavis, Tommaso de — (tipografo): 73 Blecua, Alberto: 415n Bober, Phyllis Pray: 80 Boccabella, Paolo Emilio: 34, 35, 41, 66 Boccabelli, Giovanni Giacomo: 27 Boccaccio, Giovanni: 56, 68, 107n, 110n, 111n, 112n, 115n, 117, 132, 144n, 145, 147 e n, 149, 150, 151n, 155, 158, 174n, 179, 183n, 186n, 195, 342n, 365, 451n, 463n Boccalini, Traiano: 86 Böcking, Eduard: 70n Boezio, Severino: 31, 52, 54, 75 Boitani, Piero: 238n Bologna, Corrado: XII, XIII, XVII, XVIII, 8n, 9n, 10n, 12n, 14n, 16n, 17n, 21 e n, 23 e n, 24, 26, 27, 33, 43, 48, 49, 53, 82 e n, 108n, 123n, 124n, 125n, 126n, 131n, 134n, 144n, 146n, 148, 149n, 154 e n, 160n, 171n, 173n, 183n, 195n, 196n, 199 e n, 200 e n, 201n, 202 e n, 203 e n, 204 e n, 205 e n, 206 e n, 207, 208 e n, 211 e n, 212 e n, 213 e n, 215, 216 e n, 217 e n, 219 e n, 221, 222n, 225n, 226 e n, 227n, 231n, 233, 234n, 235n, 237n, 238 e n, 239n, 240n, 246n, 248n, 250n, 257 e n, 267n, 268 e n, 269n, 271n, 272n, 273n, 275n, 277n, 282n, 283n, 285n, 286n, 287, 288n, 289n, 290n, 291n, 292 e n, 293n, 297 e n, 298 e n, 300 e n, 304n, 306n, 308n, 317n, 318n, 319 e n, 320n, 328n, 336n, 343n, 349n, 351n, 352n, 364, 367n, 388, 397n, 403n, 425n, 447n, 449n, 455n, 456n, 457n, 460n, 487n, 489n, 491n, 495 e n, 497n, 513n Bolseiro, Juião: 345n Bonaccorsi, Francesco (tipografo): 111 e n, 450n Bonagiunta Orbicciani da Lucca: 137n, 138n, 144e n, 158, 174, 179, 195, 218, 288 e n, 289n, 457n, 461

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Bonamico, Lazzaro: 36, 51, 66 Bondi, Vincenzo: 90 Bonel, Jordan: 63 Bonelli, Manfredo (tipografo): 475, 477n, 486n Bonifacio Calvo da Genova: 401, 403n Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa (1294-1303): 187 Bonincontri, Lorenzo: 30 Boninis, Bonino de — (tipografo): 73 Borghini, Vincenzo Maria: 118n Borgia, Cesare: 485 Borgia, famiglia: 34, 398n Borgia, Girolamo: XVIII, 135, 155, 157, 432 e n, 490 Borgia, Lucrezia: 85n, 91, 92, 397, 398 e n Boriaud, Jean-Yves: 508n Borso d’Este: 142 Bosco, Umberto: 234n, 325n Botticelli, Sandro: 1 Bouchard, Jean Jacques: 46, 48, 52, 62 Boutière, Jean: 400n Bozzetti, Cesare: 95n Bracciolini, Poggio: 39, 41, 49, 73, 146n, 508 e n Bramante, Donato: 160, 190 e n, 191 Branca, Vittore: 68, 96n Brancati, Giovanni: 184n Branciforti, Francesco: 403n Brancuti di Cagli (famiglia): 68 Brandinus Paduanus: (vd. Mezzabati, Ildebrandino) Brea, Mercedes: XV, XVI, 199 e n, 245n, 259n, 308n, 315, 318n, 319n, 320n, 325n, 346n, 370n, 387n, 389n, 391n, 403n, 408n, 418n, 431, 433n, 437n, 443n, 455n Briçonnet, Denise (vescovo di Tolone): 50 Briquet, Carl Maria: 124n Britonio, Girolamo: XVIII, 41, 432 e n Brocardo, Antonio: 135, 155, 157, 159 Brugnolo, Furio: 16n, 449n Brunetti, Giuseppina: 223n Brunetto Latini: 456, 461 Bruni, Francesco: 147, 151n, 463n Bruni, Leonardo (Aretino): 27, 28, 31, 40, 65, 179, 181 Buonaccorsi, Filippo (Callimacus Experiens): 28 Buonarroti, Michelangelo: 6 Burchiello (Domenico di Giovanni): 125n, 137, 153n, 159, 184

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INDICE DEI NOMI

Burnell, A.: 112n Burzio, Niccolò: 75 Buti, Francesco: 27 Butrigario, Jacomo: 187 Cabrera, Andrés de —: 384n Caccialupi, Giovan Battista: 144n, 148, 176 e n, 186, 187, 188, 193 Caix, Napoleone: 267, 268n Calandra, Giovanni C.: 71, 72 Calcagnini, Celio: 34 Calcia, Traiano: 489n Calcondila, Demetrio: 72, 135 Calcondila, Niccolò: 67 Calcondila, Teofilo: 157? Calenzio, Elisio: 29, 30, 34, 35, 36, 41, 47, 49, 61, 66, 81, 146n, 159, 174, 182, 183, 473, 474 e n, 490 Calenzio, Lucio: 36, 49, 81, 182, 473 Callisto III (Alonso de Borja [Borgia]), papa (1455-1458): 86 e n, 398n Calmeta, Vincenzo: (vd. Colli, Vincenzo) Calori Cesis, Ferdinando: 5n Calvo, Bonifacio: (vd. Bonifacio Calvo da Genova) Calvo, Fabio: XIV, 33, 42, 46, 57, 306 Camesasca, Ettore: 507n Camillo, Giulio (detto Delminio): 8, 14n, 44, 51, 268 e n Cammelli, Antonio (detto il Pistoia): 41, 160, 190 Campana, Augusto: XVIII, 7 e n, 41, 64, 76, 81, 82, 182n, 473 e n, 474n, 489n, 490n, 501n Campanella, Tommaso: 86 Canart, Paul: 50, 67 Canello, Ugo Angelo: 64 Canettieri, Paolo: 285n, 322n, 471n Cannata Salamone, Nadia: XVII, XVIII, 62, 130n, 134, 185n, 188n, 194n, 224n, 388n, 487n Canziuncula, Claudio: 77 Capcasa, Matteo (tipografo): 73 Capella, Bernardino: 29, 66, 80 Cappellano, Andrea: 130, 131n, 132, 156, 173 e n Cappelli, Adriano: 441n, 446n Caraccioli, Marino: 41 Caracciolo, Giovan Francesco: 155, 160, 189 Carafa (famiglia): 245n, 504n Carafa, Gian Vincenzo: 32

Caravaggi, Giovanni: 85 e n, 87n Carbone, Girolamo: 29, 36, 61, 159, 160, 174, 189?, 490, 493 Carboni, Fabio: 127 e n, 151n Cardella, Simone Niccolò di Lucca (tipografo): 73 Cardini, Roberto: 184n Careri, Maria: XV, 245n, 317n, 318n, 403n, 434 e n, 464n Cariteo: (vd. Gareth Benedetto) Carlo Magno: 372 Carlo V d’Asburgo, imperatore (1516-1556): 38, 45, 87n, 59 Carnerio (Carnerius), Agostino: 111n Caro, Annibal: 41, 59, 107, 314n Carpaccio, Vittore: 1 Carstens, Henry: 320n, 433n, 434n, 455n Cartandro, Andrea (tipografo): 76, 77 Carteromaco, Scipione Forteguerri (detto C.): 36, 41, 46, 47, 50, 51, 62, 63, 67, 70, 71, 72 e n, 74, 75, 77, 80, 82, 83, 394 e n Casagrande Mazzoli, Maria Antonietta: 271n, 272n Casali, Gian Battista: 29, 35, 36, 40, 41, 50, 51, 52, 66, 79, 80, 495 Casanova, Marc’Antonio: 29, 36, 41, 79 Casapullo, Rosa: 470n Casas Rigall, Juan: 326n, 400n Casassagia, Bartolomeo: XV, 38, 39, 44, 54, 63, 141, 245n, 317n, 318n, 319n, 397 e n, 403 e n, 433, 434 e n, 436, 464n, 490 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio: 75 Castaldi Panfilo: 74 Castellani Pollidori, Ornella: 450n, 453n Castellani, Arrigo: 277n Castelli, Giuseppe: 61 Castelvecchi, Alberto: 450n Castelvetro, Giacomo: 109n Castelvetro, Giovanni Maria: 107, 108 Castelvetro, Ludovico Jr: 107n Castelvetro, Ludovico Sr.: X, 3, 5 e n, 10, 57, 107 e n, 108 e n, 109 e n, 110, 11 e n, 112 e n, 113 e n, 114 e n, 115, 116 e n, 117 e n, 118 e n, 485 e n Castiglione, Baldassarre: 29, 34, 41, 61, 80, 93 e n, 99n, 135, 155, 157, 160, 189, 363, 498, 511 Castracani, Castruccio: 144n, 146n, 158, 178 e n Castro Caridad, Eva: 366n Cataneo, Jacopo: 80

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INDICE DEI NOMI

Caterina da Siena (Santa): 159, 175 Catilina, Lucio Sergio: 31 Catone, Marco Porcio: 37, 71 Cattaneo, Giovanni Maria: 78 Cattin, Giulio: 370n Catullo, Gaio Valerio: 49, 57, 58, 72 e n, 73, 74, 83, 213, 218 e n, 489 e n Cavalcanti, Guido: 132, 145, 146, 147 e n, 154, 158, 160, 174, 179, 183 e n, 192, 195, 196, 207, 224n, 251n, 351n, 483 e n, 486 Cavalcanti, Jacopo: 483n Cavallo, Marco (Anconetano): 41, 160, 189 Cebete: 73 Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili): XIII, 6, 57, 61, 62, 69, 125, 130n, 138n, 145 e n, 147 e n, 149, 154, 158, 160, 172n, 174, 178 e n, 179, 196, 224n, 451, 480 Celio, Aureliano: 76 Celtis, Conrad: 505 e n, 508 Censorino: 52, 73, 77 Cerrati, Michele: 489n Cerulli, Emidio: XVIII, 25n, 78n Cervini, Marcello (Cardinale di Santa Croce, poi papa Marcello II, 1555): 36, 41, 47, 50, 51, 52, 65, 66, 67, 76, 488 Cesare, Caio Giulio: 170, 171 Cesarini (Alessandro?): 160, 190 Chabaneau, Camille: 64 Chabod, Federico: 87n Chailley, Jacques: 370n Chaytor, Henry John: 351n Chigi, Agostino: 25, 30, 79, 141, 503n Chiriaco: 60 Ciacono, Pietro: 39 Ciampi, Sebastiano: 63 Cian, Vittorio: XIIn, XVIII, 26n, 41, 51, 93n, 99 e n Ciccone, Giovanni: 241n Cicerone, Marco Tullio: 27, 28, 30, 31, 39, 49, 73, 76, 215n Cielo (Celio) d’Alcamo: 58, 146n, 154, 160, 196 e n, 211, 212, 214 e n, 217n, 218n, 219, 221, 222, 223 e n, 224 e n, 227, 230n, 231n, 232, 236 e n, 238, 239, 243n, 343 e n, 447 e n, 456n Ciminelli, Serafino (detto Aquilano): X, XVII, 9 e n, 58, 61, 81, 159, 174, 181, 182 e n, 183 e n, 184, 189n, 190, 192, 451, 452 e n, 473, 475 e n, 476n, 477 e n, 478n, 479 e n, 480n, 481 e n, 482, 483 e n, 484, 485 e n, 486

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Cingulo, Benedetto (o da Cingoli, detto Piceno): 35, 36, 41, 61, 81, 153n, 159, 160, 174, 184, 473 e n, 480 Cingulo, Garbiele: 473 Cinico, Giovanni Marco: 160, 190 Cino da Pistoia: 16, 59, 60, 125, 132, 138n, 139, 145, 146, 147, 148, 154, 158, 160, 174, 176n, 178, 183, 185, 186 e n, 187, 188, 192, 204, 207, 208, 224n, 225, 319, 486 Ciofano, Ercole: 72 Ciriaco (Pizzicolli) d’Ancona: 159, 160, 190 e n, 224n Claudiano, Claudio: 75 Claudio, Tiberio Druso Nerone Germanico: 502 e n Clelio (o Coelio), Giorgio lusitano: (vd. Coelho Jorge) Clemente Alessandrino: 41 Clemente V (Bertrando di Got), papa (13051314): 150n Clemente VI (Pierre Roger), papa (13421352): 507 Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa (1523-1534): 36, 38, 45, 52, 80, 318, 436, 453n, 468 Cleomede: 83 Clichtove, Josse: 57, 78 Clough, Cecil H: 96n, 400n Coccio, Marcantonio (Sabellico): 151n Codro, Antonio Ulceo: 28, 77 Coelho, Jorge (Coelio Giorgio): 30, 99n Cola di Rienzo: 506n, 508 Colantonio: 1 Coletta di Amendolea: 159, 183 Colli, Vincenzo (detto il Calmeta): 41, 57, 59, 61, 64, 81, 160, 188 e n, 190n, 452, 454n, 474n, 475 e n, 478, 485 e n Colocci Angelo sr. (nonno dell’umanista): 53, 152, 175 Colocci, Adriano: XVII, 80 Colocci, Andrea (?): 171 Colocci, Francesca (sorella di Angelo jr.): 53, 54 Colocci, Francesco: 47, 52, 53, 61, 80, 81, 82, 136, 190 Colocci, Giovanni: 52 Colocci, Marc’Antonio: 38, 39, 53, 54 Colocci, Niccolò: 19, 53, 205 Colón, Hernán: 494 Colonna, card. Pompeo: 38, 73

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INDICE DEI NOMI

Colonna, Francesco: 47, 82 Colonna, Giacomo: 143 Colonna, Giovanni: 142, 508 Colonna, Vittoria: 51, 87 Coluccia, Rosario: 214, 223n Columella, Lucio Giunio Moderato: 49, 71 Comboni, Andrea: 95n Comes, Mercé: 368n Comestore, Pietro: 60 Comparetti, Domenico: 43 Conone di Bethune: XIV, 63, 64 Consenzio, Pietro: 77 Constanzio, Felicio: 42 Contarini, card. Gaspare: 38 Contini, Gianfranco: 212 e n, 213n, 215n, 218, 230n, 282n, 301n, 447n, 455n Corbinelli, Jacopo: 57, 107 e n, 108n, 111n, 453n, 459n Corda, Antonio M.: 46 Corido: 128 Cornazzano, Antonio: 174, 190, 480 Cornelio Nepote: (vd. Nepote, Cornelio) Cornelio?: 159, 160, 189 Cornuto, Lucio Anneo: 83 Corral Díaz, Esther: XV, 245n, 257n, 319n, 397n, 403n, 433n, 434n Correggio, Niccolò: (vd. Niccolò da Correggio) Correia, Antonio Manuel Coimbra: 330n Corsi, Pietro da Carpineto: 35, 38, 39, 40, 41, 50, 63, 79 Cortés, Juan Lucas: 372, 384n Cortese, Paolo: 160, 189, 485 Cortesio, Alessandro: 506 Corycius: (vd. Goritz, Hans) Cosenza, Mario Emilio: 135n, 151n Cosmico, Niccolò Lelio: 135, 155, 157, 159, 174, 190 Cospo, Angelo: 50 Costantini, Fabrizio: 17 e n Costantino ?: 160 Costantino (imperatore): 504, 507n Costanza di Portogallo (madre di Alfonso XI di Castiglia): 392n Costanza di Sicilia (nipote di Federico II): 376 Costanzi, Antonio: 160 Costanzo da Varano: 31, 52 Cotrona: 157 Cotta, Giovanni: 41 Couceiro, José Luís: XVI, 318n

Crasso, Gianpietro: 50, 51 Crasso, Lorenzo: 34, 136, 157 Crescenzi, Pietro de’—: 115n Crescius Meliorus: 40 Crespí: 471n Creus Visiers, Eduardo: 89n Crinito, Pietro: 6 e n, 31, 45, 77 Crisocca: 67 Croce, Alda: 85 Croce, Benedetto: XVIII, 85, 86 e n, 87n, 89 Casassages (Casassagia), Baldassarre: 54 Cuspiniano, Giovanni: 499 Cynthio (Pietro Leone da Ceneda?): 189 D’amelio, Giovanni: 144n D’Ancona, Alessandro: 43, 217 e n D’Heur, Jean Marie: XIV, XVI, 59, 64, 216n, 311, 318n, 393 e n, 407n, 408n, 411n, 443n, 444, 445 D’Ovidio, Francesco: 217, 218n, 230n, 235 Da Porto, Luigi: XV, 261n, 397n, 460n Da Silva, Miguel: 436 Dal Pozzo, Cassiano: 497 e n Damaso: 150 Damianaki, Chrysa: 397n Dante, Alighieri: (vd. Alighieri, Dante) Danzi, Massimo: 5n, 85n, 193n, 470n Davanzati, Chiaro (ChDa): 231n, 252n, 260n, 333, 337, 338, 348 e n, 349n, 350 De Caprariis, Vittorio: 88n De Caprio, Vincenzo: 497n, 508 e n De Gregorio, Vincenzo: 107n De La Cueva, Juan: 471n De La Mare, Albinia Catherine: 95, 96n De Lollis, Cesare: XIV, 44, 247n, 319 De Nichilo, Mauro: 474n, 491n De Nolhac, Pierre: VII, XII, XVII, XVIII, 3 e n, 5n, 21 e n, 22, 24 e n, 26, 32, 33, 34, 38, 39, 40, 41, 43, 44, 67, 68, 70n, 71 e n, 72, 73, 82n, 83, 97n, 131n, 136n, 460n, 487n De Robertis, Domenico: 43, 147, 220n, 225n, 296n, 483n De Rossi, Giovanbattista: 501n, 502 Debenedetti, Santorre: XII, XIV, XVI, XVIII, 3, 4n, 8 e n, 14n, 23 e n, 26, 32, 43, 44, 51, 54, 56, 57, 59, 61, 63, 108n, 111n, 130n, 136n, 139n, 140n, 157n, 176n, 172 e n, 192, 193 e n, 217 e n, 240n, 247n, 248n, 249n, 250n, 254n, 261n, 262n, 268 e n, 269, 270 e n, 298 e n, 299 e n, 316n, 317n, 318n, 319n, 320 e n, 321n, 324n, 328n,

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INDICE DEI NOMI

329 e n, 332n, 335n, 351n, 365 e n, 389n, 394n, 396 e n, 397 e n, 400n, 403 e n, 406 e n, 434n, 452 e n, 457 e n, 458n, 459 e n, 460, 463, 464 e n, 465n, 466n, 468n, 471n Decembrio, Pietro Candido: 27 Del Monte, Antonio: 68 Del Monte, Innocenzo: 51?, 68 Del Piazzo, Marcello: 65 Delfino, Gentile: 225 Della Casa, Giovanni: 105 Della Rovere, Bartolomeo: 40 Della Rovere, Galeotto (card. di S. Pietro in Vincoli): 160, 189, 190 Della Torre, Faustina Morosina: 398n Demerson, Geneviève: 512n Demostene: 40 Denis (don —, re di Portogallo, 1261-1325) (Den): 344, 345n, 347, 376 e n, 377 e n, 385, 395, 421, 441 Deramaix, Marc: 491n, 493n, 494n Desti, Rita: 169n Devaris, Pietro: 51 di Benedetto, Filippo: 109n Díaz de Rengifo, Juan: 471n Díaz Martínez, Eva M.: 326n, 402n Diego Moniz (DieMnz): 339n Diego Ursino ?: 159 Diez, Friedrich: 315n Dilemmi, Giorgio: 470n Diller, Aubrey: 216n Dino da Mugello: 187, 193 Diocleziano, Gaio Valerio: 508 Diodoro Siculo: 73 Dione Crisostomo di Prusa: 83? Dione, Cassio: 77, 159? Dionigi d’Alicarnasso: 115, 116 Dionigi da Borgo San Sepolcro: 152, 177, 381 Dionisio: 13n Dionisotti, Carlo: 64, 96 e n, 397n, 398n, 399n, 459n, 474n, 485 e n Distaso, Grazia: 491n Ditti cretese: 31, 37 Dolfi, Floriano (da Bologna): 160, 189 Dolfin, Pietro: 494 Domínguez Ferro, Ana Maria: XV, 199n, 245n, 433n, 447n Dominicy, Marc: 321n Don Lope de Soria: 93n Don Velpelho: 340 Donadi, Francesco: 115, 116n

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Donato, Elio: 29 Donato, Girolamo: 29 Dothapater: 37 Dotti, Ugo: 177n Drusi, Riccardo: 191 e n, 453n, 454n, 485n Du Bellay, Joachim: 506n, 510 e n, 511 e n, 512 e n Düchting, Reinhard: 499n Dupuy, Claude: 108n Dürer, Albrecht: 47, 82 Dutton, Brian: 372n Egidi, Francesco: 43, 241n, 276n, 279n, 299n Egidio da Viterbo: 41, 160, 189?, 491n, 492, 494n Eisenstein, Elizabeth: 8n Eleonora d’Aragona: 86, 91 Eleonora di Portogallo (nipote di Don Denis): 385 Eleonora di Toledo: 87 Eliano, Claudio: 180 Elis o Baço (duc de Sansonha): 410, 414, 415, 417, 418, 420 Elisabetta ?: 366, 367 e n, 375, 376, 379 Elvira a Toronha (Dona): 443n Elwert, Wilhelm Theodor: 218 e n Emanuele I di Portogallo: 101 Endimio ?: 50 Enea (Irpino?) fra —: 160, 189 Ennio, Quinto: 180 Enrico (Arrigo) VII Hohenstaufen: 31, 150n, 178, 179 Enrico II di Valois (1519-1559): 511, 512 Enrico IV di Castiglia: 102 Epitteto: 73 Equicola, Mario: 44, 56, 132, 133n, 172, 188, 262n, 397 e n, 400n, 450n, 454n Erasmo da Rotterdam: XVIII, 76, 99, 100, 495 Ercole d’Este (Ercole I): 86, 91 e n, 157 Ernout, Alfred: 370n Erodiano: 70 Erodoto: 39, 71 Erone: 47, 51, 65, 66, 67 Esopo: 71 Esposito, Enzo: 107n Estev’Eanes (Don —): 409, 422 Estevam de Guarda: 395, 421, 423 Estevan Fernandiz Barreto: 409, 421, 422 Estienne, Robert (Robertus Stephani) (tipografo): 83, 116 e n

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INDICE DEI NOMI

Estúñiga, Lope de —: 92 Euclide: 66, 380 Euripide: 67 Eusebi, Mario: 435n Eustazio: 38, 68 Ezzelino da Romano: 145n F. orbo (Francesco cieco da Ferrara?): 189 Fabrizio (o Fabruzio) da Bologna: 461, 462 Facondo (santo): 52 Fanelli, Vittorio: VIII e n, XII, XIII, XIV, XVIII, 23 e n, 26 e n, 31, 34, 36, 41, 42, 43, 47, 50, 51, 52, 55, 57, 61, 63, 65, 67, 69, 70n, 76, 80, 105n, 125n, 128n, 129n, 130n, 131n, 135n, 136 e n, 149, 153n, 160n, 172n, 185n, 256n, 261n, 296n, 388n, 393 e n, 432n, 434n, 453n, 486n, 487n, 493n, 498 e n, 503 Fantazzi, Charles: 493n Fanti, Sigismondo: 271n Farinelli, Arturo: 85 Farnese, card. Alessandro: 50, 185n Farnese, Odoardo: 42 Farnese, Ranuccio: 51 Fascitello, Onorato: 94 Fasolo, Giacomo: 118n Fatio: 159 Fausto da Longiano: 90 Fava, Marina: 35 Favati, Guido: 183n Favino: 29 Favorino, Guarino: 52 Federico da Montefeltro: 160 Federico I d’Aragona, re di Napoli e Sicilia (1496-1501): 452, 454, 491 Federico II di Sicilia (1194-1250): 132, 240, 241 e n, 242, 243, 376, 455 Federico III re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero (1415-1493?): 28, 383n Feltre-Gonzaga, Elisabetta: 476n Fera, Vincenzo: 109n Ferdinando d’Aragona (1488-1550) duca di Calabria e principe di Taranto: 383 Ferdinando I d’Aragona (detto Ferrante), re di Napoli (1458-1494): 483 e n Ferdinando I il Giusto, di Aragona e Sicilia (1379-1416): 382 Ferdinando II di Aragona (detto Ferrandino), re di Napoli e Sicilia (1495-1496): 452, 454

Ferdinando II il Cattolico, di Aragona e Sicilia (1452-1516): Ferdinando IV di Castiglia e León (12861312): 392n Fernam Garcia Esgaravunha, don — (FerGar Esg): 331, 344 Fernan Gonçalvez de Seavra: 309 Fernan Rodriguez de Calheyros (FerRdz Calh): 345 Fernan Rodriguez Redondo: 421 Fernández Álvarez, Manuel: 378n Fernández Campo, Francisco: XV, XVI, 245n, 257n, 259n, 319n, 336n, 389n, 391n, 397n, 403n, 418n, 433n, 434n, 443n, 455n Fernández de Oviedo, Gonzalo: 90 e n, 99, 104 Ferrando de Eredia: 57 Ferrari, Anna: XIV, XVI, 69, 216 e n, 246n, 247n, 309 e n, 313n, 314n, 315n, 318n, 321n, 325n, 334n, 338 e n, 345n, 389n, 391n, 392n, 406n, 407 e n, 408n, 409n, 413, 416 e n, 419 e n, 420n, 422n, 423n, 424n, 425n, 440n, 449n Ferreira da Cunha, Celso: 325n, 331n Ferreri, Luigi: 72 e n Festa, Giovan Battista: 241n Festo, Sesto Pompeo: 28, 51, 74, 188? Feurdean, Dana: XII Ficino, Marsilio: 31, 69, 147, 159, 160, 174, 184 Fidalgo Francisco, Elvira: 325n, 371n, 387, 388 Fidia: 500 Filelfo, Francesco: 28, 29, 30, 83, 174 Filelfo, Mario: 159, 174 e n, 175n Filgueira Valverde, Xosé Fernando: 376n, 377 Filippo di Pietro (tipografo): 73 Filippo II di Spagna (1527-1598): 372n Filonio, Giovan Francesco: 52 Filostrato: 31, 70, 159 Finazzi Agrò, Ettore: 322n Finfo del Buono Guido Neri di Firenze (Finf): 328 Firmico Materno, Giulio: 47 Flacco, Verrio: 28, 51 Flaminio, Marcantonio: 51 Flavio, Francesco: 41, 475 e n, 476, 477, 478n Flora (moglie di Angelo Colocci sr.): 53

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INDICE DEI NOMI

Flores, Camilo: 370n Floriani, Piero: 454n Florius: 258n Floro, Lucio Anneo (o Giulio):75 Folena, Gianfranco: 223n Folgore da S. Gimignano: 213n Folquet (Folco) de Marseille (FqMars): 32, 44, 54, 140, 141, 142 e n, 146n, 158, 160, 176, 180, 181, 224n, 319n, 322n, 323, 338, 339 e n, 394n, 403, 433, 434 Fonseca, Antonio de —: 384 Fontanini, Giusto: 475n Forteguerri, Scipione: (vd. Carteromaco, Scipione) Fortoul, Hyppolyte: 64 Fortunaziano, Attilio: 75 Fortunio, Giovan Francesco: 111 e n Fozio: 67 Fracassetti, Giuseppe: 177 Franceschino degli Albizi: 145, 146, 149, 158 Francesco da Barberino (o Barbarino): 33, 59, 137n, 138n, 141, 144n, 147, 149, 158, 174, 248, 394n Francesco da Tiguro Tigri ?: 187 Francesco I di Valois (re di Francia): 45, 87 Francesco III di Lorena: 372n Franchini, Francesco: 41 ? Franciosi, Giovanni: 114n Frank, István: 315n, 320n, 321n, 323n, 435n Frasso, Giuseppe: XIV, 44, 107n, 108e n, 109n, 110n, 111n, 114n, 117 e n, 118, 134n Fregoso (o Fulgosus), Battista, Campo —: 133n Fregoso, Antonietto Fileremo: 160, 189 Freixas, Margarita: 407n Frenz, Thomas: 485 Frezzi, Federico (vescovo di Foligno): 159, 174 Fridenberger, Paolo (tipografo): 73 Froben, Johann (tipografo): 76, 82, 83 Frontino, Sesto Giulio: 31, 46, 52, 62 Fubini, Mario: 338 e n Fulgenzio, Fabio Planciade: 28, 46 Fulvio, Andrea: 76, 504 e n, 508, 513 Furtunaziano: 31 Gabriele di San Clemente, card. di Siena: 40 Gadaldino, Cornelio: 108n

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Gaiffe, Felix: 471n Galateo, Antonio: 491 Galeno: 47, 54 Galli, Angelo: 160, 189, 190n Gallico, Claudio: 242n Gallo da Pisa: 456, 461, 462 Gallo, Cornelio: 72 Gallo, Egidio: 30, 34, 80, 503 e n, 504 Gallo, F. Alberto: 370n Gallucci, Luigi: (vd. Calenzio, Elisio) Garavelli, Enrico: 114n García de Urrea: 383 García Mendiz D’Eixo: 310, 443, 445, 446 García Oro, José: 416n García, Constantino: 447n García-Sabell Tormo, M. Teresa: 370n Gareth, Benedetto (Cariteo): 30, 31, 32, 34, 41, 43, 54, 55, 61, 141, 155, 160, 175, 189, 191, 192, 193, 194 e n, 317 e n, 397 e n, 402n, 433, 464 e n, 490 Garisendi, Giovanni Andrea: 160, 189 e n Garsia Soarez: 395n Gasparini, Carolina: 133n Gaucelm Faidit (Gc Faid): 139n, 141, 177, 249n, 324n Gaudioso (Santo): 492 Gausbert Amiel: 63 Gausbert de Pueisibot: 63 Gazeau, Jacques (tipografo): 471n Gazzotti, Marisa: 107n Geiger, M. Ludwig: 79 Gelli, Giovan, Battista: 239 e n Gellio, Aulo: 41, 188? Genazano, Mariano: 137n, 159 Genette, Gérard: 226 e n, 483n Genevra: 415 Gensini, Stefano: 497n Georgius Sardianus: 67 Gerardo di Cremona: 368 Gerberto: 53 Gessner, Salomon: 99 Ghirardo da Gente: 241n Ghislieri, Ghisliero: 53, 54 Ghislieri, Guido: 461, 462 Giacomino Pugliese: 223n, 225, 226n, 285 e n, 457n Giacomo da Lentini (JaLe): 203, 218, 223n, 275n, 284n, 285n, 303, 305, 324n, 335, 336, 455 Gianicolo, Tolomeo (tipografo): 451n Giannetto, Nella: 95 e n, 96

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INDICE DEI NOMI

Gianorbo (Giovannni cieco da Parma?): 159, 160 Giberti, Giammatteo: 50, 51 Gigliucci, Roberto: 9n Gil Esteve, Manuel: 322n, 348n, 351n Ginon Pallas: 93n Gioan Paulo de Turre: 37 Giocondo fra — (Giovanni da Verona): XIV, 33, 46, 48, 51, 53, 62, 65, 82, 495 Gioia, Carmine: 487n Giovanardi, Claudio: 454n, 466n, 485n Giovanni (Sulpicio) da Veroli: 29 Giovanni Britannico: 83 Giovanni Crisostomo (Santo): 45 Giovanni d’Andrea: 148, 186n, 187, 188 Giovanni da Pesaro: 27 Giovanni da Trino (tipografo): 82 Giovanni da Verona: (vd. Giocondo fra —) Giovanni di Tournes (tipografo): 471n Giovanni fiorentino: 27 Giovanni II di Castiglia: 378 Giovanni III (don —, re del Portogallo, 15021557): 101, 376 Giovio, Paolo: 80, 83, 101, 498 Giraldi, Gilio Gregorio: 34, 79, 80 Girolamo (santo): 1, 38, 45 Giudeco, Niccolò: 37, 41, 62, 80 Giuliano l’Apostata: 366 Giulio Africano: 67, 68 Giulio II (Giuliano della Rovere), papa (1503-1513): XIII, 34, 40, 189n?, 191 Giulio III (Giovanni del Monte), papa (15501555): 68 Giunti (famiglia di tipografi fiorentini; Bernardo e Filippo Giunta): 73, 77, 110 e n, 118 e n, 465n Giunti, Benedetto: 69 Giuseppe Flavio: 180, 181 Giustiniani, Agostino: 56 Giustiniani, Bernardo: 74 Giustiniani, Leonardo: 477n Giustiniano, Flavio Pietro Sabazio (imperatore): 187, 188 Giusto dei Conti (da Valmontone): 159, 174, 190 e n, 468 Giustolo, Pier Francesco: 41, 63, 64, 81, 190, 473, 474 e n Gnoli, Domenico: XII Goís, Damião de —: 90, 99, 100, 101 Gomez jograr de Sarria: 395n Gonçalo Garcia: 310, 395, 445

Gonçalves, Elsa: XVI, 69, 222n, 318n, 363n, 376n, 377n, 378n, 385 e n, 389n, 391n, 392n, 393 e n, 395 e n, 396n, 399, 400 e n, 402 e n, 403n, 405n, 407n, 411n, 421n, 423n, 425n, 437n Gonzaga, Cesare: 160, 190 Gonzaga, Federico: 98n, 262n Gonzaga, Francesco: 37, 481 González Cuenca, Joaquin: 372n González Rodriguez, Jorge: 442n González, Isabel: XVI, 318n Goritz, Hans (Corycius): XVII, 36, 80, 135n, 160n, 499 Gorni, Guglielmo: 470n Gotto mantovano: 462 Gouiran, Gerard: 435n Gourc, Jacques: XV, 245n, 433n Goyet, Francis: 471n Graf, Arturo: 505n Grattio: 490 Gravina, Pietro: 34, 35, 160, 189 Grayson, Cecil: 475n Graziosi, Maria Teresa: XII Greco, Aulo: XVII, 57, 452n, 483n Greene, Thomas M.: 497n Gregorio I Magno (Santo): 382 Gregorio X (Tebaldo Visconti), papa (12101277): 372 Gresti, Paolo: 303n Grévin, Jacques: 513 Griera, Antoni: 413 Grimal, Pierre: 511 e n Grimani Pio, Pico: 65 Grimani, card. Giovanni: 51, 495 Grimoart Gausmar (GrimGausm): 321n Grion, Giusto: 38, 39, 43, 217 e n Gripho: 157 Gröber, Gustav: 437n Grohovaz, Valentina: 114n Gualdo, Riccardo: 223 Gualteruzzi, Carlo: 105, 110, 113 Gualtieri: 156 Guarino de Guarini (Guarino Veronese): 74, 77 Guarnerio (o Yrnerrio) da Forlì: 188 Guerra, Domenico e Giovambattista (tipografi): 118n Guevara, Antonio de —: 89 e n Guglielmo de Cunio: 141, 142, 158, 193 Guglielmo del Tino: 141, 142, 158, 176 e n, 193

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INDICE DEI NOMI

Guicciardini, Francesco: 88 e n Guida, Saverio: XV, 3n, 23n, 26, 109n, 199n, 211n, 226n, 245n, 268n, 317n, 403n, 457n Guido della Colonne: 287, 288n, 456 Guido duca d’Urbino: 37 Guilhem Ademar (GlAdem): 322n, 323 e n Guilhem de Cabestanh: 141, 177 Guilhem de La Tor: 63 Guilhem de Sant Leidier (o Didier): 32 Guilhem Feraut: 56 Guillaume de Saint-Cloud: 368n Guinizzelli, Guido (Guinicelli): 60, 145, 146, 147, 154, 158, 160, 174, 179, 196, 208, 224n, 254n, 258n, 280, 301 e n, 303, 304, 456, 461 Guiomar Afonso (Dona): 443n Guiraut de Borneil (GrBorn): 140, 142, 176, 249n, 255, 256, 260n, 334n, 338, 456, 459 Guiscardo: 157 Guittone d’Arezzo (GuAr): 132, 138n, 139, 145, 146, 147, 154, 158, 160, 174, 185, 195, 196, 224n, 251n, 270, 274n, 275n, 279 e n, 280, 287n, 300n, 302, 303, 305 e n, 306, 323, 338n, 461, 462 Gutiérrez García, Santiago: XV, 251n, 253n, 258n, 403n, 410n Gutkind, Curt Sigmar: 459n Guy de Chauliac: 55 Hackens, Tony: 503n Haig Gaisser, Julia: 489n Han, Ulrich (tipografo): 72, 73 Hectoris, Benedictus (tipografo): 75 Henricus di Colonia (tipografo): 75 Hercul: 157 Herklotz, Ingo: 497n Hernández Serna, Joaquín: 372 e n, 373 Hernando del Castillo: 92, 471n Heullant-Donat, Isabelle: XIII Hieronymus de Asula (tipografo): 74 Hilty, Gerold: 259n, 389n, 418n, 443n Hornig, Peter: 503 Horus Apollus: 46 Hurtado de Menzoza, Diego: 87, 93n Hutten, Ulrich von —: 508 Hyginus: 45 Ibinrosdin: 73 Iginio: 75 Ildebrandino Padovano: (vd. Mezzabati, Aldobrandino)

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Ilicino: (vd. Lapini, Bernardo) Inghirami, Tommaso (Phaedrus) da Volterra: 34, 36, 494 Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi), papa (1243-1254): 240 Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo), papa (1484-1492): 67 Interiano, Giorgio: 491 Ioannitius: 54, 55 Ippolita (madre di Angelo Colocci jr.): 53, 54 Irace, Erminia: XIII Iriso, Silvia: 407n Isabella d’Este Gonzaga (1474-1539): 37, 43, 71, 72, 98n, 160, 174n, 194, 454n Isabella la Cattolica, regina di Castiglia (1451-1504): 378 e n, 379, 382, 384, 385, 471n Isabella regina di Portogallo (1271-1336): 376, 377, 378, 385 Isengrin, Michael (tipografo): 495 Iseu de Cornoalha: 414 Isidoro di Siviglia: 31 Isidoro, card. Ruteno: 67 Iulio: 157 Iulio Rufiniano: 83 Iurilli, Antonio: 491n Jacopo Caloria da Messina: 143 e n Jacopo della Marca: 159, 175 Jacopo da Varazze: 6 Jacopone da Todi: 159, 175 Janus Panonius: 77 Jaufre Rudel: 140, 142, 158, 176 Jeanroy, Alfred: 433n, 434n Joan Garcia: 344, 395n Joan Rodriguiz: 310 Johan de Gaia: 421n, 423 Johan Fernandiz d’Ardeleiro: 421 e n Johan jograr: 395n Johan Lopez de Ulhoa (JLpzUlh): 332 Johan Perez d’Avoyn (JPrzAv): 347 Johan Romeu de Lugo: 421 e n, 422 Johan Soarez Coelho (JSrzCoe): 332 Johan Soayrez Somesso (JSrzSom): 326n Johan Vasquiz: 313 Johan Velho de Pedrogaez: 408 e n, 421 Johannes de Abbatibus: 74 Johannes de Colonia (tipografo): 71n, 73, 75 Jolliffe, John W: 511n

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INDICE DEI NOMI

Jourdan-Pons, Françoise: 443n Juan de Mena: 57 Juan de Sajonia: 369 Juan del Encina: 159, 160 Julian, Camille: 42 Kempen, Ludwig von —: (vd. Socrate) Kibler, William W. Kibre, Pearl: 5n, 6n Kierdorf, Wilhelm: 502n Kolsen, Adolf: 338n Körkel, Boris: 499n Kristeller, Paul Oskar: 493n Kühlmann, Wilhelm: 499n La Face Bianconi, Giuseppina: 483n Labarre, Émile Joseph: 124n Lampertin ?: 193 Lampridio, Benedetto: 14n, 33, 50, 51, 262n Lamur-Baudreau, Anne Claude: XIV, 247n, 403n Lancellotti, Giovan Francesco: XII, 29, 34, 35, 36, 54, 59, 433n, 473n, 486n, 487n, 492, 493n Lancia, marchese: 241 e n Lanciani, Giulia: 318n, 376n, 405n Lanciani, Rodolfo Amedeo: XIII, 498n, 505n Lanciarini, Ulisse: 80 Landino, Cristoforo: 61, 95n, 137 e n, 147, 159, 174, 179, 183, 184 e n, 195 Landino, Francesco (Francesco cieco): 184 Landino, Gabriele ?: 184 Landriani, Gerardo: 52 Lang, Matthäus: 499 Lapini, Bernardo di Montalcino (Alcinio o Ilicino): 159, 174 Lapo da Castiglioni: 187 Lapuccino: 160, 189 Lascaris, Giovanni (Giano): 34, 35, 36, 41, 45, 50, 59, 67, 74, 75, 78 e n, 79, 296 e n, 495 Latella, Fortunata: XV, 3n, 23n, 26, 199n, 211n, 226n, 245n, 268n, 317n, 403n, 457n Lattanzio, Lucio Cecilio Firmiano: 73 Lattès, Samy: VII e n, XII, XIII, XIV, XVII, 3, 4n, 11 e n, 23 e n, 26, 31, 42, 45, 46, 48, 49, 50, 52, 53, 54, 56, 57, 62, 63, 64, 65, 105n, 125 e n, 128n, 131n, 134n, 140n, 142n, 146n, 179, 182n, 316 e n, 317n, 364n, 371 e n, 372, 373n, 379 e n, 388n, 397n, 432n, 451n, 466n, 487n, 493n

Laurelius, Silvius: 80 Lausberg, Heinrich: 412 Lautizio perugino (tipografo):79 Lavezzi, Gianfranca: 330n Lazar, Moshé: 350n Lazzarelli, Lodovico: 82, 474 Legnano, Giovanni Giacomo e frattelli da — (tipografi): 475 Lelio (Angelo di Pietro Stefano Tosetti): 139 e n, 141, 144n, 158, 177, 178 Lelio, Antonio: 64 Leonardi, Lino: XVII, 3n, 21n, 27, 43,123n, 171n, 199n, 211, 246n, 274n, 295n, 301n, 305n, 318n, 425n, 447n, 487n Leonardo da Vinci: 6 Leone Magno (Santo): 45 Leone X (Giovanni de’Medici), papa (15131521): XIII, XVIII, 76, 78n, 79, 80, 296 e n, 396 e n, 454, 487, 494 e n, 499, 504, 505, 507n Leone, Meri: 108n. Leoniceno, Niccolò: 41?, 62, 77 Leto, Pomponio: X, 27, 28, 31, 39, 41, 48, 68, 75, 205, 497, 498, 499, 500, 501 e n, 502 e n, 503, 504, 505, 513 Ligorio, Pirro: 497, 498, 508 Lipsio, Giusto: 497 Lisia: 116 Liss, Peggy K.: 378n Livio Andronico: 40 Livio, Tito: 65, 71, 72, 75, 180 Longhi, Silvia: 470n Longino, Dionigi: 39 Longobucco, Bruno da —: 52 Longueil (Longolius), Cristoforo: 79 López de Haro, Diego: 384 Lorenço jograr : 395n Lorenzo de’ Medici (detto il Magnifico): (vd. Medici, Lorenzo de’ —) Lorenzo Gradín, Pilar: 325n, 387n, 407n, 410n, 421n, 423n Lorenzo, Ramón: XVI, 392n, 407n Löslein, Peter (tipografo): 74 Lourenço Bouçon: 408n Luciano: 37, 73 Lucillio: 75 Lucrezia d’Este: 90 Lucrezio, Tito Caro: 73, 75, 179 Ludovico degli Arrighi (tipografo): 79 Luere (o Lovere), Simon de —: 148 Luigi I il Grande, re d’Ungheria (1326-1382): 381, 383

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INDICE DEI NOMI

Lupi, Sergio: 488n Lupo, Clarelio: 41, 50 Lupo, Rutilio: 31 Lutero, Martino: 509 Luzio, Alessandro: 98n Maas, Paul: 300n Macciocca, Gabriella: 220n Machiavelli, Niccolò: 450n, 453n Macrì, Oreste: 93n Macrobio: 27, 49 Maddaleni, Fausto (Fausto Evangelisti Maddaleni, Capodiferro): 34, 79, 80, 136 Maffei, famiglia: 147, 148 Maffei, Bernardino: 42, 50, 51 Maffei, Mario: 66, 80, 147 Maffei, Raffaele (Volterrano): 56, 77, 147, 186, 485 Magliabechi, Antonio: 372n Maiorano, Niccolò: 66 Malatesta, Elisabetta: 28 Malatesta, Pandolfo Sigismondo ?: 152, 159, 190n Malato, Enrico: 473n Maler, Bernhard (o Bernardus pictor, tipografo): 50, 74 Malgarotto, P.: 96n Mallol, Lorenç: 440 Malombra, Ricardo: 193 Malvezzi, Iacopo: 31 Mancini, Mario: 238n Manetti, Latino Giovenale: 17, 220 e n Manfredi di Svevia: 241 e n Manfredi, Lelio: 90 Maninchedda, Paolo: 3n Manni, Paola: 467n Mantegazzi (famiglia di tipografi): 475 Manthen, Johannes (tipografo): 71, 73, 75 Manuzio, Aldo: XVII, 19, 41, 47, 51, 59, 70, 71, 72 e n, 74, 82, 109n, 491, 495 Marazzini, Claudio: 485n Marcello, Jacopo A.: 77 Marcello, Valerio: 28 Marchand, Jean-Jacques: 478n Marchesa di Crotone: 174n Marchese, Francesco Elio: 52, 490 Marchetti, Valerio: 107n Marchisio, Alfonso: 51 Marcolini, Francesco (tipografo): 112 e n, 121 Marcuccio, Roberto: 114n

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Marga, Delia: XII Margueron, Claude: 279n Maria d’Aragona: 88 María di Portogallo (figlia di Pietro IV d’Aragona, moglie di Alfonso XI di Castiglia): 385 Marini, Quinto: 87n Marinis, Tammaro de —: XIV Marinova, Elia: 512n, 513n Mariotti, Scevola: 222n Marmorale, Enzo V.: 218n Maroot d’Irlanda: 410, 414, 416, 417, 418, 419, 420 Marostica, Antonio: (vd. Matteazzi, Antonio) Martelli, Lodovico: 450n Martelli, Mario: 339n Marti, Mario: 93n Martim Soarez (MartSrz): 326n, 330n, 336, 337 Martín Abad, J.: 102 e n Martin Soarez: 395n Martinelli, Nello: 300n Martini, Luca: 222n Martino da Amsterdam (tipografo): 474 Martire, Pietro: 90 Marullo, Michele: 34, 35, 180, 181, 480 Marx, Barbara: 111n Marziale, Marco Valerio: 28, 83, 480 Marziano Capella: 83 Massimi, Anton Lelio: 79, 453n Massimi, Pacifico: XVIII, 30, 56, 57, 64, 69, 75, 76, 81, 474 Massolo, Elisabetta: 398n Mataix Azuar, Remedios: 346n Matal, Jean (Janus Metellus): 105 Materelli, Niccolò de —: 187 Matfre Ermengau: 382 Matteazzi, Antonio (detto il Marostica): 453n, 495 Mayr, Sigismondo: 76, 78, 488 Mazzacurati, Girolamo: 10n Mazzatinti, Giuseppe: 383n Mazzatosta [famiglia]: 18, 320 Mazzatosta C.: 205, 208 Mazzatosta, Fabius Ambustus: 17, 54, 61 Mazzeo di Ricco di Messina: 204, 338 Mazzocchi, Giacomo (tipografo): 64, 79, 81, 474, 494, 501 Mazzocchi, Giuseppe: 85 e n, 86 e n, 87n, 88n, 91, 92 e n

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INDICE DEI NOMI

McGowan, Margaret: 508n, 513n Medici, Cosimo de’ —: 87 Medici, Giovanni de’ —: 50 Medici, Giuliano de’ —: 494 Medici, Giulio de’ —: (vd. Clemente VII) Medici, Lorenzo de’ — (detto il Magnifico): 7, 47, 61, 159, 160, 174, 184, 190, 296, 480, 482, 485 Medici, Pietro de’ —: 74 Meillet, Antoine: 370n Meïr Isaac Aramaa: 38 Mela, Pomponio: 13n, 48 Melezio: 38 Mellini, Celso Archelao: 29, 79, 80 Mellini, Girolamo: 29 Mellini, Pietro: 29, 79, 80 Menandro: 480 Mendiola Oñate, Pedro: 346n Meneghetti, Maria Luisa: 397n, 400 e n Menéndez Pidal, Ramon: 85n, 398n Mengaldo, Pier Vincenzo: 234n, 260n, 449n, 450n, 457n, 459n, 485n Menghini, Mario: 182n, 475n Menichetti, Aldo: 231n Menochio, Gerolamo: 52 Mercati, Giovanni: XIII, 23 e n, 24n, 26, 31, 42, 46, 50, 52, 62, 63, 65, 66, 67, 131n, 487n Meregalli, Franco: 85 e n, 89n Mettmann, Walter: 375n, 377n Meyer-Lübke, Wilhelm: 315n Mezzabati, Aldobrandino (Ildebrandino Padovano — illud Brandinum Paduanum): 451 Michaëlis de Vasconcellos, Carolina: 85, 91, 309 e n, 326n, 342n, 345, 346n, 402n, 409 e n, 410 e n, 417 e n, 419n, 421n, 437n, 441 Michel, Alain: 494n Michelaccio: 159 Michelini Tocci, Luigi: XIII, 4n, 23, 64, 65, 70n, 105 e n, 131n, 222n, 388n, 394 e n, 487n Michiel, Marcantonio: 491 e n Mielgo, Honorino: 368n Migliorini, Bruno: 57 Mineo, Nicolò: 218n Minetti, Francesco Filippo: 301n Minturno, Antonio (Antonio Sebastiani): 285n Minuziano, Alessandro (tipografo): 75

Mirabella, Francesco Maria: 58, 214n Miscomino, Antonio (tipografo): 75 Misinta, Bernardino (tipografo): 477n Mocato, Mino: (vd. Nino senese) Mocenigo, Alvise: 32, 43 Moldovan, Victoria: XII Moll de B., Francesc: 412, 413 Molteni, Enrico: XV, 55, 68, 267 e n, 312, 313 Molza, Franceso Maria: 29, 30, 36, 39, 57, 59, 64, 79, 306 Monaci, Ernesto: XV, 32, 55, 58, 64, 68, 171n, 212, 213n, 267 e n, 268, 289n, 290n, 292 e n, 351n Monaco di Montaudon: 63 Mondella: 157 Moner y de Barutell, Francisco de —: 55, 59, 61, 175 e n, 191 Monte Andrea (MoAn): 298, 299, 328, 344n, 349n Montecchi, Giorgio: 271n Montefeltro B.[attista?] da —: 159 Montefeltro, Federico da —: 6 Montero Santalha, José Martinho: 342n Montero, Xesús Alonso: XV, 251n, 403n Montesarchio, marchese di —: 317n, 403 Monti Sabia, Liliana: 488n, 489n Monti, Salvatore: 489n Montoya, Jesús: 372 e n, 373 Morelli, Gabriele: 87n Morgana, Silvia: 5n, 109n, 318n, 396n Morici, Medardo: XVII, XVIII Morlini, Girolamo: 492 e n Moroni, Gaetano: 186n Morsolin, Bernardo: 464n Mortier, Roland: 497n, 501n, 506n, 507n, 510n, 511 e n, 513n Mose Aben Ezra: 98 Mose Nachmanide: 98 Motolese, Matteo: 5n, 113n, 115n Münster, Sebastian: 98 Muratori, Ludovico Antonio: 85, 91, 107n, 398 Mussafia, Adolfo: 32 Mussato, Albertino: 31 Nasta, Michel: 116n Nausea, Federico: 77 Navagero, Andrea: 29, 30, 34, 36, 66, 74 Nazario (Santo): 492 Negri, Girolamo: 79

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INDICE DEI NOMI

Nemesiano: 494 Nepote, Cornelio: 28, 72 Neri de’ Visdomini (Neri): 333, 349 Nerone, Lucio Domizio: 500, 502n, 504n Nicandro: 67 Niccolò da Correggio: 41 Niceforo: 39 Nicolaus Salernus: 78 Nicolini, Fausto: 85, 491n Nigro, Girolamo: 41 Nino senese: 461, 462 e n Nonio, Marcello: 51 Nubiarigeno, Angelo: 28 Nun’Eanes Cêrzeo (NunEaCer): 326, 343, 344, 395n Nunes de Leão, Duarte: 376 e n, 377n Nunes, José Joaquim: 402 e n Nuno Fernandez Torneol (NuFdzTor): 347 Nypso, Marco Giunio: 31, 45, 46, 48, 52, 62, 69 Odoffredo, Roberto: 188, 193 Ognibene da Longino (o Omnibono Vicentino): 40 Oldrado da Lodi: 187 Oliver: 55 Olivieri, Ornella: XVII, 33, 57, 465n Omero: 39, 78 Omont, M. Henri: 80 Onder, Lucia: 325n Onesto da Bologna: 138n, 145, 146, 154, 158, 160, 174, 196, 224n, 461 Onorio, Giovanni: 66, 68 Orazio, Quinto Flacco: 29, 33, 34, 52, 57, 71, 115, 180, 239, 491, 492 Oria, Arrigo d’ —: 463 Orlando, Alberto: 152, 159, 175 Orlando, Sandro: 219n Ornato, Ezio: 271n, 272n Orsini, Fulvio: VII, XII, 3n, 5 e n, 13, 21n, 24n, 26, 29, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 49, 50, 51, 67, 68, 70, 71, 72 e n, 73, 74, 75, 77, 78n, 82n, 83, 97 e n, 131n, 318n, 394, 396n, 400n, 402, 460n, 487n Orsini, Settimio: 75 Orso dell’Anguillara: 151 Osyr’Anes (OsEa): 339n Ottaviano di messer Lactantio: 311, 436 Ottavio da Fano: 159

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Ovidio, Publio Nasone: 16, 49, 60, 62, 95, 71, 72 e n, 73, 74, 133n, 157, 173n, 179, 180, 181, 208, 451, 480, 492 Paay Gomez Charinho (PayGmzCha): 325n, 331n, 339n Paay Soarez: 330 Pacca, Vinicio: 140n Paccagnella, Ivano: 465n Pacini, Marzotto: 52 Pae de Cana clérigo: 395n Paganino da Bizzozzero (Besozzo): 177 Pagliara, Pier Nicola: XIV, 42, 47, 70 Pagliaresi, Giovanni de’ —: 187 Pagliaro, Antonio: 223 e n, 230n, 233, 235, 447n Palladio: 71 Palladio Sabino, Blosio: (vd. Pallai, Biagio) Pallai, Biagio (Blosio Palladio Sabino): 30, 35, 36, 79, 80, 135, 157 Palmieri, Matteo: 61, 137n, 159, 174, 184 Palus, Giovanni: 90 Panciroli, Guido: 42, 70 Pandolfino, Ferdinando (vescovo di Troia): 75 Pandoni (o Pandonio), Porcellio (Giovanni Antonio Pandoni): 28, 29, 30, 31 Panizza, Giorgio: 95n Pannartz, Arnoldo (tipografo): 74, 75 Panormita, Antonio Beccadelli (detto il —): 28 Pantani, Italo: 109n, 468n Panuccio del Bagno: 328n Panvini, Bruno: 212 e n, 227n, 455n Panvinio, Onofrio: 497 Paolino, Laura: 140n Paolo III (Alessandro Farnese), papa (15341549): 36, 186n Parducci, Amos: 218n Paredes, Juan: 330n, 402n Pasi, Bartolomeo: 78 Pasquali, Giorgio: 300n Pastor, Ludwig von: 86 Patrizi, Giorgio: 107n Pattison, Walter T.: 321n Pattolo, Bartolomeo: 81, 185, 474 Paulio ?: 160 Paxeco Machado, Elza: 69, 393n Paxeco Machado, José Pedro: 69, 393n Pay Soarez de Taveirós (PaySrzTav): 330. 343

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INDICE DEI NOMI

Pazzi, Alessandro de’ —: 453n Pedr’Amigo de Sevilla (PAmigo): 339n Pedro conde de Barcelos: 421 e n Peira, Pedro: XVI, 289n, 437n Peire Bremon: 140, 158? Peire d’Alvernha: 140 e n, 158, 176, 193, 460, 461 Peire de Blai (PBlai): 326n, 327n Peire Raimon de Tolosa: 332 Peire Rogier: 140, 158?, 176, 459 Peire Vidal: 140, 158?, 176 Peiresc, Nicolas Claude Fabri de —: XVII, 46, 48, 52, 62 Peirol: 335n Peles (Rei): 415 Pellegrini, Silvio: XV, 63, 400 e n, 402n, 411n, 413, 414, 416 e n, 437n Pellegrino Caloiro (o Caloria), da Messina: 177 Pellegrino da Firenze: 39 Pellini, Bernardo: 52 Pentio, Girolamo: 111n Pepe, Luigi: 218 e n Percopo, Erasmo: XVII Pérez Barcala, Gerardo: XV, XVI, 200n, 245n, 249n, 253n, 257n, 258n, 259n, 325n, 390n, 391n, 403n Pérez Ovejero, Ángela: 90n Perez Varela, Carlos: 443n Perleoni, Giuliano (detto Rustico romano): 155, 160, 189 Pero d’Ambroa: 407, 408 e n Pero d’Armea: 407, 408 e n Pero da Ponte (PPon): 339n, 246n, 390n Pero de Veer (PVeer): 331 Pero Garcia Burgalês (PGarBu): 326, 329n, 331, 337, 339 e n, 343 e n, 347 Pero Goterez cavaleyro: 395n Peroll: 32 Perosa, Alessandro: 330n, 493 e n Perotti, Niccolò: 37, 51 Persio, Aulo Flacco: 28, 33 Perugi, Maurizio: 435n, 441 e n Pestarino, Rossano: 87n Petit, Jean (tipografo): 49 Petrarca, Francesco: XIV, 4n, 7, 14n, 16n, 32, 33, 39, 44, 45, 47, 51, 53, 57, 58, 60, 61, 69, 83, 96n, 109 e n, 112n, 113n, 126n, 127, 129n, 130, 133, 138, 139 e n, 140n, 142, 143, 144, 145, 147, 148, 150, 151 e n, 152, 153 e n, 154, 155, 158, 159, 174 e n,

176n, 177 e n, 178, 179, 183 e n, 185, 186 e n, 187, 188, 193, 205, 207, 208, 239, 248 e n, 249 e n, 250 e n, 251 e n, 252 e n, 253 e n, 254 e n, 255, 256 e n, 257, 258n, 260n, 261, 262 e n, 315, 320, 334 e n, 336, 338, 339 e n, 365, 381, 391n, 394n, 432, 433, 434, 435 e n, 436, 437 e n, 438, 439, 440 e n, 441 e n, 442, 449n, 452, 455n, 465 e n, 466, 468n, 471 e n, 480, 484, 485, 486, 492, 507 e n, 508 e n Petreius: 65, 66 Petro di Bella Pertica (Pierre de Belle Perche): 193 Petrobelli, Pierluigi: 370n Petronilla d’Aragona: 399 Petronio, Gaio: 28 Petrucci, Armando: 1n, 6n, 8, 134n, 269 e n, 273n, 416n Petrucci, Giovanni Battista: 65, 66 Petruccio, Federico: 187 Petrus, Henricus (tipografo): 76 Phebo: 157 Piacentino, Francesco: 50, 52 Pic, François: XV, 245n, 433n Piccolo, Francesco: 218n Pico della Mirandola, Giovanni: 5 e n, 6 e n, 7, 8, 39, 63, 296 Picone, Michelangelo: 300n, 301n, 305n Picot, Emile: XII Pier delle Vigne: 231n, 239 e n, 240 e n, 241 e n, 265 Pierozzi, Antonio (Sant’Antonino vescovo di Firenze): 151n Pierre de Chapelle (P. da Capella): 179 Pietini, Giuliano: 52 Pietrasanta, Tommaso: (vd. Pighinuzzi, Tommaso) Pietro III il Grande di Aragona (1239-1285): 376 Pietro IV d’Aragona (1319-1387): 385 Pietro Leone da Ceneda (detto Cynthio): 160? Pighinuzzi, Tommaso da Pietrasanta: 29, 41, 50, 51, 79 Pillet, Alfred: 320n, 433n, 434n, 455n Pimpinella, Vincenzo: 495 Pindaro: 57, 58, 330, 492 e n Pinelli, Gian Vincenzo: 32, 41, 44, 67, 70, 97, 107 e n, 108n, 109 e n, 110, 111n, 117, 118, 119, 394, 396n, 400n, 402, 460 Pintacuda, Paolo: 87n

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INDICE DEI NOMI

Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini), papa (1503): 478 Pio VI (Angelo Braschi), papa (1775-1799): 41, 54 Pio XI (Achille Ratti), papa (1922-1939): 66 Pio, Giovan Battista: 83 Piotti, Mario: 5n, 109n, 318n, 396n Piovan, Francesco: 394n Piranesi, Giovan Battista: 508 Pirro, re dell’Epiro: 145n Pistoia, Antonio: (vd. Cammelli, Antonio) Pistolesi, Elena: 453n, 459n, 465n Pitagora: 49, 180 Pizzicolli, Ciriaco: (vd. Ciriaco [Pizzicolli] d’Ancona) Placido (grammatico): 40 Platina, Bartolomeo: 150 e n, 180, 183, 504 Platone: 29, 31, 40, 45, 49, 115n, 180, 186, 187, 480 Plauto, Tito Maccio: 28, 83, 95, 115n Plinio il Giovane: 495 Plinio il Vecchio, Gaio Secondo: 38, 39, 45, 46, 48, 49, 50, 52, 76, 159, 184 e n, 480 Ploncher, Attilio: 107n Plutarco: 28, 31, 40, 71, 73, 82, 97, 159 Pole, card. Reginald: 51 Polibio: 28, 31 Poliziano, Angelo: 7 e n, 8, 29, 30, 34, 35, 47, 57, 61, 76, 128 e n, 129, 159, 174, 184, 190, 195, 293n, 296, 480, 482, 485 Pollard, Alfred: 112 e n Polo Zoppo da Bologna [Messer Polo di Castello] (PoZo): 333 Pontano, Giovanni: 29, 30, 33, 35, 41, 46, 47, 49, 54, 64, 65, 66, 73, 76, 81, 83, 189, 190n, 379, 380, 381, 384, 387n, 488 e n, 489 e n, 490, 492 Ponzio da Messina (forse Caio Caloria da Messina): 160, 183, 190 Porcari, Camillo (Porzio): 34, 80 Porcellio: (vd. Pandoni, Porcellio) Porfirio: 79 Porfirione: 33, 34 Porrino, M. Gandolfo: 51 Portela Silva, Maria José: 416n Porto (o Porti, o Portius, o de Portis), Leonardo: 40, 47, 49, 78 Porto, Benedetto: 262n Porzio, Camillo: (vd. Porcari, Camillo) Poulle, Emmanuel: 368n Prada, Massimo: 5n, 109n, 318n, 396n

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Prassitele: 500 Prete Gianni (Johannis Pretiosus): 100, 101 Priamo: 37 Prisciano: 27, 28, 29, 46, 47 Probo, Valerio: 27 Proclo: 67 Proclo (Santo): 45 Procopio: 187 Properzio, Sesto: 49, 72 e n, 74, 83, 133n, 157, 173n Pseudo Cebete: 73 Pseudo Luciano: 73 Pucci, Antonio: 132 Pugliese Carratelli, Giovanni: 184 Pulci, Luigi: 61, 159, 174, 184, 190, 482, 485 Pulsoni, Carlo: XII, XV, XVII, XVIII, 17 e n, 111n, 260n, 261n, 322n, 351n, 397n, 400 e n, 449n, 455n, 458n, 460n, 463n, 468n, 471n Quadrio, Francesco Saverio: 475n Quarqualio, Cherubino: 159, 160, 189 e n, 191, 480 Quattromanni, Sertorio: 57 Quentell, Pietro (tipografo): 77 Quercente, Francesco: 159, 174, 477 Questenberg, Giacomo Aurelio: 39, 46, 48, 62 Quinlan-McGrath, Mary: 503n Quintiliano, Marco Fabio: 115 Quondam, Amedeo: 109n Rabano Mauro: 491 Raboni, Giulia: 87n Raffaelli, Massimo: 321n Raffaello: (vd. Sanzio, Raffaello) Raffarin-Dupuis, Anne: 505n Ragazonibus, Teodoro de — (tipografo): 75 Raimbaut d’Orange (RbOr): 140, 158?, 320, 321n Raimbaut de Vaqueiras (RbVaq): 32, 63, 140, 158? Raimon de Miraval (RmMirav): 324n, 335n Raimondo Berengario IV: 396, 399, 400 Rainaldi, Domenico: 78 e n, 83 Rajna, Pio: 85 e n, 91 e n, 92, 398 e n, 449n, 453n, 460n, 468n Rallus, Manilius Cabacius, romanus: (vd. Rhallès Cabacès) Rambaldo: 176 Rampi, Elena: 87n

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INDICE DEI NOMI

Ramsey, Paul A.: 497n Ramusio, Giovan Battista: 89, 90n, 93 Raniero Arsendi da Forlì: (vd. Guarnerio o Yrnerio da Forlì) Rasello, Thomasso: 190 Ratdolt, Erhard (tipografo): 50, 74, 75 Raugei, Anna Maria: 108n Raynouard, François : 315n Re Joanni: 250, 257 e n Rea, Roberto: 217n, 218n Recupero da San Miniato: 187 Regiomontano, Giovanni (o G. di Monteregio): 75 Rehm, Walther: 497n Reichenbach, Giulio: 135n Renier, Rodolfo: 98n Renzi, Lorenzo: XII, 17n Resende de Oliveira, Antonio: 402n, 407n, 421n Rhagius, Johannes: 505 e n Rhallès, Cabacès (Manilius Rallus Romanus): 34, 35, 41, 77, 493 Riario, Raffaele (cardinale di San Gregorio): 37 Ribeiro Rebelo, António Manuel: 330n Ribeiro, Antonio (quel da Ribera): 57, 311, 318, 385, 389 e n, 436, 437n Riccardo Rufo di Cornubia: 53 Ricci, Giovanni R.: 218n Ricci, Laura: 133n, 449n, 454n Richardson, Brian: 111n, 450n Ridolfi, card. Niccolò: 38, 50, 52 Riesz, Janos: 471n Rinaldo D’Aquino: 203, 303n, 455 Rinuccino, [maestro] (Rinu): 328 Rinuccio vescovo di La Cava: 40 Ripanti, Tiberio: 54 Riquer, Martín de —: 364n, 399n, 435n, 441n Risicato, Antonio: 488n Rivolta, Adolfo: 97n Rizzo, Silvia: 269n, 270n, 293n, 380 e n, 407n Roberto d’Angiò (re di Sicilia, 1278-1343): 33, 62, 125, 138n, 146, 150 e n, 151 e n, 152 e n, 154, 159, 160, 174, 177, 182, 193, 183, 196, 207, 224n, 248 e n, 381, 394n Rocca, Angelo: 68 Rodocanachi, Emmanuel: XIII Rodrig’ Eanes de Vasconcelos (RodEaVas): 340, 343, 447 Rodrigo Sanchez: 102, 103 e n, 395

Rodrigu’Eanes Redondo (RodEaRed): 339n Rodt, Sigismondo (tipografo): 75 Roig, Jaime: 56 Rojas, Fernando de —: 89 Romagnoli, Daniela: 241n Romano, Vincenzo: 151n Roncaccia, Alberto: 5n Roncaglia, Aurelio: 14n, 342n Rosello, Tommaso: 160?, 480 Rosenthal, Bernard: 112 e n Roseo, Mambrino: 90 Rossel, Antoni: 322n Rossi, Antonio: 9n, 475n, 483n Rossi, Vittorio: 177n Rovira Soler, Matilde: 322n, 348n Rovira, José Carlos: 382n Rowland, Ingrid D.: XIV Roy de Spanha: 443 Roy Fernandez de Santiago (RoyFdzSant): 340, 341 Roy Paez de Ribela (RoyPaezRib): 340, 342 Roy Queymado (RoyQuey): 344 Rozzo, Ugo: 107n, 108n, 117n Rubeira, Giustiniano de — (tipografo): 75 Ruffini, Graziano: 132n Ruffini, Mario: 260n Ruffino, Giovanni: XV, 199n, 245n, 394n Rufo, Sesto (Festo): 27, 52 Rugerius, Ugo (tipografo): 75 Ruggeri, Girolamo (tipografo): 475 Ruíz García, Elisa: 378n, 384n Rupprich, Hans: 505n Rutilio Lupo: 83 Rutilio, Bernardo: 50, 51, 52 Ruysschaert, José: VIIIn, XII, 25n, 26n, 50, 59, 62, 63, 76, 80, 105n, 131n, 135n, 486n, 487n Ryder, Alan: 382 e n Sabatini, Francesco: 223n, 381n Sabbadini, Remigio: 67 Sabellico, Marcantonio: (vd. Coccio, Marco Antonio) Sabio, da — (Giovannie e Antonio: famiglia di tipografi): 108n Sacrobusto, Giovanni di —: 75 Sadoleto, Francesco: 220 e n Sadoleto, Iacopo (o Giacomo): 34, 36, 38, 41, 50, 79, 160n Saffo: 67 Salamoni, Mario: 498

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INDICE DEI NOMI

Salimbene de Adam da Parma: 240, 241 e n, 242n, 243n Sallustio, Gaio Crispo: 31 Salmi, Mario: 273n Salvadori, Giulio: XVII, 57, 182n Salvalio, Giovanni: 30, 75, 76 Salviati, Leonardo: 413 Samsó, Julio: 367n, 368n San Pedro, Diego de —: 89 Sánchez Cantón, Francisco Javier: 378 e n Sánchez del Pulgar, Francisco: 378 e n, 379 en Sanchez Regueira, Isolina: 443n Sanchez, de Lima, Miguel: 471n Sánchez, Javier: 378n Sancho (re di Portogallo): 392, 396 Sancho I el Viejo (1185-1211) re di Portogallo: 400n, 401, 402 e n Sancho II (1223-1248) re di Portogallo: 402 en Sancho IV di Portogallo, il ribelle (12571295): 377n Sancho Sanchez clérigo: 395n Sandonnini, Tommaso: 107n, 108n, 111n Sannazaro, Jacopo: X, 29, 30, 35, 36, 66, 128 e n, 160, 188, 480, 487, 490 e n, 491 e n, 492 e n, 493 e n, 494 e n, 495 e n, 499, 500, 501 Sansone, Giuseppe E.: 69 Sansovino, Andrea: 80 Santagata, Marco: 129n, 334n, 435n, 440n Santangelo, Salvatore: 351n, 455n Santi, Francesco: 87n Santiago Luque, Augustín: 372n Santoni, Roberto: 53 Santoro, Mario: 488n Sanudo, Marin: 28, 72n Sanvito, Bartolomeo: 95 Sanzio, Raffaello: XIV, 33, 34, 191, 397, 504, 507 e n, 509, 512 Saramago, José: 169 e n Sasso, Panfilo: 155, 160, 189 Satta, Salvatore: 241n Savarese, Gennaro: XIII, 3n, 124n, 489n, 497n Savoia: 79, 80 Savonarola, Girolamo: 23n, 27, 137n Savorgnan, Maria: 96n, 398n Scalia, Giuseppe: 241n, 242 e n, 243n Scarabicchi, Francesco: 321n Scataglini, Franco: 321n

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Scheffer-Boichorst, Paul: 242 Schlegelmilch, Ulrich: 500n Schürer (tipografo): 502n Schutz, Alexander Herman: 400n Scinzenzeler, Ulrich (tipogrfo): 73 Scipione, Publio Cornelio Emiliano: 49 Scolastico: 53 Scoles, Emma: 471n Scoto, Michele: 75 Scoy, Herbert Aallen van —: 369n Scudieri Ruggieri, Jole: XV, XVI, 55, 69 Seba, Antonio: 98 Sebillet, Thomas: 471n Sedeño, Juan: 88n Segalello, Ghirardino: 241n Segre, Cesare: XIV, 4n, 14n, 23n, 26, 108n, 130n, 172n, 176n, 247n, 268n, 300n, 316n, 394n, 399n, 406n, 434n, 464n Seidel Menchi, Silvana: XVIII Seneca, Lucio Anneo: 49, 78 Sennucccio del Bene: 16, 138n, 145, 146, 149, 158, 174, 178 Senofonte: 31, 39, 40 Septem Arboribus, Martino de — (tipografo): 74 Sequestre, Vibio: 13n Serafino Aquilano: (vd. Ciminelli, Serafino) Sereno, Aurelio: 494 Serianni, Luca: 413, 485n Seripando, Girolamo: 94 Sertorio: 47 Servio, Mario Onorato: 28, 29, 46 Sessa (tipografo): 477n Severo, Giovanni spartano (copista): 50 Sforza, Francesco: 140n Sforza, Giovanni: 99n Sharrer, Harvey L.: 409n Sheehan, William J.: 71, 73 Sidonio Apollinare: 73, 74 Sigismondo I, re di Polonia (1506-1548): 38 Silber, Eucario (tipografo): 73, 82, 474 Silió Cortés, Cesar: 378n Silio Italico: 505 Silva, Michele de —: 99n Silvano, Gaio germanico: 80 Silvestri, Guido Postumo de’ —: 77 Simon Nicolai di Lucca (tipografo): (vd. Cardella, Simon Niccolò) Simonelli, Maria: 260n Simonide (Francesco Nelli): 149 Singrenius (tipografo): 499n

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INDICE DEI NOMI

Sirleto, Guglielmo: 24n, 44, 50 Sismonda o Sigismonda: 157 Sisto IV, papa (1471-1484; Francesco della Rovere): 6, 66 Smiraglia, Pasquale: XIII, 42, 146n, 178n, 488n Socrate (Ludwig von Kempen): 137n, 139 e n, 141, 143, 144n, 158, 174, 176n, 177, 178, 183 Sofocle: 75, 78 Solalinde, Antonio G.: 368n Solazio, Taddeo: 495 Solerti, Angelo: 148n, 174n Solimena, Adriana: 281n, 282n, 283 e n, 284, 286 Solino, Gaio Giulio: 13n Sollio, Caio: 73 Solone: 53 Soncino, Girolamo (tipografo): 76, 474 Sorella, Antonio: 465n Sosipatro: 83 Sotgiu, Giovanna: 46 Sousa Macedo, Antonio de —: 376n Spampinato Beretta, Margherita: 234n, 238n, 343n Spirito, Lorenzo: 152, 159, 174 Squarciafico, Girolamo: 74, 148, 186n, 188 Staccoli, Agostino da Urbino: 61, 81, 159, 174, 184, 185, 190, 474 e n Stagnini, Giovanni Maria: 53 Stainhofer, Gaspar: 114n Stazio: 74, 492 Stefano di Lothoringia (tipografo): 76 Stella, Angelo: 87n Stendhal: 132 Steuco, Agostino: 45 Stevenson, Allan: 124n Stinger, Charles L.: 497n Strabone: 49, 491 Strata, Antonio de — (tipografo): 75 Stroñski, Stanislav: 339n Strozzi, Ercole: 135 e n, 157 Strozzi, Filippo: 34, 35 Sturm, Jean: 39 Suida: 72 Sulpicio Vittore: 83 Svetonio, Tranquillo Gaio: 31, 52, 60, 76, 170 e n, 171 e n, 502n Summonte, Pietro: XVII, 30, 41, 43, 52, 54, 63, 76, 141, 194, 248n, 317n, 402n, 403, 433 e n, 464n, 487, 488 e n, 489, 490, 491 en

Sweynheym, Corrado (tipografo): 75 Tacito, Cornelio: 52, 76 Tacuino, Giovanni (tipografo): 74, 75, 77, 495 Tadeus: 240 Tamira, Pietro: 29, 41, 80, 490 Tancredo: 157 Tansillo, Luigi: 86, 94 Tasso, Torquato: 8n, 449n Tasti, Girolamo: 36, 63 Tateo, Francesco: XIV, 30, 35, 325n, 380n, 381 e n, 383, 488n 489n, 490n, 491n Tavani, Giuseppe: 220, 224n, 311n, 318n, 320n, 327n, 331n, 345n, 346n, 373n, 376n, 384n, 389n, 393 e n, 402n, 405n, 407n, 408n, 410n, 436n, 443n, 444 e n, 445 Tavoni, Mirko: 117n, 453n Tavosanis, Mirko: 463n Tebaldeo, Antonio: 10n, 29, 34, 35, 37, 41, 50, 51, 61, 66, 70, 81, 105, 134, 135, 155, 160, 173 e n, 174n, 188, 453n, 474, 477, 478 e n, 480, 487n Tebaldeo, Giacomo: 50 Tebaldeo, Girolamo: 29, 50 Tebaldus, Franciscus: 240n Teofrasto: 187 Teone: 75 Terentiano: 58 Terenzio (Publio, Afro): 95, 115n Testi, Fulvio: 86 Teza, Emilio: 85, 91 e n Thurzó, Johann: 499 Tibullo, Albio: 28, 49, 72 e n, 73, 74, 83 Tifernate, Angelo: 40, 46, 63 Tifernate, Gregorio: 62, 63 Timpanaro, Sebastiano: 215n Tiraboschi, Girolamo: 106, 107n Tiridate: 501 Tizzone, Gaetano: 111 e n Tocco, Valeria: 87n Todeschini Piccolomini, Silvio: 81, 270, 478, 479n Toja, Gianluigi: 435n, 436n Tolomei, Claudio: 41, 76, 368n, 379, 382, 383n, 450n, 453n Tolomei, Lattanzio: 57, 318, 436 Tolomeo: 490, 491 Tomaso di Sasso da Messina (To Sa): 285, 333

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INDICE DEI NOMI

Tommaso Caloria (o Caloiro) da Messina: 139 e n, 141, 142, 143 e n, 158, 174, 176n, 177 e n, 178 Tommasuccio (Tommaso Unzio da Foligno detto fra T—): 159, 175 Toneatto, Lucio: 46 Tonti, Michelangelo: 52 Topsfield, Leslie Thomas: 335n Torrentino, Lorenzo (tipografo): 109, 120 Tosetti, Angelo (Lello) di Pietro Stefano: (vd. Lelio) Trapezunzio, Giorgio: 62 Travi, Ernesto: 92n, 398n Trebanio Aurelio: 31 Trifone, Gabriele: 41? Trillas: 471n Trifone, Pietro: 413, 485n Trissino, Gian Giorgio: 10, 15, 29, 41, 57, 58, 171, 172, 188, 261n, 262n, 285n, 322n, 351n, 432, 449, 450n, 451n, 453 e n, 454n, 458n, 459n, 460, 463, 464 e n, 465 e n, 466 e n, 467 e n, 468 e n Tristan: 409, 410, 414 Trivulzio, card. Agostino: 48, 51, 52 Trofino (o Trofimo), Felice (vesc. di Chieti): 64 Trovato, Paolo: 109n, 450n, 453n, 454n, 463n, 484n Tucidide: 70, 71 Tucker, George H.: 509 e n, 510n Tuppo, Francesco del —: 111n Turpino: 31 Tyssens, Madeleine: XIV, 216n, 246n, 315n, 391n Tzetze, Giovanni: 67 Ubaldini, Federico: VIII e n, XII, XVII, XVIII, 23n, 25n, 26, 29, 34, 35, 36, 41, 45, 47, 48, 50, 51, 57, 59, 76, 125n, 128n, 129n, 136n, 141n, 153n, 160n, 185n, 256n, 296 e n, 453n, 468 e n, 498 e n Ubertino: 201 Uc Brunenc: 32 Uc de Saint Circ: 141, 142, 158, 176n, 177 Ugolino pisano: 31 Ugolino, Bartolomeo (detto Baccio): 159, 160, 174, 188 e n Ulderico Gallo: 102, 104 Ulloa, Alfonso de —: 90 Urano: 128 Ursino, Diego ?: 175

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Vaisquin de Philieul: 471n Valdés, Alfonso de —: 89 Valdés, Juan de —: 89 Valdezoco, Bartolomeo de — (tipografo): 74 Valeriano, Pierio: 79, 135, 453n, 468, 491, 495 Valerio Flacco, Gaio: 82 Valero Juan, Eva: 346n Valla, Giorgio: 6 Valla, Lorenzo: 27, 46, 74 Vapovicio, Bernardo (canonico di Cracovia): 38 Varano, Costanzo da —: (vd. Costanzo da Varano) Varano, Fabrizio: 41 Varchi, Benedetto: 113, 114 e n, 465n, 468 Varrone, Marco Terenzio: 27, 29, 33, 34, 48, 49, 69, 71 e n, 75, 77 Varvaro, Alberto: 238n Vasco Fernandez Praga de Sendin (VaFdzSen): 326 e n, 330, 346n, 347 Vasco Gil (VaGil): 347 Vasco Perez Pardal: 310 Vasto, Alfonso del — (Marchese del Vasto): 87, 92n, 94 Vasto, Ferrante: 87 Vecce, Carlo: 190n, 463n, 490n, 491n, 492n, 493n, 495n Vega, Garcilaso de la — (sr.): 93, 94, 384 Vegezio, Renato Flavio: 116 Vela, Claudio: 95n, 111n, 463n, 470n Velio, Ursino: 499 e n, 500, 501, 502, 503, 504, 506, 509n, 511, 513 Velli, Giuseppe: 491n Vellutello, Alessandro: 150 Vercellenses, Johannese Rubeus e Bernardinus (tipografi): 76 Vergara, Francisco: 99, 101 Verlato, Zeno Lorenzo: 16n, 449n Veroli, Giovanni Sulpicio da —: (vd. Giovanni da Veroli) Vettori, Piero: 31, 41, 45, 46, 48, 50, 51, 52, 69, 70n, 71, 75, 77 Vida, Girolamo: 41, 61, 79, 80, 129n, 498 Vidal (judeu d’Elvas): 421n Vigile, Fabio: 29, 30, 37, 41, 142, 174, 185 e n, 186, 190 Vilavedra, Dolores: XV, 251n, 403n Villani, Giovanni: 56, 112n, 117, 118 e n, 240 e n Villani, Matteo: 118 e n

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INDICE DEI NOMI

Villaruel da Valenzia, (Mons.): 92n Villaverde Perez, Abel: 92n Villegas, Pedro Fernandez de —: 95 Vincenti, Eleonora: 230n Vindelino da Spira (tipografo): 74 Virgilio, Publio Marone: 28, 38, 46, 57, 66, 67, 68, 73, 180, 181, 184, 480, 481, 505, 511n Visconti, Gasparo: 485 Visconti, Luchino: 177 Vitale, Giano: 509 e n, 510 e n, 511 Vitaletti, Guido: XVII Vitali, Giovan Francesco: 80 Vitruvio Pollione: XIV, 65, 82, 95, 116 von dem Busche, Hermann: 505 Vopisco, Luigi: 29, 36, 51, 80, 490 Vulscio, Lucio: 40 Warburg, Aby: 8 Wardrop, James: 95 Weiss, Robert: 48, 62, 63, 504n

Williams, Edwin B.: 412 Zaccagnini, Guido: 218n Zamora Vicente, Alonso: 346n Zamponi, Stefano: 270n, 272n, 273n, 283n, 284n, 295 e n, 296 Zanato, Tiziano: 470n Zanchi, Basilio: 34, 72, 77, 105, 106 Zanetti, Bartolomeo: 117, 118 e n Zaroto, Antonio e Fortunato (tipografi): 74 Zavilla, Bonamic: 372 Zelada, Francesco Saverio de —: 41, 54 Zeno, Apostolo: 475n Zicari, Marcello: 218n Ziino, Agostino: 342n Zocchi, Giacomo: 74 Zonghi, Aurelio: 124n Zoppino, Nicolò Aristotile de’ Rossi detto lo — (tipografo): 77, 188n, 190n Zorzi, Bartolomeo: 471n Zufferey, François: XV, 247n

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INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

I criteri nella designazione delle pagine del volume sono gli stessi adottati nell’indice dei nomi (al quale perciò si rimanda). In aggiunta si segnala che i manoscritti e gli stampati sicuramente riconducibili alla biblioteca colocciana sono stati contrassegnati da una (C.), oppure da una (C.?) qualora il possesso non sia certo1.

Fondo Rossiano

Biblioteca Apostolica Vaticana Archivio Tomo 15 (Inv1): 12 e n, 13 e n, 24n, 30, 31, 50, 52, 53, 62, 66, 73, 75, 77, 380, 388n

Fondo Barberiniano Latino 4000: 45 4087 [canz. pr. b]: 32, 44 4871: 45 4882: VIIIn, XII, 23n, 26, 125n, 256n, 296n, 453n, 487n

Fondo Chigiano IV 1618: 101 L. VIII. 305 [canz. it. C]: 183n, 268 e n, 270, 299, 455n

Fondo Ottobonianano Latino 1882: 66 2860 (C.): 34, 35, 128n, 489, 493 2110: 38

Fondo Reginense Latino 453: 494 1370: XVII, 15, 449 e n, 450n, 453n, 458 e n, 460, 462n, 464 1527 (C.): 489 2023: IXn, 225, 248n, 433n

6966: 101

Fondo Urbinate Latino 729: 188n, 189n, 477

Fondo Vaticano Greco 1043 (C.): 66 1054 (C.): 47, 51 1164 (C.): 68

Fondo Vaticano Latino 1496 (C.): XIII 1522 (C.): 75 2305 (C.): 53 2736 (C.): 51 2748 (C.): VIII 2833 (C.): 29, 36, 81, 128n 2834 (C.): 34, 35 2835 (C.): 35, 37,134n 2836 (C.): 128n, 189n, 493 2837 (C.): 489 2838 (C.): 489 2839 (C.): 488, 489 2840 (C.): 489 2841 (C.): 489 2842 (C.): 489 2843 (C.): 489 2847 (C.): 128n, 493 2862 (C.): 64, 76 2874 (C.): 14, 128n, 493

–––––––––– 1 Il presente indice non comprende la menzione dei codici e degli stampati elencati

nella prima colonna (segnatura) del saggio di M. BERNARDI, Per la ricostruzione della biblioteca colocciana: lo stato dei lavori, pp. 21-83, per le ragioni già esposte a p. 21.

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INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

2934 (C.): 48 3132 (C.): 46, 48, 52, 62 3195 (C.?): 11, 18, 24n 3196: 149 3205 [canz. pr. g o g1]: VIII, 43, 246n, 249n, 317 e n, 318n, 321n, 394, 403, 433n, 434 3206 [canz. pr. L]: 400 3207 [canz. pr. H]: 400 3208 [canz. pr. O]: 32, 400 3210: 111n, 459n, 460n, 461, 462n, 463 e n, 467n, 469n, 470n 3217 (C.): VIII, XVI, 47, 51, 57, 59, 60, 61, 152n, 183n, 199, 200, 202 e n, 207, 208, 229, 231n, 234n, 247n, 248 e n, 251n, 252n, 253 e n, 254 e n, 256, 257, 259, 265, 266, 267, 269n, 336 e n, 349, 350, 356, 357, 361, 363n, 373n, 378n, 387 e n, 392n, 393 e n, 394 e n, 395 e n, 396 e n, 399, 400n, 401, 402, 403 e n, 404, 405 e n, 411 e n, 465, 467 e n, 469, 489 3351 (C.): 36 3352 (C.): 29, 35, 41, 66, 128n 3353 (C.): 29, 34, 36, 38, 39, 41, 66, 128n, 488, 491, 493 3367 (C.): 29, 81 3388 (C.): 59, 128n, 493 e n, 494 3389 (C.): 29, 50, 134n 3436 (C.): 5, 35, 46, 54, 329 3441 (C.): 39, 52, 78 3446 (C.): XIII 3450 (C.): 57, 124n, 140n, 142, 143, 146n, 153 e n, 169, 170, 171n, 172n, 176, 178, 182n, 197, 316, 365, 453n, 488, 490 3715 (C.): VIII 3793 [canz. it. V] (C.): IX, XVI, 10, 11, 12n, 17, 21, 23n, 27, 33, 58, 60, 61, 130n, 146n, 149n, 192, 195, 196, 197, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 211, 212, 213, 216, 217, 219 e n, 220 e n, 221, 222, 225 e n, 226 e n, 227 e n, 229, 230n, 231, 232, 233, 234 e n, 235 e n, 236, 237, 238 e n, 240 e n, 241n, 246n, 247n, 248n, 257, 267, 268, 269, 272n, 273, 274 e n, 275 e n, 276 e n, 277, 278, 279, 280 e n, 281, 283n, 284, 285 e n, 286n, 287 e n, 288 e n, 289 e n, 290 e n, 291 e n, 292, 293 e n, 294, 297, 298, 299 e n, 300 e n, 301n, 302, 303n, 306, 318 e n, 319 e n, 323, 327, 328 e n, 329 e n, 332, 333 e n, 335, 336, 337, 338 e n, 344n, 348, 349 e n, 350, 351n, 403 e n, 432 e n, 443, 447n, 455 e n, 456n, 457, 464, 487n

3794 (C.): 32, 54, 68, 130n (ma vd. PARIGI, Bibliothèque Nationale, fr. 12474) 3861 (C.): 46 3890 (C.): VIII, 59 3893 (C.): VIII, 46, 62 3894 (C.): VIII, 62 3895 (C.): VIII, 31, 48, 52, 62 3896 (C.): VIII, 45, 46, 53 3898 (C.): 489 3900 (C.): 62, 63 3901 (C.): VIII 3902 (C.): VIII 3903 (C.): 13n, 14, 15, 17, 18, 57, 59, 67, 78, 82, 220, 352, 365, 449, 452 3904 (C.): VIII, 48, 53, 82, 124n, 125n 3905 (C.): VIII, 48 3906 (C.): VIII, 11, 46, 124n, 125n 3909 (C.): 29, 36, 81 3958 (Inv3): 12, 13, 16 e n, 24n, 27, 28, 29, 30, 31, 43, 45, 47, 52, 54, 55, 56, 66, 76, 77, 82, 105, 388, 489 3963 (Inv2): 13, 24n, 28, 31, 50, 52, 53, 54, 62 4048 (C.): 50 4057 (C.): 50, 73, 488 4058 (C.): 74 4103 (C.): IXn 4104 (C.): IXn, 33, 37, 47, 67, 262n 4105 (C.): IXn 4498 (C.): 31, 46, 62 4539 (C.): 46, 48, 62, 65, 82, 125n 4787 (C.): XII, 18, 19, 61, 205, 248, 254, 255n, 320 4796 (C.): VIII, 45, 63, 141, 199 e n, 245n, 256n, 257n, 319 e n, 323, 394n, 397n, 403 e n, 433n, 434 e n, 490n 4798 (C.?): 388n 4802 (C.?): 55, 59, 175 4803 [canz. port. V]: VIII, XV, XVI, 68, 307314, 318 e n, 339n, 363n, 371, 373n, 374, 377n, 387 e n, 389 e n, 391, 392 e n, 405 e n, 406 e n, 407, 408 e n, 409, 411, 419, 421 e n, 422 e n, 423, 425, 428, 432 e n, 437 e n 4817 (C.): 14, 15, 16, 18, 23n, 29, 33, 41, 47, 58, 59, 60, 61, 78, 124n, 130n, 148, 153n, 169, 170, 171 e n, 172 e n, 185, 192, 196, 197, 211, 212, 213, 214, 215, 217 e n, 219, 224, 229, 230n, 238, 239n, 247n, 253 e n, 259n, 261 e n, 262, 291n, 296n, 306, 316, 319 e n, 322, 323, 330, 334, 342, 344, 351,

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INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

355, 358, 364, 365, 366, 376, 383, 387, 388n, 394n, 403, 432, 447, 449 e n, 451, 452, 457, 465, 466, 467, 468, 492, 495 4818 (C.): IX, 33, 47, 55, 57, 59, 60, 124n, 127n, 128n, 134n, 175 4819 (C.): 57, 124n 4820 (C.): 14n, 45 4821 (C.): XIII 4823 [canz. it. Va] (C.): IX, X, XVII, 3n, 12, 16, 17, 18, 21n, 23, 27, 33, 43, 58, 59, 60, 61, 123n, 124n, 126n, 128n, 134n, 143n, 145n, 148, 149 e n, 171n, 199 e n, 200 e n, 201, 202 e n, 203, 205, 206, 207, 208, 209, 211 e n, 212, 217 e n, 220, 221, 222, 224, 225 e n, 226, 227n, 228n, 229, 231n, 232, 233, 234n, 235 e n, 236, 238, 239, 246n, 248 e n, 251n, 252n, 253n, 254n, 257 e n, 259n, 263, 264, 267, 268, 269n, 273, 274n, 275n, 276 e n, 286 e n, 289, 290n, 291, 292, 293, 297, 298, 301, 304, 318n, 319 e n, 323, 327, 328, 329, 332, 333, 334n, 335, 336, 337, 338 e n, 344n, 348, 349, 350, 351n, 360, 425n, 432n, 443, 447n, 449n, 456 e n, 457n, 487n 4831 (C.): 10 e n, 11, 47, 57, 59, 61, 62, 123, 124 e n, 127n, 128n, 129,130n, 136, 139, 140, 143n, 144, 147, 153n, 154, 156, 161, 165-167, 169, 170, 171,172 e n, 178 e n, 179, 183, 185, 186, 189n, 190n, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 224 e n, 364 e n, 365, 388 e n, 432, 451 4882: 185n 5194 (C.): 46, 47, 63 5232 [canz. pr. A]: XIV, 14n, 15, 59, 60, 400 5394 (C.): 31, 46, 52 5395 (C.): 39, 46, 48 6845 (C.): 47, 62 7182 (C.?): IX, XIV, 33, 44, 54, 63, 64, 81, 82, 140n, 141n, 190n, 405, 410, 411 e n, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 418, 420 7190: 63 7192 (C.?): 30, 63, 64, 76, 81, 82, 489 7205 (Inv4): 5n, 12, 13, 24n, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 49, 67, 70 e n, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 82 e n, 83, 388n 9719: 79 13072: 151n 14065 (Inv5): 12, 13 e n, 24n, 53, 66, 76, 77, 83, 388n, 489, 513 14869: VII, IX 14870: IX 14871: 62

541

Stampati Ald. III. 19: 49 Inc. II. 121 (C.): 180 Inc. II. 242: 50, 74, 83 Inc. II. 470: 104 Inc. III. 85: 50 Inc. IV. 136 (C.): 27 Inc. Prop. II. 165: 104 Inc. Ross. 80: 104 R. G. Neol. IV. 339: 81 R. I. II. 243 (C.): 488 R. I. III. 177: 78 R. I. IV. 2139 (C.): 40, 47 R. I. IV. 2245 (C.): 57 R. IV. 171: 80

Altre Biblioteche BERGAMO, Biblioteca Civica Angelo Mai Ant. Gritti 3: 101 BERLINO, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz Hamilton 90 (C.?): 11, 24n, 68 Lat. fol. 437: 16n, 449n, 450 Phillipps 1910 [canz. pr. N2]: 14n BOLOGNA, Biblioteca Universitaria 1290 [canz. prov. g2 o ga]: 44, 245n, 317n, 403, 434n 1242: 477 BRESCIA, Biblioteca Queriniana F. II. 2: 494 CAMBRIDGE, University Library Additional 565: 95, 96 EL ESCORIAL, Real Biblioteca J. b. 2 [codice E]: 371n, 372, 378n T. j. 1. [codice T]: 371n, 372, 373, 378n FIRENZE, Biblioteca Mediceo-Laurenziana XL. 49: 132n XLIII. 38: 132n LXV. 50: 174n XC. 89: 132n Ashburn. 411 (343): 494 Lat. XXXIX [Virgilio Mediceo] (C.): VII, 23 e n, 26, 42, 487n

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542

INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

Martelli 12: 183n Red. 9 [canz. it. L]: 17 e n, 18 e n, 267, 268 e n, 270 e n271, 272 e n, 273 e n, 274 e n, 275, 276 e n, 277 e n, 278, 279, 280, 283 e n, 284 e n, 285 e n, 286 e n, 287 e n, 288 e n, 289 e n, 291n, 293, 294 e n, 295 e n, 296 e n, 297, 297, 299 e n, 300 e n, 301 e n, 302 e n, 303 e n, 304, 305 e n, 306 FIRENZE, Biblioteca Nazionale Centrale II.V.160: 493 II.X.54: 477 Banco Rari 20 (II, 1, 213) [cod. F]: 371e n, 372n, 373, 374, 384n Banco Rari 69: 183n Banco Rari 217 [iam Pal. 418: canz. it. P]: 273n, 455n Magl. II. II. 40: 183n Magl. II. III. 492: 219n Misc. 199. 2: 101 Misc. 199. 3: 101 Misc. 1141. 2: 101 Pal. 219: 477 Pal. [11] C 10 5 8: 109 e n, 111 e n, 113 e n, 114 e n, 115 e n, 117, 118, 119, 120 FIRENZE, Biblioteca Riccardiana 2318: 131 e n 1050: 183n ER 268: 475 GRENOBLE, Bibliothèque Civique 580: 449n, 450, 453n, 458n HARRISBURG (Pennsylvania), Pennsylvania State Library PQ4619.C5.1503 (Rare Books, Italian Collection): 475 ITHACA (New York), Cornell University Library Rare Bd. MS. 4648 n° 22 (già Mss. Bd. Petrarch, PP49 R 519): 17, 19 LISBONA, Biblioteca da Ajuda Cancioneiro da Ajuda (Pert. Col. Nobres/ Comp. Jesus): 309n, 326n, 331n, 342n, 346n, 402n, 405, 409 e n, 410n, 417n, 420n, 421n

LISBONA, Biblioteca Nacional 10991 [Colocci-Brancuti canz. port. B] (C.): VIII, X, XVII, XVI, 11, 33, 45, 55, 58, 68, 248n, 259n, 308, 309 e n, 310314, 318 e n, 325 e n, 326 e n, 329 e n, 330, 331 e n, 332, 334n, 336, 337, 338, 339 e n, 340, 341, 342, 343, 344 e n, 345, 346 e n, 347, 359, 363n, 371, 373n, 374, 377n, 387 e n, 389 e n, 390n, 391 e n, 392 e n, 393 e n, 395, 399, 401, 405 e n, 406 e n, 407, 408 e n, 409, 411, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 418 e n, 419, 420, 421 e n, 422, 423, 424 e n, 425, 426, 427, 429, 432 e n, 437,, 438, 439, 440 e n, 441 e n, 442, 443 e n, 444, 445, 447, 449n, 455n LONDRA, British Library Additional 10265: 76 Additional 12027: 491 C. 32. h. 5: 101 G. 6219: 101 G. 6718: 101 MADRID, Biblioteca Nacional de España Cancionero de Estúñiga [Vitrina 17-7]: 374 R 8558: 102 10069 [cod. TO]: 371n MILANO, Biblioteca Ambrosiana D. 422. inf.: 44 D. 423. inf.: 32, 44 G. 33. inf.: 495 H. 246. inf.: 398 S.C.F.I.88: 101 S.I.G. IV. 5: 101 S. P. II. 100: 91 MILANO, Biblioteca Braidense AG. XIV. 49 [canz. pr. Aa]: 14n, 60 Aldina AP XVI 25 [cod. Martini]: 222n MILANO, Biblioteca Trivulziana 1088: 47, 58, 261n, 351n, 449 e n, 450 e n, 451 e n, 452, 453 e n, 457, 458, 464, 468 MODENA, Biblioteca Estense a &. 2. 10: 108 e n, 111 a S. 5. 1 [iam ms. It. 284]: 114n, 115n a Z. 4. 24: 118n

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INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

NEW HAVEN (Connecticut), Yale University, Beinecke Library Rosenthal 14: 112 e n, 113 e n, 114 e n, 115 e n, 116, 117, 118, 119, 121 NEW YORK, Pierpont Morgan Library 819 [canz. pr. N]: XIV, 44, 63 PARIGI, Bibliothèque Nationale Esp. 37 [Cancionero de Baena]: 372n Fr. 854 [canz. pr. I]: 399 Fr. 1749 [canz. pr. E]: XV, 261n, 397n, 400, 460n Fr. 12473 [canz. pr. K]: 32, 43, 394, 399, 400, 400, 471n Fr. 12474 [iam Vat. lat. 3794; canz. pr. M] (C.): VIII, X, XIV, XV, 11, 32, 54, 58, 68, 69, 130n, 136n, 140n, 141, 193, 194, 245n, 246n, 247 e n, 248n, 251n, 253, 255n, 256 e n, 258n, 260n, 254, 262n, 317 e n, 318 e n, 319n, 320, 321n, 322, 323, 324 e n, 326n, 332, 334n, 335n, 338, 350, 351n, 353, 354, 394 e n, 401, 402, 403 e n, 419, 432 e n, 433, 434 e n, 436, 437, 455, 456, 457n, 464 e n, 468, 490n Lat. 7561: 494 Rés. P. Yd. 155: 108 e n Rés. Yd. 208: 111n, 450n REGGIO EMILIA, Biblioteca Antonio Panizzi Mss. Vari C 20: 117n Mss. Vari E 100: 114n ROMA, Biblioteca Angelica I I.6.38: 101 Inc. 348: 104 ROMA, Biblioteca Casanatense 1098 [Cancionero de Roma]: 374 Inc. 1850: 477n ROMA, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II 6.2.E.36: 102 SIVIGLIA, Biblioteca Capitular y Colombina 7.1.19: 493 STUTTGART, Württembergische Landesbibliothek Cod. hist. 4° 316: 503n

543

VENEZIA, Biblioteca Marciana 268 [Cancionero de la Marciana]: 374 213. C. 127: 101 Inc. 434: 104 It. IX. 143: 470n It. IX. 191: 33 Misc. 1490.2-3: 101 VERONA, Biblioteca Capitolare 445: 183n VIENNA, Österreichische Nationalbibliothek Lat. 277: 490 Lat. 3103 [poi a Trento, Soprintendenza ai Monumenti]: 35 Lat. 3413: 488, 490 Lat. 3503: 492 Lat. 9477: 491

Manoscritti non identificati o non conservati o confluiti in altre raccolte Cino (o Cino in 4°): 16, 59, 208 Cino et moderni: 12, 16, 60 Cino in 4° con Selvaggio: 12, 16, 60, 61, 206, 208 Liber Francisci Petrarce. C. Mazzatoste (o Liber Mazzatoste) [ma vd. ITHACA, Cornell University Library]: 54, 61, 205, 208 Liber Vetus (?): 292, 293 Libro d’Augubio (o Libraccio d’augubio et Siculi): 12, 17, 60, 61, 149 e n, 202, 206, 207, 208, 258n, 336n Libro della branca: 59 Libro delle epistole d’Ovidio: 16, 61, 206, 208, 234n Libro Grande (?): 298 Libro di Latino Giovenale: 17, 220, 298 Libro Reale: 12, 17 e n, 18, 59, 206, 208, 257n, 267, 268 e n, 269 e n, 270 e n, 271, 272 e n, 273, 274 e n, 275 e n, 276 e n, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 285, 286n, 287, 288 e n, 289 e n, 290 e n, 291 e n, 292 e n, 293, 294 e n, 295, 296n, 297 e n, 298 e n, 299, 300 e n, 301 e n, 302 e n, 303 e n, 304 e n, 305, 306 e n Raccolta Aragonese (o Libro di Ragona): 184, 192, 195, 196, 197, 206, 208, 220n, 296 e n

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INDICE DEI MANOSCRITTI E DEGLI STAMPATI ANTICHI

Libro Siciliano (o Siciliano in folio o Siculo [o Son. di-Siculi]): 17, 59, 60, 203, 205, 272n, 290 e n, 291 e n, 292

TO0 [codice inidentificato, ma citato in ALFONSO EL SABIO, Cantigas de Santa Maria, III, ed. W. METTMANN, Madrid 1989]: 375n

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TIPOGRAFIA VATICANA

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