Alejandro Gonzáles Iñárritu. Metafisica e metacinema 8866523437, 9788866523437

Alejandro González Iñárritu si è imposto all'attenzione mondiale fin dal suo esordio: Amores perros, la sua opera p

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Italian Pages 160 [136] Year 2016

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Alejandro Gonzáles Iñárritu. Metafisica e metacinema
 8866523437, 9788866523437

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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi

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Fabio Morici

Alejandro González Iñárritu Metafisica e metacinema

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A chi mi incoraggia dalla mia prima parola.

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I know, on a personal level, that all our self-important conceptions of ourselves, that our art will transcend time, is a childish illusion. Our participation in reality is just a little flash that means nothing to the cosmic reality of time. A.G. Iñárritu

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Indice

Prefazione di Silvia Scola 11

Un piccolo segreto 13 Capitolo primo 15 A ciascuno il suo cinema 15 Un regista da Oscar 15 Il cammino di Alejandro 16 Anna 19 Capitolo secondo 23 Death Trilogy: Amores Perros, 21 grammi, Babel 23 Trame 24 Frattali 27 Il tessuto dello spazio filmico 31 Il disordine cronologico 38 Abbattere i confini 47 Se vuoi far ridere Dio, digli i tuoi piani 58 La fine è un nuovo inizio 62 Capitolo terzo 69 Biutiful 69 Trama 70 Regista Vs Sceneggiatore 70 Un inno alla vita 72 La città sotterranea 74 La vecchia quercia 77

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Capitolo quarto 81 Birdman 81 Trama 82 Senza staccare la penna dal foglio 83 Keaton sta a Batman come Riggan sta a Birdman 87 Di cosa parliamo quando parliamo d’amore 90 La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio 93 Don Chisciotte nei labirinti di Borges 95 Come finisce Birdman? 101 Capitolo quinto 106 Revenant 106 Trama 107 Un’impresa epica 108 La conquista del West 111 Wilderness 115 La spirale di Fibonacci 119 Filmografia 124 Bibliografia 132

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Prefazione

Quando il buon Morici, amico eclettico – attore, scrittore, drammaturgo, operatore culturale e lucano adottivo come me – mi ha chiesto di scrivere la prefazione a questo libro, avrei voluto ammazzarlo. Un incidente di macchina, una pistolettata vacante, un abbandono nel deserto messicano. Dio santo, ma perché con tutte le persone autorevoli della terra veniva a chiederlo a me? Che non avevo il tempo neppure di respirare in quel particolare momento della mia vita affogata; e che lo stesso identico dolore mi avrebbe dato sia dirgli di sì che dirgli di no? Gli mandai subito un emoticon con pistola puntata alla testa e decisi per il NO, pensando che l’amicizia è anche questo: accettare i limiti dell’altro e volersi bene lo stesso. Poi la parola magica: Iñárritu. Iñárritu?! Sì, aveva scritto un libro su uno dei miei registi preferiti – e qui mi accorgo di quanto riduttivo sia il termine “regista”, quando si ha a che fare con un narratore speciale come Alejandro Gonzáles I., o come mio padre Ettore Euplio S. che era parecchio di più di un semplice “metteur en scene”, come dicono i francesi. Così, accettare ed essere felice è stato tutt’uno. Felice di cambiare direzione agli eventi del corso della mia turbinosa esistenza, e fermarmi a dedicare un po’ di tempo, anzi di spazio, e di pensieri all’amato cineasta messicano. Ed eccomi qua, a questa prefazione che non aggiungerà nulla alla grandezza di Iñárritu, né a questo appassionante libro, ma che per un capriccio del destino (l’amico Fabio) mi accingo a scrivere allegramente. Vedere 21 grammi al cinema, richiamata da Sean Penn e Benicio Del Toro, è stata per me un’esperienza profonda e illuminante come quella di leggere Cervantes o García Márquez. E Babel se possibile ancora di più, in quanto storia planetaria, estesa, e quindi ancora più aderente alle ipotesi di fisica quantistica e alla Teoria del Tutto. Che la vita fosse un insieme infinitamente complesso di connessioni spazio-temporali e le persone fossero legate da eventi di causa ed effetto più o meno casuali e dispettosi, lo avevo capito fin da piccolissima. Fin da quando, abituata

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a sentire manipoli di sceneggiatori all’opera nello studio di casa mia, vedevo poi che quei deliri vagheggiati tra una risata e l’altra, tra una lite e l’altra, prendevano forma sui set di mio padre diventando reali quanto la metropolitana che mi aveva portato lì a Cinecittà. Era la farfalla che sognava di essere un uomo che sognava di essere una farfalla, o viceversa? Sogno o realtà? Materia o spirito? Immaginazione o oggettività? Boh. Meglio non chiederselo (soprattutto a sette anni) e continuare a dare il giusto valore alle cose della vita, quella che si percepisce tangibilmente ogni giorno, ogni minuto con i 5 sensi – e con un altro paio ancora da scoprire – in cui l’amore ha un’importanza capitale. Quella vita che sarebbe certo andata al di là di noi e delle nostre minuscole vicende, nei secoli dei secoli, come le sorti della famiglia Buendía nella città di Macondo o quelle di Birdman in volo su New York, ma che certo potrebbe essere migliore se solo lo volessimo. Alejandro Gonzáles Iñárritu ci racconta proprio questo, che per affrontare le onde del destino (spesso infame) e non perdere la bussola nella rete immensa che ci tiene uniti, è necessario sforzarsi di comprendere il male, per combatterlo, e continuarsi ad amare. Mostrandoci la morte da vicino, le armi, le barriere, la solitudine, con i suoi film Iñárritu scatena in noi un dolore vivo illuminando a giorno la materia umana, la carne della nostra esistenza e la vulnerabilità della nostra anima. Ma anche il suo peso. La vita può essere terribile, ma l’amore può renderla meravigliosa. E come diceva mio padre, e forse era proprio questo che lo spingeva a fare film, bisogna credere nei miracoli, soprattutto in quelli fatti dall’uomo. Silvia Scola

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Un piccolo segreto

Il primo film di Iñárritu che vidi fu il secondo: 21 grammi. Non sapevo chi fosse lui, ero andato al cinema per Sean Penn, uno dei protagonisti. Ma il film fu una folgorazione. Dopo averlo visto mi informai subito sul regista, scoprii il suo primo film, Amores Perros: e fu amore. Da allora, aspetto sempre con trepidazione il prossimo film di Iñárritu. Una relazione che dura ormai da più di dieci anni. Ecco perché, quando mi è stato proposto di scrivere un libro su un regista, il primo nome che mi è venuto in mente è stato Alejandro González Iñárritu. In questo libro proverò a maneggiare la sua intera opera filmica... che per fortuna a oggi consta “solo” di sei lungometraggi, e qualche cortometraggio. Ce la posso fare, insomma! Così come lui ci ha abituati nei primi tre film a non seguire l’ordine cronologico, anche io farò lo stesso: inizierò il percorso proprio da un cortometraggio, Anna (2007), poi tornerò indietro a quella che viene chiamata la “Death Trilogy”, che comprende Amores Perros (2000), 21 grammi (2003), Babel (2006). Ma anche parlando di questi tre film non seguirò la convenzione, analizzandoli in successione: ne parlerò “simultaneamente”. Nel frattempo tornerò un attimo indietro a un corto del 2001: il segmento Mexico del film collettivo 11’09’’01. E poi di nuovo avanti, per i tre film successivi: Biutiful (2010), Birdman (2014), Revenant (2015). Lo sguardo sui film andrà molto al di là dei film stessi. Lo scopo di questo libro non è studiare le opere da un punto di vista tecnico (non parlerò di luci, ottiche, dolly...), né sviscerare la struttura narrativa in senso stretto (non nominerò i tre atti, i turning point, l’arco di trasformazione...). Partirò dai film per spingermi il più lontano possibile, seguendo le connotazioni, le suggestioni, le riflessioni, gli echi, le risonanze e i riverberi che i film hanno evocato in me. Un viaggio ai confini del senso,

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tra letteratura, poesia, matematica, fisica, filosofia, metafisica. Perché i film di Iñárritu contengono tutte queste cose. Forse rischio di fare come chi studia un dipinto famoso e trova significati che il pittore magari non aveva mai minimamente pensato... Ma l’eccesso di interpretazione non è ancora reato. E ora vi svelo il piccolo segreto: questo breve capitolo in realtà è la premessa. Non l’ho intitolata così perché spesso i lettori, se c’è scritto “Premessa”, la saltano in blocco. Spero che il trucco vi abbia spinto a leggerla. Per lo stesso motivo, nel libro non ci sono note a margine (a parte una): la pigrizia spesso fa ignorare le note a margine, specie in quei sadici libri dove le raggruppano tutte insieme alla fine. Così, quelle che sarebbero dovute essere convenzionalmente note a margine, le ho messe tra parentesi all’interno del testo stesso. Ma siccome sono una persona onesta, così come ho rivelato che questa in realtà è una premessa, troverete prima di tali “note mascherate” la sigla Nnam.1 Un’ultima cosa. Pur se credo sia implicito, per stare totalmente a posto con la coscienza, lo esplicito: per chi non ha visto i film, questo libro è tutto un enorme spoiler. Buona lettura.

1

Nnam sta per “Nota non a margine”. E con questa avete letto tutte le note a margine presenti nel libro.

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Capitolo primo

A ciascuno il suo cinema My cinema is an extension of myself. A sort of life-testimony of my vital experience, with my few virtues and my numerous limitations. A.G. Iñárritu

Un regista da Oscar Alejandro González Iñárritu (Città del Messico, 15 agosto 1963) si è imposto all’attenzione mondiale fin dal suo esordio: Amores Perros, la sua opera prima, riceve subito la nomination agli Academy Awards come Miglior Film Straniero. Da allora, i suoi lavori hanno sempre ottenuto candidature e premi a livello internazionale. I suoi film hanno collezionato centinaia di premi (il solo Birdman ne ha vinti più di 160). A Cannes è stato il primo messicano a ricevere il premio per la miglior regia, con Babel. Poi Venezia, i David, Toronto, i Golden Globes e, naturalmente, gli Oscar. È il secondo messicano a vincere l’Oscar alla regia, con Birdman (Nnam: il primo è stato Alfonso Quaron, l’anno prima, per la regia di Gravity), e finora tutti i suoi film hanno ricevuto candidature: 6 film, 33 nomination, 8 statuette vinte. Birdman è il primo film catalogato nel genere “commedia” a vincere l’Academy Award per il miglior film dai tempi di Shakespeare in Love (1998). E la prima commedia a vincere l’Oscar per la miglior regia addirittura dai tempi di Io & Annie (1977).

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Iñárritu è inoltre tra i pochi registi nella storia del cinema ad aver personalmente vinto con la stessa opera, l’Oscar per il miglior film, la miglior regia e la miglior sceneggiatura: sempre per Birdman, che ha appunto prodotto, scritto e diretto. Per rendere l’idea della portata di questo primato, tra gli altri registi in lista troviamo Billy Wilder con L’appartamento, Francis Ford Coppola con Il padrino: Parte II, James L. Brooks con Voglia di Tenerezza e Joel ed Ethan Coen con Non è un paese per vecchi. Infine, con l’Oscar per Revenant, Iñárritu è il primo regista, dopo 65 anni, a vincerne due consecutivi. Prima di lui, solo John Ford (1941-42) e Jopeph L. Mankiewicz (1950-51). Certo, tutto questo ci dice qualcosa fino a un certo punto, se pensiamo che Scorsese ha vinto il suo primo e unico Oscar alla regia solo con il suo ventesimo film, The Departed, mentre Hitchcock e Kubrick non lo hanno vinto mai… Resta il fatto che, in quindici anni e sei film, Iñárritu è entrato nell’Olimpo dei grandi registi. Il suo è un cinema intenso fatto di personaggi tormentati, storie difficili narrate in modo complesso. Racconta la solitudine, il dolore, il decadimento interiore, la violenza, la vendetta, il senso di colpa, l’espiazione, la redenzione. Iñárritu ci mostra come gli individui si comportano quando sono spinti al limite, come affrontano la paura, la tragedia, la morte. Un’indagine profonda dell’essere umano, un viaggio ai confini dell’esistenza.

Il cammino di Alejandro Ragionando su alcuni snodi della vita di Iñárritu, alcune tappe del suo percorso, ho cercato di immaginare in che modo potessero averlo ispirato, direzionato e condizionato, contribuendo a creare la sua poetica e la sua visione del mondo. Il padre era un ricco dirigente di banca, ma quando Alejandro ha sei anni, la famiglia subisce il tracollo e va in bancarotta. Suo padre finisce nella compravendita di frutta e verdura, la loro vita cambia radicalmente. Già qui possiamo immaginare di trovare la radice di uno dei temi principali dei suoi film, riassumibile con una frase presente in Amores Perros:

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«Se vuoi far ridere Dio, digli i tuoi piani». I film di Iñárritu raccontano gli sforzi degli esseri umani per raggiungere la meta, e quegli eventi incontrollabili che si mettono in mezzo a sbarrare la strada. I “cigni neri” dell’esistenza: una bancarotta, un incidente d’auto (Amores Perros), un proiettile vagante (Babel), una malattia mortale (Biutiful). La figura del padre deve essere stata molto importante nella vita di Iñárritu, tanto che il rapporto tra padri e figli è affrontato in qualche modo in tutti i suoi film: Hugh Glass in Revenant cerca vendetta per l’assassinio del figlio; El Chivo in Amores Perros tenta disperatamente di riavvicinarsi alla figlia; Uxbal in Biutiful deve sistemare i suoi figli prima di morire, e il film è dedicato da Iñárritu proprio a suo padre, che chiama “La vecchia quercia”. Suo padre, come ricorda lo stesso regista, era un grande narratore naturale e ha influenzato persino il suo modo di raccontare: la struttura multilineare e la destrutturazione del tempo, che Iñárritu usa nei suoi primi tre film, erano modalità con le quali il papà gli raccontava le favole da bambino. Raccontava andando avanti e indietro, facendo entrare gli elementi e le sottotrame nel momento in cui c’era bisogno, e non seguendo l’ordine cronologico. Un altro elemento della biografia di Iñárritu che può aver influenzato la sua poetica è l’esperienza che fa da adolescente, imbarcandosi come mozzo in una nave cargo. Attraversa l’Atlantico due volte. Il mare, come spazio senza barriere, avvicina il regista alle tematiche legate ai confini, più o meno immaginari, alle barriere interiori o esteriori che le persone e i popoli alzano fra di loro. Tematica che diventerà esplicita in Babel. In un’intervista Iñárritu spiega che la cosa che ama del mare è proprio l’assenza di barriere, che sono invece la regola sulla terraferma: «Se gli uomini avessero la tecnologia per creare muri e recinti nel mare, lo farebbero». Sempre in adolescenza, Alejandro legge i grandi classici dell’esistenzialismo. E qui la connessione con il suo cinema è inequivocabile, sia nelle tematiche, sia nel modo di affrontarle: il carattere precario e finito dell’individuo, il vuoto che inghiotte l’uomo moderno, il mondo sempre più estraneo e ostile, la crisi dell’io, la solitudine di fronte alla morte. L’approdo al cinema di Iñárritu è abbastanza singolare: ventenne, comincia la sua carriera come conduttore radiofonico per la stazione Mes-

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sicana WFM. Nel giro di un paio d’anni ne diventa direttore artistico e la fa diventare la radio più ascoltata dai giovani di Città del Messico. Sarà proprio la musica il suo link con il cinema: fra il 1987 e il 1989 compone le colonne sonore per sei lungometraggi messicani. In seguito, nei suoi film, collaborerà sempre con musicisti di altissimo livello: Gustavo Santaolalla ha vinto l’Oscar per la colonna sonora di Babel. Nel cinema la musica affianca il montaggio nel dare ritmo al film: «Per me il ritmo è Dio. Senza ritmo non c’è danza, né architettura, né musica... Le stelle hanno un ritmo, l’universo è ritmicamente ordinato, l’arte è il palpito di quel ritmo e, se non ce l’hai, è impossibile creare qualcosa.» Questo concetto trova la sua massima espressione in Birdman, dove c’è poco montaggio essendo il film composto da lunghi piani sequenza, ed è la batteria jazz a dettare il ritmo e legare tutto il film: una colonna sonora da capogiro, composta e suonata da Antonio Sánchez, batterista jazz messicano che suona niente meno che nel Pat Metheny Group. Nel frattempo Iñárritu studia teatro e poi regia teatrale con Ludwik Margules, che fra le altre cose gli insegna che «nulla può sfuggirti quando dirigi». Ed è nell’esperienza teatrale che possiamo trovare la radice della sua straordinaria capacità di lavorare con gli attori. Spesso i registi che vengono dal teatro o che ci sono passati hanno un modo di lavorare con gli attori molto più profondo: perché in teatro non si devono occupare di muovere la macchina da presa, di carrelli e inquadrature, non hanno una troupe di cento persone da coordinare. Possono perciò concentrarsi totalmente sull’interpretazione. E forse non è un caso se tutti gli attori che hanno lavorato con Iñárritu hanno ottenuto una nomination agli oscar: Michael Keaton, Edward Norton ed Emma Stone (Leading Role il primo e Supporting Role gli altri due, per Birdman); Javier Bardem (Leading Role per Biutiful); Adriana Barraza e Rinko Kikuchi (entrambi Supporting Role per Babel); Naomi Watts e Benicio Del Toro (rispettivamente Leading Role e Supporting Role per 21 grammi); e Leonardo Di Caprio che, alla sua quinta nomination, vince finalmente il suo primo, meritatissimo oscar: Leading Role per Revenant. L’unico film di Iñárritu dove gli attori non hanno avuto nomination agli oscar è Amores Perros, ma solo perché era candidato esclusivamente nella sezione Film Straniero, e quindi non poteva rientrare nelle candidature generali.

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Negli anni 90, Iñárritu fonda la Z Films, una casa di produzione finalizzata alla costruzione di un team in grado di scrivere, dirigere e produrre film per il cinema e per la tv. Nel 1995 la Z Films è già la più influente casa di produzione messicana. È in quegli anni che Iñárritu incontra lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, con il quale inizia una collaborazione che porterà ai primi tre film. Nel 2000, dopo tre anni di lavoro, esce finalmente Amores Perros, l’opera prima di Alejandro González Iñárritu.

Anna Per festeggiare i sessant’anni del Festival di Cannes, Gilles Jacob – presidente del Festival dal 2001 al 2014 – propone a diversi registi di realizzare un corto sul cinema, inteso come sala cinematografica: «Raccontare quel momento in cui le luci si spengono in sala e parte la magia». Nasce così la raccolta dal titolo A ciascuno il suo cinema o Quel piccolo tuffo al cuore quando le luci si spengono e il film inizia. Tra i registi firmatari dei corti troviamo Kitano, Moretti, Loach, Kiarostami, Lynch, i fratelli Coen, Cronemberg, Gus Van Sant, Wenders, Lars von Trier. E Iñárritu. Voglio cominciare da qui, da questo corto, per entrare nel mondo del regista. Perché questo piccolo lavoro, non solo racconta le emozioni della sala cinematografica, ma ci dice anche cos’è il cinema per Iñárritu. Il corto si intitola Anna. E già qui troviamo una prima risposta: il cinema, anzitutto, racconta persone. Anna è la protagonista della storia: una spettatrice cinematografica che assiste alla proiezione del film con accanto quello che potrebbe essere il suo compagno, il quale l’aiuta nella “visione” contestualizzando i dialoghi: perché Anna non può vedere. Una cosa che non capiamo subito: iniziamo a intuirlo quando sentiamo la voce dell’uomo, che le dà dei dettagli della scena del film. Delle didascalie, appunto. La scelta di una spettatrice non vedente è emblematica e piena di forza: il cinema, consacrazione dell’immagine, immagini in movimento, può arrivare al cuore dello spettatore perfino bypassando il senso che gli è più diretto. Così come, più facilmente, può arrivare senza sonoro grazie ai sottotitoli. Perché il cinema è arte totale, vuole dirci Iñárritu. Non ha confini, abbatte tutte le barriere.

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Anna si commuove, piange, esce sconvolta dalla sala, come può accadere a ogni spettatore. Il vero scopo di un film sembra essere dunque quello di trovare una connessione con il singolo spettatore che in quanto unico vivrà un’esperienza unica. Perché lo stesso film è in realtà milioni di film diversi. L’opera si conclude dunque nel rapporto con il pubblico. Questo concetto viene estremizzato con la scelta di raccontare il cinema attraverso gli occhi di una donna non vedente. Anna si costruisce nella mente la sua esperienza unica e irripetibile di film. Ma non avendo il vincolo delle immagini, Anna potrebbe “rivedere” lo stesso film più volte e ogni volta sarebbe un film diverso. Che è poi quello che qualunque spettatore può fare con un qualunque grande film: scoprirlo e riscoprirlo ogni volta. Nel corto vediamo solo lei, Anna, mentre assiste al film. Poi la vediamo uscire sopraffatta, raggiungere l’esterno, accendersi una sigaretta, il suo compagno la raggiunge, la abbraccia per sostenerla. Lei gli chiede: «Il film era in bianco e nero?». E lui risponde: «No, era a colori». Una domanda che, oltre a rivelare definitivamente la cecità della donna, nel caso vi fosse ancora qualche dubbio, apre un mondo intero. La donna non sapeva se immaginare il film a colori o in bianco e nero. A parte l’immensa poesia del concetto in sé, da questa domanda possiamo intuire che la ragazza probabilmente conosca la differenza, e dunque che la cecità sia qualcosa giunta a un certo momento della sua vita. Il cinema è perciò qualcosa che gli è stato in parte portato via. Non può più vedere i film come faceva prima, ma tuttavia non può rinunciarvi. Dunque in questa breve storia c’è anche il racconto di un dolore, di una separazione, di una perdita. Come in tutti i film di Iñárritu. Ma cosa stava “guardando” Anna? Il film non viene mai inquadrato, ma dai dialoghi che udiamo si risale facilmente al titolo: tra milioni di film possibili, Iñárritu decide che Anna sta guardando Il disprezzo di Godard. E non può certo essere una scelta casuale. Il disprezzo, tratto dal romanzo di Moravia, narra di un’amore che viene sporcato e infine distrutto. Il film inizia con una scena d’amore tra le più belle che il cinema ricordi: Camille (Brigitte Bardot) nuda nel letto, in un momento intimo, puro e delicato, chiede al marito Paul (Michel

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Piccoli) se gli piacciono le parti del suo corpo. Fa la stessa domanda per ogni tratto: le spalle, la schiena, le gambe, il sedere, gli occhi, le labbra... Lui risponde sempre di sì, senza esitare. E alla fine conclude dicendole: «Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente». Queste sono le prime parole del film che Iñárritu ci fa sentire nel suo corto. Poi, attraverso delle “ellissi uditive”, ma sempre fissi sul volto di Anna, sentiamo altri frammenti del film che ci ricordano la parabola di questo amore, fino alla sua disfatta totale. Sentiamo Paul dire alla moglie: «Ti ho visto prima quando ti ha baciato...»; «Perché mi disprezzi?». E poi lei: «Ti odio perché non sei capace di commuovermi». E infine sentiamo Paul chiamare invano: «Camille!» Il film di Godard racconta di come Paul, un regista, accetti che la moglie subisca il corteggiamento del produttore del suo prossimo film. Lo lascia fare, perché contrastarlo potrebbe minare alla realizzazione del film. Camille per questo motivo arriva a disprezzare il marito, lo lascia e va via con il produttore. Ma poco dopo si schiantano con l’auto e muoiono. Dunque, anzitutto, Il disprezzo racconta di una coppia che non ce la fa. E anche questo, come vedremo, è un elemento ricorrente in Iñárritu: non ci sono mai coppie felici nei suoi film. Ma nella scelta del film di Godard troviamo altri elementi decisivi che ci raccontano il regista: la novelle vauge, l’idea di un cinema fortemente legato al proprio autore, che racconti la realtà nuda e sincera, senza paura; l’uso della macchina a mano, che troviamo fin da Amores Perros e che secondo lo stesso Iñárritu è il modo più realistico di riprendere la realtà; la predilezione per i piani sequenza, che con Birdman raggiungerà l’apice. Poi la scelta di un film che parla di una relazione, del dolore, della perdita e della morte. Ma anche la presenza di più lingue all’interno dello stesso film, (francese, inglese e italiano) che ritroveremo come concetto fondante nel film Babel che fin dal titolo rimanda appunto alla torre di Babele. Nel film di Godard ci sono dunque concetti, scelte stilistiche e temi che ritroviamo in tutti i film di Iñárritu. Ma Il disprezzo è anche un film sul cinema, quindi la scelta è illuminante di per sé: raccontare la sala cinematografica mostrando qualcuno che al cinema segue un film sul cinema. E lo spettatore del corto di Iñárritu, dunque, guarda un film dove

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c’è una persona che “guarda” un film dove si parla di fare un film. Questa struttura a scatole cinesi, oltre a essere un caso esemplare di metacinema – come sarà poi Birdman – suggerisce il concetto di frattale che, come vedremo, è fondamentale nella Death Trilogy (Amores Perros, 21 grammi, Babel). Altro elemento che si incastra perfettamente è il fatto che il film che Paul deve girare ne Il disprezzo è su Ulisse: il racconto per eccellenza della lotta dell’uomo contro le avversità, il destino e quegli eventi incontrollabili che distruggono i suoi piani: tema cardine di tutti i film di Iñárritu. Ma possiamo trovare altri collegamenti: Il disprezzo si conclude con l’incidente stradale, e in ognuno dei film della Death Trilogy troviamo un incidente come perno attorno al quale ruotano le storie. Mentre però in Godard l’incidente è l’epilogo, come succedeva anche ne Il Sorpasso di Risi, per Iñárritu l’incidente è invece l’innesco, come accade in un film come Crash. Come ultima osservazione, vorrei lasciare una nota di speranza, come fa Iñárritu nei suoi film che parlano sì di “morte”, ma anche sempre di rinascita. Nel corto sembra che Anna esca commossa dalla sala un attimo prima della fine del film. Quando corre via sopraffatta, siamo alla parte in cui Camille si allontana dal marito nuotando in mare. Sentiamo infatti la voce dell’uomo accanto ad Anna dirle: «Si è appena tuffata in acqua, nuota lontano da lui». Se è così, Anna non sa dell’incidente. Per lei Il disprezzo finisce con Camille che ha perso il suo amore e nuota verso una nuova vita... E forse questo è proprio il finale che avrebbe voluto Iñárritu.

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Capitolo secondo

Death Trilogy: Amores Perros, 21 grammi, Babel One gets lost easily when he is seeking so many things in this carnival of memories of intense moments and beautiful people. Places so far away, so exotic, cultures that are so different from each other. So many human experiences on an emotional level, on an intellectual and spiritual level. So much intensity, so much beauty... My heart is heavy with all this beauty and nostalgia of knowing that it will soon be lost forever and never be lived again. A.G. Iñárritu

Amores perros Anno: 2000 Paese: Messico Durata: 153 min.

21 Grams Anno: 2003 Paese: USA Durata: 120 min.

Babel Anno: 2006 Paesi: Francia, USA, Messico Durata: 142 min.

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Trame

Amores Perros Octavio e Susana – Octavio (Gael García Bernal) vive con sua madre, suo fratello Ramiro (Marco Pérez), sua cognata Susana (Vanessa Bauche) e il loro neonato. Ramiro è violento con Susana e Octavio vede in ciò la possibilità di ergersi a difensore. Corteggia Susana, le promette che la salverà e la porterà lontano, e per fare soldi si butta nel combattimento clandestino tra cani, usando Cofi, il cane che prima era del fratello. Cofi è imbattibile, Octavio mette su un bel bottino, Susana prima è reticente, poi cede. Nel frattempo la tensione con Ramiro sale e Octavio arriva a commissionare un suo pestaggio. Ma all’ultimo Susana tradisce Octavio rubandogli tutti i soldi e scappando con Ramiro. Octavio, infine, durante l’ultimo combattimento, si trova coinvolto in un dramma: il suo rivale scontento spara a Cofi, Octavio accoltella il rivale e parte un inseguimento automobilistico che finisce con un violento scontro tra l’auto di Octavio e quella di Valeria. Mentre Octavio attraversa la guarigione, suo fratello viene ucciso durante una rapina. Octavio proverà allora un’ultima volta a conquistare Susana, ma lei lo respinge definitivamente. Daniel e Valeria – Valeria (Goya Toledo) è una modella famosa: va ospite in tv, la città è tappezzata di suoi cartelloni pubblicitari. Si è appena trasferita, assieme al suo cagnolino, in una nuova casa con Daniel (Álvaro Guerrero) che per lei ha lasciato la moglie. Ma quando l’auto di Valeria si scontra con quella di Octavio, l’idillio va in frantumi. Costretta su una sedia a rotelle per una lunga riabilitazione, entra in crisi profonda con se stessa e con Daniel. La sparizione del suo cane, che resta intrappolato sotto il pavimento, e la paura che possa essere morto, peggiorano le cose. La situazione precipita definitivamente quando Valeria viene colpita da trombosi e i medici sono costretti ad amputarle la gamba. La vita di Valeria non sarà mai più come prima. Ma forse la tragedia condurrà lei e Daniel verso una vita meno superficiale. El Chivo e Maru – All’incidente tra Octavio e Valeria assiste anche El Chivo (Emilio Echevarría). Lui è un ex guerrigliero che per seguire la sua causa ha abbandonato la famiglia. Ha passato vent’anni in galera e

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ora vive facendo il killer su commissione. Gira per la città come un barbone, seguito da una gruppo di cani dei quali si occupa amorevolmente. Sul luogo dell’incidente salva Cofi e lo porta con sé. Ma l’animale, ormai addestrato dagli uomini a uccidere, sbranerà tutti gli altri cani. Da quel momento qualcosa cambia in El Chivo. Decide che di violenza senza senso ne ha vista troppa, rinuncia a uccidere la sua ultima vittima e anzi prova persino a dargli una lezione di vita. Si rimette in sesto, si ripulisce, rintraccia la figlia, Maru (Lourdes Echevarría), le entra in casa e le lascia dei soldi e un messaggio di scuse disperate in segretaria. Infine si incammina verso una nuova vita con Cofi, che ha ribattezzato Nero.

21 grammi Jack – Con un passato di reati di vario genere, Jack (Benicio Del Toro) cerca di cambiare vita attraverso un profondo percorso religioso che lo trasforma in un fervente fedele. Ma nel cercare di trasmettere i suoi nuovi valori, sfocia nel fanatismo e la cosa lo allontana progressivamente dalla moglie Marianne (Melissa Leo) e dai figli. La sera del suo compleanno investe e uccide involontariamente un padre e le sue due figlie. Il tragico evento, aggravato dalla sua omissione di soccorso, lo tormenta fino a spingerlo a costituirsi. Quando ottiene la libertà condizionata grazie a un buon avvocato, continua a sentirsi in colpa e, nel tentativo di cercare una impossibile redenzione, abbandona la famiglia non considerandosi degno di vivergli accanto. Cristina – Dopo un passato di eccessi e dipendenza dalle droghe, Cristina (Naomi Watts) conduce ora una vita serena. Ma una sera la sua esistenza viene distrutta dal pick up di Jack che uccide suo marito e le sue figlie. Cristina, nella solitudine insopportabile del suo dolore, torna alle droghe e all’acol, cercando invano di colmare il vuoto che il destino gli ha creato attorno. Paul – Paul (Sean Penn) è un professore di matematica che ha bisogno di un trapianto di cuore. La malattia lo riporta a convivere nuovamente con Mary (Charlotte Gainsbourg), la sua ex moglie, che lo aiuta ma che da lui ora vuole un figlio a ogni costo, anche ricorrendo alla inseminazione artificiale. Proprio quando Paul sembra ormai spacciato, una

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sera arriva finalmente il donatore di cuore che stava aspettando. Dopo l’operazione, Paul decide di voler scoprire a chi deve la sua vita e grazie a un detective ci riesce: è Michael, il marito di Cristina ucciso da Jack. Da questo momento le vicende dei tre convergono drammaticamente. Paul avvicina Cristina, tra i due nasce qualcosa, ma quando Paul le rivela di avere il cuore del marito defunto, Cristina inorridisce e lo respinge. Poi però si lascia trascinare da quella morbosa attrazione. Insieme, i due decideranno di vendicare Micheal, uccidendo Jack. Ma alla resa dei conti, tutto va storto: Jack, incapace di perdonarsi per il suo crimine, non si oppone all’esecuzione, ma Paul invece non ha la forza di giustiziarlo. Ne esce fuori una furiosa rissa tra Jack e Cristina, alla quale Paul mette fine sparandosi.

Babel Marocco – Sulle montagne dell’Atlante, due ragazzini giocano con un fucile che il padre gli ha affidato per cacciare gli sciacalli. In una macabra e impossibile scommessa, il più piccolo dei due fratelli, Yussef (Boubker Ait El Caid), prova a colpire un pulman di turisti che sta passando a tre chilometri di distanza. Sul pulman, tra gli altri, ci sono Susan (Cate Blanchett) e Richard (Brad Pitt): una coppia americana, distrutta dalla morte del loro terzo figlio, che sta cercando di ritrovarsi e ricominciare attraverso quel viaggio in Marocco. Il proiettile di Yussef colpisce gravemente Susan. Da quel momento, per Richard e Susan comincia un’odissea nel tentativo di trovare soccorsi e raggiungere un ospedale. Intrappolati in un piccolo villaggio sperduto, abbandonati dal pulman con il resto dei turisti, ritrovano però quel contatto perduto. E quando infine l’elicottero arriva per portarli via, sono di nuovo marito e moglie. Nel frattempo Yussef e suo fratello Ahmed (Said Tarchani) tentano una disperata fuga dalla polizia che ha scoperto la loro identità e li sta cercando. Il padre, dapprima furioso per il grave accadimento, tenta poi di salvarli e nasconderli. Ma il triste epilogo li vede coinvolti in una sparatoria tra le montagne, dove Ahmed resta ucciso.

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Usa/Messico – Amelia (Adriana Barraza) è la governante messicana che si occupa della casa e dei figli di Richard e Susan. L’incidente capitato a Susan ritarda il loro ritorno in Usa, e costringe Amelia a portare i due bambini con sé, di nascosto dai genitori, al matrimonio di suo figlio in Messico. Tutto sembra andare per il verso giusto, ma il viaggio di ritorno si trasforma in un incubo: Santigo (Gael García Bernal), il nipote di Amelia che li sta riportando in Usa, litiga con i poliziotti della frontiera, decide di sfondare il posto di blocco e per scappare dalla polizia si infila nel deserto. Poi decide di continuare la fuga da solo e lasciare nel nulla Amelia e i due bambini. I tre passano la notte nel deserto e, il giorno dopo, mentre Amelia cerca disperatamente aiuto, i piccoli si perdono e rischiano di morire. Per fortuna alla fine la polizia li ritrova, ma per Amelia non c’è lieto fine: si scopre che da anni era negli Usa illegalmente e viene espulsa immediatamente. Tokyo – Chieko (Rinko Kikuchi) è una ragazza adolescente, sordomuta, che sta cercando di superare il lutto del suicidio della madre, mentre il rapporto con il padre, Yasujiro (Kōji Yakusho), sembra sempre più compromesso. Chieko si sente sola, diversa e rifiutata dai suoi coetanei. Reagisce cercando di farsi amare, offrendosi provocatoriamente agli uomini che incontra. Tra questi c’è pure un tenente di polizia che sta collaborando a delle indagini internazionali: sta cercando proprio il padre di Chieko, perché tempo prima aveva regalato un fucile da caccia alla sua guida marocchina. La stessa guida che poi aveva dato il fucile al padre di Yussef. Il tenente non cede alle avances di Chieko e anzi cerca di aiutarla. La vicenda si chiude con un riavvicinamento tra Chieko e suo padre.

Frattali La Trilogia della morte – Death Trilogy – è una trilogia ideale composta dai primi tre film di Iñárritu: Amores Perros, 21 grammi e Babel. Tutti e tre sono scritti dallo stesso sceneggiatore, Guillermo Arriaga, cosa che garantisce alla trilogia una forte unità tematica e strutturale, rafforzata dalla presenza fissa di tutto il gruppo creativo principale: il direttore della fotografia Rodrigo Prieto, il compositore Gustavo Santaolalla, lo scenografo Brigitte Broch.

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Tutti i film raccontano il dolore, la perdita e la morte. Perché la vita non può che essere capita tenendo presente la morte: è quello il punto di vista dal quale guardare le storie di ogni essere umano. Iñárritu e Arriaga non hanno paura di affondare in questi abissi. Ci si immergono fino in fondo, in modo potente, sconvolgente e memorabile. I temi trattati nei tre film, la vita, la morte, il destino, il caso, il caos, le connessioni tra gli esseri umani, rendono la Death Trilogy una trilogia metafisica. Parlarne vuol dire quindi parlare di universo e vita nel senso più ampio possibile. Dal punto di vista strutturale sono tutti e tre film multilineari, cioè con storie diverse che si intrecciano a qualche livello, e in tutti e tre i film c’è una distorsione del tempo cronologico. In Amores Perros la divisione in capitoli è netta, e dichiarata attraverso i titoli iniziali in sovraimpressione. Le tre vicende, anche se avvengono negli stessi giorni – come dichiarato dalle incursioni di personaggi di una linea nella altre linee – sono narrate in successione: quando finisce un capitolo, ne comincia un altro. In 21 grammi, non ci sono tre linee narrative nette, ma piuttosto tre vite che si incontrano e si scontrano: l’intero racconto perde i confini spaziali e temporali. In Babel, infine, la divisione delle linee torna più definita ma, a differenza del primo film, si salta da una storia all’altra con il montaggio, nonostante gli eventi narrati non siano del tutto contemporanei. Quindi in Amores Perros c’è simultaneità dei fatti, ma narrazione in successione. In Babel c’è simultaneità della narrazione, ma asincronia dei fatti. In 21 grammi si perde la cronologia sia dei fatti che della narrazione. Come vedremo più avanti, le alterazioni temporali sono una delle caratteristiche identitarie della Trilogia. La struttura multilineare e la rottura della cronologia classica si sono sviluppate e sedimentate non a caso nel nuovo millennio, grazie a quella che è ormai la nostra modalità di fruizione quotidiana: guardiamo la tv mentre navighiamo su Google e chattiamo su Wathsapp. Non siamo più abituati a seguire una “storia” alla volta, né a seguire una sola linea temporale. Ma la multilinearità, nei tre film della Trilogia, non è semplicemente un mezzo per raccontare una storia: è la storia stessa. Sono proprio gli incroci casuali e i riverberi generati da tali intersezioni a creare la trama.

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Così come ognuno dei tre film racconta l’incrocio di tre storie (Nnam: in Babel, anche se i gruppi di personaggi sono quattro, le unità di tempo e di luogo sono comunque tre), la trilogia può essere analizzata come l’incrocio di tre film. Tre film a struttura multilineare che formano una trilogia “multifilmica”: ogni storia di ogni film è connessa con le altre storie dello stesso film, e in esse riecheggia; ma ogni film, nel suo complesso, è connesso con gli altri due e in essi riecheggia. Temi e concetti rimbalzano dunque da una storia all’altra e da un film all’altro, creando forti risonanze. In un film multilineare, tutte le storie narrate contribuiscono alla costruzione del significato profondo del film e il senso complessivo si fonda proprio sulla loro relazione. Allo stesso modo, il senso ultimo della Trilogia è dato dalla relazione dei tre film. Questa multistruttura rende la trilogia una sorta di “iperfilm” che richiama chiaramente il concetto di frattale. Concetto suggerito in modo diretto in 21 grammi, attraverso le parole di Paul, il professore di matematica interpretato da Sean Penn: «In ogni aspetto della vita dell’universo si nasconde un numero. Frattali, materia, c’è sempre un numero. Un numero che ci urla qualcosa nelle orecchie. I numeri danno accesso alla comprensione di un mistero che è più grande di noi.» Un frattale è un oggetto geometrico dotato di autosomiglianza, nel quale cioè le parti sono simili al tutto: la stessa forma si ripete allo stesso modo su scale diverse, ingrandendo quindi una qualunque sua parte si ottiene una figura simile al totale. Non è solo un concetto geometrico astratto, in natura troviamo molti esempi: se guardiamo il classico broccolo romanesco, notiamo che ogni punta è composta da tante piccole punte di uguale forma e così via fino a scale sempre più piccole. Stessa cosa con l’abete: ogni ramo ha la stessa forma dell’albero, e ogni rametto la stessa forma dei rami più piccoli. A qualunque scala lo si osservi, l’oggetto frattale presenta sempre gli stessi caratteri globali.

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Non è strano che questo concetto matematico e geometrico entri in una trilogia metafisica e filosofica come la Death Trilogy, diventandone strumento di analisi. Benoit Mandelbrot, infatti, colui che ha coniato il termine, ci dice che: «In qualche modo i frattali hanno delle corrispondenze con la struttura della mente umana, è per questo che la gente li trova così familiari. Questa familiarità è ancora un mistero e più si approfondisce l’argomento più il mistero aumenta». Immaginiamo allora di guardare la trilogia da lontano: vediamo tre film distinti. Poi ci avviciniamo, puntando con uno zoom su uno qualunque dei tre film. E scopriamo che ogni pezzo della trilogia, cioè ogni film ha una struttura simile agli altri film e alla trilogia nel suo complesso. Poi entriamo dentro a uno dei film, zoomando ancora, e scopriamo che ogni film è composto di tre storie, tre unità di tempo e di luogo, ognuna delle quali ha una struttura simile alle altre due unità, ai tre film e alla trilogia. Possiamo continuare ad andare avanti, zoomare ancora sui personaggi, e scoprire che ogni storia è composta di relazioni che hanno connessioni con ognuna delle altre relazioni, delle altre storie, degli altri film. Che il concetto di frattale sia decisivo per comprendere la trilogia, ci viene confermato dallo stesso Iñárritu che lo rappresenta visivamente guarda caso nell’ultima scena dell’ultimo film della trilogia: nel finale di Babel vediamo infatti Chieko e suo padre Yasujiro abbracciati sul balcone del grattacielo dove vivono; da lì, proprio come con uno zoom inverso, vediamo il campo allargarsi progressivamente e quel balcone ci appare via via come parte di un grattacielo con altri balconi uguali, e quel grattacielo come parte di una città con altri grattacieli. E tutte le finestre di tutti i grattacieli, diventano punti luminosi che si disperdono come le stelle in una galassia. Ogni storia, ogni vita è solo un frammento di un contesto più

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grande. Questa potente immagine di chiusura del film e della Trilogia ricorda quanto piccolo è ogni essere umano, ma ricorda anche quanto sia parte di qualcosa di più grande. E ci regala una rappresentazione visiva della società contemporanea, una società fatta di cellule sempre più apparentemente separate, ma che in realtà sono tutte legate e connesse. È l’entanglement quantistico, che ci svela come due particelle distinte mantengono una correlazione a distanza, si influenzano al di là dello spazio, restano legate a distanza di anni luce, perché nell’Universo tutto è interconnesso, non c’è località, separazione, non c’è vuoto. E due cose apparentemente distanti sono in fondo una cosa sola: la chiave della nostra sopravvivenza sta proprio in questa interconnessione, nell’accoglierla e accettarla. I film di Iñárritu parlano, alla fine dei conti, nient’altro che di relazioni. Quello che ci ricordano è che nella dispersione della moltiplicazione infinita, l’unica chance di salvezza è creare relazioni, campi gravitazionali che ci consentano di orbitare saldamente intorno ad altri pianeti-persone, evitando così di andare alla deriva verso il nulla. Questo è solo un assaggio dei temi della Trilogia che esaminerò nell’insieme, ragionando proprio sulle connessioni. Tenterò di raccontare i tre film così come Iñárritu racconta le storie nei suoi film. Cercando di diventare parte di questo meraviglioso frattale.

Il tessuto dello spazio filmico In un film ogni luogo è uno spazio narrativo: la scelta di far avvenire una scena in un punto piuttosto che in un altro è sempre funzionale al racconto, e spesso ha un valore simbolico. Lo spazio filmico contribuisce alla costruzione del senso. Naturalmente, nel cinema ci sono anche molti esempi di storie che potevano accadere in luoghi diversi, senza per questo alterare il significato del racconto. Nei film di Iñárritu questo non accade. Il legame tra spazio e senso è molto profondo. I luoghi dove avvengono le vicende narrate nei tre film sono il risultato della ricerca dei migliori mondi possibili dove farle accadere. E così, lo spazio narrativo diventa fondante e parte di una solida equazione: cambiando location, cambia il film. Il luogo veicola il significato tanto quanto i personaggi. Nella Trilogia ogni film ha un livello spaziale diverso: in Amores Perros diversi personaggi si muovo nello stesso spazio, Città del Messico;

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in 21 grammi lo spazio perde consistenza, si costruisce attorno ai personaggi e diventa totalmente simbolico; in Babel personaggi diversi si muovono dentro luoghi diversi, collegando idealmente il mondo intero. Questa progressione dimensionale mi ha fatto pensare alla progressione pirandelliana del titolo Uno, nessuno, centomila. Uno: Amores Perros avviene in un luogo unico, la città. Nessuno: 21 grammi avviene in un luogo indefinito, inconsistente, nessun luogo. Centomila: Babel, toccando tre continenti, abbraccia il mondo intero.

***

La metropoli di Amores Perros, sovrappopolata, multiculturale, piena di contraddizioni, divisioni, criminalità e violenza, è il frutto delle trasformazioni che il XXI secolo ha portato nelle megalopoli come Città del Messico, trasformandole in regioni metropolitane. L’economia globale, l’automatizzazione agricola, hanno spinto tutti a spostarsi nelle grandi città, facendole diventare sempre più grandi. E sempre più strette. In Amores Perros, dunque, lo spazio narrativo è la rete metropolitana, arena di relazioni e di incontri-scontri, dove siamo connessi potenzialmente con tutti. Per raccontare questa connessione, che è parte integrante del racconto del film, trasversale alle tre storie, la struttura multilineare è una scelta funzionale e non un mero artificio narrativo. Città del Messico è un luogo ideale per tutto ciò: quasi 9 milioni di abitanti e una densità che sfiora i 6000 abitanti per chilometro quadrato. (Nnam: per dare un’idea, la densità di Roma è 2200 ab/km2). Gli “incidenti”, in uno spazio così denso e intricato, sono molteplici e inevitabili. E sono proprio gli incedenti, intesi come accadimenti connettivi, che fanno convergere vite che altrimenti non si sarebbero mai incrociate. Nella metropoli, ogni individuo è intrappolato dentro una rete, costretto dalla rete a scontrarsi con l’altro. E l’altro, parafrasando Sartre, può trasformarsi nel tuo inferno, come infatti accade nella Città del Messico di Amores Perros, dove la violenza, la crudeltà rende difficile la convivenza. Una città che separa fortemente le classi sociali ma che, essendo rete, le costringe comunque dentro gli stessi percorsi e confini. Per restituire la realtà di questa violenza, il film è stato girato in alcune delle zone più pericolose di Città del Messico, tanto che la troupe ha più volte subito furti da parte di alcune gang di strada. Iñárritu conosce bene la violenza della sua città: ha raccontato che suo padre, a 72 anni, è stato rapito per alcune

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ore, e sia sua madre che suo fratello hanno subito aggressioni pesanti. È proprio questa violenza che lo ha spinto a trasferirsi definitivamente a Los Angeles. La violenza è dunque il nemico che incombe per tutto il film. La violenza della città, dei rapporti interpersonali, della lotta di classe. Iñárritu ce la mostra in modo crudo e diretto. Vediamo da subito il sangue: quello all’orecchio di Susana, colpita da Ramiro. Il sangue di Cofi ferito. Quello del primo cane che Cofi sbrana. E poi il coltello di El Chivo, la sua pistola, la sua vittima al ristorante. Octavio che spacca il naso a Ramiro. Ramiro che si vendica. La spirale di violenza sembra non potersi placare mai. L’arena si trasforma in gabbia e l’interazione diventa per forza scontro. E così i combattimenti tra i cani diventano metafora dello scontro sociale e della lotta tra gli uomini per la sopravvivenza. E l’incidente stradale, attorno al quale ruotano le tre storie, è la rappresentazione visiva che sintetizza tutto ciò. Non a caso, nelle due auto che impattano troviamo i rappresentanti di due ceti sociali profondamente diversi, Octavio da una parte e Valeria dall’altra, che quasi si fatica a immaginare esistenti nella stessa città. Due persone che non si sarebbero mai incontrate, se non “grazie” a uno scontro violento. Poco prima dell’incidente, la distanza tra i due mondi che stanno per incontrarsi è mostrata dalla scena nella quale Octavio si prepara per andare all’ultimo combattimento. È nella sua camera da letto, assieme al suo amico e a Cofi, il cane. Mentre parlano la Tv è accesa su un talk, e l’ospite d’onore è proprio Valeria che parla della sua carriera e della sua vita sentimentale, mentre Octavio parla del combattimento. Valeria poi mostra a tutti il suo piccolo cagnolino, Richie. Anche lui e Cofi sono di due classi sociali diverse. Richie è coccolato, curato, va sicuramente alla toeletta per cani. Cofi fa combattimenti clandestini e ha solo due scelte: uccidere o essere ucciso. Poco dopo, quella barriera idealmente rappresentata dallo schermo Tv viene abbattuta da una violenta collisione che fa collassare i due mondi uno sull’altro, modificando le traiettorie originarie delle due orbite. L’importanza cruciale dell’incidente è ribadita da Iñárritu che ce lo mostra ben quattro volte. Rivedendo più e più volte quell’impatto, ho immaginato l’evento-incidente come un campo gravitazionale che attira i corpi verso di sé. Gravità in senso einsteiniano, non in senso classico

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newtoniano: nella teoria della relatività la materia curva lo spaziotempo, e per questo gli oggetti in moto cambiano il percorso e “cadono” verso la massa più grande che ha causato la curvatura. Così l’incidente stradale è un evento che curva lo spazio e fa precipitare verso di sé le vite delle persone che un attimo prima avevano tutto un altro percorso.

Questo disegno, usato solitamente per rappresentare la gravità nella relatività, nel nostro caso può diventare una rappresentazione del concetto di incidente nella rete metropolitana. Per la fisica, quella al centro del disegno, in rosso, è una massa, una stella, un pianeta che piega il tessuto dello spaziotempo, curvandolo e deviando il percorso di altre masse più piccole. Nel nostro caso, invece, la sfera rossa è l’evento inevitabile, il destino, Dio, il caso che crea una piega nel tessuto dello spazio filmico e costringe i due protagonisti a deviare dal loro percorso-vita originario – la linea tratteggiata – e a precipitare verso l’evento stesso, cioè il loro scontro. Potremmo chiamarla “gravità relazionale”: l’incontro di due percorsi che non sembravano destinati a collidere. E ciò è possibile proprio perché le persone si muovono sopra una rete, dentro a una rete. E ogni evento, in un punto qualunque della rete, modifica la rete stessa. Lo stesso grafico può essere usato per gli altri film della Trilogia, cambiando semplicemente i nomi dei protagonisti ai vertici delle linee di percorso. O può essere usato per ogni incontro o scontro della vita di ognuno di noi. Dopo ogni importante incontro o scontro, la vita di una o più persone

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coinvolte in modo diretto o indiretto può cambiare profondamente. Dopo l’incidente, Valeria perde una gamba e dovrà ridefinire totalmente la propria concezione della vita. Octavio fallisce tutti i suoi obiettivi, perde l’amore, il fratello, il cane. El Chivo è costretto a fare i conti con tutta la sua vita, con quello che è diventato e con quello che ha perso. Sulla locandina del film Crash (2004), un altro film multilineare con al centro un incidente d’auto, una delle frasi di lancio era questa: “Quando ti muovi alla velocità della vita... scontrarsi è inevitabile”. Nel tessuto metropolitano, dunque, tutto scorre veloce ed evitarsi è impossibile. Nel caos e nel disordine violento, seppure immensa Città del Messico diventa stretta, un luogo dove lo spazio vitale del singolo sembra mancare. E questa condizione si riverbera nel privato: perfino nelle case, nello spazio domestico, intimo, sembra mancare l’aria. Gli spazi interni sono sempre angusti, piccoli, stretti, il tipo di inquadrature che Iñárritu sceglie li mostra distorti ed oppressivi. Le persone sono rintanate in luoghi che le schiacciano. Octavio è soffocato in una casa dove vivono in troppi, piena di cose, corridoi stretti, letti attaccati all’armadio, ai cassettoni. Per Valeria il suo nuovo appartamento è claustrofobico perché lei ci è intrappolata dentro, non può muoversi. El Chivo vive in un luogo fatiscente, scomodo, sporco, ostile. Sembra dunque non esserci pace, né dentro né fuori casa. L’unico modo per non soccombere, come vedremo più avanti, è attraverso un rapporto più autentico con gli altri.

***

In 21 grammi non esiste un luogo definito dove avvengono i fatti. Non viene specificato in che città sono e non è importante per la narrazione. Iñárritu ha detto di aver scelto quelle location per i colori e per la malinconia e decadenza che emanavano. (Nnam: gli esterni che vediamo sono girati a Memphis, Tennessee, e nella periferia di Albuquerque, New Messico). I luoghi vengono solo accennati e la macchina da presa si concentra sulle persone, sui volti. È come se fossero loro a creare lo spazio, mentre respirano, mentre si muovono. Lo spazio si crea attorno ai personaggi mentre i loro corpi si spostano e interagiscono nello spazio. Come nella teoria dell’espansione dell’universo, secondo cui lo spazio si crea mentre l’universo si espande: se non ci fosse materia che viaggia nel vuoto in seguito all’esplosione del Big Bang, non ci sarebbe lo spazio.

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Lo spazio non è qualcosa di dato dove i corpi si muovono, ma qualcosa che esiste perché i corpi si muovono. E così è il tessuto dello spazio filmico in 21 grammi: non esiste la città, non esistono strade, case, non esiste alcun luogo senza i protagonisti della storia. Una casa non ha senso se non viene abitata e una strada non ha senso se non è percorsa. Lo spazio diventa semplicemente la distanza tra una persona e l’altra, ciò che le divide e ciò che le può unire, e si allunga o accorcia a seconda di quanto le persone entrano in contatto l’una con l’altra. Per questa ragione, l’incidente d’auto in 21 grammi ha una valenza diversa rispetto a quello di Amores Perros. Lì serviva a causare uno scontro, ma non a unire o legare. Anche se le conseguenze saranno forti in ognuna delle vite coinvolte, dopo l’incidente ognuno torna da solo, e nessuno saprà nulla delle sorti dell’altro. In 21 grammi, dove lo spazio è la misura della relazione, l’incidente non può che avvicinare i personaggi, creare un legame tra loro, come infatti avviene. I loro destini si fondono e diventano interdipendenti. E poiché lo spazio è interiore lo è anche l’incidente che, a differenza di Amores Perros, non ci viene mostrato mai. Anche perché la morte non è in nessun luogo specifico, ma ovunque, lungo ogni strada, dietro ogni angolo. È parte stessa della vita. Ogni luogo in 21 grammi è dunque una proiezione delle relazioni tra le persone: se siamo insieme questo luogo esiste, se non siamo insieme non esiste più. La casa di Cristina, dopo la morte del marito e delle figlie, non è più casa, ma il vuoto intorno a lei come proiezione del vuoto dentro di lei. In Amores Perros, gli interni sono soffocanti perché stretti, affollati, o perché chi li abita ci si sente intrappolato dentro. In 21 grammi ciò che soffoca non è l’insufficienza di spazio, ma la sua totale assenza, il nulla creato dalla mancanza di vita al suo interno. Il film ci mostra uno spazio astratto funzionale al racconto della relazione tra i personaggi e connesso con ciò che prova singolarmente ognu-

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no di loro. La casa dove vivono Paul e Mary è solo il luogo del deterioramento del loro rapporto. Il cantiere dove lavora Jack non è altro che il peso che lui sente sulla coscienza. E così la sensazione globale che il film restituisce è di un insieme di luoghi interiori che trovano una rappresentazione visiva esteriore. La piscina vuota, abbandonata, decadente non è altro che lo stato d’animo di Paul. Guardando una piscina vuota, quello che vediamo in realtà è una piscina piena d’acqua e di vita che ora non c’è più. Mentre Paul è seduto lì davanti con la pistola in mano, vediamo qualcosa di perso, di andato via. (Nnam: l’immagine della piscina vuota torna anche in Amores Perros: il ring dove avviene l’ultimo combattimento di Cofi è proprio una piscina vuota.) Per raccontare tutto ciò non c’era bisogno di spazi reali, concreti, perché quella di 21 grammi è una storia universale che accade intorno alle persone, tra le persone, dentro le persone, indipendentemente dallo spazio che le separa o gli permette di muoversi, avvicinarsi e unirsi.

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Mentre negli altri due film c’è un’unità di luogo - Città del Messico in Amores Perros, e lo spazio interiorizzato in 21 grammi - in Babel gli eventi collegano il mondo intero, toccando tre continenti: America, Asia, Africa. Ma ancora una volta, è proprio questa connessione a essere parte fondante del racconto del film. Le nostre scelte, le nostre decisioni, i nostri errori, i nostri successi entrano in un sistema di correlazione che può coinvolgere in un istante parti diverse del globo. Abbiamo visto in Amores Perros come questo può accadere in uno spazio metropolitano, un rete cittadina. Qui Iñárritu ci mostra cosa accade quando il tessuto dello spazio filmico avvolge il mondo intero. Un mondo dove la globalizzazione e internet hanno creato una società capace di andare oltre i limiti fisici, connettendo diverse parti del mondo, attraverso flussi continui di merci, persone, informazioni. La rete non è più solo metafora, ma uno strumento concreto, un nuovo terreno di incontro-scontro: come mostra ad esempio il film Disconnect (2012), un multilineare dove il filo che unisce le diverse storie è proprio quello della rete digitale. In un mondo dove la velocità in cui viaggiano le informazioni è istantanea, le distanze si azzerano, la percezione dello spazio cambia. Questo tipo di società massimizza l’entropia, aumenta l’imprevedibilità, aumenta il peso di tutti gli altri sulle proprie azioni. L’azione di uno può creare conseguenze

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in una qualunque altra parte del mondo. Tutti sono potenzialmente coinvolti in ogni singolo evento. Ma mentre l’informazione avvicina il mondo, le singole parti del mondo vivono poi in dimensioni totalmente differenti. Nel villaggio dove Susan e Richard restano bloccati è tutto distante, tutto lontano, tutto difficile: non si trova un telefono, non c’è un mezzo di trasporto. Così, mentre la notizia della turista americana ferita ha viaggiato in un istante in tutto il mondo – la vediamo anche nel telegiornale a Tokyo – Susan non riesce nemmeno a raggiungere un ospedale. Nella vita di quel villaggio, tra quelle montagne la rete sembra non aver prodotto nessun effetto sulla vita delle persone. Eppure il villaggio fa parte della rete, perché in un attimo è finito nelle case di tutto il mondo. L’incidente, cioè la pallottola che per errore ferisce Susan, anche in questo caso assume una valenza diversa, che lo distingue dall’incidente degli altri due film. In Amores Perros e 21 grammi abbiamo uno spazio unico dove si muovono i personaggi e il loro movimento viene interrotto o deviato da un evento singolo che collega le tre storie. In Babel invece l’incidente collega personaggi diversi in diverse parti del mondo, attraverso un rapporto causa-effetto. Ma in un mondo interconnesso e in continuo movimento, le pause diventano la chiave per la sopravvivenza: è proprio quando Richard e Susan restano bloccati che finalmente riescono a riavvicinarsi. L’abbraccio tra Chieko e Yasujiro avviene in un momento di silenzio immobile, su quel balcone, mentre il resto del mondo continua a la sua corsa. In una società che procede senza soste, Babel sembra volerci raccontare proprio l’importanza di fermarsi e riprendere fiato.

Il disordine cronologico «Nella vita siamo intrappolati in un continuum temporale. Va tutto in una sola direzione. Ecco perché invecchiamo e moriamo, perché non possiamo tornare a essere giovani o indietro nel tempo di 200 anni. La finzione, i film e ogni forma d’arte in un certo senso rappresentano un modo per evadere dalla nostra esistenza dimensionale nel tempo.» Le parole di Iñárritu introducono bene l’altra caratteristica identitaria della Trilogia, assieme alla struttura multilineare: la destrutturazione della cronologia classica. I fatti ci vengono raccontati nell’ordine più giusto ai

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fini del racconto e non nell’ordine in cui sono avvenuti. Non è ovviamente una cosa che ha inventato Iñárritu. Da Quarto potere (1941) a Pulp Fiction (1995), ci sono diversi esempi illustri che dimostrano come non sempre il racconto debba seguire una linearità temporale. (Nnam: tra l’altro, per questa ragione, unita alla violenza dei contenuti, Amores Perros è stato spesso paragonato proprio a Pulp Fiction. Ma Tarantino e Iñárritu hanno in comune anche un’altra cosa: la casa di produzione statunitense che fu fondata da Tarantino e altri famosi cineasti si chiamava “A Band Apart”, nome che nasceva come tributo al titolo del film Bande à part, un classico della Nouvelle Vague di, indovinate un po’: Jean-Luc Godard). La manipolazione cronologica non è dunque un mero esercizio di stile, un gioco di montaggio e postproduzione. Ma è a servizio del racconto, è la ricerca del modo più efficace per farlo arrivare allo spettatore. Quella che quindi potrebbe sembrare solo forma, estetica, è in realtà sostanza. La scelta di sgretolare, rimaneggiare e reinventare l’ordine cronologico diventa essa stessa veicolo del senso. Pur avendo dunque dei precedessori, Iñárritu e lo sceneggiatore Arriaga lavorano sulla manipolazione del tempo in un modo del tutto peculiare. Nei tre film troviamo infatti tre modi differenti di costruire il tempo del racconto. Ognuno dei tre film ha un suo specifico “disordine cronologico”. Accade con il tempo quello che succedeva con lo spazio: abbiamo visto come la storia di Amores Perros aveva bisogno di una metropoli, quella di 21 grammi di un luogo astratto e simbolico, e quella di Babel del mondo globalizzato. Allo stesso modo, per quanto riguarda il tempo, Amores Perros ha bisogno di raccontare la simultaneità, 21 grammi l’atemporalità, e Babel la causalità. Spazio e tempo, il qui e ora delle storie narrate, creano quindi nel film un connubio inscindibile: come nella teoria della relatività di Einstein, non sono entità separate, ma diventano una cosa sola.

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In Amores Perros le vicende dei protagonisti si sviluppano più o meno negli stessi giorni. L’incidente d’auto è il perno attorno al quale le tre linee ruotano, l’evento che le fa convergere unendole fisicamente nello stesso luogo e nello stesso momento. Ma se quello è l’unico momento in cui tutte e tre le linee sono presenti nello stesso luogo, ci sono però altri momenti di incontro tra una linea e l’altra. Poiché il senso temporale

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che si vuole dare è quello della contemporaneità e della compresenza, in ogni linea ci sono incursioni dei personaggi delle altre storie. Quindi, sebbene Amores Perros sia diviso in tre segmenti separati nettamente anche dai titoli in testa e raccontati in successione, questa divisione poi è di fatto più sfumata. E così durante la linea di Octavio – i cui fatti principali, a differenza di El Chivo e Valeria, avvengono prima dell’incidente – vediamo apparire diverse volte Daniel: vediamo la sua vita poco tempo prima di lasciare definitivamente sua moglie e andare a vivere con Valeria. Ma vediamo anche Valeria: attraverso la Tv accesa in camera di Octavio. El Chivo compare diverse volte: lo vediamo uccidere la sua ultima vittima, andare al funerale della ex moglie, scopriamo che la figlia lo crede morto da molti anni. Ma anche quando inizia il segmento di Valeria, continuiamo a vedere apparizioni di El Chivo: lo vediamo pedinare la sua futura vittima, poi vediamo l’auto di Valeria che gli passa accanto, a pochi metri dall’incrocio dove avverrà l’incidente. Allo stesso modo, nella linea di El Chivo, vediamo continuare la linea di Octavio: la morte di suo fratello Ramiro e l’epilogo alla stazione degli autobus, quando realizza che Susana non verrà. L’incidente d’auto ha un ruolo fondamentale nella costruzione della contemporaneità delle tre linee. Iñárritu infatti ce lo mostra prima all’inizio del film, come flashforward generale, e poi lo ripete in ognuna delle tre linee, cambiando il punto vista: prima quello di Octavio, poi quello di Valeria e infine quello di El Chivo. La sequenza è stata girata con nove telecamere simultaneamente, tra cui due sui tetti adiacenti e una nascosta in un bidone. Questa ripetizione ci racconta anche quanti diversi punti di vista possono esistere su una stessa cosa. Concetto ribadito nel corso del film anche attraverso altre piccole accortezze: ad esempio, quando El Chivo passa sotto il grande cartellone pubblicitario di Valeria, per lui è un cartellone come un altro, ma quando lo rivediamo varie volte dalla finestra di casa di Valeria, diventa invece il simbolo del suo dramma personale.

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Sebbene dunque le tre storie vengano raccontate separatamente, la ripetizione dell’incidente e le reciproche incursioni di una nella linea dell’altra raccontano la loro compresenza. E il film nel suo insieme, oltre alle singole storie, racconta come in una grande città numerose vite si incrociano ogni giorno, pur restando estranee l’una all’altra. La scelta di far convergere le tre vicende in uno stesso punto si adatta perfettamente alla dimensione temporale che racchiude una grande metropoli. Vite che scorrono veloci negli stessi attimi, scollegate l’una dall’altra, ma che poi possono convergere dentro un istante. L’istante in cui ci troviamo in un ascensore con uno sconosciuto. L’istante in cui qualcuno ci siede accanto su un autobus. L’istante in cui giriamo l’angolo e ci scontriamo con qualcuno sul marciapiedi. O saltiamo uno stop e ci scontriamo con un’altra auto. Due o più vite convergono in questi istanti, in queste unità spaziotemporali: dall’istante successivo quelle vite potrebbero cambiare per sempre. L’incidente stradale potrebbe portarci a uccidere qualcuno nell’altra macchina. Lo scontro sul marciapiedi potrebbe essere con l’amore della nostra vita. Dentro l’ascensore potrebbe esserci il nostro rapinatore. O magari solo il nostro nuovo dirimpettaio, perché in questo enorme flusso non tutti gli incontri ci cambieranno la vita. Ma per fortuna, dentro un film, succede sempre così. Quello che ci mostra Iñárritu in Amores Perros è dunque il tempo come convergenza di istanti di vita. Perché in una megalopoli come Città del Messico nessuno è indipendente. Il percorso di ognuno, ogni istante, è invaso da quelli di milioni di altri. La struttura narrativa di Amores Perros ci restituisce così la frenesia della megalopoli, il tempo accelerato, l’impossibilità di fermarsi, di rallentare, di prenderci il nostro tempo, di riuscire a frenare ed evitare lo schianto con la vita. Nella città possiamo teorizzare paradossalmente un tempo con caratteristiche opposte alla fisica einsteiniana. Einstein ci spiega che più la velocità aumenta, più il tempo rallenta. Nel frastuono della grande città è come se accadesse il contrario: più la velocità delle nostre interazioni aumenta, più il tempo accelera. L’incidente stradale è la rappresentazione perfetta delle conseguenze di questo processo. Milioni di tempi singoli, ognuno per ogni persona, che essendo così tanti non possono che scontrarsi, prima o poi, in un punto nello spazio. Questione di attimi. Quando ci capita un incidente stradale, se ripercorriamo la nostra giornata a ritroso, quello

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scontro ha dell’incredibile. Bastava una distrazione di un secondo al semaforo precedente per ritardare il nostro arrivo all’appuntamento con la collisione. Bastava non trovare subito le chiavi di casa, o un passante che ritardasse la nostra uscita dal parcheggio. E tutto ciò, nel caso dell’incidente stradale, va moltiplicato per due vite: la nostra e quella dell’altro conducente. La perfetta sincronizzazione di due esistenze, che riescono ad arrivare puntuali all’istante preciso dell’incidente, ha qualcosa di miracoloso. E se invece di considerare solo la giornata stessa dell’incidente andiamo ancora più indietro, l’insieme di eventi che ci hanno portato a quel giorno, con quella macchina, in quella zona della città, in quell’esatto istante, creano una catena da capogiro. E una serie di bivi interminabili. È lo sliding doors, la teoria delle porte scorrevoli: ogni qualvolta ci si chiudono in faccia le porte della metro, c’è un universo possibile che abbandoniamo e uno in cui entriamo. Perdendo la metro, entra in scena una sequenza di avvenimenti. Se riusciamo a entrare, la sequenza cambia. Così un semplice ritardo di due secondi può incidere su una vita intera. Borges, nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), immagina che ognuna di queste ramificazioni, ogni bivio della vita, generi un futuro possibile, una linea temporale diversa, e che quindi ci siano tante linee temporali quanti siano le scelte e le conseguenze delle stesse. (Nnam: Borges non è nominato a caso, tornerà infatti quando parleremo di Birdman, perché il racconto qui citato fa parte della raccolta Labyrinths di Borges, che è il libro che sta leggendo Mike Shiner). L’idea di Borges anticipa in qualche modo l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica, formulata nel 1957 dal fisico Hugh Everett III: una delle possibili interpretazioni della teoria degli universi paralleli, secondo la quale tutte le possibilità coesistono in un multiverso. E così, c’è un universo nel quale Valeria è riuscita a frenare un attimo prima dell’impatto, uno in cui El Chivo non ha mai abbandonato la figlia, e uno in cui Octavio sposa Susana.

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In 21 grammi, come accade per i luoghi, anche il tempo diventa evanescente e smette di esistere in senso oggettivo, lasciando totalmente spazio a un tempo interiore, cucito addosso ai personaggi. Il film va avanti e indietro senza seguire alcuna cronologia classica, rinunciando

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a volte perfino a permettere una ricostruzione lineare a posteriori. Il rapporto temporale tra una sequenza e l’altra perde di rilevanza, così come la relazione causa-effetto. Alcune scene del film non hanno una collocazione temporale definibile con certezza. Di alcuni frammenti che vediamo non siamo realmente in grado di stabilire il prima e il dopo. E non c’è alcun bisogno di farlo, perché la narrazione va oltre il tempo fisico. I fatti ci vengono mostrati seguendo un ordine funzionale alle relazioni e ai bisogni profondi dei personaggi. Il montaggio segue il percorso emotivo dei personaggi, mostrando gli eventi come se fossero già interiorizzati dai protagonisti. E ogni cosa può riaffiorare in qualunque momento. E tutte le connessioni le fa lo spettatore nella sua mente, ricostruendo il film come fosse un grande puzzle. Perché l’esistenza di ognuno di noi è in fondo un complicato puzzle. Il tempo che scorre in 21 grammi è dunque il tempo interiore. Del resto la domanda che da sempre si pone l’uomo è se esiste un tempo esteriore, al di fuori della componente umana e dell’umana percezione. Per il fisico John Wheeler il tempo è solo “ciò che impedisce che tutto accada simultaneamente”. E secondo Einstein, “la distinzione tra passato, presente e futuro è solo una persistente e cocciuta illusione. Il tempo non è affatto ciò che sembra. Non scorre in una sola direzione e il futuro esiste simultaneamente al passato”. Dentro di noi non esiste né lo spazio né il tempo, tutta la nostra vita è sospesa in una bolla senza tempo, i nostri ricordi, le nostre emozioni vivono tutte insieme: un giorno, un anno, dieci anni sono presenti allo stesso momento. Un ricordo ci arriva nel momento in cui probabilmente ne abbiamo bisogno. Oppure un evento esterno stimola la memoria e ci riporta indietro. Dentro di noi non esiste il prima e il dopo, è come se fosse tutto sospeso in un unico “ora” immobile, dove non c’è inizio né fine. «Non so più dire quando tutto è iniziato, né quando finirà» dice Paul all’inizio del film, intubato in ospedale. Per la meccanica quantistica il tempo non esiste come concetto fisico: tutti gli istanti possibili di tempo, tutte le forme possibili dell’universo sono presenti nello stesso momento. La nostra vita non ha un prima e un dopo, passato e futuro non esistono, c’è solo una successione continua di “ora”. I nostri ricordi sono solo un’immagine del passato, non il passato. Ed esistono anch’essi nel presente: quando ricordiamo, siamo nel presente. E non c’è un percorso

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verso un futuro, semplicemente perché non c’è il futuro. Non è il tempo che cambia le cose, ma sono i cambiamenti a creare l’illusione del tempo. Ed ecco che tutto questo si traduce nel percorso narrativo di un film: quello di 21 grammi, in un certo senso, è un tempo quantistico. Guardando e riguardano il film, si ha l’esatta sensazione che tutti gli eventi siano coesistenti in un’unica dimensione atemporale. E la scelta di come mostrarli, dell’ordine con il quale mostrarli è dunque del tutto arbitraria. Ma poiché il criterio usato nel montaggio non ha che fare con la cronologia, il film accosta le sequenze secondo un’unità di senso e di stati d’animo. Così l’accostamento delle scene mostra a volte una contiguità emotiva tra diversi personaggi, e a volte un contrasto. Altre volte il montaggio serve a far cambiare il punto di vista su una scena, mostrandone subito l’epilogo. E così se in una scena vediamo una speranza, in quella successiva saltiamo avanti e vediamo subito la sua disattesa. Il futuro giustapposto al presente ne annulla subito l’efficacia, lo rende immediatamente effimero. Questi piccoli salti in avanti ci mostrano così l’inconsistenza dei progetti umani. Concetto centrale in tutta la Trilogia, come vedremo meglio più avanti. Tutto questo intricato gioco di echi, riverberi e dissonanze non ha alcun bisogno di essere collocato nel tempo. Perché il senso profondo del racconto è fuori dal tempo. 21 grammi sovverte del tutto la logica causa-effetto, e ci mostra nello stesso “ora”, la vita e la morte, la salute e la malattia, la felicità e la disperazione.

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In Babel le diverse linee sono narrate secondo una cronologia fortemente lineare. Tanto che mentre il film passa da una linea all’altra, ogni storia viene poi ripresa da dove l’avevamo lasciata. Le ellissi all’interno di una singola linea sono poche e piccole. Ma a differenza di Amores Perros, dove le tre storie avvengono contemporaneamente ma sono narrate in successione, qui sono portate avanti contemporaneamente, anche se in realtà avvengono in tempi leggermente sfalsati. Solo alla fine scopriamo il vero rapporto cronologico tra le diverse storie. Il montaggio gioca sull’illusione della simultaneità, per svelare alla fine che invece il rapporto è di causalità: un evento all’interno di una linea innesca qualcosa nelle altre linee. Quando all’inizio del film vediamo Amelia che in

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California parla al telefono con Richard, pensiamo sia il presente, e che le prime scene in Marocco siano successive. Invece quella telefonata avviene in realtà verso la fine della vicenda di Susan, dopo l’arrivo dell’elicottero, quando ormai lei è salva. E questo lo capiamo solo quando rivediamo più avanti la stessa telefonata dal punto di vista di Richard, in Marocco. Ma non si tratta di un flashforward quello di Amelia all’inizio. Nè la storia di Susan è un flashback. Semplicemente, la telefonata dal punto di vista di Amelia è l’inizio della sua linea narrativa che, infatti, da lì proseguirà in avanti linearmente come le altre. Anche la linea di Chieko è leggermente spostata in avanti rispetto a quella di Richard e Susan. Nella scena in cui Chieko guarda la tv, il telegiornale mostra già le foto di Youssef e del padre. Ma quando torniamo in Marocco, vediamo Youssef e Ahmed che nascondono il fucile e poco dopo la polizia che trova i bossoli: quindi in quella linea temporale ancora non si sa chi siano i colpevoli. La vicenda in Giappone è perciò un po’ spostata in avanti rispetto a quella in Marocco. Quello che si vuole raccontare in Babel è proprio come degli eventi in una parte del mondo, dopo una catena causale più o meno lunga nel tempo, hanno effetti in un’altra parte del mondo. Ed è per questo che Iñárritu ce li narra come se fossero contemporanei: l’idea che questo meccanismo trasmette è che, quando Yussef spara a Susan, il futuro che porterà i suoi figli a rischiare la morte nel deserto con Amelia è “già accaduto”. Il meccanismo è già stato innescato e quell’evento futuro è quindi entrato nel campo dell’inevitabile. Allo stesso mondo, quando il padre di Chieko, anni prima, regala il suo fucile ad Hassan, la guida marocchina, lo sparo di Yussef è già accaduto. La cetena di eventi da quel momento è implacabile. Hassan vende il fucile a Abdullah. Nel frattempo due americani, Susan e Richard, sono in viaggio in Marocco per riprendersi dalla morte del figlio e provare a salvare il proprio matrimonio. I figli di Abdullah prendono il fucile e vanno a sparare tra le montagne. Il

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più piccolo, Yussef, spara per gioco un colpo verso un autobus lontanissimo e la pallottola colpisce Susan. Susan dunque non può tornare in California come previsto e Amelia, la tata messicana che tiene i figli della coppia, per andare al matrimonio del figlio in Messico è costretta a portarseli dietro di nascosto. Cosa che metterà poi a rischio la loro vita. Quella notte disperata che Amelia e i bambini passano nel deserto è stata dunque scritta il giorno in cui Yasujiro ha regalato il suo fucile ad Hassan. Siamo dentro quello che viene comunemente chiamato “butterfly effect”: una farfalla sbatte le ali a Pechino e a New York scoppia un temporale. Il nome effetto farfalla deriva da un racconto di Ray Bradbury, A Sound of Thunder, del 1952. Nel racconto un uomo viaggia indietro nel tempo fino alla preistoria, calpesta una farfalla e senza volerlo innesca una serie di conseguenze che si rivelano disastrose per la storia dell’umanità intera: “Gestire una macchina del tempo è una faccenda complicata. Uccidendo un animale, un uccellino, uno scarafaggio o anche un fiore, potremmo senza saperlo distruggere una fase importante di una specie in via di evoluzione.” Il concetto, e tutte le conseguenze che ne derivano, è affrontato ad esempio in un film del 2004 che si intitola proprio The butterfly effect. Edward Lorenz fu il primo ad analizzare l’effetto farfalla, in uno scritto del 1963 preparato per la New York Academy of Sciences. Il titolo di una conferenza tenuta da Lorenz nel 1979 era proprio: Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?. Il minimo battito d’ali di una farfalla potrebbe dunque scatenare una serie di eventi che porterà a far nascere un uragano dall’altra parte del mondo. Alan Turing in un saggio del 1950, Macchine calcolatrici ed intelligenza, anticipava questo concetto: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo a causa di una valanga, o la sua salvezza.” L’effetto farfalla è tipico di un sistema caotico, un sistema cioè dove una piccola variabile iniziale può causare un’enorme variazione delle condizioni finali. Noi viviamo appunto in un sistema caotico dove le variabili sono innumerevoli, e dove è dunque impossibile prevedere le con-

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seguenze a lungo termine delle proprie azioni. Ogni nostra azione di oggi può avere influenza domani sulla nostra vita e sulle vite di altre persone lontane, non importa se conosciute o sconosciute. Questa idea che siamo tutti collegati, come abbiamo visto è uno dei temi fondanti dell’intera Trilogia. È un’idea molto antica: nella storia della creazione del popolo indiano Hopi si racconta di una Nonna Ragno che decise di tessere una grande ragnatela per collegare tutte le cose. I Sutra Buddisti descrivono il regno del potente Dio Indra come il luogo da cui trae origine la rete che collega l’intero universo. Babel, il film che chiude la Trilogia, ribadisce dunque il concetto che sta dietro a tutti e tre i film: le nostre esistenze sono condizionate da troppi parametri che sono al di fuori del nostro controllo. Una piccola singola variazione può cambiare radicalmente il corso degli eventi e, dunque, le nostre vite. Non avremo mai una visione di insieme della catena di eventi che ci porta a un incidente. E non sapremo mai il momento preciso in cui l’abbiamo innescata.

Abbattere i confini Il concetto di confine viene esplorato in tutti e tre i film della Trilogia. É un tema che sta molto a cuore a Iñárritu. I confini esteriori e quelli interiori determinano le nostre relazioni, quelle tra persone, quelle tra popoli. Nei tre film il concetto viene messo a fuoco in tre modi diversi, e troviamo tre diverse tipologie di confine. Ancora una volta abbiamo una prova del fatto che il frattale sia la descrizione perfetta di una Trilogia dove ogni parte somiglia al tutto e il tutto a ogni sua parte. Ogni film parla di confini, ma il tema viene affidato alla Trilogia nel suo insieme, creando così un macrotema trasversale: il senso crescente di isolamento che il singolo sente, all’interno di una società che è sempre più interconnessa.

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In Amores Perros i confini esplorati sono quelli sociali. La divisione in classi, le zone ricche della città e le zone povere. Le belle macchine e le macchine scassate. Le vie luminose e i vicoli bui. Gli appartamenti sontuosi e le baraccopoli. La democrazia delle opportunità, tipica delle grandi città, dove tutti vanno per cercare fortuna, è solo apparente: la

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metropoli crea società divise per classi, confini invalicabili. Il film racconta una società resa violenta dalle divisioni sociali ed economiche, permeata da una tensione continua, pronta a esplodere in ogni momento. La Città del Messico di Amores Perros è un luogo violento, emotivamente e fisicamente, una città dove l’umanità sta per lasciare il posto all’animalità. I combattimenti tra cani mostrano la deriva umana: esseri della stessa specie che si uccidono a vicenda. Lotte fratricide: quella tra Ocatvio e Ramiro e quella tra i due fratellastri nell’episodio di El Chivo. Così come Octavio ingaggia dei sicari per far picchiare il fratello, Louis sta per essere ucciso da El Chivo per volontà del suo fratellastro Gustavo. Ma mentre tra Octavio e Ramiro c’è di mezzo una donna, tra Gustavo e Louis si tratta di soldi e grandi affari. Cambia la classe sociale, ma non cambia il livello di violenza. I personaggi si muovono in uno scenario dominato dalle pulsioni e dalla violenza, in una società stratificata, atomizzata e separata. Dove non si riescono a instaurare rapporti sociali, né a portare avanti le relazioni: la divisione sociale si ripercuote all’interno delle famiglie, entra nelle case. Questa divisione è netta a partire dai protagonisti: abbiamo una donna ricca, Valeria, un ragazzo delle classi basse, Octavio, e un barbone, El Chivo. Tre diverse classi sociali che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, tre persone che non si sarebbero incontrate mai. Se non in uno scontro violento, rappresentato nel film dall’incidente. L’unico modo per superare le barriere dunque è toccarsi: la tragedia, la morte, il dolore, l’amore, le relazioni profonde possono abbattere questi confini e far incontrare, o scontrare, due vite che sembravano destinate a non sfiorarsi. E dopo quello scontro, tutto può cambiare. L’incidente è l’evento catalizzatore che devia i tre percorsi di vita, ma l’esito non è detto che sia negativo. Dopo l’impatto i personaggi prendono quella che forse è la giusta direzione. L’evento catalizzatore li rimette sulla buona strada. Oppure, semplicemente, accelera il percorso che già stavano facendo, ma che sarebbe stato molto più lento. Evento catalizzatore, appunto: in chimica un catalizzatore è una sostanza che interviene in una reazione chimica aumentandone la velocità. E così, processi che si sarebbero sviluppati molto lentamente, anche dopo anni, si compiono e si concludano in tempi relativamente più brevi, anche ore, minuti, secondi. Un evento catalizzatore che interviene nella vita di una persona, lo

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aiuta a compiere più velocemente il passaggio esistenziale che stava affrontando. Valeria doveva liberarsi dalla schiavitù dell’immagine, dell’estetica, dalla prigione del corpo. E perdere la gamba accelera decisamente il percorso. Octavio pensa solo al possesso: i soldi, la macchina, la donna. Perdere tutto sarà il primo passo verso una crescita profonda. El Chivo perde tutti i suoi cani a causa di Cofi: questa tragedia lo porta ad abbandonare finalmente la violenza e cercare di tornare umano. Tutti processi che senza l’accelerazione del catalizzatore avrebbero avuto bisogno di molto più tempo. O forse non si sarebbero compiuti mai.

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In 21 grammi, i confini esplorati non possono che essere quelli interiori. La chiusura è chiusura in se stessi, nel proprio lutto, nella propria impotenza. Le persone sono monadi non in grado di connettersi. Incontrarsi, incontrarsi davvero, sembra essere un miracolo. Paul, a pranzo con Cristina, le dice: «Come accade che due sconosciuti si incontrino? C’è una poesia di uno scrittore venezuelano che comincia così: la terra girò per renderci più vicini, girò sul suo asse e su di noi, finché finalmente ci ricongiunse in questo sogno. Ne devono accadere di cose perché due persone entrino in contatto fra loro.» La poesia citata da Paul è La Tierra giró para Acercarnos, di Eugenio Montejo: La terra girò per avvicinarci, girò su stessa e dentro di noi, fino ad unirci finalmente in questo sogno, come fu scritto nel Simposio. Passarono notti, nevi, solstizi; passò il tempo in minuti e millenni. Un carro che andava a Ninive arrivò a Nebraska. Un gallo cantò lontano dal mondo. La terra girò musicalmente con noi a bordo; non cessò di girare un solo istante, come se tanto amore, tanto miracolo fosse solo un adagio già scritto molto tempo fa tra le partiture del Simposio.

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Nel già citato film Crash, Graham Waters (Don Cheadle) dice: «In una città vera si cammina. Sfiori gli altri passanti, sbatti contro la gente... Qui a Los Angeles non c’è contatto fisico con nessuno: stiamo tutti dietro vetro e metallo. Il contatto ci manca talmente che ci schiantiamo contro gli altri solo per sentirne la presenza.» 21 grammi parla di incomunicabilità, della solitudine e dell’infelicità che ne derivano. Paul e Mary erano una coppia finita ancora prima che Paul si ammalasse. La malattia li riavvicina solo superficialmente. Il trapianto e la gravidanza non risolveranno nulla. Non c’è più contatto tra loro, non c’è più niente. Mary gli dice: «Credevo saresti cambiato con il trapianto» e Paul risponde: «E io credevo saresti cambiata con la gravidanza. Nessuno è cambiato invece». Ma in questo essere chiusi nei nostri confini, scopriamo che sono proprio la solitudine, la desolazione, l’inadeguatezza a poterci legare. La salvezza, ancora una volta è nel contatto, nella condivisione, anche del dolore. Le nostre emozioni, specie le più profonde e buie, si ripetono nelle vite degli altri. I sentimenti ci rendono tutti molti simili. Nel film i collegamenti emotivi tra i personaggi sono innumerevoli e ci mostrano come siamo connessi a livello profondo, come viviamo le stesse tragedie e le stesse gioie. Perfino tra Cristina e Jack, l’assassino involontario della sua famiglia, c’è contatto emotivo alla fine. Si guardano negli occhi, dopo che Paul si è sparato, ognuno si specchia nel dolore dell’altro. Da una parte la solitudine della perdita, dall’altra la solitudine del senso di colpa. Tutto ciò nel film è raccontato attraverso il contatto emotivo tra una scena e l’altra, a volte in accordo, altre in contrasto. Il film è pieno di momenti di felicità negata. Di gioie contrapposte a dolori. I pochi momenti di felicità, amore, sesso e luce vengono interrotti bruscamente dal montaggio che ribalta lo stato emotivo. La festa di compleanno di Jack è interrotta perché avviene proprio mentre lui tornando a casa investe i tre sventurati. La sua torta non verrà mai tagliata. Resta la casa vuota, tutta addobbata a festa, con Jack da solo che attende il ritorno della moglie per avere la conferma se siano tutti morti o no. A questa festa mancata si contrappone quella di Paul, per festeggiare l’esito positivo del trapianto: «Brindo al primo giorno della mia nuova vita», dice lui a tavola. Ma poco dopo vediamo invece Cristina dire al padre: «La vita non continua».

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L’altro confine esplorato in 21 grammi è quello tra la vita e la morte. La morte è una presenza costante, e la vita prova a resisterle debolmente attraverso gli effimeri legami tra i personaggi. In ospedale, mentre Mary è in sala d’aspetto ad attendere l’operazione di Paul, passa Cristina che sta andando via dopo aver acconsentito alla donazione degli organi del marito. Si ritrovano vicinissime, le due donne, senza sapere niente l’una dell’altra. Una ha appena perso il marito, l’altra sta per riavere il suo, grazie proprio alla morte del primo. L’amore che sboccia tra Paul e Cristina nasce dalla morte di Micheal, il marito di Cristina, ed è il cuore stesso che spinge l’uno verso l’altra. Cristina sente per Paul un’attrazione che non si sa spiegare, che assume caratteri quasi soprannaturali. Quando lo chiama nel cuore della notte e gli chiede di raggiungerla, poi gli dice: «Ti ho pensato tutto il giorno. Nemmeno ti conosco eppure ho voglia di vederti, di parlare con te.» L’idea è molto suggestiva. Come afferma Gregg Braden, autore americano New Age, il collegamento fra la vita e la materia continua a sussistere anche dopo la separazione: una serie di esperimenti medicoscientifici dei primi anni 90 hanno dimostrato che le emozioni hanno effetti sul DNA e che parti del nostro corpo continuano a reagire agli stimoli del cervello anche se sono in altri luoghi, separate da noi. Negli esperimenti di cui parla Braden venivano prelevati campioni di DNA dai tessuti di una persona, isolati e portati in un’altra stanza a decine di metri di distanza. Poi, attraverso la visione di video diversi si creava nel soggetto una determinata risposta emotiva: ogni volta in cui c’erano picchi emotivi, le sue cellule e il suo DNA reagivano con risposte elettriche di un certo tipo. Nel frattempo, nell’altra stanza si misurava la risposta elettrica del DNA prelevato. Ciò che l’esperimento ha mostrato è che il DNA isolato reagiva ai picchi emotivi come se si trovasse ancora nel corpo della persona. L’esito dell’esperimento sembra portare alla conclusione che non si possono separare le persone da parti del loro corpo. E quindi possiamo pensare che quando un organo viene trapiantato da un individuo a un altro, le due persone restino in qualche modo collegate. Spingendoci oltre, queste suggestioni possono portarci a immaginare che il cuore di Michael renda in qualche modo Paul collegato al suo donatore anche dopo la morte. E questo spiega quell’attrazione “magica” che lega Paul e Cristina.

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Ma quello stesso cuore fa poi nascere il desiderio di vendetta che porta Cristina a chiedere a Paul di uccidere Jack. I personaggi del film si spingono sempre più verso il confine ultimo della morte. Jack ci arriva a un passo, con quei tre colpi di pistola sparati da Paul. È convinto che sia la fine e la accetta, accetta la morte come redenzione. E lo spettatore lo segue in questo suo passaggio, credendolo morto fino a che il film non rivela che Paul lo ha risparmiato. Ma Jack vuole morire e torna da Paul provocandolo ancora. Paul non è un assassino, non ce la a ucciderlo, e rivolta la pistola contro se stesso. Si spara. Perché in fondo è già morto: la sua breve vita con il cuore di Micheal è solo un limbo prima di lasciare definitivamente questo mondo. «Si dice che nel preciso istante della morte, tutti perdiamo 21 grammi di peso, nessuno escluso. Ma quanto c’è in 21 grammi? Quanto va perduto? Quanto se ne va con loro? Quanto si guadagna. Quanto valgono 21 grammi?»: è la voce fuori campo di Paul, nell’ultima scena, a spiegare il titolo e il senso profondo del film. Nel 1907, il dottor Duncan MacDougall, di Haverhill in Massachussets, misurò il peso corporeo di sei persone durante il loro trapasso. I dati registrati gli fecero concludere che, subito dopo la morte, ogni corpo umano perde 26,2142325 grammi. La prova venne poi ripetuta, a quanto pare, decenni dopo: un nuovo esperimento, con bilance elettroniche più sensibili, avrebbe riscontrato che la perdita di peso, costante, è pari appunto a 21,00019 grammi. Questo peso, secondo lo scienziato statunitense, sarebbe da attribuire all’anima. L’anima – in greco ànemos, soffio, vento – dai tempi di Omero è considerata appunto come un soffio che abbandona il corpo dopo la morte. Con Socrate viene utilizzato per la prima volta il termine psyché per designare il mondo interiore dell’uomo. Per le religioni monoteiste è la parte vitale e spirituale di ogni uomo: “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere

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vivente.” (Genesi 2, 7). San Paolo, nella sua Prima Lettera ai Tessalonicesi (5, 23) distingueva tra spirito, anima e corpo: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”. In epoca medioevale la Chiesa di Roma ridusse l’essere umano a due soli elementi, il corpo e l’anima, funzionali a imporre sul popolo una visione dualistica del mondo: buono o cattivo. Così l’anima finì per assumere indebitamente anche i connotati dello spirito. Ma cosa c’è davvero in quei 21 grammi?

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Come abbiamo visto, il compito di Babel all’interno della Trilogia è allargare il campo, estendere il punto di vista. Ed è quello che fa anche riguardo il concetto di confine. Poiché il film ha come arena il mondo intero, i confini esplorati sono quelli culturali e socio politici. E il tema del confine diventa del tutto esplicito: sia legandosi letteralmente al concetto di frontiera, nel caso del confine Usa-Messico; sia per la presenza di lingue e culture diverse, la Torre di Babele, appunto: “«Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.» Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.” (Genesi 11, 1-9). (Nnam: tanto per insistere con i collegamenti, uno dei racconti contenuti nel già citato Labyrinths di Borges, si intitola proprio La biblioteca di Babele). Con Babel, Iñárritu ci dice che la mancanza e l’impossibilità di un legame linguistico, culturale, generazionale, o il suo impedimento fisico attraverso le guerre e la costruzione di muri, è la fonte della maggior parte delle sofferenze umane. Il film racconta un mondo dove la paura dell’altro, il pregiudizio hanno preso definitivamente il sopravvento. Un’americana ferita da una colpo di fucile in un paese arabo, genera subito uno scandalo diplomatico e fa parlare di terrorismo. Il confine qui sembra essere invalicabile. La barriera tra i due popoli è troppo grande dopo l’11 settembre. Sull’11 settembre Iñárritu è intervenuto direttamente nel 2002, pren-

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dendo parte al film collettivo 11 settembre 2001. Un film che racconta l’11 settembre da diversi punti di vista nel mondo: una coproduzione internazionale composta da 11 episodi, diretti da 11 registi rappresentanti di altrettanti Paesi del mondo (Nnam: tra gli altri registi ci sono Sean Penn per l’episodio USA e Ken Loach per quello del Regno Unito). Tutti gli episodi durano 11 minuti, 9 secondi e 1 fotogramma, per ricordare, anche con la durata, i numeri della data 11-09-01. Iñárritu naturalmente gira il suo episodio come rappresentante del Messico. Nel corto Iñárritu fa un’operazione che potremmo paragonare in un certo senso a quella del corto Anna di cui abbiamo parlato all’inizio. Lì c’era una spettatrice non vedente che seguiva il film solo attraverso il sonoro. Qui i “non vedenti” sono tutti gli spettatori del mondo: il film mostra quasi esclusivamente uno schermo nero, con voci fuori campo che ci raccontano la tragedia. Iñárritu ci vuole cioè dire che non ci sono immagini per raccontarla. Sul nero, che rappresenta il buio dell’umanità, sentiamo rumori di fondo e voci interrotte all’improvviso dalle urla dei testimoni dello schianto contro la prima Torre. Il nero viene sporadicamente illuminato da rapidi flash con le immagini di repertorio dell’attentato, quelle che tutti conosciamo bene. Le voci nel frattempo si sovrappongono, si mescolano con gli annunci in televisione, con le urla delle vittime, con le chiamate fatte dalle vittime ai loro parenti, con le esplosioni. Poi il sonoro si interrompe e si vedono le due Torri crollare nel silenzio. Subito dopo le voci ricominciano, ma stavolta con un sottofondo di violini, mentre lo schermo passa gradualmente dal nero al bianco. Dal buio alla luce. E in chiusura appare la scritta, in spagnolo e in arabo: “La luce di Dio ci illumina o ci acceca?” Babel è chiaramente un film post 11 settembre. Non appena avviene lo sparo, i turisti bloccati nel villaggio si sentono minacciati dal terrorismo islamico. Quei luoghi affascinanti che stavano visitando, diventano luoghi di paura. I vicoli, le case, i venditori ambulanti, i mendicanti sono gli stessi di prima, ma le loro facce sono diventate improvvisamente nemiche. Eppure alla fine saranno proprio le persone del posto, gli arabi, a salvare la turista americana. La linea di Amelia racconta invece una frontiera vera e propria: quella tra Usa e Messico. Un frontiera che, vista dagli occhi di un Messicano,

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non può che essere il simbolo di una iniquità profonda. Il confine spezza in due la penisola Californiana e fa vivere quotidianamente una disparità di trattamento alle persone che la attraversano: un americano in Messico è sempre il benvenuto, un messicano che vuole entrare in Usa è guardato con sospetto. Eppure fu proprio lungo questo confine che mosse i primi passi quel concetto di libero scambio, libero mercato che sarebbe diventato poi la globalizzazione. Tutto cominciò nel 1994, quando Clinton firmò il Nafta (North American Free Trade Agreement), un trattato che rompeva le principali barriere al libero scambio tra Canada, Usa e Messico, gettando le basi per il successivo WTO (World Trade Organization) che diede per sempre nuove regole all’economia mondiale. Con il Nafta, nacque all’interno dei tre Paesi un mercato unico nel quale merci e capitali potevano circolare liberamente. Ma questa libera circolazione economica non ha mai trovato una corrispondenza nella libera circolazione di persone. I flussi migratori dal Messico verso gli Usa hanno continuato a subire restrizioni. I messicani che cercano fortuna in California finiscono quasi sempre a svolgere i lavori manuali e meno remunerativi. E il libero mercato è stato tradotto nello sfruttamento della manodopera messicana: le grandi aziende statunitensi attraversano la frontiera per cercare personale a basso costo, bassa pressione fiscale, meno burocrazia. Il risultato finale è evidente: il Messico è rimasto povero, la criminalità è rimasta alta. Il film ci mostra tutto questo in modo inequivocabile. Il viaggio verso il Messico di Amelia, Mike e Debbie è un viaggio felice: bella musica, atmosfera di festa, sole, relax. Santiago varca la frontiera come fosse un semplice casello autostradale, poi ai bambini dice: «Avete visto come è facile entrare in paradiso?». Una volta entrati in Messico per i piccoli Mike e Debbie è tutto spettacolare. La festa di matrimonio è tranquilla e piena di gioia. Niente lascia presagire l’epilogo tragico. Gli unici presagi sono forse la scena in cui Santiago stacca la testa alla gallina, e lo sparo in aria durante i festeggiamenti: entrambe le cose spaventano i due bambini. Il viaggio di ritorno in Usa è tutta un’altra cosa. L’atmosfera si fa subito tesa. Prima Santiago sbanda, perché ha bevuto un bicchiere di troppo; poi fa un po’ lo strafottente con il poliziotto che parte prevenuto nei suoi confronti. Perquisiscono la macchina a fondo, guardano nella borsa di Amelia. Durante questa fase i bambini dormono. La tensione

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sale. Il poliziotto non crede che Amelia abbia realmente la custodia dei bambini, le chiede se ha una carta che lo dimostri. Poi ci va giù duro con Santiago, gli grida, lo minaccia e alla fine Santiago crolla e decide di scappare, dando inizio all’incubo. Il film insiste su questa disparità e la estende al resto del mondo: quando i poliziotti marocchini interrogano Hassan, gli negano qualunque diritto, ci vanno giù pesante, verbalmente e fisicamente, con lui e con i suoi familiari. Il detective che interroga Chieko e Yasujiro invece è rispettoso e delicato. In Babel, la globalizzazione appare in tutta la sua contraddizione. Il mondo è diventato un sistema di interazioni continue e su larga scala, nel quale i flussi hanno tolto forza ai confini territoriali. Flussi di uomini: turisti, immigrati, rifugiati, lavoratori che si muovono costantemente; flussi di denaro, di tecnologia, di informazioni, di idee. Questo movimento costante ha ridefinito il concetto di appartenenza locale: il flusso non ha una collocazione spaziale definibile, ma è un concetto in divenire. Ma gli Stati, come reazione alla deterritorializzazione, hanno iniziato a spingere ancora di più verso l’uniformazione, cercando – attraverso il rialzamento delle frontiere, le espulsioni, le pulizie etniche – di fare in modo che il loro confine continuasse a coincidere con quello nazionale. Nel frattempo, però, le popolazioni in movimento pretendono diritti nei Paesi in cui si muovono, suscitando risentimenti e ulteriori reazioni di chiusura. Dunque, proprio come sostiene Geertz, il contatto con il diverso, con il migrante, irrigidisce le differenze e la globalizzazione finisce per stimolare le tendenze isolazioniste. Per Appadurai, infatti, i conflitti etnici che attraversano il mondo con frequenza sempre più allarmante, non nascono dal riemergere di odi congelati, ma dall’opposizione o dal sostegno alle politiche uniformanti. Nel finale del film, l’opinione di Iñárritu e Arriaga sul villaggio globale di McLuhan è inequivocabile: per i personaggi americani e giapponesi c’è un lieto fine, mentre per la famiglia marocchina e la tata messicana il finale è drammatico. Ma non tutto è perduto. Anche contro le conseguenze negative della globalizzazione, la cura per Iñárritu è sempre la stessa, quella cura che è trasversale all’intera Trilogia: le singole relazioni umane. Richard e Susan si salvano grazie al contatto con le persone del villaggio. A sal-

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vare Susan è la guida marocchina, Anwar, e sua nonna. Le persone del villaggio non sono ostili, ma disponibili. Chi diventa ostile in realtà sono i turisti europei che erano nel pulman con Richard e Susan: la paura li rende egoisti, vogliono solo andar via al più presto, non ci pensano nemmeno ad aiutare i due americani. Susan invece crea un legame con la nonna di Anwar, che la ospita in casa, la cura, la fa fumare per alleviare il dolore. I legami più profondi si creano proprio tra culture diverse. E sono questi legami che abbattono i confini. Non a caso, in tutte le storie, c’è un abbraccio finale. Richard prima di salire sull’elicottero, vuole sdebitarsi con Anwar, al quale deve tutto, e gli offre dei soldi. Ma Anwar li rifiuta e il risultato è quell’abbraccio tra i due che abbatte i confini. I confini tra un americano e un arabo. Quando Yasujiro trova sua figlia Chieko nuda sul terrazzo, la vede in tutta la sua vulnerabilità. Realizza in quel momento quanto l’abbia lasciata sola dopo la morte della madre. Le si avvicina senza dire nulla e la abbraccia, abbattendo finalmente il muro di incomunicabilità che si era creato tra loro. E per la prima volta riescono a condividere il dolore della perdita. Amelia, dopo l’espulsione dagli Usa, viene abbracciata da suo figlio. Sa che deve ricominciare tutta la sua vita da capo, gli ultimi vent’anni di vita sono stati cancellati da un timbro alla dogana. Ma non è sola, i legami affettivi, la famiglia, sono più forti delle frontiere. L’abbraccio più struggente è ovviamente quello di Mohammed che stringe il corpo inerme del figlio Ahmed. Questi abbracci collegano così tutto il mondo, ribadendo quel concetto caro alla Trilogia, e cioè che l’unica chance di salvezza sono le relazioni, il contatto fisico, l’empatia e l’amore: l’unica forza in grado di abbattere i confini e ricucire le contraddizioni di una società sempre più violenta e indifferente. Mentre i confini artificiali e quelli immaginari costruiti dai governi, dalle società e dalle religioni riducono l’umanità a uno stato di Babele, le persone di tutto il mondo sono profondamente interconnesse e più disponibili di quelle che si crede ad accettare l’altro. Perché ovunque ci troviamo, a livello geografico o esistenziale, condividiamo in fondo gli stessi obiettivi sociali, gli stessi valori: il lavoro, il riconoscimento individuale, il rispetto per la famiglia, un futuro migliore per i nostri figli.

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Se vuoi far ridere Dio, digli i tuoi piani Al funerale del fratello, morto mentre faceva una rapina, Octavio cerca ancora di convincere Susana a partire con lui, le ricorda dei progetti che avevano fatto insieme. È qui che Susana le dice la famosa frase: «Sai cosa diceva sempre mia nonna? Se vuoi far ridere Dio, digli i tuoi piani». Questo pensiero, un po’ cinico, un po’ saggio, un po’ amaro, non a caso è nel primo dei tre film: è un concetto chiave per l’intera Trilogia. Octavio non si arrende, dà un ultimo appuntamento a Susana alla stazione degli autobus, per partire insieme. Ma Susana non verrà. Octavio ha perso i soldi, ha perso Susana, ha perso Cofi, sua fratello è morto: questo rimane dei suoi piani. «Se vuoi far ridere Dio, digli i tuoi piani»: Iñárritu confessa che questa frase gliela diceva sempre suo padre. Ma non l’ha inventata il padre. Deriva da un antico proverbio Yiddish: “L’uomo pianifica, Dio ride”. E anche John Lennon, a modo suo, era già intervenuto sul tema: “La vita è ciò che ti succede mentre sei impegnato in altri progetti”. La Trilogia della Morte parla proprio di questo. Del resto, la morte stessa è in fondo la negazione del progetto chiamato vita. Tutti e tre i film raccontano l’eterna lotta dell’uomo contro il Destino, o il Caso, o Dio. Arthur Scopenhauer lo spiega così: “La vita è come un gioco di scacchi: noi tracciamo una linea di condotta, ma questa rimane condizionata da ciò che piacerà di fare all’avversario, nel gioco degli scacchi, e dal destino, nella vita.” Un altro Arthur, Arthur Bloch, ne La Legge di Murphy, è più lapidario: “Se qualcosa può andar storto, lo farà.” In Amores Perros, sembrano essere soprattutto gli altri a ostacolare i nostri piani. E noi siamo l’ostacolo dei piani degli altri. Siamo in troppi, ci sono in circolazione troppi progetti e obiettivi. E così, nella lotta per la sopravvivenza, continuiamo a scontrarci quotidianamente gli uni con gli altri.

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21 grammi si concentra di più sull’aspetto religioso e mistico, come suggerisce il titolo stesso che fa riferimento appunto all’ipotetico peso dell’anima. Jack, per migliorare la sua vita, si affida totalmente e ciecamente a Dio. Sul suo pick up c’è scritto Faith, fede. Al ragazzo al quale cerca di fare da mentore, racconta di aver vinto il furgone alla lotteria e che è stato Gesù a farglielo vincere: «È lui che dà, è lui che toglie». E ancora: «Dio sa persino se ti si muove un capello sulla testa». Ma sarà con quel pick up che Jack ucciderà tre persone. Dopo l’incidente la sua rabbia e frustrazione montano proprio contro Dio che gli ha fatto avere quel pick up affinché accadesse l’incidente. Ha seguito tutti i dettami della Chiesa e ora non capisce perché gli sia capitata quella disgrazia. Si sente tradito. La moglie cerca di farlo rinsavire, gli dice: «La vita va avanti con o senza Dio». In Babel gli ostacoli sembrano essere le conseguenze delle stesse nostre azioni. Gettiamo dei semi che prima o poi germogliano. E possono distruggere la nostra vita o quella degli altri. Perché siamo tutti collegati da una catena di causa-effetto. Comunque la si voglia vedere, dovunque si voglia rintracciare la causa, il messaggio è chiaro: mentre cerchiamo di prevedere le prossime mosse, un evento imprevedibile arriva a scombinarci i piani. Mentre camminiamo lungo la nostra strada, da un momento all’altro uno schianto può distruggere tutto. Uno scontro tra due macchine in Amores Perros. Un automobile che investe tre persone in 21 grammi. Un colpo di fucile sparato contro un autobus in Babel. L’incidente, presente in tutti e tre i film, rappresenta l’evento imprevedibile che rovescia i piani dei personaggi. L’incidente è un modo molto efficace di raccontare l’eterna lotta tra caso e destino. Tra ordine e caos. L’esito delle nostre azioni dipenderà sempre anche da una componente che noi non possiamo controllare. Sono questi eventi che determinano le nostre esistenze. Noi crediamo di costruire il nostro destino con il lavoro che facciamo ogni giorno per far andare le cose nel verso giusto. Ma alla fine sono i grandi eventi isolati e rari che decidono per noi. Sono i cigni neri dell’esistenza, potremmo dire, parafrasando Taleb. Quel qualcosa che pensavamo impossibile, e che alla fine scopriamo essere soltanto improbabile. L’espressione “cigno nero” deriva da un verso di Giovenale: “Rara avis in terris, nigroque simillima cycno”, uccello raro sulla terra, quasi come un cigno nero. La teoria del cigno nero di Nassim

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Nicholas Taleb si focalizza sul forte impatto sull’umanità di alcuni avvenimenti rari e imprevedibili e sulla tendenza umana a trovare retrospettivamente spiegazioni semplicistiche di questi eventi. Taleb usa il concetto per analizzare la società, e si concentra sulla storia, sulla politica, sulla borsa. Sui grandi eventi inaspettati che cambiano il corso della storia. Un crack, un terremoto, una guerra. La sua tesi è che quasi tutti gli eventi storici provengono dall’inaspettato. Ma gli esseri umani sono ciechi alla casualità e si convincono che questi eventi siano spiegabili e dunque, in futuro, prevedibili. Per natura tendiamo a estendere le conoscenze e le esperienze passate a eventi ed esperienze future. Ma il caso non ha memoria. Riducendo questo concetto in una dimensione più piccola, quella del singolo uomo e della sua quotidianità, possiamo parlare di cigni neri esistenziali: un incontro improbabile, una malattia improvvisa, un incidente stradale, una vittoria alla lotteria. Tutti quegli eventi rari che non mettiamo mai in conto, perché non li crediamo possibili. Li teniamo fuori dalle nostre analisi, non li usiamo come parametri. Eppure saranno probabilmente proprio questi a determinare i nodi della nostra esistenza. La presenza di questi cigni neri è la dimostrazione che ci muoviamo dentro a un sistema caotico. Come abbiamo accennato prima, un sistema caotico è una configurazione che presenta un’alta sensibilità alle modifiche delle condizioni iniziali: a una piccola variazione delle condizioni in entrata può corrispondere una grande variazione delle condizioni in uscita. Caratteristica fondamentale di questo tipo di sistema è perciò l’imprevedibilità: è impossibile, proprio per via di questa sensibilità, prevedere il comportamento del sistema a lungo termine. Il futuro non può essere previsto oltre un certo tempo. Anche perché, nel frattempo, l’entropia cresce. Viviamo in un mondo che, come ogni sistema, tende all’entropia massima. L’entropia è una misura del disordine. Più elevato è il disordine di un sistema, più elevata è la sua entropia. Il livello di entropia di un sistema descrive il numero di modi diversi in cui questo può organizzarsi. Disordine e incertezza sono le configurazioni più probabili: c’è un solo modo di ordinare un mazzo di carte in fila, e milioni di modi di metterle in ordine casuale, cioè in disordine. Ecco perché se mescoliamo il mazzo, le probabilità che le carte si mettano in fila sono infinitamente basse. L’intero universo inevitabilmente procede verso uno stato più disordinato, disperso e non pianificato.

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Spesso ci ritroviamo a desiderare di mettere ordine nella nostra vita. Quando cerchiamo di farlo, stiamo cercando di abbassare l’entropia della nostra esistenza. Cerchiamo costantemente di farlo. Ogni volta in cui diamo un senso alle cose, in cui cerchiamo segni, collegamenti tra eventi separati. Ogni volta in cui facciamo progetti, pianifichiamo vacanze, consultiamo mappe, ci sposiamo, ci prendiamo una casa nuova. Tutta la nostra vita è un continuo tentativo di lottare contro la naturale entropia delle cose. Ma arriva una malattia, un incidente, un’altra persona. E tutto cambia. Un auto investe e uccide tuo marito e le tue figlie (21 grammi); la tua carriera da modella finisce perché devono amputarti la gamba (Amores Perros); la dogana scopre che sei un’immigrata irregolare e ti ributta fuori dal Paese dove vivi da vent’anni (Babel). Cosa faremo dopo? La Death Trilogy racconta proprio come gli esseri umani reagiscono agli eventi imprevedibili, a quegli accadimenti inaspettati che ridisegnano il percorso. Ma da dove arrivano questi eventi? È Dio a muovere i fili, come crede Jack in 21 grammi? È questione di Destino, come nel film I guardiani del destino? O di Serendipità, come nel film Serendipity? Oppure ancora è il caso a governare tutto, come nel film Match Point? C’è una altro particolare che riguarda gli incidenti dei tre film. In Amores Perros e 21 grammi, l’incidente è qualcosa che non si stava cercando di causare, e quindi arriva in seguito a un errore, a un insuccesso rispetto all’azione che si cercava di portare a termine. In 21 grammi Jack voleva andare alla sua festa di compleanno. In Amores Perros Octavio voleva scappare dagli inseguitori e portare in salvo il suo cane ferito. Ma in Babel, al contrario, il ragazzino voleva riuscire a colpire con il fucile la corriera lontana. Ma lo credeva impossibile, era una scommessa persa. Il ragazzino spara convinto di non farcela. E invece ci riesce. Contro ogni previsione, Yussef vince la scommessa. Quindi in Babel paradossalmente l’incidente nasce da un successo. Questo moltiplica ulteriormente l’imprevedibilità. Perché non possiamo nemmeno sapere se sarà l’insuccesso o il successo rispetto a un nostro scopo, a determinare la nostra vittoria o la nostra sconfitta. Il problema dell’imprevedibilità è che non solo non possiamo sapere quale sarà l’esito delle nostre azioni, ma non sappiamo nemmeno se l’esito che speriamo, sarà quello che davvero dobbiamo sperare. Non possiamo sapere se i passi che facciamo

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per sfuggire a una conseguenza, sono in realtà i passi che ci porteranno verso di essa. In Match Point crediamo che il fatto che l’anello rimbalzi sul muretto e torni indietro invece di cadere nel fiume, sarà ciò che incastrerà il protagonista. Ma il colpo di scena è che invece quell’errore sarà ciò che lo salva. “Dio non gioca a dadi con l’Universo”, affermava Einstein: il fisico non riusciva ad accettare che le leggi che regolano il mondo potessero essere dominate dalla probabilità. E invece, il colpo di scena quantistico è che sembra essere proprio così.

La fine è un nuovo inizio Ma il vero colpo di scena è che la Trilogia della Morte, alla fine, è una trilogia della vita. La morte, sia essa reale o metaforica, è rinascita. La fine è sempre un nuovo inizio. Questo concetto è fondamentale in tutti i film di Iñárritu: il cammino dei suoi personaggi è sempre di rinascita attraverso il dolore e la sofferenza. Il dolore è inevitabile nella vita e le nostre ferite, quello che abbiamo perso, faranno parte di quello che saremo. Per afferrare la felicità dobbiamo aver conosciuto la sofferenza, e per comprendere la vita dobbiamo sapere che un giorno finirà. I protagonisti dei film di Iñárritu vivono tutti un’esperienza di prossimità alla morte, ma alla fine, in qualche modo, si preparano per ricominciare. C’è questa idea forte della vita come divenire. Si parla di cambiamento, di fasi, passaggi di stato. Mai di fine. Octavio, quando alla stazione degli autobus si ritrova da solo, senza più niente, e realizza che Susana non arriverà mai, capisce però qualcosa di sé. Capisce che deve crescere, che non esiste la fuga di fronte alle responsabilità. Che non esistono scorciatoie. Che l’egoismo, la vanità ti rendono solo. Quella fuga che voleva progettare con Susana era una fuga dall’uomo che doveva diventare. Dopo quell’esperienza, e a caro prezzo, Octavio forse diventerà adulto. Anche Yussef, come Octavio, diventa adulto. Ma troppo presto. La tragedia gli ruba l’infanzia. Un’infanzia che forse i bambini come lui non hanno mai davvero avuto la possibilità di vivere. Un bambino con in mano un fucile, è un bambino che è dovuto crescere troppo in fretta. Il prezzo che paga Yussef è troppo alto. Yussef perde il fratello, come

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Octavio, ma Yussef se ne prende totalmente la colpa, alza le mani, va verso la polizia, confessa, chiede che se la prendano solo con lui. Quello di Yussef è senza dubbio il finale con meno speranza di tutta la Trilogia. Non possiamo immaginare come sarà la sua vita. Ma Yussef, senza saperlo, ne ha salvate altre due. Susan e Richard si sono persi da tempo. La morte di uno dei loro figli, a causa di una malattia, li ha distrutti. Ma invece di stringersi attorno a quel lutto, si sono allontanati. Richard se ne è andato per un periodo. Quel viaggio in Marocco è un ultimo tentativo di salvare il matrimonio e la loro famiglia. Hanno altri due figli da crescere. Ma il tentativo non sembra funzionare. Richard dice a Susan che non vuole litigare. Ma Susan cerca proprio lo scontro, gli risponde secca: «Fammi sapere quando ti va». Richard conclude: «Non mi perdonerai mai, vero?». Quel viaggio in Marocco non avrebbe risolto nulla... Se non fosse stato per la pallottola di Yussef. È proprio quella tragedia, quel contatto con la morte, che ricorda alla coppia quanto è profondo il loro amore. Il loro riavvicinamento definitivo avviene in una scena molto forte in cui Richard aiuta Susan, ferita e immobilizzata a terra, a fare pipì in una bacinella. La tiene in braccio, la solleva leggermente, le sfila gli slip, le mette la padella sotto. Un momento di massima cura e di intimità profonda che solo una coppia solida può condividere. Si baciano infatti, proprio in quel momento, con passione, trasporto, lacrime. Lui le chiede perdono, finalmente, e le spiega che dopo la morte del loro piccolo Sammy, era scappato perché aveva avuto paura. In quel momento sappiamo che ce l’hanno fatta. La crisi è finita, non si lasceranno mai più. A salvarli, in fondo, è stato proprio lo sparo di Yussef. Un’altra ragazzina alle prese con una crescita difficile è Chieko. Oltre ai tipici problemi dell’adolescenza, deve combattere con il suicidio della madre, il suo sordomutismo, la difficoltà nel relazionarsi con i coetanei

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e nel costruire un rapporto con il padre. La città caotica per eccellenza, Tokyo, una metropoli piena di suoni, stride profondamente con il silenzio che avvolge Chieko. La scena in discoteca racconta bene questo contrasto: vediamo prima il locale in tutto il suo frastuono e poi stacchiamo sul punto di vista di Chieko, l’audio viene tolto, vediamo solo le luci e le persone che si muovono in modo scomposto. Entriamo nella dimensione di Chieko, che non sente nulla. Comprendiamo la barriera fisica creata dalla sua condizione che la divide dal resto del mondo. Chieko, priva di una guida genitoriale, usa la sfrontatezza sessuale per abbattere questa barriera e superare l’isolamento. Si fa guardare sotto la gonna senza mutande da alcuni ragazzi. Tenta di baciare il dentista mentre le sta curando i denti. Si offre totalmente nuda al detective che la sta interrogando. Ma tutti la respingono, perché è una ragazzina. La sua frustrazione cresce. Alla fine, totalmente disarmata, esplode a piangere tra le braccia del detective. Gli racconta, scrivendo, che sua madre si è uccisa buttandosi dal balcone... Ma quando nella scena successiva il padre parla a sua volta con il detective, davanti l’ascensore, scopriamo che in realtà la madre si è sparata e che è stata proprio Chieko a trovarla. E allora capiamo che forse, buttarsi dal balcone è in realtà quello che vorrebbe fare Chieko. Forse per questo il padre la trova sul terrazzo, ancora nuda. Forse arriva lì un attimo prima che lei si lanci nel vuoto. Quell’abbraccio finale le restituisce suo padre, e le salva la vita. Anche Valeria, come Chieko, è alle prese con una barriera fisica dovuta alla sua stessa condizione. Dopo l’incidente, infatti, Valeria entra in una prigione: il suo corpo. Quel corpo da modella, simbolo di bellezza, fonte di fama e ricchezza, diventa un corpo immobile. Prima la vediamo bloccata nei gessi, nei ferri, nel collare. Poi sulla sedia a rotelle. La ferita, quando il dottore le toglie le garze, è spaventosa. E infine l’amputazione della gamba. La sua nuova casa, che doveva rappresentare la sua nuova vita, si trasforma in un un incubo, un luogo dal quale non può uscire. Il cane, intrappolato sotto al pavimento, è lo specchio della sua tragedia. Valeria non può darsi pace finché Richie è la sotto. L’idea che possa essere divorato vivo dai topi le fa orrore. L’angoscia sale. Quando guardano sotto al pavimento con la torcia elettrica, ormai la situazione ha assunto tinte horror. Forse c’è persino una citazione de La finestra sul cortile, quando vediamo Valeria sulla sedia a rotelle davanti alla finestra con le tapparelle tirate giù.

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La finestra del soggiorno affaccia davanti al grande cartellone pubblicitario con la gigantografia di Valeria. La sua nuova casa affaccia sull’immagine di una vita che sta scomparendo per sempre. Il contrasto tra quella foto e la sua immobilità è insopportabile. Mentre la tragedia si consuma, quell’immagine si allontana anni luce. Dopo l’amputazione della gamba, la Valeria sul cartellone non esiste più. Ma è a questo punto che quella “morte” diventa rinascita. Quando Valeria si affaccia l’ultima volta, assieme a Daniel, il cartellone è stato tolto. Davanti a loro c’è lo spazio vuoto con la scritta “affittasi”. Quello spazio vuoto non è altro che un’enorme pagina bianca. Il futuro è tutto da scrivere. Il rapporto tra lei e Daniel “alla fine” esce rafforzato dalla quella vicenda. Ora possono ricostruire il loro amore su valori più profondi. L’amore è anche ciò che salva Amelia dal suo triste epilogo. È stata rispedita in Messico, senza possibilità di appello. Con un tratto di penna sono stati cancellati vent’anni della sua vita in California. Ma ad aspettarla, dall’altro lato della frontiera, come abbiamo visto, c’è la sua famiglia, suo figlio, le sue origini. Non solo: durante il matrimonio del figlio, scopriamo che lì in Messico c’è un uomo che la corteggia. I due si baciano proprio quella sera. Quando varca di nuovo il confine dopo l’estradizione, sappiamo dunque che c’è un uomo che l’aspetta. Non sarà sola. Dovrà ricominciare da capo, certo. Ma non da sola. El Chivo con la solitudine invece ci si è sposato. Si è fatto vent’anni di galera, per terrorismo. Era un guerrigliero rivoluzionario, guidava un commando chiamato “Le brigate bianche”. Per seguire gli ideali, lascia la cattedra di insegnante, abbandona moglie e figlia piccola. Ma quelle battaglie sono ora lontanissime. El Chivo è un barbone mezzo alcolizzato che uccide su commissione. Al posto dei suoi soldati, ora, a seguirlo c’è un branco di cani randagi e affamati. Non sembra esserci salvezza per El Chivo. La sua condanna è definitiva. Ma quando Cofi sbrana tutti i suoi cani, uccidendoli, scatta qualcosa dentro di lui. Quella carneficina lo risveglia. Sta quasi per uccidere Cofi, per punirlo dell’atto mostruoso, ma poi si ferma. Cofi è un assassino come lui. Ma sono gli uomini che lo hanno trasformato in killer. E «Ogni padrone assomiglia al suo cane». El Chivo piange disperato quelle morti, brucia i cadaveri dei cani, ed è come se bruciasse tutta la sua vita. Dopo quella notte, per la prima volta si ri-

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mette gli occhiali da vista. Aveva smesso di usarli perché preferiva vedere sfocato, preferiva non vedere cosa fosse diventato. Ma ora non può più mentire a se stesso. Quell’evento ha cambiato tutto. El Chivo decide che la violenza e la morte non possono più far parte della sua vita. Risparmia la sua vittima, Luis, gli dice: «Se non fosse per lui, saresti già morto» riferendosi a Cofi, confermando così che il cane è stato l’artefice di quella svolta. Lascia Luis e suo fratello Gustavo, il mandante di quel mancato omicidio, al loro destino. Poi si ripulisce, si taglia capelli e barba, indossa i suoi occhiali rotti e si veste con abiti puliti. Entra di nascosto in casa della figlia, le lascia gran parte dei soldi che gli ha dato Gustavo, e incolla una sua fototessara sulla foto della laurea della figlia. Per sognare di essere stato lì quel giorno, di non essersi perso tutta la sua vita. Poi le lascia un messaggio in segreteria, dove le dice di essere suo padre, di non essere morto come lei crede. Piange tutto il senso di colpa per averla abbandonata, le dice disperato di essere «un fantasma che si ostina a vivere». Ma alla fine, lo vediamo andarsene via pulito, sbarbato, irriconoscibile, verso un futuro incerto ma inondato di una luce nuova. Con accanto il cane che in qualche modo ha cambiato la sua vita. (Nnam: Nero, Negro in lingua spagnola, il nome che El Chivo dà a Cofi, è il soprannome di Iñárritu. Mentre Chivo è il soprannome del suo vecchio amico e direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, che ha firmato fra l’altro la fotografia di Birdman e Revenant). “Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni”. Le parole Albert Camus sono perfette per un altro personaggio che combatte contro il senso di colpa: Jack. Il senso di colpa lo sta uccidendo. Sappiamo fin dall’inizio che è la chiave della sua esistenza. La prima cosa che sentiamo dire da Jack nel film è infatti proprio un discorso sul senso di colpa. Quando esce di prigione, grazie all’avvocato, non sente di meritare la libertà. Alla moglie racconta che una delle bambine prima di morire lo aveva guardato negli occhi «Come se mi volesse dire qualcosa...». Jack non riesce a perdonarsi per essere scappato, per aver lasciato quei corpi lì in terra. Non riesce a darsi pace. Ma non perde la fede, chiede ancora aiuto a Gesù. Ma non può perdonarsi. Non si sente degno nemmeno di stare accanto alla sua famiglia. Decide di andarsene di casa, perché è colpevole, perché è un assassino.

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La sua vittima ancora in vita è Cristina. Suo marito e le sue due figlie sono stati uccisi dal pick up di Jack. Quelle morti entrano in casa di Cristina ancor prima che lei sappia dell’incidente. Quando rientra a casa, chiama ma nessuno risponde: la morte è già lì. Quando ascolta il messaggio lasciato in segretaria dal marito, dove le dice che stanno per arrivare a casa, quella voce viene già dall’oltretomba. Cristina si muove ignara per una casa che è già vuota. Quando raccoglie le cose lasciate in terra dalle figlie, è già sola. Un attimo dopo, infatti, riceve la chiamata dall’ospedale dove le comunicano dell’incidente. Più avanti nel film la vediamo ancora aggirarsi per casa, dopo che marito e figlie sono morti da un po’. La casa è rimasta ferma a quel giorno. Tutto è immobile. Tutto è rimasto com’era. I quaderni dei figli aperti sulla scrivania, i giocattoli in giro, i peluches sul letto, le giacche sugli attaccapanni. Non ha spostato niente. È come se vivesse con dei fantasmi. Quando quel dolore si trasforma in rabbia e odio, Cristina vuole la morte di Jack. E Jack vuole morire per liberarsi dal senso di colpa. Paradossalmente non sono rivali, vogliono entrambi la stessa cosa. È qui che entra in gioco Paul, il tramite tra i due. Paul sta per morire, il suo cuore non regge più. Il nuovo cuore, quello di Mike, gli dà una nuova vita, ma solo momentaneamente. Quel cuore serve a trasformare Paul in un “angelo”. Paul è già morto, dunque, ma grazie a quel cuore può dare un senso alla sua vita prima di andarsene definitivamente. Con la prima morte sarebbe andato via incompiuto. Quando arriva alla seconda morte il suo cammino è compiuto. Quindi persino in questo caso c’è un messaggio finale positivo: la morte ha un senso se porta avanti qualcosa. E Cristina ne è la prova. Non ce l’avrebbe fatta a superare l’immenso lutto, senza il simbolico e potente ritorno del marito nel corpo di Paul. E Jack non avrebbe mai superato il suo senso di colpa, senza il sacrificio di Paul che si spara per porre fine alla lotta insensata tra Jack e Cristina. Nell’ultimo sguardo tra Cristina e Jack c’è la comprensione, e un perdono che sembrava impossibile. Cristina capisce che Jack non è il mostro che aveva immaginato. Ha visto quanto quella colpa lo stesse divorando dall’interno, al punto da portarlo a desiderare la morte. In quello sguardo finale tra Jack e Cristina c’è la salvezza di entrambi. Jack aveva accettato la morte come punizione, Cristina aveva accettato di diventare assassina a sua volta. Ma l’intervento di Paul, con il cuore di Mike, rimette a posto

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le cose. Dopo quello sguardo finale, Jack ha il coraggio di tornare a casa dalla famiglia, di guardarli di nuovo in faccia. Cristina trova finalmente la forza di mettere via le cose dei suoi cari negli scatoloni. Può provare ad andare avanti, smentire quel «La vita non continua» che aveva detto al padre. Perché Cristina è ora incinta di Paul che, prima di morire, ha lasciato dentro di lei una nuova speranza. Nella scena in cui Paul trova la foto di Cristina e suo marito in un libro, il libro in questione è Cruising Paradise di Sam Shepard, una raccolta di 40 storie che parlano non a caso di solitudine e perdita, della condizione umana e delle dissonanze della vita. L’insieme dei racconti presenta un eterogeneo gruppo di personaggi solitari, perdenti, introversi. Il tipo di personaggi che ama raccontare Iñárritu: i suoi “eroi” attraversano sempre un momento buio della vita, ma alla fine del tunnel c’è forse una luce. Lo vediamo nell’immagine finale di 21 grammi, quando nevica sulla piscina vuota: la neve, bianca, pura, scende per ripulire e ridare vita alla piscina morta, simbolo di abbandono e di quello che non c’è più. Quel bianco candido è la luce dopo il buio. Questa speranza, questa neve, avvolge tutti i personaggi della Trilogia. In qualche modo, alla fine, non tutto è perduto. Le dediche dei tre film riassumono perfettamente tutto questo discorso. Nella dedica di Amores Perros, Iñárritu scrive: “Siamo anche quello che abbiamo perso”. Tutti abbiamo perso qualcosa di importante, ma quel qualcosa è ancora con noi e ci rende ciò che siamo. La dedica che Iñárritu fa a sua moglie in 21 grammi dice invece: “Pues cuando ardio la pérdida, reverdecieron sus maizales”, che tradotto più o meno significa: “Quando poi bruciò la perdita, rinverdirono i suoi campi di grano”. E qui ritroviamo quel concetto di trasformazione, rinascita, secondo il quale la fine è un nuovo inizio. La Trilogia si chiude con la dedica di Babel: “Ai miei figli, le luci più splendenti nella notte più oscura”. Come vedremo con il suo film successivo, Biutiful, è proprio il passaggio dai genitori ai figli a eludere la morte, perché continueremo a vivere nei nostri figli.

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Capitolo terzo

Biutiful I have tried to explore different realities in different social classes... At the bottom line, we are human beings, and it doesn’t matter where you are or which god you believe in or which country you live in. A.G. Iñárritu

Biutiful Anno: 2010 Paesi: Messico, Spagna Durata: 148 min

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Trama Uxbal (Javier Bardem) ha due figli, Ana (Hanaa Bouchaib) e Mateo (Guillermo Estrella), dei quali deve occuparsi da solo, non potendo contare sulla ex moglie, Marambra (Maricel Álvarez), tossicodipendente e mentalmente disturbata. I due in qualche modo si amano ancora, ma ricominciare è ormai impossibile. Per mantenere la famiglia Uxbal fa da intermediario tra i cinesi che producono merce contraffatta e gli africani che la vendono per le strade di Barcellona. Uxbal ha anche un macabro dono: può parlare con i morti. Lo usa per arrotondare, facendosi pagare per mettere in comunicazione i defunti con i loro cari. Ma il destino è implacabile con Uxbal: scopre di avere un cancro e poche settimane di vita. Nel tempo che gli resta, cerca di mettere da parte più soldi possibile da lasciare ai figli, e chiudere tutti i conti in sospeso con la vita. Ma i tentativi di rimettere in sesto Marambra, per prepararla ad accudire i figli dopo la sua dipartita, non vanno a buon fine. Nel frattempo, però, stringe rapporti con la moglie di uno dei venditori ambulanti che è stato arrestato e rischia l’estradizione. Uxbal offre ospitalità alla donna e in cambio le fa promettere di prendersi cura dei suoi figli. Prima di morire riesce a mandare finalmente Marambra in riabilitazione, con la speranza che in un futuro prossimo potrà essere la madre di cui i suoi figli hanno bisogno. Uxbal muore una sera, accanto a sua figlia, dopo averle donato l’anello che prima era stato di suo padre.

Regista Vs Sceneggiatore La fine della Death Trilogy segna anche la fine del rapporto tra Iñárritu e lo sceneggiatore Arriaga. La separazione non è pacifica: Arriaga sostiene che i loro film dovrebbero riportare la doppia firma, Iñárritu risponde che chi non si è fatto nemmeno un giorno di set, non può firmare l’opera. Qual è la vera anima di un film? Chi è il suo vero autore? Colui che scrive o colui che dirige? In alcuni casi il problema non si pone, perché sono la stessa persona. Ma una sceneggiatura di per sé è un prodotto non compiuto, non destinato alla fruizione, che esisterà solo in quanto film. Dalla carta si passa alle immagini in movimento e anche questo passaggio è un lavoro di scrittura. Così come lo sarà poi il montaggio. Il film è un’opera collettiva, gli apporti al prodotto finale sono innumerevoli: sceneggiato-

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re, attori, fotografia, tutti i reparti, montaggio, musica… Perciò, il testo che consegna uno sceneggiatore è molto lontano dal prodotto finito. Ma è anche vero che la poetica, il messaggio, l’idea fondante sono già dentro la sceneggiatura. E così, analizzando la filmografia di uno sceneggiatore, possiamo trovare film diversi, girati da registi diversi, che però si riconoscono. Si riconosce l’unità tematica e appunto la poetica, come succede con autori di letteratura. Prendiamo ad esempio Essere John Malkovich di Spyke Jonze e Eternal sunshine of the spotless mind di Michel Gondry (Nnam: il titolo italiano è Se mi lasci ti cancello, ma mi rifiuto di usarlo). Cosa hanno in comune questi due film? È evidente: Charlie Kaufman, lo sceneggiatore. Quando esce un film scritto da Kaufman, non mi importa chi sia il regista: io vado a vedere Kaufman. Poi è chiaro che per girare sceneggiature geniali, ci vogliono registi geniali. La storia del cinema ci porta sia casi di belle sceneggiature rovinate da un regista, sia casi di sceneggiature traballanti che grazie al regista sono diventate bei film. Il grande regista sa carpire l’anima della storia e trasformarla in immagini, senza tradirla e anzi esaltandola. Il grande sceneggiatore, come ogni grande scrittore, sa carpire l’animo umano, sentire il presente e trovare la storia giusta. La conclusione della diatriba la fa lo stesso Iñárritu rispondendo ancora ad Arriaga: se uno sceneggiatore ha questo tipo di problema, deve fare il regista. Il perno attorno al quale ruota il film è per forza di cose il regista: l’unico che segue il progetto in tutte le sue fasi, l’unico che conosce la rotta, che sa dove la nave deve andare e ce la porta tenendo stretto il timone. Ed è anche quello che alla fine si prende la responsabilità dell’eventuale fiasco. Come per i finali dei suoi film, anche la fine della Trilogia è per Iñárritu un nuovo inizio. Per evitare altri problemi, anzitutto, comincia a firmare anche la sceneggiatura. Cosa che farà in tutti i film successivi. Poi chiude con la struttura multilineare, per non avere alcun debito con Arriaga, e sceglie un racconto lineare narrato secondo la cronologia classica che ruota attorno a un solo personaggio. Passare da una struttura multilineare al personaggio unico è stata senza dubbio una grande sfida per Iñárritu. Se per certi versi può sembrare più complesso un film con più storie, per altri versi è più semplice. Perché le singole storie sono più brevi, si maneggiano meglio, e non emer-

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gono subito le eventuali crepe: se in un punto una delle storie rischia di indebolirsi, il montaggio salta a una della altre storie e il film riprende interesse, ritmo. Si possono nascondere errori e “ingannare” il pubblico più facilmente. In un film come Biutiful invece non ci sono scappatoie: se perdi la tensione drammatica, se perdi il protagonista, perdi lo spettatore. Nei film della Trilogia, la trama stessa, le attese e i colpi di scena, guidano il film e trascinano lo spettatore. Gli eventi portano avanti la storia più dei personaggi. In Biutiful invece accade il contrario: la trama è fatta di pochi tratti e a guidare la storia c’è soltanto il personaggio. Ma tutti questi cambiamenti non sono ovviamente frutto di una decisione a tavolino. La scelta strutturale per Iñárritu è sempre, come abbiamo visto, conseguenza della storia che si vuole raccontare: ogni storia ha cioè il suo modo per essere raccontata. Nonostante questi cambiamenti sostanziali, l’uscita dalla Trilogia non è però totale. Iñárritu non abbandona certi temi, né alcuni toni. La morte continua a essere protagonista. Biutiful è un modo di voltare pagina ma senza uno strappo troppo brusco. Una storia di passaggio. Un cuscinetto tra la Trilogia e Birdman, dove Iñárritu si reinventerà totalmente.

Un inno alla vita Iñárritu, parlando del film, ha più volte citato i versi della poesia Del mito, del poeta messicano Jaime Sabines, morto anche lui di cancro: Qualcuno mi ha parlato tutti i giorni della mia vita, in un orecchio, piano, lentamente. Mi diceva: vivi, vivi, vivi! Era la morte. Come abbiamo visto già nei primi tre film, per Iñárritu la morte è solo il punto di vista dal quale guardare la vita. Essere consapevoli della nostra finitezza dovrebbe solo portarci ad apprezzare di più ogni giorno e a non sprecare il nostro tempo. Il film è pervaso dalla morte fin dall’inizio, rappresentata simbolicamente da diverse immagini, prima fra tutte il gufo: nella sequenza tra

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le neve, c’è un gufo morto a terra; l’immagine di un gufo la vediamo sul libro di scuola del figlio di Uxbal; e una statuina di un gufo sta tra gli scaffali a casa di Marambra. Il ragazzo nella neve, che poi scopriremo essere il padre di Uxbal, spiega che quando i gufi muoiono sputano una palla di pelo dal becco: lo stesso aneddoto che sentiamo raccontare dal figlio di Uxbal mentre fa i compiti. Proprio in quel momento Uxbal sta guardando una vecchia foto in bianco e nero, dove c’è suo padre – che lui non ha mai conosciuto – giovane, sulla neve, tra gli alberi: lo stesso luogo dove Uxbal, dopo essere morto, si ricongiungerà con il padre che gli dirà l’aneddoto del gufo. Il gufo è da sempre associato alla morte, all’esoterismo, alla malasorte. In Persia il gufo era l’angelo della morte. In Egitto l’anima che lasciava il corpo era rappresentata da una civetta. Nell’antica Roma era portatore di sventure: si narra che sia la morte di Augusto che di Cesare fossero state preannunciate dal verso di un gufo. Ma il gufo, nel film, simboleggia anche il dono di Uxbal: secondo alcune tradizioni europee il gufo infatti è colui che può transitare tra il regno dei vivi e quello dei morti; per gli Indiani d’America simboleggia la chiaroveggenza; in India ha il potere di scrutare la notte e vedere ciò che per gli altri è invisibile. L’altro simbolo forte, presente per tutto il film, è quello della falena. Anche le falene, secondo alcune tradizioni popolari, possono essere portatrici di avvisi del fato e annunciare la morte. In questo senso, le falene che Uxbal vede aumentare ogni notte sul suo soffitto, prima di andare a dormire, raccontano il suo avvicinarsi alla morte. Secondo altre credenze, le falene rappresentano le anime che non si danno pace, e quindi in questo caso sono anch’esse correlate al potere di Uxbal. Ma la cosa più interessante è che nello sciamanesimo la falena simboleggia la trasformazione e la ricerca della luce. Le falene all’interno del film diventano dunque anche il simbolo di un concetto chiave per Iñárritu: la morte non è mai la fine. Come del resto Uxbal sa bene, dato il suo dialogo con l’aldilà. Bea, la medium confidente di Uxbal, gli dice che deve essere pronto

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per andarsene, che deve sistemare le cose e che gli aspetta un lungo viaggio, ricordandogli proprio che: «La morte non è la fine». Questa idea di trasformazione, passaggio, rinascita, è confermata dai vari riferimenti all’Induismo: in casa di Marambra si possono notare, appesi alle pareti, dei poster raffiguranti personaggi mitologici indù, come Radha, Krishna, Shiva, Ganesha. Nella religione Indù la nascita e la morte non sono altro che momenti di mutamento nell’eterno flusso della vita. “Samsara” è il ciclo delle incarnazioni, è il cerchio della nascita, della morte, della rinascita, della nuova vita e poi ancora della morte, e così all’infinito. In uno dei principali testi sacri, il Bhagavadgītā, si legge: “Come un uomo, smettendo i vestiti usati, ne prende altri nuovi, così l’anima incarnata, smettendo i corpi logori, viene ad assumerne altri nuovi.” Lo scopo unico della vita è la realizzazione del “Sé immortale”. Realizzazione che, per Iñárritu, non è altro che l’eterna staffetta tra genitori e figli. Ecco perché il regista sostiene che: «Biutiful non parla di morte, ma di vita. È un inno alla vita.» Lo è proprio perché ne racconta l’eterno ciclo. Il figlio che sarà padre a sua volta, i suoi figli che saranno genitori. È questo ciclo che ci rende immortali. La vita va avanti, di generazione in generazione. Una catena che non si può spezzare. Uxbal è però nato senza poter conoscere l’anello precedente della sua catena. Suo padre è morto prima che lui nascesse. È come se Uxbal avesse iniziato la sua vita ereditando dal padre la morte. Il suo dono forse deriva proprio da questo. Il suo legame sofferto con la morte nasce proprio dal legame spezzato con il padre. Quando Uxbal, assieme al fratello, è costretto a dissotterrare il corpo del padre per spostarlo, decide che vuole vederlo. Si ritrova così davanti al cadavere del padre imbalsamato: lo guarda, lo tocca, gli sfiora il viso, si commuove. È la prima volta che lo vede e quello è il solo e unico contatto che Uxbal ha da vivo con suo padre.

La città sotterranea Dopo la Città del Messico di Amores Perros, Iñárritu torna a raccontare il caos della metropoli. Stavolta ci porta nella periferia più sudicia e misera di Barcellona, tra muri scalcinati, vicoli sporchi e bidoni della spazzatura. Siamo agli antipodi della Barcellona da cartolina che ci

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mostra Woody Allen in Vicky Cristina Barcellona, dove c’era sempre Bardem come protagonista. La città di Gaudì è lontana e appare solo in qualche incerto frammento, sfumata nella foschia. Al posto della Sagrada Familia ci sono le ciminiere degli inceneritori che sputano nubi tossiche. Sotto la città turistica, fatta di feste, locali, movida, saltimbanchi, scopriamo una città nascosta, sotterranea. Lo squallore, il torbido, il brutto – in contrasto con il “biutiful” del titolo – ci vengono mostrati senza sconti, attraverso immagini fastidiose alla vista: la siringa che buca il braccio di Uxbal per il prelievo; l’urina rossa di sangue che Uxbal pulisce sulla tavoletta del water; il vomito, le incrostazioni dei muri, la muffa sul soffitto, i panni sporchi, i vermi, le formiche. È questo il mondo in cui si muove Uxbal, in una sorta di discesa negli inferi tra le miserie umane. Un luogo di confine tra luce o oscurità, tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra vittime e carnefici. E in questo baratro, anche lui è una figura limite: lo è perché quando scopre che sta per morire, entra in una sorta di limbo nel quale non è ancora morto, ma non si sente più nemmeno vivo. E lo è in quanto intermediario: nei traffici illeciti tra i cinesi e gli africani, nel dialogo tra i defunti e i loro cari rimasti in vita. La prima cosa che vediamo fare da Uxbal dopo la visita in ospedale è andare nella camera mortuaria di in una chiesa, per fare da tramite tra dei bambini appena morti e i loro genitori. Ma poi si fa pagare per il servizio, perché Uxbal è una figura limite anche per le sue contraddizioni: protegge gli immigrati dalla polizia, ma lui stesso poi sfrutta il loro lavoro. Ma in fondo è anche grazie a lui se loro lavorano, e anche se ci guadagna sopra è dalla loro parte: si fa arrestare per difendere uno dei suoi venditori ambulanti che la polizia stava pestando. Poi si sente in colpa perché arrestano quell’immigrato. Prova ad aiutare la moglie dell’uomo portandole dei soldi, la ospita in casa sua. Prova a chiedere aiuto al poliziotto affinché non estradino il marito della donna. Uxbal empatizza con tutta l’umanità miserabile che incontra. Non riesce a non farsi coinvolgere emotivamente. Non sa essere distaccato. Anche per i clandestini cinesi, stipati in uno seminterrato, costretti a lavorare ore ed ore, bambini compresi, vale la stessa contraddizione: Uxbal con i suoi traffici contribuisce allo sfruttamento del loro lavoro, ma allo stesso tempo soffre per loro, cerca di convincere il capo a trattarli meglio. Ma a tirarsi fuori dal giro non ci pensa nemmeno: lo ha sempre

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fatto per la famiglia, e ora che sta per morire deve anzi premere sull’acceleratore. Ma non smette di empatizzare. Per migliorare le condizioni dei cinesi sfruttati gli compra una stufa, ma per risparmiare ne compra una usata e difettosa che poi li ucciderà tutti, soffocandoli nella notte. Uno sterminio involontario che diventa la sua camera a gas. Uxbal entra definitivamente nella zona grigia, dove è vittima e carnefice allo stesso tempo. L’evento lo scuote profondamente, piange, si dispera. La sua amica medium gli consiglia di andare a parlare con i morti e chiedergli perdono, ma quando torna nel seminterrato i cadaveri sono già stati fatti tutti sparire. Non riesce a darsi pace, vuole denunciare l’accaduto alla polizia. Ma poi ancora una contraddizione: per soldi, Uxbal accetta di tacere quando scoppia il caso dopo che i corpi riemergono dal mare. Come le balene spiaggiate che si sono viste in tv nel negozio dove Uxbal stava comprando la stufa, quei cadaveri riaffiorano uno a uno dal mare: il mare simbolo della vita, riporta indietro la morte. Il mare è un elemento ricorrente nel film: all’inizio e alla fine sentiamo il racconto di Uxbal di quando era piccolo e alla radio trasmettevano il rumore delle onde – onde che rivediamo nel dipinto appeso al muro dentro casa – «mi metteva paura il suono del mare quando lo ascoltavo da bambino per tutte le cose che vivono lì sotto e che non conosco…». Il cammino di Uxbal nella sofferenza ricorda in qualche modo quello di Giobbe. Uxbal si carica di tutti i mali intorno a lui, sopporta il dolore, la malattia, la povertà, la violenza e la morte. Si chiede «Perché a me? È un castigo?», così come Giobbe: “Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore.” (Giobbe 16,12-14). Ma Giobbe viene premiato per la sua pazienza e alla fine Dio gli ridona le ricchezze, la salute, moglie e figlie. Per Uxbal invece, nell’inferno di una città dove a regnare sembra essere il male, non c’è Dio a riportare giustizia. Il dolore genera solo altro dolore. E Uxbal muore senza neanche la certezza che i suoi figli staranno bene. Ma alla fine del suo funesto viaggio, Uxbal si ritrova davanti al padre che con la bocca imita proprio il rumore delle onde: quel suono, che da

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bambino gli faceva paura, ora improvvisamente non è più spaventoso. Uxbal sorride al gioco del padre, ed è la prima volta che lo vediamo sorridere in tutto il film. Con quel gioco innocente, il padre accompagna dolcemente il figlio nel momento del passaggio. Non c’è più nulla di cui aver paura. Negli ultimi istanti, Uxbal, seguendo il padre tra la neve, guarda in un punto fuori dall’inquadratura. Noi non vediamo quello che vede. Ma dal suo sguardo sappiamo che, dopo tanta sofferenza, alla fine c’è la pace. La neve era anche l’immagine di chiusura di 21 grammi: anche lì, quel bianco candido rappresentava la purezza, la luce alla fine del tunnel. Non è la morte a vincere, alla fine, ma la vita. Non vince il buio, ma la luce. Questa conclusione mi ha fatto tornare in mente il meraviglioso monologo finale della prima stagione di True Detective. Fuori dall’ospedale, di notte, Rust (Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson) parlano dell’eterna lotta tra la luce e le tenebre. Constatando che il nero del cielo prende molto più spazio delle piccole luci sparse delle stelle, Marty conclude che sta vincendo l’oscurità. Rust dapprima sembra concordare. Ma alla fine ribalta tutto: all’inizio c’era solo l’oscurità. La luce dunque è in ascesa. Perciò, in ultima analisi, è la luce che sta vincendo.

La vecchia quercia Babel si concludeva con una dedica del regista ai suoi due figli. Biutiful invece è dedicato da Iñárritu al padre: “La mia bellissima vecchia quercia”. Biutiful, come abbiamo visto, vuole raccontare il ciclo della vita proprio attraverso il passaggio di testimone tra padri e figli. Bea, la medium, regala a Uxbal due pietre da donare ai suoi figli «quando sarà ora di lasciarli»: serviranno a proteggerli dopo che lui sarà morto. Uxbal dona le pietre ai suoi bambini il giorno del decimo compleanno della figlia più grande: «Questa è una cosa di vostro padre che conserverete.» Capiamo in quel momento che la morte è ormai prossima.

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Quando a Uxbal viene diagnosticato il tumore e scopre di avere poche settimana di vita, il suo primo pensiero va ai figli. Non riesce ad accettare di doverli lasciare da soli, di non potersi più prendere cura di loro. Ha paura per quello che li aspetta. Sa cosa significa crescere senza un padre e l’idea che ai suoi figli toccherà la stessa sorte lo tormenta. L’unico problema che si pone da quel momento è come aiutarli. Uxbal è da sempre un padre responsabile, presente, pur con tutti i limiti che la vita gli ha dato, cerca di non far mancare niente ai suoi bambini. Gli dà tutto quello che ha e che può dargli. Nella scena in cui la figlia mentre fa i compiti chiede a Uxbal come si scrive la parola inglese “beautiful”, lui le risponde: «Così come si pronuncia, biutiful». Dentro l’imperfezione di quell’errore che dà il titolo al film, c’è tutto lo sforzo che un padre fa per i suoi figli, nonostante i suoi limiti. Ma ora Uxbal sa che quello sforzo ha trovato il suo limite ultimo: la morte. Non ci sarà più per loro e ha bisogno di trovare qualcuno a cui affidare il compito. Quando prova a riportare i figli a casa di Marambra, lo fa nel tentativo disperato di ricostruire la famiglia, e per un momento sembra quasi farcela. La scena dove mangiano tutti insieme il gelato è l’unico sprazzo di serenità presente in tutto il film. I due genitori raccontano ai figli di quando si sono conosciuti e sposati. Vediamo per un attimo come sarebbe potuta essere la loro vita, la loro famiglia, senza tutte le difficoltà, senza la povertà, senza i problemi mentali della moglie, senza il tumore che sta per uccidere Uxbal. Quel quadretto familiare è un sogno al quale Uxbal vorrebbe aggrapparsi, per lasciare questo mondo con un’immagine rassicurante di famiglia. Ma è un quadro illusorio, è solo il ricordo di qualcosa che non c’è più, come le foto di famiglia appese al muro della parete di casa di Marambra: Uxbal si sofferma a guardarle, in silenzio, sono ricordi che sembrano lontani anni luce. Immagini di una famiglia che non c’è più, di un amore che non c’è più. Immagini che riecheggiano nel disegno della bambina che vediamo sul frigo, nel quale la piccola ha disegnato la famiglia in vacanza sulla neve, vacanza alla quale

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Uxbal non è potuto andare, come a voler ribadire che lui, loro padre, già non c’è più. L’abbraccio con la figlia, dopo che lei ha capito che sta morendo è straziante. Uxbal le dice: «Ti prego non dimenticarmi». Marambra però non ce la fa, ha problemi anche con la droga, l’acool. Lui riesce a trascinarla in riabilitazione, ma è troppo tardi, non sarà pronta per quando lui sarà morto. Per fortuna, nel frattempo, Uxbal ha trovato un’alleata nella mamma africana che stava cercando di aiutare dopo che il marito era finito in galera. Quella donna potrà occuparsi dei suoi figli, finché Marambra non sarà guarita. Uxbal le lascia tutti i suoi soldi, si fida di lei perché non può fare altrimenti. Paternità e maternità sono rappresentate ovunque nel film: la donna africana che allatta il neonato, la donna orientale che porta il figlio sulle spalle. Nella scena dei cinesi morti asfissiati nel seminterrato, vediamo cadaveri di genitori abbracciati ai figli, morti nel sonno senza spezzare quel legame. Perché è un legame inscindibile: la consapevolezza di essere tutt’uno con la propria prole. E la più grande paura di Uxbal è proprio che la morte possa spezzare questo legame. Ma il film si chiude invece con il ricongiungimento di Uxbal con suo padre, ed proprio questo finale che ci mostra il senso più profondo del film: la morte non sarà la fine di quel legame, perché non si smette mai di essere genitori o figli di qualcuno. Un figlio a sua volta diverrà padre, e questo filo lega gli uomini oltre il tempo e lo spazio. Nella sequenza sulla neve, Uxbal appare più vecchio di suo padre, che è morto molto più giovane di lui. Vede suo padre come un giovane ragazzo che potrebbe essere suo figlio. Ed ecco che allora il ciclo della vita si mostra ancora più potente, e il finale del film ci rivela una cosa importante, ribaltando il punto di vista di tutta la storia. Il film, dopo il prologo con la scena della neve, si apriva con la mano di Uxbal che tiene la mano di sua figlia. La stessa scena che vediamo alla fine e che rappresenta visivamente questo passaggio di padre in figlio. È il momento in cui Uxbal regala alla bambina l’anello di suo padre, il quale lo aveva a sua volta donato alla madre di Uxbal prima di partire per la guerra per non fare più ritorno. Quel dono è l’ultimo atto di Uxbal che muore poco dopo, proprio accanto a sua figlia. La piccola sul letto lo chiama invano, ma lui ormai non può più risponderle, perché è già dall’altra parte, sulla neve, per ritrovare suo padre. Così, le ultime parole che sentiamo nel mondo dei vivi sono quelle di una figlia che dice «papà». E le ultime

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immagini che vediamo sono quelle di un figlio, Uxbal, che ritrova suo padre nell’aldilà. Per tutto il film percepiamo Uxbal come un padre che cerca di prendersi cura dei suoi figli, ma ora lo vediamo come un figlio che ritrova finalmente suo padre. In ultima analisi, dunque, Biutiful parla dell’essere figli, più che dell’essere padri. La dedica finale di Iñárritu, che appare scritta sul nero, è infatti una dedica di un figlio a suo padre. La vecchia quercia.

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Capitolo quarto

Birdman Superheroes represent that vision of humans as flawless and certain and all those things that are a delusional projection of how human beings should be. I’m much more interested in humans, which I find much more dimensional and contradictory and flawed and driven by fears and anxiety, but at the same time, beautiful, pathetic, lovable creatures that I find fascinating. A.G. Iñárritu

Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) Anno: 2014 Paese: USA Durata: 119 min.

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Trama Riggan Thomson (Michael Keaton) è un attore in declino, famoso per aver interpretato il supereroe Birdman, in una trilogia di grande successo. Hollywood non gli ha perdonato di aver rifiutato di interpretare il quarto episodio della saga, e Riggan non è più riuscito a rilanciarsi. Ormai non più giovane, si ritrova pieno di debiti, divorziato e con una figlia, Sam (Emma Stone), appena uscita da uno centro di recupero per tossicodipendenti. Tormentato dall’insuccesso e dal suo ego ferito, che gli parla suadente con la voce e le sembianze di Birdman, Riggan tenta il colpo della vita allestendo uno spettacolo a Broadway, un suo riadattamento di un racconto di Carver. Si ritrova alle prese con un mondo che non gli appartiene, un attore esaltato, Mike (Edward Norton), e una prima attrice insicura e impaurita, Lesley (Naomi Watts). L’unico a farsi in quattro per non farlo naufragrare sembra essere il suo amico e manager Jake (Zach Galifianakis). Ma mentre si avvicina l’esordio sul palcoscenico, tutto sembra precipitare verso la rovina. Riggan non si sente all’altezza del compito che si è dato, gli attori non collaborano, sua figlia lo detesta per non essere mai stato presente nella sua vita, la sua nuova fidanzata, anche lei parte del cast della commedia, lo tormenta. E poi c’è Birdman che, come una coscienza rovesciata, gli continua a parlare suggerendogli di mollare tutto e tornare a vestire i panni del supereroe per cui tutti lo amano. A pochi giorni dal debutto, i dubbi sul proprio talento, le insicurezze come padre e uomo e la paura di fallire lo fanno precipitare in un baratro dal quale sembra impossibile uscire. Le anteprime si rivelano disastrose, e alla vigilia della prima ufficiale, Riggan litiga con la più importante critica teatrale del New York Times, Tabihta Dickinson (Lindsay Duncan), che gli giura che dopo la prima stroncherà il suo spettacolo senza pietà. Riggan non regge la pressione, si ubriaca e passa la notte per strada. Ma quando finalmente va in scena per la prima, tutto sembra andare magnificamente e la sua interpretazione scalda il pubblico. Ma nell’ultima scena, che prevede che il suo personaggio si suicidi per amore, Riggan all’insaputa di tutti usa una pistola vera e si spara in faccia sfasciandosi il naso. Il giorno dopo si risveglia in ospedale e Jake gli mostra l’articolo di Tabhita sul New York Times: un pezzo pieno di entusiastiche lodi. Riggan ce l’ha fatta. Il sacrificio estremo, ai limiti della sanità mentale,

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ha sortito l’effetto sperato. Ora tutti lo adorano e centinaia di fan stanno accendendo dei ceri pregando che si salvi. Rimasto solo nella stanza d’ospedale, Riggan parla di nuovo con Birdman, ma gli dice addio, e l’uomo uccello scompare per sempre. Nell’ultima scena, vediamo Riggan aprire la finestra e arrampicarsi sul cornicione del palazzo. Poi la figlia rientra in stanza e, non vedendolo, corre preoccupata ad affacciarsi dalla finestra ancora aperta. Temendo il peggio guarda subito verso il basso, ma non nota nulla. Poi guarda in alto e sorride.

Senza staccare la penna dal foglio Se Biutiful poteva essere un film di transizione, che manteneva ancora qualche sapore della Trilogia e dalla collaborazione con Arriaga, con Birdman Iñárritu si reinventa totalmente, passando addirittura ai toni della commedia, seppur tormentata. Con il suo quinto film, il regista sostituisce del tutto la complessità della struttura narrativa con la complessità della messa in scena. Stavolta Iñárritu vuole una storia talmente lineare che la racconta disegnando una linea continua, senza staccare mai la penna dal foglio. Una linea unica che attraversa il tempo e lo spazio: il film è infatti montato come un apparente unico piano sequenza, cioè con scene non interrotte da stacchi di montaggio. (Nnam: avevo promesso di non parlare di questione tecniche, ma questo film un po’ lo richiede). Gli attori si avvicendano scena dopo scena, stanza dopo stanza, senza poter sbagliare, recitando sequenze di più di quindici pagine alla volta, proprio come in teatro. Metacinema e metateatro allo stato puro: un film che parla di teatro, girato dentro un vero teatro – il St. James a Broadway, sulla 44esima strada, nel cuore di Time Square – in cui gli attori recitato come se fossero in teatro. Il piano sequenza è dunque perfettamente aderente al racconto. Ancora una volta, come per gli altri film, la scelta tecnica e strutturale non è un esercizio di stile, ma il modo più congeniale per veicolare il senso. Tanto più che il film parla di ego: il piano sequenza con il quale seguiamo Riggan ininterrottamente, ci porta a vedere il film attraverso i suoi occhi, ad entrare dentro di lui, assumiamo totalmente la sua prospettiva. Empatizziamo con il suo ego anche grazie al piano sequenza.

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All’interno di quasi ogni film ci sono scene girate in piano sequenza, più o meno lunghe. Ma girare così un intero film è una scelta in qualche modo folle. E infatti di casi analoghi nella storia del cinema ce ne sono pochi. Nel 1948, Alfred Hitchcock ci regala il suo gioiello Nodo alla gola: anche qui il film appare come un unico piano sequenza, durante il quale vediamo accadere le cose in tempo reale. La tensione, mentre seguiamo il party sapendo che c’è un cadavere dentro il baule, sale alle stelle proprio grazie alla continuità del racconto. Hitchcock nasconde ad arte i soli 11 stacchi presenti nel film. Ma l’impresa più ardita in questo senso è il film Arca russa (2002), di Sokurov: girato con un unico lungo take, in soggettiva. Senza nessuno stacco, né visibile, né nascosto. In una sorta di sogno, attraverso gli occhi di un protagonista che non vediamo mai, entriamo nel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, siamo lì dentro, siamo noi a camminare nel museo. Attraversando le varie sale e i corridoi ci muovono anche tra le epoche della storia russa: Pietro il Grande, Caterina II, gli zar... fino ai visitatori del museo dei giorni nostri. La visita si conclude con una grande festa e una folla di nobili russi che escono fuori dal palazzo. E a quel punto si scopre che il palazzo si trova sospeso sul mare. In Birdman, il lungo apparente piano sequenza che parte dopo la scena iniziale della cometa, è interrotto solo dopo che Riggan si spara, nella sequenza onirica che precede il risveglio in ospedale. Gli stacchi nascosti nel mezzo sono soltanto 16. Iñárritu conosceva bene l’enorme guaio nel quale si stava cacciando con questa scelta. Girare il film in questo modo significava ogni giorno camminare su una fune sospesi nel vuoto. E per comunicare questo concetto, Iñárritu ha spedito a tutti gli attori una foto di Philippe Petit sospeso tra le Torri Gemelle. Petit è il noto funambolo francese che il 7 agosto del 1974 compì l’impresa della sua vita: la traversata delle Twin Towers su un cavo d’acciaio senza alcuna protezione. La sua impresa è raccontata nel film The Walk (2015) di Robert Zemeckis, con Joseph Gordon-Levitt nei panni di Philippe Petit. Iñárritu ha avvertito il suo cast che per tutti i giorni di riprese sarebbero stati un gruppo di funamboli senza rete di protezione: se non puoi cambiare inquadratura, se non puoi coprire gli errori con il montaggio, in un film sei senza protezione. Le parole che il regista ha detto ai suoi attori prima di cominciare, non erano per nulla confortanti: «Siamo un gruppo di elefanti che attraversano le Torri Gemelle su un cavo. Se cadiamo, falliamo».

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La scelta di usare un piano sequenza, imbattendosi nelle mille difficoltà che rappresenta, è dettata dalla volontà di trasmettere il più possibile il senso di realtà. Noi viviamo la nostra vita in piano sequenza. Dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina, fino a quando li chiudiamo, non abbiamo stacchi di montaggio. Macchina a mano, soggettiva e piano sequenza: così vediamo la nostra vita. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che ogni battito di ciglia è in fondo uno stacco di montaggio... Risvolti filosofici a parte, il piano sequenza ha un impatto emotivo diverso sullo spettatore, che si sente totalmente dentro la scena, con i fatti che avvengono in tempo reale. Nelle scene d’azione accade spesso: il piano sequenza del finale del quarto episodio della prima stagione di True Detective, ne è un esempio magistrale. Siamo lì nella sparatoria con Rust, seguiamo ogni suo passo, tratteniamo il respiro per 6 lunghissimi minuti. L’equivalente comico in Birdman lo troviamo nella scena dove Riggan, nel bel mezzo dello spettacolo, rimane chiuso fuori dal teatro. Lo vediamo uscire sul retro a fumarsi una sigaretta, perché in quel momento non è in scena. Poi la porta si chiude, da fuori non può aprirla, prova a bussare ma nessuno lo sente. Decide di fare il giro e rientrare dall’ingresso principale, ma si accorge di avere la vestaglia incastrata nella porta. Allora è costretto a lasciarla lì e attraversare Time Square in mutande: la piazza è come sempre gremita di gente che lo nota e gli fa foto e video. Alla fine Riggan raggiunge il teatro, entra, arriva in platea, il pubblico si volta sorpreso e lui sale sul palco, continuando dalla scena prevista. E tutto questo lo abbiamo seguito senza stacchi. Girare questa scena era difficile anche senza la complicazione del piano sequenza, come ci racconta lo stesso Keaton: «Abbiamo dovuto girare di corsa, quattro ciak al massimo, perché le persone a Times Square non erano comparse, erano persone vere, Times Square non la puoi svuotare. E dovevamo sbrigarci prima che la folla si accorgesse di quello che stavamo facendo. Sarebbero tutti corsi dietro di me e davanti alla cinepresa a salutare e dire: Ciao mamma! Abbiamo allora avuto l’idea di far suonare a qualcuno le percussioni per distrarre la folla. Un depistaggio. Solo allora ho

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cominciato a correre in mutande. Una cosa da teatro sperimentale, alla Living Theatre!» Ma in questo grande gioco d’azzardo, Iñárritu non dimentica le sue origini e anche in Birdman trova un modo di manipolare lo spaziotempo. Lo fa in un modo completamente nuovo, sia rispetto ai suoi primi tre film, sia rispetto all’uso più tradizionale del piano sequenza: la caratteristica del film sta infatti nei piani sequenza che stravolgono il tempo reale. Durante le giornate di prove dello spettacolo, il piano sequenza ci porta senza stacchi dal luogo A al luogo B, ma nel frattempo possono essere trascorse due ore o un giorno intero. Siamo sul palco dove gli attori provano una scena, ci spostiamo dal palco ai camerini, per tornare di nuovo sul palco, dove nel frattempo ci sono gli attori che stanno provando un altra scena, un altro giorno. In questo modo, l’uso del piano sequenza ha il senso opposto dell’uso classico, diventa un diabolico inganno: la mancanza di stacco ci fa credere che siamo in diretta, che stiamo seguendo eventi in tempo reale, ma la scoperta del nuovo set ci svela all’improvviso un passaggio di tempo inaspettato. Un paradosso del tempo. Stiamo viaggiando nel tempo attraverso lo spazio. La teoria della relatività di Einstein avrebbe qualcosa da dirci in proposito. La macchina da presa diventa una macchina del tempo che ribalta il concetto di ellissi cinematografica. Nella ellissi passiamo dal fotogramma A al fotogramma Z, grazie al montaggio, e togliamo tutto l’alfabeto che c’è in mezzo. È l’osso lanciato in aria dalle scimmie di 2001: Odissea nello spazio, che diventa un’astronave in orbita, tanto per citare una delle più grandi ellissi della storia del cinema. O semplicemente qualcuno che citofona e nel fotogramma successivo è già dentro casa. In Birdman invece la macchina da presa ci guida senza interruzioni da A a B, poi a C e a D, ma d’un tratto ci ritroviamo a L, quando invece saremmo dovuto essere a E, visto che non ci sono stati stacchi. Il passaggio è dunque impossibile, secondo la grammatica cinematografica. Iñárritu fa con il tempo gli stessi paradossali giochi che Escher fa con lo spazio. Le scale di Escher sono impossibili da percorrere, eppure sono rappresentabili. Lo stesso avviene con le ellissi senza stacchi in Birdman. Sono impossibili eppure rappresentabili. Un esempio molto poetico in questo senso, lo troviamo nel film di Ettore Scola Che strano chiamarsi Federico: in un suggestivo piano sequenza, seguiamo il narratore che dalla redazione del Marc’Aurelio passa attraverso il set cinematografico,

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svelandolo, per poi tornare nel film, in una scena successiva, dove il giovane Fellini è seduto al bar. In quei due minuti, cambiano luogo, tempo, passiamo dal bianco e nero al colore, dalla fiction al documentario, dal cinema al metacinema. Tutto senza stacchi. Ma ci sono anche altre alterazioni temporali in Birdman. Come ad esempio l’accelerazione del tempo su un fermo immagine: una scena si chiude sull’inquadratura di un grattacielo, la macchina da presa resta ferma alcuni istanti, e nel frattempo passiamo rapidamente dalla notte al giorno. Artificio questo certamente non nuovo al cinema, ma inserito nel percorso senza sosta di Birdman, acquista qualcosa di nuovo. Quando la macchina da presa riprende la sua corsa e scende dal grattacielo per tornare a terra, è come aver viaggiato nello spazio alla velocità della luce: quei secondi sospesi sul grattacielo corrispondo a ore tra le strade di Broadway.

Keaton sta a Batman come Riggan sta a Birdman La scelta di Michael Keaton per il ruolo di Riggan Thomson è geniale quanto il film. Già Tim Burton fece bingo scommettendo su Keaton quando lo volle per Batman. Molti, prima che uscisse il film, criticarono la scelta: Keaton era un attore per lo più comico, e i fan avevano paura che ridicolizzasse l’Uomo Pipistrello. L’opinione diffusa era che ci volesse un duro per quel ruolo. Ma Burton usò il pensiero laterale. Sapeva che la vera sfida era trovare un attore che vestito da pipistrello fosse credibile. Un duro alla Bruce Willis non avrebbe sostenuto il ridicolo intrinseco di quel costume. Un attore alternativo, vicino alla commedia poteva invece essere paradossalmente preso sul serio, vestito in quel modo. Intuizione corretta, scommessa vinta: Batman fu record di incassi per molti anni. Al primo ne seguì un secondo e Keaton nel mondo divenne Batman. Ma quando rifiutò di fare il terzo, Hollywood non glielo perdonò. Se analizziamo la sua filmografia, nonostante bei film, non c’è stato più nulla di minimamente paragonabile a quel successo. Che è esattamente quello che è accaduto a Riggan con Birdman. Il gioco degli specchi è minuzioso: la maschera di Birdman ricorda quella di Batman, entrambi i supereroi iniziano con la B, Birdman è un uomo uccello, Batman un uomo pipistrello. Nella scena della conferenza stampa, Riggan dice che non interpreta Birdman dal 1992, lo stesso anno del secondo e ultimo Batman interpretato da Keaton.

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Insomma, la proporzione è perfetta: Keaton sta a Batman come Riggan sta a Birdman. La rivalsa di Riggan è anche la rivalsa di Keaton. Per questo Keaton è così credibile nel ruolo e la sua interpretazione è stata così raffinata da fargli conquistare la prima nomination agli oscar della sua carriera. Così come l’interpretazione di Riggan ha spinto la più importante critica del New York Times a scrivere un elogio sul suo spettacolo. L’intera scelta del cast ha a che fare con il mondo dei supereroi: Edward Norton è Bruce Banner ne L’incredibile Hulk, Emma Stone è Gwen Stacy in The Amazing Spider-Man. I riferimenti al mondo dei supereroi sono ovunque nel film. All’inizio, quando Riggan ipotizza dei nomi come possibili sostituti dell’attore infortunato, Jake gli dice che sono tutti non disponibili perché impegnati in qualche saga come gli XMan o gli Avengers. Oppure in camerino in tv stanno parlando di Iron Man, e Birdman dice a Riggan che sono loro l’originale, il primo vero supereroe: «L’uomo di latta non vale nulla a confronto, eppure sta facendo milioni a palate.» Un uomo in costume da Iron Man si vede anche nella scena onirica prima del risveglio di Riggan in ospedale, dove vediamo anche qualcuno vestito da Spider-Man. E ancora, quando Riggan sta per lanciarsi nel suo volo immaginario dal tetto, si nota sullo sfondo una locandina del film L’uomo d’acciaio. Il mondo dei supereroi è raccontato come una specie di incubo ricorrente, una voragine che divora tutto. Sembra ci sia spazio solo per i supereroi ormai. Dietro al dilagare del cinema supereroistico potrebbe nascondersi il bisogno inconscio di rinnegare l’essere umano, patetico, piccolo, noioso. Oppure gli uomini sono ormai così gretti, meschini, xenofobi e razzisti, che si preferisce vedere all’opera i portatori di quei pochi valori positivi rimasti. O forse semplicemente i supereroi ci piacciono perché ci fanno sentire bambini. L’opinione che Iñárritu ha su questo genere di super film è messa in bocca a Mike che, parlando con Riggan, li chiama senza mezzi termini «genocidio culturale». Per Iñárritu il cinema dei supereroi è soltanto una macchina da soldi, che non ha niente a che fare con l’indagine sull’esistenza che il cinema dovrebbe portare avanti, una dimostrazione chiara che alla profondità dell’essere si preferisce ormai la superficialità dell’apparire: «Questi film sono basati su un’ideologia falsa ed equivoca: parlano di gente ricca che fa del bene ed

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uccide i cattivi. Sono prodotti terribilmente vuoti, non ti lasciano nulla». Al superuomo Birdman, Iñárritu contrappone le debolezze e il fallimento di Riggan, che ha tutti i difetti del mondo ma almeno è un essere umano reale. Agli effetti speciali, al digitale, ai mega budget, Iñárritu decide di contrapporre l’autenticità del teatro, un mezzo di espressione totalmente “analogico”, senza filtri, senza schermi. Le emozioni e i sentimenti degli attori sul palco si mescolano senza soluzione di continuità con quelle della vita reale. Creando un cortocircuito continuo. Così come non capiamo dove finisce la realtà di Riggan e comincia la sua immaginazione, allo stesso tempo non capiamo dove finisce la vita reale e comincia la recita, quando i personaggi indossano la maschera e quando se la tolgono, quando fingono e quando sono se stessi. Mike confessa: «Non fingo quando sono in scena. Fingo in tutti gli altri posti tranne lì». Quindi ammette di essere se stesso solo nella finzione della recitazione, mentre è nel resto della sua vita che indossa una maschera. Il tema della maschera è presente per tutto il film, perché il supereroe e anche e soprattutto una maschera. Una citazione ricorrente nel film è infatti la maschera del Fantasma dell’Opera, precursore in un certo senso di supereroi come Batman: la doppia identità, il tormento, le abilità fisiche, il saper apparire e scomparire tra botole e passaggi segreti. Lo spettacolo The Phantom of the Opera è in cartellone proprio nel teatro di fronte a quello dove va in scena Riggan. Lo vediamo perfettamente nella scena in cui Mike è sul terrazzo con Sam. E per tutto il film vediamo locandine e pubblicità con la maschera del Fantasma. L’apparizione più suggestiva della maschera è nel riflesso delle porte a vetro del teatro di Riggan, quasi come un presagio della morte che lo aspetta una volta entrato. Il tema della maschera ci rivela che Iñárritu, pur odiando i supereroi, in fondo non dimentica che dietro molti di loro c’è un uomo tormentato: dietro il Fantasma c’è Erik, dietro Batman c’è Bruce Wayne e dietro Birdman c’è Riggan. A proposito della maschera di Birdman, un’ultima curiosità: c’è stato davvero un supereroe chiamato così. Un cartoon della fine degli anni 60, Birdman and the galaxy trio, dove Birdman era appunto un supereroe capace di volare, che prendeva il suo potere dal sole, e combatteva aiutato dalla sua fedele aquila di nome Eagle. Il personaggio fu poi ripreso in uno spin off nel 2000, fino al 2007, nel cartoon

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Harvey Birdman, Attorney at Law dove il supereroe ormai giunto alla terza età, diventa un avvocato. È improbabile che in qualche modo questo supereroe semi sconosciuto abbia ispirato il Birdman di Iñárritu. Tuttavia, ritroviamo delle singolari risonanze. Harvey Birdman, ormai finito come supereroe, cerca di rilanciarsi e rimettersi in gioco laureandosi in legge e diventando avvocato. Proprio come Riggan Thomson, dopo aver chiuso con i film da botteghino, cerca di rilanciarsi come attore impegnato. Il rilancio dell’ex supereroe funziona e la serie Harvey Birdman, Attorney at Law dura il doppio dell’originale. Così come funziona il rilancio di Riggan. E quello di Keaton.

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore Nel caso aveste ancora dubbi sul fatto che a Iñárritu piaccia Godard, i titoli di testa di Birdman, con le lettere rosse che appaiono una alla volta fino a formare le parole, sono di nuovo un omaggio al cineasta francese: troviamo lo stesso identico stile nei titoli del film Il bandito delle 11, del 1965. Quando le lettere cominciano poi a scomparire una a una, le ultime che restano formano la parola “amor”: Iñárritu ci rivela così, prima ancora di iniziare, la parola chiave del film. Pensando che a qualcuno potesse sfuggire questo giochino, ribadisce il tema alla fine dei titoli di testa, facendo apparire le parole di una poesia di Raymond Carver – parole che sono scolpite anche sulla lapide dello stesso Carver –, Late Fragment, Ultimi frammenti: E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra.

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Per fugare ogni altro possibile dubbio, il racconto di Carver che Riggan riadatta e mette in scena si intitola Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Amore, dunque. Come nel testo di Carver, la ricerca dell’amore, in tutte le sue declinazioni, è il filo conduttore di Birdman. Molte delle opere di Carver parlano di persone perse e confuse durante questa ricerca. Personaggi sperduti che tentano di combattere il vuoto e la perdita, mentre attendono qualcosa che considerano catastrofe. Nelle 17 storie che compongono Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, si incontrano cameriere, autisti, commesse, venditori ambulanti, fornai, personaggi chiusi dentro casa, riuniti intorno al tavolo di una cucina, intrappolati in una quotidianità che non lascia via d’uscita. Per questi disperati “eroi”, l’unica consolazione è spesso la tv o una bottiglia di whisky. L’ansia del quotidiano costringe i personaggi di Carver a volare sempre basso, a non avere ambizioni e limitarsi a pensare a come mettere il cibo in tavola e pagare l’affitto. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta assistiamo a un confronto tra due coppie che si chiedono cosa sia l’amore. Ogni personaggio dice la sua, ma ogni volta per gli altri non è quello l’amore. Ma di cosa parla Riggan quando parla d’amore? La ex moglie, quando discutono del perché si sono lasciati, lo accusa: «Tu hai sempre confuso l’amore con l’ammirazione.» L’amore dunque per Riggan coincide con il riconoscimento e con l’accettazione. Riggan vuole rilanciare la sua carriera, vuole riavvicinarsi alla figlia, vuole farcela come uomo e come artista. Ma più di tutto, o dietro tutto, vuole essere amato. I suoi dialoghi con il suo alter ego Birdman, parlano sempre di questo. Riggan vorrebbe essere amato per quello che sente di essere veramente. Vorrebbe che tutti lo vedessero come si vede lui. Birdman dà voce al suo rancore, alla sua frustrazione, al suo sentirsi sottovalutato, alla sua voglia di riscatto. Ma Birdman è anche colui dal quale ora Riggan cerca di prendere le distanze. Non vuole essere amato solo perché è stato Birdman, ma allo stesso tempo non accetta di essere sottostimato, proprio perché lui è stato ed è Birdman. Quando litiga con la figlia, lei spietata gli dice: «Tu stai facendo questo perché hai una paura dannata, come tutti quanti noi, di non contare niente! E la sai una cosa? Hai ragione: non conti! Tu non sei importante! Facci

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l’abitudine!». Dopo queste parole Riggan resta solo, immagina di nuovo di usare i suoi poteri telecinetici e fa ruotare un portasigarette. Riggan vorrebbe che il mondo vedesse quello di cui è davvero capace. Sente di avere un talento nascosto, e se solo il mondo lo potesse vedere, sarebbe amato come un eroe. Per tutto il film Riggan cerca di capire cos’è l’amore e come essere amato. La coincidenza con i temi trattati dal racconto di Carver è forte. E poco alla volta si trasforma nel personaggio che sta interpretando, e le parole che dice nella scena finale della commedia teatrale sono parole che vorrebbe dire nella sua vita reale. Nella scena in questione, il personaggio interpretato da Riggan entra in casa con la pistola e trova la donna che ama a letto con il personaggio interpretato da Mike. È distrutto dal dolore di non essere lui quello amato: «Perché le persone non si degnano di amarmi?». Si dispera perché non si accetta per quello che è: «Passo ogni ora a sognare di essere qualcun altro, qualcuno che non sia io, chiunque...». E alla fine realizza che se non sarà mai amato, di fatto non esiste. Ripete: «Io non esisto, non esisto…». E si spara. Ma la sovrapposizione tra Riggan e il suo personaggio è tale che, la sera della prima, usa una pistola vera e si spara davvero. Perché a quel punto è Riggan stesso che realizza di non essere capace di farsi amare e che, dunque, non esiste. Mike a un certo punto chiede a Riggan come mai abbia scelto di mettere in scena proprio Carver. Per un tipo come Riggan, che non appartiene al teatro, allestire una commedia tratta da un racconto di Carver è in effetti una sfida estremamente difficile, decisamente fuori portata. Riggan gli risponde raccontando un aneddoto fondamentale: durante una recita scolastica, Raymond Carver era tra il pubblico, e alla fine dello spettacolo gli aveva lasciato una dedica su un tovagliolino con scritto: “Grazie per la tua onesta rappresentazione”. Quel tovagliolino lo tiene sempre con sé perché è proprio grazie a Carver che ha deciso di fare l’attore. Tutta la sua vita si è basata su quello e ora su quello si basa la sua ultima chance. Questo spettacolo per Riggan significa tutto, significa ricongiungersi con il giovane pieno di speranze, puro che non si era ancora venduto a Hollyowood. Significa tornare in contatto con i propri sogni. E questo cos’è, se non un atto d’amore?

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Ma cos’è l’amore per Iñárritu? Nei suoi film praticamente non esistono coppie felici, le famiglie sono disfunzionali e le storie che sembrano funzionare vengono distrutte dal destino. In Amores Perros Ramiro maltratta sua moglie e il fratello Octavio prova a portargliela via, ma alla fine lei scarica Octavio e Ramiro muore. El Chivo ha abbandonato la sua famiglia per fare il guerrigliero e sua figlia lo crede ormai morto. Daniel lascia sua moglie per Valeria, ma poi quando Valeria perde la gamba, pensa quasi di tornare dalla ex moglie. In 21 grammi, Paul e Mary non si amano più e si riavvicinano solo perché Paul sta per morire, ma nel frattempo Paul vuole Cristina. Lei una famiglia felice ce l’aveva, marito e due figlie, ma sono tutti morti sotto il furgone di Jack che a sua volta, per il senso di colpa, abbandona la sua famiglia. In Babel Richard e Susan si sono persi dopo la morte di uno dei loro figli e non sanno più come riavvicinarsi. Chieko ha perso la madre che si è suicidata, e il padre non sa come comunicare con lei. In Biutiful Uxbal è separato da Marambra perché tossica e malata di mente, e mentre cerca di tirare su i figli da solo, lei va pure a letto con il cognato. Birdman ovviamente non smentisce questo schema: Riggan è divorziato, non ha un rapporto decente con la figlia e sta mettendo in scena un personaggio che si suicida perché non riesce a farsi amare. E non dimentichiamo che nel suo corto Anna, di cui abbiamo parlato all’inizio, il film che stanno dando al cinema è Il disprezzo di Godard, un racconto esemplare della deflagrazione di una coppia. Quindi, di cosa parla Iñárritu quando parla d’amore?

La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio Riggan racconta alla ex moglie che durante un volo, sul suo stesso aereo c’era Goerge Clooney. A un certo punto era arrivata una perturbazione e il pensiero di Riggan era stato: «Se l’aereo cade, il giorno dopo sulla prima pagina ci sarà Clooney e non io». Poi fa l’esempio di Farrah Fawcett che è morta lo stesso identico giorno di Michael Jackson (Nnam: 25 giugno 2009), e la sua morte è stata completamente eclissata dalla pop star. La fama è senza dubbio una delle ragioni di vita di Riggan. Proprio perché dietro alla fama c’è il riconoscimento, uno dei bisogni fondamentali del personaggio. E di molti esseri umani. Per tutto il tempo Birdman, che dà voce allo smisurato ego di Riggan, cerca di convincerlo

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che è ancora grande, che può ancora essere famoso, ricco, rispettato, tornando a vestire i panni di Birdman, tornando a fare blockbuster al cinema, invece di perdere tempo con la filosofia e il teatro: «Come siamo finiti qui? Questo posto è orribile. Non apparteniamo a questo luogo.», sono le prime parole che sentiamo dire da Birdman a Riggan. Più avanti quest’ultimo confesserà alla moglie: «Ho una voce in testa che mi parla a volte. E mi dice la verità. È confortante.» Ma Mike è caustico sull’argomento e, da raffinato e apprezzato attore di teatro, spiega a Riggan che «la popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio»: diventare famosi senza aver fatto qualcosa di autentico, non ha alcun valore. Essere famosi per aver fatto Birdman non dà alcun prestigio reale. Il film contiene dunque un atto di accusa contro la logica spietata dello show business. Ma anche contro la superficialità della società dei like, delle visualizzazioni, dei social network. Sam al padre spiega che se oggi non è su facebook, non è nessuno: «Odi i blogger, ti fa schifo twitter, non sei neanche su facebook. È pazzesco! Sei tu quello che non esiste». Posto, dunque sono: è questa la generazione di Sam, quella generazione che scopre di esistere attraverso i selfie. I social network sono il mondo della fama per forza, della fama per tutti. Grazie a youtube, twitter, tutti sono ormai delle potenziali star. Su facebook tutti sono famosi, tutti sono paparazzati e i segreti di tutti vengono svelati quotidianamente. Il gossip su facebook smette di essere esclusiva delle star del cinema e della musica e diventa una cosa di tutti. Su facebook le persone si sentono come se fossero sulle riviste che leggono dal parrucchiere: possono far vedere a tutti il nuovo taglio di capelli, far sapere che dieta stanno seguendo, dove vanno in vacanza e con chi si sono appena fidanzati. Grazie ai social network tutti possono mettere in scena la propria vita quotidianamente. Ma cosa ha portato davvero nelle nostre relazioni tutto ciò? Sembra questa la domanda che si pone Iñárritu attraverso il film. Una domanda

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simile se la pone il consulente scientifico interpretato da Matthew McConaughey nel film Contact: «La tecnologia ha fatto di noi una società migliore? Ci ha avvicinati o ci ha separati?» È reale quello che succede su facebook o è tutto il contrario del reale? La società del wireless rischia di diventare una società senza contatto, dove il “senza fili” sembra voler dire che non ci sono più fili che ci congiungono realmente. E la rete che sembra unirci, invece ci separa. A tutto questo Iñárritu contrappone il contatto forte, obbligato, spinoso e analogico di una compagnia teatrale. Mike grida al pubblico dell’anteprima: «Non siate patetici. Smettetela di guardare il mondo attraverso lo schermo dei vostri cellulari. Fate un’esperienza vera!»

Don Chisciotte nei labirinti di Borges «Riggan è profondamente umano. Lo vedo come una sorta di Don Chisciotte, con l’umorismo che nasce dalla discrepanza permanente tra le sue ambizioni grandiose e la realtà mediocre che lo circonda. Fondamentalmente, è la storia di tutti noi»: sono parole di Iñárritu. Questo parallelo tra Riggan Thomson e Don Chisciotte mi ha aperto un mondo. La storia di Alonso Quijano la conosciamo tutti: profondamente appassionato di romanzi cavallereschi, si lascia condizionare dalle letture fino al punto di convincersi di essere chiamato a diventare un cavaliere errante. Si mette quindi in viaggio, come gli eroi dei romanzi, per difendere i più deboli e riparare i torti. Alonso diventa così il cavaliere Don Chisciotte della Mancia con accanto il suo fedele scudiero Sancho Panza. La sua visionaria ostinazione lo porta però ad alterare la realtà e vedere cose che non esistono: scambia i mulini a vento per giganti dalle braccia rotanti, greggi di pecore per eserciti, burattini per demoni. Combatte questi nemici immaginari finendo sempre irrimediabilmente sconfitto, suscitando l’ilarità delle persone che assistono alle sue folli gesta. Le somiglianze ci sono. Anzitutto Riggan vede la realtà distorta dalle sue convinzioni. Crede di avere dei superpoteri, così come Don Chisciotte crede di avere dei super nemici. Si sentono entrambi chiamati a una missione superiore. In Birdman poi tutto avviene in una dimensione onirica: l’immaginazione di Riggan, il piano sequenza, la batteria martellante in sottofondo, aiutano a far percepire il film come un lungo e

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surreale sogno a occhi aperti, dove la differenza tra volare e credere di volare è inesistente. Il film ha una vena comica ma allo stesso tempo epica: la preparazione dello spettacolo diventa per Riggan un’epopea, dove tutto sembra andare di male in peggio. L’unico alleato sembra essere il suo fedele “scudiero” e manager Jake. Riggan combatte contro le avversità: all’inizio il riflettore cade e mette ko il suo attore, costringendolo a cercare un sostituto a pochi giorni dal debutto. Lotta con il suo alter ego Birdman, con sua figlia, con la ex moglie. Si scontra con i suoi attori: la prima attrice in preda al panico; l’altra attrice, la sua nuova fidanzata, che lo soffoca. E Mike: nella scena in cui si incontrano la prima volta, il loro dialogo serrato è un vero e proprio duello, i due si studiano, si annusano, sferrano colpi. La tensione tra loro sale per tutto il film e i due contendenti arrivano ai pugni. E poi c’è il “mostro finale”: Tabitha Dickinson, la temuta critica teatrale, che dichiara apertamente a Riggan di voler uccidere il suo spettacolo a colpi di penna, mettendo fine per sempre alla sua carriera. Anche negli intenti il film ha delle connessioni con il romanzo: Cervantes dichiara nel Prologo di voler ridicolizzare, tramite il personaggio di Don Chisciotte, i libri di cavalleria e il mondo medievale. In Spagna, la letteratura cavalleresca importata dalla Francia aveva avuto nel Cinquecento grande successo, dando luogo al fenomeno dei “lettori impazziti”. Cervantes cerca di risvegliare questi lettori, combattendo l’esaltazione esasperata di quegli eroi immaginari e inesistenti. Allo stesso modo, Iñárritu ridicolizza il cinema supereroistico tramite il personaggio di Birdman, cerca di risvegliare il pubblico, combatte l’esaltazione di quei supereroi inesistenti e lontani dalla realtà umana. Ma non è finita. L’accostamento tra Riggan Thomson e Don Chisciotte va molto più in profondità. Dietro la comicità del Don Chisciotte c’è un

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tema complesso. Il folle cavaliere incarna un problema di fondo dell’esistenza: la dicotomia tra la realtà e la nostra percezione della realtà. Sullo specchio del camerino di Riggan c’è un foglio con sopra scritta la frase: Non ideas about the thing, but the thing itself. È il titolo di una poesia di Wallace Stevens, contenuta nella raccolta The Collected Poems, dove Stevens affronta più volte il tema dell’interazione tra la realtà e la mente. All’inizio della fine dell’inverno, in marzo, un grido roco dall’aperto gli sembrò come un suono nella mente. Sapeva di averlo sentito, un grido di uccello, alla luce del giorno o già prima, nel vento di marzo appena all’inizio. Il sole si levava alle sei, non più uno stanco panaché sulla neve… Sarebbe uscito all’aperto. Non dal vasto ventriloquio di cartapesta sbiadita del sonno… il sole sarebbe venuto all’aperto. Il grido roco era un corista il cui do anticipi il coro. Era parte del colosso del sole, avvolto nei suoi cerchi corali, ancora molto lontano. Era come una nuova conoscenza del reale. Come suggerisce già il titolo, Non idee sulla cosa, ma la cosa in sé, questa poesia indaga proprio il confine tra la realtà e la nostra interpretazione della realtà. Il protagonista della poesia, al momento del risveglio, con il sole che sorge, sente un grido. Quel grido lo riporta gradualmente a contatto con il mondo circostante. In un primo momento, non è in grado di distinguere chiaramente la realtà dalla sua immaginazione, non sa dire se il grido degli uccelli e la luce del sole siano reali o semplicemente una continuazione del suo sogno. Ma presto arriva a carpire la linea di demarcazione che separa la realtà dal rifugio confortante della sua mente. Arriva così a un risveglio pieno, che è “una nuova conoscenza del reale”.

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Non idee sulla cosa, ma la cosa in sé. L’essenza della cosa. Platone ne parla in termini di Idea che si contrappone all’opinione intesa come esperienza sensibile, la doxa, che non dà alcuna certezza. L’idea platonica è l’“essere che veramente è”, l’intima natura, la struttura essenziale dell’essere, senza cui l’essere non esiste. Attraverso i sensi possiamo cogliere solo le forme fisiche delle cose, ma è con “l’anima intellettiva” che arriviamo a cogliere le forme pure, prive di ogni elemento materiale. Per Aristotele l’essenza, ti en einai, indica “ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa”. Ma la cosa, l’oggetto, antikeimènon, è il concetto razionale: con la mente siamo in grado di rappresentarci l’oggetto anche in assenza di esso, quindi la mente contiene l’oggetto in sé. Con Tommaso d’Aquino e la scolastica medievale, l’antikeimènon, l’oggetto come contenuto di un atto razionale, diventa ciò che viene preso in considerazione da un’attività intellettuale o sensoriale, una realtà esterna che entra nell’ambito intellettuale e percettivo. Per Cartesio, l’unica cosa di cui si può appurare l’esistenza, di cui non si può dubitare, è il proprio pensiero: cogito ergo sum. Divide dunque la realtà in res cogitans, la realtà psichica, e res extensa, la realtà fisica: ciò di cui non posso essere certo. Tra soggetto e oggetto c’è dunque l’idea: non si conoscono direttamente le cose, ma le nostre idee sulle cose. L’immaterialismo di Berkeley afferma che nulla esiste al di fuori della mente. Secondo Berkley non esiste il mondo, la materia, ma solo la sua percezione. Le cose non sono altro che idee che si rendono percepibili all’uomo per volere di Dio. Quando noi pensiamo di percepire una cosa, in realtà percepiamo un’idea della cosa. Esse est percipi: essere significa essere percepito. Ma percepire non ci autorizza a dire che qualcosa esista davvero. Non esistono oggetti corporei, ma soltanto collezioni di idee: la realtà non è altro che una serie di idee che esistono solo quando vengono percepite. Secondo Kant non possiamo conoscere la realtà in sé, ma soltanto come essa appare alla nostra percezione, il fenomeno. Inoltre poiché non possiamo mai uscire dal nostro pensiero, non abbiamo modo di confrontare la rappresentazione della realtà che creiamo attraverso il pensiero, il noumeno, con la realtà in sé, indipendente da noi. Dunque la cosa in sé è per definizione inconoscibile. Hegel cerca di ricucire lo strappo: «tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale». La razionalità si deve confrontare con

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la realtà per essere vera e la realtà è ciò che viene definito dalla razionalità. Il soggetto è colui che può relazionarsi con l’oggetto, e l’oggetto è tale perché un soggetto lo prende in considerazione. Tra soggetto e oggetto dunque non c’è più contrapposizione, bensì complementarità. Ma un albero che cade nella foresta, fa rumore anche se non c’è nessuno a sentirlo? Schopenhauer riduce l’oggetto alla rappresentazione che ne hanno i singoli soggetti: all’eventuale sparizione di tutti i soggetti, corrisponde la fine dell’esistenza come rappresentazione: non c’è oggetto senza soggetto. Ma allora quante realtà esistono? C’è un mondo per ogni essere pensante? Perché se è il sentire che determina la realtà, nessun sentire è dunque oggettivo. La fisica quantistica oggi ci dice che la realtà non esiste finché non la osserviamo ed è intrinsecamente legata alla modalità di osservazione. Un oggetto manifesta la sua proprietà non appena la misuriamo. Finché non apriamo la scatola, il gatto di Schrödinger è contemporaneamente vivo e morto. Se un albero cade in una foresta quantistica e nessuno lo sente, non solo non fa rumore, ma neppure esiste. E allora, Riggan Thomson ha davvero i superpoteri o crede di averli? E c’è davvero differenza tra le due cose? “Noi abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto”. Sono parole di Borges, secondo il quale l’uomo non è in grado di capire l’essenza del mondo, ma può coglierne soltanto il carattere allucinatorio, ingannato dalla sua stessa razionalità. E dunque, in fondo, non siamo tutti come Riggan/Chisciotte intrappolati nella nostra allucinazione? Riggan Thomson lo è senza dubbio: il back stage del teatro, con i corridoi stretti, i saliscendi, le scalette, i soppalchi, è un labirinto dal quale non riesce a uscire. Come Jack Torrance nel labirinto di Shining: non a caso la moquette del corridoio appena fuori dal camerino di Riggan ha lo stesso identico pattern esagonale della moquette usata nei corridoi dell’Overlook Hotel. E, sempre non a caso, il libro che Mike sta leggendo nella scena della lampada solare è Labyrinths di Borges. (Nnam: una raccolta di racconti

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che corrisponde quasi totalmente alla raccolta Finzioni edita in Italia.) Attraverso il concetto di labirinto, Borges denuncia l’intelligibilità del mondo: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini”. La struttura tortuosa del labirinto confonde la ragione, fa perdere l’orientamento, rendendo completamente inutile la bussola della razionalità umana: “Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’universo già lo è.”. Ogni tentativo di Riggan di uscire dal labirinto ha esito negativo. Qualunque sia la strada percorsa, alla fine si ritrova sempre al punto di partenza, il palcoscenico. Anche quando resta chiuso fuori e attraversa Time Square in mutande, alla fine si ritrova di nuovo al centro del labirinto, su quel palcoscenico, dove è costretto ad affrontare se stesso. Perché quello spettacolo è la sua stessa vita, e dalla propria vita non si può sfuggire. Ed è questo che vuole intendere Riggan quando a Sam dice: «Questo spettacolo sembra essere una versione miniaturizzata e deformata di me stesso che continua a tormentarmi». Questo gioco di metacinema-metateatro, di scatole cinesi, dove vediamo un film in cui un attore mette in scena uno spettacolo tratto a sua volta da un racconto, mi ha fatto venire in mente il film Synedoche, New york di Charlie Kaufman con Philip Seymour Hoffman. Lì il protagonista, Caden Cotard, doveva mettere in scena lo spettacolo della sua vita, quello che sarebbe stato il suo capolavoro; ma finisce per mettere in scena la sua stessa vita, incastrandosi in un progetto senza fine, senza via d’uscita, appunto. Comincia a fare il casting, cerca un attore che interpreti se stesso, poi attori che assumano il ruolo delle persone della sua vita: la ex moglie, i figli. Mette in piedi un set enorme che riproduce, leggermente in scala, il quartiere dove ha vissuto, la sua casa… Poi comincia le prove ma, proprio come succede nella vita, non ne viene mai a capo, non c’è una spiegazione per tutto, non c’è un senso nascosto… A un certo punto, per essere fedele alla sua biografia, anche il personaggio che lo interpreta decide di mettere in scena uno spettacolo sulla sua vita, così costruisce in una scala ancora un po’ più piccola, il quartiere dove ha vissuto, la casa... Comincia a fare il casting, trova l’attore che farà se stesso. Così nel film ci ritroviamo con il Caden originale, un attore che lo interpreta sulla scena, e un altro attore che interpreta colui che lo interpreta sulla scena. Un meccanismo diabolico del quale perde il controllo, così come si perde il controllo della propria vita. Non c’è via d’uscita,

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la messa in scena coincide con la vita stessa, e le prove dello spettacolo finiscono solo con la morte del protagonista. Ecco dunque scoperta la via d’uscita dalla propria vita: la morte. Ancora le parole di Borges: “Ossessivamente sogno di un labirinto piccolo, pulito, al cui centro c’è un’anfora che ho quasi toccato con le mani, che ho visto con i miei occhi, ma le strade erano così contorte, così confuse, che una cosa mi apparve chiara: sarei morto prima di arrivarci.” Così come per Caden Cotard, così come per Jack Torrance, per Riggan Thomson l’unica via d’uscita dal labirinto sembra essere la morte. Su quel palco, alla fine, Riggan si ritrova alla resa dei conti con il mondo e con se stesso, e l’unico modo per uscire da quella trappola-labirinto-finzione è inserire un elemento reale, una pistola che spara davvero. Proprio come ogni supereroe, Riggan è pronto al sacrificio estremo. Ma alla fine del film Riggan esce davvero dal labirinto?

Come finisce Birdman? La sera prima dello spettacolo, Riggan, ubriaco e distrutto si allontana da un negozio di liquori, e sente la voce di un povero pazzo che recita sul marciapiedi il Macbeth, atto V, scena V: Domani, e domani, e domani, striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all’ultima sillaba del tempo stabilito; e tutti i nostri ieri hanno illuminato ai folli la via verso la polverosa morte. Via, via, fugace candela! La vita non è che un’ombra errante; un povero attore, che si agita e pavoneggia per un’ora sulla scena, e poi non se ne sa più niente: è una storiella raccontata da un idiota, piena di chiasso e furore, che non significa nulla. Un presagio di morte che accompagna Riggan proprio nella notte precedente al debutto. Ma muore realmente Riggan alla fine del film? Muore perché si butta di sotto in ospedale? O muore quando si spara in scena? Torniamo un attimo a Don Chisciotte. Sappiamo come muore lui: “Il mio intelletto è ora libero e chiaro senza le ombre caliginose dell’i-

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gnoranza, in cui l’aveva avvolto la continua e detestabile lettura dei libri di cavalleria. Io riconosco ora le stravaganze e i loro inganni, e mi duole soltanto d’essermene accorto troppo tardi, poiché non mi resta più tempo di compensare il mio fallo con la lettura d’altri libri che possano illuminarmi l’anima. Vorrei morire in modo da far capire che la mia vita non è stata tanto cattiva da meritarmi la reputazione di pazzo: perché sebbene lo sia stato, non vorrei confermare questa verità con la mia morte”. Don Chisciotte muore dunque rinnegando se stesso, togliendosi il costume da cavaliere: “Rallegratevi con me, signori miei, perché io non sono più Don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Chisciano”. Un finale che non andava proprio giù a Nietzsche, che trovava questa morte “insignificante”, in quanto rappresentazione della negazione di se stessi, svuotamento del senso della vita. Dunque anche Riggan muore smentendo se stesso. Con quello sparo si toglie definitivamente il costume di Birdman, guarisce dalla sua pazzia e quindi muore. In effetti Don Chisciotte muore proprio dopo essere guarito. Appena torna nella normalità, nella sanità mentale, muore. Si crea così il paradosso di una vita che andava avanti fintanto che durava la malattia, e una morte che sopraggiunge appena torna la salute. In ospedale Riggan trova Birdman seduto sul water e lo congeda senza appello: «Ciao e vaffanculo». Dopodiché Birdman sparisce. Dunque Riggan è guarito e subito dopo arriva la morte con il tuffo dal balcone. Si ripete dunque lo stesso paradosso di Don Chisciotte... Però, perché Riggan dovrebbe suicidarsi proprio quando tutto è andato per il verso giusto? Ha ottenuto il favore della critica e del pubblico, sua figlia lo ama di nuovo, Birdman è stato sconfitto. I conti non tornano. Subito dopo quel tuffo nel vuoto, arriva Sam, guarda in basso e non vede nulla, dunque non si è buttato; poi guarda in alto e sorride: vede il padre volare. Scartando l’ipotesi che Riggan abbia realmente i super poteri, smentita con attenzione per tutto il film, la scena della figlia è dunque l’ultima allucinazione di Riggan: mentre si butta di sotto si immagina che la figlia lo veda volare, cioè che finalmente lo veda come lui vuole che lo veda... Però, finora le sue allucinazioni avevano sempre lui come protagonista. Perché alla fine, la sua allucinazione non lo comprende più e vediamo invece la figlia? I conti continuano a non tornare.

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Riggan è morto su quel palco. Quello sparo lo ha ucciso davvero, dal labirinto non è mai uscito vivo. Tutto quello che vediamo dopo quello sparo è la sua ultima allucinazione. Dopo lo sparo in effetti c’è l’unica interruzione del lungo piano sequenza, se escludiamo quella iniziale con la cometa, che però sta prima che il piano sequenza cominci: vediamo la cometa che sta per arrivare sulla terra, delle immagini oniriche e poi le meduse morte. (Nnam: un fotogramma con le meduse morte sulla spiaggia, quasi impercettibile, lo vediamo in realtà anche alla fine dei titoli di coda, subito dopo la sparizione dell’ultima lettera rossa.). La cometa è la parabola di Riggan: crede di volare, ma invece sta precipitando, e da stella del cinema finisce schiantato a terra. Le meduse morte, spiaggiate, rappresentano allora proprio la fine del volo. Dunque, quello che vediamo dopo le meduse, cioè tutta la sequenza in ospedale, non è reale... Però, finora abbiamo visto sempre allucinazioni legate al poter fare cose straordinarie, come la telecinesi o il volo. Perché ora la sua allucinazione dovrebbe essere un sogno realistico? Niente, i conti proprio non vogliono tornare. Riggan, poco prima di salire sul palco per la scena finale, rivela alla moglie un episodio passato, in cui aveva cercato di suicidarsi in mare, ma si era ritrovato circondato dalle meduse: una di queste lo aveva toccato, e per il bruciore era tornato di corsa a riva. Grazie alle meduse, dunque, non era riuscito a suicidarsi. Ora, questa confessione fatta poco prima di spararsi, mostra che Riggan aveva davvero in mente di uccidersi in scena: è l’unico modo che il supereroe abbia trovato per evitare che il suo spettacolo venisse distrutto dal cattivo, Tabitha Dickinson. Anche stavolta però, come la volta in mare, Riggan non riesce a uccidersi. Quindi la scena delle meduse racconta proprio questo parallelo e la sua incapacità di uccidersi. Lo sparo ha quindi in realtà ucciso solo Birdman. Perciò il finale è un volo liberatorio immaginato, che è l’ultima allucinazione di Riggan. Il sorriso finale della figlia sta a indicare che finalmente lei lo vede per quello che è. Lo ama per ciò

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che è. Riggan ha quindi ottenuto quello che ci viene detto all’inizio del film, con le parole di Carver: potersi dire amato. E allora, quando Sam si affaccia dalla finestra vede semplicemente gli stessi stormi di uccelli che stava guardando suo padre. È a quello che sorride. Il suo sguardo così bello e sincero, semplicemente significa la riconciliazione tra una figlia e suo padre... Però, lo sparo che gli deturpa il volto, regala a Riggan un profilo molto simile a quello di Birdman. Prima lo vediamo con le garze mediche che sembrano proprio la maschera di Birdman, poi quando se le toglie, il suo naso gonfio e sfigurato ricorda proprio il becco dell’Uomo Uccello. E di nuovo i conti non tornano. Riggan in realtà è diventato Birdman a tutti gli effetti. Non lo ha ucciso, ma anzi lo ha accolto. Ha accettato se stesso, ha ottenuto l’altra cosa che voleva ardentemente, l’accettazione. Si ama finalmente per quello che è: Birdman. E allora, il tentato suicidio sul palcoscenico significa che Riggan ha rinunciato alla verità e ha preferito ricorrere al sensazionalismo. Riggan ha avuto paura del risultato che avrebbe ottenuto cercando onestamente di fare del suo meglio, così ha dato alla stampa l’unica cosa che poteva salvarlo: l’ennesima menzogna. Birdman ha vinto. Il video di Riggan in mutande a Time Square fa milioni di visualizzazioni, i fan accendono ceri fuori dall’ospedale affinché guarisca. E quando esce dalla finestra, si sta semplicemente arrampicando sul cornicione, magari per cercare un altro momento sensazionalistico... Però, allora perché la figlia sorride? È contenta che suo padre sia il solito buffone? E ci risiamo: i conti non tornano. Possiamo rigirarci il finale come ci pare. Non tornano mai. Come tutto il film, anche il finale sembra essere un labirinto senza uscita. Forse la domanda da porsi non è se Riggan sia morto o no, ma perché Iñárritu non ce lo mostra esplicitamente. Se fa questa scelta, una ragione c’è. Se voleva che pensassimo che stesse volando o immaginando di volare, o se voleva che lo vedessimo schiantarsi a terra, semplicemente ce lo avrebbe mostrato. Cosa significa non mostrarlo? Gli autori del film non hanno voluto dare una versione univoca, insistendo sul fatto che il finale è bello proprio perché aperto. Emmanuel Lubezki, il direttore della fotografia, ha dichiarato: «Adoro l’ambiguità delle immagini nei lavori di Alejandro. Non avete idea di quanta gente mi chieda se alla

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fine lui muore o no. Io semplicemente adoro queste immagini che sono poetica pura. È un approccio alla narrazione che ti tocca, ti emoziona, e ciò è molto più importante di spiegare alla lettera le cose.». Uno degli sceneggiatori, Alexander Dinelaris, ha rivelato invece che l’idea originale per il finale era un’altra. Un finale più satirico. Riggan si spara sul palco, il pubblico è in delirio, standing ovation. Poi, sempre continuando il piano sequenza, saremmo andati avanti nel tempo, ritrovando di nuovo sul palco Riggan con Jake a leggere la recensione osannante. Ma da lì, ancora con il piano sequenza, la macchina da presa avrebbe camminato nei corridoi del backstage per tornare in camerino, dove avremmo trovato Johnny Depp con dietro il poster de I Pirati dei Caraibi 5. Poi avremmo sentito la voce di Jack Sparrow dirgli: «Come siamo finiti qui?», cioè le prime parole che all’inizio del film Birdman dice a Riggan. Ma questo finale non è mai stato girato, sia perché non c’era la disponibilità di Depp, sia perché nel frattempo a Iñárritu, come lui stesso ha dichiarato, è arrivato in sogno il finale attuale... Ma quindi come finisce Birdman? Finisce che i conti non tornano. Come è giusto che sia: non si può cercare una logica ferrea in un film che per tutto il tempo crea un cortocircuito tra reale e immaginario, e che per di più ha un finale “arrivato di sogno”. E allora io, per spiegarmi la fine di Birdman, ricorro di nuovo alla fisica quantistica e al gatto di Schrödinger: Riggan Thomson è contemporaneamente vivo e morto.

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Capitolo quinto

Revenant I think that in order to be a film director, one has to be a warrior who shouldn’t be defeated by the daily onslaught of problems. We are all hanging by threads and are the mercy of various elements, if one fails the whole flight could come crashing down, and like a good warrior I’m not going to break down. A.G. Iñárritu

The Revenant Anno: 2015 Paese: USA Durata: 156 min

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Trama Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) è un esploratore e un trapper esperto. Ha un figlio adolescente, Hawk (Forrest Goodluck), avuto con una donna Pawnee che è stata uccisa durante un attacco dei soldati americani al loro villaggio indiano. Nel 1823, Glass viene assunto come guida dal Capitano Henry (Domhnall Gleeson) per una battuta di caccia alla ricerca di pelli nel Sud Dakota. Ma il gruppo subisce un duro attacco da parte degli Indiani Ree e, i pochi sopravvissuti, tra cui il figlio di Glass, sono costretti a fuggire con un barca lungo il fiume. Temendo che gli indiani siano ancora sulle loro tracce e che in quella situazione possano facilmente accerchiarli, decidono di abbandonare la barca, nascondere le pelli salvate, e proseguire a piedi. Glass ha ora il compito di trovare una via sicura per tornare al Forte. Ma lungo il tragitto viene attaccato da una femmina di Grizzly che temeva per i suoi cuccioli. Glass riesce a uccidere l’orso e restare vivo, ma riporta ferite quasi mortali. Quando il gruppo lo ritrova, a tutti sembra ormai spacciato. Provano a trasportarlo per qualche giorno con una barella improvvisata, ma tra le nevi diventa impossibile e quel peso rischia di mettere in pericolo tutti. Il Capitano Henry decide allora di lasciarlo alla custodia del figlio Hawk, del giovane Bridger (Will Poulter) e del cacciatore Fitzgerald (Tom Hardy): l’ordine è di assisterlo fino alla morte per poi dargli degna sepoltura. Fitzgerald, interessato solo alla ricompensa in denaro promessagli dal Capitano, temendo per la sua stessa vita, decide di liberarsi di Glass senza aspettare. Approfittando dell’assenza di Hawk e Bridger, prima prova a istigare Glass al suicidio, infine cerca di soffocarlo. Proprio in quel momento sopraggiunge Hawk che riesce a fermarlo, ma viene accoltellato e ucciso davanti agli occhi del padre. Fitzgerald nasconde il cadavere del ragazzo e fa credere a Bridger che sia scomparso. Per convincerlo poi ad andarsene e lasciare lì Glass, ormai spacciato, inventa di aver visto degli indiani Ree nei dintorni. I due gettano Glass in una fossa, lo ricoprono con la terra e se ne vanno. È qui che parte la grande avventura di Glass. Ancora vivo, riesce a riemergere dalla fossa, trova il cadavere del figlio, gli giura vendetta e intraprende un viaggio epico attraverso le nevi, tra ferite atroci, scarsità di cibo, freddo insostenibile. Trecento chilometri attraverso il selvaggio

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West. Sfugge alle forze della natura, sfugge agli indiani Ree. In fin di vita, viene curato e sfamato da un indiano Pawnee che sta cercando di ricongiungersi con la sua tribù. Si imbatte poi in un gruppo di cacciatori francesi che aveva rapito la figlia del capo indiano Ree. Salva la donna indiana, uccide alcuni di loro e ruba un cavallo per proseguire il suo cammino. Nel frattempo, uno dei francesi trova rifugio nel forte dove stazionano i compagni di Glass. Bridger nota però che l’uomo ha con sé la borraccia che lui stesso aveva lasciato a Glass prima di abbandonarlo. Bridger racconta tutto al Capitano Henry che si convince che Glass sia ancora vivo, manda un gruppo di uomini alla sua ricerca e, finalmente, riescono a rintracciarlo e riportarlo al forte. Glass scagiona Bridger dalle accuse di tradimento e abbandono, dando l’intera colpa a Fitzgerald che, nel frattempo, è scappato dal forte svaligiando la cassaforte del Capitano. Glass e il Capitano Henry partono allora alla ricerca di Fitzgerald. I due si dividono per provare ad accerchiarlo, ma Henry viene ucciso. Glass riesce poi a ferire Fitzgerald e tra i due inizia una feroce lotta corpo a corpo. Glass ha la meglio e si trova a un passo dal compiere la sua vendetta. Ma all’ultimo momento decide di non ucciderlo con le proprie mani e lo lascia in balia di un gruppo di indiani Ree. Il capo indiano sgozza Fitzgerald e gli toglie lo scalpo, ma risparmia Glass, perché la figlia riconosce in lui l’uomo che l’ha salvata dai rapitori francesi. Il film si chiude con un primo piano di Glass, senza più forze, con la rabbia e la sete di vendetta che sembrano finalmente abbandonarlo. E la visione della moglie come unico conforto.

Un’impresa epica Revenant non soltanto racconta un’impresa epica, ma lo è a sua volta. Tra ostinazione e difficoltà crescenti, girare il film è stata una continua sfida contro la natura. Una produzione sfiancate che si è trascinata per circa nove mesi, in condizioni climatiche insostenibili, fino a 25 gradi sotto zero. Il freddo, la fatica e i continui imprevisti hanno fatto slittare le riprese, hanno portato a malumori, litigi, sfoghi, allontanamenti dal set, licenziamenti, abbandoni. Il piano di lavorazione somigliava piuttosto a un piano di battaglia, alcuni hanno definito il set un inferno, altri hanno confessato che avrebbero preferito scalare l’Everest. E in effetti, Di

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Caprio paragona il film proprio a una scalata «un vero e proprio attacco alla vetta dove l’aria è molto rarefatta». L’allungamento delle riprese e l’arrivo anticipato del caldo hanno costretto inoltre a chiudere il set di Alberta, in Canada, e riaprirlo cinque mesi dopo in Argentina, a Ushuaia, dove nel frattempo era arrivato l’inverno. Tutte queste cose hanno fatto lievitare il budget dai 60 milioni di dollari iniziali ai 135 finali. Iñárritu ha incarnato la filosofia del frontiersman, guidando una troupe di esploratori verso terre sconosciute. La volontà di riprendere panorami incontaminati ha costretto tutti a lunghi e faticosi spostamenti, verso luoghi sperduti e innevati, raggiungibili solo a piedi. Per poi magari girare anche meno di due ore: la volontà di avere con la natura un dialogo il più diretto possibile, ha portato infatti alla decisione fondamentale di girare usando esclusivamente la luce naturale, per quel piccolo lasso di tempo giornaliero che il sole consentiva. La notte era invece illuminata solo dai reali falò agitati dal vento, che vediamo nel film. Iñárritu, il direttore della fotografia Lubezki, Di Caprio, il resto del cast, l’intera troupe hanno creato così un legame viscerale con quell’ambiente che cercavano di restituire con la macchina da presa. Se dunque il film è di un realismo così sorprendente, è proprio perché il difficile rapporto tra l’uomo e la natura è stato vissuto in prima persona da coloro che lo stavano raccontando. Attori e troupe si sono davvero dovuti adattare alla natura, a quello che offriva, agli elementi, ai cambiamenti climatici, avvicinando la propria esperienza a quella degli uomini dell’epoca. L’autunno e l’inverno trasformavano il paesaggio e conseguentemente le persone, gli attori anzitutto, e questo ha reso possibile trasmettere davvero il viaggio fisico ed emotivo intrapreso da Glass. Come ha spiegato Iñárritu: «Se ci fossimo limitati al green screen accompagnato da un bel caffè e un po’ di divertimento, tutti sarebbero stati felici, ma probabilmente il film sarebbe stato una merda». Chi ha tratto maggior giovamento da tutto ciò, da un punto di vista espressivo, sono naturalmente gli attori, che sentivano davvero freddo, che erano davvero stanchi, che respiravano davvero a fatica. Per complicare ulteriormente le cose, gran parte del film è stato girato in sequenza cronologica, una scelta che comporta maggiori sforzi produttivi anche in condizioni normali. Ma che ha il vantaggio di rendere ancora più autentica l’interpretazione. E così l’odissea del protagonista diventa reale, e la

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sofferenza, il dolore, la fatica, il deterioramento diventano palpabili. Al realismo della natura corrisponde il realismo della prova fisica: le prove estreme alle quali si è sottoposto Leonardo di Caprio hanno pochi precedenti nella storia del cinema. Dustin Hoffman frequentò le stesse gelide aree di Revenant, sul set di Piccolo grande uomo, e per farsi venire una voce roca reale, urlò a squarciagola per un ora chiuso nel suo camerino. Robert Redford patì il freddo nel rigido inverno dello Utah, durante le riprese di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, e non usò controfigure per nessuna scena. Sul set ci furono persino casi di polmonite. Ma Di Caprio si è spinto oltre, tanto che delle sue gesta si è parlato perfino di più che del film in sé. L’impresa di Di Caprio diverrà forse leggendaria, tra verità ed esagerazione, come quella di Glass. Si è tenuto per mesi una barba incolta e sudicia. Doveva alzarsi ogni giorno molto prima dell’alba e passare più di quattro ore al trucco. È stato ricoperto da formiche vere. Ha mangiato fegato crudo di bisonte, perché quello finto non era visivamente credibile e perché Iñárritu voleva registrare l’espressione reale di disgusto al momento dell’assaggio. Ha camminato nella neve con addosso una pelliccia di 45 chili. È stato spesso a rischio di ipotermia, per colpa delle molte ore al freddo e delle acque gelide nelle quali doveva immergersi. Ha patito il freddo ogni singolo giorno, con le mani sempre gelate: l’unica salvezza era un sifone mobile di aria calda, con dei tubi che permettevano di riscaldarle. Lo chiamavano “il polipo”. Ma le basse temperature lo hanno comunque fatto più volte ammalare. Febbre, tosse. E Di Caprio, invece di fermarsi, ha sfruttato ogni malanno per rendere ancora più realistica l’interpretazione. Infine, ovviamente, ha dovuto simulare l’attacco del Grizzly: una scena che è già entrata nella storia del cinema, per una crudezza e un realismo che non si erano mai visti. Un piano sequenza che toglie il respiro. Sebbene l’orsa fosse uno stuntman con una tuta blu, trasformato poi in Grizzly al computer, Di Caprio aveva attaccati

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dei cavi che lo strattonavano da una parte e dall’altra. Tutte le volte in cui viene preso, sbattuto, spinto nel fango, lanciato e sballottato sono vere. E la scena, essendo una piano sequenza, è stata rigirata per intero moltissime volte, prima di raggiungere la perfezione finale. Come ha spiegato lo stesso Iñárritu, «chiunque può fare un film, ma riuscire a farne uno buono è dichiarare una guerra all’ultimo sangue, soprattutto a se stessi.». La guerra è stata vinta e l’impresa è pienamente riuscita. Revenant è un film che ha dentro molte cose: c’è una battaglia iniziale tra cacciatori e indiani che ha lo stesso impatto dello sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan; c’è la natura bellissima e minacciosa di Fitzcarraldo e l’alone mistico e sinistro di Apocalypse Now – come è evidente nella sequenza/citazione della barca lungo il fiume –, nonché le stesse tribolazioni produttive di entrambi i film. C’è un protagonista solo e sperduto come in Cast Away. E una fotografia unica e irripetibile come in Barry Lyndon. (Nnam: con Revenant, Birdman e Gravity, Lubezki è il primo direttore della fotografia a vincere tre Oscar consecutivi).

La conquista del West Nel 1803, gli Stati Uniti d’America erano delimitati a ovest dal Mississipi. Era quella la frontiera. E al di qua del fiume, gli americani erano di fatto ancora europei. Thomas Jefferson, l’allora terzo presidente degli Stati Uniti, grande fautore dell’espansione verso ovest, acquistò la grande Colonia della Louisiana dalla Francia, alla quale era stata appena ceduta dalla Spagna. D’un colpo, il territorio degli Usa raddoppiò e il nuovo confine era ora delimitato dalle Montagne Rocciose. Lo stesso anno, Jefferson finanziò la prima spedizione ufficiale verso il pacifico, quella di Meriwether Lewis e William Clark, per studiare i territori inesplorati e gettare le basi per una futura ulteriore espansione. Nel frattempo, però, sulla vasta area appena acquisita c’erano già cacciatori, esploratori, mountain man, mercenari, nonché i Nativi Americani, reali proprietari delle terre, mai consultati durante queste fantomatiche compravendite tra Spagna, Francia e Usa. Gli Stati Uniti perciò dovettero ricomprare via via le terre dai reali proprietari. Oppure, con quelli che non erano d’accordo, usare le armi: è così che cominciarono le guerre tra americani e indiani durante la conquista del West.

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Il West divenne presto un’ideale e la frontiera un mito: un territorio ancora da scoprire, un mondo da costruire, dove tutto era possibile e si poteva essere liberi. Le nuove opportunità, specialmente di sfruttamento economico, spinsero numerosi esploratori sempre più a ovest alla ricerca di terre da coltivare, pellicce, oro. Fu questo movimento, questo mito, a creare il carattere americano: è questa la “tesi della frontiera” dello storico Frederick Jackson Turner, datata 1893. I pionieri attraversavano la frontiera in continuo movimento, e questo creò anzitutto l’ideale di libertà. Ma il territorio che incontravano apriva continue nuove sfide, diverse da quelle europee. L’adattamento al nuovo ambiente selvaggio coincise con una progressiva “americanizzazione”, cioè la formazione del tipico cittadino americano, colui che era in grado di domare il contesto selvaggio, acquisendo sempre più forza e individualità. Ogni generazione, spostandosi sempre più verso ovest, scontrandosi con la natura, combattendo contro i Nativi, diventava sempre più violenta, individualista, diffidente verso l’autorità e intollerante nei confronti del vecchio modello europeo. La Chiesa, le aristocrazie, le istituzioni, la tendenza intrusiva dei governi, i vecchi criteri di distribuzione delle terre divennero sempre più obsoleti. Più si andava verso ovest, più si diventava americani. Miglio dopo miglio, con fatica e sudore, con la forza di volontà e quella delle armi, la conquista del West coincideva con la conquista dell’identità di un’intera nazione. E questo spiega forse anche il grande successo del football americano, che è in fondo una rievocazione continua di quella lotta, di quella conquista metro dopo metro, per arrivare alla meta. Solo che tra gli americani e la meta, c’erano di mezzo i pellerossa, i Nativi Americani, cioè i popoli indigeni che abitavano il continente prima della colonizzazione europea. Molti studi sembrano aver stabilito che in realtà si trattava di popolazioni asiatiche giunte lì attraverso flussi migratori avvenuti tra 16mila e 12mila anni fa, passando per la Beringia, una lingua di terra che univa l’Eurasia all’America, oggi lo stretto di Bering. Ciò significa che non ci sono “nativi” americani in senso stretto: tutti gli scheletri umani ritrovati in America sono infatti attribuibili a esseri umani biologicamente moderni. Ma la sostanza non cambia il fatto principale: le terre conquistate avevano già dei proprietari, e quando si tratta di territori, come la storia umana ci ha ben insegnato, si tratta di guerre. Furono molte le tribù che provarono a ribellarsi all’espansione americana a ovest del

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Mississipi: i più tenaci e feroci furono i Sioux e i Cheyenne a nord, gli Apache e i Comanche a sud-ovest. Le guerre indiane si protrassero quasi ininterrottamente fino al 1890, anno dell’uccisione di Toro Seduto, del massacro di Wounded Knee e della dichiarazione ufficiale della “chiusura della frontiera”: perché non c’era più una linea a ovest da superare. Ma quella che viene identificata come la prima vera battaglia tra esercito statunitense e indiani, negli anni della conquista del West, è proprio quella contro gli indiani Arikara – chiamati anche Ree – del 1823, che vediamo nei primi minuti di Revenant. Tutto ebbe inizio quando un impiegato di una compagnia commerciale uccise il figlio di un capo Ree. La rabbia si unì alla paura già diffusa di perdere le proprie terre e la conseguenza fu una reazione furiosa: gli Arikara attaccarono una spedizione di trapper mentre navigava lungo il fiume Missouri, uccidendo almeno una dozzina di cacciatori. Ed è proprio quell’attacco che vediamo in apertura del film. L’imboscata non restò impunita: il colonnello Leavenworth scagliò 900 uomini contro i villaggi Arikara, e solo dopo giorni di battaglia venne concordata una tregua. Gli altri indiani che vediamo nel film sono i Pawnee, la tribù con la quale il vero Glass pare abbia vissuto per un po’, dopo essere stato prima catturato e poi aver convinto il capo a non farsi uccidere. I Pawnee erano già comparsi in un altro grande film, Balla coi lupi, dove vengono mostrati come particolarmente cattivi. In realtà i Pawnee non fecero mai guerra agli Stati Uniti e anzi accettarono i vari trattati proposti dai bianchi, cosa che li portò rapidamente a perdere terre, identità e autonomia. Nel film, Iñárritu immagina anche che tra loro Glass abbia trovato moglie e avuto un figlio: una licenza poetica che serviva a fare di Glass un frontiersman più “progressista”. I frontiersman – trapper, mountain man – furono tra i primi esploratori del selvaggio west e servirono spesso come guide per gli ufficiali dell’esercito. Erano cacciatori attivi tra le montagne del nord America, in particolare le Montagne Rocciose. La parola trapper si riferisce alla pratica del trapping, cioè cacciare animali selvatici ponendo delle trappole. (Nnam: in Italia il termine trapper si è diffuso dagli anni sessanta, grazie al successo del fumetto Il grande Blek, che narrava appunto le avventure di un gruppo di trapper, di cui Blek è il capo).

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Hugh Glass era un trapper tra i più esperti. Nacque in Pennsylvania, intorno al 1783, da una famiglia di origini scozzesi e irlandesi. La sua storia è stata raccontata molte volte nei quasi duecento anni trascorsi dall’incontro con l’orsa, arricchendosi di particolari impossibili da provare o smentire. Le miglia percorse erano 80, poi 100, poi 200. Oltre a salvarsi dall’attacco degli indiani e del grizzly, pare abbia anche ucciso un serpente e sonagli. Anche gli anni precedenti sono leggendari: subì un naufragio a Cuba, fu catturato dai pirati francesi, ma riuscì a scappare raggiungendo a nuoto le coste della Louisiana. Dopo i fatti che lo resero famoso, visse altri dieci anni. Morì nel 1833, nei pressi del fiume Big Horn, tra Montana e Wyoming: mentre attraversava l’ennesimo fiume ghiacciato, fu attaccato e ucciso da un gruppo di indiani Ree. Sì, ancora loro. Su di lui è stato scritto di tutto: un poema epico, The Song of Hugh Glass, del 1915, che fa parte del Ciclo del West di John Neihardt; il romanzo del 1954 Lord Grizzly, di Frederick Manfred; ispirato a lui è anche il film Uomo bianco va’ col tuo Dio, con Richard Harris; poi il libro di Michael Punke del 2002, Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, dal quale è tratto infine il film di Iñárritu. Vicino al luogo dove fu aggredito dall’orsa, si erge tutt’oggi un monumento alla sua memoria, in quella che è stata chiamata la Hugh Glass Recreation Area, nel Sud Dakota. Ma se Hugh Glass è diventato così leggendario, non è merito soltanto del famoso attacco, o dei trecento chilometri nella neve. La ragione profonda sta nel fatto che la sua epopea è avvenuta proprio nel cuore degli anni in cui nasceva l’America così come la conosciamo. Hugh Glass, David Crockett, Jim Bridger, Jedediah Smith – un altro che sopravvisse a un grizzly – Kit Carson, Osborne Russell, John Johnson – che ha ispirato il già citato Corvo rosso non avrai il mio scalpo – fanno parte di quegli uomini che hanno contribuito a creare lo “specifico americano”.

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Wilderness Fin dalle prime immagini, appare evidente che in Revenant la natura non si limita a fare da sfondo all’epopea del protagonista, ma agisce in prima persona. L’intimo rapporto che Glass crea con essa la rende un personaggio a tutti gli effetti. Alleata e antagonista allo stesso tempo. Glass entra in comunicazione con gli elementi che accompagnano il suo viaggio e per sopravvivere deve sì sfidare la natura, ma allo stesso tempo affidarsi a lei, comprenderla e accettarla. Perché, come scriveva Francis Bacon, “la natura si vince solo ubbidendole”: è lei che concede all’uomo di attraversarla, di servirsene e cibarsene, purché l’uomo impari a rispettarla. «Dio dà, Dio toglie», dice Fitzgarald a Glass, e così è la natura che incontra Glass: immensa e pericolosa, ma allo stesso meravigliosa, capace di sopraffare l’uomo, ma allo stesso tempo di donargli tutto quello che occorre per sopravvivere. É la natura di Herzog: il deserto di Fata Morgana, la giungla di Fitzcarraldo, i ghiacci di Encounters at the End of the World. Maestosa, selvaggia, primordiale, dotata di grande bellezza ma anche di un’immensa potenza distruttrice. È la natura dal volto “bello e terribile” di Lepoardi, del Dialogo della Natura e di un islandese: “E mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti.”; la natura indifferente alle sorti dell’uomo: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? […] Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo […] e non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.” Ma proprio come in Herzog, la natura di Revevant riflette l’animo umano, creando una corrispondenza tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore. Nel corso del film la natura cambia e Glass le risponde e le corrisponde: vediamo il verde degli alberi nelle prime scene e, man mano che la violenza si fa strada, gli alberi perdono le foglie, poi congelano sotto la neve, rispecchiando il gelo interiore di Glass. A sua volta, la durezza del gelido inverno del Sud Dakota plasma l’animo del protagonista, affinando il suo spirito mentre ne rispecchia il dolore profondo

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della perdita e dell’abbandono. L’inverno sembra inasprirsi e allungarsi proprio a causa della perdita del figlio, come nel mito di Persefone. Persefone, figlia di Demetra e Zeus, venne rapita ancora fanciulla da Ade, che la portò negli inferi per sposarla. Demetra, dea della fertilità, fino a quel momento donava agli uomini interi anni di bel tempo e di raccolti. Ma la disperazione e la rabbia per la perdita della figlia, la portò a scatenare un inverno durissimo che non aveva più fine. Grazie a Zeus si arrivò poi a un accordo: Persefone avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli inferi e sei mesi con la madre sulla terra. E così, ogni primavera ed estate, per la gioia del ritorno della figlia, Demetra riportava il bel tempo e faceva rifiorire la natura. La neve e il gelo sembrano così simboleggiare la mancanza di vita e di amore. Più volte nel film, sono infatti associati alla morte: Glass trova il corpo del figlio congelato; l’indiano Hikuc viene impiccato dai francesi dopo la tormenta durante la quale costruisce il riparo per Glass; una valanga si scatena proprio quando Glass trova il corpo esanime del Capitano Henry. Ma c’è un momento in cui questa associazione d’improvviso si spezza, con un gesto semplice e inaspettato: Glass e Hikuc tirano fuori la lingua per mangiare la neve. Vediamo uno dei pochi momenti di serenità del film. La neve smette per un attimo di essere minaccia e diventa gioco, è solo ghiaccio che si scioglie in bocca, trasformandosi in acqua che disseta. La natura ostile, diventa alleata. Si compie quella correlazione tra uomo e natura che è l’unica strada per la salvezza. E che alla fine porterà quel tenue taglio di sole sull’ultimo sguardo di Glass. Per sopravvivere Glass ha dovuto dunque ritrovare quell’intima corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo: l’uomo, in quanto microcosmo, riflette in sé la natura, il macrocosmo, e forma con essa un’unità dove le parti sono in relazione con il tutto. La natura contiene in sé

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ogni parte, e ogni parte, compreso l’uomo, contiene in sé il tutto. Proprio come sosteneva Plotino, i “molti” sono un riflesso dell’“Uno”, e ognuno di essi contiene tutto in sé, cosicché ovunque è tutto e ogni cosa è tutto. L’universo è un animale unico che contiene in sé tutti gli animali: “Ogni essere che si trova nell’universo, a seconda della sua natura e costituzione, contribuisce alla formazione dell’universo col suo agire e con il suo patire, nella stessa maniera in cui ciascuna parte del singolo animale, in ragione della sua naturale costituzione, coopera con l’organismo nel suo intero.” (Plotino, Enneadi, IV, 4, 45). Sarà proprio Plotino a ispirare il trascendentalismo di Emerson e Thoreau, che vissero nel Nord America negli anni della conquista del West. Nel suo saggio del 1836, Natura, Emerson scrive: “Stando sulla nuda terra, il capo immerso nell’aria serena e sollevato nell’infinito spazio, tutto l’egoismo meschino svanisce. Divento un trasparente bulbo oculare, non sono niente, vedo tutto; le correnti dell’Essere universale circolano attraverso me; sono una parte o una particella di Dio.” Sia l’uomo che la natura sono per Emerson emanazioni di Dio, e quindi non contrapposti. La natura è pervasa dallo Spirito Divino che è Energia vivente e operante attraverso gli individui. Compito dell’uomo è ritrovare dentro di sé l’“over-soul”, la “super anima” che include tutti gli esseri viventi. Sentendosi tutt’uno con la natura, l’uomo riscopre le proprie energie originarie, acquisendo la self-reliance – fiducia in sé – che gli permetterà di superare i propri limiti interiori ed esteriori. Thoreau, amico e seguace di Emerson, dedicò due anni della sua vita alla ricerca di quel rapporto intimo con la natura, vivendo in una capanna di fronte al lago Walden, nel Massachusetts. Come scrive nel suo libro/ resoconto, Walden ovvero Vita nei boschi: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. […] Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita.” Per Emerson l’America è il luogo ideale per questa ricerca. Una terra ancora da scoprire, dove la natura si mostra in tutta la sua maestosità e grandiosità: “nella sua vasta geografia che abbaglia l’immaginazione...

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l’America è un poema steso davanti ai nostri occhi”. Un poema che veniva raffigurato in quegli stessi anni dai dipinti della Hudson River School che riflettevano i temi principali dell’America del XIX secolo: scoperta, esplorazione e insediamento. Alcuni paesaggi immortalati nel film di Iñárritu sembrano ricordare proprio dipinti come Twilight in the Wilderness di Frederic Edwin Church, Storm in the Rocky Mountains di Albert Bierstadt, Winter Landscape di Mortimer L. Smith. (Nnam: quest’ultimo è il dipinto che vedete qui sotto a sinistra, affiancato a un fotogramma del film.)

“La via più chiara verso l’universo è attraverso una foresta selvaggia” scriveva John Muir sempre in quegli anni: Glass, per compiere il suo viaggio, deve tornare allo stato primordiale, selvaggio, “spartano”. Durante il cammino, perde alcuni tratti dell’uomo, per ritornare animale. Diventa orso, mettendosi al collo gli artigli del grizzly che ha ucciso: per gli Indiani la zampa d’orso serve per evocare lo spirito animale; indossa anche la sua pelle, come fa il guerriero Sioux per assumere in sé il potere della belva prima della battaglia. Poi diventa lupo, dopo aver incrociato il branco di lupi: divora come loro il bisonte morto, ne mangia il fegato crudo strappando a morsi la carne. E infine diventa cavallo, dopo aver dormito una notte nella sua carcassa: quando lo vediamo uscire la mattina dal ventre dell’animale, la scena sembra un parto. Dopo essere risorto dalla terra, Glass rinasce ora dalle viscere. Se dunque con la natura si può instaurare un rapporto di coesistenza, e gli animali possono diventare alleati, l’unico vero pericolo, ancora una volta, risulta essere l’uomo. “Siamo tutti selvaggi”, la frase scritta dai cacciatori francesi, rivela dunque la vera natura degli uomini, capaci

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di uccidersi l’un l’altro. “Homo homini lupus”: nello stato di natura di Hobbes, dove non esiste alcuna legge e ognuno è un potenziale nemico, regna l’istinto di sopravvivenza, e ciascun individuo cerca di sopraffare gli altri, di eliminare chiunque rappresenti un ostacolo al soddisfacimento dei suoi desideri. In Revenant, che pur ci mostra quel brutale e interminabile attacco dell’orsa a Glass, le violenze più atroci le vediamo compiere infatti per mano dell’uomo sull’uomo: la battaglia iniziale tra cacciatori e indiani; Fitzgerald che uccide Hawk e seppellisce vivo Glass; i francesi che impiccano Hikuc e stuprano la figlia del capo Arikara; la lotta finale tra Glass e Fitzgerald; il capo Arikara che uccide Fitzgerald e gli prende lo scalpo... È l’uomo dunque il più selvaggio degli animali.

La spirale di Fibonacci Il viaggio di Glass è anche un viaggio interiore, ricco di misticismo. La forza che lo tiene in vita non è solo quella fisica, ma anche e soprattutto quella dello spirito. Il sentiero percorso è costellato di simboli che lo proteggono e gli indicano la strada, e che mescolano continuamente le credenze cristiane con quelle indiane. Il suo cammino inizia letteralmente con un “ritorno dalla morte”. Glass è sepolto sotto la terra e dalla terra riemerge e più avanti dirà: «Non ho più paura di morire, sono già morto». Il concetto di rinascita e di nuovo inizio, che come abbiamo visto è presente in tutta la filmografia di Iñárritu, diventa qui addirittura resurrezione. Questo il primo grande legame con l’immaginario cristiano. Immagianario che incontriamo in modo diretto quando Glass sogna suo figlio dentro una chiesa diroccata, nella quale si scorge ancora l’affresco di un Cristo sulla croce: il figlio che Dio ha dovuto sacrificare, lasciandolo uccidere dagli uomini. Glass è a sua volta un padre che ha perso il figlio per colpa della malvagità dell’uomo. Ancora una volta, il tema genitore-figlio per Iñárritu è centrale: il capo Ree vuole ritrovare la figlia rapita, l’orsa attacca Glass perché teme per i suoi cuccioli. E Glass vuole a tutti i costi vendicare la morte del

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figlio: non può perdonare cristianamente, vuole anzi uccidere il suo assassino con le proprie mani. Ma le prove che deve superare, il dolore che deve sopportare diventano invece la sua Passione, quel percorso diventa redenzione e alla fine lo conduce a Dio: Glass decide di non consumare la vendetta, di non sostiuirsi a Dio e lascia che si compia la sua volontà. Le sue ultime parole sono infatti: «La vendetta è nelle mani di Dio». E proprio in queste parole, troviamo un collegamento diretto con le Scritture: “Non fate le vostre vendette, cari miei, ma lasciate posto all’ira di Dio, perché sta scritto: «A me la vendetta, io renderò la retribuzione, dice il Signore.»” (Romani 12, 19). Glass comprende che niente potrà ridargli suo figlio e che la vendetta, una volta consumata, lascia soltanto il vuoto. Ma proprio quelle ultime parole gli erano state dette precedentemente da Hikuc, il Pawnee che lo salva, e dunque quel concetto universale sembra unire il Dio cristiano al Grande Spirito, Wakan Tanka, come veniva chiamato dalle tribù del Nord e Sud Dakota. Il Grande Spirito non può essere visto o toccato, ma è presente nei cicli e nei segni della natura: il passaggio dal giorno alla notte, il cambiamento delle stagioni, la nascita e la morte, il movimento del Sole. Lo Spirito Guida è colui che, attraverso i sogni e le visioni, porta all’uomo il messaggio del Grande Spirito. Compito dell’uomo è comprendere i messaggi e farsi guidare da essi lungo la “via sacra” che conduce all’equilibrio e all’armonia con l’universo. E allora, letto secondo le credenze dei Nativi Americani, il cammino che Glass compie è proprio quello indicato dal Grande Spirito. Glass trova degli animali guida: l’orso, il lupo, il cavallo; dialoga attraverso il sogno con il suo Spirito Guida: la moglie defunta; e segue la sua personale Visione: l’albero che resiste alla tempesta. Il primo messaggio del suo Spirito Guida è: «Finché potrai tirare ancora un respiro, combatti». Sono le parole che Glass disse a suo figlio piccolo, dopo l’attacco al villaggio indiano dove la moglie perse la vita, parole che ora continuano a tornargli in sogno: «Respira, continua a respirare». Il respiro simboleggia qui il soffio vitale, quella forza interiore che gli permette di superare i limiti. Partecipiamo a ogni singolo respiro di Glass, durante il film, a ogni rantolo strozzato, in alcune scene il suo alito appanna persino la telecamera, rendendoci parte di quel soffio vitale che è la vita stessa. E in quel soffio troviamo di nuovo un legame con

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la via cristiana: è tramite un soffio che Gesù risorto infonde lo Spirito Santo agli undici apostoli: “Soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo.” (Giovanni 20, 22). Ma Spirito Santo in ebraico si dice “Ruach haQodesh”, dove “ruach” indica allo stesso tempo il respiro e il vento. La forza interiore di Glass, lo spirito, trova nel film il suo corrispettivo proprio nel vento. Il secondo messaggio di sua moglie è infatti: «Quando c’è una tempesta e sei di fronte a un albero… se guardi ai suoi rami, giureresti che cadrà. Ma se guardi il tronco, vedrai la sua stabilità». L’albero è un simbolo centrale per i Nativi Americani. Il famoso sciamano sioux Alce Nero rivela nel libro Alce Nero parla, di John Neihardt, la sua “grande visione” avuta all’età di nove anni: racconta di aver incontrato lo Spirito Guida dell’universo e visto il grande Albero, simbolo della vita e del popolo indiano. Proprio come l’albero, Glass resiste alla tempesta grazie al suo tronco robusto, che è il suo legame inscindibile con le sue radici, la famiglia, i suoi cari che ha perso. Ma fra i tanti simboli presenti nel film, il più importante è senza dubbio la spirale. Il giovane Bridger, dopo che Fitzerald ha sepolto Glass ancora vivo, lascia su quella che doveva essere la tomba di Glass la propria borraccia, dove tempo prima aveva inciso una spirale. La poggia sulla terra, all’altezza del cuore. Da quel momento la spirale veglierà su di Glass. Quella borraccia sarà decisiva per la sua sopravvivenza: anzitutto gli permetterà di affrontare l’enorme traversata potendo conservare di volta in volta una personale riserva d’acqua; infine sarà proprio grazie a quella borraccia, inconfondibile grazie alla spirale, che Bridger capirà che Glass è ancora vivo. Fin dall’antichità, la spirale è uno dei simboli più rappresentati. In molte culture indica il Sole nel suo ciclico movimento nel cielo. Se ne trovano nelle pareti delle grotte primitive, nelle pitture rupestri, nei petroglifi, nelle decorazioni della ceramica funeraria nel Neolitico, tra gli antichi popoli del Nord Europa, tra i primitivi africani, tra i popoli del mediterraneo. E naturalmente tra i Nativi Americani: su una parete della Fajada Butte, nel Chaco Culture National Historical Park in New Messico, c’è un famoso petroglifo proprio a forma di spirale, chiamato “sun dagger”, pugnale solare. La simbologia della spirale è molto vasta. L’emanazione a partire da

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un centro esprime la creazione, la rotazione la ciclicità. È simbolo di fertilità, crescita, evoluzione. Descrive il naturale movimento energetico e in molte culture rappresenta il passaggio di vita, morte e rinascita. Rappresenta il percorso che conduce alla conoscenza e il cammino dell’anima verso l’illuminazione. Secondo Jung la crescita psichica descrive un percorso a spirale: “non ci si può sottrarre all’impressione che il processo inconscio sia mosso a spirale intorno ad un centro, avvicinandosi lentamente a questo, mentre le caratteristiche del centro si facevano sempre più distinte”. L’Io è cioè un’entità che ruota attorno al Sé che è il centro della personalità. Il significato simbolico della spirale cambia anche a seconda che sia tracciata in senso orario o antiorario. La spirale oraria viene associata all’estate. Mentre la spirale antioraria raffigura il sole eclissato, ed è dunque associata all’inverno. La spirale sulla borraccia di Glass è disegnata in senso antiorario: nella simbologia celtica, la spirale antioraria rappresenta la strada da percorrere per entrare in se stessi e ritrovare la luce interiore. Ma c’è un’altra caratteristica che trovo fondamentale nella spirale di Glass: l’incisione ricorda nello specifico una spirale logaritmica. Se la spirale è un simbolo universale fin da quando l’uomo ha iniziato a tracciare segni, è perché è una progressione geometrica molto diffusa in natura. E quasi tutte le spirali che si trovano in natura sono spirali logaritmiche. Le ritroviamo nelle conchiglie delle chiocciole, nelle corna degli arieti, nella disposizione dei semi nel disco dei girasoli, o delle squame delle pigne, nella molecola del DNA, nel moto dei cicloni, nelle nubi interstellari, nelle forme delle galassie... Una spirale logaritmica prosegue indefinitamente sia verso l’interno che verso l’esterno. Se la ingrandiamo con un microscopio vediamo cioè che la curva si avvolge intorno al centro senza mai raggiungerlo. Allo stesso modo, verso l’esterno la curva si allarga, rendendo le spire sempre più distanti tra loro, fino a raggiungere le dimensioni di una Galassia. La sua crescita segue una progressione geometrica che è legata alla sequenza di Fibonacci, una successione di numeri nella quale ogni termine

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successivo è uguale alla somma dei due precedenti: 0, 1, 1, 2 , 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89,144, 233, e così via. Il rapporto tra un numero della sequenza e quello immediatamente precedente si avvicina sempre di più al numero 1.6180339887, che il numero irrazionale “phi” – simbolo φ – che indica il rapporto aureo, cioè quello che regola la famosa sezione aurea che ritroviamo nel Partenone di Atene, nel Tempio della Concordia, nella Piramide di Cheope. La spirale logaritmica così diffusa in natura è dunque l’espressione geometrica del rapporto aureo, ed è detta infatti anche “spirale aurea”: il rapporto della distanza tra i raggi consecutivi è dunque pari a φ. Il rapporto aureo è quindi l’anello di congiunzione tra la natura e la matematica. Parafrasando Galileo, il libro della natura è scritto in lingua matematica. Filosofi, scienziati, artisti hanno con il tempo trovato in questa “proporzione divina” un ideale di bellezza e armonia, cercandolo e ricreandolo intorno a loro. Il numero aureo sembra dunque confermare l’esistenza di quel rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra l’universo e l’uomo che, come abbiamo visto, è il cuore del viaggio di Glass. Un rapporto tra il tutto e la parte che sembra ripetersi ovunque nell’universo. In virtù di questo rapporto, la spirale logaritmica mantiene sempre la sua forma nella sua crescita asimmetrica: presenta cioè la proprietà dell’autosomiglianza. Esattamente come, indovinate un po’, il caro vecchio frattale di Mandelbrot, di cui ho parlato all’inizio del libro. Nel broccolo romanesco, infatti, ritroviamo proprio la spirale di Fibonacci… E così, dal broccolo alla chiocciola, tra metafisica e metacinema, la fine del viaggio ci riporta esattamente al punto di partenza.

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Filmografia (I film di Iñárritu) Amores perros (2000, Messico; 153’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: Guillermo Arriaga Fotografia: Rodrigo Prieto Interpreti: Gael García Bernal (Octavio), Vanessa Bauche (Susana), Álvaro Guerrero (Daniel), Goya Toledo (Valeria), Emilio Echevarría (El Chivo), Lourdes Echevarría (Maru). 11’09”01 - September 11 (Segment: “Mexico”) (2002, UK, Francia, Egitto, Giappone, Messico, USA, Iran; 134’) Registi: Samira Makhmalbaf, Claude Lelouch, Yusuf Shahin, Danis Tanović, Idrissa Ouédraogo, Alejandro González Iñárritu, Ken Loach, Amos Gitai, Mira Nair, Sean Penn, Shōhei Imamura. 21 Grams (2003, USA; 120’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: Guillermo Arriaga Fotografia: Rodrigo Prieto Interpreti: Sean Penn (Paul Rivers), Naomi Watts (Cristina Peck), Benicio del Toro (Jack Jordan), Charlotte Gainsbourg (Mary Rivers), Melissa Leo (Marianne Jordan). Babel (2006, Francia, USA, Messico; 142’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: Guillermo Arriaga Fotografia: Rodrigo Prieto Interpreti: Brad Pitt (Richard), Cate Blanchett (Susan), Boubker Ait El Caid (Yussef), Said Tarchani (Ahmed), Adriana Barraza (Amelia), Gael García Bernal (Santiago), Rinko Kikuchi (Chieko), Kōji Yakusho (Yasujiro).

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Chacun son cinéma ou Ce petit coup au cœur quand la lumière s’éteint et que le film commence (Segment: “Anna”) (2007, Francia; 100’) Registi: Theo Angelopoulos, Olivier Assayas, Bille August, Jane Campion, Youssef Chahine, Chen Kaige, Michael Cimino, Joel e Ethan Coen, David Cronenberg, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Manoel de Oliveira, Raymond Depardon, Atom Egoyan, Amos Gitai, Alejandro González Iñárritu, Hou Hsiao-hsien, Aki Kaurismäki, Abbas Kiarostami, Takeshi Kitano, Andrej Končalovskij, Claude Lelouch, Ken Loach, David Lynch, Nanni Moretti, Roman Polański, Raoul Ruiz, Walter Salles, Elia Suleiman, Tsai Ming-liang, Gus Van Sant, Lars von Trier, Wim Wenders, Wong Kar Wai, Zhang Yimou. Biutiful (2010, Messico, Spagna; 148’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: A. G. Iñárritu, A. Bo, N. Giacobone Fotografia: Rodrigo Prieto Interpreti: Javier Bardem (Uxbal), Maricel Álvarez (Marambra), Hanaa Bouchaib (Ana), Guillermo Estrella (Mateo), Ana Wagener (Bea). Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance) (2014, USA; 119’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: A. G. Iñárritu, A. Bo, N. Giacobone, A. Dinelaris Fotografia: Emmanuel Lubezki Interpreti: Michael Keaton (Riggan Thomson), Edward Norton (Mike Shiner), Naomi Watts (Lesley), Zach Galifianakis (Jake), Emma Stone (Sam Thomson), Lindsay Duncan (Tabitha Dickinson). The Revenant (2015, USA; 156’) Regia: Alejandro González Iñárritu Sceneggiatura: A. G. Iñárritu, Mark L. Smith Fotografia: Emmanuel Lubezki Interpreti: Leonardo DiCaprio (Hugh Glass), Tom Hardy (John Fitzgerald), Will Poulter (Jim Bridger), Domhnall Gleeson (Andrew Henry), Forrest Goodluck (Hawk).

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(Tutti gli altri film citati in questo volume)

2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) (1968, USA, UK; 149’) Regia: Stanley Kubrick Annie Hall (Io & Annie) (1977, USA; 93’) Regia: Woody Allen Apocalypse Now (1979, USA; 153’) Regia: Francis Ford Coppola Barry Lyndon (1975, UK, USA, Irlanda; 184’) Regia: Stanley Kubrick Batman (1989, USA, UK; 126’) Regia: Tim Burton Being John Malkovich (Essere John Malkovich) (1999, USA; 112’) Regia: Spyke Jonze Cast Away (2000, USA; 143’) Regia: Robert Zemeckis Che strano chiamarsi Federico (2013, Italia; 93’) Regia: Ettore Scola

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Citizen Kane (Quarto potere) (1941, USA; 119’) Regia: Orson Welles Contact (1997, USA; 150’) Regia: Robert Zemeckis Crash (Crash: contatto fisico) (2004, Usa, Germania; 112’) Regia: Paul Haggis Dances with Wolves (Balla coi lupi) (1990, USA, UK ; 181’) Regia: Kevin Costner Disconnect (2012, USA; 115’) Regia: Henry Alex Rubin Encounters at the End of the World (2007, USA; 99’) Regia: Werner Herzog Eternal sunshine of the spotless mind (Se mi lasci ti cancello) (2004, USA; 108’) Regia: Michel Gondry Fata Morgana (1971, Germania; 79’) Regia: Werner Herzog Fitzcarraldo (1982, Germania, Perù;158’) Regia: Werner Herzog

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Gravity (2013, UK, USA; 91’) Regia: Alfonso Cuarón Il sorpasso (1962, Italia; 105’) Regia: Dino Risi Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo) (1972, USA; 108’) Regia: Sydney Pollack Le mépris (Il disprezzo) (1963, Francia, Italia; 103’) Regia: Jean-Luc dodard Little big man (Piccolo grande uomo) (1970, USA; 139’) Regia: Arthur Penn Man of steel (L’uomo d’acciaio) (2013, USA, Canada, UK; 143’) Regia: Zack Snyder Man in the Wilderness (Uomo bianco va’ col tuo Dio) (1971, USA; 104’) Regia: Richard C. Sarafin Match point (2005, UK, Russia, Ireland, Luxembourg, USA; 124’) Regia: Woody Allen No Country for Old Man (Non è un paese per vecchi) (2007, USA; 122’) Regia: Etha e Joel Coen

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Pierrot le fou (Il bandito delle 11) (1965, Francia, Italia; 110’) Regia: Jean-Luc Godard Pulp fiction (1994, USA; 154’) Regia: Quentin Tarantino Rear window (La finestra sul cortile) (1954, USA; 112’) Regia: Alfred Hitchcock Rope (Nodo alla gola) (1948, USA; 80’) Regia: Alfred Hitchcock Russkiy kovcheg (Arca Russa) (2002, Russia, Germany, Japan, Canada, Finland, Denmark; 99’) Regia: Aleksandr Sokurov Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan) (1998, USA; 169’) Regia: Steven Spielberg Serendipity (Serendipity - Quando l’amore è magia) (2001, USA; 90’) Regia: Peter Chelsom Shakespeare in Love (1998, USA; 123’) Regia: John Madden Synecdoche, New York (2008, USA; 124’) Regia: Charlie Kaufman

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Terms of Endearment (Voglia di tenerezza) (1983, USA; 132’) Regia: James L. Brooks The Adjustment Bureau (I guardiani del destino) (2001, USA; 106’) Regia: George Nolfi The Amazing Spider-Man (2012, USA; 136’) Regia: Marc Webb The Apartment (L’appartamento) (1960, USA; 125’) Regia: Billy Wilder The Buttefly Effect (2004, USA, Canada; 113’) Regia: Eric Bress e J. Mackye Gruber The Departed (The Departed – Il bene e il male) (2006, USA, Hong Kong; 151’) Regia: Martin Scorsese The Godfather: Part II (Il padrino: Parte II) (1974, USA; 202’) Regia: Francis Ford Coppola The Incredibile Hulk (L’incredibile Hulk) (2008, USA; 112’) Regia: Louis Leterrier The Shining (Shining) (1980, USA, UK; 146’) Regia: Stanley Kubrick

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The Walk (2015, USA; 123’) Regia: Robert Zemeckis Vicky Cristina Barcelona (2008, Spagna, USA; 96’) Regia: Woody Allen

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Bibliografia

Appadurai, Arjun – Modernità in polvere. Le dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano, 2012. Barrow, John D. – L’infinito. Breve guida ai confini dello spazio e del tempo, Mondadori, Milano, 2006. Borges, Jorge Luis – Finzioni, Adelphi, Milano, 2003. Bradbury, Ray – A Sound of Thunder and Other Stories, William Morrow Paperbacks, New York, 2013. Braden, Gregg – La matrix divina. Un ponte tra tempo e spazio, miracoli e credenze, Macro Edizioni, Cesena, 2007. Brown, Dee – Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Mondadori, Milano, 1995. Carver, Raymond – Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Einaudi, Torino, 2015. Castells, Manuel – La nascita della società in rete, UBE, Milano, 2008. Celestino, Deleyto e Del Mar Azcona, Maria – Alejandro González Iñárritu, University of Illinois Press, Champaign, 2010. Emerson, Ralph Waldo – Natura, Donzelli, Roma, 2010. Geertz, Clifford – Mondo globale, mondi locali: cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna, 1999. Hilton, James – Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 2009.

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Kakalios, James – La fisica dei supereroi, Einaudi, Torino, 2014. Leon M. Lederman, e Hill, Christopher T. – Fisica quantistica per poeti, Bollati Boringhieri, Torino, 2013. Mamet, David – I tre usi del coltello, Minimum fax, Roma, 2010. Neihardt, John G. – Alce Nero parla, Adelphi, Milano, 1990. Punke, Michael – Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, Einaudi, Torino, 2014. Rampini, Federico – All you need is love. L’economia spiegata con le canzoni dei Beatles, Mondadori, Milano, 2015. Schopenhauer, Arthur – Metafisica dell’amore sessuale, BUR, Milano, 1992. Shakespeare, William – Macbeth, Feltrinelli, Milano, 2013. Shepard, Sam – Cruising Paradise, Vintage, New York, 2010. Taleb, Nassim Nicholas – Il cigno nero, Il Saggiatore, Milano, 2014. Wallace, Stevens – Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2015.

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