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Italian Pages 463 Year 1998
TEMI DEL NOSTRO TEMPO
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a cura di Massimo Baldini
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Vittorio Possenti
NICHILISMO E METAFISICA Terza navigazione
ARMANDO EDITORE
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POSSENTI, Vittorio Nichilismo e metafisica. Terza navigazione / di Vittorio Possenti ; Roma : Armando, © 2004 (II ed.) 463 p. ; 22 cm. - (Temi del nostro tempo) ISBN 88-8358-762-6 1. Nichilismo 2. Metafisica CDD 149
© 2004 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 32-00-074 2004 Seconda edizione rivista e ampliata I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), Via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02/809506.
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Sommario
Introduzione 1. Nulla e nichilismo. - 2. Posizione del problema. - 3. Conoscenza metafisica. - 4. Notizia. - 5. Poscritto per la seconda edizione (2004)
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PARTE PRIMA: CONOSCENZA DELL’ESSERE
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Capitolo primo: La questione del nichilismo e la conoscenza dell’essere
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1. Jünger, Nietzsche ed Heidegger sul nichilismo. - 2. Natura del nichilismo. - 3. Realismo e conoscenza reale. - 4. Che cosa significa pensare? - 5. L’intellettualismo esistenziale come antinichilismo. 6. Digressione su linguaggio, pensiero e realtà. - 7. Seconda digressione sulla libertà. - 8. Ritorno al problema del nichilismo
Capitolo secondo: Conoscenza metafisica dell’esistenza
65
1. Tentativi di neutralizzare l’esistenza. - 2. L’esistenza come fonte prima di ogni intellegibilità. - 3. Giudizio ed esistenza. - 4. Episodi di allontanamento dall’esistenza. - 5. Conseguenze dell’essenzializzazione dell’esistenza. - 6. Commiato
Capitolo terzo: Essere, intelletto, intuizione astrattiva
95
1. La filosofia come scienza. - 2. Apertura dello spazio della metafisica. - 3. Che cos’è metafisica?. - 4. L’intuizione intellettuale. - 5. Razionale e intellettuale. - 6. Cenni all’intuizione intellettuale dell’essere. - 7. L’intelletto come facoltà delle categorie o l’impossibilità dell’intuizione intellettuale: Kant. - 8. Nietzsche o l’avversario dell’intelletto. - 9. La possibilità dell’intuizione: Bergson. - 10. Ripresa della teoria, non dell’intelletto: Husserl. - 11. Breve digressione sull’antropologia
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Capitolo quarto: Statuto dei primi principi
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1. Caratteri dei primi principi speculativi. - 2. La predicazione per sé. - 3. Analiticità o sinteticità dei primi principi. - 4. Difesa critica dei primi principi. - 5. Causalità metafisica e causalità scientifica
PARTE SECONDA: IL NICHILISMO TEORETICO E LA “MORTE DELLA METAFISICA”
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Capitolo quinto: Il nichilismo speculativo: Nietzsche e Gentile
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A. Nietzsche: 1. Il passaggio al nichilismo attivo e il pensare per valori. - 2. La questione della verità. - 3. Corporeizzazione del soggetto e dissoluzione dell’oggetto. - 4. Volontà di assurdo. - 5. Concezione teoretica e concezione tragica. - 6. Kierkegaard come anti-Nietzsche B. Gentile: 1. L’immolazione dialettica dell’oggetto e l’atto puro di pensare. - 2 L’innocenza improblematica del divenire. - 3. L’attualismo come volontarismo. - 4. Il nichilismo in Nietzsche e in Gentile come ontofobia
Capitolo sesto: Heidegger
183
1. L’essere entro l’orizzonte del tempo: ontologia o ontocronia? - 2. Conoscenza dell’essere e dottrina della verità. - 3. Sull’ingresso in metafisica. - 4. Digressione sull’esperienza del Sé. - 5. Ritorno al problema del nichilismo in Heidegger: A) Abbandono del teoretico e marginalizzazione dell’intelletto; B) La differenza ontologica
Capitolo settimo: Nove tesi sul pensiero postmetafisico: J. Habermas
217
Capitolo ottavo: Le due strade dell’ermeneutica
239
1. L’ascesa dell’ermeneutica. - 2. L’ermeneutica di sinistra. - 3. Intermezzo su Verità e metodo. - 4. L’ermeneutica “moderata” e l’immediatezza: Ricoeur. - 5. Priorità del piano ontico ed ermeneutica
Capitolo nono: Empirismo logico e filosofia analitica
265
1. Il realismo, l’oggetto e lo spostamento verso l’olismo. - 2. L’oggetto primo della filosofia è il linguaggio, l’idea, il fatto, l’essere? - 3. Esistenza e logica. - 4. Quante sono le scienze speculative? R. Carnap e i gradi di astrazione. - 5. Alle prese con l’esistenza
Capitolo decimo: Conseguenze del nichilismo
293
1. Finitezza e mortalità. - 2. Condizione della filosofia della storia
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Capitolo undicesimo: Per la determinazione del nichilismo pratico
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1. Dialettica del desiderio. - 2. Coimplicazione di volontà e intelletto. - 3. Per la determinazione del nichilismo pratico: 1) Il rapporto bene-male; 2) La dialettica dell’amore; 3) La filosofia del Neutro; 4) Il rapporto fra positivo e negativo e il ressentiment
PARTE TERZA: LA TERZA NAVIGAZIONE
329
Capitolo dodicesimo: Si dà progresso in filosofia?
331
1. Alcune polarità nel rapporto fra filosofia e scienza (A) Misteroproblema. B) Approfondimento-sostituzione. C) Tradizione-innovazione). - 2. Metodo e argomentazione. - 3. Analitico e sintetico
Capitolo tredicesimo: La terza navigazione
349
1. Il compito della filosofia dell’essere. - 2. La terza navigazione. 3. Approfondimenti e confronti. - 4. Fuoriuscita dall’oblio dell’essere. - 5. La terza navigazione e il nome di Dio. - 6. La terza navigazione nella modernità. - 7. Chiuso e aperto. - 7. Metafisica classica, grecità, cristianesimo
Capitolo quattordicesimo: Persona e umanesimo ontologico
379
1. Interiorità personale. - 2. Al di là dell’obiettivazione concettuale: filosofia e religione. - 3. L’intreccio fra antropologia e nichilismo. 4. L’idea di umanesimo
Capitolo quindicesimo: Tra passato e futuro
399
1. Ulteriori aspetti del nichilismo. - 2. Dialettica ateologica del nichilismo: il suo preambolo nel razionalismo. - 3. La sapienza metafisica e l’ordine delle sapienze. - 4. Il nichilismo come non-destino e la transculturalità della metafisica
ANNESSI Annesso 1: L’antirealismo e la frattura uomo-realtà Annesso 2: Testi sull’essere di Tommaso d’Aquino senza commento Annesso 3: Intuizione intellettuale, “anticipazione” e giudizio in Karl Rahner
425 429 433
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Annesso 4: Ancora sull’intuizione intellettuale Annesso 5: Richiami sull’esperienza del Sé quale evento di mistica naturale Annesso 6: La critica dell’ontoteologia Annesso 7: Che cosa è nichilismo? Guardando verso l’enciclica Fides et ratio
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Indice dei nomi
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Chiamato o non chiamato, l’essere sarà presente Per i desti il mondo è uno comune; nel sogno ciascuno si ritrae nel suo proprio (ERACLITO, fr. 22)
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Introduzione
In questo volume si tratta del nichilismo tanto quanto della metafisica entro due cammini: quello verso la conoscenza dell’essere e quello verso il nichilismo (itinerarium mentis in esse; itinerarium mentis in nihilismum). La critica e l’abbandono del nichilismo teoretico e la ripresa postmoderna della filosofia dell’essere (o Seinsphilosophie, come più volte la chiameremo) si corrispondono punto a punto in un intreccio difficilmente separabile. L’intento della ricerca non è nutrito di preoccupazioni morali sul negativo esito etico del nichilismo; piuttosto dalle intime perplessità sollevate dal carattere antirealistico e perciò teoreticamente più o meno nichilistico di molte scuole filosofiche moderne: la tradizione del realismo, che pur ha percorso alquanto esilmente la filosofia moderna per tanti riguardi platonizzante, idealistica, positivistica, nominalistica, potrebbe forse costituire il miglior reagente speculativo per pensare a fondo la questione del nichilismo. Nella vicenda speculativa dai Greci sino all’incirca ad Hegel prevalse l’idea che la ragione potesse per l’essenziale conoscere l’ordinamento del reale. Da circa due secoli questo assunto si è trovato contestato in modo sempre più netto entro una crisi che ha coinvolto soprattutto la ragione speculativa. È venuta mutando l’idea di ragione che, persa la sua unità, si è pluralizzata in ragion pratica, ragione tecnica, ermeneutica, utilitaria. L’uomo cerca di sopravvivere e trarre vantaggio dal mondo in cui sta, assoggettandolo e dominandolo. Un mondo che al di là delle possibilità messe a disposizione dalla tecnica, gli rimane opaco e infine incomprensibile; e col mondo l’uomo stesso. 9
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Il mutamento del senso della ragione e dell’essere va considerato definitivo? Questo sarebbe possibile se la storia fosse un argomento e la successione degli eventi dello spirito rivestisse un valore assiologico: ma pochi lo concederebbero. L’affermazione moderna dell’ateismo, un tempo considerata insuperabile, è ormai per tanta parte alle nostre spalle, e ciò che ne ha preso il posto, la presente metafisica della finitezza che si impone asceticamente di stare al solo finito senza mai oltrepassarlo, potrebbe non avere lunga durata. Nella sempre risorgente quest of being il soggetto interrogante ricerca un senso dell’intero, che può certo comportare cura per il frammento senza però esaurirsi in esso. Che cosa c’è dopo la metafisica? Taluni ritengono che non sia possibile offrire una risposta all’interrogativo, e forse sono i più. Altri, sostenendo che dopo la metafisica vi saranno filosofi di vario stile e genere ma non in senso proprio filosofia prima, spostano la risposta dall’oggetto al soggetto filosofante. Altri ancora, pur prendendo sul serio la domanda, pensano che dopo la metafisica c’è ancora la metafisica – certo ripensata, rinnovata, riconquistata –, perché il linguaggio fondamentale dell’esistenza è metafisico. Ovviamente alla varietà delle risposte corrispondono diversi modi di prospettare il futuro della filosofia, quello del nichilismo e i loro rapporti. Entro il quadro di un discorso sul nichilismo, la cosa da noi cercata è una scienza teoretica dell’essere, legata ad una filosofia conoscitiva capace di esprimersi ai suoi vari livelli. Pur attribuendo il necessario rilievo al problema della conoscenza, non si configura nel volume un metodo erkenntnistheoretisch analogo al modulo neokantiano, o una ripresa del criticismo tuttora fortemente presente in varie scuole, da cui ci sentiamo non poco distanti: l’idea che la gnoseologia e la epistemologia debbano distaccarsi da Kant potrebbe anzi costituire un filo conduttore, magari inesplicito, del libro. Nella determinazione della natura del nichilismo entrano in gioco il sapere epistemico e la conoscenza del reale di cui si nutre la Seinsphilosophie la quale, entrando in dialogo con uno dei maggiori problemi del pensare, segnala nuovamente la sua presenza nell’ambito della ricerca postmoderna. Se tale filosofia non fa parte di quelle di cui più intensamente ci si occupa, potremmo forse applicare ad essa una sentenza di Heidegger: «Quando una filosofia diventa di moda, allora o non si tratta di vera filosofia, oppure essa risulta sviata dal suo senso»1. Siamo consapevoli che la concettualizzazione a cui si farà riferimento non sia spesso in linea col palato filosofico attuale: ciò potrebbe rendere il libro accessibile a diversi livelli di lettura e comprensione.
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1. Nulla e nichilismo «Infralle cose grandi che infra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima». Con questa annotazione Leonardo sollevava la domanda sulla natura del nulla, un problema tra i massimi nella vicenda della filosofia: quel niente di cui appunto si dice che rappresenta la cosa più nulla, eleva un problema che non può venir evitato dal pensiero essenziale. Esso conduce a riflettere sul rapporto del nulla con l’essere, riguardo al quale Leibniz sollevò la celebre domanda, poi ripresa a vario titolo da Schelling, Bergson ed Heidegger: «Pourquoi y a-t-il plutôt quelque chose que rien?», aggiungendo sorprendentemente: «car le rien est plus simple et plus facile que quelque chose». Dico sorprendentemente perché la seconda parte della domanda – raramente citata nella sua interezza da coloro che vi si sono riferiti – entifica il nulla e rasenta l’assurdo2. Non sono questi gli interrogativi (e neppure quello se esista una potenza del niente), che intendiamo mettere a tema nel presente saggio, fra i cui scopi rientra quello di pervenire alla determinazione filosofica, non soltanto culturale, letteraria o di costume, del nichilismo. Sebbene nulla e nichilismo rinviino l’uno all’altro dal punto di vista lessicale, i loro concetti sono eterogenei e vanno tenuti assolutamente distinti, perché il primo è un ente di ragione cui da tempo filosofia, letteratura, poesia, romanzi si riferiscono con un eccesso di facilità retorica e cedendo a un vezzo che rischia di intorbidare il pensiero, l’altro un fenomeno storico-spirituale in marcia da secoli e che coinvolge la tradizione filosofica. Quale evento ubiquo e multiforme esso, inteso in senso lato, fa parte dell’autocoscienza del nostro tempo, tocca in profondità la vita, il costume, l’azione, inquieta e accende gli animi. Molti sono i concetti che vengono accostati all’idea di nichilismo: la crisi dei valori, la svalorizzazione di quelli più alti, il relativismo intellettuale e morale, la dissoluzione dell’idea stessa di verità, un pessimismo crepuscolare orientato al declino, un senso disperato della finitudine legato al termine della concezione progressiva e ascendente della storia, e perfino il concetto di posthistoire e di “fine della storia”. Non sembra negabile una parentela fra questi eventi e l’enigmatica natura del nichilismo: identificare una parentela non è però sufficiente. Altri, forse con maggior ragione, alludono al nichilismo come collegato alla perdita del centro ed alla crisi del senso, dipendente dalla scomparsa di un punto di vista privilegiato sull’intero. Nel frattempo si impiega l’accusa di nichilismo come un martello per abbattere l’avversario e forse per guadagnarsi un vantaggio a buon mercato dinanzi al pubblico, incline ad 11
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assegnare una connotazione negativa al termine di nichilismo. Se esso ha a lungo generato timore e repulsione, non mancano però oggi coloro che lo indossano come una divisa lieve, di cui non sarebbe proprio il caso di vergognarsi. Dinanzi ad una tale plurivocità, che conferma l’importanza del problema e lo stato controverso o forse confuso in cui giace, il filosofo farà bene a sostare per cercare di venire a capo della domanda: “che cosa è nichilismo?”, senza correre troppo presto a retoriche elucubrazioni sulla potenza del nulla e sull’esperienza del nulla, di cui da un certo momento in avanti una parte della filosofia europea ha deplorevolmente abusato, impiegando l’idea di nulla come una metafora o un’allusione a qualcosa d’altro che del resto ci si guarda bene dal determinare, invece che come sinonimo del nihil absolutum. Il filosofo farà anche bene a non lasciare da parte un’altra fondamentale questione, che accompagna come un’ombra l’inchiesta sul nichilismo: è questo (come pensa Heidegger) il destino inevitabile del pensiero occidentale, nato dai Greci? O invece è l’esito di una deviazione dall’essere e dal logos, ossia un momento di caduta e di declino? Due tesi, come ben si comprende, fra loro lontanissime. Per tentare di venire a capo delle due questioni sull’essenza e il futuro del nichilismo, la filosofia si trova ad un crocevia decisivo in cui le sue forze sono tese al più alto grado e il suo compito sfidato radicalmente. Se intende perseverare nel suo cammino, essa non può venire a patti col nichilismo: o lo supera, o ne è dissolta. Nell’intento di tracciare la nascita e la parabola del termine “nichilismo”, le ricerche storiografico-concettuali ci informano che il suo impiego sembra iniziare verso la fine del ’700, ad es. nell’importante lettera di Jacobi a Fichte (1799) e indirettamente nello scritto di Johann Paul Friedrich Richter (Jean Paul) Discorso del Cristo morto, il qual dall’alto dell’edificio del mondo proclama che Dio non è (1796). Jacobi, elaborando una comprensione filosofica del nichilismo, lo intende come processo di desostanzializzazione della realtà provocato dal razionalismo moderno che sin da Spinoza si allontanò dalle certezze del sapere spontaneo per sostituirle con una costruzione speculativa astratta, concludendo poi nell’idealismo. A questo – volto a dissolvere le certezze del sapere spontaneo e a ricostruire artificialmente la realtà, che appare come prodotta dal pensiero a partire da un principio astratto – Jacobi contrappone il realismo come conoscenza diretta delle cose, esente da un falso rapporto conoscitivo con l’oggetto3: rivelarsi perciò della realtà sensibile e oltresensibile entro un rapporto integro con l’esistenza. In Jacobi grande rilievo assumono le evidenze immediate, che il ragionamento non può confutare: in ciò consiste la “fede”, una 12
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certezza immediata che precede ogni altra certezza. Individuando come vera alternativa quella che oppone realismo e idealismo, egli osserva che la filosofia «rappresentazionale di Kant conduceva verso la de-oggettivazione e la de-realizzazione del conoscere, un cammino verso il nulla» (Lettera a Fichte, p. 14). È notevole che per Jacobi l’origine del nichilismo sia posta nella conoscenza che scambia per realtà le proprie rappresentazioni. Nelle intuizioni preveggenti di Jean Paul la questione e gli esiti della “morte di Dio” erano emersi assai prima di Nietzsche, ma secondo una diagnosi diversa. L’uomo folle di La gaia scienza annuncia che Dio è morto, e che l’abbiamo ucciso noi, gli assassini di Dio che abbiamo voluto questo tremendo attributo. In Jean Paul la “morte di Dio”, introdotta come un terribile evento che si rivela nel sonno e che scompare al risveglio, è intesa invece non come l’esito di un atto deliberato di deicidio, ma come la mancanza di un padre, come una condizione universale di orfanezza: «Nessuno è così solo nel Tutto come colui che nega Dio – costui, avendo perduto il Padre più grande, si trova in lutto, con il cuore orfano, accanto allo smisurato cadavere della natura, il quale non è più animato e unito allo spirito del mondo, e che s’accresce nella tomba»4. Dopo queste prime avvisaglie in Germania – dove rigogliosi succhi nichilistici nutrono L’unico e la sua proprietà di M. Stirner (1844) espressione estrema e colma di rabbia del radicalismo di sinistra uscito dall’hegelismo – il termine circola ampiamente in Russia a partire dal 1840 circa, dapprima col romanzo Padri e figli di Ivan Turgenev5. Successivamente ne trattarono molti autori, fra cui in modo quasi paradigmatico Nietzsche e Dostoevskij, sebbene essi si siano mossi in direzioni assai diverse, come mostrano le rispettive opere Volontà di potenza (o meglio i frammenti che ne lasciano intravedere l’impianto) e Delitto e castigo, I demoni, I fratelli Karamazof con gli immortali personaggi di Raskolnikov, Kirillov, Stavroghin, Ivan Karamazof. Già in questi decenni si può parlare di una temperie o di un clima nichilistico che percorre la cultura europea, e di cui varie correnti sono state un’espressione notevole specialmente dopo la prima guerra mondiale, recependo e sviluppando temi nichilistici quali: la sfiducia nella razionalità che da Socrate a Comte aveva rappresentato un asse fondamentale dell’Occidente; il senso di smarrimento e di angoscia dinanzi al crollo di tradizioni e valori millenari; la coscienza di una crisi complessiva che investe le fedi religiose; lo spaesamento dinanzi all’avvento delle grandi ideologie storico-politiche e connessi totalitarismi. Nel ’900 la presenza del nichilismo circola un po’ dovunque: 13
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nelle avanguardie letterarie e artistiche (F. Kafka, H. Hesse, G. Benn, A. Camus, J. P. Sartre), nella cultura politica di taglio anarchico e populista, in quelle del disincanto e della crisi (M. Weber, O. Spengler), che vedono profilarsi l’arrivo del buio per l’Occidente, il cui nome tedesco Abendland – terra della sera – evoca appunto il declino e l’incombere della notte. In questa cupa atmosfera vengono talvolta collegati al nichilismo il terrorismo politico e il diffuso impiego della violenza. Questi cenni rispondono al solo intento di indicare il carattere ampio, sintomatico, spesso indeterminato con cui si fa ricorso al concetto di nichilismo nella cultura europea. Ma è specialmente nella filosofia con la testimonianza di alcune voci più significative quali quelle di Nietzsche, di Jünger e forse di Spengler, che il nichilismo esperimenta un’inedita dilatazione temporale sino a divenire un principio radicale e primo di spiegazione di un’intera civiltà, sino a porsi come la cifra segreta che sin dagli albori accompagna l’Occidente, e in specie la sua concezione filosofica. Viene imponendosi con Nietzsche e successivamente con Heidegger l’idea di nichilismo come destino ineludibile dell’Occidente: l’approdo necessario e catastrofico della filosofia occidentale nata con i Greci sarebbe l’inarrestabile volontà antifondazionale manifestatasi nel pensiero contemporaneo, che ha inteso dissolvere tutti i fondamenti del sapere e dei valori. In rapporto al nichilismo si sviluppa poi il metodo del sospetto, i cui padri sono stati ravvisati da Ricoeur in Marx, Nietzsche, Freud secondo tre distinte forme: occorre pensare le forme più elevate della vita sociale quali il diritto, la religione, la scienza come determinate in ultima istanza dai modi e dai rapporti di produzione; occorre sempre sospettare la presenza della volontà di potenza anche dove non si immaginerebbe, ad es. negli ideali ascetici; occorre pensare la psiche del soggetto largamente influenzata dal mondo delle pulsioni dell’inconscio.
2. Posizione del problema La molteplicità dei moduli e dei contenuti con cui viene inteso il nichilismo si mostra insoddisfacente e spinge ad andare più in profondità nel determinarne la natura: noi qui lo considereremo non in primo luogo come evento proteiforme e complesso della vita dello spirito, dove si annodano esperienze come la notte della verità, la disperazione, la tensione di una volontà malata, ma soprattutto come un evento di origine speculativa. Il primo più largo senso trova nel secondo una fon14
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damentale ma parziale origine, a un dipresso come il relativismo morale trova una sua base in quello intellettuale: non vorrei però suggerire l’identità di nichilismo e relativismo. Se, come largamente si riconosce, il processo del nichilismo è in atto secondo cicli secolari, nel domandare intorno ad esso occorre compiere un’anamnesi di quanto accadde. Poiché la riflessione sul nichilismo si avvia oggi quando quasi tutto è già avvenuto, l’interrogante è collocato in una condizione non dissimile da quella di Edipo che inizia la ricerca per scoprire quanto accadde in Tebe, ossia egli si trova nella duplicità tra evento e ricerca. Se il nichilismo è in larga parte avvenuto, è compito della filosofia domandare: come accadde? come poté accadere? quali ne furono le cause? Uscendo dalla temporalità ripetitiva del quotidiano, l’inchiesta domanda sul principio di realtà o di irrealtà che presiedette al suo svolgimento. Anticipiamo con la massima brevità (una brevità che nella sua stringatezza può lasciare indifferenti o sorpresi per la sproporzione tra l’apparente esiguità della causa e l’ampiezza degli effetti) l’elemento speculativo attorno a cui si dispone, nella parte critica come in quella solutiva, il nostro tentativo: l’essenza del nichilismo e il suo largo accadere possono esser compresi a partire dai concetti reggenti della metafisica e dall’essenza della conoscenza. Nichilismo non è per noi in primo luogo l’evento per cui i valori supremi si svalorizzano o l’annuncio che “Dio è morto”, ma l’oblio dell’essere, la crisi dell’idea di verità, l’abbandono degli immutabili, la paralisi del senso. Questi esiti sono proceduti in ultima istanza dalla rottura del rapporto intenzionale immediato tra pensiero ed essere, e l’avvento al suo posto di forme di rappresentazione dell’ente, quali accadono nel corso della metafisica moderna nella volontà rappresentante del soggetto trascendentale e in quella strumentale-oggettivante della tecnica: per vie differenti esse concepiscono l’essere come un oggetto cosale perfettamente contrapposto al pensiero, che non ha ad esse accesso se non nella forma del dominio e della manipolazione6. Si può già ora aggiungere che il nichilismo teoretico come evento che interessa l’intelletto può venire inteso quale fenomeno procedente da una gnoseologia che misconosce l’intenzionalità e l’intuizione intellettuale. Inoltre sembra far parte del nichilismo l’oblio dell’inizio, l’omissione o l’elusione della domanda sull’inizio (arché, principio), che diversamente da Hegel non è per noi il risultato (di questi aspetti ha trattato in modo ricco ed enigmatico M. Cacciari in Dell’Inizio, pur senza fare ricorso esplicito alla categoria di nichilismo). Nel nichilismo compiuto accadrebbe dunque un oscuramento dell’essere in totalità, e conseguentemente della verità dell’essere, in 15
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rapporto ad un’opzione antirealistica? Sì, sussistono molti motivi per ritenere fondato tale assunto, in base al quale il discorso nichilista non potrebbe più legittimarsi se non ricorrendo a motivazioni storiche invece che ad argomenti, ossia facendo appello al fatto che gli eventi portano in una certa direzione. Forse il nichilismo nelle sue varie espressioni può venire ricompreso entro il rifiuto del principio di realtà da esso praticato: nell’essere non vi è ragione né logos, il logos stesso è un prodotto casuale dell’irrazionale e del caso, per cui la suprema e unica regia spetta al volere, in specie alla volontà di potenza. Alcune avvertenze preliminari per meglio situare quanto anticipato sembrano qui opportune. Dapprima che nella nostra lettura il nichilismo è convocato dinanzi al tribunale della filosofia prima. Poi che il nichilismo teoretico (e pratico) di cui ci occupiamo è un momento fondamentale ma non unico del fenomeno, altamente complesso, del nichilismo tout court. In quanto fenomeno dello spirito, il nichilismo si obiettiva nella vita e su questo piano, non solo su quello strettamente teoretico, deve essere vinto. La meditazione filosofica evidenzia alcune condizioni per tale esito, benché sia lungi dal poter valere come unico attore. Se la filosofia costituisce una forza storica e spirituale notevolissima, dobbiamo disabituarci a sopravvalutarla e a erigerla a medicina universale.
3. Conoscenza metafisica Se la questione della metafisica è, come è, quella dell’essere, di essa nel nichilismo compiuto non ne è più nulla. Usciti dalla conoscenza della metafisica, non si è più in grado di pensare l’essere e la sua natura. Ne consegue che il superamento del nichilismo quale vittoria sulla dimenticanza dell’essere accade col/nel ritorno all’essere e alla metafisica. In ciò la nostra diagnosi si distacca consapevolmente da quella di Heidegger, per il quale nichilismo e metafisica procedono appaiati, onde il superamento del primo esige quello della seconda, ed il compito preliminare del pensiero sembra essere quello di una distruzione del contenuto dell’ontologia. Questi assunti, qui semplicemente posti, saranno argomentati nel seguito del testo. Sin d’ora si può però anticipare che nella ricerca sul nichilismo quanto si ha di mira, o almeno ciò che si intende preparare, è un’indagine sull’essere quale tema centrale della filosofia sin dai tempi più antichi, e con esso la questione della conoscenza dell’essere. In quanto la questione dell’essere è la più alta, la meno ovvia, la più concreta fra tutti i 16
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problemi, la ricerca ontologica si fa valere come più fondamentale di quella delle singole scienze, che elaborano specifiche e limitate regioni dell’ente. Nella prote philosophia ha luogo l’indagine sull’essere e sull’essenza del vero, ed essa è fondamentalmente teoretica. Nell’attività teoretica l’uomo cerca la verità e nient’altro. Non vi sono in lui altri interessi o passioni, se non il desiderio di contemplare, di “guardare” allo scopo di conoscere le cose che sono e come sono. Volontà reggente è in lui la volontà di verità, tanto più forte quanto più si esercita nel silenzio e nell’ascolto: silenzio del cuore, del rumore del mondo perché in quell’attivo riposo dello spirito che è l’otium contemplativo, la verità delle cose si faccia avanti e non ne venga trascurata alcuna parte. Un tale atteggiamento teoretico, proprio del puro conoscere, tocca il vertice nella filosofia e più specificamente nella metafisica. Questa si rivolge agli oggetti più alti, e la più piccola conoscenza che se ne può ottenere vale di più ed è più desiderabile di una conoscenza anche completa degli oggetti inferiori. Non ci si stupirà pertanto di fronte all’assunto che la metafisica, proprio essa, protegge la storia, non perché inglobi e digerisca come irrilevante quest’ultima, ma nel senso che può orientarla nel suo mutare. La protezione dello storico da parte del metafisico accade nel rinvenimento del senso. Tentando di pensare insieme l’essenza del nichilismo e quella della metafisica, la diagnosi si è rivolta ad alcuni grandi rappresentanti del pensiero moderno. Se si dovesse giungere alla conclusione che la loro impresa è senza sbocco, diventerebbe plausibile l’idea che nel corso dello sviluppo più vicino a noi della filosofia possa essere accaduta qualche grave deviazione, che va portata a galla e che consiglia di seguire altri cammini, onde essere in pari con la cosa e non solo con lo spirito del tempo. Forse l’avvento del nichilismo teoretico potrebbe rintracciare le sue radici in momenti della metafisica pregressa. Quando Habermas7 allude alla esclusione della metafisica dalla postmodernità, effettua una rilevazione quasi incontestabile e insieme un omaggio allo “spirito del tempo” (Zeitgeist). Dopo di ciò resta però da affrontare il problema alla radice, perché delle due l’una: o la metafisica è finita per sempre e la sua morte non va solo dichiarata ma provata in modo cogente e universale; oppure si è concluso il ciclo speculativo di quella parte della modernità, che a partire dal principio trascendentalista e da quello di immanenza (intesi come indipendenza dall’essere, sostituzione dell’intenzionalità con l’apriori, autonomia conoscitiva del soggetto rispetto all’altro da sé), termina in un problematico oblio dell’essere. Quando la ragione mette da parte il problema dell’essere e della 17
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metafisica non è leale con se stessa, tanto quanto non lo è se accantona il problema di Dio, perché la dimensione protologica e quella teologica dominano tutta la storia del pensiero. Nel nichilismo forte è il peso di quello teologico in cui, come ha esattamente osservato E. Jünger, diventa impossibile il contatto con l’Assoluto, mentre la relazione tra quest’ultimo e il finito non sembra più considerata un oggetto degno del pensiero. Conseguentemente l’intelletto umano non viene più inteso come partecipazione finita di quello divino, secondo una dottrina che era già presente nei greci e che trovò eloquente espressione nel libro X dell’Etica Nicomachea. Qui Aristotele insegna che l’intelletto è nell’uomo qualcosa di divino ed esorta a «farsi immortali e [a] far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi»8. Viceversa nel nichilismo la chiusura nella finitezza e la dissociazione tra ragione umana e ragione divina sono ritenute un’ovvietà. Questo assunto implica l’accrescersi delle difficoltà dell’umanesimo quale concezione di quanto è più alto nell’uomo, e più radicalmente del carattere di non appartenenza compiuta dell’uomo alla physis. Se e quando il nichilismo teoretico sarà sormontato, il filosofo non può dirlo: egli ha già il suo daffare per tentare di venire a capo della sua natura. Quando tale evento accadesse, la filosofia fiorirà nuovamente, nel senso che sarà conoscitiva, ossia una filosofia come episteme, non una semplice “visione del mondo” in cui si esprimono le ovvietà dell’epoca. Noi non attendiamo il tramonto dell’Occidente, ma del suo nichilismo. Nessuna sentenza definitiva di decesso sta alla base della vicenda metafisica dell’Occidente, che rimane essenzialmente aperta nei suoi possibili esiti (con il ricorso al termine di “metafisica dell’Occidente” mi punge il dubbio se per caso non stia cedendo alla moda dell’epoca, un pò troppo incline a suggerire l’idea di un carattere culturale della metafisica e di una coappartenenza senza eccezioni fra essa e una certa civiltà. Si toccherà questo aspetto al termine del libro: per il momento desidero avvertire che non è questo il senso con cui qualche volta impiegheremo la suddetta dizione). Elaborando una diagnosi sul nichilismo, il volume si impegna a livello ontologico-speculativo senza entrare se non per cenni nella sfera della scienza, della prassi e in quella dell’amore quale forza che tiene insieme i viventi e le cose. Ciò che qui non è trattato non valga però come irrilevante, né come opposto all’elemento teoretico, di cui è parte il grandioso sistema delle scienze culminante nella fisica e includente la biologia. Il progresso in esse perseguito costituisce un’impresa ammirevole, portatrice al suo livello di valenze antinichilistiche, a patto che le sue conquiste conoscitive non siano presto inglobate in una 18
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falsa prospettiva secondo la quale il bene della conoscenza appartiene solo alle scienze. Si può domandare se la filosofia del XX secolo abbia operato per accrescere o diminuire il nichilismo. Nel quasi convulso incrociarsi in essa di scuole e correnti sembra possibile enucleare alcune linee di fondo, che ne stabiliscono i caratteri prevalenti. Nel neopositivismo la filosofia si è fatta discepola delle scienze, vedendo in esse il sapere privilegiato (presto però divenuto col razionalismo critico conoscenza fallibile) e si è trasformata in teoria della scienza. Nel neomarxismo, nello strutturalismo, nell’esistenzialismo ateo la filosofia si è rivolta contro la propria tradizione, instaurando una feroce critica della metafisica. In altri casi essa si è convertita alla storiografia filosofica condotta filologicamente e con ciò è divenuta parte delle scienze dello spirito, senza uno specifico accesso all’essere. Nella fenomenologia e nella filosofia dell’essere si è cercato di ristabilire la classica pretesa della filosofia a conoscere il vero. Se si dovesse recensire con un’accuratezza che vada oltre la genericità, la messe di critiche alla metafisica che viene schierata dal pensiero postmoderno, se ne trarrebbe l’idea che tante tra esse riguardano le metafisiche dell’idealismo, della soggettività trascendentale, e in genere quelle di ispirazione vagamente neoplatonica, che tuttavia possono avere con Platone e Plotino una somiglianza assai incerta. Quanto alla filosofia dell’essere, che costituisce col tema del nichilismo l’asse centrale di questo libro, essa è una tra le non molte prospettive metafisiche offerte nella storia della filosofia (se ben si considera, le dottrine metafisiche fondamentali sono poche), ed è un pensiero aperto, itinerante e ricercante, non un discorso assiomatico-deduttivo, come talvolta si sostiene con dubbia cognizione di causa. La filosofia dell’essere è così chiamata non solo per il suo oggetto universale, ma anche per il suo spirito dinamico di apertura verso tutta l’esperienza, di universalismo e di rispetto per tutto ciò che esiste. Nella conoscenza teoretica dell’essere si realizza una delle più alte possibilità dell’esistenza umana, che non sostituisce la religione, quale esistenza assoluta dinanzi all’Assoluto. In modo diverso esse esplorano l’esistenza, ricercandone la verità. La filosofia la cerca senza rinunciare alla fatica del concetto e del giudizio, nei quali viceversa il nichilismo postmetafisico contemporaneo vede solo proiezioni della soggettività, convenzioni, giochi linguistici, inconclusività delle interpretazioni. Quando il pensare giunge a questo malpasso non è detto che tutto sia finito: rimangono la realtà e l’essere. Se nel deserto del nichilismo non sembra restare più nulla a cui indirizzarsi, volgiti all’essere e alle cose che hai dinanzi. In essi, in un ri19
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torno alla cosa più genuino di quello di Husserl, poi smarritosi nell’idealismo, sta la salvezza del pensare e la possibilità che la scienza dell’essere sia nuovamente parlante. Quanto un tempo venne pensato su un solido fondamento, può nuovamente divenir oggetto di meditazione.
4. Notizia Alla fine del 1995 compariva presso l’editore Armando il volume Il nichilismo teoretico e la “morte della metafisica” (pp. 176). Il libro, al quale nel 1996 venne assegnato il “Premio internazionale Salvatore Valitutti”, ha ricevuto buona accoglienza ed è ora esaurito. Nel frattempo l’autore ha proceduto ad un cospicuo ampliamento del testo, che adesso risulta più che doppio: il numero dei capitoli è passato da 8 a 15 ed alcuni dei precedenti hanno subito aumenti. Ci è parso che l’opera acquistasse in compiutezza e in equilibrio fra le parti: il suo orizzonte speculativo non è stato mutato ma – si spera – meglio sviluppato e approfondito. Ciò ha suggerito di mutarne il titolo, per indicare che si tratta di un’opera sostanzialmente nuova. Nel volume è stata adottata una scansione in tre parti con numerazione progressiva dei capitoli. Nella I parte (Conoscenza dell’essere) viene avanzata una determinazione del nichilismo teoretico che ci sembra nuova nella grande mole degli studi in merito esistenti nella letteratura mondiale, ed elaborata una dottrina dell’essere e della sua percezione entro un quadro ontologico-gnoseologico volto alla conoscenza dell’esistenza. Nella I Parte si incontra la verticale speculativa della ricerca, il luogo in cui si dà voce alle prospettive della filosofia dell’essere. Nella II (Il nichilismo teoretico e la “morte della metafisica”) che ospita la maggior porzione del precedente volume, il quadro speculativo sviluppato viene messo alla prova nel dialogo critico con pensatori e scuole di spicco: Nietzsche, Gentile, Heidegger, l’empirismo logico e la filosofia analitica, il pensiero postmetafisico, l’ermeneutica, ecc. Non ho mai pensato che l’essenziale in filosofia consista nella controversia e nella critica quanto piuttosto in un positivo atto di ricerca. Se nel testo sono stati considerati autori e scuole da cui ci distacchiamo, ciò è stato fatto nell’intento di attribuire maggior solidità alla diagnosi, che meglio può delinearsi nel vivo confronto con posizioni differenti. Gli autori nei quali riteniamo di individuare manchevolezze e non di rado equivoci di prima grandezza, non sono per noi nemici da anatemizzare ma segnali di scogli da cui tenersi lontano. 20
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Settembre 1998
5. Poscritto per la seconda edizione (2004)
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Nell’ultima parte (Terza navigazione) è elaborata l’idea, decisamente antinichilistica, che sia possibile progresso in filosofia. Esso è anzi intervenuto nell’epoca postgreca con la “terza navigazione”, intesa come una più alta concezione dell’essere (e di Dio) rispetto al punto raggiunto dalla grecità: ciò implica che in filosofia siano possibili acquisti per sempre contro l’idea nichilistica della fine di ogni sapere stabile, di ogni conoscenza immutabile, la “fine degli immutabili” rappresentando appunto un carattere del nichilismo. Un capitolo sull’idea umanesimo in rapporto all’ontoteologia, uno conclusivo che si colloca fra passato e futuro e numerosi annessi completano l’opera. Coloro che ritengono di aver ragione, è bene che non incorrano in un’esposizione troppo felice e consapevole di ciò. Dirà il lettore se siamo riusciti un poco a rispettare questa aurea regola.
Terza navigazione. Nichilismo e metafisica, dato alle stampe alla fine del 1998, era esaurito da diversi anni, ma solo recentemente mi è stato possibile riprendere in mano l’opera per prepararne una nuova edizione, rivista e integrata in più parti: non si tratta dunque solo di una ristampa. Il volume esce a quasi quindici anni di distanza dal periodo in cui ho iniziato a meditare sul progetto speculativo qui elaborato, inaugurato con un saggio pubblicato nella rivista Filosofia e proseguito col volume Il nichilismo teoretico e la “morte della metafisica” (1995), successivamente ripreso nell’assai più ampio Terza navigazione. Dopo questo lavoro ho dedicato due opere alla questione del nichilismo, della metafisica, del concetto di verità: Filosofia e Rivelazione (Città Nuova, Roma 2000, 2a ed.), Essere e libertà (Rubbettino, Soveria 2004). Inoltre nel 2001 apparve l’opera La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “terza navigazione” (Armando, Roma 2000), dove un folto gruppo di pensatori di varie scuole e nazionalità sottoposero a discussione le prospettive avanzate in Terza navigazione sul nichilismo, il postmodernismo, la metafisica, la scienza, il compito del realismo. Dinanzi alle critiche decostruttive indirizzate all’idea di verità, al “fondazionalismo”, al realismo, da tempo risuona in me la preoccu21
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pazione di approfondire il carattere conoscitivo della filosofia, in specie del discorso metafisico, in una congiuntura spirituale nella quale molte correnti muovono a dissolverlo: ciò può forse rendere ragione di sottolineature e punti focali del libro in base all’idea che un testo sorge in un contesto. È quest’ultimo cambiato da quando mi posi la questione se la filosofia del XIX e XX secolo avesse colto la natura del nichilismo? I circa tre lustri trascorsi non sono forse sufficienti per significativi mutamenti della temperie filosofica prevalente: le vicende dello spirito manifestano tempi diversi da quelli di altri campi della vita. Il nichilismo non è terminato, l’oblio dell’essere e della metafisica è retrocesso in modo limitato, la subordinazione e talvolta la resa del pensare filosofico alla scienza continua. Perfettamente scientista è infatti l’idea di considerare morta per sempre la filosofia prima, di vederla sostituita dalla scienza, e di lasciare alla filosofia solo l’etica. In breve una comoda e molto praticata suddivisione dei compiti dice: alla scienza l’essere e la verità, e alla filosofia il dover essere, il quale non di rado è ritenuto possedere tante declinazioni quante le libertà e le decisioni dei singoli. La fiducia che si nutre nell’etica appare mal riposta, poiché essa da sola non è un baluardo adeguato nei confronti del nichilismo. Con puntuale chiaroveggenza Nietzsche aveva avanzato una diagnosi più penetrante di molte speranze attuali, prevedendo il crollo della morale: «un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico, e forse anche il più ricco di speranza fra tutti gli spettacoli...»9. Solo spiriti moralistici e alquanto dozzinali possono credere che il nichilismo europeo sia iniziato con la crisi dell’etica e che i secchi termini di B. Bauer appartengano a un’iperbole polemica: «L’Europa si è distolta per sempre dalla metafisica; ma è vero anche che quest’ultima è stata definitivamente distrutta dalla critica, e che non verrà mai più costruito un sistema metafisico tale da poter tenere un posto nella storia della civiltà»10. Giudizio in cui la storia della cultura è intesa come un processo inarrestabile verso l’oltrepassamento e la distruzione della metafisica, di cui rimangono solo cascami, momenti obsoleti e superati, e di cui era considerato parte il pensiero religioso, anch’esso destinato ad una lenta ma inesorabile consunzione. Se siamo usciti dall’epoca del razionalismo che per tanti aspetti ha rappresentato il portone di ingresso del nichilismo, viviamo ancora nell’epoca della dissoluzione del razionalismo, attestata dalla violenta reazione irrazionalistica e volontaristica, dal debolismo, dagli ultimi cascami dello storicismo. Fra i due canoni che sembrano meglio defini22
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re il razionalismo: razionalismo come identità del reale e della formula che lo esprime e cioè totale trasparenza del reale al pensiero, e razionalismo come rifiuto apriorico di ogni rivelazione, il pensare filosofico contemporaneo ha in genere rifiutato il primo e perlopiù mantenuto l’altro. Centrato intorno all’interrogativo su quale sia il significato e la determinazione filosofica migliore di nichilismo (Che cosa è veramente nichilismo? Quale la sua essenza più autentica?), il presente volume sostiene l’idea, oggi ritenuta incongrua da tanti, che in filosofia sia possibile un progresso, a partire dalle sue più antiche esperienze nelle quali si è formata e poi accresciuta una dottrina filosofica coerente cui diamo il nome di “filosofia dell’essere”. Erano riservate al nostro tempo nichilistico la riscoperta e la ripresa della filosofia dell’essere, la quale ha propiziato una “terza navigazione” nella vicenda della metafisica. Per essa vale quanto è stato detto con un’ironia che taglia l’erba sotto i piedi alle sconsiderate dichiarazioni di Bauer: «La metafisica è stata seppellita talmente tante volte che vien fatto di giudicarla immortale»11. La verticale ontosofica della filosofia dell’essere non ha atteso Heidegger per formulare la sua diagnosi sull’abbandono o oblio dell’essere reale quale momento comune a molteplici filosofie della modernità, senza però incorrere nella genericità di un giudizio onnicomprensivo e incautamente monolineare su una caduta metafisica ininterrotta dagli albori del pensare filosofico sino ai contemporanei. La stessa modernità va considerata un processo ancipite, tanto di corsa verso il nichilismo quanto di distanza da esso. Ciò comporta che la filosofia non si volga solo verso il negativo ma lasci aperto lo spazio per la speranza. L’idea che in filosofia ci possano essere, oltre alle perdite e all’errore, anche degli “acquisti per sempre”, spingeva a confilosofare, a unire ricerca teoretica e ricerca storiografica, nel duplice senso che intuizioni emergenti in elaborazioni pregresse possono ancora parlarci, e che cammini senza sbocco percorsi un tempo non vanno ripetuti. Occorre accompagnare l’elaborazione teoretica con puntuali verifiche nella storia del pensiero. Ciò contribuisce a spiegare il motivo per cui una parte consistente del libro è dedicata al dialogo discernente con numerose scuole filosofiche, in specie moderne, alla luce di una verticale speculativa via via elaborata. Come mettere in campo una strategia di interlocuzione che sia in grado di gettare ponti e di creare contatti, senza rinunciare a quanto l’analisi speculativa suggeriva come fondato? La domanda è sufficientemente chiara, la risposta ardua. Possiamo solo dire che ci 23
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siamo sforzati di prendere sul serio i nostri interlocutori, consapevoli che ciò non assicura a priori il successo dell’operazione.
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11 febbraio 2004 Note 1
Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 20. Il significato e gli equivoci contenuti nella questione di Leibniz, che ci pare lungi dall’essere la prima e la più fondamentale domanda della metafisica, sono esaminati nel cap. III (“Perché c’è qualcosa invece che niente?”) di Essere e libertà (Rubbettino, Soveria 2004). 3 «Sinceramente, caro Fichte, non mi turberei se Lei o chiunque altro volesse chiamare chimerismo ciò che io oppongo all’idealismo, che io accuso di nichilismo», Fede e nichilismo. Lettera a Fichte, a cura di G. Sansonetti, Morcelliana, Brescia 2001, p. 59. Su Jacobi si può vedere il valido lavoro di M. Ivaldo, Filosofia delle cose divine. Saggio su Jacobi, Morcelliana, Brescia 1996. 4 Jean Paul, Scritti sul nichilismo, a cura di A. Fabris, Morcelliana 1997, p. 24. In Nietzsche e in Jean Paul non si trova tematizzata una terza possibilità, a cui si è fatto ricorso nelle correnti della teologia secolaristica radicale: Dio è morto, essendosi suicidato per fare spazio ad un uomo ormai adulto. 5 In Padri e figli Ivan Turgenev dipinge nel personaggio di Evgenij Vassilevic Bazarov un nichilista russo di metà ’800. Egli intende rinunciare alla logica, procedere ad ogni negazione, non riconoscere alcuna autorità, in breve intende distruggere per poter provare di esser forte. Questa forma di nichilismo negativo non ha ancora raggiunto lo stadio, prospettato da Nietzsche, del nichilismo affermativo che procede ad una nuova posizione dei valori. I nostri succinti cenni all’affiorare del termine di nichilismo non pretendono di sostituire le ricerche storico-concettuali in proposito, per le quali si possono vedere fra le molte: F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1995; V. Verra, Nichilismo, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1979, vol. IV, pp. 778-790. 6 Il pensiero moderno, partito dal cogito cartesiano e giunto alla prospettiva kantiana, postula una subordinazione dell’essere al principio rappresentante della coscienza, di modo che vale come ente ciò che può essere oggetto di un tale rappresentare. La coscienza umana si propone come fundamentum veritatis, in cui il soggetto tiene sotto il proprio controllo l’ente come disponibile, ossia come oggetto. Per il realismo l’oggettività non è lo stare dell’ente entro la disponibilità funzionale per un soggetto, ma il presentarsi al pensiero della “cosa” nei suoi caratteri essenziali e puri da ogni intento di dominio. Col procedere del principio rappresentante della coscienza si compie il passaggio verso una piena volontà di potenza, dove l’oggettività dell’oggetto-ente non vale più come principio del sapere (nel realismo la luce viene dall’oggetto), bensì come area della integrale disposizione. 2
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Cfr. Il pensiero post-metafisico, Laterza, Bari-Roma 1991. Etica Nicomachea, 1177 b 35s. 9 Genealogia della morale, III Dissertazione, Adelphi, Milano 1988, p. 156. 10 B. Bauer, La Russia e il germanesimo (1853), in K. Löwith (a cura di), La sinistra hegeliana, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 290. 11 N. Gomez Davila, In margine a un testo implicito, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 41.
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PARTE PRIMA CONOSCENZA DELL’ESSERE
Non cogliere con l’intelletto la verità dell’essere: questa è l’essenza del nichilismo
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Capitolo primo
1. Jünger, Nietzsche ed Heidegger sul nichilismo
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La questione del nichilismo e la conoscenza dell’essere
L’orizzonte del presente capitolo è costituito dal tentativo di determinare il carattere o la natura del nichilismo (teoretico). Per l’esecuzione del compito occorre entrare in delicate questioni vertenti sull’essere e sulla conoscenza: esse sono toccate in questo capitolo e successivamente riprese e approfondite negli altri della parte prima. È oggi il nichilismo la condizione normale dell’umanità? Qui non intendiamo dare risposta alla domanda, se non nel senso che ci occuperemo di una dimensione del nichilismo, quello teoretico. Sul nichilismo le diagnosi quasi non si contano più. Eppure possiamo sostenere che la sua essenza sia a noi aperta? C’è da dubitarne molto. D’altra parte E. Jünger ha osservato in maniera particolarmente pertinente: «Una buona definizione del nichilismo sarebbe da comparare all’individuazione della causa del cancro. Essa non significherebbe la guarigione, ma senz’altro la sua premessa, nella misura in cui in generale degli uomini vi collaborino. Si tratta infatti di un processo che occupa largamente la storia»1. Nella frase sono veicolate notevoli asserzioni: una buona definizione del nichilismo non esiste ancora per Jünger, ed è qualcosa che va cercato; il nichilismo è una malattia paragonabile forse al cancro, ma da cui si può guarire; il suo processo è storico-mondiale. Drastica si presenta la diagnosi di Heidegger secondo cui la metafisica ha sempre fallito nell’individuare la natura del nichilismo: «Nietzsche non ha mai riconosciuto l’essenza del nichilismo, come del resto ogni metafisica prima di lui»2. La sua posizione è solo in apparenza affine a quella di Jünger, perché Heidegger ritiene di aver raggiunto quanto il primo auspica: ossia la natura del nichilismo. Siamo 29
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perciò posti di fronte alla ineludibile domanda: che cosa è il nichilismo? E anche: esiste un nichilismo teoretico o speculativo, e quale sarà la sua essenza? Se esiste, come pensiamo, deve rimanere aperta la questione se esso non costituisca l’elemento in ultima istanza decisivo di ogni nichilismo, quell’elemento che getta la sua ombra più ampiamente e decisivamente sulla sua realtà. Occorre dapprima osservare che per nichilismo nella nostra epoca per lo più si intende un complesso filosofico-culturale denotato da alcuni almeno tra i seguenti caratteri: 1) dissoluzione di ogni fondamento (l’annuncio nicciano secondo cui “Dio è morto” esprime appunto la caduta del fondamento e del senso); 2) negazione di ogni finalità dell’uomo e del cosmo, per cui la realtà appare un mutevole comporsi di orizzonti senza senso: l’esistenza non ha scopo, l’energia vitale non tende a nulla, il divenire non ha termine ultimo; 3) riduzione del soggetto a mera funzione; 4) pari validità di tutti i giudizi di valore, asserzione che si può convertire agevolmente nella seguente: invalidità di ogni giudizio di valore. O anche: il valore non mostra più alcun nesso con l’essere, ma emerge dal fondo oscuro della libertà del soggetto. C’è dunque nichilismo e nichilismo, ed anche l’ultima forma, il nichilismo morale che sembra grandeggiare sulla scena della cultura – sia nella versione “moderata e urbanizzata” per cui i valori morali sono soggettivi e vanno scelti in base alle proprie preferenze, sia in quella radicale in cui si estenua la polarità fra bene e male – rivela solo alcuni elementi per la determinazione dell’essenza del nichilismo: quello morale non sarebbe possibile senza un previo nichilismo teoretico. Quando la critica corrosiva di ogni morale e la volontà di potenza fanno la loro comparsa, la dialettica del nichilismo ha già percorso le sue tappe più notevoli e la maggior parte delle decisioni già prese. In termini meno speculativamente marcati e più storico-spirituali una diagnosi del genere fa da sfondo a Il nichilismo europeo. Considerazioni sugli antefatti spirituali della guerra europea di K. Löwith (a cura di C. Galli, Laterza 1999). Se nella metafisica si formula e si cerca di assegnare risposta alla domanda sull’essere e sulla verità, lo scandaglio del pensiero non potrà non portarsi in tale sfera. Non ci si può illudere di venire a capo del problema del nichilismo, se non si è disposti a riprendere contatto con le domande centrali della metafisica. Mentre nella descrizione sintomatica degli effetti del nichilismo l’analisi riscontra un certo accordo, la ricerca delle radici apre un vasto contenzioso con decisivi influssi sul problema del suo superamento: è impresa senza sbocco tentare di oltrepassare un evento di cui non si conoscono le cause. La sentenza di Jünger avvia almeno metodologicamente sul giusto cammino, dove l’avevano preceduto vari pensato30
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ri, fra cui Nietzsche ed Heidegger. Essi hanno proposto due diverse determinazioni del nichilismo, di cui Jünger, forse lasciando così trasparire un giudizio di inadeguatezza nei loro confronti, non sembra tenere conto. Se nella cultura contemporanea le due più note rappresentazioni del nichilismo sono quelle di Nietzsche e di Heidegger, non esistono soltanto pensatori che hanno riflettuto più o meno adeguatamente sull’essenza del nichilismo, ma anche pensatori che posseggono una valenza nichilista, o uno sfondo nichilista non espressamente tematizzato, che occorre fare emergere: significativa in merito appare la filosofia di Gentile3. È noto che per Nietzsche nichilismo significa svalorizzazione dei valori supremi appartenenti al mondo ultrasensibile della metafisica platonica (a cui viene assimilata l’intera metafisica dell’Occidente), in quanto non più capaci di formare storia; e loro sostituzione con una nuova posizione di valori emergenti dalla volontà di potenza (nichilismo attivo). La metafisica pregressa è intesa secondo la prospettiva del “valore”, che viene posto dalla volontà di potenza. Secondo Nietzsche la suddivisione tra mondo sensibile e mondo soprasensibile (o “mondo vero”) è l’essenza non solo del platonismo, ma di tutta la metafisica. In questa suddivisione il mondo soprasensibile, Dio, idee, legge morale, verità, etc., si annulla progressivamente in una dialettica epocale sotto i colpi della volontà di potenza inscritta nell’essere, in un contromovimento guidato dai valori della vita. Alla radice di tale dialettica sta l’idea di nichilismo come mancanza di risposta al “perché”. Non esistendo più la verità, dissolta nell’infinità delle interpretazioni, né potendosi individuare nell’intelletto l’organo idoneo a rispondere, occorre un nuovo esperimento. In esso forse l’umanità andrà perduta, osserva Nietzsche, aggiungendo: “ebbene, così sia!”, poiché il nichilismo è per essa forse l’ultima possibilità. Esso è la possibilità che, a partire dalla detronizzazione dei valori finora reggenti, tutto nel suo insieme sia posto in modo diverso per giungere ad un nichilismo attivo, affermativo, compiuto. Per divenir tale, occorre che esso sia estremo, affermandosi come ideale della somma potenza dello spirito, un modo di pensare “divino” secondo i dettami del dio Dioniso. Nichilismo in Heidegger vale come inerente incapacità della metafisica a pensare l’essere e la differenza ontologica. La metafisica stessa è nichilismo, perché si volge a domandar sull’ente e non sull’essere. Essa è solo onto-logia: «Obliando l’essere e la verità che gli è propria, il pensiero occidentale, già dalle sue origini, pensa l’ente in quanto tale […] questo pensiero, in cui l’essere stesso resta non pensato, è l’evento semplice e fondamentale – e perciò enigmatico e non riconosciuto – della storia occidentale in procinto di trasformarsi in storia universale 31
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[…] L’interpretazione del mondo ultrasensibile e di Dio come valori supremi non è pensata in base all’essere»4. È l’intera metafisica in quanto tale che ha dimenticato l’essere, per cui la sua storia, in quanto storia della verità dell’ente, è nichilismo nella sua stessa essenza: «In nessun luogo incontriamo un pensatore che pensi la verità dell’essere stesso e quindi la verità stessa come essere […] La storia dell’essere ha inizio, e certo necessariamente, con l’oblio dell’essere»5. Ne consegue che il nichilismo, che necessariamente accompagna il cammino della metafisica, «è il movimento fondamentale della storia dell’Occidente», e trova il suo vertice nel “problema Nietzsche”. Il suo pensiero è inteso come lo stadio finale dell’intera metafisica occidentale: «Non si vedono infatti altre possibilità per la metafisica, dopo che essa con Nietzsche ha in certo modo spogliato se stessa della propria possibilità essenziale. Col capovolgimento determinato da Nietzsche, non resta più alla metafisica che il suo capovolgimento nel non-essere»6. Nel giudizio di Heidegger la metafisica è sì un errore perché non ha pensato la verità dell’essere, ma anche in certo modo un errore necessario perché l’essere stesso si sottrae e si nasconde: «La metafisica sarebbe, nella sua essenza, il mistero dell’essere stesso: non pensato perché rifiutantesi»7.
2. Natura del nichilismo Questi richiami, in cui emergono due diagnosi incommensurabili sulla natura del nichilismo, in quanto ben poco tiene insieme il nichilismo come svalorizzazione dei valori supremi e il nichilismo come oblio dell’essere, possono bastare per porre le domande: il problema del nichilismo è stato pensato da Nietzsche ed Heidegger sino in fondo, la sua natura còlta, la sua origine compresa? Per avanzare una risposta è necessario entrare in una determinazione radicale del problema, in cui risultano essere in gioco la natura del pensare, la questione dell’essere e della metafisica: il principio metodico di partenza per l’interpretazione del nichilismo si sintetizza nell’idea secondo cui la sua determinazione è un atto teoretico, poiché è in base alla conoscenza della verità dell’essere che può venir stabilita la natura del nichilismo. Tale è il primo passo da compiere, tanto più decisivo quanto più il suo profilo sembra finora rimasto enigmatico. Forse allora disporremo degli elementi per confrontarci con la sua avanzata: è qui in gioco la necessità stessa, come riteneva Nietzsche, per cui non vi sarebbe scampo dal nichilismo? Oppure negli eventi dello spirito non è in azione alcun destino, rimanendo possibili nuovi orientamenti della cultura e nuove direzioni? 32
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Il compito della filosofia, sempre e nuovamente posto sin dai tempi più antichi, si riassume nel tentativo di rispondere alla domanda: che cosa è l’essere? (lo osservava già Aristotele, sebbene poi ritenesse che la questione si riportasse all’altra: che cosa è la sostanza?). Nel porre la domanda sull’essere noi ne cerchiamo la verità, nel senso che l’essenza originaria o principiale della verità consiste nel manifestarsi come relativa all’essere e rivelativa dell’essere. D’altra parte la nostra indagine verte sull’essenza del nichilismo speculativo, per cui esso è in ogni tempo e luogo quello che è. Ora, se poniamo di fronte alla considerazione della mente il termine “nichilismo”, esso allude al niente, e forse più esattamente ad un render niente, ad un “nientificare”. E che cosa viene nientificato nel nichilismo teoretico se non essenzialmente la verità dell’essere? Nichilismo speculativo vale dunque come il processo nientificante della verità dell’essere, che può esibire gradi diversi sino alla sua completa negazione. Il nichilismo procede dall’oblio dell’essere, che si manifesta collegato con l’abbandono della conoscenza reale, ossia con un paradigma antirealistico: il risultato di tale processo sembra riassumersi (cfr. cap. XV) nella crisi della dottrina del sapere o della conoscenza epistemica, nonché nella sostituzione della libertà contemplativa per il vero, il cui scopo è il conoscere, con la volontà di potenza e di utilità. Realismo e antirealismo sono determinazioni del pensiero, non dell’essere; concernono lo spirito nel suo slancio a rapportarsi e raggiungere la conoscenza del reale. Ora, la misura ultima del pensiero è costituita da ciò dinanzi a cui esso esiste. Esistere dinanzi all’essere, fondandosi in trasparenza nella sua conoscenza, è realismo; il suo contrario è nichilismo teoretico. L’inizio di ogni possibile deviazione conoscitiva, che si fa avanti quando si pretende di raggiungere l’essere a partire da quello astratto o logico, oppure da forme a priori, sta appunto nel suo non-attingimento. Questi primi cenni possono per il momento esser sufficienti per venire a chiarezza sul motivo per cui, impiegando il termine di nichilismo, gli assegnamo un nuovo significato lontano da quelli di Nietzsche e di Heidegger. Il nichilismo è tale perché in esso l’ente va nel niente? O perché intende pensare la natura del nulla? O infine perché lascia inevasa la già citata questione di Leibniz? Nessuno di questi interrogativi pur fondamentali è in gioco nella meditazione sul nichilismo teoretico, ma appunto il problema ontologico-gnoseologico della verità dell’essere e della sua conoscenza da parte dell’uomo. Il nichilismo speculativo sarà qui perciò compreso nel suo rapporto di negazione del realismo, in un processo mirante a chiarire il patologico (il nichilismo) con il normale (il realismo), e viceversa. 33
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Se nichilismo, oblio dell’essere, e antirealismo costituiscono una triade in cui ciascun termine sta nell’altro, resta da determinare più approfonditamente sia il processo noetico-ontologico in cui si realizza la loro reciproca insidenza, sia quello in cui accade che l’essere, che è il bene supremo dell’intelletto, non venga còlto. Questo ultimo evento sembra collegarsi ad una deviazione nel modo di intendere la conoscenza e il rapporto pensiero-essere (dunque in ultima istanza il luogo della verità), che non coglie lo slancio dell’intelletto verso l’oggetto, la sua vera patria, e che si traduce nell’oblio dell’essere. Con il riferimento al concetto di verità ci si colloca nel cuore o nel vertice del nichilismo, perché il suo punto apicale propriamente consiste nell’abbandono della nozione di verità come conformità del pensiero alle cose; nell’idea che non ci sia alcuna struttura delle cose su cui il pensiero possa regolarsi, a causa di un invalicabile abisso fra pensiero ed essere. Questo fu il passo compiuto da Nietzsche e ripetuto da Heidegger, entrambi in vario modo eredi del dualismo e del rappresentazionalismo moderni. Avanziamo la nostra diagnosi: l’essenza del nichilismo speculativo consiste (ed ha origine) nell’incapacità di attingere in una visualizzazione eidetico-giudicativa l’essere. Questo fondamentale evento si lega strettamente alla crisi della metafisica dell’intelletto (intellectus/nous) e dunque all’abbandono dell’intuizione intellettuale, in specie dell’intuizione intellettuale dell’essere raggiunta nel giudizio. Secondo la dottrina qui accennata e che sarà ripresa con ampiezza nel cap. III, l’intelletto quale livello più alto della facoltà conoscitiva umana (e perciò più alto della sua operazione discorsiva, che è compito della ragione [ratio]), va inteso come facoltà dell’essere e dei principi, ossia come “sensorio ontologico” radicalmente diverso perciò dalla kantiana facoltà a priori, che non è percettiva ma sintetico-costruttrice8. La questione decisiva ruota intorno all’interrogativo se l’intelligere debba ricondursi a intus legere ovvero a inter-ligare. Nel primo caso il termine allude ad una prensione noetica della realtà, in cui l’intelletto “sposa” o celebra le sue nozze con l’essere delle cose, raggiungendo un alto grado di attuazione di se stesso nel contatto col nucleo di intelligibilità e di mistero che vi è nell’essere. Nel secondo, reso corrente dalla critica kantiana, l’intelletto vale solo come facoltà che opera connessioni, che imprime forme a priori sulla materia sensibile, onde il processo conoscitivo è diviso fra l’intuizione sensibile e una formatività costruttrice dell’intelletto mai propriamente intuitiva. (Non è irrilevante osservare che viene così trasformata l’idea di verità, che rimane sì una conformità, ma non dell’intelletto con la cosa, bensì la conformità di una rappresentazione con le leggi di unificazione apriorica dello spirito). 34
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Da qui la ulteriore determinazione del nichilismo teoretico che intenderemmo avanzare: con l’oscurarsi o l’interrompersi del rapporto intenzionale immediato tra il pensiero e l’essere, ci si allontana dalla prensione noetica delle cose e non è più possibile rispondere alla domanda sul “perché”, in quanto il compito dell’intelletto quale organo idoneo alla risposta è stato negato. A mio avviso il rifiuto di una almeno parziale immediatezza rappresenta la posizione prevalente in molta ricerca filosofica attuale, e la porta di ingresso tanto per il dominio dell’epistemologia fallibilistica quanto per l’ermeneutica dell’infinito interpretare. Il rilievo dell’immediato concerne ciò su cui non vi è interpretazione ma percezione. Il fenomeno attesta se stesso, si “dà ragione” da se stesso, come a buon diritto ritiene Husserl: «Il principio di tutti i principi: che ogni intuizione originariamente offerente sia una fonte legittima di conoscenza, che tutto ciò che si offre alla nostra “intuizione” in modo originario (per così dire nella sua realtà in carne ed ossa) sia da prendere così come si dà» (Ideen, I, § 24). La natura del nichilismo speculativo è dunque definita col massimo rigore come oblio dell’essere, antirealismo, allontanamento dell’idea di verità come conformità fra lo spirito e l’essere. Nel versante conoscitivo il suo vertice sembra costituito da un abbandono completo dell’intelletto a favore della volontà (Nietzsche), dalla risoluzione dell’intero processo della realtà nell’atto puro o nell’autoctisi dell’Io trascendentale (Gentile), dalla distruzione del concetto di verità come adeguazione o conformità (Heidegger). La riduzione della conoscenza a interpretazione mai conclusa, l’assoluto convenzionalismo nella scelta degli assiomi e dei linguaggi, il fallibilismo con cui viene colpita ogni asserzione della filosofia, ormai privata del suo oggetto e metodo, infine l’incondizionata certezza di sé nel dominare calcolante appaiono stazioni di un cammino verso il nichilismo teoretico. In esso appare impossibile rispondere alle tre domande che secondo Kant totalizzano il compito della filosofia: che cosa posso sapere? che cosa debbo fare? che cosa posso sperare? Non c’è risposta alle ultime due, perché è venuta meno quella alla prima. Al nichilismo teoretico come antirealismo corrispondono l’infinità delle interpretazioni, l’antifondazionalismo e la riduzione della filosofia a un genere letterario, senza una specifica pretesa alla verità. Ciò è del resto in vario modo asserito da autori del contestualismo contemporaneo quali Derrida, Foucault, Rorty, Vattimo, ecc. Secondo la nostra elaborazione, nichilismo e realismo filosofico si collocano su versanti opposti. Col realismo infatti si supera lo scisma tra mondo del pensiero e mondo delle cose inaugurato da Cartesio, proseguito da Kant, riproposto dall’empirismo logico e infine da quei 35
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settori dell’ermeneutica radicale, dove pensare non è apprendere un’idea e formare un giudizio, ma solo “comprendere” in un circolo in linea di principio mai concluso né concludibile, in cui l’interpretazione di testi e contesti prende il posto della conoscenza reale. L’atteggiamento antirealistico costituisce un debole schermo contro il volontarismo, poiché la volontà cercherà di impadronirsi di quell’essere che non è conosciuto dall’intelletto. Un ulteriore aspetto, in verità di alto rilievo, è meritevole di attenzione: l’opposizione fra le due triadi di “realismo, antinichilismo, idea di verità” e “antirealismo, nichilismo, crisi dell’idea di verità” possiede un ampliamento dal lato della dottrina della persona, nel senso che a vario titolo le filosofie nichilistiche sono filosofie del Neutro, dove il senso proprio dell’esistenza personale non è riconosciuto. Esse non valgono, e ciò per motivi necessari, come filosofie personaliste. In Nietzsche e in Gentile si trova un sostanziale oltrepassamento e perfino una cancellazione del soggetto personale; per quanto concerne Heidegger è sufficientemente noto (riprendiamo qui un’osservazione di Lévinas) che nel suo mondo si incontrano alberi, radure, pietre più che persone. Si può perciò ammettere almeno come ipotesi fondata e meritevole di verifica, che all’alternativa fra realismo e nichilismo si coordini in modo immediato quella fra personalismo e nichilismo. Le filosofie realiste, lasciando da parte il cogito ergo sum e la sua pretesa di prendere l’avvio da una filosofia della (sola) riflessione, al posto della formula cartesiana sostengono: res sunt, ergo ego cogito res. Né si fermano a tale assunto, poiché sostengono che il livello o la modalità più alta e notevole di esistenza sia l’esistenza in forma personale. Lontana da un inadeguato “cosismo” che di per sé potrebbe condurre al primato del Neutro (esso, it), la Seinsphilosophie riconosce il rilievo dell’“io” e del “tu” fra i pronomi personali. Pensiero dell’io e del tu e perciò filosofia del dialogo, essa conduce ad una metafisica della prima persona, che dal lato teologico incorpora la concezione di Dio come Persona assoluta. Questa concezione, capace già di annunciarsi nella determinazione aristotelica di Dio come pensiero di pensiero (noi non conosciamo soggetti personali senza pensiero, e pensiero che non inerisca a soggetti personali), raggiunge l’apice nell’autorivelazione del supremo Nome divino: Ego sum qui sum. Dio è l’Io assoluto e tale Io è l’essere stesso, infinito oceano di esistenza. Dio è ad un tempo l’Esse ipsum e l’Io supremo. Dal nucleo incandescente di antirealismo, oblio dell’essere e critica dell’idea di verità, e non senza l’intervento del volere, si diramano due ulteriori e inquietanti volti del nichilismo. Quello per cui in esso si 36
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3. Realismo e conoscenza reale
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esprimono rifiuto del principio di realtà, una chiara valenza anticreazionistica e un risentimento antipaterno: è degno di nota che le forme di nichilismo coerente neghino la creazione e diano voce a una filosofia della decreazione e infine dell’annientamento secondo cui tutto ciò che esiste è degno di perire, entro il segno di un odio universale per l’esistenza (Dostoevskij ha intuito questo elemento con molta profondità creando il personaggio di Stavroghin). E quello per cui la perdita di contatto con l’essere produce la mancanza di senso, di scopo, di perché, sino a raggiungere un’altra e più coerente determinazione nicciana di nichilismo, rispetto a quella tutto sommato generica alludente alla svalorizzazione di tutti i valori: “nichilismo: manca il fine, manca la risposta al perché”. Essa implica l’eterna mancanza di senso e culmina nella dottrina dell’eterno ritorno, che quella mancanza eternizza. Alla sorgente più intima del nichilismo si rinviene un atteggiamento che possiamo riassumere così: “non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci in che modo procedere a trasformare le cose”. Torneremo su questi grandi snodi, e su ciò che rende possibile e giustifica la determinazione nicciana.
Gnoseologia e ontologia costituiscono un insieme solidale nella vicenda della filosofia. In correnti della contemporaneità filosofica si è cercato di dissolverle entrambe, a volte criticando la gnoseologia per mettere a tacere l’ontologia, altre volte abbandonando l’ontologia per raggiungere la crisi dell’altra. L’abbandono della dottrina dell’intelletto e dell’intuizione intellettuale costituisce la spia di un fossato elevato fra pensiero ed essere su cui dobbiamo ora articolare la diagnosi, inoltrandoci nelle posizioni centrali del realismo, a partire da quella secondo cui la conoscenza non termina all’idea/concetto, ma alla cosa, nel senso che l’oggetto immediatamente attinto dall’atto conoscitivo (sensibile o intellettuale, ma qui ci riferiremo al secondo aspetto) è la cosa stessa, non un suo sostituto. Non si deve dunque pensare che dietro l’idea non vi sia alcunché di reale (come riteneva Berkeley), oppure che vi sia qualcosa che rimane per noi assolutamente inconoscibile (come riteneva Kant introducendo il noumeno), ma che l’idea sia la cosa stessa in quanto divenuta oggetto di pensiero e vivente intenzionalmente in esso: «id quod intelligitur primo est res, cuius species intelligibilis [ossia il concetto] est similitudo»9. Dunque attraverso la mediazione del concetto viene colto l’oggetto reale. Proferendo uno o più concetti l’intelligenza diviene la cosa, considerata secondo l’uno o 37
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l’altro dei suoi aspetti; senza dimenticare che la cosa gode di due forme di esistenza: nello spirito e fuori dalla mente. A scanso di equivoci preme qui richiamare l’attenzione sul significato di “cosa”, che naturalmente non si riduce alla cosa materiale che si vede e si tocca: in tal caso il realismo sarebbe un banale “cosismo”. Cosa, traduzione di res, è un trascendentale e significa tutto ciò che può diventare termine di un atto conoscitivo. Secondo Tommaso d’Aquino e i suoi principali commentatori, il conoscere non appartiene al predicamento “azione” ma a quello “qualità”, ed è un divenire spirituale immanente in cui il soggetto, conoscendo l’altro, perfeziona se stesso, potendo ospitare in se stesso la forma dell’altro. Nell’atto conoscitivo l’intelligenza non solo concepisce l’essere, formandone così un concetto, ma concependolo lo percepisce e lo raggiunge. Oggetto di un’astrazione formale e non totale, il concetto di essere non vale come il più generico e vuoto (così invece veniva pensato da Hegel), ma come analogo e trascendentale. In base all’analisi di Giovanni di san Tommaso nel conoscere si verifica un’identità spirituale o immateriale, tale che il conoscente diviene l’altro in quanto l’altro (fit aliud in quantum aliud): «cognoscentia autem in hoc elevantur super non cognoscentia, quia id quod est alterius ut alterius […] possunt in se recipere» [I soggetti conoscenti si elevano sopra i non conoscenti per il fatto che possono ricevere in se stessi ciò che è proprio dell’altro in quanto altro]10. Nel conoscere si diviene l’altro, non altro: è immediato intendere come un abisso separi le due formule. Divenire l’altro in quanto altro significa accogliere l’alterità totalmente, ma appunto come totalmente altra. Accoglienza resa possibile dall’apertura intenzionale illimitata dello spirito, e su piano pratico dalla responsabilità, la cura, l’agape per l’altro. In quanto facoltà dell’essere l’intelligenza è dunque facoltà dell’altro, processo in cui l’altro è ben lungi dal ridursi a ente inanimato, “morto”, impersonale. La riconduzione-riduzione dell’alterità all’io e all’identità rappresenta una fase di crisi della dottrina della conoscenza, mentre in quella qui proposta l’altro è il vero pane e la vera vita dell’intelligenza. Fra i molti anche Lévinas è incorso in un equivoco su questo punto decisivo, ritenendo che il pensiero conforme all’oggetto significhi chiusura verso l’infinito e infine una filosofia della potenza e dell’ingiustizia11. L’apertura e la conformità dell’intelletto all’altro e all’essere implica piuttosto la coscienza della inadeguatezza, della non-conformità, come accade appunto rispetto all’infinito, dinanzi a cui siamo inadeguati per eccellenza. Lévinas ha espresso la giustificata protesta contro l’idea che conoscere sia identificare l’altro a se stessi, all’Io trascendentale che digerisce ogni alterità (si pensi all’attualismo gentilia38
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no), e manifestato l’esigenza di una metafisica estranea alla potenza e al dominio ricorrendo a formule che nel loro insistere sull’alterità si manifestano affini a quelle della filosofia dell’essere, senza peraltro che egli vedesse raggiunta quell’esigenza nella conoscenza speculativa. L’identità intenzionale fra intelletto e oggetto, che accade nell’apertura originaria del pensiero all’essere, già intravista da Parmenide, è la verità più principiale e la condizione intrascendibile della conformità giudicativa12. Naturalmente la verità come conformità, che si staglia sullo sfondo della verità come apertura e disvelamento, non si può ricondurre a una verità come morta e passiva fotografia del reale. Sempre secondo Giovanni di san Tommaso il conoscere è un processo spirituale che non consiste nell’agire transitivamente su una cosa o nel produrla; è un processo in cui il soggetto porta in se stesso la forma dell’altro, di modo che nel conoscere accade una comunione tra soggetti e cose, che sono e rimangono separati nell’essere. Una comunione in cui si verifica una unità intenzionale tanto intima fra conoscente e conosciuto, che essi formano una unità maggiore di quella che intercorre fra la materia e la forma: mentre quest’ultima scaturisce da una composizione entitativa, la precedente è immateriale o intenzionale. L’intelligenza girerebbe su se stessa, produrrebbe solo le proprie rappresentazioni e non conoscerebbe alcunché di nuovo, se non fosse un’apertura all’alterità ed un nutrirsi di essa13. In questi spunti è alluso il fondamentale evento per cui la ragione umana non può mai operare in modo apersonale: non sono conosciuti modi di funzionamento impersonali dello spirito. Sebbene Popper abbia parlato di una “epistemologia senza soggetto conoscente”, postulando una netta separazione fra l’atto cognitivo della mente e la proposizione che ne scaturisce, di modo che la verità non apparterrebbe all’io conoscente ma sarebbe un’esclusiva proprietà di proposizioni (il “mondo tre”, nel suo linguaggio), noi pensiamo che tale posizione sacrifichi il carattere personale del rapporto dell’intelletto con l’oggetto, nel senso che la conoscenza umana implica due poli: l’individualità personale dell’atto e l’universalità dell’oggetto (l’essere). Se è l’intera persona che pensa e vuole, il suggerimento di un’epistemologia senza soggetto si avvicina curiosamente alla tesi averroistica dell’unicità dell’intelletto. Nella conoscenza spirito, mondo, essere risultano originariamente in rapporto in virtù dell’apertura intenzionale dello spirito al tutto: anima est quodammodo omnia. Secondo l’Aquinate l’anima sta nell’uomo al posto di tutte le forme, affinché egli divenga in qualche modo la totalità dell’ente ricevendo in sé l’intero nella molteplicità delle sue 39
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manifestazioni14. L’intelligenza è una vita aperta e nuova nel senso che gli enti immateriali vivono, oltre la loro vita, quella degli altri esseri. Non solo il pensiero è pensiero dell’essere, ma fa parte dell’essere, di un ordine e di una vita che sono e restano da conoscere. Palpabile è la differenza rispetto all’idea di un soggetto in sé e per sé, dunque in qualche modo isolato e chiuso, che pone il resto come oggetto originariamente separato, che occorre raggiungere e conoscere. Nell’intelletto e con l’intelletto si verifica un rapporto conoscitivo, non dominativo, col reale: esso lascia essere l’essere così come è, mentre lo conosce. Esso lo rispetta in un puro “guardare”, senza conquistare o violare le cose: intatte le porta col concetto in se stesso per contemplarle e nutrirsene. L’uomo si riconosce allora parte di un ordine, in cui traluce qualcosa dell’intelligibilità dell’essere. Nell’atto del pensare intellettualmente non accade una rappresentazione, nel senso che il subjectum rappresentante produca l’oggetto (almeno imponendogli le sue forme a priori), ma una percezione rispettante: essa coglie l’essere come è, e lo lascia essere. Le idee presentano, non rappresentano: fra presentare e rappresentare corre lo stesso abisso che si dà fra divenire l’altro e divenire altro. La conoscenza è rivelazione rispettante dell’Altro. Al contrario nell’attività rappresentante è all’opera una volontà ordinatrice, in cui il pensare, volto a ordinare, rendere maneggevole, utile, ecc., più che a conoscere si presta ai suggerimenti del volere. Se nel momento della conoscenza l’intelletto e la cosa conosciuta costituiscono immaterialmente un’identità, in ciò consiste il vertice della libertà intellettuale: questa è piena quando l’intelletto coglie l’essere e lo porta nella pura sfera del pensiero, facendosene fecondare nella produzione di un verbo o concetto mentale. Esiste una dialettica triadica della conoscenza intellettuale, che nella sua totalità concreta è il pensiero, e che è scandita nelle tre fasi dell’“immanenza” del pensiero in sé, della sua “uscita” verso le cose e del “ritorno” a sé, con un’analogia con la triade neoplatonica di Plotino e di Proclo. Ma niente più di un’analogia, poiché la triade di questi ultimi è la legge ontologica dell’uscita e del ritorno all’Uno, mentre per noi vale solo come legge dell’intelletto nel pensare l’essere. Con la preminenza dell’intelletto, ossia dell’elemento intellettualespirituale in cui non viene intenzionato se non ciò che è, vengono guadagnati due importanti aspetti della conoscenza: 1) aderendo all’oggetto conosciuto, l’intelletto si acquieta e si autorealizza. In tal modo si raggiunge un significato di episteme, più originario forse di quello per cui essa è sapere incontrovertibile: l’episteme quale conoscere stabile si lega ad un atto in cui l’intelletto si arresta e si quieta presso l’oggetto (cfr. Cratilo, 437a); 2) la conoscenza è espressione di un con40
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essere. Alla cooriginarietà ontica del mio esserci e dell’esserci altrui si coordina la originarietà del rapporto conoscitivo fra il soggetto e l’altro entro una comunanza che è identità intenzionale. Metafisica è theoria, cioè orientamento all’essere, al reale, al mondo a scopo contemplativo-conoscitivo, senza intenti di dominazione o manipolazione, ma solo per accogliere in sé la realtà così come si dà. La teoria vale dunque come un originario modo di esistenza umana, che sarebbe un equivoco intendere come un momento difettivo o depotenziato della prassi15. Con queste considerazioni viene allusa la dottrina, classica come forse nessun’altra, della superiorità dell’intelletto speculativo su quello pratico: la conoscenza dell’essere e il conseguente attingimento della sapienza è il suo compito proprio. Nell’atto dell’intelletto speculativo, che è abbraccio personale con l’essere dopo la lotta, si esplica la ricerca della verità da parte del soggetto. Conoscendola, l’intelletto speculativo tiene in ordine quello pratico e l’intero schieramento della cultura. Per questo la sua crisi diffonde effetti perversi in ogni direzione. Metafisica è perciò agli antipodi dell’ideologia dello scientismo tecnologico, che riduce l’essere a null’altro che “materia più energia”, substrato totalmente disponibile per ogni trasformazione sotto la guida della volontà del soggetto. In quanto theoria volta alla conoscenza pura delle cose così come sono, metafisica non è né prassismo né poiesi dell’Io trascendentale, né autoctisi del Pensiero. Cercando di liberarsi dai travestimenti della coscienza per un sapere privo di interessi se non di ordine conoscitivo, la metafisica tiene lontano l’uomo dalle molteplici forme dell’ideologia. Con la crisi dello slancio dell’intelletto verso l’essere e il vero, la conoscenza concettuale cessa di valere come qualcosa di reale, per venire intesa come produzione della coscienza o risultato di procedure basate sul consenso. Questa posizione più tenace e diffusa di quanto appaia a prima vista, getta il suo influsso sul presente “contestualismo” postmetafisico: contestualismo qui significa rigorosa delimitazione di ogni pretesa conoscitiva al contesto storico, sociale, linguistico, etnico, nel senso che la verità è l’intersoggetività di un accordo sostenibile esclusivamente entro determinati mondi linguistici e culturali. Nell’abbandono postmoderno della metafisica la corrente contestualista intenderebbe farla finita con l’eredità della filosofia del soggetto, che però riemerge in obliquo nell’analisi delle prestazioni del soggetto parlante, attribuite a prassi e strutture soggiacenti di produzione linguistica, nelle quali il rapporto con l’essere è una “x” e il sapere dissolto nella genealogia.
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4. Che cosa significa pensare? Le considerazioni appena svolte si indirizzano soprattutto al momento originario e primordiale del pensare: la formazione del concetto (apprensione), mentre rivolgono appena un cenno alle fasi consecutive del giudizio e del ragionamento. Sulla questione del giudizio ci si soffermerà nei capp. successivi. Tuttavia lo stato di elaborazione a cui si è pervenuti consente di offrire risposta alla domanda: che cosa significa pensare? Interrogativo dalle infinite risonanze su cui Heidegger si è affaticato senza forse addivenire ad un esito significante, e così Kant per il quale pensare è ospitare rappresentazioni in una coscienza. Pensare è originariamente concepire un’idea ed esprimere un giudizio. È ad un tempo identificare nell’apprensione e porre in relazione nell’enunciazione soggetto e predicato: identità intenzionale del conoscente e del conosciuto mediante il concetto; messa in relazione di nozioni diverse in un enunciato, di cui si cercherà la conformità alla realtà, e che sottintende e presuppone la formazione di quelle nozioni nel momento originario del pensare. Il lettore ci scuserà se inseriamo un elemento autobiografico quasi aneddotico, emerso poco per volta e perciò non in modo preordinato nei lunghi anni di preparazione di questo volume. Man mano che andavamo riflettendo su autori e scuole delle più varie tendenze, avvertivamo con sorpresa che un filo invisibile sembrava tenere unite gli uni e le altre: il grande rilievo attribuito al giudicare, il quasi nullo o nullo affatto dato all’apprensione, al concepire, alla formazione del concetto. Con stupore ci è parso di trovare tale assunto nel neopositivismo logico, nella filosofia analitica, in Frege, in Wittgenstein, nell’ermeneutica, nell’attualismo, nel pensiero postmetafisico, in Nietzsche, in Heidegger, in Popper, ecc. Riandando al suo apprendistato intellettuale è rivelativo che Gadamer scriva: «Avevamo imparato che pensare è porre in relazione: sembrava davvero giusto che pensando si ponga una cosa in una determinata relazione, riguardo a questa relazione si esprima un enunciato, che si chiama giudizio […] Ora però facevamo esperienza [con Heidegger] di qualcos’altro: pensare significa mostrare e portare a mostrarsi»16. Prima delle lezioni marburghesi di Heidegger per Gadamer e altri pensare è porre in relazione e dunque giudicare. Lo stesso vale per Wittgenstein. La celebre sentenza che sta nella seconda riga del Tractatus («Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose») e quella che apre la sezione 4 («Il pensiero è la proposizione munita di senso») dicono a nostro avviso cose molto prossime. Poiché le cose sono apprese nel concetto e i fatti nel giudizio, che il mondo sia costituito da fatti e non da 42
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cose comporta, per l’isomorfismo fra linguaggio e realtà, il primato della proposizione sulla apprensione. Pensare è giudicare, dice sostanzialmente Wittgenstein, mentre il silenzio cala sul momento antepredicativo del pensare. Prima di lui Frege aveva aderito alla stessa posizione: «Il pensiero è il senso di un enunciato»17. Stretto e quasi univoco rapporto dunque fra pensare ed enunciare, sì che si potrebbe domandare: ciò che precede l’enunciato (momento antepredicativo) è già pensiero? Se si risponde negativamente, si presenta la questione della sua natura (se non è pensiero, che cosa è?); se affermativamente, quella su come si attua l’apprensione. Dopo Frege e Wittgenstein per ragioni illustrate in La ricerca non ha fine (Armando, Roma 1997, pp. 31-34) Popper ritenne che le idee, espresse in concetti, termini, parole siano filosoficamente senza importanza, mentre asserti, proposizioni e teorie siano filosoficamente importantissimi. Alla domanda che cosa significa pensare? egli tende a rispondere che pensare è formulare teorie (dunque complessi di giudizi) da mettere alla prova. La sua polemica rivolta contro l’analisi del linguaggio e la relativa filosofia ha sempre evitato di prendere in considerazione l’elemento della formazione del concetto e del suo rapporto con la cosa, venendo così a lasciare scoperto, fragile e incompiuto il suo realismo. Gli autori che in vario ma convergente modo assegnano una indiscussa priorità al giudizio rispetto alla apprensione, suggeriscono in fin dei conti che è meno importante chiedersi che cosa sia un cane (problema di essenza) rispetto alla verità o meno della proposizione “i cani sono animali”. Un tale atteggiamento pare sufficiente a spiegare che Popper ponga enfasi sulle teorie (mondo tre) che appunto si esprimono in giudizi. Nella perdita del carattere intenzionale-realistico del pensiero e nel correlativo oblio che ha colpito il suo momento originario, ossia la formazione dell’idea quale segno o similitudine dell’oggetto, è da ravvisare uno dei cespiti del nichilismo teoretico.
5. L’intellettualismo esistenziale come antinichilismo Se l’opera propria dell’intelletto di cogliere o di “vedere” l’essere non è compiuta, di modo che il livello del puro conoscere contemplativo non è attinto, la strada della filosofia come conoscenza teoretica del reale risulta ostruita, nel migliore dei casi in favore della Fisica. In suo luogo il mondo rischia di essere compreso solo come entità opaca, chiusa, senza ordine proprio, disponibile a diventare oggetto di dominio e di trasformazione per la volontà di potenza, oppure la sede di 43
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un’esperienza poetico-mistica, che cerca nella forza evocatrice della parola poetica un accesso rammemorante all’essere. In rapporto alla triade “antirealismo-oblio dell’essere-critica dell’idea di verità”, il nichilismo appare come un evento che ha progressivamente interessato la metafisica moderna in quanto moderna, da cui si può uscire con una ripresa della conoscenza dell’essere, quale è offerta dalla Seinsphilosophie. In essa si dispiega l’antinichilismo come intellettualismo esistenziale, nel senso che in tale filosofia si va con l’intelletto stesso all’esistenza stessa: non soltanto a questa o quella esistenza, ma all’esistenza come tale nella sua ampiezza trascendentale, quale è raggiunta in un decisivo atto noetico, in cui l’intelletto, concependo l’idea dell’essere e formando il giudizio di esistenza, raggiunge la radice di ogni realtà, ossia l’atto stesso di esistere (esse/actus essendi) delle cose ricevuto nell’ente. Un tale conoscere accade nella forma di un’intuizione intellettuale (non pura, come pretendeva Platone, ma astrattiva, ossia a partire dalla conoscenza sensibile e dall’attività astraente-giudicante dell’intelletto), che è possibile denominare anche “intuizione giudicativa”, perché si realizza nel giudizio di esistenza. Lungi dall’essere una generalizzazione ricavata per via di induzione dalla molteplicità delle rappresentazioni empiriche, l’intuizione astrattiva, proprio in virtù dell’astrazione, raggiunge l’universale nell’individuale18. Osserviamo che nell’intuizione intellettuale si verifica una duplicità di attività e di recettività, che manca in quella sensibile spostata verso il recettivo. L’attiva apertura all’essere e la sua fedele accoglienza sono già allusi nei due termini, consacrati dalla tradizione, di intelletto agente e di intelletto passivo. Denominando come “intellettualismo esistenziale” la posizione della filosofia dell’essere in ordine al rapporto tra pensiero e reale, non si assegna a rigore il primato alla prassi e neppure alla teoria. Il rilievo attribuito in questo libro all’intelletto è da intendersi relativo all’unico vero primato di ogni filosofia realista-esistenziale: il primato dell’essere/esistenza. Non dunque l’essenza, né la prassi, né la teoria o il volere, il fare o l’agire occupano il rango più alto, ma solo l’esistenza a cui l’intelletto si volge per conoscerla. L’attività teoretica consegue un primato nell’ordine del conoscere, non in assoluto, perché essa è completamente relativa alla conoscenza dell’esistenza. Nella filosofia postkantiana, in cui si accentua sino a giungere ad un punto terminale la negazione dell’intuizione intellettuale, che costituisce il presupposto decisivo onnipresente della Critica della ragion pura, si possono ricondurre a quattro le più radicali negazioni dell’intuito: anzitutto quella di Nietzsche (ed in questo egli rimaneva completamente nella scia di Schopenhauer e di Kant), che si esprime vivi44
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damente nel suo antiplatonismo; quella di Gentile (questa volta sulla scia di D. Jaia, B. Spaventa e di Hegel), denunciata dalla sua costante critica di ogni realismo e di ogni platonismo; quella di Carnap (cfr. La costruzione logica del mondo, Fratelli Fabbri, Milano 1996, p. 357, sufficientemente esplicita nel fare intendere che l’autore confonde l’intuizione intellettuale con qualche cosa di oscuro e “mistico”, mentre non si vede che essa si esprime in concetti e può essere messa alla prova), ed in genere della filosofia analitica; quella infine più indiretta che diretta di Heidegger, secondo il quale non si dà una prensione intellettuale del Sein, bensì solo al massimo una “esperienza dell’essere” (Erfahrung des Seins). Ciascuna di esse pronuncia attraverso cammini assai vari la stessa sentenza conclusiva: “non più metafisica!”, e tale è l’asserto finale di ogni nichilismo teoretico conseguente. Con questo viene anche suggerita una lettura della dinamica involutiva di importanti filoni della filosofia moderna, quale risultato necessario dell’abbandono della dottrina dell’intelletto. Nello stesso tempo la determinazione proposta consente di assegnare al nichilismo un carattere complessivamente unitario, in base all’individuazione di una sua genesi comune. Per provarlo, occorre scandagliare la nascita e la portata del nichilismo in alcuni pensatori: nei capp. della Parte II ci riferiremo a Nietzsche, Gentile, Heidegger, alle correnti dell’ermeneutica, all’empirismo logico e alla filosofia analitica, ad Habermas. Quest’ultimo può venire assunto come rappresentativo delle correnti del postmoderno postmetafisico, che non avendo allacciato un rapporto con l’attività noetica dell’intelletto e della theoria, hanno optato per forme di prassismo, assegnando il primato alla ragion pratica, peraltro debitamente riformata in senso formale-procedurale.
6. Digressione su linguaggio, pensiero e realtà La riflessione sul linguaggio è antica almeno quanto (se non più) la nascita della filosofia, avendola accompagnata sin dall’inizio – si pensi al Cratilo platonico – e poi lungo il suo svolgimento. Il problema del linguaggio, divenuto da vari decenni un crocevia straordinariamente frequentato tanto che il suo rilievo nella filosofia del ’900 è paragonabile a quello del conoscere nella modernità, nasce alla confluenza degli apporti dell’ermeneutica, della filosofia analitica, dello strutturalismo e in certo modo della fenomenologia. Esso assume talvolta veste radicale nel senso che in filosofia non esisterebbero problemi genuini ma solo perplessità linguistiche, onde la filosofia e in specie la metafisica verrebbero dissolte attraverso il rasoio dell’analisi del linguaggio. 45
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Nelle scuole citate sono state proposte elaborazioni svariate e anche polari sul linguaggio, il suo nascere, il rapporto in esso fra storia e struttura, il simbolo ecc., su cui qui non ci soffermiamo. Disperando forse di raggiungere esiti nell’indagine sul nesso fra pensiero ed essere, questo tema viene trasformato in quello del rapporto fra essere e linguaggio (considerato da Heidegger la casa dell’essere) o infine nello studio del solo linguaggio. Le scuole uscite da Frege, Wittgenstein, Russell, Carnap si volgono in effetti come a oggetto prioritario di studio al linguaggio – a quello scientifico e purificato delle scienze o a quello comune – considerato in sé o anche come accesso al pensiero. Entro le filosofie del linguaggio non poche elevano il comprendere ermeneutico ad una indiscussa universalità, secondo una posizione che rimonta a Verità e metodo dove il comprendere non è uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, ma il modo d’essere dell’esistenza stessa19. L’esistenza dell’esserci è dunque considerata di per sé ermeneutica, secondo una insidenza dell’interpretare nel Dasein che accade tramite e nel linguaggio, e che lo eleva a medium universale. Corrispondenti limitazioni del concetto di essere accompagnano il cammino. Dapprima, in rapporto con una metafisica della finitezza, essere viene assunto equivalente all’essere della physis verso cui è volto il Dasein quale “essere nel mondo”. Poi quest’ultimo viene equiparato ad “essere-nel-linguaggio”. Successivamente la realtà più reale dell’essere viene considerata il suo valere come linguaggio, con la tesi radicale dell’essenziale linguisticità dell’essere, secondo cui “l’essere è linguaggio”. Questa posizione afferma molto di più dell’altra che dice: “l’essere che può venir compreso è linguaggio”, poiché implica la risoluzione-dissoluzione linguistica dell’esistenza. Nel processo il linguaggio assume sempre più nettamente la figura di un apriori storico in cui l’uomo è necessariamente posto, e il luogo dove eventualmente possa manifestarsi un senso. È ben noto che nel linguaggio come più in generale nella teoria del segno, di cui il linguaggio costituisce elemento rilevante ma lungi dall’essere unico, svolge un compito primario la relazione di significazione intercorrente fra la “parola” e la “cosa”. In quanto il linguaggio è e non può non essere un sistema di segni, gli è intrinseco il denotare qualcosa, l’essere portatore nella sua relazione di significazione di “riferimento a”: alle cose o agli oggetti che la parola nomina e rappresenta con libertà creativa, perché “nessun nome è tale per natura”20. La funzione semantica svolta dal nome (proprio o comune) sta nel riferimento ad un oggetto: il nome sta al suo posto ed esprime l’intenzione conoscitiva della mente. Senza la relazione di significazione non vi sarebbe linguaggio; si può supporre che esso sia nato quando dalla fase 46
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del “linguaggio del gesto”, portatore di una sua specifica relazione di significazione, l’uomo si è reso conto di poter esprimere altrimenti che col gesto e appunto con la parola quella relazione, aprendo a se stesso uno svolgimento illimitato, da cui sono nate le varie forme del linguaggio: magico, pratico, poetico, religioso, ecc. Entro la complessa serie di linguaggi prenderemo in considerazione in specie quello concettuale diretto e il relativo conoscere, in quanto distinto per modalità dal conoscere indiretto e mediato. L’interesse attribuito al linguaggio come segno diretto della cosa/oggetto nel senso che la relazione di significazione fra loro è diretta, non veicola un atteggiamento di ripulsa o di misconoscimento di un’altra fondamentale funzione del linguaggio: il ricorso al segno “traslato”, ad un sistema di segni fra loro coordinati che può rinviare ad altro. In questo caso una struttura di significazione diretta e letterale designa oltre se stessa, e perciò in sovrappiù, un altro senso indiretto e figurato, che può venire conosciuto solo attraverso il primo. È la via complessa dell’interpretazione dove si presenta il compito di decifrare differenti strutture di significazione, siano esse testi di vario genere oppure un insieme di segni (ad es. onirici), che rinviano a luoghi dell’inconscio (come nella psicoanalisi). Volgendo l’attenzione al segno diretto più che a quello traslato, ci viene incontro l’idea che il linguaggio è portatore di un riferimento all’esistenza reale, senza il quale esso varrebbe come un sistema segnico autoreferenziale, in modo analogo ad un segnale luminoso riflesso indefinitamente in una galleria di specchi. Nessun dubbio che la lingua naturale svolga una funzione centrale nell’esperienza umana (comunicare, intendersi, esperire l’altro e il mondo) e che il mondo prescientifico della vita vi si esprima liberamente. Si domanda però: che cosa consente che il linguaggio sia un medio tra i soggetti, se non l’essere, il mondo, gli enti? Nell’esperienza sedimentata linguisticamente attinge il senso comune, da essa rampollano le infinite questioni di cui si sostanzia l’impulso a conoscere: la lingua naturale è un immenso serbatoio di intuizioni e significati, su cui può far presa la ricerca ontologica, senza identificarsi con quella. Immanente al linguaggio e da questo veicolata, esiste una “ontologia genetica”, una sorta di “grammatica universale”, dove è deposta una logica dell’essere e della sua stabilità, rivelata dal perpetuarsi delle strutture di base del linguaggio21. Nelle forme linguistiche dell’affermare e del negare e della loro differenza, dell’intero e del diviso, del buono e del cattivo vive un’ontologia naturale immanente alla lingua, di cui i trascendentali costituiscono la grammatica suprema. Il lessico speculativo è diverso ma non separato da quello della lingua naturale; il loro tratto d’unione è la comunanza di un orizzonte di interrogazio47
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ne già da sempre presente e stratificato nella lingua naturale, che esprime il funzionamento spontaneo dell’intelletto e le sue appercezioni prime. Quanto è essenziale nella parola è il legame con l’essere e le cose presente in ogni lingua. Nella loro varietà queste costituiscono, per così dire, “vie nazionali all’essere”. D’altra parte la natura della trasmissione storica è linguistica, ma da ciò non si può dedurre che tutto quanto linguisticamente si trasmette sia storico: sarebbe cadere nell’identificazione impropria di modo e di contenuto del trasmettere. Nei precedenti sviluppi sono deposte tre idee su cui conviene ora soffermarci: il linguaggio non è in filosofia soltanto un oggetto puro che possa venire studiato separatamente dal resto; esso rimane meno rilevante e prioritario rispetto al pensare; il carattere più radicale del pensare non è linguistico. Nella grande importanza che si attribuisce al linguaggio si può celare l’equivoco di separare il linguaggio dal pensiero e dall’esperienza che lo crea e lo rende significante; di ipostatizzarlo come una realtà in sé, come un “oggetto puro” che può essere studiato in vitro, al di fuori da un contesto di immersione nella vita, dalla relazione di significazione che esso veicola, dal suo intrinseco riferimento alla cosa/oggetto. Questo metodo, possibile nelle scienze linguistiche, appare fuorviante in filosofia. Vero e corretto è il pensiero, in quanto esprime la realtà, non il linguaggio che per la libera produttività da cui emerge, non è per natura ossia sempre e comunque adeguato al reale: la lingua non vale come rispecchiamento fotografico degli enti (e per la verità neppure il pensiero, se si pone mente alla grande libertà con cui esso crea, manipola, compone e scompone concetti. Libertà sì, ma finalizzata alla percezione del reale nell’atto intenzionale della mente). Secondo la dottrina di Tommaso d’Aquino il linguaggio ha origine nell’intelletto ed ha carattere di segno, capace dunque di manifestare altro da sé. Nel grande sviluppo che la filosofia classico-cristiana ha attribuito al tema del verbum sotto l’influsso delle speculazioni trinitarie, l’Aquinate si colloca con una posizione secondo cui nell’uomo si trova una triplice parola: verbum cordis, verbum quod habet imaginem vocis, verbum vocis22. Il primo, che è ciò che è concepito mediante l’intelletto, è il verbum rei, similitudine intellettuale immediata della cosa stessa; il secondo è il verbum cum syllabis cogitatum, mentre il terzo è il verbum oris, la parola vocale o pronunciata. L’elemento più radicale è il primo dove l’atto intuitivo dell’intelletto raggiunge l’essere in modo prelinguistico, e la “parola” della mente non è ancora cum syllabis cogitata. Nel formare il verbum interius cordis il pensiero antecede la lingua: ”penso, dunque parlo”; non: ”parlo, dunque penso”. Tale verbum cordis, non legato ad alcuna lingua particolare, è la cosa 48
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stessa o la sua natura in quanto pensata ossia esistente nella mente ad opera di una emanatio intellectualis che non è un atto riflessivo ma produzione dell’intelletto nell’atto stesso in cui pensa un oggetto. Non vi è riflessività perché il concetto non esprime lo spirito ma le cose. La lingua appare alla nostra esperienza più costante come uno strumento imperfetto e sempre perfezionabile per esprimere ciò che conosciamo. La formazione del verbum cordis (del concetto) sorge nell’atto stesso dell’intendere: dall’intelletto in atto emana il concetto in atto23. Questo non procede come in un passaggio da potenza ad atto, ma come atto da atto. Nel momento stesso in cui l’intelletto è in atto di conoscenza, vi è in esso verbum cordis. Il concetto non può formarsi né prima dell’atto di intendere, né dopo (in tal caso l’atto conoscitivo non avrebbe oggetto): «Intellectum autem in intelligente est intentio intellecta et verbum» (C. Gentes, IV, c. 11). Da ciò si intende che la mente può certo, costituendo l’universo del linguaggio come una totalità autonoma, riflettere su esso come su un mondo di straordinaria ricchezza. Si tratterà tuttavia di una riflessione indiretta o di secondo sguardo, in cui l’universo reale non è posto a tema e raggiunto direttamente. Alla domanda che chiede che cosa sia pensare, risponderemmo ora, precisando ulteriormente quanto detto nel § 4: la natura più intima del pensare non è originariamente linguistica ma identitaria, nel senso di un’identità intenzionale prelinguistica fra sé e l’essere, secondo la grande lezione di Parmenide, precisata e rettificata da Aristotele. A tale livello è l’atto percettivo a produrre il linguaggio, non viceversa; ciò sembra valere ad es. nella dinamica della percezione sensibile del colore. La percezione della loro pluralità induce una corrispondente produzione linguistica: una lingua che ospitasse soltanto due termini (bianco e nero, poniamo) per indicare i colori, si troverebbe immediatamente a mal partito e obbligata a riformularsi. L’anteriorità del pensiero sul linguaggio (imperniata sull’atto della mente che astrae l’informazione intelligibile dalla carica intenzionale veicolata dai sensi) rende certi che la storicità del linguaggio è parziale e così quella dell’essere. Uno dei vertici dello storicismo consiste nell’identità fra essere e linguaggio, a cui consegue la dissoluzione del primo nel secondo, inteso non come un apriori bensì come struttura integralmente storica e mutevole. Che l’essere sia linguaggio significa che esso è evento, un accadere, un tramandarsi completamente fenomenizzato. Ritenere che il carattere più intimo del pensare risieda nella sua linguisticità vocale appare un malinteso da cui si dipartono irresolubili problemi sul nesso fra linguaggio e realtà, e che può infine sfociare nella tesi antirealistico-nichilistica della semiosi infinita, in cui il testo con le sue infinite interpretazioni rinvia solo a se stesso. La risoluzio49
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ne linguistica dell’essere (“L’essere è linguaggio” è forse l’estrema reincarnazione dell’idealismo in versione linguistica) comporta la crisi dell’idea di verità come conformità tra il pensiero e la cosa, e la sua trasformazione nella coerenza del parlare con se stesso. Con l’assunto che l’essere sia linguaggio, viene a mancare il riferimento o l’oggettità reale dell’oggetto, la “cosa” extramentale ed extralinguistica su cui misurare la corrispondenza. La risoluzione linguistica dell’essere, trasformando l’oggetto in linguaggio, e intendendo il pensiero solo nella sua funzione linguistica, incorpora un’idea di verità come conformità fra linguaggio e linguaggio, in cui sembra compromesso anche il carattere denotativo del linguaggio quale “segno di” e riferimento ad altro da sé. La critica del linguaggio ha rappresentato nel ’900 uno dei più rilevanti cespiti dello scetticismo per l’assunto che il linguaggio costituisca per la sua storicità e mutevolezza una barriera inaggirabile fra soggetto conoscente e realtà, come per l’irrilevanza in cui veniva lasciato il nesso pensiero-realtà. Nel realismo l’accordo tra pensiero ed essere nel concetto è ritenuto più originario e fondamentale dell’accordo tra linguaggio e realtà24. A costo di sommuovere alcuni radicati tabù vorrei suggerire che il linguaggio rivesta un rilievo indubbio e centrale ma non costitutivo per la filosofia. La ragione più decisiva in favore di tale assunto è che l’essere non è linguaggio ma atto o enérgheia (cfr. capp. II e III). Conseguentemente: a) i problemi speculativi in filosofia non si presentano in primo luogo come problemi di linguaggio, ma dell’essere e del pensare; b) il compito primario della filosofia non risiede nell’analisi dei significati, ma nella conoscenza del reale/essere; c) non sembrano sussistere ragioni perché la filosofia del linguaggio aspiri a porsi come la nuova “filosofia prima”25. Costituisce tema affascinante tentare di comprendere i motivi per cui, ad una certa fase di svolgimento della filosofia moderno-contemporanea, si è ritenuto indispensabile assegnare la più alta priorità al linguaggio. Non abbiamo qui altra ambizione se non di prospettare in estrema sintesi una traccia di risposta. Orbene, se nel realismo la relazione tra pensiero e realtà non è una relazione di rappresentazione, ma di identificazione intenzionale con l’altro in quanto altro, nel corso della filosofia moderna, in primo luogo a partire da Cartesio, col sorgere del problema delle idee intese quali “interfaccia” tra la mente e le cose, è andata smarrita la risposta classica secondo cui l’atto conoscitivo non termina alla similitudine o ai fenomeni psichici, ma nel/col concetto raggiunge la cosa. Conseguentemente è divenuto quasi angoscioso l’interrogativo su come le idee potessero rappresentare e far conoscere le cose. Sono sufficientemente note le diverse soluzioni date al 50
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problema, fino al dualismo kantiano di fenomeno e noumeno e le sue categorie a priori. To make short a long history, dirò che parte della filosofia moderna, dopo aver tentato la strada della rappresentazione e concluso che le idee rappresentano solo se stesse e non le cose (negando in buona sostanza il carattere presentificante del reale da parte del concetto), ha infine battuto la strada del linguaggio, per verificare se rivolgendosi ad esso si potesse trovarvi un rapporto con le cose migliore e più diretto di quello attribuito alle idee26. Tale cammino però non è risultato tanto nuovo come si sperava, poiché in esso si sono perpetuati gli equivoci kantiani sul conoscere, e in genere non è stato tematizzato il nostro rapporto prelinguistico con le cose, come giustamente osserva U. Eco. L’essere è anche prima che se ne parli: «Il linguaggio non costruisce l’essere ex novo: lo interroga trovando sempre e in qualche modo qualcosa di già dato»27. Anche Michael Polanyi mette in luce la “dimensione tacita”, che è un vero e proprio sapere pre-linguistico. Merita segnalare la distanza fra queste posizioni e quella per cui l’essere è linguaggio. La filosofia del linguaggio nasce appunto quando, constatata l’alta difficoltà a risolvere il problema della mente, si ritenne meno disagevole affrontare quello della locuzione. L’assunto però rimaneva altamente ipotetico, non potendosi addurre evidenza in favore del fatto che il linguaggio rappresenti qualcosa oltre se stesso, se le idee non rappresentano appunto che se stesse. Sembra perciò un presupposto scarsamente fondato assumere che la sostituzione delle parole alle idee renda più agevoli i problemi filosofici, senza peraltro sottovalutare l’utilità dell’analisi linguistica a scopi di chiarificazione. C’è piuttosto da temere che con l’attenzione volta al linguaggio ci si sia ulteriormente allontanati dalla conoscenza dell’essere o, quantomeno, dal senso dell’essere. Per il momento sembra che si debba prendere atto dell’esaurimento teorico della tradizione analitica, affermato a vario titolo da un Rorty o da un Putnam, e che anzi nel primo conduce all’abbandono della filosofia come disciplina specifica. Della filosofia analitica prima maniera rimane il lascito di un certo stile di fare filosofia, orientato alla chiarezza e all’argomentare, ma dal punto di vista sostanziale non è irriguardoso chiedere se in essa rimanga ancora qualcosa su cui argomentare, mentre in espressioni della “nuova” filosofia analitica si incontra un esplicito interesse per i temi ontologici, prima impensabile. Il lettore non si stupirà se sosteniamo che i filosofi non sono inventori di vocabolari, ma persone interessate alla crescita della conoscenza attraverso il senso comune, le scienze, la filosofia; che la filosofia futura auspicabile non prenderà in primo luogo la forma di un pensiero che interpreta entro il quadro della cultura dell’epoca testi ed 51
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età passate, né quella di un pensiero creativo-poetico che inventa vocabolari, ma quella di una filosofia conoscitiva e speculativa; che l’accesso alla filosofia solo attraverso l’analisi del linguaggio (ordinario e formalizzato) costituisce un metodo eccessivamente angusto, e scarsamente capace di generare un incremento della conoscenza. Possiamo ricapitolare le posizioni difese, prendendo avvio da un celebre testo aristotelico del De interpretatione, secondo cui i suoni della voce o le espressioni pronunciate «sono anzitutto segni di affezioni dell’anima che sono le stesse per tutti, e costituiscono immagini di oggetti, che sono già identici per tutti» (16 a8s.). In base alla dottrina aristotelica si dà un isomorfismo fra realtà, pensiero e linguaggio. Il linguaggio manifesta la struttura del pensiero e questo quella del reale. Il pensiero, che è un pathema o un’affezione della sola anima, è sovraordinato rispetto al linguaggio e subordinato rispetto al reale. Nonostante i diversi cammini psicologici attraverso cui gli individui arrivano a pensare e a formulare concetti, Aristotele sostiene che le affezioni dell’anima (e dunque i concetti reali) sono gli stessi per tutti, e rinviano ad oggetti che sono gli stessi per tutti. Il fondamento della possibilità del linguaggio sta nell’attività intenzionale della mente, preesistente al linguaggio, la quale conduce ad un noema/conceptus quale apprensione-espressione di un oggetto indivisibile, identico per tutti. Poiché dunque in qualsiasi lingua la parola pronunciata è segno del concetto e questo dell’oggetto, la diversità delle lingue non impedisce né l’universale traducibilità, né l’universalità della comunicazione. Ogni esperienza conoscitiva può venire espressa in qualsiasi lingua esistente, come sostiene fra gli altri R. Jakobson (cfr. Saggi di linguistica generale). La trascendenza del pensiero rispetto al linguaggio e la sua intrinseca finalizzazione alla conoscenza degli oggetti, che sono gli stessi per tutti a dispetto della diversità delle lingue in cui sono espressi, implica che la logica, il principio di non contraddizione, le regole fondamentali del pensare non varino a seconda che la cultura sia indoeuropea, cinese, africana. Il riferimento al piano universale del pensare, al di là della pluralità dei linguaggi, fa sì che quest’ultima rappresenti un ostacolo accidentale e non essenziale alla comunicazione, poiché tutte le forme linguistiche devono comunque esprimere la struttura e le articolazioni del pensiero, le quali cercano di esprimere quelle della realtà: tutti gli uomini pensano, pensano oggetti, formulano opinioni e argomentazioni, affermano, negano, ecc. La tesi sul carattere (solo) linguistico dell’essere sembra allontanarsi da queste impostazioni, perché non è stato considerato primario e fondante il nesso pensiero-essere, sostituito dall’universalizzazione dell’interpretare, come mette in luce un’ispezione an52
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7. Seconda digressione sulla libertà
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che cursoria di Verità e metodo. Deve perciò restare soggetto al dubbio che il linguaggio possa costituire il filo conduttore della transizione dall’ermeneutica all’ontologia.
Le filosofie della necessità, in genere segnate dal razionalismo, possono costituire un preambolo del nichilismo per la riduzione da loro operata dell’essere esistenziale a idea e per la negazione della libertà. Per esse vale l’equazione fra essere e necessità, che risulta altrettanto problematica quanto l’identità assoluta fra essere e libertà. Non sembra possibile schivare l’ombra del nichilismo ribaltando l’equazione e sostituendo una filosofia della pura libertà a una della pura necessità: vi è infatti da temere che un abisso originariamente oscuro si introduca nell’Assoluto e una caduta nell’irrazionalismo. Lasciata da parte la concezione necessitaria dell’essere, strada più idonea sembra quella di radicare la libertà – con le sue molteplici espressioni che sono lungi dal ridursi alla sola libertà di scelta – nell’essere. Solo affermando: in principio era l’Essere, in principio era il Logos, si può aggiungere: in principio era la Libertà. Altrimenti partire dalla sola iniziante e assoluta libertà di scelta importa il porre alla radice dell’Essere il criterio del puro arbitrio. Fare dell’Assoluto l’abisso senza fondo di una libertà senza legge e senza l’essere è l’equivoco del libertismo o contingentismo che, respingendo a buon diritto il necessitarismo, respinge invece senza motivi anche il logos. A partire da questi assunti possiamo pensare il nesso fra essere e libertà, senza sentirci obbligati a seguire la prospettiva di Schelling e dei neoschellinghiani che pensano la realtà suprema solo come volontà, come assoluto cominciamento che si origina da sé, che non ha niente che lo precede perché comincia dal nulla e che si presenta come causa sui: l’asserità primalità di una libertà senza l’essere e contro l’essere non può che condurre al concetto “pericoloso” e contraddittorio di causa sui (possono mai causa ed effetto coincidere?), dove la libertà assoluta deve ad ogni istante decidere se continuare se stessa come causa di sé o sopprimersi. L’inevasa domanda sull’essenza della libertà, sul suo potere affermante come su quello negante e nientificante, capace di introdurre nell’esistenza il male, ossia una lacuna e una ferita nell’essere, rimane il grande compito lasciato aperto dal pensiero moderno e consegnato alla filosofia futura. Essa dovrà pensare in senso adeguato il volo ergo sum e la concezione dinamico-volontarista dell’essere, che affiora in vari momenti del pensiero moderno, specialmente tedesco. A partire da 53
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Leibniz, che concepiva la natura più profonda dell’essere come unità originaria di percezione e volontà (perceptio e appetitus), attraverso Schelling e Schopenhauer, si giunge proprio a Nietzsche: nel senso che in lui la natura originaria del volere –, già scandagliata nello Schelling delle Ricerche sull’essenza della libertà umana e dallo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione (un titolo quasi leibniziano) –, si determina e si stabilisce come volontà di potenza. Nell’opera schellinghiana esplicito è l’assunto che non vi è altro essere che il volere; che questo è l’essere originario. Una volta che sia stata posta l’identità di essere e volontà, ancora più stringenti si fanno le domande sul nesso fra libertà e verità: è elemento più originario la libertà o la verità? Il problema della libertà è determinabile entro quello della verità o viceversa? Può la libertà lasciar essere l’ente se prima l’intelletto non lo contempla? È pensabile una libertà originaria che preceda l’essere e si autofondi nel proprio abisso senza fondo, come sembrano pretendere Schelling e soprattutto Pareyson? Costituirebbe tema per una ricerca di peso accertare se esista una connessione fra il regresso del realismo come intellettualismo esistenziale e l’ascesa delle varie forme di volontarismo. Noi stimiamo probabile questo legame, nel senso che la volontà va all’esistenza e se ne fa sostanza ultima tanto più quanto più l’intelletto è separato dal reale. Nel libertismo che reclama le proprie origini in Cartesio, la libertà è intesa come un atto che si impossessa dell’esistenza, di quell’esistenza che la gnoseologia cartesiana negava alla conoscenza dell’intelletto. Questo infatti era ordinato solo alle idee ed essenze; in tale dualismo consiste l’irrisolto conflitto tra idealismo gnoseologico e libertismo esistenziale, che mina il pensiero cartesiano e che si traduce nella tensione tra esistenza ed essenza, ossia tra i due concetti massimamente direttori della metafisica28. Successivamente Schelling pensò la libertà come facoltà del bene e del male29, in un modo che si sforza di tenere insieme un concetto ontologico ed uno morale della libertà. Nonostante l’infinitezza della libertà, non vi era secondo Schelling per essa un al di là del bene e del male. Heidegger, determinando la libertà come il lasciar essere l’ente30, abbandona questo terreno e ne propone una concezione an-etica, perché la libertà non è più misurata in rapporto a oggetti etici quali il bene e il male. Notevoli sono gli influssi di tali pensieri sul delicato problema dei valori. Deve intendersi per valore ciò che il soggetto valorizza, conferendogli validità, oppure un’epifania dell’Essere e del Bene? In quest’ultima posizione il valore è il bene stesso in quanto oggetto di percezione intellettuale, rivelante qualcosa che è in sé compiuto, giustifi54
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8. Ritorno al problema del nichilismo
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cato, amabile, al di fuori di ogni considerazione di utilità o di potenza. La prima posizione si colloca invece nella sfera del soggettivismo, nel quale il subjectum non lascia essere il valore così come è, ma lo pone secondo punti di vista funzionali al suo progetto. Ponendolo subiettivamente, ossia in base ad un atto della volontà, l’Essere e il Bene in quanto conosciuti dall’intelletto non sono attinti: ribadimento del/nel nichilismo. La posizione nichilistica sui valori ha la sua propria logica, che non è quella dell’essere, e che si dichiara nel sempre più esteso ricorso al pensare per valori, su cui ha attirato l’attenzione C. Schmitt (e prima di lui Hartmann e Heidegger) in un opuscolo dal titolo rivelativo: La tirannia dei valori. Non si potrebbe alludere ad una tirannia dei valori, se non ammettendo il loro provenire da una volontà ponente, che in quanto tale non potrebbe presentarli come una manifestazione del bene. Nella idea di libertà correlata a tale linea è l’uomo a porre di volta in volta, secondo determinazioni via via mutevoli, ciò che è moralmente obbligatorio oppure utile. Di ciò noi abbiamo sul terreno pratico una percezione di prima mano nella crisi di una legislazione morale universale e nel concomitante rinvio nei problemi della prassi alle infinite autolegislazioni empiriche degli individui.
Nella determinazione della natura del nichilismo teoretico viene raggiunto un volto di quella esperienza spirituale, complessa e molteplice, a cui si dà il nome di nichilismo senza aggettivi. Solo con tratto follemente dottrinario si potrebbe sostenere che l’intero processo del nichilismo in ogni suo ordine e manifestazione derivi da quello teoretico come una conseguenza scaturisce necessariamente e interamente da una premessa. Poiché lo spirito è una dimora dai molti padiglioni, in esso possono accadere esperienze di rivolta, di notte dello spirito, di mancanza di senso. Per venire in chiaro su di esse, nella misura in cui ciò sia in generale possibile, si aprono campi di meditazione di alta difficoltà. Tra i vari ci limitiamo a percorrerne uno con la massima brevità. Si può infatti porre la domanda se nel nichilismo non si dispieghi un’esperienza spirituale di rifiuto, di protesta, forse di odio contro l’esistenza, sino a desiderare intensamente che nulla sia, che nulla si affacci e venga alla vita. Il Mefistofele del Faust dà voce a questo assunto: «Sono lo spirito che nega sempre. E con ragione: perché tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla»31. L’esistenza sembra rivelarsi come assolutamen55
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te insostenibile, e perciò da fuggire e negare, e dunque infine come odiosa: una repulsione dell’essere per cui è bello e amabile solo ciò che non è. Il nichilismo non sarebbe un’accusa permanente contro l’essere, il cui autore viene giudicato troppo mediocre? Un frammento di Nietzsche sembra giustificare questa ermeneutica: «Un nichilista è colui che, del mondo qual è giudica che non dovrebbe essere e, del mondo quale dovrebbe essere, giudica che non esiste»32. Nel nichilismo sembra ritrovarsi un’attuazione dello spietato aforisma, nel quale Engels ravvisava il senso ultimo della dialettica hegeliana, secondo cui tutto ciò che esiste merita di morire. E per quale motivo lo merita, se non perché l’esistenza stessa è colpa? Vi sarebbe dunque nel nichilismo un odio dell’esistenza, perché questa è colpa espiabile solo con la morte33? Con l’allusione al tema della colpa l’orizzonte si dilata a dismisura, investendo la domanda sul male e sulla sua connessione con la finitezza. A queste altezze si muove il celebre frammento di Anassimandro, in cui parla una voce originaria del pensare: «Principio degli esseri è l’infinito […] da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»34. Qui il legame tra finitezza e morte appare necessario: perché la morte, la distruzione, se non in quanto l’esistenza finita incorpora una colpa che merita la pena, ed è dunque ontologicamente cattiva? L’esistenza come male! Non potrebbe tale male di colpa, in base al quale il finito merita di morire, consistere nell’essersi separato dall’infinito, dalla totalità originaria? Per cui sulla questione del male esisterebbero solo due posizioni ultime: quella suggerita dal frammento di Anassimandro, sottomessa all’idea della necessità ontologica del male e dell’espiazione; e quella biblica secondo cui il male venne inserito nel mondo da un atto di libertà, per cui esso non è inscritto nelle sorgenti dell’essere, ma è contingente e toglibile. A tali due concezioni corrispondono differenti idee sulla condizione umana: quella per cui essa come attualmente la conosciamo è perfettamente naturale; e quella secondo cui l’uomo è decaduto da una condizione più alta. Con molte metamorfosi la prima tesi tende a conservarsi nel razionalismo metafisico, appunto attraverso l’idea della mortalità di quanto esiste e della superiorità della filosofia sulla religione35. “Tutto ciò che esiste merita di morire”. Se insistiamo nel meditare la sentenza di Engels, dobbiamo domandare quale forma di morte vi possa essere allusa, al di là delle intenzioni di chi vergò la frase: la morte come trasformazione che mantiene qualcosa, o come restituzione dell’esistente al nulla di modo che la morte produrrebbe una fine as56
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soluta della vita e della storia? Non si può escludere che fra i vari sensi di nichilismo si debba annoverare quello di un annientamento terminale del Tutto, un esito che costituisce qualcosa di ben più radicale del sentimento di una soggettiva insostenibilità dell’esistenza. Nel nichilismo potrebbe risultare insito non il creare ma il decreare: esso sarebbe una filosofia della decreazione, che in un estremo rifiuto darebbe voce ad un voto antidivino per diventare niente. La predominanza dell’elemento negativo nel senso della trasformazione che annienta l’esistente – non a caso in ciò sta il motore del pensiero dialettico e della rivoluzione in Marx – può giungere nelle forme estreme ad un odio tanto intenso dell’esistenza da desiderare il suo annientamento totale. Ma non è questo un desiderare invano, un desiderare impotente? Se la vertibilitas in nihilum è possibilità sempre immanente in ogni creatura, solus Deus potest creaturam in nihilum redigere36. Il desiderio di precipitare nel nulla è e rimane inane, poiché l’uomo non può disporre della potentia ad non-esse. In tal senso il nichilismo come filosofia della decreazione vuole l’impossibile e il contraddittorio: si direbbe senza requie diviso in se stesso, sotto la sferza del gran Maestro Hegel, per il quale «Dio è veramente Dio solo se ritrova se stesso nell’assoluta devastazione» (Fenomenologia, I, 24). Se considerato nelle sue componenti metafisico-gnoseologiche, il nichilismo appare un evento tipicamente moderno. Inteso come più larga esperienza spirituale si può forse ravvisare un nichilismo antico legato alla gnosi, ed uno moderno accomunati dall’idea che l’uomo si trovi gettato in un mondo ostile, deprivato di senso e destinato alla dissoluzione (su questi aspetti si veda l’Annesso 1). Tuttavia mentre lo gnosticismo antico poneva la domanda sul Tutto e sul Demiurgo, molta parte del nichilismo moderno si colloca nell’ombra della sentenza “Dio è morto”, per cui il senso stesso di una possibilità di salvezza di origine divina viene meno e l’esistenza assume esclusiva valenza intramondana. La gnosi antica, a dispetto delle sue valenze nichilistiche, nutriva una religiosità soteriologica in cui giocava un ruolo centrale la conoscenza: colui che sa, è capace di liberarsi. Nel nichilismo moderno con l’accantonamento del tema della salvezza, la conoscenza non è liberazione ma sguardo senza speranza sulla mortalità e caducità della vita. In quanto atteggiamento antisoterico viene meno il desiderio di ricongiungersi al divino: anche qui Nietzsche segna un vertice. Nel suo richiamo all’innocenza improblematica del divenire è contenuta l’idea che esso non conduca a nulla e sia estraneo ad ogni prospettiva di salvezza o di perdita dell’esistenza. Rimane la domanda se al nichilismo moderno sia consustanziale solo la conoscenza del male di vivere, che fece scrivere a Montale: «Spesso il male di vivere ho incontrato:/era il 57
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rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia […]». Forse l’acuta percezione del male di vivere altro non è che la traduzione immediata del sentimento della vita come colpa, meritevole di espiazione e morte37. Considerato come esperienza spirituale, il nichilismo è una prova severa, che può condurre alla disgregazione e alla disperazione, poiché fondamento e scopo sono tolti dalla vita. La soggettività che dimora entro il suo spazio sta nella negatività della finitezza, o comunque nello squilibrio, perché mancandogli un lato, sconta la perdita dell’infinito. La forma di disperazione intrinseca al nichilismo sembra consistere nella mancanza dell’infinito, a cui corrisponde il confinamento intramondano dell’io. Note 1
E. Jünger, Oltre la linea, in E. Jünger-M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1989, p. 57. 2 Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 243. 3 Tra le interpretazioni del nichilismo andrebbe ricordata quella di E. Severino, secondo cui nichilistica è ogni metafisica che ammette il divenire, in quanto cade nell’errore di pensare che l’ente possa andare in niente. Fra le molte sue opere in proposito cfr. Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972. 4 Sentieri interrotti, p. 237 s. 5 Ivi, p. 242 s. 6 Ivi, p. 200 e p. 191. 7 Ivi, p. 243 s. 8 Si veda anche il volume Razionalismo critico e metafisica. Quale realismo?, Morcelliana, Brescia 19962, dove si troveranno delucidazioni sulle questioni del conoscere, del concetto, dell’astrazione nei suoi vari gradi, che in questo volume sono solo accennate. 9 S. Th., I, q. 85, a. 2. 10 Giovanni di San Tommaso, Cursus Philosophicus Thomisticus, ed. Reiser, q. IV, a. 1, Marietti, Torino 1948, p. 104. Si veda anche S. Th., I, q. 14, a. 1: «Non cognoscentia nihil habent nisi formam suam, cognoscentia autem possunt habere etiam formam rei alterius». Efficacemente si esprime P. Rousselot: «Conoscere significa principalmente e prima di tutto cogliere e stringere in sé un altro, altrettanto capace di cogliervi e di stringervi, significa vivere della vita di un altro vivente»; il ruolo dell’intelligenza «è di captare gli esseri, non di fabbricare dei concetti o di comporre degli enunciati», L’intellettualismo di san Tommaso, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 11. 11 Cfr. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 44.
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12 «L’intelletto, quando è in atto, è i suoi oggetti», De anima, 431 b17: frase che nella sua concisione enuclea l’elemento centrale del conoscere intellettuale. Precedentemente era stata sostenuta l’unità fra atto del senso e del sensibile (cfr. 425 b26). Sull’operazione intellettuale commenta Tommaso: «intellectus in actu est ipsum intellectum in actu, in quantum species intellecti est species intellectus in actu» (Commento al De Anima, ed. Pirotta, n. 789). Cfr. anche Met. 1051 b17 - 1052 a2, dove l’atto del nous è paragonato a un toccare (thigein). Questo punto di eminenza della dottrina realistica del conoscere viene abbandonato nella scolastica di Ockam con la sua peculiare idea della notitia intuitiva rei non existentis che, incorporando nella conoscenza il concetto di indipendenza rispetto all’oggetto, rende ben dubbia la portata realistica del conoscere. Naturalmente è qui in gioco la nozione di intenzionalità: «L’intenzionalità non è soltanto quella proprietà della mia coscienza di essere una trasparenza indirizzata, di prendere di mira gli oggetti in seno a se stessa: essa è prima di tutto quella proprietà del pensiero, privilegio della sua immaterialità, per mezzo della quale l’essere per sé posto “fuori di esso”, cioè pienamente indipendente dall’atto stesso del pensiero, diviene esistente in esso, posto per esso e integrato al suo atto: è insomma quella proprietà per mezzo della quale pensiero ed essere esistono in una sola e identica esistenza soprasoggettiva» (J. Maritain, I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1973, p. 132). La nozione di intenzionalità è lungi dal ridursi al riferimento obbligato a un oggetto, nel senso ovvio che il sapore è sempre sapore di qualcosa, e così il pensiero e ogni altro atto intenzionale che non può non avere oggetto. Questo modo tanto diffuso di presentare l’intenzionalità (si veda ad es. E. Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 1999, p. 280), è ad un tempo vero e assai riduttivo, perché non include il punto più decisivo consistente nell’intima unione fra conoscente e conosciuto, spesso tralasciato. 13 Nel realismo la conoscenza è intesa come una relazione non fra proposizioni, bensì fra proposizioni e “cose”, cui si collega l’idea di verità dichiarativa come adaequatio. Essa viene spesso tradotta alla lettera come segue: adeguazione dell’intelletto alla cosa/essere, che è lessicalmente corretta ma può dare adito (e spesso lo ha dato) a molti equivoci, come se la determinazione di verità dichiarativa introdotta volesse sostenere che si verifica un’adeguazione nel senso dell’esaurimento di tutto ciò che vi è di conoscibile nella res, e la verità si potesse raggiungere in un sol colpo. Poiché non è così che deve venire intesa la determinazione avanzata, ricorreremo spesso ai termini di conformità, corrispondenza che forse meglio dichiarano la mai finita adeguabilità alla res. L’adeguazione è anche un’adeguabilità, una conformabilità. Sul concetto di verità come conformità o corrispondenza rinvio ai seguenti studi: 1) Voce “Verità” in Dizionario Interdisciplinare Scienza e Fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 1502-1518; 2) Filosofia e Rivelazione, Città Nuova 2000, 2° ed., pp. 109 ss; 3) “La domanda sulla verità e i suoi concetti”, cap. II di Essere e libertà, cit.
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14 Cfr Commento al De Anima, ed. Pirotta, n. 790. Sul tema cfr. anche S. Th., I, qq. 16, a. 3; 80, a. 1; 84, a. 2 15 È noto come in numerose scuole moderne si sia affermato un primato della prassi e dei suoi interessi, già esplicito in Kant: «Non si può affatto chiedere alla ragione pura pratica di essere subordinata alla ragione speculativa, invertendo così il giusto ordine, poiché ogni interesse è infine pratico, e persino quello della ragione speculativa è solo condizionato e si completa nell’uso pratico», Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 148. 16 H.G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1988, p. 53. 17 Ricerche logiche, Guerini, Milano 1988, p. 47. 18 Nel termine di “intellettualismo esistenziale” l’aggettivo mostra affinità sia con la filosofia dell’esistenza e l’“esistentivo”, nomi con cui a cavallo degli anni ’20 si designavano pensatori come Jaspers, Heidegger e in certo modo Bultmann; sia con l’esistenzialismo francese di origine sartriana (all’origine di aspetti di tali due correnti si può collocare Kierkegaard con la sua rivolta contro l’idealismo assoluto hegeliano). Le affinità andrebbero considerate soprattutto lessicali, poiché la filosofia dell’essere quale filosofia dell’esistenza e intellettualismo esistenziale non appartiene alle due scuole suddette. Diversamente da Hegel secondo cui la verità dell’essere è l’essenza, l’intellettualismo esistenziale sostiene: la verità dell’essere è l’esistenza. Di questa si dà sapere, non però sapere assoluto che sa se stesso ed è certo di sé. 19 Cfr. Verità e metodo, Bompiani, Milano 1995, p. 306. 20 De interpr., 16 a 27. 21 Distinguendo il soggetto dai suoi predicati, la lingua conduce naturalmente verso i concetti di sostanza e di accidente. Una metafisica è implicitamente veicolata nella lingua e nella grammatica: per solidi motivi nichilistici Nietzsche si scagliava contro quest’ultima. 22 Cfr. De veritate, q. 4, a. 1. 23 «Cum verbum interius sit id quod intellectum est, nec hoc sit in nobis nisi secundum quod actu intelligimus, verbum interius semper requirit intellectum in actu suo qui est intelligere», De veritate, q. 4, a. 1, ad 1m. Cfr. anche De potentia, q. 8, a. 1. 24 Osserva con chiarezza Popper: «La verità non dipende dal linguaggio, non è relativa ad esso» (Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna 1995, p. 76). Infatti dipende dalle cose, che sono come sono e non mutano al variare del linguaggio. Le traduzioni da una lingua all’altra sono possibili, così come operare confronti intellettuali fecondi fra sistemi concettuali nati per rispondere agli stessi problemi. Un esempio valido del campo dell’astronomia sta nella possibilità di confrontare sistemi tolemaici con sistemi copernicani. 25 Scrivendo: «La filosofia del linguaggio non segna forse una rottura senza precedenti con la tradizione nel suo insieme, una rottura tale cioè da impedire la comprensione di ciò con cui essa rompe?» (Logica ermeneutica, «AutAut», gennaio-aprile 1977, p. 97), Ricoeur sembra chiedere che la filosofia del linguaggio non si sottragga alla storia della metafisica. Tale sottrazione è invece compiuta da R. Rorty: «Esso [il linguaggio] non serve a nulla al di fuo-
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ri di sé. Né “il mondo” né “ciò che si vuole” designano alcunché tranne la descrizione datane dal linguaggio. La scelta di un dizionario non può essere determinata da alcunché di estraneo al linguaggio […] Nel periodo post-moderno, la filosofia sarà libera dai pesi dell’argomentazione […] Tutto cambierà […] La mia tesi dice soltanto che non abbiamo idea della destinazione di alcunché – linguaggio compreso – e che perciò possiamo fare quel che ci pare, nella misura in cui è nuovo e interessante», Di là dal realismo e dall’antirealismo: Heidegger, Fine, Davidson e Derrida, ivi, p. 112 e p. 114 s. 26 È possibile schizzare nelle seguenti tappe il processo che ha condotto all’ipertrofia della filosofia del linguaggio: a) l’unità variamente intesa di pensiero ed essere rimase per lunghe epoche non sfidata. Ad essa si coordinava quella fra parola e cosa; b) con l’avvento dell’antirealismo si procede a separare i due termini di quella unità. Centralità dell’idea invece che dell’essere. Canto del gallo del dualismo, da cui procedono: la nuova via alle idee; l’enigma della cosa in sé; la crisi della metafisica; c) spostamento di attenzione dall’idea al linguaggio, che assume il linguaggio come oggetto puro e impiega la critica del linguaggio come arma per dissolvere i problemi filosofici. 27 Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997, p. 40. 28 Il rapporto della filosofia cartesiana con l’esistenza appare delicato e fondamentalmente equivoco. Per Cartesio non vi è nulla che possa da me esser percepito con più evidenza e facilità della mia mente; perciò egli invita a chiudere gli occhi, turarsi le orecchie, mettere a tacere tutti i sensi (ossia separarsi dallo splendore del mondo), per volgersi soltanto alla propria interiorità, a partire dalla quale sia possibile dedurre l’intero sistema della scienza. Egli sin dall’inizio separa pensiero ed essere, abbandonando la natura direttamente manifestativa dell’idea – manifestativa, intendo, della cosa reale; e si separa dal mondo. Occorrerà anzi dedurre l’esistenza del mondo esterno. Ma una volta dedotta, essa rimarrà una specie di “x”. La metafisica cartesiana porta sulle idee di Dio, di res cogitans, non porta direttamente sull’esistenza e la sua conoscenza. Torneremo su questi temi nel cap. II. 29 Cfr. Ricerche sull’essenza della libertà umana, Carabba, Lanciano 1974. 30 Cfr. Sull’essenza della verità, La Scuola, Brescia 1974. 31 Studio, I, trad. G. Manacorda, Mondadori 1944, p. 42. 32 Frammenti postumi, Adelphi, Milano 1979, vol. VIII, t. II, p. 26. 33 La forma di disperazione a cui qui si allude, è stata intuita da Kierkegaard in La malattia mortale, entro il quadro di una disperazione dell’io che, disperatamente volendo essere se stesso, esibisce caratteri demoniaci. «Questa disperazione non vuol neanche essere se stessa in un’infatuazione stoica e in una divinizzazione di se stessa […]; no, vuol essere se stessa nell’odio contro l’esistenza […] Essa crede, ribellandosi contro tutta l’esistenza, di aver ottenuto una prova contro l’esistenza, una prova che l’esistenza non è buona. L’individuo disperato crede di essere lui stesso questa prova, ed è quello che egli vuol essere: vuol essere se stesso, se stesso nel suo tormento, per potere, con questo tormento, protestare contro tutta l’esistenza» (Mondadori, Milano
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1990, p. 84 s.). Una protesta simile si incontra negli scritti di Cioran, in specie in La tentazione di esistere. Ed è forse per questo che coloro i quali vanno incontro ad una tale esperienza spirituale, rifiutano il suicidio: la loro esistenza deve rimanere come permanente attestato, di fronte al Signore della vita, della sua mediocrità. In altri casi la protesta contro l’esistenza si esprime come antiumanesimo radicale, odio contro l’uomo, la natura, l’intera creazione, sino al punto di operare per estinguere il genere umano: è noto che alcune sette vietavano la procreazione. Qui nel risentimento e spesso nel vero e proprio odio contro la vita è possibile leggere un rinvio a colui che è chiamato “omicida sin dall’inizio”. 34 I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1990, t. I, p. 106 s. Sull’esistenza come male sostanziale inespiabile i pensieri più severi ed espliciti sono stati formulati da Leopardi in una visione in cui dominano un’universale disperazione e negatività: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male», Zibaldone, n. 4174. 35 Sulla questione della naturalità della morte Pascal aveva individuato un punto di discrimine fra cristianesimo e antichità. Scrivendo (17 ottobre 1651) alla sorella Mme Périer e al cognato in occasione della morte del padre, osserva: «Seneca e Socrate […] sono rimasti sotto l’errore che ha accecato tutti gli uomini nel primo: essi hanno tutti considerato la morte come naturale all’uomo; e tutti i discorsi che hanno fondato su questo falso principio sono così futili, che non servono che a mostrare con la loro inutilità quanto l’uomo è in generale debole, poiché le alte produzioni dei più grandi fra gli uomini sono così basse e puerili» (Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1980, p. 492). Il tema tipicamente heideggeriano del “essere-per-la-morte” può venire accostato, facendone scaturire inedite risonanze e gettando luce su un fondo gnostico presente in Heidegger, alla frase di Engels sulla meritata destinazione dell’essere alla morte. 36 S. Th., III, 13, 2. 37 Il rapporto fra nichilismo e gnosi è argomento intricato per una serie di motivi, fra cui la complessità e le notevoli oscillazioni delle principali dottrine gnostiche. Da parte nostra incliniamo a individuare in esse un elemento antirealistico, di cui può essere espressione la loro valenza anticosmica. L’inconoscibilità di Dio attraverso il mondo – un mondo malvagio, sommerso dalle tenebre ed opera di un Demiurgo cattivo – confligge con un assunto cardinale del realismo in base a cui Dio è almeno parzialmente conoscibile attraverso il mondo che, anche a non considerare il principio creazionistico, non è ritenuto un’entità cattiva. Per lo gnostico sarebbe sorgente di salvezza sapere «chi eravamo, che cosa siamo diventati; dove eravamo, dove siamo stati gettati; verso dove stiamo andando, da che cosa saremo liberati; che cosa significa la nascita, che cosa la rinascita» (Excerpta ex Theodoto 78, della scuola dei valentiniani). Meriterebbe un’approfondita analisi l’idea che il carattere fondamen-
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talmente antirealistico e perciò nichilistico (teoreticamente nichilistico) della dialettica hegeliana identificante logica e metafisica possa ospitare valenze gnostiche, come hanno osservato F. C. Baur e J. Taubes (Cfr. F.C. Baur, Die christiliche Gnosis oder die christliche Religionsphilosophie, Tubingen 1835; J. Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997). Varrebbe dunque la relazione che là dove c’è dialettica c’è gnosi, mentre non sarebbe sempre vero il viceversa?
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Capitolo secondo
1. Tentativi di neutralizzare l’esistenza
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Conoscenza metafisica dell’esistenza
Si dice che la bellezza della donna cresca con gli anni: varrebbe questo anche per la filosofia, che è donna, e in specie per quella moderna? E in che cosa altro potrebbe consistere la bellezza della filosofia, se non nel saper conoscere l’essere/esistenza1? Per questo ci vuole tempo, si dice, anche se la filosofia non ne è stata priva. Assumiamo senza sottintesi che la sua bellezza cresca col tempo, non automaticamente però, bensì in rapporto alla conoscenza dell’esistenza, e dedichiamo attenzione alla modernità di espressione razionalistica e idealistica. Ha essa voluto conoscere l’esistenza? O ha invece inteso metterla da parte già con Cartesio, che filosofa non per conoscerla ma per dedurla? «Dedurre dalla conoscenza di Dio stesso la spiegazione delle cose da lui create, in modo tale da acquistare la scienza più perfetta, che è quella degli effetti dalle cause»2. L’ambizione assoluta di Cartesio va verso l’edificazione di un sapere compiutamente deduttivo, che proceda dal principio ai principiati, dalle cause agli effetti, da Dio alle cose, e nel quale l’esistenza finita venga dedotta dal pensiero. Capovolgendo il cammino naturale della ricerca umana e il metodo del filosofare, che lungi dal poter pretendere di installarsi nell’Assoluto, deve partire da ciò che è per noi il più noto e vicino, egli inaugura l’impiego del metodo sintetico in filosofia, che è piuttosto proprio della teologia rivelata da un lato e delle matematiche dall’altro, e il ricorso alla dimostrazione a priori3. Il grandioso tentativo cartesiano trova il suo apogèo e la sua terminale conclusione nel pensiero di Hegel, quando si cercò di risolvere l’esistenza in una formula logico-dialettica (torneremo su tale notevolissimo momento). Allora parve che il sistema completo dell’esistenza fosse a portata di mano, e che per martedì prossimo o al massimo il successivo sarebbe stato finalmente dato alle stampe nella sua interezza. 65
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Se lo scorrere del tempo non ha forse accresciuto la nostra bellezza, ci ha reso sufficientemente avvertiti che non può darsi sistematica dell’esistenza, ma conoscenza dell’essere. Come edificheremmo infatti un sistema dell’esistenza? Se mediante concetti logici, avremmo il sistema ma non l’esistenza reale, che sempre se ne sta fuori dalla logica, la cui potenza non si estende oltre le leggi di connessione tra concetti. Se invece mediante conoscenze storiche puntuali ed esperienze individuali di vita, conseguiremmo certo qualche accesso all’esistenza, ma niente sistema. Dell’esistenza come tale, dell’esistenza raggiunta nel suo valore universale non se ne saprebbe nulla in entrambi i casi. Al di fuori di ogni sistematica dell’esistenza, rimane la strada della conoscenza dell’essere, libera, impregiudicata, aperta come è la vita, ma appunto come la vita con un suo interno ed organico ordine. Tale è la strada della metafisica, che dopo l’epoca del sistema che logicizzava l’essere, e quella più vicina a noi in cui quest’ultimo parve parola vuota, può riprendere a pensarlo e a conoscerlo. «Crederò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne non siano altro che una beffa dei sogni, con cui egli [Dio] ha teso delle trappole alla mia credulità. Considererò me stesso privo di mani, di occhi, di carne, di sangue, dei sensi, e che sono in errore quando ritengo di possedere tutte queste cose […] Ora chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, metterò a tacere tutti i sensi, cancellerò anche tutte le immagini delle cose corporee persino dal mio pensiero»4. Queste inequivoche espressioni di Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia, che danno l’avvio al pensiero moderno nel suo consapevole separarsi da quello greco e medievale, rendono nella maniera più vivida la nuova intenzionalità della ricerca, la quale mettendo tra parentesi l’esistenza extramentale, vuole fondare la philosophie nouvelle sull’esame dell’interiorità e del cogito. Il pensiero cartesiano opera il cominciamento con un atto di separazione dallo splendore dell’esistenza del mondo, che egli cercherà poi di dedurre, ma spogliata di ogni suo aspetto tranne quello dell’estensione, poiché solo la conoscenza del nostro io e di Dio sono le realtà «più certe e le più evidenti che possano essere conosciute dall’ingegno umano»5. Che cosa ne è dell’essere in questa filosofia engagéante et hardie, che volle presentarsi come la più vera e autentica filosofia cristiana? Che pose l’esistenza del pensiero come il primo principio dal quale si deduce tutto il resto? E che ritiene che coloro i quali hanno cominciato dalla filosofia antica, siano i meno adatti a comprendere bene la vera (la nuova filosofia di Cartesio)6? Deve presentarsi come tema degno della più accurata attenzione, se col pensiero cartesiano non inizi un’e66
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poca di accentuato oblio dell’essere, capace di coinvolgere i più grandi esponenti della modernità filosofica. L’impresa cartesiana e la plurisecolare discendenza filosofica che ne è proceduta, sono ormai alle nostre spalle, ed il loro programma forse conchiuso. Se è vero che la filosofia non giunge mai a termine, rinascendo continuamente dalle sue ceneri o dalle sue crisi, possono invece pervenire a conclusione secolari programmi di ricerca, come quello cartesiano rappresentazionale, in cui assunse immenso rilievo il tema gnoseologico della natura e “rappresentazionalità” delle idee, e scarso rilievo quello della conoscenza dell’essere. Tutto lascia pensare che Cartesio ritenesse di aver regolato una volta per tutte la questione dell’essere; che considerasse agevole da svolgere e infine sostanzialmente risolto il senso dell’esistenza. Quando il pensiero considera agevole trattare dell’esistenza, è fatale che ci si imbatta in numerose obiezioni. Una delle maggiori è forse la seguente: «L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da fare con essa»7. Quando due secoli dopo Cartesio Kierkegaard verga questa frase, che costituisce una smentita del cartesianismo, egli con quelle mosse dialettiche in cui era maestro riapre il dossier dell’esistenza (e della domanda sull’essere), che la filosofia moderna stava procedendo a chiudere, come se si trattasse della cosa più scontata del mondo. Siano rese grazie a Kierkegaard per aver introdotto nel compatto organismo dell’idealismo trascendentale, ormai in procinto di abbandonare l’esistenza o di digerirla come idea, una spina nella carne: quella spina secondo cui aver a che fare con l’esistenza è il massimo e il più difficile tra i problemi filosofici. Siano rese grazie a Kierkegaard per essersi fatto interprete della protesta dell’esistenza contro lo spirito di sistema, e per aver ricordato ai filosofi dell’essere che il loro compito poteva ricominciare; per aver fatto intendere che tra tutti i postulati, quello di operare il cominciamento dal pensiero puro e non dall’esistenza era il più traballante e incredibile, perché rendeva l’esistenza qualcosa di indifferente, invece che la sorgente prima di ogni intelligibilità. Ogni autentico ed essenziale conoscere riguarda l’esistenza; e soltanto il conoscere che ha un rapporto con l’esistenza è conoscere essenziale. Esiste perciò un rapporto originario e necessario tra pensiero ed esistenza, entro il quale la metafisica manifesta una costitutiva vocazione esistenziale, in cui oggettività e soggettività si uniscono, dandosi la mano. Sin dagli albori della filosofia greca il compito conoscitivo si è prospettato con Parmenide attraverso la proposizione dell’identità tra pensiero ed essere8, che costituisce uno dei temi più alti che hanno attra67
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versato il cammino del filosofare, sebbene poi la lettura del lascito parmenideo sia stata compiuta lungo due soluzioni tra loro incomponibili. Uno schema assume che nell’equazione tra pensiero ed essere il primato vada al primo termine: il pensiero puro, facendo il cominciamento da se stesso e isolandosi, non vuole aver nulla a che fare con l’esistenza quale sostrato ultimo e indipendente, ma cerca di dedurla dal proprio automovimento. Emigrando dall’esistenza, il pensiero si stabilisce in sé, e finisce per girare a vuoto. Esso non pensa la realtà, ma si installa nella logica in modo tanto più mistificante quanto più introduce nel pensiero logico, che è astratto e intemporale, la commedia del movimento. Questo fu il compito di Hegel. Egli concepì l’ardita idea di partire dall’essere puro, vuoto e indeterminato della scienza della logica, e per evitare che l’impresa si concludesse in uno scacco sin dal suo primo passo, volle stabilire la filosofia sulle sue basi definitive introducendo il movimento dialettico nella logica. Ma la logica tollera il movimento? Oppure la sua introduzione significa che perfino in essa, la scienza del pensiero limpido, puro, rigoroso, si inietta la confusione? Hegel cercò qualcosa di grande, ma fallì perché in un sistema logico non vi è rapporto con l’esistenza, in quanto le entità logiche sono indifferenti all’esistenza o al suo contrario. La potenza della logica si estende perciò a tutto quanto può venire pensato secondo concetti e alle loro connessioni, ma è impotente nei confronti della percezione dell’esistenza. Tuttavia in un equivoco maggiore di quello hegeliano sono incorsi coloro che, invece di iniettare il movimento nella logica, hanno pensato bene di toglierlo anche dall’esistenza, eternizzandola in ogni sua minima manifestazione al pari di una formula logica. In entrambi i casi si opera il cominciamento mediante un’idea di essere in cui esso è inteso come il genere più vasto e vuoto (genus generalissimum), invece di cominciare dall’ente quale universale concreto, gravido di tutte le sue determinazioni. Chi si fa prendere nel tranello secondo cui la filosofia speculativa è tanto più profonda quanto più comincia con l’essere puro, vuoto e indeterminato della logica, è finito perché di caduta in caduta si allontanerà sempre di più dall’esistenza. Alla fine del processo l’esistenza è svanita, e la filosofia speculativa, il cui compito fondamentale è di comprendere/conoscere l’essere, si trova nella curiosa condizione di essere agli antipodi dell’esistenza. Se il vertice del nichilismo teoretico si colloca là dove dell’essere non ne è più nulla, nichilismo e neutralizzazione dell’esistenza si presentano come le due facce di un’unica medaglia. La chiara e netta posizione di Kierkegaard fu: «un sistema logico è possibile; ma non è possibile un sistema dell’esistenza. Pertanto se si 68
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deve costruire un sistema logico bisogna badare soprattutto che non venga assunto nulla di ciò che è soggetto alla dialettica dell’esistenza, cioè di quanto è unicamente perché esiste o perché è esistito, e non per via dell’essere (logico)»9. Poiché l’essere logico è indifferente all’esistenza, fare con esso il cominciamento implica procedere lasciando da parte l’esistere! Implica filosofare lasciando da parte il problema a partire dal quale il filosofare assume il suo senso. Pur opponendosi con passione infinita ad Hegel, Kierkegaard rischiò di passare accanto alla soluzione (sbagliò però meno di Hegel) quando oppose seccamente pensiero ed esistenza, ritenendo sotto l’influsso del dialettico di Stoccarda che pensiero, sistema e mediazione si rapportassero esclusivamente nel modo da questi stabilito; e che perciò l’unico pensamento dell’esistenza si desse solo nel sistema (il che era per Kierkegaard vanità e follia), al di fuori del quale non restava che l’esperienza e la passione soggettiva del singolo, immerso sino al collo nelle contraddizioni della vita. Per liberarsi del suo avversario, Kierkegaard rischiò di privarsi del pensiero dell’esistenza, non solo di quello spurio, che è una mera onto-logica, ma anche di quello autentico proprio della Seinsphilosophie, che pensa l’esistenza singola nell’universale e con l’universale, senza alterarla né logicizzarla. Scrisse: «Esistere significa anzitutto e soprattutto essere un singolo, ed è per questo che il pensiero deve prescindere dall’esistenza perché il singolo non si lascia pensare, ma soltanto l’universale»10. Opponendo individuale (che è certo inesauribile e ultimamente ineffabile) e universale (inteso à la Hegel come essenza logica e sistema), il Danese non vide che con il concetto trascendentale (e dunque universale) e analogo di essere noi raggiungiamo in qualche modo anche il singolare.
2. L’esistenza come fonte prima di ogni intellegibilità Ma vi è un’altra maniera di interpretare il venerando lascito di Parmenide sull’identità fra pensiero ed essere, ed esso fu il compito di larga parte del pensiero greco (in specie di Aristotele) e della tradizione della filosofia dell’essere. Fu il cammino denotato da due assunti cardinali: la primalità dell’essere rispetto al pensiero, per cui il cominciamento va fatto da quello, non da questo; l’intendimento dell’identità fra pensiero ed essere come identità non fisica, ma intenzionale, per cui il pensiero nel concetto e col concetto diviene intenzionalmente o immaterialmente la cosa11. Nella sua intenzionalità conoscitiva la filosofia cerca di conoscere gli esistenti: le cose che sono e come sono. In certo modo l’intero problema della metafisica è contenuto nel rappor69
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to tra filosofia ed esistenza, e più esattamente nella conoscenza dell’esistenza come tale, onde raggiungerne una scienza teoretica. La metafisica si volge ad essa non come ad un elemento empirico che è muto per l’intelletto, ma come alla fonte prima di ogni intelligibilità, ciò da cui si aspetta una possibile rivelazione del senso dell’essere; si volge all’esistenza come tale, in tutta la sua possibile ampiezza, non perciò soltanto a quella che viene colta attraverso la conoscenza sensibile. Per determinare con maggior proprietà il linguaggio, diremo che si dà un termine o oggetto connaturale della conoscenza umana, ed esso è l’ente materiale, conosciuto mediante i sensi. Questa conoscenza non costituisce ancora l’oggetto della metafisica, che è l’esistenza o l’essere “liberato” o astratto dal sensibile, l’ente in quanto ente (ens in quantum ens) colto in una intellezione astrattiva. È un equivoco confondere i due momenti della conoscenza naturale spontanea e di quella astrattivo-scientifica, e immaginarsi che sia l’essere come raggiunto dalla prima, l’essere dunque come incorporato nelle cose sensibili, non astratto e visualizzato nel suo valore trascendentale, a costituire l’oggetto della metafisica. Poiché l’oggetto della metafisica è l’ente in quanto tale, e l’ente (ens = id quod habet esse) è ciò il cui atto è l’esistere, il termine più radicale verso cui si dirige l’intellezione metafisica è (oltre alla conoscenza della sola essenza) l’atto d’essere degli essenti. Pertanto essa –, che pur prendendo le mosse dall’essere delle cose sensibili e materiali, astrae poi dalle condizioni materiali dell’esistenza empirica –, non astrae mai dall’esistenza, in funzione della quale conosce tutto quello che conosce. Se la polarità esistenza-essenza costituisce la coppia massimamente reggente dell’intera storia della metafisica, la coppia che occupa un rango ontologico più alto delle polarità materia-forma, sensibile-intellettuale, uno-molti, in essa il momento più qualificante è dato dalla conoscenza dell’esistenza piuttosto che solo dell’essenza. Poiché poi ciò che vi è di più reale e più intimo nella realtà è l’atto d’essere (esse; actus essendi) esercitato da ogni cosa, la metafisica è scienza massimamente reale, in quanto cerca di “toccare” l’esse: toccarlo non di una scienza intellettuale-intuitiva del singolare, ma universaleastrattiva, l’unica possibile per lo spirito umano. Molte metafisiche hanno detto e dicono invece: la filosofia in quanto scienza della ragione e dei suoi concetti più astratti si dirige all’in sé delle cose, alla loro essenza, onde la metafisica è solo una scienza delle essenze, ossia dei possibili. Viene così compiuto un passo falso, nel senso che l’esistenza viene lasciata fuori dalla filosofia e questa intesa come un sapere che si rivolge alla intelligibilità delle essen70
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ze come all’oggetto più proprio del conoscere umano, mentre l’essere esistenziale è concepito come un mero di più, un elemento di fatto o un accidente che si aggiunge all’essenza quale costitutivo intelligibile già perfettamente compiuto in se stesso (fra le filosofie del nostro secolo sembra appartenere a questa classe la fenomenologia di Husserl, da questi determinata come una teoresi che si rivolge alle essenze). Tuttavia il concetto di esistenza giace interamente al di fuori di quello di essenza: la circostanza che qualcosa con una certa essenza esista o non esista non cambia nulla dal lato dell’essenza, mentre cambia tutto dal lato della realtà. Non è possibile dedurre l’esistenza dall’essenza. La metafisica subisce un’alterazione decisiva se, rinunciando alla conoscenza dell’esistenza, si volge solo ai possibili, alle essenze: subisce una specifica forma di oblio dell’essere, che è ad un tempo oblio della differenza fra ente ed essere, e oblio del primato dell’esistenza sull’essenza. Il disguido della tradizione razionalistica moderna, che perlopiù ha essenzializzato l’esistenza o ha preteso di dedurla dal pensiero, sembra consistere nel voler partire dall’astratto per raggiungere il concreto. Nell’asserire che l’essere è a se stesso la sua propria luce si integra l’idea che in ogni cosa è l’esistenza (reale o possibile) a costituire la sorgente ultima dell’intelligibilità, a cui risponde l’atto conoscitivo dell’intelletto. «Esse est actualitas omnis rei; Actualitas rei est quoddam lumen ejus; Ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate; Veritas sequitur esse rerum»12. In queste espressioni decisive vengono posti a tema il rapporto tra metafisica ed esistenza, e l’essenza della verità nel suo fondarsi sull’esse piuttosto che nella quiddità. In base al loro contenuto gli asserti citati dicono che l’atto d’essere è in ogni cosa l’atto radicale che la pone fuori dal nulla e fuori dalle sue cause, che l’esistenza in atto della cosa è la sua propria luce, e infine che – in quanto nella verità si esprime l’adeguazione fra l’atto enunciativo della mente e la realtà, dove l’elemento più radicale è l’atto d’essere degli essenti –, il luogo ultimo della verità ontologica va identificato nell’esse/esistenza, più che nell’essenza. Nel momento del giudizio quale luogo della verità non si hanno dinanzi essenze sussistenti, ma esistenti reali, a cui esso fa appunto fronte. Viene confermato che il significato più profondo del realismo filosofico consiste nell’andare con l’intelligenza all’esistenza stessa, ossia nel riconoscere che l’esistenza non è cieca e neppure un mero positum (dato di fatto che non ha nulla da esprimere), bensì è fonte di intelligibilità in senso più profondo e in certo modo misterioso di quanto non lo sia l’essenza. Sempre intelligibilità ed atto si corrispondono, poiché ogni cosa è intelligibile nella misura stessa in cui è in atto. Orbene, dal momento che l’esse sussiste 71
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nel cuore dell’essente come suo atto primo e fondante ogni altro atto, nel porre a proprio oggetto l’ente in quanto tale e in ultima istanza l’esse la metafisica raggiunge il centro dell’esistenza e l’intelligibilità che le è connessa. La conoscenza perfetta consiste nell’intuizione dell’oggetto singolo, ed essa sarebbe una conoscenza divina. Questo elemento costituisce una situazione di umiltà per la metafisica la quale – non essendo una scienza intuitiva dell’esistenza singolare e del suo atto d’essere, poiché come ogni scienza conosce l’universale e nell’universale –, attinge solo indirettamente i soggetti singolari, che costituiscono però tutta la realtà. All’uomo è negata ogni scienza immediato-intuitiva dell’esistere, essendo l’intelletto umano dotato non di un’intuizione pura ma solo astrattiva (al chiarimento del tema dell’intuizione intellettuale è dedicato il cap. successivo). D’altronde l’oggetto proporzionato dell’intelletto umano non è costituito dall’esse puro e infinito ma dall’ente, e dunque da un atto d’essere ricevuto e limitato da un’essenza: l’intelletto umano può cogliere ciò che ha un’essenza che partecipa all’essere. Il rapporto tra esistenza ed essenza, che è di distinzione reale negli enti, è tale per cui l’atto d’essere attua l’essenza, essendone limitato. Quest’ultima svolge dunque la funzione di coprincipio potenziale dell’ente, nel senso che l’essenza è di per sé in potenza rispetto all’esistenza.
3. Giudizio ed esistenza Se la verità si fonda soprattutto nell’atto d’essere piuttosto che nell’essenza, con quale atto l’intelletto umano potrà coglierla? Di fronte allo sguardo dell’intelligenza che considera l’ente, questo si disloca nei due aspetti dell’essenza e dell’esse, che vengono colti da due specifiche operazioni dello spirito. L’essenza, ciò che una cosa è, viene raggiunta dalla prima operazione (la apprensione semplice) ed espressa in un concetto; mentre l’esistenza (esse/actus essendi) nel giudizio (seconda operazione dello spirito). In esso lo spirito non afferra le determinazioni quidditative dell’ente, già raggiunte dalla apprensione nell’unità intenzionale del pensiero e della cosa, bensì raggiunge l’atto stesso in virtù di cui la cosa è, il suo esse; lo raggiunge intenzionalmente e come portandolo nel proprio seno. La conoscenza intellettuale è un atto che risponde all’atto di esistere e che si compie nel giudizio. Fondandosi sull’atto d’essere dell’ente, la verità altro non è che l’adeguazione dell’atto del pensiero a ciò che esiste fuori di esso, all’esi72
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stenza esercitata dalle cose. Il giudizio, che unisce (o divide) soggetto e predicato, possiede dunque significato esistenziale, non soltanto copulativo: quando nel giudizio dichiaro che una cosa è in un certo modo, non contemplo un quadro di essenze, ma affermo che nell’esistenza reale quella cosa esiste nel preciso modo che si è formulato col giudizio. Sarebbe fermarsi ben prima che a metà strada ritenere che il giudizio si limiti ad applicare nella sua sintesi o compositio un predicato a un soggetto, una forma universale a un soggetto particolare: sin qui non saremmo usciti di molto o per nulla dal campo della logica. Il carattere fondamentale del giudizio è esistenziale-reale: esso traspone la mente dal livello delle essenze o degli oggetti di pensiero al livello dell’esistenza reale, dove gli oggetti di pensiero designano cose o soggetti che esercitano l’esse. Proiettando nell’esistenza reale i concetti appresi dalla mente, il giudizio rimette in contatto, dichiarandoli identici in re, soggetto e predicato, prima separati dall’apprensione (la quale è anch’essa una forma di intuizione che però, cogliendo solo le essenze astratte e separate dall’esistenza, non raggiunge il concreto). Nel giudizio si coglie l’esistenza reale esercitata da un oggetto (existentia ut exercita), non l’esistenza rappresentata (existentia ut significata), raggiunta a modo d’essenza o quiddità nel processo astrattivo dell’apprensione. Nel giudizio quale atto di sintesi reale l’intelligenza, operando al più alto grado di visualizzazione eidetica, tocca la cosa stessa e la sua attualità suprema, l’esse; raggiunge intenzionalmente l’atto di esistere che la cosa esercita (o può esercitare) nella realtà, cogliendone la infinita distanza rispetto al nulla (nihil absolutum). Raggiunge l’esse in quanto determinante e perfezionante, non determinabile e perfezionabile; lo raggiunge come qualcosa di infinitamente più intenso e ricco del semplice esser-presente, dell’esser-là (Dasein), nel qual caso la cosa è raggiunta come mera presenza al mio mondo, non come realtà o esistenza “assoluta”. La portata obiettiva di ogni giudizio è di sboccare sull’esse. Ciò vale in special modo per il giudizio di esistenza o di “posizione assoluta” del tipo: “A è”. Quando si afferma “Carlo Magno esiste”, non si attribuisce alcun predicato nuovo alla nozione di Carlo Magno già determinata in se stessa, ma si afferma l’esistenza reale di Carlo Magno. La forma verbale preminente nel problema dell’essere risulta l’indicativo presente alla terza persona singolare “è”, e in special modo la forma in cui non vi è predicato. Il giudizio di esistenza si presenta come una posizione assoluta, con carattere diverso dai giudizi copulativi o attributivi in cui un’essenza (il predicato) è attribuita al soggetto, poiché in esso si afferma puramente e semplicemente l’esi73
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stenza di un soggetto come posto fuori dal nulla. La sua peculiarità deriva dal fatto che l’esistenza non è predicato necessario di alcuna essenza finita, dal momento che l’analisi del concetto di quest’ultima non consente mai di scoprirvi l’esistenza: essa non è analitica. Già Aristotele osservava che l’esistenza di una cosa non può appartenere alla natura del concetto; che le definizioni non rivelano che l’oggetto da esse denotato possa esistere13. Nel giudizio di esistenza, l’esse viene raggiunto più immediatamente che nelle altre due forme di giudizio dove la funzione copulativa tende a primeggiare su quella esistenziale: 1) il giudizio di essenza (l’albero è verde), in cui una forma-predicato è applicata al soggetto; 2) il giudizio di semplice presenza al mio mondo (l’albero è qui); i quali presuppongono il giudizio di “posizione assoluta” e il suo valore realista. La sua possibilità è fondata sull’unità analogica e trascendentale dell’essere; mentre in Kant riposa sull’unità sintetica apriorica dell’appercezione trascendentale. Il giudizio è sì sintesi, ma non costruita a priori dallo spirito e da esso proiettata nelle cose, bensì operata dall’intelletto sotto la guida dell’esistenza: attraverso un’attiva visione intellettuale esso unisce soggetto e predicato in base all’informazione intelligibile emergente dal loro contenuto. Dal reciproco confronto del soggetto e del predicato emerge la necessità dell’affermazione (o negazione) del predicato come predicato del soggetto in quanto uniti (o separati) nell’esistenza reale o possibile14. La struttura del reale non è modellata dalla forma del giudizio, come se il reale dovesse calarsi e modellarsi su calchi, che sarebbero le forme a priori dello spirito. Al contrario la copula del giudizio, fondata sull’esse dell’oggetto reale, cerca di attingerlo intenzionalmente. Le datità fenomenologiche fondamentali del conoscere lo dichiarano un processo scoprente-accogliente-vedente, non aprioricosintetico-fabbricatore. Un processo in cui il soggetto conoscente non si limita a dimorare presso se stesso; più esattamente dimora presso di se stando presso l’oggetto, nel senso che l’attività conoscitiva è sì immanente, ma appunto alla luce dell’oggetto portato intenzionalmente nell’interiorità dello spirito. A differenza delle filosofie di indirizzo platonico, che limitano l’oggetto specificatore dell’intelligenza umana alle essenze, in cui vedono la fonte prima dell’intelligibilità del reale, nella Seinsphilosophie l’intelligenza va non solo all’essenza ma all’esistenza. Non è difficile comprendere quali argomenti spingano il filosofo a rivolgersi in modo privilegiato all’essenza: non deve forse la filosofia fondare il proprio sapere su oggetti stabili di pensiero? E dove trovarli in maniera soddisfacente se non nell’intelligibilità delle essenze ideali e nella loro im74
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mutabilità? L’essenza presenta al filosofo i caratteri che va cercando, ossia la necessità, la universalità, l’immutabilità. Le difficoltà del platonismo, che inclina a lasciare l’esistenza fuori dalla sfera dell’essere vero e dell’intelligibilità, si sono reduplicate in quelle dell’idealismo moderno. Esso ha fatto dell’esistenza un concetto pensato, trattandola come un’essenza e attribuendo alla soggettività trascendentale una funzione costruttiva e costitutiva, in cui l’oggetto è datità empirica intrasparente e muta per il pensiero, se non è riportato nel circolo dell’Io trascendentale. In ciò matura la crisi della metafisica che percorre parte della filosofia moderna, e che si chiarisce come una crescente difficoltà a raggiungere intellettualmente l’esistenza, fondando su di essa la conoscenza ontologica. Il primo correlato di tale crisi è l’oblio dell’essere in cui la metafisica uscita dal razionalismo si è trovata implicata nel corso del suo sviluppo, oblio che assume le forme tanto dell’esistenza intesa come mero positum, quanto della sua sussunzione entro quadri logici. A tale oblio hanno dato il loro apporto diversi fattori, fra cui alcuni equivoci concernenti la natura del conoscere e la sua portata realistica. Nell’atto della conoscenza reale l’intelletto, il giudizio e la cosa/ente si corrispondono entro il generale isomorfismo tra pensiero ed essere. Viene inoltre riconosciuta la natura della conoscenza (quale movimento perfettivo di un soggetto) nel valere come processo di identificazione con l’altro come tale. Nei sistemi dell’idealismo accade un quasi completo capovolgimento di questi elementi, per cui la natura del conoscere viene alterata. L’isomorfismo tra pensiero ed essere è affermato ma invertito, poiché il primato va al pensiero. Della conoscenza si mantiene il momento dell’identificazione, non però del soggetto conoscente con l’altro in quanto altro, ma identificazione come superamento e soppressione dell’alterità: «Conoscere – ha scritto G. Gentile – è identificare, superare l’alterità come tale», riportandola all’Io trascendentale15. A sua volta quest’ultimo è processo o atto, non sostanza; e l’essere è nome vuoto, al più una convenzione del linguaggio, non la sorgente prima di ogni intelligibilità. L’oblio dell’essere è massimo e ostruita la conoscenza dell’esistenza, nel senso che non si cerca il sapore dell’essere, ma la coerenza dell’idea. Seguendo la strada della conoscenza dell’esistenza, prende forma una distinzione fra due concetti di filosofia, uno soltanto dei quali è denotato da un intento realistico (distinzione che segna anche uno spartiacque fra filosofie più e meno adeguate: che tutte le filosofie siano eguali significa infatti che non c’è più filosofia). Il primo concetto di filosofia, e più esattamente di metafisica, ne incorpora un’idea più lo75
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gica che reale, nel senso che la metafisica diventa la scienza dei concetti più astratti e delle loro connessioni: sistema della conoscenza cercato solo come tale, facendo astrazione da qualsiasi scopo che non sia quello dell’unità sistematica del sapere, e procedendo alla neutralizzazione dell’esistenza. In base al secondo concetto la metafisica vale come scienza teoretica dell’essere/esistenza, e proprio per questo in essa si integra l’idea che la filosofia, includendo la relazione di ogni conoscenza ai fini essenziali della ragione umana, comprenda ciò che necessariamente interessa ogni uomo: trovare un orientamento nella vita secondo un senso16.
4. Episodi di allontanamento dall’esistenza La consapevolezza che il compito della metafisica consista nella conoscenza dell’essere/esistenza diventa maggiormente esplicita nella Seinsphilosophie del XX secolo. Sul piano storiografico non è difficile accertare, ed è generalmente concesso, che le elaborazioni degli autori di tale linea si siano qualificate nella riscoperta dell’esse tomistico come actus essendi e nell’esplorare gli stretti legami tra metafisica ed esistenza. Si può dunque parlare di un “esistenzialismo metafisico” (per la verità alquanto lontano dalle forme dell’esistenzialismo consuete nelle correnti di tal nome), o anche di una metafisica capace di apertura all’esistenza e di intellettualismo flessibile. La ripresa di consapevolezza a cui si è fatto cenno, segna una svolta nella vicenda della filosofia moderna, nel momento in cui questa, concludendosi, accenna ad un postmoderno dai caratteri ambivalenti. In rapporto alla penetrazione del nesso fra metafisica ed esistenza raggiunta dalla filosofia dell’essere dell’Aquinate, si è verificato nell’epoca tardomedievale e poi moderna un processo discensivo verso un crescente oblio dell’essere, ed una crescente essenzializzazione dell’esistenza, per cui questa risulta più o meno severamente neutralizzata nelle varie ontologie. Alla determinazione dell’ente come id quod habet esse venne via via sostituendosi nella Scolastica formalista-essenzialista un’idea di ente inteso come aptitudo ad existendum, in cui l’esistenza è a vario titolo una modalità o un accidente dell’essenza (quest’ultima era già la posizione difesa da Avicenna). Tale processo è stato ricostruito in maniera eccellente da E. Gilson in L’être et l’essence, in cui le posizioni dei maggiori pensatori dell’Occidente sono attentamente scandagliate proprio sul nesso essenza-esistenza. Occorrerebbe meditare quest’opera in cui l’unione di una notevole penetrazione speculativa con un’impareggiabile padronanza della sto76
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ria della filosofia produce solide conclusioni. Considerando la concezione dell’essere come uno in Platone, come sostanza in Aristotele, il primato dell’essenza su e contro l’esistenza nello scotismo, la neutralizzazione dell’esistenza in Wolff e in Kant, per cui l’ontologia diventa scienza di un essere totalmente deesistenzializzato, la deduzione logica dell’esistenza in Hegel e la rivolta di Kierkegaard (che rischia di opporre ad una filosofia senza esistenza una esistenza senza filosofia), Gilson ha inteso mostrare che forse solo nella filosofia dell’essere dell’Aquinate l’esistenza è realmente “guardata in faccia” come il punto di partenza e di arrivo della metafisica. Non è tempo sprecato ripercorrere qualche conclusione dell’opera, capace di dare la misura del cammino percorso: «Le ontologie dell’essenza non commettono solamente l’errore di ignorare il ruolo dell’esistenza, ma si ingannano sulla natura dell’essenza stessa. Dimenticano semplicemente che l’essenza è sempre quella di un ente, che non viene espresso nella sua interezza dal concetto della sola essenza […] La storia della filosofia è lì a farci vedere che prendere atto dell’esistenza è l’inizio della sapienza filosofica […] In realtà, l’unico al di là dell’essenza cui si possa pensare, senza essere costretti a pensarlo come radicalmente estraneo all’essenza stessa, è l’esistenza […] Un aldilà dell’essenza è un aldilà dell’essere solo nelle ontologie che, come quelle di Platone, di Plotino e di Eriugena, cominciano con l’identificare l’intelligibile con l’essenza e l’essenza stessa con l’essere. Non così in una metafisica dell’esistere, perché qui l’essenza e l’esistenza entrano l’una e l’altra nella struttura dell’essere reale […] l’esistenza non è una malattia dell’essenza, ma ne è al contrario la vita»17. Tra le posizioni essenzialiste vale la pena di menzionare come esemplare delle non poche posizioni analoghe quella dello scotista Francesco Antonio da Brindisi, che nel suo Scotus delucidatus in II Sent. (1607) sostiene la primalità e la maggior perfezione dell’essenza sull’esistenza: «Inter esse essentiae reale et existentiae est ordo perfectionis, quia esse essentiae est perfectius esse existentiae, quia esse existentiae est quoddam accidentale adveniens naturae». Senza mezzi termini o giri di frase viene ripresa la tesi avicenniana per cui l’esistenza è un accidente dell’essenza. Basterà fare ancora un passo e tale “modalizzazione accidentalistica” dell’esistenza rispetto all’essenza, per cui l’ente non è ciò che esercita l’atto di essere bensì una semplice aptitudo ad esistere, diventerà con Wolff una pura possibilità passiva, nel senso che per il filosofo tedesco nell’ens si esprime solo una non repugnantia ad existendum: «Notio entis in genere existentiam minime involvit, sed saltem non repugnantiam ad existendum, seu, quod perinde est, existendi possibilitatem»18. Formule rivelative del processo di 77
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allontanamento dall’esistenza, percorso sia dal razionalismo, sia dalla maggior parte delle correnti della Scolastica rinascimentale e barocca. a) Kant - In tale processo la posizione di Kant rappresenta un punto ancipite, da cui sarebbe forse stato possibile ripartire se non fosse poi intervenuta con la dialettica hegeliana una compiuta logicizzazione dell’esistenza. In un celebre passo della Critica della ragion pura l’esistenza è presentata come una posizione di fatto: «Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell’uso logico è unicamente la copula di un giudizio […] Il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili […] Se io dunque penso una cosa con quali e quanti predicati voglio (magari nella sua determinazione completa) non s’aggiunge alla cosa stessa il minimo che, per il fatto che io soggiungo ancora: questa cosa è»19. Frase ancipite dal momento che, non riducendo l’essere solo alla funzione logica della copula nel giudizio, considera l’essere anche come “posizione”; come qualcosa che può certo venire inteso come mero dato di fatto, ma che potrebbe per altro verso aprire ad una metafisica dell’atto e dell’esistenza come atto. Che cosa vuol intendere Kant quando sostiene che l’essere non è un predicato reale ma “posizione”? Molto probabilmente che l’esistenza è l’atto con cui una cosa è posta fuori dalla condizione di possibilità, onde transita dalla sfera dell’esser-possibile a quella dell’esser-reale. Con questo, pur avendo eretto l’ordine dell’esistenza come diverso e irrisolubile in quello dell’essenza, non sappiamo ancora nulla di determinato sull’esistenza: se da un certo punto di vista è verissimo che l’essere è differente da un predicato (perché i predicati sono essenze che si aggiungono o si dicono del soggetto, e l’esistenza non è un’essenza), da un altro angolo di visuale l’esistenza è il soggetto di tutti i predicati, poiché nessuno esiste senza l’essere. In altri termini sembra che nell’analisi della coppia essenza-esistenza, Kant si ponga dal lato dell’essenza, dal quale è legittimo concludere che l’esistenza non aggiunge nulla ai caratteri intelligibili dell’essenza. Ma è questa l’unica prospettiva da considerare? Se nella linea formale-essenziale l’esistenza non aggiunge nulla ai costitutivi dell’essenza, nella linea ontologico-reale le aggiunge tutto, poiché pone la cosa/ente come un esistente concreto, fuori dal nulla e fuori dalle sue cause. Come si è già sottolineato, la nozione di esistenza possiede un valore proprio e una perfezione suprema, essendo l’atto di tutti gli atti e la perfezione di tutte le perfezioni, che aggiunge qualcosa di realissimo all’essenza, sebbene al di 78
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fuori del suo ordine e perciò connessa ad essa in modo contingente. La Critica della ragion pura ha percepito lucidamente l’impossibilità di un processo puramente analitico a raggiungere l’esistenza, poiché questa non fa parte del concetto o essenza di una cosa, ma appartiene ad un altro ordine: e con ciò viene denunciata la debolezza dell’argomento ontologico. Se l’esistenza è “posizione” ed appartiene ad un ordine completamente diverso da quello dell’essenza, quale atto dello spirito le farà fronte nella filosofia kantiana? Come verrà conosciuta, dal momento che in essa il compito del giudizio non è ontologico-reale? Anzi nello schema kantiano delle modalità dell’essere: possibile/impossibile (a cui corrispondono i giudizi problematici); esistente/non-esistente (= giudizi assertori); necessario/contingente (= giudizi apodittici), l’esistenza è solo una categoria della modalità, quella che corrisponde alla modalità assertoria del giudizio. E con ciò l’esistenza resta qualcosa di incognito, che non è stato guardato in volto. Avendo omesso di domandare se l’esistenza sia qualcosa di più di un positum, di una posizione di fatto, la Critica della ragion pura ha evitato di pensare nella maniera più determinata l’esistenza, e ha pagato il suo tributo all’oblio dell’essere. b) Hegel - Quando Hegel ci avverte che «pel pensiero, nel riguardo del contenuto, non si può dar nulla di più povero che l’essere»20, ci invita a ricordare che la sua logica si divide in tre parti: 1) la dottrina dell’essere; 2) la dottrina dell’essenza; 3) la dottrina del concetto e dell’idea; in cui la prima parte è appunto il momento astratto o intellettuale del pensiero nella sua immediatezza, ossia il concetto in sé. Orbene Hegel non parte dall’ente quale trascendentale fondante ricco di tutte le sue determinazioni, ma da un concetto di essere astratto e logico-formale, che nella sua immediatezza è privo di ogni determinazione. È l’indeterminazione pura e il puro vuoto, in cui non vi è nulla da contemplare o da pensare, perché ciò sarebbe un pensare a vuoto. Per riferirci all’Enciclopedia: «Il puro essere forma il cominciamento, perché esso è così pensiero puro, come è, insieme, l’elemento sicuramente immediato semplice e indeterminato […] questo puro essere è la pura astrazione e, per conseguenza, è l’assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente […] Povere astrazioni, come l’essere e il niente, – le più povere che possano mai darsi, dacché sono soltanto le determinazioni iniziali» (§§ 86, 88). Espressioni in cui sarebbe difficile non scorgere un’ulteriore tappa e, a vero dire, il vertice dell’oblio dell’essere, perché questo è pensato come il genere più universale e più vuoto, come un puro quadro logico che nella sua generalità indeterminata abbraccia tutto, non come il trascendentale supremo 79
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(già Aristotele aveva avvertito che l’essere non è un genere, poiché le sue differenze gli sono interne). Solo a prezzo di una enorme semplificazione si può sostenere che Tommaso d’Aquino e Hegel muovono entrambi dall’essere, dal momento che il primo prende le mosse dall’ente e il secondo dall’essere logico e assolutamente vuoto; e questa radicale differenza si ripercuote all’infinito nelle rispettive filosofie. Concepito l’essere in senso logico come l’immediato indeterminato ossia l’universale astratto, un velo impenetrabile copre l’atto d’essere e la specifica intelligibilità di cui è portatore, raggiungibile nel giudizio. Poiché l’essere non parla più all’intelletto e l’intelligibilità che è possibile raggiungere nella dottrina della scienza è immanente ormai solo al momento logico-dialettico, diventa lecito sostenere l’identità di essere e nulla (cfr. Enciclopedia, § 88), e procedere ad una pretesa deduzione del divenire quale unità di essere e nulla, in cui il divenire rimane completamente non pensato né spiegato. Non è infatti una delle minori sorprese che questo, inteso come il primo concreto, scaturisca dall’astratto, poiché essere e nulla sono mere astrazioni21. Infine non è casuale ma necessario che l’ontologia venga definita come «la dottrina dei caratteri astratti dell’essenza»22, a conferma del primato di un essenzialismo a base logica, che sin dal cominciamento lascia da parte l’esistenza quale sorgente prima di ogni intelligibilità. Conseguentemente la dottrina della dialettica non potrà minimamente aspirare a rappresentare il metodo del sapere assoluto, ma condurrà al massimo ad un sapere probabile e incerto, un sapere cui provvisoriamente ricorriamo in mancanza di meglio. È un luogo comune ricordare, dopo i molti che già l’hanno fatto, la fondamentale arbitrarietà del metodo hegeliano, in cui si assume che il movimento dialettico dei concetti adegui o corrisponda allo sviluppo del reale, quasi ricreandolo a priori; e che le determinazioni concettuali del pensiero siano le determinazioni fondamentali delle cose stesse. Orbene, il disguido sul metodo, per cui la ricerca di ragioni dialettiche prende il posto delle analisi conoscitive sulle cose, si ripercuote anche sull’oggetto, in virtù di una sostanziale identità di metodo e oggetto che il dialettico di Stoccarda non cessa di sostenere: «Il metodo non è altro che la struttura dell’intiero presentato nella sua più pura essenza»23, e tale struttura altro non è che l’oggetto del sapere compiuto. Nonostante gli straordinari doni di Hegel e la potente onda poetico-tragica che solleva tante sue pagine, il suo metodo dialettico veicola una grande mistificazione, che non è superata capovolgendo la dialettica dell’idea in quella della materia, come intese fare Marx, poiché la mistificazione è inerente alla dialettica come tale: essa conduce ad un sapere logico e probabile, lontano da un sapere stabilito su cause reali. 80
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E quell’elemento di realtà che essa qua e là conserva, dipende per così dire dalle “iniezioni di realtà” operate di soppiatto nel circolo del metodo: se conclusioni del metodo dialettico, che procede collegando concetti puri, risultano adeguate e reali, è perché i concetti non erano veramente puri ma ospitavano sin dall’inizio qualche elemento di realtà24. Che con un metodo esclusivamente logico non si possano ottenere opposizioni reali, a meno che non si introduca di nascosto nel processo dialettico qualcosa di reale, qualche riferimento empirico, era già stato osservato da Trendelenburg nelle sue Logische Untersuchungen, dove si parla di intuizioni effettive che spingono in avanti il pensiero puro e lo conducono dove mai arriverebbe con le sue sole forze. L’arbitrarietà del metodo hegeliano e della sua dottrina della scienza non è naturalmente un incidente fortuito, quanto piuttosto lo svolgimento necessario e portato al più geniale livello di elaborazione, della sorgente non sempre identificata dell’hegelismo: l’ontofobia, cioè l’indifferenza o in certo modo la cecità intellettuale nei confronti dell’essere/esistenza, intesi come semplice apparizione dell’essenza25. Si è infine condotti ad individuare il motore onnipresente dell’hegelismo nella risoluzione dell’essere a concetto, nel senso che la natura di ciò che è, è di essere il proprio concetto, il quale a sua volta nel proprio automovimento è la scienza o l’elemento speculativo26. Nell’equivalenza di essere e di concetto (invece che di essere e di atto d’esistere) consiste il proton pseudos dell’hegelismo (e la massima opposizione a Kant, per il quale l’esistenza non è rappresentabile né nel concetto, né attraverso un concetto). Con esso la filosofia moderna tocca un punto di non ritorno, rispetto al quale le successive radicalizzazioni, quale ad es. l’attualismo gentiliano che risolve tutto (compresa l’intera dialettica hegeliana con la sua vasta macchina) nell’attuosità pura dell’Io trascendentale, appaiono come tappe prevedibili di un processo di coerenza, non come elaborazioni veramente innovative. Del cammino del razionalismo verso l’esito ontofobico fu consapevole Vl. Soloviev, già all’inizio della sua precoce attività filosofica. In La crisi della filosofia occidentale (1874) composta a 21 anni, così viene scandita la dialettica del razionalismo occidentale da Cartesio ad Hegel nel suo allontanarsi dalla conoscenza reale dell’essere: «1. (Maggiore del dogmatismo): ciò che veramente è, è conosciuto aprioricamente; 2. (Minore di Kant): nella conoscenza apriorica si conoscono solamente le forme del nostro intelletto; 3. (Conclusione di Hegel): Dunque le forme del nostro conoscere sono ciò che veramente è». Soloviev riassume nel seguente sillogismo la tesi del razionalismo: «Noi pensiamo ciò che è; 2. Ma noi pensiamo soltanto concetti; 3. Dunque, ciò che è, è concetto»27. La riduzione dell’essere a concetto rendereb81
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be possibile un sistema puramente logico dell’esistenza, che la filosofia dell’essere col suo intellettualismo esistenziale, la Postilla conclusiva non scientifica, e infine Soloviev giudicano del tutto improponibile. Essi segnano un fondamentale campo d’accordo, secondo cui il razionalismo di vario genere rappresenta un momento alto nel processo verso l’oblio dell’essere: quell’oblio che si produce assumendo che l’essere sia deducibile dal pensiero, l’aposteriori dall’apriori, e ponendosi in una postura contraria al primato dell’essere reale sul pensiero. c) Schelling - Nel cammino discendente verso l’essenzializzazione dell’esistenza l’ultimo Schelling (lontano dal primo, che si era espresso nel Sistema dell’idealismo trascendentale) con la sua filosofia positiva rappresenta una linea di resistenza e in certo modo l’accesso ad una posizione simile a quella kantiana, dove l’esistenza, accertabile empiricamente come posizione di fatto (si incontra in ciò un lascito dell’empirismo humiano che ha salvato il kantismo dal risolversi in idealismo assoluto), è il limite che si oppone ad una integrale idealizzazione dell’essere. Schelling ha compreso l’importanza reggente della coppia essenza-esistenza, di cui tratta ampiamente nella quarta lezione di La filosofia della rivelazione, senza però che nell’opera si riesca a venir in chiaro sulla natura dell’esistenza. Si sottopone a critica il processo puramente logico di Hegel, nel quale nulla sporge fuori dal pensiero28, ma non si raggiunge un concetto di esistenza diverso e più alto di quello di una semplice actualitas empiricamente accertata (viene dunque pensato l’essere in actu, non l’essere ut actus): onde la sua reazione ad Hegel è sana ma incompiuta, nel senso che la filosofia positiva dell’ultimo Schelling segna sì una linea di resistenza all’integrale logicizzazione dell’essere operata dalla dialettica (nonché una certa palinodia rispetto all’assunto delle Ricerche sull’essenza della libertà, che identificano essere e volere), ma attestandosi in una posizione in cui non si può a lungo dimorare. Sembra infatti difficile mantenersi nell’idea schellinghiana che essenza ed esistenza stiano l’una accanto all’altra in modo fondamentalmente irrelato. La prima conosciuta dalla ragione, l’altra accertata dall’esperienza; di modo che essenza ed esistenza appaiono come due fonti indipendenti e questa sembrerebbe l’ultima parola della metafisica in proposito29. Dualismo non risolto, che in certo modo riproduce quello kantiano, e che, pur non scivolando nella risoluzione razionalistico-dialettica dell’essere a concetto, sembra impossibile superare sinché si rimane dipendenti dall’idea che l’ente sia il concetto più alto di genere, e non il trascendentale supremo30. Per dire in una formula troppo breve il nostro pensiero, e senza minimamente disconoscere 82
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5. Conseguenze dell’essenzializzazione dell’esistenza
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l’importanza della filosofia dell’ultimo Schelling, in lui si realizzino due reazioni sane, nelle quali vengono rifiutati il logicismo dialettico e la concezione astratta e formalista dell’ente propria della Scolastica decadente; tuttavia non pare attinta una visualizzazione dell’essere che non sia quella dell’infinito poter essere quale contenuto immediato della ragione. Perciò la sua reazione appare parziale. È verosimile che la schellinghiana filosofia della libertà e lo stesso metodo generale del suo sistema – rimasto fondamentalmente immutato nelle varie fasi e che si potrebbe determinare come teologico-sintetico perché parte dall’Assoluto e cerca di descriverne il processo evolutivo ontogenetico, e lo scaturire del finito dall’infinito – sarebbero risultati diversi se il sistema avesse integrato come tema cardinale la conoscenza teoretica dell’essere31.
La possibilità che si intenda la metafisica quale scienza delle essenze, ossia scienza dei possibili completamente de-esistenzializzata, va considerato un rischio ritornante, da cui tenersi in guardia. Non si sarà mai finito con l’intento di escludere l’esistenza dalla ontologia e dalla metafisica, attraverso la riconduzione dei giudizi di esistenza esclusivamente a giudizi di attribuzione, nei quali il verbo “essere” svolge una funzione solo copulativa, collegando un predicato ad un soggetto. In tal caso si rende l’esistenza semplicemente una essenza, fallendo nel compito di pensarla come esistenza. Del non-pensamento dell’esistenza e del correlato oblio dell’essere scaturiscono ramificate influenze su tutto l’arco delle questione filosofiche. Limitiamoci a due brevi cenni concernenti il problema del male e della tecnica. Il male rappresenta ad un tempo qualcosa di massimamente esistenziale e una realtà che le filosofie essenzialistiche maneggiano con permanente difficoltà. In virtù dell’idea che il livello più alto e compiuto dell’essere sia l’essenza, esse fanno coincidere la realtà con il positivo delle essenze e pongono il negativo come un puro fatto logico, non reale. Conseguentemente il male è inteso come un che di accidentale e transeunte, che non è in grado di attentare in modo efficace alla pienezza concettuale dell’essenza, in cui si colloca il veramente essente, l’ontos on. Equivoco funesto, poiché il male, privazione d’essere e di bene, è una ferita o una lacuna nell’esistenza, che aggredisce e genera dolore proprio in quanto raggiunge le radici della vita, mentre l’essenza non ne è toccata. La questione bruciante del male è la pierre de touche di ogni filosofia essenzialistica, e più esatta83
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mente la sua cattiva coscienza. Che esso sia prodotto o subìto dalla creatura, prende comunque alla gola. Ma appunto alle filosofie essenzialistiche sfugge l’insidenza di una lacuna d’essere nel cuore dell’essente, dal momento che l’attenzione prioritaria volge verso l’essenza, che non ha negativo ed è sempre ciò che deve essere. Il secondo cenno riguarda il problema della tecnica, e più esattamente la sua interpretazione ideologica oltranzista, mossa da volontà di dominio sull’essere. Essa diventa possibile se vengono a congiungersi vari eventi: la riduzione dell’esistenza a mero dato di fatto; la negazione di una scienza teoretico-contemplativa, e perciò rispettante, dell’essere; lo sfrenamento di un desiderio di disposizione sulle cose. Nel rapporto tra metafisica ed esistenza l’intelletto cerca di conoscere d’una conoscenza teoretica pura l’orizzonte dell’esistere così come è, lontano perciò da ogni intenzionalità manipolante, disponente, pragmatica. Quando Lévinas ci assicura che «l’ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza […] [essa], che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia»32, non si può non pensare che quanto viene qui colpito con tanta perentorietà è solo uno dei vari momenti dell’ontologia, quello in cui l’Io trascendentale digerisce compiutamente o addirittura pone l’Altro, riportandolo così senza residuo al Medesimo. Questa è tuttavia soltanto una possibilità. Nel rapporto contemplativo con l’essere l’intelletto rispetta e riconosce, lasciando che l’altro sia l’altro e portandolo in se stesso come tale. Lungi dal porsi come un processo identitario che toglie il differente, il conoscere è un’azione che nell’identità intenzionale con l’altro ne mantiene integralmente la differenza, come già si è osservato. La riduzione cartesiana dell’esistenza corporea a mera estensione, l’inganno idealistico della soggettività costituente, che eleva il pensiero a soggetto e l’esistenza a suo semplice predicato, e contro cui ha lottato Adorno33, la volontà di prassi e di potenza sono all’origine dell’ideologia della tecnica. Qui l’esistenza è null’altro che materia più energia, substrato amorfo, integralmente sottoposto al potere di disposizione del subjectum, che stabilisce l’ambito di oggettivazione di ogni ente.
6. Commiato È la filosofia moderna un’essenza univoca o composita? Ad una domanda tanto immensa non pare saggio rispondere con un sì o un no, che andrebbero lungamente argomentati. Accontentiamoci di osservare che l’indagine dovrebbe vertere sulle idee di essere, esistenza, 84
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realtà; e che nel corso del moderno la presenza attiva della filosofia dell’essere fu scarsa (anche per ignavia dei suoi cultori e per una certa qual loro renitenza a scendere dalle vette sacre della teologia verso un più intimo scambio con lo spirito e i problemi del tempo), sino a potersi sostenere che essa fu l’unica a non entrare in incroci, eclettismi e métissages con altre scuole. Fra i sostenitori di quanto si chiama con una certa approssimazione il “pensiero tradizionale”, esistono molteplici tentativi di valutare la filosofia moderna, non pochi dei quali assumono a centro dell’indagine il problema del teismo/ateismo, meno quello dell’essere e della sua conoscenza. Del Noce ha offerto una lettura problematicamente aperta della questione del teismo e dell’ateismo, secondo cui nessuno dei due qualifica il moderno in modo categorico. In Il problema dell’ateismo si riconferma l’imprescindibilità dell’inizio cartesiano, mentre si «esclude l’idea di un’errore radicale della filosofia moderna»34. Questa, secondo tale lettura, ha percorso un cammino che da Cartesio conduce ad Hegel e infine a Marx (col capovolgimento della dialettica dell’Idea in quella della Materia) e all’attualismo di Gentile. Ed un’altra strada che attraverso Pascal, Malebranche e Vico, raggiunge Rosmini, ed in cui si è mantenuto il guadagno del teismo, dell’ontologismo, di un rapporto amico col cristianesimo. Altra è la diagnosi di Fabro secondo il quale «la “valenza atea” del pensiero moderno […] non è qualcosa di facoltativo ma di costitutivo nel senso che ogni concessione diretta e indiretta alla trascendenza è una deviazione e un’incomprensione di quell’immanenza con la quale si è voluto fare il primo passo […]. Perciò consideriamo inautentiche ed intruse tutte le forme di teismo apparse nel pensiero moderno ovvero, in forma positiva, affermiamo che il pensiero non può trascendere l’orizzonte umano che si è dato nel cogito»35. Il XX secolo ha reso chiaro che cosa è avvenuto nel XIX quanto a neutralizzazione dell’esistenza, oblio dell’essere, crescita del nichilismo col pensiero di Nietzsche e in parte non secondaria attraverso quello di Hegel. Accennando alla sua avanzata non viene emesso un giudizio in primo luogo morale, ma speculativo nel senso che il nichilismo che è andato imponendosi è di ordine metafisico, nel suo nucleo essenziale riportandosi ad un allontanamento di vario genere dall’esistenza. La filosofia del XIX secolo si è incagliata urtando contro la massima e in certo modo unica domanda filosofica: che cosa è la realtà? Qual è il concetto di realtà? (o, il che viene a dire la stessa cosa, che cos’è l’esistenza/essere?). Marx, Kierkegaard e i posthegeliani avvertirono la posta in gioco e la sfida elevata dal concetto hegeliano di realtà. Finirono secondo distinti cammini per rifiutarlo, senza in fin 85
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dei conti riuscire a sostituirlo con uno più adeguato: onde una parte considerevole della filosofia del XIX secolo e del nostro si consumò in tale battaglia. Hegel aveva presentato la realtà – il cui concetto viene svolto nella dottrina dell’essenza quale secondo momento della dialettica triadica (essere, essenza, concetto) che nel suo insieme costituisce la scienza della logica – come l’unità di essenza e di esistenza, dell’interno e dell’esterno36. Nella formula si fa avanti una differenza fra realtà ed esistenza in cui quest’ultima, unità immediata dell’essere e della riflessione, è solo fenomeno, come più volte viene dichiarato da Hegel. Chi si pone su questa strada svolgerà una dottrina dell’esistere concentrandosi su analisi fenomeniche di singoli punti di attuosità esistenziali, senza poter attingere il livello dell’ente e della sua analogia. Contro l’assunto hegeliano concentrarono l’attacco in molti: «Anche Marx e Kierkegaard hanno orientato la loro critica contro Hegel sul concetto di esistenza reale. Ruge si rivolge preferibilmente all’esistenza etico-politica della comunità, Feuerbach all’esistenza sensibile dell’uomo corporeo, Marx all’esistenza economica della massa e Kierkegaard a quella etico-religiosa dell’individuo. In Ruge l’esistenza storica si rivela nell’“interesse” inteso politicamente, in Feuerbach l’esistenza reale in genere si ritrova nella sensazione e nella passione, in Marx l’esistenza sociale si svela nell’attività sensibile in quanto prassi sociale, ed in Kierkegaard la realtà etica si mostra nella passione dell’agire intimo»37. Esistenza storica, reale, sociale, etica: si tratta di forme legittime di esistenza, male interpretate dal dialettismo, per cui la reazione era giustificata. Si deve riconoscere che questa mole di critiche ha contribuito a sgomberare il terreno dal macigno del dialettismo. Ripulire il terreno non significa ancora avanzare o riprendere un cammino adeguato. Fra gli autori citati nessuno pervenne ad una scienza teoretica dell’essere, troppo pericolosa per l’ateismo di molti di loro perché presto o tardi conduce all’Esse ipsum per se subsistens. In Kierkegaard il riconoscimento dell’importanza reggente dell’“io esisto” contribuì a riaprire la strada e l’attenzione per l’esistenza nella forma però dell’interesse per il Singolo38, non ancora per l’esistenza come tale. Ugualmente alta fu in Marx l’evasione dall’universo dell’Idea e dello Spirito per cercare un più diretto contatto con l’esistenza; e tale fu il senso più tipico del capovolgimento marxiano per cui la macchina della dialettica venne messa con i piedi per terra. Esigenza imprescindibile certo, che tuttavia in Marx soffre di un fatale equivoco, poiché nel suo pensiero si fa il cominciamento dall’equazione realtà (essere) = materia. Senza escludere altre direzioni interpretative si potrebbe leggere 86
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una quota notevole del pensiero del ’900 entro il tentativo di pervenire ad un concetto di realtà più adeguato e comunque lontano da quello che lo fa consistere nell’unità di essenza e di esistenza, come inteso da Hegel. A dispetto delle irreconciliabili differenze che le denotano, le scuole del marxismo, della fenomenologia, del positivismo, dell’esistenzialismo potrebbero avere in comune proprio quell’intento. E le recenti diagnosi esplicite o implicite sulla fine della filosofia costituire un contraccolpo dei tentativi e degli scacchi incontrati nella strada verso un migliore concetto di realtà. Nonostante le apparenze, non siamo giunti alla morte della filosofia, quanto piuttosto alla crisi forse definitiva di taluni suoi filoni. La filosofia costituisce una possibilità infinita nel duplice senso che da un lato non terminerà mai il suo esercizio, e dall’altro non potrà mai dire: ecco la verità tutta intera! La filosofia possiede un fine – la conoscenza del vero – senza avere una fine. Nelle prime pagine di questo capitolo un pensiero di Kierkegaard ha offerto materia di riflessione. Nell’avviarci alla conclusione ci accompagna un’altra sua frase: «Il cristianesimo riguarda l’esistenza, l’esistere; ma l’esistenza, l’esistere sono precisamente l’antitesi della speculazione»39, perché sono una comunicazione di vita. Quando vergava queste righe egli aveva dinanzi come avversario massimo e quasi ossessivo l’hegelismo. Questo e soltanto questo era per lui la speculazione, il cui metodo era (hegelianamente, appunto) individuato nella mediazione, in cui tutto viene fluidificato. Alla speculazione così intesa Kierkegaard contrappone il paradosso (e in specie il paradosso assoluto del Dio che si fa uomo, del “Dio nel tempo”) quale metodo del cristianesimo. Paradosso contro mediazione: opposizione vera e autentica, ma infine non risolutiva, nella misura in cui Kierkegaard concepisce la speculazione esclusivamente al modo di Hegel, a cui si oppone con tutte le sue forze ma a cui rimane su questo punto subordinato nell’opposizione. In effetti rifiutando Hegel, Kierkegaard ha rifiutato tutta la speculazione come qualcosa di mortale per il cristianesimo, intendendola come diretta a superare quest’ultimo; e come qualcosa di mortale per l’esistenza che nel sistema hegeliano appare indifferente alla soggettività e all’interiorità. Quanto mancò almeno in parte a Kierkegaard, e che lo avrebbe reso ancor più grande di quanto già non sia, fu un’idea più autentica e compiuta di speculazione; fu l’idea che il compito della filosofia non è la mediazione dialettica ma la conoscenza reale dell’esistenza. Circola forse più verità nel noto aforisma di Wittgenstein: «Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia»40, che nelle pagine dell’autore del Cogito o della sua discendenza filosofica. Nel87
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l’aforisma si esprime lo stupore dinanzi all’esistenza: come è straordinario che il mondo sia! A partire da tale stupore originario, dall’emozione psicologica e intellettuale dinanzi all’evento per cui tutte le cose si collocano nell’immenso oceano dell’essere, la filosofia è posta nella strada del suo destino. Non sarà a Hegel, e neppure a Kierkegaard nonostante la fondamentale sanità della sua reazione, che domanderemo di avviarci verso una scienza teoretica dell’essere, ma alla tranquilla luce che emana dagli asserti speculativi di Tommaso. In lui la metafisica non inizia con un atto di riflessione del pensiero su se stesso, con un atto di conoscenza della conoscenza, ma di conoscenza delle cose. Il segreto dell’essere si rivela a partire dall’intuizione sensibile, non a partire dal pensiero generale che impiega il termine essere come supremamente indifferenziato e vuoto, sboccando così nella generalità più indeterminata dove nulla di reale è pensato. «Egli [Tommaso] è dalla parte opposta di Hegel, che ha disgiunto e messo in lotta tutto, assumendo l’universalità dell’essere nella prospettiva antiesistenziale di un idealismo assoluto, e volendo sottomettere ogni cosa all’unità del Grande Idolo cosmogonico in cui i contraddittori si accoppiano per generare mostri, in cui l’Essere e il Nulla si identificano»41. Solo la filosofia che si nutre di un’adeguata intuizione dell’esistenza/essere è in potenza attiva verso il futuro. Note 1 Nel presente libro i termini “essere” ed “esistere/esistenza” vengono impiegati come sinonimi e denotanti tutto ciò che è o può essere (“A è” e “A esiste” sono dunque giudizi rigorosamente identici). Essi vengono intesi entro la ricerca metafisica di una scienza dell’essere/esistenza in quanto tale. Il verbo esistere, collegato al latino existere, viene dai linguisti fatto derivare da ex-sistere, con riferimento ad un “provenire da” (il verbo potrebbe anche esser inteso come ex alio sistere). Ciò non toglie che da alcuni secoli si sia verificato in filosofia un impiego crescente di esistere/existere al posto di essere, spesso con l’intento di attribuire maggior rilievo alla funzione esistenziale veicolata dal verbo. In effetti con l’impiego di esistere sembra spiccare maggiormente tale funzione, in origine adempiuta dal verbo essere, ma che poi questo, impiegato nei modi più vari, ha quasi cessato di esercitare. Si ponga mente che al verbo essere spetta sia la funzione esistenziale (quando dico ad es. “Pietro è”), sia quella copulativa (“Pietro è bianco”), mentre al verbo esistere spetta soprattutto la prima. Si può infatti dire in buona lingua “Pietro esiste”, assai meno invece “Pietro esiste bianco”, risultando di gran lunga preferibile la dizione “Pietro è bianco”.
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Con la scelta di impiegare come sinonimi “essere” ed “esistere” vengono lasciate da parte sia le posizioni dell’esistenzialismo del ’900, che pur avendo eretto l’esistenza come centro delle sue preoccupazioni si è rivolto quasi solo all’esistenza umana e ha trascurato la scienza dell’ente in quanto tale, sia la riflessione heideggeriana sul Dasein e sulla sua esistenza quale luogo primario per la determinazione generale del senso dell’essere. Naturalmente col ricorso al termine esistenza/existentia non si è ancora determinato il suo contenuto. Noi qui intenderemo l’existentia come sinonimo di esse o di actus essendi, entro il quadro della distinzione reale negli enti di essentia ed esse, e perciò allontanandoci dal formalismo che, lasciando da parte la metafisica dell’atto, aveva finito per intendere l’existentia come dato di fatto. 2 Principia philosophiae, a cura di P. Cristofolini, CDE, Milano 1993, p. 85. 3 Tutte le dimostrazioni procedono dal più conosciuto al meno conosciuto. Poiché dimostrare a priori significa assegnare la ragione necessaria per la quale il predicato della conclusione conviene al soggetto, occorre che si conosca l’essenza del soggetto, che costituisce la ragion d’essere della proprietà dimostrata. Qui dunque il più conosciuto (il S) è la ragion d’essere del meno conosciuto (il P). Nella dimostrazione a posteriori, che parte da quanto è per noi più conosciuto e più vicino, quest’ultimo non è la ragion d’essere di ciò che ci fa conoscere, poiché ne dipende nell’ordine reale ed è solamente nell’ordine della conoscenza che è primo. L’effetto è più vicino a noi e più conosciuto della causa, ma non è la sua ragion d’essere. Nella dimostrazione a posteriori non si conosce perché (propter quid) il P appartenga al S, ma solo il quia, ossia che il P conviene al S. Essa non fa conoscere la ragion d’essere della cosa affermata, ma la necessità dell’affermazione della cosa. È fuor di dubbio che Cartesio non abbia sempre proceduto a priori [quantomeno nella Terza Meditazione l’idea di Dio (effetto) è causata da Dio stesso, con risalimento dunque dall’effetto alla causa], ma è altrettanto certo che tutto il suo desiderio andava in tale direzione: ossia a tenersi il più lontano possibile dal cielo, dall’aria, dalla terra, diciamo dall’esistenza, per procedere dal principio ai principiati. 4 Meditazioni sulla filosofia prima, a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, p. 56 e p. 69. 5 Ivi, p. 49. 6 Principia philosophiae, lettera a Picot, p. 61. 7 Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1988, p. 428. 8 Cfr. Poema sulla natura, frammenti 3 e 8, 34. 9 Postilla, p. 317. 10 Ivi, p. 438. 11 Conoscere è captare il reale, è “vederlo”, portandolo spiritualmente in se stessi: per questo la conoscenza non è formatrice dell’oggetto, ma recettri-
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ce e da esso misurata. L’attività conoscitiva appartiene all’ordine esistenziale ed è una vita, costituendo con l’amore quanto di più perfetto vi sia. 12 S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3m; Comm. al Liber de Causis, prop. 6; In I Sent., dist. 19, q. 5, a. 1; De Veritate, q. 1, a. 1, 3 sed contra. 13 Cfr. Analitici posteriori, l. II, c. 7, 92 b24s. Nello stesso testo si chiarisce che l’individuo è dato al di fuori di ogni concetto ed è oggetto di un thigein (cfr. 89 b32s). 14 La funzione del giudizio si riporta ad una identificazione reale dei diversi nozionali, rappresentati dal soggetto e dal predicato. Ne segue che l’identità incorporata nel giudizio non è del tipo A = A, bensì A = B. La prima forma di identità, in quanto tautologica, veicola un modesto contenuto conoscitivo, mentre la seconda ne esprime uno specifico, quello per cui le nozioni del S e del P si identificano nella realtà (come accade quando si dice “Pietro è bianco”). La conoscenza progredisce tramite enunciazioni del tipo A = B, che estendono il campo del saputo e ciascuna delle quali costituisce una scoperta. Si raggiunge un ben magro esito col sostenere “uomo è uomo”. Al contrario si fa un passo avanti col dire “uomo è animale razionale”. Aggiungiamo che nella formula A = B l’appartenenza del P al S può essere di diverso genere e ciò stabilisce le diverse forme di predicazione. 15 Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 1987, p. 16. 16 In rapporto a questo aspetto si presenta una questione rilevante e difficile, a cui basterà qui accennare. Quando i filosofi hanno fatto riferimento ai fini essenziali della ragione, quando la filosofia dell’essere svolge le coordinate fondamentali della conoscenza ontologica dell’essere, si può domandare se essi siano rinchiusi in una sorta di contestualismo culturale, nel senso che il loro discorso possa essere compreso e accolto solo entro una determinata tradizione, quella latamente occidentale. Oppure sono le loro intuizioni dicibili in altre culture, perché esprimono qualcosa di universale e di transculturale, e solo accidentalmente non vi sono state dette? A nostro avviso si può sostenere una dicibilità universale dell’essere e una fondamentale invarianza dell’intelletto umano nel suo rapportarsi all’essere (ciò presuppone che l’umanità sia entrata nello stato logico-solare dell’esercizio dell’intelletto), e nel contempo riconoscere direzioni o interessi-guida della ricerca essenzialmente diversificati. Differente è la domanda che interroga sulla natura delle cose, dove l’interesse-guida è conoscitivo e teoretico, e quella che cerca una sapienza di liberazione dove l’interesse è in senso lato “salvifico”. Una volta assunto che l’orientamento sia di tipo teoretico, non appaiono a priori le ragioni per cui una simile ricerca debba essere culturale, ossia dicibile solo entro una specifica cultura. La collocazione culturale e storicamente determinata di un asserto non implica la sua invalidità al di fuori di tale milieu. 17 E. Gilson, L’essere e l’essenza, Massimo, Milano 1988, pp. 279, 301, 315, 316 s, 320. 18 Philosophia prima sive Ontologia, § 134. 19 Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 472 s.
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20 Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. B. Croce, Laterza, RomaBari 1980, § 51, p. 66. 21 Oltre tutto il niente non è alcunché di reale: è un ente di ragione o un’idea, che noi formiamo logicamente premettendo la negazione, ossia negando l’essere in totalità (ni-ente). Operare il cominciamento del sistema dalla dialettica di un essere che è perfettamente vuoto e di un nulla che è un ente di ragione, è una conferma in più che ci si muove a distanza siderale dall’esistenza. 22 Enciclopedia, p. 44. 23 Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 38. 24 Qualche ulteriore spunto sulla dialettica hegeliana si trova nella mia introduzione al volume di H.R. Schmitz, Progresso sociale e rivoluzione. L’illusione dialettica, Massimo, Milano 1990, pp. 6-16, da cui riprendo un brano. «A differenza della logica dimostrativa quella dialettica non può andare al di là del verosimile e del probabile; il motivo più profondo ne è che il ragionamento dialettico procede ex communibus; è generico, non specifico, perché è derivato da principi estrinseci alla natura delle cose. La conoscenza reale è conoscenza ex principiis propriis della natura degli enti. Scrive Aristotele: «La sofistica e la dialettica si occupano dello stesso genere di cose di cui si occupa la filosofia, ma quest’ultima differisce dalla dialettica per il diverso grado del suo potere e differisce dalla sofistica per la scelta di vita; la dialettica infatti si propone di fare solo un assaggio di quelle cose che la filosofia vuole conoscere sino in fondo […]». 25 L’oblio dell’essere col suo esito ontofobico è nel razionalismo di vario genere il risultato di un insieme di equivoci, fra i quali occupa un posto non secondario l’impostazione della dottrina della scienza, formulata dal primo Schelling e da Hegel in un modo secondo il quale il trascendentale fondante è verum, non ens. Costituirebbe impegno di rilievo andare alla ricerca degli esiti del razionalismo, vedendone il collegamento con la tesi che l’essere è concetto e con il suo generale metodo logicizzante. Qui ci limitiamo a elencare alcune dottrine del razionalismo in cui non è vietato rintracciare un influsso della sua posizione metafisica: l’idea di libertà come necessità riconosciuta e accolta; l’identità posta fra il reale e la formula che lo esprime; l’inimicizia verso l’esperienza e l’evidenza sensibile; (ri)costruzione del reale nel/col pensiero astratto; diffidenza e talvolta disprezzo dell’individuo concreto, del singolare; inimicizia fra filosofia e religione, sia nel senso che la prima mostra inutile o falsa la seconda, sia in quello per cui la filosofia risolve-dissolve in sé il contenuto della religione. 26 «L’essere è assolutamente mediato […] è, a sua volta, un sé, ovverosia concetto», Fenomenologia dello spirito, p. 29 s. 27 Vl. Soloviev, La crisi della filosofia occidentale, a cura di A. Dell’Asta, La casa di Matriona, Milano 1989, p. 130 s. 28 Il progredire che ha luogo nella filosofia hegeliana «fu considerato come una successiva autorealizzazione dell’Idea, mentre era soltanto una suc-
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cessiva elevazione ed incremento del concetto, che rimaneva, pur nella sua più alta potenza, concetto, senza che con ciò fosse dato un passaggio all’essere effettivo, all’esistenza», Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, vol. I, p. 163. 29 Ivi, vol. I, pp. 149-163. 30 «Questo Ens della Scolastica era qualcosa di totalmente morto – propriamente il concetto più alto di genere, Ens in genere… Nella filosofia wolffiana l’Ens, che gli Scolastici spiegavano come aptitudo ad existendum, fu spiegato come una mera non repugnantia ad existendum, ove l’incondizionata potenza è scolorata ed abbassata a semplice possibilità, con la quale naturalmente nulla può incominciare», ivi, p. 155. In queste espressioni rivelatrici si fa chiaro che la Scolastica a cui Schelling allude sia quella tedesca del XVIII secolo e in specie quella wolffiana, in cui l’oblio dell’essere è massimo. Non vi si riscontra invece traccia del genuino insegnamento dell’Aquinate, da tempo oscuratosi nelle varie Scolastiche del XVII e XVIII secolo (salvo rare eccezioni, quali quelle di Bañez e di Giovanni di san Tommaso), e che sempre escluse nella maniera più categorica che l’ente fosse un genere. Anche la riflessione più fuggitiva non potrà non percepire la distanza fra la determinazione di ente come non repugnantia ad existendum ed una come aptitudo ad existendum; nonché l’abisso fra queste due e quella di ente come id quod habet esse. 31 Anche per Heidegger, che sembra muoversi all’interno della comprensione formalistica e tardoscolastica dell’essenza e dell’esistenza, il concetto tradizionale di existentia significa realtà, e quello di essentia possibilità. Estranea rimane la metafisica dell’atto. L’interpretazione heideggeriana attribuisce alla tradizione l’idea che l’esistenza sia una sorta di modalità dell’essenza: «Existentia resta il nome che si dà alla realizzazione di ciò che una cosa è quando appare nella sua idea». Con tali premesse è quasi fatale che egli sostenga che per la metafisica da Platone in poi l’essenza precede l’esistenza (cfr. Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 280), posizione in cui sembra ribadito che la lettura heideggeriana della storia della metafisica ne colga solo la valenza essenzialistica. 32 Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 44. 33 «Da quando l’autore confidò nei propri impulsi intellettuali, sentì come proprio compito spezzare con la forza del soggetto l’inganno di una soggettività costitutiva», T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. XII. 34 Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, p. 509. 35 C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1969, vol. II, pp. 1091ss. Mentre in Del Noce la linea atea del moderno è vista come uno sviluppo del razionalismo religioso e del suo rifiuto senza prove del soprannaturale, e tale linea trova un argine nella presenza di pensatori autenticamente teisti, in Fabro dominante è la considerazione della coerenza atea del principio di immanenza, ritenuto essenziale al cogito. Tuttavia poiché gli autori a cui fa riferimento Del Noce (Pascal, Malebranche, Vico, Rosmini) risultano
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assenti dalla pagina di Fabro (perché appartenenti ad un’essenza filosofica classica e non moderna? perché estranei alla linea del cogito?), le due letture risultano diverse per quanto concerne la genesi dell’ateismo, ma non opposte. 36 Cfr. Enciclopedia, § 142. «Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggera esistenza. In una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l’ho accuratamente distinta non solo dall’accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall’essere determinato, dall’esistenza e da altri concetti» (ivi, § 6), frase che, riconfermando la distanza fra realtà ed esistenza, toglie al male il carattere di realtà. La sua irrealtà è corollario necessario della logicizzazione: “tutto il reale è idea” (ivi, § 213), la quale è un’essenza positiva, che allontana da sé la lacuna, il negativo, la privazione. 37 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1959, p. 233. 38 «Bisogna fare a tutta la filosofia moderna l’obiezione che essa non ha un presupposto falso ma uno comico, in quanto ha dimenticato […] ciò che significa essere uomo», Postilla, p. 323. 39 Ivi, p. 468. Non si dice nulla di esagerato se si afferma che nel cristianesimo circola un’intuizione specifica dell’esistenza; che in nessun altro luogo forse la cura dell’esistenza è altrettanto intensa. Nella filosofia cristiana la meditazione sull’essere venne spinta tanto avanti per ragioni intrinseche, perché occorreva conoscere, incontrando l’esistenza, quel Dio che si era rivelato come l’Esistenza stessa infinita, eterna, ingenerata, come l’Ego sum qui sum. 40 Tractatus, n. 6. 44. 41 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 109.
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Capitolo terzo
1. La filosofia come scienza
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Essere, intelletto, intuizione astrattiva
Bergson notava che vi sono due maniere di conoscere una cosa: «la prima implica che si giri attorno a questa cosa; la seconda che si entri in essa. La prima dipende dal punto di vista in cui ci si pone e dai simboli mediante i quali ci si esprime. La seconda non si prende da alcun punto di vista e non si appoggia su alcun simbolo. Della prima conoscenza si dirà che si arresta al relativo; della seconda, là dove è possibile, che raggiunge l’assoluto»1. La metafisica in quanto conoscenza mirante alla verità aspira a valere come un sapere reale, una scienza che intende fare a meno dei simboli e mediante la quale l’uomo esce dal sogno, dai molteplici modi di dormire e di immaginare in cui si avvolge, per gustare il frutto della conoscenza e il sapore dell’essere. Di età in età si è trasmessa l’esigenza (o forse l’illusione?) a costituire la metafisica come una scienza teoretica del reale, che da quest’ultimo parte e ad esso ritorna nella ricerca. Larga parte della filosofia occidentale ha per lungo tempo e sino ad un passato abbastanza recente individuato nell’essere il fondamento puro del reale e del filosofare, nonostante che esso sia stato concepito in modi diversi. Col progredire dell’oblio dell’essere e l’offuscamento del nesso conoscitivo fra pensiero e realtà, in considerevole parte del pensiero contemporaneo è divenuto arduo raggiungere le evidenze prime che garantiscono la solidità dell’edificio della metafisica, mentre l’idea stessa di una conoscenza filosofica stabile della realtà, della filosofia come scienza viene abbandonata nel vasto insieme delle correnti antifondazionali, “deboli” e relativistiche. Esse rendono oggi difficile porre il tema della filosofia non come razionalismo di uno spirito che si autorischiara da se solo, ma come pensiero che si muove entro il chiarore che viene dall’essere, e che in questo modo conquista la 95
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sua autonomia di sapere al di là, non contro, la tradizione delle scienze empiriche. Una delle massime gigantomachie della modernità si è disposta attorno alla possibilità di attribire alla filosofia il carattere di scienza. In proposito non è superfluo ascoltare la testimonianza di tre pensatori: Kant, Husserl, Maritain, per i quali la filosofia è un sapere. Lo è allo stesso modo? L’idea di scienza a cui fanno riferimento è univoca o varia considerevolmente dall’uno all’altro? In Kant la metafisica vale come tendenza naturale della ragione umana e insieme come sapere a priori e perciò sganciato da quei fatti filosofici primi (l’esserci di qualcosa, il divenire, la molteplicità) esperibili da ogni uomo: «Per ciò che riguarda le fonti di una conoscenza metafisica, dal suo concetto stesso si ricava che non possono essere empiriche […] Essa è un conoscere a priori, che deve procedere dall’intelletto puro e dalla ragion pura (p. 29 s.) […] Ora avviene fortunatamente che, se anche non possiamo ammettere l’esistenza effettiva di una scienza metafisica, possiamo tuttavia affermare con certezza che vi sono realmente certe cognizioni a priori, e cioé quelle della matematica e della fisica pura (p. 55). La metafisica, come tendenza naturale della ragione, è reale ma, lasciata a se stessa, è dialettica e illusoria […] La Critica, quindi, ed essa sola, contiene il disegno ben controllato di una metafisica scientifica e i mezzi necessari alla sua realizzazione (p. 289 e p. 291) […] Non può essere di poca importanza, per chi insegna metafisica, di poter dire, fra l’universale consenso, che l’oggetto delle sue lezioni è finalmente una disciplina scientifica, con la quale si arreca un effettivo vantaggio alla comunità umana» (p. 337)2. Nel progetto husserliano di fondazione della fenomenologia come scienza pura, riemerge l’idea cartesiana di una (sola) scienza universale: «Si potrebbe dire quasi che la fenomenologia è un neocartesianesimo […] Ogni principiante di filosofia conosce il meraviglioso processo di pensiero contenuto nelle Meditazioni. Richiamiamone l’idea direttrice. Quest’idea mira ad una completa riforma della filosofia per farne una scienza a fondamento assoluto, il che implica, per Cartesio, una riforma corrispondente in tutte le scienze. Infatti queste non sono altro, per lui, che parti non indipendenti della scienza universale, la filosofia (p. 1 s.) […] Si presenta come problema del cominciamento il problema delle conoscenze prime in sé, che debbono o possono sopportare l’intero edificio della conoscenza universale […] delle evidenze le quali… contengano apoditticamente la convinzione che esse, come evidenze in sé prime, precedono tutte le altre evidenze possibili (p. 14 e p. 17) […] Le nostre meditazioni hanno in sostanza raggiunto il 96
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loro scopo, che era quello di mostrare la concreta possibilità di produrre in fondazione assoluta l’idea cartesiana di una filosofia come scienza universale» (p. 170)3. Infine secondo Maritain la metafisica si costituisce partendo da fatti primi esperibili da tutti gli uomini, e pervenendo alla percezione astrattiva dell’essere, in una visualizzazione eidetica solo accidentalmente ed estrinsecamente connessa alla concettualizzazione volta a volta raggiunta dalle scienze fenomeniche, e quindi in linea di diritto indipendente da esse, per sboccare al suo vertice nella conoscenza del Principio sussistente dell’essere. In quanto la metafisica non è per Maritain la scienza universale di Cartesio e di Husserl ma un sapere supremo (si dà notevole differenza fra le due posizioni), essa lascia spazio alle scienze fenomeniche riconoscendo che il proprio e il loro oggetto sono diversi: pluralismo gnoseologico secondo vari gradi del sapere, che fa cessare la confusione tra scienze empiriche e metafisica, restituendo a quest’ultima il suo oggetto reale. «La sapienza metafisica ha per suo metodo l’intellezione dell’ente in quanto ente allo stato puro (cioé senza riferimento intrinseco ad una rappresentazione dell’immaginazione e del senso), al più alto grado dell’intuizione astrattiva. Suo oggetto formale non è Dio secondo la sua divinità, ma l’essere secondo il suo proprio mistero, ens secundum quod est ens; essa non conosce Dio che come causa dell’essere. È una sapienza della ragione, è naturale per essenza. Ed è nelle evidenze naturali e razionali che si risolve completamente»4. Nelle frasi precedenti si incontrano tre diverse posizioni sulla filosofia come scienza e sulla possibilità e l’oggetto della metafisica. In Kant la fisica newtoniana e la matematica costituiscono il paradigma della scienza, a cui anche la metafisica, ridotta a limiti molto ristretti dall’intervento della critica, deve conformarsi; in Husserl riemerge il programma cartesiano del cominciamento assoluto e della scienza universale, volto verso una filosofia della soggettività trascendentale; in Maritain si presenta l’idea della metafisica come sapere che ha come oggetto l’essere. Essa che, pur imparando dalle scienze, non è tenuta a modellarsi su di esse, vale come ontoteologia (dottrina dell’ente e dottrina di Dio) alla luce di un atteggiamento ontosofico. Qualcosa ci sorprende nel dettato di Kant e di Husserl: l’assenza del riferimento all’essere, dell’idea che la metafisica possa costituirsi come sapere dell’essere. In testimoni privilegiati della filosofia moderna si incontra una dissonanza, e cioè che mentre si cerca di costituire una conoscenza universale, si lasciano da parte la realtà e la nozione di essere.
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2. Apertura dello spazio della metafisica La possibilità della metafisica dipende dalla capacità dell’intelletto di attingere l’essere e l’ordine intelligibile. Alcuni “giganti” hanno aperto la strada: per Platone il sapere più alto, cioè la scienza a base anipotetica, è appannaggio dell’intelletto5; per Aristotele quest’ultimo, in quanto facoltà dei principi, è il fondamento della scienza e l’organo di quel sapere supremo che è la scienza dell’ente in quanto ente. Per Tommaso l’intelletto è la parte più alta e nobile dell’anima razionale, quella che consente di raggiungere la scienza e attingere l’esse. Con l’Aquinate la filosofia dell’essere compie la sua terza navigazione – in certo modo nel solco aperto dalla seconda navigazione platonica –, con la quale conquista la condizione di possibilità della propria permanenza storica e del proprio progresso (sui concetti di seconda e terza navigazione, qui soltanto introdotti, ci si soffermerà nel cap. XIII, che andrebbe considerato come necessaria integrazione di questo). Con la dottrina dell’intelletto viene allontanata in linea di principio la caduta nel nichilismo teoretico o speculativo, che è in agguato ogni volta che, compromessa quella dottrina e negata l’intuizione intellettuale, si raggiungano forme di oblio dell’essere. Il rifiuto kantiano dell’intuizione intellettuale, le critiche alla metafisica di Carnap e quelle pur tanto diverse di Heidegger, il tentativo husserliano di una scienza eidetica pura quale dottrina trascendentale dei cogitata coscienziali, l’attualismo di Giovanni Gentile, che oppone essere e spirito e adotta una concezione assolutamente produttivisticoprassistica del conoscere in cui nell’autoctisi l’Io trascendentale genera l’oggetto, possono essere collocati entro uno schema di interpretazione teoretica, secondo cui queste posizioni esprimono in vario modo una crisi della dottrina del nous e sfociano nella perdita della visualizzazione eidetico-giudicativa dell’essere e nella crisi della metafisica. Con questo viene anche suggerita una lettura della dinamica involutiva a livello speculativo di correnti della filosofia moderna. In tale processo la punta apicale viene raggiunta con le opere di Nietzsche e di Gentile, che costituiscono, prima che su piano morale, il vertice del nichilismo speculativo quale necessario risultato dell’abbandono della dottrina dell’intelletto e dimissione della metafisica. Opponendo Socrate a Dioniso e prendendo partito per il secondo, Nietzsche ha inteso che la condizione di successo per il proprio progetto consisteva nella cancellazione dell’intelletto e dell’anima individuale. Posizione chiaroveggente che ha individuato senza compromessi un nucleo vitale, meditando sul quale sembra che alla considerazione della mente si presentino due sequenze. Esse sono da intendere co98
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a) la sequenza “intelletto → intuizione intellettuale → percezione dell’essere → metafisica”; b) la sequenza “negazione dell’intelletto e dell’intuizione intellettuale → oblio dell’essere e crisi della metafisica → nichilismo speculativo”. Questi sono i temi che vorremmo porre ad oggetto nel presente capitolo, che considera la metafisica dell’intelletto un momento interno della metafisica stessa. Il pensiero moderno, partito dal cogito cartesiano e giunto alla prospettiva kantiana, postula una subordinazione programmatica dell’essere al principio rappresentante della coscienza, di modo che vale come ente ciò che può essere oggetto di un tale rappresentare. La coscienza si propone come fundamentum veritatis, in cui il soggetto tiene sotto il proprio controllo l’ente come disponibile, ossia come oggetto e “oggettività”. Per il realismo della Seinsphilosophie l’oggettività non è lo stare dell’ente nella disponibilità funzionale per un soggetto, ma il presentarsi al pensiero della cosa nei suoi caratteri essenziali e puri da ogni intento di dominio o da decreti disponenti.
3. Che cos’è metafisica?
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me costituenti un’area di affinità, non come legate da una consecuzione sillogistica:
Avviamo la nostra ricerca ripercorrendo l’insegnamento di Tommaso sulla natura e l’oggetto della metafisica, servendoci soprattutto del suo commento alla Metafisica aristotelica. Nel “Proemio” l’Aquinate spiega che tutte le scienze e le arti sono ordinate alla perfezione dell’uomo, ossia alla sua beatitudine, e per questo è necessario che esista una scienza che regga tutte le altre (aliarum omnium rectrix) e a cui possa correttamente attribuirsi il nome di sapienza. Questo sapere sarà il più altamente intellettuale e concernerà gli oggetti maggiormente intelligibili in sé. Esso riguarderà la certezza scientifica intellettualmente acquisita sulle cause, in special modo sulle cause prime e sui primi principi più universali, che concernono l’ente, l’uno, i molti, la potenza e l’atto. Questi concetti non possono essere trattati in qualche scienza particolare, ma in un sapere universale (communis scientia), il quale sarà anche sotto questo profilo il più altamente intellettuale. Tale carattere gli proviene anche dal fatto che esso considera gli oggetti massimamente intelligibili, che sono completamente separati dalla mate99
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ria, non solum secundum rationem, sicut mathematica, sed etiam secundum esse, sicut Deus et intelligentiae. Già a questo punto ancora iniziale si potrebbe riflettere sulla presenza insieme necessaria e pur tanto precaria della metafisica nell’esistenza e nel sapere umano: l’uomo come essere di frontiera tra mondo animale e mondo spirituale, quasi in horizonte existens aeternitatis et temporis, ascende solo con grande fatica verso oggetti e saperi altamente intellettuali. Nos non scimus nisi quaedam infima entium6. Ritornerò tra poco su questo aspetto notevole ai fini di una giusta collocazione esistenziale della metafisica: basti per ora cogliere l’implicito richiamo a prudenza e modestia che da quelle frasi emerge. I tre cammini di indagine di cui si è detto (sulle prime cause, i primi principi dell’essere e la sostanze puramente spirituali) convergono e appartengono ad una sola scienza, il cui oggetto proprio è in ultima analisi l’ens commune. Ma da quei tre cammini quest’unica scienza assume tre nomi distinti: “scienza divina o teologia”, perché considera le sostanze intellettuali e Dio; “metafisica” in quanto si volge allo studio dell’ente; “filosofia prima” perché considera le cause prime. Come scienza dell’ente in quanto ente, la metafisica è insieme ontologia e teologia: eadem est enim scientia primi entis et entis communis7; e il suo scopo è proprio questo, pervenire alla conoscenza di Dio: prima philosophia tota ordinatur ad Dei cognitionem sicut ad ultimum finem8. Di conseguenza la metafisica è scienza “massimamente divina”9. Questo cammino è però sempre aperto dalla conoscenza dell’ente, per cui l’oggetto proprio o connaturale della metafisica è l’ens commune in quantum est ens. Essa raggiunge Dio non in se stesso ma solo come principio del suo oggetto, sì che si dovrebbe dire che la realtà divina non è il suo oggetto immediato. In certo modo la metafisica verte più sui principiati che sul Principio, risalendo da quelli a questo. Nella tradizione della filosofia dell’essere è usuale ricordare che la metafisica si volge allo studio dell’ente in quanto ente. Con frequenza minore si è invece sottolineato che essa, portando sul più altamente universale, su ciò che è il più lontano dall’esperienza sensibile, costituisce un sapere estremamente arduo per l’uomo: «illa quae sunt maxime universalia, sunt sensibilibus remotissima, eo quod sensus singularium est: ergo universalia sunt difficillima hominibus ad cognoscendum. Et sic patet quod illa scientia est difficillima, quae est maxime de universalibus»10. Si dà dunque una sorta di opacità e di arduità della metafisica nei confronti della mente umana: Aristotele e Tommaso si compiacciono di sottolineare che questa scienza speculativa e libera è più divina che umana, potendone l’uomo usufruire come in prestito. È un sapere che è sì cercato per se stesso, ma che non è in piena dispo100
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nibilità dell’uomo; egli infatti non può usarne liberamente, cum frequenter ab ea [scientia] impediatur propter vitae necessitatem. Nec etiam ad nutum subest homini, cum ad eam perfecte homo pervenire non possit, sebbene la modica cognitio che se ne può trarre supera le verità che si conoscono nelle altre scienze11.Tra i due motivi della precaria disponibilità di tale scienza il più notevole è certo il secondo. Se si trattasse soltanto del frequente intervento delle necessità del vivere che distolgono dalla contemplazione, si potrebbe sempre fare assegnamento su un ridotto numero di uomini in larga misura sollevati da esse. Ma il guaio è che anche in questo caso quel sapere rimarrebbe incerto, precario, conquistato in modo imperfetto, non in piena e perpetua disponibilità per l’intrinseca arduità dell’oggetto. Dall’insieme di queste annotazioni si ricava in filigrana un quadro della condizione della metafisica nella cultura umana: ed è una condizione che invita alla modestia, a intendere le sue difficoltà quasi permanenti (oggi forse più acute che mai). E, si badi bene, ciò può essere compreso tanto meglio se si coglie la natura più intima di tale sapere e si è sicuri della sua possibilità. In maniera determinata l’Aquinate, riaffermandone la possibilità, ha indicato le ragioni della precaria condizione della metafisica nella cultura nel suo essere altamente intellettuale, speculativa, più divina che umana. Dobbiamo considerare le difficoltà della metafisica e perfino il suo rifiuto quali eventi che, salvo momenti piuttosto rari di pienezza, sono come il riflesso e il contrappasso della sua intellettualità ed elevatezza. Rimanendo nel solco di queste considerazioni si può aggiungere che due sembrano i motivi intrinseci o strutturali della costante precarietà della metafisica, del resto accertabili anche oggi. Il primo è che, data la sua natura di sapere più divino che umano, che porta infine su Dio, difficilmente essa potrà fiorire in tempi in cui la sensibilità religiosa si sia affievolita e secolarizzata, e ancor meno in tempi di ateismo. Il secondo verte sulla proporzione inversa tra slittamento della cultura verso la materialità dell’esistenza nelle sue varie forme e progresso della metafisica. Un sapere intellettuale ed astratto è ostacolato nel suo sviluppo da una cultura in cui la pervasività della materia e dei suoi prodotti ostacola l’ascesa del soggetto al livello della più alta visualizzazione eidetica (il terzo grado di astrazione, per esprimerci con il lessico della Scuola, forse qui un po’ barbarico e poco invogliante per quella certa quale assonanza che il termine “terzo grado” risveglia con l’idea di tortura). Ci si dovrà attendere che nella cultura il più alto livello del sapere speculativo sia rappresentato dalle matematiche, dalla fisica, dalla filosofia della scienza nella misura in cui include un aspetto della Physica secondo l’antica accezione. Fatte tutte 101
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le debite proporzioni e differenze, che non sono poche perché allora la metafisica non era stata ancora avviata, mentre oggi può vantare una storia plurimillenaria, la sua condizione presente non è abissalmente lontana da quella dei tempi dei primi filosofi “fisici”: «Antiqui enim non opinabantur aliquam substantiam esse praeter substantiam corpoream mobilem, de qua physicus tractat»12.
4. L’intuizione intellettuale In linea di massima e procedendo secondo larghi tratti quattro generali dottrine della conoscenza (e relative metafisiche) sono state formulate nello sviluppo storico della filosofia occidentale: a) l’empirismo nominalistico; b) il realismo assoluto di tipo innatista (Platone) o ontologista (Malebranche), ammettenti l’intuizione pura e diretta dell’intelligibile; c) il concettualismo puro che non ammette alcuna intuizione intellettuale, bensì solo quella sensibile (Kant); d) il realismo moderato, che ammette un’intuizione astrattiva dell’intelligibile nel sensibile (dottrina aristotelica, accolta e elaborata nella filosofia dell’essere). Naturalmente si tratta di uno schema puro, ridotto alle sue linee essenziali e che perciò non contempla le molteplici possibilità di combinazioni e mescolanze realizzatesi nel corso storico della filosofia. Non è però uno schema falso o inutile: oltre a possedere un valore di orientamento, rende conto di molti eventi accaduti nel quadro della filosofia prima. L’empirismo e il kantismo giungono, per strade certo diverse (quantomeno perché nel secondo rimane un certo accesso analogico agli oggetti metafisici), a precludere alla filosofia speculativa una solida conoscenza metafisica, la cui possibilità rimane invece nelle altre due dottrine che sostengono, seppure con insegnamenti diversi, la possibilità dell’intuizione intellettuale. Questa, al di là dei diversi modi in cui può essere tematizzata, include sempre un momento di apertura e di ricettività in cui si è in rapporto all’alterità e se ne riconosce l’eccedenza, mentre allontana la sintesi a priori o l’attività costruttice ossia ontotetica della ragione. Aggiungo che nell’intuizione intellettuale e nel concetto di verità come conformità è deposta un’intima affinità: quella per cui entrambe implicano un ricevere qualcosa dall’alterità. La verità come conformità significa corrispondere a una “misura” esterna, misurante e non misurata: tutto il contrario di una concezione ontotetica del vero e dell’esere. Per questo l’autoctisi attualistica non può che rifiutare tanto l’intuizione intellettuale quanto l’idea di verità come conformità. Orbene o la metafisica è impossibile, è un vano perdersi dell’intel102
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letto in sogni oltre i limiti dell’esperienza accessibile all’uomo, oppure la sua possibilità fa tutt’uno con quella dell’intuizione intellettuale (intuizione astrattiva dell’essere e intuizione dei primi principi). Questo lo sappiamo dai tempi di Kant, e in maniera forse meno tematica ma rigorosamente determinata, da quelli di Platone. Salvo casi rari, la filosofia contemporanea è lungi dall’aver superato l’interdetto kantiano sull’intuizione intellettuale. Che si tratti di ermeneutica, di filosofia analitica, di strutturalismo, di filosofia del linguaggio, di neopragmatismo, ecc., si dà un’estesa convergenza nel negare la possibilità di un’intuizione intellettuale dell’intelligibile: sotto questo aspetto lo schieramento della filosofia contemporanea rimane dunque ampiamente entro le sponde tracciate un tempo da empirismo e kantismo. Occorre essere consapevoli che senza qualche forma di intuizione intellettuale dell’intelligibile la filosofia teoretica si ridurrebbe a filosofia della natura, della scienza, a studio teoretico del mondo umano e delle sue produzioni (ad es. filosofia del linguaggio), a fenomenologia quale ricerca teoretica sulle datità essenziali, e così via. Impiegando una terminologia desueta ma non criptica, si dirà che la filosofia speculativa si riduce in tali casi a studio delle quiddità del mondo, ivi comprese quelle del mondo umano e dell’uomo stesso, rimanendo in linea di principio non percorso il cammino verso l’ente in quanto ente, gli oggetti trascendentali, il mondo delle sostanze puramente intellettuali. È anche noto che nel pensiero del XX secolo vi è stato chi, alludo a J. Maréchal e soprattutto a K. Rahner, ha accolto senza sostanziali riserve la negazione kantiana dell’intuizione intellettuale, cercando nello stesso tempo di salvare la possibilità della metafisica. In questi casi essa rimane solo come condizione di possibilità della physica, ossia come condizione di possibilità della conoscenza del mondo. In proposito non ci resta che ascoltare Rahner: «Il lumen intellectus è dato in primo luogo ed esclusivamente come condizione di possibilità della physica […] Di conseguenza per provare che il lumen intellectus è l’apertura dell’ambito metafisico bisogna dimostrare che può essere la condizione di possibilità della physica soltanto se è di fatto questa apertura all’ambito metafisico»13. Non è qui possibile abbozzare un’analisi degli assunti rahneriani che, dopo aver accantonato il tema dell’intuizione intellettuale, cercano attraverso il giudizio, l’excessus e la remotio un’àncora di salvezza per il mondo degli oggetti metafisici. Chi vi fosse interessato potrà trovare qualche elemento in proposito nell’Annesso 3. A nostro avviso la soluzione rahneriana consiglia una riconsiderazione del problema della possibilità della metafisica a partire nuovamente dalla base, ossia a partire dalla dottrina dell’intelletto, dell’astrazione, dell’intuito. 103
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Nella tradizione della filosofia dell’essere l’intelligenza è facoltà di conoscere superiore al senso, è facoltà dell’essere. Come ogni facoltà possiede un oggetto al quale è per natura ordinata e che raggiunge immediatamente (il colore per la vista, il suono per l’udito, il bene per la volontà). L’oggetto formale dell’intelligenza è l’essere, per cui essa nelle tre operazioni dello spirito (apprensione, giudizio, ragionamento) non intende nulla se non in rapporto all’essere. L’intelligenza conosce naturalmente l’ente come intelligibile, mentre i sensi da soli non percepiscono che dati materiali. Mentre l’essere costituisce l’oggetto formale proprio e adeguato dell’intelligenza in quanto tale, quello dell’intelligenza umana, che è unita ad un corpo dotato di sensi, è l’essere delle cose sensibili. In quanto “intelligenza incorporata” e dipendente per il suo funzionamento dai sensi, l’uomo non possiede un’intuizione intellettuale pura, potendo invece raggiungere una certa intuizione dell’essere intelligibile inviluppato nel sensibile, dal quale lo libera il potere astrattivo dell’intelletto. La percezione dell’intelligibile nel sensibile è un’intuizione che si effettua entro l’astrazione, ossia un’intuizione astrattiva, che libera l’oggetto conosciuto dall’individualità sensibile e porta nel fuoco dell’intellezione ciò che lo costituisce essenzialmente. Solo con l’astrazione, che non apporta nulla di proprio ma si limita ad accettare una parte di quanto la sensazione contiene, inizia l’autentica conoscenza intellettuale. Nell’atto dell’intuizione astrattiva l’intelligenza è in modo immediato e diretto in contatto con il reale nella coincidenza dell’intelletto in atto e dell’intelligibile in atto14. L’unità intenzionale operata dall’intuizione non avviene a livello empirico bensì a quello di una visualizzazione eidetica, nella quale le note individuanti dell’ente-oggetto cadono per liberare nell’intelligibile il contenuto trascendentale di cui è pregno (questo è il momento dell’astrazione), e che l’intelligenza dice a se stessa mediante l’idea di essere. Si può aggiungere che parlare di “momento dell’intuizione” e di “momento dell’astrazione” costituisce un’imperfezione del linguaggio: in realtà l’intuizione astrattiva è un atto unico e indiviso nel quale l’intelligenza, al vertice dell’operazione astrattiva, “vede” l’essere liberato nella sua intelligibilità propria, e perciò liberato dal carico del sensibile e del materiale, e se ne appropria in una percezione diretta. L’intelligenza intuisce astraendo, e astrae intuendo. In tal modo un unico ente, per modesto che sia, contiene e svela le leggi dell’universo dell’essere. Il miracolo proprio dell’intuizione astrattiva è di poter scoccare di fronte alla realtà più umile e di aprire nel contempo un dominio di ampiezza trascendentale (ossia coestensivo all’essere), nel quale si ritrovano, con modi che hanno fra di loro 104
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una similitudine o un’analogia di proporzionalità, le stesse nozioni e leggi fondamentali. Nell’intuizione astrattiva l’intelligenza incontra l’universale, nel quale soltanto può avere riposo e, cosa apparentemente ancor più sorprendente, incontra il concreto solo mediante l’universale e l’astratto. Ciò è possibile in quanto l’intuizione astrattiva coglie nell’ente, oltre alla sua universalità di estensione, la sua universalità di comprensione, ossia l’universalità di «una determinazione che contiene nella sua eminente unità la ricchezza di tutte le determinazioni che costituiscono un ente […] Una tale determinazione è, dal punto di vista intelligibile, tale “medium universale” che permette di penetrare fino alla più profonda intimità dell’essere concreto, fino a ciò che lo costituisce in proprio; e nello stesso tempo di riunire in una veduta universale tutti gli oggetti nei quali tale determinazione si ritrova sotto una forma propria a ciascuno, ossia tutti gli enti, poiché al di fuori dell’essere non vi è nulla […] Tale coincidenza in uno stesso oggetto di pensiero dell’universalità di comprensione e dell’universalità di estensione è il mistero stesso dell’essere e il fondamentale, l’unico problema metafisico»15. Poiché un momento intuitivo è intrinseco all’attività astrattiva dell’intelletto umano, è del tutto impropria, se applicata alla conoscenza intellettuale, la definizione di intuizione proposta dal Lalande nel suo Vocabulaire Philosophique: «Vista diretta ed immediata di un oggetto di pensiero attualmente presente allo spirito, e colto nella sua realtà individuale». Come vedremo oltre, la definizione è prossima a quella di Kant, che negava all’intelletto l’intuizione. Per un’intelligenza astrattiva non ci può essere percezione di una cosa nella sua realtà individuale: astrarre significa separare, far cadere le note individuanti. Esemplando univocamente l’intuizione intellettuale su quella sensibile, non si trascurano le evidenti diversità tra le due forme di conoscenza? L’intuizione intellettuale umana è una percezione astrattiva diretta o immediata di ciò che è, ossia del reale concreto – che è cosa diversa dal “reale individuale” – appreso dall’intelligenza come ente. Il reale concreto è raggiunto attraverso l’universale e l’essere; e l’intuizione intellettuale astrattiva è un conoscere nell’universale, e perciò una perfezione, perché attraverso un solo universale si possono conoscere molti singolari. “Diretta o immediata” significa inoltre non risultante da un ragionamento, e senza oggetto intermedio dapprima conosciuto. Non può significare “senza concetto”, nel quale soltanto l’intelletto “vede” la natura della cosa intenzionata (per ulteriori schiarimenti rinviamo all’Annesso 4). Nel processo astrattivo l’intelletto può operare a diversi livelli o intensità crescenti di astrazione, liberando l’oggetto di pensiero prima 105
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dalla materia individuale, poi da quella sensibile, e infine da quella intelligibile, per approdare alla considerazione dell’ente in quanto ente al più alto grado della percezione astrattiva dell’intelligibile, dove si schiude il campo degli oggetti metafisici: l’essere e i trascendentali; l’atto e la potenza; la causa e il fine, ecc. Nella sua originarietà e totalità concreta il pensiero è concepire e percepire ad un tempo: è formare un’idea (apprensione) e formulare un giudizio, di modo che l’intelligenza concependo percepisce o “vede”, e percependo concepisce nella coimplicazione della prima e della seconda operazione dello spirito. Nel suo risvegliarsi l’intelligenza forma la sua prima idea (quella di ente) portando il suo primo giudizio (di esistenza), e porta il suo primo giudizio formando la sua prima idea. Poiché l’essere (delle cose materiali) è l’oggetto proprio dell’intelligenza umana, una qualche forma di intuizione dell’essere, che si tratterà di precisare meglio, è connaturale all’uomo, anche se spesso potrà presentarsi in modo atematico, spontaneo, filosoficamente inconsapevole, ed eventualmente potrà venire concettualizzata in modo errato.
5. Razionale e intellettuale Si è finora fatto riferimento all’intelletto; che ne è della ragione (ratio) e del suo compito? Intelletto e ragione non sono due facoltà diverse dell’anima, ma due distinte operazioni di un’unica facoltà, entrambe necessarie all’uomo. La ragione è processuale, l’intelletto intuitivo. La prima in quanto opera connessioni di termini e discorso (dis-cursus, passaggio da nozione a nozione), è rapporto infinito tra diversi. Vive di relazioni, e sta perciò entro il circolo del movimento e del tempo, essa stessa movimento che via via pone medi. Poiché nel suo discorso la ragione è immersa nel divenire dove ogni membro non sta fermo ma si rapporta, non può raggiungere il principio, che se ne sta fermo come centro immobile al di sopra del tempo. Mentre la ragione mette in rapporto, l’intelletto si volge a qualcosa di anteriore al rapporto, che non è relazione ma in sé16. Il posto più nobile spetta perciò all’intelletto nel senso che una percezione immediata è più perfetta del lavorio discorsivo della ragione: «manifestum est quod defectus quidam intellectus est ratiocinatio». E anche: «Discursus rationis semper incipit ab intellectu et terminatur ad intellectum»17. In virtù dell’intuizione intellettuale la filosofia può porsi come un sapere di tipo “percettivo”; ed i seguaci dell’intelletto sono più vicini al vero dei maestri solo raziocinanti. Le filosofie che assegnano il primato all’elemento razionale-discorsivo hanno in genere il carattere della dottrina relazionale, dove 106
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l’eventuale unità assume la forma dei molti collegati, mentre le filosofie che si volgono dal lato dell’intelletto in genere si strutturano secondo un’unità che non è soltanto relazionale ed orizzontale. Con ciò viene introdotta una demarcazione fra due forme di filosofia. In proposito il razionalismo critico ha forse più ragioni di quanto immagini nel denominarsi così, poiché esso è denotato come profondo antiintellettualismo: la sua epistemologia mentre conosce il discorso della ragione, emargina l’intelletto. Occorre dire che la conoscenza nel suo stato più perfetto è conoscenza intuitiva: Dio conosce intuendo. L’intelletto dell’angelo comprende intuitivamente la propria essenza, che è intelligibile in atto; essa è l’oggetto primo della sua conoscenza, mediante cui egli conosce ogni altra cosa18. Man mano che si discende nella gerarchia degli esseri, con l’ingresso della materia si procede ad una maggior potenzialità e minor attualità, verso una conoscenza intellettuale meno intuitiva, che nell’uomo sarà legata alla conoscenza sensibile, alla materialità, alla corporeità, alla fatica del discorso, all’astrazione. Poiché ogni cosa è intelligibile nella misura in cui è in atto (19), mentre l’uomo deve fare i conti con la materia che è il luogo della potenzialità, la metafisica della conoscenza ci avverte che non sarà facile per l’uomo l’intuizione intellettuale, che egli dovrà vigilare per non far prevalere il nozionismo, il virtuosismo puramente logico. Tra la lunga fatica argomentativa e il momento dell’intuizione corre lo stesso rapporto che passa tra movimento e riposo. Poiché il movimento non è possibile né concepibile se non in rapporto al riposo, così il trascorrere discorsivo della ragione sarebbe incomprensibile se non avvenisse tra momenti di riposo che sono intesi appunto come intuizioni: intuizione del principio all’avvio e risoluzione delle conclusioni nei principi nel momento terminale. In quanto intuizione e discorso sono due distinte operazioni della stessa facoltà, corre tra esse una stretta complementarietà: intuitività dell’intelligenza e discorso della ragione debbono costantemente controllarsi l’un l’altro. E la seconda può con un giudizio obiettivo discernere tra intuizioni vere e false. Costituirebbe perciò un’immensa illusione ritenere di fare a meno dell’opera argomentativa e discorsiva della ragione, della sua capacità di connessione, perché noi raggiungiamo l’essere avanzando nella conoscenza delle connessioni fra le cose. Nell’idea stessa di un’intuizione finita e astrattiva, e perciò non pura, come quella umana, è implicito il rinvio alla ragione. Con l’opera dell’intelletto l’uomo conquista frammenti di eternità, sottraendosi per qualche istante al flusso dell’impermanenza. Se infatti l’attività conoscitiva della mente umana si distende nel tempo se107
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condo la consecuzione del prima e del dopo, da questo non segue necessariamente che l’intelletto nella sua funzione intuitivo-percettiva sia completamente interno al circolo della temporalità. Non diciamo che esso attinga direttamente l’eterno, ma che pur nel flusso del divenire può avere accesso a strutture stabili dell’essere, quali l’essenza, la sostanza, l’atto d’essere, come anche ai principi e alle verità che non mutano. In tali casi, tra cui non è da trascurare la ricapitolazione in un unico sguardo della successione argomentativa compiuta, l’intelletto trascende il flusso temporale quasi che l’immobilità di quanto è percepito si rifletta su di esso: intellectus supra tempus. Questa posizione viene ad affermare sul piano ontologico che il tempo non è l’essenza originaria dell’essere, come pretenderebbe Heidegger. È pertanto possibile tratteggiare due distinte sequenze, una propria dell’intelletto, l’altra della ragione, necessarie entrambe, ma di cui la prima è più vitale: a) intelletto → percezione dei principi e dell’esse → contemplazione → riposo → frammenti di eternità; b) ragione → argomentazione→ lavoro → movimento e divenire → temporalità. Le filosofie che negano una qualche forma di intuizione intellettuale intendono l’opera della ragione come un lavoro faticoso e interminabile, qualcosa di simile più ad una prassi che ad un “vedere” o contemplare: per esse al principio era l’Azione non il Logos.
6. Cenni all’intuizione intellettuale dell’essere L’intuitività dell’intelletto, sempre all’opera nelle sue molteplici operazioni, al suo vertice si attua come intuizione dell’essere, avendo ad oggetto l’essere/esistenza come tale. L’intuizione intellettuale umana è un atto unitario che si esprime e compie nel giudizio, non un atto esaustivo e onnicomprensivo come se possedesse i caratteri dell’intuizione divina. Come la vista può, fissando il proprio oggetto, scorgervi determinazioni nuove, così l’intuizione intellettuale può avanzare progressivamente nella conoscenza dell’essere. In quanto l’intelligenza umana è l’intelligenza di una ragione, il movimento progressivo le è connaturale. Lungi dal partire come un colpo di pistola che di primo acchito ci stabilisce nell’Assoluto, tale intuizione astrattiva, iniziando in virtù dello choc spirituale che la realtà del mondo o dell’io esercita su di 108
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uno spirito sufficientemente disposto ad ascoltare, e perfezionandosi nella percezione dell’essere come atto di esistere, ci stabilisce direttamente nella realtà degli enti sensibili, e solo in virtù del suo valore analogico e trascendentale dischiude l’intero orizzonte dell’essere. Con tale intuizione si avanza sino alla radice delle cose, perché «esse est illud quod immediatius et intimius convenit rebus»; esso è l’actualitas omnis formae, l’actualitas omnis rei, l’atto di tutti gli atti e la perfezione di tutte le perfezioni. Raggiungendo l’esse, l’intelligenza coglie il fondamento delle determinazioni reali, quidditative e categoriali, che dovrà perciò essere sovracategoriale o trascendentale. Nello stesso tempo coglie ciascuna cosa come esistente a suo modo e insieme partecipante a quella realtà denotata dal concetto di essere. Ossia nel contenuto dell’intuizione intellettuale dell’essere raggiunto nel giudizio di esistenza (intuizione giudicativa), l’analisi dell’intelletto può cogliere pure l’analogia e la trascendentalità dell’essere, il suo non poter venir definito né come genere né come specie perché le sue differenze gli sono interne; o, il che è lo stesso, l’essere è un oggetto trascendentale perché il suo concetto, pur intrinsecamente variato, imbeve di sé ogni cosa. Il cammino teoretico sin qui percorso e vertente sulla decisività del rapporto intelletto-essere in ordine alla costituzione della metafisica, rende legittimo attendersi che specifiche crisi della metafisica siano collegate a serie difficoltà della dottrina dell’intelletto e del giudizio. È quanto intendiamo verificare nell’analisi del pensiero di grandi testimoni della filosofia moderna: Kant, Nietzsche, Bergson, Husserl.
7. L’intelletto come facoltà delle categorie o l’impossibilità dell’intuizione intellettuale: Kant Il punto centrale della filosofia kantiana, quello da cui hanno preso origine una teoria della conoscenza interamente nuova e i problemi complessi sollevati dalla Critica della ragion pura, è la dottrina dell’intuizione. Essa comporta una profonda reinterpretazione della natura dell’intelletto umano, a cui viene negata l’operazione astrattiva ed ogni intuitività. La filosofia di Kant non sarebbe stata quello che è stata se non avesse trasformato l’intelletto da facoltà dell’essere e dei principi a facoltà delle categorie a priori, mediante cui, portando ad unità il materiale empirico offerto dai sensi, costituisce l’esperienza e la conoscenza. Esso quale facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, è la facoltà dell’unità dei fenomeni per mezzo delle regole/categorie. 109
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A questa reinterpretazione si collega il fatto che la filosofia kantiana appare impermeabile ad ogni intuizione compresa quella dell’essere: sappiamo infatti che per essa l’essere è una posizione di fatto, che attende di venir sussunta sotto le forme a priori. L’essere in generale si identifica con l’esser posto in generale; esso è semplicemente la posizione di una cosa o di talune determinazioni in se stesse. Che l’essere sia l’atto di tutti gli atti e dunque la perfezione di tutte le perfezioni, e perciò anche la sede di ogni intelligibilità, è rimasto estraneo al pensiero kantiano. Egli porta così a compimento la parabola iniziata da Cartesio, nel cui pensiero l’evidenza è in primo luogo una proprietà non dell’essere ma delle idee, che tendono a non regolarsi più sugli oggetti. Su questo punto l’apriorismo kantiano non fa che assegnare sistemazione scolastica alle nuove partenze cartesiane: «Nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo»20. Kant è consapevole che il vertice del conoscere è l’intuire: «Tutta la conoscenza [di Dio] deve essere intuizione e non pensiero, che sempre implica limitazione»21. Ma appunto egli la riserva solo all’Essere supremo. Intendendo l’intuizione solo come una rappresentazione immediata e singolare dell’oggetto22, il che rimase sempre per Kant il solo modo di intendere l’intuizione («ciò mediante cui la conoscenza è immediatamente riferita all’oggetto è intuizione […] Senza intuizione tutta la nostra conoscenza mancherebbe di oggetti e sarebbe completamente vuota […] Noi non possiamo avere nessuna intuizione indipendente dalla sensibilità. L’intelletto, dunque, non è una facoltà dell’intuizione»), egli la assegnò solo ai sensi23. Limitare l’intuizione soltanto a quella sensibile apriva la strada al conoscere come sintesi fabbricata, alla sostituzione dell’intuizione astrattiva con l’unità sintetica dell’appercezione, alla rappresentazione dell’oggetto in funzione delle categorie a priori dell’intelletto, in una parola la conoscenza astrattivo-percettiva è rimpiazzata da una costruzione in cui il trascendentale è la forma apriorica che unifica l’esperienza sensibile24. La consecuzione è dotata di interna necessità: in mancanza dell’intuizione intellettuale o si accede all’empirismo, o gli oggetti dell’esperienza, pensati ma non conosciuti, debbono regolarsi sulle categorie a priori dell’intelletto. Viceversa una filosofia che assegna il dovuto rilievo all’intuizione intellettuale non può essere a priori e Kant ne era persuaso: «Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori»25. Nella filosofia kantiana la spontaneità della facoltà di rappresentazione opera la sintesi oggettivata in relazione allo stesso “Io 110
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8. Nietzsche o l’avversario dell’intelletto
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conscio”, che ne è sorgente e condizione di possibilità. L’unità trascendentale dell’appercezione, che si esprime nell’“è” del giudizio, sintetizza soggetto e predicato secondo le categorie dell’intelletto. Pensare è unificare rappresentazioni in una coscienza; e l’intelletto «non è altro che la facoltà di unificare a priori, e di sottoporre all’unità dell’appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana»26. Conoscere non è un “vedere”, un intus legere/intelligere, ma sintesi apriorica. Il giudizio, lungi dal portare sull’essere, «è una conoscenza mediata di un oggetto, pertanto la rappresentazione d’una rappresentazione dello stesso»27. Al giudizio è sbarrato l’accesso al noumeno; la dottrina dell’astrazione, questo agile ponte tra sfera sensibile e sfera intelligibile, abbandonata; l’intuitività dell’intelletto sostituita dall’“io penso” come condizione di costruzione a priori. Ed il tragitto post-cartesiano perviene ad un punto in cui, venendo il compito della ragione severamente limitato, possono aprirsi varchi per il volontarismo.
Nella storia della filosofia moderna, Nietzsche prende posto come il pensatore nel quale l’abbandono dell’intelletto tocca un vertice dissolutivo, e l’intuizione intellettuale dell’essere è spenta senza residui. La filosofia nicciana segna l’allontanamento massimo dall’idea di filosofia e metafisica quale sapere oggettivo, libero, gratuito, cercato per se stesso; e ciò in conseguenza del fatto che l’idea del nous è andata in pezzi, stabilendo così la massima antitesi rispetto all’elogio che ne viene tessuto nel libro X dell’Etica Nicomachea. Dioniso-Nietzsche è il filosofo di un’umanità nuova, in cui lo sguardo noetico-contemplativo si è spento, sostituito dalla Wille zur Macht. Nella sua opera si compie la parte ascendente della parabola del nichilismo, che viene condotto ad un punto di sommità, perché Nietzsche ha inteso dissolvere l’idea di verità e considerato la ragione come un mero strumento delle passioni. L’idea della natura strumentale e derivata della ragione è convinzione costante in lui, come pure la pari validità dell’errore e della verità quali condizioni entrambe necessarie della vita. Senza abbondare in riferimenti, che sarebbero piuttosto numerosi, ci limitiamo ad alcune citazioni essenziali: «Per immensi periodi di tempo l’intelletto non ha prodotto niente altro che errori […] La vita non è un argomento: tra le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore […] Noi [uomini] riteniamo che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente con111
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trapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra loro»28. «Occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell’istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico […] noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici a priori) sono per noi i più indispensabili […] rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita. Ammettere la non verità come condizione della vita»29. Bollando come risultato di un’invenzione platonica le idee di spirito e di bene in sé, il pensiero nicciano ha abbandonato il rapporto intenzionale conoscitivo tra l’intelligenza e l’essere, intendendo l’intelletto come un mascheramento dell’istinto. Con la catastrofe dell’intelletto l’intero schieramento degli oggetti metafisici e delle essenze perde la propria identità stabile. Quelle nozioni o sono semplicemente negate o entrano l’una nell’altra in omaggio al metodo genealogico che dissolve ogni essenza: possiede infatti un’essenza solo ciò che in qualche modo non è riconducibile esclusivamente a processo, ciò che non è semplicemente storia. In particolare perdono identità il concetto di soggetto e quello di anima. Qui Nietzsche è particolarmente esplicito: occorre estirpare dalla scienza la credenza nell’anima individuale e immortale. Lo scatenamento della potenza nella vita è semplicemente un processo senza soggetto. Insieme con l’anima, tutti gli altri oggetti metafisici quali Dio, pensiero, libertà sono colpiti da un indice di radicale contingenza e falsità. Lo sbocco logico della posizione è il mutamento dell’idea stessa di verità, la cui nuova nozione si avvicina un poco a quella del pragmatismo. Non esistono in senso proprio né verità né errore, ma solo disposizioni di potenza utili o nocive alla vita. I nuovi filosofi tanto attesi e preconizzati da Nietzsche creeranno loro stessi i valori: «il loro “conoscere” è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza»30. Non è forse questo un esito particolarmente coerente con le premesse? Se l’attacco all’intelletto comporta la fine di ogni scienza teoretica, la strada è spalancata verso un’idea poietico-artistica e prassistica di sapere: in luogo del conoscere la volontà fondamentale della vita incorpora nuove esperienze mirando ad un incremento di forza31.
9. La possibilità dell’intuizione: Bergson Nel pensiero del ’900 alla filosofia di Bergson si può riconoscere il compito di aver nuovamente posto il problema dell’intuizione sopra112
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sensibile come luogo teoretico fondamentale, necessario per la costituzione della metafisica. In opposizione a Kant ed alla sua scuola, Bergson ha cercato di legittimare il sapere metafisico attraverso la possibilità di tale intuizione. «Tutta la filosofia che espongo a partire dal mio primo essai, afferma contro Kant la possibilità di una intuizione soprasensibile. Assumendo la parola “intelligenza” nel senso molto largo che Kant le dà, potrei chiamare “intellettuale” l’intuizione di cui parlo. Ma preferirei chiamarla “sopraintellettuale”, perché ho creduto dover restringere il senso della parola “intelligenza”, poiché riservo tale nome all’insieme delle facoltà discorsive dello spirito, originariamente destinate a pensare la materia. L’intuizione porta sullo spirito»32. Con essa si intende andare dalla realtà ai concetti, non viceversa. Già nella prima opera Saggio sui dati immediati della coscienza veniva introdotto il tema della durata reale, che non potrebbe essere percepita se non da una facoltà superiore all’intelligenza (nel senso bergsoniano), ossia dall’intuizione33. Ma sono soprattutto i saggi raccolti in La pensée et le mouvant che indugiano sulla problematica: «L’intuizione di cui parliamo porta prima di tutto sulla durata interiore […] L’intuizione è ciò che raggiunge lo spirito, la durata, il cambiamento puro […] Pensare intuitivamente è pensare in durata […] Noi assegnamo dunque alla metafisica un oggetto limitato, principalmente lo spirito, e un metodo speciale, soprattutto l’intuizione. In virtù di questo distinguiamo nettamente la metafisica dalla scienza»34. L’intuizione metafisica fu sempre per Bergson intuizione della durata, mediante la quale viene raggiunto il tempo reale del divenire, diverso ed eterogeneo rispetto al tempo spazializzato della fisica-matematica e delle sue formule. Durata che è un sostituto o un travestimento dell’essere, senza di cui non sarebbe possibile sostenere l’indivisibilità del movimento e l’idea del tempo come sostanza. Bergson accoglie perciò l’impostazione del problema metafisico nei termini di Kant secondo cui la metafisica è possibile solo attraverso l’intuizione intellettuale, ma indicando una soluzione contraria a quella kantiana: «Se esiste un modo di possedere una realtà assolutamente invece di conoscerla relativamente, di collocarsi in essa invece di adottare dei punti di vista su di essa, d’averne l’intuizione invece che farne l’analisi, infine di coglierla al di fuori di ogni espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è dunque la scienza che pretende di fare a meno dei simboli»35. Essa vale perciò come conoscenza reale che, andando alla radice della realtà, si colloca prima delle divisioni del sapere: in questo senso sembra che vada intesa la dizione bergsoniana sull’intuizione che trasporta nell’assoluto e sulla metafisica che fa a meno dei simboli. Resta da sape113
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re, tale è il problema lasciato aperto da Bergson, se l’intuizione intellettuale umana sia un’intuizione pura oppure astrattiva nel senso che la nostra conoscenza non può non far ricorso all’astrazione. Con ciò anche la critica del concetto a cui Bergson imputa uno spezzettamento o una decomposizione spazial-geometrica del reale, andrebbe abbandonata, poiché la cosa stessa è raggiunta nel e col concetto: nel concepire l’idea l’intelletto percepisce la cosa.
10. Ripresa della teoria, non dell’intelletto: Husserl Nella dialettica verso un compiuto nichilismo, che dopo il crollo intellettuale avrebbe condotto al crollo della morale, la filosofia di E. Husserl rappresenta un punto di resistenza e di reazione: quanto meno nel senso che la filosofia viene intesa come un sapere apodittico e una scienza teoretica. Secondo la propria vocazione originaria essa è per Husserl essenzialmente theoria, che si esplicita nella «convinzione che sia possibile e che sia appunto nostro compito di realizzare effettivamente l’idea di una conoscenza universale del mondo»36. La filosofia possiede un compito sopratemporale; si estende attraverso tutti i tempi e le generazioni alla luce di una struttura teleologica unitaria, entro cui si costituisce una comunità intemporale tra i filosofi, capace di scavalcare i secoli e resa possibile attraverso la ripresentificazione della sua storia. Producendo una continuità di apprendimento e critica reciproci, che dà origine a nuove direzioni di attenzioni e nuovi materiali, la storia della filosofia crea “il presente” di tutti i filosofi e di tutte le filosofie al servizio del compito eterno del filosofare. Siamo veramente agli antipodi dello storicismo speculativo, che dissolve l’unità teleologica del filosofare in un pulviscolo di idee temporalmente situate, mentre riprende quota l’idea di una filosofia vera. «Quest’idea – l’idea di una filosofia definitiva, vera in sé – è forse un’illusione ingannevole? Le filosofie possono esistere soltanto al plurale? Possono essere soltanto formazioni personali, delle persone così come si sono sviluppate nella loro singola situazione temporale…?»37. In certo modo si dà in Husserl una ripresa dell’idea di philosophia perennis almeno come esigenza e affermazione della filosofia in senso definitivo nonostante il suo compito infinito; come ricerca di un sapere autentico che, cominciando con la costruzione di un metodo, raggiunge una fondazione universale e stabile. La stessa idea di Europa è intesa come un’idea filosofica, il fenomeno originario dell’Europa spirituale venendo individuato nella nascita della filosofia come sapere 114
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che include tutte le scienze. La storia dell’Europa e quella della filosofia sono comprese come razionalismo, ricerca dell’episteme, costante tendenza della ragione all’autorischiaramento, a cui si contrappone lo scetticismo. «La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l’uomo nuovo, indica appunto il crollo della fede nella «ragione», nella ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l’episteme alla doxa»38. Riassumiamo i caratteri distintivi della fenomenologia husserliana. Essa è: a) scienza teoretica rigorosa, fondata su fondamenti assoluti; b) scienza eidetico-intuitiva, che mira a cogliere le essenze come sono e capace di venire a chiarezza sugli oggetti, in virtù del carattere apofantico o rivelativo della ragione; c) scienza assolutamente universale, diversa e superiore alle altre scienze particolari, che si volgono a singoli settori e oggetti del mondo; d) scienza della soggettività o dell’io trascendentale, basata sulla analisi delle intenzionalità costitutive della coscienza; e) quale scienza dell’io trascendentale è scienza dei primi principi e del senso di tutti i modi possibili in cui le cose possono essere date alla coscienza o costituite da essa; f) dottrina generale delle essenze, nel cui ambito si colloca anche la scienza che ha per oggetto l’essenza della conoscenza. Il contenuto dell’idea di scienza teoretica è definito dal carattere di intuitività: la fenomenologia non è un sapere deduttivo, procede piuttosto per sguardi chiarificatori, guardando e ideando. Anzi questo è in assoluto per Husserl il metodo specificamente filosofico, che deve partire da datità incontrovertibili attinte nel puro guardare. Nella riduzione fenomenologica viene escluso «tutto ciò che non è evidente datità in senso schietto, assoluta datità del puro guardare»39. L’intento è di fondare una gnoseologia pura, intesa come «univoca e diretta intuizione dell’essenza della conoscenza»40, mentre fenomenologia sarà “la dottrina generale delle essenze”. La loro percezione avviene nel diretto guardare le datità assolute, che sono le cogitationes della coscienza. Ma già a partire da L’idea di fenomenologia (1906) e successivamente in Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913), si pone tra parentesi ogni conoscenza naturale del mondo, allontanandosi dall’iniziale intenzione realistica (“ritorno alle cose stesse!”). L’accento batte non già sul momento della descrizione dei cogitata, che è l’istanza di maggior interesse della fenomenologia, bensì su quello della ricostruzione apriorica della realtà. Fenomenologia dunque della coscienza costituente, basata sulla riduzione fenomenologica per cui nessun particolare assioma oggettivo-mondano vi può essere introdotto in relazione ad oggetti che non siano coscienza. 115
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Viene introdotta l’epoché per cui ogni pretesa di valore, inclusa quella della logica e del principio di non-contraddizione, è posta fra parentesi e preliminarmente cancellata. In tali assunti affiorano i due disguidi fondamentali della fenomenologia husserliana: A) porre come oggetto adeguato ed esaustivo dell’intelletto l’essenza, non l’esistenza, che è invece la sorgente prima di ogni intelligibilità (la fenomenologia qui ribadisce il limite platonico e cartesiano); B) separare cosa e oggetto di pensiero volgendosi a questo e mettendo fra parentesi quella nella riduzione fenomenologica. L’intuitività viene certo difesa, ma è intuitività di tipo cartesiano, vertente sulla chiarezza delle idee-essenze, non sull’essere: nella fenomenologia trascendentale ogni seme di intuizione dell’essere sembra sterilizzato, come già in Cartesio. Alla luce di tale evento le differenze tra il cogito ergo sum cartesiano e il ego cogito cogitata, che rimarrà sempre per Husserl l’inconcusso fondamento del filosofare – le cogitationes sono datità assolute immanenti e la fenomenologia che le studia è scienza delle cogitationes pure – non sono radicali. A) La fenomenologia appartiene alla classe delle filosofie dell’essenza, per le quali il piano ontico-reale non è primario. L’intelletto si volge alle datità assolute, alle cogitationes, non al mondo o all’essere reale che vengono “epochizzati”: «Il mondo invece di essere senz’altro esistente […] è per noi solo una semplice pretesa all’essere […] In tal modo l’essere naturale del mondo […] è preceduto dall’essere, in sé anteriore, dell’ego puro e delle sue cogitationes. Il piano ontico naturale è secondario nel suo valore di esistenza; esso presuppone costantemente quello trascendentale». Ciò significa che la prima scienza filosofica è per la fenomenologia husserliana l’egologia, non l’ontologia. Nell’inversione del rapporto tra coscienza ed essere, per cui il piano dell’esistenza non è primario ma presuppone quello della soggettività trascendentale, stanno ad un tempo il sancta sanctorum e l’equivoco della fenomenologia ormai aggregata all’idealismo. «Il mondo oggettivo […] attinge il suo senso intero e il suo valore d’essere […] da me stesso, da me in quanto io trascendentale», che si rivolge ad osservare a priori flussi di coscienza, privati (ridotti) della posizione naturale dell’essere41. Insieme alla riduzione fenomenologica, l’intuizione eidetica dei cogitata e l’egologia trascendentale formano gli assunti centrali della fenomenologia. Nonostante tutto, non appaiono comunque elementi probanti per asserire l’identità di trascendente e di trascendentale in Husserl: questi ha lasciato aperto più di uno spiraglio, domandandosi ripetutamente come potesse ottenere significato oggettivo la dialettica che si produce nell’immanenza del vivere coscienziale, sebbene esistano altri contesti in cui la soggettività 116
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trascendentale è presentata come quella che, costituendo il senso e l’essere, deve venire analizzata nei suoi contenuti di coscienza per costruire una tipica della sintesi intenzionale. B) Il programma husserliano di fondare una scienza teoretica apodittica, anipotetica, intuitiva ha incontrato un ostacolo inaggirabile, quello per cui l’oggetto del puro guardare intellettuale non è l’essere ma le cogitationes, esse stesse oggetti intenzionali dei rispettivi modi di coscienza. Il significato gnoseologico-metafisico dell’epoché è di separare l’oggetto (essenza-fenomeno-cogitatio) dalla cosa, volgendosi solo al primo e lasciando indefinitamente tra parentesi il piano dell’essere. Così si rischia di cadere nell’assurdo, perché è impossibile pensare l’oggetto senza pensare la cosa (la nozione di puro oggetto, cioè di oggetto senza cosa, è contraddittoria), e di formulare l’idea molto precaria di una “ontologia” fenomenista senza l’essere. Non ego cogito cogitata, ma ego cogito ens è la certezza basale di ogni filosofia realista. Con la separazione fra cosa e oggetto viene messo in mora il significato autentico dell’intenzionalità, che invece di avere come termine ultimo la cosa stessa conosciuta nel concetto, ha come referente gli oggetti-fenomeni, i flussi di coscienza. L’intenzionalità diventa banalmente pensiero di, coscienza di; e l’unica datità possibile risulta ancora una volta l’oggetto di pensiero, oltre il quale potrebbe non esserci nulla (lo stesso problema di Cartesio): «Forse non ci sono cose fuori di me»42. L’equivoco della fenomenologia husserliana verte sull’oggetto proprio dell’intelletto umano, non sulla sua intuitività. Anche nel momento delle asserzioni puramente descrittive e universali, essa rimane all’interno del soggetto di cui analizza i modi di coscienza, ossia le cogitationes e i relativi cogitata, “ridotti” nel loro rapporto alla cosa. Ed il mondo «è l’intera vita della coscienza nella sua temporalità immanente»43. Tuttavia se l’oggetto dell’intelligenza umana sono i cogitata, si può ancora pervenire alla scienza? Non verte questa sulle cose, non sui contenuti di coscienza? Può l’intuitività e perciò un processo conoscente diretto sbocciare da un processo riflessivo? Per approfondire la questione ci può essere di aiuto un passo del commento dell’Aquinate al De Anima: «Illud quod est obiectum intellectus nostri non est aliquid extra res sensibiles existens, ut Platonici posuerunt, sed aliquid in rebus sensibilibus existens»44. Immediatamente dopo Tommaso approfondisce la posizione, svolgendo un’idea che costituisce una risposta anticipata e una correzione dell’assunto della fenomenologia trascendentale. Egli spiega che l’oggetto dell’intelletto non sono le species intelligibiles [l’equivalente dei cogitata del linguaggio di Husserl]–, le quali si rapportano all’intelletto non come 117
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ciò che è conosciuto, ma come ciò mediante cui l’intelletto conosce (non enim se habent ad intellectum sicut quod intelligitur, sed sicut quo intelligit) –, ma appunto la natura delle cose. Ora poiché le scienze riguardano ciò che l’intelletto comprende, esse vertono sull’essere (sull’ente in quanto ente la metafisica, su regioni dell’ente le altre), non sulle species o sui cogitata. La chiarificazione sembra particolarmente pertinente per la fenomenologia trascendentale, volta a costruire una scienza eidetica, intuitiva, a priori dei cogitata quale sapere assoluto. Quale illusione più seria di quella di pensare di fondare una scienza apodittica universale sui cogitata e non sull’ente? Pur separando l’oggetto dalla cosa, le conseguenze per la fenomenologia concretamente attuata non andranno però così male, perché nel pensare l’oggetto vengono surrettiziamente trasportate nell’universo di questo le buone e solide proprietà delle cose, che l’io trascendentale intenderebbe costituire a priori. Dunque l’a priori non è in fin dei conti del tutto genuino, perché lascia filtrare la luce delle cose nel mondo degli oggetti. Ci si può indubbiamente rallegrare dell’evento, quantomeno perché un risoluto programma idealistico-trascendentale si stempera strada facendo e incorpora elementi di realismo. Ci si può rallegrare, però non oltre un certo limite, perché secondo la fenomenologia «noi non attribuiremo particolare valore a giudizi come “questo qui esiste” e simili»45, ossia a quelli che sopra abbiamo definito “giudizi di esistenza assoluta”, e nei quali abbiamo riconosciuto il luogo privilegiato dell’intuizione dell’essere. Il merito della fenomenologia consiste nell’aver riaffermato che la filosofia è scienza teoretica o non è; e che deve pure essere scienza intuitiva (almeno in parte: non può esserlo nella misura molto ampia in cui la intendeva Husserl, che abbandona la dottrina dell’astrazione). Così egli è andato in direzione opposta al nichilismo nicciano, ed ha recuperato aspetti abbandonati da Kant. Con Cartesio le cose sono andate diversamente, poiché la fenomenologia è rimasta impigliata nella convinzione che sia l’idea non l’essere l’oggetto del filosofare e il luogo primo dell’intelligibilità. La fenomenologia trascendentale è consapevole cartesianesimo. Per quanto Husserl ritenga che essa in virtù di uno sviluppo radicale dei motivi cartesiani sia costretta a negare il contenuto dottrinale comunemente noto del cartesianesimo, il suo retaggio è onnipresente a livello fondamentale. Da Cartesio vengono assunte le idee che tutte le scienze sono parti non indipendenti della scienza universale che è la filosofia, che ne stabilisce l’unità sistematica; che la loro ricostruzione metodica e totale debba partire dalla rifondazione soggettivamente 118
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orientata della filosofia; che è possibile una fondazione apodittica e assoluta del sapere, a garanzia di un suo sviluppo infinito e sicuro. Anche le posizioni sul cogito, l’epoché, la riduzione dell’io, la messa entro parentesi del mondo, il dubbio metodico che abbatte tutte le scienze e tutte le verità sinora ritenute valide, la ricerca dell’evidenza attuata nell’interiorità del soggetto, ecc., sono posizioni che appartengono al più tipico patrimonio cartesiano. Krisis non aggiunge molto di nuovo, né sotto il profilo dell’omaggio a Cartesio – la scoperta dell’ego da parte di Cartesio «doveva un giorno risultare il “punto di Archimede” di qualsiasi autentica filosofia» – né sotto quello dell’ontologia, intesa come dottrina delle essenze46. In definitiva, se il giusto significato della fenomenologia trascendentale è racchiuso nelle tre dottrine della riduzione fenomenologica, dell’egologia trascendentale e della intuizione eidetica, esse la determinano come neocartesianesimo, facendone deviare l’originaria intenzione realistica, e trasformando in una ricerca sull’idea e sui cogitata quella che avrebbe potuto svolgersi come ricerca sull’essere. Sicché il filosofo della cultura può osservare che nella vicenda della filosofia moderna si presentano episodi molto notevoli di mancata liberazione. Come Marx non si è mai completamente liberato di Hegel ma ne ha accolto la dialettica, in modo che trasportandola nel suo sistema vi ha trasportato anche la mistificazione che le è inerente – in quanto dialettica, non in quanto idealistica o materialistica –, così Husserl non si è liberato di Cartesio, volendone anzi consapevolmente riprenderne il programma filosofico: «Non è già tempo di far rivivere il suo [di Cartesio] radicalismo filosofico originario?»47.
11. Breve digressione sull’antropologia Nelle tesi speculative svolte sono contenute conseguenze di rilievo anche a livello di antropologia filosofica. Qui una tradizione rimontante ai Greci ha cercato di definire l’essenza dell’uomo determinandola come animale razionale (animal rationale). Si può essere soddisfatti di tale determinazione? Non viene così spostata la percezione dell’essenza propria dell’homo humanus solo verso il logos e la ratio, cioè solo verso il momento logico-discorsivo dello spirito? Non si è visto essere ancor più essenziale nell’uomo l’operazione dell’intelletto? Se la definizione deve restituire l’essenza, ossia l’essere primariamente intelligibile e più proprio della cosa, allora l’uomo si qualifica soprattutto come animal intellectuale et rationale, o anche come animal spirituale. La definizione classicamente ricevuta è almeno incom119
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pleta, perché mette tra parentesi la più alta operazione dello spirito, quella per cui l’essere umano partecipa della nobiltà dei soggetti puramente intellettuali e di Dio. Del resto, se comprendo bene che i classici antichi e medievali non si arrestavano dinanzi ad una definizione e mantenevano la superiorità dell’intelletto sulla ragione, non aveva torto Heidegger nel polemizzare contro la definizione di uomo come animal rationale, che a suo avviso condiziona tutta la storia della metafisica, sebbene egli non abbia colto l’intelletto dell’uomo come facoltà intuitiva di percezione dell’essere e dei principi. Con la correzione-integrazione proposta si opera qualcosa di più di una semplice precisazione terminologica: si procede verso una filosofia dell’uomo collocata entro l’orizzonte della filosofia dell’essere. Ci si situa in un piano dove c’è principalmente l’essere, dove l’uomo è parte di esso, dove la sua essenza è determinata dal rapporto con l’essere e dalla domanda su di esso. Quanto vorremmo dire è che il riconoscimento di un nesso essenziale tra intelletto e humanitas dell’uomo specifica la questione dell’umanesimo, difficilmente pensabile se non fondato sull’essere in quanto conosciuto dall’intelletto e sulla conseguente ricerca della sapienza (per la tematizzazione del rapporto fra umanesimo e ontoteologia si rinvia al cap. XIV). L’eccesso lavoristico, il produttivismo, l’ideologia della tecnica non possono essere compresi nella loro essenza, se non vengono riportati ad un mutamento nella percezione dell’essere e del suo ordine, collegato all’eclissi del sapere contemplativo e al predominio del volere. Il soggetto “razionale” e calcolante si definisce allora entro la temporalità ed il lavoro, nella consecuzione del prima e del dopo, nella fatica del produrre e nella tensione all’usare (uti), lontano dall’atto del fruire (frui). La totalità degli enti vale soltanto come un esser-presente di mera datità, oggettità nuda posta di fronte al soggetto quale supporto materico indefinitamente trasformabile sotto la spinta di una causa efficiens, in un processo in cui l’unico limite consiste nell’intensità della volontà di potenza, che è effettualmente possibile esplicare48. Heidegger ha avvertito a buon diritto che l’essenza della tecnica non consiste semplicemente nel trasformare, ma nel modo del disvelamento che disvela le cose solo nel senso dell’impiegare: «dove quest’ultimo regna, scaccia via ogni altra possibilità del disvelare». Le cose sono disvelate solo per assicurarsene una disponibilità, e l’uomo è estroflesso verso esse, incapace «di esperire così una verità più principiale»49. Nel cammino che ha condotto ad un’inferiorità del conoscere-contemplare rispetto al conoscere-fare un influsso notevole è attribuibile a Kant quando, allontanandosi dalla tradizione, ha inteso il conoscere 120
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non più come processo che incorpora un’identità intenzionale fra pensiero e oggetto nel concetto, ma come una sintesi o composizione del tipo materia-forma: l’elemento empirico offerto dall’intuizione sensibile è la materia, che viene sussunta sotto l’elemento formale delle categorie a priori. Anche prescindendo dal fatto che la composizione di materia e forma dà necessariamente luogo ad un tertium quid che non è né materia né forma –, per cui è pienamente legittimo domandare come possa essere garantita l’oggettività del conoscere e la non modificazione dell’oggetto nel processo conoscitivo, che ne è la condizione irrinunciabile –, la dottrina kantiana della sintesi a priori materia-forma finiva per lasciare spazio ad un’interpretazione del conoscere come lavoro o poiesi: lavoro è infatti imprimere una forma su una materia. Conoscere non è raggiungere spiritualmente l’essere in una intuizione giudicativa, ma imprimere una forma su una materia. Di conseguenza ciò che sta di fronte, l’oggetto, più che essere intenzionato nel suo potenziale disvelarsi, è inteso come ciò che deve essere trasformato e impiegato. Il prassismo trascendentale e quello empirico-tecnologico, pur diversi, possono forse reclamare qui la loro sorgente.
H. Bergson, Introduction à la métaphysique, in Oeuvres, Puf, Paris 1963, p. 1393. 2 I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di G. Fano, Istituto editoriale italiano, Milano 1945. 3 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970. 4 J. Maritain, Scienza e saggezza, Borla, Torino 1964, p. 71. 5 Secondo la classificazione platonica vi sono quattro processi nell’anima: al più alto livello sta l’intellezione, il pensiero dianoetico al secondo, al terzo la credenza, all’ultimo l’immaginazione. Il potere dell’intelletto conduce, impiegando il metodo dialettico ed eliminando le ipotesi, verso il principio stesso anipotetico; a “vedere” l’intelligibile, cogliendo con la pura intellezione la reale essenza del bene. La dialettica trae l’occhio dell’anima (l’espressione è di Platone) alla contemplazione dell’essere più sublime (Cfr. Repubblica, 511e; 532ass.). Quando si tratta di illustrare come l’intelletto in un atto noetico attinga il principio delle cose, la lezione platonica gli attribuisce sempre una capacità di visione intellettuale. 6 Summa contra Gentes, III, 49. 7 In VI Met., lect. VI, n. 1170. E anche: «Ad illam scientiam pertinet consideratio entis communis, ad quam pertinet consideratio entis primi», In IV Met., lect.V, n. 593. 8 S.c.G, III, 25.
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In I Met., lect. III, n. 64. Ivi, lect. II, n. 45. 11 Ivi, lect. III, n. 60. 12 In IV Met., lect. V, n. 593. 13 K. Rahner, Spirito nel mondo, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 367. 14 «L’atto del sensibile e del senso è uno e medesimo […] la relazione fra l’intelletto e gli intelligibili scorrerà uguale a quella fra la la facoltà sensitiva e i sensibili», De anima, 425 b26, 429 a17. Cfr. anche S. Th., I, q. 55, a. 1, ad 2; q. 85, a. 2, ad 1. 15 J.H. Nicolas, L’intuition de l’être et le premier principe, «Revue Thomiste», n. 1, 1947, p. 119. 16 La superiorità dell’intelletto sulla ragione è dottrina che venne determinandosi già con Platone (Resp., VI 511 d-e; VII, 532 b-534 d) e con Aristotele (Eth. Nic., VI, 7; De Anima, III, 4), per essere poi ripresa – come visto – in epoca medievale in specie dall’Aquinate e successivamente in quella rinascimentale (ad es. dal Cusano). In un eccellente studio (“La distinzione di ragione e intelletto in Schopenhauer e il suo rilievo nella storia dei due concetti”, in AA.VV., Schopenhauer ieri e oggi, Il Melangolo, Genova 1991, pp. 277299) F. Volpi ha mostrato che il rovesciamento della tradizione operato da Kant e poi dall’idealismo nell’uso di intelletto (Verstand) e ragione (Vernunft) – per cui il primo ha il carattere del conoscere discorsivo astratto e la seconda è concepita come facoltà del conoscere assoluto –, fu via via preparato nella cultura filosofica tedesca dalla scuola leibniziano-wolffiana e poi da Baumgarten. Già con Wolff l’intelletto viene perdendo il carattere dell’intuitività, assegnatogli dalla tradizione. Schopenhauer censurò con la consueta vis polemica la classificazione di Kant e degli idealisti, a cui contrappose la propria per cui l’intelletto quale facoltà del conoscere intuitivo e immediato si distingue dalla ragione quale facoltà del conoscere discorsivo. Determinando però l’intelletto a cui sono proprie le categorie di spazio e tempo, come facoltà appartenente anche agli animali, e la ragione (che tratta i concetti) come qualcosa di specifico dell’uomo, Schopenhauer rimane prigioniero di Kant: «egli non si avvede del fatto che col mutamento e con la nuova determinazione kantiana del potere conoscitivo delle due facoltà è avvenuto altresì un rovesciamento della disposizione gerarchica in cui esse precedentemente stavano nella scala del conoscere, talché, mentre prima la facoltà suprema era l’intelletto, tale posizione di superiorità spetta ora alla ragione» (p. 294). L’intelletto varrà bensì per Schopenhauer come intuitivo, ma capace di un’intuitività solo sensibile, propria anche degli animali, per cui anche egli ribadirà i netti limiti del conoscere umano come in Kant. Alquanto curiosamente egli mescola una rivendicazione esatta contro l’uso di ragione e intelletto nell’idealismo, del tutto contrario alla tradizione, ad un allontanamento da essa attraverso la sostanziale negazione dell’intuizione intellettuale. 17 S.c.G., I, 57; S.Th., II II, q.8, a.1. Segnaliamo qui alcuni soltanto degli innumerevoli passi e riferimenti in cui Tommaso ribadisce la superiorità dell’intelletto sulla ragione e la sua intuitività: «Inest enim unicuique homini
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quoddam principium scientiae, scilicet lumen intellectus agentis, per quod cognoscuntur statim a principio naturaliter quaedam universalia principia omnium scientiarum» (S.Th, I, q. 117, a. 1); «Cognitio principiorum pertinet ad intellectum» (Commento ai Secondi Analitici, l.II, n. 596); «Intellectus cognoscit principia naturaliter» (S.Th., I, q. 60, a. 2); «Intellectus et ratio differunt quantum ad modum cognoscendi, quia scilicet intellectus cognoscit simplici intuitu, ratio vero discurrendo de uno in aliud» (S.Th., I, 59, a.1, ad 1m); «Supremum in nostra cognitione est non ratio, sed intellectus, qui est rationis origo» (S.c.G., I, 56); «Ratiocinari comparatur ad intelligere sicut moveri ad quiescere, vel acquirere ad habere: quorum unum est perfecti, aliud autem imperfecti» (S.Th., I, q. 79, a. 8); «Discursus rationis terminatur ad intellectum… Una potentia erit quae ipsa principia accipit, quod est intellectus, et principia in conclusiones ordinat, quod est rationis… intellectus simplicem et absolutam cognitionem designare videtur; ex hoc enim aliquis intelligere dicitur quod interius in ipsa rei essentia veritatem quodammodo legit […] Ratio comparatur ad intellectum ut motus ad quietem […] quamvis cognitio humanae animae proprie sit per viam rationis, est tamen in ea aliqua participatio illius simplicis cognitionis quae in substantiis superioribus invenitur, ex quo vim intellectivam habere dicuntur […] Eadem potentia in nobis est quae cognoscit simplices rerum quidditates, et quae format propositiones, et quae ratiocinatur: quorum unum proprium est rationis in quantum est ratio; alia duo possunt esse intellectus, in quantum est intellectus» (De Veritate, q. 15, a. 1). 18 Cfr. De Veritate, q. 8, a. 6; q. 8, a. 3; S.Th., I, q. 12, a. 4; q. 55, a. 3; q. 84, a. 7; q. 85, a. 1; ecc.. 19 «Cum unumquodque sit cognoscibile in quantum est ens in actu…», In II Met., n. 280. «Aliquid […] sub cognitione cadit, prout actu est», S. Th., I, q. 87, a. 1. «[Materia] secundum essentiam suam non habet unde cognoscatur, cum cognitionis principium sit forma», In VII Met., n. 1296. 20 Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1983, p. 24. 21 Ivi, p. 91. 22 «Intuizione dell’oggetto, cioè una rappresentazione immediata e singolare […] intuire significa rappresentarsi un oggetto come se lo avessimo immediatamente davanti a noi […] poiché io non posso conoscere ciò che è contenuto in un oggetto, se non quando esso mi è presente», Prolegomeni ad ogni futura metafisica, p. 71 s. L’intuizione viene da Kant interpretata come qualcosa di passivo e di ricettivo, possibile nella misura in cui qualcosa colpisce i nostri sensi. Non fu mai considerata la dottrina dell’astrazione dell’intelligibile dal sensibile e la stretta cooperazione del senso e dell’intelletto al riguardo. Risultò così sbarrata sin dall’inizio la via all’intuizione astrattiva. 23 Cfr. Critica della ragion pura, p. 65 e p. 105. 24 Si osservi anche che la sintesi tra rappresentazione empirica e categorie dell’intelletto non produce nell’oggetto conosciuto quel processo di crescente smaterializzazione e spiritualizzazione mediante cui l’intelletto agente lo eleva a gradi di immaterialità via via maggiori, rendendo così possibili le diverse scienze teoretiche del sapere umano (“fisica”, matematiche, metafisica).
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Critica della ragion pura, p. 20 s. Ivi, p. 134. 27 Ivi, p. 106. 28 La gaia scienza, Adelphi, Milano 1988, nn. 110, 121, 333. 29 Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1988, n. 4. 30 Ivi, n. 211. 31 Raggruppiamo qui vari riferimenti desunti per lo più dalle opere di Nietzsche risalenti al periodo della piena maturità, ed in cui il lettore può trovare conferma delle tesi qui esposte. 1) Dipendenza del giudizio del filosofo dagli istinti primordiali; non autonomia, non libertà, strumentalità della ragione; il pensare come semplice rapportarsi reciproco degli istinti; come mero ingrediente della volontà: cfr. La gaia scienza, n. 110, n. 333; Al di là del bene e del male, nn. 3, 19, 36, 191. 2) Ogni cosa nasce dal suo contrario; la verità dall’errore; la credenza nelle antitesi dei valori è dogma metafisico; la non verità come condizione della vita; è vero ciò che serve alla vita: cfr. Al di là del bene e del male, nn. 2, 3, 4; La gaia scienza, n. 121, n. 334. 3) Non esistono soggetti; non esiste alcun essere al di sotto del fare e del divenire; occorre estirpare dalla scienza la credenza nell’anima individuale; all’idea tradizionale di anima occorre sostituire quella di «anima come struttura sociale degli istinti e delle passioni»; cfr. Al di là del bene e del male, nn. 12, 54; Genealogia della morale, 1a Dissert., Adelphi, Milano 1988, n. 13. 4) In base alla cristiana volontà di verità ci si deve alla fine proibire la menzogna della fede in Dio; Dio è un pensiero che rende storto tutto ciò che è diritto; cfr. Genealogia…, 3a Dissert., nn. 24, 27. 5) La filosofia è interpretazione e insieme fraintendimento del corpo. In filosofia non si è trattato di verità, ma di salute, vita, avvenire; l’esistenza è polimorfa e può dunque racchiudere interpretazioni infinite, nessuna delle quali è garantita; tutto è apparenza, tutto è interpretazione; cfr. La gaia scienza, nn. 2, 373, 374. 6) L’essenza della realtà è volere; è volontà di potenza; la scienza suprema è la psicologia, intesa come morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza; cfr. Al di là del bene e del male, nn. 23 e 36. 7) Non esistono fenomeni morali; le morali sono solo linguaggio mimico delle passioni; cfr. Al di là del bene e del male, nn.108, 187. 8) I nuovi filosofi saranno capaci di capovolgere valori eterni; cfr. Al di là del bene e del male, n. 203. 32 Lettera (28 aprile 1920) di Bergson a J. Chevalier, in J. Chevalier, Bergson, Plon, Paris 1926, p. 296. In un intervento di molti anni prima alla Societé Française de Philosophie (2 maggio 1901) aveva precisato: «Se si legge attentamente la Critica della ragion pura, ci si accorge che Kant ha fatto la critica non della ragione in generale, ma d’una ragione formata alle abitudini e alle esigenze del meccanicismo cartesiano o della fisica newtoniana», Bulletin de la Societé…, p. 63. 33 Cfr. Essai sur les données…, Oeuvres, p. 83 s.
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Oeuvres, p. 1217-1278, passim. Introduction à la métaphysique, Oeuvres, p. 1393-1416, passim. 36 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 465. 37 Ivi, p. 468. 38 Ivi, p. 42. 39 L’idea di fenomenologia, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 50. Le cinque lezioni sull’idea di fenomenologia tenute tra il 1906 e il 1907 e pubblicate in questo libro, sono di notevole rilievo nello svolgimento del pensiero di Husserl e nella storia del movimento fenomenologico. 40 Ivi, p. 44. 41 Meditazioni cartesiane, pp. 19, 22, 27. 42 L’idea di fenomenologia, p. 110. 43 Meditazioni cartesiane, p. 57. 44 In III de Anima, lect.VIII, n. 717. 45 L’idea di fenomenologia, p. 81. 46 Cfr. La crisi…, p. 109 e p.170. In questo libro il percorso husserliano va dalle scienze obiettive, di cui si effettua l’epoché, al mondo della vita come già dato, e da qui alla soggettività trascendentale. Il passaggio al mondo della vita avrebbe potuto aprire l’orizzonte per un’indagine segnata da realismo: così non accadde in ragione del presupposto cartesiano per cui la riflessione sul mondo della vita diventa propedeutica alla seconda più radicale epoché, quella che pone fuori gioco la vita naturale e la realtà del mondo e attraverso cui – così assicura Husserl – è possibile raggiungere «un mutamento radicale di tutta l’umanità» (p. 178). In Krisis è confermata la correlazione universale di mondo e di coscienza del mondo, quest’ultima prodotta dalla vita coscienziale della soggettività formatrice intesa come costitutiva del senso e della validità d’essere. 47 Meditazioni cartesiane, p. 6. 48 Nella prospettiva qui delineata viene ad essere revocata in dubbio l’interpretazione heideggeriana, secondo la quale il dominio planetario della tecnica e l’eccesso lavoristico rappresentano il compimento della metafisica. Nel giudizio del filosofo tedesco questa ha dato origine alla devastazione della terra, e ciò trova il suo «coronamento adeguato nel fatto che l’uomo della metafisica, l’animal rationale, è posto e fissato come l’animale che lavora. Questa fissazione sanziona l’estremo accecamento circa l’oblio dell’essere» (Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 46). Si dovrebbe piuttosto affermare che questi eventi costituiscono segni notevoli dell’impasse di correnti della metafisica moderna nella loro difficoltà a cogliere con l’intelletto la ricchezza e il mistero dell’essere reale. 49 Ivi, p. 21.
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Capitolo quarto
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Statuto dei primi principi
Se principio è ciò da cui qualcosa procede, nel termine “primi principi” viene esplicitato il riferimento a ciò che è primo. Tale primalità o priorità, dicendo connessione a qualcosa di originario, va considerata secondo la classe di realtà a cui si indirizza lo sguardo: ciò che è primo può riferirsi all’essere, all’agire (includendo in esso anche il produrre), al conoscere. Esisteranno perciò primi principi dell’essere, dell’agire, del conoscere. Nel presente capitolo, in armonia con l’intenzionalità della nostra ricerca, la questione dei primi principi sarà svolta in rapporto all’essere allo scopo di determinare se vi siano e quali siano primi principi dell’essere, e solo secondariamente in rapporto al conoscere. Qui occorre preliminarmente ricordare due elementi: che l’ordine ontologico-reale e quello della conoscenza non sono identici, poiché il secondo cerca di adeguarsi al primo, mantenendo peraltro una sua disgiunzione e una sua libertà nel maneggiare le nozioni; che all’interno della sfera del conoscere si distacca con qualità proprie quella della dimostrazione e della scienza (intendiamo questo termine come indicante ogni sapere ben stabilito). In effetti l’intelligenza sta nell’ordine della conoscenza prima di essere in quello della dimostrazione. Mentre la diversità tra semplice conoscenza e scienza come sapere di modo perfetto è interna alla sfera del conoscere, quella tra ordine del conoscere e ordine dell’essere dà luogo a due classi di principi non pienamente coincidenti: i principi dell’essere che sono anche principi del conoscere, e i principi della conoscenza che non sempre costituiscono anche principi dell’essere (l’universale, che è un principio del conoscere, non lo è dell’essere). Poiché cerchiamo principi primi reali e non soltanto pensati o meramente logici, cioè principi che si impongano alla riflessione come strutturanti la realtà (si potrebbe anche dire “le leggi ontologiche del reale”), sarà necessario porsi sin dall’inizio a livello reale, accettando 127
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la sua primalità. Nella tradizione della filosofia dell’essere la supremazia del livello ontico-reale è adeguatamente evidenziata con l’effettuare la partenza dal concetto di ente. Poiché realmente e conoscitivamente esso sta prima di ogni altra nozione (perché tutte le nozioni sono determinazioni di quella di ente e in essa si risolvono), chiameremo talvolta l’ente il “principio primissimo”1. In un passaggio del De veritate spesso citato (q. 1, a. 1) l’Aquinate ha illustrato il moto dell’intelligenza umana nel suo andare al fondamento, nel suo cogliere il “principio primissimo”: «sicut in demostrabilibus oporter fieri reductionem in aliqua principia per se intellectui nota, ita investigando quid est unumquodque […] Illud autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens […] Unde oportet quod omnes aliae conceptiones intellectus accipiantur ex additione ad ens. Sed enti non potest addi aliquod quasi extranea natura, per modum quo differentia additur generi […]». Ci si trova così condotti ad un punto, oltre il quale è impossibile risalire, dove l’attività conoscitiva originaria sarà conoscenza di ciò che è primissimo nella realtà (l’ente). Con questi cenni si avverte che la ricerca sui primi principi tocca lo statuto dell’immediato: essi fanno parte di conoscenze preesistenti al pensiero discorsivo e di cui questo si avvale per progredire. In effetti ciò che è all’origine della scienza e del dimostrare non può essere oggetto di scienza e di dimostrazione, ma di intuizione. E come potremmo apprenderli se non alla luce della percezione intellettuale dell’essere preventivamente operante? La trattazione dei primi principi, che non sono primi in senso assoluto in quanto presuppongono l’apprensione dell’ente quale principio primissimo, può con buone ragioni trovare posto dopo il capitolo sull’intuizione intellettuale, poiché essi sono appresi intuitivamente. In quanto primi essi sono naturalmente conosciuti dall’intelletto e fanno parte del bagaglio del senso comune, sebbene questo da solo non riesca a difenderli criticamente. In certo modo sono l’espressione che l’essere fa di se stesso prima che nella filosofia nel linguaggio comune, che è un linguaggio aperto in cui circola il senso dell’essere più riccamente che nei linguaggi specialistici delle scienze. Costituirebbe un abbaglio – per la verità non così raro – sostituire all’ente come principio primissimo il principio di non contraddizione (pdnc), che pur avendo valenza ontologica e non solo logica, è primo nell’ordine della dimostrazione, non in quello dell’esistenza. Qui sono primi la formazione dell’idea di ente e il giudizio di esistenza. Che il pdnc non sia primo nell’ordine ontologico lo dichiarano le sue formulazioni: impossibile est esse et non esse simul; non contingit idem si128
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1. Caratteri dei primi principi speculativi
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mul esse et non esse; che presuppongono la apprensione dell’ente, e il giudizio di esistenza. Naturalmente al pdnc rimane la suprema regia nell’ordine del discorso, in virtù dell’assunto che né il discorso né la realtà possono essere contraddittori.
Inoltrandosi nella questione dei primi principi, che non è priva di trabocchetti, un passo d’orientamento può consistere nel sintetizzare in brevi asserti elementi della loro dottrina: a) i primi principi sono espressi in giudizi o proposizioni; viene così valicato il momento basilare ma insufficiente della formazione dei concetti per accedere a quello del discorso vero o falso. Questo, come è noto, accade nell’atto del giudizio che compone o divide S e P e in tal modo raggiunge o non raggiunge la conformità (o adeguazione) al reale. b) I primi principi appartengono alla classe delle proposizioni per sé note, ossia immediatamente intese appena se ne comprendano i termini per la necessaria convenienza del S e del P, intuitivamente percepita. Le proposizioni in cui il P è contenuto nella nozione del S sono per sé note (non è invece vera la reciproca, ossia non tutte le proposizioni per sé note sono quelle in cui il P fa parte della nozione del S). c) Chiameremo speculativi (o della ragione speculativa) i primi principi di cui ci si occuperà, distinguendoli da quelli pratici (o della ragion pratica). Il ricorso al plurale intende indicare che non esiste un solo primo principio, ma una loro molteplicità ed un ordine tra loro. Come si vedrà meglio tra poco, l’ordine dei primi principi non implica che essi si possano dedurre da un unico principio (in tal caso essi non sarebbero primi), ma che essi sono interconnessi. Si può infatti mostrare che la negazione di uno di loro implica la negazione del principio di identità (processo di riduzione all’assurdo). Con questa precisazione i primi principi speculativi risultano: principio di identità (pdi); principio di ragion d’essere (pdre); principio di causalità (pdc); principio di finalità (pdf). Nella pluralità dei primi principi si rispecchia la ricchezza dell’essere, accadendo per essi qualcosa di analogo a quanto si verifica per le nozioni trascendentali, dove l’idea dell’ente trascende se stessa per obiettivarsi in una pluralità di nozioni (uno, vero, bene, bello) che costituiscono altrettante epifanie dell’essere: la mente ha bisogno di penetrare nell’oggetto da più angoli di prospettiva (i diversi trascendentali), non essendole possibile adeguare la sovrabbondante ricchezza 129
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dell’esistenza da un solo lato. Nella percezione dei primi principi l’idea dell’ente si scinde e si obiettiva in vari oggetti di concetto, di cui l’intelligenza coglie la coincidenza reale, esprimendola in un giudizio. Nel caso del pdi l’intelligenza coglie l’ente sia come semplicemente esistente (o dotato della possibilità di esistere), sia come detentore di certe leggi, e perciò dotato di una certa struttura o essenza. L’intelligenza percependo che queste due nozioni (la posizione esistenziale di fatto e la determinazione essenziale) si riferiscono alla stessa cosa, formula immediatamente il pdi: “ogni ente è ciò che è”, oppure “ogni ente è di natura determinata”. Tra i primi principi, a quello di identità spetta di valere come primo in assoluto, poiché si formula solo in rapporto alla prima nozione, quella di ente2. Osserviamo che il pdi, lungi dall’autorizzare una concezione chiusa e ripetitiva dell’essere e della vita – come talvolta con scarso fondamento si ritiene – è il garante dell’universale molteplicità e il custode più genuino della relazionalità. Se una cosa è identica a se stessa, significa che è diversa da tutte le altre con le quali può entrare in rapporto: non gli identici ma i diversi possono relazionarsi per scambiare ciò che l’un l’altro manca, ossia la loro diversità. Esso perciò fonda l’apertura ontologica, la differenza e la relazione con l’alterità, per cui l’altro non può mai essere ridotto all’identico, e l’ipse al même. Si rimane nell’equivoco se il pdi è inteso in senso immediatamente morale come se indicasse una chiusura, un ripiegamento su se stessi. La stessa identità del Dio neotestamentario non è un’identità chiusa ma relazionale: relazionalità sussistente delle tre Persone divine. L’identità chiusa e astratta è la filosofia del Neutro, nichilismo come annientamento dell’alterità. Nel pdre i due oggetti di pensiero che si presentano all’intelligenza sono da un lato l’ente come tale e dall’altro l’ente come vero. La mente coglie che l’essere porta in sé la possibilità di rispondere alla richiesta dell’intelligenza, potendo rendere ragione di se stesso o in virtù di se stesso (a se), o in virtù di altro (ab alio). Da qui la formulazione del pdre: «tutto ciò che è, nella misura in cui è, ha la sua ragion d’essere», che possiede una portata maggiore del pdc. Mentre la ragion d’essere è causa nel suo ordine, non sempre la causa è ragion d’essere: l’essenza del triangolo è ragion d’essere delle sue proprietà, non è causa efficiente nel senso che le produca3. Quanto al pdc, adotteremo la formula “ogni ente contingente è causato”, e per quello di finalità “ogni agente agisce in vista di un fine”. Ad eccezione del pdc i primi principi precedono la suddivisione dell’ente in atto e potenza, necessario e contingente. Su ciascuna di queste formulazioni sarebbe possibile meditare indefinitamente per avvertirne la ricchezza, le molteplici virtualità e gli inediti sviluppi deposti in giudizi che a prima vista potrebbe130
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ro sembrare scontati e perfino vuoti. Ciò che sembra ovvio ed immediato riserva però molte sorprese… Con un certo rammarico non seguiremo questa strada, privilegiando l’accertamento dello statuto ontologico-gnoseologico e della difesa critica dei primi principi sull’analisi del loro contenuto. d) Se esiste un modo equivoco di accostarsi ai primi principi è di intenderli come una tavola di proposizioni che contengono virtualmente la totalità del sapere, e da cui quest’ultimo potrebbe essere via via dedotto sillogisticamente. Forse questa era l’idea del razionalismo moderno. e) Nei primi principi si esprimono leggi dell’ente, il quale non è né la sola essenza, né la sola esistenza, ma l’una e l’altra. Non sussistono ragioni per opporle, né per costituirle in due ordini irrelati, retti da primi principi irriducibili. A livello del movimento intenzionale della mente verso la realtà, i primi principi si palesano come principi dell’essere. In quanto tali, essi si costituiscono come principi del pensiero nel suo movimento riflesso, cioè quando il pensiero ritorna su se stesso per conoscere le leggi del proprio automovimento razionale. Entro tale autoriflessione di secondo sguardo nasce e si sviluppa il mondo della logica e la relativa scienza. f) Formulati in funzione dell’essere e dei trascendentali, e dunque vivificati dalla forza della originaria percezione dell’essere, i primi principi non possono non subire l’urto dell’oblio dell’essere e l’effetto del nichilismo speculativo, per cui, dimenticata la loro valenza ontologica, ne rimangono solo alcuni, intesi come regole della dimostrazione. g) I principi possono venir dimenticati, nel senso di cessare di essere oggetto di riflessione. Sono le epoche in cui la metafisica si eclissa, sebbene con ciò essi non vadano incontro alla dissoluzione. In quanto costituiscono principi necessari e intrascendibili dell’essere e del pensare, continuano a valere; il pensiero tuttavia non li pensa, accontentandosi di funzionare in accordo con essi. Si può negare a parole il principio di ragion d’essere o sbarazzarsi con un tratto di penna del problema della causalità, senza smettere di pensare neppure un istante secondo tali principi: su ciò si fonda la loro difesa elenctica. h) Nello sviluppo discorsivo-argomentativo si deve necessariamente far ricorso a conoscenze preesistenti che in ultima istanza si riportano a premesse assolutamente prime ed immediate, su cui possa fondarsi il sapere di modo discorsivo, ossia la scienza. Il rapporto tra principi della scienza ed episteme, antico quanto la filosofia, trova una trattazione elaborata nell’Organon aristotelico, anche in merito all’indi131
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mostrabilità dei principi: «Ogni dottrina ed ogni apprendimento, che siano fondati sul pensiero discorsivo, si sviluppano da una conoscenza preesistente […] se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa […] chiamo “assioma” quel principio che dev’essere necessariamente posseduto da chi vuol apprendere checchessia […] la scienza riguardante le premesse immediate prescinde dalla dimostrazione […] sarà allora necessario che tali premesse immediate risultino indimostrabili»4. In quanto costituiscono il fondamento di ogni sapere dimostrativo e ciò da cui origina il dimostrare, i primi principi non possono venire dimostrati: essi non sono oggetto di scienza, ma di intelligenza ossia di intuizione in virtù dell’intelletto o dell’habitus principiorum. Nei Secondi Analitici si incontra la tematizzazione e la differenza tra la scienza dimostrativa-deduttiva (episteme) e la conoscenza dei principi che spetta al nous e all’intuizione: «Ordunque, che senza conoscere i primi principi immediati non sia possibile sapere mediante dimostrazione, già si è detto in precedenza. D’altro canto, ci si può domandare se la conoscenza dei principi immediati e le proposizioni dimostrative siano o meno oggetto di scienza, oppure se le seconde lo siano, mentre i primi sarebbero oggetto di un qualche genere diverso di conoscenza, e infine, se le facoltà dei principi si sviluppino senza sussistere in noi sin dall’inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo […] dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i principi […] e allora […], l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. Così l’intuizione risulterà il principio del principio […]»5. I primi principi speculativi, che sono dunque intuitivamente conosciuti, appartengono alla classe delle proposizioni per sé note, la cui conoscenza avviene contestualmente alla esatta comprensione nozionale dei termini (il S e il P) che le compongono. Nella filosofia dell’essere è frequente l’insegnamento sulla apprensione immediata, intuitiva, naturale dei primi principi. Per non moltiplicare le citazioni, che sarebbero numerosissime, ci si può limitare a qualche esempio tratto dalle opere dell’Aquinate: «Per lumen naturale nobis inditum statim cognoscuntur quaedam principia communia quae sunt naturaliter nota […] discursus rationis semper incipit ab intellectu et terminatur ad intellectum» (II, II, q. 8, a.1). «Inest enim unicuique homini 132
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2. La predicazione per sé
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quoddam principium scientiae, scilicet lumen intellectus agentis, per quod cognoscuntur statim a principio naturaliter quaedam universalia principia omnium scientiarum» (I, q. 117, a. 1)6.
Spingiamo più avanti la riflessione sull’intuitività dei primi principi speculativi e sul loro presentarsi come “per sé noti”: è possibile giustificare questa loro pretesa? La dottrina della predicazione per sé ci fornisce al riguardo un robusto quadro teoretico, utile ai fini di una percezione più adeguata della struttura logico-metafisica dei primi principi. Dottrina classica, ma spesso disattesa. In quanto espressi nella forma del giudizio, i primi principi appartengono a quel tipo di predicazione che i logici chiamano predicazione per sé, in cui il legame tra S e P non è accidentale ma essenziale7. L’importanza speciale della predicazione per sé risiede nel fatto che solo questa può incorporare proposizioni necessarie ed universali, ossia proposizioni che costituiscono scienza nel senso rigoroso del termine. Le basi della relativa dottrina sono state gettate negli Analitici posteriori8. Attesa la speciale rilevanza della predicazione per sé, la logica classica le dedicò una particolare attenzione, che è rimasta anche nella filosofia moderna, sebbene soltanto nei confronti di uno dei quattro modi di predicazione per sé: quello direttamente integrabile nella logica formale, la quale in certo modo diviene il tutto della logica. Universalmente si ritiene che la logica formale debba occuparsi soltanto della coerenza interna delle proposizioni e del discorso; ma quando le regole di coerenza sono state stabilite, si può affermare che il compito della logica sia terminato? Oltre la coerenza, c’è il problema della verità, poiché, per quanto rigorosi e raffinati possano essere il metodo e le regole applicate, se i principi sono falsi e incerti, le conclusioni saranno tali. La dottrina della conoscenza e logica materiale si preoccupano proprio di questo, ossia di stabilire le condizioni per cui i principi della dimostrazione siano veri. I problemi sollevati dalla logica materiale (o logica della ragione vera, per distinguerla dalla logica formale, che è di per sé solo la logica della ragione corretta) toccano da vicino problematiche gnoseologiche e metafisiche. La domanda che può fungere da guida alla indagine sulla predicazione per sé riguarda la forma della connessione necessaria fra S e P, se cioè essa sia unica o plurima. Si tratta di addivenire alla conoscenza delle varie forme di “perseità” (italianizzazione del latino perseitas, che allude appunto alla predicazione per sé), non limitandosi a quella 133
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più ovvia ed immediata in cui il P appartiene alla nozione del S. Assumeremo come avvio la trattazione dell’Aquinate nel commento agli Analitici posteriori, arrestandoci soltanto ai primi due modi dicendi per se (fra i quattro possibili), in quanto, come vedremo, sono gli unici che interessano per la giustificazione critica dei primi principi speculativi: «Primus modus dicendi per se est, quando id, quod attribuitur alicui, pertinet ad formam eius […] Secundus modus dicendi per se est, quando haec praepositio per designat habitudinem causae materialis, prout scilicet id, cui aliquid attribuitur, est propria materia et proprium subiectum ipsius […] unde secundus modus dicendi per se est, quando subiectum ponitur in definitione praedicati, quod est proprium accidens eius»9. Occorre forse sciogliere il dettato alquanto aspro e poco parlante alle orecchie dei contemporanei. Il primo modo dicendi per se si ha quando il predicato appartiene alla definizione del soggetto, ossia quando si predica del soggetto un suo costitutivo essenziale (la proposizione «l’uomo è animale razionale» appartiene al primo modo, in quanto il predicato non fa che esprimere quanto è già contenuto nella nozione del soggetto). Il secondo modo si ha quando il soggetto è posto necessariamente nella definizione del predicato, come causa materiale e soggetto proprio di questo: si dà dunque predicazione di secondo modo quando si predica un accidente del proprio soggetto (ad esempio la proposizione «i numeri sono pari e dispari» appartiene al secondo modo poiché il soggetto proprio del predicato «pari e dispari» non può essere altro che «numero». In altri termini il soggetto «numero» è posto necessariamente nella definizione del predicato, mentre non è vero il reciproco, ossia che nella definizione del soggetto numero rientri necessariamente la nozione del predicato «pari e dispari»)10. Con il bagaglio della dottrina della predicazione sui modi dicendi per se è più agevole cogliere la struttura noetica dei primi principi della ragione speculativa: essi sono proposizioni non dimostrabili, autoevidenti e per sé note, conosciute immediatamente in ragione delle nozioni proprie del S e del P, ossia conosciute non appena l’intelligenza coglie il significato dei termini. Sono proposizioni autoevidenti, necessarie e universali in quanto o il predicato appartiene immediatamente al concetto del soggetto, oppure il soggetto è implicato nel predicato, come facente parte della sua definizione ed in quanto è il soggetto proprio e necessario di quel determinato predicato. Il principio di identità è evidente e necessario in virtù del primo modo di perseità; il principio di ragion d’essere e il principio di causalità sono evidenti e necessari in virtù del secondo modo di perseità. A titolo esemplificativo consideriamo il secondo, osservando che analogamente si può pro134
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3. Analiticità o sinteticità dei primi principi
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cedere per il primo. Sia data una cosa causata. La relazione alla causa non fa parte della definizione di tale cosa; è chiaro infatti che scrutando la nozione di ente, o di ente contingente o di ente che comincia, non si evince che essi siano necessariamente causati. D’altro canto lo scrutinio del principio di causalità nella formulazione sopra offerta: “ogni ente contingente è causato”, avverte che se nella nozione di ente contingente non è possibile leggere una relazione necessaria al predicato “causato”, è questo che necessariamente rinvia al soggetto “ente contingente”: «Essere causato non fa parte della definizione di ente contingente, ma è una proprietà, una “propria passio” che ha per soggetto proprio l’ente contingente»11.
Dal fatto che i primi principi sono espressi in giudizi non può non sorgere la domanda se essi si configurino come giudizi analitici o sintetici. È ben noto che per Kant l’analicità si dà soltanto nei giudizi identici, puramente tautologici: essi sono necessari e universali, la loro negazione implica contraddizione, ma non ampliano la conoscenza. I giudizi sintetici, in quanto ampliano la conoscenza e sono quindi estensivi, risultano invece da una giustapposizione di nozioni distinte, senza che sia data alcuna identità reale tra S e P: essi non possono venir ricavati analiticamente col solo principio di non contraddizione, sebbene debbano sempre accordarsi con questo. Tale classificazione kantiana, sebbene sia diventata da allora quasi un luogo comune, è ben lungi dall’essere soddisfacente e cela profondi equivoci. Riassumendo le posizioni espresse, si dirà che ogni giudizio implica una sintesi o composizione tra S e P, operata attivamente dall’intelligenza, in quanto in ogni proposizione S e P, che costituiscono due oggetti nozionali distinti e uniti dal verbo “è”, vengono dichiarati identici nella cosa dallo spirito. La distinzione kantiana tra i giudizi analitici e quelli sintetici a priori appare inidonea e da respingere per due motivi: ogni giudizio (compresi quelli analitici secondo Kant) deriva da una sintesi nozionale e possiede perciò carattere sintetico; non soltanto i giudizi analitici (in senso kantiano), ma anche quelli sintetici a priori (in senso kantiano) sono per sé noti e evidenti, la loro evidenza derivando, a seconda dei casi, dal primo o dal secondo modo dicendi per se. Maritain ha lucidamente riassunto la delicata questione della dottrina dei giudizi analitici e sintetici. Una citazione, ampia in ragione dell’importanza dell’argomento, risulta opportuna: «Le proposizioni 135
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che Kant chiama analitiche (e che considera come puramente tautologiche o “identiche”, secondo il tipo della pseudo-proposizione A è A), sono in realtà delle sintesi (nel senso che il loro predicato presenta allo spirito un altro oggetto immediato di pensiero che il loro soggetto, e che esse comportano così un passaggio nozionale dall’uno all’altro), e, per impiegare in senso aristotelico un vocabolo kantiano, delle “sintesi” a priori di cui tutta la ragion d’essere è dal lato dell’oggetto, l’uno dei termini facendo parte della nozione del soggetto, come succede quando dico “l’uomo è dotato di ragione”… E le proposizioni che Kant chiama sintetiche a priori (e dove crede che, essendo il soggetto e il predicato assolutamente estranei l’uno all’altro, l’uno è sussunto sotto l’altro in virtù di una pura esigenza della nostra struttura mentale) sono in realtà, esattamente come le precedenti, a priori o necessarie in virtù delle sole esigenze dell’oggetto, l’uno dei termini facendo parte, anche qui, della nozione dell’altro: se il predicato non vi fa parte della nozione o definizione del soggetto, come nelle proposizioni che gli antichi chiamavano per se primo modo – poiché gli esempi di “giudizi sintetici a priori” dati da Kant si riferiscono in generale al per se secundo modo –, allora è il soggetto che è della nozione del predicato, non come parte intrinseca della sua struttura, ma come materia o soggetto proprio in cui è ricevuto, poiché la nozione dell’accidente o della proprietà non si intende senza quella del soggetto (così nasus è [parte] della nozione di simus, numero della nozione di pari o dispari). Tale secondo tipo di “sintesi” oggettiva apriori o di necessaria costruzione di concetti, che il Gaetano chiama complexio extra-substantialis (sintesi al di fuori del soggetto), e che Leibniz e i moderni, trascurando tutto ciò che è proprio della causalità materiale, hanno profondamente dimenticato, è a titolo speciale un passaggio nozionale dall’uno all’altro»12.
4. Difesa critica dei primi principi Se la percezione dei primi principi è immediata, in quanto questi sono espressi da proposizioni per sé note, che vengono conosciute non appena l’intelligenza afferra le nozioni che le compongono, sorge la domanda se non vi sia altra strada per provare la loro fondatezza e per difenderli criticamente dai negatori. A tale riguardo bisogna riconoscere che non si dà dimostrazione diretta dei primi principi, non solo per l’ovvio motivo che, essendo primi, è impossibile trovare proposizioni dai quali possano essere dedotti, ma anche nel senso che non è possibile ricavarli deduttivamente dal principio di identità: i primi prin136
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cipi, per il loro stesso esser “primi”, formano una pluralità non deduttiva in cui ciascuno sta per sé ed è realmente primo. Non è dunque possibile trovare una proposizione che possa fungere da termine medio nell’eventuale deduzione sillogistica degli altri primi principi a partire dal principio di identità. Esiste tuttavia la possibilità non di provarli direttamente, ma di difenderli riducendo all’assurdo la loro negazione (reductio/deductio ad impossibile), il che comporta che la loro negazione implichi non soltanto inintelligibilità, ma contraddizione e assurdità13. Tecnicamente la prova si esegue appunto per via indiretta: si nega in ipotesi il primo principio in oggetto e dalla sua negazione si inferisce una contraddizione, il che equivale a distruggere quanto in ipotesi si è concesso, cioè la non validità del principio14. Nella difesa critica dei primi principi svolge un ruolo essenziale la difesa del principio di ragion d’essere (pdre), che risulta termine medio per quella del principio di causalità (pdc). L’ingresso nella storia della filosofia moderna del pdre, spesso chiamato anche principio di ragion sufficiente, avvenne con l’opera di Leibniz prima e poi di Wolff (deve qui rimanere in sospeso se pdre e pdrs siano identici o meno). Nella Monadologia Leibniz enuncia espressamente il principio di ragion sufficiente, ponendolo come un pilastro fondamentale alla pari del pdnc: «I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi principi: quello di contraddizione […] e quello di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che nessun fatto potrebbe essere considerato vero o esistente, nessuna enunciazione fedele alla realtà, senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, sebbene tali ragioni assai spesso non possano esserci note» (nn. 31 e 32)15. Successivamente Wolff, seguendo la lezione di Leibniz, ha operato nella sua Ontologia un uso esteso del pdrs, che peraltro viene ricondotto al pdi16. Le posizioni di Leibniz e di Wolff, classici esponenti del razionalismo metafisico, e di una metafisica largamente essenzialistica e costruita a priori, hanno esercitato un notevole influsso su vari rappresentanti della Scolastica dell’800 e del ’900, attraverso il quale il pdre è stato ricevuto nella metafisica dell’essere. La sua provenienza dal razionalismo lo ha reso sospetto agli occhi di alcuni tomisti del ’900, i quali, pur non negandone la validità, finivano per ritenerlo qualcosa di estraneo o un duplicato del pdc17. Allo scopo di effettuare la difesa del pdre e del pdc, il cui valore intuitivo e la cui necessità di secondo modo sono già stati stabiliti, è opportuno un chiarimento del lessico. La nozione di causa, latamente intesa, rinvia ad un duplice significato, ossia alla nozione di azione, secondo cui la causa agisce su qualcosa; e alla nozione di ragione, se137
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condo cui la causa rende ragione di qualcosa. Come già osservato, il concetto di ragion d’essere è più generale di quello di causa/azione, potendo darsi ragioni d’essere che non esercitano azioni (questo è vero ad esempio nell’ordine della causalità formale). Per effettuare tecnicamente la prova si procederà in due tappe: a) difendendo il pdre; b) difendendo il pdc tramite la mediazione del pdre. Nell’operare la reductio ad impossibile, si può partire dalla seguente formulazione del pdre: “tutto ciò che è (oppure ogni ente) ha propria ragion d’essere, ossia ha tutto ciò in virtù di cui è, ciò che è necessario per essere”. Negare tale principio equivale ad identificare ciò che è con ciò che non è. Infatti l’espressione “ciò in virtù di cui una cosa è” equivale, in base al principio di non contraddizione, a “ciò senza cui una cosa non è”. Se vi fosse dunque una cosa che non avesse ragione d’essere (ed in ciò consiste, in ipotesi, la negazione del principio di cui si tratta di esplicare le conseguenze), ossia che non avesse né in sé, né in altro ciò in virtù di cui tale cosa è, tale cosa insieme sarebbe e non sarebbe. Ed in ciò consiste l’assurdo. Si è condotti all’assurdo, se si nega il principio di ragion d’essere. Quanto al pdc consideriamo anzitutto che le nozioni di necessità e di contingenza dividono perfettamente l’essere in: “ciò che è in virtù di se stesso”o assolutamente necessario, ed “essere che non è in virtù di se stesso” ossia che è contingente, e che può essere e non essere. Ciò premesso, il pdc si formula così: “ogni ente contingente ha una ragion d’essere esterna a se stesso, ossia ha una causa efficiente”. La negazione del pdc può avvenire negando che l’ente contingente abbia qualsiasi ragion d’essere (interna o esterna): ma allora si nega il pdre e si compromette il pdi. Oppure può avvenire affermando che l’ente contingente non ha ragion d’essere esterna, ma solo interna a se stesso: in tal caso l’ente contingente, avendo in sé la propria ragion d’essere, sarebbe anche necessario, con immediata contraddizione. È bene sottolineare nuovamente che le “riduzioni” del pdre e del pdc al pdi non li rendono analitici (in senso kantiano), o identici, o tautologici. Ammettere la riducibilità per reductio ad absurdum del pdc al pdi non significa affermare l’unicità e l’assenza di ogni vera pluralità di primi principi, perché il primo (casualità) non è dedotto dal secondo (identità): essi rimangono due primi principi specificamente diversi, immediatamente e distintamente colti per via intuitiva. La riduzione viene in sostanza ad affermare che anche il pdc, che regola l’ordine statico e dinamico dell’essere contingente, deve sottostare alla suprema regola della non contraddizione. La formula del pdc già segnalata ed altre consimili originano dalla considerazione del divenire, costituendo espressioni della “causalità 138
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dinamica”. Esistono tuttavia formule “statiche” del pdc, che reggono la fenomenologia antinomica dell’uno e del multiplo, uno dei più potenti motori della ricerca filosofica. Si tratta di verificare se le innegabili composizioni che si ritrovano nella struttura metafisica del concreto (materia-forma; essenza-esistenza; sostanza-accidente), e che sembrano spingere ad una interpretazione analogica della nozione trascendentale di uno, esigano in forza dell’evidenza di postulare una causa unificante: in tal caso il pdc esprimerebbe la composizione, oppure la partecipazione metafisica. Il pdc trova applicazione anche dove non vi è movimento e divenire, ma semplice molteplicità che può derivare dalla composizione di una pluralità di parti o principi dell’ente, come anche dall’esistenza di una pluralità di enti che posseggono un elemento comune (individui di una specie). Poiché divenire, molteplicità e partecipazione sono segni di contingenza, le diverse formulazioni dinamiche e statiche che possono darsi del pdc, risultano casi particolari della formula generale secondo cui ogni ente contingente è causato. Il pdc non è una forma a priori della nostra mente, ma si sviluppa a valle di una attività di percezione sensoriale e intellettuale della realtà empirica, che implica un lavoro induttivo. Mentre il razionalismo inclina a vedere nel pdc una forma a priori o un’idea innata, Aristotele e Tommaso segnalano di frequente che i primi principi sono conosciuti per “induzione” dopo che la sensazione ha suscitato nell’anima l’inizio del processo conoscitivo-astrattivo18. Questa posizione non contraddice né il carattere universale e indimostrabile, né l’apprensione immediata dei primi principi, nei confronti dei quali l’esperienza e l’induzione svolgono quella funzione generale e preparatoria che sviluppano nei riguardi del sorgere di ogni nostra conoscenza: un volta còlti, dopo un previo lavoro sperimentale-empirico, le nozioni e i termini in gioco, l’intelligenza non avrà più bisogno in linea di principio di ricorrere al ragionamento induttivo e all’esperienza. Le idee qui svolte in ordine allo statuto dei primi principi si differenziano da altre due da cui sono lontane, ma con cui un insufficiente esame potrebbe confonderle: A) in primo luogo esse si distanziano dall’assunto secondo cui vi sono due primi principi fondamentali e assolutamente indipendenti, essendo esclusa ogni possibilità di collegamento tra l’uno e l’altro, anche nella forma indiretta della deductio ad impossibile: il pdnc, che si ricollega al trascendentale uno, e che regge l’ordine del pensiero; e il pdre, che si connette con il trascendentale vero, e che regge l’ordine dell’esistenza. Ammessa tale dualità, ne segue che si danno due distinte forme di “assurdità” (anche se nel secondo caso questo nome non si attaglia perfettamente): quella relativa alla violazione del pdnc, e quel139
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la che deriva dalla mancanza di ragione esplicativa, la quale ordinariamente si manifesta nella regressione all’infinito nella ricerca della spiegazione. La posizione A, dipende dal dualismo razionalistico, il quale sostiene che l’ordine dell’esistente e l’ordine del pensiero posseggono strutture differenti, essendo il primo il dominio del concreto e il secondo dell’astratto. Il pdi e il pdnc sarebbero allora leggi astratte del pensiero, senza le quali il pensiero negherebbe se stesso, mentre il pdre e il pdc sarebbero leggi del concreto, la cui violazione non distrugge il pensiero, dando luogo non a contraddittorietà bensì a incomprensibilità: un ente senza fondamento e senza ragion d’essere, un divenire senza causa non sarebbero dunque contraddittori bensì inintelligibili. Tuttavia la riconduzione indiretta del pdre al pdi implica che la violazione del primo conduca alla contraddittorietà, non solo alla inintelligibilità. B) In secondo luogo le posizioni esposte negano che vi sia un solo primo principio, potendosi gli altri dedurre dal pdi/pdnc. Limitandoci al pdc, si può mostrare che ciò è impossibile. Il pdnc e il pdc si fondano sulle nozioni di essere e di non-essere: il pdnc esprime l’impossibilità della loro simultaneità, il secondo l’impossibilità della loro successione spontanea. Si comprende che è utopia sperare di poter dedurre il pdc dal pdnc: non si vede infatti come dalla opposizione di simultaneità di essere e di non-essere affermata dal pdnc si possa dedurre l’opposizione di transizione-successione tra essere e non-essere insita nel pdc. Il pdnc afferma soltanto che l’essere non può simultaneamente essere e non-essere, che il divenire non può simultaneamente divenire e non divenire. Aggiungiamo infine che in tutto il discorso sui primi principi è bene ricorrere in modo parco e criticamente vigile al termine di fondazione per la carica di ambiguità che comporta; e con esso l’oggi malfamato termine di fondazionalismo, preso d’assalto dall’antifondazionalismo contemporaneo. Che i termini “fondare” e “fondazione” abbiano due significati molto diversi che occorre accuratamente differenziare: un significato ontologico quando qualcosa, stando o venendo all’essere, ha di che stare nell’esistenza; e un significato logico-gnoseologico dove qualcosa è fondato quando può venire riportato ad un principio inconcusso, abbiamo cercato di chiarirlo altrove19. L’antifondazionalismo contemporaneo, quando non incorra nella deplorevole caduta di confondere fondazionalismo e fondamentalismo (il primo ha a che fare con la conoscenza teoretica, il secondo con l’intolleranza pratica di chi vuole imporre una sua opinione ad altri), non elabora in maniera accettabile il tema del fondazionalismo, spesso perché non si domanda che cosa significa in senso proprio fondare. La conoscenza 140
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5. Causalità metafisica e causalità scientifica
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speculativa non fonda alcunché in senso ontologico, perché non è un sapere produttivo o poietico che ponga qualcosa nell’esistenza, ma è una conoscenza teoretica che riconosce quanto esiste.
È ben noto che la questione della causalità occupa un posto fondamentale sin dagli inizi della filosofia e delle scienze. Una sistemazione organica dell’idea di causalità venne formulata da Aristotele con la dottrina dei quattro tipi di cause: materiale, formale, motrice/efficiente, finale. Senza indugiare in questa sede sui motivi che hanno condotto alla sostanziale espulsione dalla fisica moderna della causalità finale, le scienze non possono fare a meno della causalità efficiente, nel senso che esse, chiedendo perché una cosa sia accaduta, cercano una risposta che individui la causa dell’evento che si intende spiegare: lo spiegare significa appunto identificare la causa dello specifico accadere. Ora, limitandoci alla causalità efficiente, ad essa ricorrono con frequenza tanto la metafisica ontologica quanto le scienze fisiche, sebbene in modo notevolmente diverso: è solo su alcuni aspetti di tale diversità che in conclusione desideriamo soffermarci, senza minimamente pretendere di accostare il delicato tema della causalità nei suoi vari volti. Nella causalità studiata nella metafisica si esprime una realtà esistenziale o un’attività ontologica che non possono essere ridotte ad un’idea e neanche a semplice raccordo fra fenomeni, inteso come il mero rinvenimento di relazioni fra loro, eventualmente espresse in forma matematica, ed in cui molto conta collocare in consecuzione temporale i fenomeni. La nozione di causa esige di essere colta nel suo valore ontologico, entro l’universale dinamismo in cui ogni cosa incrocia, influisce, produce l’esistenza di altre cose entro una straordinaria varietà di rapporti causa-effetto. Ogni causa in-esiste nella cosa di cui è causa. Mentre in Aristotele il pdc si esprime: «tutto ciò che è mosso, è mosso da altro»20 e la causalità è vista soprattutto in funzione del mutamento e del passaggio potenza/atto, la dottrina della creazione ha apportato una più radicale nozione di causalità: la causa non solo influisce sull’atto d’essere del causato, ma originariamente produce e comunica l’esse più che il semplice moto («Causa importat influxum ad esse causati»)21. Nella filosofia dell’essere il ricorso alla causa viene compiuto non solo per spiegare il divenire, ma più profondamente per render conto dell’origine prima delle cose da cui esse ricevono l’essere. Il ricorso alla causalità efficiente accade in modo bidirezionale: nel141
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la linea che dall’effetto risale alla causa, e nella linea opposta che, procedendo dalla causa verso l’effetto, in special modo si occupa della comunicazione dell’essere. Infatti fra le molteplici forme di causalità efficiente (fisico-meccanica, psicologica, personale, sociale, medicoeziologica, ecc.) il primo posto spetta all’essere: conseguentemente quanto più un ente si colloca in alto nei gradi dell’essere, tanto più appartiene a un rango più elevato nell’ordine delle cause. Questo notevole criterio è passibile di una grande varietà di applicazioni. La causalità ontologica opera sul piano oggettivo e genetico dell’essere e solo in un secondo momento viene raggiunta noeticamente sul piano del conoscere. Mentre l’ordine genetico-reale, che è primo, procede dalla causa all’effetto, quello a posteriori della ricerca risale dall’effetto alla causa, poiché la presenza di un effetto esige l’esistenza di una causa. Nel razionalismo in cui la causa rende ragione dell’effetto nel senso di spiegarlo e riconnetterlo ad altri fenomeni, l’atto più proprio della causalità – la comunicazione dell’esse – viene ad essere trascurato. Qualcosa di analogo si riscontra nella definizione della causalità in Kant, intesa come ciò che accade secondo una regola, e dove l’influsso esistenziale della causa sull’effetto risulta mascherato22. Il pdc metafisico non va confuso con il concetto di causalità delle scienze fisiche (per la medicina e la biologia il discorso dovrebbe essere più sfumato), che si è via via staccato dal primo seguendo la tendenza della fisica e in genere delle scienze naturali moderne a “dis-ontologizzare” i propri concetti base, riferendoli non più all’essere in un quadro ontologico, bensì a oggetti e misurazioni empiricomatematiche in un quadro empiriometrico e operazionale23. La causalità nelle scienze è intesa come un nesso stabile fra fenomeni misurabili e che in quanto tali possono essere regolarmente collegati fra loro, non di rado attraverso leggi matematiche: non vi è qui, se non forse in maniera molto implicita, che un remoto richiamo al nesso ontologico esistenziale che collega la causa all’effetto e che consente alla causa di comunicare qualcosa di se stessa all’effetto, e a questo di ricevere quanto gli viene comunicato. Che la causalità scientifica non possa venire identificata alla causalità reale non è sfuggito, fra gli altri, a Sartre: «Le scienze sono astratte; esse studiano le variazioni di fattori ugualmente astratti e non la causalità reale»24. Tuttavia nelle scienze della vita e in medicina la causalità non sembra riportabile solo a ordinata successione di fenomeni, in quanto la ricerca di cause e di rimedi reali alle patologie indirizza verso una dimensione ontologica.
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Note 1 Il tema dei primi principi non si pone nel razionalismo critico (Popper, Albert) nella sua massima estensione (logica e ontologica), bensì solo nella forma logico-gnoseologica della fondazione: trovare un fondamento inconcusso o un punto archimedeo cui ancorare la conoscenza. Il problema così come è svolto in Albert, lungi dall’intendere i primi principi come “leggi” dell’essere, si orienta piuttosto a trovare fondamenti logici sicuri da cui ricavare enunciati per inferenza logico-deduttiva (il modello di scienza di Albert è quello logico-deduttivo). 2 Nella Scienza della logica Hegel tratta con sarcasmo del pdi «che si suol recare qual prima legge del pensiero» (Laterza, Roma-Bari 1994, p. 459) e che, inteso come A = A, viene considerato come espressione della verità tautologica, senza contenuto e senza esito; identità immutabile e perciò determinatezza unilaterale senza alcuna verità. Negando che il pdi sia una legge del pensiero, perché la sua tautologica immutabilità sarebbe contraria al movimento dialettico della mente, ad Hegel sembra sfuggire che anche i primi principi implicano un moto del pensiero da nozione a nozione. Viene soltanto vista la formulazione identico-tautologica del pdi (una pianta è una pianta), mentre manca la percezione che il concetto di ente nel pdi si scinde nella determinazione esistenziale e in quella essenziale. Nella discussione hegeliana del pdi potrebbero emergere considerevoli lasciti dell’oblio dell’essere. 3 Nel razionalismo si inclina a identificare causa e ragion d’essere, credendo perciò nel primato della possibilità logica sull’esistenza. Per Leibniz «Causae non a reali influxu sed a reddenda ratione sumuntur» (Speciem inventorum de admirandis naturae generalis arcanis, GE, VII, p. 11). In una filosofia realistica dell’esistenza ragioni fondamentali militano a favore della distinzione tra causa e principio: una causa è sempre principio; non sempre un principio è causa (efficiente-produttiva). 4 Analitici posteriori, l. I, 71a e passim, Laterza, Bari 1973 (trad. G. Colli). 5 Ivi, 99 b 20 ss. 6 Il testo latino, nel quale San Tommaso segnala che bisogna assentire fermissimamente ai principi, merita di essere letto per alcune notazioni psicologiche sull’incertezza e per una certa qual lieve ironia che lo abita: «oportet scientem non esse incredibilem principiis, sed firmissime eis assentire. Quicumque autem dubitat de falsitate unius oppositorum, non potest firmiter inhaerere opposito: quia semper formidat de veritate alterius oppositi» (Commento ai Secondi Analitici, lec. VI, n. 59). San Tommaso concorda con Aristotele nel ritenere l’intelligenza la facoltà dei principi: «cognitio principiorum pertinet ad intellectum» (l. II, lec. XX, n. 596). Sulla conoscenza naturale e immediata dei primi principi e delle verità per sé note, cfr. anche: S.Th., I, q. 2, a. 1; q. 85, a. 6; I II, q. 10, a. 1; q. 51, a. 1; q. 91, a. 3; q. 94, a. 2; De Veritate, q. 10, a. 12; q. 11, a. 1. Nel volume Da Tommaso a Rosmini (Marsilio, Venezia 2003) F. Percivale, nell’ambito di una ricerca sull’eventuale innatismo dell’Aquinate, ha elencato
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molti suoi passi dove, fra le altre cose, è sostenuta l’apprensione naturale e immediata dei primi principi (pp. 47-75). I termini frequentemente ricorrenti sono: principia sunt naturaliter cognita, naturaliter nota, per se nota. Spesso ricorre anche il termine statim: prima principia, cognitis terminis, statim cognoscuntur. 7 La dottrina della predicazione ricerca quali siano i diversi modi di attribuzione di un P a un S, che risultano fondamentalmente due: 1) la predicazione identica del 1° modo di attribuzione, in cui S e P sono identici (“L’uomo è l’uomo”); 2) la predicazione formale del 2° modo di attribuzione, in cui S e P non sono identici, a sua volta divisa in predicazione formale accidentale (in cui il P è contingentemente attribuito al S), e in predicazione formale essenziale o per sé (in cui il legame tra S e P è necessario). Si danno poi quattro modi di predicazione per sé, che i logici chiamavano quatuor modi dicendi per se. 8 «Per sé sono le determinazioni immanenti alla essenza di un oggetto, ad esempio, la linea rispetto al triangolo, e il punto rispetto alla linea (la sostanza di tali oggetti, infatti, è costituita da queste determinazioni, le quali sono rispettivamente contenute nel discorso definitorio, che esprime che cos’è l’oggetto), e inoltre tutte le determinazioni, tra quelle appartenenti agli oggetti, alle quali gli stessi oggetti sono immanenti, essendo contenuti nel discorso definitorio che rivela rispettivamente che cosa è ciascuna di esse. Così, ad esempio, le nozioni di retto e di curvo appartengono alla linea, come pure le nozioni di dispari e di pari, di primo e di composto, di quadrato e di rettangolare, appartengono al numero: orbene, a tutte queste nozioni sono immanenti – essendo contenuti nel discorso definitorio che esprime rispettivamente che cos’è ciascuna di esse – da una parte la linea, e dall’altra il numero […] Di conseguenza, le determinazioni per sé degli oggetti di una scienza assoluta, le quali sono tali da risultare immanenti agli oggetti della predicazione, oppure di presentarsi esse stesse come oggetti di una reciproca predicazione immanente, saranno allora determinazioni tanto a causa di sé quanto necessarie. In effetti, non può accadere che esse non appartengano ai loro oggetti […]», Analitici posteriori, l. I, c. IV, 73a 27s. 9 In l. Posteriorum Analyticorum expositio, cura et studio R. Spiazzi, Marietti, Torino 1955, l. I, lect. VII, nn. 84 e 85. 10 Sui quattro modi dicendi per se si può anche vedere con profitto la sistemazione compiutane da Giovanni di San Tommaso che, a proposito del secondo modo, scrive: «Vi è perseità di secondo modo […] quando la preposizione per designa la causa materiale, cioè il soggetto proprio di una forma che non può essere definita senza riferimento al suo soggetto proprio. Ciò equivale a dire che vi è perseità di secondo modo quando una proprietà è predicata del suo soggetto. In tal caso, il predicato non è dell’essenza del soggetto, ma il soggetto appartiene all’essenza del predicato, dato che un predicato che è per sé nel primo o secondo modo deve essere universale, poiché appartiene al suo soggetto necessariamente e, quindi, sempre e in tutti i casi» (Cfr. The material logic of John of St. Thomas, The University of Chicago Press, Chicago 1955, Questione 24, a. 3, pp. 466 ss.).
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11 Cfr J. Maritain, La vie proprie de l’intelligence et l’erreur idéaliste, in Oeuvres Complètes, Ed. Universitares - Ed. Saint Paul, Fribourg-Paris 1984, vol. III, p. 85. La attenta lettura della critica di Kant al principio di causalità mostra con sufficiente chiarezza sia che egli aveva colto che la relazione alla causa non fa parte della nozione di ente, sia che la predicazione per sé di secondo modo gli è sconosciuta: «Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio (dell’esperienza) manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A, e conoscerne un altro B come legato al primo, su che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poiché qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell’esperienza? Si prenda la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo, ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest’ultima rappresentazione. Come mai dunque vengo io a riferire, e per di più necessariamente, all’effetto alcunché di affatto diverso, il concetto della causa, sebbene in quello non contenuto?» (Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 1949, p. 49). Entrando più determinatamente nella argomentazione di Kant, egli osserva che – se si concede che una cosa sia contingente –, poiché essa sarà di conseguenza soggetta a cangiamenti, questi potranno avvenire solo mediante una causa: «la contingenza d’una cosa si conosce da ciò, che essa può esistere soltanto come effetto di una causa; se quindi una cosa è presa per contingente, è una proposizione analitica il dire che essa ha una causa» (p. 240). Al ragionamento che procede solo dal S (ente contingente) al P (causato), rimane estraneo – per l’inconsapevolezza del nesso di secondo modo – che si possa procedere inversamente, ossia che prendendo le mosse dal P causato, esso rinvii necessariamente al S ente contingente. Prima di Kant, Tommaso d’Aquino aveva visto che nell’ente (il “qualche cosa che accade” di Kant) non si può scorgere la relazione alla causa: «habitudo causati ad causam non videtur esse de ratione entium, quia sine hac possunt aliqua entia intelligi […] quia esse causatum non est de ratione entis simpliciter, propter hoc invenitur aliquod ens non causatum» (Cfr. S.Th., I, q. 44, a. 1, ad 1m). 12 Ivi, p. 83 s. Il riferimento a Leibniz è documentabile: nel Discours de métaphysique (Vrin, Paris 1975) è sviluppata l’inedita dottrina che nella nozione di S siano contenuti tutti i suoi possibili predicati: «Il faut que le terme du sujet enferme toujours celuy du predicat […]» (p. 35); opinione che, considerando il nesso fra S e P solo come inesse del secondo nel primo, cancella il concetto stesso di una connessione di secondo modo. Altrettanto esplicito è un passo del trattato Primae veritates: «Semper igitur praedicatum seu consequens inest subjecto seu antecedenti; et in hoc ipso consistit natura veritatis in universum seu connexio inter terminos enuntiationis […] Et in identicis quidem connexio illa atque comprehensio praedicati in subjecto est expressa, in
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reliquis omnibus implicita, ac per analysin notionum ostendenda, in qua demonstratio a priori sita est», Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris 1903, p. 518 s. Forse fuorviato da Leibniz, Kant ha ribadito l’esclusione del nesso di secondo modo tra S e P. Nella Critica della ragion pura il rapporto tra S e P viene inteso in due modi: «O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A, sebbene stia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico» (Laterza, Roma-Bari 1983, p. 465). Se la semplice ispezione della frase mostra che vi è ignorata la connessione di secondo modo, non si dovrà concludere che la trattazione kantiana dell’analitico e del sintetico riposa su equivoci? Tra i quali si annovera quello di ritenere che la negazione dei giudizi sintetici a priori non implichi contraddizione (cfr. ivi, p. 174). 13 Sulle proposizioni indimostrabili e su quelle dimostrabili, cfr. la trattazione di Giovanni di San Tommaso, il quale, a proposito delle proposizioni per sé note, scrive: «Non repugnat quod propositiones per se notae possint probari per medium extrinsecum, vel deductionem ad impossibile, hoc enim non opponitur immediatae et intrinsecae connexioni praedicatorum, et hac ratione Metaphysica explicat et defendit omnia alia principia, non quidem ostensive (per medium demonstrativum), sed deducendo ad impossibile et ad illud supremum principium: quodlibet est, vel non est» (Cursus philosophicus, Logica, q. 25, a. 2). Adoperiamo come equivalenti le espressioni “reductio o deductio ad impossibile”. L’espressione “reductio in primum principium” può invece risultare ambigua, potendo essere intesa o come sopra, ossia nel senso che la negazione di un determinato principio può essere ricondotta alla negazione del pdnc, oppure nel senso che un determinato principio si può ridurre al pdi, rendendolo analitico (in senso kantiano) o identico. Quando adopreremo tale espressione, sarà sempre nel primo senso. 14 Giovanni di San Tommaso chiarisce così il metodo della reductio: «La riduzione all’impossibile riposa interamente sull’ipotesi che una conclusione è negata e una premessa concessa. Al fine di stabilire una conclusione che qualcuno nega, si inferisce l’opposto della premessa concessa dall’opposto di tale conclusione. Questo metodo non manifesta la verità della conclusione determinatamente e intrinsecamente; mostra soltanto che se si nega la verità della proposizione inferita, si è costretti ad accettare proposizioni contraddittorie nello stabilire le premesse, ma la verità della conclusione non è dimostrata in relazione al modo e all’origine» (cfr. Giovanni di San Tommaso, The material logic…, q. 25, a. 2, p. 487). Aggiungiamo infine che mentre tutti i primi principi sono indimostrabili, non tutte le proposizioni indimostrabili sono primi principi. In effetti sono indimostrabili tutte le proposizioni contenenti una definizione o un predicato essenziale; in tale ambito i primi principi sono caratterizzati dal fatto di contenere i predicati più comuni.
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15 Leibniz annetteva alta importanza al principio di ragion sufficiente, sul quale torna a più riprese nella Teodicea, nei Principi della natura e della grazia, e altrove, talvolta equiparandolo a quello di causalità (nihil est sine ratione, seu nullus effectus sine causa): «Duo sunt prima principia omnium ratiocinationum : principium nempe contradictionis et principium reddendae rationis» (Die philosophischen Schriften, Gerhardt, vol. VII, p. 309). Egli pensava di poter costruire una metafisica more geometrico demonstrata, basandosi sul principio di non contraddizione e sul principio di ragion sufficiente: il primo domina l’ordine delle essenze, il secondo sembra applicarsi alle verità di fatto (ordine dell’esistenza) e alle verità necessarie. Non solleviamo qui il problema se per Leibniz il pdrs si possa ricondurre al principio di identità, e quindi ad una proposizione identica. È utile anche ricordare che Kant nella fase precritica accoglie il pdre (da lui denominato principio di ragione determinante o sufficiente), così formulandolo: «ratio est id, ex quo intelligi potest, quam ob rationem aliquid potius sit quam non sit» (cfr. Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio, in Werke, Insel Verlag, Wiesbaden 1960, vol. I, p. 426). 16 Esula dallo scopo di questo studio l’esame della riduzione wolffiana del principio di ragion d’essere al principio d’identità. Notizie al riguardo si possono trovare in J. Geyser, Das Prinzip vom zureichenden Grunde, München, 1929, e in J. de Finance, Connaissance de l’être – Traité d’Ontologie, DDB, Paris-Bruges 1956, p. 153 s. Secondo quest’ultimo la dimostrazione implica una petizione di principio. 17 Gilson – che ritiene il principio di ragion d’essere nient’altro che un’altra formula del principio di causalità, e che spiega così il silenzio di San Tommaso al riguardo (infatti la funzione del principio di ragion d’essere sarebbe svolta da altro) – afferma che non si trova nel tomismo alcunché che si opponga all’affermazione di questo principio. Cfr. Les principes et les causes, «Revue thomiste», n. 1, 1952, p. 58. Tuttavia in L’être et l’essence (Vrin 1972, p. 179, n.1) aspra è la critica a Garrigou-Lagrange per aver ceduto all’influenza di Wolff e aver collegato il pdre a quello di identità attraverso una reductio ad impossibile. 18 «Non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali, se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione […]» (Secondi Analitici, 81 b1s). Si può anche vedere il commento di S. Tommaso ai Secondi Analitici, l. I, lec. XXX, n. 252. 19 Cfr. la mia postfazione a AA. VV., La navicella della metafisica, pp. 174 s. 20 Cfr. Fisica, l. VII, 241 b34. 21 Tommaso, In V Met., n. 751. 22 Il concetto di causa «significa una particolare maniera di sintesi, in cui a qualche cosa (A), secondo una regola, viene associata qualche altra cosa affatto diversa», Critica della ragion pura, p. 125. 23 Per una discussione del concetto di causalità nella fisica moderna, cfr. P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Einaudi, Torino 1952, pp. 8493. Una completa disontologizzazione del concetto di causa nella scienza è
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operata da Carnap, secondo il quale la causalità nella scienza non significa altro che dipendenza funzionale di tipo determinato (cfr. La costruzione logica del mondo, p. 329), ad es. una contiguità temporale. Nelle leggi fisiche non esisterebbe nulla che possa essere chiamato causa e effetto. 24 J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1986, p. 142.
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PARTE SECONDA IL NICHILISMO TEORETICO E LA “MORTE DELLA METAFISICA”
Non tutti coloro che dicono “essere, essere” entreranno nel regno della metafisica
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Capitolo quinto
A. NIETZSCHE
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Il nichilismo speculativo: Nietzsche e Gentile
Possiede l’opera di Nietzsche un filo conduttore sufficientemente univoco e determinato? O l’intento di trovarvi un discorso coerente non approda a nulla, ed essa va piuttosto intesa come una lussureggiante foresta di aforismi, sentenze, intuizioni, frammenti e tentativi tra loro non organabili in un complesso dotato di senso? Nonostante l’innegabile presenza di contraddizioni folgoranti e di una forma espositiva che col trascorrere degli anni si fece più concitata e talvolta quasi mozza, noi propendiamo per il primo corno del dilemma, e qui intenderemmo prospettare elementi di una possibile traccia interpretativa. Sarebbe comunque impresa vana cercare in Nietzsche la serenità di sguardo e la forza penetrante dei grandi contemplativi dell’essere. Piuttosto egli fu altro: un profeta e un rabdomante degli abissi? un angelo della notte? un sensitivo infelice, dotato di una straordinaria capacità di sospetto, più o meno consapevolmente votato a richiamare e concentrare nella sua pagina influssi svariati e molte esperienze, a cui egli cerca di imprimere una forma specifica? Sarà sempre possibile ed addirittura necessario interrogare Nietzsche in tutti i suoi aspetti per giungere a comporre un vasto studio monografico sulla sua opera: ciò è stato effettuato numerose volte con risultati che sono tuttora soggetti a discussione. Non è questo in ogni caso il nostro scopo, che risulta più limitato ed in certo modo più radicale, nel senso che interroga Nietzsche a partire dai temi del nichilismo e della metafisica. Senza calcare preventivamente la mano in favore di una specifica interpretazione complessiva, sembra esistere una sufficiente convergenza nell’individuazione dei principali nuclei tematici del suo pensiero: l’annuncio dell’avvento del nichilismo attivo; la negazione del realismo e dell’idea di verità; l’affermazione del soggetto-corpo; la volontà di potenza; la trasvalutazione di tutti i valori (a 151
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cui si collegano una nuova idea di valore e la dichiarazione di inesistenza dei fenomeni morali); l’eterno ritorno dell’uguale; l’oltreuomo. In armonia col progetto speculativo-ermeneutico perseguito in questo saggio sono soprattutto i primi nuclei che attraggono l’attenzione, per la loro forte valenza significante. Forse il modo meno inadeguato per inoltrarci verso una più piena penetrazione di quanto Nietzsche ha inteso trasmettere, consiste nel prendere le mosse da alcuni pensieri, a cui comunemente si attribuisce un più alto rilievo. Essi perlopiù appartengono agli anni 1884-1888, quando l’autore cercò di venire in chiaro sulla struttura e il senso della sua opera massima, la progettata Volontà di potenza, che non vide mai la luce e di cui egli stese piani di costruzione più volte, sino alla decisione di abbandonare il progetto. Se si trattasse di scelta definitiva o meno, è quanto non sapremo mai, perché ai primi del 1889 interviene il crollo, la follia. È noto che nel 1901 apparve una compilazione di brani e lavori preliminari di Nietzsche col titolo Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwertung aller Werte comprendente 483 frammenti, e nel 1906 una nuova edizione molto ampliata, includente 1067 brani, che gli editori avevano arbitrariamente ordinato secondo un loro criterio sistematico. I frammenti postumi del periodo tra l’autunno del 1882 e l’inizio di gennaio 1889 sono poi stati pubblicati per intero e in ordine cronologico nei sei tomi dei volumi VII-VIII della edizione critica delle Opere complete di Nietzsche presso Adelphi, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, a cui faremo riferimento. Ma ecco intanto i frammenti su cui meditare, trascritti secondo la grafia e la spaziatura adottate dall’autore. A) «Il nichilismo come stato NORMALE Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano». Esso è ambiguo, potendo dare origine a due diverse forme di nichilismo: attivo e passivo. Fa parte dello stesso frammento la seguente frase, che occupa a nostro avviso una posizione del più alto rango nell’opera di Nietzsche: «Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una “cosa in sé”; – ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. Esso ripone il valore delle cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponde né abbia corrisposto nessuna realtà, ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il valore, una semplificazione ai fini della vita»1.
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C) «Che la verità valga più della apparenza non è nulla più che un pregiudizio morale»3. E come parte del frammento precedentemente citato si legge ancora: «La volontà di verità come volontà di potenza». D) Sostenendo l’inesistenza della contrapposizione tra mondo vero e mondo apparente, perché esiste un solo mondo, falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso, Nietzsche aggiunge: «un mondo così fatto è il vero mondo […] Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa “verità”, cioè per vivere […] La metafisica, la morale, la religione, la scienza – in questo libro vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita […] La menzogna è la potenza […]»4. E) «L’arte vale più della verità»5. F) «La volontà di potenza è il fatto ultimo a cui perveniamo scendendo in profondità»6. – «E sapete anche che cos’è per me il “mondo”? […] Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!»7.
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B) «La forma estrema del nichilismo sarebbe il sostenere che ogni fede, ogni tener per vero sia necessariamente falso: perché non esiste affatto un MONDO VERO. Dunque: un’illusione prospettica, la cui origine è in noi […]»2.
– «Ciò che l’uomo vuole, ciò che vuole ogni minima particella di un organismo vivente, è un di più di potenza»8. G) «Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così come è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!»9.
1. Il passaggio al nichilismo attivo e il pensare per valori Mentre l’ombra del nichilismo si allunga sulla storia europea, per Nietzsche diventa imperativo che esso, nel quale manca il fine e la risposta al perché, non si fermi alla forma passiva (quale tramonto, regresso della potenza dell’uomo e suo segno di debolezza), ma compia 153
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il passaggio al nichilismo attivo, in cui si esprime l’elevata potenza dello spirito come forza capace di distruggere e riplasmare. Forza che si cimenta in se stessa e dà prova di sé nel divenire del mondo, procedendo alla trasvalutazione di tutti i valori: trasvalutare non significa soltanto abbattere i valori tradizionali, nei quali rifulge un raggio del “mondo vero”, ma procedere ad una nuova creazione di valori. Lontano dal nichilismo incompiuto che o si accontenta di registrare la perdita di validità dei valori supremi, o prende parte attiva alla loro distruzione, il nichilismo nicciano è ad un tempo negativo e positivo: negativo in quanto intende accendere l’odio verso il platonico “mondo vero”, scoronare le realtà soprasensibili, abbattere la sfera dell’idea, perché quel mondo, svalutando il mondo che noi siamo, porta un attentato alla vita. Positivo perché contestualmente procede a sostituirgli la realtà della vita e della volontà, nella tensione verso un nuovo assetto, in cui l’ordinamento totale dell’ente accada solo nel mondo sensibile. Nel pensiero di Nietzsche non accade il rovesciamento del platonismo, che consisterebbe nel mettere Platone a testa in giù, di modo che, rimanendo valido il dualismo, ora il rango più alto spetti al sensibile invece che all’idea. Accade la sua distruzione, nel senso che il “mondo vero” trascendente viene abolito, e il dualismo fra questo e “mondo apparente” si muta in monismo. Il mondo vero diviene progressivamente favola, e l’unico mondo è quello sensibile. In esso la menzogna costituisce la potenza che consente di vivervi; di accettarlo, sebbene sia privo di senso, con l’ausilio delle capacità illusionistiche e di stimolo alla vita scaturenti dalla produzione artistica. Ed è in questo mondo che ormai si è propagato l’annuncio della “morte di Dio”. Egli non si è ritirato dal mondo per sua scelta, ma perché il soggetto abitato dalla volontà di potenza ne fa a meno, e procede, svalorizzando il cosmo sovrasensibile, ad una nuova creazione di valori terrestri, in cui la luce degli ideali del “mondo vero” non illumina più la vita dell’uomo. “Dio è morto” significa: tutto accade nel mondo come se egli non esistesse, e la sua presenza velata non circola più nelle strade della civiltà. “Dio è morto” significa anche: “Dio è morto in noi”, noi ci siamo allontanati da lui, e non vogliamo più ricapitolare in lui il nostro essere. Lo ricapitoliamo invece nella volontà di potenza. Dio continua a vivere come Signore e Sovrano, ma noi decidiamo di fare perno sulla soggettività nostra, non su di lui. L’espressione “Dio è morto” traduce la vittoria del progetto di fare della terra il regnum hominis, l’idea dell’uomo creatore di se stesso e di ogni valore. Qui dunque l’essere è diventato valore: non nel senso che è il valore o forse che ha valore; ma in quello che gli si dà valore, e chi glielo dà è il soggetto. L’uomo dà valore all’essere, ma non pensa l’essere come tale. 154
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In certo modo lo schema specifico entro cui Nietzsche intende il nichilismo si rapporta al tema del valore, inteso non come luogo in cui emerge un volto dell’essere e del bene, ma come direzione in cui si fa avanti un incremento di potenza: il valore è per lui un punto di mira, una direzione pratica di osservazione nello scorrimento di tutte le cose verso una maggiore o minore potenza. I valori e il loro mutamento sono perciò in rapporto all’accrescimento o all’indebolimento di potenza di coloro che li pongono. Un frammento sul valore, frequentemente citato, offre nel modo più nitido la prospettiva di Nietzsche: «Il punto di vista del “valore” è quello delle condizioni di conservazione e di potenziamento rispetto a strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire […] “Valore” è essenzialmente il punto di vista dell’accrescimento o diminuzione di questi centri di dominio […]»10. Opponendosi nella maniera più risoluta all’idea di Darwin secondo cui l’istinto più originario e radicale della vita è l’autoconservazione, Nietzsche individua quest’ultimo nella lotta per la potenza e dunque nella volontà di potenza. Se fosse lecito (il che non è certo da escludere) ridurre-ricondurre ad una connessione razionale sistematica le intuizioni e i frammenti di Nietzsche in proposito, si dovrebbe approdare, impiegando il linguaggio della metafisica (ma era veramente il suo, come pretende Heidegger?) alla sequenza: l’ente è l’ente sensibile; esso è vita; la vita è volontà di potenza11. Se la Seinsphilosophie pensa l’essere dell’ente nel modo dell’actus essendi, in Nietzsche è pensato nel senso del Wille zur Macht. In connessione con il frammento appena citato e con l’idea che la volontà di potenza è il fatto ultimo a cui si perviene scendendo in profondità, l’arte, la società, lo Stato, la religione risultano per Nietzsche luoghi di condensazione di tale volontà. Non è una delle minori curiosità del suo pensiero che anche la santità venga ricondotta alla potenza, nel senso che il santo è inteso «come la più potente specie d’uomo»12.
2. La questione della verità Al tema del valore si connette nel modo più intimo la questione della verità e del soggetto, su cui ora intendiamo soffermarci. Forse ci apparirà l’essenziale dell’operazione tentata da Nietzsche, e forse anche ci si svelerà quanto profondo fosse in lui l’antirealismo e quanto ampiamente talune posizioni centrali della nuova concezione del subjectum moderno gettassero il loro influsso su di lui. Nelle mani di Nietzsche il concetto di verità tende a sbriciolarsi 155
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(cfr. i frammenti da A a E sopra citati), poiché ogni asserto viene ricondotto a mutevole interpretazione, in un mobile prospettivismo in cui nulla sembra star fermo. Ora il problema della verità è collegato a quello della conoscenza, poiché la verità si raggiunge attraverso il conoscere: per intendere il primo problema faremo perciò bene a interrogarci sul secondo. Che cosa è conoscenza per Nietzsche? E quale è il suo scopo? Si dà un consenso unanime (ma solo formale) che la conoscenza cerchi la verità dell’essere; ma questa è per Nietzsche solo e nient’altro che volontà di potenza. Dunque la natura della conoscenza e con essa quella della verità dovranno venire stabilite a partire dal loro oggetto, che è la volontà di potenza. E di conseguenza in rapporto al concetto di valore, poiché in questo si afferma crescendo, o declina indebolendosi, la vita con la inerente volontà di potenza che la abita. Con questi passaggi Nietzsche ha compiuto una dislocazione decisiva, in cui l’essenza del conoscere è andata perduta: la dislocazione per cui questo è stato estromesso dall’area del rapporto intenzionale del conoscente col conosciuto, affinché il primo possa portare immaterialmente in sé le perfezioni o le forme del secondo, e inserito nell’area della potenza. La conoscenza viene ora intesa come «mezzo per la potenza, per diventare “simile a Dio”»13. La conoscenza per la potenza al posto della conoscenza per la verità: in questo scambio accade una riedizione del vecchio pregiudizio magico secondo cui sapere è potere, con cui viene distrutta l’essenza del conoscere. L’esito era peraltro precontenuto nelle premesse, poiché il supremo valore, quello di più alto rango che funge da fattore di ordinamento dell’ente, non è la verità: è la vita sensibile abitata dalla volontà di potenza e dal telos del suo potenziamento. Nel nichilismo attivo non circola alcun interesse per il fatto che il soggetto, conoscendo, si elevi in qualità ontologica. Poiché il rapporto spirituale con l’oggetto non è inteso come un modo di qualificare la vita, la verità che ne consegue non è un valore. Essa non potenzia la vita, può anzi soffocarla. Occorre perciò abbandonare la verità. E per che cosa se non per l’arte, questo stimolante della vita? E che perciò vale più della verità (cfr. il frammento E sopra citato). Vale di più non solo perché potenzia maggiormente la vita (mentre la verità la blocca), ma in quanto libera l’uomo dalla disperazione senza uscita che emerge nel nichilismo radicale, quale convinzione di un’assoluta insostenibilità dell’esistenza. È perciò per un motivo molto profondo che Nietzsche asserisce: «Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità»14. Nel contromovimento rappresentato dal nichilismo attivo e volto alla soppressione del “mondo vero”, l’arte conduce la danza sotto la guida del filosofo-artista. 156
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In breve la “verità”, se è ancor lecito impiegare questo venerabile concetto, può venire ammessa solo a patto che serva. Ma a che cosa? Già intuiamo la risposta: al potenziamento della vita. Ciò che è funzionale al potenziamento della vita è il valore. Di conseguenza la verità per servire dovrà essere pensata come valore, ossia come veicolante giudizi di valore in cui si concrezioni il potenziamento del vivere. In un frammento dell’autunno 1887 leggiamo: «Il giudizio di valore “io credo che questo e quello sia così” come essenza della “verità”»15. Comprendiamo così anche meglio il frammento C sulla volontà di verità come volontà di potenza. Volendo la “verità”, il soggetto non afferra alcuna costituzione intima dell’essere, ma proietta o ricerca nella vita condizioni di accrescimento della potenza. L’essenza contemplativa del conoscere è andata completamente in frantumi a favore di una concezione prospettivistica, proiettiva, tecnica. Non siamo qui in prossimità del sancta sanctorum di una potente linea del pensiero moderno, quello che ha voluto porre la ragione tecnica sopra tutto? La progettata trasvalutazione di tutti i valori riconosce il suo più alto punto di emergenza nella trasvalutazione dell’idea di verità, nel senso che essa non è più l’essenza più alta. Più in alto della verità stanno la vita, il suo potenziamento, la volontà di potenza. Coerentemente si determina un infinito spostamento nella filosofia, il cui scopo non è più la conoscenza del vero ma il conseguimento della potenza, per cui la filo-sofia dovrebbe a rigore mutare nome e chiamarsi filo-cratia. In base a motivi di gran peso Nietzsche dunque domandava e aspettava una nuova razza di “filosofi” quali ostetrici dell’avvento del nichilismo compiuto e dell’oltreuomo. Tuttavia la volontà di potenza è una forma vuota che può ospitare qualsiasi contenuto determinato: ciò significa che essendo radicalmente anormativa (e dunque al di là del bene e del male), se in certi momenti afferma: memento vivere, in altri climi spirituali può altrettanto bene pronunciare il memento mori.
3. Corporeizzazione del soggetto e dissoluzione dell’oggetto Affinché il ribaltamento della natura della conoscenza venga tentato, occorre operare sul conoscente e sul conosciuto, sul soggetto e sull’oggetto. E questo un compito che Nietzsche intraprende nella parte finale della sua attività, e di cui appaiono larghi elementi in Al di là del bene e del male, Genealogia della morale, Così parlò Zarathustra e nei Frammenti postumi. Il compito si riconduce da un lato a dissolvere il concetto di anima quale centro dell’io, e a riportare quest’ultimo alla 157
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psiche, interpretata come condensazione della vitalità corporea; e dall’altro a fare dell’oggetto una proiezione del soggetto, dunque una sua modalità. Occorre ora intendere con maggior accuratezza questi elementi. Conoscere è uno dei compiti fondamentali (l’altro è l’amore) per l’adempimento dell’humanitas dell’homo humanus, ed è compito che può essere onorato solo con l’intellectus: questi si candida dunque a elemento perenne dell’umanesimo. Rinunciando all’intelletto, l’uomo rinuncia alla propria humanitas. Nietzsche l’aveva compreso acutamente: collegandosi a Dioniso invece che a Socrate, intese che la condizione di successo per la sua impresa risiedeva nella cancellazione del nous. In ciò egli rimase sotto l’influsso delle radicali opzioni antiintellettualistiche e volontaristiche di Schopenhauer, di modo che il processo da Hegel a Marx e a Gentile non è nella filosofia moderna l’unico, non potendosi trascurare quello in certo modo terminale e inoltrepassabile da Schopenhauer a Nietzsche. Questi impegna l’attacco per dissolvere il concetto di anima, perché ha colto che per procedere verso l’oltreuomo occorre oltrepassare l’essenza dell’homo humanus con mano sicura collocata nel senso della verità (e nell’anima che lo conosce). Sinché questo senso sussiste, anche solo nella forma della scienza empirica, noi “siamo ancora devoti” e il nichilismo non vince: «E pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza – anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina»16. Dissoluzione dell’idea di verità e della realtà dell’anima rappresentano le due facce della stessa medaglia, che ha nome “supremazia del nichilismo”. Il secondo momento del programma si attua riducendo l’anima a psiche, di cui si occupa la psicologia. Questa, che per Nietzsche è la regina di tutte le scienze, vale quale «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza»17. L’oggetto reale della psicologia, ossia della scienza suprema, non è però la psiche, ma la volontà di potenza; la psiche è solo un punto di condensazione o un epifenomeno della volontà di potenza. Non è dunque quest’ultima a venir definita psicologicamente, ma la psiche e la scienza che se ne occupa ad essere determinate in rapporto a quella; come del resto era prevedibile, costituendo la volontà di potenza la stoffa ultima dell’essere. Perciò psiche e psicologia, in quanto ricondotte all’area della potenza quale essenza del reale, in ultima istanza sono determinate metafisicamente non empiricamente. 158
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Per completare la dissoluzione della natura contemplativo-rispettante del conoscere, Nietzsche non poteva non agire anche sul lato dell’oggetto. L’operazione non doveva apparire particolarmente difficile, dopo la riconduzione-risoluzione del soggetto a psiche, e di questa a volontà di potenza. Un frammento presenta la soluzione che quasi si imponeva: «Il soggetto soltanto è dimostrabile: IPOTESI che vi siano solo soggetti – che gli “oggetti” siano solo una specie di azione del soggetto sul soggetto… un modus del soggetto». Poche righe sopra leggiamo: «Come possiamo sapere che ci sono cose? La “cosalità” è stata creata da noi. La questione è se non ci possano essere ancora molti modi di creare un tal mondo apparente, e se questo creare, logicizzare, ordinare, falsificare, non sia esso stesso la realtà meglio garantita, insomma se non sia reale solo ciò che “pone cose”; e se anche l’“azione del mondo esterno su di noi” non sia solo l’effetto di tali soggetti volenti […]»18. Quando queste linee vengono vergate, l’antirealismo di molte correnti della filosofia moderna si è ormai esplicato in pienezza, mentre il movimento neokantiano cerca di rivitalizzare l’idea kantiana delle forme a priori, che determinano la conoscenza dell’oggetto, senza tuttavia costituirlo. Affondando più in profondità la lama, Nietzsche ha forse tentato qualcosa di simile ad un esperimento radicale: portare ad estrema coerenza l’antirealismo ricevuto, sino a negare non solo la cosa in sé, ma lo stesso oggetto, la “cosalità”. Ciò naturalmente comporta che quanto noi chiamiamo ancora, per una tràdita convenzione del linguaggio, il reale, non sia altro che uno schema proiettivo che origina e termina solo nel soggetto. Al vertice del nichilismo antirealista esiste solo il subjectum, che proietta impulsi, istinti, schemi capaci di creare una qualche sembianza di ordine nel “reale”. Segnando l’allontanamento massimo dal concetto del conoscere come rapporto intenzionale tra pensare ed essere, l’essenza della conoscenza è pervertita nel senso che diviene non il fieri aliud in quantum aliud (idea che implica che vi sia un aliud distinto dall’io), ma posizione dell’altro attraverso la imposizione all’altro di forme del soggetto, necessarie non per conoscere ma utili alla vita e al suo potenziamento. «Non “conoscere” ma schematizzare, – imporre al caos tutte le regolarità e tutte le forme sufficienti, necessarie per soddisfare il nostro bisogno pratico»19. Un tale porre-imporre e infine schematizzare accade in forma più alta e compiuta nell’arte, e proprio per tale sua attività poietica essa merita di valere più della verità. Non si potrebbe concepire un più radicale antiplatonismo, e non solo perché il “mondo vero” viene dichiarato favola, ossia inesistente. E neppure soltanto perché per Nietzsche forma, specie, legge, idea, sco159
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po, sostanza, concetto, unità non rappresentano niente di reale, valendo soltanto come “costrizioni” a riordinare un mondo, dove la nostra esistenza sia resa possibile. Già tutto questo è radicale antiplatonismo, ma non ancora così acuto come quello che si esprime in una riga di folgorante esplosività: «Il pensare è soltanto un rapportarsi reciproco degli istinti»20. Poiché gli istinti attengono alla vita corporeo-biologica, alla riflessione più immediata la sentenza si rivela portatrice di un senso radicale, che all’incirca suona così: la ragione è uno strumento del corpo. O anche: non esiste l’anima, ma solo il corpo. Che questa sia esattamente la posizione di Nietzsche, egli lo farà intendere nel modo più chiaro negando, come si è visto, ogni realtà al concetto di anima21, ed anche sostenendo: «Il credere nel corpo è più fondamentale del credere nell’anima»22. Di conseguenza l’essere e il mondo sono antropomorfizzati, nel senso che vengono pensati come voluti, proiettati, ordinati dalla volontà di potenza del soggetto. Tuttavia, poiché esso è corpo animale vivente, l’antropomorfizzazione vale di fatto come una “corporeizzazione”: tutto è concepito ad instar subjecti, ma il soggetto è soltanto corpo.
4. Volontà di assurdo Quando in Ecce homo Nietzsche scriverà: «io vengo a contraddire come mai si è contraddetto»23, è cosa saggia assumere in tutta la sua forza la frase. Perché si possa contraddire come mai si è contraddetto, occorre osare contraddire lo stesso principio di non contraddizione. In un frammento alquanto elaborato dell’autunno del 1887, su cui in un ampio lavoro monografico sarebbe imperativo soffermarsi a lungo, si legge tra l’altro: «Noi non riusciamo ad affermare e a negare una stessa e identica cosa: è questo un principio di esperienza soggettivo, in esso non si esprime una “necessità”, ma solo un non potere». Posto ciò, la logica non conduce a conoscere il vero. Vale piuttosto per porre e ordinare un mondo che deve essere vero per noi: «Insomma, la questione rimane aperta: gli assiomi logici sono adeguati al reale o sono criteri e mezzi per creare il reale, il concetto di “realtà” per noi?». Nel suo giro il frammento dice di più di quanto appaia a prima vista. Non si limita ad abbassare la violazione del pdnc ad una mera impossibilità psicologica; né lo rende soltanto un imperativo nostro di quanto deve valere a scopi di vita, per ordinare il reale. Giunge a sostenere che non esistono concetti capaci non solo di designare una cosa (il che è sempre possibile quanto meno per via convenzionale), ma di afferrare la sua verità, la sua essenza: il concetto non è il vicario dell’oggetto nel160
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la mente, ma al massimo un mero designare utile alla vita. «In realtà la logica (come la geometria e l’aritmetica) vale solo per verità fittizie, che sono state da noi create»24. La forma più radicale con cui Nietzsche ha tentato di violare l’inviolabile, di forzare ciò che non può venir forzato, si riassume nel tentativo di unire essere e divenire, assegnando al secondo il carattere del primo. In un decisivo frammento si legge: «Ricapitolazione: imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza»25. Ciò accade nell’eterno ritorno dell’uguale, dove massimo è l’avvicinamento del divenire all’essere, in virtù di una tensione spasmodica della volontà di potenza, la quale imprime il suo sigillo anche sulla dottrina dell’eterno ritorno. In questo punto apicale del pensiero di Nietzsche la dissoluzione del pensare si fa avanti con chiarezza meridiana. La suprema espressione della volontà di potenza, che intende imprimere al divenire il carattere dell’essere, vuole propriamente realizzare il contraddittorio e rendere possibile l’assurdo, poiché nessuna volontà di potenza, per quanto smisurata, potrà mai condurre essere e divenire a coincidere. Viene così svelato il carattere più intimo della volontà di potenza: se nel suo vertice più alto essa vuole la suprema contraddizione, la volontà di potenza vale essenzialmente come volontà di contraddizione e volontà di assurdo! Essa pertanto, coincidendo con la richiesta di infrangere le leggi dell’essere (non solo quelle della logica), non può che prendere l’avvio e condurre ad un pensare segnato da un’insanabile irrazionalità, che non spezza il reale ma ne è spezzato. La volontà di assurdo, quale esito di un antirealismo spinto sino all’apice, è lo scoglio contro cui si infrange il contromovimento del nichilismo attivo, volto alla trasvalutazione di tutti i valori. Sono solo letterati impressionabili coloro che ritengono che da qui sia possibile ricavare un esito diverso dalla catastrofe. D’altra parte se l’eterno ritorno è incompatibile con la volontà volta al futuro, un intimo nesso su cui non si è richiamata adeguatamente l’attenzione, intercorre fra eterno ritorno e nichilismo nel senso che il secondo postula il primo. Se infatti il nichilismo è inteso come mancanza del fine e del perché, la sola via d’uscita è l’eterno ritorno quale unico possibile moto (quello circolare) ove manchi il fine e il perché. Tale dottrina costituisce uno sforzo sovrumano per liberarsi a qualsiasi prezzo del dogma della creazione e della provvidenza, così centrale per la filosofia postgreca. Sulla base delle precedenti analisi osiamo avanzare un giudizio ricapitolativo. In nessun altro pensatore forse come in Nietzsche l’intrasparenza del reale al pensiero è altrettanto totale. Il pensiero e l’essere sono separati da un abisso, che il primo non può valicare, in un modo 161
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assai più radicale che in Kant. Per questi la cosa in sé era la cosa in sé, e il reale possedeva una sua intelligibilità, seppure non troppo alta in ragione delle limitate capacità dell’intelletto umano. In Nietzsche scompaiono sia la cosa in sé, sia la “cosalità”, sia ogni forma di intelligibilità dell’essere: l’oscurità dell’essere è il suo velamento in totalità. E ciò scaturisce nel momento più fondamentale e originario del conoscere, ossia nel momento dell’apprensione e formazione del concetto: non ci possono essere concetti in senso proprio, perché non ci sono oggetti in senso proprio. La separazione tra pensiero e realtà, ossia l’antirealismo nella sua forma più immediata, cruda e dissolutiva, sta al cuore dell’impresa nichilista di Nietzsche: nessuno, neanche Gentile che pur gli si avvicina alquanto nell’antirealismo, l’ha percorsa con altrettanta forza, fino alla catastrofe terminale. Con questo termine non intendiamo alludere alla follia che ha invaso l’ultima parte della vita di Nietzsche. Piuttosto alla compiuta inversione della direzione del conoscere: non il pensiero che si regola sull’essere, catturandone nel concetto (e nel giudizio) l’intelligibilità; ma il “pensiero” (o meglio: gli istinti e la vitalità corporea) che schematizza proiettivamente l’“essere” a fini di utilità e potenza. In questo atto si realizza la natura ontotetica di quanto si chiama ancora per convenzione nominalistica conoscere, ma che è di fatto una attività poietica. Ed è bene avvertire, sebbene qui l’affermazione potrà apparire posta ex abrupto (la riprenderemo nel prossimo capitolo), che anche Heidegger rimane irretito entro la separazione tra pensiero e realtà, per cui sarebbe vano attendersi dal suo pensiero un superamento di Nietzsche. L’attacco alla metafisica e lo sviluppo del nichilismo in Nietzsche possono venire considerati svolgimento della concezione della soggettività, che pensa l’essere come volontà, in un progressivo passaggio dal cogito al volo, verso una volontà del tutto indipendente dalla ragione26. La soggettività compie infine il passo estremo volendo se stessa come volontà di potenza, assumendola in ciò che essa è e rivolgendosi contro il “mondo vero”. Con il procedere dell’oblio dell’essere nella metafisica moderna, di cui dà testimonianza l’asserto di Hegel secondo cui il divenire si genera dialetticamente dall’essere e dal nulla, se ne cerca un sostituto innalzando enfaticamente la morale (Kant e Schopenhauer). Questa poi secondo una cadenza dialettica necessaria, perché è arduo che Bene e Valore possano continuare ad essere conosciuti se la ragione speculativa è spenta, dapprima entra in crisi e poi è fatta oggetto di attacchi dissolutivi. In questo campo il passo finale di Nietzsche consiste nel dissolvere alla radice l’idea stessa di etica, negando che esistano fenomeni morali. L’affermazione principale, che Nietzsche stesso talvolta 162
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5. Concezione teoretica e concezione tragica
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presenta come la sua più importante, suona: «non esistono affatto fenomeni morali, ma solamente una interpretazione morale di fenomeni»27. Questa interpretazione ha un’origine fuori della morale. Se la sfera della morale non esiste, ma è semplice riflesso linguistico-psicologico di altro, in che cosa consisterà questo altro? Già lo sappiamo: nella volontà di potenza, di cui si occupa la scienza regina, la psicologia. La dissoluzione dell’etica – allusa nel titolo stesso dell’opera Al di là del bene e del male, e che costituisce un esito necessario della riduzione dell’ente a ente sensibile vitale, dove l’idea stessa di legge morale e di un legislatore del cosmo etico è priva di senso – viene accompagnata da una decostruzione genealogica dei concetti morali, compiuta programmaticamente in Genealogia della morale, il cui significativo sottotitolo recita: «uno scritto polemico»28.
Per quanto talvolta Nietzsche inviti a prendere un atteggiamento tutt’altro che serioso («“Dobbiamo prendere le cose più allegramente di quel che meritano tanto più che per un pezzo le abbiamo prese più sul serio di quel che meritavano”. Parlano così i bravi soldati della conoscenza», Aurora, n. 567), egli è proceduto più avanti di altri nell’intendere la radicalità e la decisività della scelta antirealistica, e non sarebbe saggio far finta di niente. Anzi tanto di cappello! Meritano la nostra riconoscenza coloro che, inoltrandosi più innanzi nel rifiuto di ogni ontosofia, mostrano volenti o nolenti che si tratta di un cammino senza sbocco. Ai miei occhi il nichilismo di Nietzsche appare poco soddisfatto di se stesso: giocando su una tastiera molto ampia, egli ha scandagliato tanti anfratti, sempre accompagnato dall’inquietudine e dall’insoddisfazione verso le sue stesse soluzioni. Ponendo un’eterna lotta fra la concezione teoretica del mondo e quella tragica, egli, prendendo partito per la seconda, interpretò la prima come la concezione socratica e “alessandrina”, convinta della penetrabilità della natura e della forza universalmente risanatrice del sapere. Nietzsche ha dipinto con vigore la sregolatezza e l’ottimismo insiti nella “cultura socratica” e i terrori che ne possono venire: «E ora non ci si deve nascondere ciò che si nasconde nel grembo di questa cultura socratica! Un ottimismo che si ritiene illimitato! Ora non ci si deve spaventare se i frutti di tale ottimismo maturano, se la società, lievitata fin negli strati più bassi da una cultura siffatta, a poco a poco trema fra rigogliosi ribollimenti e violente pretese, se la fede nella possi163
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bilità di una tale civiltà universale del sapere si trasforma a poco a poco nella minacciosa pretesa di una siffatta felicità terrena alessandrina […]»29. Giunti ad un crinale tanto sensibile, l’attenzione deve farsi più acuta e domandare se l’opposizione da Nietzsche elevata fra pessimismo tragico e ottimismo teoretico non sia meno fondata di quanto sembri; se in Nietzsche, che con un eccesso di dovizia si riferisce a Kant e a Schopenhauer, esistano gli elementi necessari per una sufficiente comprensione della concezione teoretica del mondo. Per questo scopo difficilmente poteva aiutarlo l’idea della musica come linguaggio immediato della volontà. Il problema della conoscenza reale è al di là e al di sopra dell’opposizione, ancora in certo modo psicologica, tra ottimismo e pessimismo. Volentieri concedo che la cultura razionalistica, illuministica, storica, che aveva elevato la scienza a un assoluto, e che da essa si riprometteva un continuo progresso e il sicuro miglioramento del mondo, non era fatta per placare i timori di Nietzsche. Egli incontrò nella sua epoca un atteggiamento teoretico assai indebolito, perché non ontosofico ma ridotto e rivolto soltanto verso la scienza dei fenomeni, ed un ottimismo scientistico, che presto, dinanzi ai bagliori della prima guerra mondiale, avrebbe dovuto riconoscere di essere incorso in un enorme equivoco. Egli ebbe dinanzi, per averlo incontrato tante volte, non l’uomo contemplativo immerso con tutta la propria persona nell’esistenza e nei suoi conflitti, ma il professore, l’erudito, lo specialista, in una parola il “bibliotecario”. E verso queste figure non ha partita difficile il gioco talvolta lieve, talaltra sprezzante della sua ironia. Legando l’atteggiamento teoretico soltanto alla scienza, e non di rado a quella del suo tempo, Nietzsche ha offerto un ulteriore contributo al processo del nichilismo. Dove, pronunciando “atteggiamento teoretico”, egli ha in mente la scienza, la Seinsphilosophie ha di mira l’essere e la sapienza, o più esattamente l’ontosofia. La conoscenza ontosofica si colloca al di là del dualismo fra ottimismo e pessimismo, fra vitalismo e scientismo. Essa sostiene la parziale conoscibilità dell’essere e ad un tempo la parziale impotenza risanatrice del sapere. L’errore speculativo è solo un momento di quell’esistenza drammatica che è la vita umana. La verità risana dall’errore, ma può risultare impari dinanzi al dolore, al male, all’infelicità. Il realismo è tale anche perché conosce il dolore dell’esistenza, il male del vivere e le contraddizioni della libertà. Non conosce però soltanto questo, perché contempla anche la gloria dell’esistere, ed una conoscenza non può stare senza l’altra, di modo che qui occorre seguire il consiglio di Pascal e fare professione dei contrari. La cosiddetta serenità greca o alessandrina del164
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l’uomo teoretico costituisce solo un volto o un angolo del vero, perché la conoscenza ontosofica sa che il sapere non esaurisce la vita; che nell’esistenza si danno fratture che emergono dall’abisso della libertà e del peccato, e dal dramma dell’homo infelix: «ma io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,14 s.). Kierkegaard e un certo filone dell’esistenzialismo contemplarono questi abissi. Ai tempi di Nietzsche il secondo doveva ancora nascere e di Kierkegaard sfortunatamente egli ebbe scarsa notizia30. Al di là di ogni ottimismo e pessimismo la vita merita di essere conosciuta. Il conoscerla nella scienza e secondo la scienza può condurre ad una parziale correzione del mondo, purché non si perda di vista che la sapienza sta più in alto della scienza, e che quest’ultima è largamente sguarnita dinanzi all’eterna ferita dell’esistenza. Essa può venire curata solo dall’amore, da un amore radicato nella verità dell’essere e che si volga a tutto l’uomo con forza risanatrice: alla sua volontà, al suo desiderio, al suo intelletto. Non un sapere contro la vita o sopra l’esistenza, ma un sapere della vita e dell’esistenza, ecco quanto cerca il realismo. Perciò esso è lontano da una concezione magica del conoscere, come se conoscenza fosse soprattutto potenza, dominio, e non invece umile adesione al reale, nella consapevolezza che l’essere sta sempre almeno in parte oltre al conoscere. Nella lotta tra concezione teoretica del mondo e concezione tragica Nietzsche scelse per la seconda. A differenza del drammatico, dove l’azione rimane aperta e non pregiudicata da una conclusione negativa, l’essenza del tragico consiste in una «contraddizione non dialettica»: esiste una contraddizione vitale ed essa non trova né esito, né soluzione. Tale è la figura di Edipo, apice del tragico. Deve restare come possibilità aperta se il nichilismo non sia essenzialmente tragico (non dunque soltanto drammatico), nel senso intuito proprio da Nietzsche: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché”». Qui egli è andato vicino al problema della conoscenza reale e della natura del nichilismo, poiché una connessione necessaria lega l’antirealismo, come rottura del rapporto pensiero-essere, e l’incapacità di rispondere al perché. Senza un fine e un perché l’intera esistenza è essenzialmente tragica, non ha esito né soluzione, declina nell’assurdo. La conoscenza reale-ontosofica non allontana il dramma, che è insito nell’esistenza dell’uomo, senza però cedere all’irrompere del tragico. L’atteggiamento teoretico conosce l’esperienza dell’angoscia, la lontananza e l’indifferenza dell’essere che vuole custodire il suo segreto: «Siamo grati a Kierkegaard e ai suoi successori per avere, con165
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tro Hegel, insegnato di nuovo ai filosofi la grande lezione dell’angoscia; e in particolare per avere ricordato questa grande lezione ai discepoli di san Tommaso. Coloro la cui dottrina si dirige verso l’unità e la pace, corrono il rischio di credersi arrivati quando hanno appena incominciato il cammino, e di dimenticare che per l’uomo e il suo pensiero, la pace è sempre una vittoria sulla discordia, e l’unità il prezzo della dilacerazione sofferta e superata»31. Tuttavia l’angoscia non totalizza l’esperienza spirituale del filosofo.
6. Kierkegaard come anti-Nietzsche L’opera di Nietzsche conosce da decenni un favore immenso, e molti pensano che costituisca il punto più alto della tarda modernità. L’anti-Nietzsche sarebbe impossibile? Eppure è già accaduto da tempo, anzi accadde proprio quando Nietzsche muoveva i primi passi sulla strada del pensiero. L’anti-Nietzsche fu un cittadino del re cristianissimo di Danimarca, quel Vigilius Haufniensis, che si dette come compito di esistere come sentinella della cristianità. Kierkegaard si misurò con la realtà, perciò la sua opera è feconda. Kierkegaard si tenne vicino all’esistenza, perciò egli è giovane. Non furono i suoi aforismi altrettanto profondi e fulminanti che quelli di Nietzsche? Ma non fu egli più dotato di Nietzsche, così riccamente dotato sul piano dialettico che mentre Nietzsche vede solo alcuni lati, Kierkegaard ne abbraccia molti? (Rivolgersi da una parte soltanto, semplificando, non è forse stare nel nichilismo?). Così dotato che, se avesse avuto notizia dell’altro, l’avrebbe assimilato, digerito, superato? Nel gioco dialettico delle parti e ponendosi varie maschere, Kierkegaard avrebbe anche per un certo tempo potuto indossare quella del nichilista. Il reciproco sarebbe stato possibile a Nietzsche? Ma Kierkegaard era cristiano, e questo basta a spiegare varie cose, compresa la confidenza un pò superficiale con cui molti passano oltre di lui; compresa la classificazione heideggeriana, che lo incasella bellamente solo come scrittore religioso-edificante. Non pochi sembrano aver accettato senza beneficio di inventario il giudizio di Essere e tempo, e sono andati oltre, magari senza riflettere che pagine di tale opera non avrebbero potuto essere scritte senza lo stimolo del Danese. Il pensiero contemporaneo si è buttato dietro le spalle il “problema Kierkegaard”, mentre si ingolfa nel “problema Nietzsche”: perciò non è in equilibrio, né può nascondere la sua falsa coscienza, perché considerando solo un lato, gli manca l’intero abbracciamento delle alternative possibili. Col suo carico di misteriosa spina nella carne, Kierke166
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gaard volle esistere dinanzi a Dio, Nietzsche si espresse contro Dio. Il primo misurò la portata dell’ateismo come malattia mortale e disperazione più di quanto il secondo misurasse la portata del teismo e della fede. Se Kierkegaard volle esistere dinanzi a Dio, di fronte a chi esistette Nietzsche? Se egli intese misurarsi con l’eterno ritorno dell’identico, questo gli impedì forse di raggiungere il fondo di se stesso e la piena verità dell’esistenza nella forma dello spirito. Tanti elementi lasciano pensare che in Nietzsche si esprima, come atto conclusivo di un processo di declino, un momento di catastrofe della coscienza europea; in Kierkegaard invece la possibilità di una ripresa. Nella sua opera non si incontrano il pieno svolgimento e la condizione solare dell’intelletto speculativo, sebbene vi si trovino la possibilità e la necessità, la coscienza e il suo contrario, l’io, l’eterno, il finito e l’infinito. E vi si incontri chiara coscienza del nuovo ordine introdotto nel pensiero e nella storia dal cristianesimo: «Un organo nuovo: la fede; e un nuovo presupposto: la coscienza del peccato; e una nuova decisione: il “momento”; e un nuovo maestro: Dio nel tempo»32. E vi risulti onnipresente l’idea che la filosofia è perfettibile, il cristianesimo no. La filosofia infatti è pensiero che vive nel tempo e diviene nello sforzo di cogliere l’essere; il cristianesimo invece è eterno, e dinanzi ad esso si comprende che non tutto si può comprendere33.
1 Opere di F. Nietzsche, Frammenti postumi, Adelphi, Milano, vol. VIII, t. II, p. 12 e p. 13 s (quando non sarà indicata l’opera, le citazioni si riferiranno ai Frammenti postumi con indicazione del volume e del tomo). 2 Ivi, p. 15. 3 Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1988, p. 42. 4 Vol. VIII, t. II, p. 396. 5 Vol. VIII, t. III, p. 312. 6 Vol. VII, t. III, p. 348. Cfr. anche VIII, III, p. 50. 7 Vol. VII, t. III, p. 292 s. 8 Vol. VIII, t. III, p. 149. 9 Vol. VIII, t. I, p. 201. 10 Vol. VIII, t. II, p. 247. Cfr. anche: «I valori e il loro variare stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori» (ivi, p. 15). 11 L’equiparazione tra ente ed ente sensibile vivente è sostenuta esplicitamente da Nietzsche con l’asserto secondo cui non esiste un mondo inorganico, cfr. vol. VII, t. III, p. 180. 12 Vol. VIII, t. II, p. 202. 13 Ivi, p. 32.
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Vol. VIII, t. III, p. 289. Vol. VIII, t. II, p. 14. 16 Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1988, p. 146 s. 17 Al di là del bene e del male, p. 28. 18 Vol. VIII, t. II, p. 53. 19 Vol. VIII, t. III, p. 122. 20 Al di là del…, p. 43. 21 Cfr. ivi, p. 3. 22 Vol. VIII, t. I, p. 99. Cfr. anche il frammento: «Muovere dal corpo e utilizzarlo come filo conduttore», vol. VII, t. III, p. 321. 23 Vol. VI, t. III, p. 376. 24 Vol. VIII, t. II, p. 46. 25 Vol. VIII, t. I, p. 297. 26 Non è possibile intendere la genesi storico-ideale di molte posizioni nicciane senza considerare l’influsso su di lui del pensiero di Schopenhauer. Due punti sembrano specialmente influenti. Dapprima l’idea per cui l’intelletto è nell’uomo qualcosa di inferiore, come ad es. risulta nella seguente asserzione schopenhaueriana: «Se mi si chiede cosa sia, a differenza di essa [la ragione], l’intelletto, Verstand, nous, intellectus, entendement, understanding, rispondo: è quella facoltà conoscitiva che hanno anche gli animali, ma in grado diverso, e noi in sommo grado, cioè la coscienza diretta, precedente ogni esperienza, della legge di causalità, la quale costituisce la forma dell’intelletto stesso e nella quale consiste tutto il suo essere», Il fondamento della morale, Laterza, Bari 1991, p. 149. Più radicalmente la posizione di Schopenhauer dipende dalla sostanziale negazione della psicologia razionale, «in base alla quale l’uomo si compone di due sostanze del tutto eterogenee, del corpo materiale e dell’anima immateriale» (p. 152). Colpire questa dottrina e affermare che la volontà primeggia sono quasi la stessa cosa per Schopenhauer, che non è alieno dal ritenere che la materia possa pensare ed astrarre. Non sarebbe difficile citare i luoghi paralleli in cui Nietzsche si mostra dipendente da tali posizioni schopenhaueriane. Ulteriori considerazioni sul significato del pensiero di Nietzsche si trovano nel mio Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Marietti, Genova 1991, pp. 169-176. 27 Al di là del…, p. 75. Già in Aurora si incontra una critica dei pregiudizi morali, inanellata lungo centinaia di pagine per quasi seicento brani e aforismi, che rischiano con la loro ripetitività di annoiare più che scuotere. L’impagabile prosa dell’autore, che riteneva suo compito procedere all’abbattimento di ogni etica, si rivela ricca di un moralismo aggressivo e insieme ingenuo, che difficilmente può reggere il confronto con le intuizioni di Dostoevskij. 28 L’interpretazione heideggeriana di Nietzsche, consegnata soprattutto al monumentale Nietzsche (Adelphi, Milano 1994) e svolta con straordinaria tenacia e forza di pensiero, soffre tuttavia ai nostri occhi dei limiti speculativi del pensiero di Heidegger, che qui anticipiamo nell’antirealismo, nella distru-
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zione del teoretico e del concetto di verità. Egli ha inteso Nietzsche come l’ultimo dei grandi metafisici, come colui che, rovesciando Platone, rimane dentro l’oblio dell’essere. Nietzsche dunque compie il nichilismo iniziato da Platone: «la metafisica di Nietzsche è nichilismo autentico» (Nietzsche, p. 812). Heidegger ha cercato lungamente di prevalere su Nietzsche, di liberarsene, di integrarlo fin dove possibile nel proprio pensare, o comunque di rendere marginale quello che del pensiero nicciano non poteva assumere. Rimane da accertare se vi sia riuscito, o se invece in ultima istanza non sia stato Nietzsche a tirare a sé il suo interprete, e proprio su punti vitali. E non solo per il fatto che Heidegger interpreta al pari di Nietzsche la metafisica come dualismo, ma soprattutto perché il primo finisce per accogliere dal secondo la critica al concetto di verità. Il Nietzsche apporta nuovi attestati all’idea secondo cui in Heidegger il pensare l’essere attraverso la sua storia, ossia attraverso ciò che ne hanno detto i grandi pensatori, non costituisce un accessorio o una utile integrazione alla conoscenza diretta dell’essere, ma cammino obbligato. È quel cammino che si impone a chi, volendo conoscere l’essere e non potendo raggiungerlo per via speculativa, deve tracciarne la storia. Di ciò che non si può conoscere direttamente, si cerca un indiretto sapere attraverso il dialogo con coloro che hanno preteso di accostare l’essere. Tuttavia non è detto che il cammino attraverso la storia possa restituire alle nozioni centrali della metafisica la loro intelligibilità, che dipende in primo luogo da un atto noetico diretto. 29 La nascita della tragedia, Newton Compton, Roma 1988, p. 107. È noto che nell’interpretazione nicciana Socrate fu il demiurgo o il creatore della concezione teoretica, il vero punto di svolta della storia universale: «Socrate è il prototipo dell’ottimista teoretico che, con la designata fede nella penetrabilità della natura delle cose, conferisce al sapere e alla conoscenza la forza di una medicina universale e comprende nell’errore il male in sé» (ivi, p. 94). 30 Georg Brandes pubblicò nel 1877 il primo saggio di insieme sulla figura e l’opera di Kierkegaard. Scrivendone a Nietzsche e illustrandone le finalità (11 gennaio 1888), spiegò di non aver trasmesso un’idea sufficiente del genio di Kierkegaard e che il suo saggio valeva come «una specie di libello (Streitschrift) steso per impedire il suo influsso», cfr. C. Fabro, Introduzione, in S. Kierkegaard, Opere, Sansoni, Firenze 1988, p. LVI. 31 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, p. 109. 32 Briciole di filosofia, in Opere, p. 258. 33 Sull’importanza che l’opera di Kierkegaard (e con lui Dostoevskij) potrà svolgere nella filosofia futura cfr. il mio Essere e libertà, cap. X.
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B. GENTILE Sebbene Giovanni Gentile avrebbe rifiutato con orrore che nella sua opera circoli una vague nichilista, più o meno intenzionalmente egli ha offerto una determinazione del nichilismo speculativo e della metafisica che per antitesi si collega alla nostra: «La metafisica comincia e finisce nel dommatismo dell’intuito, inteso a cogliere le verità realisticamente intese»1. Di conseguenza critica dell’intuito e della filosofia speculativa, rifiuto della metafisica e loro sostituzione con la filosofia della prassi sono l’autentico point de départ dell’attualismo, come ha mostrato A. Del Noce, ricollegandoli alle posizioni di Donato Jaia, maestro di Gentile2. D’altra parte il rifiuto dell’intuito si potrebbe collegare pure a Kant e ad Hegel. Non c’è che da ripercorrere gli scritti gentiliani per avvertire come egli abbia rigettato ripetutamente ogni metafisica come filosofia dell’intuito intellettuale, in cui l’oggetto sta dinanzi al soggetto conoscente per essere conosciuto così com’è. Antirealismo nativo, dipendente dalla sintesi a priori intesa come fondamento di ogni realtà, e che condanna la metafisica come pensiero astratto e intellettualistico3. Con ciò viene rifiutato il concetto classico di verità, di cui la conoscenza intuitivo-concettuale è il primo corollario gnoseologico, come del resto ben intende Gentile4, a favore di un’idea prassistico-poietica o ontotetica e cosmogonica del conoscere. L’attualismo può infatti venir definito come la dottrina della produzione dell’oggetto e perciò come un pensiero che è identicamente prassi5. Conseguentemente il compito del pensiero non è di conformarsi all’oggetto, ma di produrlo. Dell’idea di verità veicolata nella formula ancipite dell’adaequatio intellectus et rei, Gentile rifiuta l’adaequatio intellectus ad rem, ma potrebbe accogliere la reciproca: adaequatio rei ad intellectum. La filosofia gentiliana costituisce una logica linea di sviluppo del kantismo, quella che si ottiene mantenendo l’interdetto sull’intuizione intellettuale e intendendo l’unità sintetica dell’appercezione trascendentale come fare/prassi trascendentale, che produce l’oggetto, mentre la faticosa deduzione kantiana delle categorie viene classificata nel “pensiero pensato”. Kant aveva introdotto l’idea dell’attività sintetica dell’Io penso, lasciando però contro ad essa una datità sensibile irriducibile, per cui l’Io produce solo la forma non anche la materia dell’esperienza e del conoscere. Gentile cancellerà con un tratto di penna la seconda e riporterà tutto all’Io, con l’esito che la totalità del reale si identifica col soggetto nell’atto stesso del suo sviluppo e l’intero è unicamente processuale a partire dall’Io. Effetto logico immediato del prassismo gentiliano e del connesso 170
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primato del divenire è lo svuotamento del concetto stesso di essenza, quale permanente nucleo intelligibile dell’ente. Gentile aveva mostrato sicuro fiuto quando iniziò la sua carriera filosofica con un’interpretazione delle marxiane “Tesi su Feuerbach”, ravvisando la chiave di volta del marxismo nel concetto di prassi. Una volta rigettato il materialismo, filosofia della prassi sarà anche il pensiero di Gentile, per il quale il sapere è produzione e sintesi della mente. Cognizione come prassi, perciò, in cui l’intuito intellettuale è completamente rifiutato sulla base dell’idea che l’essere non è un dato ma un prodotto dell’unica e concreta categoria logica: l’atto del pensiero. In certo modo l’intero attualismo è riassunto in una sola formula: «Non solo il pensiero è atto, ma l’atto è pensiero», che compie la piena risoluzione dell’esse reale nella logica. Nello stesso tempo esso si presenta come forma massima della filosofia del divenire, che conduce alla distruzione della veritas incommutabilis: filosofia dello spirito, sì, ma che sfocia in una compiuta immanenza, opposta alla trascendenza come al materialismo volgare. Il rifiuto della metafisica e del platonismo e la piena immanentizzazione di Dio (“Deus manet in nobis et nos est”) rappresentano due assunti centrali dell’attualismo, che esprime poi con l’autoctisi un assoluto primato della prassi: in esso tralucono elementi di volontà di potenza, che suggeriscono una certa vicinanza tra Nietzsche e Gentile. Essa andrebbe pensata come un evento notevole della modernità europea, anche per l’intenzionalità fondamentalmente rivoluzionaria e riformatrice che anima i due pensatori. Non senza motivi Gentile può essere definito come il filosofo della rivoluzione permanente, in ciò non lontano dal nicciano capovolgimento di tutti i valori. Se questa diagnosi venisse confermata, si dovrebbe concludere che è accaduto un cedimento di Gentile a Nietzsche, con una parziale conferma della diagnosi heideggeriana secondo cui in Nietzsche si conclude la metafisica occidentale. L’essenza del nichilismo teoretico di Gentile sta nell’abbandono della conoscenza reale delle cose, sostituita da una mera logica in cui il movimento dialettico del pensiero vuole spacciarsi per conoscenza reale. L’attualismo sarà dunque non un’ontologia, ma una logica del pensare, cioè propriamente una gnoseo-logica, in cui l’unica e concreta categoria logica è l’atto del pensiero: la «nuova metafisica, che è logica per sua natura», scriverà6. In questa risoluzione radicale, in cui consiste tutta la novità dell’attualismo, la realtà non è altro che lo stesso spirito, che per essere reale deve avere tutto dentro se stesso7. Di conseguenza la filosofia è scienza del pensiero, ossia soltanto ed esclusivamente logica, giacché il suo oggetto adeguato è solo il pen171
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siero: non il pensiero come parte della realtà, bensì come tutta la realtà8. Trasformata da scienza dell’ente in quanto ente in scienza del pensiero, la filosofia si mostra come attività produttiva così delle cose umane, come di quelle che un tempo si dissero divine. In tali asserti, qui appena accennati, ma che percorrono da un capo all’altro l’opera gentiliana, il neoidealismo si mostra impari al compito di conoscere la conoscenza. In luogo di una spregiudicata riflessione sui dati primi del fenomeno conoscitivo, che si proponga di comprenderli in una teoria coerente, l’attualismo muove verso una affrettata identificazione di metafisica e di logica, all’insegna di una compiuta ontologizzazione della sfera logica, in cui regola reggente è l’opposizione invalicabile fra intuizione intellettuale e sintesi a priori. Nell’equivoco per cui l’essere reale è risolto in quello logico e la metafisica nella logica, Gentile è incorso in maniera più radicale di Hegel. Il realismo non deve perciò salvare una presunta verità dell’idealismo, ma spiegarne l’errore, che consiste nella riduzione del soggetto conoscente a conoscenza, per cui il pensiero non è più un attributo di esseri esistenti, ma sostanza pura ed atto primo. L’essere è puro conoscere, il vero essere è pensiero, l’unico universale è l’atto del pensare: espressioni che ricorrono di frequente nella pagina gentiliana9.
1. L’immolazione dialettica dell’oggetto e l’atto puro di pensare Dal lato della conoscenza il nucleo nichilistico dell’attualismo consiste nella completa risoluzione dell’oggetto nel soggetto pensante: il conoscere come processo di acquisizione dell’essenza delle cose è sostituito da un fare/prassi trascendentale. Al posto del conoscere quale processo di identificazione intenzionale del pensiero con l’altro in quanto altro, si fa avanti una identificazione completamente diversa, che dissolve l’altro in quanto altro e lo riporta, pienamente digerito, alla natura immanente dello spirito in un processo identitario. Nel cap. II abbiamo citato in proposito una frase molto significativa di Gentile che qui riprendiamo: «Conoscere è identificare, superare l’alterità come tale», riportandola all’Io trascendentale. Conoscere è perciò dissolvere l’oggetto nel soggetto, in un processo in cui l’alterità come tale alla fine è scomparsa, perché essa è solo una tappa attraverso la quale passare durante il ritorno dell’io a se stesso: in questa concezione del conoscere è avvertibile una nota di non-rispetto e infine una volontà di appropriazione totalizzante dell’altro. Insieme con la categoria di oggetto tendono a scomparire e ad essere risolte nel soggetto – stabilendo 172
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così un’ulteriore affinità con Nietzsche – quelle di “cosalità” e di alterità (dell’altro come altro), risolte nel concreto farsi dell’attività pensante dell’Io, che costruisce se stesso costruendo l’oggetto e viceversa. L’attualismo è una filosofia dell’identità, che non concepisce l’altro se non come riportato all’Io o come risolto in esso o, ultimamente, solo come sua produzione10: una filosofia perciò dell’identificazione nel pensiero-atto puro, in cui l’intero circolo dell’essere reale è pienamente risoluto11. Conoscere per Gentile varrà perciò come negazione dell’immediatezza (e l’intuitività è un che di immediato), di tutto ciò che il pensiero possa trovare come dato dinanzi a sé, come oggetto di una conoscenza puramente teoretica o contemplativa. Orbene, nella attività trascendentale della prassi pensante, che è perpetuo divenire, verum et fieri convertuntur, e la verità sta solo in un processo infinito, non nell’adeguazione all’essere. Che cosa ne è di quest’ultimo? Il termine “essere” rimane come un semplice retaggio del linguaggio a denominare la realtà di fatto, che lo spirito oppone a sé, perché «essere e spirito sono termini contraddittori»12: datità morta il primo, prassi il secondo. La posizione gentiliana sembra dipendere da un profondo equivoco sul realismo, inteso come la dottrina che non introduce nulla del pensiero nell’essere, e nulla dell’essere nel pensiero13. Ora, mentre la prima parte dell’asserto è nel complesso vera, la seconda è assurda, dal momento che nella conoscenza intellettuale reale il pensiero è fecondato dall’oggetto. Qualcosa del genere accade nell’intuito; e anche a questo proposito Gentile non si sottrae all’equivoco di intenderlo come «rapporto immediato tra essere e pensare, che non impegni né essere né pensare […] il pensiero, prima di intuire e dopo, e così prima e dopo della conoscenza riflessa, è quello che è: né più né meno. Non muta, non sviluppa, non acquista»14. Concezione singolare per cui «la cognizione acquisita per intuito non è acquisita»15. La totale opposizione che Gentile instaura tra essere e pensiero, attribuendola al realismo, è un falso bersaglio, perché il pensiero abbraccia l’essere facendosene fecondare come da qualcosa che esiste indipendentemente dal pensiero. Ma questo è quanto l’attualismo rifiuta con tutte le sue forze, perché esso identifica l’essere al pensiero: «L’essere è pensiero; e perciò pensabile; ma è pensabile in quanto Io»16, di modo che l’intera realtà è l’insieme delle determinazioni dell’“Io penso” trascendentale. Al giudizio gentiliano secondo cui “l’atto è pensiero”17, la filosofia dell’essere risponde: l’atto reale radicale è esse/actus essendi, che sostiene ogni altro atto, compreso quello del pensare. Nell’attualismo emerge come atto primo e assoluto l’atto dello spirito, che pretende che la sua attualità valga semplicemente come la 173
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realtà. Siamo qui nel sancta sanctorum del pensiero gentiliano, dove l’oblio dell’essere raggiunge il vertice, in una inversione in cui all’esistenza come atto primo (atto di tutti gli atti e perfezione di tutte le perfezioni; esse) viene sostituita una filosofia dell’atto secondo assolutizzato e sostanzializzato, l’atto del pensiero appunto. Compiuta l’elevazione dell’atto secondo del pensare ad atto primo, unico e indivisibile, che non sopporta specificazioni tranne quella della sua attualità, cadono tutte le distinzioni quali quella tra teoria e prassi, bene e male, ecc., perché la prassi produttrice sarà sempre, nella pienezza della sua attualità, vera, buona e giustificata in se stessa, non più misurata da un universo di oggetti etici e di valori. Bene e male sono interpretati dall’attualismo come proiezioni dell’intelletto astratto, che il pensiero dall’alto del suo punto di osservazione risolve e supera. E l’eterno processo del pensare include soltanto un’eternità di secondo tipo, ossia un’illimitatezza temporale, che non considera l’eternità di primo genere quale essere al di fuori del tempo e del divenire.
2. L’innocenza improblematica del divenire Nell’attualismo quale dottrina della dissoluzione dell’oggetto è immediatamente implicito lo svanire di ogni verità eterna, di ogni asserto immutabile che non sia quello dell’eterna e improblematica originarietà del divenire. La sua innocenza, già sostenuta da Nietzsche, è ugualmente presente in Gentile pur senza l’assunto dell’eterno ritorno, e non solo nel senso “morale” per cui tutto quanto accade è buono e giustificato in se stesso, ma pure in quello teoretico secondo cui il divenire sarebbe portatore di una suprema evidenza che non richiede spiegazioni. L’attualismo è momento interno al pensiero moderno per la fede che l’originarietà del divenire non costituisca un problema e non includa una smisurata contraddizione. Anche da questo lato l’attualismo non poteva che approdare per necessità interna alla dissoluzione dell’oggetto, poiché esso è un invariante, un immutabile, un’obiezione continua e particolarmente fastidiosa contro la risoluzione processuale dell’intero in un divenire originario. Per far tornare a dovere i conti occorre anche togliere dalla dialettica ogni residuo realistico, che impedisce l’affermazione radicale del puro ed eternamente processuale pensiero pensante, col connesso concetto di storia come realizzazione dello spirito. L’essere è divenire, e in quanto divenire è un puro predicato dell’Io trascendentale. In tal modo la categoria di futuro soppianta quella di eterno e ciò comporta considerevoli conseguenze per la teologia. A questa – a cui Nietzsche ha indirizzato il messaggio, “Dio è morto”, col quale es174
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3. L’attualismo come volontarismo
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sa resta senza oggetto e recisa alla radice – l’attualismo intenderebbe mantenere un compito. Non sarà la teologia dei trascendentisti, ma quella di un “nuovo Dio” (sarebbe interessante domandare, una volta entrati nella dimensione del futuro, se esso sia lontano dal Dio venturo o dall’“ultimo Dio” di Heidegger), inteso appunto come realtà non trascendente e quasi uno con la coscienza. In tal senso la religione antica del cristianesimo è “misticismo”, ossia la falsa dottrina dell’assoluta trascendenza dell’oggetto rispetto al soggetto. La religione afferma l’assoluto in modo mistico, perché lo intende come qualcosa di estrinseco all’attività affermatrice del soggetto. L’attualismo varrà dunque come sconfessione di ogni mistica, di ogni unione fra uomo e Dio, perché quando lo spirito cerca di procedere oltre se stesso e il fondo di se stesso non trova né può trovare alcun objectum con cui unirsi. La dottrina gnoseologico-ontologica della posizione dell’oggetto da parte del soggetto conduce di necessità a ribadire il circolo dell’immanenza e alla negazione di ogni reale unione mistica.
Una delle conseguenze più notevoli del processo di radicalizzazione dell’idealismo operato da Gentile si lascia identificare nella risoluzione della sostanza in processo e funzione, il che a rigore implica che quanto conta nel linguaggio non siano il soggetto e il verbo, ma solo il secondo. Nel circolo del totale divenire attualistico lo spirito non è sostanza ma processo infinito (un concetto difficile, sottolinea lo stesso Gentile). Se fosse possibile, la nuova grammatica dell’attualismo contemplerebbe solo verbi, anzi solo il verbo “pensare”, lasciando da parte le sostanze. Poiché, come in ogni razionalismo che si rispetti, il concetto di potenzialità (dynamis) è respinto, lo spirito sarà ad un tempo processo puro ed atto puro: atto puro che è identicamente processo puro nell’unità immoltiplicabile e infinita del pensare, che presume di stare al di sopra di ogni contraddizione. In effetti asserire che l’essere dello spirito interamente consista nel suo divenire, è un concetto tanto arduo da pensare che per tentare di renderlo intelligibile l’attualismo deve alzare una mano parricida sullo stesso principio di non-contraddizione: di questo infatti si dice che non si applica al pensiero pensante18, ossia all’attività pura dell’Io trascendentale. Poiché questo è l’Assoluto, il Risultato che nel circolo attualistico è identicamente l’Inizio, l’assunto equivale a iniettare la contraddizione nell’Assoluto. Giova riconoscere che la partita era persa in partenza per l’at175
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tualismo, poiché questo è denotato dall’impegno di trovare soluzione a un problema che non ne ammette: fondare un sapere sul puro divenire, su un mobilismo processuale assoluto, nel quale non c’è nulla su cui stabilire asserti necessari. Pertanto nell’attualismo si raggiunge una distruzione della dottrina della scienza paragonabile a quella operata da Nietzsche: con ciò viene svelato un altro volto del nichilismo teoretico, ossia la rinuncia ad ogni principio di spiegazione reale delle cose per una spiegazione che abita nella terra del non-sapere. Su questi aspetti la meditazione deve farsi particolarmente attenta, e non ritenere casuale che nell’attacco vibrato al pdnc Gentile si trovi accanto a Nietzsche e ad Heidegger (anch’egli desideroso di scardinare la logica e il pdnc), in un’alleanza obiettiva, non preordinata, profonda, che sembra stringersi all’insegna di una rivolta contro l’essere e le sue leggi. Una volta sferrato il colpo al pdnc, risulta di minor rilievo, ma tuttavia significativo, apprendere che, mentre Nietzsche intende assegnare al divenire il carattere dell’essere con la dottrina dell’eterno ritorno, Gentile viceversa opta per dare all’essere il carattere del divenire19. È probabile che le filosofie del nichilismo non muovano verso un’unica forma pura, ma inclinino altrettanto bene a seconda dei casi verso concezioni di una totale contingenza o di una totale necessità. Se si procede a svestire le formule gnoseologico-logiche gentiliane dagli orpelli che le ricoprono, e a intendere nella maniera più determinata che cosa sia il pensiero, di cui si afferma che crea la realtà, esso sarà semplicemente volontà: volontà di prassi, volontà di volontà e in certo modo volontà di potenza, di cui la teoria dell’Io rischia di essere un vestito confezionato alla bell’e meglio e indossato in fretta. L’eterno processo del divenire si incentra intorno all’Io trascendentale, prassi produttiva dell’oggetto, che respinge da sé ogni momento teoretico. La filosofia, ormai totalmente pratico-poietica, trova la propria legge nella logica trascendentale, che assume la veste di unica scienza filosofica, quale scienza dell’atto puro dello spirito, che possiede tutto dentro se stesso20. L’assoluto idealismo gentiliano vale in realtà come assoluto volontarismo, che dimostra se medesimo nella storia del mondo: «lo spirito non è più intelletto, ma volontà»21. L’autocoscienza dell’Io si pensa a partire dalla propria capacità trasformante e prima ancora in base alla posizione di se medesima: autoctisi appunto, «il che vuol dire che il vero e unico positivo è l’atto del soggetto che si pone come tale; e ponendo sé, pone in sé, come suo proprio elemento, ogni realtà […]»22. Anche a questo proposito non sembrano negabili le parentele dell’attualismo con Nietzsche (e per certi aspetti con Schopenhauer e forse in specie con Schelling per il quale l’essere origina176
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4. Il nichilismo in Nietzsche e in Gentile come ontofobia
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rio è volontà), per cui il prassismo trascendentale gentiliano appartiene alle filosofie della volontà (di potenza), in un modo che il travestimento operato dal linguaggio spiritualistico nasconde solo in modesta misura. In tale antiintellettualismo radicale il pensiero-atto puro non è mai misurato da fini, oggetti etici, valori, ma si pone come misurante nella novità di un agire-fare, in cui è il volere a condurre la danza. Non esiste perciò una dimensione teoretico-contemplativa, che lasci essere l’essere nel suo dischiudersi all’uomo, essendo tale dimensione risolta nella produttività del pensiero. La filosofia conseguentemente non sarà più sapienza razionale dell’essere, ma autoctisi e coscienza di sé23, guidata dall’attività dell’Io trascendentale, che è causa sui24.
Comprendo che l’accostamento di Nietzsche e di Gentile sotto l’esponente del nichilismo susciti sorpresa, non foss’altro per il carattere postulatorio e talvolta contraddittorio dell’opera del primo a petto della forma fortemente strutturata e coerente di quella gentiliana. Si aggiunga un’altra considerazione, cioè che è arduo raggiungere la trascendenza camminando con Nietzsche, mentre ciò è capitato a coloro che hanno compiuto un tratto di strada con l’attualismo. Ma al punto dell’indagine in cui siamo, forse emergono i motivi che hanno suggerito di accostare le posizioni di Nietzsche e di Gentile, accomunate, nonostante l’appariscente diversità di stile filosofico, da alcuni assunti: l’attacco alla categoria dell’oggetto e a quella di “cosalità”; la conseguente radicalizzazione dell’immanenza; l’antirealismo; l’improblematica assunzione dell’originarietà del divenire, elementi in certo modo riassunti nell’assoluto volontarismo dei due autori, che si esplicita dichiaratamente in Nietzsche nella volontà di potenza, la quale invece rimane come spiritualisticamente velata nell’altro, al cui pensiero è comunque pienamente essenziale. Le due versioni di nichilismo che ne promanano si differenziano peraltro per due ragioni: a) mentre quella di Nietzsche si pone piuttosto come cosmofisiocentrica, quella gentiliana ruota intorno all’Io trascendentale; b) il nichilismo nicciano appare più radicale e con un’estensione agli ambiti della vita maggiore di quello gentiliano. Nella coppia Nietzsche-Gentile l’uno non rinvia all’altro come in uno specchio. Sussiste nel secondo una sensibilità per il problema dell’uomo (senza di cui diverrebbe inesplicabile il suo appassionato impegno di pedagogista), per quello di Dio e della morte, che possono 177
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prefigurare e schiudere svolgimenti esistenzialistici, con possibili accostamenti all’esistenzialismo positivo25. Già vedemmo che il Dio a cui allude Gentile è un Dio immanente, il divino più che Dio, dove quest’ultimo nome potrebbe risultare un’altra parola per dire “Io trascendentale”. Dal nichilismo schiettamente ateo di Nietzsche si differenzia la posizione gentiliana penetrata da un senso religioso dell’esistenza, se per religioso si intende un sentimento dell’unità del Tutto. Un divino immanente che, in quanto l’intero è solo processo, si coniuga al futuro: un divino che sarà, piuttosto che essere ora. Forse per questi motivi era fatale che il nichilismo immanentistico non potesse elevare un adeguato argine di resistenza e dovesse cedere a quello schiettamente ateo, capace di una più alta potenza di negazione. Nella storia degli ultimi due secoli le forme immanentistiche non hanno resistito a quelle atee, non sono riuscite a spezzarne o a contenerne lo slancio storico. L’attualismo si è venuto a trovare nella scomoda situazione di voler mantenere un senso religioso alla vita, facendo perno sulla problematica idea di un Dio immanente, e mentre la “morte di Dio” avanzava nella cultura. Tuttavia in Gentile circola un senso positivo e perfino entusiastico dell’esistenza, onde egli avrebbe rifiutato seccamente di intenderla priva di scopo e di senso. Per questa mobilità interna il suo pensiero si presta più di quello di Nietzsche ad uno svolgimento duplice: immanentistico-nichilistico, oppure ad una proiezione verso il trascendentismo. Non sempre chi si imbarca con Gentile compie un viaggio senza ritorno: in effetti vari suoi allievi evolvettero nel senso detto, finendo comunque per abbandonare gli elementi più gelosi e caratteristici dell’attualismo. Del Noce ha dato sviluppo ad una diagnosi analoga sostenendo che l’attualismo quale punto terminale della filosofia moderna nel versante immanentistico-idealistico, conclude in uno scacco, capace di riaprire il cammino alla ripresa storica della filosofia dell’essere26, che – aggiungiamo – può accadere solo al prezzo di un completo abbandono di ogni forma di attualismo. Se l’ontofobia è il carattere riassuntivo di ogni nichilismo conseguente, esso sembra esser stato in Gentile certo molto profondo, ma meno consapevole di sé, velato a se stesso, e rivestito di formule spiritualistiche ed affermative, nelle quali si configura un’ontologia di ascesa, non di declino, che finivano per mascherarlo agli occhi del pubblico còlto. Le conseguenze del nichilismo risultano non esplicitate in Gentile, mentre lo sono in forma sufficientemente chiara in alcuni brani di Nietzsche, dove l’accento batte sullo stato psicologico del soggetto che vive entro il clima del nichilismo. Esso si riassume nell’evento per cui l’essere non è più interpretabi178
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– quanto al fine, che l’eterno divenire mandano non mira a nulla; è completamente senza scopo; – quanto all’unità, che non esiste una organizzazione unitaria e significante del tutto, né a fortiori una sua suprema forma di governo e amministrazione; – quanto alla verità, che non esiste alcun “mondo vero”, alcuna realtà soprasensibile oltre e sopra l’eternità di un divenire che costituisce l’unica realtà27.
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le né col concetto di fine, né con quello di unità, né con quello di verità. Poiché queste nozioni non sono lette realisticamente, bensì solo come prospettive di utilità per il mantenimento e il potenziamento del dominio umano, la loro valenza rivelativa è annullata. Ciò implica:
«Insomma: le categorie “fine”, “unità”, “essere”, con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte e ora il mondo appare privo di valore […]» (p. 258). Quelle categorie erano state infatti falsamente proiettate nell’essenza delle cose, ed hanno dato prova di essere inapplicabili. Ma il mondo potrà avere forse un senso, che non sarà né quello tradizionale, né quello del nichilismo pessimistico, ma uno nuovo attribuitogli dal nichilismo attivo. Tuttavia, dinanzi a questo elemento in cui si ricapitola la più alta sfida di Nietzsche, la meditazione non può non riconoscere che, mentre la crisi della tradizione e l’imporsi del nichilismo negativo costituiscono eventi in larga parte accaduti, l’avvento del nichilismo positivo è una scommessa, un esperimento di cui nulla garantisce a priori il successo. Anzi l’analisi speculativa che qui ne è stata proposta ne assicura il fallimento catastrofico. Il nichilismo ci appare dunque un processo in cui la concezione “tradizionale” dell’essere in totalità ha subito una completa distruzione, ed è stata sostituita da una in cui l’esistenza non ha scopo, né unità, né verità, e dove i concetti reggenti dell’ontologia quali quello di causa, legge, ordine, essenza, sono andati in pezzi. Il nichilismo è esattamente quel processo in cui tutto ciò diventa possibile. Se la verità dell’essere si è nientificata per noi, nel senso che ne abbiamo perso l’accesso, il soggetto si trova entro un turbinio dove nulla sta fermo e tutto si scinde e dissolve. Entro un tale terremoto l’estrema risorsa è porre qualcosa come significante, volendolo con una volontà che va oltre il pessimismo della ragione e la mancanza di senso, e che intenderebbe creare un nuovo ordinamento dell’essere in totalità28. Questo potrà concretarsi in versioni multiple, sebbene tutte segnate dal principio formante del loro prodursi: non l’intelletto quale fa179
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coltà dell’essere, ma la volontà: la volontà di potenza in Nietzsche; l’Io trascendentale, che è volontà e prassi in Gentile. L’elemento formante comune risiede nell’aver individuato nella volontà la struttura dell’originario che, prima di volere questo o quello, vuole se stessa, si autopone (autoctisi), diventando nuovo criterio di strutturazione dell’intero. Ora, se le forme della vita seguono quelle del prodursi della volontà, quale sarà l’esito se l’estrema tensione del volere dovesse cedere? Cederà la vita, e le forme affermative del nichilismo verranno ad essere superate da quelle negative del declino o da quelle che prendono un congedo graduale e parziale dal retaggio ricevuto. Note 1
Sistema di logica come teoria del conoscere, Sansoni, Firenze 1955, vol. II, p. 200. 2 «A partire dalla critica dell’intuito si intende la profonda unità che connette le due prime opere di Gentile, Rosmini e Gioberti (1898) e La filosofia di Marx (1899)», A. Del Noce, Giovani Gentile, Il Mulino, Bologna 1990, p. 49. All’intuizione intellettuale Gentile contrappone la genesi trascendentale dell’oggetto, per cui la realtà non è mai un dato, ma un prodotto. In certo modo Gentile vorrà essere un Marx senza materialismo ma con il primato della prassi, e un Gioberti senza ontologismo (o intuizione intellettuale), ma con l’intenzionalità riformatrice politico-religiosa. Con la critica dell’intuito viene abbandonata l’assimilazione del conoscere al vedere, e inteso il primo come costruzione. In Il suicidio della rivoluzione (Rusconi, Milano 1978, p. 12 s.) Del Noce aveva notato il nesso obiettivo fra Nietzsche e Gentile in ordine al tema del nichilismo: «Il linguaggio teologico [di Gentile] non fa che coprire la nietzscheana volontà di potenza. Si può dire di Gentile che fu il notaio del nichilismo: l’atto di morte della teologia, la ripresa della vittoria di Nietzsche, non potevano essere stesi da altri che da un filosofo-teologo, convinto di esser tale». Quanto ad Heidegger si potrebbe forse supporre che l’incontro con l’opera di Gentile l’avrebbe indotto a individuare nella coppia Nietzsche-Gentile l’ala marciante del nichilismo nel ribadimento dell’oblio dell’essere. 3 Cfr. Sistema di logica, vol. I, p. 42 s. 4 Cfr. ivi, p. 61. 5 Già da La filosofia di Marx è per Gentile assodato che il sapere è produzione, prassi, sintesi della mente, e che l’intuizione intellettuale è da rigettare. La chiave di volta del marxismo è in effetti ravvisata nel concetto di prassi. Cfr. Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Garzanti, Milano 1992, pp. 148, 152, 153, 156, 158. Nella lettera a Fichte Jacobi aveva intuito acutamente questo elemento: «La scienza in quanto tale consiste nell’autoproduzione del proprio oggetto, e non è altro che questo stesso produrre nel concetto», Fede e ni-
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chilismo. Lettera a Fichte, p. 37. Tutto deve essere contenuto nell’Io, se dal’Io ogni cosa deve essere dedotta. 6 Sistema di logica, vol. II, p. 212. 7 Cfr. ivi, vol. I, p. 43. 8 Cfr. ivi, p. 13. 9 Cfr. ad es. Opere filosofiche, pp. 315 e 320. 10 «La conoscenza non è un’alterazione bensì una creazione delle cose», Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Sansoni, Firenze 1962, p. 3. 11 Cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 1987, pp. 14, 16 ss. 12 Ivi, p. 23. 13 Cfr. Sistema di logica, II, p. 191. 14 Ivi, p. 193 s. 15 Ivi, p. 195. 16 Opere filosofiche, p. 49. 17 Ivi, p. 706. 18 Teoria generale…, p. 45. 19 Cfr. ivi, p. 42. 20 Teoria generale…, p. 259. 21 Cfr. Sistema di logica, vol. I, p. 43. 22 Teoria generale…, cit., p. 104. 23 Cfr. Opere filosofiche, p. 679 s. 24 Si può segnalare brevemente la peculiare idea che l’attualismo ebbe della filosofia cristiana, onde il suo antirealismo volle certificarsi come «la forma più matura della moderna filosofia cristiana» (Teoria generale…, p. 256). Pretesa singolare in cui del cristianesimo, aboliti senza residuo i concetti di trascendenza, grazia, redenzione, salvezza, rivelazione, ecc., rimane solo l’idea di creazione, riportata però all’Io trascendentale. Forse è da ravvisare in ciò un retaggio residuale del giobertismo, quando il cristianesimo venga svuotato di ogni contenuto e diventi libera e selettiva opzione del singolo, il quale procede a trascegliere nell’edificio dottrinale cristiano che cosa accogliere e che cosa no: il mio cattolicesimo, sosteneva appunto Gentile, riprendendo l’idea giobertiana della poligonia. Nella reductio gentiliana il cristianesimo, come del resto la filosofia moderna, è riportato solo ad un’etica in cui il volere «crea il suo oggetto (il bene o il male)» (cfr. Teoria generale…, p. 257 s.), e che perciò manca di leggi morali divine ed eterne. 25 Cfr. G. Brianese, Invito al pensiero di Gentile, Mursia, Milano 1996. 26 Cfr. A. Del Noce, Giovanni Gentile, pp. 102 s. 27 Cfr. Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), Vol. VIII, t. II, p. 256 s. 28 In Nietzsche e in Gentile si presenta necessariamente un rifiuto delle essenze, che volentieri chiamerei “nichilismo delle essenze”, nel senso che queste sono meri termini verbali che non trasportano alcun contenuto eccetto forse quello classificatorio a scopi di utilità. Ciò pone i due autori, e in specie Niertzsche per il suo cosmocentrismo, singolarmente vicini all’attuale “divenirismo” evoluzionistico, nel quale le essenze non sono eterne e immutabili
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ma prodotti casuali e contingenti dell’evoluzione, sulle quali si esercita a meraviglia la volontà di potenza della tecnica che non incontra alcun residuo che valga la pena di rispettare.
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Capitolo sesto
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Heidegger
Nella pagina heideggeriana si incontrano mescolati tre registri che nella loro purezza sarebbe preferibile rimanessero fondamentalmente distinti: uno filosofico, uno poetico, uno di mistica naturale del Sé. Sebbene molto diversi, essi si nutrono l’uno dell’altro, per quanto forse nessuno dei tre si trovi nel pensiero di Heidegger con una formalità pienamente tipica. Da ciò è agevole arguire quanto sia complessa la sua interpretazione, perché non è improbabile che nei suoi scritti tenti per tocchi e cenni di esprimersi con linguaggio filosofico un’esperienza metafilosofica che non è universalizzabile e che, mentre si esprime, nello stesso momento si tradisce. La difficoltà del cammino impone una più ampia elaborazione della démarche heideggeriana in rapporto al valore filosofico delle sue posizioni speculative e all’esperienza del Sé: a questi due aspetti verranno dedicate distinte parti dell’indagine. Già a partire da Che cos’è la metafisica? (1929) e poi in maniera sempre più netta e dispiegata nel “Poscritto” (1943), nell’“Introduzione” (1949) e nelle opere successive la metafisica è accusata da Heidegger di pensare l’essente in quanto essente e di lasciarsi sfuggire la verità dell’essere; per cui un pensiero che vuole pensare alla luce di questa deve oltrepassare-abbandonare quella: «alla Metafisica, nella storia che va da Anassimandro a Nietzsche, resta nascosta la verità dell’essere. La Metafisica non risponde in niun caso alla questione della verità dell’essere, poiché essa questa questione non se la pone mai»1. Essa è pertanto il luogo stesso del nichilismo: «L’essenza della metafisica si rivela come il luogo essenziale del nichilismo […] Su che cosa poggia allora l’oltrepassamento (Uber-windung) del nichilismo? Sul superamento (Verwindung) della metafisica»2. Un tale “superamento” significherà giungere a pensare l’essere stesso e a portarlo in relazione con l’essenza dell’uomo in un evento postmetafisico, in cui la verità sarà da intendere come “non-ascosità” e non nella forma della conformità enunciativa. 183
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Tanta parte della ricerca di Heidegger dopo la “svolta” si identificò nel tentativo di ascoltare la parola dell’essere e di preparare il passaggio alla postmetafisica. Sembra tuttavia che quanto venne raggiunto in proposito assomigli a un “controesito”, nel senso che la sua diagnosi sull’oblio dell’essere praticato dalla metafisica, oltre a risultare non difendibile sul piano storiografico per la indifferenziata categoricità con cui è proposta, raggiunge l’essenza del nichilismo solo linguisticamente (ossia come non-conoscenza dell’essere e suo oblio). Non la raggiunge invece contenutisticamente perché, secondo l’analisi che si cercherà di avvalorare, sussistono nell’opera di Heidegger fratture speculative e inclinazioni antirealistiche, che suggeriscono di collocarla in prossimità del nichilismo teoretico e dell’oblio dell’essere, seppure con una valenza meno radicale che in Nietzsche.
1. L’essere entro l’orizzonte del tempo: ontologia o ontocronia? Come è noto, il senso dell’essere si conquista per il primo Heidegger attraverso l’analisi esistenziale dell’esserci (Dasein), che assume valore centrale per la costituzione dell’ontologia quale ente che è prioritariamente da interrogare3. L’aprimento del senso dell’essere attraverso l’analitica della quotidianità del Dasein, che è-nel-mondo ossia è storico, sfocia nell’idea «che ciò a partire da cui l’Esserci comprende e interpreta inesplicitamente qualcosa come l’essere, è il tempo»4. Poichè l’essere è fin dall’inizio compreso a partire e nell’orizzonte della temporalità, «nel fenomeno del tempo, rettamente inteso e rettamente esplicitato, si radica la problematica centrale di ogni ontologia»5. In linea con l’impostazione del problema dell’essere in termini di presenza-assenza, e perciò con categorie sottoposte al flusso della temporalità, l’intero svolgimento della Seinsfrage risulterà determinato dal tempo e l’essere interpretato nell’orizzonte trascendentale di questo: «L’orizzonte a partire da cui è comprensibile qualcosa come l’essere in generale è il tempo. Noi interpretiamo l’essere a partire dal tempo (tempus) […] La problematica fondamentale dell’ontologia, quale determinazione dell’essere a partire dal tempo, è quella della Temporalità dell’essere», per cui tutte le proposizioni dell’ontologia sono temporali, ed essa è una scienza temporale (Temporalewissenschaft)6. Risolvendosi l’essere sempre e solo nella presenza temporale, vale pienamente l’equazione Es gibt Sein=es gibt Zeit. In certo modo il tempo costituisce per Heidegger l’essenza originaria dell’essere, 184
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pensato senza riferimento all’eternità. Per la relazione indissolubile tra essere e tempo la concezione heideggeriana mostra i caratteri, più che di un’ontologia, di una ontocronia. Ad essa si accede attraverso l’immaginazione trascendentale quale luogo della temporalità originaria, non attraverso l’intelletto. Queste fondamentali tesi, qui succintamente richiamate, sono elaborate nelle opere degli anni 1927-29 (Essere e tempo, I problemi fondamentali della fenomenologia, Kant e il problema della metafisica), e non smentite dopo la successiva svolta. Temporalizzando l’essere, il filosofo tedesco combatte l’identità di eternità ed essere, addebitando a Nietzsche di esservi ricaduto con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale e della volontà che vuole eternamente se stessa. La filosofia di Heidegger appare in tali opere come una metafisica della finitezza e della temporalità, che non ritiene di poter elaborare il problema dell’essere in modo da superare l’una e l’altra, ma che “ripete” o ripensa i temi dell’essere per farne emergere il non-ancorapensato. Con questo intento egli procede a interpretare in senso radicalmente temporalizzato la Critica della ragion pura – fondandosi soprattutto sulla prima edizione –, onde mostrare che lo stesso “Io penso” trascendentale non è al di fuori del tempo, ma temporale. Il risultato della nuova ermeneutica viene raggiunto individuando nella immaginazione trascendentale kantiana il luogo di una temporalità originaria, nella quale si radicano i due ceppi della sensibilità e dell’intelletto. Tutte le categorie dell’intelletto, le sue forme a priori, risultano pertanto costitutivamente temporali e la percezione dell’essere che ne consegue puramente temporale, nel modo della presenza-assenza. Nella temporalizzazione dell’a priori kantiano, e con esso della sintesi del soggetto trascendentale e della intera filosofia trascendentale, consiste la “riforma” heideggeriana del kantismo, con la quale si tenta di sottrarlo alla interpretazione logico-scientifico-formale del neokantismo di Marburgo7. La conclusione a cui tale riforma conduce, è coerente con l’idea di una fondazione temporalizzata della metafisica: il problema dell’essere e quello del Dasein sono interpretati attraverso il tempo, mentre è abbandonata l’impostazione kantiana che intendeva fondare la metafisica in una critica della ragion pura, nella quale le categorie valevano come forme eterne e atemporali. Alla riforma heideggeriana del kantismo consegue una trasformazione-alterazione dei fondamentali concetti della metafisica, dal momento che lo spirito, il logos, l’intelletto, la ragione sono compiutamente temporalizzati e risolti nella finitezza8. Sulla scorta dell’idea che tutte le proposizioni dell’ontologia sono temporali, sembra farsi valere la negazione di ogni “verità eterna” e 185
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aprirsi la strada ad una risoluzione storicistico-epocale del pensare, secondo le diverse “chiamate” che l’essere indirizza alle umanità storiche che si susseguono. La concezione dell’essere diventa quella di un “accadere”, di un “ad-venire”: Heidegger dichiarerà che dal 1936 la parola-chiave del suo pensiero è “evento” (Ereignis)9. Se l’essere “parla” diversamente in una storia di epoche, l’ontologia non è più la scienza suprema, ma le sue proposizioni (temporalizzate) non possono che risultare rami derivati di un sapere più alto, che andrebbe forse individuato nell’ermeneutica “evenemenziale e storicistica” dei diversi appelli che l’essere via via emette10. D’altro canto l’assegnazione di un posto centrale all’evento può ricollegarsi ad una filosofia intrinsecamente storica esposta a rimanere ontica, in difficoltà dunque a muovere dagli essenti all’essere. Una tale filosofia, oltre a sostituire l’Evento all’Essere (con l’esito di non poter più raggiungere quel “pensare l’Essere” cui ci si voleva dedicare), risulterà dimentica delle essenze in cui si esprime un elemento di eternità (l’essenza infatti non ha storia), e perciò rimpiazzerà la natura umana col Dasein, la verità come corrispondenza con l’accadere puntuale, il telos significante con la libertà per la morte. «Prendendo sul serio lo storicismo, Heidegger concepì la tesi secondo cui l’Esserci umano non ha solamente storia, ma è essenzialmente storia, e che esso è costitutivamente finito o temporale»11. Su questi aspetti Heidegger rimase discepolo di Weber, nel senso che in entrambi la scelta concreta scaturisce dal votarsi con energica decisione alla casualità della fatticità storica entro l’appello oscuro dell’istante decisivo. Non era forse tale risoluzione storicistica deposta nel modo con cui Heidegger ha costantemente interpretato il senso dell’essere come tramandato nella storia della metafisica? Se la sua ermeneutica della ontologia risultasse abitata da equivoci, si sarebbe autorizzati a sostenere che la pretesa dissoluzione heideggeriana della storia della metafisica costituisce una sfida che ha fatto deragliare molti, ma a cui si può far fronte con validi argomenti. È dottrina spesso riproposta in Heidegger che “essere” valga come “esser-presente”. Scrive, interpretando la concezione greca dell’essere: «I Greci concepirono l’ente come l’essente-presente […] essente-presente nel non-esser-nascosto», e tale sarebbe il nome primitivo dell’essere, rimasto poi invariato nel pensiero occidentale sino ad oggi12. Conseguentemente l’ontologia medievale è ritenuta una mera appendice di quella greca. Alla sommaria identificazione fra theoria e scienza del semplicemente presente – che anche Gadamer giudica infondata sebbene ritenga che da un certo momento in avanti sia stata abbandonata da Heidegger (cfr. Verità e metodo, p. 521) –, come al problematico intendimento della metafisi186
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ca quale pensiero rappresentativo e non rivelativo, si collegano notevoli fraintendimenti dell’ermeneutica heideggeriana. Ora è indubbio che la presenza è una proprietà dell’essere prima che dell’uomo, per cui esso è per noi il più vicino, ma non la più radicale (se invece così si sostenesse, non si arriverebbe all’idea per cui esse est percipi?). Poiché le determinazioni di semplice-presenza risultano fenomenologiche, e si collocano nell’ambito della “presenza al mio mondo” e al Dasein, con esse non si è ancora raggiunta la sfera dell’essere in quanto essere e il carattere ultimo veicolato nel suo esserpresente, per raggiungere i quali occorre situarsi ad un più alto livello di visualizazione eidetica (quello del terzo livello di astrazione, secondo il lessico introdotto nel cap. II). Con un’analisi risolvente l’intelletto coglie il carattere più intimo di tale presenza come esse/actus essendi, l’atto primo e radicale nella sua opposizione completa rispetto al nihil absolutum: atto di tutti gli atti e perfezione di tutte le perfezioni, poiché ogni altro atto esiste in quanto è sostenuto e si radica nell’esse. Al Sein heideggeriano sembrano attribuibili i caratteri di presenza di coscienza, di un-essere-presente-per-qualcuno, non di valere come atto d’essere. Con il riferimento all’actus/enérgheia si incontra un concetto vitale, spesso citato da Heidegger secondo modalità che sembrano rivelare un equivoco decisivo tanto a livello speculativo quanto di appropriatezza storiografica nel situare questo concetto nei Greci e nei Medievali. Se così fosse, verrebbe oscurata la penetrazione della metafisica dell’atto, luogo reggente dell’ontologia e della filosofia dell’essere, e posta in crisi l’ermeneutica heideggeriana. Consideriamo infatti. Secondo il pensatore tedesco l’enérgheia aristotelica dista abissalmente dall’actualitas della scolastica medievale: «La svolta decisiva nel destino dell’essere come energheia consiste nella sua trasformazione in actualitas»13. Non si attribuisce così ai medievali e in specie a Tommaso un’idea dell’essere che è loro totalmente estranea? Non intendendo il carattere della metafisica dell’atto, Heidegger tende ad interpretarla fenomenicamente, come semplice attestazione di una presenza, e a svuotarla14. Se Aristotele introduce la categoria decisiva dell’enérgheia, Tommaso d’Aquino la pensa come esse/actus essendi, e ciò non configura in alcun modo pensare l’essere come actualitas ossia esse in actu, ma piuttosto come atto (esse ut actus), interno in modo intrinsecamente variato in ogni ente. Poiché questo svolgimento, decisivo in tutta la storia della metafisica, sembra sfuggito ad Heidegger, viene introdotta un’inaggirabile obiezione alla sua ricostruzione della storia della metafisica, la quale omette di intendere che nella metafisica dell’esse ci si volse non solo all’ente ma all’essere stesso; e che 187
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tale metafisica aveva posto a tema in modo pienamente esplicito la differenza ontologica fra ente ed essere (riprenderemo fra poco questo tema fondamentale). Estraneo alla percezione dell’essere operata dall’intelletto nel giudizio, Heidegger sembra concepire la prensione dell’essere solo nella forma di un guardare verso un essente-presente, oppure nella forma del porre-innanzi per un manipolare tecnico. Parimenti rimane non pensato il problema del divenire, inteso semplicemente come un venir-avanti e un andar-via, ossia come entrare nell’apparire, uscendo dal non apparire; e ricadere dall’apparire nel non-apparire15. Una determinazione che, mentre attesta un certo primato del metodo fenomenologico rivolto a ciò che entra o esce dalla presenza e conferma l’interpretazione dell’essere come semplice presenza, lascia intatto il problema della spiegazione del divenire, suggerita da Aristotele mediante la dialettica dell’atto e della potenza (il cangiamento è «l’atto di ciò che è in potenza in quanto tale», Fisica, 201a 10 s.), non tramite quella dell’apparire/scomparire. Con l’assunto che l’essere valga come esser presente viene confermata la limitazione al circolo della temporalità e della finitezza, e l’oblio dell’orizzonte dell’eterno. Se invece essere ed apparire non coincidono, come accade in momenti apicali del pensiero greco e postellenico, è lasciata aperta la possibilità dell’esistenza di enti che non appaiono: enti che esistono necessariamente, che sono eterni, ingenerati, incorruttibili, che continuano ad essere anche quando non sono osservati, mentre delle cose che possono essere diversamente da quel che sono, non si può dire se esistano oppure no quando siano fuori dalla nostra osservazione (Cfr. Etica Nicomachea, 1139 b 20 s.). La fenomenizzazione del divenire si estende anche al concetto del produrre, inteso come un disvelamento, un processo che “conduce dal nascondimento al non-nascondimento” – «Pro-duzione si dà solo in quanto un nascosto viene alla disvelatezza»16 –, invece che come trasformazione, ossia espulsione dal substrato della forma precedente e imposizione di una nuova forma.
2. Conoscenza dell’essere e dottrina della verità Meditando sull’origine della risoluzione temporale dell’ontologia proposta da Heidegger, si è condotti dinanzi ai problemi centrali di ogni metafisica: la conoscenza dell’essere e il concetto di verità. Dal modo con cui egli li intese potrebbe dipendere la sua costante opposizione alla metafisica. 188
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A) Conoscenza dell’essere. Dovunque l’intelligenza si volga, è sempre l’essere che vede. Parmenide era talmente penetrato da questa idea da porre una identità fra pensare e essere: «Il pensiero, e ciò di cui è pensiero, sono tutt’uno» (o anche, secondo un’altra traduzione anch’essa legittima: «Lo stesso è il pensare e ciò su cui si fonda il pensare»)17. Frase che veicola una verità originaria e insieme un rischio di errore, se l’identità tra pensare e essere venisse concepita fisicamente: fu compito della tradizione della filosofia dell’essere sceverare il vero dal falso nella grande intuizione parmenidea, avviando così la ricerca umana lungo la strada del sapere. Nel cap. I si è richiamata l’identità intenzionale tra pensiero e oggetto nel concetto; e la diversità tra la cosa esistente nella realtà, e l’oggetto che è la cosa in quanto vivente nel pensiero e assumente le modalità di esistenza di quest’ultimo. Con questi temi tanto fondamentali siamo alla sorgente della dottrina della Scienza e della verità, dove ogni errore si paga caro. Quando si meditano i fondamentali paragrafi 31, 32, 33 e 44 di Essere e tempo, si è introdotti nelle posizioni più tipiche del pensiero di Heidegger, e precisamente alla sua implacabile lotta per scoronare il momento teoretico, riducendolo a qualcosa di derivato e quasi di inessenziale. Nello stesso tempo si è in grado di misurare i rischi di cedimento al nichilismo speculativo. Ripercorriamo per sommi capi il nocciolo della riflessione, non senza aver osservato che la mancanza nella pagina heideggeriana di elaborazione gnoseologica non sembra attribuibile solo alla sua ostilità al neokantismo e alla neokantiana Erkenntnislehre della scuola di Marburgo, quanto piuttosto ad un’originaria decisione antiteoretica. L’assunto che l’essere sia velato e intrasparente evoca il dubbio che esso sia inintelligibile all’intelletto, in quanto mancano l’originaria “proporzione” tra pensiero ed essere, e la possibilità di una parziale manifestabilità del secondo da parte del primo. Gli svolgimenti di Essere e tempo sul carattere dell’ente intramondano con gli elementi pragmatici che li connotano, e quelli sulla centralità del modo d’essere del Dasein, dove non si procede mai a vere determinazioni di essenza (sebbene il filosofo tedesco usi a profusione tale termine), lasciano appunto pensare che la realtà sia intesa da Heidegger non come almeno limitatamente intelligibile, ma come oscura, velata e perciò richiedente un approccio diverso dalla conoscenza percettiva. Al suo posto viene collocata l’attività della comprensione quale esistenziale fondamentale, ossia “un modo fondamentale dell’essere dell’Esserci”, che è una possibilità gettata nel mondo e che in esso si progetta. «La comprensione ha in se stessa la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto» (§ 31). Nella sostituzione del comprendere all’intelligere quale atto reggente e più proprio del Da189
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sein, viene compiuta una rivoluzione ontologica e gnoseologica, poiché la struttura della comprensione non è volta teleologicamente a conoscere l’essere, ma tende a una rivelazione dell’essenza propria del Dasein, più originaria dello scoprimento dell’ente intramondano. L’intenzionalità-guida o la teleologia della comprensione è a tal punto pratica, “etica”, esistenziale, legata al decidere e al decidersi, che perfino la visione le appartiene: «questa non è alcunché di teoretico, ma concerne la comprensione e il progetto […] “Intuizione” e “pensiero” sono due lontani derivati della “comprensione”» (§ 31). Quel “vedere”, quell’intuizione che nella fenomenologia husserliana occupavano il luogo reggente, diventano ora un momento secondario e derivato. Alla comprensione col suo momento progettante segue l’interpretazione, che si fonda esistenzialmente nella comprensione e da essa deriva: «L’interpretazione non consiste nell’assunzione del compreso, ma nella elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione» (§32), le quali includono il rapporto con gli utilizzabili intramondani, intesi come «qualcosa che è per…». In base a una tonalità pragmatica, l’interpretazione si fonda sull’aver a che fare con le cose. Gli accessi all’essere diversi dal conoscere intellettuale destituiscono quest’ultimo dal suo rango primario, a favore di una autocomprensione dell’Esserci che conduce al senso: «Il senso è un esistenziale dell’Esserci, e non una proprietà che inerisce all’ente o che gli sta dietro […]» (§ 32). Tutto sembra svolgersi come se, valendo l’essere come oscuro e scarsamente intelligibile, il pensare umano cercasse qualche appiglio, un qualche chiarore di senso, nell’esistenza del Dasein, e non nell’ente. La specifica valenza del nichilismo speculativo verso cui Heidegger inclina, sta nell’abbandono dell’ideale conoscitivo teoretico come originario, e nel suo declassamento a forma derivata di conoscenza (il conoscere è «un modo subordinato di accesso al reale», § 43), per cui il suo carattere non è diretto o immediato, ma iterativo entro il circolo del senso e della comprensione interpretante. Lo scoronamento della primalità teoretica del conoscere si dà come pienamente esplicito in due assunti: a) l’asserzione (il giudizio) costituisce una forma derivata dell’interpretare; b) l’interpretare a sua volta non è originario, ma si fonda nella comprensione. Ad essi consegue che venga abbandonata la centralità del giudizio quale luogo del vero, con conseguenze incalcolabili sull’essenza della verità. In effetti Heidegger è condotto a mutare il concetto di verità e a minimizzare la portata della ricerca inferenziale praticata dalla filosofia. Comprendo bene che gli enunciati teoretici possano trarre origine dall’interpretazione ambientalmente preveggente: tuttavia una questio190
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ne di genesi può prendere il posto di una di validità? E per l’appunto il nostro problema non è la genesi, ma la validità del teoretico: se l’asserzione è solo un modo derivato dell’interpretazione comprendente, l’apofansi non è originaria, ma secondaria rispetto al momento ermeneutico-esistenziale. Nel capovolgimento della gerarchia tra conoscenza teoretica e conoscenza ermeneutica, tra atto noetico obiettivo e un comprendere radicato nell’analitica esistenziale del Dasein, potrebbe risiedere l’equivoco di origine dell’ermeneutica, nella misura in cui essa si dà come nuovo metodo del filosofare, non come interpretazione di testi e contesti. Deve rimanere aperta la domanda se la svalutazione del momento contemplativo non dipenda da una serie di disguidi sul conoscere. Nella pagina heideggeriana si cercherebbero invano la distinzione gnoseologica centrale tra cosa e oggetto, e il tema dell’identità intenzionale tra conoscente e conosciuto. L’apertura dell’“anima” all’intero (anima est quodammodo omnia, De Anima 431 b21), fondamentale nucleo di avvio dell’elaborazione sull’intenzionalità, è fugacemente toccata in Essere e tempo con una lettura che, riportandola genericamente a simbolo del primato dell’Esserci rispetto a qualunque altro ente, la priva della sua radicale portata significante (cfr. § 4). Alla carenza di tematizzazione dell’intenzionalità e del conoscere come processo di unitàidentificazione con l’alterità consegue che il rapporto fra soggetto e oggetto venga inteso secondo modalità extrateoretiche e perciò specialmente nella forma del dominio tecnico o in quello dell’esperire comprendente. Alla teoria heideggeriana del giudizio fa difetto un’analisi di come si costituiscano nell’ambito dell’apprensione manifestante il soggetto e il predicato; e di come nel giudizio si attui l’identificazione reale dei diversi nozionali, rappresentati dal soggetto e dal predicato. Secondo la posizione di Heidegger il giudizio è ricondotto a determinazioni di semplice presenza, coerentemente col suo assunto che l’ontologia antica pensasse l’essere solo in tale modo, mentre non è colto il valore esistenziale del giudizio, in specie quello di posizione assoluta. B) Natura della verità. Definendo in Sull’essenza della verità “molto generica e vuota” la determinazione della verità come adaequatio, il filosofo tedesco ha opposto piuttosto che coordinato l’idea di verità come svelatezza a quella come corrispondenza (cfr. oltre a Essere e tempo, La dottrina platonica della verità e Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, pp. 186-187 e 285). Egli ha ricercato ciò che, rendendo possibile la conformità tra l’intelligenza e l’essere, vale originariamente come l’essenza della verità, senza riuscire a venire in chiaro sul momento antepredicativo quale antefatto necessario della corri191
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spondenza giudicativa. Qui il pensiero di Heidegger si trovò impegnato in una lotta decisiva da cui tutto dipende. Si trovò dinanzi un ostacolo senza riuscire a superarlo: il rapporto tra ideale e reale. Il problema fu formulato adeguatamente («come deve essere intesa ontologicamente la relazione tra momento ideale e una semplice presenza reale?»), la soluzione non venne attinta. Alludendo in Essere e tempo con parole altamente rivelative alla «scissione ontologicamente oscura di reale e ideale» (§44), che rende aggrovigliato il problema dell’adaequatio, egli rimase prigioniero dello schema kantiano della separazione tra pensiero ed essere, tra ideale e reale, in una tarda riedizione del dualismo gnoseologico moderno18. Se ciò che rende possibile la conformità si manifesta con un diritto più originario come l’essenza della verità, questo si attua nell’identità intenzionale tra pensiero ed essere, che accade nell’apprensione antepredicativa e si realizza nel e col concetto. In mancanza di questo “ponte”, che avrebbe consentito di risolvere teoreticamente il problema della verità e prima ancora di cogliere la proporzione originaria tra pensiero ed essere e l’intelligibilità di quest’ultimo, il filosofo tedesco sembra aver optato con un supremo atto volontaristico per il cambiamento del concetto stesso di verità: l’essenza della verità è la libertà, scriverà in Essere e tempo (§ 44) e ribadirà in Sull’essenza della verità. Sappiamo che per Heidegger la libertà, che si realizza lasciando essere l’ente, significa esser liberi per ciò che in un’apertura si manifesta. Tale atteggiamento di cura e considerazione per l’ente, che implica un esser-rivolti-verso, è sempre consigliabile; eppure – anche adottando questa interpretazione della formula heideggeriana sull’essenza del vero – essa non pare sufficiente a determinare adeguatamente l’idea di verità, poiché interessa soprattutto l’esperienza del Dasein, la modificazione di quest’ultimo nel quale si opera un tale esperire, declassando il momento dichiarativo. Neppure pare sufficiente far perno sulla verità come apertura, disvelamento, non-ascosità, aletheia, abbandonando quello che segue, cioè la conformità, come secondario e inessenziale, perché i due “momenti” della verità: verità come apertura e svelamento/aletheia, e verità come conformità non possono andare l’uno senza l’altro19. Vi sono perciò adeguati motivi per sostenere che nella diagnosi heideggeriana l’essenza della verità è andata compromessa sotto entrambi gli aspetti: sotto il primo perché l’apertura allo svelamento (in questo l’analisi heideggeriana coglie nel segno) rimane necessaria ma non sufficiente ed anzi generica, se non è tematizzata alla luce dell’intelligibilità dell’essere di cui è segno la dottrina del concetto quale vicario rea192
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le dell’oggetto; sotto il secondo aspetto perché la scissione dualistica fra pensiero ed essere non può che rendere vuota l’idea di verità dichiarativa come corrispondenza: come valutare la conformità di due piani (ideale e reale) posti in linea di principio come perfettamente separati? Quale che sia la comprensione più adeguata della formula heideggeriana sull’essenza della verità, non si può sottacere che nel dettato non compare alcun riferimento esplicito all’essere come tale: nel porre nella libertà l’essenza del vero, si prescinde dall’essere. Il “nuovo” concetto di verità, in quanto esistenziale fondato sull’apertura del Dasein, appare funzionale a quest’ultimo: «ogni verità è relativa all’essere dell’Esserci»20. L’apofansi, intesa come atto derivato, è per l’appunto fondata nella struttura ermeneutica dell’Esserci21, e dunque anche legata al fondo oscuro della soggettività. Non ci si dovrà perciò stupire se nella pagina heideggeriana si incontra una tonalità in cui le armoniche dell’io (poetico, mistico) e quelle dell’essere si mescolano e si interpenetrano. La metamorfosi del concetto di verità, ormai trasportato nell’orizzonte del progetto e della scelta, si riverbera sulla natura stessa dell’intelletto: il filosofo tedesco ne fraintende semplicemente il carattere, intendendolo inflesso verso la decisione22. In rapporto alla destituzione del momento apofantico il tentativo heideggeriano cerca di opporre al pensiero giudicante l’An-denken, il pensare ultrametafisico che rammemora l’essere, senza mai riuscire a presentificarlo, ma solo ricordandolo. Eppure tale pensiero rammemorante e ultrametafisico non può che operare con le categorie della metafisica, perché non ne ha elaborate altre: donde l’esito frequente di stravolgerle, facendo loro dire altro.
3. Sull’ingresso in metafisica Rimane problematico che l’analitica dell’esistenza e la sua ermeneutica possano dischiudere l’accesso alla metafisica, se non interviene un atto conoscitivo che si porti direttamente sull’essere in quanto trascendens, che ne sia cioè l’aprimento. In queste condizioni appare probabile che le più raffinate analisi esistenziali-ermeneutiche rimangano al livello dell’esserci, della presenza al mio mondo, dunque al primo grado di astrazione e che perciò, nonostante il più vasto impiego del vocabolario ontologico, l’ente in quanto ente non sia raggiunto. L’orizzonte della conoscenza dell’essere non è guadagnato moltiplicando ad infinitum l’ermeneutica di uno o più enti, ma ponendosi ad 193
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un più alto livello di concettualizzazione e di visualizzazione intellettiva. Deve rimanere un interrogativo notevole se una tale più alta visualizzazione dell’essere raggiunta con l’intelletto, sia presente nel pensiero di Heidegger. Non ha invece egli creduto che la potenza dell’intelletto venga fiaccata nelle questioni del niente e dell’essere23? Questo assunto non comporta l’abbandono del discorso enunciativo-universale per un Erfahrung des Seins, per un’esperienza dell’essere che in quanto quasi ineffabile può venire legittimamente tramandata solo coi linguaggi del mito, della poesia, della mistica? Nel Denken heideggeriano si realizza forse un atto di ripiegamento su se stesso, sull’Abgrund des Selbst? Il Sein heideggeriano, che da un certo punto in avanti della sua opera viene scritto Sein, diverso dalla totalità degli enti e che si sperimenta nell’angoscia, in nessun modo significa l’esse, cioè l’atto primo di ogni cosa. Potrebbe invece alludere al Sé (Self) profondo, colto in un’esperienza propriamente incomunicabile. Tutto ciò cospira a rendere arduo l’accesso alla sfera dell’ente in quanto ente. Esiste infatti una profonda differenza tra il mostrarsi dell’ente – mai finito per ogni ente e a fortiori per l’indefinito numero degli enti (chi mai potrà ostendere-descrivere compiutamente la cosa più semplice? L’individuale è inesauribile) –, e l’accesso al livello trascendentale dell’ens in quantum ens, dove le note individuanti cadono, mentre emergono in primo piano, in virtù dell’astrazione metafisica (terzo livello di astrazione) le leggi fondamentali dell’essere. L’indagine fenomenologica sull’ente (e in esso l’analitica del Dasein) producono un sapere ontico, l’altro approccio un sapere ontologico-metafisico. Questo aspetto, unito alla risoluzione temporale dell’ontologia e all’oscurità che avvolge il momento antepredicativo del nesso pensieroessere, sembra render plausibile un’affermazione a prima vista sconcertante: ossia che la filosofia di Heidegger non è riuscita ad evadere dal piano delle determinazioni immediate dell’ente per quello ontologico dell’ens in quantum ens, per cui la sua costante critica della metafisica è condotta non da un supposto punto verticale più alto o ulteriore a quello della metafisica, ma da una prospettiva premetafisica; ossia da una prospettiva non molto diversa da quella del primo (e non del terzo) livello di astrazione. Il primo livello è in generale quello della “fisica”, ossia dell’apparire e scomparire delle cose, della loro presenza al mio mondo e del loro divenire entro lo spazio-tempo; il terzo quello della metafisica24. Per chiarire brevemente questo aspetto a cui si è già accennato nei capp. II e III, osserviamo che si danno due concetti di essere o esi194
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4. Digressione sull’esperienza del Sé © ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.
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stenza: l’uno di origine puramente astrattiva e formato al primo grado di astrazione; l’altro di origine astrattivo-giudicativa e formato al terzo. Nel primo caso avremo un concetto di esistenza limitato alla sfera del mondo e dell’esperienza sensibile, e designante l’appartenenza ad esso, la presenza in esso: e tale concetto sarà impiegato in modo univoco, mentre l’affermazione dell’esistenza sarà di tipo copulativo, veicolata ad esempio dal giudizio “Paolo è qui”. Nell’altro caso ci troveremo invece in possesso di un concetto di essere-esistenza elaborato non più in relazione al mio mondo o al mondo sensibile, ma assolutamente, in virtù appunto del più alto livello di astrazione (formale o intensiva, non estensiva). Il concetto di essere varrà in questo caso come analogo, mentre l’affermazione dell’esistenza sarà di tipo pienamente reale, veicolata dal giudizio “Paolo è”, in cui l’“è” trasporta il senso esistenziale-reale e non soltanto copulativo dell’essere. Nel giudizio di esistenza non copulativo, ma “assoluto”, l’intelletto raggiunge l’esse25. Il dramma specifico di Heidegger, nella misura in cui il suo pensiero è interpretabile speculativamente, consiste nel cercare l’essere, muovendosi al primo livello di astrazione (ontico), senza riuscire ad entrare se non forse per attimi, nel terzo e perciò nella sfera degli oggetti metafisici. Conseguentemente egli impiega in modo non analogo il concetto di essere, e ne radicalizza il carattere intramondano, temporale, finito. Forse di ciò è spia una sua sorprendente affermazione: «Il concetto tradizionale di essere non basta a designare tutto ciò che “è”»26.
Finora si è cercato di leggere Heidegger assegnando un significato teoretico alla sua concettualizzazione: ma è questo l’unico modo di interpretarlo? Se secondo il filosofo tedesco l’interrogare è la pietà del pensiero, diventa problema ineludibile comprendere a che cosa miri il domandare nella sua ricerca. La costante ripetizione della domanda è impiegata in un metodo che cerca di contemplare e comprendere l’essere così come si dà, oppure tende a operare un’esperienza? È finalizzata ad una percezione teoretica, oppure ad un libero progetto che si prova in un mutato rapporto con l’essere? La frequente riproposizione quasi magica e incantatoria del chiedere sembra indicare un duplice tentativo dell’autore: entrare più a fondo in un’esperienza sfuggente e affascinante; condurre il lettore più avanti in tale cammino, lasciandone intravedere la direzione. Heidegger è esplicito in proposito: occor195
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re trasformare l’uomo in Da-sein, conducendolo ad un livello di vita che trascenda l’ordine empirico-sensibile, invitandolo a discendere nel proprio abisso attraverso un salto nella sorgente originaria. È “il-farsisorgere-il-fondamento”, in cui si tende a prendere contatto con la propria origine e la propria essenza. Il metodo heideggeriano sembra mirare più ad operare (e ripetere) un’esperienza profonda e per sua natura quasi inafferrabile, che a condurre ad una comprensione obiettivante del reale nel concetto; un’esperienza che egli incita a rieffettuare al suo seguito ed in vista della quale si serve del linguaggio ontologico, ma deviandolo dalla sua significazione diretta volta a farci conoscere il mistero dell’essere. Nelle ultime righe di Sull’essenza della verità siamo ad esempio avvertiti che il cammino del suo pensiero «invece di offrire rappresentazioni e concetti, si esperimenta e si prova come trasmutazione della relazione all’essere»27. Qui l’autore stesso indica per cenni e per allusioni, che sarebbe stolto trascurare, dove volga il suo tentativo. Proviamo a seguirlo nel suo cammino, aprendo Introduzione alla metafisica, dove la questione «perché vi è in generale l’essente e non piuttosto il nulla?» nel suo ritmico riproporsi fa da guida al primo capitolo. Sta Heidegger cercando una risposta filosofica, ossia una spiegazione per la sua domanda? O piuttosto «ciò che gli importa è “scontrarsi con tale questione”, “di forzarsi a penetrare nello stato di questo questionare” e questo non perché egli preferisca la ricerca al possesso della verità […] ma perché è in tale questionare – per il fatto che esso fa ritorno su se stesso – che l’autore trova quanto gli importa (che non è un’esplicazione né la prensione della verità di una cosa e della sua ragion d’essere)»28. Un atteggiamento analogo si può riscontrare nell’esperienza dell’angoscia, che è qualcosa di essenzialmente differente dalla paura, descritta in Che cos’è la metafisica?: «Tutte le cose e noi stessi sprofondiamo in una specie d’indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso di un semplice dileguare, ma nel senso che, proprio nel loro allontanarsi da noi, si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’essente nella sua totalità, che ci preme nell’angoscia, ci opprime […] L’angoscia rivela il niente»29. Secondo il testo l’angoscia accorda un’esperienza del ni-ente come altro da ogni essente e perciò come essere, che è da interpretare. A nostro avviso essa, nella descrizione profonda che Heidegger ne offre, introduce, nell’atto stesso in cui le cose si allontanano e sprofondano nell’indifferenza, ad un’esperienza del Sé. L’angoscia rivela, nel niente delle cose essenti, la via stessa verso ciò che non è una cosa ma il Sé (Soi, Self), l’esistenza radicale del proprio spirito, interpretata come l’essere col linguaggio della metafisica. Il movimento in cui tale 196
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esperienza accade è un andare indietro o alla rovescia: il pensiero deve allontanarsi dalle cose (l’allontanarsi dell’essente nella sua totalità, appena evocato), svuotarsi di se stesso e di ogni suo oggetto, volgersi verso il nulla, diventare qualcosa di indistinto e di indifferenziato, andare in senso contrario alla propria essenza. L’angoscia rivela il nulla, che non è una cosa. La sua rivelazione avviene nella misura in cui la totalità degli essenti scivola via allontanandosi da noi, ed il Dasein, svuotato di ogni oggetto, ritorna sul proprio fondo senza fondo, in un viaggio che ha varie tappe e che termina quando il Dasein torna alla sua vera patria, isolandosi in se stesso. Allora egli raggiunge il niente puro, che è essenzialmente l’essere puro (non però l’essere in quanto essere, ma il Sein del Sé): «Aber dieses Nichts west als das Sein», si legge nella Postfazione a Che cos’è la metafisica?. Questo puro nulla, che dal punto di vista ontologico non è il nihil absolutum (ed Heidegger stesso l’ha dichiarato più volte), è il totalmente altro rispetto all’essente, perciò rispetto a tutto quanto è determinato e distinto: l’allontanarsi dalla sfera delle determinazioni corrisponde all’ingresso nell’esperienza del Nichts/Sein, ossia del Sé, colto per via aconcettuale nel suo atto primo d’essere. Questi cenni vorrebbero anche mostrare che un’interpretazione trivialmente nichilistica di Heidegger, appoggiata sul suo insistere sull’esperienza del nulla, passerebbe molto lontano dalla natura propria della sua esperienza spirituale. Tra le varie forme di attività dello spirito: prensione noetica della realtà nell’idea; comunione poetica tra soggetto e mondo; incontro di ordine soprannaturale tra soggetto creato e soggetto increato (esperienza mistica trascendente); discesa nel Sé (esperienza mistica naturale); quella heideggeriana sembra l’ultima, seppure in forma non pienamente tipica e pura, per la sua compenetrazione poetante-pensante col livello dell’indagine filosofica e dell’esperienza poetica (nell’Annesso n. 5 viene tratteggiata la natura dell’esperienza del Sé quale fenomeno di mistica naturale, tendente a inabissarsi nell’esistere sostanziale dell’anima raggiunto per via intellettuale negativa o di nescienza. Il termine “via intellettuale” va qui inteso come diverso dalla via dell’unione d’amore). Né è da trascurare la simpatia mostrata verso la fine della vita da Heidegger per lo zen, nel quale gli interpreti più autorevoli leggono un cammino negativo ed abolitivo per pervenire ad un’esperienza del Sé. Svuotandosi di se stesso, allontanandosi dalla concettualizzazione, dalla riflessione e deliberazione, onde non perdere l’originaria unconsciousness, il soggetto cerca di diventare un “centro immobile”. E così al di fuori di ogni speculazione intellettuale ma per immersione metodica in se stessi, raggiungere il “fondamento senza fondo dell’essere”. Tra quest’ultima 197
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espressione e l’Abgrund heideggeriano non sono irrilevanti le assonanze. Quanto al momento strettamente filosofico, si è osservato che non sembra che Heidegger abbia mai raggiunto il concetto trascendentale e analogo di essere, che l’intelligenza coglie nel più modesto ente. Dal punto di vista della trascendentalità dell’essere, non può infatti sostenersi il “nascondimento dell’ente in totalità” (30), che comporterebbe la non-verità. Questa coinvolge “destinalmente” il Dasein: «l’errare appartiene all’intima costituzione dell’esser-ci a cui l’uomo storico è affidato»31. Tutto ciò sembra dipendere da una almeno parziale reversione della direzione della ricerca, che si manifesta via via nell’uso del linguaggio in Heidegger. Esistono infatti due modi di impiegarlo: 1) come espressione verbale del concetto, a sua volta vicario dell’oggetto, ed è il metodo del realismo filosofico volto a cercare l’intelligibilità delle cose; 2) come perdita più o meno ampia del riferimento all’oggetto, per esprimere invece i propri stati interiori ed un’esperienza singolare. In tal caso non si cerca l’intelligibilità delle cose (le essenze e le ragioni d’essere) ma, in un’esperienza mistico-naturale e poetica, un risuonare del soggetto (sotto il cielo dell’immaginazione trascendentale?), un movimento di ritorno alle sorgenti, in un salto in se stessi, nel Sé, verso il suo fondo senza fondo (Abgrund). Da un pensatore che si muovesse a questo livello, e così adoperasse la parola, sarebbe utopia attendersi una rivelazione della verità dell’essere mormorata dalle cose: in più casi il linguaggio heideggeriano, pur fortemente connotato in senso speculativo, non sembra appartenere alla categoria del segno diretto, in cui le parole richiamano, alludono e denotano l’intelligibilità delle cose, ma a quella del segno capovolto in cui le parole, pur denotando un oggetto, in realtà rivelano principalmente il soggetto e l’esperienza che esso fa di se stesso. Di conseguenza ai concetti di metafisica, di essere, di esistenza, di ontologia, di causa da lui impiegati non si potrebbe assegnare lo stesso senso che hanno nella tradizione. Consideriamo ad esempio il significato del termine “esistenza”. Nel pensiero di Heidegger esso allude ad una serie di atti (in-stanza; cura; morte; ekstasi) che definiscono il Dasein e che come tali sono solo atti secondi che non richiamano l’atto primo d’essere dell’ente. Secondo Korn «l’esistenza heideggeriana è un atto secondo»32. Gli atti di in-stanza, cura, ecc. che la definiscono, vengono aboliti nell’esperienza del Sé quale rapporto sperimentale del soggetto con il proprio atto primo di esistenza, colto non in una percezione eidetica ma per via di nescienza fruitiva entro un’esperienza mistica naturale. Forse in ciò si fa avanti il vero senso del Sein heideggeriano, il suo intento di ritrovare la “prossimità dell’essere”33, il suo modo di intendere il Dasein non 198
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come un’essenza o un insieme di caratteri intelligibili, ma come un evento in cui l’esistenza del Dasein è in-stanza estatica nella verità dell’essere (Sein). Questo intendersi del Dasein come un abisso o un fondo originario senza fondamento a cui il soggetto si rivolge e in cui si inabissa, è un evento che testimonia a suo modo della nobiltà dello spirito in condizione carnale. In sostanza il metodo heideggeriano si muove meno sul versante della spiegazione che su quello dell’esplicitazione che sempre si vela, che non si concede mai solarmente, momento al quale fa seguito la traduzione nel linguaggio (sempre decettiva e insoddisfacente per il soggetto dell’esperienza) di quanto è stato provato nell’immediatezza dell’esperienza. Si può anzi domandare se la stessa diagnosi heideggeriana sull’oblio dell’essere, così frequentemente riproposta, non alluda anche alla distanza dell’uomo dal Sé, e perciò alla necessità per il Dasein di ritornare al proprio paese natale (die Heimkunft). Il superamento dell’oblio dell’essere avverrebbe allora nel ritorno in patria verso l’origine del proprio essere sostanziale, in cui lo spirito è “der wissende Wille des Ursprungs” (volontà che sa, e volontà dell’origine): un superamento sempre parziale, perché il rimanere assente dell’essere/Sé, il carattere per cui esso non è mai pienamente attingibile ma si sottrae, costituisce elemento interno inoltrepassabile dell’esperienza. Secondo Korn «serie ragioni fanno pensare che Heidegger non abbia raggiunto (se non forse per tocchi fuggitivi) il vertice dell’esperienza della spiritualità naturale dell’anima»34; da qui la reale difficoltà di districare i differenti registri compresenti nella sua pagina, e il rischio altrettanto reale di venir messi fuori strada da un lessico dalle forti risonanze metafisiche, impiegato però per trasmettere un’esperienza metafilosofica del Sé. Ad essa, che di per sé conduce verso il silenzio e l’ineffabilità, viceversa si lega quale terzo registro un’espressione poetica che procede verso la parola, l’espressione, la produzione. Nell’esperienza poetico-pensante dell’essere (dichtenddenkende Erfahrung) la poesia quale topologia dell’essere adempie alla doppia funzione di dire la bellezza che è il Sein e la sua presenza nel Dasein, e di operare come mediatrice del ritorno dell’uomo verso il suo fondo originario. Da ciò la peculiarità del cammino heideggeriano che raggiunge forme di esperienza del Sé non nel silenzio ma nel discorso poetico, in cui quest’ultimo a sua volta risveglia le profondità del Sé e si propone come un modo per accedervi. Mentre il mezzo formale del sapere metafisico è la conoscenza dell’essere a partire dagli essenti, quello dell’esperienza del Sé è l’esperienza del nulla e del vuoto, in cui si distoglie lo sguardo dalla totalità dell’essente, per cercare un mutamento dell’essenza dell’uomo35. 199
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Cerchiamo di riassumere il senso di questa digressione. È Heidegger un teologo neoplatonico apofatico, un mistico religioso in certo modo nascosto a se stesso? Indubbiamente egli si muove nella dialettica fra svelamento-svelamento, essere-nulla, quasi una nuova forma di coincidentia oppositorum, ma appunto questa dialettica può essere adeguatamente rintracciata nell’esperienza del Sé. Sussistono dunque buone ragioni per sostenere che l’esperienza spirituale fondamentale di Heidegger sembra rivolta verso il Sé, in un movimento nel quale discorso filosofico ed esperienza poetica cambiano di direzione e, invece di guardare verso il reale da conoscere o da esprimere in un’intuizione poetica, sono indirizzati ad aprire il cammino verso il fondo senza fondamento dell’Io. In questo cammino essi rischiano, posti al servizio di altro, di smarrire la loro natura. Il contrappasso della conoscenza pratico-sperimentale del Sé è l’alterazione della conoscenza metafisica che cerca di conoscere l’essere alla luce dell’essere; contrappasso in cui il primato attribuito alla riflessività dello spirito su se stesso indebolisce la sua apertura alle cose. Uno spirito in condizione corporea come quello umano, e che voglia sperimentare il Sé, è condotto a tagliare i ponti con l’essere extramentale, che è la sua vera patria. Disguido rafforzato dalla ricerca di una metafisica che domandi al di là degli essenti, cercando l’essere in un tale aldilà, invece che negli essenti: solo pensando l’essere degli essenti la metafisica può ascendere all’Essere stesso. Non si dà perciò alcun oltrepassamento della metafisica inteso come allontanamento-rimozione degli essenti e pensiero del solo essere, in quanto non c’è modo di raggiungere l’essere se non a partire dagli essenti. L’impresa heideggeriana di riprendere contatto con i pensatori presocratici, da cui ottenere come una nuova rivelazione dell’essere, un suo risplendere prima che l’Occidente declini inesorabilmente verso la Vergessenheit des Seins, è rivestita di ambiguità, perché la percezione dell’essere è aperta in linea di principio ad ogni uomo, né c’è bisogno di risalire ai presocratici, come se in essi ne brillasse una rivelazione maggiore di quanto possa oggi venir raggiunto. Non pare evidente che all’inizio della metafisica si dia un massimo di rivelazione unito ad un minimo di occultamento, per poi procedere via via verso un minimo di rivelazione congiunto col massimo occultamento: in questa posizione sembra piuttosto esprimersi una sfiducia nell’apertura naturale dello spirito all’essere. Risalire all’indietro nella storia del pensiero e lì cercare la più alta manifestazione dell’essere rischia di funzionare come un détour, se l’intelletto non percorre da se stesso la via ontologica.
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5. Ritorno al problema del nichilismo in Heidegger 1) In Hegel la Ragione, lo Spirito, pur tenendo insieme nella sintesi con grande fatica le profonde lacerazioni antinomiche della realtà, trattengono – in certo modo richiamando il katechon neotestamentario – il nichilismo che cresce. L’effetto però non dura a lungo; è operante sino a quando non deflagra la frattura rivoluzionaria insita nella filosofia tedesca, che si consuma nell’epoca che da Kierkegaard e Marx giunge sino a Nietzsche e Stirner con la rottura del nesso fra ragione e storia, vita e spirito. H. Heine aveva diagnosticato il crescente estremismo che stava invadendo tale filosofia: «La rivoluzione tedesca non sarà più dolce e più mite per essere stata preceduta dalla critica kantiana, dall’idealismo trascendentale di Fichte, o addirittura dalla filosofia della natura. In grazia di queste dottrine si sono venute formando forze rivoluzionarie che aspettano soltanto il giorno in cui potranno scatenarsi e riempire il mondo di orrore e meraviglia», in specie se andrà in pezzi quel talismano addomesticatore che è la croce, il cristianesimo, che secondo Heine ha addolcito ma non soppresso la smania di guerra dei germani36. Ora l’estremismo tedesco riemerge in Heidegger con l’intento di destrutturare e distruggere la tradizione, applicato a pieno arco sin dall’epoca di Essere e tempo (cfr. § 6): “distruzione” dell’“ontologia”, “distruzione” dell’umanesimo, dell’intelletto quale facoltà dell’essere, della verità come conformità, del conoscere in favore del comprendere. Nonostante le indeterminazioni che affliggono il suo pensiero e che da singoli suoi settori possono condurre verso esiti altri, esso si manifesta scarsamente in grado di fronteggiare il nichilismo e di contrastarne la violenza, se è vero che questa è insita nel metodo della destructio, nell’ambiguo rapporto che intrattiene col logos quasi la violenza fosse il volto notturno della ragione. La volontà di distruzione e di critica si dispiega nelle molteplici forme che le competono, fra cui la violenza ermeneutica: anche in questa si rivela qualcosa dell’inquietante coappartenenza di logos e di violenza che è grande stigma del lato oscuro del moderno. 2) La ricerca sulla questione dell’essere in Heidegger, necessaria per interpretare con le opportune categorie filosofiche il suo pensiero, consente ora di situare il tema del nichilismo in esso. Condensando lo schema interpretativo delineato, sembra che lo status quaestionis possa venire espresso come segue: la determinazione heideggeriana di nichilismo (= oblio dell’essere) si presenta come valida solo formalmente o linguisticamente, risultando invece problematico acco201
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gliere la sua ermeneutica che attribuisce l’oblio dell’essere all’intera storia della metafisica. In tal senso il pensiero di Heidegger, pur ponendo l’esigenza speculativa e la determinazione formale dell’essenza nel nichilismo, non pare in grado di procedere oltre, perché la questione della conoscenza dell’essere viene lasciata insoluta in ragione della scissione originaria tra ideale e reale (ancora una vittima del dualismo kantiano, verrebbe da dire!). Anzi, nella misura in cui la sua opera può venir letta col registro teoretico, vengono determinandosi in essa irruzioni di nichilismo per la radicale temporalizzazione e finitizzazione dell’essere, per il suo carattere “eventuale” e allusivo che allontana da sé strutture stabili ed essenze, per la tentata dissoluzione dell’idea di verità come conformità: assunti che danno l’avvio ad un pensiero ermeneutico, in virtù dell’evento che quanto nell’apertura si manifesta è anche ciò che si nasconde, per cui la sua conoscenza è sempre interpretativa e mai conclusa. E nella misura in cui la sua pagina può venir letta nei registri dell’esperienza del Sé e di un pensiero rammemorantepoetico, non appare idonea per raggiungere una percezione speculativa del reale e per determinazioni di essenza. Esistono dunque motivi per suggerire che Heidegger non sia entrato nello spazio della metafisica se non per tocchi fuggitivi e che dunque sia rimasto impigliato nell’oblio dell’essere37. Le ragioni di questo esito sembrano riconducibili a tre ordini di motivi: A) la specifica crisi della dottrina dell’intelletto, della ratio e dell’astrazione nel suo filosofare, nonché la destituzione della primalità della teoresi; B) la modalità con cui il filosofo tedesco affronta la tematica della differenza ontologica; C) il modo in cui è intesa la costituzione ontoteologia della metafisica. Sugli aspetti A) e B) ci soffermiamo ora, rinviando all’Annesso 6 per un’elaborazione di C). A) Abbandono del teoretico e marginalizzazione dell’intelletto Nell’ambito della “distruzione dell’ontologia”, ossia della decostruzione critica e reinterpretazione dei suoi concetti filosofici tramandati, avviata in Essere e tempo, Heidegger intendeva la metafisica come scienza critico-trascendentale dell’essere (trascendentale, ossia che trascende l’ente per l’essere). In questo trascendere, che è un lasciar da parte il plesso originario di ens-essentia-esse nella ricerca della verità dell’essere, quale posto occupa l’intelletto e il suo lumen? E la ragione (ratio)? La risposta non può che suonare così: nessuno. Senza di essi la filosofia heideggeriana ritiene di poter portare allo sguardo l’essere in un libero progetto. Nell’espressione si manifesta uno scivolamento verso la decisione che è contrario all’elemento teoretico 202
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perché la conoscenza dell’essere accade in un puro guardare noetico, e che fa il paio con il già notato abbandono del discorso apofanticoenunciativo. Né la ragione né l’intelletto sono considerati in grado di orientarsi e di orientare nella ricerca sul nichilismo, il più inquietante tra tutti gli ospiti. Non la ragione (Vernunft), considerata la nemica più accanita del pensiero38, e a maggior ragione la ragione cartesiana e tecnica, di cui (del resto a buon diritto) si afferma che «non è un giudice equanime. Senza troppo pensarci, caccia nella presunta palude dell’irrazionale, della quale per di più essa stessa ha stabilito i confini, tutto ciò che non è conforme alla sua misura»39. E neppure l’intelletto (Verstand), costantemente inteso da Heidegger come il mezzo del pensiero astratto, della logica, che occorre dunque mettere da parte nel pensare l’essere e il niente, trascurando anche le obiezioni che solleva, per procedere senza di lui verso una «esperienza fondamentale del niente»40. Nella opposizione instaurata tra intelletto e conoscenza dell’essere sta in radice il principale equivoco e il fondamentale dramma del pensiero di Heidegger: l’esistenza non è intesa come l’oggetto supremo di quello, ma di un’esperienza, mentre l’esistenza è interpretata come un insieme di atti secondi. Non viene così visto che l’intelletto è facoltà percettiva dell’essere, non dell’astratto, e si rimane prigionieri della sua diminuzione, operata da Kant, da Hegel e da Schopenhauer41. In Essere e tempo si riconosce che sin dall’inizio della filosofia l’idea dell’intuitus, sia esso considerato possibile o no, guida ogni interpretazione della conoscenza (cfr. § 69 b); dunque il “vedere” è un modo di accesso privilegiato all’ente e all’essere. Come si rapporta Heidegger a tale tradizione? «Per non rompere con questa tradizione si può formalizzare a tal punto la visione e il vedere da ricavarne un termine universale valido per ogni accesso all’ente e all’essere, cioè fornito di validità universale». Con il ricorso ad una soluzione alquanto verbale il problema dell’intuizione e del suo organo risulta compromesso. Poiché ogni visione è ritenuta fondarsi nella comprensione e nell’interpretazione, al procedimento intuitivo viene sottratto il suo rango primario, subordinandolo alla struttura esistenziale del progetto, che si determina «nella visione ambientale preveggente, del prendersi cura, nel riguardo dell’aver cura e nella visione dell’essere in-vista-dicui l’Esserci è sempre così come è» (§ 31). Tali modalità sono essenzialmente pratiche, non speculative. Sebbene Heidegger cerchi di attutire l’idea che la Cura stabilisca un primato del pratico sul teoretico (cfr. § 41), la teoresi è presentata solo come un momento difettivo della Cura/prassi (cfr. § 13). Unendo la diffidenza sull’intuito con il già ricordato assunto vertente sulla scissione fra ideale e reale, più forte ri203
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suona la domanda se in Heidegger non si manifesti in punti decisivi un’affinità e più esattamente una fondamentale dipendenza da Kant. La prassi si manifesta nella forma della utilizzabilità (Zuhandenheit) e della mera presenza sotto mano (Vorhandenheit), dove però il primo atteggiamento, poietico-manipolante, ha il primato sul secondo e stabilisce il modo d’essere in cui l’ente ci si presenta per lo più. E. Berti, che si basa su una diagnosi di F. Volpi per il quale le modalità del Dasein sono essenzialmente etiche, sostiene: «Mentre in Aristotele la filosofia pratica è solo una parte, e nemmeno la più importante, della filosofia, per Heidegger essa occupa interamente la comprensione e la costituzione dell’esserci, cioè è essa stessa l’ontologia fondamentale»42. Si può domandare se in ciò (come nella valutazione della teologia quale scienza storico-positiva) non debba ravvisarsi una eco dell’abbracciamento di Lutero da parte di Heidegger e una ripresa dell’antica polemica antispeculativa (antimedievale e antigreca) del protestantesimo. Alla valenza antimetafisica non può però porre adeguato rimedio l’enfasi sulla comprensione e l’ermeneutica. Queste costituiscono livelli importanti per decifrare quel rapporto generale con l’essere che è l’uomo, per dare voce a quanto chiameremmo una “ontologia diffusa” entro un generale consenso all’essere43. Non ci sentiremmo di sostenere però che ermeneutica e comprensione possano sostituire la filosofia prima: comprensione non è contemplazione44. B) La differenza ontologica La questione della differenza ontologica in Heidegger ha presto attirato l’attenzione, perché costituisce il cardine del suo atto di accusa alla metafisica per aver obliato l’essere e pensato solo l’ente. Decisivo appare perciò comprendere in base a quali categorie essa sia stata da lui pensata. Se si dovesse riconoscere che l’impostazione preliminare del problema è insufficiente, la sua critica all’intera tradizione metafisica ne uscirebbe molto depotenziata. Per anticipare la nostra interpretazione, sembra che: a) in Heidegger non si riscontri una adeguata trattazione della differenza come tale nelle sue varie o plurime accezioni; b) la sua filosofia si sia concentrata intorno alla differenza essere-ente, senza porre a tema quella fra essere e niente assoluto, che costituisce opposizione più decisiva della precedente per lo svolgimento della metafisica. a) Nell’accostare la questione della differenza (ontologica) si manifesta necessario intenderla in tutta la sua radicalità e ampiezza, evitando di restringersi in via preliminare a considerare come rilevante solo quella chiamata da Heidegger “differenza ontologica”. Operando per 204
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affrontare con la massima apertura preliminare la questione della differenza, si può nutrire la speranza di raggiungere una migliore dottrina dell’essere. Orbene tale tema ha trovato una elaborazione nel pensiero dell’Aquinate, dove è possibile individuare cinque differenze fondamentali interne all’essere: 1) la differenza gnoseologica fra essere e pensare, per cui i due piani non si corrispondono in maniera rigida esistendo, pur nella loro identità intenzionale nel concetto, una loro relativa disgiunzione; 2) la differenza ontologica interna all’ente, da intendere nel duplice senso di distinzione reale fra esse ed ens, e fra esse ed essentia; 3) la differenza ontica di tipo orizzontale, intercorrente fra ente ed ente e che configura un’ontologia dei gradi dell’essere, 4) la differenza teologica fra finito ed infinito, fra ente per partecipazione ed Essere per essenza, per cui il secondo pone il primo con la creazione; 5) la differenza/opposizione di contraddizione fra essere e nihil absolutum. In base alla enunciazione dell’ampio perimetro incluso nella questione della differenza, si intende che questa in Heidegger è tematizzata solo in rapporto alla differenza ente-essere, nelle due modalità a cui egli allude: quella fra l’ente e il suo essere; quella fra ente ed essere. b.1) Occorre attirare l’attenzione sulla costante ambiguità in Heidegger del concetto di differenza ontologica, dal momento che in alcuni contesti l’essere di cui si sottolinea la differenza rispetto all’ente è l’essere dell’ente (Sein des Seiendes, termine che ricorre ad es. in Oltre la linea), mentre in altri è semplicemente l’essere, senza ulteriori specificazioni. In Essere e tempo si afferma categoricamente: «L’essere è sempre l’essere di un ente» (§ 3). Se ci riferiamo a I problemi fondamentali della fenomenologia, la differenza ontologica è invece intesa come «la separazione dell’essere dall’ente […] Con questa distinzione dell’essere dall’ente e grazie a questo prelievo tematico dell’essere, noi usciamo radicalmente dall’ambito dell’ente. Noi andiamo oltre, lo trascendiamo» (p. 15, corsivo nostro). Sembra perciò che qui si faccia riferimento non all’essere dell’ente, ma all’essere come tale. È però possibile al pensiero umano trascendere completamente l’ens, mettendolo da parte? Separare completamente l’essere dall’ente? La nuova supposta scienza dell’essere sarà “trascendentale” non nel senso classico (ossia includente i modi universali dell’essere), ma perché trascende l’ente, lo supera andando verso l’essere. Inoltre nell’idea di differenza ontologica in cui tanto l’essere quanto l’ente sono finiti e storici non è inclusa la possibilità di pervenire inferenzialmente all’Essere stesso (Esse ipsum), e di pensare il procedere degli essenti da questo, entro la differenza fra eternità e tempo. «Alla verità dell’essere appartiene che l’essere non si mostri senza l’es205
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sente, e che mai un essente senza l’essere»: questa sentenza del Poscritto a Che cos’è la metafisica? sembra confermare la costitutiva finitezza dell’essere entro la necessaria coimplicazione di essere ed ente. b.2) Se si considera la differenza ontologica come differenza fra l’ente e l’essere dell’ente, poiché in Heidegger il cominciamento non parte dal plesso ens-essentia-esse, non può venir pensata l’emergenza (e la differenza reale) dell’esse entro l’ens come suo atto. Egli rimane perciò entro l’oblio dell’essere, perché non incontra l’atto d’essere e il sapere sull’ente in quanto ente. b.3) Lasciando da parte il plesso ens-essentia-esse, in cui può ravvisarsi la più poderosa dialettica speculativa della vicenda della metafisica, ed operando solo con la differenza ente-essere (dove l’essere non è però atto d’esistere), elevata a differenza primordiale dell’ontologia [«la distinzione originaria, quella che nella sua intrinseca connessione e nel suo originario contrasto regge la storia, è la distinzione di essere e di ente», Introduzione alla metafisica, p. 205 s.], viene elusa la più radicale differenza ontologica: quella tra essere e nihil absolutum45. In effetti più fondamentale della differenza essere-ente è quella essere-nulla, in quanto la prima, in cui entrambi i termini stanno dal lato dell’essere, si costituisce all’interno della dimensione del qualcosa nel suo opporsi al nihil absolutum. Viene così a mancare nella concezione heideggeriana una chiave essenziale per semantizzare l’essere, mentre la critica della metafisica e la tesi dell’oblio dell’essere saranno pensate solo entro il quadro della differenza ontologica ente-essere e della sua mai sciolta ambiguità. b.4) Con il mancato ricorso all’opposizione essere-nulla (d’altronde, se essere vale come essere-presente, il suo opposto non sarà il niente ma solo il non-apparire, in linea con la generale fenomenizzazione operata) rimane non posto il grande problema della causalità ontologica degli essenti finiti, che può venir impostato entro le linee di una metafisica della partecipazione. Senza il ricorso al nihil absolutum non può venir introdotta la questione della creatio ex nihilo, al cui posto interviene la categoria della mutatio e con essa il divenire. Ma, oltre al fatto per cui creatio e mutatio rimangono profondamente diverse, anche il tema della causalità ontica (quale causalità “orizzontale” fra gli essenti) non è affrontato. Esso è sostituito dall’accadere, dal darsi dell’evento46. Sulla scorta della precedente analisi sembra confermarsi che il pensiero di Heidegger contribuisce a richiamare l’importanza della instaurazione speculativa, ma non pare in grado di produrla. Tale era oltre 206
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cinquant’anni fa l’opinione di G. Bontadini: «La riapertura della metafisica dell’essere non è possibile sullo slancio della speculazione heideggeriana»47.
“Ritorno al fondamento della metafisica”, in Che cos’è la metafisica?, a cura di A. Carlini, La Nuova Italia, Firenze 1965, p. 69 s. Indirizzando con instancabile energia la critica secondo cui la metafisica pensa solo l’ente e non l’essere, al filosofo tedesco sembra sfuggire che se la metafisica prendesse come oggetto l’essere, che non è un oggetto, essa sarebbe vittima di un enorme equivoco. Solo pensando l’ente, è possibile pervenire alla conoscenza dell’essere. L’intima, irrisolta perplessità della pagina heideggeriana in proposito viene rivelata dalla modifica, che è un ribaltamento, operata in una frase centrale della Postfazione a Che cos’è la metafisica?. Là dove si leggeva: «dass das Sein wohl west ohne das Seiende, dass niemals aber ein Seiendes ist ohne das Sein», a partire dalla V ed. (1949) si trova la nuova versione: «dass das Sein nie west ohne das Seiende, dass niemals ein Seiendes ist ohne das Sein» (corivo nostro). Secondo le due versioni apparterrebbe alla verità dell’essere che questo sia/non sia senza l’ente. 2 “La questione dell’essere”, in E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, p. 150. 3 «L’analitica dell’Esserci resta l’esigenza primaria nel problema dell’essere», Essere e tempo, Longanesi, Milano 1988, p. 34. 4 Ivi, p. 35. 5 Ivi, p. 36. 6 I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1988, p. 15. 7 Alcuni passi desunti da Kant e il problema della metafisica (Laterza, Roma-Bari 1985) sono particolarmente eloquenti in proposito: «L’immaginazione trascendentale è il fondamento, sul quale si edificano, insieme, la possibilità intrinseca della conoscenza ontologica e quella della metaphysica generalis» (p. 114). Tale immaginazione è produttiva nel senso che non dipende dall’esperienza, ma rende possibile in via preliminare l’esperienza medesima (cfr. p. 118). Ed è anche originariamente unificante secondo Heidegger, ossia «è la facoltà specifica che forma l’unità delle altre due [sensibilità e intelletto]», p. 122. «Ciò significa nientemeno che ricondurre l’intuizione pura e il pensiero puro all’immaginazione trascendentale» (p. 123). «L’attività immaginativa pura, la quale è detta “pura” perché forma il suo prodotto da sé, essendo intimamente relativa al tempo, deve essa stessa formare il tempo in via affatto primaria […] È l’immaginazione trascendentale a far sorgere il tempo come serie di “adesso”; essa quindi – in quanto appunto fa sorgere questa serie – è il tempo originario» (p. 152). La sintesi a priori possiede perciò carattere temporale (cfr. p. 155), e con essa la ragion pura che vi-
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ceversa in Kant non è soggetta alla forma del tempo. Secondo Heidegger la ragion pura è per essenza temporale, per cui «il tempo e l’“io puro” non stanno più l’uno di fronte all’altro come elementi eterogenei e inconciliabili, ma sono la stessa cosa» (p. 165). Essendo l’io intrinsecamente finito e temporale, viene meno il dualismo kantiano tra sensibilità (temporale) e ragione (intemporale), dal momento che anche la seconda è temporalizzata. 8 «La finitezza dell’essere è dunque il presupposto primo e ultimo della scepsi antimetafisica di Heidegger, la conseguenza più radicale dell’annuncio nietzschiano della morte di Dio. Ateismo filosofico e finitezza dell’essere sono aspetti cooriginari di un’unica opzione teoretica da cui procedono tanto il progetto iniziale di una distruzione dell’ontologia quanto quello successivo di un superamento della metafisica», C. Angelino, Introduzione a: M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, p. IX. Mentre Heidegger percorre il cammino dalla immaginazione trascendentale alla finitezza e al tempo, Cassirer quello dall’immaginazione al simbolo (cfr. Filosofia della forme simboliche): nessuna delle due strade è però quella della metafisica. Il metodo di Cassirer stabilisce una filosofia della cultura quale studio della produzione delle forme dello spirito. 9 Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 270. 10 Non senza ragioni di peso L. Strauss definì Heidegger il più radicale storicista. Cfr. Che cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino 1977, p. 54. Quando lo storicismo è coerente, l’esito è la dissoluzione del concetto di natura in quello di cultura. 11 K. Löwith, Il nichilismo europeo, a cura di C. Galli, Laterza 1999, p. 62. 12 Sentieri interrotti, p. 325. Questa idea è largamente riproposta dal filosofo tedesco nella stessa opera (cfr. p. 323 e p. 327), ma si vedano anche Der Satz vom Grund, Tempo ed essere, Nietzsche, Introduzione alla metafisica. In quest’ultima opera leggiamo: «“Essere” significa, in fondo, per i Greci: presenza (Anwesenheit)», Mursia, Milano 1986, p. 71. Alla interpretazione heideggeriana dei Greci sono state sollevate molteplici obiezioni, il cui esame fuoriesce dai limiti del presente studio e richiederebbe un’analisi specifica. Come indicazione autorevole può valere la valutazione di Gadamer, che fu discepolo di Heidegger: «È veramente un caso fortunato, se quello che Heidegger pensava può esser effettivamente rinvenuto nei testi di Platone ed Aristotele. Heidegger ha perlopiù interpretato in modo “errato”…» (I presocratici e l’inizio della filosofia occidentale, «Informazione filosofica», n. 10, dicembre 1992, p. 12). Secondo E. Berti un esempio notevole di erronea interpretazione va individuato nella persuasione del pensatore tedesco che in Aristotele il senso fondamentale dell’essere consista nell’essere prodotto (cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, p. 60). L’implicazione di questa tesi problematica è di grande portata, trovandosi ad essere capovolto il primato tanto spesso assegnato da Aristotele alle scienze teoretiche. Si potrebbero infine richiamare le pungenti critiche di Gilson ad Heidegger: cfr. Costanti filosofiche dell’essere, Massimo, Milano 1993, pp. 205-209.
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13 Sentieri interrotti, p. 347. Cfr. anche p. 327. In Introduzione alla metafisica (Mursia, Milano 1986) si esprime il giudizio che per la filosofia occidentale «l’essenza dell’essere è posta nella quiddità (idea)» (p. 189): valutazione che non si attaglia almeno alla Seinsphilosophie, che pone l’essenza dell’essere nell’actus essendi, un’atto che è fuori dall’ordine della quiddità. 14 In effetti per il filosofo tedesco esistenza «significa realtà nella sua distinzione dall’essenza come possibilità […] [l’existentia] fu intesa dalla filosofia medioevale come actualitas […]; existentia […] vuol dire actualitas, realtà nella sua distinzione dalla mera possibilità come idea: essa resta il nome della realizzazione di ciò che una cosa, come compare nella sua idea, è» (Lettera sull’umanismo, in Che cosa è la metafisica?, p. 101). Per Heidegger dunque l’existentia intesa metafisicamente è nulla più che la possibilità realizzata, nulla più che un dato di fatto empirico, ed al massimo l’essere in atto: confondendo actualitas e actus essendi, non si raggiunge la radicale diversità tra essere in atto ed essere come atto, e si rimane legati ad una rappresentazione fenomenica dell’existentia, non cogliendo che essa fu nettamente superata in specifici momenti della storia della metafisica. C. Fabro ha ripetutamente attirato l’attenzione sulla ignoratio elenchi che è dato riscontrare in Heidegger a proposito del nesso materia-forma e di quello essenza-esse nel pensiero dell’Aquinate. Cfr. C. Fabro, Il trascendentale esistenziale e la riduzione al fondamento, «Il giornale critico della filosofia italiana», ottobre-dicembre 1973, p. 477. 15 Cfr. Sentieri interrotti, p. 319. La fenomenizzazione dei concetti centrali della Seinsphilosophie ricorre anche nel monumentale Nietzsche. Qui, oltre alla ripresa dell’idea che essere significhi essere-presente e al sorprendente giudizio secondo cui «il concetto di sostanza non è greco» (p. 888), si può meditare sulla nozione di subjectum introdotta: «Il subjectum è ciò che nell’actus è sotto-posto e sog-getto, e a cui può accadere altro» (ivi), rapportandola alla determinazione di soggetto come ciò che esercita l’atto di esistere. 16 “La questione della tecnica”, Saggi e discorsi, p. 9. 17 Diels, VIII, 34. 18 La dipendenza della impostazione heideggeriana dal dualismo kantiano conduce a ritenere percorso storicamente e teoreticamente necessario «rivedere da dove Kant era partito», come si esprime U. Eco in Kant e l’ornitorinco (p. XV), e a rivedere dove Nietzsche è giunto, dal momento che il bersaglio principale dell’itinerario nicciano è la decostruzione di essere e linguaggio, e dunque la decostruzione di ogni ontologia metafisica. Gadamer ha evidenziato in modo convincente la prossimità di Heidegger a Kant sino al momento della “svolta”, in specie per quanto riguarda la sua interpretazione della filosofia kantiana come una metafisica finita e perciò come un’anticipazione del proprio pensiero. Cfr. H.G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1988, p. 50 s. 19 Per il pensatore tedesco l’essenza della verità è la disvelatezza dell’essere, mentre secondo la sua analisi da Platone in avanti l’essenza della verità si è contratta nella corrispondenza o correttezza del rappresentare, per cui oc-
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correrebbe tornare alla determinazione originaria e lasciar cadere quella successiva e spuria. In queste note posizioni con una sola mano ci sono porti due assunti che non possono venire separati: indubbiamente il non-essere nascosto, la disvelatezza e infine l’evidenza rappresentano aspetti ineludibili del vero, insufficienti però se non sono completati e coronati da un giudizio conforme al reale. Perciò appare infondato contrapporre i due aspetti di verità, come se la verità come apertura fosse qualcosa di autonomo e la verità come corrispondenza qualcosa di sospetto e di vuoto. L’idea che suggerisco è che la verità come aletheia/svelamento e la verità come conformità non siano per nulla incommensurabili o fra loro opposte, ma che la prima sia condizione della seconda e nello stesso tempo debba necessariamente compiersi in essa: solo se qualcosa in qualche modo si manifesta sarà possibile procedere alla ricerca di una corrispondenza fra pensiero e realtà; qualcosa deve apparire perché esso sia conosciuto e dichiarato vero in un giudizio di corrispondenza. Ma la pur opportuna sottolineatura dell’aletheia non può fermare il ricercante solo al suo livello. Su questi aspetti rinvio al cap. II di Essere e libertà. 20 Essere e tempo, § 44 c. E poco prima: «L’asserzione, non solo non è il “luogo” della verità, ma al contrario, in quanto modo di appropriazione dell’esser-scoperto e come modo dell’essere-nel-mondo, si fonda nell’attività scoprente, cioè nell’apertura dell’Esserci» (44 b). Nella Seinsphilosophie la verità logico-predicativa è sì una proprietà del giudizio, ma tale che manifesta la realtà dell’essere. Veritas fundatur in esse rei: questa è la prima affermazione dell’essenza della verità, ed essa lascia essere l’essere così come è. 21 Sul ruolo del giudizio nella conoscenza, per cui in esso si raggiunge l’esistenza stessa della cosa, rinviamo oltre che al cap. II, allo studio “Identità della metafisica e oblio dell’essere”, in Approssimazioni all’essere, pp. 28-34, nelle quali si cerca anche di rispondere alla domanda sollevata da Heidegger: «Come può l’asserzione, proprio conservando la sua essenza, adeguarsi ad altro, alla cosa?». In quest’ultimo volume si vedano pure i capp. III (“Ermeneutica e nichilismo in Heidegger”, pp. 69-87) e IV (“Sull’ingresso in metafisica. Conoscenza dell’essere ed esperienza del Sé in M. Heidegger”, pp. 88-109). 22 Cfr. Introduzione alla metafisica, pp. 146 e 174 s. 23 Cfr. Che cos’è la metafisica?, p. 26. 24 Che Heidegger non sia riuscito ad “evadere” dal primo livello di astrazione sembrano confermarlo due altri eventi: 1) la sua interpretazione dell’essenza dell’essere come physis («l’essenza dell’essere è di svelarsi, di schiudersi e venir fuori nello svelato-physis», Segnavia, p. 255); 2) la concezione dell’energheia in Aristotele, il cui significato fondamentale secondo Heidegger non è quello relativo all’essere, ma quello relativo al movimento (dunque “Fisica”). Se l’energheia come intesa da Heidegger è movimento, mentre secondo Aristotele è attività (anche attività immobile), occorrerebbe concludere che mancano nel pensiero del primo i presupposti per intendere nel modo dovuto la metafisica dell’atto. Sui vari gradi di astrazione ci si soffermerà nel cap. IX. 25 Per un’elaborazione più ampia di questo tema capitale cfr. J. Maritain, Approches sans entraves, Fayard, Paris 1973.
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Introduzione alla metafisica, p. 208. Sull’essenza della verità, p. 48. 28 E.R. Korn (pseudonimo di H. Schmitz), La question de l’être chez Martin Heidegger, «Revue Thomiste», avril-juin 1970, p. 234 e 238. A questo eccellente studio, che si distende lungo tre numeri della rivista (n. 2/1970, n. 4/1970, n. 1/1971), faremo spesso riferimento. Sull’esperienza del Sé nella storia del pensiero e in Heidegger si veda anche L. Gardet - O. Lacombe, L’esperienza del Sé, Massimo, Milano 1988. 29 Che cos’è la metafisica?, p. 18 s. 30 Sull’essenza della verità, p. 33. Cfr. anche p. 40. 31 Ivi, p. 38. 32 E.R. Korn, 1/1970, p. 245. 33 «Ma se l’uomo deve ancora una volta ritrovare la vicinanza dell’essere, gli è prima di tutto necessario imparare ad esistere in ciò che non ha nome», Lettera sull’umanismo, in Segnavia, p. 273 (trad. ritoccata). Una conferma viene dall’analisi del Sein zum Tode esplorata in Essere e tempo. La morte recide alla radice tutte le relazioni possibili tra il Dasein e le cose, di modo che il Dasein si isola nel suo proprio fondo: «Il carattere incondizionale della morte […] isola il Dasein con lui stesso, questo isolamento costituisce un modo di rivelazione del Da per l’esistenza. È esso che manifesta lo scacco di tutti gli altri modi del Dasein: essere prossimo di ciò che lo preoccupa, essere con gli altri […]» (Essere e tempo, § 53). Nell’essere per la morte il Dasein si rapporta a se stesso nel suo fondo più profondo. Nella morte viene interrotta l’oscillazione tra l’anima e il mondo, e il soggetto raggiunge l’origine senza fondo della propria sorgente. Nell’essere per la morte il Dasein si dispone perciò all’esistenza autentica. 34 E.R. Korn, n. 2/1970, p. 579. 35 «È possibile che il pensiero, se gli riesce di rimontare al fondamento della metafisica, venga con ciò a causare un mutamento dell’essenza dell’uomo», Ritorno al fondamento della metafisica, in Che cos’è la metafisica?, p. 66 s. Ciò che Heidegger chiama ritorno al fondamento della metafisica sembra configurarsi come una risalita verso le sorgenti del proprio esistere sostanziale, verso il Sé, la cui esperienza è percepita come una trasmutazione dell’essenza umana. Vedere, interrogare, ascoltare. Nella transizione dal primo (momento fenomenologico) al secondo e poi al terzo verbo potrebbe consistere il cammino di Heidegger: il suo cammino del pensiero che è anche pensiero del cammino. Quando si raggiunga l’atto puro dell’ascoltare, lo stesso ascoltante può rimanere in dubbio su quanto viene percepito: se viene ascoltato ciò che alla metafisica rimarrebbe precluso o piuttosto l’interna musica al bordo del Sé, ossia il messaggio che affiora dal proprio fondo più profondo. Vi è un indizio che incammina l’indagine nel senso qui accennato, ed è la prolungata meditazione di Heidegger sul principio di ragione (Der Satz vom Grund), entro la quale al termine Satz vengono attribuiti i significati di: proposizione, principio, tesi, salto. Quel salto a cui Der Satz vom Grund invita –
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salto fuori dalla metafisica per un pensiero ultrametafisico capace di avvicinare l’essere – non manifesta significative affinità con l’idea del salto nel proprio fondo? Non sembra casuale che Heidegger, allontanandosi dal principio di ragione (sufficiente) di Leibniz, si appoggi e avanzi meditando un celebre distico di Angelo Silesio: «La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede» (Pellegrino cherubico, l. I, n. 289). Forse il Sé è avvertito senza fondamento o perché (Ohne Warum) come la rosa di cui dice Silesio. 36 Su questi aspetti cfr K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1949. La citazione di Heine è in K. Löwith, Il nichilismo europeo, p. 58. 37 Per il fatto che considerò sempre Heidegger il proprio venerato maestro, la testimonianza di J.B. Lotz secondo cui il pensiero heideggeriano dimora entro l’oblio dell’essere, risulta tanto più significativa: «Con Heidegger si può parlare di “oblio dell’essere” nel senso che, oltre al concetto dell’essere, è stato dimenticato l’atto d’essere […] Risulta di continuo come Heidegger rimanga prigioniero dell’oblio dell’essere, rimanendogli quindi inaccessibile la dimensione più intima di quest’ultimo, essendo egli in questo simile a Nietzsche», Dall’essere al sacro. Il pensiero metafisico dopo Heidegger, Queriniana, Brescia 1993, pp. 81 e 112. 38 Cfr. Sentieri interrotti, p. 246. 39 “La questione dell’essere”, in Oltre la linea, p. 114. 40 Che cosa è la metafisica?, p. 16. In questo e in altri scritti alta è la sfiducia nei confronti dell’intelletto. Tra le varie formule (cfr. p. 11, p. 12, ecc.) si veda ad es.: «E se, così, viene fiaccata la potenza dell’intelletto nell’ambito della questione intorno al niente e all’essere, allora si decide con ciò anche il destino della signoria della “Logica” dentro la filosofia» (p. 26). Poichè la logica non ha compiuto passi avanti o indietro da Aristotele in poi, «l’unico [passo] ancora possibile è quello di scardinarla (in quanto prospettiva normativa dell’interpretazione dell’essere) dal suo fondamento», Introduzione alla metafisica, p. 193. E anche: un pensiero che giri intorno alla totalità «non potrà mai regolarsi su una “logica” che abbia come sua misura l’incontradditorietà», Oltre la linea, p. 131. Cfr. infine un altro testo particolarmente esplicito, in quanto sembra introdurre la contraddizione nel reale: «Dopo la Logica di Hegel non è più immediatamente certo che, dove c’è contraddizione, ciò che si autocontraddice non possa essere reale», Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 40. 41 In Oltre la linea Heidegger sottopone a critica il concetto di “forma” e la coappartenenza di idea, forma ed essere (cfr. p. 123 s.). Critica che riveste validità se si considera la versione moderna prassistica, per cui forma è solo ciò che dà impronta. Chi conferisce l’impronta, mediante la quale affiora e si rivela la natura della tecnica, è il subjectum (moderno) che si pone a fondamento e compagine di ogni ente. Esso diventa l’unica fonte del conferimento di senso e di legittimazione dell’ente. Lo sbocco di tale processo è la metafisica nicciana della volontà di potenza e il suo progetto di interpretare l’ente come volontà di potenza. Sembra invece da rifiutare la critica al concetto stes-
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so di forma, nel quale viceversa si esprime un principio radicale di intelligibilità, il veicolo attraverso il quale le cose ricevono l’esse (forma dat esse), e in ultima analisi lo splendor entis. La critica heideggeriana non distingue la valenza poietico-tecnica del concetto di forma (e di idea) da quella teoreticometafisica. 42 E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 94. 43 «Le consentement à l’être est d’abord l’attitude qui nous délivre de ce que nous nommerons la séduction de l’abstrait», A. Forest, Du consentement à l’être, Aubier, Paris 1936, p. 84. 44 Sembra possibile trovare una conferma della valenza ermeneutica più che teoretica del pensiero di Heidegger nel suo modo di intendere la teologia cristiana come una scienza positiva e storica, distinta dalla filosofia in modo assoluto, e volta alla comprensione dell’evento cristiano: «siccome questo evento si determina come modo di esistenza del credente, dal momento che esistere è agire, cioè praxis, la teologia ha per essenza il carattere di una scienza pratica […] la teologia non è la conoscenza speculativa di Dio» (Segnavia, p. 15 s.). Un altro indizio, e del più alto rilievo, va riscontrato nella completa abolizione heideggeriana della via causalitatis e dell’idea stessa di causalità metafisica o ontologica, per cui il concetto aristotelico di metafisica come scienza dell’ente in quanto ente e delle sue supreme cause viene colpito. Questo secondo essenziale aspetto della metafisica è omesso, per cui alla domanda heideggeriana su come il Dio entri in filosofia non è più possibile rispondere e la condanna alla struttura ontoteologica della metafisica ribadita. È anche noto che il filosofo tedesco non ha mai sottoposto ad analisi la dottrina della partecipazione metafisica trascendentale. Senza le vie della causalità e della partecipazione l’accostamento all’ontologia greca di Aristotele e di Platone non può che concludere in un vicolo cieco. 45 Quando in Was ist Metaphysik? leggiamo che l’Essere è il Nulla (das Nichts), si intende che l’essere è il nulla dell’ente, non il nihil absolutum, per cui essere e non-essere devono significare presenza-assenza. Che il niente a cui si fa riferimento non sia il nihil absolutum lo conferma Heidegger stesso: «Dove, in quale frase, in quale locuzione si è mai detto che il niente, di cui si parla in quella Prolusione, sia il niente nel senso del niente nullo?» (Oltre la linea, p. 158). Il ni-ente quale “non dell’ente”, è originariamente per Heidegger lo stesso dell’essere (cfr. Oltre la linea, p. 160, dove l’identità è esplicitamente affermata): equazione tra essere e “niente”, possibile solo se quest’ultimo non è il nulla assoluto. D’altra parte la legittimità stessa della ricerca heideggeriana può essere provata «solo mediante un’esperienza fondamentale del niente (nur durch eine Grunderfahrung des Nichts)», dove il Nichts evidentemente non può essere il nulla assoluto. Poichè questo Nichts è diverso dalla totalità degli essenti ed è l’essere, non è qui suggerito col nome di Sein/Nichts in realtà il Sé sperimentato come il totalmente altro? 46 Merita dedicare un ultimo cenno alla adeguatezza storiografico-teoretica della tesi che sostiene che l’intera vicenda della metafisica è incorsa nel-
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l’oblio dell’essere. Asserti di tale portata con cui si getta l’interdetto sul suo sviluppo dai Greci a noi, non possono non esigere un preciso riscontro nell’esame della sua tradizione. Procedendo al quale, non può non concludersi che il giudizio heideggeriano rimuove (almeno) dalla storia della filosofia il neoplatonismo e la filosofia dell’essere, forse le due massime tradizioni che essa abbia avuto. Quanto alla prima uno studioso di valore come W. Beierwaltes, dopo aver osservato la carenza di un diretto accostamento del pensiero neoplatonico in Heidegger (Plotino, Proclo, Eriugena, Eckhart, Cusano), riassume il suo giudizio: «La metafisica – così dice Heidegger – dimentica l’essere, dunque non pensa la “differenza ontologica”. Se con “differenza ontologica” si intende la distinzione fra “essere” ed “essere dell’ente”, dove la distinzione è ciò che produce proprio la loro differenza, se inoltre il “nulla” che “cooriginariamente è la stessa cosa dell’essere”, deve essere pensato come il “totalmente altro rispetto all’ente” o come “il non dell’ente”, allora mi sembra legittima la domanda: l’intento del concetto neoplatonico di Uno e degli enigmatici nomi cusaniani del principio (non-aliud, idem, possest) non è proprio quello di mettere anzitutto in evidenza l’assoluta differenza di questo principio da ogni ente e non solo di “rappresentare” qualcosa di superlativamente “differente” che fosse incluso all’interno della stessa dimensione, ossia insieme all’ente?», W. Beierwaltes, Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1988, p. 369. Se ora ci accostiamo alla tradizione della filosofia dell’essere, essa rifiuta di limitarsi al solo piano dell’ente o dell’essenza, ma spinge la propria indagine fino all’essere stesso sia attraverso la distinzione di essenza ed atto d’essere nel finito, sia col tema della partecipazione ontologica trascendentale in cui l’essente ed il suo esse sono concepiti come partecipazione reale finita e determinata dell’Essere. Se poi si intendesse sostenere, secondo l’assunto heideggeriano, che la metafisica ha rappresentato in omaggio alla sua flessione “ontoteologica” l’essere sempre e solo come ente e perciò come qualcosa, o anche l’essere mai senza l’ente, ciò non trova alcuna corrispondenza nella Seinsphilosophie. Dio infatti non vi è pensato come un ente, né un qualcosa, ma come l’Ipsum Esse per se subsistens, fondamento e causa degli enti che, essendo tutti composti, sono da lui infinitamente lontani. In quanto causa senza causa, principio senza principio e principiante non principiato, Dio produce gli enti nell’essere in una relazione di causalità in cui si esprime il loro nesso con l’Essere, senza che mediante tale relazione quest’ultimo venga attinto in sé. Nel replicare ad Heidegger, scrive con sferzante ironia E. Gilson: «Il tomismo è una filosofia del Sein in quanto è una filosofia dell’esse. Quando i giovani ci invitano a scoprire Martin Heidegger, senza saperlo ci invitano a far loro riscoprire la metafisica transontica di San Tommaso d’Aquino […] Sarebbe interessante sapere che cosa avrebbe pensato Heidegger se avesse conosciuto l’esistenza di una metafisica dell’esse prima di prendere le sue decisioni iniziali. Ma è troppo tardi, non lo sapremo mai […] Come potremmo saperlo, se Heidegger stesso non ne saprà mai nulla? Pongo il problema solo con
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lo scopo di suggerire a coloro che insistono perché lo seguiamo, che non c’è pericolo immediato. Non abbiamo forse che il ritardo del nostro anticipo. Ci incitano a seguire coloro che abbiamo già sorpassato» (Trois leçons sur le thomisme et sa situation présente, «Seminarium», n. 4, p. 718 s.). 47 Prefazione a E. Severino, Heidegger e la metafisica, Vannini, Brescia 1950, p. IX.
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Capitolo settimo
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Nove tesi sul pensiero postmetafisico: J. Habermas
Al di là del grado di consapevolezza che ne forma, il principale problema con cui il pensiero postmetafisico (impieghiamo il termine con cui esso si autodefinisce) deve confrontarsi, appare quello del nichilismo teoretico. Ciò sembra dipendere dal fatto che, entrando in crisi l’idea di verità come conformità o perché non più interessante (Rorty) o in quanto sostituita senza residui dal consenso intersoggettivo, la dissoluzione del carattere conoscitivo della filosofia viene operata nel luogo più centrale. Il passaggio dal giudizio epistemico dichiarativo di stati di realtà all’interpretare ermeneutico sembra essere un elemento caratterizzante della scuola della postmetafisica. Nelle correnti del “contestualismo”, dove viene abbandonata la ricerca dell’universale per attestarsi su discorsi esibenti validità limitata al contesto nel quale si svolgono, e che perciò appaiono tinti di etnocentrismo, si intende fare il processo al logocentrismo. Questo infatti non può reggere a lungo una volta che sia stata abbandonata la centralità reggente dell’essere. Il pensiero contestuale di Davidson, Derrida, Rorty, intendendo convalidarsi come postmoderno, adotta una versione oltranzista che sostiene la completa incommensurabilità dei paradigmi. I contestualisti radicali affermano che esistono molte possibili descrizioni e costruzioni della realtà, dipendenti in modo non superabile da paradigmi linguistici e sociali, che non sono risolvibili in più alti canoni di razionalità e conoscenza: in breve la filosofia è produzione di plurime visioni del mondo linguisticamente e socialmente mediate. Secondo una acuta annotazione di Z. Bauman, «la visione del mondo tipicamente postmoderna è, in linea di principio, quella di un numero illimitato di modelli di ordine, ciascuno generato da una serie di pratiche relativamente autonome […] Ciascuno dei tanti modelli d’ordine ha un senso soltanto nei termini delle pratiche che lo convalidano […] La strategia tipicamente postmoderna del lavoro intellettuale è quella caratterizzata nel modo migliore dalla metafora del ruolo di “interprete”. Esso consiste nel tra217
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durre affermazioni, fatte all’interno di una tradizione fondata sulla comunità, in modo tale che possano essere capite all’interno del sistema di conoscenza basato su di un’altra tradizione»1. Tuttavia non è tanto sicuro che l’operazione riesca. Secondo Rorty, infatti, il contestualista avanza osservazioni solo come partecipante ad una comunità linguistica e culturale storicamente determinata, e pertanto non può mantenere da alcun punto di vista la differenza tra sapere e opinione. Il concetto di verità perde ogni valore dichiarativo, in cui si attesti una corrispondenza tra pensiero e realtà, per assumere quello di una coerenza con convinzioni diffuse in comunità linguistiche di vita. L’evento per cui i soggetti debbano anteporre o preferire l’orizzonte culturale-linguistico della loro comunità a quello di altre non è giustificabile, ma resta come un semplice assunto. In genere nel pensiero contestualistico si cerca di abolire il confine tra filosofia e letteratura, convalidando così quello che è sembrato essere un carattere centrale di ogni nichilismo teoretico conseguente: la dissoluzione del sapere epistemico. L’evento per cui non infrequentemente gli scritti filosofici sono anche notevoli testi letterari, non autorizza a cancellare la diversità tra filosofia e letteratura, a meno che la prima, priva ormai di un proprio oggetto, costituisca soltanto una attività per esprimere pensiero alla stregua di un romanzo, di una fiction o di cose consimili nelle quali lo scopo non è la conoscenza della verità, ma la produttività linguistico-culturale. Nel pensiero contestualistico si solidificano forme di nuova retorica e talvolta di nuova sofistica, coperta sotto i veli di una ragione esclusivamente narrativa, interpretativa, genealogica. La supposizione che ciascuno abbia diritto alla propria visione del mondo etnocentricamente situata, sconta la già avvenuta dissoluzione del problema della verità nel senso di un compiuto relativismo. Oltre al contestualismo radicale troviamo nell’ambito del pensiero postmetafisico correnti che cercano di salvare alcune forme di razionalità, volgendosi in specie verso quelle di tipo comunicativo, il cui rappresentante più noto è J. Habermas (quanto a K.O. Apel, anch’egli fautore di un’etica della comunicazione entro la comunità ideale dei comunicanti, e con ciò si è già fuori del contestualismo etnocentrico, non sembra che egli abbia optato esplicitamente per la postmetafisica). Il fatto che il primo caratterizzi la sua posizione come postmetafisica e non come a-metafisica lascia pensare che permanga un residuo intento di mantenere la tradizione metafisica come un luogo di provenienza, un’ origine da cui non si può prescindere totalmente, diversamente dalla postura a-metafisica che intende partire da zero e non ritiene che la tradizione abbia ancora potenziali significanti da rivisitare. 218
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Nell’opera Il pensiero postmetafisico (Laterza 1991), a cui faremo riferimento salvo altra indicazione, Habermas si esprime a favore di una versione del “pensiero debole”, nel senso di un concetto scettico ma non disfattistico di una ragione che rimane linguisticamente incarnata (cfr. p. 178). L’approccio postmetafisico, comunicativo e linguisticamente incarnato risulta l’esito di un processo che, partito da Kant (oltre il quale è vietato risalire, perché chi lo facesse si muoverebbe all’altezza del pre-moderno, e l’abbondanza di “pre” e di “post” è significativa dello schema storiografico storicistico assunto dai contestualisti e dai “comunicativi”), va verso una ragione formale-procedurale debole, senza impegni ontologici ed anzi contraria a considerare forme di pensiero metafisico. Il metodo habermasiano intende ritagliarsi uno spazio entro la svolta linguistica, la quale segue la svolta coscienzialista trascendentale moderna del soggettocentrismo, che a sua volta si mosse in parallelo all’opzione criticista e ametafisica. Nell’attuale condizione storica il mondo della vita si è frazionato in sistemi parziali specificati funzionalmente (economia, politica, morale, scienza, educazione, Stato), in cui i rapporti intersoggettivi sono sostituiti da nessi funzionali all’interno di sottosistemi ciascuno dotato di linguaggio e logica propri. Nel pensare che, nonostante tutto, sia ancora possibile nella società il processo dell’intesa e della formazione di identità sta il vantaggio della teoria comunicativa e il suo merito nei confronti delle sociologie funzionalistiche. In essa si esprime lo spostamento dal fare trasformante (Marx, tecnica) alla prassi linguistica in cui il soggetto comunicativo è denotato almeno da operazioni linguistiche. Nel passaggio dall’agire strumentale a quello comunicativo si apre un sentiero promettente, che può condurre verso la reciprocità delle coscienze e che occorrerebbe percorrere sino in fondo nel senso di scandagliare l’universo della persona e della soggettività. Per questo scopo l’analisi degli atti linguistici appare un primo passo al quale dovrebbero affiancarsi altri più sensibili rivelatori, capaci di tracciare una grande mappa dello spirito. Si potrebbe asserire che il tentativo di Habermas sia affine e depotenziato rispetto a quello di Hegel: individuare il superamento della scissione personale e sociale nella prassi linguistico-comunicativa, la quale prende il posto dello Spirito hegeliano. Pur esprimendo forse il massimo grado di unità che è possibile perseguire entro il quadro dell’illuminismo e della crisi del soggetto contemporaneo, la capacità unificante di tale tentativo è limitata, perché più forti sorgenti di unità non sono state esplorate o forse ritenute estinte. Aspetti importanti permangono comunque nella svolta comunicativa habermasiana, rintracciabili in specie nel tentativo di non cedere al 219
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contestualismo più scatenato e di mantenere forme di responsabilità della ragione, seppure di una ragione fondamentalmente scettica che, operando entro margini sempre più ristretti, non sembra in grado di recuperare la propria unità al di sopra della molteplicità dei paradigmi. In effetti una tale ragione comunicativa, avendo rinunciato al rapporto con l’essere e alla forma epistemica del conoscere, risulta costantemente assediata dalla contingenza, dal cui abbraccio mortale essa in qualche modo spera (ma qui appunto opera solo una speranza-fiducia) di svincolarsi. Sembra perciò ascrivibile ad una sorta di confessione di fede il sostenere una sua possibile vittoria contro la stretta della contingenza: «La ragione comunicativa è certo come una buccia galleggiante – tuttavia essa non annega nel mare della contingenza, anche quando il tremito per il mare grosso diventa l’unico modo di “dominare” la contingenza» (p. 181). Poiché questo tipo di approccio postmetafisico indebolisce ma non cancella la responsabilità della filosofia e dell’argomentare, e perfino dipinge a larghi tratti un’idea della metafisica e della sua storia, rimane un ambito idoneo per un dialogo critico, nel quale vorrei brevemente impegnarmi come discepolo della metafisica. Le rispettive posizioni sono distanti, e non sarebbe un buon affare attenuarne la diversità: ma forse non è inutile al pensiero postmetafisico vedersi rispecchiato e compreso secondo i canoni della filosofia dell’essere. Per procedere in maniera più spedita e vivace, mi sembra preferibile discutere in forma di tesi le idee dell’ultimo Habermas con un metodo in cui descrizione delle posizioni e valutazione si intrecciano, avvertendo che in linea con l’intento di questo volume le posizioni discusse concernono soprattutto, ma non esclusivamente, l’elemento speculativo: ontologico e gnoseologico; e che impiegheremo come perfettamente sinonimi i termini “essere” ed “esistere/esistenza”2. 1ª Tesi. Secondo il pensiero postmetafisico metafisica è platonismo e idealismo (cfr. p. 32). Per esplicita ammissione vengono lasciati da parte Aristotele e la sua scuola (ossia un asse fondamentale e millenario della vicenda della metafisica), mentre sono inclusi nel filone metafisico (ossia platonico e idealistico) filosofi quali Agostino, Tommaso, Cusano, Leibniz, ecc.3. La poderosa restrizione anche storiografica impressa all’ambito metafisico indirizza a pensare che per l’autore questo si identifichi col pensiero dell’Uno e della Totalità. La sua natura più intima è ricondotta a tre aspetti: pensiero dell’identità; dottrina delle idee (e in continuità con questa la concezione moderna della filosofia prima come “filosofia della coscienza”); concetto forte di teoria. Che la metafisica possa aver a che fare con la questione del220
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l’essere, Habermas lo tace, limitandosi a sostenere «il concetto di Essere ha origine col passaggio dalla forma grammaticale e dal livello concettuale del racconto alla spiegazione deduttiva secondo il modello geometrico» (p. 33). I grandi metafisici dell’essere avrebbero di che stupirsi di fronte ad una interpretazione di questo suono, che fa del concetto di essere non il centro della filosofia prima, o in ogni caso quel concetto che rimane come una domanda perenne, ma un derivato o un posterius. D’altra parte il riferimento al modello geometrico, in realtà estraneo alla questione dell’essere, opera nel senso della deesistenzializzazione, ossia in senso contrario allo Standpunkt speculativo dell’intellettualismo esistenziale che, come si disse, va con l’intelletto all’esistenza stessa. La tesi habermasiana, con la quale la questione dell’essere sembra liquidata con una chiquenade, dovrebbe venir interpretata come una testimonianza dell’oblio dell’essere in cui dimora il “pensiero debole”, di cui è parte quello postmetafisico. In realtà l’uomo pensa l’essere prima di pensare che pensa; esso è il concetto primo e assolutamente cardinale, alla cui luce la mente forma ogni altra idea. Senza il riferimento al tema dell’essere e senza la Seinsfrage come la questione più degna di venir pensata, la storia della metafisica perde quasi ogni senso, e le ricostruzioni che se ne danno non possono che risultare essenzialmente manchevoli. Il resoconto sommario che Habermas ne offre secondo i tre aspetti già citati, può esser ritenuto sufficiente solo per il terzo (il concetto forte di teoria, effettivamente presente in ogni metafisica), non per gli altri due che sono validi soltanto per la tradizione platonica, neoplatonica e idealistica (ma anche a questo proposito occorrerebbe differenziare in modo marcato l’idealismo platonico che è oggettivismo e realismo delle Idee, e l’idealismo moderno, che spesso è risoluzione logica dell’ente nel concetto sotto la regia del subjectum trascendentale, e che perciò vale come antirealismo per la primalità attribuita al logico-razionale sul reale). Che alcune metafisiche valgano come pensiero dell’identità, non vogliamo negare, a patto però che il giudizio non venga universalizzato. All’idealismo si può forse muovere la critica di sacrificare il momento dell’alterità e del non-identico, nel suo intento di ricondurre il molteplice all’uno e talvolta il finito all’infinito. La stessa critica non si può indirizzare ad altre tradizioni, in particolare alla filosofia dell’essere, tanto persuasa dell’importanza dell’alterità e dell’individualità da determinare nell’Aliquid (nel “qualcosa”, ossia un’esistenza determinata singola) un trascendentale, cioè nel linguaggio classico uno dei modi universali dell’essere, fondamentale quanto il vero, il buono, il bello. Non minore è la semplificazione o addirittura 221
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il semplicismo nel sostenere che l’intera vicenda della metafisica si riduca al pensiero dell’identità (schema uno-molti) e alla dottrina delle idee, poiché esistono metafisiche che oltre e prima di tali schemi assumono come centrale l’intendimento del divenire, la cui questione rimane come una sfida perenne per ogni filosofia. Nessuna disattenzione speculativa potrà far ritenere che la domanda, se un divenire originario sia possibile o invece contraddittorio, non costituisca una delle questioni più decisive da pensare. Anche sostituendo la filosofia prima con la scienza o considerando questa la nuova filosofia speculativa, come è frequente oggi in base alla presupposta ripartizione di compiti per cui la scienza si occupa dell’essere mentre alla filosofia rimane il regno del dover essere, l’etica –, persiste la fastidiosa questione che la scienza, la quale presuppone il divenire mondano e lo descrive analiticamente secondo le sue molteplici forme, non è invece in grado di studiarlo in termini di essere, nulla, cause prime. Entro il quadro della molto problematica ricostruzione offerta, il pensiero postmetafisico non sembra considerare degno di esame il tema del realismo e delle scuole filosofiche, grandissime, che vi si riferiscono, fra cui quella aristotelica che istituisce una tradizione poderosa e continuativa tanto quanto la platonica. Anzi Agostino e Tommaso, che sono realisti, vengono inclusi nella scuola dell’idealismo e del platonismo, sebbene gli elementi di platonismo che sono in loro, del resto profondamente rielaborati, autorizzino quella inclusione solo a patto di una completa dimenticanza dei prevalenti elementi differenzianti, attinenti alla dottrina dell’essere e al realismo gnoseologico: in tale scuola, e già a partire da Aristotele, non si rinviene alcuna risoluzione dell’essere nell’idea ma la progressiva elaborazione del primato dell’esistenza sul pensiero e sul concetto, secondo un movimento contrario alla riconduzione-riduzione dell’essere al pensare (al cogito, all’Io, allo spirito, alla autocoscienza). Ai precedenti elementi si può perciò appoggiare il giudizio secondo cui il pensiero postmetafisico ricorre a classificazioni e nomenclature eccessivamente sbrigative, perché sia possibile stabilire su di loro una discussione in pari con la complessità dell’oggetto. Esistono argomenti per sostenere che nel pensiero postmetafisico, nettamente antiplatonico per il rifiuto di ogni verità eterna e per la critica della metafisica da un punto di vista materialistico e linguistico, si verifica per certi versi un mero capovolgimento del modello platonico: la priorità dell’unità sulla molteplicità asserita da quest’ultimo si rovescia nel contrario, ossia nella priorità della molteplicità sull’unità. Tuttavia un platonismo rovesciato resta per certi aspetti ancora platonismo, quanto meno per la cesura elevata tra materialismo ed idealismo e per la tendenza a instaurare dicotomie. 222
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Abbastanza naturalmente il forte riserbo speculativo al limite della scepsi di cui si contorna il pensiero postmetafisico conduce alla limitazione al finito e più specificamente all’orizzonte umano: conseguentemente l’attenzione volge al campo dell’azione (etica, politica, diritto, linguaggio), mentre la questione di un aldilà dell’umano e del finito fuoriesce dal campo della filosofia che si contiene in un ateismo talvolta contenutistico, e nel caso dell’autore in questione dichiaratamente metodologico: «La filosofia che oltrepassa i limiti dell’ateismo metodologico non può che perdere la sua serietà filosofica»4. Questa idea, vertente su un ateismo metodologico e non sostanziale, mostra notevoli affinità con quella heideggeriana sul carattere “ateo” della filosofia. In ogni caso l’agnosticismo speculativo induce a ritenere che le questioni morali e politiche della globalizzazione, l’affermarsi della scienza, lo sviluppo del diritto, i problemi della democrazia non possano essere affrontati che a partire da premesse postmetafisiche, quasi sottintendendo che una filosofia a base ontologica e personalistica non sia in grado di sostenere le responsabilità antropologiche e morali connesse all’impatto sociale della tecnica e alla sua crescente penetrazione antropologica. 2ª Tesi. Nel pensiero postmetafisico non è più possibile procedere a determinazioni di essenza, perché il realismo conoscitivo è stato sostanzialmente abbandonato o curvato verso un “realismo pragmatico, intersoggettivo e linguisticamente mediato”, e la dottrina del conoscere svolta solo in parti secondarie. La relazione tra pensiero ed essere è sostituita da quella tra linguaggio e mondo, e gli atti noetici rivolti all’oggetto, nella sua essenza ed esistenza, rimpiazzati dagli atti illocutori volti all’intesa. Che cosa accada nel processo conoscitivo volto all’oggetto-essere, nella formazione del concetto, nel giudizio, come la conoscenza sensibile e quella intellettuale si rapportino alla “cosa”, ecc., tutto ciò rimane completamente non trattato dal pensiero postmetafisico. Non emergendo in esso una intenzionalità volta a conoscere l’essere e neppure una teorizzazione dei modi astrattivi tipicamente diversi con cui l’intelletto, rapportandosi all’oggetto, fa nascere la tavola delle scienze speculative (scienza della natura e filosofia della natura, matematica, metafisica), esso deve avanzare le proprie diagnosi mediante approcci storico-genealogici e sul piano della prassi linguistica, dove si muove con sicura maestria. Basandosi su ciò, il pensiero postmetafisico affronta con un rischio di fissazione esclusiva sul clima filosofico dell’epoca, ossia guardando solo verso l’attualità filosofica, due grandi problemi del pensiero: la questione della verità; l’esistenza e la legittimità di una tensione ad un puro conoscere, che non sia soltanto strumento per quella sorta di assoluto che in genere la postmeta223
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fisica riconosce: la Prassi. Nella prassi infatti rientra l’enunciazione linguistica, indirizzata più alla creazione di rapporti interpersonali che alla conoscenza. Ed è attraverso questo cammino che Habermas ha recentemente manifestato interesse «per le questioni di un realismo conoscitivo pragmatico che si muove sulle orme del kantianesimo linguistico», come sostiene in Verità e giustificazione (Laterza 2001, p. 10), che va nel senso di un “naturalismo debole” (p. 27), slegato peraltro da un rapporto di subordinazione con lo scientismo. Qui egli si muove senza riserve nell’ambito del paradigma linguistico, nel cui quadro «la forma classica di un realismo che poggia sul modello di rappresentazione della conoscenza e della corrispondenza fra proposizioni e fatti non è più sostenibile» (p. 13): il concetto di verità come corrispondenza, che ancora svolge un ruolo in Apel, qui pare congedato a favore di un «modello di comunicazione che ponga la riuscita intesa intersoggettiva al posto di una chimerica oggettività dell’esperienza» (p. 262). Un’asserzione è sempre e solo condizionalmente vera, nel senso che è vera sinché resiste ai tentativi di invalidazione. Conseguentemente non sappiamo oggi se domani sarà vera. La teoria della verità come innegabilità condizionale o temporanea rigetta alquanto frettolosamente l’uso dimostrativo del pdnc in base a cui la falsità di uno dei due asserti disposti secondo contraddizione è la verità definitiva dell’altro, e si schiera invece per una verità ad tempus. L’esser vera e la fallibilità di un’asserzione sono due facce della stessa medaglia (Verità e giustificazione, p. 49). Il problema della conoscenza sembra largamente impostato secondo il modello di Rorty dello specchio (della natura), ossia nel senso che la rappresentazione della natura nella forma del suo rispecchiamento nella mente sia l’unica idea valida ed effettivamente praticata di conoscenza prima della svolta linguistica. Assunto che pare riposare su un grandioso equivoco, poiché la conoscenza secondo la dottrina classica è un processo a tre termini (soggetto-concetto/segno-oggetto), mentre per Rorty e il pensatore tedesco è intesa entro le strettoie dello “specchio” come processo a due termini: soggetto e oggetto (immagine e originale; da qui il ricorso continuo al termine tipicamente moderno di “rappresentazione”, del tutto estraneo al paradigma del realismo e dell’intenzionalità). Qui (come del resto in Apel) si riscontra la mancanza d’ogni dottrina dell’intenzionalità e del concetto/segno quale vicario dell’oggetto, che a noi pare il limite centrale, e per ora insuperabile perché neppure avvertito, della gnoseologia analitica, postanalitica ed ermeneutica. In tal senso il pur importante riconoscimento del primato ontologico di una realtà indipendente dal linguaggio, e che impone limiti alle nostre pratiche, rimane non valorizzato. 224
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Ad esclusione dell’ambito etico, il pensiero postmetafisico assegna alla filosofia un compito marginale. Le nega infatti di possedere un proprio metodo, un proprio ambito oggettuale e un accesso alla verità che non sia in linea di principio fallibilistico: di conseguenza non tematizzata risulta la differenza tra il fallibilismo delle scienze e la conoscenza necessaria qua e là raggiungibile nella filosofia prima5. In certo modo alla filosofia è deputato il compito di mediare tra il sapere degli esperti e la prassi quotidiana, in un “va e vieni” teso a plasmare e riplasmare una teoria della razionalità commisurata alle scienze sociali e dello spirito via via dominanti. Tuttavia è in queste che si esprime il sapere-pilota e che si manifesta il più alto diritto, sulla scorta di un paradigma risalente a Dilthey, e che potremmo denominare “positivismo delle scienze dello spirito”, nel senso che secondo l’idea positivistica la filosofia è una sorta di metascienza; né sembra costituire radicale differenza fra il positivismo di un tempo e quello circolante oggi che le scienze di riferimento siano quelle naturali o quelle umane. Con la svolta comunicativa, che sostituisce alla conoscenza degli oggetti l’intesa fra soggetti, non si esce dall’antifondazionalismo e difficilmente si guadagna un’adeguata conoscenza dell’oggetto. Secondo Habermas la filosofia deve rinunciare alla pretesa «della validità o della “fondazione ultima”, che veniva pretesa per lei e per il suo sguardo teoretico. La coscienza fallibilistica ha da lungo tempo raggiunto anche la filosofia»6. Con ciò il momento conoscitivo-teoretico risulta sostituito da un modello diverso e più debole: il dialogo nella comunità trascendentale della comunicazione. «Il paradigma della conoscenza di oggetti deve essere sostituito dal paradigma dell’intesa fra soggetti capaci di parlare e di agire»7. Tuttavia la mappa della ragione e dell’universo del soggetto viene eseguita in modo incompleto, per cui rimane il concreto rischio della proliferazione dell’“altro dalla ragione”. Rischio che non sembra possa venir esorcizzato da una ragione illuministica solo critico-comunicativa: per essa infatti non solo l’oggetto ma perfino il soggetto rimane un’incognita, anche là dove come in Habermas l’analisi degli atti linguistici dovrebbe condurre, oltre che a considerare l’interazione con l’altro, a rivelare qualcosa della soggettività che li pone in essere. 3ª Tesi. Adottando la strategia del silenzio sulla questione dell’essere, il pensiero postmetafisico, comunicativo e linguisticamente incarnato, tralascia di interrogarsi se la sorgente prima e in certo modo unica dell’intelligibilità non sia l’esistenza: non solo e non tanto questa o quella esistenza, ma l’esistenza come tale, nell’infinita ricchezza analogica della sua realtà. Ad essa si volge l’intelletto, cogliendola in una percezione 225
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intellettuale che è il bene proprio della metafisica. Veritas sequitur esse rerum: in questa formula intrascendibile l’esse rerum è l’atto di tutti gli atti, la perfezione di tutte le perfezioni, la sorgente di ogni intelligibilità, non un eventuale supporto di atti linguistici. Perciò il pensiero postmetafisico, che sembra escludere dalla sua considerazione il fondamentale atto noetico con cui il soggetto intenziona l’esistenza, non ha posto, né potrebbe forse porre la questione, che è la prima e in certo modo l’unica della metafisica, se l’esistenza sia solo un mero fatto o il luogo di ogni verità e intelligibilità; se l’oggetto della metafisica non sia altro che l’esistenza, colta nel concetto. L’esistenza, dico, negli infiniti modi con cui le cose esercitano l’atto d’essere e stanno fuori dal nulla. Il riferimento habermasiano al mondo della vita e agli atti linguistici volti all’intesa sta piuttosto entro l’orizzonte della prassi umana, e non pare sufficiente per costituire una scienza dell’esistenza in tutta la sua ampiezza trascendentale. Non ponendo la questione dell’essere in quanto essere, la questione dell’infinito e di una possibile esistenza infinita viene lasciata al di fuori del perimetro della filosofia. 4ª Tesi. La filosofia della comunicazione, e quali che siano i suoi meriti etici, rappresenta un momento di un processo discensivo, che accade quando le kantiane eterne forme a priori, che rendono possibile l’esperienza e che in Kant non sono un’eredità storica, ma struttura naturale della ragione, sono fluidificate e temporalizzate nel linguaggio, e la comunicazione non possiede più contenuti materiali ma solo formali. Lo shift dall’a priori kantiano alle procedure sociali della comunicazione volta all’intesa segna il passaggio dalla filosofia del soggetto trascendentale a quella postmetafisica del linguaggio. In tale transizione, che per la verità si mantiene per molti aspetti entro lo schema trascendentale moderno, il fallibilismo comunicativo giudica che avvenga la dissoluzione della filosofia come metafisica. Le argomentazioni brevemente presentate consentono tuttavia di sostenere che solo in base ad un rischioso equivoco si può intendere che la crisi della filosofia della coscienza coinvolga quella di tutta la metafisica, poichè la prima già scontava la critica della ragione speculativa e la neutralizzazione dell’esistenza. Con quest’ultimo evento prende corpo una sorta di deoggettivazione della filosofia speculativa nel senso di perdita del suo oggetto reale, onde gli autori non si confrontano con la cosa, ma con altri autori in una sorta di indefinito rinvio di citazioni. Il luogo costitutivo del filosofare tuttavia è un atto personale di conoscenza dell’esistenza, che di per sé è anticontestuale e transculturale, avente le proprie assise nel rapporto naturale dell’intelletto con l’essere. 226
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Nell’orizzonte postmetafisico la posizione di Habermas cerca di preservare forme di argomentazione, senza di cui non vi sarebbe filosofia, a fronte del contestualismo radicale, nel quale si dissolve la differenza tra episteme e doxa, perché il pensare è ricondotto alla sua dipendenza dalla comunità linguistica in cui si è situati, dalle sue convinzioni e forme di vita. Mentre il contestualismo privilegia in semplice linea di fatto il punto di vista etnocentrico della comunità storica in cui il soggetto si trova ad essere, l’esistenza di una responsabilità argomentativa è l’ultimo ridotto che viene mantenuto dall’etica della comunicazione dopo l’abbandono della razionalità epistemica e del linguaggio sull’essere. Se esso sia sufficiente a porre un argine contro il nichilismo teoretico, deve stabilirlo il pensiero postmetafisico comunicativo. Noi riteniamo l’esito assai problematico, perché il nichilismo teoretico non è un cane morto o qualcosa con cui si possa venire parzialmente a patti. Esso è l’esito di un’esperienza spirituale e conoscitiva, in cui si procede verso una crescente perdita di senso nella sua espressione più alta: il senso dell’essere. Per il nichilismo il senso del mondo consiste solo nell’eterna fuga dei singoli orizzonti di senso, in cui ciascuno non è mai la totalità del significato ma solo un modo storicamente relativo e mutevole, con il quale ogni epoca esprime la propria autocomprensione culturale. Entrando nel nichilismo, l’uomo non si riconosce più parte di un ordo e di una storia; egli abbandona il tentativo di trovare un orizzonte unitario di valore ed un significato al divenire storico. Non episodico appare perciò il contatto tra il debolismo culturale, che non trova un senso unitario al divenire umano, e quello metafisico per il quale la questione del divenire risulta teoreticamente irrilevante. 5ª Tesi. L’etica del discorso rimane intimamente perplessa sull’unità della ragione e sul nesso fra la ragione speculativa e quella pratica: volta a volta si sostiene la loro separazione oppure l’esistenza di una loro almeno parziale affinità. Per argomentare in proposito occorre ammettere che la ragione speculativa è presupposta a quella pratica: affinché quest’ultima operi occorre almeno presupporre la facoltà cognitiva. Il problema concerne l’unità della ragione in sé e quel grado di unità che è raggiungibile nel pensiero postmetafisico, dove si presenta come un’unità debole e procedurale in cui la ragione speculativa si realizza nel compito cognitivo della scienza e quella pratica nel raggiungimento di norme intersoggettivamente vincolanti. Poiché però il dover essere non è inteso come un ambito dell’essere ma ad esso estraneo e perfino contrapposto, anche l’unità debole rischia di andare in frantumi e la ragione di dualiz227
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zarsi in un ambito naturalistico-scientifico e in un ambito pratico-normativo. Anche per la ragione procedurale si pone la domanda sul carattere della verità pratica. In virtù delle sue premesse il pensiero postmetafisico deve sostituire la bontà morale dell’atto con la validità e giustezza della norma. La bontà morale dell’atto è infatti determinata dalla sua conformità (ancora una volta questo concetto) alla ragione, che è la misura prossima degli atti umani (si intende la ragione come forma dell’umano, non la ragione razionalistica, geometrica, deduttiva). La verità morale è sempre, come quella teoretica, una conformità o corrispondenza; ma non una conformità del pensiero ai “fatti” o all’essere, bensì una conformità dell’atto alla ragione e alla legge morale. L’idea intrascendibile di verità come corrispondenza, che implica il rapportarsi di due termini, rimane più che mai, ma cambiano i due termini cui la verità speculativa e quella pratica si riferiscono nel loro rapportarsi. Quando nel dominio dell’azione accade la conformità fra atto e ragione/legge possiamo sostenere che l’atto è “moralmente vero”, cioè buono. Questi temi diventano fatalmente precari e anzi estranei nelle posizioni postmetafisiche in cui la ragione è stata detrascendentalizzata, posta come fallibile e segretamente assoggettata alla volontà e al desiderio. Conseguentemente il predicato vero non potrebbe venire applicato a discorsi morali, e la validità di una norma non è ancora la sua verità, ma solo l’indicazione che una adeguata volontà l’ha positivamente posta. L’elaborazione habermasiana si sottrae parzialmente a questi esiti introducendo per la prassi il concetto di giustezza, cui viene attribuito una pretesa di verità analoga alla verità speculativa, ossia argomentando in favore di una affinità fra verità teoretica e giustezza pratica: tale affinità costituisce un ponte residuo fra i due compiti della ragione che altre espressioni postmetafisiche invitano a separare senza remissione. Sembra perciò che la validità di una norma stabilita consensualmente tramite illimitata intersoggettività sia identica alla sua verità/giustezza: ardua appare la risposta all’interrogativo se in tale posizione rimangano assoluti morali, ossia atti/oggetti che siano buoni o cattivi in sé. È certo che alle pretese di verità morale manca in prima battuta il riferimento all’essere tipico delle pretese di verità speculativa, ma non manca il riferimento al bene, al fine, alla norma. Rimane la fondamentale domanda: come sono dati il bene, il fine, la norma? Essi sono dati in un senso diverso da come è dato l’essere: sono conoscibili secondo una conoscenza mista, insieme concettuale e per inclinazione, di modo che la loro conoscenza è progressiva, esposta a errori, argomen228
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tabile. Ed è su quest’ultimo aspetto che opportunamente insiste Habermas, il cui problema talvolta sembra quello di rifondare l’intero ambito della ragion pratica poi divenuta ragione procedurale, talaltra – a partire dalla situazione delle società liberaldemocratiche a base costituzionale nelle quali il dibattito dell’opinione pubblica riveste rilievo –, di trovare un metodo dialogico che consenta di stabilire intersoggettivamente come valide norme pubbliche auspicabilmente universalizzabili. 6ª Tesi. Nonostante i ponti residui introdotti fra le due operazioni della ragione, l’intero compito della filosofia viene addossato alla ragion pratica, successivamente anch’essa abbandonata per la ragione comunicativa. Ciò che sostanzialmente residua alla filosofia è appunto l’etica, cui del resto si applica una notevolissima cura dimagrante poiché il sapere morale è ricondotto esclusivamente alla relazione con l’altro, al momento sociale e pubblico. L’etica è solo l’etica pubblica: «Il problema fondamentale della morale consiste nel modo in cui le relazioni interpersonali possano venire legittimamente regolate» (Verità e giustificazione, p. 294). Il pensiero postmetafisico procede a indebolire l’etica, nel senso che vastissimi ambiti di vita e azione vengono sottratti al sapere morale. Ciò corrisponde alla restrizione oggettuale che il debolismo pratica: dapprima la restrizione secca dell’oggetto teoretico, successivamente quella dell’ambito d’azione rilevante per la filosofia pratica e sostanzialmente identificato alle relazioni interpersonali. Occorre brevemente indagare se la direzione scelta sia idonea per contrastare il nichilismo. In linea generale l’etica del discorso cerca di elevare un argine nei suoi confronti standosene – come già in Kant – solo sul piano morale e abbandonando ancor più radicalmente che in Kant l’ambito cognitivo ormai consegnato alla scienza e alla teoria dell’evoluzione. Ora se l’ambito di verità e di senso raggiungibile dal sapere morale-comunicativo è ristretto in linea di principio e non include la risposta agli interogativi sul fine e sul perché, rimane problematico in linea di principio che si possa oltrepassare il nichilismo standosene solo sul piano dell’etica, specialmente se l’uomo è inteso solo come essere naturalistico, spiegabile in chiave di teoria dell’evoluzione (cfr. Verità e giustificazione, p. 33). Quando il “dopo Kant” è modulato dal “dopo Darwin”, ineludibile è la domanda se sia realmente possibile coniugare il kantismo della volontà buona e della santità della legge morale col naturalismo evoluzionistico. Nietzsche aveva previsto che la cultura europea avrebbe apprestato l’ultima difesa contro il nichilismo sulla frontiera dell’etica. Aveva anche previsto che essa avreb229
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be al massimo resistito per due secoli. Da quando la diagnosi venne formulata sono trascorsi circa 130 anni: il tempo stringe. Il postmodernismo morale sembra non aver adeguatamente considerato la diagnosi di Dopo la virtù secondo cui l’intero progetto morale dell’illuminismo non solo è fallito, ma era destinato al fallimento in base ai suoi assunti di partenza. Il dibattito pertinente è presto scivolato via da tale nucleo nodale e si è alquanto frettolosamente dislocato sulla meno rilevante e talvolta stanca querelle fra liberali e comunitari: ma non era questo il punto. Piuttosto poteva condensarsi nella domanda sulle condizioni perché la volontà si autovincoli a leggi morali universali virtuose. L’etica del discorso riconosce il brivido del cinismo morale, eppure non sembra aver la possibilità di difendersene, poiché trascura l’educazione del volere e la rimpiazza con la coazione del diritto. Essa non sembra rendersi conto della contraddizione estrema, al limite della dissociazione, circolante nell’architettonica kantiana della ragion pratica, che da un lato assume come suo centro reggente l’autovincolarsi del volere a leggi virtuose, e dall’altro introduce la domanda sul male radicale che insidia sin dall’inizio quella stessa volontà che può porsi come assolutamente malvagia. Kant ha gettato uno sguardo su questo abisso, ma ha lasciato sussistere la contraddizione che avrebbe potuto essere tolta solo abbandonando la “finzione” dell’autolegislazione morale della ragion pura pratica, ossia rinunciando senza sottintesi al kantismo morale; l’etica del discorso ha tappato sin dall’inizio la fenditura e ha guardato altrove. Ora un progetto che riferendosi all’autovincolarsi del volere, omette di analizzare la sua dialettica e i motivi in base a cui la volontà decide di autovincolarsi è un’anatra zoppa che non può fare molto cammino. L’etica postmetafisica può esporre e riesporre se stessa molteplici volte senza raggiungere l’uomo, e gli abissi del volere e della libertà. Essa non sembra mettere a profitto in maniera “secolare” la semantica religiosa sulla volontà esistenzialmente scissa fra bene e male. 7ª Tesi. La rivendicazione della metafisica (e dell’essere) non sottintende in chi la propone un atteggiamento verso il Moderno, tale che esso sia inteso solo come perdita e sciagura. La ragione moderna non è infatti solo strumentale ma anche conoscitiva, seppure sempre più problematicamente. Essa incontra dunque crescenti difficoltà nel salvare la tradizione della ragione e dell’umanesimo, verso cui l’approccio comunicativo si mostra giustamente sensibile ma forse impari nel fermarne il declino, che non può raggiunto attestandosi soltanto sulla frontiera dell’etica. Ciò sarebbe forse possibile tramite un’alleanza con la religione, che il pensiero postmetafisico di Habermas per ora 230
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non contempla. Nel volume Testi filosofici e contesti storici (Laterza 1993) l’autore compie sì una parziale palinodia, riconoscendo come unilaterale la descrizione funzionalistica della religione svolta nella Teoria dell’agire comunicativo, ma non rinuncia all’intento di appropriarsi criticamente di contenuti essenziali della tradizione religiosa, valutati positivamente per il loro potenziale comunicativo e liberante in un modo che però li riconduce solo all’umano. Il riconoscimento che «le tradizioni monoteistiche dispongono di una lingua con un potenziale semantico ancora non esaurito, che si dimostra superiore per forza di apertura al mondo e di formazione di identità, per capacità di rinnovamento, differenziazione e portata» (ivi, p. 137), potrebbe non essere decisivo. In effetti la traduzione delle espressioni religiose nel linguaggio postmetafisico del moderno avviene entro il quadro di un presupposto ateismo metodico, entro cui la filosofia si riferisce a tali espressioni. «La filosofia non può appropriarsi di ciò di cui si parla nel discorso religioso in quanto esperienza religiosa, se non le ha prima staccate dall’evento della rivelazione» (cfr. ivi, p. 141). Ciò significa che dell’elemento religioso si mette tra parentesi l’essenziale livello della trascendenza, per far valere le sue intuizioni ai fini, pur meritori, di un umanesimo etico di universale reciprocità e uguaglianza. La riflessione habermasiana sull’evento religioso pare percorsa da un’intima e per ora irrisolta perplessità nei suoi confronti. Da un lato si annoverano due riconoscimenti importanti, di cui il primo suona: «Il processo di un’appropriazione critica di contenuti essenziali della tradizione religiosa, è ancora in corso, e se ne può difficilmente prevedere il risultato […] Fintantoché il linguaggio religioso porta con sé contenuti semantici ispiranti e anzi irrinunciabili, che per il momento si sottraggono alla forza espressiva di un linguaggio filosofico e attendono ancora la traduzione in discorsi fondativi, anche nella sua forma postmetafisica la filosofia non potrà né sostituire, né tantomeno rimuovere la religione» (ivi, p. 146); in secondo luogo si ammette che una filosofia postmetafisica non può trovare risposta alla domanda «Perché dobbiamo essere morali?» e perfino che risulta legittimo sostenere con Horkhelmer che sia vano tentare di salvare un senso incondizionato senza Dio8. Ma d’altro lato emergono, quasi accanto alle espressioni appena citate, formulazioni che risulta difficile o francamente impossibile comporre in uno schema coerente. In esse la ragione comunicativa intende assumersi il compito di salvare l’incondizionato senza metafisica e senza Dio: «II pensiero postmetafisico si differenzia dalla religione perché salva il senso dell’incondizionato senza ricorrere a Dio o a un assoluto»9. 231
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Tacere su Dio nell’ambito del pensiero, come suggerisce Heidegger, è forse la strada assunta anche dalla ragione comunicativa? A simili altezze si situa la precomprensione di quest’ultima, che rischia di non valorizzare adeguatamente l’alto potenziale comunicativo inerente al fenomeno religioso. Quel potenziale si lega al sacro e soprattutto al santo, quali condizioni fondamentali dell’esistenza, e luoghi in cui la persona umana si apre a un dialogo in cui ne va del suo tutto. Senza il santo, ossia senza il Dio santo, non può consistere a lungo neppure il sacro, che è in radice una manifestazione del santo. La graduale scomparsa del sacro dal mondo contemporaneo va misurata entro la relazione col Dio santo quale fine ultimo assoluto, primo amato e primo servito. Se il Dio santo viene escluso dalla nostra esistenza, declina progressivamente il sacro ed avanza il deserto della secolarizzazione. In essa rimane però come intrascendibile l’esperienza del male, legata all’esperienza di Dio ad un punto tale che il compiuto ateismo consiste non soltanto nella negazione di Dio, ma in quella di lui e della realtà del male. Per un paradosso soltanto apparente il dramma del male può venir pensato adeguatamente solo alla luce del problema di Dio, e ciò ad un punto tale da far sostenere a Tommaso d’Aquino: Si malum est, Deus est, grandioso incipit con cui egli affronta questo temibile soggetto10. Ora il pensiero postmetafisico, sembra adottare una strategia di almeno parziale neutralizzazione sul male – compreso il male politico che nel XX secolo ha grandeggiato con un’intensità senza precedenti. La proposta dell’etica comunicativa cerca schemi normativi a valere come un’etica pubblica per sistemi liberaldemocratici e costituzionali, ma non procede sino al punto in cui la riflessione si indirizza a cogliere natura, forme e origine del male. Forse si pensa che la domanda possa venir posta fra parentesi, risparmiandosi dolorose “spese filosofiche”. Dinanzi all’intrapresa di una autofondazione formale-procedurale dei valori, sganciata da corpose connessioni con luoghi fondamentali del mondo della vita quale appunto la religione, un frammento di Nietzsche rimane come tema da pensare: «Ogni determinazione di valori puramente morale (come per esempio il buddismo) finisce con il nichilismo: da aspettarselo per l’Europa! Si crede di cavarsela con un moralismo senza sfondo religioso, ma ciò porta necessariamente al nichilismo. Nella religione manca la costrizione a considerare noi stessi come fondatori di valori»11. 8ª Tesi. Della filosofia della storia tutto si può dire meno che goda attualmente di buone referenze dopo le critiche di Croce, Popper e di altri. In forma inarticolata spesso però riemerge sotto altre guise, come 232
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accade nelle etiche comunicative le quali, assumendo che l’evoluzione della coscienza moderna dalla religione alla scienza sia irreversibile, adottano una filosofia della storia di impianto neoilluministico e positivistico. Sotto questo profilo vari autori, non escluso Habermas, si manifestano come seguaci di Comte e in parte di Weber: fu infatti Comte a postulare l’irreversibilità della transizione dal livello teologico a quello metafisico, e infine a quello scientifico. La filosofia della storia implicitamente presente nell’etica comunicativa non considera la possibilità che nella successione moderna dei centri di riferimento della cultura possa accadere una ripresa di influenza dei primi due livelli. Occorre ora riprendere il problema del rapporto fra etica comunicativa e fonte religiosa da un altro punto di vista. Al nichilismo il pensiero postmetafisico cerca di sfuggire per la via della prassi, cercando di puntare molto sull’etica e di mettere a profitto per questa le residue ispirazioni teologico-cristiane e bibliche. Che la religione come relazione fra uomo e Dio forse si congedi da se stessa e comunque si oltrepassi nell’etica discorsiva è l’attuale “forma tedesca” di un cammino molte volte tentato nella modernità, ossia la conservazione del cristianesimo in forma d’immanenza e la ritraduzione del messaggio biblico in stimolo morale: «La mia sensazione è che i concetti fondamentali dell’etica filosofica non abbiano ancora “catturato” tutte le intuizioni che nel discorso biblico sono già esposte in maniera assai differenziata […] La filosofia ha una posizione diversa [dalla teologia] rispetto alla religione. Ciò che essa impara dalla religione lo vuole poi esprimere in un discorso autonomo rispetto alla verità rivelata»12. Non è qui inutile attirare nuovamente l’attenzione sul fatto che l’etica di cui si parla nell’indirizzo postmetafisico ha subito una drastica cura dimagrante e si rivolge solo ad una parte del suo campo, quello che concerne i rapporti interumani e più recentemente con l’ambiente: è cioè solo un’etica sociale. Che vi siano altre fondamentali dimensioni dell’etica la postmetafisica lo tace pudicamente, ma in modo coerente poiché la riduzione del campo della ragione etica si pone come esito necessario della restrizione del campo e del compito della ragione speculativa. Qual è il tema che l’etica comunicativa sembra aver finora preso sottogamba? Lo possiamo introdurre così: è in grado una filosofia postmetafisica, che nella sua chiara secolarità voglia volgere lo sguardo verso il messaggio biblico di liberazione e tradurre nel proprio linguaggio i contenuti di quello, renderli efficaci generatori di azione coerente? Come può l’etica postmetafisica del discorso, che sacrifica necessariamente l’idea di filosofia/ragion pratica quale livello di conoscenza rivolto a dirigere l’azione, uscire dal discorso e raggiungere 233
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la prassi e la volontà? Si tratta di un problema del più alto rilievo, che include svariati aspetti fra i quali ad uno qui dedichiamo un cenno. Occorre cioè interrogare se la traduzione laicizzata dell’universalismo, della fratellanza egualitaria (il prossimo del Vangelo) e dell’amore agapico che sgorgano dalla rivelazione ebraico-cristiana possa continuare a nutrire l’etica secolarizzata nel momento in cui questa cerca di riappropriarsene, lasciandone programmaticamente fuori la sorgente. Ora una risposta persuasiva non si incontra nell’etica comunicativa, la quale continua a nutrire la speranza di riscuotere laicamente sul suo piano il profitto emanante dall’ambito biblico. Inevasa rimane però la domanda se ciò sia esistenzialmente possibile, se cioè la coscienza reale secolarizzata, che pur intende prendere le mosse dalla laicizzazione dello slancio agapico, non si palesi in merito inefficace e non rischi di pervenire a un disastroso esito antifraterno. Qui un’alta prestazione di teoria morale finisce per rivelarne il carattere esistenzialmente impotente: come mantenere il postulato agapico se si prescinde dalla sua fonte? Quale teoria morale potrà metterci al riparo da un io scatenato? Sarà possibile per un’etica procedurale e astratta porsi anche come moralmente cogente? L’abbandono dell’intellettualismo esistenziale (che, come vedremo, si compie in volontarismo esistenziale) per la postmetafisica e la declinazione della teoria morale nel senso della ragione procedurale e comunicativa produce esiti incresciosi, poiché rende meno comprendente l’approccio all’etica, mette fra parentesi il desiderio, forse pensando di addomesticarlo con la norma, rischia di fraintendere il carattere dell’obbligazione morale e soprattutto abbandona la ragion pratica. «Con la teoria dell’agire comunicativo, io ho scelto una via diversa: al posto della ragion pratica subentra la ragione comunicativa. E non si tratta solo di un cambio di etichetta […] la razionalità comunicativa non è una facoltà soggettiva che prescriva agli attori che cosa essi devono fare. A differenza della figura classica della ragion pratica, la ragione comunicativa non è direttamente produttrice di norme di azione»13. Alla ragion pratica almeno parzialmente legislatrice subentra la ragione comunicativa che non senza oscurità è da un lato non-legislatrice e dall’altro autolegislatrice, perché si autovincola a norme intersoggettivamente condivise. Questa fuga verso una teoria astratta, la discutibile ascesi che impone di non scendere verso l’effettualità e di rimanere al formale, l’assunto di limitarsi in sede di teoria morale all’elemento procedurale ignorando nella maniera più sorprendente il riferimento all’uomo – silenzio antropologico che pone in non cale che l’etica è per l’uomo non per altri – costituiscono fattori estesi oltre l’etica comunicativa, e spia di una condizione debilitata della teoria morale postmetafisica14. 234
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Collocandosi sulla scia di Kant l’etica comunicativa laicizzata procede alla “riduzione morale” del cristianesimo – una sorta di nuova Religione entro i limiti della sola ragione – in cui la fede teologale e l’elemento schiettamente trascendente sono intesi come simbolo e forse contenuto mitico che rinviano solo all’intersoggettività etica nella quale la regola suprema è la reciprocità e il pari rispetto, non la “follia” dell’agape. Questa resiste ad ogni secolarizzazione: se per essenza è amore divino di dilezione che si riverbera e nutre l’amore umano, questo non può che dissecarsi se si prescinde dalla sorgente. La morale della giustizia, sostanziata di universalismo morale, uguaglianza di dignità e pari rispetto per chiunque, difficilmente si sostiene senza il lievito della charitas. Viene qui in taglio un cenno all’obbligazione morale quale concetto reggente dell’etica, cui si accompagna nelle etiche comunicative una torsione del suo significato, già avviata da Kant: l’obbligazione radicale nei confronti del bene e contro il male, espressa nel primo principio della ragion pratica: “fai il bene, evita il male”, si depotenzia e si trasforma in autoobbligazione, autolegislazione e autovincolamento del soggetto verso se stesso. Ora obbligazione verso il bene e autolegislazione non possono coordinarsi se non alla condizione che la prima preceda e fondi la seconda, ossia che nel mio autovincolarmi io mi obblighi verso il bene. Che occorra fare il bene ed evitare il male è l’esperienza immediata, schietta ed universale della coscienza morale, la quale solo successivamente può ricostruirla con un certo grado di artificiosità nel senso dell’autolegislazione. Quest’ultima sarà tanto meglio rischiarata quanto più si comprenderà che la coscienza morale, anche trascendentalmente intesa, non è mai costitutiva e strutturante l’ordine morale, ma sempre coscienza deliberativa. Viceversa nell’etica di Kant e successivamente in quelle comunicative il concetto di obbligazione verso il bene e contro il male non esercita una regìa chiara: il bene sembra privatizzato e il primo principio pratico è posto in angolo con l’esito già segnalato di depotenziare la ragion pratica in ragione comunicativa. L’obbligazione è sostituita dall’autoobbligazione, dall’autovincolarsi non più al bene contro il male, ma a regole di reciprocità e di uguaglianza intersoggettiva. Coerente è perciò l’esito debolistico di una teoria morale che, invece di fondarsi sull’idea del bene quale concetto reggente e generatore del sapere morale, ha incoronato al suo posto la norma nella forma dell’autovincolamento a regole che obbligano solo verso l’altro uomo. Si perpetua così il grandioso equivoco introdotto da Kant nella scienza morale, da cui questa non si è ancora ripresa, consistente nel mettere fra parentesi il bene, nel farla ruotare intorno alla norma, nel tentare di ricostruire tramite l’apriori la 235
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scienza morale e infine, last but not least, nella più abissale negligenza esercitata verso la conoscenza per inclinazione o connaturalità, che è il modo tipicamente prefilosofico (totalmente trascurato dalla maggior parte delle filosofie morali della modernità), con cui l’uomo si rapporta al valore morale e al regno dell’etica. 9ª Tesi. Noi avremmo bisogno di qualcuno sufficientemente dotato per mostrare, scrivendone analiticamente la storia, che il processo che va dalle altezze assolute della filosofia della coscienza allo “sfondamento” del contestualismo radicale, in cui gli standard di razionalità sono pratiche sociali convenzionali e di valore fattuale, era in non lieve misura predeterminato. Le tappe che hanno presieduto alla transizione sembrano esser state il progetto dell’ermeneutica radicale, che sostituisce la comprensione di testi alla conoscenza dell’esistenza, la dissoluzione linguistica dell’essere, per cui l’essere è (solo) linguaggio, e la progressiva emarginazione teoretica del problema della verità. Tuttavia il contestualismo radicale, determinandosi come postmetafisico, non è in pari con se stesso, perché la sua opzione “antiontologica” è un puro contingentismo, cioè una metafisica di alto rilievo, in cui l’universalità della contingenza importa che ogni cosa potrebbe essere diversa da come è: i fondamenti della razionalità, le norme della morale, le regole della logica, ecc. Nell’indifferenza del contingentismo rispetto all’essere o al non-essere, e nella conseguente distruzione di ogni forma di necessità, stanno le premesse del suo nichilismo, teoretico prima e poi morale. Difficilmente l’etica della comunicazione appare in grado di arrestare, col richiamo alla prassi linguistica volta all’intesa, la piena risoluzione della filosofia entro le scienze umane e sociali. Infatti ogni forma di “scienza”, compresa la filosofia, è ritenuta investita da un universale fallibilismo: «il fallibilismo ha preso possesso così estesamente del pensiero moderno, al punto che il tentativo di mettere la filosofia in contrapposizione alla scienza, ha perso qualsiasi plausibilità»15. Si conferma così che anche nell’approccio comunicativo, la filosofia è, secondo l’antico modulo positivistico, solo una metascienza, che ora fa riferimento alle Geisteswissenschaften più che alle scienze naturali, non possedendo più né oggetto né metodo suoi propri, né un proprio accesso alla realtà. Nel suo antifondazionalismo la gnoseologia habermasiana opta per una svolta antiplatonica, che è quanto viene esplicitamente domandato al pensiero postmetafisico e alla teologia16, in una dialettica che conduce alla filosofia della storia e poi alle scienze umane e sociali, nel passaggio dalla filosofia della coscienza a quella del linguaggio. In ta236
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Note 1
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le processo si è operata: 1) una detrascendentalizzazione della ragione, che coincide con l’ingresso nella postmetafisica e che peraltro colpisce solo le filosofie uscite dal cogito, che operarono la trascendentalizzazione del pensiero; 2) una flessione storicistica, denotata dall’idea che la conoscenza dell’essere valesse come appannaggio di epoche storico-culturali ormai concluse. Per tanti versi il modello storicistico fa da contrappunto obbligato della perdita della teoria e di un profilo unitario della ragione: in effetti la sua unità riposa sull’unità analogica dell’oggetto/essere verso cui è rivolta. Non ponendo a tema il rapporto di fondazione trascendentale dell’ente nell’essere, il pensiero postmetafisico mal si difende dallo scivolamento verso un’idea di filosofia come cultura e consapevolezza delle epoche.
Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 14 s. 2 Sull’etica del discorso in Apel e Habermas cfr. il nostro studio: “Prospettive sull’etica. A proposito delle etiche del discorso/comunicazione”, in Essere e libertà, cap. VII. 3 «Trascurando la linea aristotelica, con una rozza approssimazione, chiamo “metafisico” quel pensiero, risalente a Platone, che è una forma di idealismo filosofico e che, attraverso Plotino e il neoplatonismo, Agostino e Tommaso d’Aquino, Nicolò Cusano e Pico della Mirandola, Cartesio, Spinoza e Leibniz, giunge a Kant, Fichte, Schelling e Hegel», p. 32. Sembra che l’estrema sommarietà di questa classificazione non sfugga allo stesso autore. 4 Dialogo su Dio e il mondo, Intervista di E. Mendieta con J. Habermas, «Teoria politica», XV, 1999, p. 431. 5 «Dopo aver abbandonato la pretesa di essere Prima Scienza o enciclopedia, la filosofia non può per principio affermare il proprio status nel sistema scientifico, né assimilandosi a singole scienze esemplari, né distanziandosi in modo esclusivo dalla scienza. Essa deve compromettersi nell’autocomprensione fallibilistica e nella razionalità procedurale delle scienze sperimentali; essa non può pretendere né un accesso privilegiato alla verità, né un proprio metodo, né un ambito oggettuale, o anche soltanto un proprio stile intuitivo», p. 41. 6 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1987, p. 213 s. Nonostante l’adesione al fallibilismo non pare che Habermas aderisca alla posizione estrema del razionalismo critico di Albert, per il quale «tutte le certezze conoscitive sono autofabbricate e pertanto irrilevanti», Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna 1973, p. 44. 7 Il discorso…, p. 298. 8 Cfr. Testi filosofici e contesti storici, pp. 148 e 130.
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9
Ivi, p. 129. Cfr. Contra Gentiles, l. III, c. 71. 11 Nietzsche, Frammenti postumi, vol. VIII, tomo 1, Adelphi, Milano 1975, p. 303. L’ultimo Habermas di Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (Einaudi, Torino 2002), chiede che la componente secolare riesca a «mantenersi sensibile alla forza di articolazione dei linguaggi religiosi» (p. 107). 12 Teoria politica, p. 433 s. 13 Fatti e norme, a cura di L. Ceppa, Guerini, Milano 1996, p. 11 s. 14 Nelle etiche comunicative all’io viene riconosciuto il valore assiologico, ossia il per sé, non il carattere originario dell’in sé o della sostanzialità: ciò rende estremamente difficile assegnare un significato fermo all’idea di dignità dell’uomo e alla vita umana nelle sue varie fasi, in specie prenatali e terminali. Il carattere ontologico-sostanziale dell’io personale non è affermabile secondo Habermas, dal momento che il suo valore emerge solo dopo la nascita entro la rete dei rapporti linguistici e morali del nuovo nato con gli altri: «Solo nella sfera pubblica di una comunità linguistica, l’essere di natura si costituisce come individuo e come persona dotata di ragione» (Il futuro della natura umana, p. 37). In omaggio alla postura postmetafisica il concetto di natura/essenza umana risulta complessivamente bandito in recto, talvolta recuperato in obliquo. La pointe del libro, concernente complesse questioni antropologiche e bioetiche, sembra vertere sul “nuovo” diritto a un patrimonio genetico non manipolato, affinché il rapporto normativo di persone che si portano mutuo ed uguale rispetto, non venga compromesso da introdotte disuguaglianze e manipolazioni genetiche. 15 Il pensiero postmetafisico, p. 270. 16 Cfr. Testi filosofici…, p. 141.
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Capitolo ottavo
1. L’ascesa dell’ermeneutica
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Le due strade dell’ermeneutica
La qualifica di pensiero postmetafisico non si applica solo al contestualismo e alla svolta comunicativa di vario segno, dal momento che entro quell’ambito si collocano pure considerevoli settori dell’ermeneutica. Ormai questa – lungamente intesa come un sapere settoriale vertente soprattutto sull’interpretazione biblica e su quella giuridica, e che Schleiermacher definiva come l’arte di cogliere con intuizione necessaria i pensieri di uno scrittore in base al suo modo di esporre –, si pone come disciplina a sé stante con una propria autonomia e con non nascoste ambizioni di valere come metodo filosofico generale. A tale esito si è perlopiù pervenuti mediante l’innesto del problema ermeneutico sul tronco della fenomenologia, talvolta su quello dell’esistenzialismo, oppure attraverso una filosofia del Dasein imperniata intorno ad un’ontologia del comprendere, ove quest’ultimo non vale in primo luogo come modo di conoscenza ma come modo d’essere o esistenziale fondamentale. Prima di Gadamer e di Ricoeur, negli anni ’40 e ’50 Pareyson già poneva il problema dell’ermeneutica non come tecnica interpretativa di testi, ma come l’organo stesso della filosofia, come un sapere che, pur differendo molto da quelli sperimentali e dimostrativi, poteva raggiungere il vero1. Non dimenticando la svolta critica di Kant, e assumendosi l’onere di accettarne come insuperabili le posizioni sulla verità, la conoscenza e l’essere, il pensiero ermeneutico si svolge nella ricerca di un accesso al reale in cui il massimo rilievo viene attribuito al nesso “esserci-linguaggio-mondo”, entro un approccio alle scienze dello spirito tematizzato da Dilthey, Heidegger, Gadamer. L’ermeneutica conosce da tempo (particolarmente in Italia) un notevole prestigio, che l’ha condotta a sostituire le correnti dominanti fino a circa trent’anni fa, in specie l’esistenzialismo, il marxismo e per 239
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certi aspetti lo strutturalismo. Si è anche parlato di un’“età ermeneutica della ragione” (J. Greisch), non senza osservare che tale epoca sta declinando in vari contesti filosofici (soprattutto l’anglosassone, dove non ha mai riscosso acuta attenzione), per cui oggi essa forse non rappresenta più la koiné filosofica prevalente neppure del pensiero continentale. Una delle sue origini si colloca nello svolgimento che, partendo da Husserl e dalla fenomenologia conduce ad Heidegger ed oltre. Mentre nel primo la coscienza è pura, nell’altro è “fattica”, non trascendentale, storica, situata nel mondo e nel linguaggio: tale è il Dasein. Poiché la verità ermeneutica non è oggettiva ma “soggettiva” nel senso che è condizionata storicamente e linguisticamente, essa è in modo speciale termine di atti di comprensione-interpretazione. Compresa a partire dalla situazione del soggetto, la verità ermeneutica deve esser fatta propria dal soggetto: non c’è vera interpretazione se non accade anche un’applicazione soggettiva. Mentre le scienze filologiche accertano il significato ricercando quale sia il senso autentico di un testo, l’ermeneutica intende unire significato e verità entro un accadere che è un evento del soggetto e per il soggetto. In essa si procede dunque da un’esperienza ad una maggiore, rimanendo però difficile fissare nel concetto il processo, perché l’esperienza è raggiunta nella sua singolarità. Sembra ad essa precluso il salto qualitativo interno con cui potrebbe elevarsi a sapere universale, se è vero che la validità universale sembra un limite asintotico irrangiungibile per la maggior parte degli assunti ermeneutici. Vi sarebbe in ciò un rifiuto, giustificato ma espresso in modo fallace, del sapere assoluto di Hegel e della sua dottrina del concetto, che infine divora esistenza ed esperienza? L’ipotesi non è tanto peregrina, se si pone mente alla nascita dell’esistenzialismo dalla dissoluzione dell’hegelismo, nonché alla frequentazione esistenzialistica di un filone dell’ermeneutica (tale sembra il caso di Pareyson). In tale cammino immanente era il rischio che il rifiuto di Hegel e della sua logica, comportasse il rigetto di ogni forma di conoscenza concettuale obiettiva, in cui l’universale del concetto non annulli la ricchezza dell’esperienza. È naturale che alla fioritura dell’ermeneutica abbia corrisposto e corrisponda una pluralità di atteggiamenti. Possono questi venir ricondotti ad unità, ad un criterio formante comune, nonostante la difficoltà dell’ermeneutica di affrontare il problema della sua giustificazione e di mettere a punto un proprio metodo? Propendiamo a rispondere positivamente, individuando l’assunto comune alla “scuola” come segue: l’essere non è conoscibile obiettivamente né definibile; è piuttosto interpretabile; la conoscenza dell’essere concessa all’uomo è inter240
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pretativa, non teoretico-svelante. L’ermeneuticità dell’essere si fonda ultimamente nell’esistenza dell’uomo inteso come rapporto con esso, e perciò per essenza capace di una interpretazione di questo sempre personale, indefinitamente approfondibile, mai conclusa2. L’accento posto sulla persona come singolarità assoluta conduce all’idea dell’io come prospettiva unica e irripetibile sulla verità, intesa appunto come insieme delle infinite prospettive sul Vero. Nella nascita dell’ermeneutica si sconta il limite, presente in vario modo nelle correnti da cui è sorta, di aver ritenuto sbarrata la strada per una prensione noetica dell’esistenza come tale. Il cammino mai finito dell’interpretazione rimane l’unico modo con cui lo spirito umano può stare dinanzi al vero: l’infinito dell’interpretazione si sforza di far fronte all’infinito del vero entro la costitutiva finitezza dell’esserci. L’ermeneuticità dell’essere comporta che il pensiero veritativo sia fondamentalmente ermeneutico, non apofantico: della verità si possono dare interpretazioni strutturalmente molteplici, storiche, prospettiche, non percezioni conoscitive di tipo concettuale disvelante. Nell’approccio ermeneutico la fondamentale struttura assertiva-dichiarativa che appartiene al linguaggio (senza peraltro esaurirlo), è considerata secondaria o lasciata da parte a favore dell’idea che, possedendo il conoscere una struttura universalmente interpretativa, il linguaggio sia la mediazione totale dell’esperienza umana dell’essere: «Il concetto di asserzione […] è all’estremo opposto rispetto all’esperienza ermeneutica e in genere rispetto alla linguisticità dell’esperienza che l’uomo ha del mondo»3. Nella dottrina della linguisticità dell’esperienza umana del mondo rimane aperta la possibilità, che l’oggetto ultimamente raggiunto dal conoscere sia costituito dal linguaggio piuttosto che dal reale. Sembrano parte del nucleo centrale dell’ermeneutica le idee che l’approccio all’essere sia sempre mediato attraverso il Dasein e indiretto; che all’apofansi si debba riconoscere al più un valore subordinato e secondario, destituendola perciò dal livello primario che ha occupato nella tradizione, e sostituendo un’ontologia ermeneutica indiretta ad una concettuale diretta. All’allontanamento dalla obiettivazione giudicativa in filosofia corrisponde il suo confinamento alle scienze positive, che trattano singole regioni dell’ente, di modo che l’edificio della conoscenza risulterebbe scisso in due tronconi: quello dell’ermeneutica in cui il rapporto con l’essere è mediato dalla compromissione del soggetto nell’esistenza; e quello scientifico dove quel rapporto è oggettivante. Con il proscenio assegnato al discorso sull’uomo, che solo successivamente raggiunge il livello del discorso sull’essere, l’ermeneutica deve contendere con i problemi della condizionalità storica 241
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del filosofare, della costitutiva molteplicità dell’interpretare, della difficoltà di conciliare quest’ultimo elemento con l’unicità del vero senza declinare verso lo scetticismo o il relativismo. Sostenitori e detrattori dell’ermeneutica potranno comunque convenire che una certa ambiguità le è inerente, nel senso che nella sua sfera si intrecciano i due momenti dell’interpretazione di testi e dell’interpretazione dell’essere, senza che sia facile districare l’uno dall’altro. I testi stessi possono venire intesi come documenti del rapporto con l’essere, in un cammino che dal mythos conduce al logos. Nel processo di dislocazione dell’ermeneutica da sapere settoriale a metodo generale del filosofare, sono grosso modo venute emergendo due linee, che con una certa approssimazione potremmo chiamare la linea dell’ermeneutica moderata e quella dell’ermeneutica radicale e decostruttivistica. Tanto la prima non è basilarmente antirealista, altrettanto lo è la seconda, che senza reticenza elegge per sé l’appellativo di nichilistica. Impiegando una classificazione a cui fa ricorso (applicandola alla eredità heideggeriana) G. Vattimo in Oltre l’interpretazione, il primo versante ermeneutico potrebbe denominarsi di “destra”, il secondo di “sinistra”: su essi, nei quali si raccolgono vari esiti del pensiero di Husserl, Dilthey ed Heidegger, vorremmo ora soffermarci. Anche nell’impresa ermeneutica molto o forse tutto potrebbe dipendere da quanto Ch.S. Peirce chiamava lo “scontro con l’esterno”, di cui i pensatori antirealisti sembrano mancare più o meno incisivamente. Una questione centrale dell’ermeneutica si manifesta nell’accertare se lo “scontro” con il testo e/o con i plurimi livelli della coscienza simbolica, se il rapporto mediato con l’essere costituiscano atti conoscitivi sufficienti per dare forma alla filosofia; o se invece in tale prassi testo e coscienza simbolica debbano necessariamente esser compresi come rinvio al di là di loro stessi, oltre le problematiche dell’esegesi e del linguaggio, verso il problema centrale di ogni filosofia: il problema dell’essere, che sporge oltre il circolo dell’interpretare. Ogni atto interpretativo è portatore di un rischio, dovuto alla pluralità di strati e di sensi del testo, alla distanza obiettiva tra esso e l’interpretante, all’inesauribile ermeneuticità dell’essere, che sempre si dà in maniera situata al soggetto interpretante. Tale rischio va corso ma anche controllato da elementi non ermeneutici. Se, come si esprime Ricoeur, l’ontologia ermeneutica non si presenta come un’ontologia trionfante proprio a motivo del “pericolo” insito nell’interpretare4, ciò accade a mio avviso per motivi corposi. L’ermeneutica tocca l’esistenza sempre e solo come esistenza interpretata a partire da testi, simboli, “miti”; la tocca restringendola all’esistenza del Dasein quale produttore di testi e di linguaggio entro lo spazio proprio delle scienze del242
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lo spirito, oppure a partire dalla risonanza in certo modo estatica dell’essere colto sotto una certa prospettiva entro il soggetto; non la raggiunge come esistenza in quanto esercitata dalle cose, dove l’intelletto in una suprema attuazione di se stesso attinge nel giudizio di esistenza il loro atto d’essere. Senza calcar il tratto, si potrebbe aggiungere che vari settori dell’ermeneutica non cercano forse un sapere sull’essere, paghi di starsene ad un’analitica dell’esistenza umana che per la sua illimitatezza costituisce anch’essa un compito infinito. Nonostante il posto immenso e pluriforme che il simbolo occupa nella vita, una conoscenza che si arrestasse solo al simbolo non sarebbe ancora una conoscenza adeguata dell’essere, poiché è costitutivo del simbolo alludere o rinviare oltre se stesso. Pertanto l’ermeneutica consapevole di sé e dei propri limiti non potrebbe ambire a porsi come filosofia prima, in ragione del fatto che l’esistenza di cui tratta un’ontologia ermeneutica resta sempre un’esistenza interpretata. Quella che abbiamo denominato “ermeneutica moderata” intende appunto l’approdo all’ontologia (un’ontologia integrale, non più solo ermeneutica) come l’ingresso nella terra promessa per Mosé: si può intravedere da lontano, non vi si può entrare da soli. In quanto proveniente da uno dei padri dell’ermeneutica contemporanea, l’immagine ricoeuriana sulla terra promessa veicola una valenza e un “pregiudizio” positivi sull’ontologia, che non è superfluo sottolineare. Nell’ermeneutica radicale si prende altro cammino, nel senso che l’atto ermeneutico posto in essere dalla mente non esigerebbe un fondamento reale, potendo il soggetto interpretante creare liberamente visioni delle cose entro vari giochi linguistici autoreferenziali. Quando l’antirealismo implicito in questa versione dell’ermeneutica proceda sino alla massima coerenza, perviene all’esito secondo cui non esiste nulla al di fuori del testo e delle molteplici combinazioni linguistiche che esso consente, le quali valgono come relazioni tra segni non rinvianti a nulla di “esterno”: esistono nella mente delle idee, ma esse rappresentano solo se stesse. Posizioni in cui si verifica un curioso nesso con l’attacco al “rappresentazionalismo” da parte di un Davidson (e di un Rorty), per il quale «è bene disfarsi delle rappresentazioni, e con esse della teoria della verità come corrispondenza […]»5. Di conseguenza non risulterebbe più interessante distinguere fra proposizioni vere che corrispondono ai “fatti”, e quelle che non vi corrispondono; e la filosofia (ammesso che se ne possa ancora parlare) diventerebbe un “libero discorso” non distinguibile da altre pratiche letterarie. Perderanno ogni interesse problemi come la relazione fra mente e mondo, o fra linguaggio e mondo, e in generale il tema del rappresentare, tanto che Rorty conclude: «Se non ci sono significati da analizzare, se esi243
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ste soltanto una massa contorta di proposizioni intrecciate […] allora forse non ci sono questioni centrali o fondazionali in filosofia. Potrebbe restare soltanto una filosofia come un curiosare»6. A questo apice la riflessione appare discorso che si autoisola e che – abbandonando l’argomentazione come rendere ragione (logon didonai) e con essa non di rado le domande centrali della tradizione filosofica, ritenute non più interessanti –, nelle forme più spinte abolisce la diversità tra filosofia e letteratura. In questo aspetto sta una delle valenze dell’ermeneutica di sinistra, condotta dal suo antirealismo ad un coerente nichilismo teoretico che ormai, dismessi i paludamenti speculativi heideggeriani che finivano per svolgere una funzione di mascheramento, si dichiara come tale. In essa la scissione fra ordine ideale e reale è completa, per cui niente può render vero alcun enunciato o teoria. Non è impossibile intravedere che tale scissione comporti quella tra verità e realtà, entro cui si colloca la fine della filosofia o, più esattamente, di quella forma di filosofia che, avendo abbandonato la domanda sull’essere e sul reale, provvede ad autosopprimersi.
2. L’ermeneutica di sinistra Uno dei maggiori rappresentanti dell’ermeneutica di sinistra è Gianni Vattimo, il quale esattamente ne individua il senso originario nella vocazione nichilistica, ossia nell’idea – formulata un tempo da Nietzsche – che non esistano fatti bensì soltanto interpretazioni (e anche tale asserto come quello sulla vocazione nichilistica dell’ermeneutica dovrebbe venir inteso solo come interpretazione, in un indefinito rinvio o circolo, in cui non residua nulla che stia fermo). Là dove Nietzsche ha dato l’avvio con la sua inimitabile capacità divinatoria, Heidegger conclude; di modo che l’ermeneutica radicale non può che collocarsi entro il percorso che dall’uno conduce all’altro e poi al filone post-heideggeriano. In che senso si può sostenere che in Heidegger si conclude un percorso iniziato in Nietzsche? Nel senso secondo cui (cfr. cap. VI) per Heidegger va affermata la priorità della comprensione progettante e della interpretazione sulla asserzione apofantica, di modo che il sapere dichiarativo non esprime stati di realtà, bensì vale solo come modo derivato dell’interpretazione e della comprensione, alla luce di un primato dell’ermeneutica su ogni scienza dell’essere7. Nella parabola che conduce l’ermeneutica radicale verso un rischioso nichilismo teoretico, il compito reggente è svolto dall’intendere l’essere come evento entro un processo declinante degli orizzonti di senso e dal rifiuto dell’idea di verità come corrispondenza. In questa 244
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prospettiva sembra doversi ravvisare l’esito culminante dell’opzione antirealistica pronta a non rinnegarsi, costi quel che costi. Anzi proprio in questo consisterebbero la vera novità e l’autentico vanto dell’ermeneutica di sinistra, decisa a rinunciare a quella forma di realismo che in varia misura nutre le imprese ermeneutiche di Gadamer, Pareyson e Ricoeur, attraverso il riferimento ad un mondo oggettivo di opere e linguaggi tramandatosi storicamente nel primo, o alla sfera del “mito” e del simbolo religiosi negli altri due; nonché a quel serbatoio di significati che circola nella Lebenswelt e che pare costituire un presupposto notevole del pensiero di Habermas. L’assunto ermeneutico radicale, dichiarato in Oltre l’interpretazione, merita un’attenzione non episodica, anche per l’impasse in cui a nostro avviso rimane impigliato (tesi analoghe erano già presenti in La fine della modernità, 1985). Si tratta di un testo in cui esplicita è la consapevolezza del pensiero moderno come pensiero dell’avvento del nichilismo: una valutazione che parrebbe confermare, sulla scorta di assunti tanto diversi dai nostri, la diagnosi di nichilismo in questo volume formulata per una parte almeno del moderno filosofico. Quando l’ermeneutica nichilista riflette su se stessa, riconosce di svilupparsi sotto l’influsso di una critica antirealistica al concetto di verità, dove per un fatale equivoco il conoscere è inteso come “rappresentazione” e non come “identificazione spirituale all’oggetto nel e col concetto”. Traendo da Nietzsche l’idea che non esistono fatti ma solo interpretazioni, e da Heidegger la critica all’idea di verità come conformità, il filosofo torinese sostiene che «l’ermeneutica non è solo una teoria della storicità (degli orizzonti) della verità; è essa stessa una verità radicalmente storica»8. La verità non vale dunque come la conformità o l’adeguazione tra l’atto dello spirito che unifica due concetti in un giudizio, e l’esistenza di una cosa in cui si realizzano tali due concetti, bensì si presenta come semplice interpretazione che non potendo esibire ragioni persuasive, propone se stessa. In questo versante dell’ermeneutica si riscontra l’eredità radicalizzata dello storicismo europeo giunto al compimento e forse alla fine. L’ermeneutica radicale dichiara coerentemente di respingere «proprio la concezione della verità come rispecchiamento oggettivo di stati di cose»9, che continuerebbe a valere solo nel campo delle scienze positive. Con ciò la filosofia, cui si nega la possibilità di asserire alcunché riguardo all’esistenza, all’inesistenza e all’essenza, dovrebbe tramutarsi da scienza teoretica in attività estetico-poetica, comunque sempre storica: le scienze teoretiche che portano sulla realtà sono infatti per loro natura un tentativo di dire come stanno le cose, cioè inte245
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grano nel modo più intrinseco proprio la concezione della verità come conformità del pensare all’essere, che l’ermeneutica nichilistica intenderebbe cancellare10. Gli antefatti delle tesi nichilistiche di Vattimo sulla priorità dell’“apertura ermeneutica” sulla “conformità scientifica”, e sulla insuperabile storicità dell’interpretare entro determinate culture ed esperienze, sarebbero da rintracciare in Essere e tempo, in specie nell’idea già richiamata che l’interpretazione si fonda esistenzialmente nella comprensione, e che l’una e l’altra, basate sull’apertura dell’Esserci il quale di per sé esiste nel modo del comprendere, sono più originarie e primarie dell’asserire e del theorein. Semmai la novità dell’ermeneutica di sinistra risiede nell’evento per cui le strutture culturali, elaborate da specifiche umanità storiche, vengano inflesse nel senso del declino e della tradizione indebolente. Di conseguenza nessun asserto può venir interpretato come affermante qualcosa di obiettivo sull’essere, ma solo come un “racconto della modernità”, che può stare accanto ad altri, diversi e magari contraddittori “racconti”, accomunati dall’idea che il pensare significhi fondamentalmente interpretare testi entro i linguaggi e le forme di cultura delle singole epoche. Forse la nuova ermeneutica vorrebbe, dopo aver tentato di abbandonare l’idea di verità come conformità, introdurne una nuova, analoga a quella heideggeriana della verità come libertà? Se la verità come corrispondenza è intesa dai postheideggeriani come qualcosa di secondario rispetto all’“apertura previa” e valevole per le sole scienze, essi non si interrogano su che cosa accada noeticamente in tale apertura. Quid est veritas? Pilato pose frettolosamente a Gesù l’interrogativo, ma non attese la risposta. Vorrà l’ermeneutica di sinistra porre nuovamente a se stessa la questione, e pazientare un poco nella risposta? Se si concedesse un po’ di agio nel ripercorrere l’heideggeriana Sull’essenza della verità, forse coglierebbe il punto preciso, individuabile nel momento antepredicativo, in cui in Heidegger nasce l’equivoco, come si è cercato di chiarire nel cap. VI, e che in buona sostanza consiste nel rifiutare l’essere come termine dell’atto noetico. Vattimo ha più ragione di quanto forse immagini nell’insistere sul carattere etico oltreche teoretico dell’attacco alla metafisica in Heidegger11. Sostenendo che il merito dell’ermeneutica debba venire ravvisato nella liquidazione, esplicitamente con Heidegger ma già prima virtualmente con Nietzsche, dell’ideale metafisico della verità come conformità12, si coglie con acutezza uno snodo essenziale di quanto abbiamo chiamato “nichilismo teoretico”, e nel contempo si porta a compimen246
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to la nichilistica consumazione del principio di realtà. Con ciò la causa della conoscenza e della filosofia è fondata su qualcosa di fallibile e di perituro, che da se stesso si consuma, ossia in ultima istanza sul nulla. Il contrappasso gnoseologico di questa forma di nichilismo, che impiega il discorso allusivo, evocativo, metaforico, è la separazione fra verità e realtà, esplicitamente affermata. Ne consegue che né il vero è reale, né la realtà è vera: il vero non è inteso come un volto dell’essere, ossia come l’essere in quanto posto dinanzi al pensiero, ma come libera creazione dove in linea di principio non vi sono motivi per sostenere una posizione piuttosto che un’altra. Per l’ermeneutica di sinistra esistono cause delle affermazioni, non cause della verità delle affermazioni. Con la separazione fra verità e realtà entrambi i concetti perdono senso: il primo lo perde in quanto l’idea intrascendibile di verità come conformità del pensiero all’essere, manifesta che il vero è relativo al reale e presuppone un’originaria apertura della mente a quest’ultimo; l’altro perché non sembra più noto che cosa sia il reale. Perciò all’origine del rifiuto dell’idea di adaequatio/conformità deve individuarsi una radicale scissione fra pensiero ed essere, un assoluto dualismo (ancora Cartesio e Kant!) che di crisi in crisi raggiunge l’acme, per cui il pensiero, operando non più teoreticamente ma poeticamente, può sentirsi abilitato a sostenere i più vari asserti, poiché in ultima istanza non è tenuto in ordine dall’essere, ma per così dire gira su se stesso. Non si dà perciò nessun principio del sapere: non nella realtà, come pensano i realisti, e neppure nell’Io come riteneva l’idealismo trascendentale del giovane Schelling. Messo da parte il rapporto originario fra pensiero ed oggetto, al concetto di verità come conformità viene sostituito quello di verità come apertura definito in termini esclusivamente metaforici: «Della verità come apertura […] parlerò in termini di abitare»13. L’applicazione all’idea di verità della figura dell’abitare, in cui si esprimono la storicità, la mutevolezza, la non-universalità, il localismo del nesso fra conoscente e conosciuto, costituisce segno qualificato dell’abbandono della conoscenza reale, e dell’esito nichilistico dell’ermeneutica radicale, assai più di quanto non possa accadere con il simbolo. Posti in scala secondo l’indice di realtà che incorporano, dapprima viene il concetto, in cui e mediante cui accade l’identità intenzionale fra pensiero ed essere, e la cosa viene conosciuta; poi si colloca il simbolo, che veicola una struttura intenzionale che mira al di là di se stesso, verso un’immediatezza di secondo ordine; infine la metafora, la quale veicola la carica intenzionale più debole. L’abbandono del concetto e del simbolo, e la loro sostituzione con la metafora, sembra costituire il destino dell’ermeneutica di sinistra nel suo abbandono dell’universale. 247
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Gli asserti filosofico-ermeneutici valgono infatti come locali, comprese le “proposizioni vere”, riportate al cosmo culturale dell’Europa occidentale moderna (cfr. p. 119). Pertanto le ragioni per preferire una concezione ermeneutica ad una metafisica sono riportate soltanto all’eredità storica (cfr. p. 10). Dobbiamo pensare che nell’atto noetico l’intelletto operi totalmente determinato dal contesto storico-culturale, per cui si darebbe un “intelletto dopo Nietzsche”, “un intelletto dopo Marx”, “un intelletto dopo Heidegger”, e così via? Dopo tutto non è così strano che l’intelletto conosca qualcosa senza aver bisogno di passare per questo o quell’autore. La natura del conoscere ontologico, in quanto si colloca prima e al di là dell’Erklärung della spiegazione scientifica e del Verstehen ermeneutico, e in quanto coinvolge l’accesso all’universale, non sta soltanto dentro aperture storiche ereditate, analoghe alla “gettatezza” heideggeriana. Nel rapporto con l’oggetto nel concetto il pensiero emerge al di sopra del flusso dell’impermanenza, poiché i termini ultimi dell’atto noetico sono costituiti dall’esse e dall’essenza. L’ermeneutica di sinistra non rinuncia ad un giudizio di condanna dell’intera tradizione metafisica, interpretata come una forma unitaria segnata dalla cifra della violenza: con un singolare uso del linguaggio, anche qui inflesso verso metafore arrischiate, il rapporto conoscitivo con l’essere è inteso entro il paradigma della violenza e il fondamento alla stregua di un’istanza autoritaria. Violenza? Autoritarismo? Non sono questi concetti del mondo dell’azione, non idee che possano trovare sede nell’ambito speculativo? L’equivoco in cui incorre il pensiero debole è di trattare il livello teoretico semplicemente come etico, a conferma dell’abbandono di quest’ultimo e del nichilismo inerente al debolismo. Se delle varie metafisiche che nel corso storico della filosofia si sono succedute, sarebbe un errore dissimulare le differenze, non di rado profonde e inconciliabili, appare problematico leggere entro il segno della violenza il conoscere ontologico, che ha il suo luogo nella purezza del semplice “guardare”, nel casto slancio del contemplare, da cui si diparte una chiarità non violenta, dove dimorano fruizione, pace e integrità. Alla filosofia dell’essere non si può addebitare un rapporto dominativo con l’oggetto, come se nel conoscere accadesse il possesso dell’oggetto o un atto di appropriazione14: accade invece l’ingresso in un più alto e spirituale modo d’essere, nel quale i soggetti conoscenti portano immaterialmente in se stessi natura e perfezioni delle cose. Quelli che dal pensiero debole vengono chiamati i concetti reggenti della metafisica, cioè l’idea di una totalità del mondo, di un senso unitario della storia, di un soggetto autocentrato, sono in larga misura i concetti di una particolare metafisica, quella raziona248
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listica dell’Io ponente, incline a cedere al richiamo della volontà di potenza. L’applicazione di categorie cariche di materialità, che sollecitano con un significato troppo pesante il nesso spirituale tra intelletto e oggetto, o l’impiego del lessico della violenza nel trattare il mistero della conoscenza, rischiano di precludere proprio la comprensione di cosa sia il conoscere. Nessun possesso, nessuna appropriazione accadono in quello spirituale fieri aliud in quantum aliud, in cui consistono l’unicità e il mistero proprio del conoscere, ed in cui la “cosa” rimane pienamente intatta nella sua alterità: in verità l’essere è nascosto nella luce e nell’umiltà. Ed anche per la metafisica esistono le beatitudini che riempiono l’universo e tengono unite tutte le cose: beati i puri di cuore, perché conosceranno l’essere; beati i miti, perché lo erediteranno15. Nello slancio storico dei sistemi usciti dall’antirealismo l’ermeneutica radicale rappresenta forse il punto terminale o inoltrepassabile di un processo, che via via si allontana dall’essere e dalla conoscenza reale e si inoltra nel nichilismo, raggiunto attraverso tre piani di indebolimento: l’essere, la ragione, il cristianesimo. Con tale nichilismo si intenderebbe forse porre termine alla filosofia come impresa conoscitiva. Lasciamo indeciso se la partita non sia meno agevole di quanto appaia, o se invece più semplicemente questa ermeneutica non ponga la parola “fine” ad una specifica tradizione: quella che col suo antirealismo procede a togliere se stessa; quella che, prendendo le mosse dal rifiuto dell’originaria apertura del pensiero all’essere, non poteva che giungere alla separazione fra verità e realtà. Ora, se è vero che la filosofia dell’essere si situa nella storia del pensiero contemporaneo oltre lo scacco del nichilismo teoretico in quel processo che lo conduce alla catastrofe, vi sono motivi per ritenere che la possibilità di una filosofia futura giaccia nella ripresa storicamente rinnovata e metafisicamente omogenea della Seinsphilosophie quale casa comune. Una posizione analoga espresse Felice Balbo in Idee per una filosofia dello sviluppo umano (1962): «Il sistema della metafisica dell’essere viene ripreso, non continuando uno dei discorsi filosofici della tradizione, senza “rottura”, ma in quanto, se ha da esservi sviluppo, esso si manifesta come il solo sistema intrinsecamente adeguato al problema […] Gli sviluppi e le scoperte della filosofia successiva debbono essere per principio unificabili nella filosofia dell’essere, se sono veri. La filosofia dell’essere diviene in tal modo ciò che permette di utilizzare, per lo sviluppo umano, l’intero patrimonio filosofico, quale che sia l’impegno e la sconfinata ampiezza del lavoro da svolgere»16.
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3. Intermezzo su Verità e metodo È ben attestata l’importanza di Verità e metodo per la filosofia, soprattutto continentale, degli ultimi decenni: la notorietà delle sue tesi dispensa da un’ampia esposizione. L’opera introduce un concetto di esperienza di tipo non empiristico, assumendo la diversità fra esperimento delle scienze naturali e esperienza, in quanto la seconda modifica il soggetto che la compie per la mutua insidenza e la coappartenenza di soggetto e oggetto che accade soprattutto nel medio del linguaggio. Si procede a rivalutare il concetto hegeliano di spirito oggettivo consegnato in tradizioni fra cui il linguaggio è documento privilegiato, senza accettare l’assunto idealistico dell’irrealtà del finito, anzi collocandosi entro le coordinate di un pensiero non enfatico della finitezza: «Il fenomeno del linguaggio possiede il vantaggio, adeguato alla nostra finitezza, di essere infinito come lo spirito, e tuttavia finito come ogni accadere»17. Sebbene sia affermata esplicitamente l’equazione fra mondo e totalità dell’essere (cfr. p. 518), l’asserto sembra oltrepassato in vari casi e non pare costituire lo sfondo intrascendibile del pensiero di Gadamer. Il linguaggio è comunque inteso non solo come elemento del rapporto soggetto-oggetto, ma anche come dialogo fra soggetto e soggetto attraverso l’esercizio dell’intendersi e la traducibilità universale dei linguaggi nel senso che ogni visione linguistica del mondo è in grado di intenderne ogni altra (cfr. p. 512). Forse in omaggio alla tradizione ricevuta, Gadamer intende mantenere rango primario all’ontologia nella forma di un’“ontologia ermeneutica”, che viene prendendo le sembianze di un’“ontologia linguistica” poiché in essa la mediazione centrale è svolta dal linguaggio: il rapporto all’ente è strutturalmente linguistico e perciò interpretativo. Nella parte terza di Verità e metodo si intende appunto esplorare il passaggio dall’ermeneutica all’ontologia, avendo come “filo conduttore” il linguaggio. Esso «è il mezzo universale in cui si attua la comprensione stessa. Il modo di attuarsi della comprensione è l’interpretazione […] Il fenomeno ermeneutico appare così un caso particolare del più generale rapporto fra pensiero e linguaggio» (p. 447). Ciò verso cui si volge la comprensione, il suo oggetto proprio, è secondo Gadamer la tradizione, che esibisce natura linguistica (p. 445), nell’unità fra pensiero e parola per cui ogni trasmissione scritta risulta sempre fondamentalmente comprensibile. L’elaborazione gadameriana si accosta cautamente al problema dell’essere dopo aver preparato il terreno sotto due fondamentali profili: a) l’originaria connessione nel linguaggio fra spirito e mondo, di cui è emblema la celebre espressione aristotelica anima est quodammodo 250
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omnia. Appoggiandosi su di essa ci si colloca ben al di là del dualismo e si recupera la coappartenenza di soggetto e oggetto/mondo; b) non solo si sostiene l’unità fra pensiero e parola, ma altresì quella di parola e cosa18. In tal modo il linguaggio abbraccia tutto ciò che può divenire in generale oggetto. Ritenendo insufficiente l’elaborazione del Cratilo, per Gadamer «il linguaggio è qualcosa di diverso da un puro e semplice sistema di segni inventato per indicare la totalità degli oggetti. La parola non è solo segno. In un certo senso molto difficile da cogliere, essa è anche qualcosa come un’immagine» (p. 478). Col riferimento all’immagine si compie un passo in avanti notevole. In questa elaborazione del problema influenti risultano le posizioni sul linguaggio della tradizione teologica cristiana con riferimento a Tommaso, di cui si valorizza l’idea che nella produzione della parola non c’è riflessività, perché la parola esprime la cosa che è oggetto del pensiero. In proposito assume rilievo uno svolgimento su “linguaggio e verbum” (pp. 480-490) che non pare aver avuto nella posterità cui il capolavoro di Gadamer ha dato origine, le riprese che merita. «C’è però un’idea che non è greca e che rende meglio l’essenza del linguaggio, per cui l’oblio di tale essenza che si verifica nel pensiero occidentale non è da considerarsi assoluto. È l’idea cristiana dell’incarnazione […] La teologia dogmatica si richiama in ciò [rapporto pensiero-parola] soprattutto al prologo del Vangelo di San Giovanni, e per quanto gli strumenti con cui cerca di risolvere il problema siano strumenti concettuali di origine greca, il pensiero filosofico che matura in essa assume tuttavia una dimensione estranea al pensiero greco. Se la parola si fa carne, e solo in questa incarnazione si attua perfettamente la realtà dello spirito, ciò significa che il logos viene liberato dalla sua pura spiritualità […] A differenza dal logos greco, la parola è puro accadimento: verbum proprie dicitur personaliter tantum [Tommaso d’Aquino]». Anche nella parola umana, la parola vera non sarà la parola detta con la voce (il verbum vocis che è legato a una lingua determinata e cambia con essa), ma il verbum cordis, parola interna che è l’essenza della cosa pensata sino in fondo in un processo di emanazione intellettuale che non è un passaggio da potenza ad atto, ma un procedere ut actus ex actu dove il processo del pensiero mostra qualche similitudine con le processioni trinitarie. «L’intima unità di pensare e dir-si, che corrisponde al mistero trinitario dell’incarnazione, implica che la parola interna dello spirito non è prodotta mediante un atto riflessivo. Chi pensa qualcosa, cioè dice qualcosa, ha di mira con ciò quello che pensa, la cosa […] in realtà nella produzione della parola non c’è riflessività. La parola non esprime infatti lo spirito, ma la cosa che è oggetto dello spirito» (p. 488 s.). Nelle pagine suddette Gadamer dà voce ad 251
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una filosofia del verbum e del linguaggio, presente in specie nel commento di Tommaso al prologo di Giovanni e nel suo opusculo – definito “difficile e profondo” – De natura verbi intellectus19. Giunti a questo stadio di elaborazione, che dire dell’essere? Un’ermeneutica che appropriatamente intende effettuare il transito da se stessa all’ontologia, sia pure seguendo il filo conduttore del linguaggio, dovrà porre la domanda sull’essere: quella decisiva questione in cui da sempre consiste il compito della filosofia e che Aristotele esprimeva osservando che il problema su cui verte ogni ricerca passata, presente e futura, la questione che è sempre aperta e dibattuta, fosse «che cosa è l’essere?», sebbene poi egli la riportasse all’altra: che cosa è la sostanza? A quest’incrocio decisivo l’ermeneutica gadameriana introduce in breve sequenza due asserti che appaiono fra loro non mediabili, senza che risulti quale dei due occupi il rango più alto. Ciò sembra introdurre un’intima e forse insanabile frattura nel cuore di Verità e metodo e nella concezione dell’essere che lo accompagna. Si tratta di due espressioni centrali di Verità e metodo, forse le più notevoli nel complesso tessuto dell’opera: 1) «l’essere che può venir compreso è linguaggio» (p. 542); 2) «l’essere è linguaggio» (p. 554). Se vogliamo assegnare portata reggente alla prima, ci collochiamo entro un nesso coerente fra soggetto parlante e realtà; se alla seconda saremmo dentro una compiuta e improbabile risoluzione linguistica dell’ontologia e dell’essere, in base a cui l’essere non sarebbe in radice atto d’esistere ma linguaggio. Ciò significherebbe che la linguisticità è posta come la nuova characteristica universalis: è linguistico sia il rapporto all’essere, sia l’essere stesso. La risoluzione linguistica di quest’ultimo implica che esso possa soltanto tramandarsi come si tramanda una lingua. L’essere-linguaggio è dunque quanto si tramanda: non solo il modo del tramandare è linguistico, lo è pure il contenuto. Ora se la modalità del trasmettere è in tanta parte di natura linguistica (cospicua è però l’eccezione costituita dai monumenti artistici), non lo è integralmente il contenuto di quanto viene trasmesso. Non constano ragioni per identificare modalità e contenuto del trasmettere, se non in base ad una decisione operante extrateoreticamente e difficilmente giustificabile. Il carattere strutturalmente linguistico dell’essere e del rapporto ermeneutico tende a marginalizzare l’obiettivazione giudicativa che viene intesa, crederei senza adeguati motivi, come contraria alla coappartenenza di soggetto e oggetto. L’assunto emerge come esito della tesi sulla modalità comprendente-interpretante del Dasein, in cui si esprime il minor rilievo del carattere percettivo del pensare: l’unità di pensiero e linguaggio è perciò intesa solo ermeneuticamente come unità di 252
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4. L’ermeneutica “moderata” e l’immediatezza: Ricoeur
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comprensione e interpretazione. In generale al rapporto fra pensiero e linguaggio viene attribuito carattere enigmatico (cfr. p. 447)20. In Verità e metodo svolge un alto ruolo la suddivisione dell’originario riferimento al mondo in due livelli: il procedere oggettivante della conoscenza della natura che cerca di accertarsi e manipolare l’ente; il modo d’essere dell’arte e della storia con l’esperienza che a loro corrisponde, dove l’ideale di obiettività delle scienze naturali è lasciato da parte. Ora tale suddivisione, riedizione dell’antica polarità fra scienze della natura e scienze dello spirito, non pare coprire l’intero ambito di ciò che è conoscibile nel mondo e dei modi con cui esso è accessibile: ciò che sembra fare difetto è lo statuto della filosofia prima e la questione se anteriormente all’accennata dicotomia, non si debba sollevare l’interrogativo sulla conoscenza dell’ente in quanto tale. Questa viene in Verità e metodo lasciata inesplicita, conformemente forse al progetto heideggeriano di scoronare l’elemento teoretico-dichiarativo, per cui l’oggettività viene pensata solo nella forma che assume nelle scienze e che può prestarsi al dominio sull’ente. Una volta di più il problema si riporta a stabilire se l’ente può essere oggetto di prensioni noetiche dirette, o se invece l’accesso ad esso sia soltanto interpretativo, ermeneutico. Mentre la seconda posizione esclude la prima, questa esclude solo l’assolutezza della seconda, dissolta la quale non sussistono motivi per nutrire diffidenza nei confronti dell’ermeneutica.
In genere nell’ermeneutica “moderata” (o almeno in parte dei suoi filoni) non viene avallato l’intento decostruttivo verso la metafisica occidentale che anima la pagina heideggeriana, e che si solidifica nella tesi di un generale oblio dell’essere. I pensatori di tale scuola, fra cui abbiamo ricordato come iniziatori Pareyson e Ricoeur, non sembrano cercare un intenzionale superamento della metafisica, né programmatiche filosofie della finitezza, quanto una possibile riconciliazione con la tradizione filosofica. La versione “moderata” dell’ermeneutica ritiene che l’approccio diretto all’essere possa risultare efficacemente sostituito da un accostamento indiretto, ma non programmaticamente antirealistico. A tale metodo ha dato voce qualificata un pensatore come Ricoeur: «Io credo che l’essere possa ancora parlarmi, non più certo nella forma precritica della conoscenza immediata, ma come la seconda immediatezza a cui mira l’ermeneutica»21. Quest’ultima, tenuta in riga dalle acquisi253
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zioni della filosofia critica e dal metodo riflessivo, avrebbe come compito di rivolgersi e di venire ammaestrata dal simbolo, la cui funzione è di “dare a pensare”. Non saremo noi a negare l’alta importanza del simbolo, onnipresente nella vita, e dove la filosofia può trovare una sorgente in certo modo inesauribile di stimoli, di ispirazioni e perfino di ringiovanimento. Il simbolo, quale segno-immagine sensibile, che rinvia ad un oggetto in virtù di una relazione di analogia, è sempre simbolo di qualcosa, e perciò relativo a e rivelativo di qualcosa22. Offrendo un contenuto da pensare, che vale come disvelamento di quanto nel simbolo è veicolato, esso punta oltre se stesso, ed è pregno di una carica intenzionale che va interpretata. Nella conoscenza simbolica la questione della verità non è scavalcata o resa meramente metaforica, a condizione che il rapporto col simbolo non sia reso esclusivo e non pretenda di sostituire altri livelli conoscitivi. Se il simbolo è e non può non essere rinvio, segno ed evocazione di qualcosa, anche la conoscenza ermeneutica che ad esso si volge, si colloca nell’asse della conoscenza reale, “pilotata” e regolata dallo scopo ultimo della conoscenza reale. Questo assunto, che non pare negato da Ricoeur, indirizza a domandare come possa avvenire il passaggio dalla seconda alla prima immediatezza. Forse non esiste una risposta univoca a tale interrogativo, intorno al quale si gioca il destino dell’ermeneutica come scienza conoscitiva. Ma si acquisirà qualche elemento in più riportandosi alla struttura intenzionale del simbolo, nel senso che esso, indirizzando al di là di se stesso verso altro e veicolando qualcosa di più del suo immediato presentarsi, individua la chiave di volta del problema nel rapporto tra simbolo e realtà. L’ermeneutica può legittimamente prendere le mosse dal simbolo, se pensa non contro o dietro i simboli, ma a partire da essi e secondo la loro carica intenzionale, per cui nel simbolo c’è sempre più del suo contenuto immediato. Orbene, il più delicato e decisivo problema ermeneutico si situa nel conflitto delle interpretazioni, che scaturisce a getto continuo ma di cui vanno intese ad un tempo la necessità e la posta in gioco. L’ermeneutica moderata, alludendo al conflitto delle interpretazioni (come recita il titolo di un noto libro di Ricoeur), compie il passo decisivo, perché tiene fermo lo scarto tra verità/realtà e interpretazione. Se c’è conflitto, è perché esiste un riferimento univoco, a cui le varie interpretazioni diversamente si rapportano, e che almeno in linea di principio può dirimerlo; ed è possibile ottenere tale risultato, perché vero e reale non sono separati sin dall’inizio. Non così accade nell’altra linea, dove la verità è risolta senza residui in interpretazione, e quello scarto soppresso. Il conflitto delle interpretazioni appare dunque la formula di un’er254
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meneutica che sembra puntare oltre se stessa verso una possibile immediatezza di primo ordine, mentre l’incomponibile pluralità delle interpretazioni costituisce la divisa dell’antirealismo ermeneutico. D’altra parte non è soltanto il conflitto delle interpretazioni a postulare un passo ulteriore extraermeneutico, quanto anche l’esigenza di procedere ad una piena comprensione del senso veicolato dal simbolo. Ora il conflitto delle interpretazioni e l’intento di procedere ad un possibile esaurimento del senso non possono venire risolti solo ermeneuticamente, ma ontologicamente. Quando i vari possibili modi dell’interpretare il simbolo sono stati esperiti, l’ermeneutica si arresta e deve far luogo ad altro, lasciando aperto il passaggio ad un livello dove il rischio dell’interpretare può venire sciolto, usufruendo di un circolo virtuoso tra conoscenza reale-apofantica e conoscenza simbolicoermeneutica. L’archeologia della coscienza, la teleologia del soggetto e l’escatologia del sacro, le tre grandi direttrici dell’ermeneutica di Ricoeur, sono obiettivamente alla ricerca di un punto di equilibrio, che non sembra poter scaturire solo dall’interno della stessa ermeneutica. Dinanzi al simbolo paiono possibili due strade: o il simbolo viene ricondotto alla attività trascendentale produttiva da parte della coscienza, ed in tal caso viene a far parte di un’antropologia proiettiva e in qualche modo ontotetica; oppure esso non vale né come forma puramente autoriflessiva, né come indice antropologico della soggettività, ma contiene una portata e una carica ontologiche, per cui allude all’essere e contribuisce a manifestarlo. In tal caso una filosofia del simbolo non può che collocarsi entro le coordinate reggenti di una filosofia dell’essere e della conoscenza reale. Sembra convenirne anche Ricoeur, che nella già citata Finitudine e colpa pare procedere ad una sorta di autocorrezione e a prendere le distanze dall’oltranzismo ermeneutico, che si indirizza a testi e lascia da parte l’essere, per ristabilire i diritti dell’ontologia: «Il compito del filosofo guidato dal simbolo sarà allora quello di spezzare il recinto incantato della coscienza di sé, infrangendo il privilegio della riflessione. Il simbolo “dà a pensare” che il cogito è all’interno dell’essere e non l’inverso»23. L’ontologia a cui si aspira rimane tuttavia come desiderio più che come realtà, anche nell’ermeneutica moderata. Ma non è acquisto da poco aver superato le filosofie linguistiche autorefenziali o le filosofie riflessive neokantiane, intendendo che anche nell’atto ermeneutico il riferimento ultimo è l’esistenza e la verità, il cui concetto questa ermeneutica non pretende velleitariamente superare. Sarebbe perciò un equivoco intendere l’ermeneutica del simbolo come veicolante necessariamente un atteggiamento antirealistico. È vero piuttosto il contrario. Il passaggio da simbolo a simbolo – se vuo255
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le evitare l’indefinito rinvio in cui un’immagine ne evoca un’altra come in una galleria di specchi, e se intende superare il rischio dell’illimitato circolo interpretativo, entro il quale ci si può collocare stabilmente praticando con tranquilla coscienza l’epochè della realtà –, non può risparmiarsi una spregiudicata riflessione sulla conoscenza umana nelle sue varie forme e sui diversi modi con cui l’intelligenza conosce. È noto che l’ermeneutica ha proceduto a innestare nel proprio campo varie tematiche della fenomenologia, il cui fondatore sosteneva: «Siamo troppo propensi […] a misconoscere il valore delle prensioni dirette»24. Quasi ad ideale commento Ricoeur aggiunge: «Bisogna uscire deliberatamente dal cerchio incantato della problematica del soggetto e dell’oggetto e interrogarsi sull’essere»25. Viene qui espresso un desiderio o una possibilità, che l’ermeneutica moderata potrebbe autorealizzare? L’analisi interna del metodo ricoeuriano sembra indicare che l’ermeneutica non possa da sola trasformarsi in scienza dell’essere. Essa punta verso questa terra promessa, senza poterla raggiungere, poichè le fa difetto l’organo per compiere il salto qualitativo. Sembra anzi che nell’ultimo Ricoeur si faccia avanti una rinuncia motivata teoreticamente a compiere il passo. Stendendo la prefazione al libro di M. Chiodi Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricoeur (Morcelliana, Brescia 1990), all’autore che aveva sottolineato la mancanza di una vera dottrina dell’essere, il pensatore francese risponde – dopo aver citato la propria lettura aporetica di Aristotele sulla linea della plurivocità dell’essere ed il proprio collocarsi dal lato di un’ontologia implicita ed indiretta dove l’essere è essere interpretato –, che «il concetto di essere non conduce in me al di là della libertà umana”», per cui «l’ontologia della libertà, tutta protesa verso un’ontologia dell’atto, non sbocca in un’ontologia dell’atto puro». Ricoeur sembra riconoscere che il suo pensiero possa risultare “dualizzato” fra un’ontologia che resta legata ad una antropologia filosofica e una ermeneutica biblica, aggiungendo: «non concepisco assolutamente l’ontologia dell’essere come un tale anello intermediario», in quanto «i significati dell’essere di cui parla Aristotele permettono di precisare lo statuto di tali o talaltri esseri (o enti) […] ma non di elaborare una teoria dell’essere in quanto essere che sarebbe non solo distinta da questi significati molteplici, ma inoltre permetterebbe di designare un essere che sarebbe per lui solo (in se stesso) l’essere, pur non escludendo un uso del verbo essere che prolunga l’autopresentazione di Dio in Es 3, 14»26. Propositi coerenti una volta che sia stata messa da parte l’analogia dell’essere e la metafisica della partecipa256
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zione, senza di cui antropologia filosofica ed ermeneutica biblica rischiano di rimanere dualizzate ed in difficoltà (in specie la seconda) a rendere conto della polivalenza del verbo essere, costantemente attestato nel documento biblico. Lo scoglio che a mio avviso rimane nelle filosofie ermeneutiche nel loro cammino verso una sperata filosofia prima è che esse si sviluppano come filosofie dell’azione e dell’uomo – come l’ultimo Ricoeur non cessa di richiamare facendo riferimento all’azione linguistica, narrativa, politica, etica, estetica –, non come filosofie dell’essere27. Entro tale quadro si conferma un sostanziale rifiuto dell’asserto “tutto è linguaggio”, che comprometterebbe la realtà e la solidità di quanto accade nella sfera dell’azione. Così due negazioni si corrispondono punto a punto: né l’essere è solo linguaggio; né l’azione è solo linguaggio. Ricoeur ha il merito di far intendere soprattutto la seconda. L’abbandono delle filosofie del soggetto uscite dal cogito e che si formulano in prima persona, conduce in Ricoeur ad una ricca analitica dei molteplici significati dell’azione umana, nel silenzio sull’atto primo di esistenza. Verso la filosofia prima, assimilata senza adeguate ragioni a quelle uscite dal cogito, si mostra grande riserbo, di modo che l’approdo delle filosofie ermeneutiche sembra consistere nel rifiuto di una (auto)fondazione ultima28. L’ontologia ancora possibile appare solo nella forma della re-interpretazione del passato, come l’ultimo Ricoeur asserisce, segnando forse un indietreggiamento rispetto a sue precedenti posizioni: «Una ontologia resta possibile ai nostri giorni, nella misura in cui le filosofie del passato restano aperte a delle reinterpretazioni e a delle riappropriazioni grazie ad un potenziale di senso lasciato inattivo, anzi represso dal processo stesso di sistematizzazione e di scolarizzazione»29. La preminenza dell’approccio interpretativo è qui così esplicita da velare che la percezione dell’essere è una possibilità naturalmente aperta ad ogni uomo, già da sempre realizzata in parte e dove originariamente si radicano il pensare e il dire30. Se l’ermeneutica ricoeuriana, pur così feconda nelle sue analisi, non pare sia approdata ad una ontologia diretta verso cui muoveva ed aspirava espressamente negli anni ’60 (cfr. Il conflitto delle interpretazioni, p. 20), il motivo centrale potrebbe risiedere nel fatto per cui essa non si interroga sull’essere come tale, ritenendo inderogabile domandare sull’essere dell’esserci. Entrati nella sfera del Dasein, le più sapienti orchestrazioni produrranno un’antropologia filosofica e una filosofia dell’azione assai più che un’ontologia e una filosofia dell’essere. Chi prende le mosse dal Dasein comunque inteso, corre il rischio di fermarsi ad esso e di lasciare non trattato il livello teologico dell’es257
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sere. Per chi ha sostenuto: «L’io sono è più fondamentale dell’io parlo. Bisogna che la filosofia si metta in cammino verso l’io parlo a partire dalla posizione dell’io sono»31, non può non porsi il problema di intendere l’io sono, e quello di stabilire se esso possa avere risposta adeguata dimorando solo entro un pensiero ermeneutico.
5. Priorità del piano ontico ed ermeneutica Lo schema di ragione cui guardiamo non esclude per nulla l’ermeneutica, ma non la intende efficacemente operante senza l’apertura all’istanza metafisica: qualcosa del genere suggerisce l’enciclica Fides et ratio che non intende ermeneutica e metafisica come alternative, mutuamente esclusive, addirittura nemiche. Affinché possa darsi un circolo virtuoso fra loro, una condizione sembra specialmente richiesta, ossia che alla conoscenza non si assegni un carattere esclusivamente interpretativo, bensì percettivo. È qui in gioco lo statuto dell’immediato, nel senso che valendo l’interpretazione come qualcosa che appartiene al lato della “mediazione” e dell’indiretto, essa può operare positivamente se si inscrive in un processo in cui percezioni “immediate” di ordine ontologico non siano escluse. Il raccordo fra ontologia ed ermeneutica può legittimamente avvenire attraverso un’ermeneutica che fa fiorire in se stessa la domanda ontologica, oppure attraverso un’ontologia che ospita come suo momento interno l’istanza ermeneutica (così come ospita in sé quella fenomenologica). L’enciclica si colloca in questa area di pensiero non solo quando domanda di passare dal fenomeno al fondamento, ma pure quando chiede al pensare filosofico di raggiungere le essenze32. La via attraverso il realismo e il concetto è un cammino complesso, in genere né troppo breve né troppo lungo: esso può prendere l’avvio interrogandosi sull’“io sono”. Ai suoi lati stanno la via breve della riflessione e dell’autocoscienza, che prende le mosse dall’“io penso”, e la via lunga dell’ermeneutica attraverso l’universo dei segni e dei simboli e conseguente loro interpretazione. Questo ultimo cammino è in certo modo simbolizzato dalla frase “io parlo”, che nelle forme radicali può condurre alla idea semiologica che tutto è segno e linguaggio, dove ci si muove in un contesto dal quale sostanza delle cose, fisicità e storia dileguano. In ciascuno di questi cammini occorre salvaguardare l’anteriorità del piano ontico/esistenziale su quello riflessivo, nel senso che l’“io sono” precede l’“io penso” e l’“io parlo”. Dovrebbe ormai apparire non peregrina la tesi che il filo conduttore di ogni ontologia non è il linguaggio né l’interpretazione, ma la percezione 258
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Note
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dell’essere, il quale è fondamentalmente atto di esistere: qualcosa di completamente diverso dal linguaggio, qualcosa che quest’ultimo intenziona ma non pone. Secondo un’antica e motivata tradizione la filosofia si costituisce entro un domandare che scaturisce dalla meraviglia, che è la madre del pensare: meraviglia della persona circondata da un’immensità di cose ignote, meraviglia per l’esuberanza di vita e di essere che dovunque sovrabbonda, meraviglia radicale di fronte all’esistere come tale. Figlia dello stupore, la filosofia è un’eterna possibilità dello spirito, in cui le intuizioni un tempo pensate rimangono come possibilità aperte: esse possono ancora e di nuovo esser meditate come fresca novità e non come morta ripetizione del già detto, se saranno riesperiti i rapporti originari da cui scaturirono. Non è appunto proprio questo il più difficile? Non siamo divenuti esseri troppo complessi, precari e segnati da troppe ferite, perché sia agevole superare il nichilismo? Infinite sono però le vie che riconducono all’essere, e ciascuna segna un oltrepassamento del nichilismo.
1 Secondo L. Pareyson, che in questo si collega alla elaborazione di Heidegger, l’interpretazione «qualifica quel rapporto con l’essere in cui risiede l’essere stesso dell’uomo», Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1972, p. 53. 2 Un’espressione paradigmatica dell’assunto ermeneutico centrale si trova in Pareyson: «Per la sua inoggettivabilità l’essere è inafferrabile come essere, e ogni tentativo di coglierlo e di definirlo non ha altro esito che il suo arretramento […] Se dell’essere non si può raggiungere una definizione, giacché di fronte alla domanda “che cos’è l’essere?” l’essere stesso si sottrae e arretra, se insomma l’essere non è definibile, esso è tuttavia intepretabile, anzi non si offre che all’interpetazione, cioè a un tipo di “conoscenza” strettamente e irrepetibilmente personale», Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, p. 19s. A ciò consegue che alla filosofia non appartiene un compito inferenziale e dimostrativo: il suo compito è ermeneutico nel senso di riflettere su esperienze esistenziali tramandate, su “miti”, specialmente religiosi, di cui essa opera l’interpretazione. In Pareyson l’ermeneutica assume spesso il carattere di ermeneutica filosofica dell’esperienza religiosa. 3 H.G. Gadamer, Verità e metodo, p. 535. 4 Cfr. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1986, p. 36s. 5 D. Davidson, “The Myth of the Subjective”, in Relativism: Interpretation and Confrontation, ed. Michael Krausz, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1989, p. 165 s.
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R. Rorty, La svolta linguistica, Garzanti, Milano 1994, p. 135. Cfr. Essere e tempo, n. 44b. 8 Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 9. «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», sostiene Nietzsche. È questo asserto una nuova forma di verità, immutabile e oggettiva, oppure è soltanto una semplice interpretazione? Il filosofo torinese non si impegnerebbe a esporre, chiarire, difendere la sua interpretazione, se la storicità, la finitezza, il divenire dell’esistenza senza alcun immutabile non fossero per lui la verità, non un’interpretazione fra le molte. Dinanzi all’asserto di Nietzsche si può domandare: che non vi siano fatti, è un fatto? Se si risponde positivamente, ci si colloca nella contraddizione. Se poi si volesse continuare a sostenere che non esistono fatti ma solo interpretazioni, queste di che cosa sono interpretazioni? Oppure è un’affermazione giocosa senza valore conoscitivo, che non esistono fatti, di modo che in realtà i fatti rimangono in tutto il loro spessore, e attendono qualcuno che si impegni a conoscerli? 9 Ivi, p. 12. Si può dubitare che tale frase, chiamando in causa il concetto di rispecchiamento, sia in pari con la natura del problema. Non manifesta piuttosto un disguido sull’essenza della verità e della conoscenza? Nel conoscere non accade un processo di rispecchiamento, come supposto da Rorty in La filosofia e lo specchio della natura in un’esegesi terribilmente ignara che possano esistere altri paradigmi oltre quello “rappresentazionale”, ma un processo di identificazione intenzionale con l’oggetto. In Rorty e in vari ambiti dell’ermeneutica non sembra colto che la gnoseologia cartesiana e postcartesiana dista enormemente da quella classica. Nella tradizione del realismo la mente non è considerata uno specchio (metafora passiva che non rende giustizia all’attività e libertà dell’intelletto nel conoscere), ma fiamma spirituale aperta all’intero; non come facoltà dell’indubitabile, ma dell’universale. Non penso che la filosofia possa terminare. Possono invece giungere al capolinea secolari programmi di ricerca, come quello moderno del pensare come “rappresentare”. Il testo di Rorty può costituire un eccellente epitaffio per quel programma. Nell’abbandonare la domanda “che cosa significa conoscere?”, l’ermeneutica radicale non è forse più responsabile di altri settori della filosofia contemporanea, dove sembra smarrito ogni rapporto con quella domanda. Anzi quell’ermeneutica potrebbe perfino apparire una vittima della inidoneità di molte correnti contemporanee a riprendere in modo spregiudicato la riflessione sul conoscere. 10 La separazione fra la sfera dell’epistemologia, a cui sarebbe consentito fare ricorso alla verità come conformità, e quella dell’ermeneutica, che viceversa dovrebbe riflettere in termini di apertura non di adaequatio, perché «essa non fonda le proprie pretese di validità su un presunto accesso alle cose stesse» (ivi, p. 134), conduce alla dualizzazione del concetto di verità, uno per l’epistemologia, l’altro per l’ermeneutica, esito che sembra perpetuare gli equivoci in merito al rapporto tra scienze naturali e quelle dello spirito. Ritenere che la sensazione soggettiva di certezza costituisca segno della ve-
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rità (cfr. p. 110) non implica assimilare Cartesio ad Aristotele? Che la verità consista in un’idea chiara e distinta è cartesianismo, non realismo, per il quale la verità non sta in idee singole ma nel giudizio (se adeguato al reale, naturalmente). Per il realismo della filosofia dell’essere l’eureka dello scienziato nel suo laboratorio non ha titolo per essere considerato il momento principe o il modello originario dell’esperienza di verità (come invece si afferma a p. 111). Fortunatamente tale esperienza è in linea di diritto aperta ad ogni uomo, fondandosi sulla percezione dei sensi e l’intuizione intellettuale dell’essere che l’accompagna. In mezzo ai suoi strumenti e impiegando concetti che non di rado sono enti di ragione (fondati certo nelle cose), lo scienziato non gode di alcun privilegiato accesso alla verità, specie a quella che concerne i principi. Tutto sommato circola nella scienza una intenzionalità realistica, che rende problematico sostenere che in essa si attui una trasformazione nichilistica del senso dell’essere. Se la ricerca scientifica non può sensatamente venire accusata di nichilismo, è piuttosto lo scientismo che riduce l’essere a materia più energia, a presentarsi come nichilistico. 11 «E se si considerano le motivazioni originali della rivoluzione heideggeriana contro la metafisica […], si può a buon diritto sostenere che esse hanno un carattere etico (o etico-politico) piuttosto che teoretico […]», Oltre l’interpretazione, p. 38. 12 Cfr. ivi, p. 56. 13 Cfr. ivi, p. 103. E anche: «La critica dell’idea di verità come conformità conduce l’ermeneutica a concepire la verità sul modello dell’abitare e dell’esperienza estetica» (p. 109). 14 Cfr. ad es. ivi, p. 104 e p. 108. 15 Con un salto arrischiato la parentela fra cristianesimo e ermeneutica è ravvisata da Vattimo nell’affinità tra kenosis di Dio in Cristo e nichilismo (cfr. p. 68). Accostamento assai dubbio, perché il Verbo si è presentato come la Verità, non come un autore che propenda a pensare il proprio abbassamento come un indebolimento ermeneutico. Nella Kenosis del Verbo accade un indebolimento delle strutture forti dell’essere? O piuttosto essa è la suprema manifestazione dell’amore agapico plenificante (Deus infundens bonitatem in rebus), in cui il divino discendendo nell’umano, lo innalza e lo rende nobile? L’ontologia nichilistica, che può nascere «solo in quanto erede del mito cristiano dell’incarnazione di Dio» (ivi, p. 68), soffre, mio caro Vattimo, di un male sottile: il male di un accademismo che si misura con parole deviate dal loro senso proprio. Altrimenti come sostenere che la charitas sia una parola interna alla stessa tradizione nichilistica? (cfr. p. 52) 16 F. Balbo, Opere, Boringhieri, Torino 1966, p. 521s. 17 Kleine Schriften, Tubingen 1967, vol. I, p. 148. 18 «Si tratta di riconoscere che ogni comprensione è intimamente intessuta di concetti, respingendo ogni teoria che non riconosca l’intima unità di parola e cosa», p. 463. 19 Qualcosa di analogo potrebbe dirsi di un’altra intuizione del volume, rimasta al livello di cenno: il nesso fra cristologia e antropologia e in specie l’i-
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dea che «la cristologia apre la via a una nuova antropologia, che media in modo nuovo il rapporto fra lo spirito finito dell’uomo e l’infinità divina. Ciò che abbiamo chiamato esperienza ermeneutica troverà qui il suo autentico fondamento» (p. 491). La “mediazione” operata dall’incarnazione si palesa essenziale non soltanto per un più adeguato pensamento della parola, del linguaggio e dell’ermeneutica, ma pure per l’antropologia. In effetti spesso si pensa la cristologia alla luce e entro le categorie dell’antropologia, mentre più raro è pensare l’antropologia alla luce della cristologia onde assegnare alla prima la sua piena verità. Forse in questi aspetti più che nella potenziale dissoluzione linguistica dell’essere, sta l’eredità migliore e ancora impensata di Verità e metodo. 20 «L’intermundum della lingua si rivela come l’autentica oggettività, sia nei confronti delle illusioni dell’autocoscienza, sia nei confronti del concetto positivistico di dato di fatto», H.G. Gadamer, Testo e interpretazione, «AutAut», nn. 217-218, gennaio-aprile 1987, p. 37. 21 Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 628. La stessa frase è ripetuta alla lettera da Ricoeur in Il conflitto delle interpretazioni, p. 314. 22 In senso convergente si esprime Ricoeur: «Chiamo simbolo ogni struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa per sovrappiù un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo», Il conflitto delle interpretazioni, p. 26. 23 Finitudine e colpa, p. 633. Cfr. anche pp. 419 ss. 24 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 106. 25 Il conflitto delle interpretazioni, p. 21. 26 P. Ricoeur, Il concetto di libertà nella mia opera. A proposito del saggio di Maurizio Chiodi, «Humanitas», 1990, n. 5, p. 651. 27 Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 95. 28 Cfr. ivi, p. 102. 29 Ivi, p. 411. 30 Sé come un altro propone in effetti qualche saggio di tale re-interpretazione in rapporto alle nozioni aristoteliche di atto e potenza, di cui si tenta l’applicazione al campo della prassi con risultati problematici a mio avviso, in quanto l’approccio soffre del limite di non accertare la valenza originariamente ontologica di quelle nozioni. Seguendo le elaborazioni del filosofo francese sull’energheia e sulla dynamis, non ci accadrà di renderci presto conto che i concetti di cui parla sono intesi in senso etico, di modo che la metafisica dell’atto è lasciata da parte? Difficilmente un concetto centrale come quello di atto, messo a punto per una filosofia dell’essere/esistenza, può venire impiegato senza rischi in una filosofia dell’azione, la quale assume da Heidegger la problematica idea che la traduzione latina di energheia sia stata actualitas (cfr. p. 415 ss.). 31 Il conflitto…, p. 280. 32 Su questi aspetti rinvio a Filosofia e Rivelazione, Città Nuova, Roma 20002. Il rapporto fra pensiero metafisico ed ermeneutica è intrinseco al pen-
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siero di G. Riconda, di cui si vedano il saggio di pari titolo nel volume AA. VV., Pensiero metafisico e pensiero ermeneutico, Città Nuova, Roma 2003, pp. 225-247, e “Nichilismo e pensiero tradizionale” in AA. VV., La navicella della metafisica (pp. 15-39), dove scrive: «So che il terreno dell’ermeneutica è un terreno minato perché proprio su questo terreno sono sorte le affermazioni più radicali di nichilismo. Ma pure proprio su questo terreno occorre porsi per dare concretezza e attualità storica al discorso, mostrando che se l’ermeneutica sostiene che l’essere si affida all’interpretazione, esso in nessun modo si risolve nell’interpretazione» (p. 31).
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Capitolo nono
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Empirismo logico e filosofia analitica
L’empirismo logico o neopositivismo, nato dal Circolo di Vienna, e la successiva filosofia analitica, che in buona misura ne proviene, hanno costituito movimenti filosofici importanti del XX secolo: la seconda è tuttora vitale e si dirama in molte correnti che spesso hanno in comune un certo stile di filosofare entro una notevole varietà di temi e approcci. Dinanzi ai due stili di praticare la filosofia, quello che si applica a risolvere problemi e quello che si volge a interpretare pensatori del passato, la scelta delle due scuole si è espressa a favore del primo metodo: ciò non è stato da tutti accettato pacificamente, originando anzi in vari casi l’appunto di una insensibilità dei pensatori analitici alla dimensione storica del filosofare. Si ammette comunemente che il Wiener Kreis e filosofia analitica riconoscano i propri padri fondatori in Frege, Moore, Russell, Wittgenstein, Carnap. Non riscontrando alcun motivo per mettere in dubbio tale genealogia, mi sentirò pago aggiungendo che altri grandi padri fondatori (magari in incognito) sono Comte e soprattutto Kant con la sua dottrina che nega ogni percezione intellettuale: la filosofia analitica appare incomprensibile senza questo grande lascito kantiano che essa ha fatto proprio sin dal primo passo senza sottoporlo a sufficiente scrutinio, aggiungendovi di suo il rifiuto dei giudizi sintetici a priori. La mancata analisi del compito dell’intelletto indirizza verso l’esito di riportare tutta la conoscenza all’elemento empirico e alla forma logica, in un quadro in cui l’analisi del linguaggio diviene la nuova filosofia prima, capace di accertare universalmente il senso e di limitare il campo disputabile. Non è senza significato che numerosi titolati esponenti del movimento provengano da studi di matematica e logica: ai nomi già citati, con l’eccezione forse di Moore, si aggiungano quelli di Putnam, Quine, Dummett. Sembra inoltre che il profilo di ragione verso cui si guarda sia la ragione argomentativa, nel senso che sapere equivarebbe ad argomentare e dimostrare. Ad analogo livello di profondità si colloca l’assunto 265
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delle due scuole sulla sostanziale opacità e intrasparenza delle cose o dell’essere alla mente: questo elemento sembra costituire il tratto di continuità tra il primo e il secondo Wittgenstein. Formare e possedere un concetto è comunque qualcosa di più del sapere come usare le parole: non sarà perciò sorprendente se un considerevole schieramento della filosofia analitica, in specie americana, cercherà un’uscita di sicurezza nel pragmatismo per salvaguardare un certo rapporto con la vita, recuperando prospettive di W. James e di J. Dewey. A mio avviso nella tessitura del pensiero degli autori citati sembrano presenti alcuni notevoli “presupposti”: guardare con occhi unilaterali al metodo della scienza, talvolta considerato come l’unico capace di produrre conoscenza (Quine è persuaso che sia valida solo quella filosofia che contribuisce al progresso dell’impresa scientifica); non possedere una dottrina consistente del conoscere nei suoi vari modi e gradi, spesso sacrificata all’univocismo gnoseologico; inclinare verso forme di oblio dell’essere. Se si volge lo sguardo retrospettivamente abbracciando col pensiero il secolo che si è appena chiuso, un dramma fondamentale della filosofia che vi è rampollata è quello di risultare scissa tra coloro che abusano della questione dell’essere pensando di oltrepassarla, e coloro che la ignorano sin dall’inizio. Nei due casi si incontra un indebolimento dell’apertura all’esistenza. I due orientamenti hanno condotto da un lato all’ermeneutica, dove la comprensione che cerchiamo è intesa come una continuità di discorso con i filosofi e i testi del passato; e dall’altro all’enfasi sulla chiarificazione di termini ambigui: necessaria, ma che di per sé non costituisce la soluzione di alcun problema. Non mi sembra secondario che la filosofia analitica “radicale” si collochi dentro il processo filosofico della modernità, dove Cartesio sostituisce la gnoseologia alla metafisica, Kant l’epistemologia alla gnoseologia, e Frege l’epistemologia con la logica e la filosofia del linguaggio. Nello sfondo campeggia l’idea kantiana della parvenza trascendentale, ossia della inevitabile illusione naturale in cui si avvolgerebbe la ragione umana quando adotta principi al di là dell’esperienza; nonché l’assunto, anch’esso di origine kantiana, che la filosofia debba soprattutto mettere ordine nei pensieri. Non è senza ragione che Carnap e Reichenbach esordissero come discepoli di Kant e ammiratori di Russell. Nella differenza notevolissima che corre fra il ritenere che la filosofia contribuisca a chiarire significato e spessore dei problemi, e l’assumere che il suo compito consista nel dissolverli, sembra che nelle fasi successive al Wiener Kreis abbia preso il sopravvento la prima linea: la demolizione, sia pure a scopo terapeutico, non sembra più costituire lo scopo predominante della filosofia. 266
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1. Il realismo, l’oggetto e lo spostamento verso l’olismo
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L’intento di questo capitolo è limitato, e rinuncia sin dall’inizio alla presunzione di render conto dei due movimenti filosofici. Nel vasto perimetro di problemi discussi dai filosofi analitici – che oggi si amplia a ventaglio oltre il linguaggio, interessa il rapporto mente-corpo e spesso raggiunge l’ontologia –, ci concentreremo, in aderenza all’orizzonte di questo volume, sulle questioni del realismo, del linguaggio, dell’esistenza, riferendoci ad alcuni autori contemporanei di lingua inglese (americani e britannici). Si tratta comunque di problemi centrali per la filosofia analitica. Secondo uno dei suoi maggiori rappresentanti «la strategia di analizzare concetti mediante un’analisi dei modi attraverso cui sono espressi in linguaggio è storicamente una caratteristica della filosofia analitica, e può essere trattata come sua caratteristica definitoria»1.
Realismo. Quando si consideri questo argomento, accanitamente dibattuto negli ultimi decenni, si trae l’impressione che manchi tuttora un attendibile resoconto del realismo. In linea generale per Quine esso è inteso come una dottrina che ci dota di un punto di osservazione esterno; per Putnam il realismo equivarrebbe a guardare il mondo dal punto di vista dell’occhio di Dio (sarebbe questo mai possibile all’uomo? E non è tale determinazione eccessivamente vaga?), sebbene poi quest’autore abbia mutato profondamente le posizioni iniziali, come vedremo2. Altri contrappongono il realismo del senso comune, per il quale esistono le cose che vediamo e tocchiamo, al realismo scientifico secondo cui solo gli oggetti scientifici esistono realmente. Dummett produce uno schema delle posizioni realiste e antirealiste, rimanendo fermamente attaccato all’idea (a mio avviso non-realista) che il punto di partenza della filosofia sia l’analisi della struttura dei pensieri mediante il liguaggio. In Il problema del significato3, Quine considera realismo, concettualismo e nominalismo i tre principali punti di vista sugli universali. Dal contesto si evince che egli assimila realismo e platonismo, mentre non vi è menzione del “realismo moderato”, che rappresenta una tradizione fondamentale dell’intera storia della filosofia. Da questi cenni sembra emergere lo stato ancora confuso del problema, dove temi assolutamente centrali quali quello della cooperazione tra senso e intelletto nel conoscere (dottrina dell’astrazione, dell’identità intenzionale tra pensiero e oggetto e infine della stessa dottrina dell’oggetto), latitano. Una possibile determinazione di realismo, omogenea a quanto è detto in altri capitoli di questo volume, consiste nell’abbandonare la dico267
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tomia, resa paradigmatica da Kant, tra il mondo in sé (noumeno) e i concetti che impieghiamo per pensare e parlare di esso, e nel riconquistare l’identità intenzionale tra pensiero e mondo/oggetto nel concetto. Questo passo il pensiero postkantiano, l’empirismo logico, la filosofia analitica, il razionalismo critico non l’hanno compiuto e non sembrano intenzionati a compierlo. Una delle cause potrebbe risiedere nel grande rilievo attribuito al problema del linguaggio e in qualche caso a quello del pensiero, in un circolo dove l’uno rinvia all’altro (gli enunciati linguistici chiamano in causa il pensiero e viceversa) con inadeguata percezione della priorità del piano ontico-esistenziale su quello logico e linguistico. D’altra parte nell’empirismo logico era immanente il rischio di una separazione interna e di una evoluzione verso i due poli dell’empirismo puro e del logicismo puro: non è senza motivo che l’opera programmatica di Carnap si intitoli La costruzione logica del mondo; e che anche per il secondo Wittgenstein valga l’idea che «la ricerca logica indaga l’essenza di tutte le cose […] Il pensiero è avvolto da un’aureola. La sua essenza, la logica, rappresenta un ordine, e precisamente l’ordine a priori del mondo, vale a dire l’ordine delle possibilità che devono essere comuni al mondo e al pensiero»4. Che l’essenza del pensiero sia la logica, ciò è tanto poco vero quanto il sostenere che l’essenza della gallina sia il fare le uova, a meno che l’affermazione di Wittgenstein non debba essere intesa (altre sue frasi lo fanno ritenere probabile) come un asserto sull’isomorfismo tra mente e mondo. In certo modo il problema principale della filosofia analitica, che essa ha tuttora dinanzi, sta nella questione dell’oggetto e del suo attingimento, dove si incontrano due vie pure, che possono poi variamente addolcirsi e mescolarsi. A) Assegnare rilievo dominante all’oggetto linguistico, talvolta inteso come “oggetto puro”, da studiare isolatamente ossia a prescindere dai suoi legami col soggetto conoscente e col mondo della vita; tratteremo questo nel paragrafo successivo, non dimenticando che qualche elemento in merito è stato offerto nel cap. I. B) Assegnare rilievo dominante all’oggetto fisico, raggiungibile con la percezione sensoriale. L’olismo di Quine. Forse Quine, che intitola la sua opera più significativa Parola e oggetto, cercò di combinare i due approcci, a partire però da un modo di intendere l’oggetto fisico stesso che, riducendolo a postulato, rischia di dissolverlo. «Gli oggetti fisici vengono concettualmente introdotti nella situazione [della scienza] come comodi intermediari – non definendoli in termini di esperienza, ma come semplici postulati non riducibili, paragonabili, da un punto di vista epistemologici, agli dei di Omero… In quanto a fondamento epistemologi268
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co, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non per la loro natura. Sia l’uno che l’altro tipo di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare una semplice costruzione nel flusso dell’esperienza»5. La postulazione dell’oggetto appare qualcosa di sorprendente in una concezione fondamentalmente naturalistica quale è quella di Quine, in cui la mente sembra intesa come un elemento della realtà fisica, e un elemento alquanto passivo, nel senso che in essa si incontrano le percezioni sensoriali studiate dalla neurologia della percezione. Ma tale postulazione, che rischia di condurre all’annullamento dell’oggetto, pare confermata dalla dottrina quineana sulla relatività del riferimento (non esiste un riferimento assoluto o univoco per un termine: la nozione di riferimento ha senso solo relativamente ad un linguaggio di sfondo o a un manuale di traduzione) e dall’assunto che tutti gli oggetti siano teorici. Il relativismo di Quine, ossia l’idea della relatività del riferimento (e della sua inscrutabilità), è più radicale del relativismo culturalistico dei contesti. Quanto al carattere teorico di tutti gli oggetti, questa dottrina significa che quanto ha importanza per una teoria è la sua struttura e non la scelta degli oggetti: non è vero che il significato o livello semantico determini il riferimento. Dal carattere culturale e postulatorio degli oggetti discende la difficoltà, o forse l’impossibilità, a stabilire un quadro dei saperi e delle scienze, fondato sulla “cosa” e non semplicemente convenzionale. Con l’importanza attribuita alla struttura fa tutt’uno l’assunto quineano dell’olismo epistemologico e semantico, strettamente dipendente dall’abbandono della relazione tra intelletto e oggetto nel concetto, ossia dell’intellezione degli oggetti nozionali semplici. La posizione di Quine si trova al punto terminale di un itinerario di abbandono dell’intenzionalità conoscitiva realistica, le cui tappe sono: 1) passaggio dalle idee alle parole, con il primato attribuito al linguaggio sul pensiero nella supposizione che non esista una radice prelinguistica del pensare; 2) passaggio dalla attenzione ai termini e agli enunciati a quella ai soli enunciati; 3) passaggio dall’attenzione ai singoli enunciati a quella per blocchi di enunciati. Presupposto e conseguenza dell’olismo è che l’adeguazione veritativa tra enunciato e realtà è concepibile soltanto per strutture teoriche complesse (non per singoli enunciati): una esteriorità reciproca colpisce il soggetto conoscente e la realtà sin dal momento originario del conoscere (l’apprensione dell’oggetto), per cui se qualche conformità tra soggetto e realtà può raggiungersi, questo accadrà in modo esclusivo e in via provvisoria entro complesse strutture 269
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teoriche, ovviamente offerte dalla scienza e che per loro natura sono soggette a costante riordino. Guardando in direzione di Frege si potranno trovare talune premesse dello sviluppo quineano, in specie nell’idea fregeana che solo nel contesto di un enunciato un nome sta per qualcosa, ossia possiede un riferimento (cfr. Logica e aritmetica, Boringhieri, 1965, sez. 60 e 62). Conseguentemente non si deve mai indagare sul significato di una parola in isolamento: assunto che può anche costituire una buona regola metodologica e linguistica, ma che preso nella sua assolutezza implica l’inscrutabilità del riferimento e il diniego opposto alla intellezione degli indivisibili, ossia infine la cesura elevata tra intelletto e oggetto nel momento originario del conoscere. Secondo l’olismo radicale di Quine l’unità conoscitiva minima non è né l’idea né la parola, e neppure l’enunciato, ma tutta la scienza presa insieme: «Con Frege si giunse a riconoscere che era la proposizione, e non il singolo termine, ciò che una critica empirista doveva considerare come unità. Ma io sostengo che anche questa è una rete a maglie troppo strette: l’unità di misura della significanza empirica è tutta la scienza nella sua globalità» (Il problema del significato, p. 40). Dunque nessuna proposizione è in rapporto diretto con l’esperienza sì da essere convalidata o smentita. L’accordo col referto empirico è qualcosa che riguarda solo il margine del sistema, mentre il resto (che è il più) con i suoi “miti e fantasie” ha come obbiettivo la semplicità pragmatica delle leggi. Viene così avanzata una critica antirealista a quella dose di realismo della scienza ancora presente nell’empirismo logico: non più accordo fra proposizioni atomiche e fatti ma olismo. Con il riferimento preponderante alla scienza viene ulteriormente in chiaro in Quine la continuità di questa con la filosofia, aspetto che è una conseguenza del rifiuto di ogni filosofia prima e dello scientismo radicale dell’autore6. La dissoluzione dell’oggetto e l’olismo epistemologico comportano la fine della filosofia come impresa conoscitiva autonoma, per cui essa diviene un’attività entro la scienza e con essa continua. Non si dà alcun punto di osservazione esterno o addirittura superiore alla scienza; solo al suo interno la realtà può venire identificata e descritta, entro un processo che sembra ultimamente ricondursi a psicologia empirica concernente l’acquisizione della scienza da parte dell’animale-uomo7. Putnam. Negli scritti di Putnam, che si è occupato numerose volte del realismo rivedendo anche profondamente le sue posizioni, si rinviene un riferimento frequente al tema del “realismo interno” o “realismo dal volto umano”, per richiamare termini da lui spesso usati. Essi 270
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vanno nel senso di non accogliere la superiorità della scienza, il primato della formalizzazione logica, lo scetticismo, e di non rifiutare una nozione sostanziale di verità. La sua proposta di “realismo interno” intende che i criteri di verità e di verificazione delle nostre convinzioni sono interni e non esterni al nostro schema concettuale; in altre parole non esisterebbe la verità come corrispondenza a una realtà prestrutturata indipendentemente dal nostro atto conoscitivo, una “realtà in sé”. In altre occasioni Putnam manifesta peraltro l’esigenza di non abbandonare il realismo del senso comune. Sul piano della nomenclatura concettuale egli distingue un Realismo con la R maiuscola e uno con la minuscola. Il primo, chiamato anche “realismo scientifico” o “oggettivismo” o talvolta “realismo metafisico” (i termini sono rivelativi), è determinato come una dottrina che dipende da due assunti: 1) «L’assunzione che vi sia una distinzione netta tra le proprietà che le cose hanno “in sé” e le proprietà che noi proiettiamo; 2) l’assunzione che la scienza fondamentale – al singolare, dato che oggi solo la fisica ha un tale status – ci dice quali proprietà le cose abbiano in sé»8. Questo “Realismo metafisico” assomiglia molto al fisicalismo, e viene da Putnam rifiutato. In altre opere il realismo è inteso come una conoscenza assoluta, secondo una frase già citata: «L’intero contenuto del realismo è racchiuso nell’affermazione secondo cui ha senso concepire un punto di vista dell’occhio di Dio»9. Negli ultimi lavori e in specie nel volume Mente, corpo e mondo Putnam ha portato argomenti a favore dell’autentico realismo, che egli chiama ora “realismo naturale” oppure “realismo pragmatico”, proponendo la fondamentale idea che non esista un’interfaccia cognitiva fra mente e mondo esterno. Ossia congedando il dualismo dicotomico fra mente e mondo, ordine ideale e ordine reale che ha afflitto il corso della filosofia moderna da Cartesio ad Heidegger attraverso Kant; e recuperando il valore delle percezioni immediate. Egli prende le distanze dal “rappresentazionalismo” moderno a lungo prevalente: «La concezione oggi dominante nella filosofia della mente angloamericana sembra essere un insieme di cartesianismo e di materialismo, vale a dire una combinazione di concezione cartesiana del mentale come teatro interno e di materialismo […] credo che sia solo abbandonando questa concezione della percezione come mediata da un insieme di “rappresentazioni” in un teatro interno che si potrà porre fine al continuo riciclaggio di posizioni erronee in filosofia della mente (per tacere dell’epistemologia e della metafisica tradizionali) – un riciclaggio che va avanti da almeno quattro secoli»10. Secondo Putnam, mentre gli aristotelici erano realisti diretti nel senso che per loro l’anima intellettuale era tramite i sensi in contatto 271
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diretto con le cose e le loro proprietà, i democritei e gli stoici avevano una teoria rappresentazionale della percezione. Seguendo il linguaggio di W. Sellars, alla base delle teorie rappresentazionali sta l’idea di un teatro o di uno schermo cinematografico interno: ciò che vediamo direttamente non sono le cose ma solo gli oggetti che compaiono in tale schermo. Da qui la ricerca affannosa per correlare la rappresentazione interna a quello che c’è o dovrebbe esserci “là fuori”, un problema contro cui si è incagliata non poca filosofia moderna. Oggi anche le neuroscienze, aperte ad elaborare una concezione corretta della percezione, potrebbero favorire una ripresa del realismo che dopo Cartesio è risultato una merce rara.
2. L’oggetto primo della filosofia è il linguaggio, l’idea, il fatto, l’essere? Se la questione del realismo non sembra aver compiuto molti passi avanti, non sarà perché la filosofia analitica si concentra con accaparrante intensità sul linguaggio e sul fatto? Nel primo caso volge l’attenzione alle parole che sono segni, ne dedica meno ai concetti e alle cose, cioè agli oggetti di cui le parole sono segni. Il tema non è soltanto il segno, ma ciò di cui vi è segno. Nel secondo sostituisce una “ontologia dei fatti” ad una ontologia degli oggetti. In entrambi i casi le conseguenze sono problematiche. Consideriamo i due lati del tema. I) Per quasi tutta la loro storia i filosofi si sono in vario modo occupati della realtà, delle cose, che cercavano di conoscere mediante concetti ed enunciati pertinenti: nell’opera si occupavano naturalmente anche dell’analisi delle idee e delle parole. Le parole erano intese come segni delle idee e queste come segni delle cose. Successivamente con Cartesio e la sua prolifica discendenza il compito centrale per molti filosofi divenne la conoscenza e l’analisi delle idee, mentre l’essere reale veniva posto più o meno tra parentesi: le idee sono segni del pensiero e questo forse (solo forse) è o può essere segno delle cose. Da qui prende le mosse quanto è stato chiamato il programma rappresentazionale moderno. Più avanti ancora con la filosofia del linguaggio l’oggetto primo del filosofo diventa non più l’idea ma il linguaggio, studiato sia in sé, sia come possibile segno del pensiero. Nella scansione delineata si incontrano dunque tre differenti oggetti della filosofia: dapprima il punto di mira immediato è l’essere e per esso in vari casi la “sostanza prima”; successivamente è l’idea quale possibile segno del reale o di una sua parte (a seguito del dualismo tra fenomeno e noumeno); nella terza istanza è il linguaggio, che nel migliore dei ca272
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si è segno di un segno del riferimento (ossia del reale). Una delle proposizioni più caratteristiche e meno giustificate del Tractatus di Wittgenstein recita: «Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”» (n. 4.0031). Essa limita il campo delle questioni disputabili. Con uguale diritto si può ora sostenere che non si dà la filosofia prima o che la filosofia/critica del linguaggio è la nuova filosofia prima, quella che stabilisce l’ambito e la possibilità di tutte le altre conoscenze. Il secondo Wittgenstein, ritrovabile nelle Ricerche filosofiche, abbandonò pressoché completamente le posizioni difficilmente difendibili della gioventù e fece sua l’idea che “il significato è l’uso”. Al di là degli aspetti positivi che può veicolare, l’affermazione lascia intendere che non sia stato superato uno dei massimi scogli o forse il massimo del neopositivismo logico: la sostanziale oscurità, intrasparenza, inintelligibilità del reale rispetto al pensiero. Ci si accostò alla considerazione del linguaggio comune, al suo uso, sostenendo: «La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è»11. Nella filosofia analitica ci si basa inoltre su un postulato a cui si fa frequente ricorso: è sempre possibile affrontare l’analisi dei pensieri attraverso l’analisi della loro espressione linguistica. Il pensiero è per sua natura sempre suscettibile di espressione linguistica. Viene così aperto un nuovo metodo per la filosofia, l’analisi del significato linguistico, diverso da quello della fenomenologia (l’intuizione delle essenze) e da quello della filosofia dell’essere (conoscenza della realtà entro la nozione di ente, che include quelle di essenza e di esistenza). Poiché nel comunicare noi trasferiamo pensieri attraverso linguaggi, la filosofia analitica mette in campo, ultimamente, uno studio filosofico del linguaggio come mezzo per giungere a una comprensione filosofica del pensiero. Non dovrebbe piuttosto la sua strada configurarsi come una filosofia della realtà attraverso un’idea realista del pensare? La filosofia del linguaggio è una più che legittima impresa, che svolge bene il suo compito (di ausilio anche alla filosofia prima) quando rimane al suo posto, mentre i maggiori equivoci nascono nel caso in cui voglia porsi come filosofia prima, e magari come l’organo basale del pensare. Per imporre una pretesa così problematica occorre mettere la sordina alla portata referenziale intrinseca al linguaggio come pure al primato del piano ontico-reale-esistenziale. E solo sulla scorta di quella pretesa si può ridurre l’essere al linguaggio. Uno studioso particolarmente competente negli studi sull’empirismo logico e la filosofia analitica ha osservato: «La responsabilità primaria della riduzione dell’essere al linguaggio deve essere ascritta – in epoca con273
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temporanea – al neopositivismo logico»12. Tale riduzione dell’essere al linguaggio non si distacca di molto dalla linea dell’ermeneutica oltranzista, che sembrerebbe veicolata nell’espressione gadameriana “l’essere è linguaggio”, su cui ci siamo soffermati nel cap. precedente. Nella filosofia del linguaggio si riscontra dunque la sostituzione del “logocentrismo” all’ontocentrismo e al noocentrismo. Un importante autore contemporaneo come M. Dummett ha ribadito il postulato essenziale e, a nostro avviso, il proton pseudos della filosofia analitica ruotante intorno al linguaggio: porre l’obiettivo della filosofia nell’analisi della struttura del pensiero da conseguirsi attraverso l’analisi del linguaggio. «Solo con Frege si è finalmente avuto un riconoscimento dell’oggetto proprio della filosofia, si è riconosciuto cioè, in primo luogo, che l’obiettivo della filosofia è l’analisi della struttura del pensiero, e in secondo luogo, che lo studio del pensiero deve essere tenuto nettamente distinto dallo studio del processo psicologico del pensare; infine si è riconosciuto che il solo metodo appropriato per l’analisi del pensiero consiste nell’analisi del linguaggio»13. Parole affascinanti e ingannatrici, dove la chiarezza della tesi viene a dire non solo che la filosofia prima è una logica e un’analitica del linguaggio, ma che l’oggetto stesso del filosofare ha subito una completa rivoluzione, venendo ora individuato non nella conoscenza dell’essere e del reale ma in quella del pensiero e delle sue leggi. Anche in Dummett non si esce dal primato della coscienza pensante e parlante per recuperare il primato ontologico del reale. Riconfermando che «principio fondamentale della filosofia analitica è stato quello di affrontare la filosofia del pensiero attraverso la filosofia del linguaggio» (p. 40), il filosofo inglese assicura che si può «spiegare il pensiero esclusivamente in termini di ciò che può fungere da suo veicolo [cioè, il linguaggio]» (p. 41, corsivo nostro). Occorre accogliere come sicura questa posizione? Se si concede, come è ragionevole, che il linguaggio sia un prodotto del pensiero, si può ammettere sia che è possibile affrontare l’analisi del pensiero attraverso l’analisi della loro espressione linguistica, sia che nel conseguente vi possa essere meno che nell’antecedente. Non bisognerebbe concedere come cosa liquida che il pensare sia intrinsecamente linguistico, senza prima riflettere attentamente se nell’atto originario del pensiero non si mostri qualcosa di prelinguistico. Oltretutto pensiero e linguaggio non sono identificabili, poiché il primo è compresente, l’altro sequenziale. La linguisticità del pensiero è la base della sua intersoggettività, ma nel momento originario in cui esso scaturisce dalla mente, il pensiero non è né strutturalmente e unicamente intersoggettivo né soltanto linguistico, ma atto di identità intenzionale con l’es274
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sere. Ciò implica che al pensiero non appartenga soltanto o in primo luogo il mettere in relazione, sebbene la relazione che non inerisce all’oggetto come sua proprietà sia opera del pensiero. Mentre il pensiero pensa entro la categoria della presenza, nel senso che l’oggetto pensato è intenzionalmente presente e immanente all’intelletto, anche se lontano spazialmente e empiricamente, il linguaggio denota o parla di quanto è assente e lontano varcando la distanza attraverso il pensiero. Non solo un linguaggio senza pensiero è inimmaginabile, ma l’atto originario del pensare non è linguistico-intersoggettivo. Originariamente il pensiero è logos, non dia-logos, qualcosa di diverso dall’accordo intersoggettivo come per evidenti motivi ha invece sostenuto il neopositivismo, per il quale la conoscenza è intersoggettiva e mediata linguisticamente. Per intendere che l’atto originario del pensiero intellettivo è prelinguistico, occorre volgersi verso il processo astrattivo entro il quale l’intelletto astrae dall’informazione sensibile il contenuto intelligibile che i sensi veicolano senza coglierla e che trasmettono alla mente. Ora tale operazione astrattiva, che costituisce il nucleo fondamentale del pensare umano nel senso che senza di essa non si fa luogo alla conoscenza intellettuale, è prelinguistica pur tendendo come a suo frutto alla formazione del concetto o verbo mentale. Questo atto centrale che sta alla base del pensare è metalogico nel senso che l’indagine su come esso nasca e si produca in noi è lungi dall’identificarsi con una ricerca sulle leggi della logica. Inoltre l’atto dell’astrarre è intrinsecamente universale, diacronicamente e sincronicamente, perché costituisce la modalità con cui necessariamente opera la mente umana quando si esprime a livello intellettuale-concettuale. Si noti che l’universalità non concerne soltanto l’atto proprio dell’astrarre, ma è pure fondamentalmente universale, diacronicamente e sincronicamente, il contenuto dell’informazione sensibile veicolato dal senso. Se ci riferiamo a quello della vista, un cinese e un italiano, pur impiegando lingue e strutture linguistiche che non hanno nulla in comune, l’uno e l’altro vedono il colore “rosso”, pensano al rosso e astraggono in modo fondamentalmente universale e dunque indipendente dalle strutture linguistiche il contento intelligibile veicolato nell’informazione sensibile, quando percepiscono un oggetto rosso. Nell’operazione originaria dell’intelletto –, in cui questo cooperando con il senso e da questo ricevendo il suo nutrimento, ossia una carica intenzionale intelligibile in potenza che il senso veicola e non conosce e che è portata all’atto nel fuoco dell’intellezione –, si raggiunge qualcosa di prelinguistico e in certo modo di soprastorico, nel senso che le sue operazioni essenziali sono solo accidentalmente legate al tempo. Se il linguaggio ci appare 275
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a buon diritto qualcosa di storico, di mutevole, di situato, di diveniente, di soggetto al tempo, non tutto nel pensiero è tale. II) Sostituzione dell’ontologia dei fatti a quella degli oggetti. Le posizioni della filosofia analitica sul linguaggio e il pensiero si legano, più o meno apertamente, alla sostituzione dell’ontologia dei fatti a quella degli oggetti. Un’espressione del nuovo atteggiamento si rinviene nelle prime due proposizioni del Tractatus che suonano: «Il mondo è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose». Se si cerca di intenderle, una comprensione plausibile suona: dapprima col riferimento al mondo e a ciò che vi accade, sembra prefigurata una filosofia del divenire. Inoltre, poiché i fatti accadono, mentre gli oggetti non accadono, la seconda proposizione esplicita il contenuto della prima. Al lessico concettuale dell’accadere ossia del divenire, la cui totalità è il mondo, viene coerentemente collegato il fatto: solo i fatti accadono. Le conseguenze sono di rilievo. Col riferimento all’accadere/divenire viene messa fra parentesi la questione dell’essere; col riferimento ai fatti questi diventano l’unità atomica da considerare. Ma i fatti, che non sono cose, vengono espressi in giudizi. Dunque anche da questo lato si conferma che per Wittgenstein e la sua discendenza pensare è giudicare e porre in relazione. Un’ontologia dei fatti in luogo di un’ontologia degli oggetti sembra destinata a ignorare il momento antepredicativo e la possibilità che un nome, preso da solo, possa significare in virtù del suo contenuto e denotazione. Il Tractatus lo esclude: «Soltanto la proposizione ha un senso; soltanto nel contesto di una proposizione un nome ha un significato» (n. 3.3). Tuttavia quando la mente forma l’idea di tavolo e la voce pronuncia il nome comune corrispondente, per quanto non si determini nulla rispetto al tavolo A o B, l’idea e il corrispondente significato di tavolo non sono dubbi. Occorre infine aggiungere che a mio avviso non pare adeguatamente valorizzato nella filosofia analitica di indirizzo strettamente linguistico l’elemento inferenziale su piano ontologico, quel processo cioè che a partire dal più noto trascorre alla conoscenza del meno noto, allargando così il campo della conoscenza. Sembra che un tale elemento sia espressamente lasciato da parte per concentrarsi sul già noto per una sua migliore comprensione. «La filosofia è invero impegnata con la realtà, ma non per scoprire nuovi fatti in essa: cerca piuttosto di migliorare la comprensione di ciò che già conosciamo. Non cerca di osservare di più ma di rendere più chiaro ciò che vediamo. Il suo scopo è, secondo la frase di Wittgenstein, di aiutarci a vedere il mondo correttamente»14.
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3. Esistenza e logica Logicus considerat modum praedicandi et non existentiam rei15. Questa concisa frase dell’Aquinate può venire assunta come traccia nel considerare in che modo si ponga il problema dell’esistenza entro la filosofia analitica. Assumiamo come ipotesi interpretativa provvisoria che questa, accaparrata dalle questioni del linguaggio e della rigorosa formalizzazione logica, si trovi in seria difficoltà nel fare i conti col problema dell’esistenza, che è poi il primo, il vero e in certo modo l’unico tema della filosofia. È la nostra ipotesi ermeneutica infondata e perfino preconcetta? Una risposta può venire da Quine, secondo il quale «Essere è essere il valore di una variabile»16. Lo stesso autore osserva: «Proprio come “a mangia” è un’abbreviazione di “a mangia qualcosa”, così “a è” è un’abbreviazione di “a è qualcosa”»17. Pur mettendo in atto un criterio di “carità interpretativa” che cerchi di volgere nel senso migliore le affermazioni in questione, è difficile non vedere in esse un’alta neutralizzazione dell’esistenza, manifestata in specie dal secondo asserto che riporta il giudizio di “esistenza assoluta” (“a è”) ad un giudizio di attribuzione, in cui un predicato-essenza inerisce ad un soggetto. Il grande scoglio che la filosofia analitica non sembra aver superato concerne, insieme alla questione dell’esistenza, il rapporto tra ontologia e logica. È sempre Quine che assicura che i problemi “ontologici” possono venire affrontati soltanto facendo ricorso agli strumenti della logica formale. L’esistenza è riportabile ad un quantificatore logico, come riteneva Frege? Ma se la logica, il cui dominio si estende a considerare la connessione tra concetti e le leggi del pensare, non può che prescindere dall’esistenza reale, porre una sorta di identità tra logica e ontologia conduce ad un assorbimento e snaturamento dell’esistenza nel mondo della logica. Essa è un organo o uno strumento prezioso; ma quando lo strumento la fa da padrone e logicizza l’esistenza, non si ha più come esito un’ontologia, ma un’ontologica, sia essa quella hegeliana con le sue immani pretese dialettiche, o quella meno pretenziosa ma ugualmente problematica di non pochi filosofi analitici18. Chi volesse osservare il dibattito in corso nelle scuole analitiche dell’oggi, troverebbe coloro che assegnano la priorità al linguaggio sul pensiero e quelli che viceversa attribuiscono il primo posto al pensiero sul linguaggio. I termini che risuonano risultano: enunciato linguistico e poi pensiero; oppure: pensiero e poi enunciato linguistico. Nella nobile gara fra questi due termini resta da domandare dove, in quale punto si apra un varco o un rinvio al reale. È possibile farlo senza chiamare in causa l’essere e la sua idea? Riportando la filosofia a critica del linguaggio e a logica, il primo 277
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Wittgenstein postulava una contiguità tra logica-linguaggio e realtàmondo, nel senso che tutta la filosofia era contenuta nella logica. All’isomorfismo tra pensiero ed essere si sostituisce quello tra logica e mondo: esiste una struttura logica del linguaggio in cui si rispecchia la struttura del mondo. Al rischio di identificare logica e ontologia e di pervenire ad una essenzializzazione dell’esistenza, Wittgenstein reagì con colpi di forza che sono ad un tempo esistenziali ed extrafilosofici, di cui il massimo sembra contenuto nel celebre aforisma: «Non come il mondo è, ma che è, è il mistico». Asserto che potrebbe rappresentare una apertura e perfino una autoconfutazione interna al Tractatus. Una frase come la citata può venire stesa da chi intraveda che non si danno giudizi esistenziali in logica, e che lasciata a se stessa la critica del linguaggio rischia di allontanare dall’esistenza: anche supponendo caritatevolmente che la logica – in virtù del suo presupposto isomorfismo col mondo – abbia successo nel dire come è fatto il mondo, non potrà mai dire perché esso sia. Non è senza motivo che un discreto numero di filosofi analitici si sia diramato verso il pragmatismo, dove azione ed esistenza appaiono più di casa e meglio tollerate. D’altro canto una fenomenologia di buona lega e la capacità di nutrire di contenuto intuitivo gli oggetti di cui si discorre, non sarebbero superflue per i pensatori analitici come antidoto a quel purismo metodologico che tende a neutralizzare il senso dell’essere e ad allontanare dall’esistenza. In forme varie, più spiccate nell’empirismo logico, sempre più incerte man mano che avanza il tempo nelle correnti della filosofia del linguaggio, la scuole filosofiche in questione negano alla filosofia lo statuto di disciplina conoscitiva speculativa, e perciò inclinano, dove più dove meno, verso il nichilismo teoretico propiziato da un oblio dell’essere secondo tappe in cui: il rapporto pensiero-essere viene sostituito da quello linguaggio-mondo; la filosofia prima ricondotta-ridotta ad analisi del linguaggio; livellata la diversità tra logica e ontologia; assegnato il massimo rilievo al momento critico da un lato e alla scienza dall’altro. Nell’esito risultano fattori influenti: a) l’omissione di un più approfondito esame delle dottrine della conoscenza, del concetto, del giudizio, dell’intenzionalità, dell’analitico e del sintetico e dell’astrazione19; b) il riconoscimento non solo di un primato ma di una sorta di unicità alla scienza e relativa conoscenza. Quando si può parlare di conoscenza, la dobbiamo solo alla scienza. Solo la scienza conosce: in tale criterio è da ravvisare il più sostanzioso omaggio alla legge dei tre stadi di Comte secondo cui l’età adulta della conoscenza è quella scientifica, e una forte dipendenza dall’antico positivismo ottocentesco. Il neopositivismo “puro e duro” di un Carnap, di un Ayer, di un 278
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4. Quante sono le scienze speculative? R. Carnap e i gradi di astrazione
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Quine non si nasconde dietro un dito, proclamando anzi il valore unico della scienza20, finendo peraltro per trovarsi alquanto spiazzato su due lati: nei confronti delle versioni fallibiliste della scienza, come della possibile rinascita della metafisica in ambiente analitico. Con l’assolutizzazione della scienza e l’equazione per cui teoretico = scientifico, si va verso una concezione univoca del sapere. Si procede verso un riduzionismo teoretico in cui è da ravvisare un volto del nichilismo: quel riduzionismo-nichilismo da cui è assente l’idea che esistano modi specificamente diversi nel rapporto tra intelletto e oggetto, da cui scaturiscono le differenti discipline speculative. A completamento dell’analisi ci accingiamo ora a meditare su quest’ultimo notevole argomento, prendendo dialetticamente le mosse dall’univocismo sostenuto da Carnap.
Quando Carnap pubblica La costruzione logica del mondo (1928), il Tractatus di Wittgenstein è già noto da alcuni anni, essendo uscito in tedesco nel 1921 negli Annalen der Naturphilosophie diretti da W. Ostwald e nel 1922 con traduzione inglese a fronte. L’obiettiva vicinanza dei due autori e l’intervallo temporale trascorso tra le rispettive opere possono rendere conto dell’influsso del Tractatus sull’opera di Carnap, da lui più volte riconosciuta nella prefazione alla seconda edizione del libro (1961). La condanna di tutte le tesi metafisiche operata da Carnap in “Pseudoproblemi della filosofia”, (che costituisce il secondo scritto entro La costruzione logica del mondo), ricalca quella di Wittgenstein, secondo il quale tutte le proposizioni metafisiche risultano prive di senso, ossia né vere né false non potendo in linea di principio venire verificate empiricamente21. La tesi dell’insignificanza delle proposizioni metafisiche è posizione più severa di quella che, sostenendo la loro estraneità al campo della scienza, si astiene dall’emettere un giudizio sul loro senso. La vicinanza tra i due autori si avverte anche nel modo con cui viene inteso “l’al di là della scienza”. Alla nota proposizione 6.52 del Tractatus («Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati»), fa da pendant quella di Carnap: «La tesi superba che non esiste alcun problema che per principio sia insolubile per la scienza si accompagna necessariamente all’umile consapevolezza che anche qualora si fosse data risposta a tutti i problemi, 279
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non si sarebbero con ciò assolti i compiti che la vita ci pone dinanzi» (p. 359). Mentre Carnap rimase fedele alla sua posizione filosofica sino alla fine, Wittgenstein si allontanò dalla propria via via dopo la pubblicazione del Tractatus. Carnap e coloro che rimasero entro le impostazioni del Wiener Kreis continuarono a sostenere che «il significato è il metodo di verificazione», al contrario il secondo Wittgenstein affermò che «il significato è l’uso»22. Lasciamo da parte questi cenni introduttivi per concentrarci sul problema di Carnap, che è quello logico epistemologico dello scopo e significato della scienza e della costituzione dei suoi oggetti. Il suo neopositivismo intendeva raggiungere una comunicazione priva di equivoci attraverso la costruzione di un linguaggio intersoggettivo rigoroso, ricalcato su quello della scienza. L’idea di verità come conformità fra mente e realtà è sostituita dalla ricerca di una intersoggettività linguisticamente articolata e verificata, mentre la questione della scienza e dei suoi oggetti rimane al centro. «Il fine della scienza consiste nel trovare e nell’ordinare gli asserti veri intorno agli oggetti della conoscenza» (p. 350). Sulla scorta di questa base procediamo a domandare: quali sono o come si presentano tali oggetti? Appartengono ad una sola classe oppure sono tipicamente differenti e dislocati su più piani? Poiché Carnap quando allude alla scienza, tratta solo di quelle teoretiche (il concetto di scienze pratiche sembra nel suo pensiero un non senso), le domande formulate si riportano a chiedere come nascono le scienze teoretiche e i loro oggetti, cioè se nascano per caso, per convenzione oppure rispondendo ad una intima necessità, che occorrerebbe chiarire. Questioni che non concernono la costituzione storicotemporale delle scienze, le quali sono venute formandosi e autocorreggendosi via via o cammin facendo, ma la loro struttura e il nesso con il reale e gli oggetti. È la modalità di “costituzione” dell’oggetto a conferire senso, campo di validità e statuto alla scienza corrispondente. Ora in Carnap il compito della costituzione degli oggetti e dei relativi concetti, che rappresenta lo scopo del volume a cui ci riferiamo, viene assolto mediante una convenzione (cfr. p. 351). Difficilmente avrebbe potuto essere avanzata una posizione diversa, se si considera che l’empirismo logico esclude la sintesi a priori kantiana, mentre sembra non abbia mai preso in esame la dottrina dell’astrazione. Comunque, nel processo reale della scienza accade che «gli oggetti vengano rilevati dallo stato conoscitivo che essi posseggono nella vita quotidiana e a poco a poco vengono purificati e razionalizzati» (p. 351). Nel testo di Carnap si cerca di porre in primo piano la costruzione logica a partire dalla determinazione stessa dell’idea di oggetti, che include non solo cose, ma anche 280
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proprietà e rapporti, classi e relazioni, stati e processi, il reale e l’irreale (cfr. p. 83). Il sistema di costituzione degli oggetti e dei concetti, oltre a suddividerli esaminandone differenze e rapporti, si pone come obiettivo di derivarli da alcuni concetti fondamentali, al fine di costituire un albero genealogico dei concetti e un loro sistema unitario. Viene perciò esperita la strada di ridurre oggetti (e relativi concetti) ad altri oggetti ritenuti più fondamentali o primari, adottando il metodo della teoria della relazione, sviluppata nella logistica di Russell e Whitehead, applicandola alla realtà, intesa soltanto come dato (empirico) secondo la riduzione perseguita da Avenarius, Mach, Poincaré, ecc. Il risultato della riduzione operata conduce all’albero genealogico dei concetti, che si presenta scandito in quattro livelli, da leggersi dal basso in alto: oggetti spirituali (formazioni e processi culturali) oggetti psichici altrui oggetti fisici oggetti psichici propri
Ciò significa che, essendo la conoscenza degli oggetti fisici legata alla percezione, gli oggetti fisici sono gnoseologicamente secondari rispetto agli oggetti psichici propri; che la conoscenza del campo psichico altrui rinvia alla conoscenza del campo fisico, nel senso che quando tale conoscenza è conseguita, essa accade solo tramite percezione di oggetti fisici (dunque questi sono gnoseologicamente primari rispetto a quelli); che gli oggetti spirituali sono gnoseologicamente secondari rispetto agli oggetti psichici altrui e fisici (cfr. p. 397 s.). Gli oggetti metafisici non fanno parte ad alcun titolo dell’albero genealogico: il motivo più radicale, al di là del tema della loro presunta insensatezza, sta nel fatto per cui nella costituzione logistico-empirica e riduzionistica degli oggetti, è stato chiuso ogni varco perché possa presentarsi quello di essere. Più di quanto si immagini, Carnap è discepolo di Cartesio, poiché le due scienze da lui considerate primarie sono la fisica e la psicologia, dove il pensiero è ridotto a flusso psichico. Il suo riduzionismo, in cui emergono come rilevanti il livello fisico e quello psichico proprio, si propone come la chiave di volta per una comprensione univoca del mondo naturale e di quello umano, capace di cancellarne le differenze. Vi è un modo per uscire dal secco riduzionismo dell’albero carnapiano? Perché si dia, occorre reintrodurre l’essere-esistenza reale e il suo concetto, e domandare in maniera impregiudicata sul nesso che intercorre tra l’attività conoscitiva umana e gli oggetti. Si vedrà allora 281
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che gli oggetti non vengono costituiti più o meno arbitrariamente dall’epistemologo, ma che essi emergono con immanente necessità dall’attività astrattiva dell’intelletto nel suo rapporto integro, ossia non coartato o ridotto aprioristicamente, con le cose. In tal modo nascono, secondo differenti modalità o gradi di astrazione, le diverse scienze teoretiche (fisica - filosofia della natura; matematiche, filosofia prima); e perciò il concetto di scienza è analogo, non univoco e unitario. Carnap, Neurath, e in genere i neopositivisti logici impiegano un concetto radicalmente univoco di scienza, anch’esso di ascendenza cartesiana. Il primo ha perseguito l’obiettivo di costituire la scienza unitaria (cfr. p. 350) e Neurath desiderava raggiungere una concezione scientifica del mondo, scevra da pregiudizi e capace di esprimersi in un sapere enciclopedico unificato. Accingendomi a presentare sommariamente i modi plurimi con cui la mente si rapporta alla realtà, facendone emergere diversi oggetti secondo le varie scienze speculative, occorre presupporre i caratteri generali del conoscere già illustrati nel capitolo I: l’intelligenza quale facoltà percettiva-astrattiva, che astraendo percepisce e percependo astrae; l’identità intenzionale tra intelletto e oggetto nel concetto, la formazione di questo, ecc. Entro un tale quadro si presenta presto l’interrogativo se il generale rapporto percettivo-astrattivo tra mente e realtà si attui secondo modalità univoche o plurime. Si intende facilmente l’alto rilievo del tema, venendo esso a chiedere in definitiva se il sapere speculativo sia di un solo tipo o di più tipi: nel primo caso avremmo un solo Sapere o Scienza e dunque un fondamentale monismo o univocismo metodologico ed epistemologico, nel secondo un pluralismo a sfondo analogico; nel primo l’idea che tutte le scienze sono parti di un’unica struttura epistemica che autorizza il perseguimento di programmi enciclopedici e la ricerca di una struttura unificata del sapere (come accadde in alcuni membri del Wiener Kreis); nell’altro l’idea che tale struttura universale-enciclopedica non può darsi (pur potendo essere legittima entro un certo livello e limitatamente ad esso), perché il rapporto tra intelletto e realtà è intrinsecamente variato, e nella sua diversità disegna un quadro delle discipline teoretiche non riconducibile ad un solo schema. Per intendere la dottrina dei gradi di astrazione, risalente nelle sue grandi linee ad Aristotele, occorre entrare in una determinazione più attenta delle due fondamentali modalità di astrazione: quella totaleestensiva e quella formale-intensiva (abstractio totalis e abstractio formalis, per impiegare il linguaggio a cui si è fatto a lungo ricorso nelle scuole filosofiche che hanno sviluppato tale linea). L’astrazione totale o estensiva è pre-scientifica, perché non coglie i nuclei specifici e i caratteri propri dell’oggetto considerato, ma passa 282
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ad universali sempre più generali e generici, secondo classi e quadri logici sempre più ampi. Nell’astrazione totale le particolarità individuanti che costituiscono la singolarità degli oggetti sensibili sono trascurate, mentre l’intelligenza coglie nella loro portata universale i caratteri generici presenti nelle cose. Con l’astrazione totale si accede perciò all’universale, ma ad un universale sempre più ampio e indistinto mediante una visualizzazione estensiva, che ad esempio trae da Enrico, Giovanni, Pietro l’oggetto di pensiero “uomo”, e da uomo trae “animale”, da animale “vivente”, e così via. Lungo questa strada si opera una semplice astrazione del tutto universale rispetto alle parti, che tenta di cogliere tratti nozionali comuni a più individui, senza coglierne i tipi propri. Nell’ambito dell’astrazione totale l’oggetto di pensiero “ente” è colto come concetto dotato della massima estensione, come concetto vago, al più comodo per abbracciare nella sua indistinta universalità tutto quanto esiste. Al contrario l’astrazione formale-intensiva o tipologica è scientifica, poiché si indirizza ai caratteri intelligibili propri dell’oggetto, cercando di liberarne la “forma tipica” dai dati contingenti e materiali. Nell’astrazione formale non si pone attenzione all’idea generale che conduce verso quadri sempre più vasti e generici, ma ad una determinata forma o carattere costitutivo di un oggetto, ad un determinato tipo intelligibile, in un processo che, per così dire, introduce la terza dimensione: si esce dal piano dei quadri logici rappresentati da cerchi sempre più ampi, per accedere alla dimensione del tipico. Qualcosa viene lascito da parte affinché ciò a cui si mira venga alla visualizazzione intellettuale e ci si concentri meglio sul proprio oggetto. La problematica dei gradi di astrazione concerne l’astrazione formale o visualizzazione intensiva, con la quale si entra in tre livelli successivi di intelligibilità, che non sono in continuità uno con l’altro, ma ciascuno dei quali costituisce un tipo proprio ed un ordine a parte. Si tratta di comprendere che si dà nella realtà una scala di intelligibilità e di comunicabilità, che in ultima analisi dipende dalla “materia prima”. In effetti il filosofo è condotto a riconoscere che, partendo dalla incomunicabilità assoluta del nulla, la comunicabilità dell’essere percorre diversi gradi: è ad un grado minimo nella materia prima, di per sé inconoscibile e che si comunica all’intelligenza solo attraverso la forma che l’attua. Raggiunge livelli crescenti di comunicabilità nell’azione transitiva intercorrente tra corpi inanimati, poi nell’azione che si esercita sulla percezione sensoriale dei viventi; infine nella comunicabilità propria della conoscenza intellettuale in cui le cose esistono intenzionalmente nel conoscente nella loro realtà essenziale, e non soltanto in virtù di un’azione transitiva. 283
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Pervenuti al livello della conoscenza intellettuale, la comunicabilità o conoscibilità propria dell’oggetto in rapporto alla mente si dispone lungo tre differenti gradi o livelli di conoscenza, caratterizzati da tre specifici modi del rapporto intelletto-oggetto, in cui questo viene per così dire progressivamente smaterializzato. Al primo livello l’astrazione dinanzi alla cosa corporea, che è presente all’intelligenza attraverso l’informazione sensibile, opera nel senso di lasciare da parte la sua esistenza materiale-singolare, mentre ne visualizza le qualità sensibili. Quanto viene intenzionato non è né l’individuale come tale, né l’ente in quanto tale, ma gli enti-corpi sensibili con tutte le diversità qualitative proprie all’universo sensibile. Secondo una formula consacrata dalla tradizione, si usa dire che al primo grado di astrazione lo spirito fa astrazione dalla “materia individuale” non dalla “materia sensibile”; l’oggetto (formale) delle scienze della natura e della filosofia della natura, che operano a tale primo livello, è l’ente corporeo intenzionato in quanto diveniente e liberato dalle condizioni di singolarità e contingenza proprie della sensazione, non però liberato dalla materia23. L’oggetto che l’intelligenza proporziona a se stessa a tale livello non può né esistere né essere concepito senza la materia24. Oltre il primo livello di astrazione, l’intelligenza, cercando di discernere nel referto sensibile un sovrappiù di informazione che il senso veicola e non coglie, procede a liberarsi dalle limitazioni della materia e a portarsi verso universi di intelligibilità più puramente smaterializzati. Questo allontanamento dal sensibile, che avviene secondo le due direzioni fondamentalmente differenti delle Matematiche e della Metafisica, non andrebbe inteso come un atto arbitrario, quanto come una necessità immanente al processo conoscitivo: in quanto il contenuto di intelligibilità dell’oggetto non viene esaurito dal primo livello di visualizzazione astrattiva, l’intelligenza passa ad un’altra modalità di rapporto con esso (cioè ad un diverso livello di astrazione), nel quale cogliere ciò che finora non si comunicava. A tal fine essa deve elevare l’oggetto a crescenti gradi di immaterialità: a intelligibilità crescente corrisponde immaterialità crescente. Al secondo grado di astrazione (proprio della matematica) l’intelligenza coglie nella cosa la dimensione quantitativa dell’ente corporeo. L’astrazione matematica separa la quantità dal soggetto-sostanza in cui concretamente inerisce: viene lasciata da parte la materia sensibile, per considerare soltanto la quantità. Al secondo livello di visualizzazione, in cui l’intelligenza fa astrazione dalla materia individuale e da quella sensibile (ma non dalla “materia intelligibile”), viene considerato l’ente-oggetto sotto l’angolo di visuale della quantità, secondo «un tipo di visualizzazione nella quale cadono non soltanto le condizioni di sin284
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golarità, ma ogni riferimento alle percezioni del senso esterno, e in cui l’oggetto è visto e definito dall’intelligenza solo in riferimento (diretto o indiretto) ad una costruibilità nell’intuizione immaginativa»25. Esempi di astrazione matematica sono le entità geometriche (linea, cerchio, superficie, ecc.) che non esistono nella loro purezza e astratte da ogni soggetto e materia se non nella mente, mentre nella realtà la superficie sarà di legno o di marmo, ossia coinvolta nelle qualità sensibili dai quali prescinde la visualizzazione matematica per rivolgersi soltanto alla quantità. Essa dunque considera oggetti che possono essere concepiti ma non possono esistere senza la materia. Elevando ulteriormente in immaterialità la cosa corporea, privandola delle sue proprietà sensibili e quantitative, ossia di tutto ciò che in essa proviene dalla materia, l’intelligenza può penetrare ulteriormente nell’oggetto. La conoscenza metafisica è raggiunta al terzo livello di visualizzazione, che prescinde da ogni materia (individuale, sensibile e intelligibile) e che si rivolge all’ente in quanto ente, ai trascendentali, all’atto e alla potenza, ecc. Mentre l’oggetto della filosofia della natura e delle scienze della natura è l’ente sensibile diveniente, e l’oggetto delle matematiche è la quantità, l’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, raggiunto in una visualizzazione intellettuale nella quale sono lasciate da parte la singolarità e il riferimento sia alle percezioni del senso esterno sia ad una costruibilità nell’intuizione immaginativa. A tale livello vengono considerati oggetti che non solo possono venire concepiti senza la materia, ma possono esistere senza di essa. Per dissipare eventuali malintesi aggiungiamo che costituirebbe un equivoco intendere i tre gradi di astrazione lungo un’unica verticale, secondo un dinamismo di pura e semplice universalizzazione crescente, che considererebbe la matematica più astratta e più generale della fisica, e la metafisica più astratta e più generale della matematica. Nel rapporto dell’intelletto con le cose, ciascun grado corrisponde ad un modo tipico di affrontare il reale e di impadronirsi di esso: in effetti gli oggetti raggiunti ai tre livelli sono costituiti in virtù di astrazioni formali, che implicano irriducibili eterogeneità e fondamentali diversità di intelligibilità, e che esigono operazioni intellettuali specificamente differenti. Non c’è dunque semplice differenza interna tra i gradi di astrazione, come se facessero parte di un unico genere: appartengono invece a domini diversi, ed il concetto di ente, che ricorre ai vari gradi, non è univoco, ma essenzialmente analogo. Sussistono dunque buoni motivi perché i filosofi manifestino diffidenza dinanzi alla prospettiva di abbandonare l’autonomia del loro campo rispetto a quello delle scienze e al loro linguaggio. Affermare che le tre specifiche visualizzazioni astrattive non sono 285
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sulla stessa linea, comporta una conseguenza di rilievo, ossia che non è strettamente necessario attraversare i gradi inferiori di astrazione per giungere alla visualizzazione eidetica della metafisica. Sebbene l’organismo della filosofia comprenda anche la filosofia della natura, la storia della filosofia registra esempi di speculazione che è acceduta direttamente alla metafisica: questo potrebbe essere il caso di filosofie orientali. Nelle posizioni di Carnap affiora qualcosa di paradossale per l’intera scuola, ossia un’inerente incapacità di elaborare un concetto polivalente e analogo di scienza, legato ai modi tipicamente diversi con cui la conoscenza umana si rapporta agli oggetti, mentre viene ribadito il limite dell’univocismo. Ad esso si legano i presupposti dogmatici dell’empirismo logico: esiste la Scienza; solo essa conosce; scienza e cultura scientifica sono gli unici paradigmi della razionalità; l’intero è solo l’intero dell’esperienza.
5. Alle prese con l’esistenza La filosofia analitica ha cambiato pelle più di una volta, e alcuni suoi sostenitori sono perfino giunti a ripudiarla. È segno di cautela non emettere previsioni sul suo sviluppo futuro, restando invece al già accaduto dove da qualche lustro è in atto una trasformazione notevole: un avvicinamento fra analitici ed ermeneutici in concomitanza con un rafforzamento del metodo linguistico nei primi. In questa evoluzione può leggersi l’incrocio di vari fattori. Neopositivismo e filosofia analitica eressero dall’inizio la lotta contro la metafisica ad obiettivo centrale, attraverso un metodo che si imperniava sul riferimento esclusivamente empirico, sul purismo logico-formale, sulla dichiarazione di non-senso delle proposizioni metaempiriche. Il fallimento dell’attacco, oltre a costituire uno degli esiti più importanti della filosofia del XX secolo, non ha sinora prodotto vere e proprie svolte, poiché nei pensatori usciti dalle due scuole non sembra finora accaduta una ripresa di contatto con la scienza dell’ente in quanto ente. In esse si è forse intuito che il massimo problema filosofico è quello dell’esistenza (non è senza ragione che Quine ponga tanto spesso la domanda: quali oggetti esistono?), senza però venirne a capo. Perciò esse non possono continuare come tali, dovendo presto o tardi trasformarsi in altro. A nostro avviso l’esito rappresentato dall’impossibilità di risolvere il problema dell’esistenza si raccorda ad una serie di postulati ed equivoci che hanno a lungo costituito l’ossatura del loro approccio. Quan286
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do la riflessione filosofica, in questo caso in armonia con quella del senso comune, affronta il tema dell’esistenza, avverte che il suo senso primario è l’esistenza degli individui. Essi e soltanto essi esercitano nelle forme più varie l’atto d’essere. L’esistenza è dunque una “proprietà” degli oggetti, non dei concetti. Frege, uno dei capostipiti della filosofia analitica, sostiene sfortunatamente il contrario, col risultato che l’enunciato “Socrate esiste” sarebbe privo di senso non potendosi parlare dell’esistenza di oggetti, ma solo di concetti. L’alta neutralizzazione dell’esistenza che viene così raggiunta si lega ad uno spostamento decisivo, per cui il primato non risiede più nel piano ontico ma in quello del pensato, a sua volta ricondotto-ridotto al lato linguistico e a quello logico-formale. Entrando in questa sfera non è più possibile per la filosofia impostare il problema dell’esistenza. Essa infatti non è ultimamente linguistica e d’altro canto non si danno giudizi esistenziali in logica, nel senso che questioni di esistenza e di essenza non possono venire risolte coi mezzi della logica formale. Vi sarebbe forse una via d’uscita dall’impasse, ma disastrosa, e qualcuno non è indietreggiato dinanzi ad essa, nonostante la dissoluzione del problema dell’esistenza che viene raggiunta: sostenere che l’essere/esistenza è soltanto linguaggio. È significativo che nella riduzione dell’essere a linguaggio si realizzi un notevole punto di incontro fra filosofia analitica ed ermeneutica. Ora il problema dell’esistenza non è linguistico ma metafisico, non è logico ma ontologico. Ciò significa che nel rapporto fra logica e ontologia è la prima che si fonda sulla seconda, e non viceversa: ciò sia detto salvaguardando la disgiunzione che sussiste fra logico e ontologico, per cui il pensiero non ha soltanto le leggi del reale ma anche leggi proprie. Partire dalla logica per affrontare l’esistenza e stabilire la verità degli enunciati “qualcosa esiste” è un’illusione a cui il neopositivismo ha cercato di sottrarsi attraverso una via di fuga: riducendo la portata del problema insito nel “qualcosa esiste”, poiché a tali giudizi viene attribuito senso se e solo se essi sono rigorosamente empirici (l’asserto “Dio esiste” è perciò considerato privo di senso). Alla mancata distinzione fra logica e ontologia si raccorda la posizione dell’esistenza come quantificatore esistenziale, per cui secondo Quine «essere è essere il valore di una variabile» o anche «essere ritenuti entità vuol dire unicamente e semplicemente esser considerati valori di una variabile»26. Non vi è nulla di reprensibile nell’assunto che si possa fornire un contributo alla filosofia analizzando, chiarendo e migliorando il linguaggio da essa usato. Tale metodo cambia però radicalmente struttura quando, partendo dalla constatazione che gli enunciati metafisici so287
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no espressi in forma linguistica, si forma la conclusione secondo cui la metafisica si riduce solo ad analisi del linguaggio. Se così fosse, le parole e non le cose o l’ente costituirebbero il punto di partenza e di arrivo degli argomenti filosofici. Sostenere che lo studio del linguaggio costituisca l’oggetto della filosofia possiede la stessa plausibilità dell’affermazione secondo cui lo studio delle mappe geografiche rappresenti l’oggetto della geografia. Il riduzionismo praticato dall’empirismo logico e da considerevoli settori della filosofia analitica e così configurabile: riduzione della filosofia alla scienza; della ontologia alla logica; del pensiero al linguaggio; dell’essere solo a quello empirico, avvia verso l’impasse il tentativo di procedere all’accertamento della struttura dell’intero. A questo esito contribuisce un notevole equivoco della filosofia analitica, ossia la mancanza in essa proprio del metodo analitico o risolutivo, inteso come risalimento inferenziale dagli effetti alle cause (cfr. su ciò i capp. II e XII). Cedendo ad una confusione terminologica e concettuale, i filosofi analitici e gli empiristi logici impiegano di fatto il metodo sintetico discendendo dai “principi”, che per loro in genere valgono come meri postulati, alle conseguenze logicamente da essi desumibili. Per gli analitici analitico significa tautologico; e del metodo analitico, che è quello seguito dalla metafisica nell’accertamento della struttura dell’intero, pare che non vi sia notizia. Anche da questo lato si manifesta l’antirealismo di questa scuola, poiché il processo proprio della conoscenza umana parte e non può non partire da ciò che è a noi più vicino e più noto per tentare di ascendere alla conoscenza del resto. Viceversa nel metodo sintetico, che procede dalle cause agli effetti, occorre prendere le mosse da quanto è per noi il più lontano, che pertanto potrebbe essere conosciuto o a priori o per rivelazione. Note 1
M. Dummett, Riflessioni sulla “terza navigazione”, in AA. VV., La navicella della metafisica, Armando, Roma 2000, p. 96. 2 “L’intero contenuto del realismo è racchiuso nell’affermazione secondo cui ha senso concepire un punto di vista dell’occhio di Dio”, H. Putnam, Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna 1995, p. 131. 3 Ubaldini, Roma 1966, p. 145. 4 Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, §§ 89 e 97. 5 Il problema del significato, p. 42 (sottolineatura nostra). Cfr. anche: “Lo scienziato è in verità creativo, pone gli oggetti fisici...”, “The pragmatistis’ place in empiricism”, in AA. VV. Pragmatism, University of South Carolina Press, Columbia S. C. 1981, p. 34.
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6 La relatività ontologica e altri saggi, Armando, Roma 1986, p. 146. Dello scientismo radicale di Quine dice Diego Marconi, “Il Michelangelo dell’empirismo”, Il Sole-24ore, 31 dicembre 2000, p. 25. 7 In Quine, come in ogni empirismo rispettabile, le differenze di natura sono ricondotte a differenze di grado. Ciò accade ad es. nell’indebolimento della demarcazione fra analitico e sintetico (cfr. Il problema del significato ) e di quella fra rapporti di idee e questioni di fatto. Col tentativo di negare la differenza fra analitico e sintetico si conduce a conclusione una vicenda cominciata in modo dubbio con Kant e che si conclude in maniera ancora più dubbia. Dopo che questi aveva introdotto i giudizi analitici, quelli sintetici a posteriori e sintetici a priori, l’empirismo logico sopprime il terzo tipo e Quine nega la fondatezza della differenza fra gli altri due. È notevole che egli lasci completamente da parte il tema della contraddizione, ossia che le proposizioni analitiche non si possono negare senza incorrere nella contraddizione, mentre ciò non accade nelle sintetiche a posteriori e ciò stabilisce una fondamentale differenza. Mentre è contraddittorio negare che “ogni uomo non sposato è scapolo”, non vi è contraddizione nel pensare che i metalli riscaldati si restringano, nonostante che nel mondo come lo conosciamo non accada così, perché nessuna necessità intelligibile è qui all’opera. Che l’impostazione kantiana sull’analitico e il sintetico e successive trasformazioni debba essere abbandonata e impostata diversamente, si è cercato di mostrarlo nel cap. IV. 8 La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991, p. 24. 9 H. Putnam, Realismo dal volto umano, p. 131. 10 Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 162s. Rivedendo la sua posizione sul realismo, Putnam ha anche mutato quella sulla filosofia analitica: ”La filosofia analitica ha senza dubbio conseguito importanti risultati; si tratta però di risultati negativi. La filosofia analitica come il positivismo logico (a sua volta solo una varietà particolare di filosofia analitica) è riuscita a distruggere il problema stesso con cui ha esordito. Tutti gli sforzi per risolvere il problema o anche solo per dire che cosa, esattamente, potrebbe considerarsi come una sua soluzione, sono falliti... Si ha pertanto il seguente paradosso: nel momento stesso in cui la filosofia analitica viene riconosciuta come il “movimento dominante” del panorama filosofico mondiale, essa è giunta al termine del suo stesso progetto - non al completamento ma a un punto morto”, Realismo dal volto umano, p. 169 s. 11 Ricerche filosofiche, § 124. 12 M. Marsonet, Logica e ontologia nella filosofia analitica, «Acta Philosophica», fasc. I, p. 28. 13 M. Dummett, La verità e altri enigmi, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 66. Analoghe espressioni in La base logica della metafisica (Il Mulino, Bologna 1996): «Il punto di partenza della filosofia deve essere l’analisi della struttura fondamentale dei nostri pensieri... Quello che si potrebbe chiamare la filosofia del pensiero sta a fondamento di tutto il resto» (p. 14). E anche in «Riflessioni sulla ‘terza navigazione’» (AA. VV., La navicella della metafisica):
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«Allora l’unica risorsa del filosofo è l’analisi dei concetti che già possediamo, ma intorno ai quali restiamo in uno stato di confusione» (p. 99). Quando leggiamo «la filosofia del linguaggio è il fondamento di tutto il resto della filosofia», (La verità..., p. 63), è naturale l’accostamento all’idea wittgensteiniana secondo cui la filosofia è soltanto critica del linguaggio. Che questa sia una posizione ambivalente, che basta poco per farla evolvere verso l’antirealismo, sembra confermato da varie espressioni che si rinvengono nell’autorevole pensatore inglese. Egli osserva: «I fatti corrispondono alle proposizioni vere […] d’accordo con Frege io dico che è alle proposizioni che si riferisce la verità, non ai fatti» (Prof. Vattimo, non dimentichi la ragione, “Il Sole-24 Ore”, 3.8.1997, p. 28). Dei due enunciati di cui si compone la citazione, il primo è sufficientemente sorprendente perché non sia difficile, per renderlo vero, capovolgerlo (“Le proposizioni vere corrispondono ai fatti”), mentre il secondo, inteso in senso realistico, è vero ed era già stato formulato da Aristotele, secondo il quale la verità sta più nella mente che nelle cose. Si può forse rintracciare un prodromo dell’assunto di Dummett in Frege per il quale «un fatto è un pensiero che è vero» (Ricerche logiche, Guerini, Milano 1988, p. 68). L’intento di Dummett è di sostenere una vigorosa istanza antiscettica. Egli nutre fiducia che attraverso la costruzione di una teoria del significato sia possibile pervenire «alla risoluzione di problemi di profonda portata, dinanzi ai quali la filosofia si è a lungo – per secoli in taluni casi – arenata» (La base logica..., p. 32). L’orientamento si sostanzia nel tentativo di indagare e eventualmente risolvere le dispute metafisiche. Nel fare ciò, non si riconosce però la validità di un sistema logico specifico, ma si descrive «come la scelta fra logiche differenti nasca al livello della teoria del significato e dipenda dalla scelta di questa o quella forma generale di teoria-del-significato» (p. 35). Si deve scegliere fra logica classica e non classica (intuizionistica, quantistica, ecc.), nella quale eventualmente non vale il principio del terzo escluso. Un’impostazione del genere, nella misura in cui pare ricadere nel primato del logico sul reale - il quale non si adatta neppure a colpi di martello alle logiche non bivalenti - non è fatta per tranquillizzare e dare sostegno all’antiscepsi. 14 M. Dummett, “Riflessioni sulla ‘terza navigazione’”, in La navicella della metafisica, p. 99. 15 In Met., l. VII, lectio XVII, n. 1658. 16 Il problema del significato, p. 16. 17 La relatività ontologica e altri saggi, p. 117. 18 Anche attraverso la dottrina della predicazione è possibile percepire l’originalità e l’irriducibilità del tema dell’essere. Infatti nessun predicato è vero di ogni cosa, ossia attribuibile ad ogni soggetto-sostanza: ad es. il predicato “bianco” si applica a vari soggetti, mentre ve ne sono molti altri a cui ripugna. Ma che dire del predicato “esistente”, come nel giudizio “A è esistente”, qualunque sia poi la forma di esistenza? Il meno che si possa dire è che, essendo vero di ogni cosa-soggetto, costituisca un predicato sui generis, o più esattamente che non è un predicato. Dunque “essere” ed “esistenza” non sono pre-
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dicati reali, poiché contravvengono alla legge secondo cui nessun predicato è vero di ogni cosa. 19 Chi rifletta sul primo capitolo di Parola e oggetto di Quine, non tarderà a percepire che l’autore, entro l’intento di prospettare un vivido resoconto della percezione sensoriale e dei corrispondenti dati linguistici semplici e complessi, tratta il processo conoscitivo come se in esso l’opera dell’intelletto non esistesse. Rimane l’interrogativo se vi sia una conoscenza intellettuale o se l’intelletto si limiti soltanto a registrare percezioni sensoriali. 20 Fa parte del bagaglio tipico del neopositivista l’assunto della continuità tra scienza e filosofia, e nei casi più radicali la cancellazione della seconda a favore della prima. Quine e Ayer rappresentano in modo eccellente le due posizioni. Per il secondo «non sussiste alcun campo di esperienza che in linea di principio non si possa portare sotto qualche forma di legge scientifica, né alcun tipo di conoscenza speculativa intorno al mondo che, in linea di principio, la scienza non sia in grado di dare» (Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1987, p. 35). Viene così cancellato con un tratto di penna ogni compito della filosofia speculativa, e il sapere teoretico riservato solo alla scienza. Quine intende la filosofia «non come una propedeutica a priori o una base per la scienza, ma come continua con la scienza» (Relatività ontologica…, p. 146). In tale continuità non sembra esservi per la filosofia un compito proprio o una sua almeno parziale autonomia metodologica, se «il giudice finale è il metodo scientifico per amorfo che sia […] Il metodo scientifico è la via alla verità, ma non offre neppure di principio alcuna definizione unica di verità» (Parola e oggetto, p. 34 e p. 35). 21 «Tutto quanto sta al di là del fattuale deve essere incondizionatamente riguardato come privo di significato», R. Carnap, La costruzione logica del mondo, a cura di E. Severino, Fratelli Fabbri editori, Milano 1966, p. 403. 22 Nella sfida elevata da Wittgenstein nei confronti della filosofia, a cui veniva negato ogni carattere di scienza o sapere, era immanente un eccesso di sicurezza e di altisonanza, a partire dall’assunto che tanti (o forse tutti) problemi filosofici costituissero inutili crampi mentali. Quell’eccesso può forse venire ricapitolato in tre sentenze dell’autore: a) «la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile» (Prefazione al Tractatus); b) «La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali» (4.11); c) «la filosofia non è una dottrina ma un’attività» (4.112). In quanto le proposizioni b) e c) non appartengono alla scienza, ma alla filosofia, dovrebbero risultare prive di senso, ossia né vere né false. Se fossero false, il loro contrario sarebbe vero e perciò apparterrebbero alla scienza naturale. Tuttavia né il contrario di b) né quello di c) costituiscono asserti della scienza. Se fossero vere, costituirebbero verità filosofiche, contro l’assunto sul carattere non conoscitivo della filosofia. Dunque b) e c) risulterebbero prive di senso, contro a) che parla di verità definitiva. Si dovrebbe concludere che il rasoio dell’empirismo logico provvede all’autoghigliottina. Con verve polemica Popper ha sostenuto che la maggior parte delle pro-
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posizioni di Wittgenstein è priva di senso, poiché egli si occupò del senso e non del tema della demarcazione tra proposizioni scientifiche e non scientifiche. Cfr. La società aperta, vol. II, Armando, Roma 1996, pp. 356 s e 440 s. 23 Nel volume Razionalismo critico e metafisica. Quale realismo?, si è cercato di mostrare che le scienze della natura e la filosofia della natura si costituiscono al primo grado di astrazione, ma con specifiche diversità dipendenti dalla differente risoluzione: empirica nelle scienze naturali, ontologica nella filosofia della natura. Cfr. p. 32-34. 24 Sul primo grado di astrazione così si esprime San Tommaso: «oportet hujusmodi rationes, secondum quas de rebus mobilibus possunt esse scientiae, considerentur absque materia signata et absque omnibus his quae consequuntur materiam signatam, non absque materia non signata, quia ex ejus notione dependet notio formae quae determinat sibi materiam […] Et quia singularia, includunt in sui ratione materiam signatam, universalia vero materiam communem […] ideo praedicta abstractio non dicitur formae a materia absolute, sed universalis a particulari» (In lib. Boet. De Trinitate, q. 5, a. 2). 25 J. Maritain, Sette lezioni sull’essere, p. 111. 26 Il problema del significato, p. 14.
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Capitolo decimo
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Conseguenze del nichilismo
Inteso come il paradigma spirituale in cui si condensa il senso di un’epoca, il nichilismo stabilisce l’ambiente culturale dove il soggetto umano si trova a vivere, l’aria che respira sin dalla nascita, l’orizzonte apparentemente insuperabile entro cui ogni problema dovrebbe venir posto. Esso sarebbe da concepire come il termine riassuntivo di un processo di decadenza della civiltà e dell’uomo, come nichilismo negativo, che toglie la volontà di vivere e di operare. Riferendosi soprattutto a quest’ultimo, Nietzsche ne ha introdotto la già ricordata determinazione: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al perché», con il carattere tragico che le è proprio. Come un cammello caricato dal peso delle proprie contraddizioni e dalla signoria dell’assurdo, il pensiero del nichilismo individua il carattere fondamentale dell’ente nella tragicità. Nello stesso tempo giunge a compimento il carattere proprio di ogni nichilismo: l’estraneità o esteriorità dell’essere, nel senso che questo non “parla” al pensiero, e la realtà delle cose non è la loro propria luce. Si può aggiungere che l’assunto nicciano appare coerente con la valutazione, tante volte ripetuta ma non meno vera, che nella cultura occidentale contemporanea circoli un immenso dispiegamento di mezzi sempre più ricchi e potenti, ed una grande incertezza sui fini. Se possiamo sempre di più, ma non sappiamo a che scopo, i fondamentali paradigmi del rapporto umano non si sottraggono all’ombra del nichilismo. Anche un’osservazione cursoria persuade della molteplicità delle sue espressioni nell’esistenza contemporanea, quasi armoniche di un unico essenziale evento spirituale. Più che inseguire, in una corsa che non sarebbe mai conclusa, i suoi molteplici travestimenti, risulta più produttivo esplicitare alcuni nuclei importanti del suo dispiegarsi. Ne proporremo due, vertenti il primo sulla mortalità del finito e la banalizzazione del morire, tema in cui forse si rivela il nesso fra nichilismo, morte e oblio dell’essere; il secondo sul silenzio che avvolge il senso 293
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della storia, cui coerentemente si collega la presente dissoluzione della filosofia della storia, una delle discipline di cui la modernità menò grande vanto. Ad essa si sostituisce lo storicismo della cultura delle epoche quale antitesi della concezione della storia come visione unitaria dell’ecumene umano.
1. Finitezza e mortalità L’abbandono dell’“eterno ritorno” quale punto apicale del nichilismo per il “ritorno all’eterno” si è palesato come condizione necessaria per il superamento del nichilismo. Mentre nell’eterno ritorno quanto vi è di eterno è solo il ritornare, nel ritorno all’eterno nuovamente si dischiude il senso fondamentale dell’essere secondo cui essere nel senso più alto è essere sempre. L’oblio dell’essere include in maniera dispiegata l’oblio dell’eterno, dello strato eterno e immutabile dell’essere. Questo oblio si apparenta alla persuasione della originarietà, ovvietà e improblematicità del divenire: tutto diviene, questa è per il nichilismo speculativo l’unica “verità eterna”, e tutto quanto può essere affermato. Sul solo divenire quale evidenza indiscutibile non si può fondare nessun sapere stabile, nessuna episteme nel senso di pervenire inferenzialmente ad uno strato eterno dell’essere, sempre indenne, sempre salvo dal mutamento e dal nulla, e perciò capace di custodire quanto nasce e perisce: quell’Essere-senza-il-nulla che pone e ha cura dell’essere-con-il-nulla. Nel nichilismo essere è sempre essere-con-ilnulla. Con il nichilismo entra in eclisse l’idea che il Trascendente possa risolvere l’angoscia del divenire e il terrore della morte (mortis metus) che assedia l’uomo. Ora l’allontanamento o l’oblio dell’eterno rende impraticabile la questione della morte, produce il non-pensamento e la banalizzazione del suo tema. Concorre a questo esito il progetto scientistico di integrale naturalizzazione dell’uomo, oggi diretto alla naturalizzazione senza residui dello spirito/mente, che riconduce il problema-mistero della morte a fatto completamente biologico. In pari tempo in questo snodo si produce l’energica cura dimagrante che il nichilismo imprime al pensare attraverso la cancellazione della meditatio mortis come una delle grandi sorgenti della filosofia sin dagli albori, come con voce unica ha ricordato Platone. Su questi aspetti conviene sostare. Nel nichilismo la drammaticità inerente alla condizione umana, intessuta di dolore, paura della morte, colpa, finitudine, viene assolutizzata in un pensiero della finitezza e della mortalità, dove domina sul proscenio la negatività quale espressione della durezza di uno spirito 294
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che dissolve, annienta, nega. Esso non solo contempla senza indietreggiare l’assoluta devastazione, ma tende a produrla, senza speranza di un passaggio dal negativo al positivo, quel passaggio che Hegel preconizzava (ma che rimaneva altamente congetturale), ossia che la dimora presso il negativo fosse capace di mutarlo in essere1. Nell’atteggiamento del finitismo si rimane entro l’ambiguo fascino sprigionantesi dalla sentenza secondo cui «tutto ciò che esiste merita di morire»2. Questo implacabile giudizio, in cui si esprime il segreto della dialettica, la concezione dell’essere come continuo divenire e la negatività di ogni condizione raggiunta, potrebbe forse avere un senso accettabile, se venisse riferito al finito e unito ad un pensiero dell’infinito. Nelle culture del nichilismo si incontra però un fianco chiuso verso quest’ultimo, di modo che l’assunto della mortalità si può anche esprimere così: tutto (il Tutto) è mortale3. L’uomo, valendo essenzialmente come “essere-con-il-nulla”, nel momento della morte perde l’essere ed entra nel nulla. La morte è l’unico, inesorabile destino della vita; essa è naturale nel senso che non ospita alcun riferimento ad un’originaria caduta, di cui il morire sarebbe la conseguenza. Nelle filosofie nichilistiche della finitezza, che optano per la definitività inoltrepassabile della morte e depurano il pensiero dalle influenze teologiche in cui la mortalità dell’uomo e del mondo sono poste in connessione con il peccato –, si esprime una valenza antibiblica. Il messaggio biblico annuncia infatti che l’uomo non è degno di morire, che la morte è sua nemica, che Dio «non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1, 13). Dovunque e sin dalle più antiche epoche il senso dell’esistenza umana prende rilievo in rapporto al tema della morte, che pur collocandosi nella penombra e nella velatezza, non lo è ad un punto tale che qualcosa non possa esserne detto. La cultura del nichilismo la interpreta come un mero fatto biologico-naturale, senza alcuna dimensione metaempirica ma solo alla luce delle scienze. Esse hanno operato per la dissoluzione della metafisica, sostituendole il loro ideale conoscitivo, in cui tutto può essere indagato meccanicamente, fisiologicamente, biologicamente. In base a tale impostazione la morte è niente di più e niente di meno che un mero decesso, dove sarebbe vano cercare una sostanziale differenza tra il dileguarsi dell’uomo e quello di qualsiasi altro vivente. Poiché il soggetto umano non occupa alcun rango particolare nel cosmo, il suo morire non ha nulla di speciale. È evento biologicamente condizionato come tanti altri, che nella sua compiuta naturalità non sollecita domande o richieste di senso. “Si muore”, e questo è tutto. Nessun dubbio sul fatto che si muoia; ma appunto la consaputa certezza che si muore, allontana il pensiero del proprio morire. L’io fugge 295
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costantemente dinanzi alla morte, non si eleva alla condizione né di guardarla negli occhi, né di guardare entro se stesso in un confronto col proprio destino più certo e costitutivo. Nella fuga dalla morte, che si riveste della forma della certezza empirica del morire degli altri e a un tempo della rimozione del mio dover morire, l’esistente alloggia lontano da se stesso, nella dispersione; lontano dall’idea che la morte lo riguardi e lo sovrasti come la sua più certa e incondizionata possibilità. La morte è la possibilità estrema, ma per ora altre incombono e l’allontanano. Io morirò, ma per ora vivo, e questo è tutto. Tanto la fuga dalla morte disperde l’io, altrettanto il meditarla lo raduna, conducendolo dinanzi a se stesso e raccogliendolo dalla esteriorità in cui per lo più versa. Tuttavia con il richiamo dell’io alla meditazione sulla morte non è stato ancora deciso alcunché sull’aldilà e l’immortalità. Nella considerazione nichilistico-biologistica della morte vengono rifiutate sia l’idea metafisico-platonica dell’immortalità dell’anima, sia la fede cristiana nella resurrezione. Nell’epoca del nichilismo, epoca di mezzi perfetti e di scopi confusi o mancanti, la centralità dell’esperienza del morire è vissuta entro la sfera della mancanza di senso e della risposta al perché. Si muore in maniera sempre più anonima e solitaria, in una società che ha confinato la morte in camere di ospedale e ne ha eretto la rimozione psicologica a canone centrale del suo funzionamento. Rimuovendola, la società esprime il suo interesse prioritario al dominio entro una generale secolarizzazione e sdivinizzazione della vita. Nel mondo sociale così concepito il pensiero diventa calcolo, e il corpo vivente semplice parte dell’universale meccanismo, mentre si lavora disperatamente per vincere la disperazione e allontanare la paura della morte. E se la fede biblica proclamava che initium sapientiae timor Domini, nelle società in cui la morte viene allontanata non sembra valere più neanche il detto initium sapientiae timor mortis. Nelle molteplici pieghe del conscio e dell’inconscio essa è temuta col terrore più grande, ma ciò non genera sapienza, perché nella società dell’utilità e del funzionalismo tutti i soggetti sono intercambiabili al punto che in essa si vorrebbe abolire lo stesso principium individuationis. In questi nuclei viene allo scoperto il legame necessario fra nichilismo e antiumanesimo, in cui il nichilismo ontologico trapassa in nichilismo antropologico, quando quest’ultimo sia compreso come integrale naturalizzazione o biologizzazione dell’uomo, cioè secondo l’impossibilità di istituire una differenza fra il morire dell’uomo e quello di qualsiasi altro vivente. L’elemento maggiormente decostruente nell’accostamento naturalistico sta nell’assunto che la morte non sia un evento ulteriormen296
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te indagabile oltre il suo mero esserci biologico. Non sempre però il nichilismo della finitezza è in pari con se stesso nell’accettare il morire, se in realtà cerca in una suprema tensione di oltrepassare i limiti che si è imposto. L’idea nicciana dell’eterno ritorno dell’uguale costituisce un disperato tentativo di evadere dal cerchio della mortalità del finito attraverso l’eternizzazione della dialettica vita-morte-vita. L’eternità concentrata nell’unico nunc dell’esistenza divina – che nel suo immobile risplendente “oggi” persiste quieta in sé come tota simul possessio (Boezio) –, viene sostituita dall’eternità temporalmente diluita dei cicli del perpetuo ritorno, in cui ricorrente eterna morte e ricorrente eterna vita si danno la mano: sarà solo ciò che è già stato (formula in cui si verifica una coincidenza letterale col Qohelet, ma con ben diverso spirito). La tesi generale della mortalità del tutto è mantenuta, ma esso muore infinite volte, non una: «Tutto va, tutto torna indietro; eternamente gira la ruota dell’Essere. Tutto muore, tutto torna a rifiorire, eternamente gira l’anno dell’essere»4. Più o meno consapevolmente opera in Nietzsche una proiezione della dialettica, eternizzata quanto a ripetitività, e capace di dissolvere le cose entro l’arco di ciascun ciclo. Nella dottrina dell’eterno ritorno il nichilismo tocca un punto di apogèo, perché in essa l’attimo passa e nello stesso tempo, ripresentandosi infinite volte, è eternizzato, entro il circolo sempre ritornante della mancanza di scopo e di perché. Cerchiamo infatti di pensare il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale nella sua concretezza determinata, al di là dei fronzoli e delle “pie” elucubrazioni di cui può venire circondato da qualche adepto. Allora si vedrà (ah! durezza del nichilismo e tragicità senza speranza della condizione umana!) che nell’eterno circolo dell’identico eternamente si ripresentano il male, il dolore, l’infelicità, il malvagio e il sordido, il lato oscuro, negativo e odioso della vita nella sua compatta interezza. Nessun vagheggiato Ubermensch potrà apportarvi rimedio, perché principium individuationis e soggettività autocosciente sono ultimamente dissolti. La tesi generale della mortalità del tutto, che ha compiuto passi notevoli nella cultura, opera nel senso di inaridire la speranza. Al pensiero meditante questi spunti dischiudono l’elemento tragico che è inerente al nichilismo, in specie sul problema della morte. Se l’essenza del tragico consiste in una contraddizione non dialettica, ossia senza esito né soluzione (cfr. cap. V), nel nichilismo che assume l’idea dell’eterno ritorno, il tragico è inerente e insuperabile, dal momento che la mortalità del tutto è ribadita, né si profila alcuna vittoria sul morire o almeno un qualche suo senso, o infine un qualche scopo dell’eterno divenire. Abbandonando il nichilismo nicciano, troveremo qualcosa di so297
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stanzialmente diverso dal lato del neoidealismo? L’ultimo Gentile, d’altronde in coerenza con l’unitario svolgimento della sua riflessione, raccoglie sotto formule scintillanti rivestite di un afflato spiritualistico, una magra sostanza, in cui emergono la recisa negazione dell’individualità personale e la immolazione finitistica dell’io singolo, risolto nel movimento dialettico dell’Io trascendentale. Componendo il capitolo conclusivo di Genesi e struttura della società, intitolato “La società trascendentale, la morte e l’immortalità”, il filosofo dell’attualismo riconferma lo iato tra la religione che parla dell’immortalità dell’anima singola e il concetto attualistico dell’eternità dell’Io trascendentale: esso è immortale non come Io-sostanza, ma come Io-processo, Io-funzione, nella perpetuità di un divenire che si attua realizzandosi e negandosi, e dove la persona singola non è. Fianco chiuso perciò sia verso l’immortalità dell’anima, un articolo di fede «tanto più caro quanto meno garantito da inoppugnabili argomenti della ragione», sia verso la resurrezione della carne, «scorie di cui si pasce la fantasia»5. La fede nell’avvenire e nell’eterna processualità dell’Io trascendentale sostituisce in Gentile la fede nell’immortalità personale, in un assunto antisostanzialistico, onde con esso si viene più marcatamente schiarendo un altro lato del nichilismo: la sua dissoluzione del concetto di sostanza, pienamente ricondotto e risolto in quello di funzione6. Su ciò Kelsen ha detto l’essenziale, mettendo in luce l’esecuzione dell’idea di persona che il nichilismo di vario colore provoca attraverso il rifiuto del concetto di sostanza: «La dottrina pura del diritto ha riconosciuto il concetto di persona come un concetto di sostanza, come la ipostatizzazione di postulati etico-politici (per es. libertà, proprietà), e lo ha perciò dissolto. Come nello spirito della filosofia kantiana, tutta la sostanza viene ridotta a funzione»7. La riconduzione-riduzione dell’io non a sostanza ma a processo indica che nel nichilismo, e proprio in virtù del suo antirealismo ontofobico, non si dice soltanto: “non più metafisica!”, ma pure: “non più sostanza!”, secondo una logica impeccabile, costituendo la sostanza oggetto fondamentale della metafisica. E di conseguenza nel pensiero dell’attualismo, non potendo il morire essere un evento che tocchi la sostanza bensì solo la relazione, viene ad essere più o meno surrettiziamente introdotta una diversa idea della morte: più che venire intesa come separazione dell’anima dal corpo, la morte dell’io empirico è un sottrarsi alla relazione. Il soggetto muore a qualcuno, cioè si estranea, uscendo dalla società trascendentale. Si potrebbe domandare se, dopo tale estraniarsi, l’io stia in se stesso, esistendo dinanzi a se stesso, dal momento che non esiste dinanzi a Dio, e nell’attualismo sembra spento il radicale moto dell’uomo verso il divino, il desiderium naturale vi298
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dendi Deum. Difficile avanzare una risposta positiva, sembrando mancare in Gentile l’idea di un’esperienza delle profondità dell’io, che suppone la sua sostanzialità, ma anche il concetto di un’anticipazione pensante della morte che renda possibile un incontro con l’essere e uno schiarimento della differenza ontologica. Potrebbe nell’io accadere, nel ripercuotersi sull’“ora” (nunc) dell’anticipazione presentificante della morte, un’esperienza velata dell’essere? Questo evento resta in generale possibile, rimanendo peraltro indeciso se l’“essere” raggiunto sia l’essere come tale, o il Sé; e conseguentemente indeciso se la morte possa schiudere ad un incontro con l’Essere stesso o costituisca il vertice dell’autoisolamento del Sé che si ritira nel proprio fondo più profondo. Dal lato dell’ontologia – e lasciando provvisoriamente tra parentesi il movimento della libertà e della volontà –, la morte varrebbe o come la raggiunta pienezza della vita nell’incontro con l’Essere stesso, o come radicale rivolgimento dell’anima nel ritorno verso il proprio paese natale e le proprie sorgenti, esperienza limite che pur attesta lo splendore ontologico dello spirito, sia pure finito e partecipato. Nell’epoca del nichilismo l’anticipazione pensante della morte rimane un evento essenzialmente ancipite, nel senso che in essa può venire ribadito il nichilismo della mortalità del tutto nella forma della riduzione dell’essere a mero valore d’uso e di scambio, oppure l’uscita dal nichilismo verso il rapporto con l’Esse ipsum o con il Sé. L’allontanamento dalla tesi della mortalità di tutto quanto esiste, e dunque dal carattere esclusivamente intramondano e materiale dell’essere, apre un arduo campo di meditazione sulla vita dello spirito in condizione non carnale8.
2. Condizione della filosofia della storia Le tesi nichilistiche sulla “fine della storia” e sulla posthistoire implicano la fine della filosofia della storia come disciplina capace di svelare un senso unitario e teleologico della storia, e la sua disseminazione in mille microstorie? È interrogativo notevole se il nichilismo sia in grado di sviluppare una filosofia della storia, o almeno lasci ancora un ambito vitale a questa disciplina importante, che da tempo è entrata in una zona d’ombra. Questo esito può dipendere dagli attacchi che le sono stati indirizzati come dalle eccessive ambizioni che importanti pensatori dell’‘800 hanno nutrito nei suoi confronti; ma può anche provenire dal disordine introdotto dal nichilismo nell’ambito del sapere e del vero. Esso toglie la spinta a chiedere e cercare un significato com299
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plessivo della storia umana, il senso della storia universale, che non andrà confuso col senso che l’Occidente ha dato alla sua storia. Rimane infatti inquietante l’interrogativo se le ottocentesche elaborazioni componessero una filosofia della storia universale o una filosofia della storia dell’Occidente. 1) Per orientarci nel cammino, determiniamo la filosofia della storia come comprensione della storia umana alla luce di criteri e leggi, per cui gli eventi siano riferiti ad essi entro il movimento verso fini, nel tentativo di ricomporre in uno schema intelligibile la loro successione: schema intelligibile, cioè dotato di adeguata unità e verità. Immediatamente si incontrano le tre categorie portanti di fine, unità, verità, di cui già abbiamo riconosciuto la suprema regia in ordine al senso. Come osservato (cfr. il cap. V) la loro crisi nichilistica implica: quanto al fine, che il divenire mondano non abbia scopo e non miri a nulla; quanto all’unità, che non esista un’organizzazione unitaria e significante del tutto; quanto alla verità che non esista alcun “mondo vero”. La storia universale acquista un significato solo se è possibile individuarne con verità i fini. Nel processo storico il significato degli eventi è il “ciò in vista di cui sono compiuti”, il loro fine, in una connessione ascendente verso quelli più alti: identità di significato e fine, che non postula la necessità degli eventi, per cui la filosofia della storia non preesige l’olocausto del libero arbitrio. Orbene, nella dichiarazione che nel nichilismo mancano il fine e la risposta al perché, è incluso l’assunto che manchi o sia ignoto lo scopo della storia, un elemento su cui le scienze umane lasciate a se stesse non possono avanzare neppure delle congetture. In virtù della connessione fra fine e significato, l’eclisse del primo importa l’oscurarsi del senso, per cui non è più possibile intendere secondo uno schema dotato di validità unitaria la successione degli eventi storici. Secondo Jaspers «comprendere l’unità della storia, cioè pensare la storia universale come un tutto, è il bisogno imperioso della conoscenza storica in cerca del suo significato ultimo»9. A questo elemento nodale che traccia la frontiera fra l’ambito dell’intelligibile e quello dell’inintelligibile, si aggiungono altri fattori decostruenti che concernono la delicata struttura epistemologica della filosofia della storia. Questa è un sapere complesso, che integra nel suo organismo numerosi fattori. Il nichilismo ha ulteriormente proceduto a disorganizzarla, privandola delle sue basi ontologiche con la critica della metafisica, di quelle antropologiche e morali con la critica del soggetto e dell’etica, di quelle teologiche con l’assunto ateo. Inoltre la possibilità della filosofia della storia richiede che venga mantenuta una differenza fra storia umana e storia naturale del cosmo: il pro300
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gramma scientistico di integrale naturalizzazione dell’uomo nel senso che questi è solo un momento della storia naturale della physis e non emerge con niente di se stesso al di sopra delle concatenazioni naturali di causa ed effetto, eleva ulteriori difficoltà alla costituzione della disciplina. Non pare perciò verosimile la sua rinascita entro l’inglobante generale del nichilismo, ma solo in un’epoca susseguente al suo superamento, in cui vengano meno le pregiudiziali antiontologiche e antiteologiche nutrite dalla cultura. Il nichilismo si manifesta così come avversario della filosofia della storia, che non esiste più se non forse nella forma dell’eterno ritorno, dove l’unico senso consiste nell’indefinito ritornare della mancanza di senso. 2) La domanda sul significato e il fine (e la fine) della storia è diventata largamente assente nella cultura attuale. In tale evento si manifesta la profonda crisi e forse perfino la catastrofe della filosofia moderno-europea della storia, che dopo aver adottato con l’illuminismo, Kant, Fichte, il positivismo e il marxismo l’idea di progresso e la fede in un cammino ascendente, in cui il negativo sembrava bandito o minimizzato, non è riuscita a salvarsi spostandosi sul lato opposto, dando spazio al negativo. È un fatto difficilmente controvertibile che essa come disciplina filosofica quasi non esista più, essendo stata soppiantata dalla sociologia delle civiltà: quella disciplina che costituiva il più alto vanto di parti notevoli della filosofia moderna, perché le si attribuiva lo statuto di sapere superiore alla scienza e alle sue conquiste, capace di procedere all’aprimento del significato del divenire storico-mondano, è entrata in seria crisi. Secondo più di un pensatore, tra cui ad esempio J. Taubes, ciò è accaduto anche perché si sono persi i collegamenti tra filosofia e teologia, particolarmente necessari perché la prima possa porre con speranza di risposta l’interrogativo sullo scopo della storia e le cose ultime10. Sebbene si distingua dalla teologia della storia, che interpreta quest’ultima alla luce della rivelazione come “storia della salvezza”, il sapere complesso da cui prende origine la filosofia della storia non può escludere il rapporto con la trascendenza e la teologia. Per svolgere adeguatamente il suo compito essa trae giovamento dal rapporto con queste, che l’avviano ad intendere il mondo umano e la storia temporale in modo libero da inadeguati messianismi o da utopiche attese sulla futura scomparsa del male e del dolore dalla storia. Quando abborda questi temi cruciali, la filosofia della storia necessita di elementi profetici, che non può trovare entro se stessa e che deve assumere altrove, nel campo teologico, senza per questo trasformarsi in pura e semplice teologia della storia. Nella prima ci muoviamo infatti entro l’orizzonte del tempo e del mondo senza identificare 301
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storia mondana e storia sacra, né dimenticando che insieme al fine ultimo soprannaturale comunicato all’uomo dalla rivelazione biblica, esiste un fine naturale del mondo e della storia, di cui appunto si occupa la filosofia della storia. Tale fine può venire riassunto nella molteplice esplicazione ed attuazione di quanto è virtuale nell’uomo, nella sua signoria “politica” e non “tirannica” sul cosmo; nella conquista della libertà di autonomia, nell’autoperfezionamento e manifestazione dell’essere umano in tutti i campi, dalla morale all’arte. Si tratta di fini autentici, per cui sin dall’origine la persona umana combatte e spera11. Un apporto primario della Rivelazione biblica per la costituzione della filosofia della storia risiede nell’aver favorito l’accettazione del tempo. Dal “mito” dell’eterno ritorno non può generarsi autentica filosofia della storia perché il tempo e il suo fluire sono esorcizzati. Come ha illustrato M. Eliade in Le mythe de l’éternel retour (1949), l’accettazione del divenire storico, della crescita entropica e della freccia irreversibile del tempo – qualcosa di straordinariamente difficile e angosciante per l’uomo, avendo a che fare con l’universale dileguarsi delle cose e col loro essere trascinate senza scampo nel flusso dell’impermanenza – è stata resa possibile dalla Bibbia. 3) La dissoluzione della filosofia della storia è accaduta non solo perché questa ha patito la mancanza del fine e del perché. Anche l’eccesso di esaltazione e di glorificazione che essa raggiunse nel pensiero di Hegel, provocò lo stesso esito. Gli antefatti sono sufficientemente noti, e si ricollegano alla concezione hegeliana dove la filosofia è il sapere assoluto, il sistema quale tutto circolare che, chiudendosi in se stesso, pone il cominciamento come il risultato e viceversa. Conseguentemente solo come sistema il sapere è effettuale, quel sapere speculativo che è l’automovimento dell’idea che sa se stessa e nell’autocoscienza è certa di sapere: in esso la forma della verità è il metodo, identico all’oggetto, ossia la struttura dell’intero nella sua più pura essenza. Quando con Hegel l’illusione razionalistica raggiunse l’apice, in modo tanto alto da asserire l’identità tra il reale e la formula che lo esprime, la filosofia della storia fu intesa come ragione e sapere: «La storia universale non è il semplice giudizio della sua forza, cioè la necessità astratta e irrazionale di un cieco destino, ma, poiché esso è ragione in sé e per sé, e l’esser per sé di questa nello spirito, è sapere, essa è lo sviluppo […] dei momenti della ragione e, quindi, della sua autocoscienza e della sua libertà; – è l’interpretazione e la realizzazione dello spirito universale»12. Celebrata come mai prima, la filosofia della storia sta con Hegel sull’orlo dell’abisso, poiché veste le forme di uno pseudosapere di302
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pendente da una serie di passi falsi, che prendono il nome di inglobamento della realtà nel concetto, di sostituzione del processo logico-dialettico a quello reale, di cominciamento vuoto connesso all’identità iniziale di essere e nulla, per cui nella hegeliana dottrina della logica il primo e più astratto momento è quello dell’essere, dell’essere come assolutamente negativo, identico al niente13. Passi falsi aggravati dalla tendenza hegeliana a vedere la storia solo come un tutto monistico, in cui l’insieme delle singole storie personali è inessenziale e trascurabile senza rimpianti. L’esito di un eccesso di esaltazione come di un sovraccarico di critica si solidifica nella sostituzione della filosofia della storia con una disossata “cultura delle epoche”, in cui il problema se esista un significato della storia e quale sia viene dimesso con disinvoltura. Piuttosto tale atteggiamento a sfondo relativistico propugna la tesi dell’equivalenza delle civiltà e, in casi meno rozzi, l’equivalenza teologica delle religioni o almeno delle grandi (buddhismo mahayana, induismo, cristianesimo, islamismo), secondo un assunto che trapela nel grande affresco storico A Study of History di A. Toynbee. La tesi pluralistica dell’equivalenza delle culture umane si oppone a quella dell’unitarietà del processo storico, che costituiva la base comune della filosofia ottocentesca della storia, sia pure traguardata quasi solo attraverso l’Occidente. Essa assumeva che fosse possibile ricondurre la multiformità della storia alla legge dei tre stadi di Comte, o alla dialettica dello spirito sino alla fase dello spirito assoluto in Hegel, o al Diamat nel marxismo. Con l’idea di cultura delle epoche, spesso tra loro incommensurabili, il nichilismo procede ad affermarsi a spese dell’elemento più geloso della coscienza storica, vale a dire il concetto di continuità del processo storico, che ha costituito l’ultimo bastione dello storicismo. Esso, esprimendosi a lungo e in varie forme come “religione” laica e intramondana, come fede ed enfasi sulla storia, ha rappresentato l’esito dell’allontanamento dalla teologia naturale degli antichi e da quella soprannaturale del cristianesimo. La partecipazione alla storia del mondo e la sua conoscenza rappresentavano l’ultima fede laica dello storicismo, prima che esso, subendo i colpi del nichilismo e ospitando il dubbio sulla continuità stessa della storia, si orientasse solo verso un’analisi antropologico-sociologica delle categorie dell’azione. Con la crisi terminale del senso della storia la coscienza nichilistica postmoderna si trova in seria perplessità, dovendo optare o per la circolarità greco-classica o per lo schema cristiano volto alle cose ultime. Essa deve fronteggiare la contraddizione: le sue valenze antiteologiche la inducono a rifiutare la storia come processo sensato da un ini303
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zio a un termine, e a optare per la circolarità dove ogni significato viene meno, mentre la sua residua fede nel progresso e un senso di pietas per l’uomo la spingono verso lo schema biblico secolarizzato. Anche per questo la coscienza secolarizzata postmoderna appare fragile e confusa. È certo che il nichilismo abbia contribuito a spazzar via le forme laiche ottocentesche della religione dell’umanità, con i loro miti sulla futura età dell’oro da raggiungersi nella storia; e abbia fortemente ridimensionato l’idea kantiana dell’incessante progresso verso il meglio del genere umano, che pur veicola una commovente speranza umana, di cui i pessimisti si prendono gioco con asprezza. L’impatto del nichilismo è stato così intenso che con la fine della concezione razionalistica ascendente della storia, cristiana per l’origine, acristiana o anticristiana per l’esito, diventa meno remota un’idea diversa, anzi opposta, quella di una possibile catastrofe della storia all’interno della storia stessa. Senza cedere ad una concezione terroristica, secondo cui essa sarebbe in costante progresso verso il peggio, verso la fondazione di un regno satanico sulla terra, l’evento spirituale del nichilismo impone di riprendere la filosofia della storia. Per questo esito il nichilismo costituisce solo un’occasione (da non lasciar sfuggire, però), perché la questione che pone non può che venire elaborata al di fuori del suo quadro. In effetti esso lascia sussistere solo due possibilità pure: la fine senza ritorno della filosofia della storia, a cui è stato sottratto il presupposto anche metodologico della continuità del processo storico; o la ripresa di una filosofia della storia, capace di integrare elementi teologico-sapienziali. In tal caso il pensiero di orientamento ontologico e biblico riprenderebbe possesso di una dimensione che gli è consustanziale ma che – sia pure con qualificate eccezioni (si pensi a Guardini, Maritain, Pieper) –, non è stata molto frequentata nell’epoca contemporanea. Dall’Illuminismo in avanti gli svolgimenti di filosofia della storia provengono da pensatori atei o portatori di visioni pseudocristiane con consistenti venature gnostiche. Alla luce degli spunti svolti nel cap. I e relativo annesso, è apparso che nello gnosticismo circolano elementi filosofici, spirituali, soterici che si sono trasferiti e hanno influenzato genesi e permanenza del nichilismo, e che emergono anche dalla stretta affinità delle metafore (“esiliata”, “straniera”, “gettata”, “caduta da una condizione migliore”), con cui la condizione umana è concepita dallo gnosticismo e dal nichilismo. Intendiamo lo gnosticismo volto a descrivere negativamente l’esistenza, e a ritenere l’uomo “ilico”, non appartenente alla cerchia dei salvati, come una passione inutile. Anche nella svalorizzazione del mondo e della vita, 304
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Note 1
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nell’indebolimento dei valori vitali, nel senso di sconfitta e di declino, che circolano nel nichilismo, si respira un’aura gnostica, la cui durata è di difficile previsione. Nella comprensione del nichilista gnostico lo sbriciolamento delle idee accompagna inesorabilmente quello della nostra epoca. Ha scritto Cioran, a cui peraltro non vorrei attribuire etichette affrettate: «Al capezzale di questa Europa non so quale voce mi avverte: “Ecco dove tutto ha fine, anche la civiltà”»14.
«Lo spirito è questa forza solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo in essere», Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 26. 2 Non è difficile riconoscere in questa formula l’eco di una celebre affermazione di F. Engels: «La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve, secondo tutte le regole della dialettica hegeliana, nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire», Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in K. Marx – F. Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 1106 (trad. leggermente ritoccata). 3 Sempre secondo Engels «Questa filosofia dialettica [hegeliana] dissolve tutte le nozioni di verità assoluta, definitiva, e di corrispondenti condizioni umane assolute. Per questa filosofia non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire» (ivi, p. 1107). Può darsi che Engels interpreti in modo parziale Hegel, nel cui pensiero peraltro il finito non possiede vera realtà ed è ideale: «La verità del finito è invece la sua idealità […] Questa idealità del finito è la proposizione fondamentale della filosofia, e ogni vera filosofia è perciò idealismo» (Enciclopedia, § 95). L’assunto hegeliano della idealità del finito si trasforma in Engels, in congiunzione col suo ateismo, nella tesi della mortalità del tutto, dove è espressa la legge centrale della dialettica nel suo incessante superamento di ogni condizione data. Fu A. Kojève (Introduction à la lecture di Hegel, Gallimard, Paris 1947) a segnalare lo stretto rapporto tra idea della morte e dialettica, e a proporre un’interpretazione atea di Hegel, in cui l’individuo umano è libero solo a patto di essere mortale. La concezione dialettica hegeliana è per Kojève una filosofia della morte e dell’ateismo, dove la caduta originale, che è parte dell’assoluto come momento della sua verità, è condizione necessaria perché lo spirito sia veramente se stesso. 4 Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1987, p. 265 s. 5 Opere filosofiche, p. 909. «Ultima perfectio intellectus humani est per coniunctionem ad Deum, qui est primum principium et creationis animae et
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illuminationis eius» (S. Th., I II, q. 3, a. 7, ad 2m). Vergando queste righe, in cui il fine ultimo assoluto della persona e della storia è posto non solo nella contemplazione (questo già Anassagora l’aveva intuito, rispondendo, a coloro che gli domandavano perché c’era il mondo, che esso esisteva eis theorian [per contemplare]), ma espressamente nella contemplazione di Dio, l’Aquinate ha dato voce ad un aspetto della rivelazione cristiana. Contro coloro che opinavano occorresse separarsi completamente dal corpo, perché l’anima umana raggiungesse la perfetta felicità, egli sostiene che quest’ultima non può venire attinta se manca la perfezione naturale, consistente nell’unione sostanziale dell’anima e del corpo. Di conseguenza si afferma che l’anima separata dal corpo non può pervenire al più alto grado di felicità, e le anime dei santi non fruiscono prima della resurrezione della visione divina così perfettamente come dopo (cfr. De Potentia, q. 5, a. 10). Tanto radicale è in Tommaso la dottrina dell’unità sostanziale dell’uomo, abissalmente lontana dall’infausto dualismo cartesiano, che in un altro contesto (cfr. Contra Gentiles, l. IV, c. 79) viene introdotta l’idea ancor più notevole secondo cui – risultando contro natura che l’anima sia priva del corpo, e non potendo ciò che è contro natura durare in perpetuo – l’immortalità dell’anima «sembra esigere la futura resurrezione dei corpi». 6 Cfr. Opere filosofiche, p. 917. 7 H. Kelsen, in H. Kelsen, R. Treves, Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di Stanley L. Paulson, ESI, Napoli 1992, p. 216. 8 Nello sconvolgimento di tutti i rapporti che l’avvento del nichilismo comporta, particolare rilievo riveste la questione dell’etica: questa, al pari del morire, costituisce un rivelatore molto sensibile dell’esistenza e della sua possibile apertura alla trascendenza. Con l’intuito dell’angelo degli abissi Nietzsche formulò la legge di avanzamento del nichilismo nella sua marcia verso la pienezza, che accade nel meriggio, nell’ora dell’ombra più corta: «Ora l’ultimo vestigio di Dio, la morale, deve sparire». In rapporto a questa sentenza che pone un legame di affinità tra Dio e morale, deve farsi particolarmente attenta la meditazione sul suo stato nella vita di oggi: l’etica sarebbe un agente segreto al servizio dell’Altissimo? 9 K. Japsers, Origine e senso della storia, Ed. Comunità, Milano 1972, p. 327. 10 Scrive Taubes «Io considero questo nesso [della filosofia della storia con la teologia della storia] la cosa più positiva della filosofia della storia», Messianismo e cultura, Garzanti, Milano 2001, p. 397. Rimane come elemento di meditazione se le moderne filosofie della storia non ospitino in eterogenea mescolanza frammenti secolarizzati della teologia cristiana delle cose ultime, ossia dell’escatologia neotestamentaria deviata dal suo senso proprio. 11 È significativo che autori rappresentativi di prospettive incommensurabili come K. Löwith (cfr. Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 1989) e J. Pieper (cfr. La fin des temps, Ed. Universitaires, Fribourg 1982) convergano in una sostanziale identificazione della filosofia della storia con la teologia della storia, siano poi gli elementi teologici per essi veri (come per
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Pieper) o del tutto problematici (per Löwith). Nei due casi sembra fare difetto l’idea di fini naturali del mondo, per cui la filosofia della storia è filosofia dell’accadere umano e civile (dove indubbiamente entra anche la religione), non storia celeste. Se si appiattisce la filosofia sulla teologia, si dovrebbe sostenere che i soli grandi filosofi della storia siano stati i profeti dell’ebraismo. 12 Filosofia del diritto, § 342. 13 Cfr. Enciclopedia, § 87. 14 E.M. Cioran, La tentazione di esistere, Bompiani, Milano 1988, p. 46.
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Capitolo undicesimo
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Per la determinazione del nichilismo pratico
Se è innegabile che il cammino sin qui compiuto faccia perno sulle strutture intenzionali dell’intelletto e sulla connessa dottrina dell’intellettualismo esistenziale (cfr. cap. I), è ora il momento di chiamare in causa l’elemento della volontà e del desiderio, sinora rimasto ai margini, conformemente allo scopo della ricerca. È l’atto teoretico essenziale per la vita? È l’unico che rivesta rilievo? Alla prima domanda abbiamo risposto in modo affermativo, non alla seconda. La conoscenza non sostituisce il dinamismo del volere. L’evidenza dell’essere guadagnata dalla mente deve coniugarsi in un delicato rapporto con la volontà, essenziale in una filosofia che assegna il primato all’esistenza. La parte più intima della storia universale è la storia della volontà, ancor più che la storia pubblica della ragione. Nel fare appello alla volontà, operiamo una fuoriuscita dal quadro puramente metafisico e gnoseologico. Non è il riferimento al volere in quanto tale che fa uscire dallo speculativo, ma il modo della considerazione. Se ad esempio ce ne stessimo all’asserto centrale della filosofia di Schelling, che determina l’essenza dell’essere come volontà, si rimarrebbe all’interno della filosofia prima entro una dottrina speculativa, chiamata ad esibire le sue ragioni. Il nostro intento è ora diverso e si riassume nella ricerca se e come sia legittimo parlare di nichilismo pratico, legato alla struttura della volontà, alla dialettica del desiderio, all’amore e alla libertà; e se sia possibile determinarne i caratteri specifici. Esso potrebbe costituire “l’altra metà del cielo” (e forse più che la metà) dell’universo del nichilismo. Nell’altra metà del cielo compare un grande fattore la cui presenza non ci è nuova in quanto già incontrato, sia pure sottotraccia, nelle precedenti pagine: la religione, o forse meglio la Rivelazione. Rivolgendosi al nichilismo teoretico, la ricerca ha compiuto un prelievo tematico, ponendo l’accento sulla struttura intenzionale dell’intelletto nella sua nativa apertura all’alterità; contestualmente ha di309
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schiuso un ambito più vasto manifestando qualcosa di più originario e principiale: la struttura intrinsecamente intenzionale dello spirito come tale e dunque delle sue facoltà. Tanto l’intelletto è apertura immediata e puro slancio verso l’oggetto per conoscerlo, altrettanto il volere è apertura immediata e slancio verso l’oggetto desiderato per possederlo e fruirne. Al divenir altro in quanto altro del conoscere corrisponde il movimento del volere verso l’altro: corrispondenza tuttavia parziale entro la generale intenzionalità dello spirito, poiché l’intelletto celebra in modo immanente, in se stesso e senza uscire da se stesso le sue nozze con l’oggetto, mentre alla volontà è necessario un moto di trascendimento e di uscita da se stessa per raggiungere la “cosa” desiderata. Nel termine di “volontarismo esistenziale”, che corrisponde quello di “intellettualismo esistenziale”, si esprime l’idea che la volontà si indirizzi all’essere e al bene (ontologico) quali realtà massimamente esistenziali; e anche che trapassando nell’ordine pratico la volontà esercita una piena sovranità su se stessa e le altre facoltà, sino al punto da far pronunciare all’intelletto come essa vuole il giudizio pratico che la determina, come vedremo tra poco. Facoltà dell’anima spirituale, intelletto e volontà sono distinti, pur possedendo una comune radice nell’anima stessa. Mai come in questo punto occorre essere vigilanti, perché il pensiero deve muoversi entro il passaggio che corre tra le opposte sponde della totale separazione tra intelletto e volontà (ed è l’assunto del razionalismo, dove il primo tocca la seconda senza esserne toccato), o dell’assorbimento dell’intelletto nella volontà. In quest’ultimo evento prende corpo una forma di nichilismo nel senso che, nientificata la perceptio dell’intelletto, questo diviene appetitus. Sotto la regia di uno spirito che è identicamente volontà, l’esistenza diviene compiutamente pratica, votata ad una decisione in cui il soggetto manifesta la sua più alta sostanza: la sua libertà. Essa è posizione dell’altro e di sé e dunque al suo vertice autoctisi. L’intelletto identificato alla volontà è lo spirito nel suo assoluto porsi: volontà di sapere, volontà che sa l’assoluto in Hegel; volontà di potenza in Nietzsche, la cui sede non è nello spirito, ma nella vitalità corporea.
1. Dialettica del desiderio Nella natura intenzionale dello spirito è inclusa l’idea che esista una disequazione dinamica tra esso e la realtà: disequazione che dal lato dell’intelletto si placa nel momento in cui con la produzione di un concetto o verbo mentale la mente attinge la cosa; e che dal lato della 310
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volontà si quieta quando, superato lo stato di privazione in cui originariamente era costituita, essa riposa nell’oggetto raggiunto, posseduto, fruito. L’intera vita intenzionale dello spirito perpetuamente si dispiega entro una dialettica di: a) disequazione rispetto all’oggetto; b) suo ripianamento; c) nuova disequazione, nel circolo della temporalità e del divenire. In base alle analogie che è legittimo supporre tra nichilismo teoretico e nichilismo pratico, entrambi accadono nell’uomo in relazione al movimento essenziale delle facoltà verso i loro oggetti. Entrambi appartengono perciò alla classe degli eventi, non del destino. Entrati nel campo del volere, il primo compito che si para dinanzi consiste nel gettare uno sguardo sulla dialettica della volontà e sui suoi movimenti, di cui il più originario è l’amore e connesso inscindibilmente con esso il desiderio (appetitus, orexis): al suo primo risveglio la volontà ama e desidera, volgendosi verso l’oggetto del desiderio. Nella dialettica del desiderio l’elemento centrale sta nel rapporto tra la persona e l’oggetto, di cui si patisce la privazione e che è intenzionato dal soggetto consapevole che la sua fruizione appagherebbe la volontà. Il cuore del processo è collocabile nel moto connaturale della volizione verso un bene o oggetto, e nel dislivello dinamico tra volontà e oggetto conseguente ad uno stato di privazione, onde prima della eventuale fruizione l’oggetto desiderato dimora nella lontananza. Per un paradosso “scandaloso” e irrefutabile il desiderio, che scaturisce da soggetto e volontà finiti, non si quieta se non dinanzi ad un bene infinito, per cui l’illimitata moltitudine di beni determinati o limitati costituiscono per noi oggetti desiderabili di cui patiamo la mancanza, e ad un tempo oggetti non idonei a quietare terminalmente il desiderio. La sua dialettica sempre e nuovamente rinasce dopo ogni avvenuto possesso di beni determinati; ogni fruizione toglie l’intervallo tra volontà e singolo bene, senza abolire quello tra la volontà calamitata dal bene infinito e i beni finiti. Per motivi molto profondi, cioè attinenti alla sua essenza, l’uomo è un essere di azione e di libertà. La totalità della prassi nasce appunto dall’impulso a togliere la distanza tra volontà amante-desiderante e oggetto: impulso sempre rinascente perché sempre intatta dimora la distanza, a motivo del dislivello incolmabile tra quanto il desiderio intenziona e quello che fattualmente incontra e gli si pone dinanzi. Un elemento centrale della “verità del desiderio” consiste nel valutarsi strutturalmente inidoneo a valicare quel dislivello, qualunque sia il progetto che l’io intraprende su di sé e sul mondo, ma anche nel mantenere la differenza invalicabile fra beni finiti e infiniti. In uno acuto studio che qui si è tenuto presente, C. Vigna osserva che nella filosofia contemporanea è stato variamente svolto il tema del 311
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desiderio e del rapporto con l’oggetto, in specie con quell’objectum del tutto speciale che è il subjectum, l’altro (si può qui pensare a Sartre, a Lévinas, alle varie edizioni di filosofie comunicative). Raramente invece ci si spinge ad esaminare l’intera ampiezza del movimento intenzionale del desiderio1. Il pensiero contemporaneo si ferma prima, pago di starsene solo ad alcune fasi iniziali di quel movimento, timoroso e recalcitrante ad affrontare l’analisi fenomenologica stessa del moto del desiderio. E pour cause! poiché quest’ultima porta lontano, e a seguirla come si deve le filosofie della sola finitezza corrono un doppio rischio mortale: quello di dover proseguire l’analisi oltre il finito, rinnegando se stesse; e quello di bloccare artificialmente l’analisi, rinnegandosi come pensiero. Resta da osservare che noi come soggetti singoli e le stesse civiltà umane sono definite dai loro desideri. I desideri ci possiedono perché la volontà si protende senza posa verso l’oggetto desiderato: dunque il desiderio volto al futuro plasma il nostro presente e l’attesa plasma la vita. La vita di una persona e di un popolo non è definita solo dalle tradizioni, da quanto cioè sta dietro, ma pure da quanto sta avanti nel futuro e verso cui si volge il desiderio. Alla radice della dialettica aperta – aperta al meglio o al peggio – del desiderio umano stanno tre grandi passioni che attraversano come cavalieri indomiti l’intera esperienza dell’uomo tanto sincronicamente quanto diacronicamente: i desideri del piacere, del possedere, del dominare. Costituisce una formidabile intuizione riportare a queste tre grandi “passioni” la maggior parte dei mali e delle sofferenze che affliggono l’uomo, e che noi infliggiamo agli altri riducendoli a oggetti: a oggetto del mio piacere, del mio smoderato desiderio di ricchezza e di possesso che priva ingiustamente l’altro di beni per lui vitali, a oggetto del mio potere. Ogni pensiero morale e politico non negligente non può non fare i conti con queste tre grandi forze, che esercitano un influsso maggiormente negativo quando l’orientamento verso l’Oggetto immenso declina coll’affermarsi del nichilismo.
2. Coimplicazione di volontà e intelletto Allo schema delineato è opportuno aggiungere un elemento riflessivo che richiama l’attenzione, e che succintamente riassumeremmo così. Intelletto e volere non valgono come facoltà separate, si è detto: esse sono unite alla radice dell’anima da cui emanano, non possono operare l’uno senza l’altra, cooperano o si ostacolano reciprocamente. Nel loro influsso mutuo l’intelletto dischiude singoli orizzonti di sen312
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so e infine l’ambito del senso ultimo, mentre la volontà ha il dominio pratico terminale sul giudizio intellettuale che la determina ad agire in un modo piuttosto che in un altro: perciò la rettificazione del volere in rapporto ai veri fini della vita umana e alle esigenze dell’etica e della virtù appare come il compito centrale della vita2. Esiste dunque una forma di cooperazione o di sinergia tra intellezione e volizione, non simmetrica tuttavia, poiché (per ricorrere ad un lessico un po’ desueto ma non del tutto criptico) l’intelletto opera verso il volere nell’ordine della causalità formale, e questo verso quello come causalità efficiente. L’avanzata del nichilismo teoretico, inteso radicalmente come la mancanza del fine e del perché, colpisce un lato centrale della sinergia tra mente e volere, sottraendo ogni orizzonte di senso. Nel soggetto che esperimenta l’oscurarsi del vero, la volontà si muove ciecamente e senza bussola, intenta a proiettarsi disordinatamente per ogni dove, mentre raddoppia la sua capacità a tenere sotto un influsso dispotico la mente. In luogo del coordinamento e della integrazione delle facoltà accade che esse si ostacolino, si depistino e si feriscano vicendevolmente, aggravando la scissione operante nell’io. Atteso il rilievo predominante o la sovranità ultima del volere sul giudizio pratico dell’intelletto, non si dovrebbe essere troppo pronti ad escludere che una decisione della volontà, un rapporto distorto con l’esistenza, forse un risentimento verso l’essere nascente da un amore deluso, da odio, un “no” pronunciato contro la realtà, la trascendenza e le sue leggi non siano concause rilevanti del nichilismo speculativo. Oltre a negazioni teoretiche del teoretico, vi possono essere rifiuti morali del teoretico, ed essi risultano i più delicati da trattare perché non possono essere risolti solo speculativamente. Deve qui rimanere come tema da pensare se la concezione dell’essere come volontà di potenza non sia affetta da un’intima smisuratezza, da un rifiuto dell’ordine e dell’equilibrio; da una decisione dell’io nella quale potrebbe celarsi l’atto di una “volontà corrotta”. Su una questione complessa come questa, che rimane un interrogativo eluso in molte correnti filosofiche contemporanee, viene in ausilio l’idea che l’intelletto non opera isolatamente. Si può perciò comprendere che esso possa prendere falsa strada sotto la pressione di una volontà che opera nella smisuratezza, e che può essere deviata dal peso delle passioni, quali la superbia, l’odio, il disprezzo, l’amore disordinato, e senza dimenticare le pressioni dell’inconscio e il delicatissimo nesso tra errore intellettuale e colpa morale. Sollevando questi interrogativi, occorre essere consapevoli di avvicinarsi ad un’ermeneutica del sospetto, dove il gioco delle parti subisce curiosi e perfino stupefacenti scambi, perché il filosofo realista accetta i suggerimenti dei maestri del so313
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spetto, facendoli valere nel senso di “genealogizzare la genealogia” e perciò anche nei loro confronti. Secondo A. MacIntyre una critica genealogica da parte della filosofia dell’essere nei confronti di quella nicciana dovrebbe cominciare «con quello che S. Tommaso dice riguardo alle radici della cecità intellettuale nell’errore morale, con la direzione sbagliata dell’intelletto determinata dalla volontà, e con la corruzione della volontà causata dal peccato di superbia, una superbia che si manifesta sia nel desiderio disordinato di essere superiore, che nel disprezzo di Dio. Laddove Nietzsche vedeva la volontà dell’individuo come una finzione, come parte di una psicologia erronea che maschera la volontà impersonale di potenza, il tomista è in grado, sulla base del materiale fornitogli dalla Summa, di stimare la volontà di potenza una finzione intellettuale che dissimula la corruzione della volontà […] Lo stesso compito genealogico dello smascheramento deve essere compreso dal punto di vista tomistico come una maschera per la superbia»3. Colui che vive cedendo alla superbia, esiste lontano dalla misuratezza, facendo della menzogna verso se stesso e verso l’essere un propellente della volontà di potenza. Tra le frasi di Nietzsche ve ne è una che con il suo stridulo suono pare alludere ad una illimitata smisuratezza del volere, tale che il pensiero ne è guidato e non lo guida: «Guardo talvolta la mia mano, pensando che ho in mano il destino dell’umanità: lo spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me […]»4. È domanda degna della più accurata attenzione se l’uomo voglia un di più di potenza, o invece una più alta attuazione dell’esistere. Sarebbe una catastrofe confondere i due aspetti, perché nella volontà di essere in modo più pieno non si cerca un incremento di potenza, quanto l’attuazione del desiderio di esistere secondo un più perfetto compimento della propria essenza. «Essere atto di tutto l’esistere consentito dalla propria essenza», ha scritto F. Balbo con piena misura, e non c’è nulla da aggiungere5. Il problema del nichilismo assumerebbe un più profondo rilievo, se nella sua genesi si dovesse riconoscere il congiunto influsso dell’antirealismo intellettuale e di un disordine o di una smisuratezza più o meno accentuata della volontà. È riconoscibile nel nichilismo ciò che F. Balbo chiamava la retta positura esistenziale, che dispone alla conoscenza del vero e del bene? Un adeguato approccio al problema esigerebbe che venisse sviluppata un’etica dell’intelligenza, una meditazione sul clima spirituale entro cui essa può fiorire, di modo che l’atto del pensare sia collegato alla fondazione o rifondazione di un retto atteggiamento al filosofare. E soprattutto che venisse svolta una filosofia dell’amore come libera dedizione all’essere. La filosofia dell’esse314
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3. Per la determinazione del nichilismo pratico
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re può e deve includere una filosofia dell’amore: amore di desiderio (eros) e di dilezione (agape). Proprio su questo elemento vitale potrebbe emergere un vuoto in aree del pensiero moderno. Se con la scorta di tale assunto si leggessero gli autori analizzati, riteniamo probabile che nelle pagine di Nietzsche, Gentile, Heidegger venga avvertita l’assenza di un pensiero dell’amore. Manca una filosofia dell’amore, perché sembra esserne assente il soggetto proprio, la persona. Con tutti i rischi che comporta, osiamo pronunciare una parola di insieme: se la filosofia moderna raramente si è posta come filosofia dell’essere, se può darsi, come ritiene Pareyson, che il suo compito lasciato incompiuto sia la filosofia della libertà, non appare altrettanto certo che il razionalismo moderno ha allontanato una filosofia dell’amore? A partire da tale assenza non si determina un grande compito per il futuro? Conoscenza e amore costituiscono le due grandi forze dell’uomo e della filosofia; e nessuna delle due può raggiungere la pienezza senza l’altra.
Avendo guadagnato un preliminare dissodamento del terreno, si può procedere a dare sostanza al termine di “nichilismo pratico”, contestualizzandolo entro il quadro culturale dell’epoca, e alla luce del movimento intenzionale della volontà/desiderio, considerato in tutta la sua ampiezza trascendentale. Si incontra in merito un problema particolarmente delicato, se è vero che i movimenti del volere in rapporto a quelli della mente appaiono più ricchi, intricati, ardui da decifrare, non di rado ignoti a noi stessi. Chi potrà mai numerarli? Le questioni sul desiderio, sulle passioni, l’azione non sono più difficili in senso assoluto: sono forse più complesse da districare di quelle teoretiche, e quelle cui più immediatamente si pensa. Sembra spia di ciò il diffuso riferimento al nichilismo morale con la correlativa polivalenza delle diagnosi: crisi dei valori, perdita di quelli più alti, pessimismo, relativismo, e senza dimenticare gli acuti risvolti sociali di tale evento, fra cui la fenomenologia dell’uomo-massa. Entro un quadro che consente vari modi di accostamento al nichilismo pratico, ci sembra legittimo inserire la seguente idea: è ultimamente nichilistico ogni arresto o riduzione della dialettica intercorrente tra desiderio e oggetto, lasciando (talvolta del tutto programmaticamente) da parte la disequazione tra ampiezza infinita del primo e finitezza dei secondi. Non il chiedere o il meditare sulla finitezza è nichilistico, ma le filosofie che decidono con un supremo atto del volere di starsene solo nel finito, nel tentativo di non considerare lo scarto strutturale tra desiderio e oggetto, oppure 315
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di dare ad intendere che è possibile colmare intramondanamente tale scarto, come nel XIX e XX secolo tentarono con accanita insistenza le ideologie. Rinchiuso nella temporalità ripetitiva di un divenire in cui la cura per il quotidiano esserci e la chiacchiera sociale espellono l’uomo dal profondo, nel soggetto che abita entro l’ombra del nichilismo si svolgono eventi tra loro logicamente connessi (sebbene non necessariamente tutti compresenti nelle singole fattispecie), che si rapportano al dis-orientamento del volere rispetto al bene e all’amputazione del desiderio. Arrischiamo una loro classificazione in quattro categorie, avvertendo subito che l’ambito del nichilismo pratico non è da esse esaurito. Un posto importante dovrebbe venire dedicato alla caduta della razionalità della prassi e dell’idea di ragion pratica che a nostro avviso il nichilismo provoca. 1) Il rapporto bene-male. Dapprima nel nichilismo pratico si incontra una riduzione dell’opposizione bene-male che da primaria e fondante è abbassata a derivata e secondaria. L’esito si può raggiungere in due modi: dissolvendo la pesante realtà del male morale col riportarla-ridurla a disadattamenti psicologici e sociali, e rendendo la polarità bene-male dipendente dalla scelta della libertà, di modo che la moralità risiederebbe solo nella libertà, non in valori che la misurano. Su quest’ultimo aspetto ora ci soffermiamo. In tale caso l’atto della libertà viene elevato a inizio assoluto e infondato nel senso che è fondato solo su se stesso, a cominciamento non limitato se non da se stesso, e mai specificato da oggetti etici – il bene e il male appunto – indipendenti dalla libertà e ad essa anteriori. Il diffuso intendimento della libertà come facoltà del bene e del male presuppone che prima della libertà vi siano il bene e il male. Converrà riflettere che una libertà originaria non limitata da nulla se non da se stessa, volendo solo se stessa e andando al di là del bene e del male, conduce irresistibilmente alla volontà di potenza, alla volontà illimitata di dominare e trasformare, in cui non può non ravvisarsi un volto imponente del nichilismo. Il quale nel suo radicalismo libertistico potrà sostenere che tutto è lecito, non che tutto è possibile: tutto sarebbe moralmente lecito, perché non esisterebbe alcun legislatore morale e alcuna legge morale separante il Bene dal Male; ma non tutto sarebbe possibile poiché l’essere si farebbe presente con dei “no” limitanti. L’insieme di questi fattori suggerisce che nel nichilismo pratico si procede verso la dissoluzione dell’opposizione bene-male e dell’elemento drammatico esistente nella scelta morale. Con l’evanescenza del male morale rimangono però quali elementi ineliminabili della condizione umana il soffrire e la forza schiacciante 316
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del destino, in cui si stagliano le due grandi figure-simbolo di Giobbe e di Edipo, ma quanto poco capaci di essere intese nel loro senso dallo spirito del nichilismo! Vengono invece congedati Kant e Kierkegaard: il primo con la sua meditazione sul male morale, la colpa, la malvagità del cuore e il terremoto portato dalla volontà nella gerarchia delle massime. Il secondo con l’accento posto sul senso metamorale e infine religioso della colpa, il cui nome più vero è ormai “peccato”, sul “davanti a Dio”, sulla disperazione quale malattia mortale che tocca la radice stessa dell’io. Sulla concezione libertistica radicale che fa della libertà (finita) l’esplosione di una volontà originariamente ponente e non limitata da alcunché, il nichilismo pratico contemporaneo non può essere greco dal momento che nella grecità la libertà era soprattutto quella politica, mentre le decisive forme della libertà come libero arbitrio erano compresse in un soggetto sottoposto al fato, al destino, alla necessità. La rivelazione ha costituito un punto di svolta della storia universale anche dal lato della volontà e della libertà. Ha indirizzato lo sguardo verso il nodo più decisivo dell’esistenza là dove la libertà di Dio e quella dell’uomo (e senza tralasciare quella di Satana) ad ogni istante si incontrano o si scontrano, entrano in un dialogo cooperante o si separano in una lotta in cui la libertà infinita rispetta a tal punto quella umana che le permette di dire “no”: luogo unico in cui la libertà finita raggiunge un potere quasi infinito6. E ha dissigillato i nostri occhi, lentamente abituandoli a intendere che l’intera vicenda umana – tanto quella pubblica di cui si occupano in base a documenti le discipline storiche, quanto quella non scritta e non accertabile empiricamente perché rinchiusa per sempre nelle coscienze – promana ad ogni istante dal gioco delle due libertà divina e umana, dal loro diverso rapportarsi, gioco mutevole per la costitutiva indeterminazione al bene della libertà finita. Tale dialettica è la molla più profonda del movimento della storia umana. Quando devia, ossia quando la libertà finita si separa e si oppone a quella infinita, prende nascimento il nichilismo pratico che conduce subito alla volontà di potenza. Questa certo si esprime anche nello scientismo tecnologico applicato a tutti gli ambiti e in specie a quello della vita, nei quali non trova alcun nucleo indisponibile; e tuttavia si manifesta con la maggior intensità nell’atto con cui la libertà umana cerca di bloccare o cancellare gli effetti della libertà divina. Un frequente preludio all’esito appena segnalato risiede nell’assumere un irrimediabile dissidio fra essere e dover essere, che dice: se l’essere è, il dover essere cioè l’etica non è. Se invece l’essere non è, allora può formarsi il dover essere ma solo come esito di una pura de317
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cisione che in un primo tempo sarà posta dall’Io trascendentale, in un secondo dagli infiniti io empirici, sfociando così nel relativismo morale nelle sue versioni più radicali. Quando il relativismo pensa l’opposizione bene-male come posta dalla libertà, si incontra con la forma sopra evocata. Ora secondo Popper «la più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento»7. 2) La dialettica dell’amore. Mettendo piede in questo campo tanto vitale e tanto complesso, suggeriamo come ipotesi meritevole di esame che il nichilismo pratico si leghi: a) ad un’alterazione delle forme dell’amore in cui eros prevale e annulla agape; b) al successivo predominio delle forme inferiori di eros su quelle superiori. Valicando la soglia del volere, l’essere umano esce dal regno animale e accede al regno del bene e del fine. Egli comprende l’amore come la forza più originaria che tiene insieme gli enti, la cui mancanza può condurre alla disgregazione. Anche limitando lo sguardo all’amore come eros (amore di desiderio, dunque), questo valeva per Platone come un legame, una legge interna delle cose, una forza primigenia che tiene coeso l’essere8. A patto però che si prenda la dinamica di eros in tutta la sua ricchezza e ampiezza non dimidiata, rappresentata dalle due forme di eros celeste e eros pandemio o volgare: non sono le forme alte di eros a predisporre al nichilismo pratico e a estinguere il desiderio di liberazione come elemento decisivo della condizione umana. Lo sfruttamento di eros nelle sue modalità più basse si presenta come un condizionamento strumentale della società repressiva: essa ritiene di aver adempiuto al suo compito con l’enfasi sulla liberazione sessuale che spesso è un altro nome per operare un elevato condizionamento sociale dei soggetti. È questo tipo di eros, violento e cieco, che avvicina il nichilismo, blocca le energie creative, dissecca la radice estetica che è nell’uomo, e che consiglia di procedere sempre e nuovamente alla sua liberazione. Il riferimento ad eros non può venire assolutizzato tanto da far dimenticare l’altra grande forma dell’amore, quello agapico o di dilezione, la cui voce più alta e più pura risuona dovunque nel Libro, e in specie nelle linee che veicolano l’essenza della rivelazione: Deus charitas est (Dio è amore agapico o di dilezione). Dunque il significato originario del termine “amore di Dio” è veicolato dal genitivo soggettivo: l’amore che parte da Dio e in cui egli esprime se stesso. Fra tutte le idee bibliche e neotestamentarie questa è la più tipica e la più radicale, quella maggiormente abbandonata dal deismo e dal razionalismo: «Deus proprie loquendo neminem amat», ha scritto lapidaria318
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mente Spinoza (Ethica, l. V, 17). Solo successivamente quel termine è inteso come genitivo oggettivo: amore dell’uomo verso Dio, di modo che la fondamentale dialettica dell’amore fra Dio e uomo sta con piena verità nell’intendimento dell’“amore di Dio” prima come genitivo soggettivo e poi oggettivo. Tuttavia eros e agape, per quanto diversi siano e differente il loro moto connaturale – verso il bello il moto di eros e verso qualcuno in cui è da versare la bellezza e il bene quello dell’agape – non possono essere completamente opposti: si dà una dimensione in qualche modo agapica nelle forme alte di eros. Qualcosa del genere circola nell’opera di Soloviev, in specie in Il significato dell’amore. È tema degno della più accurata meditazione se nel nichilismo pratico non accada una cancellazione dell’amore agapico e una trasformazione dell’amore di eros/desiderio che – messa da parte l’aspirazione a possedere eternamente il Bello/Buono – si dissemini e si sparpagli in mille e mille oggetti, dove la natura dell’amore rischia di essere irrimediabilmente falsata. Quando ciò accade, si riproducono antiche idolatrie: passione, ragione, volontà di potenza dominano come forze impersonali sull’uomo; l’amore non è ammesso ad edificare. Quei concetti non sono la parola di alcuno, sono astrazioni; per questo scompaiono i volti. Con il colpo del nichilismo pratico sulla dialettica dell’amore, viene introdotto un fattore di disordine nella civiltà, costituendo l’amore tra tutte le forme della vita l’elemento più radicale e influente, che non può venire semplicemente sussunto sotto l’idea di bisogno. Con logos e eros si manifestano due attività primordiali dello spirito. Il nichilismo senza aggettivi può essere determinato come congiunta crisi del logos e dell’eros: del primo come suo abbandono o sua riduzione al mero logicismo; dell’eros come sua cancellazione oppure riduzione all’erotismo. Non vi sono motivi per introdurre un dissidio necessario tra logos ed eros, che sarebbe solo il dissidio di due parzialità. Semmai la strada consiste nel pensare l’integralità del logos in quella dell’eros, e viceversa, ritrovando in Occidente la loro unità cooperante contro il loro nichilistico dissidio. Sulla verticale di agape viene a chiarezza e si consuma l’estrema equivocità del detto nicciano secondo il quale il cristianesimo è platonismo per il popolo, e l’inadeguatezza dell’idea sostenuta da Benjamin Disraeli che il cristianesimo è ebraismo per il popolo. In base ai due detti il cristianesimo sarebbe vicario, deputato forse a svolgere una funzione popolare per conto di altri, che esercitano o eserciteranno l’effettiva regia. La marginalizzazione di agape fa tutt’uno con l’idea che l’eone cristiano dell’agape sia solo una parentesi di qualche mi319
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gliaio di anni dopo di che riprenderà il platonismo o l’ebraismo, o forse con maggior diritto il nichilismo come vittoria su entrambi. 3) La filosofia del Neutro. Nel nichilismo pratico si sviluppa una filosofia del Neutro a base antiumanistica, in cui la ragione, l’Io trascendentale, l’universale è scopo, mentre la persona singolare è mezzo. In un rapporto circolare di causa ed effetto dalle filosofie del Neutro prende origine il blocco della comunicazione. Se il soggetto non riconosce l’altro in quanto tale, questi per lui non sarà un tu, ma un esso (it) che non esiste ma c’è e si dà, onde la relazione umana decade a relazione strumentale. Quando il movimento originario di estrinsecazione del volere è la volontà di potenza, essa non può non considerare la realtà su cui si esercita un Neutro, un oggetto nel senso della cosalità, a cui la forma del tu è tolta: il soggetto si isola in se stesso, ogni altro divenendogli indifferente. Viceversa la possibilità che un tu personale sia l’elemento verso cui si dirige il volere rimane aperta quando il primo movimento della volontà è l’amore: «Il significato e la dignità dell’amore, inteso come sentimento, dipendono dal fatto che esso ci costringe a riconoscere nell’altro, realmente e con tutto il nostro essere, quello stesso valore centrale e assoluto che, in forza dell’egoismo, noi ammettiamo soltanto in noi stessi»9. Il nichilismo pratico si mostra dunque nella guisa di un compiuto antipersonalismo, che blocca la comunicazione perché non residua qualcosa da comunicare, né soggetti che comunichino. Al di là della sfera della chiacchiera e del “si dice”, gli uomini comunicano realmente solo passando attraverso l’essere e le sue proprietà trascendentali: quando ciò accade, l’isolamento delle soggettività si spezza, un ponte si costituisce tra esse, gli io escono dalla solitudine e possono riconoscersi. Se si dovesse pensare con fastidio che sull’altro che ha un volto, che è una persona con la sua inalienabile dignità, si è dispiegata una retorica insopportabile e bolsa, ciò sarebbe un chiaro segnale di fine di ogni umanesimo. Forse la persona umana che è l’altro è troppo rispettata? Forse non vale più la pena di sollevare un tema così poco significante? Nella sola India 200 milioni di persone (i dalit) non appartengono a nessuna della quattro caste tradizionali, neppure alla più bassa e reietta. Sono gente senza casta, priva di quel requisito minimo, gente ritenuta senza volto umano e senza diritti. L’orrore di negare all’altro dignità di volto è frutto di pregiudizi totalmente distorti, di risentimento, forse anche di odio. Non si sfugge all’orrore del Neutro se non entro lo slancio dinamico di agape entro quel moto di riconoscimento da essa introdotto nella storia umana, e che continuerà a travagliarla sino ai tempi ultimi. 320
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4) Il rapporto fra positivo e negativo e il ressentiment. Il nichilismo pratico emerge quando nell’intera vita intenzionale del soggetto si attua un primato del movimento indiretto su quello diretto, del mediato sull’immediato, capace di parassitare e perfino distruggere l’orientamento aperto e affermativo. Nel campo della morale questo atteggiamento può comportare una critica radicale dell’etica e dei valori attraverso l’anteriorità ontologica e cronologica del risentimento (ressentiment) e del rancore rispetto alla percezione diretta del valore, ed anzi tramite l’assunto che il positivo sia solo proiezione travestita del ressentiment. La percezione nicciana che il movimento diretto capace di esplicarsi nella vita dei forti e dei bennati, sia più sano di quello indiretto (cfr. la prima dissertazione di Genealogia della morale) non pare garanzia sufficiente per escludere che Nietzsche stesso non sia stato vittima di un forte risentimento verso il “mondo vero” del platonismo e del cristianesimo. Secondo la sua nota tesi, una delle sue più radicali in cui il suono del nichilismo è più stridulo e impaurente, la morale dell’amore e della misericordia sbocciò come corolla del più intenso e lungimirante odio10. Nell’assunto sono contenuti due elementi notevoli, che caratterizzano il nichilismo morale e il suo nesso con quello teoretico: A) l’idea che vi sia una relazione tra gli opposti, tale che l’uno (il positivo) si generi dall’altro (il negativo); B) la prevalenza del movimento indiretto (il risentimento) su quello diretto in ordine alla generazione dei valori positivi (amore, misericordia, fraternità, perdono). I due assunti sono vicini, non identici: alla predominanza del negativo nel nesso dialettico col positivo sostenuta dal primo, si affianca col secondo un criterio di mascheramento per cui il positivo – che in realtà nasce dal negativo – lo cela e lo traveste in altro: il positivo come semplice maschera del negativo, dunque. A) Il bene sorge dal male, l’amore dall’odio, ci viene detto. Questo esito può risultare scontato a patto che venga abolita con un colpo di mano l’opposizione di possesso-privazione tra bene e male e quella di contrarietà fra amore ed odio, di modo che gli opposti entrino in relazione e nascano l’uno dall’altro. Diventa possibile un al di là del bene e del male, mentre viene meno ogni vera scienza dei contrari. La tesi teoretica di Nietzsche che non vi siano oggetti – gli oggetti/cose essendo solo modalità o proiezioni del soggetto – si converte nella tesi etica che non esistano valori morali positivi e negativi separati, ma una sorta di continuum, in cui l’uno sta nell’altro e si crea dall’altro. Poiché gli oggetti esterni alla volontà di potenza che vuole se stessa e il suo accrescimento non sono ultimamente reali, l’ordine della “cosa321
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lità” e dell’essenza viene meno e tutto entra in tutto. Viene inoltre confermata la generale tesi proiettiva anche in rapporto ai valori, intesi come risultato di disposizioni dell’io a scopi di utilità e ordinamento. B) La tesi sul risentimento quale sorgente nascosta ma realissima delle morali e delle loro scale di valore appare esplicitamente nichilistica, nel senso che il movimento intenzionale diretto dell’amore volto verso l’oggetto e l’alterità, viene declassato a maschera e a pretesto per altro. Ciò che in realtà tiene acceso, sottotraccia ma implacabilmente, il tenace fuoco del risentimento è l’odio: un odio assaporato, lento, prolungato, “freddo”, travestito, ma sempre vigile, che sbarra la strada ed esorcizza l’eventuale atto del perdonare. Che la rivolta degli schiavi nella morale – che inizia col risentimento e si sviluppa sotto le mentite spoglie del linguaggio della pietà, della misericordia, del perdono impiegato per ingabbiare e tendere una trappola ai forti –, venga a costituire l’ermeneutica nichilistica della dinamica dell’amore e dei suoi atti, rivela un nuovo volto al nichilismo, quello per cui l’arma del sospetto gli è consustanziale11. Con ciò vengono quasi a saldarsi i due aspetti del nichilismo teoretico e morale, nel senso che là dove il pensiero non raggiunge l’esistenza reale offrendo il rischiaramento del vero al volere, l’inquieta potenza di questo è più esposta a sviarsi e autoavvelenarsi. Il mirabolante nascere dell’amore dall’odio e la tenace azione in Nietzsche di un risentimento che operando come talpa lungimirante via via lo divorò, possono trovare nella meditazione di René Girard un chiarimento decisivo in rapporto alle sue dottrine del linciaggio, della mania o follia omicida dionisiaca, e della concezione vittimaria della mitologia, dove l’assassinio della vittima innocente riporta la pace nel gruppo. «Nell’antica Grecia il linciaggio è dovunque, e Dioniso è per antonomasia il dio del linciaggio. Mentre Gesù è contro il linciaggio in tutte le sue forme, inclusa la lapidazione legale della donna adultera, Dioniso è così favorevole al linciaggio e così costantemente implicato in esso da poterne essere a malapena distinto […] Con l’infallibilità del suo folle genio, Nietzsche scelse Dioniso come l’espressione suprema del suo ideale anticristiano, il modello che, come egli suggerisce, dovremmo tutti imitare se mai volessimo fuggire dalla deplorevole preoccupazione verso le vittime di cui siamo debitori al cristianesimo. Ciò che a Nietzsche piace nel linciaggio dionisiaco è che è interamente esente dai “sensi di colpa” nevrotici che egli suppone accompagnino la riabilitazione delle vittime nella Bibia ebraica e nei Vangeli cristiani». Nietzsche comprese che i Vangeli riabilitano le vittime innocenti accusate dalla mitologia, addebitandone la responsabilità alle folle linciatrici che invece la mitologia scagiona, ma non volle accogliere tale 322
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scoperta. «Fu così che propose la sua famosa, o piuttosto infame, teoria del cristianesimo come “morale da schiavi”, una sorta di marxismo alla rovescia molto peggiore del marxismo propriamente detto, che proietta sui primi tempi del cristianesimo quel genere di risentimento che il filosofo stesso, nei suoi momenti più lucidi, considera come esclusivamente moderno»12. C) Non foss’altro che per motivi biografici Kierkegaard non poteva conoscere l’attacco a tutto campo mosso al tema dell’amore da Nietzsche. Non gli fu però difficile intuire che lì avrebbe potuto esercitarsi al massimo grado, in una cristianità ormai vuota di cristianesimo, la forza dissolvente delle critiche. Cercò di non lasciare in mano altrui l’iniziativa. La composizione di Gli atti dell’amore (1847), che si situano entro i Discorsi edificanti e temporalmente vicini ai Discorsi cristiani, può venire intesa come un tentativo in grande stile in tal senso, svolto in modo scintillante e spiritualmente ricco per cinquecento pagine entro l’idea che solo l’amore edifica, in non celato dissenso nei confronti dell’idea hegeliana secondo cui la filosofia deve guardarsi dall’essere edificante (cfr. Fenomenologia dello spirito). «Solo la verità che edifica è verità per te», scriverà l’autore. Primato del positivo e in esso di Dio come “categoria intermedia” attraverso la quale passa ogni retto amare e comunicare, separazione dalla forza del negativo, dell’indiretto, del ressentiment: anche sotto questa luce Kierkegaard ci appare come l’anti-Nietzsche ante litteram, colui che tiene separati i contrari e che all’origine pone Dio che non ha contrario. Se il tema proprio dei Discorsi edificanti e di Gli atti dell’amore è il diventar cristiano, essi non escludono certo il diventar uomo, il che è quasi altrettanto difficile. La successiva analisi di Scheler in Il risentimento nella edificazione delle morali (1915), attestandosi su un terreno etico-antropologico e psicologico, provvide a disinnescare con altro metodo l’obiezione nicciana. Attraverso originali elaborazioni fenomenologiche, Scheler rigettò la tesi di Nietzsche, negando che l’etica cristiana sia germogliata dal suolo del risentimento13. Instaurando una differenza tra il concetto di amore quale si rinviene nei Greci, ritenuto un “sentimento” che non compete all’essere perfettissimo (il dio che ama è affetto da imperfezione), e l’amore cristiano dove Dio è per essenza agape, nell’opera scheleriana viene rimarcata la polarità tra eros e agape secondo moduli che saranno parzialmente ripresi da Nygren in Eros e Agape. Allontanandosi dall’asserto kantiano secondo cui l’amore è “un’affezione sensibile patologica”, Scheler lo intende come un atto spirituale intenzionale capace di dissolvere ogni norma della vita naturale spontanea (fra cui l’odio del nemico), indenne dal rancore ed aven323
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te la sua radice nel gesto di un Dio creatore per amore, che mantiene nell’essere con continuo gesto agapico il creato. Egli avvertì che l’elemento essenziale dell’agape consiste nella diversità di direzione e oggetto che essa assume rispetto all’amore di eros. Mentre questo nasce da privazione e bisogno, e si manifesta nell’aspirazione dell’inferiore al superiore, del meno perfetto al più perfetto, del “povero” al “ricco”, del brutto al bello – per cui il dio aristotelico, amato e non amante, attrae a sé ogni cosa proprio nel modo in cui l’amato muove l’amante –, nell’amore agapico ciò che è più alto si rivolge verso quanto è povero, informe, malato, non-nobile per sanarlo, riempirlo e portarlo a sé. Senza che in questo movimento di discesa chi discende sperimenti l’angoscia di svilirsi, di abbassarsi, di perdersi. Si è dunque dinanzi a un movimento perfettamente indenne da rancore, risentimento, maschera, secondi fini, e che nel suo vertice procede dalla divina pienezza. Secondo il fenomenologo tedesco, se si assume l’idea che la primazia spetti al negativo o comunque al momento indiretto del risentimento, l’impulso fondamentale della vita non sarebbe riposto nell’autoconservazione, nella ricerca dell’utile, nella selezione e mantenimento del più adatto, e neppure nel crescere, sovrabbondare e svilupparsi del vivere, ma appunto in un movimento “traverso”, che molto differisce da un movimento diretto di dedizione come dalla ricerca dell’autoconservazione. Ciò indurrebbe nel soggetto un senso di declino, di vita spirituale al tramonto; vita avara, arida, chiusa, non piena e vibrante, verso cui invece si volgeva con intensa partecipazione la filosofia scheleriana, dove la vita è essenzialmente dispiegamento, sviluppo, crescita, affermazione, eterna corrente cosmica che si evolve in infiniti rami. Il risentimento sarebbe invece da rintracciare secondo Scheler nell’altruismo, nella filantropia, intesi come un concetto polemico e protestatario e un surrogato dell’amore. L’atto filantropico è in certo modo indiretto: si rivolge all’altro – al debole per soccorrerlo – mosso non da un affetto immediatamente rivolto alla condizione di questi, quanto piuttosto da un risentimento verso i forti, i potenti, i ricchi14. Successivamente il fenomenologo tedesco attenuerà non poco l’addebito alla filantropia di ospitare forti correnti di risentimento. Studiando i vissuti affettivi dello spirito, Scheler si allontanò da una naturalizzazione della mente e del volere e da asserti oggettivanti tipici dell’epoca della costituzione della psicologia in scienza empirica. Forse noi stessi ci siamo fatti prendere la mano e siamo andati troppo nel solco di Scheler? Nel senso di far risaltare con lui il vigore, l’autonomia, lo splendore del positivo, la vita piena, sovrabbondante, non 324
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avara. Giace in ciò un desiderio umano essenziale, costantemente e sorprendentemente risorgente dopo ogni colpo della vita, e dove il lato ascendente del nichilismo prima maniera ha pescato a piene mani. L’oltreuomo è forse colui che cerca con tutte le sue forze un’intensa affermazione di sé per una pienezza di vita. Ora si domanda: per evitare lo scoglio rappresentato dalla morale dell’amore quale travestimento del rancore, occorre accogliere l’idea che la radice dell’amore sia la potenza e l’autosufficienza, che l’amore del cristiano si abbeveri a questo senso di pienezza e sicurezza ? Se ascoltiamo Scheler alla base dell’amore del cristiano vi sarebbe «un vigoroso senso di essere al sicuro, di essere su un terreno saldo, di essere stato nell’intimo salvato e dell’invincibile ricchezza della propria esistenza e vita e procedente da questo insieme, la chiara consapevolezza di poter cedere il proprio essere ed avere. Qui l’amore, l’offerta, l’aiuto, la donazione di sé al più piccolo e più debole sono un traboccare spontaneo di forza accompagnato da gioia e intima pace» (p. 84). Di conseguenza rimangono non esplorate la fatica talora terribile e le mortali stanchezze dell’amore, a cui allude con mirabile intuizione un versetto del Dies irae: quaerens me, sedisti lassus. D) Nichilismo pratico non sarà per noi solo un’esperienza spirituale complessa, dove l’orientamento fondamentale del desiderio è severamente limitato al finito. A questa diagnosi occorre affiancare l’idea che in tale nichilismo la domanda sul male viene elusa, perché riportata – quando non è accantonata – a disadattamenti sociali, a squilibri psicologici, a elemento toglibile e forse perfino secondario. Tutto porta a pensare che nel nichilismo pratico si cerchi di tralasciare la domanda sul male per eludere con essa il problema della responsabilità. Chi non è responsabile, non è libero; è schiavo di qualcuno o di qualcosa. Forse la rivolta degli schiavi nella morale esiste ma ha sorgente e scopi diversi da quanto vorrebbe il metodo genealogico: è forse una rivolta contro se stessi da parte di coloro che avvertono come insostenibile fardello il peso della libertà e della responsabilità, e vogliono disfarsene a qualsiasi costo. Essi hanno bisogno che un oltreuomo, un “grande inquisitore”, si ponga alla loro testa, indicando loro cosa sia da fare e scaricandoli del rischio della scelta. Domandiamo ancora: per quali motivi nel nichilismo pratico accade una fuga dalle responsabilità e dal “tu devi” ? Là dove vi è responsabilità, si risponde ad un appello, un invito, un obbligo, forse ad una voce che dice: “tu devi”. Con ciò viene evocato l’altro estremo, dove al posto del dovere risuona il volere. “Tu devi” o “Io voglio”? A questa polarità non è ultimamente possibile assegnare esito univoco; non c’è fra i due estremi mediazione reale di alcun genere; prendere parti325
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to per l’uno è escludere l’altro. Con il richiamo al “tu devi” e all’“io voglio” ci ricolleghiamo nuovamente a Kierkegaard e a Nietzsche, poiché essi impersonarono le due opzioni opposte. Anzi il Danese, riportando l’obbligazione morale all’Assoluto, riconduce il primum ethicum al primum theologicum. «Tutta l’età moderna ha dovunque perduto, soprattutto in politica, l’idea che esiste un “tu devi” […] Ecco dove sta il male. Non c’è bisogno di essere profeta per vedere quanto costerà il raddrizzare questa faccenda»15. Il “tu devi” porta con sé qualcosa di singolare, nonostante l’imperiosità del comando: fa accadere quella comunicazione di esistenza che il nichilismo è incapace di attuare. Pronunciando “io voglio”, il soggetto si isola; ascoltando “tu devi”, l’isolamento si spezza ed egli può comunicare. Note 1
Cfr. C. Vigna, “La verità del desiderio come fondazione della norma morale”, in AA. VV. Problemi dell’etica: fondazione, norma, orientamenti, a cura di E. Berti, Gregoriana, Padova 1990, pp. 69-135. 2 «Indifferentia libertatis consistit in potestate dominativa voluntatis non solum super actum suum, ad quem movet, sed etiam super iudicium a quo movetur», Giovanni di San Tommaso, Cursus philosophicus thomisticus, vol. III, Marietti, Torino 1948, q. 12, a. 2, p. 387. La metafisica della volontà è un terreno difficilissimo, costantemente minato (perché include anche le patologie del volere) e pochi l’hanno misurato nella sua ampiezza. Uno fu Dostoevskij. Quando la volontà di potenza venga considerata un Neutro, anzi il Neutro, una corrente vitale che è identicamente Realtà ed Essere, da un certo punto di vista i problemi si semplificano. Ma quando la volontà di potenza inerisce ad un io reale? Allora tale volontà, continuando a volere se stessa e il suo accrescimento di potenza al di fuori di ogni altro scopo, non può che sboccare nel vuoto e infine, avendo ormai disorganizzato se stessa, nella scissione interna e nel suicidio: l’accrescimento della potenza non può essere un fine in sé indefinitamente. Il suicidio di Stavroghin in I demoni potrebbe valere come l’esito necessario di tale dialettica. 3 Enciclopedia, Genealogia e Tradizione, Massimo, Milano 1993, p. 209 s. 4 Frammenti postumi, Vol. VIII, t. III, p. 409. 5 F. Balbo, Idee per una filosofia dello sviluppo umano, Opere, p. 442 s. 6 Su questi aspetti cfr. Religione e vita civile, pp. 196-205. 7 K.R. Popper, La società aperta, vol. II, Armando, Roma 1996, p. 467. 8 Cfr. Simposio, 202 e 6-7. 9 Vl. Soloviev, Il significato dell’amore, La casa di Matriona, Milano 1988, p. 72. 10 «Ma questo è il fatto: sul tronco di codesto albero della vendetta e del-
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l’odio, dell’odio giudaico […] germogliò qualcosa di altrettanto incompatibile, un amore nuovo, la specie d’amore più profonda e più sublime […] Ma non si pensi che esso si sia magari innalzato come la negazione autentica di quella sete di vendetta, come l’antitesi dell’odio ebraico! No, la verità è il contrario! L’amore germogliò da questo come la sua corona […]», Genealogia della morale, p. 23. 11 La rivolta degli schiavi nella morale, che ha ormai alle spalle una storia bimillenaria, riconosce la propria origine con gli Ebrei e si compie col trionfo degli ideali ascetici intesi come protezione di una vita degenerata. Quella rivolta inizia «da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria» (ivi, p. 251). 12 La vittima e la folla, a cura di G. Fornari, Santi Quaranta, Treviso 1998, p. 70 s. e p. 72. 13 Cfr. Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 77-139. 14 «Una parte essenziale della filantropia moderna [che] nel suo nocciolo è effettivamente una degenerazione psico-sociologica… Il nocciolo dell’etica cristiana non è cresciuto sul suolo del risentimento. Crediamo al contrario che abbia la sua radice nel risentimento il nocciolo della morale borghese, che dal XIII secolo ha cominciato a sostituire sempre di più la morale cristiana fino a compiere nella rivoluzione francese la sua massima prestazione», ivi, p. 128 e p. 76. 15 Diario 1847-1848, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, t. IV, p. 104.
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PARTE TERZA LA TERZA NAVIGAZIONE
Serva esse et esse servabit te
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Capitolo dodicesimo
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Si dà progresso in filosofia?
L’idea che possa esistere progresso in filosofia pare oggi talmente bizzarra e contraria ad ogni assunto di semplice buon senso e di sensibilità al contesto culturale dell’epoca, che meglio sarebbe non sollevare il problema e andarcene via silenziosi. La scelta dimissoria però non paga; è bene prendere il toro per le corna. Anche coloro che, sembrando rifiutare la possibilità di un avanzamento, non sono alieni dal dire “possa altri venire e fare meglio”, non testimoniano contro i loro assunti? Nel giudizio che è passato il tempo in cui si sarebbe potuto rendere migliore la propria ricerca, si esprime il desiderio che ciò sia possibile ad altri. Quale svolgimento delle dottrine sul realismo e sulla conoscenza dell’essere presentiamo alcune riflessioni sulla possibilità del progresso in filosofia. Sostenerla è posizione ben diversa dall’assumere che la verità sia a noi spalancata e così a portata di mano che non resterebbe che coglierla. In alcuni aspetti del pensiero di Cartesio, dell’Illuminismo, dell’idealismo hegeliano sul sapere assoluto ci si è avvicinati a tale idea, non nella filosofia dell’essere. Essa non sposa un ottimismo gnoseologico radicale quale si incontra nel ’700 e ’800 nei confronti della fisica newtoniana, spesso considerata il paradigma di un sapere definitivo. Quanto è stato conquistato come vero nel passato, può dissiparsi e andare smarrito, ed ogni generazione deve o dovrebbe riscoprirlo. Debole è la memoria degli uomini, e la storia umana avanza tra molte perdite: se ci possono essere acquisti per sempre, poco ci assicura contro l’accadere delle perdite per sempre. Tuttavia sostenere che la ragione umana sia fallibile e che una filosofia possa mostrarsi vera nei suoi criteri formanti non implica contraddizione. Dal fatto che la ragione è esposta a sbagliare non si può dedurre né l’irraggiungibilità del vero né il relativismo. La prima condizione perché eventualmente esista progresso in filosofia è che esista la filosofia, che si diano proposizioni filosofiche. 331
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Sembrerebbe un assunto scontato, e in effetti lo è stato per lunghe epoche; meno da quando alcuni pensatori sostennero che le proposizioni filosofiche non esistono, e se esistessero sarebbero prive di senso. Una crisi di queste proporzioni non poteva durare a lungo: da tempo – tranne limitati esempi di autori postmoderni che negano nichilisticamente alla filosofia di costituire un dominio specifico della cultura – i filosofi hanno ripreso a discutere e a “scontrarsi” con le questioni filosofiche. La loro permanenza non è riportabile alla permanenza del linguaggio come con un eccesso di semplificazione vorrebbero alcune correnti. Se l’obiezione vertente sull’esistenza stessa della filosofia è alle nostre spalle, forte è quella che proviene dal relativismo e dal culturalismo. Essi non sostengono l’inesistenza della filosofia e dei relativi problemi, piuttosto che questi sono insolubili. La ragione ne sarebbe duplice: a) essi sono al di là delle limitate e sempre fallibili capacità del pensiero umano; b) non si danno verità universali e incondizionate, bensì solo storiche, relative, situate, valide al più per culture e gruppi omogenei di individui. Non essendo possibile raggiungere la verità neppure su punti limitati, e dandosi verità plurime e storicamente condizionate secondo i contesti, non avrebbe molto senso interrogarsi se esista progresso in filosofia. A questa comunque si riconosce un’unità problematica in virtù della gamma di problemi riconoscibili e riconosciuti come filosofici: unità che per relativismo e culturalismo non condurrà mai ad una almeno parziale, incoativa e sempre perfettibile convergenza di soluzioni. Per una preliminare esplorazione del tema è bene aggiungere un terzo livello, nel quale si assume che nella discussione delle questioni filosofiche lo scopo ultimo stia nel migliorarne la comprensione più che nell’accrescere la nostra conoscenza. La strada in cui la filosofia ci mette in grado di raggiungere una visione più chiara e scandita dei problemi, aiutandoci a comprenderli meglio di quanto già sappiamo, è propedeutica ma non coincidente con quella dove l’obiettivo è l’incremento del sapere.
1. Alcune polarità nel rapporto tra filosofia e scienza Che non vi siano problemi filosofici (e dunque neanche filosofia), che essi siano insolubili o al massimo interpretabili e chiarificabili, tutto ciò va visto in rapporto alla scienze, non foss’altro perché molte obiezioni alla filosofia sono provenute e provengono dal loro ambito. Sino ad un recente passato era sulla bocca di molti come definitivamente assodato che la filosofia fosse un mero sapere “lunare”. Inten332
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di: un sapere non autonomo, che non brilla di luce propria, ma la riceve da altrove (nella fattispecie dalle scienze) così come la luna è illuminata dal sole. Oggi si è forse meno ostili a concedere che la filosofia abbia un proprio dominio, non identico a quello delle scienze. Quali titoli possono venire avanzati a favore della specificità del sapere filosofico? Esistono domande, problemi, aree di realtà accessibili alla filosofia invece che alla scienza? Per entrare in una determinazione più adeguata del tema, è giocoforza distinguere nel reale tra unità relazionale e unità ontologica; e successivamente collegare questa polarità ad altre di cui diremo, capaci di chiarire le diverse modalità di sviluppo della scienza e della filosofia. Studiando le molteplici relazioni tra gli oggetti dell’esperienza, la scienza, componendoli e scomponendoli, sbocca in una loro unità relazionale a partire da un’unità del mondo assunta come postulato. La filosofia e in specie la metafisica si volge in primo luogo non agli oggetti in quanto interagiscono relazionalmente ma al loro “in sé”, alla loro unità anterelazionale e ontologica, per cui le cose partecipano dell’esistenza secondo una sovrabbondante ricchezza di modi. Mentre la scienza accede ad un tipo di unità che è quella dei molti collegati, e perciò di tipo orizzontale in cui la parte e il tutto esperibili si collocano sullo stesso livello, la metafisica cerca un’unità ontologica intensiva in cui totale e non totale non siano sullo stesso piano. Un’unità che scaturisce dalla partecipazione all’essere secondo diversi gradi. Si dice che c’è partecipazione quando una stessa qualità/perfezione è inegualmente posseduta da diversi: la partecipazione metafisica più radicale è la partecipazione all’essere, in cui la perfezione inegualmente posseduta è l’esistenza stessa. Nelle correnti filosofiche uscite dal neopositivismo si sottolinea soprattutto la diversità fra scienza e filosofia, ponendosi dal lato di ciò che è falsificabile empiricamente e di quanto non lo è: la scienza si occupa del primo ambito e la filosofia dell’altro. Di altrettanto se non di maggior rilievo è un’altra diversità, proveniente dalla domanda sull’essere, sull’intero, sulla natura delle cose che la filosofia, diversamente dalla scienza, pone. Essa domanda sul tutto e domanda nel modo più radicale. Entro questa preliminare delineazione della differenza fra filosofia e scienza il discorso può addentrarsi a determinare il modo di procedere e di progredire delle due discipline. La relativa caratterizzazione può venire espressa ricorrendo a tre polarità sulle quali indirizzeremo l’analisi: A) mistero-problema; B) approfondimento-sostituzione, alle quali si coordina C) il tema del diverso peso della tradizione nella filosofia e nelle scienze, e dunque il nesso fra tradizione e innovazione (via disciplinae e via inventionis). Con l’ingresso di queste categorie si attribuisce un allargamento e un approfondimento considerevoli ad una 333
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questione che nelle scuole del neopositivismo e del razionalismo critico è rimasto alquanto sacrificata ed impostata secondo criteri troppo restrittivi, poiché la diversità fra scienza e filosofia è stato ricondotta alla polarità empirico-non empirico. Aggiungiamo che la possibilità di un progresso in filosofia non va intesa secondo una legge dialetticamente necessaria in base alla quale l’ultima filosofia è il risultato di tutte le precedenti, di modo che niente è perduto e tutti i principi sono conservati: tale era l’idea di Hegel. Sulla possibile scansione ternaria della storia della filosofia, per cui dopo l’antichità e il medioevo segue il moderno, si è riversata non poca poesia. Sembra più adeguato pensare che la storia e anche la filosofia non si muovono dialetticamente ma problematicamente, come risposta a sfide via via emergenti. A) Mistero-problema Utilizzando la terminologia impiegata da Marcel e Maritain, occorre distinguere fra mistero e problema. In ogni questione, sia essa scientifica o filosofica, è presente un “aspetto-mistero” che ha a che fare con la densità e profondità dell’essere, e un “aspetto-problema”, in cui mediante concetti formuliamo degli interrogativi e cerchiamo di trovarne la soluzione1. Ponendoci dal punto di vista dei tipi puri, il concetto puro di problema rinvia alla soluzione di un rebus, a un esercizio di tecnica logica; mentre il concetto puro di mistero include un riferimento alla realtà, ad una pienezza d’essere e di senso che è accessibile solo parzialmente e con fatica. La realtà intesa ontologicamente è mistero secondo due modalità fra loro contrarie: per la sua “sovraintelligibilità” in cui la ricchezza d’essere e di intelligibilità è tanto luminosa da accecare, come d’altro canto per un certo difetto di intelligibilità per la resistenza che oppone ad una piena comprensione, come nel caso delle nozioni di materia, potenzialità, divenire. Non è possibile separare i due versanti del problema e del mistero, perché ogni questione che riceve risposta, la riceve entro uno sfondo mai completamente afferrabile. C’è sempre un aldilà, un’ulteriorità mai pienamente dominabile, una pienezza di senso in confronto alla quale il nostro sguardo è troppo debole. Tuttavia nelle scienze empiriche predomina l’aspetto “problema”(un predominio che non esclude che anch’esse, confrontandosi con l’universo e la vita, incontrino l’aspetto “mistero”), mentre nel sapere filosofico prevale l’aspetto “mistero”, una pienezza ontologica a cui l’intelligenza si unisce senza esaurirla. Essa risulta tanto densa che per intenderla occorre aver ricorso anche a strumenti delicati come l’analogia, il simbolo, la metafora. 334
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Mistero non è secondo l’assunto razionalistico qualcosa che offende, irrita e nega la ragione; né è qualcosa di contraddittorio. Veicola l’idea che ogni cosa contiene infiniti mondi, rinvia ad infinite altre cose, è sede di infinite relazioni, e perciò richiede una metodologia del rispetto e dell’ulteriorità. Se volessimo trovare nel pensiero del ’900 un approccio lontano da quello qui accennato, occorrerebbe andare con la mente al Manifesto del circolo di Vienna e alle sua idea che tutto sia in superficie e accessibile all’uomo. Qui l’aspetto mistero è cancellato ed emerge solo il problema. Il razionalismo critico ha almeno in parte assorbito dal circolo di Vienna la predominanza del problema sul mistero: non senza ragione dunque un testo di Popper si intitola La vita è risolvere problemi. Il mistero su cui medita la filosofia è quello dell’essere, ed esso si fa più denso man mano che dalla filosofia della natura si procede verso l’ontologia e la metafisica. Perciò la metafisica non è sistema, ma svolgimento-esplicitazione del contenuto del suo cominciamento, che è identicamente il suo oggetto e il suo termine: l’ente (ens). Questo, in quanto è qualcosa di immediato, non può venir presupposto, ma si offre spontaneamente e necessariamente all’intelletto sin dalla sua prima idea: l’uomo pensa l’essere prima di pensare che pensa. Di modo che la filosofia è circolo che, chiudendosi in se stesso, abbraccia in estensione e profondità il contenuto dell’ens. In senso diverso da Hegel si può dire che «il punto di vista che appare qui come immediato deve diventare, dentro la scienza, risultato e propriamente risultato ultimo, nel quale essa attinge di nuovo il suo cominciamento e ritorno in sé. In questo modo la filosofia si mostra come un circolo ritornante in sé […]»2. Nella filosofia dell’essere l’immediato è l’ente, appreso però poveramente, ossia nella sua universalità formale. Il risultato è ancora l’ente, ricco di tutte le determinazioni che si sono potute conquistare. Così il circolo, mentre si chiude col risultato che raggiunge il cominciamento, può nuovamente ripartire, in quanto la totalità delle determinazioni dell’ente è infinita. B) Approfondimento-sostituzione Il concetto di progresso può essere legittimamente applicato ad ambiti diversi quali la conoscenza umana, l’area della tecnica, il campo della vita sociale e delle sue istituzioni, e l’uomo stesso. Conviene però tenere distinti gli ambiti e stare lontani dalla facile ideologia del progresso che lo vedeva come un che di omogeneo capace di estendersi a tutti i settori citati, sulla scorta di una illimitata perfettibilità attribuita all’uomo. Tale ideologia, che riconosceva le sue prime origini nel dibattito sugli antichi e sui moderni (secolo XVIII), andò poi sempre più 335
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precisandosi e gonfiandosi sino ad emettere il suo suono più acuto (e più problematico) con Condorcet: «Il risultato [dell’opera intrapresa] sarà di mostrare, con il ragionamento e coi fatti, che la natura non ha assegnato alcun termine al perfezionamento delle facoltà umane; che la perfettibilità dell’uomo è realmente indefinita; che i progressi di questa perfettibilità, ormai indipendenti da ogni potenza che volesse arrestarli, non hanno altro termine che la durata del globo in cui la natura ci ha posti»3. Neppure ci occuperemo di una versione più adeguata dell’idea di progresso, anch’essa applicata all’uomo, che determineremmo così: per l’uomo progredire significa realizzare la propria essenza, svolgendo le virtualità in essa immanenti e divenendo atto di tutto l’essere da essa consentito4. Lasciando da parte il tema antropologico e sospendendo il giudizio sul tema se l’uomo sia in progresso verso il meglio o il peggio, il nostro intento è filosofico-gnoseologico, con particolare riferimento al livello teoretico: individuare fra i vari modi in cui le conoscenze e le relative discipline possono svilupparsi e progredire, quello che pare verificarsi nella metafisica. Occorre perciò preliminarmente schizzare una tavola delle modalità con cui il sapere cresce e si consolida: 1) progresso per addizione omogenea: esso accade là dove una parte si somma ad un’altra per accrescimento omogeneo del campo oggettuale. L’ampliamento dell’oggetto comporta un aumento del sapere e delle conoscenze ad esso relative (un progresso di questo tipo si ottiene ad es. nelle matematiche per ampliamento del loro campo dai numeri reali a quelli immaginari); 2) progresso per estensione delle discipline: avviene quando alle scienze conosciute se ne aggiungono di nuove; 3) progresso per sostituzione: accade regolarmente nelle scienze, quando un determinato paradigma, una nuova teoria più ampia, comprensiva e capace di integrare un maggior numero di fenomeni prende il posto della precedente (la teoria copernicana rimpiazza quella di Tolomeo; Galilei esautora Aristotele; la fisica di Einstein quella di Newton, ecc.). Questo tipo di progresso comporta una rivoluzione di paradigma5. 4) progresso per approfondimento del medesimo: esso accade mediante una penetrazione crescente dello stesso “oggetto”, una discesa “omogenea” in esso e una migliore conoscenza senza che si imponga una rivoluzione dei concetti portanti (o del paradigma); 5) progresso mediante superamento di negazioni determinate: si può sostenere che si dà progresso in modo più umile ma non 336
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meno reale che negli altri casi, quando una dottrina supera vittoriosamente obiezioni, critiche e negazioni che vorrebbero cancellarla. La legge di sviluppo delle scienze, il modo con cui progrediscono è in genere la sostituzione: esse avanzano con il rimpiazzo continuo e mai concluso di una teoria ad un’altra, di un paradigma ad un altro. Senza cedere ad una loro assolutizzazione, le considerazioni di Popper sul fallibilismo e quelle di Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche (pur fra loro non coincidenti) interpretano qualcosa di reale nell’attività delle scienze. Queste ultime saranno tanto più fedeli al loro tipo di sapere quanto più si adatteranno a cambiare costantemente teorie e paradigmi. È probabile che così operando possano accrescere il noto e diminuire l’ignoto. Viceversa il modo proprio di progredire della filosofia (in specie della metafisica a cui soprattutto si farà riferimento) è secondo il metodo dell’approfondimento del medesimo che, includendo il superamento delle obiezioni, produce “una identità che cresce”. Approfondimento del medesimo significa dimorare accanto alle stesse questioni per giungere ad una loro più profonda chiarificazione, ad un ampliamento omogeneo del già conosciuto, che assume appunto la forma apparentemente paradossale dell’“identità che cresce”. Ciò significa, ed è evento alluso nell’aggettivo “omogeneo”, che non accade qui un mutamento totale o una rivoluzione di paradigma, ma un cammino di analisi e di sintesi che avanza verso uno schiarimento sempre migliore del proprio campo oggettuale. Naturalmente a questo esito concorre l’allargamento del quadro problematico introdotto dai mutamenti spirituali e scientifici che sollevano nuove domande o inducono alla riformulazione di quelle già poste: si pensi alla vastità di questioni antropologiche e morali poste dagli sviluppi in biologia e genetica6. Si è così presentato un tipo o schema puro, al quale si avvicina più o meno lo svolgimento storico delle filosofie. Anche in quella che eredita in maggior grado la tradizione, non sono certo escluse novità, correzioni, rifusioni, integrazioni anche audaci che si estendono tanto lontano quanto il mutamento dell’assetto sistematico, l’aggiornamento del lessico, il confronto coi nuovi problemi e relativo ampliamento del quadro, il dialogo con le filosofie del momento7. Si comprende che nella nozione di progresso come approfondimento omogeneo del medesimo sia implicata la continuità di una tradizione dottrinale. Se l’esistenza di una tradizione intellettuale durevole è condizione necessaria per la trasmissione del sapere, dei concetti elaborati dalle generazioni passate, e non costituisce un’esigenza propria soltanto della filosofia ma di ogni disciplina, la posizione che qui 337
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difendiamo è più esigente, poiché implica che la tradizione in grado di incorporare un approfondimento omogeneo del medesimo, realizza un progresso. È però sufficiente distogliere gli occhi da questi aspetti, impressionati dalle modalità del progresso tecnologico, basato sulla sostituzione di tecnologia a tecnologia e sull’obsolescenza programmata, perché si trovi esca per intendere il cammino della filosofia come un’arena dove ciascuno sta per breve periodo prima di cedere il passo ad altri. Non ha l’esistenzialismo ceduto il passo al marxismo, poi allo strutturalismo, prima che si aprisse l’epoca dell’ermeneutica? Domani sarà la volta del pensiero postmetafisico? In queste domande traluce comunque un problema reale ed è il diverso grado di permanenza delle discipline che compongono l’organon della filosofia: la filosofia della natura che non può essere indipendente dalle acquisizioni della fisica e della biologia, non ha la stessa durevolezza della metafisica, e così la filosofia politica rispetto alla dottrina della conoscenza. Finora si è distinto il progresso per rivoluzione-sostituzione proprio delle scienze da quello per accumulazione e approfondimento del medesimo proprio della filosofia, lasciando nello sfondo un metodo comune ad entrambe: il metodo critico e la ricerca dell’errore. La discussione razionale, la riflessione sulle proprie basi, il vaglio delle critiche svolgono in filosofia come in ogni altra disciplina un compito notevole, senza di cui esse finirebbero per raggiungere la quiete della morte. Nel breve periodo il cozzo delle opinioni può generare l’impressione del caos, sebbene si possa ammettere che il cammino verso il vero è agevolato dall’emergere dell’errore e relativa confutazione piuttosto che da un’indistinta confusione. Scoperte e momenti creativi accadono quando entro un’attività di discussione, di conflitto e perfino di scontro, si intravedono nuove strade oppure si riguadagnano con nuovo vigore quanto proviene dalla tradizione, stimolandola a svolgersi, a precisarsi, a cambiare pelle abbandonando il caduco, a rinnovarsi. Una scuola filosofica che perdura nel tempo, riuscendo a rispondere efficacemente alle obiezioni che le vengono rivolte, e che è in grado di offrire senza rinnegarsi ossia omogeneamente con le proprie intuizioni, risposte plausibili agli interrogativi che via via emergono dalla vita, ha non poche frecce al suo arco8. Nel momento del confronto critico può emergere un altro elemento notevole, ossia che una filosofia che intenda proporsi come più adeguata ed universale di altre, dovrebbe coprire un maggior numero di campi e problemi, assegnare risposta a più questioni, comprese quelle per cui non era stata pensata. Noi siamo naturalmente inclinati ad assegnare ad una tale filosofia un privilegio rispetto a quelle che si esten338
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C) Tradizione-innovazione Un conciso cenno è sufficiente per l’ultimo punto, che ha già fatto capolino in rapporto alla dialettica fra dialettica fra permanenza e mutamento, propria della vita e che assume rilievo anche nel campo dello spirito e delle sue acquisizioni. Il carattere a cui si allude col termine “tradizione” (via disciplinae) significa che in filosofia, come in qualsiasi scienza, non si parte mai da zero, onde è necessario mettersi con libertà critica al seguito di una tradizione di pensiero per acquisirne conoscenza e vagliarla9. L’altro carattere fa riferimento alla innovazione (via inventionis) e significa che sulla base del sapere ricevuto e criticamente considerato, si può far avanzare la filosofia, affrontando i nuovi problemi che lo scorrere del tempo presenta, penetrando con uno sguardo più intenso nel mistero dell’essere, e da ciò traendo più sicuro possesso di ciò che è primo. Nonostante l’intento decostruttivo a cui l’ha volto, Heidegger ha intuito il rilievo di questo metodo: «Per cambiare modo di pensare è necessario l’aiuto della tradizione europea e di una sua riappropriazione. Il pensiero viene modificato solo da quel pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione»10.
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dono a meno problemi e a una più ristretta cerchia di realtà. Si può portare come esempio la dottrina sull’unità sostanziale dell’uomo a cui si riconosce un passo avanti rispetto al dualismo antropologico, e che è in grado di offrire risposte a questioni di origine psicologica, biologica e scientifica non esistenti quando fu elaborata.
2. Metodo e argomentazione Rivolgiamo ora l’attenzione a domande che suonano all’incirca: quale cammino generale di ricerca si attua in filosofia speculativa? A quali argomenti e forme dimostrative può far ricorso la metafisica per avanzare nella ricerca del vero e difendere i suoi enunciati rispetto alle critiche sempre risorgenti? Alla prima domanda corrisponde il problema del metodo, se per metodo si intende – in omaggio al significato deposto nel termine – il cammino da percorrere nella ricerca. Se la filosofia mira alla conoscenza del vero, l’itinerario dell’indagine non può costituire l’inessenziale tanto quanto non lo è l’oggetto. Il metodo è la strada per attingere nel risultato la cosa stessa, dove forse sia possibile alla filosofia deporre il nome di “amore della sapienza” e indossare le livree del sapere. 339
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La ricerca involge inoltre l’accertamento delle strutture specifiche dell’argomentazione filosofica, con la determinazione delle affinità e delle differenze rispetto ad altre forme di sapere e argomentazione (scientifica, narrativa, retorica, ermeneutica), a cui non di rado si fa oggi riferimento per negare validità conoscitiva al filosofare. Filosofia è saper chiedere ragione e saper rendere ragione, in una connessione di logo e di dialogo che è ad essa intrinseca. Il logo accomuna gli uomini, instaurando fra loro una comunità di discorso e di comunicazione, in cui la disponibilità al dialogo non è da intendere come espressione di cortesia, bensì come necessità intrinseca. Se nel pensiero moderno la questione del metodo – «esiste un metodo privilegiato per filosofare e quale è?» – si è posta con forza sin dalla nuova partenza cartesiana, le prime impressioni in ordine allo stato del problema nel pensiero contemporaneo offrono un esito diverso: non solo della questione del metodo si riscontrano labili tracce, ma non di rado si sostiene che debba accadere proprio così. Ne consegue che ciascuno può far ricorso al cammino che preferisce, e che la filosofia non è in grado di appellarsi ad un metodo che le sia proprio. A un’espressione nitida di tale assunto ha dato voce Popper: «I filosofi sono liberi di usare qualsiasi metodo per la ricerca della verità. Non esiste un metodo peculiare alla filosofia»11. Vedremo che da altro orizzonte questa è anche la posizione di Gadamer. È probabile che qui Popper intendesse rivolgersi polemicamente a mettere in dubbio che il metodo della filosofia sia quello dell’analisi del linguaggio inteso secondo le scuole attive ai due bordi dell’Atlantico: quella americana che al seguito di Carnap si rivolge all’analisi del linguaggio formalizzato-scientifico, e quella britannica che influenzata dal secondo Wittgenstein guarda verso la lingua naturale. Queste scuole non sono sole nel sapere quale sia o dovrebbe essere il metodo del filosofare, potendosi a loro accostare la corrente ermeneutica con il suo assunto che il metodo consista nell’interpretazione, e perfino il razionalismo critico. Con buona approssimazione il Tractatus wittgensteiniano, Verità e metodo di Gadamer, e scritti di Popper possono venir considerati i capostipiti degli vari indirizzi, che in fin dei conti negano che la filosofia possa far ricorso ad un proprio metodo. All’esplicita dichiarazione di Popper fa riscontro quella altrettanto parlante di Gadamer: «Non esiste un metodo proprio alle scienze dello spirito»12, le quali valgono per Gadamer come il nucleo della filosofia nel suo trasformarsi da filosofia dello spirito in ermeneutica del linguaggio. Né sarebbe conclusivo fare appello alla appariscente diversità di valutazione con cui i due autori soppesano il termine “metodo”. Ponendo la problematica equazione di “metodo” e di “metodo scientifico”, per Gadamer l’esperienza di 340
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verità è extrametodica in rapporto alla contrapposizione fra scienze naturali (=metodo) e scienze dello spirito (=verità). In sostanza la filosofia non ha metodo, è senza metodo. Quello del fallibilismo non le si attaglia completamente e meno che mai quello delle scienze naturali3. Senza negare che gli strumenti dell’analisi del linguaggio, dell’interpretazione, del procedere per tentativi ed errori costituiscano utili sussidi in filosofia speculativa, semplicemente sostengo che il suo metodo e le sue forme argomentative sono altre, e che di ciò le scuole in questione non sembrano avere consapevolezza. Naturalmente alludiamo qui, in specie in rapporto all’argomentazione, a qualcosa che si aggiunga al carattere generale di ogni sapere, ulteriore cioè al ricorso alla discussione razionale, tendenzialmente compiuta e priva di lacune, capace di esporsi e di sostenere la critica. Sì, la filosofia possiede un “cammino” e forme argomentative che se non sempre sono esclusivamente sue, assumono in essa carattere privilegiato per l’interalità del campo a cui si riferiscono. Nella filosofia dell’essere, la metafisica viene considerata capace di raggiungere un sapere anipotetico e universale sul reale: su un numero limitato di temi, si intende – perché la metafisica non conduce a sapere tutto né è una conoscenza assoluta di tipo hegeliano –, ma su temi particolarmente decisivi. Essa si colloca pertanto sopra alle altre scienze, che o partono da premesse non reali ma ipotetiche (costruendosi col metodo ipotetico-deduttivo), o prendono le mosse dall’esperienza, senza poter attingere la necessità. Chiamiamo anipotetico il procedere della metafisica in un duplice significato: perché risolve le proprie nozioni nel principio primissimo e intrascendibile che è l’ente; perché non ricerca ipotesi ma, mostrando che la realtà quale ci appare è problematica ossia incapace di render conto immediatamente di se stessa e dunque bisognosa di una spiegazione, pone la domanda sull’intero e mentre problematizza se stessa, cerca un fondamento sicuro per le sue risposte. Il problema metafisico nasce con l’interrogativo sul significato dell’esperienza, che costituisce il più difficile e in certo modo l’unico problema filosofico. Le due questioni si rinviano reciprocamente, perché non è possibile porre la questione metafisica senza sollevare quella dell’esperienza, e ciò richiede un processo preparatorio in cui altre forme di conoscenza abbiano iniziato a comprendere aspetti della realtà. La domanda e l’elaborazione della metafisica prendono slancio in modo razionalmente dispiegato quando l’uomo a contatto con la realtà, la concettualizza in termini di essere. Felicemente scrive Marino Gentile: «Se non si riesce ad avere almeno una volta nella vita il brivido di questa singolare meraviglia, per cui tutte le cose si compongo341
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no nell’immenso fiume dell’essere, non è possibile intendere che cosa sia la metafisica […] Che si tratti di un’operazione difficile, risulta dalle maggiori espressioni del pensiero speculativo; poiché in esse la fortuna della successiva costruzione sistematica dipende dalla purezza dell’intenzione o intuizione originaria»14. Evento forse difficile da maneggiare per le virtualità di cui è pregno, ma non raro, poiché non pochi uomini che filosofi non sono, la posseggono allo stato non esplicitato. Per coloro che sono filosofi la difficoltà può collocarsi nel passaggio dalla purezza dell’intuizione originaria – che è più o meno forte, pura o sviluppata – alla concettualizzazione: può succedere che un’intuizione autentica si concettualizzi in formule inadeguate o erronee. Notevole parte della verità di una filosofia dipende dalla forza razionale con cui il filosofo riesce ad esprimere l’intuizione originaria, che nella sua forma pura è intuizione dell’essere. “Vedere” o perire: il dramma del filosofo si gioca entro queste due sponde. Sant’Agostino scriveva: «Tota merces nostra visio est»15. E Aristotele: «Noi anteponiamo il vedere ad ogni altra cosa»16.
3. Analitico e sintetico Orbene se per metodo si intende l’orientamento generale della ricerca, esso nelle scienze della realtà non può che risultare risolutivo o analitico, in un processo che prendendo le mosse da quanto consta e ci è noto, risale dagli effetti alle cause, dal condizionato all’incondizionato, dai fatti alle loro spiegazioni. Profondamente differente e in verità opposto è il cammino seguito dal logico, dal matematico, nonché dal teologo speculativo cristiano, i quali adottano il metodo sintetico o compositivo, nel senso che in queste scienze si discende da premesse universali (la maggiore del sillogismo in logica, gli assiomi o postulati in matematica, gli articula fidei nella teologia cristiana) alle conclusioni particolari. Naturalmente in certe fasi dell’indagine metafisica sarà possibile e necessario impiegare il procedimento deduttivo, ma senza che questo inverta l’ordine generale del processo che in metafisica è appunto risolutivo, a partire cioè dal dato particolare verso il principio, l’universale, le cause. Secondo Tommaso d’Aquino «il processo raziocinativo può assumere due orientamenti: compositivo, quando procede dalle forme più universali a quelle meno universali; risolutivo, quando procede in senso inverso. Infatti, ciò che è più universale è più semplice. Ora è universalissimo ciò che appartiene ad ogni ente. E perciò il termine ultimo in questa vita è lo studio dell’ente e di tutto ciò che gli appartiene in quanto ente. E queste sono le co342
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se di cui si occupa la scienza divina (o metafisica), ossia le sostanze separate e tutto quanto è comune a tutti gli enti»17. Si intende come sia friabile il fondamento di quanti asseriscono che il metodo della filosofia starebbe nel dedurre secondo impeccabili regole logiche conseguenze da premesse o postulati. Secondo McIntyre una parte della filosofia contemporanea ha inteso in tal modo il proprio compito (cfr. Dopo la virtù). Nell’accertamento del metodo, ossia dell’orientamento generale della ricerca, la filosofia dell’essere segue il cammino inferenziale analitico o risolutivo, in un processo che dagli effetti risale alle cause, dal condizionato all’incondizionato, dai principiati (i fatti) ai principi, dal momento che la cognizione delle cause e dei principi è lo scopo nel quale termina l’indagine (in questo modo la natura del metodo è strettamente dipendente da quella dell’oggetto). In tale processo all’indietro, che prende le mosse dall’esperienza e dall’a posteriori, il termine ultimo rimane lo studio dell’ente e di quanto gli appartiene in proprio. L’itinerario della indagine metafisica parte dall’ente sensibile come realtà bisognosa di essere compresa e spiegata, e nel suo momento finale approda ancora all’ente, carica però di tutta la preda intelligibile che è stata via via acquisita nel processo, nelle grandi linee consistente nell’accertamento della struttura ontologica del concreto e nella ostensione della necessità di un Principio reale, non soltanto pensato. Consideriamo ora l’altro tema: se esistano e quali siano i procedimenti o le forme argomentative a cui la metafisica può ricorrere per provare le sue affermazioni e difenderle dalla obiezione critica. È saggio vegliare a non confondere il metodo o itinerario generale della ricerca col procedimento argomentativo. In proposito oltre all’impiego della deduzione e dell’induzione, la metafisica fa ricorso all’argomentazione dialettica e a quella elenctica. A scanso di equivoci e per fissare il lessico, ricordiamo che nell’argomentazione dialettica si ricorre ad un uso del principio di non contraddizione (pdnc) in virtù del quale, quando non sia possibile stabilire in via diretta la verità di una tesi, questa viene fondata procedendo alla distruzione della sua negazione, ossia mostrando la contraddittorietà della contraddittoria. Un asserto ridotto alla contraddizione è un asserto nullo o un nulla di asserto, e ciò garantisce la verità dell’asserto opposto contraddittorio rispetto ad esso. Quanto alla argomentazione elenctica o confutatoria (che consideriamo qui nella sua forma più specifica, poiché quella più generale include la prova dialettica che è anch’essa una confutazione), essa consiste nel far risaltare la verità di una tesi mostrando che la sua negazione è solo verbale, nel senso che il negatore nell’enunciare la sua pretesa negazione è costretto a ricorrere implicitamente proprio a ciò 343
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che vorrebbe negare. Nell’elenchos del pdnc, reso nel latino medievale con elenchus e forse più esattamente con redarguitio, viene tolta la tesi scettica generale che le contraddittorie siano ugualmente vere oppure ugualmente false, a partire dall’evento che l’avversario negatore non si rifiuti di entrare in dibattito e dica o significhi qualcosa con un nome. Su tale base si mostra al negatore che il suo preteso negare il pdnc è semplicemente porlo: egli non può evadere realmente da quanto locutoriamente rifiuta18. Entrambe le forme argomentative rivestono rilievo, sebbene più decisiva e potente risulti la prima, che per operare deve avere dinanzi asserti che o abbracciano l’intero o comunque si oppongono secondo contraddizione19. I problemi tipici della tradizione filosofica sono formulabili in asserti del tipo: l’uomo è libero/non libero; l’anima è mortale/immortale; l’universo è finito/infinito; Dio esiste/non esiste, in cui si riconoscono opposizioni di contraddizione tali che, se un asserto è vero, l’altro è necessariamente falso e viceversa: non possono risultare entrambi veri o falsi. Fra “libero e non-libero”, “mortale e immortale”, “esiste e nonesiste” non si dà terzo o termine medio. Mi preme aggiungere che i due asserti contraddittori a cui ci si riferisce negli esempi appena citati, risultano entrambi determinati. È un errore ritenere che le opposizioni segnalate siano del tipo “A/non-A”, dove allora non-A risulterebbe indeterminato, perché esse sono invece espresse in giudizi o asserti del tipo “A è B” oppure “A non è B”. L’opposizione fra proposizioni reciprocamente contraddittorie non si configura come opposizione fra un asserto determinato p e uno indeterminato non-p, se il predicato che viene attribuito o negato del soggetto possiede solo due possibilità20. Secondo E. Berti l’argomentazione specifica della metafisica si riduce alla prova elenctica del pdnc e al procedimento dialettico, col quale ad es. vengono ridotte alla contraddizione le dottrine che negano la trascendenza dell’Assoluto: «La metafisica procede dialetticamente, cioè è un discorso strutturalmente e necessariamente dialettico»21. È qui presente un aristotelismo parziale, nel senso che sembra accogliere solo una parte del retaggio aristotelico, lasciando tra parentesi il discorso sul nous e sul carattere intuitivo e anipotetico dei principi che pur è, come abbiamo ricordato, un elemento assolutamente vitale dell’aristotelismo. Il carattere intimamente dialogico del filosofare non comporta necessariamente l’inconclusività dell’argomentare: una volta che un asserto sia stato mostrato vero, esso è vero per sempre. Pur entro la comunità dialogica e non monologica del filosofare, si può pervenire a verità ferme, senza che il dialogo senza alcuna conclusione costituisca la struttura trascendentale ultima del filosofare. L’acquisto per sempre nel sen344
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so che una certa verità sta al riparo da sorprese, non contraddice la dialogicità e storicità della ricerca. Anche quando è stata guadagnata la verità di una delle due contraddittorie, essa non è immune da sempre nuove obiezioni (poniamo mente alle molteplici forme di immanentismo che si oppongono al trascendentismo), che possono venir portate ai titoli più vari, come è accaduto nella vicenda del pensiero e altrettante accadrà. Inoltre il carattere di opposizione senza medio proprio di vari problemi metafisici non implica che tutta la metafisica si riduca a questo schema. Spesso nascono questioni nuove, prima ignote. Ad es. gli attacchi positivistici alla filosofia in base all’idea che solo la scienza conosca, risultano qualcosa di nuovo e correlativamente pongono un problema originale, in genere non sollevato nel passato. Essi richiedono una risposta specifica. Analogamente si dica per le istanze critiche sollevate dall’attualismo, dallo scetticismo, dal debolismo, dal fallibilismo. La metafisica deve congiungere al dovere di rispondere alle sempre nuove obiezioni la consapevolezza antifallibilistica del proprio guadagno stabile. Gli assunti di questo capitolo verranno saggiati in quello successivo, dove il realizzarsi di un notevole progresso nella vicenda della metafisica dai Greci in avanti è analizzato col ricorso alla metafora di “terza navigazione”, entro cui si disegna un cammino verso una più adeguata e profonda concezione dell’essere. Con l’idea di un progresso ulteriore alla seconda navigazione platonica viene configurato almeno per la metafisica uno schema polare rispetto a quello, molto antico e frequente nelle culture umane, che pone una pienezza iniziale in una presunta età dell’oro, da cui il movimento della storia si distacca declinando. Una intuizione analoga è veicolata nella Bibbia dalla profezia di Daniele (cfr. Dn 2, 37-43), intesa come l’annuncio di quattro età del mondo: dell’oro, dell’argento, del bronzo, e del ferro/terra cotta, poste appunto in ordine discendente. Note 1 Cfr. G. Marcel, Position et approches du mystère ontologique, DDB, Paris 1933; J. Maritain, Sette lezioni sull’essere, cit. 2 Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 17, Laterza, Bari 1980, p. 25 s. 3 Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, Boivin, Paris 1933, p. 3. 4 Per un approfondimento di questa modalità di progresso cfr. V. Possenti, Filosofia e società. Studi sui progetti etico-politici contemporanei, Massimo, Milano 1983, pp. 51-63.
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5 Secondo Th.S. Kuhn i “paradigmi” indicano «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca», La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978, p. 10. 6 Lo sviluppo della metafisica come “identità che cresce” è trattato nel saggio “Identità della metafisca e oblio dell’essere”, nel volume Approssimazioni all’essere, Il Poligrafo, Padova 1995, pp. 23-55. A titolo di richiamo ricorderemo che lo sviluppo storico della filosofia dell’essere va inteso come compresenza di identità/permanenza e di differenza/mutabilità. Identità della sua ragione formale (= la posizione metafisica fondamentale) e mutabilità della sua ragione materiale (= il modo di esprimersi, le problematiche prese in esame, l’assetto sistematico, ecc.). L’identità transtemporale e transculturale della metafisica dipende dalla sua ragione formale e non vale come identità chiusa e dunque ripetizione, ma come svolgimento del virtuale e rinnovamento materiale. In ciò si configura una identità che cresce, entro il cui concetto è possibile pensare lo sviluppo della filosofia dell’essere. Mentre la produzione artistica presenta carattere individuale e non cumulabile, nell’attività filosofica può manifestarsi un elemento cooperativo e cumulativo nel quale, sotto certe condizioni, prende corpo un progresso. Condivisibili considerazioni svolge al riguardo M. Dummett nel suo già citato intervento su “Il Sole-24 Ore”. 7 In temi tanto delicati costituisce un buon avvio evitare le soluzioni estreme dove lo spirito si rifugia con falsa radicalità e in mancanza di più adeguate soluzioni: da un lato la figura del dialettismo che cerca di riscattare e annullare nella necessità la contingenza del nascere delle filosofie, per cui il loro susseguirsi corrisponderebbe alla successione logica delle determinazioni concettuali dell’Idea; e dall’altro lato la figura del compiuto pluralismo che intende la storia della filosofia come una vicenda caotica e quasi senza un senso, dove ogni pensatore sta per sé e così ogni sistema. Se la prima soluzione volge verso un illegittimo necessitarismo apriorico, dove il succedersi delle filosofie pensato ex post viene amputato di parti notevoli che non entrano nello schema, nella seconda quanto meno latita il senso dell’unità soggettiva dell’esperienza filosofica, di cui ha trattato con vigore E. Gilson, e su cui rende testimonianza la vita dei filosofi e l’orientamento del loro desiderio verso la cognizione del vero. 8 Il rilievo del progresso mediante superamento delle negazioni non deve andare a discapito dell’idea che il livello più decisivo in filosofia come in ogni altra disciplina sia quello percettivo. Nella filosofia prima si impiegano le principali forme dell’argomentazione per penetrarne sempre meglio l’oggetto, e l’avanzamento che accade negando le negazioni non può che andare congiunto con l’atto del percepire. L’intelletto umano desidera conoscere in via diretta, non solo attraverso la negazione della negazione. In quest’ultimo caso, se ci si passa l’immagine, la metafisica assomiglierebbe ad un pugile che se ne sta immobile al centro del ring, salvo ogni tanto abbattere con un colpo il nuovo sfidante, per poi riassumere l’assetto statico.
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9 Nel tentativo di rispondere alle questioni sollevate viene via via formandosi una tradizione, in cui le dottrine degli antichi non valgono soltanto come cosa passata. Secondo Aristotele, «se ci rifacciamo a loro [a quelli che prima di noi si sono rivolti alla ricerca della realtà ed hanno filosofato intorno alla verità] ne trarremo qualche aiuto per la nostra attuale indagine, giacché o verremo a scoprire qualche altro genere di cause, oppure confermeremo la nostra fiducia in quelle di cui ora abbiamo parlato» (Met 983 b3 s). 10 Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, p. 149. 11 Logica della ricerca scientifica, Einaudi, Torino 1995, p. XXXIV. 12 Verità e metodo, p. 30. 13 Le differenti prospettive a cui guardano il razionalismo critico di Popper e l’ermeneutica gadameriana si confermano nel tentativo di riportare le scienze dello spirito a quelle della natura nel primo caso attraverso l’assunto dell’unicità del metodo (trial and errors, fallibilismo); e inversamente nel secondo caso in virtù della valenza universale attribuita all’ermeneutica, il cui circolo viene applicato anche alle scienze naturali. Se il trial and errors venisse inteso come una particolarizzazione del circolo ermeneutico, il metodo del razionalismo critico verrebbe ricompreso entro quello ermeneutico. 14 Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova 1955, p. 62. 15 Sermones, n. 302. 16 Met., 980 a 25. 17 In Boet. de Trin., lect. II, q. 2, a. 1. 18 Il celebre elenchos aristotelico relativo al pdnc si distende nel libro IV della Metafisica nei capp. IV-VIII. Il commento di Tommaso copre le lezioni VI-XV (nn. 596-719). Nella sesta l’elenchos è così determinato: «Elenchus est syllogismus ad contradicendum: unde inducitur ad redarguendum aliquam falsam positionem» (n. 608). Nel Contra Gentes (l. II, c. 33) l’Aquinate presenta efficacemente aspetti essenziali della redarguitio: «Ci sono molte proposizioni che a negarle si è costretti ad affermarle. Chi per es. nega che esista la verità, afferma una verità; perché afferma che è vera la negazione che egli proferisce. Lo stesso si dica di colui che nega il principio: “cose contraddittorie non possono essere simultaneamente vere”, poiché negandolo afferma che è vera la sua negazione e falso il contrario e quindi che non possono essere ugualmente vere l’una e l’altra». 19 Riassumiamo i modi con cui si danno opposizioni di proposizioni: contraddizione, contrarietà, subcontrarietà, tralasciando la subalternazione che in senso proprio non dà luogo a opposizione. 1) Vi è opposizione di contraddizione fra due proposizioni quando esse, avendo lo stesso S e P, si oppongono non solo per la qualità (una affermativa, l’altra negativa), ma pure per la quantità (l’una particolare, l’altra universale). Esempio: Tutti i cigni sono bianchi; qualche cigno non è bianco. Vi è pure opposizione di contraddizione fra proposizioni singolari del tipo “Paolo è sapiente” “Paolo non è sapiente”, o fra proposizioni in cui il S è preso come singolare nello spirito (l’anima è mortale-l’anima non è mortale), poiché la seconda nega completamente la prima; 2) Vi è opposizione di contrarietà quando le due proposizioni, con gli stes-
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si S e P, sono opposte per la qualità (una affermativa, l’altra negativa), non per la quantità (in entrambi i casi universale). Ogni cigno è bianco; nessun cigno è bianco. 3) Vi è opposizione di subcontrarietà quando le due proposizioni sono opposte per la qualità non per la quantità (in entrambi i casi particolare). Qualche cigno è bianco; qualche cigno non è bianco. Nell’opposizione di contraddizione le due proposizioni non possono essere entrambe vere o entrambe false, ma se una è vera, l’altra è necessariamente falsa e viceversa. Nella contrarietà le due proposizioni non possono essere vere contemporaneamente, ma possono essere entrambe false; nella subcontrarietà possono risultare ugualmente vere, ma non possono essere false insieme. All’uso del pdnc in metafisica non si può assegnare altro valore che dialettico, non un valore immediatamente inferenziale. Il neoparmenidismo, che fa regredire la filosofia verso posizioni arcaiche, vorrebbe invece impiegare il pdnc per uscire immediatamente dall’esperienza e nei casi più radicali per negare l’irrefutabile attestato del divenire. 20 Negli asserti relativi alla mortalità/immortalità dell’anima, alla finitezza/infinitezza dell’universo non si dà, come osservato, termine medio pur potendo i due asserti essere intesi come opposti secondo l’opposizione di contrarietà che in genere possiede un medio. Aristotele aveva colto acutamente questo aspetto: «Quando i contrari sono cosifatti che l’uno o l’altro di essi deve necessariamente appartenere all’oggetto in cui si presentano per natura o di cui si predicano, allora fra questi contrari non sussiste alcuna nozione intermedia […] Il pari e il dispari si predicano del numero, ed è certo necessario che l’uno dei due, o il dispari o il pari, appartenga al numero» (Categorie, 12 a ss. Cfr. anche 13 b18). Per mettere a punto ulteriormente la questione, aggiungerò che esistono due forme di opposizione di contraddizione: 1) quella ente/non-ente, in cui gli estremi sono esterni ad ogni genere, poiché l’ente non è un genere e così “nonente”; 2) ed un’opposizione di contraddizione partecipata nei contrari, nel senso che entrambi gli estremi sono in un genere (ad es. “Socrate è bianco” e “Socrate non è bianco”). Se consideriamo le proposizioni “tutto si muove” e “tutto sta fermo”, esse non possono essere entrambe vere, ma possono risultare entrambe false. Valgono perciò come contrarie, capaci di ammettere un “medio” quale “qualcosa si muove e qualcosa sta fermo”, che si presenta come contraddittorio rispetto ai due estremi. 21 E. Berti, Problematicità e dialetticità della “metafisica classica”, «Teoria», n. 1, 1986, p. 89. Lo stesso autore aggiunge: «Nessuna metafisica è mai definitiva, perché può sempre sorgere una nuova negazione di essa, ed essa, consistendo tutta e solo nella confutazione delle sue negazioni, dovrà sempre di nuovo riformularsi» (p. 91, corsivo mio).
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Capitolo tredicesimo
1. Il compito della filosofia dell’essere
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La terza navigazione
All’interrogativo sul significato ultimo della filosofia, la meditazione risponde che esso consiste nel tentativo di sostituire le opinioni sull’intero con la conoscenza dell’intero: ciò pone alla filosofia un compito che costituisce una teleologia razionale infinita, ed insieme eleva una demarcazione fra essa e generiche Weltanschauungen. A dispetto del relativismo, dello scetticismo e di un diffuso “antifondazionalismo”, non sembrano esistere a priori obiezioni persuasive contro l’idea che la filosofia possa via via pervenire alla conoscenza e perfino a quella vertente sulla struttura fondamentale dell’intero: dopotutto una pretesa del genere non è manifestamente assurda. Lo diventa invece col nichilismo moderno e tardo moderno, che è in essenza una tale obiezione su vari piani, dal teoretico al morale. E col nichilismo lo storicismo, nel quale si incarna l’istanza maggiormente influente dell’epoca. Pensiamo che al moto discensivo del nichilismo possa far fronte quello ascensivo della filosofia dell’essere, qui considerata come la filosofia comune del genere umano, un pensiero che in virtù del suo organamento può venire inteso come il limite ideale o l’asintoto verso cui tendono da vicino o da lontano tante scuole filosofiche nel corso delle epoche. Tale filosofia che paga la sua verità con una maggior lentezza, è destinata ad alterne fasi di presenza e di assenza. Altri pensieri infatti – forse meno profondi e saldamente strutturati della filosofia dell’essere e che in genere esibiscono una durata modesta entro il divenire e il dialettizzarsi delle dottrine –, possono volgersi con maggiore rapidità sui nuovi temi proposti dalla vita e dalla cultura, esercitando un fascino temporaneo in ragione della parte di novità e di verità che contengono. Ma di per sé sono destinati a tramontare dopo aver dato il loro contributo, in ragione sia della loro stessa specializzazione sia 349
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del fatto che nella maggior parte dei casi il loro problema non è quello dell’intero. In rapporto al metodo tradizionale e progressivo, che corrisponde al farsi della filosofia nel suo divenire storico, la Seinsphilosophie è abilitata dalla forza stessa delle sue intuizioni a stimolare il compito infinito del progresso della filosofia, ad essere consapevole che il proprio sviluppo sostiene quello della filosofia senza aggettivi, perchè la sua metafisica, rendendo possibile l’accesso ad un’idea radicale e inoltrepassabile di essere, ha propiziato la “terza navigazione”1.
2. La terza navigazione Che cosa intendiamo con questo termine enigmatico, che sembra suggerire una sorta di storia della metafisica nel suo millenario procedere? Vi è infatti uno svolgimento della metafisica, su cui si è intensamente interrogato Heidegger (cfr. i capp. VIII e IX del Nietzsche) ma che qui è da intendere in senso molto diverso: non come un ininterrotto scivolare e ribadirsi di un errore iniziale, bensì come faticoso ma non vano muovere verso “acquisti per sempre”, verso punti di apogèo. In Heidegger la specifica modalità di intendere la storia della metafisica come storia dell’essere dipende dal suo progetto sistematico volto ad una comprensione dell’essere nell’orizzonte trascendentale del tempo («la condizione ontologica di possibilità della comprensione dell’essere è la temporalità stessa»), in base a cui il tempo è l’essenza originaria dell’essere, e quest’ultimo è finito, limitato, diveniente. Con la concezione della radicale temporalità dell’essere si salda l’assunto storicistico che intende la verità dell’essere come storia e puro evento (Ereignis). Poiché nell’interpretazione heideggeriana dell’ontologia “essere” vale soprattutto come “esser-presente”, e la presenza come una modalità della temporalità, la risoluzione temporale dell’essere sembra senza residui di modo che – come si è visto nel cap. VI – «tutte le proposizioni dell’ontologia sono proposizioni temporali», e «il tempo è l’orizzonte primario della scienza trascendentale, dell’ontologia, o, più semplicemente, l’orizzonte trascendentale»2. Ne consegue che nel pensiero di Heidegger la possibilità di pensare la “differenza cronologica” fra tempo ed eternità sembra sbarrata, mentre la differenza ontologica fra ente ed essere appare consegnata al livello ontico-intramondano, e dunque non in grado di attingere la causalità ontologica che produce e sostiene l’esse degli essenti3. Nella prospettiva teoretica qui delineata l’idea di storia della metafisica non inclina verso lo storicismo, si palesa anzi, in virtù di un pos350
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sibile disvelamento progressivo della verità dell’essere, come segnata da antistoricismo. Storia della metafisica varrà per noi quale susseguirsi delle più essenziali concezioni dell’essere, come approfondimento della verità principiale del senso dell’essere, non come storia dell’essere, ossia come risoluzione dell’essere nella vicenda dei suoi accadimenti entro l’insuperabile circolo del tempo. Con l’idea di storia della metafisica non viene cercata né una ripetizione della storia dell’ontologia, né un problematico pensiero ultrametafisico, e neppure una distruzione della tradizione ontologica, considerata necessaria per risalire ad esperienze originarie del senso dell’essere (cfr. Essere e tempo, § 6), ma semplicemente un possibile accesso più pieno all’essere. Se l’elaborazione del suo problema deve assumersi anche un compito storico per trovare nelle ontologie del passato una guida, da questo non segue che l’essenza dell’essere debba essere compresa solo storiograficamente, né che la tradizione necessariamente copra più di quanto sveli. Un risalimento positivo al passato non può che procedere di pari passo con una personale “scoperta” dell’essere. La scansione progressiva e ascendente della metafisica è avvenuta secondo tre navigazioni, nelle quali la ricerca filosofica è avanzata verso una penetrazione teoretica più adeguata della verità dell’essere; e si è allontanata in alcune sue fasi decisive dall’oblio dell’essere. Tale è stato il compito di alcuni pensatori essenziali. In questo lento avvicinarsi al mistero dell’essere, si è venuta elaborando la scienza più alta dell’intelletto umano nel suo esercizio naturale, dispiegato, solare; il sapere che oltrepassa e circoscrive le scienze particolari delle varie regioni dell’ente. La metafisica non si è arrestata a pensare la differenza ontologica come viene intesa da Heidegger, ossia la diversità fra essere e ente, ma ha posto a tema quell’altra più radicale e decisiva differenza ontologica, costituita dall’opposizione fra essere e nihil absolutum. Adottando il termine “navigazione”, si impiega, ampliandone la portata, la metafora introdotta da Platone: la prima navigazione venne iniziata dai filosofi fisici con la loro indagine sulla natura, a cui egli giovane si appassionò. La seconda da Platone stesso: spinta dal vento della filosofia della physis (ossia della sola causa sensibile), che gli poneva più domande che risposte e insoddisfatto della dottrina della mente ordinatrice (nous) di Anassagora, il pensiero platonico compì in loro compagnia un certo tratto di cammino (la prima navigazione). Ma poi dovette procedere a colpi di remi con le proprie forze (seconda navigazione) quando, abbandonata la “Fisica”, fece rotta verso la scoperta della causa soprasensibile e la dottrina delle Idee, aprendosi il varco verso la metafisica4. In celebri passi del Fedone e di altri testi, attra351
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versati dalla testimonianza dell’intima crisi di Platone, viene appunto svolta l’idea che la sfera dell’essere sensibile, quello verso cui si volge la Fisica cercandone le cause meccaniche, fisiche, ecc., non è sufficiente a rendere ragione dell’esistere, del nascere, del divenire e del perire delle cose. Esige perciò il rinvio ad un altro livello dell’essere: quello soprasensibile, “metafisico” del kosmos noetos. Venne così introdotta la fondamentale dottrina della partecipazione metafisica, per cui le realtà sensibili partecipano di quelle soprasensibili. In certo modo la seconda navigazione quale scoperta del mondo delle forme intelligibili e dell’anima con la sua immortalità, include una filosofia dell’uomo. Nel solco aperto da Platone, ma con decisive integrazioni perché in questi il mondo vero è solo quello intelligibile contrapposto al sensibile, Aristotele prospettò la dottrina ilemorfica, che ravvisa nella forma l’elemento intelligibile e soprasensibile; introdusse nell’esplicazione del divenire la decisiva coppia atto-potenza (energheia-dynamis), imperniandovi la sua concezione ontologica; concepì Dio come Atto puro e Pensiero di pensiero. La terza navigazione è stata intrapresa da Tommaso d’Aquino attraverso una ristrutturazione dell’intero, operata da una metafisica transontica che porta a compimento la centralità ontologica dell’energheia/actus. I fondamentali nuclei tematici entro cui si distende la terza navigazione e che si presentano in modo più immediato alla riflessione, sono riassumibili in quattro: 1) la scoperta della doppia composizione metafisica nell’esistente finito (composizione di materia e forma, e di essenza ed atto d’essere/esse); 2) la dottrina dell’essere come actus essendi; 3) la dottrina della distinzione reale fra essenza ed esistenza nell’ente finito, e della loro coincidenza in Dio; 4) la determinazione del supremo Nome di Dio come esse ipsum per se subsistens. In questo nuovo quadro viene ad assumere importanza reggente la coppia essenza-esse/esistenza, legata a quella potenza-atto come vedremo subito. Questo aspetto e quello relativo al supremo nome di Dio abbisognano di qualche commento. Non est eiusdem rationis compositio ex materia et forma, et ex substantia et esse: quamvis utraque sit ex potentia et actu5: avanzando questa nuova determinazione, in cui sia la composizione materia-forma sia quella essenza-esistenza sono intese come composizioni di potenza ed atto, si raggiunge una comprensione più profonda ed unitaria della struttura dell’essere, alla luce appunto dei concetti di atto e potenza fatti giocare in tutta la loro valenza. Nel quadro della terza navigazione la coppia metafisica basilare dell’intero è la polarità essenza-atto d’essere (essentia-esse), non quel352
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la materia-forma. Né l’ontologia di Platone, che avvista l’Idea, né quella di Aristotele che si arresta alla composizione materia-forma, raggiungono il centro della struttura metafisica del reale, perché fa loro difetto la composizione ultima e più profonda, quella tra essenza e atto d’essere. Poiché la forma è atto sul piano dell’essenza, ma non atto ultimo su quello dell’essere, la coppia ilemorfica non esaurisce l’intero, né sul piano metafisico rappresenta la polarità ultima o la massima concretizzazione della coppia interale potenza-atto: non può perciò essere posta l’equazione tra la coppia materia-forma e la coppia potenzaatto. In altri termini la coppia potenza-atto ha un’estensione maggiore della coppia materia-forma. Secondo l’Aquinate sono infatti possibili forme pure immateriali, che si sottraggono alla composizione ilemorfica ma non a quella potenza-atto. Tali forme non sono atto puro: sono composte di potenza e di atto sul piano del nesso essentia-esse, stando la prima, l’essentia, dal lato della potenza e l’esse da quello dell’atto (di conseguenza materialità e finitezza non coincidono, potendo esistere forme finite e immateriali). Si osservi che nel sinolo materia-forma ed in quello essenza-esse l’interno rapporto di specificazione è opposto. Nel primo caso la materia (potenza) è specificata dalla forma (atto); nel secondo è l’esse (atto) a venir specificato dall’essenza (potenza). L’esse conferisce l’esistere all’essenza che lo specifica, nel senso che quest’ultima pone la sua propria determinazione formale senza di cui non c’è atto finito di esistere. L’essenza-potenza differenzia o “coarta” l’atto d’essere nel momento stesso in cui lo riceve e ne è attuata. Nell’estensione della dottrina della potenza e dell’atto al rapporto tra essenza ed esistenza – una tesi molto ardita perché l’essenza già compiuta nella propria linea formale di essenza è perfezionata o attuata da un atto di altro ordine, che non aggiunge nulla all’essenza come insieme di caratteri intelligibili, ma che le aggiunge tutto sul piano dell’essere, perché la pone extra nihil –, consiste uno dei nuclei della terza navigazione. In base ad essa l’esistenza, che non è un’essenza, costituisce la sorgente prima dell’intelligibilità. I quattro nuclei speculativi in cui è possibile far consistere il guadagnio della terza navigazione, risultano essenziali per giungere all’acquisto razionale della verità della creazione o a quello che talvolta si denomina il “teorema della creazione”. Pertanto la posizione della terza navigazione si corona in quella della creazione6, dove è anche introdotta la differenza abissale fra creatio e mutatio: nella creatio la Causa prima è causa totale, ossia pone tutto l’essere del creato, mentre nella mutatio va presupposta una causa efficiente del solo divenire. Per questo il Dio aristotelico si dà come causa immobile del divenire/mu353
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tatio, non certo come causa prima ed unica che pone extra nihil il finito. In particolare, tolta la possibilità di determinare Dio come esse ipsum, è tolta la possibilità di pensarlo come creatore. Come scrivevamo nell’opera collettanea appena citata, non può dare l’essere nel senso di porsi come causa totale dell’essere finito, colui che non sia l’essere stesso. Le critiche neoaristoteliche al concetto di esse ipsum, che nel contempo vogliono, al di là di Aristotele, mantenere la verità della creazione, riposano su impossibili concordanze. Si è fatto prima riferimento al Fedone. In un altro suo passo viene accennata una dottrina importante, in cui si riconosce il fascinoso coraggio di Platone nel meditare sui limiti della filosofia. Nel dialogo egli mette in bocca a Simmia, nel contesto di una riflessione sull’immortalità dell’anima e dunque sul senso della vita e della morte, le seguenti celebri espressioni: «Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come su una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione (logos theios)» (85 c-d, trad. M. Valgimigli). Mentre la metafora platonica della seconda navigazione e il riferimento al logos theios per attraversare il mare della vita risultano ampiamente noti, meno lo è un brano di Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni che, impiegando una metafora che può ricordare quella del Fedone, individua nella croce di Cristo la solida nave per attraversare il mare della vita e pervenire ad un porto sicuro, quel porto dell’aldilà che è il luogo ultimo del destino umano. Per questo compito non sono sufficienti le forze umane, anche concedendo che la mente dell’uomo sappia individuare il luogo dove andare. Il commento di Agostino fa perno sull’abissale differenza fra la mutevolezza delle cose mortali e l’Essere stesso (l’Essere stesso che ha detto al suo servo Mosé: «Io sono colui che sono») che trascende le cose contingenti, per cui, anche se si riuscisse a concepirlo, chi «potrà pervernire a ciò che la sua mente avrà raggiunto? È come se uno vedesse da lontano la patria, e ci fosse di mezzo il mare: egli vede dove arrivare, ma non ha come arrivarvi. Così è di noi, che vogliamo giungere a quella stabilità dove ciò che è è, perché esso solo è sempre così come è. E anche se già scorgiamo la meta da raggiungere, tuttavia c’è di mezzo il mare di questo secolo. Ed è già qualcosa conoscere la mèta, poiché molti neppure riescono a vedere dove andare. Ora affinché avessimo anche il mezzo 354
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per andare, è venuto di là colui al quale noi si voleva andare. E che ha fatto? Ci ha procurato il legno con cui attraversare il mare. Nessuno può infatti attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo» (In Io Evang, 2, 2). Fondandosi su questo passo e sull’analogia della metafora con quello del Fedone, non è forse illeggittimo vedervi un possibile rinvio ad una “terza navigazione”, sebbene in Agostino non vi sia traccia di questo termine, per cui dobbiamo affidarci a delle congetture per ritenere che commentando Giovanni egli avesse in mente un parallelo con Platone. Volendo comunque accostarli al prezzo di una certa artificiosità, la seconda navigazione sarebbe la filosofia e in specie la metafisica, e la terza la fede trascendente del cristianesimo7. Seguendo questa linea interpretativa seconda e terza navigazione si porrebbero peraltro in discontinuità e su piani diversi, dal momento che la prima concernerebbe la ricerca umana, l’altra un’iniziativa divina e la realtà della fede. Al di là di questi aspetti, fondato e fondamentale si presenta l’interrogativo se – dimorando entro il perimetro della conoscenza filosofica – non sia accaduta nell’evoluzione secolare della metafisica una terza navigazione filosofica, ossia un approfondimento nella comprensione dell’intero e una ristrutturazione dei concetti reggenti impiegati allo scopo. Alla domanda abbiamo risposto positivamente, individuando nella “terza navigazione” un punto di apogeo nella storia della metafisica, sintetizzato nei quattro nuclei già segnalati, in certo modo riassunto nella dottrina della creazione, e capace di grandi sviluppi anche al di là della sfera della metafisica ontologica: si può qui pensare al decisivo progresso costituito dalla nozione di persona.
3. Approfondimenti e confronti Per determinare ulteriormente il guadagno della terza navigazione è opportuna una ripresa del tema in alcuni punti: A) Con la dottrina della doppia composizione metafisica nell’esistente finito sembra ormai lecito concludere che dei quattro significati fondamentali dell’essere stabiliti da Aristotele (essere accidentale, essere per sé, essere come vero, essere secondo atto e potenza, cfr. Met., l. V, c. 7), il più radicale sia quello secondo atto e potenza, nel senso che l’atto di tutti gli atti e la perfezione di tutte le perfezioni è l’actus essendi, oltre il quale è impossibile retrocedere. Con il riferimento a tale atto massimamente reale e universale si tocca la radice della realtà nel suo vittorioso sottrarsi all’insidia del nulla. 355
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Sul problema del senso fondamentale dell’essere il pensiero di Aristotele non è giunto a piena unità, valendo la sua metafisica ad un tempo come metafisica della sostanza e come metafisica dell’atto. Questi sembrano da lui considerati i due significati principali dell’essere, potendosi trovare nella sua opera punti di appoggio per l’uno e per l’altro asserto (più numerosi tuttavia per il primo): in ogni caso nell’ontologia aristotelica l’atto è l’esser in atto di una forma o di una potenza operativa, non è l’esse. Nella terza navigazione si giunge ad una penetrazione più profonda del senso fondamentale dell’essere come atto di esistere a cui viene riferito anche l’essere della sostanza. B) Nella risoluzione verso l’essere e le sue cause prime la metafisica aristotelica approda, secondo l’interpretazione più accreditata, ad un intero distinto in due piani tra loro indipendenti: la sostanza immobile ed eterna (atto puro) e la physis. La prima non sembra presentata come l’universale causa creatrice di ogni ente. Essa vale come atto puro di pensiero, pensiero di pensiero: non è concepita come l’Ipsum esse per se subsistens, non è l’essere stesso (auto on=esse ipsum), concezione che Aristotele sembra rifiutare sostenendo: «L’essere stesso non può essere una sostanza […] ma può esistere soltanto in quanto predicato» (Met, 1053 b17 ss.). Ne consegue che nel cammino verso l’analogia dell’essere, secondo cui esso si dice in molti modi, non si incontra nella pagina aristotelica l’analogia trascendentale di partecipazione che collega Dio e le cose, ed in cui il partecipato è in potenza rispetto al partecipante, ma solo quella predicamentale. C) Nella coppia esistenza-essenza si raggiunge dopo Parmenide uno svolgimento decisivo (forse già a partire da Platone) con la dottrina della loro distinzione, che assume valore centrale proprio con Tommaso, in cui l’esistenza non è un accidente o una mera modalità dell’essenza. Viceversa tale è la posizione di Avicenna e successivamente della seconda Scolastica, in base ad una declinazione formalistica del tema dell’essere, che offusca la differenza ontologica tra ente ed esse. Quest’ultimo vale come accidente dell’essenza in Suarez, nella cui opera non si riscontra la dottrina della distinzione reale tra esistenza ed essenza, e neppure quella della composizione nelle creature. Con ciò l’esistenza scivola verso una mera posizione di fatto, un positum, un semplice esser posto secondo un’interpretazione che da Suarez attraverso Wolff raggiunge Kant. Quest’ultimo non raggiunge una posizione nuova rispetto al De ente et essentia dell’Aquinate, quando nel noto passo della Critica della ragion pura sostiene che l’esistenza non è un predicato reale ma qualcosa che si aggiunge sinteticamente al concetto di qualcosa, per cui l’esistenza non è contenuta analiticamente nel concetto, bensì giace al di 356
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fuori di esso. Con termini simili l’Aquinate aveva sostenuto che “esse est adveniens extra” all’essenza: «omnis autem essentia vel quidditas intelligi potest sine hoc quod aliquid intelligatur de esse suo», per cui l’essere non appartiene all’intelligibilità dell’essenza8. D) Nel passaggio dalla seconda alla terza navigazione si compie un itinerario che conduce dal primato della forma al primato dell’esse, con una nuova determinazione della metafisica dell’atto, che raggiunge un compimento al quale aspirava senza poterlo raggiungere. Per Platone infatti l’ultimo principio dell’essere è la forma, ed essere in atto corrisponde ad esser forma: in tale primato della forma intelligibile sull’atto d’essere si dovrebbe ravvisare il carattere più radicale dell’idealismo e dell’essenzialismo metafisici. Quanto alla metafisica aristotelica, essa risolve l’essere nelle sue due ultime divisioni di sostanza-accidente e atto-potenza. L’attualità della forma, che è principio radicale d’intelligibilità e criterio costitutivo della sostanza e dell’essenza, stabilisce il vertice della metafisica dello Stagirita: in lui forma e atto, forma e perfezione si corrispondono pienamente. Con la ristrutturazione ontologica avanzata dall’Aquinate la forma può venir intesa come causa essendi, ma solo nel suo ordine che è quello della causalità formale, non esistenziale. La forma non viene pertanto intesa come la causa efficiente dell’essere reale della sostanza, la quale viene per così dire preparata dalla forma ad accogliere l’esse: «Per formam enim substantia fit proprium susceptivum ejus quod est esse» (C. Gentes, II, 55). L’esse è dunque atto anche riguardo alla forma, per cui se è vero che tutte le forme sono atti, non tutti gli atti sono forme. E) Parmenide intese in maniera esclusiva ed univoca la necessità dell’essere, lasciando da parte la physis come realtà molteplice e diveniente e perciò concependo l’essere come uno, assolutamente univoco. Il concetto della molteplicità dell’essere emerge con la ricerca di Platone (cfr. Sofista e Parmenide), che distingue tra enantion (opposto assoluto dell’essere, non-essere assoluto) ed eteron (opposto relativo, non-essere relativo come semplice esser altro). Con il parricidio platonico (cfr. Sofista, 241 d) si guadagna la dottrina della molteplicità dell’essere, non solo dell’unità, e si salvano le differenze. Rimane invece aporetico il tema del divenire, pensato da Platone come l’andare nel niente di qualcosa e il provenire dal niente di qualcosa (cfr. Parmenide, 156 a). Nell’indagine aristotelica l’aporetica del divenire viene sanata mediante l’introduzione delle nozioni di atto e potenza e di materia prima. Viene inoltre riformulato il principio di non contraddizione, dove viene introdotto il tempo e la frase “sotto lo stesso rapporto”, nonché la 357
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dottrina dell’individuazione tramite la materia, oltrepassando l’aporia platonica, in cui non risultano le ragioni della plurificazione della forma intelligibile in più individui. F) Nel pensiero greco il problema della causalità non attinge compiuta radicalità, perché o è escluso – come nella dottrina parmenidea dell’identità assoluta e dell’eternità dell’essere –, o è pensato solo al livello della causalità efficiente trasformatrice, che presuppone l’eternità della materia. In Aristotele non è certo ignorata la causa, che però concerne solo le forme accidentali e sostanziali dell’ente, non l’esse stesso. La causalità considerata è causa nell’ordine del divenire, non in quello della produzione ex nihilo dell’essere, di modo che la dipendenza del cosmo da Dio è più fisica che ontologica. Anche sotto il profilo della causalità la metafisica dell’Aquinate rappresenta una nuova fase, perché in essa la prima e più radicale forma di causalità è la produzione dell’esse: causalità trascendentale in cui si realizza la partecipazione trascendentale: «Primus autem effectus Dei in rebus est ipsum esse, quod omnes alii effectus praesupponunt, et supra quod fundantur»9. L’ens per partecipationem viene posto dall’Esse per essentiam, con creazione dell’ente sul piano trascendentale dell’esse, non su quello predicamentale del sinolo materia-forma, come in modo del tutto errato interpreta Heidegger10. Non è superfluo ricordare che, oltre alla composizione di essenza ed esse, si danno composizioni predicamentali quali la partecipazione della specie al genere e dell’individuo alla specie. E) Dalle precedenti riflessioni si disegna una scansione della ricerca ontologica greca e cristiana secondo successive parole-chiave. Se la parola di Parmenide è en, logos quella di Eraclito, idea la platonica ed energheia l’aristotelica, quella dell’Aquinate è esse, con cui viene introdotto il tema della differenza ontologica, legato al dislivello trascendentale ens-esse, che rinvia all’atto creatore. Le fonti dell’esse tomistico andrebbero rintracciate in Esodo 3, 14 con la connessa tradizione patristica, nella dialettica platonica della partecipazione (idonea ad esprimere il rapporto delle parti al tutto, del finito all’infinito, degli esistenti all’essere), e nella metafisica aristotelica dell’atto e della potenza11.
4. Fuoriuscita dall’oblio dell’essere Dopo la terza navigazione non sono possibili ulteriori navigazioni, intese come radicali rivolgimenti nella comprensione della struttura metafisica dell’esistente e dell’intero, perché è impossibile scendere ad un livello più originario, fondamentale dell’esse inteso come atto: 358
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qui la ricerca incontra un punto terminale in cui viene raggiunta la radice stessa dell’esistenza. Pertanto la metafisica viene stabilita nel suo stato inoltrepassabile e virtualmente plenario: parole ostiche per la mentalità contemporanea, che vanno intese non nel senso troppo ingenuo che non ci sia più nulla da dire e scoprire, ma in quello che i principi non possono più mutare. Onde la filosofia dell’essere si dà formalmente come vera, pur potendo essere materialmente qua e là falsa, e certo incompleta e dunque perfezionabile, integrabile, proseguibile, correggibile. Mentre invece altre filosofie risultano problematiche e poco idonee a render conto della struttura dell’intero per l’inadeguata concezione dell’essere e del rapporto pensiero-realtà, pur potendo essere qua e là materialmente vere e capaci di arricchire così il progresso della filosofia. La metafisica di Maritain, che ha ripensato con grande vigore quella dell’Aquinate sul tema dell’intelletto, dell’intuito (in specie quello dell’essere), va compresa nel contesto della terza navigazione di Tommaso: in particolare la sua dottrina secondo cui l’oggetto proprio della metafisica non è soprattutto l’ens ma l’actus essendi12. Sul decisivo aspetto per cui un’ontologia metafisica elaborata secoli fa risulti o meno ancora vitale occorre ora meditare alla luce dei concetti affini di ripetizione e di ripresa, elaborati da Heidegger e da Kierkegaard: in che senso pensarli e come applicarli al presente e al futuro di una filosofia? Ripetere un problema nel senso di Heidegger significa riassumerlo per farne emergere le virtualità inespresse. La ripresa è definita dal Danese: «La dialettica della ripresa è facile, quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere. Ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa. Quando i Greci dicevano che conoscenza è reminiscenza intendevano: tutto questo che è, è stato»13. La ripresa non è reminiscenza ma nuova partenza, non però un cominciamento totalmente nuovo ma riassunzione discernente di quanto fu validamente pensato: la ripresa non è rivoluzione, bensì ri-sorgimento inteso come nuovo nascimento. In tal senso ripetizione e ripresa si prestano ugualmente bene per determinare l’atteggiamento spirituale che pare necessario, perché la ripetizione non può darsi senza la ripresa entro un atteggiamento spirituale di consentement à l’être (l’espressione è di A. Forest), se è vero che un profondo oblio dell’essere è lo stigma fondamentale del filosofare contemporaneo nelle sue varie scuole e tradizioni. Sarebbe equivoco parlare di “ritorno alla filosofia dell’essere” come a qualcosa che è consegnato in un passato remoto e immobile: fondamentale è ritornare all’essere e con ciò riprendere la filosofia dell’essere nei nuovi contesti storici, spirituali, culturali, mediante un costante confronto con l’altro. 359
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La tesi speculativa e storiografica che la Seinsphilosophie abbia raggiunto una più alta penetrazione della verità dell’essere è in genere concessa dai cultori di quest’ultima, senza che però si sia pensato sino ad oggi a visualizzarne il contenuto mediante l’inedito riferimento ad una “terza navigazione”. Il cammino speculativo qui tentato e il riferimento esplicito alla “terza navigazione”, rimontano a un’elaborazione avviata oltre quindici anni fa. Tanto più sorprendente risulta percepire che su questo tema siamo stati preceduti dall’Aquinate il quale, quando propone una scansione storico-speculativa della vicenda della metafisica, le assegna un ritmo ternario. Ed è altrettanto significativo che solo vari anni dopo aver formulato l’idea di una terza navigazione in maniera autonoma e senza riferirmi a passi di Tommaso, mi sia reso conto che questi mi aveva in certo modo precorso e in un noto brano aveva operato una scansione a tre stadi della storia della metafisica, che potrebbe essere indefinitamente ripresa e valorizzata. Nel passo dell’Aquinate si configura un’essenziale storia della metafisica quale ascesa progressiva verso una verità più alta e universale: «Antiqui philosophi paulatim et quasi pedetentim intraverunt in cognitionem veritatis. A principio enim, quasi grossiores existentes, non existimabant esse entia nisi corpora sensibilia. […] Ulterius vero procedentes, distinxerunt per intellectum inter formam substantialem et materiam, quam ponebant increatam; et perceperunt transmutationem fieri in corporibus secundum formas essentiales. Quarum transmutationem quasdam causas universaliores ponebant, ut obliquum circulum, secondum Aristotelem, vel ideas, secundum Platonem. […] Utrique igitur consideraverunt ens particulari quadam consideratione, vel inquantum est hoc ens, vel in inquantum est tale ens. Et sic rebus causas agentes particulares assignaverunt. Et ulterius aliqui erexerunt se ad considerandum ens inquantum est ens; et consideraverunt causam rerum, non solum secundum quod sunt haec vel talia, sed secundum quod sunt entia. Hoc igitur quod est causa rerum inquantum sunt entia, oportet esse causa rerum non solum secundum quod sunt talia per formas accidentales, nec secundum quod sunt haec per formas substantiales, sed etiam secundum omne illud quod pertinet ad esse illorum quocumque modo. Et sic oportet ponere etiam materiam primam creatam ab universali causa entium»14. Questo brano, in cui si sostiene che i filosofi presocratici individuarono le cause accidentali, mentre Platone e Aristotele quelle sostanziali, solleva alcune difficoltà di interpretazione per quanto concerne gli aliqui qui erexerunt se…, coloro che individuarono le cause dell’essere in quanto essere e la creazione della materia prima: sono essi i filosofi cristiani, oppure anche Filone o qualche pensatore arabo? 360
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In ogni caso la scansione «causa accidentale-causa sostanziale-causa dell’essere» è ternaria, e può esprimere in modo adeguato il progresso dalla prima alla terza navigazione15. È bene avvertire che lo schema ternario qui elaborato mostra una somiglianza molto vaga con classificazioni triadiche con cui potrebbe venire superficialmente confuso, e che spesso nella modernità sono state proposte per render conto da specifici punti di vista della vicenda della filosofia. Fra le varie si può citare il recente paradigma apeliano che legge le vicende diacroniche della filosofia secondo lo schema: 1) metafisica antica; 2) filosofia critica moderna o del Soggetto; 3) contemporanea filosofia del linguaggio e correlativa svolta linguistica. La fondamentale differenza fra i due schemi risiede nel fatto che la terza navigazione fa ricorso all’argomento che nella storia della filosofia a livello di ontologia fondamentale sono possibili “acquisti per sempre” ossia avanzamenti verso una crescente percezione della verità dell’essere, mentre l’altro paradigma appare di tipo estrinseco, “indiziario” e storico, nel senso che esso cerca di render conto delle varie fasi effettuali della ricerca filosofica, ovviamente risentendo del punto di vista contemporaneo assunto per guardare all’indietro e per operare una ricostruzione expost. È perciò da ritenere che altri schemi saranno in futuro possibili secondo i nuovi punti di osservazione che verranno adottati. Naturalmente queste scansioni non sono solo storiche, ma includono in modo più o meno dichiarato una lettura teoretica dello svolgimento della filosofia in genere entro l’idea che il paradigma contemporaneo, attualmente fallibilistico, debolistico e linguistico-ermeneutico, ha migliori titoli dei precedenti. Con l’ontologia della terza navigazione non viene introdotta una classificazione forzatamente provvisoria ed estrinseca sulle “trasformazioni della filosofia”, bensì il criterio intrinseco del movimento progressivo verso una più alta e comprensiva verità. Con la terza navigazione la filosofia è salvata in linea di principio dall’oblio dell’essere e la Seinsphilosophie, conquistando la condizione radicale di possibilità della propria permanenza storica e del proprio progresso, può presentarsi come la comune casa dell’intelligenza umana, che raccoglie (o potrebbe raccogliere) quanto di valido è offerto in tante filosofie. Viene inoltre intravista la transculturalità della metafisica, ossia ciò che potremmo chiamare l’«incondizionamento sociale del pensiero nella conoscenza metafisica dell’essere», in virtù del fatto per cui nel rapporto intenzionale dell’intelligenza con l’essere le colorazioni culturali ed etniche, pur corpose, possono svolgere un ruolo accidentale. Sono infine superate le strettoie della teologia naturale “ontica”, che fa di Dio semplicemente l’Ente supremo collegato e garante di ininterrotte catene di enti. 361
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5. La terza navigazione e il nome di Dio La scansione speculativa qui proposta, vertente sulla dottrina dell’essere e della coppia essenza-esistenza, va integrata con analoghe trattazioni sul problema teologico, dove viene convalidata l’unità scientifica di teologia naturale e di ontologia che già circola nel pensiero aristotelico, e da allora rimasta centrale per il destino della filosofia16. Entro tale struttura ontoteologica è venuta precisandosi l’identità di Dio ed esse ipsum sotto l’eccezionale stimolo rappresentato da Esodo 3, 14, in cui è trasmessa l’autorivelazione del supremo Nome divino: Ego sum qui sum (o anche: Ego sum qui est). A questo celebre nucleo sono raccordabili altri passi del Nuovo Testamento, quelli in cui Gesù applica a se stesso l’essere («Prima che Abramo fosse Io sono», Gv 8, 58) e quelli dell’Apocalisse dove Dio viene designato come «Colui che è, che era e che viene» (1,4; 1,8; 4,8; 11,17; 16,5). Ed anche la proposizione «Dio è Spirito» (Gv 4,24) occorre che sia intesa in un rapporto di reciproca illuminazione con quella per cui Dio è essere. Sembra dunque che il linguaggio dell’ontologia, per povero e pericolante che sia, risulti in grado di dire Dio, e che nella formula dell’Esodo vengano a incontrarsi il senso biblico dell’essere come fedeltà ed essere-con e quello greco come stabilità. Dio è essere significa anche: Dio è luce; e pure: Dio è libertà. Una libertà pura, iniziante e non iniziata, senza l’ambiguità essenziale inerente alla libertà finita, che può indirizzarsi al positivo e parimenti al negativo: l’ambiguità non è divina bensì propria del finito. L’atto con cui la terza navigazione accede ad una più alta concezione dell’essere, comporta in virtù del raccordo fra ontologia e teologia naturale una più profonda concezione di Dio e del suo Nome supremo (e viceversa). In proposito rimane problematico se le ontoteologie moderne dell’essere come volontà e libertà (Schelling), come divenire (Hegel) possano salvaguardare l’immutabile essenza di Dio e la sua assoluta trascendenza. Qualcosa di analogo sembra valere per Heidegger che radicalizza all’estremo la critica della metafisica e dell’ontologia avviata da Kant (ed anche sotto tale aspetto egli rimane sotto la regia speculativa di Königsberg). In Heidegger infatti il concetto di essere allude intrinsecamente alla finitezza: essere costituisce un predicato finito che non potrebbe venire applicato a Dio. Con ciò è pure rifiutata l’analogia dell’essere. Forse la più esplicita critica heideggeriana in merito si rinviene nei seminari di Zoellikon nei quali l’impossibilità di pensare Dio come l’essere si esprime con la massima chiarezza e asprezza: «Essere e Dio non sono identici, e non cercherei mai di pensare l’essenza di Dio mediante l’essere. Alcuni sanno che io vengo dal362
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la teologia e che ho conservato per essa un vecchio amore, e che un poco me ne intendo. Se io dovessi scrivere una teologia – e qualche volta ne ho voglia – in essa non dovrebbe apparire il termine “essere”. La fede non ha bisogno dell’essere. Se lo usa, non è già più fede […] Credo che l’essere non può mai essere pensato come essenza e fondamento di Dio»17. Ora la cesura fra Dio ed essere sembra provenire da qui assai più che dalla tesi della “morte di Dio”, e da tale sorgente si è diramata sul versante teologico-filosofico in pensatori come Lévinas e J.L. Marion18. La dottrina metafisico-teologica dell’identificazione tra Essere e Dio si costruisce nel pensiero cristiano a partire dal testo dell’Esodo, impiegando sotto la sua regia elementi platonici, aristotelici, neoplatonici, filoniani. Impressionante è la successione di grandi pensatori – Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, Agostino, Tommaso d’Aquino, Eckart sono solo alcuni nomi – che meditano sulla rivelazione del Nome divino19. Quella che, seguendo Gilson, si può chiamare la “metafisica dell’Esodo”, trova il suo compimento teoretico e storico quando con l’Aquinate il pensiero cristiano stabilisce la determinazione di Dio come esse ipsum per se subsistens e l’identità in lui di essenza ed essere. Nel cammino verso l’identità di Dio ed essere hanno operato come antecedenti la traduzione greca dei Settanta del passo di Es 3, 14 – che suona: Ego eimi o on (non to on con un significativo ricorso al maschile) – e alcuni aspetti del pensiero greco dove sono sottolineate l’immutabilità di Dio e l’idea che la sua esistenza è la sola reale. In proposito si può volgere l’attenzione a Plutarco: «L’essere divino, che è unico, abbraccia tutta la durata in un unico presente, e ciò che esiste in tal modo è solo ad esistere realmente, non essendo stato e non dovendo essere, non avendo cominciato e non dovendo finire» (De E apud Delphos, 393 a); e più specificamente a Porfirio dove è rintracciabile l’equazione tra Dio ed essere20. Quale che sia stata l’importanza del neoplatonismo ai fini della formazione della teologia cristiana, per un giusto apprezzamento del problema non si dovrebbe dimenticare che il libro dell’Esodo venne scritto prima dell’inizio della metafisica greca, la cui partenza può essere convenzionalmente fissata con il Poema sulla natura di Parmenide (ca. 450 a. C.); circa sette secoli più tardi l’identità di Dio ed essere è ancora rifiutata da Plotino, il cui Uno è “sopraessente”, al di là dell’essere. Non risponde poi a verità l’assunto frequentemente ripetuto secondo cui l’idea dell’immutabilità di Dio sarebbe solo greca, non biblica. Che egli rimanga sempre lo stesso lo afferma ad esempio il Salmo 101: «Ma tu resti lo stesso e i tuoi anni non hanno fine» (v. 28). Nel Ego sum qui sum sono impliciti i concetti di esse ipsum e di es363
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sere per essenza, che danno luogo a letture parzialmente diverse nei teologi cristiani. Tommaso vi vede l’identità di essenza ed essere, mentre Agostino che pur impiega il concetto di esse ipsum, sembra usarlo per sostenere l’eternità, l’immutabilità e l’indivenienza di Dio più che l’esplicita identità in lui di essenza ed esistenza21. Nelle formule agostiniane sembra avvertirsi una certa oscillazione fra metafisica dell’essere e metafisica dell’uno, come se rimanessero a metà strada fra le due, entro la convinzione, non esente da qualche forzatura, di un’alta concordanza fra rivelazione cristiana e teologia naturale dei platonici22. L’irraggiamento determinante di Es 3, 14, incrociandosi con dottrine aristoteliche e neoplatoniche costituitesi indipendentemente, ha propiziato il progresso della terza navigazione dal lato del suo coronamento teologico, raggiunto nel campo dell’ontologia con le dottrine della doppia composizione metafisica nell’esistente finito e dell’actus essendi. Mentre questi ultimi guadagni appaiono legati alla penetrazione speculativa e ontologica operata dall’Aquinate, quello teologico proviene in ultima istanza dalla Bibbia e mette a frutto il grande lavoro di scavo compiuto dai Padri23.
6. La terza navigazione nella modernità All’innalzamento speculativo contenuto nella terza navigazione toccò in sorte di rimanere largamente marginale e inoperante nel corso della filosofia moderna per una serie di motivi interni ed esterni. Senza alcuna pretesa di esaustività fra i primi si può annoverare la parziale dimenticanza in cui venne lasciata entro la Scuola la posizione ontoteologica fondamentale dell’Aquinate sin verso il XX secolo, quando un agguerrito nucleo di pensatori e di storici di primo piano immise nella cultura la consapevolezza dei guadagni veicolati dalla Seinsphilosophie nella sua terza navigazione, attraverso una elaborazione più raffinata ed esplicita della dottrina dell’essere. Enucleando in tal modo l’ontologia fondamentale come tale, con valore proprio e indipendente dalla teologia, la filosofia dell’essere ha segnalato la sua nuova presenza. Fra i motivi esterni il posto preminente è attribuibile all’oblio dell’essere, al connesso antirealismo, all’allontanamento dall’esistenza, che hanno interessato non poche zone del pensiero moderno. L’effettuazione distesa di tale verifica è al di fuori dei limiti di questo capitolo: qui ci limitiamo ad alcune assai sommarie annotazioni da accostare a quanto è già stato sviluppato nei capp. II, III, IV. 364
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Dopo che con Cartesio l’oggetto proprio o immediato dell’intelletto fu posto non nella cosa o nell’essere, ma nell’idea (dottrina delle “ideequadro” che è insieme causa ed effetto dell’abbandono dell’intenzionalità del conoscere), con Kant, come si è già ricordato, il cogitare è interpretato come unità originariamente sintetica dell’appercezione trascendentale, mentre l’essere assume sempre più lo statuto di un mero positum. Nello stadio successivo con Hegel la verità della coscienza è ormai posta non nell’essere ma nel Soggetto/autocoscienza assoluta, che svuota l’essere reale incorporandolo in una nozione logicodialettica. La logica (la dialettica) si pone come l’organo del sapere supremo: le leggi del pensiero dialettico pretendono di valere come leggi dell’essere; l’automovimento del concetto si dà come sviluppo dell’ente. E fu compito della dialettica addolcire, superare e infine cancellare la “differenza o distinzione mosaica”, ossia l’infinita differenza fra Dio e mondo, espressa nell’Esodo, attraverso il concetto di unità dialettica fra finito e infinito: quella distinzione mosaica che attraversa tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, e che si esprime col detto “Dio è in cielo e l’uomo in terra”. In verità Hegel non fu il primo a abbandonarla perché prima di lui fu congedata dall’ebreo antimosaico Spinoza con il Deus sive natura. Con Hegel la filosofia speculativa moderna giungeva ad un punto terminale oltre al quale era impossibile procedere rimanendo sulla stessa linea, perché nel ricentramento del reale attorno alla soggettività non si dà alcun al di là speculativo del soggetto assoluto. Per questo Hegel è esattamente la conclusione della filosofia moderna in quanto moderna: l’oblio dell’essere, profondo nella sua opera, si manifesta nella identificazione tra essere logico ed essere reale e nella concettualizzazione dell’essere mediante l’astrazione totale e non quella formale, per cui l’essere non è un trascendentale ma il concetto più generico e più vuoto, come il dialettico di Stoccarda non si stanca di ripetere. Da qui in avanti le strade per procedere potevano essere: ritorno alla metafisica della terza navigazione e conclusione del ciclo speculativo della filosofia moderna da Cartesio ad Hegel; rovesciamento dell’idealismo trascendentale in prassismo trascendentale; volontarismo assoluto; empirismo e materialismo, essendo questi ultimi una particolare forma di negazione della percezione intellettuale dell’essere, quella che si arresta alla sola intuizione sensibile. Il rovesciamento dell’idealismo in prassismo era implicito nella dottrina della conoscenza introdotta da Kant, che col sintetismo apriorico apriva la strada alla produzione trascendentale dell’oggetto, sebbene egli si sia sempre rifiutato di percorrerla sino in fondo. Per far cadere l’aspetto teoretico di tale dottrina e svelarne lo schema impronta365
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to al “fare”, occorrerà porre l’accento sull’attività sensibile umana intesa come prassi (Marx), oppure sull’atto puro del pensare che crea l’oggetto nel prassismo trascendentale di Gentile, nella cui filosofia dell’immanenza assoluta non è dato individuare nulla di indipendente dall’atto dell’Io pensante. Se il pensiero di Gentile riveste interesse, questo sta nella decisa coerenza con cui egli volge le spalle all’essere e al realismo, sino al punto di sostenere che tutti i pensatori prima di lui, esclusi per qualche aspetto solo Spaventa e Jaia, si sarebbero mossi in una dimensione di realismo, macchiandosi del correlativo “peccato”24. Nell’autoctisi trascendentale dell’Io, dove si dissolve ogni conoscenza contemplativa pura, viene più manifestamente a galla il fondo celato dell’idealismo. Lo riconobbe Gentile scrivendo: «La filosofia moderna come idealismo puro è essenzialmente un’etica»25, con il che si è riportati al campo della prassi. Quando arrivano Schopenhauer e Nietzsche i giochi sono quasi tutti compiuti. Rimane solo da percorrere onestamente sino in fondo la strada del volere, della volontà di vivere e della volontà di potenza. In tale processo dell’intelletto e della percezione intellettuale dell’essere non ne è più nulla. Già si è ricordato che conto ne facesse Nietzsche. E quanto a Schopenhauer, per il quale l’unico elemento indistruttibile nell’uomo è la volontà, l’intelletto non sta al vertice delle operazioni conoscitive: «è quella facoltà conoscitiva che hanno anche gli animali, ma l’uomo ancor di più, in cui risiede la legge di causalità come forma a priori»26. Di fronte a scardinamenti di tale portata, in cui la volontà si candida a stoffa ultima e unica della realtà, incontrano difficoltà i tentativi di salvare l’idea di ragion pratica. Che nei volontarismi essa non sia più ragione ma volere, implica che l’ordine pratico-morale partecipa dell’irrazionalità con cui è intesa l’essenza del volere, quando non si giunga a negare l’esistenza stessa dell’ordine etico. Anche su questo crocevia Nietzsche ha pronunciato senza infingimenti la parola decisiva: «Non esistono fenomeni morali, ma solo un linguaggio morale sui fenomeni»27. La metafisica nicciana della volontà di potenza, lungi dall’essere un prodotto spurio o un masso erratico capitato per caso nella dialettica della metafisica moderna, è evento connesso alla negazione dell’intelletto quale facoltà teoretica dell’essere e al conseguente svolgimento del subjectum desiderante. Se l’intelletto è per principio escluso dalla conoscenza dell’esistenza, di essa si impadronirà con un atto di dominio il volere. Troveremo una via d’uscita nel neopragmatismo, la cui estensione nella cultura è oggi considerevole? Esso in realtà abbandona la ricerca di un sapere speculativo, considerato troppo impegnativo, per inoltrarsi nel campo polivalente della prassi dove non è privo di risorse. Nelle 366
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7. Chiuso e aperto
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sue correnti radicali accetta la crisi della dottrina della scienza, negando ogni verità stabile e mettendo in mora lo stesso concetto di verità. Qui un suo esponente oggi di moda assicura «che la verità non è qualcosa di cui sia lecito attendersi una teoria filosoficamente interessante […] I pragmatisti ritengono che la storia dei tentativi di isolare il Vero o il Buono, o di definire le parole “vero” o “buono”, confermi il loro sospetto che non sia possibile alcuna interessante ricerca in questo campo […] Per il pragmatista gli enunciati veri non sono veri perché corrispondono alla realtà»28. Il conoscere non è penetrare la natura delle cose ma potere, padroneggiamento della realtà, esplicazione di volontà di potenza. Perché poi accada che la scienza padroneggi la realtà, non interessa; conta solo che la domini29. Tentando di abbandonare l’idea di verità, l’intellettuale multiuso di una cultura post-filosofica considera la filosofia un genere letterario come un altro, ormai anzi usurato, a cui si può forse assegnare ancora un posticino nel pantheon onnilaterale della cultura. La capacità filosofica, se mai ce ne è una, consiste nella abilità argomentativa e retorica a sostegno di qualsiasi tesi, non importa se vera o falsa, onde trarne tutte le possibili deduzioni. Così col neopragmatismo radicale entra in eclisse l’idea alta di filosofia quale veniva presentata da Husserl: «la convinzione che sia possibile e che sia appunto nostro compito di realizzare effettivamente l’idea di una conoscenza universale del mondo»30.
Avverso le idee sin qui svolte si drizzano varie critiche, in specie quelle che in esse si configuri un sistema rigido, che sembra bloccare il progresso della filosofia. Esse vanno accolte onestamente, tentando di fare opera di chiarificazione. Si può applicare alla filosofia dell’essere il termine-concetto di sistema, che allude ad una totalità compiuta e infine chiusa? Ne dubiterei molto. Anche in caso di risposta positiva si tratterebbe di un “sistema” duttile, particolarmente idoneo a seguire le articolazioni della realtà. L’ontologia fondamentale della terza navigazione si presenta come una luce –, una chiave di volta che assicura la comprensibilità dell’intero ma che lascia aperti immensi campi di ricerca –, non come una gabbia. Impiegando il termine di “ontologia fondamentale” si vuole esprimere il concetto che essa, toccando il nucleo dell’essere, manifesta la sua presenza dovunque, dall’oggetto più insignificante all’infinito. Se sosteniamo che nella terza navigazione si configuri una meta367
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fisica aperta è perché i suoi concetti centrali ne mettono in luce lo schema libero, itinerante, incapace di coartare l’esistenza, idoneo ad adattarsi alle molteplici pieghe della realtà entro l’idea del carattere dinamico ed aperto della vita. Ciò le proviene dalla percezione dell’energia sempre nuova con cui i soggetti individuali esercitano l’atto di esistere ed entrano in rapporto con loro stessi e con gli altri entro il torrente della vita universale. Conseguentemente la dottrina della terza navigazione, dotata di organicità e differenziazione interna, è suscettibile di integrazioni e sviluppi non contro ma in armonia con le proprie intuizioni reggenti. Tuttavia sulle labbra di molti affiorerà l’interrogativo se con tale dottrina non venga cancellata l’idea di un progresso in filosofia. Una risposta affermativa sembrerebbe di primo acchito plausibile, a meno che una più attenta considerazione non persuada che non ci sono motivi per giungere a questa conclusione né dal lato dell’oggetto né da quello del soggetto. Nel primo caso rimane infatti aperto un immenso terreno d’indagine (non escluso quello concernente una miglior penetrazione delle intuizioni entro cui prende corpo la terza navigazione), costituito dai problemi via via posti nel corso della filosofia come da quelli che si presentano ogni giorno a getto continuo. L’accertamento della struttura ontologica dell’intero è una luce che rischiara il cammino, non una garanzia “passepartout”. Dal lato del soggetto poi la filosofia si conserva e progredisce mediante un atto personale di conoscenzaappropriazione. La ricostruzione storiografica delle dottrine riversata nei manuali, dove non si tratterebbe che di leggerle e di mandarle a mente, costituisce una fase solo preliminare, che produce un dossier morto, cioè la totalità del pensato. Ma la filosofia vive e si mantiene in atto non moltiplicando in volumi e volumi l’accertamento del pensato, ma inerendo in soggetti personali capaci di esercitare in modo sempre rinnovato il dialogo con il reale e in tal modo di perfezionare se stessi. Finché la mente non ha “visto” né compreso, non esiste pensiero in atto bensì solo pensato; non si dà in senso proprio filosofia quanto piuttosto un coacervo di asserti scarsamente parlanti. Le dottrine in cui si riassume la terza navigazione abbisognano anch’esse – ne abbisognano più che mai perché concernono punti nodali dell’intero –, di un atto personale di appropriazione. Il progresso della filosofia e il suo significato per l’uomo si realizzano nello spirito di coloro che costantemente riattualizzano e sviluppano l’atto filosofico di contatto con l’essere. Applicata a questi problemi, l’idea popperiana di una «epistemologia senza soggetto» (cfr. cap. I) segnala tutta la sua problematicità. 368
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8. Metafisica classica, grecità, cristianesimo La Grecia è la patria d’origine della metafisica più tardi denominata classica, il luogo in cui per la prima volta forme essenziali della verità dell’essere sono venute al pensiero e si sono espresse nel logo. Mentre questa valutazione incontra un pacifico consenso, non altrettanto accade per il “destino” della metafisica nella storia postellenica. Alcune posizioni sostengono che la Grecia, oltre che la patria d’origine, costituisca altresì la terra del compimento della metafisica, perché tutte quelle successive sarebbero state condizionate e infine “pregiudicate” dalla religione ebraico-cristiana. Viene in proposito suggerita l’idea che, in quanto la purezza della filosofia esigerebbe una completa separazione dall’elemento religioso-teologico, essa non potrebbe essere rinvenuta oltre e dopo i Greci. In questi cenni sono contenuti alcuni notevoli problemi tra loro strettamente interconnessi, su cui in conclusione non sarà tempo perso soffermarsi per una prima chiarificazione: A) l’idea di metafisica classica con la connessa questione se la sua ripresa sia da intendere come esclusivo ritorno ai Greci o in altro modo; B) il rapporto fra pensiero greco e messaggio biblico. Si tratta di temi che, pur eccedendo l’ambito del presente capitolo e richiedendo una trattazione specifica adeguata, non possono venir lasciati del tutto fuori dal nostro sguardo. A) Nel termine “metafisica classica” vengono denotate una origine storica (il che è generalmente concesso) e una validità teoretica, nel senso che in tale metafisica si realizzano guadagni primari (tesi che incontra numerose obiezioni). Sebbene preferisca senza esitazioni la dizione di filosofia dell’essere, non rifiuterei del tutto quella di “metafisica classica” quale nucleo speculativo formatosi al crocevia di pensiero greco e di apporto biblico, e la cui vicenda non si è chiusa con l’inizio della modernità, ma ha sperimentato nuove partenze, in specie nel nostro secolo, nel quale metafisica e antimetafisica si sono combattute come forse mai. Un approccio adeguato alla metafisica classica dovrebbe a nostro avviso “essenzializzare” ossia individuarne gli elementi qualificanti e lasciar andare quelli caduchi, per non rimanere prigionieri dell’assetto sistematico antico, ormai superato, appoggiandosi invece sulla ragione formale basilare della filosofia dell’essere. A ciò corrisponde una specifica idea del suo progresso, inteso come mantenimento e sviluppo della sua ragion formale, come esplicitazione del virtuale omogeneo, per cui il suo progresso appare nella veste di una identità che cresce. In coloro che nei passati decenni hanno fatto ricorso in vario modo alla nozione di metafisica classica, fra cui G. Bontadini, M. Gentile, F. 369
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Olgiati, U. Padovani31 –, era esplicita la consapevolezza che essa non fosse solo un monumento solenne, non più suscettibile di sviluppo, rinchiusa dunque nel proprio tempo ed oggetto di mero studio storiografico. Anzi la coscienza della sua attualità speculativa ha condotto al termine di “metafisica neo-classica”, in cui il prefisso vuole indicare sia una ripresa teoretica e una attualizzazione del retaggio classico, sia la nuova situazione in cui la metafisica si è venuta a trovare rispetto alla scienza, essendo venute meno volontà e capacità subalternanti nei confronti di quest’ultima. Tra gli autori citati comune è il riconoscimento del valore permanente della ricerca sull’essere e sulla trascendenza iniziata dai Greci. Differenze non secondarie sussistono invece nella valutazione se quello che è stato iniziato dai Greci sia anche stato da loro condotto a conclusione: alcuni fanno riferimento specialmente all’antichità greca, altri al binomio grecità più cristianesimo, altri ancora all’apporto che alla ricerca ontologica può provenire dalla modernità. La questione che ci occupa può formularsi così: per lo sviluppo della metafisica classica è sufficiente un ritorno ai Greci? La risposta che sembra oggi prevalente nelle scuole di metafisica classica operanti in Italia inclina per l’affermativa, forse anche in rapporto ad un indebolimento esperito dalla filosofia dell’essere nella sua capacità di presenza e di irraggiamento32. Più che un’attenzione congiunta all’ontologia greca e a quella della terza navigazione, tende a prevalere un riferimento ai Greci, con conseguenze di rilievo sulla concezione dell’essere che rischia di diventare più angusta, e sulla struttura della metafisica, il cui ambito è ai nostri occhi più ampio di quello vertente sull’inferenza metaempirica, in quanto comprende la dottrina dell’essere e della creazione e quella dei primi principi. L’atteggiamento a cui accenniamo è alquanto recente, essendo rimasto a lungo pacifico fra i metafisici classici sino a circa un quarto di secolo fa il rilievo della teoresi medievale. Se la terza navigazione fuoriesce senza equivoci dal quadro della deellenizzazione, intesa come rifiuto del pensiero metafisico greco, non vale neppure come puro “ellenismo”. Nell’intendere la terza navigazione occorre evitare il duplice rischio di comprenderla come un semplice prolungamento della metafisica greca, marginalizzandone in tal modo la densa novità speculativa, o di marcarne tanto fortemente l’originalità da opporre in modo drastico ellenismo e filosofia cristiana quali portatori di metafisiche del tutto incomponibili. Tale differenza risulterebbe tanto più netta se Platone ed Aristotele avessero esplicitamente negato la creazione, ma così non è accaduto. Inoltre nel secondo è allusa la distinzione tra esistenza ed essenza, perché la parola “essere” non è segno della cosa33. 370
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Se la diagnosi proposta in questo capitolo ha fondamento, la versione di metafisica classica che si collega soltanto ai Greci, omettendo il guadagno della terza navigazione e il rapporto fra grecità e filosofia cristiana, non apparirebbe adeguata. Tale rapporto viene spesso interpretato da coloro che non oltrepassano la metafisica greca come se, valendo questa come canone autentico, l’ontologia della Seinsphilosophie si fosse limitata a qualche ritocco di dettaglio: in realtà il concetto tomistico di essere non è greco in senso proprio ed immediato, sebbene non sia contraddittorio con il pensiero greco e ne costituisca il massimo inveramento. Rappresenta uno sviluppo nuovo a cui né Platone né Aristotele né Plotino pervennero, ma che forse apparteneva alle virtualità più intime dell’aristotelismo: uno sviluppo che innova e che dà forma ad una filosofia più alta e vera di quella greca. Più in generale «la comprensione cristiana delle cose si dovette sottrarre allo spirito greco ingaggiando aspri dibattiti, che accolsero l’eredità greca, ma al tempo stesso la trasformarono profondamente». In questa lotta per la verità «le grandi decisioni dei Concili […] non riducono la fede a una teoria filosofica, ma danno forma linguistica a due costanti essenziali della fede biblica: esse garantiscono il realismo della fede biblica e impediscono un’interpretazione puramente mitologico-simbolistica; garantiscono la razionalità della fede biblica»34. Il realismo della fede biblica nel suo incontro con la filosofia greca pone la questione della verità e la pone nel senso di assegnare valore reale alle enunciazioni bibliche più decisive. Il rapporto fra grecità e orizzonte ebraico-cristiano viene interpretato diversamente a seconda del punto di osservazione in cui ci si colloca. Il “classicista” L. Strauss vede fra loro quasi una continuità e li unifica nella nozione di “antico”, compresa come qualcosa di altamente polare rispetto a quella di “moderno”. Il “modernista” K. Löwith al contrario intende grecità e pensiero biblico come separati da una cesura per il sorgere, alimentato dal cristianesimo ed assente in precedenza, di una cultura dell’uomo e della storia, per l’emergere del movimento verso il futuro storico quale proiezione secolarizzata della tensione escatologica verso le “cose ultime”35. Se entrambi gli assunti possono far valere attestati a loro favore, è anche vero che nessuno dei due focalizza la concezione dell’essere, dove la terza navigazione costituisce una novità e non soltanto un mero sviluppo dell’ontologia greca. E dove c’è novità, vi è almeno correzione, integrazione, ristrutturazione, non semplice svolgimento pedissequo di motivi già presenti. B) Dopo il guadagno aristotelico secondo cui il divenire dell’esperienza esige un indiveniente, tre principali aporie bloccavano lo sviluppo della filosofia greca: il dualismo teologico per cui Dio e mondo erano posti uno accanto all’altro; la mortalità della persona; la na371
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turalità del male. Anche su questi aspetti l’ontologia postellenica della terza navigazione con i suoi correlati antropologici e morali ha apportato un contributo decisivo. Sulla scorta di questi cenni ampliabili a piacere, il filosofo e lo storico si trovano a dover prendere nella dovuta considerazione le ricerche (condotte ad es. da E. Gilson e da Cl. Tresmontant) secondo cui la rivelazione ebraico-cristiana ha costituito e costituisce – in modo “esterno” ma non per questo illeggittimamente –, uno stimolo e una sorgente di ispirazione per l’intelligenza metafisica36. Il compito di quest’ultima non consiste nel “teologizzare” quanto nell’informarsi sul suo oggetto (l’essere) dovunque possibile, senza elevare barriere a priori, pensando in maniera autonoma e secondo il metodo proprio gli stimoli e le luci che le provengono dal di fuori. Non constano ragioni a priori per asserire che la filosofia possa svilupparsi in maniera autentica solo separando da sé ogni apporto “esterno”, compreso quello religioso. Occorre distinguere fra processo genetico in cui nuove questioni sull’essere vengono a domanda e dove lo stimolo può provenire da qualsiasi livello, e risposte che vanno elaborate secondo il metodo filosofico. Per quanto concerne il cristianesimo l’esemplificazione storica del suo stimolo spesso poderoso alla filosofia sarebbe agevole. La metafisica come teologia filosofica era per Aristotele la più divina e veneranda fra le conoscenze umane per due aspetti: «una scienza è divina sia perché un dio la possiede al massimo grado, sia perché essa stessa si occupa delle cose divine»37. Poiché il carattere ontoteologico della filosofia prima è ad essa consustanziale, il concetto di una filosofia che possa trarre profitto, al suo livello e col suo metodo, dalla Rivelazione cristiana, lungi dall’essere qualcosa di innaturale, si colloca in continuità con l’essenza ontoteologica della metafisica. Ragione e fede hanno tutte e due da guadagnare in un rapporto fatto di autonomia e di cooperazione. È un errore determinare la fede come un supremo paradosso che può innalzarsi solo sulle rovine della ragione (una fede priva di ragione non può diventare cosa umana), ed è un altro errore barricare la ragione in se stessa contro influssi e ispirazioni provenienti da un altro ordine: nel dialogo fra ragione e fede la seconda non fa violenza alla prima, ma può risanarla dalle sue debolezze e condurla ad essere più autenticamente se stessa. Nella terza navigazione l’elezione naturale della grecità e quella soprannaturale del cristianesimo si sono accostate e sinergicamente sintetizzate, producendo un universalismo filosofico coerente con l’universale e profonda idea di essere che è stata raggiunta. Un tale universalismo si trova investito nella nostra epoca (come in altre) da acute obie372
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Note
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zioni. Infatti il significato di non poca filosofia contemporanea è definito dalla polemica contro la metafisica e da enfasi critico-decostruente: aleatoria si presenta la previsione sulla durata di tale atteggiamento. Tuttavia si può tener per certo che la conclusione della moderna filosofia del soggetto costituisce riapertura della filosofia dell’essere col suo discorso metafisico postnichilistico (nel senso che ha fatto propria e ha superato l’obiezione nichilistica), segnato da realismo ontocentrico, in cui è l’esse a decidere del pensare e non viceversa38.
1 Il concetto di terza navigazione e il suo accadimento nella metafisica transontica della filosofia dell’essere, sviluppata in specie in Tommaso d’Aquino, erano stati toccati per la prima volta nella nostra “Introduzione” a J. Maritain, Riflessioni sull’intelligenza (Massimo, Milano 1987. Le pp. 11-16 sono dedicate ad una chiarificazione preliminare dell’idea di terza navigazione), e successivamente nel saggio Essere e intellectus. Una prefazione alla metafisica, «RFNS», n. 3, 1991, in specie alle pp. 413-422. Riprendendo in questo capitolo la linea di riflessione là abbozzata, desideriamo darle più ampio svolgimento. 2 I problemi fondamentali della fenomenologia, trad. it. di A. Fabris, Il melangolo, Genova 1988, p. 310. La prima citazione è a p. 219. 3 Cfr. in proposito V. Possenti, Approssimazioni all’essere, pp. 107-109. 4 Cfr. Fedone, 96 a; 97 c-99 d. L’immagine della navigazione applicata alla filosofia comporta che quest’ultima sia pensabile come una nave: metafora successivamente ripresa molte volte. Il compito della filosofia sarebbe appunto di far navigare la propria nave, rimettendola sempre in rotta. 5 S.c.G, l. II, cap. 54. Nello stesso capitolo si legge: «Nelle sostanze composte di materia e forma ci sono due composizioni di atto e potenza: la prima si riscontra nella loro sostanza, che è composta di materia e forma; la seconda invece si riscontra tra la loro sostanza già composta e l’esistenza… È quindi evidente che la composizione di atto e potenza è più universale della composizione di forma e materia… Perciò quanto è connesso con la potenza e l’atto come tali è comune a tutte le sostanze create, materiali e immateriali» (trad. T. Centi). Affermazioni analoghe in S. Th., I, q. 50, a. 2, ad 3m, e nell’opuscolo De substantiis separatis (cap. 6), in cui si illustra che nelle sostanze composte di materia e forma si incontra un doppio ordine: della materia alla forma, e della cosa già composta all’esistere, perchè l’esistere della cosa non è né la sua forma, né la sua materia. La forma è atto ultimo nel suo ordine, rimanendo però in potenza rispetto all’esse: «Esse est perfectissimum omnium: comparatur enim ad omnia ut actus […] ipsum esse est actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum. Unde non comparatur ad alia sicut recipiens ad receptum, sed magis sicut receptum ad recipiens», S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3m.
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6 Su questi aspetti cfr. la mia postfazione al volume AA.VV., La navicella della metafisica. Dibattito sul nichilismo e la “terza navigazione”, Armando, Roma 2000, pp. 185 ss. 7 Questa ermeneutica è difesa da G. Reale nell’introduzione al volume Agostino. Amore assoluto e “terza navigazione” (Rusconi, Milano 1994, pp. 53 ss.), che raccoglie il commento agostiniano alla Prima lettera di Giovanni e ad alcuni versetti del suo Vangelo. Per una miglior comprensione del tema occorre tener presente che Platone allude alla seconda navigazione a proposito della scoperta della causa soprasensibile, mentre Simmia parla della zattera con cui attraversare il mare della vita e che potrebbe venir fornita non più come precaria zattera ma come solida barca da un logos theios. Nei due riferimenti del Fedone il ricorso alla metafora del navigare copre significati diversi, per cui già in Platone è presente un dislivello fra “metafisica/scoperta della causa soprasensibile” e “rivelazione/discorso divino”: la seconda arriva dove la prima non può. Lo svolgimento di Agostino, concernendo l’attraversamento del mare della vita mediante la croce di Cristo, è interno alla rivelazione e lascia da parte la metafisica. 8 «Quidquid non est de intellectu essentiae vel quidditatis, hoc est adveniens extra, et faciens compositionem cum essentia […] Omnis autem essentia vel quidditas potest intellegi sine hoc quod aliquid intelligatur de esse suo», De ente et essentia, c. 4. 9 Compendium theologiae, P. I, c. LXVIII. 10 Cfr. “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, cit. 11 Fondendo la partecipazione platonica con l’atto aristotelico «nella speculazione tomistica si compie, nell’essenziale, l’intero ciclo dell’assimilazione del pensiero classico da parte della speculazione cristiana […] la causalità trascendentale platonica si integra continuandosi nella causalità predicamentale aristotelica, così come questa si fonda in quella e ad essa rimanda», C. Fabro, Partecipazione e causalità, Sei, Torino 1960, p 130 s. 12 Cfr. Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965. 13 La ripresa, Ed. Comunità, Milano 1963, p. 46. 14 S.Th., I, q. 44, a. 2. Mentre in questo brano l’Aquinate non pare ritenere che Platone ed Aristotele si siano elevati sino alla conoscenza della creazione, in altri luoghi tale possibilità sembra attribuita a loro come ad Avicenna (cfr. De potentia, q. 3, a. 5; De substantiis separatis, c. 9, n. 94), forse in base all’idea che colui che è il Principio e il primo degli enti (cfr. Met, 1073 a 23) debba valere anche come loro causa universale. Agostino sostiene che i filosofi platonici sono pervenuti alla verità della creazione: «I platonici compresero che per questa sua [di Dio] non soggezione al divenire e alla molteplicità, egli ha creato tutte le cose e che è impossibile la sua dipendenza nell’essere da altro», De civitate Dei, l. VIII, c. 6. 15 L’interpretazione della metafisica dell’actus essendi quale punto di apogèo è rafforzata dal principio per cui l’ontologia include l’henologia, di modo che l’uno è uno dei massimi volti dell’essere, ma sempre sotto la regia
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dell’ente. Poiché quest’ultimo è di per sé uno, partendo da esso si integrano le legittime esigenze del secondo, mentre non è sempre vero il viceversa, dal momento che si danno metafisiche dell’uno che non si presentano come metafsiche dell’essere. Sul rapporto tra uno e essere si può vedere Metafisica, l. IV, c. 2, e il commento di Tommaso. 16 In Aristotele l’oggetto della metafisica è considerato l’ente in quanto ente e la ricerca dei principi e delle cause supreme (Met, 1003 a 20s.). Successivamente egli determina che, «se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa di questa deve avere la precedenza e deve essere filosofia prima; e sarà compito di questa scienza contemplare l’ente in quanto ente, cioè l’essenza e le proprietà che l’ente possiede in quanto ente» (1026 a 27ss, cfr. anche 1064 b1 ss.). Metafisica è perciò ontologia come ricerca sull’ens in quantum ens e teologia quale ricerca sui principi e le cause supreme dell’essere, che approda all’esistenza della sostanza immobile. L’unità dei due aspetti della metafisica risulta dal fatto che la ricerca sull’ente come tale è simultaneamente ricerca sui suoi principi e cause. La metafisica è in Aristotele insieme aitiologia, ontologia, usiologia, teologia. 17 Seminäre, in Gesamtausgabe, vol. 15, Klostermann, Franfurt a. M., p. 437. Su questi aspetti cfr. V. Possenti, Approssimazioni all’essere, pp. 99-106. 18 Dopo Dieu sans l’être quest’ultimo ha però apportato considerevoli correzioni e ritrattazioni alla sua tesi, cfr. Saint Thomas d’Aquin et l’onto-théo-logie, Revue thomiste, 1995, pp. 31-66. 19 Nel lavoro di W. Beierwaltes (Platonismo e idealismo, Il Mulino, Bologna 1987, in parte ripreso in Agostino e il neoplatonismo cristiano, Vita e Pensiero, Milano 1995) è stata ricostruita in modo riccamente documentato la posizione dei due Gregori, di Agostino, di Eckhart su Es 3,14 e sul rapporto fra Dio e l’essere. 20 Beierwaltes, Platonismo e idealismo, p. 31. Secondo P. Hadot, che ha attribuito a Porfirio il commento neoplatonico al Parmenide dove Dio è presentato come attività pura e infinita d’essere, «la testimonianza del nostro commentatore del Parmenide ci consente di affermare che, come l’identificazione di Dio e dell’Essente, così quella fra Dio e l’Essere non è un’idea specificamente cristiana. Essa risulta da un’evoluzione interna al neoplatonismo», “Dieu comme acte d’être dans le néoplatonisme”, in AA. VV. Dieu et l’être, Etudes augustiniennes, Paris 1978, p. 62 s. 21 «Et ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, qui Deus est, cui profectio ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime competit», De Trin., V, 2, 3. 22 In proposito risultano esplicite varie espressioni disseminate nel De civitate Dei, l. VIII, cc. 4-12: «Nessun filosofo si è avvicinato come essi [i platonici] a noi cristiani […] I platonici ebbero l’intuizione che esiste un essere in cui la forma prima è fuori del divenire e quindi assoluta, e ritennero con molta coerenza che in lui è la ragione ideale non creata delle cose e nella quale tutto è stato creato […] Questo è il motivo per cui riteniamo i platonici superiori agli altri, e cioè perché […] costoro con la conoscenza di Dio trovaro-
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no l’essere in cui è la causa dell’origine dell’universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui dissetarsi con la felicità». 23 Elenchiamo alcuni luoghi in cui l’Aquinate cita Es 3,14: De veritate, q. 10, a. 12; Contra Gentes, I, c. 22; II, c. 52; S. Th., I, q. 2, a. 3; q. 13, a. 11; q. 39, a. 8; II II, q. 174, a. 6; De substantiis separatis, n. 94; De potentia, q. 2, a. 1; q. 7, a. 2; q. 10, a. 1, ad 1m. Secondo l’Aquinate il nome Qui est «inter alia nomina maxime proprie nominat Deum» (S.Th., q. 13, a. 11). Di fronte alla determinazione di Dio come Esse ipsum per se subsistens E. Berti non nasconde alcune perplessità, perché essa «fa dell’essere, ovvero dell’actus essendi, un’essenza, l’essenza stessa dell’Assoluto, rischiando in questo modo di intenderlo univocamente» (Problematicità e dialetticità della “metafisica classica”, «Teoria», n. 1, 1986, p. 87). Tuttavia in base alla dottrina sull’actus essendi e alla sua distinzione reale dall’essenza che è stata illustrata, l’esse è al di là di ogni essenza, è propriamente quanto non possiede essenza ma la attua. Che l’actus essendi sia inteso come un’essenza è posizione completamente estranea alla filosofia dell’essere. Piuttosto l’atto d’essere si diversifica secondo le essenze in cui è ricevuto: perciò è multiplo e analogo secondo i vari gradi dell’esistere. Quanto a Dio si può con pari ragione sostenere che egli non ha essenza, come affermava Avicenna per il quale tutto ciò che possiede un’essenza è causato, oppure che in lui esistenza ed essenza si identificano, onde la sua essenza è il suo esistere infinito e necessario. Il nome Qui est è dunque quello meno inadeguato a Dio, «quia non determinat aliquam formam Deo, sed significat indeterminate. Et hoc est quod dicit Damascenus quod hoc nomen Qui est significat substantiae pelagus infinitum», De potentia, q. 7, a. 5. Dall’identità di essere ed esistenza non segue che in Dio l’essere valga come un’essenza e perciò univocamente, poiché egli è al di fuori di ogni genere: e solo tutto ciò che vi appartiene ha un’essenza realmente distinta dall’esse (cfr. De ente et essentia, c. 5). Nella stessa pagina Berti sostiene che la caratterizzazione aristotelica dell’Assoluto come Pensiero (non dunque come creatore) sia superiore e meno gravida di aporie rispetto a quella dell’Ipsum esse per se subsistens e più vicina ad espressioni bibliche. A nostro avviso dalla determinazione dell’Assoluto come pensiero può trarsi che esso sia spirito, gioia e vita (il pensare è una vita), non che sia amore e libertà: queste perfezioni sono invece contenute nell’idea dell’essere come spirito, infinito e atto puro, in rapporto al tema tomasiano che l’esse è atto di tutti gli atti e perfezione di tutte le perfezioni, e al guadagno biblico-cristiano (recepito nella filosofia dell’essere) sul carattere di Persona dell’Assoluto. Dicendo Ego sum qui sum, Dio parla in prima persona e dischiude alla filosofia la metafisica della persona. Mentre la teologia del Motore immobile potrebbe forse intravedere da lontano, nel chiaroscuro e con fatica queste determinazioni di Dio, esse sono immanenti alla concezione di Tommaso. Secondo Balthasar «la metafisica di Tommaso d’Aquino è il riflesso filosofico della libera gloria del Dio vivente della bibbia, e in questo l’adempimento profondo dell’antica (e cioè umana) filosofia», Nello spazio della metafisica. L’antichità, vol. IV di Gloria, Jaca Book, Milano 1977, p. 366.
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Per cogliere adeguatamente la portata e la novità della teologia naturale dell’Aquinate occorrerebbe ripercorrere le qq. 13-102 del libro I della Summa contra Gentiles e l’ordine con cui l’autore le pone. Dopo l’accertamento dell’esistenza di Dio, la scansione speculativa si dipana lungo i seguenti titoli, nei quali viene mostrata in successione: l’immutabilità di Dio; la sua eternità, il suo esser privo di potenzialità, di materia, di composizione, di corpo; e infine che Dio è la sua propria essenza e dunque l’identità in lui di essere ed essenza. 24 Cfr. la prolusione pisana “L’esperienza pura e la realtà storica” del 1914. 25 La religione, Sansoni, Firenze 1965, p. 357. 26 Il fondamento della morale, Laterza, Bari 1991, p. 149. 27 Al di la del bene e del male, p. 75. 28 R. Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986, p. 11 e p. 14. Non saremo noi a chiedere all’autore qualche pezza di appoggio per le sue affermazioni, dal momento che egli si è prudentemente messo al riparo in anticipo: «Nel periodo postmoderno la filosofia sarà libera dai pesi dell’argomentazione… La mia tesi dice che possiamo fare quel che ci pare, nella misura in cui è nuovo e interessante» (Di là dal realismo e dall’antirealismo: Heidegger, Fine, Davidson, Derrida, «Aut-Aut», gennaio-aprile 1977, p. 112 s.). 29 Per il pragmatista è bene non incorrere nel mal di capo accertando se ci sia differenza tra: “è vero perché funziona” e “funziona perché è vero”. La versione radicale del neopragmatismo intenderebbe scuotere il fondamento di ogni sapere umano: l’idea di verità quale adeguazione con la realtà. Tentativo sconfitto in partenza, perché il ricorso all’asserto “è vero perché funziona” riporta necessariamente all’idea di verità che si voleva espellere. Nel “è vero perché funziona”, il “funziona” significa che le cose vanno in un certo modo piuttosto che in un altro: è vero che l’aspirina funziona, perché è vero che fa scendere la febbre. Si dice dunque la verità asserendo che l’aspirina fa scendere la febbre, e sostenendo ciò si formula un giudizio in cui viene espressa un’adeguazione al reale. 30 Krisis, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 465. L’idea di terza navigazione qui adombrata focalizza lo sviluppo essenziale della concezione dell’essere e di Dio nella vicenda della metafisica, con particolare riguardo allo scoprimento della verità dell’essere. Si può anche guardare alla storica della filosofia intendendola come un susseguirsi di sfide generata da gravi aporie e tentativi di risposta ad esse. In tale dialettica si incarnerebbero successive “navigazioni”. I due approcci non si escludono reciprocamente. L’idea di successive crisi nella vita storica della filosofia e di altrettante risposte-soluzioni è sviluppata da B. Schwarz (Wahrheit, Irrtum und Verirrungen, a cura di P. Premoli e J. Seifert, Universitätverlag, C. Winter, Heidelberg 1996) e da J. Seifert nel saggio “Die ‘Siebte Ausfahrt’ als Antwort auf die ‘Sechste Grosse Krise der Abendländischen Philosophie’”, pro manuscripto, 1996, pp. 26. 31 Si vedano le opere: 1) G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 1971, dove varie volte è impiegato anche il termine di “metafisica neoclassica”. Essa secondo l’autore nasce dall’incontro di idealismo moderno e di metafisica classica, per cui quest’ultima costituisce una
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componente del neoclassico (cfr. vol. I, p. 280); 2) M. Gentile, Filosofia e umanesimo, Brescia 1947, in cui classica è per antonomasia la metafisica aristotelica (utili sono le annotazioni dedicate da E. Berti alle idee di M. Gentile in Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 254-260); 3) F. Olgiati, I fondamenti della filosofia classica, Vita e Pensiero, Milano 1953, dove filosofia classica è «quel pensiero che Atene e il glorioso Medio Evo hanno elaborato» (p. V); 4) U. Padovani, Metafisica classica e pensiero moderno, Marzorati, Milano 1961. 32 Forse tale atteggiamento si ritrova nel seguente pensiero di E. Berti: «Sono convinto che il nucleo speculativo – solo questo però, si badi bene – di una metafisica ancora possibile vada cercato non prima dei Greci […] Sono inoltre convinto che tale “nucleo” non vada nemmeno cercato “dopo” i Greci: non perché “dopo” non sia più accaduto nulla di importante; anzi, sono accadute forse le cose più importanti. Ma perché tutta la filosofia sviluppatasi dopo i Greci è rimasta intrinsecamente condizionata, e quindi – da un punto di vista filosofico – “pregiudicata” dalla religione cristiana», “Ueberwindung della metafisica”, in AA. VV. Ueberwindung della metafisica?, Tilgher, Genova 1986, p. 54 s. L’esatta interpretazione di tale giudizio dipende dal significato da attribuire ai termini “condizionata” e “pregiudicata”. Nella prospettiva da noi suggerita non si toglie autonomia al pensare filosofico per il fatto che esso possa venire illuminato da verità di un altro ordine, se la ragione riesce a farle proprie al proprio livello. 33 Cfr. De interpretatione, 16 b 23-25. 34 J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 90 s. 35 Cfr. K. Löwith e L. Strauss, Dialogo sulla modernità, a cura di R. Esposito, Donzelli, Roma 1994. 36 Del primo autore si veda ad es. Introduzione alla filosofia cristiana, Massimo, Milano 1982; e di Tresmontant La métaphysique du christianisme et la naissance de la philosophie chrétienne, Ed. du Seuil, Paris 1961: Etudes de métaphysique biblique, Gabalda, Paris 1955; Les idées maîtresses de la métaphysique chrétienne, Seuil, Paris 1962. Da quest’ultima opera traiamo una citazione: «Il cristianesimo comporta una struttura metafisica che non è qualunque […] Il cristianesimo comporta una metafisica molto precisa, di fatto è una metafisica originale in confronto alle metafisiche esistenti quali quelle dell’India, della Grecia, dell’Europa moderna non cristiana e parzialmente scristianizzata» (p. 11s.). 37 Met 983 a 6 ss. 38 È motivo costante dell’opera di F. Balbo che la metafisica dell’actus essendi costituisca il punto di apogèo della filosofia: «Tutte le altre posizioni filosofiche, per quanto fondamentali, ricche e più mature, sono inferiori e deviate», Opere, Boringhieri, Torino 1966, p. 677. Dopo che la filosofia dell’essere ha riconquistato la propria posizione metafisica centrale, deve procedere ad un nuovo assetto sistematico diverso da quello medievale ed adeguato alle problematiche dell’epoca.
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Capitolo quattordicesimo
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Persona e umanesimo ontologico
Esistono ragioni obiettive perché un libro sul nichilismo includa un capitolo sulla persona e l’umanesimo. Non è qui in gioco una preferenza, quanto piuttosto una duplice necessità: 1) la filosofia del Neutro con il corteo di antipersonalismo e di antiumanesimo costituisce un apice del nichilismo, che va attentamente considerato; 2) nella filosofia dell’essere l’oggetto sempre intenzionato, la “cosa stessa” del pensiero, è l’essere, non in primo luogo l’uomo. Perciò tale filosofia pensa l’antropologia entro l’ontologia pur senza ridurla a questa, ossia considera l’uomo come partecipante all’essere entro la sua relazione conoscente, desiderante, amante con esso. Nella Seinsphilosophie la metafisica non viene considerata come un’antropologia trascendentale, ossia in ultima analisi come una scienza umana avente come oggetto l’uomo e non l’essere. Noi interpretiamo ontologicamente l’uomo, non antropologicamente l’ontologia. Non sembra sufficiente via d’uscita dal nichilismo speculativo la riduzione della filosofia prima a egologia, ad autoriflessione dell’io trascendentale, in cui il soggetto dovrebbe estrarre tutte le virtualità rinchiuse nella capacità riflessiva dell’uomo affinché questi, raggiungendo la pienezza della sua esistenza autocosciente, produca la autocostituzione del proprio essere. In tal caso si perverrebbe all’identificazione esplicita della metafisica con l’antropologia, sostenuta ad esempio tra gli altri da J.B. Metz, che in proposito dà voce a precedenti sviluppi di K. Rahner1. Concedendo questo, la metafisica assumerebbe come suo primo compito l’indicazione antropologica dell’oracolo di Delfo: “Conosci te stesso”. Una volta concesso che ontologia non è di per sé antropologia, e che la scienza dell’essere non può venire semplicemente ricondotta a scienza dell’uomo, non constano motivi perché l’analisi ontologica non riconosca lo speciale rango dell’uomo nell’essere, trovando in lui un punto di applicazione e verifica del più alto rilievo. L’ontologia non appare per nulla disarmata dinanzi alla svolta antropo379
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logica moderna, nonostante i ricorrenti tentativi di legare l’ontocentrismo solo ad un cosmocentrismo di tipo greco, ormai superato. Legittima si presenta la domanda se nella terza navigazione si configuri una più profonda concezione della persona, lontana dal “cosismo” e da un oggettismo impersonale. L’architrave che collega ontologia e antropologia sta nell’assunto che il livello più alto dell’essere sia l’esistenza personale, che fra tutte le modalità di esistenza la più perfetta sia quella della persona, dove massima è la dotazione di attributiqualità: vita, intellettualità, volontà, libertà, interiorità, desiderio, relazionalità. Qui può venire in soccorso l’espressione: «Qualcosa di ciò che esiste merita di continuare ad esistere», contrariamente alle amare acque del pensiero dialettico, dove tutto ciò che esiste merita di morire. L’atto di consenso all’essere ingloba un atto di accettazione-consenso alla persona. Che poi si denomini “personalismo” o in altro modo questa scuola, è un’altra e meno rilevante questione. «Meurt le personnalisme, revient la personne» ha scritto circa venticinque anni fa P. Ricoeur2, a indicare appunto l’inessenzialità del termine personalismo e l’essenzialità di quello di persona. Intendiamo bene la sua diagnosi. A rigore la persona non può “ritornare”, perché non è mai “andata via”. È invece cambiato il modo guardare ad essa, sono mutate le dottrine sulla persona. Nel pensiero contemporaneo hanno preso corpo filosofie o antipersonaliste o antropocentriche-soggettocentriche, ma anche forme di “personalismo etico” secondo il quale ciò che esprime in modo adeguato la persona è il rapporto coi valori e l’azione. Nello sfondo sta il permanente problema dell’umanesimo, quale categoria essenziale della storia dello spirito. “Ritorna la persona” può anche voler dire: ritorna la questione dell’umanesimo, con cui occorre nuovamente fare i conti, e con essa la domanda di Kant, la quarta: che cosa è l’uomo? Per avviare una rinnovata meditazione ontologica sulla persona è saggio ripartire dal mondo della vita e dalle certezze del senso comune, che contengono allo stato di potente abbozzo prefilosofico i lineamenti essenziali di un’intera filosofia. Ora sulla realtà della persona e sulle correlative certezze del senso comune si è indirizzata l’azione dissolvente del nichilismo di vario genere che sfocia nell’antipersonalismo, come sembra mostrato dal carattere antipersonalistico delle opere di Nietzsche, Gentile, Heidegger. Esse, si è ricordato, sono filosofie del Neutro, che mettono in mora il dialogo io-tu, la comunicazione, un’ontologia dell’interiorità e dell’“esteriorità” nel senso di Lévinas, che osserva: «Il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neutro»3. Che il nichilismo col suo oblio dell’essere possa condurre all’oblio dell’altro dovrebbe apparire qualcosa di più di un’ipotesi. 380
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1. Interiorità personale
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Antropologicamente il nichilismo è cancellazione del volto. La persona ha volto; le cose sono enti senza volto. Chi non ha volto è cosa ed è perciò segno di altro, mentre il volto rinvia a se stesso. Esso che non è parte integrante del mondo inteso come la totalità di ciò che accade, vale in sé e rivela se stesso. Uno schiavo in Grecia era un aprosopos, un senza volto. Proprio questo le filosofie del Neutro non intendono: che la persona non riceve il suo significato e il suo valore dall’essere-nel-mondo. Delle due possibili definizioni dell’uomo, la definizione in base al suo rapporto con l’Essere e la Verità, oppure a quello col Mondo, le metafisiche della persona/interiorità si orientano verso la prima, capace d’altronde di includere il positivo della seconda. Per saggiare queste linee di riflessione ci muoveremo a più livelli, cercando di: determinare il carattere della persona e della sua interiorità; verificare le conseguenze antropologiche del nichilismo; tratteggiare il significato essenziale di umanesimo.
La crisi della centralità del soggetto nella filosofia contemporanea, attestata dai suoi esiti antiumanistici e antipersonalistici, testimonia del declino probabilmente irreversibile della linea soggettocentrica moderna, espressasi lungo il versante dell’Io trascendentale o di quello empirico. In questo processo l’istanza umanistica ha rappresentato un momento di resistenza contro la dissoluzione dell’idea di persona. La cultura filosofica contemporanea, abbandonando l’apriori idealistico e soggettocentrico del passato, sembra guardare verso nuovi apriori dell’uomo, fra cui quello bioantropologico e quello linguistico, utili ma inidonei a cogliere la straordinaria complessità di vita e di atti della persona. Con la crisi del soggettocentrismo è accaduto un passaggio brusco da un iperspiritualismo idealistico a un ipernaturalismo di marca materialistica e scientistica, il primo denotato dall’enfasi sull’Io trascendentale e sulle funzioni alte del soggetto (autocoscienza, libertà, produttività spirituale, responsabilità morale), l’altro dalle sue funzioni naturali, biologiche, ma entrambi, nonostante l’enorme lontananza, accomunati dal congedo dell’immortalità personale. Intanto continuano gli esiti dell’improbabile dualismo cartesiano, in cui si configura uno dei maggiori equivoci filosofici della modernità. Per lungo tempo tale dualismo venne semplicisticamente inteso come una agevole ripartizione dei compiti: ai filosofi la res cogitans e alla scienza quella extensa. Simili semplificazioni possono durare un poco ma poi l’unità del soggetto umano reclama qualcosa di più ade381
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guato. Il guaio è che il “reclamo”, invece che condurre a una più complessa analisi dell’uomo, ha condotto dal vecchio e radicale dualismo ad un recente e aggressivo naturalismo riduzionistico, che non rende giustizia alla percezione non naturalistica che l’uomo ha di se stesso. L’odierno naturalismo cerca di riportare l’alto al basso, e tenta una spiegazione in chiave neurofisiologica della conoscenza, inscrivendola in un programma di integrale naturalizzazione della mente ricondotta solo a cervello, mentre nel campo biologico e genetico si ricerca un’integrale potere di disposizione sulla vita umana embrionale al fine di progettarla secondo le regole del “designer” genetico e/o le preferenze e i gusti dei genitori. Con la riduzione dell’uomo a vita naturale gli elementi della soggettività e dell’interiorità (parliamo qui di interiorità ontologica, non di quella, susseguente, di tipo cognitivo, riflessivo, religioso od altro) non vengono intesi come realtà primarie ma meri epifenomeni o parvenze. Dietro o sotto la nostra apparenza di persone vi è una realtà neutra, asoggettiva, volta a volta interpretata coi modelli computazionali della mente o con quelli delle scienze neurobiologiche: là dove vi sono cervello e catene neuronali vi sarebbero solo interazioni fisiche, non interiorità, virtù, vizi, sentimenti, responsabilità, libertà. Nel naturalismo che riduce la vita a macchinismo e reazioni chimiche, non se ne riconosce il carattere più marcato, cioè il suo essere principio di autoorganizzazione, unificazione e “movimento” dall’interno, che sin dalle forme più modeste di vita costituisce un preannuncio di libertà. Nel mondo della vita e nelle certezze del senso comune circola una diversa autocomprensione dell’umano. Aprendo gli occhi dinanzi alla realtà l’uomo percepisce molte forme di esistenza, presto accorgendosi che la più alta ed enigmatica è l’esistenza della persona: qui la riflessione incontra un nucleo ontologico in certo modo inesauribile, un centro sempre nuovo di vita, libertà, attività. Per percorrere la strada verso la persona, il pensiero ha a disposizione uno scandaglio ad un tempo ontologico, dialogico-comunicativo, ed “erotico”: essere, comunicazione ed amore costituiscono i luoghi centrali dell’analisi, alla luce dell’idea che l’elemento più radicale nella vita dell’essente personale è il suo atto primo di esistenza, che la più alta realizzazione della persona è il suo compimento nella comunicazione e nell’amore. La persona è capace di autoriflessione, di autopossesso, di rientrare in se stessa e di determinarsi dall’interno. A questo crocevia esiste l’io: essere un io è secondo Kierkegaard la più grande concessione fatta all’uomo, ed egli deve diventarne consapevole in una scelta che ha per oggetto l’eterno, poiché esistere come un io costituisce proprietà indistruttibile, che neppure la morte cancella4. 382
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La ricerca ontologica è più originaria e radicale della ricerca ontica delle scienze positive, comprese quelle umane, onde l’indagine scientifica sulla persona non ne raggiunge mai l’essenza. La comprensione della persona avviene alla luce della comprensione dell’essere, al cui vertice sta, come accennato, l’esistenza in forma personale. Se domandiamo in che cosa consista la sua determinazione essenziale, l’ontologia metafisica l’individua così: la persona è un soggetto sussistente di natura spirituale, che vive della vita dell’anima. Coscienza, autocoscienza, interiorità sono suoi attributi e costituiscono il frutto o l’espansione dell’attività spirituale che sussiste nel singolo soggetto personale; sono il retaggio della spiritualità e non qualità da essa indipendenti5. In quanto sussistente di natura spirituale la persona è una totalità aperta e nello stesso tempo ontologicamente sufficiente a se stessa, perché esiste in sé e non in altro. È capace di tenersi in mano, di ritornare su se stessa attraverso un’autoriflessione compiuta; di possedere la propria interiorità in un’azione immanente e nello stesso tempo di porsi come perfetta esteriorità nella relazione con l’Altro. Senza forzature si può sostenere che la relazione interpersonale è incontro nell’esteriorità di due interiorità, fenomeno ignoto agli individui puramente materiali; che nell’agire della persona può manifestarsi una coincidenza degli opposti, ossia la coincidenza di autorelazione quale discesa nella propria interiorità ed eterorelazione quale apertura all’alterità, per cui entro certi limiti l’esteriorità manifesta l’interiorità. Una filosofia dell’interiorità personale è identicamente una filosofia della comunicazione: solo ai soggetti personali è dato comunicare mediante il logos che è in loro (ragione, linguaggio, interrogativi sul bene e sul male). La tradizione filosofica definisce la persona tramite l’indipendenza quale capacità di esercitare in proprio l’atto d’essere e di espandersi nell’ordine della libertà, agendo e donandosi. La persona si presenta soprattutto come un centro di unificazione dinamica che procede dall’interno, un’unità che dura nel tempo al di sotto di tutti i cambiamenti e al di là dei flussi psicologici, della molteplicità delle sensazioni, dello sparpagliamento temporale e spaziale. L’unificazione dall’interno e conseguentemente l’interiorità costituiscono caratteri della vita, ed essi si ritrovano nella misura più rilevante proprio nella persona. In essa il carattere dell’automovimento e dell’unificazione si manifesta nella capacità di una riflessione perfetta su se stessa e nel suo essere una totalità concreta, il cui valore non dipende dal suo inserimento in una totalità più ampia, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi. Il concetto di parte è in contrasto con quello di persona. Se nell’uomo consideriamo l’individualità, egli è uno tra i molti, individuato dalla 383
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porzione di materia che fa sua, e vale dunque come un che di particolare. Se invece ci rivolgiamo alla personalità, egli non è parte o frammento, ma totalità, e come tale un che di singolare e irripetibile: non un numero nella folla, non un’efflorescenza del genere, ma un singolo. Con la persona viene a manifestazione una profondità di ciò che è individuale ben maggiore di quella riscontrabile negli individui esclusivamente materiali: questi non possiedono alcuna interiorità, la persona sì, e questo rivela un nuovo volto dell’essere. L’interiorità è proprietà esclusiva della persona quale soggetto capace di ritornare su se stesso, di discendere in se stesso, di deliberare di se stesso, aprendosi alla relazione con l’altro. Non possiede perciò l’interiorità una portata soltanto psicologica avente a che fare con la coscienza e la memoria; costituisce una modalità d’essere e una “rivelazione” del fatto che, non essendo tutto in superficie secondo estensione e durata, esiste la dimensione del profondo e dell’intimo. Non è nella extensio con cui l’uomo si protende verso il temporale e il mutevole, né nella distensio con cui si dilata verso l’alterità spaziale, ma nella intentio con cui esso si concentra verso l’interno e verso la “punta”, che si traduce l’esistenza interiore. L’interiorità, prima ancora di essere categoria cristiana decisiva, poiché in essa si diventa consapevoli che l’io esiste dinanzi a Dio, è l’universale categoria in cui si attua il risveglio della persona a se stessa e al vero. Se vi deve essere equilibrio nell’io e nel mondo umano, una legge di parità deve venire adempiuta: quanto più aumenta con la scienza la conoscenza delle cose, tanto più cresca l’autoconoscenza, volta all’io e all’interiorità. Nell’esser persona si incontra la paradossale compresenza di assoluta incomunicabilità ontologica e di illimitata comunicabilità intenzionale, nel senso che è la stessa e identica persona che sussiste in sé e per sé della sussistenza dell’anima, – nessun altro può esistere al suo posto, la sua esistenza è assolutamente individuale, non può essere comunicata ad altri, né esercitata vicariamente o assunta da altri, ed in ciò consiste la piena individualità del suo atto d’essere – e che comunica con la conoscenza e con l’amore con l’altro e col tutto. Incomunicabilità ontologica significa dunque che l’atto d’essere del soggetto è posseduto in proprio e non può essere spartito o condiviso o partecipato con nessuno: legge universale dell’essere finito che non può patire eccezione e che vale per qualsiasi individuo, spirituale o meno. Una tale proprietà della persona viene messa in luce nella definizione avanzata da Riccardo di San Vittore: persona est intellectualis naturae incommunicabilis existentia, più immediatamente che in quella dovuta a Boezio: persona est rationalis naturae individua substantia. Nella de384
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terminazione riccardiana emerge il carattere di esistenza ontologicamente incomunicabile e perciò assolutamente singolare propria della persona, rimanendo peraltro implicito che tale carattere è proprio di ogni sostanza individuale6. Il paradosso della persona è che alla rigorosa incomunicabilità del proprio atto individuale di esistere si aggiunge un’illimitata comunicabilità nell’ordine intenzionale del conoscere e dell’amare: quella persona che è “chiusa nell’essere” e nel suo perimetro ontico, può entrare in rapporto e in comunicazione con tutti e disporsi verso l’intero. La persona è dotata di una sovraesistenza comunicativa che si manifesta in modo ternario: 1) conoscendo, essa vale come onnilaterale in base alla sua capacità di porsi in relazione con l’intero, di portare in sé – nel fuoco dell’immanenza in atto del proprio conoscere – ogni oggetto; 2) comunicando dialogicamente entra in relazione con l’altra persona, stabilendo il nesso sociale e impiegando il linguaggio per fini di conoscenza, di comunicazione, di ricerca di ragioni e norme. Si effettua così il passaggio dalla comunicazione collettiva e parzialmente anonima data nel mondo della vita alla comunicazione personale liberamente guadagnata; 3) desiderando e amando, esce da sé per realizzarsi nei diversi modi della relazione d’amore, fino al suo vertice in cui l’io esiste nel modo del dono. Il soggetto personale è dunque coincidenza degli opposti, ossia dell’instasi nel proprio esistere sostanziale e dell’estasi di conoscenza, dialogo, comunicazione, amore. La dialettica d’instasi ed estasi stabilisce forse il carattere più complesso della vita della persona. Essa rende impropria la riduzione naturalistica del soggetto umano, almeno nel senso che le persone impegnate in pratiche di conoscenza, linguaggio, dialogo e azione, e nel superamento di problemi, non si riconoscono nella descrizione oggettivante che di loro il naturalismo fisicalistico forma. In questi aspetti è inclusa una filosofia della comunicazione personale non oggettivante. Abbiamo sostenuto che solo le persone, ossia le interiorità, comunicano: un tale evento lascia intendere che il comunicare costituisca un evento essenziale e originario dell’esistenza. L’intendimento di questo nucleo è dischiuso dall’inizio del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Logos”, ossia il Verbo, la Parola. Poiché la Parola parla e non può che parlare a qualcuno, che in principio essa fosse, implica un altro asserto: «In principio era la Comunicazione». In ciò sono come precontenuti l’umanesimo dell’altro uomo, l’attenzione al volto dell’Altro, e la metafisica del Bonum come diffusivum sui (non dimentichiamo che una delle più antiche metafore del bene è il sole, la luce che si effonde e diffonde). Siamo su rive lontane da chi afferma 385
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che in principio era il Mondo, o l’Azione o la Tecnica: assunti nei quali emergono forme di predominio del Neutro. Una filosofia della persona come interiorità fonda l’irriducibilità del singolo al genere e alla totalità, secondo paradossi che si aggiungono a quello sulla compresenza di incomunicabilità ontologica e di comunicabilità intenzionale: il paradosso illustrato da Kierkegaard secondo cui il singolo sta più in alto del genere; e quello per cui, essendo la persona una totalità, la società non è un tutto composto di parti, bensì un tutto composto di tutti. Possiamo intendere questi aspetti osservando che la persona è dotata dei caratteri dell’in se (inseità) e del per se (perseità). Il primo concetto veicola l’idea che il soggetto umano – esistendo in sé e non in altro, pur potendo scegliere di esistere per altro(i) – è una realtà sostanziale, il secondo che ha valore di fine ossia valore assiologico. Il carattere proprio dell’esistenza personale si dissolve quando ne venga negata tanto l’inseità quanto la perseità, ossia a un tempo la sostanzialità e il valore di fine. Nelle dottrine dell’in se e del per se risulta percepibile la decisiva intersezione fra antropologia e ontologia, e forse questo carattere può render conto del fatto che, mentre notevole impegno è posto in varie scuole per assegnare realtà al per se, dunque al valore assiologico della persona, ben più arduo risulta il cammino per attribuirle l’in se, la sostanzialità, in rapporto al generale orientamento postmetafisico del filosofare attuale, in cui la persona è perlopiù denotata dalla linguisticità e dal riferimento morale. Se la perseità fu l’ultimo carattere a venire perduto nelle versioni “deboli” dell’antropologia e il primo che oggi si tenta di recuperare dopo il punto minimo, rimane la domanda su quanto possa durare il per se, se cade o non è recuperato l’in se. Se l’assiologia non è ultimamente radicata nell’ontologia, non constano motivi di peso affinché si debba mantenere valore speciale all’uomo, se non forse entro un’etica di genere che peraltro potrebbe prestarsi all’obiezione di essere indebitamente antropocentrica. Il carattere dell’in se traduce l’assunto secondo cui la persona esiste come essere autonomo e pienamente singolare, non come modo o proprietà di altro. Il fondamento dell’indipendenza, dell’autonomia e della libertà della persona è il suo essere un tutto sostanziale, per cui essa ha valore per se stessa e non lo assume per il fatto di esistere come parte in una totalità. Da qui quella costante paradossalità della condizione della persona, che interpretata naturalisticamente appare soltanto come particella del cosmo, mentre nella riflessione ontologica si rivela come un universo. Che cosa è un io nella natura? Granello di sabbia nell’infinità dell’oceano, piccola iridescenza sulla cresta dell’onda, che un momento è e subito dopo non è più. Eppure quell’io che 386
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dal lato del cosmo vale come parte minuscola o bolla evanescente, è lanciato in un’avventura senza confini, è un microcosmo fatto per ospitare il finito e l’infinito. La più alta forma di realizzazione della persona si istituisce nell’amore, il cui soggetto e il cui oggetto più alto (sebbene non unico) è la persona. L’amore va prioritariamente ad essa, e la forma più compiuta di amore è l’amore come dono, come dilezione agapica, più che come desiderio/eros. L’esistere della persona nel modo del dono esige preliminarmente l’autounificazione dall’interno e l’autopossesso: si dona solo ciò che si ha. Porre nell’amore il vertice della vita della persona induce a considerare come inadeguate le dottrine che vorrebbero ridurla a prassi intramondana. Definita dall’amore, l’interiorità è “ekstatica” come questo. Che l’amore produca l’estasi (ekstasis, da existemi) significa che fa uscire il soggetto da se stesso indirizzandolo a cercare la similitudine e l’unione con l’amato. È la dialettica di amore, sia esso indirizzato come eros al bello in sé o al bene in sé come nella scala ascendente del Simposio platonico, o al volto dell’Altro come nella filosofia di Lévinas (ma qui forse siamo oltre eros e tra i volti traluce agape), o infine esprima la discesa dell’agape divina nelle profondità dell’umano. Nel richiamarsi perfettamente, azione immanente, interiorità e amore rinviano alla essenziale generosità dell’essere, che dovunque si espande e si dona nell’universale interrelazione attivata dalla Causa prima creatrice. Al contrario, una legge di severo egoismo ontologico pervade le metafisiche dell’assoluta identità ed eternità di ogni ente, chiuso in se stesso come in una fortezza inespugnabile e vuota. Sostituendo l’avarizia ontologica alla legge della sovrabbondanza e generosità dell’essere, tali metafisiche (spesso di taglio parmenideo e neoparmenideo) depauperano al massimo il concetto di persona in un’egologia chiusa. A che cosa si rivolge amore? Qui l’esprit de finesse di Pascal non è forse stato in pari con se stesso. Alla domanda se l’amore si indirizzi alla persona o alle sue qualità, egli risponde optando apertamente per il secondo corno. «Che cosa è l’io? Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti, se io passo di là posso dire che si è messo per vedermi? No, perché non pensa a me in particolare. Ma colui che ama qualcuno per la sua bellezza, l’ama veramente? No, perché il vaiolo che ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, farà che egli non l’ami più. E se mi si ama per il giudizio o la memoria, si ama il mio io? No, perché posso perdere queste qualità senza perdere me stesso. Dov’è dunque questo io, se non è né nel corpo né nell’anima? E come amare il corpo o l’anima, se non per queste qualità, che non costituiscono 387
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punto ciò che fa l’io, poiché sono periture? Si potrebbe amare la sostanza dell’anima di una persona, astrattamente, e quali che siano le qualità presenti? Ciò è impossibile e sarebbe ingiusto. Non si ama dunque mai la persona, ma solamente delle qualità»7. Pascal, mentre intende che l’io è un nucleo intimo che non si risolve nelle sue qualità, nega che esso come tale possa valere come oggetto di amore. È così certo che egli abbia ragione? In realtà l’amore umano autentico, che è possibile chiamare il bell’amore, va soprattutto all’esistenza stessa dell’essere amato, gioendo che esso esista e cercando di coglierlo nel suo nucleo più interno, quello che le sue qualità ad un tempo rivelano e velano. Poiché certe qualità oggi ci sono e domani possono venir meno, l’assunto di Pascal preso alla lettera renderebbe impossibile l’amore umano autentico e duraturo. Esso invece appartiene alla categoria dell’amore di amicizia, in cui si ama l’altro in quanto altro, si vuole non solo il bene dell’altro, ma bene all’altro amato per lui stesso, differentemente dall’amore di desiderio, in cui l’amato è cercato per il bene dell’amante. Nella sua essenza ekstatica l’amore è tanto più forte e vero quanto più, facendo uscire da se stessi, non si arresta alle qualità ma raggiunge il soggetto personale nella sua interiorità. Poiché la sostanza dura nell’essere, mentre le qualità possono mutare, l’amore umano riuscito, il bell’amore, si dirige verso l’interiorità sostanziale durevole al di là delle vicissitudini del divenire di quelle. L’amore si distende allora nella dimensione di ciò che permane e della fedeltà.
2. Al di là dell’obiettivazione concettuale: filosofia e religione L’amore si apre una strada verso la soggettività e l’interiorità dell’altro: strada unica e perciò infinitamente preziosa, perché senza di essa l’altro come tale, la soggettività dell’altro rimarrebbe ultimamente inattinta. Si presenta a tale proposito un tema delicato e profondo, su cui occorre sostare un istante. Fissiamo dapprima il problema domandando: è possibile conoscere in concetti (di cui non si può fare a meno) la soggettività in quanto tale, rendendo objectum anche il subjectum? La risposta si presenta negativa. L’intelletto conosce solo oggettivando, mentre l’universo dell’interiorità personale è ultimamente inoggettivabile. La conoscenza umana avanza mediante concetti e nozioni universali, appoggiandosi su oggetti di pensiero che lasciano da parte l’individuale, mentre qui si tratta proprio di conoscere la soggettività e l’interiorità individuali, che sfuggono per definizione a ciò che cono388
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sciamo tramite concetti. Come uscire da questa impasse, attraverso cui si tramanda il retaggio di non poter rendere vera giustizia alla persona, al singolo? Se attraverso l’intelletto conosciamo come oggetti i soggetti personali, noi non rendiamo loro giustizia, perché non adeguiamo mai l’intuizione, oscura ma reale, che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto; intuizione esistenziale che forse non possiamo concettualizzare pienamente neppure a noi stessi. Solo nell’amore mi è rivelata in qualche modo la soggettività dell’altro. Il concetto oggettiva, l’amore (di dilezione) soggettiva, nel senso che raggiunge oscuramente ma realmente l’interiorità dell’altro. Ma questo genere di amore è raro. In base a queste riflessioni è possibile tracciare l’invalicabile spartiacque tra filosofia ed esperienza religiosa, cioè la religione nel suo carattere di vita, rapporto, movimento verso, unione, più che come perimetro dottrinale. La filosofia – ed è il suo limite – conosce i soggetti in quanto oggetti entro la relazione tra intelletto e oggetto; la seconda entra in pieno nel cuore della soggettività e dell’interiorità, e concerne propriamente i rapporti fra soggetto e soggetto. «Per questo, osserva Maritain, ogni religione filosofica od ogni filosofia che pretenda, come quella di Hegel, di assumere in sé e di integrare la religione, è in definitiva una mistificazione»8. L’esperienza religiosa, in quanto rapporto da persona (umana) a persona (divina), appartiene all’espansione più essenziale e perenne della soggettività. Solo l’Assoluto non oggettiva il soggetto; solo l’Assoluto mi conosce in quanto soggetto nella mia stessa interiorità profonda. Se non fossi conosciuto da Dio, nessuno mi conoscerebbe come soggetto, come interiorità personale; nessuno mi renderebbe giustizia. In definitiva dove la filosofia si arresta, là entra la religione. E per questo, nonostante ogni secolarismo, la religione non verrà mai meno: dal lato dell’umano essa corrisponde all’indistruttibile desiderio della persona di essere conosciuta come soggetto, di non essere obiettivata né separata dalla propria identità da uno sguardo estraneo, secondo la fenomenologia dell’estraneazione analizzata da Sartre. A scanso di equivoci aggiungo che la differenza fra filosofia ed esperienza religiosa nel senso che la prima oggettiva mentre l’altra soggettiva, non può essere interpretata come la chiusura di ogni dialogo fra filosofia e religione e la fine di possibili influssi e ispirazioni dell’ambito teologico su quello filosofico. Questi tipi di rapporti si instaurano infatti nell’elemento conoscitivo e concettuale, perché le posizioni filosofiche e quelle teologiche non possono che esprimersi nel/col concetto. Conseguentemente una filosofia aperta potrà ottenere dalla sfera religiosa e teologica un aiuto a meglio intendere i propri 389
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temi filosofici: un esempio spesso addotto ma non per questo logoro è appunto la ricaduta e lo stimolo per un più adeguato pensamento dell’idea di persona – che indubbiamente è problema filosofico – esercitati dalle grandi controversie trinitarie e cristologiche. Nell’esperienza religiosa trova considerazione la domanda sulle vite fallite, sugli io sciupati per sempre. Ah! nell’esistenza quotidiana quanto frequentemente si conversa di vite fallite, un punto su cui si concentra la tristezza di non poter più cambiare il filo conduttore di un’esistenza largamente trascorsa, e la nostalgia per qualcosa di diverso. Se la conversazione mondana parla con abbondanza delle molteplici forme di vita sciupata, conosce a sufficienza ciò di cui si occupa? Non potrebbe essere vita sciupata quella dell’uomo che non diventò consapevole di se stesso come interiorità? «Sciupata è soltanto la vita di quell’uomo che la lasciava passare, ingannato dalle gioie o dalle preoccupazioni della vita, in modo che non diventò mai, in una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come io»9. Forse l’eternità è offerta alla persona umana, affinché possa, in vario modo e secondo diversi cammini, divenire pienamente cosciente di essere un io e un’interiorità. L’uomo è colpito nel centro dell’anima se, entro un’intuizione anche fuggitiva, comprende di non aver vissuto nella coscienza di essere un io. Ciò resta comunque una possibilità nel tempo dell’esistenza mondana, quando egli, preferendo la distrazione, può rifiutare la propria interiorità. Non può però distruggerla, perché è l’interiorità di un io eterno, e perciò in-ammissibile, non-toglibile. Essere inchiodati al proprio io eterno, questo è lo scandalo che la filosofia fatica a comprendere, questa è la croce contro cui si spuntano i facili pensieri della fenomenicità dell’io. Mai completamente sottoposta alla presa della filosofia, l’interiorità come radicale qualità ontologica deve rimanerne al centro come uno stimolo e un segno di contraddizione. In ciò le dottrine personaliste godono di un vantaggio rispetto a quelle che non lo sono. Queste ultime, quali il positivismo, il naturalismo, il marxismo, vari filoni della filosofia analitica, espungendo l’interiorità dal filosofare perché essa non può essere detta compiutamente, o forse meglio perché la considerano un’inutile superfetazione, si semplificano il compito a buon mercato. Dietro occhieggia una metafisica naturalistica, l’idea che l’uomo è semplice parte del cosmo inteso come una physis ingenerata ed eterna: filosofie che finiscono per risolvere il soggetto personale nella corrente universale cosmica. Si pensi all’ultimo Nietzsche e a Karl Löwith10.
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3. L’intreccio fra antropologia e nichilismo Che ne è dell’uomo e dell’umanesimo nell’epoca del nichilismo? È possibile pensarlo ancora come soggetto sostanziale unitario, o egli è solo più una convenzione del linguaggio, di modo che l’oblio nichilista dell’essere trascina con sé l’oblio dell’uomo? Proviamo ad avanzare la diagnosi che sembra imporsi. La fuga dall’essere o ontofobia, che venne determinata come la forma spirituale del nichilismo compiuto, comporta come necessario correlato il rifiuto dell’uomo e la “misantropia”. La morte dell’uomo appartiene alla logica di svolgimento del nichilismo. Se con la sua avanzata tutto procede verso la desertificazione: la metafisica, la religione, la morale, costituirebbe segno di ingenuità non percepire che l’uomo non può venir sottratto a tale processo. È perciò plausibile che nelle forme storiche del nichilismo si individuino progetti di dissoluzione dell’uomo, più o meno consapevoli a seconda dei casi, ma senza apprezzabili mutamenti del punto di arrivo: la visée antropologica del nichilismo sembra sintetizzarsi nel progetto di sradicamento dell’antropologia quale disciplina che verte sull’uomo come essenza unitaria, e in ultima istanza nella dissoluzione dello stesso soggetto umano, affidata alla lama decostruente di versioni contemporanee delle scienze umane. Un esito di tal fatta costituisce l’ultimo passo di un insieme di eventi già accaduti o in corso, e che sono stati più volte menzionati: perdita del centro, svalutazione dei valori, crisi di senso, mancanza del fine e della risposta al “perché?”. L’accadere di questi fattori dapprima tramortisce e poi dissolve l’uomo, che non può respirare se è privato del senso e dello scopo, onde egli è soppresso in due modi: nell’agire e nell’essere. Nell’agire, col negargli la conoscenza del fine e del perché, a cui consegue che la prassi umana si ponga al di fuori di ogni ordine; nell’essere nel senso che il termine “uomo” non fa riferimento a nessuna realtà personale unitaria. Quando l’ala radicale delle scienze umane ha proceduto a dissolvere l’unità stessa dell’uomo, decostruendolo e riportandolo a somma di funzioni o ad altro, il nichilismo stava toccando il suo compimento, e lo raggiungeva appunto nella distruzione dell’antropologia. Quale che sia la direttrice di attacco prescelta, l’esito non muta apprezzabilmente: l’uomo viene considerato un manichino, un appendiabiti, sotto il quale non c’è nulla. G. Benn ha dato voce a tale prospettiva: «È un errore ritenere che l’uomo abbia ancora un contenuto o debba averne uno […] non esiste anzi più affatto l’uomo, esistono ancora solo i suoi sintomi»11. La consapevolezza del dilemma se “la morte di Dio” dovesse comportare quella dell’uomo dominò tanta parte del tentativo di Nietzsche, 391
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teso in una lotta disperata per non smentire l’intenzionalità antiumanistica cui si volgeva, e nello stesso tempo per non crollare in un generale annientamento. Nietzsche comprese che il processo verso il nichilismo compiuto comportasse l’annuncio della morte dell’uomo e che per evitarne l’annichilamento occorresse sostituire l’uomo con l’oltreuomo, la cui dottrina assume perciò un carattere necessario e per nulla bizzarro nel suo pensiero. L’uomo non c’è più, perché la sua psiche è considerata mero epifenomeno della volontà originaria e impersonale della vita come volontà di potenza; e perché il suo pensiero vale come un rapportarsi reciproco degli istinti. Con quest’ultimo assunto la gnoseologia è ricondotta a zoologia, entro il quadro di un positivismo di fondo, forte in Nietzsche verso la fine degli anni ’70 del XIX secolo e di cui poi non si liberò mai del tutto. Non sappiamo se consapevolmente o meno, egli pare ricalcare una posizione di Destutt de Tracy, che nei suoi Eléments d’Idéologie (“Prefazione”) scrive: «L’ideologia è una parte della zoologia, ed è soprattutto nell’uomo che tale parte è importante e merita di essere approfondita». Riportata a zoologia, l’ideologia o gnoseologia si riconduce più esattamente a fisiologia delle sensazioni. La premessa di Destutt è analoga a quella di Nietzsche: il pensare è sempre un sentire organico e alla sua base stanno le condizioni fisiologiche. Là dove Nietzsche parla ancora in tono sommesso e nella penombra, Foucault lo annuncia a squarciagola e in luce meridiana. «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima»12. Essa dovrebbe compiersi nella postmodernità ormai avanzata, di modo che l’uomo, un’invenzione della cultura europea del XVI secolo, avrebbe camminato sulla crosta terrestre per una modesta manciata di secoli, niente più di qualche granello di sabbia nell’infinito movimento della clessidra del divenire. In virtù di un capovolgimento dialettico miracoloso, in cui è arduo vedere qualcosa di più di un artificio retorico, la fine dell’uomo segna il ritorno dell’inizio della filosofia: «Oggi possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto infatti non costituisce una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Non è né più né meno che l’apertura di uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare»13. Nell’epoca del nichilismo compiuto si afferma un pensiero senza un soggetto. Si pensa, ma l’uomo che pensa non esiste. L’idea di un pensiero senza soggetto (forse una riesumazione trasformata dell’antica dottrina averroistica sull’unicità dell’intelletto) segna il passaggio dalla filosofia moderna, imperniata sul cogito, ergo sum, a quella postmoderna dell’impersonale cogitatur, ergo est13. Il riferimento al pen392
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sare appare comunque assolutamente convenzionale. Al posto del pensiero senza un soggetto si può altrettanto bene introdurre il linguaggio senza un parlante: invece che il “si pensa”, il “si parla”. Nel trapassare dal primo al secondo nello sfondo campeggia la figura dell’io trascendentale impersonale che, a seconda delle preferenze, si dà come pensiero senza soggetto o come linguaggio senza parlante14. In quest’ultimo caso tutto accade come se nella natura fosse depositato un linguaggio, che è anteriore all’uomo e che solo per un breve volgere di tempo parla in lui, prima della sua scomparsa. Nella potenza nientificante dispiegata dal nichilismo l’uomo sembra diventato una passione inutile: l’accanimento verso l’universo della persona, che si vorrebbe risolvere in istinto, animalità, sovrastruttura, appare esplicitamente attuato nelle correnti genealogiche e decostruttive. Non sempre l’intento antiumanistico è però apertamente dichiarato; talvolta basta tacere sull’uomo nell’ambito del pensiero, così da far diventare favola l’idea che la persona costituisca una realtà unitaria. Allo scoronamento del mondo ultrasensibile consegue lo scoronamento dell’uomo, che dall’esistenza di quel mondo trae il suo valore; di modo che destituzione della verità dell’essere e destituzione della persona costituiscono il recto e il verso della stessa medaglia. In essa si gioca, in nome di una presunta fedeltà alla terra dove venga liberato l’elemento anarchico e “scatenato Dioniso”, una partita pro o contro la forma della ragione. Dissolvere la ragione sarebbe forse una possibilità, forse la più alta e tremenda? Occorrerebbe non dimenticare che in ogni rivolta contro la ragione non è in gioco altro che l’insurrezione del genere contro la differenza specifica.
4. L’idea di umanesimo Si dà un senso legittimo al termine umanesimo, quando si fa riferimento all’umanesimo degli antichi (grecità e romanità), a quello italiano del XV secolo, al Rinascimento, alla corrente neoumanistica tedesca dell’età di Goethe, tutti segnati dall’idea di un ritorno all’ideale ellenico dell’uomo, nonché in vari casi dall’intesa tra cultura greca e teologia cristiana, nel presupposto che non esista una loro contrapposizione di principio. Le varie modalità dell’umanesimo europeo si costituiscono come forme di renascentia, ossia di rinascita e di risveglio, innervate dall’idea di un movimento di risalita ad un’origine storica, in cui traluce qualcosa come un eterno canone. In tal senso l’umanesimo è anche storicamente qualcosa di diverso dall’illuminismo: il primo riconosce l’importanza e la multilateralità della persona, la sua apertura 393
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alla trascendenza religiosa, le sollecitazioni dell’arte e della poesia, mentre l’illuminismo è più decisamente e unilateralmente antropocentrico, fiducioso nella ragione tecnica e politica dell’uomo, nella sua capacità di ordinamento e di organizzazione, nella centralità del sapere scientifico per giungere al regno dell’uomo. In effetti se ci esercitiamo a confrontare i tre termini di interiorità, umanesimo, illuminismo, avvertiamo una simpatia tra i primi due e una distanza tra il primo e il terzo. La filosofia dell’illuminismo non è in genere una filosofia dell’interiorità e neppure della persona. E poiché l’Occidente vive da tempo, dopo la chiusura del ciclo romantico, in una temperie culturale neoilluministica e neopositivistica largamente mediata dalla scienza, dalla ricerca dell’utile e dell’edoné, è agevole attendersi che settori della filosofia contemporanea nutrano diffidenza o indifferenza nei confronti dell’umanesimo e accantonino l’idea di persona, considerata troppo impegnativa speculativamente. La koiné culturale cerca di tirarsi d’impaccio dinanzi all’interrogativo elevato dall’essere persona, non di rado sostituendo il suo concetto con un surrogato funzionale, quello dei diritti dell’uomo o forse meglio dell’individuo. Pur accogliendo il suddetto significato di umanesimo, consacrato da un’ampia tradizione e che oggi, più pallidamente forse, riemerge nell’ambito dei cultural studies, riteniamo che il suo concetto sia passibile di una determinazione più profonda: nel suo elemento più qualificante l’umanesimo consiste nella tensione a realizzare l’essenza umana. Nel senso originario di umanesimo è veicolata una concezione dell’uomo, dove l’elemento specificante non va individuato in una certa proporzione tra l’uomo e le lettere ed arti belle, ma nell’esistenza nella persona umana del Logos, di una scintilla divina per cui essa prende posto con un alto rango nell’ordine dell’essere. Testimonianza e realizzazione di tale rango è la cultura quale coltivazione dell’umano. Alludendo al moto di compimento dell’essenza umana, nel senso originario di umanesimo riluce l’idea che tale essenza vada collocata entro la più generale verità dell’essere; e che l’uomo divenga umano, separandosi dal non-umano ed esistendo verso la pienezza di ciò che dovrebbe essere ed ancora non è. Nella questione dell’umanesimo è posto un problema sull’essere e un problema sull’uomo. Pensando l’uomo entro la verità dell’essere, occorre considerarne la corporeità non meno della razionalità: il superamento del dualismo cartesiano implica che l’uomo non “abbia un corpo”, ma “sia un corpo”. Se la natura più profonda dell’umanesimo sta nella (ri)conduzione dell’uomo alla sua essenza, ossia a partecipare dell’Uomo eterno, questo movimento si compie in un processo di paideia e di cultura dove la 394
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persona esista come totalità concreta, come “io” dinanzi a se stessa e dinanzi al grande Tutto universale. L’humanitas dell’homo si riassume nell’esistere come totalità aperta: aperta perché interiore, ossia capace di autocoscienza, di libertà, di tenersi in mano. Il compito della paideia come coltivazione dell’umano consiste nel condurre la persona verso il massimo bene umano ad essa connaturale, e che, come già si vide, si può determinare così: essere atto di tutto l’essere consentito dalla propria essenza. In quanto nell’ontoteologia è custodita la verità dell’uomo, essa è in radice umanistica, nel senso che nella metafisica viene tramandata una paideia dell’uomo come essere incompiuto e dinamico che punta oltre se stesso. L’umanesimo vuole l’accadimento dell’uomo attraverso un puro amore verso l’essere e la persona: l’uomo di cui si cerca l’accadimento non è l’Uomo eterno o essenziale o l’idea di uomo, ma quello singolo, concreto, precario, colpito dalle ferite e scissioni dell’esistenza; dal male, dalla colpa, dal dolore, dal limite e da tutte le forme del non-umano. Ora, il problema dell’accadimento dell’uomo affonda le sue radici nel mistero dell’essere: l’uomo accade quando in lui cresce un’esistenza più alta, quando la vita si realizza più pienamente, quando diviene parte consapevole di un ordine, dove l’Essere stesso per sé sussistente è principio e fine. Anche da questo lato non sono negabili i rapporti tra metafisica e umanesimo, nel senso che l’intellettualismo esistenziale include e si corona in personalismo ontologico e in un’ontologia della libertà, che guardano avanti al mai compiuto cammino dell’uomo verso se stesso. Nel moto dell’uomo verso il compimento della sua essenza, la metafisica come ontoteologia (o teofilosofia) rappresenta elemento costitutivo di ogni umanesimo, a doppio titolo: a) l’uomo esiste dinanzi ed entro l’essere, verso la cui verità la metafisica tende in toto; b) la modalità più alta dell’essere è l’esistenza in forma personale, è l’“esserpersona”. Tale modalità vale come una determinazione essenziale, non come evento toglibile, poiché nessun potere di disposizione tecnica può eliminare l’esser-persona della persona, né si conoscono modi dell’esistenza umana che non siano in forma personale. Nell’esistenza della persona la categoria centrale non è semplicemente in-der-Weltsein, ma il suo atto sostanziale, scandito nel processo del conoscere e dell’amare. Poiché in radice l’umanesimo ha carattere metafisico, ritorno all’essere e ritorno alla persona fanno parte di un unico movimento. Nella fuoriuscita dal nichilismo teoretico viene dunque individuandosi una fase di ripresa dell’infinito compito dell’umanesimo, il cui scopo è muovere verso la sempre incompiuta aurora o nascita del395
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l’Uomo. In ogni atto autentico l’uomo cerca di divenire l’Uomo, compiendo il passaggio dal virtuale al reale, dall’uomo implicito a quello esplicito. Perciò nell’ontoteologia circola più o meno vistosamente un’antropodicea, sia essa una “giustificazione” dell’uomo attraverso l’elemento teologico dell’umanesimo teocentrico dell’Incarnazione, oppure attraverso l’umanesimo del volto dell’altro, o mediante l’umanesimo esultante di Pico della Mirandola nella celebre Oratio de hominis dignitate15. L’antropodicea di queste forme dell’umanesimo si qualifica come una filosofia dell’interiorità quale luogo ultimo di inerenza delle attività della persona, nel senso che la sua comunicabilità intenzionale verso l’esterno e l’altro parte e ritorna ad un centro, dove nel silenzio della sua vita primevale sta lo spirito: luce, quiete, capacità di riflessione su se stesso, attivo riposo. Qui la persona cerca di sormontare le continue lacerazioni della vita, esistendo dinanzi a qualcuno. La misura della soggettività e dell’interiorità è costituita dal “dinanzi a chi” si esiste. L’io esiste in trasparenza dinanzi a se stesso, ed è il mondo del paganesimo col suo vertice in Socrate; oppure dinanzi a Dio, ed è l’evento cristiano, dove si adora credendo. Note 1 Cfr.
J. B. Metz, Antropocentrismo cristiano, Borla, Torino 1968. P. Ricoeur, Meurt le personnalisme, revient la personne, «Esprit», n. 1, 1983, p. 113-119. Ricoeur osserva che – dopo l’idea di un regno a tre: personalismo-esistenzialismo-marxismo, illusione durata per breve tempo – la sostituzione dell’idea di sistema a quella di storia con lo strutturalismo e la ripresa di un intento antiumanistico con Nietzsche il personalismo si è trovato sradicato dal suo terreno espressamente cristiano. 3 E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 307. L’unicità dei volti è forse il motivo dominante della sua filosofia. «Noi chiamiamo volto questa eccezionale presentazione di sé da parte di sé, che non ha misura comune con la presentazione di realtà semplicemente date» (ivi, p. 207). Poiché «l’apparizione d’Altri è volto» (En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974, p. 194), nell’apparire del volto accade un’entrata in scena di una presenza non-mondana e non-cosale. «In Heidegger il mondo è molto importante. Nel Feldweg c’è un albero: non si incontrano uomini», ha ancora osservato Lévinas (Filosofia, giustizia e amore, «Aut-Aut», n. 209210, settembre-dicembre 1985, p. 15). 4 Cfr. S. Kierkegaard, La malattia mortale, p. 21. 5 Con il legare l’interiorità all’ontologia della persona si avvia sulla strada giusta la domanda sul soggetto e sulla soggettività. In generale soggetto è chi 2
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esercita l’atto d’essere ed è perciò in grado di subire o effettuare un’azione. Nel cosmo esistono pertanto solo soggetti individuali: in essi, ai più vari livelli, dalla pietra allo spirito, l’esistenza (esse) non è una determinazione dell’essenza, ma la attua senza appartenerle (l’esistenza non fa parte del contenuto intelligibile dell’essenza). Ora, tra tutte le forme di esistenza del soggetto, la più alta è quella del soggetto personale: qui il soggetto esercita un’esistenza spirituale, libera, capace di darsi dei fini. 6 Per la determinazione di Riccardo di San Vittore cfr. De Trinitate, 4, 22; per quella di Boezio Contra Eutychen et Nestorium, c. III. 7 Pensées, ed. Brunschvicg, n. 323. 8 J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, p. 58. 9 S. Kierkegaard, La malattia mortale, cit., p. 29. 10 «Come predicato del cosmo intero e perciò compiuto, il divino non è un Dio personale al di sopra e al di fuori del cosmo stesso, e l’uomo non è un’immagine di Dio unica nel suo genere perché anch’essa metacosmica, bensì, come qualsiasi essere vivente, è un essere del mondo mediante il quale il mondo perviene al linguaggio», K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 204. 11 G. Benn, Lo smalto del nulla, Adelphi, Milano 1992, p. 264. 12 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 414. Cfr. anche: «A tutti coloro che vogliono ancora parlare dell’uomo, del suo regno, e della sua liberazione, a tutti coloro che pongono ancora domande su ciò che l’uomo è nella sua essenza, a tutti coloro che vogliono muovere da lui per accedere alla verità […] a tutte queste forme di riflessione maldestre e alterate, non possiamo che contrapporre un riso filosofico, cioè, in parte, silenzioso» (ivi, p. 368). 13 Ivi. 14 Che nell’attualismo gentiliano si realizzi una versione progredita di nichilismo ci sembra confermato da una prospezione, sommaria quanto si vuole, del terreno antropologico, dove l’attualismo si trova in gravissima difficoltà, o forse nell’impossibilità, di raggiungere la persona concreta. Al suo posto compare lo Spirito come atto puro ed unico di pensiero: il cogitare che si realizza in un determinato individuo, non è uno fra molti, ma uno come tutto, infinito. Cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro, p. 101. 15 Sulla filosofia della persona cfr. anche: V. Possenti, Pensare la persona, dispense del corso di Storia della filosofia morale, Cafoscarina, Venezia 2001; id., Cambiare la natura umana? Biotecnologie e questione antropologica, «La Società», n. 6/2003, pp. 73-100; AA.VV., L’anima. Seconda navigazione. Annuario di filosofia 2004, a cura di V. Possenti, Mondadori, Milano 2004; id., Noi che non sappiamo affatto che cosa sia la persona umana…, «Filosofia oggi», n. 105, gennaio-marzo 2004, pp. 3-28.
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Capitolo quindicesimo
1. Ulteriori aspetti del nichilismo
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Tra passato e futuro
Avviandoci alla conclusione, un elemento aleggia a ricordare che un filosofare integro non può non considerarsi come medicina dell’anima e cura dell’uomo. Nelle pagine di Epicuro si incontra l’idea che vuoti sono gli argomenti dei filosofi non in grado di guarire le sofferenze dell’uomo: una filosofia di tal fatta è tanto inutile quanto una scienza medica che non riesca a espellere le malattie dai nostri corpi. Se la lotta per la conoscenza è parte della condizione umana nel suo lato più nobile ed è impegno arduo, altrettanto si deve dire della lotta con il desiderio, luogo cruciale per la cura dell’anima. Lo attesta un frammento di Eraclito: «Difficile è la lotta con il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compra a prezzo dell’anima» (fr. 85). Sappiamo che in Platone la dottrina della filosofia come cura dell’anima è stata condotta ad un vertice tanto più efficace ed originale in quanto in essa il momento “medicinale” e la dimensione metafisica non si oppongono ma si congiungono in armonia. In proposito il pensiero contemporaneo, anche là dove riesce a sfuggire alle spire del nichilismo, difficilmente recupera tale essenziale dimensione. È necessario ricordare questo aspetto in un testo che, muovendosi soprattutto nell’elemento conoscitivo, non lo pensa estraneo a quello della cura dell’anima e dell’uomo. Muniti di questa avvertenza, possiamo riprendere il cammino, ormai prossimo al termine. La questione del nichilismo dovrebbe venir esaminata anche alla luce della filosofia della storia, dal momento che esso si presenta come un evento della civiltà, che tende ad autolegittimarsi in base al fatto di esserci. Vale perciò come un clima o un ambiente in cui sono possibili certe persuasioni e non altre, in modo largamente indipendente da argomentazioni. Al loro posto si preferisce dire: “accade che…”, o 399
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“è accaduto che…”. Il più noto e sin troppo citato tra i presunti accadimenti, da cui il pensare dovrebbe venire irrevocabilmente indirizzato, concerne la “morte di Dio”. La sentenza non intende valere come una dimostrazione, ma come rinvio al fatto che per certe porzioni di umanità tutto accade come se Dio fosse morto. Curiosa pretesa, ma quanto coerente con la diagnosi qui svolta! L’insignificanza dell’argomentare costituisce appunto lo sbocco terminale del nichilismo teoretico portato all’apice. Viceversa la filosofia possiede ancora senso se nel suo domandare ricerca le cause di eventi spirituali complessi, non limitandosi semplicemente alla constatazione di ciò che accade o è accaduto. Nel caso del nichilismo alcune fra queste “cause” devono ora essere evocate. a) Il progressivo fallimento teoretico-pratico del marxismo ha costituito negli ultimi decenni un elemento di catalizzazione più che di contrasto al trionfale reimporsi di Nietzsche e del suo nichilismo, capaci di spazzar via senza tanti complimenti i residui di realismo circolanti nel materialismo marxiano. Ritengo verosimile che il crollo del marxismo teorico con la sua pretesa di esprimere una poderosa concezione scientifica del mondo e il senso immanente all’avanzare della storia, abbia lasciato dietro di sé rovinose delusioni e propiziato per contraccolpo la deriva verso il relativismo e infine il nichilismo. Se gnoseologicamente la sconfitta del marxismo può venire interpretata come l’abbandono di quella dose di realismo comportabile in una filosofia atea della prassi umana, che colloca il progresso della civiltà nella distruzione della concezione trascendente, da un punto di vista temporale l’esito estremo del moderno filosofico si configura come un “Nietzsche dopo Marx”. Delle tre forme fondamentali di ateismo: la politico-positiva, la tragica, la negativo-nichilistica, la prima appare da tempo in seria difficoltà e ormai alle nostre spalle. Nell’idea di rivoluzione essa veicolava un contenuto eccessivamente affermativo (seppure in larga misura mitico), che oggi si ritiene incompatibile col nichilismo. Mantengono invece vigore le altre due forme di ateismo (e la più dignitosa sembra quella tragica, nel preciso senso che in essa il soggetto vive entro una contraddizione non dialettica, ossia senza uscita o soluzione), mentre prende nuovamente slancio il materialismo sensistico allo stato puro. Se le forme di prassismo rivoluzionario denunciano chiaramente la loro vecchiezza, esse hanno lasciato uno strascico o più esattamente una sorda inimicizia verso la conoscenza pura che non è stata ancora superata. All’esplicito attacco contro questa, veicolato in specie nella II, III e XI tesi di Marx su Feuerbach, possono essere fatte risalire singolari responsabilità nella genesi del nichilismo in rapporto all’accantonamento del livello extraprassistico. 400
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b) Che lo sviluppo del nichilismo teoretico possa venire raccordato strettamente allo svolgimento del pensiero moderno scandito dalle tappe: teismo, razionalismo, deismo/panteismo, ateismo, antropocentrismo pare sostenibile in senso sintomatico. Molteplici e vari sono i fattori che hanno innervato quella sequenza, in cui in gioco è il rapporto con la trascendenza. Ora, se assumiamo come criterio di riflessione il tema della “morte di Dio”, questo ha subito un’intima trasformazione di natura culturale: l’anticristianesimo esplicito che sino a circa 40 o 50 anni fa era alluso nel ricorso a quel termine, è oggi divenuto un postcristianesimo. Attualmente il nichilismo che si interroga sulla sua essenza ateologica, comprende se stesso come postcristiano più che come anticristiano, poiché intende il senso fondamentale della vita fuori e in indifferenza rispetto al cristianesimo. Segno di questa trasformazione spirituale è la fine dei tentativi di fondare sulla “morte di Dio” un nuovo cristianesimo ateo, i vangeli dell’ateismo cristiano. Il linguaggio proprio della nuova condizione della città pienamente secolare non è la metafisica o il pathos poetico o l’esperienza religiosa, ma quello della politica, della tecnica, dell’utilità. Piuttosto l’elogio del postcristianesimo e della finitezza sembrano presupporre la fine irrevocabile dell’apriori religioso stesso e il definitivo realizzarsi della città dell’uomo. Nel vangelo ateo del postcristianesimo il mondo non è Dio, né rinvia a lui. Questi è scomparso, l’uomo ne fa a meno, né attende che ritorni. Alla dialettica “presenza-assenza-ritorno” con cui il secolarismo potrebbe venire interpretato come eclissi di Dio, si sostituisce l’asserto della fine irrevocabile: la sua morte non è dialettica e neppure semantica (qui “Dio è morto” significherebbe l’inanità degli sforzi umani di denotarlo e l’abbracciamento del cammino apofatico), ma reale. Nelle forme più curiose e con molti travestimenti Auguste Comte si prende la rivincita su Marx, Nietzsche ed altri. La tesi esplicitamente nichilistica sulla fine irrevocabile della religione (postcristianesimo) e della metafisica (pensiero postmetafisico) non è altro che una ripresa della celebre legge comtiana dei tre stadi. c) All’antirealismo e al nichilismo speculativo non si perviene in un solo salto ma in un tragitto che non di rado passa per uno stadio intermedio, rappresentato dall’assoluto predominio dello spirito critico-storico. Qui l’attività volta a conoscere le cose, le correnti vitali dell’essere, la natura e l’ordinamento morale del mondo si raffredda e tende a irrigidirsi nel mero compito analizzante e catalogante, depotenziata immagine del fresco atto contemplativo, volto a “vedere”, e da cui ci si può attendere, sul suo piano, l’unità intellettuale di un intero movimento di civiltà. L’enorme bisogno di conoscenza storiografica della 401
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filosofia contemporanea che cosa sembra esprimere, se non il desiderio più o meno consapevole di ritrovare e ghermire per via storica e mediata quell’accesso alla realtà e alla vita, che si considera ormai sbarrato lungo la strada del conoscere? Se l’intento è sacrosanto, la strada per raggiungerlo potrebbe essere inadeguata. Così pensava Husserl: «Non diventeremo filosofi grazie alle filosofie. Rimanere ancora alla sola dimensione storica, cercare di occuparsene in un’attività storicocritica, voler raggiungere la scienza filosofica in un’elaborazione eclettica o in un Rinascimento anacronistico: sono questi soltanto tentativi senza speranza. Non dalle filosofie, ma dalle cose e dai problemi deve provenire l’impulso della ricerca»1. Nel grande bisogno di conoscenza storica si può leggere un retaggio dello storicismo, che tuttora costituisce una metafisica influente della nostra epoca, nonostante le mutazioni e i cambi di pelle cui è andato incontro, ad es. abbandonando quell’idea-mito di progresso che aveva rappresentato il suo immancabile correlato per quasi due secoli. L’ingresso dello storicismo nel raggio d’azione del nichilismo sembra sottrarre alla coscienza storica il suo carattere prospettico e progettuale, in una parola la sua tensione infuturante che si poneva come il più sicuro vanto e l’ultimo ridotto dell’umanesimo secolarizzato; e ciò in ragione del carattere di isolamento nel presente sempre dileguantesi che il nichilismo comporta. Nella metafisica dello storicismo è contenuto l’allontanamento dalla centralità della natura. Con buone ragioni K. Löwith ha sostenuto: «La physis che all’inizio del pensiero occidentale era tutto e che, come originario essere di ogni ente, determinava anche la natura e la storia dell’uomo e persino la natura deorum, si è mutata, di fronte al pensiero storico ed esistenzialistico, in quasi nulla, mentre la storia, che Platone ed Aristotele abbandonavano agli storici politici, è divenuta tutto»2. Ciò di cui sono perite la metafisica e la conoscenza reale in larghi tratti della filosofia moderna non fu l’ottimismo, o il pessimismo o il socratismo, ma il criticismo, da intendere non come momento interno alla stessa conoscenza dell’essere e dunque necessario e razionale, ma come esercizio di una ragione decentrata dal reale e chiusa in se stessa, la quale sfocia nell’assunto: nulla può essere fondato, tutto deve essere criticato; il fallibilismo dunque come prima e ultima parola. Uno degli eventi più decisivi che interessano il pensiero filosofico da vari decenni è l’ingresso trionfale in filosofia del fallibilismo, importato senza risparmio dall’area dell’epistemologia e metodologia scientifica. Con ciò entra progressivamente in crisi la possibilità di cogliere l’ordinamento del reale, nella sua scansione ternaria di ordinamento ontologico, ordinamento morale e ordinamento estetico; e si dilegua l’ulti402
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ma certezza moderna, quella che il linguaggio potesse abbracciare e infine padroneggiare gli uomini e le cose. d) Nel processo verso il nichilismo ha svolto un ruolo notevole l’illuminismo con le sue premesse riduzionistiche: una quota del nichilismo postmoderno nasce entro il quadro del progetto illuministico e della sua progressiva dissoluzione. Di fatto i pensatori del postmoderno assottigliano ulteriormente le premesse già parzialmente realistiche dell’illuminismo, ed il suo limitato ricorso alla ragione speculativa. Il declino del progetto illuministico era implicito nel suo scegliere di autenticarsi solo a livello etico-politico e scientifico, lasciando da parte come secondario e perfino superfluo il livello ontologico-teoretico: a questa opzione consegue che l’area di un accordo comune, dove sia possibile partecipare ad un insieme di idee, nozioni e criteri condivisi, si assottiglia progressivamente. Se nessuna intuizione dispiega una potenza ordinante nei confronti degli uomini e delle cose quando la fiamma dell’intelletto speculativo è spenta, si dovrebbe dare ragione a G. K. Chesterton, per il quale il mondo moderno avrebbe subito un tracollo intellettuale più consistente di quello morale. Nella sua fase iniziale, ascendente e di gloria, il progetto illuminista, presto rinforzato dal positivismo, fu in qualche modo realista: non in teologia e neppure in metafisica, ma nella scienza. L’illuminismo e poi il positivismo sostennero che il mondo era pienamente conoscibile attraverso la fisica e le scienze associate, di modo che l’unica conoscenza teoretica salvaguardata fu quella scientifica: essa ci avrebbe via via svelato l’intima costituzione del mondo, offrendo in dono agli uomini una conoscenza unificata fin nei dettagli del cosmo e della vita. Aderendo ad un realismo solo scientifico, illuminismo e positivismo sposavano però una posizione instabile. In effetti dopo l’abbandono del realismo in filosofia, il processo sta ormai interessando la scienza la quale si considera certo potentissima, ma raramente ritiene di poter apprestare un’adeguata conoscenza dell’intero: piuttosto muove verso un esplicito riduzionismo che taglia via da sé settori di realtà o li interpreta sotto l’esponente del “null’altro che…” (ad es. l’intero cosmo è null’altro che materia più energia). Da qui l’intento dello scientismo di promuovere una piena risoluzione naturalistica dell’uomo, atto in cui antiumanesimo e nichilismo occidentale si danno la mano. Da altro lato il postmodernismo multiculturale e contestualista si lancia nell’asserto che non esiste alcun ordine nel cosmo, qualsiasi ordo essendo semplicemente costruzione umana labile, relativa, mutevole. Di conseguenza il postmodernismo tende a inglobare e digerire lo scientismo stesso, assegnandogli la valenza di un semplice paradigma valevole entro una specifica cultura. Ciò a conferma della legge se403
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condo cui è arduo fermarsi nella corsa antirealistica, se non al capolinea del nichilismo: il realismo non è un taxi da cui si possa salire e scendere ad nutum. Horkheimer ha fissato in una frase lapidaria l’esito dell’abbandono dell’originaria idea di ragione: «La morte della ragione speculativa, dapprima serva della religione, poi sua nemica, può rivelarsi catastrofica per la ragione stessa»3. Con la compiutezza del nichilismo la filosofia procede in battaglia contro se stessa e si fa karakiri. La verticale speculativa già espressa col concetto di intellettualismo esistenziale riassume la prospettiva alternativa, entro cui si può edificare l’ontologia come ricerca infinita. L’ulteriorità dell’essere postula un’ontologia dell’inesauribile. e) Infine altri due cespiti in cui si solidificano aspetti del nichilismo, attirano l’attenzione: 1) la crisi della Scienza come sapere stabile e necessario; 2) l’emergenza del subjectum. 1) L’opzione antirealistica non consente che il pensare si regoli sull’essere, nutrendosi dei nuclei o fuochi di intellegibilità che sono inclusi nel reale. Se questo è velato e muto per il pensiero, si aprono due cammini per il filosofare: quello della ragion pratica, ampiamente praticato; quello di sostituire all’evidenza speculativa una decisione sull’essere. Quest’ultimo è il cammino di Heidegger, per il quale la stessa distinzione tra essenza ed esistenza ricade nell’ambito della decisione4. Con ciò viene dissolto il concetto di scienza teoretica, di un puro “guardare”, restando oscuro a partire da che cosa possano essere operate decisioni sull’essere. Per un processo quasi fatale il “non più metafisica” del nichilismo comporta, insieme alla rimozione del problema posto dal divenire, la sua assolutizzazione, in cui l’impensabile – ossia un divenire originario ed eterno, dove il cosmo vale come la totalità in atto di un mutamento infinito senza scopo né senso né causa prima –, vuole diventare pensabile: qui il divenire viene accettato come allant de soi, evento non bisognoso di alcuna spiegazione5. Lungo questo cammino si perviene alla fine della Scienza o dell’episteme, che può fondarsi sulle determinazioni stabili dell’essere, non su un divenire dove nulla sta fermo: del totalmente mutevole non vi è sapere, perché manca un fondamento stabile su cui assicurare asserti universali. A questo evento si collega la piena convenzionalità nella scelta dei principi, per cui secondo Carnap ciascuno può costruire come vuole il suo linguaggio, perché in logica non c’è morale, come egli afferma. Soluzione apparente perché le regole del pensare sono suggerite dal reale stesso; allontanandole da sé, il soggetto non pensa l’essere, ma costruisce “poeticamente” linguaggi derealizzati. Intendendo i primi principi come 404
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mere convenzioni, la filosofia si accosta a una forma dell’arbitrio, in base all’assioma secondo cui quod gratis asseritur, gratis negatur. Nell’avanzata del nichilismo teoretico non bisogna perciò dimenticare l’apporto conferitogli dalla versione outrée e senza mistero del neopositivismo, espressa nel Manifesto del circolo di Vienna: «Tutto è accessibile all’uomo e l’uomo è la misura di tutte le cose. In ciò si riscontra un’affinità con i sofisti, non con i platonici; con gli epicurei e non con i pitagorici; con tutti i fautori del mondano e del terreno». La specifica inclinazione al nichilismo teoretico del neopositivismo si condensa nell’idea che il compito della filosofia non consista nel procurare all’uomo un sapere sulla realtà. A questo scopo si pensa che siano più che sufficienti le scienze, sebbene rimanga quanto mai fastidiosa la domanda su quale e quanta conoscenza residui, quando il fallibilismo revoca in dubbio il carattere di sapere stabile da esse offerto. Rifiutata la metafisica e resa provvisoria la scienza, sembra infine che l’uomo non possa più sapere alcunché. Nel neopositivismo si effettua l’esecuzione della filosofia come conoscenza e la sua trasformazione in mera attività. Wittgenstein lo ha spiegato con una chiarezza priva di ombre e non resta che lasciarlo parlare: «Tutta la filosofia è critica del linguaggio. La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta. La filosofia non è una delle scienze naturali. Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri. La filosofia non è una dottrina, ma un’attività»6. Che la filosofia non sia una dottrina ma un’attività, significa che essa non conosce alcunché; che il suo compito è esclusivamente critico, ma in maniera più depotenziata che in Kant. In questi infatti – se la critica delle facoltà del conoscere, considerate dal punto di vista dell’a priori, non era ritenuta una dottrina perché non si estendeva ad oggetti –, rimaneva acquisito che la critica ricercava le condizioni perché le facoltà conoscitive potessero fornire una dottrina (cfr. Critica del giudizio, Introduzione, §3). 2) Quanto al secondo cespite, occorre forse risalire al nuovo tema cartesiano del soggetto che trasforma l’ente e che ne stabilisce l’ambito di oggettivazione. Secondo la lettura heideggeriana, Nietzsche compie quanto Cartesio annuncia: «Per quanto nettamente Nietzsche si rivolga di continuo contro Descartes, la cui filosofia è la fondazione della metafisica moderna, lo fa solo perché Descartes non ha ancora posto l’uomo in modo sufficientemente completo e deciso come subjectum […] Solo nella dottrina del superuomo, quale dottrina dell’incondizionata preminenza dell’uomo sull’ente, la metafisica moderna giunge alla determinazione estrema e compiuta della sua essenza. In questa dottrina Descartes celebra il suo trionfo sommo»7. Ed è in questa dottrina che l’originarietà teoretico-contemplativa del conoscere è abo405
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lita, a favore di una concezione dell’essere come volontà e specificamente come volontà di potenza e infine volontà di volontà, entro il cui quadro si situa l’incondizionato dominio del soggetto sull’ente. Che il soggetto si dispieghi come volontà di potenza oppure come io autocentrato, in entrambi i casi la conoscenza dell’altro come altro è impedita: all’alterità non si permette di rappresentarsi se non nelle forme stabilite dall’ego dal quale partono e al quale ritornano tutti i raggi. Una versione fortemente autoreferenziale del soggetto fra le varie implicazioni include quella di rendere antropologicamente precaria l’idea stessa di rivelazione come automanifestazione di Dio all’uomo, cioè dell’alterità divina al soggetto umano. Nella rivelazione infatti opera non l’ego ma il me, non l’attivo ma il passivo: non dunque ego convoco, ma io sono convocato; l’Altro mi convoca (me, non ego). L’io può essere convocato se consiste come io aperto all’ascolto, se non si pone immediatamente come originario e fondato su se stesso.
2. Dialettica ateologica del nichilismo: il suo preambolo nel razionalismo In questo libro la verticale teologica del nichilismo, ossia l’assunto che il nichilismo in senso plenario possieda una decisiva radice ateologica, è in genere rimasta sottotraccia. Conviene ora dirne qualcosa, perché il nichilismo in sue manifestazioni notevoli ha preso le mosse da una intenzionale rottura del nesso che legava in Occidente la ricerca filosofica con l’elemento religioso e teologico, e questo è stato il compito del razionalismo. Merita perciò esplorare i legami fra razionalismo e nichilismo, in quella forma per cui il primo si pone come preambolo e ingresso al secondo. Naturalmente molto dipende da come viene definita la natura del razionalismo. Di essa A. Del Noce ha suggerito una determinazione in chiave teologica sulla scorta delle ricerche di J. Laporte: consistere cioè il razionalismo nel rifiuto senza prove del soprannaturale e dello status naturae lapsae8. Questo approccio che si muove sul crinale teologico, può essere allargato a comprendere le espressioni di razionalismo in cui si afferma la superiorità della filosofia sulla religione, e la negazione o la sostanziale emarginazione del problema del male. Si viene così costruendo un linea che da Hegel conduce sino a Gentile, in cui è appariscente la priorità della filosofia sulla religione e operata in vario modo la critica di ogni rivelazione. Prima di inoltrarci in questo cammino che assegna un volto teologico al razionalismo, è opportuno menzionare gli elementi più pro406
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priamente filosofici che concorrono in modo influente a perimetrarne la natura, e dei quali il razionalismo si è lungamente nutrito. Essi paiono riassumibili nei seguenti; 1) la negazione di ogni intuizione intellettuale anche intesa in senso largo, di modo che l’enfasi cade sulla ratio non sull’intellectus. Il razionalismo in genere rifiuta il momento di apertura e di recettività della mente sostituendolo col momento unicamente concettuale e costruttivistico nel quale diventa impossibile raggiungere l’altro in quanto altro. Non vi è luogo per l’intuizione intellettuale nel razionalismo: non vi è né in Cartesio, né in Kant, né in Hegel, che ne rappresentano tre forme alte; 2) la postura antipersonalistica, nel senso che per il razionalista l’io individuale è un momento da superare, di modo che si guarda con alterigia alla persona riconducendola a semplice momento dell’universale. La filosofia del Neutro come espressione di nichilismo ci appare come un momento di sviluppo di criteri genetici già presenti nel razionalismo; 3) la pretesa che l’essere sia perfettamente trasparente alla ragione, ossia la pretesa dell’identità fra il reale e la formula che lo esprime9. Il razionalismo nella sua variante più ebbra credette che i concetti elaborati dalla mente fossero identicamente la realtà, che essi la raggiungessero senza residui, che la logica fosse una piena ontologia o sapere dell’essere reale, mentre era solo una onto-logica. Ma nell’identità del reale e della formula che lo esprime, il “reale” che viene raggiunto è solo il pensato, da cui si può evadere o attraverso colpi di forza volontaristici, oppure erigendo la dialettica logica del pensato e delle idee in dialettica dell’essere reale, secondo la mistificazione hegeliana. Ma volgiamoci al lato teologico dove alcune dissimulate ma non secondarie sorgenti di nichilismo vengono emergendo in un processo secolare di cambiamento della cultura europea. In un prima fase il punto di riferimento centrale della cultura, a lungo individuato nel teologale, abbandona questo livello per attestarsi su quello esclusivamente razionale rappresentato dalle grandi metafisiche del razionalismo secentesco: qui il teologale rimane come orizzonte non più direttamente rilevante e quando lo è ancora, ciò accade nella forma del conflitto delle fedi e di un incipiente pluralismo. In un secondo momento anche il livello metafisico è ritenuto eccessivamente impegnativo per costituire la base della conoscenza e della cultura: a partire dalla metà del XVIII secolo viene al suo posto elevata l’etica quale nuovo centro di prospettiva, dapprima nella forma universale e normativa di cui è paradigma l’imperativo categorico kantiano, poi in modo sempre più sfrangiato sino all’approdo a soluzioni “politeiste” cui hanno cercato di porre rimedio le varie riabilitazioni della filosofia pratica in atto da circa mezzo secolo. In questo processo un ulteriore elemento di difficoltà è sta407
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to costituito dalla riduzione del cristianesimo a solo insegnamento morale, di cui si rintracciano le linee maestre in Kant. L’estrema linea di resistenza antinichilistica si è dunque attestata sul guado dell’etica, che acutamente Nietzsche considerava come l’ultimo ma fragile baluardo su cui si sarebbe organizzata la resistenza prima dell’avvento del nichilismo compiuto. Sottratta al suo radicamento nell’essere e nel bene, l’etica è però andata incontro a un processo di impoverimento, di involuzione e di centrifugazione pluralistica (il politeismo dei valori), di cui sono testimonianza – per altro minoritaria – le teorie dell’‘etica senza verità’. La crisi dell’idea di verità che in varie fogge interessa l’attuale discorso morale, rappresenta – si è osservato più volte – una manifestazione di nichilismo. 1) Il rapporto con l’eterno. Nel secolare processo in cui il baricentro spirituale si è spostato dal teologico al metafisico e poi all’etico la cultura ha progressivamente perso il contatto con la categoria di eterno: niente più verità eterne, niente strato eterno dell’essere, niente di eterno nell’uomo, neppure in quel senso che si manifesta nella idea nicciana dell’eterno ritorno dell’identico. L’oblio dell’essere raggiunge il vertice incorporando un pieno oblio dell’eterno: non si dà nulla di intemporale, ma tutto è soggetto all’infinita danza di un divenire privo di senso, di scopo e di ogni trascendenza. È il trionfo della finitezza e della temporalità: verità come Evento, non verità come Essere. Lo storicismo radicale, rinunciando senza residui alla nozione di eternità, fa l’ultimo passo con cui si pone come nichilismo. Ciò per contrasto rende avvertiti che movimento antinichilistico essenziale risulta il recupero dell’idea di eternità: dall’eterno ritorno al ritorno all’eterno, diremmo, nel senso che l’eterno ritorno è cattiva infinità e scelta antidivina. Di questo essenziale contromovimento sono testimonianza le pagine di Dostoevskij che manifestano, oltre alla diagnosi sul nichilismo, ineludibili elementi di terapia. «Ebbi a cuore l’eterno, e non solo il temporale utilitario», scrisse10. Nel nichilismo “ateologale” emerge una valenza spirituale riposta su cui poco si è meditato, nel senso che esso incorpora una volontà di decreazione, quale esito di una rigorosa dialettica della libertà. Questa, immersa nell’assoluta assenza di senso e scopo che rende vana la sua volontà di potenza e la sua volontà di volontà, e ormai mossa da un odio universale verso l’esistenza, deve necessariamente pervenire al desiderio di distruggere ogni cosa e infine di annientarsi: se l’uomo non può essere principio del proprio esistere sia almeno principio di un’universale distruzione di se e del tutto, come ancora una volta ha intuito Dostoevskij in specie con la figura di Stavroghin. Siamo al tentativo di decreare, inane perché tanto il creare quanto il decreare sono 408
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preclusi all’uomo, ma pericolosissimo in quanto prevale una scatenata furia distruttiva che cerca di sopprimere quel misterioso, essenziale desiderium naturale videndi Deum, inscritto nelle più riposte profondità dell’esistenza umana. Quella tensione alla visione di Dio che per l’uomo è naturalmente desiderabile e naturalmente inaccessibile, e che significa che il dinamismo dell’intelligenza umana tende per inclinazione congenita a fissare gli occhi entro l’Infinito (sul nichilismo come abbandono dell’eterno, pensiero della decreazione e rinuncia alla visio Dei, cfr. Essere e libertà, cap. I). 2) Il cristianesimo laicizzato e l’impossibile secolarizzazione dell’agape. In questo cammino ateologico che ruolo ha giocato il “cristianesimo laicizzato”? Il termine non è forse felicissimo. Per intenderci meglio si potrebbe dire: quale ruolo ha giocato il tentativo di tenere in piedi un cristianesimo secolarizzato, ossia un cristianesimo privato della sua base teologale e divina (supposto che in tal caso si possa ancora parlare di cristianesimo)? Occorre gettare uno sguardo da questa parte, verso il cristianesimo conservato in forma di immanenza. Coloro che si pronunciano per il cristianesimo laicizzato assumono che la secolarizzazione ha vinto, e che perciò la religione del Vangelo può sopravvivere al massimo in una versione profana, integralmente immanentizzata: quelle che un tempo erano verità credute dalla fede, riguardanti Dio, l’uomo e il loro rapporto vengono depotenziate sino a divenire meri simboli dell’umano, utili a servire da ispirazione e a catalizzare le relazioni fra gli uomini. Un “cristianesimo” dunque rinchiuso nella finitezza, senza fede trascendente, senza salvezza, senza redenzione, senza Dio, vita eterna e resurrezione dei morti. In tale secolarizzazione si estenuano, nonostante la loro radicale diversità, le due strade dell’Dio-uomo (Incarnazione) e dell’UomoDio. La prima, che significa non la divinizzazione dell’uomo ma l’umanizzazione di Dio, non è più creduta. L’altra, il tentativo feuerbachiano di proiettare sull’antropologia i caratteri del divino e dunque di deificare l’uomo, è stato cammino di breve corsa e da tempo relegato nei miti impossibili: quanto oggi incontriamo non è la deificazione dell’uomo ma la conturbante dichiarazione della sua finitezza autocentrata e non di rado segnata da un sentimento di accentuato disincanto. A questa condizione spirituale alcune espressioni si oppongono facendo appello a un’etica del limite, della pietas e del convivere fraterno: l’integrale secolarizzazione del cristianesimo lascerebbe in dono agli uomini, esistenti sotto un cielo muto e definitivamente consegnati a se stessi, il senso della fratellanza e dell’amore. L’amore viene riportato solo sul piano del finito, nell’assunto precario che una reciproca donazione incondizionata possa accadere fra gli uomini: essi 409
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si darebbero interamente l’un l’altro senza bisogno del sostegno e della sorgente dell’agape divina. Sogno nobile, certo, ma sogno; utopia, non realismo, che non coglie quanto profonda sia nell’uomo la tentazione antifraterna se non è riscattata dall’agape. Inevasa rimane la risposta alla domanda se l’amore fraterno fra gli uomini possa essere secolarizzato, o se è invece il non-secolarizzabile per eccellenza nel senso che nessuna agape umana tiene, tolta la sorgente divina, poiché l’amore umano è sostenuto da quello divino. Orfano di Dio, l’uomo diventa presto orfano di se stesso. Ora se il “bel sogno” della fraternità viene meno, l’uomo si trova esposto alla disperazione, a disperare di potercela fare da solo, prossimo a cedere alla malattia mortale di cui ha detto Kierkegaard (“disperarsi è perdere l’eterno”), e che nel suo esito finale si congiunge con l’esito terminale del nichilismo compiuto. Che l’agape non possa essere secolarizzata non implica che scompaia la funzione di lievito che il Vangelo svolge nella storia profana e nella coscienza secolarizzata. Quest’ultima può ricevere dal cristianesimo ispirazioni sulla giustizia, la fraternità, la solidarietà, che essa assume e di cui si nutre in maniera appunto secolarizzata. L’interrogativo non verte sull’astratta legittimità per la coscienza secolare di compiere il passaggio dal teologale all’immanente, traducendo in forma secolarizzata contenuti di valore e di giustizia provenienti dall’eredità religiosa, ma sulla capacità di autosostentamento e di resistenza al nichilismo nell’epoca del disincanto e della “morte di Dio”. Se questa linea di resistenza non fosse possibile? Se rimanesse la prospettiva weberiana di una fedeltà stoica ma immotivata al destino dell’epoca, all’accettazione del politeismo dei valori? Quale fra gli dèi in lotta dovremmo seguire? 3) Filosofia ed “empietà”. «Ciò che ci distingue non sta nel fatto che non ritroviamo un Dio, né nella storia né nella natura e nemmeno dietro la natura – ma nel fatto che non consideriamo, come divino, ciò che fu venerato in quanto Dio, bensì come miserevole caricatura, come principio di denigrazione del mondo e dell’uomo: insomma che neghiamo Dio in quanto Dio»11. Lasciamo qui indeciso se Nietzsche, nonostante la recisa affermazione di antiteismo, non si opponga alle simiae Dei più che al vero Dio, del quale si è detto: Gloria Dei, homo vivens, massima distanza dal dio inteso come sprezzatore del mondo e dell’uomo. Il frammento citato potrà venir portato a conferma tanto dell’evento per cui col nichilismo entra in eclisse il contatto con Dio nella storia universale, quanto del nesso fra nichilismo, oblio dell’essere e ateismo. Un legame sostenuto ad es. da J. B. Lotz, per il quale «l’oblio dell’essere induce facilmente alla negazione di Dio o all’atei410
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smo»12: come potrebbe l’oblio dell’essere non produrre l’oblio o il disconoscimento di colui il cui nome è Esse ipsum? Forse vengono qui al pettine i nodi irrisolti presenti nella separazione fra Dio e l’essere, già adombrata in Lutero e Hegel. Il tema è in certo modo ricompreso nell’elusione o nell’evasione che parte della filosofia contemporanea pratica verso l’Oggetto Immenso. Essa si mostra nei suoi confronti o troppo povera o malamente ricca: povera per chi ritiene che il divino stia completamente fuori della filosofia; ricca per chi come Gentile pensa che il divino è la filosofia stessa (ma oggi questo assunto è diventato estraneo, qualcosa che solleva stupore, e non muove neanche ad una confutazione). Soggetto ad irrilevanza teoretica, Dio è diventato una questione non-filosofica, abbandonata alla fede, mentre alla filosofia si chiede di essere leale verso se stessa abolendo ogni riferimento al Trascendente e presentandosi come soltanto agnostica, quando non includente un ateismo o postulatorio o almeno metodologico, nel senso di obbligarsi a procedere etsi Deus non daretur. Forse la pusillanimità speculativa è inerente al nichilismo ed alla sua “ragione stanca”. Oppure si deve assumere che, nichilismo o meno, la filosofia sarebbe atea per essenza e ospiterebbe un progetto di empietà, da intendersi non come il sempre necessario compito di purificare le rappresentazioni del divino e le forme delle religioni, ma come vocazione a dissolvere il theion? Nelle sue origini più tipiche essa si sviluppò dal grembo dell’esperienza religiosa, sino al punto che a lungo il coronamento teologico rappresentò il suo destino più alto, dove la pietà del pensare si concentra nel sempre risorgente tentativo di dire l’essere e Dio: di ciò danno testimonianza le ricerche sugli albori del pensiero filosofico. Ogni posizione che volesse programmaticamente assumere l’empietà quale compito specifico della filosofia, non solo si porrebbe in contrasto con la sua tradizione dove prevalente è l’impegno a pensare in modo più puro il divino, a partire dai Greci nei quali la critica della religione raramente coincide con il suo abbandono –, ma condurrebbe il filosofare a limitarsi in modo improblematico al finito come tale. Assumere programmaticamente che la domanda su Dio debba venir estromessa dalla filosofia e che questa debba dedicarsi a dissolverne le tracce quali retaggio di cosmologie ormai defunte (questa è ad es. la posizione di correnti radicali del razionalismo critico e del neopositivismo), è un approccio apportatore di povertà per il pensiero. 4) Il richiamo del finito. Ma non vuole il nichilismo con tale scelta comprendere nel modo più determinato il finito e solo esso? Rimarrà come interrogativo sempre rinascente, e difficilmente oltrepassabile, se sia possibile pensare il finito come finito e fuori da ciò nient’altro; 411
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se il nichilismo riesca a maneggiare adeguatamente la finitezza, espungendo dal proprio orizzonte l’infinito quale termine dialettico necessario. È problema non ingenuo se la filosofia, non domandando su Dio, non si incammini a perdere il valore e il sapore stessi della finitezza. Non è moltiplicando le conoscenze o le ontologie regionali che si può per sommatoria comporre il quadro della finitezza, ma soltanto pensandola sin dall’inizio come tale, e dunque nel suo rapporto con l’infinito. Se e come il finito proceda dall’infinito, ha costituito uno dei massimi temi del filosofare, forse il supremo, a cui il pensiero greco non ha dato risposta: esso infatti ci presenta il cosmo diveniente e l’Indiveniente come due regioni dell’essere, accostate l’una all’altra. Ma oggi ci si è accontentati di raggiungere una comoda suddivisione di ruoli tra filosofia e teologia: la prima non si occupa dell’infinito, dedicandosi invece con ardore al seguito dell’Illuminismo alle conoscenze settoriali e del frammento, cresciute anarchicamente. L’altra invece fatica a pensare insieme finito e infinito, pur alla luce dell’evento dell’incarnazione del Verbo, in cui Dio non sta accanto alla finitezza, ma l’assume.
3. La sapienza metafisica e l’ordine delle sapienze Valendo come conoscenza della verità dell’essere, la metafisica è una sapienza. È sapienza razionale dell’essere, un sapere puro, cercato in grazia di se stesso, sull’Intero e sul principio. Forma intrascendibile della vita dello spirito, la metafisica è già di per sé ontoteologia o teofilosofia nel senso che comporta una dottrina sull’essere e su Dio13. Con l’avvento del cristianesimo si è operata una ristrutturazione dell’edificio della sapienza, ormai dislocato lungo tre livelli in cammino ascendente: sapienza filosofica, sapienza teologica basata sulla parola rivelata, sapienza dei santi o dello Spirito Santo, volta verso l’esperienza mistica. Le prime due sono sapienze di conoscenza, la terza di conoscenza e amore. In quest’ultima si attua quanto si potrebbe denominare, nonostante i rischi di ambiguità del termine, la contemplazione evangelica, la cui essenza è ben diversa (ma non opposta) alla contemplazione teoretica della metafisica. Ma intanto non è cadere in una completa equivocità impiegare in entrambi i casi il termine “contemplazione”, di cui col suo riferimento al “vedere” si sottolinea l’origine greca, perché nella stessa prospettiva biblica l’udire e l’agire non totalizzano l’esperienza credente. Essa si appoggia altrettanto al vedere e al contemplare: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi ab412
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biamo contemplato…» (I Gv 1,1). In un passo attribuito a sant’Alberto Magno la contemplazione evangelica e quella teoretica vengono colte nella specificità che le distingue: «La contemplazione dei filosofi è per la perfezione di colui che contempla, e di conseguenza si ferma nell’intelletto, sicché in questo il loro fine è la conoscenza intellettuale. Ma la contemplazione dei santi è per l’amore di colui che essi contemplano, cioè di Dio. Perciò la loro contemplazione non si ferma nell’intelletto mediante la conoscenza, come suo fine ultimo, ma passa nel cuore mediante l’amore» (De adhaerendo Deo). Mentre nella contemplazione metafisica l’uomo parla di Dio, in quella evangelica che include la preghiera, parla a Dio. Nella contemplazione evangelica l’uomo entra in esperienza unitiva con l’Amore sussistente, diventando capace di sovrabbondare in generosità salvatrice e sacrificio di sé, di comunicare con gli altri uomini nello slancio agapico che l’unisce alla Sorgente, di espandersi nell’azione. Essendo con Dio, in Dio, di Dio, il contemplativo è là dove partono tutti i raggi del reale. Da questo vertice è lecito attendersi un nuovo orientamento per l’uomo e le civiltà. Essi vivono nell’ordine se l’edificio della sapienza è costituito in pienezza; ed è tale quando le sapienze rimangono in comunicazione reciproca (quanto meno perché esse possono coesistere nell’uomo entro una legge di circolarità) e quelle più alte irrobustiscono quelle che occupano un grado più umile. Sapienza razionale di conoscenza attraverso il concetto, la metafisica può giovarsi del conforto delle sapienze superiori, senza che un’esigenza obiettiva la destini ad esse: non esiste nella metafisica una esigenza intrinseca dell’esperienza mistica, ma forse al più un lontano appello. Si può aggiungere che la dottrina delle sapienze suggerisce che la filosofia, pur rimanendo autonoma, può essere illuminata dalla rivelazione per considerare nuovi campi e concetti di pertinenza della filosofia (ad es. l’idea di persona). Ma questo è appunto follia per il razionalismo. Con le riforme luterana e cartesiana venne colpita l’unità articolata della sapienza cristiana e la continuità dinamica tra i suoi livelli posta in crisi. In questo evento decisivo fu l’attacco della Riforma all’intelletto e alla metafisica, proseguito da Kant; e quello di Cartesio che, in base ad un concetto monistico di scienza, sottrae alla teologia il carattere di sapere (e a fortiori quello di sapienza). Considerato dal lato dell’edificio delle sapienze, il cartesianesimo rappresenta la rivelazione della scienza e la deposizione della sapienza. Su piano teologico l’assolutizzazione della sola fides qua conduce infine a intendere la fede solo come un modo di esistere del Dasein, che non raggiunge o “tocca” oggetti intenzionali diversi dalla coscienza e da essa non costituiti. Lungo questo cammino si estenua la realtà della Rive413
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lazione, che non veicola un contenuto oggettivo e veritativo, ma diventa quasi un portato della fede: la rivelazione come prodotto della fede, invece che la fede come suscitata dalla Rivelazione. In direzione diversa ma convergente nel mettere in questione l’equilibrio delle sapienze, si muove Heidegger con l’idea che la teologia sia scienza storico-positiva e pratica del (de)positum della fede, capace di separarsi nettamente dalla filosofia. Ora Dio per rivelarsi non ha bisogno delle mediazioni troppo sapienti introdotte da Heidegger: il divino, il sacro, il salvo (das Heile). Non potrebbe Dio, in quanto Dio, dirsi e rivelarsi? Non è il salvo che dischiude lo spazio del sacro, e questo del divino e il divino di Dio, ma è Dio che immediatamente apre ogni spazio e possibilità. Altrimenti la possibilità stessa di una rivelazione sembra spostarsi indefinitamente al futuro: «Ma il sacro che è solo lo spazio essenziale della divinità, che sola a sua volta concede la dimensione per gli dèi e per Dio, giunge ad apparire solo se prima, dopo lunga preparazione, l’essere stesso viene a diradarsi ed è esperito nella sua verità»14. Con la disorganizzazione dell’edificio della sapienza ogni parte o livello prende su di sé l’opera del tutto, come appare nei sistemi idealistici, in cui la filosofia è pregna di intendimenti teologici e mistici che dal loro livello si sono poi tradotti in paradigmi filosofici e in stimoli per l’azione: il celebre brano di E. Heine che illustra ai Francesi i rischi terribili insiti nella filosofia tedesca rimane come un esempio di penetrazione15. Le complesse costruzioni dell’idealismo, non prive di elementi gnostici e in cui si presume di stabilire il processo di autogenesi dell’Assoluto, sembrano peraltro ormai alle nostre spalle e le possibilità di ripercorrere il cammino della sapienza non nulle. Un simile evento costituirebbe qualcosa di grandioso e perfino di inedito per la cultura: sino ad oggi è infatti prevalso più il conflitto che l’armonia delle sapienze secondo due modalità. Una interna all’area del cristianesimo, che nel Medioevo ha visto più di una volta la teologia relegare in secondo piano la filosofia, e nell’epoca moderna il contrario. Ed un conflitto fra sfere di civiltà, quale fu quello accesosi nel mondo antico fra elezione naturale ellenica ed elezione soprannaturale cristiana, e quello in certo modo ancora perdurante fra sapienza cristiana e sapienza dell’Oriente (induista, buddista, taoista) in ragione del diverso modo di intendere l’orizzonte salvifico. Per il fatto che quella ellenica era una sapienza “mondana” e filosofica più che soterica, fu possibile arrivare ad una sua conciliazione col cristianesimo, in cui questo assunse e trasformò il retaggio ellenico, costituendo forse dal lato degli eventi dello spirito il massimo punto di svolta della storia universale. 414
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Contro quest’evento risuona la protesta luterana contro Atene e la metafisica, di cui il pensiero postmetafisico potrebbe essere tributario; e la protesta naturalistica rinascimentale e “neorinascimentale”, entrambe tese a dissolvere quella sintesi. Il luteranesimo prese partito solo per Gerusalemme, volendo ritornare alla sorgente cristiana pura con l’abbandono del discorso metafisico, e il rinascimento solo per Atene nell’intento di collegarsi soltanto al pensiero greco puro, dove la metafisica rimane ma solo entro l’orizzonte ellenico. Il separatismo che in diverso modo emerge nelle due vie condurrà al secolarismo moderno. In entrambi i casi si nega la possibilità di un progresso in filosofia, di una “terza navigazione”. Si potrebbero segnalare gli effetti devianti sulla questione dell’anima (immortalità e resurrezione), della quale la grecità classica raramente coglie lo statuto personale e il naturalismo rinascimentale espunge l’immortalità. È significativo che dal ritorno rinascimentale al pensiero greco non procede un rafforzamento del tema dell’immortalità dell’anima rispetto alla resurrezione del corpo, ma la negazione della speranza cristiana. Ora l’assunzione e la trasformazione del retaggio ellenico alla luce di quello biblico, di cui si è detto nel brano precedente, e dove la regia tocca alla Bibbia, trova una grande conferma sulla questione dell’anima. Secondo J. Ratzinger la dogmatica della fede ha elaborato un’idea di anima che non è né greca, né platonica, né rinascimentale: «Il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino al Vaticano II, ha in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concetto della resurrezione. Esso è un concetto specificamente cristiano e solo per questo motivo ha potuto essere formulato sul terreno della fede cristiana»16. L’integrità della sapienza suggerisce che fra filosofia e teologia si instauri una collaborazione nella distinzione, allontanando due fra i maggiori moduli con cui dalla fine del ’700 in avanti è stato pensato quel rapporto: la pretesa hegeliana che la filosofia valesse identicamente come teologia e più esattamente come sapientia Dei; l’assunto heideggeriano della separazione assoluta fra filosofia e teologia, che implica a modo di corollario l’idea che per la fede non sia importante cercare la propria intelligenza o autocomprensione. Dal lato della legittimità della teologia le due posizioni, fra loro distantissime, non intendono decretare la fine del “parlare di/su Dio”, e in tal modo si distaccano dall’abolizione della teologia come conoscenza che si fa avanti in Spinoza con la dottrina che riduce la religione e la fede a mera obbedienza pratica, e dall’attacco nicciano intento a dissolvere il nucleo teologico stesso della vita. Si tratta comunque in Hegel e in Heidegger di due posizioni polari: l’idea hegeliana che, essendo proprio all’essenza il manifestarsi, Dio deve necessariamente apparire e 415
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svelarsi17, è lontana dall’assunto della illeggittimità e impossibilità di ogni “rappresentazione” del divino. In certo modo le due strade si oppongono come quelle di una teologia catafatica e di una apofatica portate all’estremo, entrambe peraltro intente a lasciar fuori dall’ambito del divino l’essere. Poiché Dio è spirito, in virtù dell’opposizione presupposta fra spirito ed essere, Dio non è. Questa virtualità della teologia hegeliana ha trovato la sua apoteosi nel pensiero dell’attualismo che, fondandosi sull’unità idealistica del divino e dell’umano e del Deus in nobis, può sostenere che Dio non è ma si fa nell’uomo: oggetto immenso sì, ma sempre necessariamente legato alla coscienza che lo pensa e pone. Con altro cammino anche Heidegger perviene a giudicare insostenibile e infine da cancellare il Deus est esse, ossia la convertibilità fra Dio ed essere. Soluzione coerente col carattere “eventuale” e in certo modo storico che il termine essere assume in lui, nonché con la già segnalata svalutazione dell’elemento teoretico assimilato ad un mero “rappresentare”. Se una dottrina della conoscenza intende il rapporto fra soggetto conoscente e oggetto solo nella forma della rappresentazione che accade nella oggettivazione tecnica, sarà coerentemente condotta a declassare la teologia, intendendola come sforzo per rappresentare Dio. La critica di ogni ontoteologia e la fine del ricorso al sapere ontologico in teologia, condurrà alla separazione completa di filosofia e teologia, avviando la seconda verso la condizione di studio storico-positivo del positum della rivelazione e di scienza pratica18.
4. Il nichilismo come non-destino e la transculturalità della metafisica A) Il nichilismo come evento aperto. I precedenti sviluppi hanno preparato il terreno per accogliere l’idea che il nichilismo non costituisca una questione dell’essere, ma dell’uomo: del suo conoscere e della sua libertà. Se nel nichilismo non accade qualcosa all’essere ma al soggetto, esso rientra nella classe degli eventi non necessari, anzi aperti e reversibili, dove l’assegnazione di tutta la metafisica al nichilismo è puramente mitica. Altrettanto infondata appare l’idea che l’essere dica qualcosa di sé all’uomo solo attraverso specifiche e mutevoli aperture storiche. Modernità e postmodernità non sono riassumibili nella cifra della “morte di Dio”. Con la determinazione del nichilismo speculativo proposta si può procedere a ridimensionare le diagnosi epocali-destinali sul nichilismo quale movimento fondamentale della storia dell’Occidente, evento che si mantiene nella sfera delle possibilità; e riaprire il cammino verso il ritrovamento della filosofia dell’es416
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sere come espressione di ontosofia, che separa da sé su piano metafisico l’ontofobia, e su quello gnoseologico la logofobia o misologia. Nell’avvento del nichilismo nessuna necessità è all’opera, come pretendeva Nietzsche, ma solo la dialettica di svolgimento di una linea (non la totalità) della filosofia moderna, cui appartiene anche la variante, che non sembra poter aspirare ad una presenza durevole, del “nichilismo debole”, giocato nel senso di una ontologia del declino e del “prendere congedo da”. L’analisi delle scuole filosofiche e degli autori che in misura variabile, da vicino o da lontano, hanno contribuito all’avvento del nichilismo era necessaria per dare sostanza alla diagnosi speculativa avanzata. Occorrerebbe però completarla in un dialogo col pensiero moderno che non ha ceduto al nichilismo o che è maturato in alternativa a questo, e che naturalmente trova semi e virtualità non riconducibili al solo ambito della filosofia dell’essere, cui ci siamo di preferenza riferiti. Ritengo qui fondato aggiungere che oltre alla filosofia dell’essere, cui non si tratta di “tornare” ma di “riprendere”, è possibile individuare linee di resistenza e di superamento del nichilismo nella discendenza teista-“ontologista”, da Del Noce denominata franco-italiana (Pascal, Malebranche, Vico, Rosmini), e nel pensiero russo, in specie Soloviev19. Il ritrovamento postnichilistico della filosofia dell’essere è reso possibile, oltre che dal suo vigore speculativo, dal fatto per cui nella filosofia moderna non è rappresentata solo la direzione che dal razionalismo conduce all’antirealismo e al nichilismo, esistendone un’altra non aliena da una conciliazione con il realismo. Riprendendo una determinazione introdotta da A. Del Noce per il problema dell’ateismo, diremo che il nichilismo speculativo connota solo problematicamente, non assiologicamente o definitivamente, la modernità. Ai fini del suo superamento occorre intendere in modo più determinato il rapporto fra nichilismo e antinichilismo: sono essi legati dialetticamente nel senso che il vertice del primo costituisca condizione necessaria per una svolta, in cui un contrario si genera dall’altro? Absit! Il filosofare è un processo vitale che non ama i ribaltamenti logico-dialettici: vi è una buona dose di ingenuità nel pensare che la filosofia possa automaticamente riemergere verso l’essere dopo la notte del nichilismo, alla stessa stregua con cui il tuffatore, terminata la discesa verso il basso, riaffiora con un colpo di reni dai cupi abissi verso la luce. Ma se il presente non sta su un’immaginaria vetta dialettica, è però una mobile linea di confine sempre oltrepassata verso gli imprevedibili futuri contingenti. Tra questi sta la possibilità che il nichilismo sia superato non per capovolgimento dialettico, e neppure per inveramento (non sembra esservi una lezione del nichilismo che si presti ad essere inverata), ma 417
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entro un processo determinabile come “risposta a sfida”, in cui si proceda a separare sempre più adeguatamente realismo e antirealismo. Tale ci sembra la strada di un postmoderno diverso da quello sinora prevalente di indirizzo antifondazionale e debolistico. Con il riferimento al postmoderno fa ingresso una categoria cui in genere non si è fatto ricorso in queste pagine, sebbene esse possano essere considerate un’indicazione verso un “altro” postmoderno, sganciato dagli esiti negativi e nichilistici di parte della modernità. B) Transculturalità della metafisica. Vi è ancora un problema che bussa alla porta, e su cui nel congedarci con quella brevità di chi sta sulla soglia, si dirà qualcosa. Si tratta di un tema in cui si annidano le difficoltà più temibili, ma che proprio per questo non può non essere almeno accennato, senza nascondere il lungo periplo che dovrebbe esser compiuto per una risposta adeguata. Ma intanto si ponga l’interrogativo: è l’atto conoscitivo costitutivamente legato all’epoca e alla cultura? Nel frequente riferimento di molti al pensiero occidentale, alla metafisica dell’Occidente, alla concezione occidentale dell’ontologia viene denotata solo una provenienza storica più o meno accidentale, oppure soprattutto stabilito un ambito di validità della metafisica entro una certa sezione di umanità? Veritas sequitur esse rerum: la verità si fonda sull’esistenza delle cose (e in ultima istanza sul loro atto d’essere raggiunto nel giudizio). Questa costituisce ai nostri occhi la prima affermazione dell’essenza della verità, in cui si radica la condizione centrale entro cui la transculturalità e la transtemporalità della metafisica (e dell’atto conoscitivo entro cui questa si dischiude) possano valere. Noi parliamo di una condizione radicale di possibilità, che potrà venire accompagnata da fattori capaci di oscurarla o di renderla quasi inattingibile, ma non di cancellarla. Questo assunto ci sembra far parte della natura più intima del conoscere, nonché del retaggio del realismo, almeno nel senso che, a dispetto delle più ampie fluttuazioni di elementi culturali, storici, psicologici, l’atto conoscitivo termina all’oggetto attinto nel concetto. Comprendo bene che differenti tradizioni concettuali, operanti in civiltà diverse, creino ampi condizionamenti, non insuperabili però perché nei concetti si tende ad esprimere il reale. Più importanti dei condizionamenti culturali potrebbero essere le differenze nelle intenzionalità-guida della ricerca. Mentre la Seinsphilosophie mira ad una sapienza intellettuale di conoscenza, le concezioni orientali presenti nei Vedanta e nelle Upanishad sembrano mescolare tale ricerca con quella di una sapienza di salvezza e di trascendenza. È possibile coordinare l’una con l’altra, a patto di non sacrificare le originarie in418
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tenzionalità. O si deve pensare che, quando nelle Upanishad leggiamo: «Amico, tutte le creature hanno la loro radice nell’essere (Sat), si basano sull’essere, riposano sull’essere» (Chandogya Upanishad, VI, 8), si intenda qualcosa di incommensurabile con l’essere di cui parla l’Occidente? O che la triade Sat (essere), Cit (coscienza o intelligenza), Ananda (beatitudine), alludendo a una struttura trinitaria della vita, designi qualcosa di completamente diverso rispetto alle orme trinitarie meditate da Agostino? Non è forse possibile che nelle varie tradizioni cerchi di dirsi, esprimendosi e tradendosi ad un tempo, qualcosa di simile ad un’intuizione vertente sulla struttura dell’intero? Anche supponendo che le Upanishad trasmettano sull’essere e su Dio un insegnamento diverso dalla teologia cristiana, i due ambiti rimangono in linea di principio confrontabili entro le discipline comparate, dove la discussione comparativa aiuta a situare il “colorito idiomatico” che ciascuna tradizione tende più o meno inavvertitamente ad acquistare. Nell’asserto secondo cui la metafisica dell’essere pretende ad una validità transculturale e transtemporale, sono inclusi tre elementi: a) la almeno parziale trascendenza dell’atto conoscitivo dell’intelletto rispetto alle condizioni storiche e culturali nella sua prensione dell’essere, per cui si è sostenuto che intellectus supra tempus; b) l’impossibilità di ridurre compiutamente il filosofare ad atto subiettivo e culturalmente situato; c) l’impossibilità di ridurre a semplice visione del mondo, propria di un’epoca ed in cui si esprima l’autocoscienza che l’uomo forma di sé entro certi orizzonti socioculturali, la scienza dell’essere in quanto essere quale sapere dell’intero. Il secondo e il terzo elemento sono parzialmente dipendenti dal primo, dove si concentra l’eventuale transculturalità del pensiero ontologico. È la conoscenza umana segnata senza rimedio dalla temporalità, non solo nel senso che l’uomo conosce stando entro il tempo, ma in quello per cui la sua percezione della realtà dovrebbe necessariamente mutare col fluire della storia, senza mai rinvenire alcunché di fermo su cui appoggiarsi? Nel suo compito l’intelletto risulta da un lato accidentalmente legato al tempo per il suo modo di funzionamento mediante cui forma con l’astrazione i concetti volgendosi alle rappresentazioni dell’immaginazione (conversio ad phantasmata), ma dall’altro intrinsecamente al di sopra del flusso della temporalità, in quanto volto a percepire lo stabile e l’essenziale. Poiché l’essere è atto, non parola o linguaggio, la sua percezione è in linea di principio aperta a ogni uomo di ogni epoca o civiltà, in quanto concerne lo strato del conoscere che vale come più originario di quello del dire. Non è il linguaggio che fa i concetti, ma sono questi che via via formano il linguaggio. Non grazie al linguaggio l’uomo abita nel domi419
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nio dell’essere, bensì grazie ad una intuizione intellettuale transculturale, che appartiene all’ordine del pensiero concettual-rivelativo. Esso va distinto dal pensiero rappresentativo e tecnico-dominativo. Il primo è un pensiero obiettivante-rispettante nel preciso senso che lascia essere l’essere, senza manipolarlo. Pensiero obiettivante significa che tutta la luce viene dall’oggetto, che il pensiero si fissa in esso e se ne nutre, attuandosi senza annullarlo: realismo nativo, lontano dal mito di una ragione autofondata nella propria produttività, e che in modo omogeneo conduce ad una filosofia dell’interiorità e dello spirito. La metafisica, come del resto la filosofia, si costruisce col segno (ed il concetto è segno, segno dell’oggetto, ossia dell’essere), non col cenno. In base a tale evento, e nonostante tutto il vasto apparato di esteriorità, di tecnica logico-concettuale e di indubbi condizionamenti storici, la conoscenza metafisica dell’essere si costituisce progressivamente nel tempo e nella storia, ma di per sé non è un atto epocale nel senso di qualcosa di completamente relativo all’autocomprensione che un’epoca ha di se stessa. Rimane problematica l’idea di un superamento o oltrepassamento della metafisica, come se essa fosse il fiore più alto e profumato, ma anche il più fragile e perituro di un’era ormai conclusa della comprensione dell’essere. Ciò potrebbe valere solo se si sostenesse che l’essere che può venir compreso, è sempre soltanto linguaggio: ma con tale asserto si permarrebbe ancora entro un dispiegato nichilismo. Questo e la metafisica abitano su monti opposti e devono perfettamente separarsi. Nella loro separazione consiste il maggior compito per la filosofia futura, se sarà all’altezza di una sfida che si presenta impervia. Essa investe infatti – più volte ci siamo affaticati intorno a questo immenso nucleo – l’idea che non si diano verità ferme e che ogni asserto sia sempre e in modo insuperabile, relativo, fallibile, mutevole: una convinzione tanto diffusa nel XX secolo da potervi ravvisare la massima crisi spirituale dell’epoca. Due domande hanno accompagnato la ricerca e si ripresentano nel momento del commiato: fino a quando il disincantamento del mondo generato dalle scienze che dovunque gettano la loro cruda luce al neon? Fino a quando la notte del nichilismo? Nell’oracolo di Isaia su Edom risuonava nel buio la domanda: «Una voce chiama da Seir in Edom: sentinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino, ma è ancor notte. Se volete domandare, tornate un’altra volta». La nostra domanda chiede sul ritorno alla conoscenza dell’essere. Il “fino a quando” allude alla ripresa del cammino della terza navigazione, dove l’essere può venire percepito con nuova immediatezza oltre l’oblio in cui è stato lasciato. Così la metafisica che 420
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Note 1
E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, p. 105. K. Löwith, “Storia e storicismo”, in Il dibattito sullo storicismo, a cura di F. Bianco, Bologna 1978, p. 286. In base al nesso fra storicismo e relativismo, per cui la verità è interna ad un’epoca e comunque funzione della successione temporale, è difficile negare che lo storicismo sia ad un tempo causa ed effetto del nichilismo teoretico. L. Strauss osservava: «lo storicismo non è propriamente una scuola filosofica fra le tante, bensì un’influenza fortissima che ha ripercussioni più o meno su tutto il pensiero contemporaneo e, nella misura in cui possiamo parlare di spirito di un’epoca, possiamo assumere con sicurezza che lo storicismo è lo spirito della nostra epoca», Che cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino 1977, p. 92. 3 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1977, p. 23. Su temi analoghi cfr. pure A. Poppi, Filosofia in tempo di nichilismo, ESI, Napoli 2002. 4 Per l’idea di decisioni sull’essere cfr. Nietzsche, p. 865. 5 L’ovvietà improblematica del divenire implica la dissoluzione dell’idea di necessità: tutto è contingente, nulla necessario. La metafisica implicita del mobilismo assoluto è il contingentismo radicale: l’essere è assolutamente contingente, completamente indifferente all’esistere. Tutto ciò che si concepisce come esistente si può ugualmente bene concepirlo come non esistente, secondo la posizione di Hume dei Dialoghi sulla religione naturale. L’idea stessa di Essere necessario appare inconsistente, per cui non si dà ragione sufficiente di alcunché. Per l’ontologia del contingentismo radicale il campo dei giudizi è ridotto a quelli analitici e a quelli sintetici a posteriori, privi di necessità in materia empirica. Un contingentismo analogo circola nel pensiero di Sartre: «Non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sentenza, una apparenza che si può dissipare: è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità». 6 Tractatus logico-philosophicus, nn. 4.0031; 4.11; 4.111; 4.112. 7 Nietzsche, p. 587 s. 8 Cfr. Il problema dell’ateismo, p. 17 s. e p. 24. 9 «Chiamo razionalismo qualsiasi posizione di pensiero che consideri in qualche modo, apertamente o surrettiziamente, come indiscutibile che il pensiero coincida puramente e semplicemente con la sua formulazione», F. Balbo, Opere, p. 290. 2
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sembrò finita per sempre, si mantiene in vita e l’affrettato giudizio sulla sua morte vale solo come disfattismo della ragione. Questo si dilegua quando nell’organismo del filosofare vengono reintrodotte ed elaborate le tre idee: fine, unità/ordine, verità, che il nichilismo voleva cancellare, sostenendo che il divenire mondano non mira a nulla; che non esiste un ordine, un’unità dotata di senso del tutto; né alcuna verità o “mondo vero”.
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10 Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881, Vallecchi, Firenze 1981, p. 405. 11 Frammenti postumi, vol. VIII, t. II, p. 267. 12 Dall’essere al sacro, p. 9. 13 Che l’ontoteologia oggettivi Dio e lo consideri come un ens, sia pure quello supremo, è una deformazione di origine heideggeriana, da cui la Seinsphilosophie si difende con successo. Nel suo apice la teologia filosofica ha sempre tenuto fermo che Dio è da noi conosciuto come sconosciuto, che sappiamo che egli è e non che cosa sia, per cui tutte le nostre formule su di lui, intessute di umiltà e povertà, lo raggiungono da lontano e in modo diverso da come conosciamo l’ens. Fra le molte una espressione dell’Aquinate si presenta alla riflessione: «Deus est potior omni nostra locutione et omni cognitione, et non solum excedit nostram cognitionem et locutionem, sed universaliter collocatur super omnem mentem et super omnem substantiam» (In de Divinis Nominibus, c. 1, lect. 3). Si veda anche De Potentia, q. 7, a. 5, ad 2m; e In Boet de Trinit., q. 1, a. 3, ad 1m, dove si conferma che l’essenza divina ci rimane ignota. Se ora ci volgiamo al linguaggio dell’esperienza mistica, leggiamo in Silesio: «Dio è un puro nulla, il qui e l’ora non lo toccano: quanto più vuoi afferrarlo, tanto più ti sfugge» (Il pellegrino cherubico, l. I, n. 25). 14 Lettera sull’“umanismo”, Segnavia, p. 291. 15 Nietzsche ha intuito il compito e l’eredità teologici che la filosofia moderna, in specie tedesca, ha assunto su di sé: «Il pastore protestante è nonno della filosofia tedesca […] Basta pronunciare la parola “seminario di Tubinga” per capire che cosa è in fondo la filosofia tedesca – una scaltrita teologia», L’Anticristo, Adelphi, Milano 1988, p. 11 s. Il brano di Heine si può leggere in K. Löwith, Il nichilismo europeo, pp. 58 s. 16 J. Auer, J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1996, p. 162. 17 «Dio si rivela. Rivelarsi vuol dire questa conversione della soggettività infinita […]:questo manifestarsi appartiene all’essenza dello spirito stesso. Lo spirito che non si manifesta non è spirito […] Dio come spirito è essenzialmente questo: essere per un altro, manifestarsi», Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, p. 250. Anche la peculiare concezione barthiana della “teologia naturale” – opposta alla rivelazione tanto quanto la religione è opposta alla fede, per cui nella religione l’uomo rifiuterebbe la rivelazione –, non pare contribuire alla integrità della dottrina della sapienza. Su questi aspetti si vedano le pp. 44-62 della Dogmatica ecclesiale, EDB, Bologna 1980. Qui l’opposizione fra teologia naturale e fede è così netta che ogni concessione alla prima conduce secondo Barth alla negazione della rivelazione di Dio in Cristo: si opta dunque per un metodo che antepone l’aut-aut all’et-et. D’altro canto occorre riconoscere il buon diritto di Barth quando ricorda che la “teologia naturale” non può competere con la Parola di Dio e non salva. 18 Cfr. M. Heidegger, “Fenomenologia e teologia”, in Segnavia, pp. 3-34. 19 Sulle linee filosofiche oggi proseguibili cfr. F. Balbo, Opere, p. 250-254.
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ANNESSI
1. L’antirealismo e la frattura uomo-realtà 2. Testi sull’essere di Tommaso d’Aquino senza commento 3. Intuizione intellettuale, “anticipazione” e giudizio in Karl Rahner 4. Ancora sull’intuizione intellettuale 5. Richiami sull’esperienza del Sé quale evento di mistica naturale 6. La critica dell’ontoteologia 7. Che cosa è nichilismo? Guardando verso l’enciclica Fides et ratio
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Annesso 1
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L’antirealismo e la frattura uomo-realtà
La musica fondamentale della nostra ricerca, suonata sulla tastiera della metafisica e della conoscenza, quando venga seguita oltre l’aspetto più rigoroso delle questioni, dischiude qualcosa di fondamentale: alla radice del nichilismo si colloca una profonda frattura fra uomo e realtà, di cui l’antirealismo gnoseologico-ontologico è il maggiore e più decisivo riflesso teoretico. Esso si esprime nella vittoria del nominalismo sul realismo, in cui H. Jonas individua con solide ragioni l’essenza del nichilismo (teoretico)2. Il suo avvento segna una profonda frattura nella storia spirituale della modernità: frattura fra uomo e mondo; fra pensiero ed essere; fra uomo e Dio; fra natura e libertà. In questo clima matura l’esperienza del soggetto di avvertirsi oscuramente “gettato nell’essere”, quasi provenendo da un nulla originario a cui risponde il nulla finale (quando ci si avverte gettati nell’essere, vi è qualcuno o qualcosa che getta? Il nichilismo contemporaneo non sembra chiederselo a sufficienza). Ora l’esperienza della “gettatezza” emerge come esito maturo di un processo scandito in tappe che furono effettivamente percorse nella cultura europea e che all’incirca si disposero lungo la sequenza: a) Dio infinitamente lontano nelle oscure profondità dell’universo e come “perso”, assente, silente negli infiniti spazi; b) Dio inteso effettivamente come scomparso per sempre, tema in cui si invera uno dei sensi della cifra “Dio è morto” (l’altro ad esso collegato è che il “mondo vero” delle idee, dei valori e degli ideali non getta più luce né possiede più efficacia storico-esistenziale); c) la cancellazione della categoria di eterno con il connesso primato del divenire. Proprio quest’ultimo aspetto accentua la percezione di essere gettati in un mondo in cui nessun orizzonte di senso soddisfa e tutti dileguano. La condizione di gettatezza dell’uomo in un mondo muto e non più teofanico favorisce lo spirito anticontemplativo e l’attivismo intramondano teso a mettere a propria disposizione le cose, che non rinviano ad 425
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altro e che nel loro insieme vengono avvertite come minacciose per l’uomo. Al carattere fondamentalmente oscuro della realtà si lega un’altra notevole dislocazione in cui le categorie della oggettività conoscitiva vengono rimpiazzate da quelle del comprendere intersoggettivo e ultimamente antropocentrico, dove l’esistenza del singolo, rinchiusa nel circolo della temporalità, assurge ad un unicum poiché è il solo “luogo” su cui il soggetto ritiene di aver diretta competenza. Sembra perciò che all’origine del nichilismo si debba riconoscere una condizione di dualismo e di separatezza che tocca i rapporti primari intrattenuti dall’uomo col reale, e che si manifesta ontologicamente-gnoseologicamente nel fossato elevato fra pensiero ed essere. Fra i campi investiti dall’esperienza del dualismo, ne sceglieremo due: A) il dualismo uomo-natura; B) il rapporto dell’uomo con la propria natura/essenza. A) Nella relazione nichilisticamente colorata fra uomo e cosmo, quest’ultimo non rinvia né a Dio né a un Demiurgo cattivo, ma si mostra indifferente: ospita forme di vita fra cui l’umana, ma non le fa sue e in qualche cataclisma cosmico potrebbe facilmente schiacciarle. L’uomo del nichilismo non percepisce nelle leggi dell’universo il tralucere dell’essenza divina e della sua sapienza; le avverte piuttosto come qualcosa di estraneo, freddo, e perfino ostile, con le quali occorre stare in guardia per volgere con fatica a proprio vantaggio i loro dinamismi. In queste disposizioni spirituali che vanno oltre la stessa filosofia, si manifesta l’essenza postmetafisica e spesso postreligiosa del nichilismo. In esso l’estraneità fra Dio e il mondo procede di pari passo con la negazione del carattere teofanico del mondo. Alla pietas rivolta da tempi immemorabili e in tante civiltà al cosmo e al divino in esso, si sostituisce l’indifferenza verso il cosmo e un’ostilità più o meno accentuata verso l’idea di legge (naturale e morale). In un circolo in cui cause ed effetti si scambiano le parti, l’estraneità nominalistica fra pensiero ed essere si raccorda all’estraneità fra uomo e mondo, conferendo al nichilismo un carattere acosmistico. Nell’esperienza in cui il soggetto nichilista si avverte ad un tempo come estraneo all’ordine cosmico e gettato in esso da potenze anonime e ostili, si fa valere in modo variamente marcato un antinomismo (anti-nomos), dove l’intento latente è di porre fine a millenni di cultura in cui il nomos possedeva radici nella vita cosmica. Nell’acosmismo e nell’antinomismo affiorano tracce dell’antico disprezzo per la natura e la legge, nonché per quella pienezza del carnale che si rivela nel mistero teandrico: Caro salutis cardo. In questi aspetti emerge nuovamente un sotterraneo collegamento fra nichilismo e gnosi. Il Dio gnostico, totalmente diverso dal 426
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Demiurgo ed estraneo al cosmo, non ha relazione con esso, è un Dio nascosto, di cui il cosmo non parla e da cui non procede alcuna legge. Un Dio talmente lontano ed altro che il mondo potrebbe benissimo venir pensato senza di lui. L’acosmismo e l’antinomismo sono comprensibili se, essendo nichilisticamente divenuto il mondo nulla per l’uomo, questi assegna precipuo valore a se stesso e si incorona re tramite una libertà su cui ormai gioca l’intera posta: l’uomo è solo in un cosmo indifferente e inintelligibile, verso il quale egli si difende attaccando cioè esercitando un dominio pervasivo con i mezzi messi a disposizione dalla scienza-tecnica. Con qualche somiglianza con l’antico gnosticismo, egli allontana da sé la natura e cerca la liberazione attraverso una conoscenza, che sarà per lui non quella di un cammino soterico ma quella di un consumatore incoronato dalla tecnica. Non ci si deve stupire se nel processo del nichilismo in concomitanza alla crisi spirituale-metafisica sul senso del cosmo, di Dio, dell’uomo, si operi il tentativo di cercare un ubi consistam nell’etica. Spesso però con esiti di limitato respiro, poiché anche il bastione della morale, non più radicato nell’essere, non può infine trovare la sua validità se non nella volontà che lo pone: all’attegiamento anticosmico finisce per corrispondere una tendenza a fare di fini, valori, beni e norme un positum, su cui si decide in base al critero dell’utilità o a quello del contratto sociale. B) Nel nichilismo anticosmico e antinomistico quanto importa è l’uomo (esso è dunque antropocentrico in varie fogge), ma questi è mortale e finito: il nichilismo non può che dibattersi entro le spire di tale contraddizione. Dopo essersi separato dalla natura cosmica, il soggetto cerca di allontanare da sé la propria natura umana, esercitando su essa un dominio e finendo per negarla. Questa strada è quasi obbligata, nel senso che se il cosmo non include alcuna normatività, sarebbe difficile rinvenirla nell’uomo. L’eclisse della categoria di normatività si salda con l’adozione del concetto di natura e di naturale foggiato dalle scienze, che in via metodica prescindono da ogni riferimento o rinvio metafattuale. Quando il soggetto nichilista si concentra su se stesso, mette in opera tre strategie nei confronti dell’idea di natura (umana): – quella fisicalista in cui la natura è un insieme a valenza meccanica da cui non può trarsi alcuna indicazione sul moralmente buono o cattivo, o su quanto desiderare o fuggire. Valutazioni di tal fatta costituiscono l’esclusivo compito della libertà; – quella spiritualista che concentra il valore dell’uomo solo nelle 427
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sue funzioni “alte”. L’uomo come persona si colloca ben al di sopra della propria natura, tanto al di sopra che essa non è per lui normativa; – quella naturalista dove la natura è per l’uomo “normativa” nel senso di “libertariamente normativa”: occorre lasciare libero sviluppo alle inclinazioni e pulsioni dell’uomo. Nelle tre versioni diventa un’impresa irta di ostacoli giustificare il concetto di normalità di funzionamento quale attività tipica di un individuo dotato di una certa natura. Nel nichilismo, tolto lo strato teologico dell’essere, viene meno la possibilità di mantenere un senso al concetto di natura e a quello di “normalità di funzionamento” di un soggetto. La maggior conseguenza antropologica è che non pare più possibile salvaguardare una differenza di rango fra vita umana e altre forme di vita, perché la dignità spetta all’uomo in quanto vi sia una natura umana specificamente distinta dalla illimitata molteplicità delle altre nature. Note 1
H. Jonas, Lo gnosticismo, Sei, Torino 1991, p. 353.
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Annesso 2
È qui riunito un certo numero di testi dell’Aquinate sull’ente, sull’essere e la loro conoscenza, scelti da un florilegio molto più ampio. Si tratta di citazioni per lo più brevi, ma adeguatamente significative per trasmettere la fondamentale “grammatica dell’essere” della Seinsphilosophie, e per offrire una base di appoggio alla dottrina del rapporto tra metafisica ed esistenza sviluppata nel cap. II. Ci è parso non necessario procedere ad un loro commento, poiché essi non celano il loro contenuto, offrendolo anzi in modo sufficientemente esplicito alla riflessione. Aggiungiamo che una più ricca loro penetrazione potrebbe venire raggiunta per via differenziale, ponendoli a confronto con testi di autori in cui alti sono l’oblio dell’essere e la distanza tra metafisica ed esistenza. – Illud quod primo cadit in apprehensione est ens, cuius intellectus includitur in omnibus quaecumque quis apprehendit, S. Th., I II, q. 94, a. 2. © ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.
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Testi sull’essere di Tommaso d’Aquino senza commento
– Illud quod primum intellectus concipit quasi notissimum et in quo omnes conceptiones resolvit est ens, De Veritate, q. 1, a. 1. – Ens dicitur id quod finite participat esse et hoc est proportionatum intellectui nostro cuius obiectum est quod quid est, ut dicitur in III de Anima. Unde illud solum est capibile ab intellectu nostro quod habet quidditatem participantem esse, In librum De Causis Expositio, ed. Pera, Prop. 6, lectio 6, n. 175. – Esse est actus entis, De Veritate, q. 10, a. 8, ad 12. – Esse idem est quod actus entis, Quodl., XII, I, 1, ad 1.
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– Hoc nomen ens significat ipsum esse. Significat igitur aliquid additum essentiae, In IV Met, l. II, n. 556. – Esse est actualitas omnis formae vel naturae […] Oportet igitur quod ipsum esse comparetur ad essentiam quae est aliud ab ipso, sicut actus ad potentiam […] Esse dupliciter dicitur: uno modo, significat actum essendi; alio modo significat compositionem propositionis, quam anima adinvenit coniungens praedicatum subiecto, S. Th., I, q. 3, a. 4. – Ipsum esse est perfectissimum omnium: comparatur enim ad omnia ut actus. Nihil enim habet actualitatem, nisi inquantum est: unde ipsum esse est actualitas omnium rerum et etiam ipsarum formarum. Unde non comparatur ad alia sicut recipiens ad receptum: sed magis sicut receptum ad recipiens, S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3. – Esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum, De potentia Dei, q. 7, a. 2. – Esse est aliquid fixum et quietum in ente, C. Gentes, I, c. 20. – In omni autem creato essentia differt a suo esse, et comparatur ad ipsum sicut potentia ad actum, S. Th., I, q. 54, a. 3. – Esse enim rei quamvis sit aliud ab eius essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum accidentis, sed quasi constituitur per principia essentiae. Et ideo hoc nomen ens quod imponitur ab ipso esse, significat idem cum nomine quod imponitur ab ipsa essentia, In IV Met. lectio 2, n. 558. – Quandiu igitur res habet esse, tandiu oportet quod Deus adsit ei, secundum modum quo esse habet. Esse autem est illud quod est magis intimum cuilibet, et quod profundius omnibus inest: cum sit formale respectu omnium quae in re sunt, S. Th. I, q. 8, a. 1. – Non est idem compositio ex substantia et esse, et ex materia et forma, Contra Gentes, l. II, c. 54. – Quidquid est in genere, secundum esse differt ab aliis quae in eodem genere sunt; alias genus de pluribus non praedicaretur. Oportet autem omnia, quae in eodem genere sunt, in quidditate generis convenire; quia de omnibus genus in quod quid est praedicatur. Esse igitur 430
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– Invenitur in substantia composita ex materia et forma duplex ordo: unus quidem ipsius materiae ad formam; alius autem ipsius rei iam compositae ad esse participatum. Non enim est esse rei neque forma eius neque materia, sed aliquid adveniens rei per formam, De substantiis separatis, c. 8, n. 89. – Prima operatio [intellectus] respicit quidditatem rei; secunda respicit esse ipsius. Et quia ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate, ideo veritas et falsitas proprie invenitur in secunda operatione, et in signo eius quod est enuntiatio, et non in prima, vel in signo eius quod est definitio, In I Sent., d. 19, q. 5, a. 1, ad 7. – Prima quidem operatio [intellectus] respicit ipsam naturam rei […] secunda operatio respicit ipsum esse rei, In Boet. de Trinitate, q. 5, a. 3.
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cujuslibet in genere existentis est praeter generis quidditatem […] quod autem ens non possit esse genus, probatur per Philosophum in hunc modum: si ens esset genus, oporteret differentiam aliquam inveniri per quam traherentur ad speciem; nulla autem differentia participat genus… Sed oportet differentiam esse praeter id quod intellegitur in ratione generis. Nihil autem potest esse quod sit praeter id quod intelligitur per ens, si ens sit de intellectu eorum de quibus praedicatur, C. Gentes, l. I, c. 25.
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Annesso 3
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Intuizione intellettuale, “anticipazione” e giudizio in Karl Rahner
1. Nell’opera Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin (trad. it. Spirito nel mondo, a cura di M. Marassi e A. Zoerle, Vita e Pensiero, Milano 1989, a cui faremo riferimento), il testo rahneriano filosoficamente più impegnativo, l’autore intende programmaticamente offrire una interpretazione di Tommaso che proceda dalla filosofia moderna, individuando in questo un pregio del volume (cfr. p. 4). I grandi autori moderni di cui si avverte la presenza in filigrana sono Kant, Hegel, Heidegger, in particolar modo il primo. Il tema del volume spazia sulla metafisica della conoscenza dell’Aquinate, con espressa sottolineatura della diversità di tale approccio nei confronti di indagini volte alla critica della conoscenza. L’intento sistematico è di tornare a Tommaso per avvicinare i problemi della filosofia contemporanea: il ritorno all’Aquinate significa per Rahner lasciare da parte la neoscolastica col suo imponente lavoro dei secoli XIX e XX, nonchè leggerlo senza l’ausilio dei commentatori e della sua scuola (cfr. p. 1). Una scelta di reinizio assoluto dunque? In realtà la partenza non è così radicale, perché l’opera accoglie e molto risente dell’interpretazione di alcuni aspetti della dottrina tomista della conoscenza avanzati da P. Rousselot e soprattutto da J. Maréchal. Il grande impegno che occorre riconoscere all’autore nell’accostamento dei testi tomisti non è perciò separabile dall’influsso delle tesi di Maréchal, né dalla incidenza di temi e posizioni circolanti nel neotomismo contemporaneo a Rahner. Un simile metodo non va giudicato a priori ma in base ai principi assunti e ai risultati conseguiti. Né vale obiettare che Spirito nel mondo si qualifica su piano teoretico, non storico: anzi il pregio principale dell’opera consiste proprio in questo. Essa propone con vigore una lettura della metafisica tomista della conoscenza centrata su una reinterpretazione dell’intellectus agens. 433
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Quasi in filigrana viene introdotta una idea nuova di metafisica, verosimilmente tratta dalla svolta antropologico-antropocentrica moderna: il concetto cioè che la metafisica, più che sapienza razionale dell’essere, debba essere intesa come «comprensione, che prende forma concettualmente, di questa precomprensione che l’uomo è in quanto uomo» (p. 35). Tale determinazione lascia basilarmente non chiarito se l’oggetto della metafisica sia l’ente in quanto ente o la precomprensione dell’uomo in quanto uomo, l’humanitas stessa dell’homo humanus. Inteso in questo secondo modo, Spirito nel mondo riporterebbe ogni sapere a scienza umana, nel preciso senso di una scienza che fondamentalmente verte sull’uomo, e la metafisica tematizzerebbe l’essere al fine di tematizzare in ultima istanza solo l’uomo: in essa si articolerebbe e diverrebbe cosciente la comprensione che l’uomo ha già di sé. Sarebbe essa ancora una sapienza razionale, anzi la sapienza naturale più alta? Se, intendendo la metafisica nel senso di Rahner, ci si allontana dalla tradizione, non è detto che ci si avvicini ai moderni: con costante vigore Heidegger ha ripetuto che la metafisica già da sempre approda all’oblio dell’essere, perché non pensa l’essere, ma l’ente e quel subjectum (l’uomo) che vuol rendersi sicuro e disporre dell’ente. 2. In questo Annesso non verranno affrontati vari problemi e soluzioni avanzati nel lavoro di Rahner: essere come interiorità, conoscere come autocoscienza, conoscenza dei primi principi, anticipazione dell’esse e conoscenza di Dio, natura della species intelligibilis e della conoscenza sensibile, ecc. Né ci soffermeremo sul modo alquanto problematico con cui sono reinterpretati alcuni snodi notevoli della dottrina tomista della conoscenza, che hanno provocato reazioni polemiche e pungenti messe a punto da parte di C. Fabro nel volume La svolta antropologica di Karl Rahner (Rusconi, Milano 1974). Secondo il mio giudizio il teologo tedesco paga lo scotto della scelta di non servirsi di alcuno dei grandi commentatori, che avrebbero potuto essere di notevole ausilio. Penso in particolare a Giovanni di San Tommaso per quanto riguarda la dottrina del concetto e dell’intenzionalità, sostanzialmente accantonata in Spirito nel mondo. Si può acquisire una più profonda penetrazione della sua tessitura e dei suoi assunti riconducendoli ai due seguenti elementi centrali: la negazione esplicita dell’intuizione intellettuale; il consapevole impegno a reinterpretare la dottrina dell’intellectus agens per salvaguardare un certo accesso agli oggetti metafisici pur in mancanza dell’intuitus intellectivus. Molto notevole è in proposito l’influsso di Maréchal sui due temi, e mediatamente di Kant nel primo: la negazione dell’intuizione intellettuale è la quintessenza del kantismo. Come Kant è stato indotto da quella negazione a impostare una teoria della conoscenza 434
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completamente nuova, qualcosa di analogo è capitato a Rahner: egli ha reinterpretato Tommaso sulla base sia dell’apriori, sia della negazione dell’intuizione intellettiva in modo tale che l’intelletto agente non è una facoltà percettiva, non “vede” intelligibilmente ma stabilisce solo una condizione a priori e meramente formale dell’oggettività del mondo. La ricerca ultima del volume è perciò una riflessione trascendentale su ciò che è affermato “dietro” la conoscenza del mondo e che va oltre il mondo, oltre la “fisica”. Nell’impostazione di metafisica della conoscenza del volume «si tratta sempre, al contrario di Kant, di un ilemorfismo noetico al quale corrisponde, nel senso di una determinatezza generale dell’essere del conoscere, un ilemorfismo ontologico nell’ordine oggettivo» (p. 4, corsivo nostro). L’espressione dà da pensare, perché ilemorfismo noetico significa applicare alla metafisica della conoscenza dell’Aquinate le categorie di materia e forma che semplicemente non le convengono, mentre propriamente convengono alla dottrina della conoscenza di Kant. Si è gia ricordato che, mentre in questi il conoscere è esattamente riconducibile ad un’attività ilemorfica in cui avviene la composizione o sintesi tra categorie (forme a priori) e la materia offerta nell’intuizione sensibile in quanto elaborata nelle intuizioni pure dello spazio e del tempo, nell’Aquinate il conoscere è quanto di più lontano si possa immaginare da una composizione ilemorfica. In questi l’ontologia del conoscere, mentre riconosce l’astrazione della forma intelligibile dal phantasma, è interpretabile con la decisiva categoria dell’identità intenzionale del conoscente e del conosciuto, a cui il momento dell’astrazione è propedeutico. Nel momento della conoscenza intellectus actu et intellectum actu sunt idem: la forma intelligibile della cosa è intenzionalmente presente nell’intelletto tramite il concetto, ed in tale identità non c’è ilemorfismo che sempre allude ad una composizione, e che solleva l’insolubile problema su come essa possa poi restituire l’oggetto conosciuto. 3. Ma veniamo al tema centrale dell’intuizione intellettuale. Secondo Rahner «l’atto che fonda inizialmente ogni conoscere deve essere concepito come intuizione, come un’apprensione immediata dell’intelligibile nel suo sé reale e presenziale» (p. 28; definizione identica a p. 42). Questa intuizione intellettuale non potrebbe essere riconosciuta all’uomo, al quale rimangono solo l’intuizione sensibile e l’imaginatio. Il lettore attento ha già riconosciuto il suono del vocabolario della Critica della ragion pura, ossia che la definizione rahneriana di intuizione è vicina a quella kantiana, intesa come una prensione immediata della cosa nella sua presenzialità individuale1. E quale uomo potrebbe mai averla a meno di non essere un angelo o un dio, cioè non un 435
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uomo? Questi, al quale è negata l’intuizione del reale singolare, possiede invece un’intuizione astrattiva dell’intelligibile, decisamente negata da Rahner: «L’astrazione, in quanto forma i concetti, è l’opposto dell’autentico concetto tomista di intuizione» (ivi). Spirito nel mondo non accoglie il tema dell’intuizione astrattiva che, ampiamente dibattuto nella scuola tomista da autori di primo piano, aveva in genere raggiunto una conclusione opposta a quella di Maréchal e di Rahner. Al contrario quest’ultimo, sulla base dell’alquanto oscura assunzione che «conoscere è l’essere-presso-sé dell’essere», crede di riconoscere l’autentica intuizione tomista «solo là dove l’essere nel suo sé reale è appreso perchè è identico a colui che lo apprende» (ivi), dove non è agevole rintracciare l’elemento centrale del processo conoscitivo: la conoscenza dell’alterità. Un tale point de départ imprime alla ricerca la sua caratteristica andatura, che è di trovare un accesso alla metafisica cercando di sollecitare in nuove direzioni la teoria dell’intelletto agente. Qui Rahner in certo modo si colloca a metà strada tra Tommaso e Kant: il primo ammette l’intuitività dell’intellectus, e la possibilità di una conoscenza degli oggetti della metafisica; il secondo nega entrambe le cose, riservando un certo accesso a quegli oggetti (Dio, anima, libertà) attraverso la strada della ragion pratica. All’origine dell’impostazione rahneriana sta un equivoco sulla teoria tomista dell’intelletto, interpretata solo lungo la linea dell’abstractio. In effetti Spirito nel mondo non concede che una flebilissima traccia all’imponente massa di testi dell’Aquinate in cui viene affermata e difesa l’intuitività dell’intelletto, la sua superiorità sulla ragione, la possibilità di un momento intuitivo all’interno stesso del processo astrattivo. Il solo lascito di quel corpus che rimane nel dettato rahneriano è l’intuizione dei primi principi da parte dell’intelletto agente; senza questo “salvataggio” l’intelletto tomistico quale facoltà dei principi si sarebbe pressoché trasformato nell’intelletto kantiano quale facoltà delle categorie. Nella ricerca di una strada verso gli oggetti della metafisica, pur senza intuizione intellettuale, il problema centrale diventa per Rahner di costruire una metafisica sulla base dell’imaginatio. La soluzione positiva del problema si riconduce per lui alla possibilità e al senso di un excessus non intuitivo, che vada oltre gli oggetti mondani raggiunti nella intuizione sensibile (cfr. p. 54), e che consegua l’oggetto metafisico a partire dal terreno dell’imaginatio, ma poi andandone oltre. Su tale concetto di excessus (eccedenza), che sorregge l’intera argomentazione tesa alla possibilità di una metafisica realista pur senza intuizione intellettuale, l’autore invoca l’autorità dell’Aquinate, richiamando S.Th., I, q. 84, a. 7 e In Boet. de Trinitate, q. 6, a. 22. Una metafisica in base all’excessus 436
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è secondo Rahner possibile «perché l’excessus non è diretto sull’essere materiale, quantitativo, sull’essere situato nello spazio e nel tempo, sull’essere intrinsecamente finito, bensì sull’esse essenzialmente illimitato» (p. 180). 4. Altrettanto importante del concetto di excessus è la teoria che attribuisce all’intelletto agente una capacità di “anticipazione”. L’anticipazione astrattiva, che porta sull’esse, è per Rahner la condizione di possibilità dell’abstractio della forma (p. 165): la prima è trascendentale, la seconda categoriale. Affinché l’intelletto agente possa svolgere la sua normale attività di astrarre la forma, deve essere data a priori, ossia come condizione di possibilità dell’astrazione, l’orizzonte dell’anticipazione (p. 173), la quale porta sull’esse. In essa, in cui l’intelletto abbraccia tutto il campo delle possibilità di una forma, appresa come concretizzata sensibilmente e individualmente, e ne determina a priori l’apertura di orizzonte, lo spirito muove verso la totalità dei suoi oggetti possibili (cfr p. 142). Nell’anticipazione e solo in essa viene trasceso l’orizzonte dell’imaginatio, che è semplicemente quello spazio-temporale (imaginatio tempus et continuum non trascendit), per raggiungere l’orizzonte dell’essere puro e semplice. Il concetto rahneriano di anticipazione cerca di tradurre l’apertura illimitata dell’intelletto agente, che genericamente si esprime nel noto assioma secondo cui “anima est quodammodo omnia”. L’anticipazione come tale non è diretta su un oggetto, ma è una delle condizioni di possibilità della conoscenza oggettiva. Poichè il lumen intellectus agentis non intenziona direttamente l’essere, ma ne apre lo spazio nell’anticipazione, sembra intrinseco al discorso rahneriano che l’oggetto metafisico non sia mai raggiunto come tale, ma solo indirettamente nella riflessione trascendentale sulle condizioni di possibilità della conoscenza del mondo, ottenuta nella “fisica”. Poiché l’anticipazione è l’apertura a priori di un orizzonte, l’esse a cui essa pur si volge, non può essere oggetto di un’intuizione metafisica. «L’esse è soltanto l’espressione dell’ampiezza dell’anticipazione stessa, è un oggetto di secondo ordine e, di conseguenza, non è nemmeno l’oggetto di una “intuizione” metafisica» (p. 173). In tal modo Rahner ha sostituito l’intuizione astrattiva dell’esse dell’ens raggiunta nel giudizio con il concetto di anticipazione astrattiva dell’intero orizzonte dell’esse comune, poiché l’esse “appreso” nell’anticipazione non è l’esse/actus essendi di questo o quell’ente, ma appunto l’esse comune (cfr. p. 174). Il motivo radicale per cui non può darsi intuizione intellettuale, è che non può darsi intuizione dell’apriori. Ora l’orizzonte dell’anticipazione è a priori, è un oggetto di secondo ordine, non un oggetto/ente reale finito. Nel momento in cui si produce una flessio437
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ne verso l’a priori dell’intelletto agente, il problema dell’intuizione intellettuale è ipso facto cassato. Intuizione (astrattiva) dell’intelligibile dunque contro a priori: questo è l’enjeu del dibattito, enjeu vitale perché la conoscenza oggettiva è per Rahner possibile solo in virtù dell’anticipazione (p. 177), perciò solo in virtù dell’apriori non dell’intuito. Anche su piano antropologico la flessione verso l’apriori non appare la più idonea per fare luogo al carattere umano e personale dell’apprensione dell’essere: questa è sempre una lotta, un abbraccio ed un riconoscimento tra soggetto e oggetto, in cui lo spirito patisce finché non ha raggiunto l’unità intenzionale col conosciuto. Si può dubitare che il concetto di anticipazione salvaguardi a dovere l’elemento, molto notevole nel processo umano di conoscenza, della personale “appropriazione” dell’essere3. In virtù dell’essenza dell’intelletto agente, che apre nell’anticipazione l’apprensione illimitata dell’esse, quest’ultimo viene colto nel giudizio (cfr. p. 129). Esso non opera semplicemente la sintesi di due concetti, ma soprattutto riferisce tale sintesi alla cosa stessa. Ogni giudizio porta sull’esse: «l’esse, in quanto universale, è appreso in ogni giudizio, anche nel giudizio di essenza» (p. 167); ed in quanto partecipabile da molte quiddità è appreso come universale. Inoltre nel contenuto del giudizio che porta sull’esse, questo è appreso come trascendentale e analogo (cfr. p.188 e 194). Nel giudizio il contenuto del predicato non è applicato al concetto del soggetto, bensì alla cosa-soggetto, alla cosa denotata dalla nozione del soggetto. Nel movimento dell’anticipazione viene intenzionato solo l’esse commune: «poiché nel giudizio l’esse è appreso come l’unico esse di molte quiddità, è appreso essenzialmente come universale» (p. 168). E tale sua universalità appare come mera ripetibilità dell’identico (cfr. p. 169). Se dunque nel giudizio non viene raggiunta la cosa stessa nel suo esse proprio, ciò dipende dal fatto che Spirito nel mondo fa la sua partenza dall’esse, e non dall’ens. Ne consegue la difficoltà a differenziare la ripetibilità categoriale e univoca della forma da quella trascendentale e analoga dell’essere, in virtù di cui ogni cosa si appropria dell’essere a suo modo ed esiste a suo modo. Ci sembra che le posizioni affermate da Rahner, che fanno perno sulla concezione dell’esse come actualitas omnis formae et omnis rei, come fondamento unico di tutte le determinazioni categoriali e dunque come sovracategoriale; che mettono in luce l’importanza della sintesi affermativa del giudizio in quanto porta direttamente sull’esse, dovrebbero obiettivamente condurre ad affermare l’esse come raggiunto in un’intuizione giudicativa: altrimenti non verrebbe colta in tutta la 438
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sua portata l’affermazione di Tommaso che la luce della cosa è la sua stessa actualitas, ed è proprio tale luce che guida l’intelletto4. Le forme del giudizio sono molteplici; in quale viene propriamente raggiunto l’esse? Spirito nel mondo non sembra trarre profitto dalla distinzione fra: 1) il giudizio di essenza (“l’albero è verde”), nel quale una quiddità affermata dal predicato è applicata al soggetto; 2) il giudizio di esserci o Dasein (“l’albero è qui”), in cui si esprime soprattutto una presenza al mio mondo; 3) il giudizio di esistenza “assoluta” (“l’albero è”). Mentre tutti questi giudizi vertono sull’ens, cioè sul soggetto, di cui affermano qualcosa, solo il terzo porta direttamente sull’esse, affermando immediatamente l’esse/actus essendi del soggetto. Le altre due forme del giudizio lo affermano solo indirettamente e virtualmente, in modo tale dunque che l’esse può rimanere (e spesso rimane) implicito e non attinto: in tali casi il giudizio si limita a proiettare la quiddità del predicato sul soggetto. Mentre il giudizio di esistenza assoluta richiede di essere posto al livello dell’astrazione metafisica, ossia sul piano trascendentale, non altrettanto si deve dire per gli altri due giudizi. L’esercizio più alto (più alto, non unico, si badi) dell’intuitività dell’intelletto avviene nel giudizio di esistenza assoluta, in cui l’intelletto, operando al livello della astrazione-visualizzazione metafisica, coglie in un’intuizione giudicativa l’actus essendi, e trascende l’ordine delle essenze. In questo atto supremo, in cui senso e intelletto agiscono concordemente, in cui il secondo giudicando intuisce e intuendo giudica, l’apriori non ha luogo da nessuna parte. 5. In conclusione l’interpretazione rahneriana cerca di guadagnare l’accesso alla metafisica non al livello del terzo grado di astrazione, ma considerando il lumen intellectus originariamente come condizione di possibilità per possedere oggettivamente l’oggetto immediato della conoscenza umana: la quidditas rei materialis, dunque come condizione di possibilità della physica. «Il lumen intellectus è dato in primo luogo ed esclusivamente come condizione di possibilità della physica, della scienza che si occupa dell’ens mobile, delle quiddità del mondo materiale. Di conseguenza per provare che il lumen intellectus è l’apertura all’ambito metafisico, bisogna dimostrare che può essere la condizione di possibilità della physica soltanto se di fatto è questa apertura all’ambito metafisico» (p. 367). Con la negazione dell’intuizione intellettuale il problema della possibilità della metafisica imbocca una strada obbligata: se, nonostante quella negazione, si vuole mantenere la metafisica, questa potrà essere intesa soltanto nella guisa di una condizione di possibilità di qualcosa di indiscusso: nel nostro caso della physica dell’ens mobile. È quanto mai dubbio che l’Aquinate abbia inteso così la metafisica. 439
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La Physica e tutto il corteo delle altre scienze ricevono la loro fondazione epistemica da un sapere anipotetico che è tale nella misura in cui possiede un accesso proprio e diretto all’ens. D’altra parte, e Rahner è consapevole della difficoltà capitale che qui appare, una metafisica intesa solo come condizione di possibilità della fisica può non aver bisogno di andare oltre questa, oltre gli oggetti dell’esperienza sensibile e della conoscenza sensibile. Una metafisica di tal fatta potrebbe tranquillamente limitarsi a un’epistemologia della physica, la quale diventerebbe in definitiva la philosophia prima: «il sapere del “mondo” sarebbe la vera e totale metafisica» (p. 368). Il limite di questa nota non consente di seguire più approfonditamente il cammino speculativo di Spirito del mondo. L’apprezzabile intento di assegnare diritto di cittadinanza ai temi propri della filosofia moderna, quali l’uomo come interiorità, come essere presso se stesso mentre è presso il mondo, l’idea (peraltro da chiarire e da prendere con estrema cautela) che il conoscere nella sua essenza non sia orientato verso l’altro, bensì verso il conoscente stesso, ecc., ha condotto a scompensi interpretativi. Ciò in particolare nel terzo caso: perché se conoscere è divenire intenzionalmente l’altro in quanto altro, non potrà il conoscere essere orientato semplicemente al conoscente stesso. A questo proposito ci si trova dinanzi a due cammini che si separano: o il conoscere è elevarsi in qualità spirituale acquisendo le determinazioni delle cose, oppure è scoprire via via determinazioni insite nell’anima, e sarebbe allora morfologia e teoria evolutiva della psiche5. Note 1
Che l’idea di intuizione della linea Maréchal-Rahner sia esemplata su quella di Kant lo conferma il primo, scrivendo: «Imitando la definizione kantiana, che mi sembra precisa, adatta alle esigenze particolari della critica della conoscenza […] chiamerò “intuizione intellettuale” una conoscenza generale o particolare, in cui la materia, la forma e la realtà (sia effettiva, sia possibile) dell’oggetto rappresentato sarebbero ugualmente date proprio dall’a priori della nostra facoltà intellettiva», Au seuil de la métaphysique: abstraction ou intuition, Extrait de la «Revue Néo-scolastique de Philosophie», Février, Mai et Août 1929, p. 30 s. 2 Nel dettato dell’Aquinate a cui Rahner fa riferimento (S.Th., I, q. 84, a.7, ad 3: Deus autem, ut Dyonisus dicit, cognoscimus ut causam, et per excessum et per remotionem), l’excessus è da intendersi come anticipazione dell’intelletto agente oppure come procedimento di eminenza, la classica via eminentiae? 3 L’anticipazione, come del resto l’astrazione, è tipica dell’intelletto umano, in quanto specificamente differente da quello angelico e dalla condizione
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delle cose senza spirito. Nell’angelo non si dà intelletto agente, perché egli non ha bisogno di cercare i contenuti del sapere negli enti. L’oggetto primo della sua conoscenza è la sua propria essenza (che è intelligibile in atto) e mediante cui egli conosce ogni altra cosa, per cui l’angelo sta presso se stesso. A loro volta le cose non hanno intelletto e dunque non stanno presso se stesse ma presso l’altro (il conoscente). L’intelletto agente è dunque proprio di quegli enti che non sono né puramente spirituali, né puramente materiali, che non stanno completamente né presso se stessi, né presso un altro, ma che sono presso se stessi come aperti all’essere presso altri. 4 Sembra che nella prospettiva rahneriana rimanga un dislivello importante, quello per cui l’anticipazione, dapprima presentata come “apprensione” che abbraccia a priori tutte le possibilità di una forma-essenza, improvvisamente cambia natura e piano e si rivolge all’esse-esistenza. Il salto non è da poco, perché implica il passare d’un colpo dall’orizzonte categoriale della forma a quello trascendentale dell’esse, dando per acquisito quanto si voleva provare, ossia che l’intelletto agente non è necessariamente limitato al piano categoriale nella sua conversio ad phantasmata. 5 Per una critica nel complesso convincente della neoscolastica trascendentale e della sua dottrina della conoscenza, avanzata da un punto di vista rigorosamente fenomenologico, cfr. W. Hoeres, Critique of the Trascendental Metaphysics of Knowing: Phenomenology and Neo-scholastic Trascendental Philosophy, «Aletheia», n. 2, 1977, pp. 353-369.
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Annesso 4
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Ancora sull’intuizione intellettuale
Se l’intuizione fosse da intendere solo come rappresentazione immediata dell’oggetto singolare, sarebbe inevitabile concludere che essa è negata all’intelligenza umana. La conoscenza intellettuale astrattiva non vale come intuizione soprasensibile del singolo esistente, non coglie l’oggetto nella sua realtà individuale, come invece lo coglie l’intuizione sensibile. Kant allora non avrebbe avuto torto a sostenere: «La nostra natura è cosiffatta che l’intuizione non può essere mai altrimenti che sensibile, cioè non contiene se non il modo in cui siamo modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile è l’intelletto […] Queste due facoltà non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare»1. Tuttavia l’astrazione, pur impedendo l’intuizione intellettuale dell’individuale, non rende impossibile un’intuizione definita come «percezione diretta ed immediata del reale concreto», dove bisogna rilevare che “reale concreto” è diverso da “individuale”. Due aspetti sono implicati nella definizione: A) l’intuizione termina al reale concreto, B) l’intuizione è una percezione diretta ed immediata. A) L’intuizione intellettuale raggiunge il reale concreto nella forma di una conoscenza astrattiva che non è però conoscenza dell’astratto, la quale ultima è sempre generica e imperfetta, dipendendo dalla astrazione totale, non da quella formale. Naturalmente la conoscenza astrattiva coglie il concreto nelle sue ragioni universali, nelle quali è peraltro implicato il singolare, poiché esse sono forme di determinazione di cui l’ente concreto è il soggetto. Noi non raggiungiamo mai il singolare e il concreto se non attraverso l’astratto: solo a tale livello è possibile raggiungere le determinazioni intelligibili proprie di una determinata classe di oggetti, che si ritrovano in ciascun individuo. L’operazione astrattiva non si pone come nemica del concreto, bensì costitui443
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sce l’unico mezzo per liberare dall’esperienza sensibile gli oggetti intelligibili che il senso veicola ma non coglie. B) Quanto all’immediatezza bisogna rilevare che “immediato” non può significare “senza idea”, poiché se così fosse non vi sarebbe conoscenza. L’intuizione intellettuale si effettua senza discorso o ragionamento, non senza concetto o idea: l’intuizione astrattiva è un’intuizione eidetica. Il ricorso all’idea non si oppone al carattere diretto-immediato della percezione intuitiva, poiché nel dire a se stessa la realtà in un verbo mentale o concetto, l’intelligenza fa uno con la cosa conosciuta. Essa raggiunge immediatamente la cosa nel concetto che dice a se stessa: il concetto non è ciò che è dapprima conosciuto come un quadro mentale di cui ci si deve chiedere che cosa rappresenti e a che cosa rinvii, ma è ciò in cui e mediante cui l’intelligenza coglie la cosa2. Se si cade nella separazione fra l’oggetto mentale e la cosa, la conoscenza umana non può uscire da se stessa e gira a vuoto. Il paragone consueto fra intuizione intellettuale e intuizione visiva è per taluni aspetti ingannevole e va inteso solo in senso analogico. Mentre l’intuizione visiva è un aprirsi passivo all’oggetto individuale nell’immediata unità fra organo di senso e cosa conosciuta, l’intuizione intellettuale è una attiva dizione di un verbo mentale, proferendo il quale l’intelligenza coglie l’oggetto. Qui dunque essa svolge un compito attivo. Se ora ci riferiamo all’intuizione intellettuale dell’essere non come percezione della vivente densità di tutto ciò che esiste ma come avvicinamento e “prensione” dell’atto d’essere, con tale termine non si intende alludere ad una percezione assolutamente immediata e perfettamente dispiegata sin dall’inizio. Quanto ci insegna la vicenda della filosofia è che – nel corso di una riflessione lenta, distesa lungo secoli – alcuni filosofi sono giunti a discernere nell’ente il concetto di atto in virtù di cui esso è, e dunque l’idea di essere/actus essendi. Il soggetto conoscente sperimenta e apprende anzitutto l’ente e non l’atto d’essere, la cui nozione può rimanere implicita a lungo, senza svilupparsi forse neppure dinanzi ai giudizi del tipo “A è”. Tuttavia, una volta formulata, l’intelligenza non la dimentica più e può richiamarla e approfondirla in relazione all’esistenza più umile o più alta: come in ogni realtà umana, anche nell’intuizione dell’essere si dà progresso (o regresso). Sebbene C. Fabro non accolga che l’atto d’essere possa venire raggiunto come risultato di un processo intuitivo-astrattivo, non nega che la sua determinazione avvenga per gradi di riflessione e approfondimento dove opera ma non è sufficiente la sola astrazione: così egli parla di “intuizione implicita” (cfr. Partecipazione e causalità, Sei, Torino 1960, p. 63 s.). 444
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Note Critica della ragion pura, p. 94. Nella dottrina kantiana della conoscenza non vengono prese in considerazione l’astrazione dell’intelligibile dal sensibile e la stretta cooperazione del senso e dell’intelletto in essa. Ciò avvia la posizione di Kant a intendere il conoscere come un processo di unificazione e non di “visione”. 2 Su questi aspetti si veda la chiara posizione di Tommaso, S. Th., I, q. 85, a. 2: «Species intelligibilis se habet ad intellectum ut quo intellegit intellectus […] et sic species intellectiva secundario est id quod intelligitur. Sed id quod intelligitur primo, est res cuius species intelligibilis est similitudo». Cfr. anche De veritate, q. 4, a. 2, ad 3m. Nel linguaggio della filosofia dell’essere il concetto è puro segno formale, mezzo di conoscenza o termine in quo, non termine quod, ossia col concetto la conoscenza raggiunge immediatamente il suo oggetto senza l’intermediario di un altro oggetto colto anteriormente e per primo (termine quod). «Nec enim prius attingitur conceptus, et deinde objectum, sed in ipso immediate res cognita attingitur», Giovanni di san Tommaso, Cursus Theologicus, t. IV, ed. Vivès, Paris 1888, p. 94. Per ulteriori considerazioni su intuizione e astrazione cfr. Approssimazioni all’essere, pp. 53-55.
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Richiami sull’esperienza del Sé quale evento di mistica naturale
Dell’esperienza del Sé la sapienza indiana insegna la possibilità e le vie, sebbene tale esperienza non sia necessariamente legata a questa cultura, ma si presenti come un fatto universale, dipendente da un modo specifico di attività dello spirito umano in quanto umano, ossia di uno spirito in condizione corporea. La filosofia dell’essere di J. Maritain ha provveduto ad elaborare la natura dell’esperienza del Sé in un modo che tenta di condurci alla sua sorgente. Qui converrà riassumere per cenni lo studio a ciò dedicato, L’experience mystique naturelle et le vide (1938), senza pretendere di sostituirne la lettura1. Esso apre una strada nuova nella comprensione di un fenomeno complesso e sfuggente in merito al quale la riflessione filosofica contemporanea in occidente deve compiere notevoli passi avanti, uscendo dal già detto e ripetuto, recuperando una “scienza dell’anima” di cui manca in maniera crudele, e cercando di considerare nuovamente i modi e le forme dell’esperienza mistica nella sua pluriforme diversità e ricchezza senza incorrere sin dalla partenza in paraocchi scientistici2. Secondo Maritain la mistica naturale del Sé «ridotta al suo nucleo essenziale, sarebbe prima di tutto un’esperienza metafilosofica dell’esse sostanziale dell’anima mediante connaturalità intellettuale negativa o piuttosto annientante/nientificante» (p. 119 s. della trad. it.). Nell’esperienza del Sé si verifica una conoscenza sperimentale, notturna e oscura dell’esistere sostanziale dell’anima; ciò accade nell’atto dell’intelletto che tocca tale esistere procedendo à rebours, ossia che procede a spogliarsi e a eliminare da sé ogni oggetto di pensiero, ogni atto e forma. «L’anima si vuota assolutamente di ogni operazione particolare e di ogni molteplicità, e conosce negativamente, mediante il vuoto e l’annientamento di ogni atto e di ogni oggetto di pensiero venuto dal di fuori – negativamente ma a nudo, ma senza veli – questa
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meraviglia metafisica, questo assoluto, questa perfezione di ogni atto e di ogni perfezione che è l’esistere – il proprio esistere sostanziale» (ivi, p. 121). Lo spogliamento radicale da ogni oggetto e da ogni atto è insieme condizione e termine dell’esperienza. Mediante l’atto di abolizione di ogni atto, l’esse sostanziale dell’anima è portato dinanzi allo spirito in una esperienza di fruizione ineffabile: lo spirito esperimenta il proprio esistere in un atto nientificante, ossia abolente ogni altro atto. Nell’esperienza mistico-naturale in cui entra, il soggetto non conosce l’essenza dell’anima che gli rimane oscura (in omaggio alla tesi capitale della psicologia tomista, secondo cui l’anima incorporata non può conoscere direttamente e in modo intuitivo la propria essenza, ma solo indirettamente per riflessione sui propri atti), bensì la sua esistenza radicale e questo per via negativa – ossia procedendo in senso contrario all’inclinazione naturale delle facoltà, rivolte verso l’esterno. Nell’esperienza del Sé, tipicamente metafilosofica, si incontra una conoscenza per connaturalità intellettuale e per modo di nescienza (cioè mediante abolizione della conoscenza concettuale e delle determinazioni che le sono proprie), che è specificamente diversa dal conoscere quale accade nella teoresi filosofica, poiché la fruizione sperimentale e oscura di quell’esperienza si situa molto lontano da ogni intuizione eidetico-giudicativa, che costituisce il modo proprio con cui si elabora la metafisica. Forse le frequenti allusioni heideggeriane ad un “aldilà” della metafisica e della filosofia, che speculativamente parlando non può trovare esito, vanno intese come un rinvio all’esperienza del Sé che affascina il pensatore e gli fa intravedere il cammino di una “nuova filosofia” al di là della metafisica: una Uberwindung che però non è oltrepassamento omogeneo, ma viaggio verso un’altra sfera in cui l’interesse-guida non è la conoscenza obiettiva delle cose. L’esperienza del Sé si produce in una risalita alle sorgenti, ossia alla propria sorgente originaria in un movimento di indietreggiamento e di regressione, in cui risulta invertito il movimento spontaneo delle facoltà umane, connotate dall’estroflessione. In tale esperienza si fa avanti un desiderio molto profondo e radicato in modo indistruttibile nelle sorgenti dell’umano: «Il desiderio essenziale di ogni creatura di raggiungere le proprie sorgenti e il principio del proprio essere singolare» (“L’esperienza mistica naturale…”, p. 109). In questa prospettiva andrebbero comprese le frasi di Heidegger sul ritorno alle sorgenti del proprio esistere e sulla nostalgia che spinge verso il paese natale. Egli sottolinea che deve prodursi un cambiamento di direzione mediante cui l’anima tutta intera è collocata nella linea del suo nuovo sforzo. Occorre “conquistare” l’anima, conducendola al 448
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luogo della sua essenza, verso la prossimità dell’origine, perché all’inizio ciascuno è il più lontano a se stesso. Alla fine del viaggio, rientrati in noi, nel luogo della nostra propria origine – non è questa la cosa più difficile per l’uomo? – il Dasein abita presso se stesso, è dovunque a casa sua perché ha raggiunto il fondo del fondamento, abbandonando la casa degli essenti. Si tratta in ogni caso di un’esperienza forse rara ma non impossibile al soggetto umano: dunque qualcosa di naturale, nel senso che è qualcosa di aperto alle possibilità del soggetto e che non dipende da un intervento speciale della libertà e della grazia divina. Con il chiarimento preliminare dell’esperienza mistica naturale risaltano differenze e affinità con quella soprannaturale, nel senso che la mistica non è un’essenza univoca3. Affinità in quanto in entrambe si verifica la fruizione di un assoluto, essendo l’esperienza mistica riassumibile in generale nel fatto di valere come un’esperienza fruitiva di qualcosa di assoluto; differenze poiché tanto la prima è esperienza delle profondità dell’io, altrettanto l’altra lo è delle profondità di Dio, sotto la mozione della grazia e dello Spirito santo. Nella sua forma pura e compiuta l’esperienza del Sé è non ek-stasi ma en-stasi nell’uno e nel medesimo, unità, riposo e pace totali, fruizione dell’atto primo di esistere del soggetto mediante un atto volto al Sé; felicità della propria origine prima e della presenza di sé a sé. Nella pura unità dell’anima raccolta tutto è splendore naturale e nobiltà dell’esse dello spirito, che è luce a se stesso: il Dasein è la sua propria luce. È raro pervenire a queste vette di profondità, né è detto che Heidegger vi sia pervenuto (molto probabilmente invece Plotino). L’esperienza del Sé è inconcettualizzabile e ineffabile: può essere chiarita dall’esterno nell’atto di una deduzione metafisica, ma di per sé tende al silenzio e alla fruizione nell’isolamento radicale del soggetto nel proprio fondo più profondo. Ogni tentativo di esprimere l’esperienza nella misura in cui questa risveglia par surcroît le facoltà creatrici dell’anima (e allora questa si esprimerà o secondo un modo metafisico o secondo un modo poetico, più spesso forse nella combinazione dei due) sarà sentito dal soggetto come un tradimento almeno parziale della stessa: da qui i tentativi di dirla e di ridirla moltiplicandone le descrizioni, per fissare in un’espressione soddisfacente un’esperienza fuggitiva, che nel suo dileguarsi lascia nell’anima uno “scuotimento”, che essa cerca di esprimere. Da qui anche il ricorso al cammino poetante-pensante, alla ricerca di un al di là del linguaggio, per dire l’indicibile, che ha costituito la via di Heidegger dopo la Kehre.
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Note 1 “L’esperienza mistica naturale e il vuoto”, trad. it. in Quattro saggi sullo spirito umano nella sua condizione carnale, Morcelliana, Brescia 1978. Sul tema si veda anche il fondamentale volume L. Gardet, O. Lacombe, L’esperienza del Sé. Studi di mistica comparata, Massimo, Milano 1988. 2 Sulla questione dell’anima si possono vedere fra le ricerche recenti M. Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Casa editrice Le Lettere, Firenze 2003; e AA. VV., L’anima, in Seconda Navigazione. Annuario di Filosofia 2004, Mondadori, Milano 2004. 3 Ponendo a tema “Heidegger e l’ascesi del pensiero”, F. Volpi dedica con frutto alcune pagine del suo studio al rapporto fra Heidegger e la mistica (Micromega, n. 2/2000, pp. 235-257), senza peraltro sottrarsi al quadro consueto secondo cui mistica è solo mistica soprannaturale, ossia non considerando che esistono mistiche del Sé e in certo modo “mistiche senza Dio” (le potremmo chiamare mistiche a-tee nel senso letterale del termine, non antiteistiche, poiché lasciano indeterminato il rapporto con la trascendenza).
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La critica dell’ontoteologia
Per larga parte del suo itinerario di ricerca Heidegger ha cercato un accesso ad un pensiero “ultrametafisico”, impegnandosi a prepararne l’avvento: «Il pensiero a venire non è più filosofico, perché esso pensa in modo più originario della metafisica»1. Il modo in cui è stato inteso tale compito sembra averlo condotto a meditare sull’essenza della metafisica e la sua unità ancora impensata2, a pensare cioè l’essenza di un sapere o di una scienza, più che a pensare direttamente l’essere. Heidegger ha cercato un accesso all’essere attraverso la storia della metafisica nel tentativo di decostruirla e mediante tale decostruzione raggiungere un pensiero più alto e originario di quello metafisico, una ultrametafisica. Il cominciamento è stato perciò attuato a partire da filosofie e sistemi metafisici, piuttosto che a partire dall’essere reale. A questa posizione sembra collegarsi un tema su cui l’influsso heideggeriano è stato innegabile: la costituzione ontoteologica della metafisica e la critica frontale che lungo questa direttrice veniva portata alla filosofia prima. Una critica che ha segnato infelicemente un’epoca, rendendo il termine “ontoteologia” qualcosa da cui si fugge come dinanzi ad un appestato; per molti l’ontoteologia rappresentava un nucleo tematico ormai passato in giudicato, e su cui non valeva la pena di esercitare la meditazione. Se ci rivolgiamo al modo con cui Heidegger intende il problema, apprendiamo che «la costituzione onto-teologica della metafisica deriva dal prevalere della differenza, che porta l’essere come fondamento e l’essente come fondato-fondante-giustificante a differire l’uno dall’altro e a volgersi l’uno verso l’altro»3. Poche righe prima si sostiene: «Poiché l’essere appare come fondamento, l’essente è il fondato, l’essente supremo però è il fondante che giustifica nel senso della causa prima». Tali espressioni di delicata interpretazione in ragione del dettato alquanto oscuro sembrano sostenere che, affinché vi sia costituzione ontoteologica della metafisica, risulti 451
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necessario un doppio rapporto incrociato di fondazione, in cui tanto l’essere quanto l’essente sono fondamento e perciò – sembra – si fondano reciprocamente (ma in che modo? Esiste un solo modo di fondare o diversi? Si tratta qui di fondazione concettuale, o di una fondazione secondo ragion sufficiente e causalità efficiente? Pare difficile estrarre una risposta univoca dai testi). Fa comunque parte della costituzione ontoteologica della metafisica una concezione di Dio e di “come il dio entra nella filosofia” che conduce a una causa massimamente originaria, intesa quale causa sui, che per Heidegger costituisce il nome supremo del dio della filosofia: «Tale è il nome che si addice al dio della filosofia. A questo dio l’uomo non può né rivolgere preghiere né offrire sacrifici» (p. 35). Il concetto di causa sui era già stato introdotto qualche pagina prima: «L’essere dell’essente è rappresentato fino in fondo nel senso del fondamento solo come causa sui. Con questa espressione si indica il concetto metafisico di Dio» (p. 28). L’ontoteologia quale risulta dall’elaborazione heideggeriana esibisce i seguenti caratteri senza di cui non sarebbe possibile individuare un pensiero come metafisico: 1) deve verificarsi una fondazione incrociata di essere e di essente; 2) il dio che entra in filosofia si determina a partire dal concetto di essente, eventualmente come l’essente supremo; 3) il dio come essente supremo e causa prima esercita una fondazione causale efficiente di tutti gli essenti di cui rende ragione; 3) il dio dovrà presentarsi come causa sui, ossia come l’essente massimamente fondatore perché massimamente fondato da se stesso. A questi elementi si aggiunge il noto tema dell’obliata differenza ontologica nella storia della metafisica ontoteologica. Pervenuti a questa elaborazione del tema, legittime risultano le domande: l’insieme di questi elementi è rintracciabile effettivamente nella vicenda della metafisica? Oppure si tratta di caratteri accostati in maniera alquanto arbitraria di modo che raramente se ne trova un riscontro effettivo? Sulla differenza ontologica fra ens ed esse già si è detto: qui si può ribadire che tanto la filosofia dell’essere quanto il neoplatonismo antico e moderno non sono incorsi nell’equivoco di pensare la metafisica restringendola alla sola riflessione sull’ente dimenticando l’essere. La tesi heideggeriana sull’oblio dell’essere da parte della metafisica occidentale risulta insostenibile almeno per tali due grandi filoni, i massimi della vicenda della metafisica. Per la filosofia dell’essere, che si fonda sulla differenza ontologica ens-esse, il compito è la conoscenza dell’esse, non solo dell’ens, secondo un cammino che conduce all’Esse ipsum per se subsistens. E per il neoplatonismo di un Porfirio l’Uno è la realtà di un essere esistente sopra l’en452
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te e la sostanza: Uno che dunque non è né ente, né sostanza, ma l’essere che è al disopra dell’ente. Che dire in rapporto al Dio causa sui? In linea di massima questo problema sembra riguardare taluni autori della metafisica moderna, in specie Spinoza e in certo modo Cartesio. In questo il tema è affermato nelle Meditazioni sulla filosofia prima nelle risposte alle prime e alle quarte obiezioni e negato invece in altri passaggi: «Non esiste nessuna cosa della quale non si possa indagare quale sia la causa per cui esiste. Ciò infatti può essere indagato anche per Dio stesso: non perché Egli abbisogni di una causa per esistere, ma poiché la stessa immensità della sua natura è la causa o ragione per cui non abbisogna di nessuna causa per esistere»4. La definizione di apertura dell’Ethica suona: «Intendo per causa di sé ciò di la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente» (Per causam sui intelligo id, cuius essentia involvit existentiam, sive id cuius natura non potest concipi nisi existens). Ora la parola “causa” è ambigua, potendosi intendere tanto come causa efficiente quanto come ragion d’essere (Cartesio infatti nel brano citato parla di causa o ragione schierandosi per il secondo significato di causa); se è assurdo sostenere che Dio sia causa efficiente di se stesso, come se si producesse o si creasse eternamente da se stesso nell’identità di causa ed effetto, non è assurdo sostenere che Dio è infinita (e per noi misteriosa) ragion d’essere del proprio esistere. Dio non è causa efficiente di se stesso neppure nelle processioni trinitarie, nelle quali egli è principio: la causa efficiente introduce una dipendenza nell’essere che non si addice a Dio. Se la frase di Cartesio citata esclude che Dio sia causa efficiente di se stesso, anche quella di Spinoza sembra sostenere che Dio è ragion d’essere del proprio esistere, nel senso che nell’essenza divina è implicata l’esistenza. Rimane perciò alta l’approssimazione con cui Heidegger ha parlato del Dio causa sui come il solo della metafisica e dell’ontoteologia: oltre a risultare totalmente infondata come tesi coestensiva all’intera storia dell’ontoteologia, lascia indeterminato il senso con cui Heidegger intende il termine causa. In questi delicati problemi si può incorrere nell’equivoco di confondere la causa sui con l’aseità (a se), il carattere più geloso della trascendenza divina. Dire che Dio è a se significa negarne la dipendenza ab alio e dunque affermarne l’infinita autonomia e trascendenza. Essere a se significa non avere causa efficiente da cui essere originati5. In filosofia il nome per eccellenza di Dio è Esse ipsum, non causa sui. Con questa determinazione di Dio si apre la strada per intendere la 453
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verità della creazione, completamente mancante nella pagina heideggeriana, e che significa la produzione totale di tutti gli enti col loro essere da parte dell’Esse ipsum. In effetti in Heidegger Dio è pensato non come l’Essere ma come indefettibile bisogno dell’essere (Notschaft des Seyns, cfr. Beiträge zur Philosophie), e mai la sua essenza può essere determinata mediante l’essere6, probabilmente perché l’essere non è Dio e non è infinito. Dio forse si manifesta nell’essere, mai come l’essere stesso. Mancando l’idea di creazione si può giungere al dubbio concetto di una fondazione reciproca fra essere, ente ed ente supremo: l’ontoteologia appunto, intesa nella problematica versione che ne offre Heidegger. Note 1 Lettera
sull’“umanismo”, Segnavia, p. 314. Così si esprime il saggio La costituzione onto-teo-logica della metafisica, «Aut-Aut», gennaio-aprile 1982, p. 25. 3 Ibidem, p. 35. 4 Meditazioni sulla filosofia prima. Risposta alle seconde obiezioni, a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, p. 158. 5 Fra i vari Scheibler e Suarez si opposero all’applicazione a Dio del termine causa sui, chiarendo il senso corretto dell’a se: «Est, inquam, Deus ens a se, non id intelligendo de positivo influxu, per quem Deus sibi dederit esse […] sed intelligendo id negative» (Scheibler, Opus Metaphysicum, Giessen 1617, p. 527). E Suarez: «Simpliciter loquendo, non potest demonstrari a priori Deum esse, quia Deus non habet causam sui esse per quam demonstretur» (Disp. Metaph, XXIX, sez. 3). Mentre la dimostrazione a posteriori risale dall’effetto alla causa, quella a priori discende dalla causa data all’effetto: discesa impossibile per dimostrare a priori Dio per il fatto che non ha causa. 6 «Essere e Dio non sono identici, e non cercherei mai di pensare l’essenza di Dio mediante l’essere. Alcuni sanno che io vengo dalla teologia e che ho conservato per essa un vecchio amore, e che un poco me ne intendo. Se io dovessi scrivere una teologia – e qualche volta ne ho voglia – in essa non dovrebbe apparire il termine “essere”. La fede non ha bisogno dell’essere. Se lo usa, non è già più fede […] Credo che l’essere non può mai essere pensato come essenza e fondamento di Dio», Seminäre, in Gesamtausgabe, vol. 15, Klostermann, Franfurt a. M., p. 437. 2
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Annesso 7
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Che cosa è nichilismo? Guardando verso l’enciclica Fides et ratio
Mi sono chiesto se convenisse inserire questo annesso che fa riferimento ad un’enciclica papale, un testo cui in genere non si assegna carattere filosofico. Mi hanno persuaso a farlo due fattori: l’importanza che la Fides et ratio (1998) assegna alla filosofia e alla metafisica; la sua diagnosi sul nichilismo, certo molto succinta, ma anche vicina – così sembra – alla mia elaborata in Il nichilismo teoretico e la “morte della metafisica” (1995) e ulteriormente in Terza navigazione (1998). Che, nonostante i diversi percorsi metodologici e contenutistici di una ricerca di filosofia e di un documento papale, si pervenisse ad una diagnosi analoga mi è parso significativo. La Fides et ratio si presenta come un documento di considerevole ampiezza, che consente molteplici ingressi e strati di lettura. Senza alzare la voce, essa introduce: 1) un profilo di ragione differente da quella scetticheggiante e debole attualmente diffusa in numerosi ambiti e scuole filosofiche; 2) una sollecitazione nei confronti della filosofia, affinché recuperi la propria vocazione e riprenda il suo posto alto nella cultura dei popoli e dei singoli. Nel contempo si pongono le basi per una diagnosi e un superamento del nichilismo, su cui ci soffermiamo brevemente1. Accaparrato dal confronto secolare con le moderne culture dell’azione, in specie il marxismo, è capitato che il pensiero cristiano abbia meno indirizzato lo sguardo verso il nichilismo, segnando un certo ritardo in proposito. Esso ne ha avvertito la sfida, l’ha temuto soprattutto sul piano morale, ha cercato di esorcizzarlo tenendolo a distanza, raramente l’ha guardato in volto. Fides et ratio inizia a colmare il ritardo accumulato, offrendo quella determinazione di nichilismo (“che cosa è nichilismo?”) che la filosofia mondiale ha cercato con inconsueto impegno lungo circa 150 anni, senza ultimamente riuscire a venirne a 455
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capo. Per l’intendimento di questo evento dobbiamo cogliere nello scarno dettato dell’enciclica i modi con cui essa offre l’essenza del nichilismo. Si può aggiungere che i maggiori esponenti del pensiero cristiano nel ’900 hanno in parte posto le basi per l’intendimento del carattere del nichilismo, senza però procedere oltre, forse pensando che sarebbe stato sufficiente il bastione dell’etica. A questa carenza è conseguito che la linea filosofica dominante in proposito sia stata quella impersonata da altri pensatori, in specie Nietzsche ed Heidegger. Il problema viene dapprima toccato nel n. 46. «Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio». Successivamente la questione è ripresa ai nn. 81, 91 e soprattutto al n. 90. Facendo riferimento all’orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere, l’enciclica si riferisce alla lettura nichilista, «che è insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo, prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell’umanità dell’uomo e della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l’oblio dell’essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell’uomo». Nell’epoca del nichilismo accade la fine del tempo delle certezze, sostituito dall’assenza di senso. Le due espressioni si completano a vicenda. Mentre la prima, acuta nel cogliere la genesi del nichilismo dal razionalismo e dalla sua crisi, presenta alcuni caratteri sintomatici non sempre necessariamente collegabili al nichilismo (il riferimento all’effimero), la seconda raggiunge la natura del nichilismo, in specie di quello teoretico, tanto spesso preliminare e più originario di quello morale. Quattro sono basilarmente i nuclei in cui la Fides et ratio fa consistere il carattere del nichilismo: crisi dell’idea di verità, oblio dell’essere, abbandono della conoscenza reale e oggettiva, negazione dell’umanità dell’uomo. Si potrebbe dire che vi è nichilismo (teoretico) quando la luce dell’intelletto speculativo non si rivolge più all’essere, onde gli uomini e le cose non sono più ordinate secondo la loro natura e valor d’essere. Il nucleo speculativamente originario, a cui è possibile far risalire 456
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tante forme di nichilismo (dapprima teoretico, successivamente e con modalità specifiche pratico), è individuabile in una struttura negativa compatta, entro la quale si danno la mano e si sostengono vicendevolmente alcuni eventi, in cui è agevole ravvisare altrettante negazioni: a) una profonda frattura esistenziale fra uomo e realtà, di cui l’antirealismo gnoseologico è il più decisivo riflesso teoretico; b) oblio/coprimento dell’essere, per cui lo scopo sempre e nuovamente cercato dalla filosofia non è (più) la conoscenza dell’essere, che le sembra precluso. Eventualmente la conoscenza che sfugge alla filosofia potrà venire surrogata da quella della scienza o dalla volontà di potenza; c) vittoria del nominalismo sul realismo nel quadro di un diffuso antirealismo, in cui in genere si opera la transizione dal riferimento all’essere a quello al testo, nel passaggio da una ontologia metafisica ad una “indiretta” di altro stampo. Il linguaggio fondamentale della filosofia non è più ravvisato in quello della metafisica ma in quello delle scienze, o nell’asse ermeneutico volto a comprendere testi e perciò al massimo entro una seconda immediatezza; d) tentativo di fare a meno o di trasformare il concetto di verità attraverso una mano parricida levata contro l’idea di verità come conformità fra il pensiero e l’essere. Nel nucleo compatto del nichilismo accade una sorta di annientamento o dissoluzione dell’oggetto, dall’idealismo considerato una produzione inconscia dell’Io. I colpi di sonda del testo, comparati con alcune intuizioni di Nietzsche e di Heidegger, trasportate però in un altro orizzonte di pensiero, aiutano a pensare l’essenza postmetafisica e postcristiana del nichilismo, che include un deciso antinomismo, di cui è segno notevole il diffuso rifiuto e talvolta perfino l’odio per la lex naturalis; nonché una comprensione non più (teo)fanica, ma muta dell’essere e del cosmo. L’uomo, impegnandosi a sopravvivere in un cosmo ostile, sviluppa in se stesso uno spirito anticontemplativo e un corrispondente attivismo intramondano. Se eclisse del carattere “fanico” o rivelativo dell’essere e atteggiamento anticontemplativo fanno circolo, la ricerca, tanto spesso oggi praticata, di un baluardo contro il nichilismo individuato nell’etica rischia di valere come un diversivo. L’etica non può durare a lungo, quando sia compromesso lo spazio della verità e del senso. La potenza nichilistica del nucleo, in cui si sommano frattura fra uomo e realtà, oblio dell’essere, antirealismo, crisi dell’idea di verità, è alta perché, portando sull’originario, riverbera indefinitamente i suoi effetti in tante direzioni, fra cui la questione dell’essenza, a cui la tradizione filosofica ha attribuito un rilievo in ordine alla comprensione dell’intero e dell’esistenza. Vi è infatti un nichilismo che stima inconsistente, mera convenzione linguistica, flatus vocis, il concetto di essen457
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za. Non secondario si presenta perciò l’invito di Fides et ratio a non arrestarsi a come si comprende e si dice nel linguaggio la realtà, ma a proseguire verificando le possibilità della ragione di scoprire le essenze (cfr. n. 84). Note 1
Per uno sviluppo assai più dettagliato del tema rinvio a V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, Città Nuova, Roma 20022, (cap. III), da cui traggo sintetizzando.
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Indice dei nomi
Adorno T. W., 84, 92n Agostino (santo), 220, 222, 237n, 342, 354, 355, 363, 364, 374n, 375n, 419 Albert H., 143n, 237n Alberto Magno (santo), 413 Anassagora, 306n, 351 Anassimandro, 56, 183 Angelino C., 208n Apel K. O., 218, 224, 237n Aquinate : vedi Tommaso d’Aquino Aristotele, 18, 33, 49, 52, 69, 74, 77, 80, 91n, 98, 100, 122n, 139, 141, 143n, 187, 188, 204, 208n, 210n, 212n, 213n, 220, 222, 252, 256, 261n, 282, 290n, 336, 342, 347n, 348n, 352-356, 358, 360, 370-375n, 378n, 402 Avenarius R., 281 Avicenna, 76, 356, 374n, 376n Auer J., 422n Ayer A. J., 278, 291n Balbo F., 249, 261n, 314, 326n, 378n, 421n, 422n Balthasar H. U., 376n Bañez D., 92n Barth K., 422n Bauer B., 22, 23, 25n Baur F. C., 63n Bauman Z., 217, 237n Baumgarten A. G., 122n Bausola A., 92n Beierwaltes W., 214n, 375n Bergson H., 11, 95, 109, 112-114, 121n, 124n
Berkeley G., 37 Benn G., 14, 391, 397n Berti E., 204, 208n, 213n, 326n, 344, 348n, 376n, 378n Boezio S., 297, 384, 397n Boncinelli E., 59n Bontadini G., 207, 369, 377n Brandes G., 169n Brianese G., 89n, 181n, 454n Bridgman P. W., 147n Brindisi F. A. (da), 77 Bultmann R., 60n Cacciari M., 15 Camus A., 14 Carnap R., 45, 46, 98, 148n, 265266, 268, 278-282, 286, 291n, 340, 404 Cassirer E., 208n Cartesio R., 35, 50, 54, 61n, 65-67, 81, 85, 89n, 96, 97, 110, 116119, 237, 247, 261, 266, 271, 272, 281, 331, 365, 405, 407, 413, 453 Centi T., 373n Chesterton G. K., 403 Chevalier J., 124n Chiodi M., 256, 262n Cioran E. M., 62n, 305, 307n Colli G., 143n, 152 Comte A., 13, 233, 265, 278, 303, 401 Condorcet M. J., 336 Costa F., 121n Cristofolini P., 89n Croce B., 91n, 232 Cusano N., 122n, 220, 237n
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Daniele, 345 Darwin C. H., 155, 229 Davidson D., 61n, 217, 243, 259n, 377n Dell’Asta A., 91n Del Noce A., 85, 92n, 93n, 170, 178, 180n, 181n, 406, 417 Derrida J., 35, 61n, 217, 377n Destutt de Tracy A. L. C., 392 Diels H., 209n Dilthey W., 225, 239, 242 Dostoevskij F., 13, 37, 168n, 169n, 408, 422 Dummett M., 265, 267, 274, 288n, 289n, 290n, 346n Eckhart, 214n, 375n Einstein A., 336 Eliade M., 302 Engels F., 56, 62n, 305n Epicuro, 399 Eraclito, 9, 358, 399 Eriugena S., 77, 214n Esposito R., 378n Fabris A., 24n, 373n Fabro C., 85, 89n, 92n, 93n, 169n, 209n, 327n, 374n, 434, 444 Fano G., 121n Feuerbach L., 86, 171, 305n, 400 Fichte J. G., 12, 13, 24n, 180n, 181n, 201, 237n, 301 Filone, 360 Finance J. (de), 147n Fine J., 61n Forest A., 213n, 359 Fornari G., 327n Foucault M., 35, 392, 397n Frege G., 42, 43, 46, 265, 266, 270, 274, 277, 287, 290 Freud S., 14 Gadamer H. G., 42, 60n, 186, 208n, 209n, 239, 245, 250-251, 259n, 262n, 340
Gaetano (Tommaso De Vio), 136 Galilei G., 336, Galli C., 30, 208n Gardet L., 211n, 450n Garin E., 180n Garrigou Lagrange R., 147n Gentile G., 20, 31, 35-36, 45, 75, 85, 98, 145n, 151, 158, 162, 170178, 180 e n, 181n, 298, 299, 315, 366, 380, 406, 411 Gentile M., 341, 369, 378n Geyser J., 147n Gilson E., 76, 77, 90n, 147n, 208n, 214n, 346n, 363, 372 Gioberti V., 180n Giovanni (santo), 251, 252 Giovanni Damasceno (santo), 376n Giovanni di san Tommaso, 38, 39, 58n, 92n, 144n, 146n, 326n, 434, 445n Girard R., 322 Goethe J, W., 393 Gomez Davila N., 25n Gregorio Nazianzeno, 363 Gregorio Nisseno, 363 Greisch J., 240 Gruppi L., 305n Guardini R., 304 Habermas J., 17, 45, 217-233, 237n, 238n, 245 Hadot P., 375n Hartmann N., 55 Hegel G. W. F., 9, 15, 38, 45, 57, 60n, 65, 68, 69, 77, 79-82, 8588, 91, 119, 143n, 158, 162, 166, 170, 172, 201, 203, 212n, 219, 237n, 240, 295, 302, 303, 305 e n, 310, 334, 335, 362, 365, 389, 406, 407, 411, 415, 422, 433 Heidegger M., 10-12, 14, 16, 20, 23, 29, 31-36, 42, 45, 46, 54, 55, 58n, 60n, 62n, 92n, 98, 108, 120, 155, 162, 168n, 169n, 175,
460
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Intyre (Mc) A., 314, 343 Isaia, 420 Ivaldo M., 24n Jacobi F. H., 12, 13, 24n, 180n Jaia D., 45, 170, 366 Jakobson R., 52 Jean Paul, 12, 13, 24n Jaspers K., 60n, 300 Jonas H., 425, 428n Jünger E., 14, 18, 29-31, 58n, 207
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176, 180, 183-215, 232, 239, 240, 242, 244-246, 248, 259n, 262n, 271, 315, 339, 350, 351, 358, 359, 362, 380, 396n, 404, 414-416, 422n, 433, 434, 448454, 456, 457 Heine H., 201, 212n, 414, 422n Hesse H., 14 Hoeres W., 441n Horkheimer M., 404, 421n Husserl E., 20, 35, 71, 96, 97, 109, 114-119, 121n, 125n, 240, 242, 262, 367, 402, 421n
Kafka F. 14 Kant I., 10, 13, 35, 37, 42, 44, 60n, 74, 77, 78, 81, 96, 97, 102, 103, 105, 109, 110, 113, 118, 120, 121n-124n, 135, 136, 142, 145n147n, 162, 164, 170, 203, 204, 208n, 209n, 219, 226, 229, 230, 235, 237n, 239, 247, 265, 266, 268, 271, 289n, 301, 317, 356, 362, 365, 380, 405, 408, 413, 433-436, 440, 443, 445 Kelsen H., 298, 306n Kierkegaard S., 60n, 61n, 67-69, 8588, 165-167, 169n, 201, 317, 323, 326, 359, 382, 386, 396n, 397n, 410 Kojève A., 305n Korn E. R. (pseudonimo di H. Schmitz), 198-199, 211n
Krausz M., 259n Kuhn Th. S., 337, 346n Lacombe O., 211n, 450n Lalande P. A., 105 Laporte J., 406 Leibniz G. W., 11, 24n, 33, 54, 136, 137, 145n, 146n, 147n, 212n, 220, 237n Leonardo da V., 11 Lévinas E., 36, 38, 84, 312, 363, 380, 387, 396n Lombardo-Radice G., 145n Lotz J. B., 212n, 410 Löwith K., 25n, 30, 93n, 208n, 212n, 306n, 307n, 371, 378n, 390, 397n, 402, 421n, 422 Lutero M., 204, 411 Mach E., 281 Malebranche N., 85, 93n, 102, 417 Manacorda G., 61n Marassi M., 433 Marcel G., 334, 345n Marconi D., 289n Maréchal J., 103, 433, 434, 436, 440n Marion J. L., 363 Maritain J., 59n, 93n, 96, 97, 121n, 135, 145n, 169n, 210n, 292n, 304, 334, 345n, 359, 373n, 389, 397n, 447 Marsonet M., 289n Marx K., 14, 57, 80, 85, 86, 119, 158, 180n, 201, 219, 248, 305n, 366, 400, 401 Mendista E., 237n Metz J. B., 379, 396n Montale E., 57 Montinari M., 152 Moore G. E., 265 Neurath O., 282 Newton I., 336 Nicolas J. H., 122n
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Nietzsche F., 13, 14, 20, 22, 24n, 29, 31-36, 42, 44, 45, 54, 56, 57, 60n, 85, 98, 109, 111, 112, 124n, 151-185, 201, 209n, 212n, 229, 232, 238n, 244-246, 248, 260n, 293, 297, 305n, 306n, 310, 314, 315, 321-323, 326, 366, 380, 390-392, 396n, 400, 401, 405, 408, 410, 417, 422n, 456, 457 Nygren A., 323 Ockam G., 59n Olgiati F., 370, 378n Omero, 268 Ostwald W., 279 Padovani U., 370, 378n Pareyson L., 54, 239, 240, 245, 253, 259n, 315 Parmenide, 39, 49, 67, 69, 189, 356358, 363 Pascal B., 62n, 85, 93n, 164, 387, 388, 417 Paulson St. L., 306n Peirce Ch. S., 242 Pera C., 429n Percivale F., 143n Pico della Mirandola G., 237n, 396 Pieper J., 304, 306n, 307n Pirotta A.M., 59n, 60n Platone, 19, 44, 77, 92n, 98, 102, 103, 121n, 122n, 154, 158, 169n, 208n, 209n, 213, 237n, 294, 318, 351-357, 360, 370, 371, 374, 399, 402 Plotino, 19, 40, 77, 214n, 237n, 363, 371, 449 Plutarco, 363 Poincaré H., 281 Popper K. R., 39, 42, 43, 60n, 143n, 232, 291n, 318, 326n, 335, 337, 340, 347n Poppi A., 421n Porfirio, 363, 375n, 452
Possenti V., 345n, 373n, 375n, 397n, 458n Premoli P., 377n Proclo, 40, 214n Putnam H., 51, 265, 267, 270-271, 288n, 289n Quine W. V. O., 265-270, 277, 279, 286-287, 289n, 291n Rahner K., 103, 122n, 379, 433, 440 Ratzinger J., 378n, 415, 422n Reale G., 374n Reichenbach H., 266 Riccardo di san Vittore, 384, 397n Ricoeur P., 14, 60n, 239, 242, 245, 253-262, 380, 396n Riconda G., 263n Rorty R., 35, 51, 60n, 217, 218, 224, 243, 260n, 377n Rosmini A., 85, 93n, 417 Rousselot P., 58n, 433 Ruge A., 86 Russell B., 46, 265, 266, 281 Sansonetti G., 24n Sartre J. P., 14, 142, 148n, 312, 389, 421n Scheibler J., 454n Scheler M., 323-325 Schelling F. W. J., 11, 53, 54, 82, 83, 91, 92n, 176, 237n, 247, 309, 362 Schleiermacher F. D. E., 239 Schmitt C., 55 Schmitz H., 91n, 211n Schopenhauer A., 44, 54, 122n, 158, 162, 164, 168n, 176, 203, 366 Schwarz B., 377n Seifert J., 377n Sellars W., 272 Seneca, 62n Severino E., 58n, 215n, 291n Silesio A., 212n, 422n Socrate, 13, 62n, 98, 158, 169n, 396
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Tanzella-Nitti G., 59n Taubes J., 63n, 301, 306n Tolomeo, 336 Tommaso d’Aquino (santo), 39, 48, 59n, 76, 77, 80, 88, 92, 98-100, 101, 117, 122n, 128, 132, 134, 139, 143n, 145n, 147n, 166, 187, 205, 209n, 214n, 220, 222, 232, 237n, 251, 252, 277, 292n, 306n, 314, 342, 347n, 352-353, 356-360, 363, 364, 373n-377n, 422n, 429, 433, 435, 436, 439, 440n, 445n
Toynbee A., 303 Trendelenburg F. A., 81 Tresmontant Cl., 372, 378n Treves R., 306n Turgenev I. S., 13, 24n Valgimigli M., 354 Vannini M., 450n Vattimo G., 35, 242, 244, 246, 261n, 290 Verra V., 24n Vico G. B., 85, 93n, 417 Vigna C., 58n, 311, 326n Volpi F., 24n, 25n, 122n, 204, 450n Weber M., 14, 186, 233 Whitehead A.N., 281 Wittgenstein L., 42, 43, 46, 87, 265, 266, 268, 273, 276, 278-280, 291n, 292n, 340, 405 Wolff Ch., 77, 122n, 137, 147n, 356 Zoerle A., 433
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Soloviev Vl., 81, 82, 91n, 319, 326n, 417 Spaventa B., 45, 366 Spengler O., 14 Spiazzi R., 144n Spinoza B., 12, 237n, 319, 365, 415, 453 Stirner M., 13, 201 Strauss L., 208n, 371, 378n, 421n Strumia A., 59n Suarez F., 356, 454n
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