Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce 8815068295, 9788815068293

Nell'inconscio umano la voce costituisce una forza archetipica: immagine primordiale, dotata di un potente dinamism

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Italian Pages 160 [145] Year 2000

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Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce
 8815068295, 9788815068293

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Corrado Bologna Flatus vocis Metafisica e antropologia della voce

il Mulino Intersezioni

Intersezioni 103.

A Giorgio, alla sua voce viva.

Corrado Bologna

Flatus vocis Metafisica e antropologia della voce

il Mulino

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attivi­ tà della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: http://www.mulino.it

ISBN 88-15-06829-5

Copyright © 1992 by Società editrice il Mulino, Bologna. Nuova edizione 2000. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Indice

Prefazione, di Paul Zumthor Ventanni dopo Nota al testo

p.

vn XI 15

PARTE PRIMA: METAFISICA DELLA VOCE

I. II. III. IV. V. VI. VII. V ili.

Voce, Parola, Linguaggio La voce del Silenzio La voce d’Amore La Voce s’incrina L’autorità della Voce Il Nome impronunciabile La voce del Corpo e le passioni dell’Anima La Voce che feconda

23 29 35 41 47 55 61 73

PARTE SECONDA: ANTROPOLOGIA DELLA VOCE

IX. X. XI. XII. XIII. XIV.

La voce (in)naturale La voce da salotto La voce dal pulpito La voce malata / la voce che sana Il diritto alla voce La voce della tecnica

Nota bibliografica

89 101 109 117 127 131 139 V

Prefazione

Devo al caso fortunato di un incontro personale la conoscenza, alcuni anni orsono, dell'attività di ricerca e dei lavori di Corrado Bologna sulle funzioni della voce umana. Mi interessavo allora di tradizioni popolari orali, come si trovano espresse nei racconti e soprattutto nelle canzoni. Corrado Bologna mi fece avere una versione provvisoria del saggio qui pubblicato. La lettura fu oltremodo illumi­ nante: mi consentì di dare ordine ad alcune mie idee, ancora poco sviluppate, e mi fece comprendere la portata rilevante di una distinzione fra oralità e vocalità della quale io stesso cominciavo ad intravedere il bisogno. Definisco «oralità» il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio; «vocalità» l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio. La specificità della seconda, Xordine del vocale, costituisce l'og­ getto del lavoro di Corrado Bologna. A lungo ignorata dagli storici, attenti quasi esclusivamente ai documenti scritti, l'importanza del ruolo giocato dalla voce nella conservazione delle società oggi non viene più contestata. Ciò che all'interno di un gruppo sociale si definisce come l'insieme delle sue tradizioni orali costituisce in realtà una trama di scambi vocali legati a comportamenti più o meno codificati, la cui funzione primaria è di assicurare la continuità di una certa percezione della vita, di un'esperienza collettiva, senza la quale l'individuo si troverebbe abbandonato ai rischi della propria solitudine. Questo ci appare evidente nel caso di civiltà arcaiche o di culture marginali del mondo contempora­ neo. Ci è più difficile invece riconoscere che la stessa cultura occidentale, razionale e tecnologica, di questo scorcio del secolo XX, è anch'essa impregnata di tradizioni orali e faticherebbe a sopravvivere senza l’opera della voce. VII

Prefazione

Fino a non molto tempo fa, il ruolo della voce nell’esistenza degli individui e dei gruppi veniva percepito e definito sotto l’aspetto dell’oralità. Folldoristi, etnologi, critici, in relazione al contesto in cui si situavano, concepivano ogni discorso orale come radicalmente diverso da forme più nobili di espressione, al quale esso era logicamente e storicamente subordinato. Questi ricercatori pensavano l’oralità in maniera negativa, contrapponendola alla scrittura. In tal modo, essi evitavano candidamente di confrontarsi con un problema epistemologico che dall’inizio degli anni ’80 è divenuto impossibile eludere. Luogo di articolazione delle parole e delle frasi, la voce ne travalica, con tutta la sua potenza esistenziale, la materialità e il significato. Nessuno vuole negare che la parola sia l’espressione principale della vocalità; ma essa non è la sola, né forse quella che ha radici più profonde. Il bambino piccolo non parla, ma quali significati è in grado di comunicare attraverso le semplici modulazioni della propria voce, cui rispondono, più che le parole, le modulazioni della voce di sua madre! La voce è suono. H suono è l’elemento più sottile della materia percettibile. Nella storia di ciascuno di noi, come nella nostra storia collettiva, fu proprio esso, in origine, il luogo di incontro dell’universo e dell’intelligenza. Carica di questa esperienza antica, interiorizzata, la voce, in quanto volontà di dire, è volontà di esistere. In essa un’assenza diventa presenza, e capta le reti di messaggi diffusi attraverso il tempo e lo spazio. La voce, prima di manifestarsi ed essere percepita, è quasi dissimulata nel silenzio del corpo. D corpo è la sua matrice; in ogni istante essa può nascere; ma, contrariamente a noi, in ogni istante può ritornare a tale matrice, e ritrovarvi l’energia per una vita ulteriore. Sicché, a prestarle ascolto, l’orecchio accorto sente risuonare in essa una sorta di respiro prenatale, l’eco attutita di una profondità inimmaginabile ove nessuna rottura separa ancora le parti dell’essere. Numerosi studi recenti hanno mostrato che la voce costituisce, nell’inconscio umano, una forza archetipica: è un’immagine primordiale e dotata di un potente dinamismo creatore, la quale predetermina più o meno per ciascuno di noi una configurazione mentale, affettiva, se non un modo di pensare simbolico. Di qui la sua notevole capacità di generare V ili

Prefazione

miti e di prestarsi a significazioni religiose. Affondando le proprie radici a monte di ogni formula concettuale, questa immagine, nella sua totale cecità, ci assicura che non siamo — né voi né io — soli al mondo. E questo il motivo per cui il linguaggio è senz’altro impensabile senza la voce. Eppure, le emozioni molto intense suscitano remissione della voce, non necessariamente del linguaggio: il grido inarticolato, il gemito puro, il vocalizzo senza parole ne sono l’espressione più naturale. Le situazioni che illustrano questa corrispondenza sono innumerevoli, dal primo grido del bambino che nasce, al baccano degli scolari che si sfogano dopo la lezione, al grido di guerra dei primitivi (e di altri!), allo jodel tirolese. Esplosioni dell’essere che si identifica con la propria voce, in un moto appassionato di ritorno oltre la soglia delle banalità della vita. La parola si articola dunque, nella voce, in un duplice desiderio: il desiderio di dire, e quello di dirsi. Quando ti rivolgi a me, non è soltanto perchè hai un’informazione da comunicarmi, sia pure importante; è anche per costringermi a riconoscere questa tua intenzione, a sottomettermi ad essa, e a dedurne tutto quello che tu vuoi che io sappia di te e della posizione che occupi nell’universo. Di qui la tentazione continua di sfuggire, nel dialogo, alle servitù più pesantemente grammaticalizzate del linguaggio; di qui l’abbandono così facile delle regole abituali, l’elusività, le mezze parole, le frasi incompiute, il farfugliare: tutti strumenti di una flessibilità certo indispensabile alla cattura della voce stessa, al di sotto, all’interno e ad opera delle parole. In realtà al giorno d’oggi la voce ci arriva spesso filtrata dall’uno o dall’altro dei media che ci siamo inventati e che fabbrichiamo fino alla saturazione del mercato. Dischi, cassette, altri apparecchi: in tutte queste tecniche (a parte il telefono... ) il tratto che definisce la voce mediata è l’impossibi­ lità di risponderle. Reiterabile all’infinito, essa proprio per questo si spersonalizza. La presenza fisica del locutore è cancellata: non resta che l’eco della sua voce, a volte legata, per artificio, ad una immagine. L’ascoltatore, certo, è ben reale e presente nell’atto di ascoltare; ma la sua presenza è intercam­ biabile, e dunque non autentica. Così, gli unici sensi interessati IX

Prefazione

dalla ricezione di quella voce sono gli stessi coinvolti nella percezione a distanza: Tudito, la vista per così dire astratta; mai quelli che sostanziano un confronto reale con il portatore di voce, nella sua indiscutibile individualità: Tolfatto, il desiderio per lo meno di toccare, Terotismo latente dello sguardo. Si dirà quindi, paradossalmente, che la voce mediata ha per noi qualcosa del prodigium, prod-agium, di cui tratta Corrado Bologna nel suo saggio: parola giunta da un altrove, trasmessa per il tramite di intermediari sacralizzati, rivestita di un’autorità sovrannaturale e di una funzione profetica. H mio apparecchio televisivo è qui, in casa mia, come un monstrum la cui finalità esistenziale (nell’ottica dell’industria che lo produ­ ce, ma anche in quella della mia vita quotidiana e forse dei sogni che essa stimola nel mio inconscio) è di far vedere e di mettere all’erta, monere. Gli auricolari applicati alle orecchie di tanti camminatori solitari esercitano un’altra funzione oltre ad aprire i sensi di quegli sventurati su di un altro universo, facendo loro prendere coscienza (al livello mentale proprio di ciascuno) della stoltezza di ciò di cui si sanno prigionieri? Nel cuore di un mondo «disincantato», in un mondo, cioè, in cui gli incantatori di un tempo hanno perso la loro magia, le voci emesse da un tale marchingegno ricreano, grazie all’espediente tecnologico, la meraviglia e il terrore che avvertivano, millenni or sono, antenati lontani, che ci hanno trasmesso tanti miti (Eco, la Sfinge, le Sirene). A loro modo, tali voci ne creano altri nuovi; a modo loro, rinnovano per noi la scoperta sconvolgente dei Poteri ineluttabili che prendono forma nelle nostre bocche, nelle nostre gole, nei nostri corpi troppo disprezzati. H saggio di Corrado Bologna ci stimola e ci viene in aiuto nel risalire alle fonti di queste analogie. P aul Z umthor

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Vent’anni dopo

Come sempre, viva, parlava la voce di Giorgio Cardona, alla cui memoria questo libro era dedicato al suo primo apparire (1992). E come sempre, viva, risuona ancora oggi quella voce: a lei, nella lunga fedeltà del discorso spezzato, nel suo continuare a fluire ininterrotto e corale, rimane legata la dedica di questo libro, ancora. Ventanni dopo la scrittura, poco meno di dieci dopo la pubblicazione, il “ritorno” del libro viene propiziato dal destino favorevole che gli è stato offerto in dono dai suoi lettori. L’auspicio del 1992 ebbe buon esito: le copie stam­ pate furono rapidamente esaurite; e a Flatus vocis già nel­ l’ottobre 1992 veniva assegnato il X premio «Città di Montesilvano» per la saggistica, mentre al XXXVI «Pisa», nello stesso mese, il libro entrava nel rarefatto gruppuscolo dei finalisti, ricevendo un bellissimo quasi-premio. La pro­ spettiva nuova proposta da Flatus vocis nell’affrontare in dimensioni e direzioni multidisciplinari non solo l’oralità, ma più radicalmente e complessivamente la vocalità, inte­ ressava e piaceva soprattutto, e prima di tutto, ad artisti, ad attori, a musicisti, a registi teatrali: fra questi, a Luca Ronconi, il quale al Flatus vocis dedicò un’attenzione lusinghiera, specialmente al tempo in cui preparava il “suo” Pasticciaccio gaddiano. (L’autore, intanto, sorrideva compiaciuto per il successo così poco paludato, così mondano, di un’opera felicemente estravagante rispetto alla sua vocazione appas­ sionata - che è anche una severa professione universitaria di Filologo romanzo: un po’ come il «povero» Geppetto osserva con «maraviglia» e stupito orgoglio, e con numerosi sospiri di affettuosa preoccupazione, quel suo Pinocchio «birichino», quella «birba d’un figliuolo», mentre, appena «ritagliato», incomincia a sgranchirsi le gambe, e poi «a XI

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camminare da sé», e prestissimo va «a salti come una le­ pre», «facendo un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini»: mentre lui, il padre irrimediabilmente putativo, si affanna a «corrergli dietro senza poterlo raggiungere».) Volendo applicare la logica ammiccante e sottile dei romanzi di Alexandre Dumas, direi semplicemente: i perso­ naggi che “ritornano” sono “sempre quelli”, gli stessi, e sempre altri, “nuovi”, mutati: non foss'altro perché “ritor­ nano”, appunto, ventanni dopo. E in ventanni si cambia, s'invecchia, e comunque s'imparano nuove cose, si cono­ scono “le stesse” diversamente, si cambia relazione con quelle conoscenze, e si contribuisce a cambiare le cono­ scenze stesse. In maniera forse più complicata: Heisenberg, e Gadda, ci hanno insegnato che conoscere trasforma non solo l'oggetto di conoscenza, ma la conoscenza stessa, e che il mondo in cui quella conoscenza si inserisce non è più lo stesso di prima. La voce cui il libro era dedicato quasi dieci anni fa continua oggi a risuonare: le parole che chiudevano il discorso ancora lo riaprono. Perché si vuole che il “ritor­ n o ” delle parole, pur nella loro costituzione ermeneutica, “al servizio” di u n '“interpretazione”, ossia nel loro statuto non «letterario», ma “scientifico”, significhi tuttavia lo sforzo, e forse la capacità, di varcare il tempo, di «durer un peu plus que sa voix», secondo l'apotropaica speranza fatta balenare dal grande umanista contemporaneo Roland Barthes (sull'eco di essa questo libro si chiudeva: e si chiude ancora). «... Durer un peu plus que sa voix...» Così come alla Letteratura, anche alla scrittura-bussola della «Ricerca» spetterà d'intonare quel gioioso, libero «chant de solidarité» che si dispiega nella comunanza della quête dietro a tracce confuse e cancellate, spesso invisibili e inudibili: né a caso voglio qui proporre alla rimeditazione (oggi anche nella luce delle metafisiche mappe del mondo vocali-mnemo­ tecniche descritte da Bruce Chatwin in The Songlines, 1987: Le Vie dei Canti, Adelphi, 1988) proprio quest'altra, bellis­ sima formula dello stesso Barthes: «chant de solidarité», che respinga la tentazione di «murmurer le “Tout est dit” XII

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comme une parole de désespoir» (Plaisir aux Classiques, 1944). Formula finemente evocata da Carlo Ossola per ri­ badire il senso - «pur nell’acqua del tempo, e della storicità della lingua» - della radicalità costitutiva della Scrittura (della «scrittura ad alta voce», vorrei dire con il Barthes del Plaisir du texte, che Ossola stesso ha ora ricomposto nel complesso palinsesto storico): del suo sganciarsi da un «ser­ vizio», cioè da una “servitù”, per «elidere - dalla lingua, dalla mente - l’inessenziale», e conquistare così un’ossimorica «“fondazione d’assoluto”» (A che cosa serve la letteratura, in «Lettere italiane», 1998). Le Vie dei Canti, come seppe anche il Buddha (che Chatwin ricordava), invitano chi le canta, e cantando le percorre, a «diventare la Via stessa»; quella «Via senza Via» intuita dai mistici dalla spiritualità splendidamente corpo­ rea e interiormente vocale, fra i quali in Europa Meister Eckhart: «la Via senza Via, dove i Figli di Dio si perdono e nel contempo si ritrovano». «Travel deriva da travail», sug­ gerisce Chatwin, illuminando l’oscuro, arduo nodo che strin­ ge la costruzione interiore, mentale, della Via dei Canti al Canto della Via senza Via, alla sua fisica, concreta praticabilità. La fatica del viaggio è, infatti, quella della ricerca, come nel “ricercare” musicale; e il discorso interio­ re, silenzioso, del cavaliere errante, en quête di Nulla, e nell’oblio totale, infine, in contatto profondo con Sé (Lancillotto, Don Quijote); è un Canto - una Via - senza tracciato, senza percorso delineabile “prima” che lo si com­ pia. Le Vie dei Canti, come i cammini labirintici compiuti, nellVlrr Sapientiae del nostro Rinascimento, attraverso i loci di Memoria per interiorizzare come “scrittura” l’intero uni­ verso, sono e nel contempo sono altro, perché qualcosa d’altro ricordano, in ciò che “sono”: altri “luoghi”, altre “scritture”, altre “voci” Con crescente evidenza, nello studio di quello che Paul Zumthor, scrivendo nel 1992 la Prefazione a questo libro, definiva «lordine del vocale», interferiscono campi di ri­ cerca multipli, eterogenei. In primo luogo la filosofia e l’antropologia culturale, è ovvio. Ma anche (e spesso a quelle discipline collegata) la storia della musica, e la speriXIII

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mentazione musicale (specialmente vocale, e in particola­ re nell·ambito di luoghi quali il CRM - Centro Ricerche Musicali, che nel 1998 ha intitolato al tema: «Rumori Ordine e Disordine, linguaggio musicale e innovazione tecnologica» un interessante convegno organizzato in col­ laborazione con il Goethe-Institut di Roma; e ricorderò con simpatia anche i seminari estivi di Maratea coordinati da Antonio De Lisa, direttore di «Sonus - Materiali per la musica moderna e contemporanea» di Potenza). E poi la cibernetica; e la fonetica applicata; e la retorica e la stilistica; e la psicoanalisi, e la psicologia; e la biologia e Fetologia. E l’articolato studio delle emozioni e della loro funzione conoscitiva, affrontato sempre più puntualmente dalle neuroscienze (A. Damasio, Descartes' error. Emotion, reason and human brain, 1994; trad. it. Adelphi, 1995), dalla filosofia e in particolare dalPepistemologia (R. Wollheim, On the emotions, Yale University Press, 1999), appunto dalla psicologia teorica e applicata, attenta, ormai anche in Italia, a riconoscere resistenza di codici paralinguistici autonomi rispetto a quelli linguistici (fondamentali nell’esprimere le emozioni), distinguendo fra comunicazione di carattere linguistico-verbale ed «atto comunicativo vo­ cale, inteso come esecuzione complessa e simultanea di espressioni verbali e non verbali, com plem entari e mutualmente codefinentesi» (L. Anolli-R. Ciceri, La voce delle emozioni. Verso una semiosi della comunicazione vo­ cale non-verbale delle emozioni, Angeli, 1997). In realtà non è possibile elencare in breve che cosa è avvenuto, quali ricerche sono state compiute, e libri pubbli­ cati, e idee elaborate e perfezionate, nei ventanni che saparano l’odierna ripubblicazione dall’originaria scrittura di questo libro, e nei poco meno di dieci che lo distanziano dalla sua prima comparsa. Molta acqua, come si usa dire, è corsa sotto i ponti, è chiaro. Ma, nel contempo, non abbastanza (e non sarà solo per albagìa d'autore!) da spingere a riscrivere un libro, che sembra in sostanza aver “tenuto” bene la prova del tempo. Né ad “integrarvi” le novità, sia pure sul piano dell’annotazione, o della bibliografia. In realtà, per la scelXIV

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ta preventiva di allargare l’orizzonte dei problemi sempre “attraversandoli” e sempre “sconfinando”, e di adeguare anche lo stile argomentativo a questa volontà di pro­ grammatica randonnée fra le categorie concettuali e gli esempi illustrativi, la struttura di Flatus vocis non avrebbe potuto essere diversa, e tuttavia potrebbe sempre mutare fin dalla radice, nell’ampiezza dell’argomentazione teori­ ca, connessa ai campi semantici esaminati, nella quantità delle fonti letterarie, antropologiche, filosofiche, e dei materiali linguistici adibiti. I recensori, tutti, sottolineavano come in fondo la “for­ ma aperta” del saggio si imponesse quale presupposto quasi necessario, e comunque opportuno, per una scienza della vocalità che ancora non esisteva, e che tuttora fatica a nasce­ re, e della quale Zumthor, per primo, coglieva in Flatus vocis i presupposti teorici e un primo tentativo di sistematizzazione. Tutti i recensori, dico: così l’unica “voce” dissonante nel coro dei laudatores (quella asperrima, fero­ cemente critica e come sempre intelligente di Massimo Oldoni), sull’«Indice dei libri del mese» dell’aprile 1993, come i critici bendisposti. Che furono (per fortuna del libro) la maggioranza. Ricordo per tutti un bell’intervento di Elisabetta Rasy su «La Stampa» il 22 agosto 1992, che rilevava il “divenire corpo” della voce, testimoniato dal «voyerismo telefonico» diffuso nella vita quotidiana e tematizzato miticamente in romanzi quali Vox di Nicolson Baker. Un affine articolo, inglobante un’intervista a me, di Loredana Lipperini, su «La Repubblica» del 4 ottobre 1993, incentrato sul rapporto simbolico fra il corpo-casa e la rela­ zione tra la voce, il telefono con filo o senza filo e la solitu­ dine di quello che ormai chiameremo il «telefoninista». Un ampio e acuto intervento di Alfredo Giuliani sullo stesso giornale, pochi giorni più tardi (30 ottobre), che fra l’altro suggeriva con tocchi rapidi elementi nuovi per leggere la ballata cavalcantiana Veggio negli occhi de la donna mia, e chiudeva ricordando «i brividi» che dà una lettera di Leo­ pardi in cui si descrive «il gridare forsennato dell’educatis­ simo Giacomo nel tranquillo tepore di una notte precoce­ mente primaverile, ascoltata come una voce che scuote l’aniXV

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mo “stecchito”»: «quel gridare», commentava Giuliani sin­ tetizzando perfettamente il senso di Flatus vocis\ «erompe da un sostrato fisico, psicologico e visionario. È un senti­ mento, un pensiero travolgente, un atto primordiale. Non lo commentiamo, diciamo soltanto che ce l'ha conservato la traccia della scrittura». Una pagina di Marco Beipoliti su «il manifesto» deir 11 dicembre 1992, che coglieva con esattezza le novità introdotte dal libro circa il rapporto fra «oralità» e «vocalità», e circa la relazione (ribadita nel sottotitolo) fra «metafisica» ed «antropologia» della Voce. Un'intervista a me di Matilde Passa su «l'Unità» del 28 gennaio 1995, in cui le domande restituivano molto bene il «filo del discorso», insistendo sugli aspetti tecnologici e su quelli antropologici. E non sto a ricordare le numerose occasioni di colloquio e d'incontro (seminari, convegni, conferenze, trasmissioni televisive e radiofoniche...) in cui sono stato invitato a ri­ prendere e sviluppare le tematiche presentate in Flatus vocis, trovando sempre riscontri positivi, ricche integrazioni e sviluppi di grande interesse. Rammento solo la giornata di studio «Il lavoro della voce. Strutture foniche dell'esperien­ za e della scrittura», curata da Michelina Borsari presso la «Fondazione Collegio San Carlo» di Modena il 22 novem­ bre 1993 (insieme con me parlò Fabrizio Frasnedi), e i due giorni di scambio fra studiosi, scrittori, poeti, sotto la guida di Jacques Darras e da Rosanna Brusegan al Théâtre MolièreMaison de la Poésie di Parigi, il 25 e 26 novembre 1996 (io non potei essere fisicamente presente, ma inviai un testo, che fu letto, Les “voix” de Faul Zumthor, per ricordare il grande studioso che aveva tanto contribuito con i suoi libri alla fondazione di quella che con lui chiameremo sempre «scienza della vocalità», impreziosendo il Flatus vocis con la Prefazione che qui sopra ancor oggi si legge. Infine, ho sempre nel cuore il 24 maggio 1997, giornata di sole e di felicità mentale e vocale, trascorsa nella villa e nel parco dell'«Associazione La Lucciola», nei pressi di Modena, insieme ad Emma Lamacchia, a Paola Sarti e agli altri loro collaboratori, inaugurando con-una serie di inter­ venti centrati sul tema «La Voce e l'Infanzia» l'attività, XVI

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splendida, emozionante, di un vivace, coraggioso, sensibile Centro italiano dedicato a quelli che usiamo quotidiana­ mente, burocraticamente catalogare come “bambini porta­ tori di handicap”», e che dovremmo invece continuare a chiamare, con nostalgia, figli di un dio minore... Da ultimo, il 4 dicembre 1999, su richiesta di Biancamaria Frabotta, fra gli organizzatori del convegno «Arcipelago malinconia» aperto da una relazione di James Hillman su Melancholy without Gods (al Teatro Argentina di Roma), ho riletto Paul Celan e l’esperienza fonetico-respiratoria ele­ mentare di Sprachgit ter (1959), la Grata di parole (che Nelly Sachs, trepidante e commossa, commentò scrivendo all·auto­ re: «Possa ogni Suo respiro continuare ad essere benedetto in questo modo, benedetto al punto da racchiudere in sé il volto spirituale del mondo»). Ed anche dtì¥ Atemwende (1967), la Svolta del respiro, il non-luogo fluente ove ci si batte per recuperare la difficile, necessaria connessione fra trasparenza e luminosità (.Licht-durchwohen, su cui ha scritto pagine bel­ lissime Camilla Miglio, Celan e Valéry. Poesia, traduzione di una distanza, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, e che parlò subito dopo di me in «Arcipelago malinconia») nello sforzo atroce di riconquista della vocalità lucente, di tessiture lumi­ nose di voce espressiva, a partire dalla Fine e dal Silenzio, sullo sfondo della nascita, della morte, della separazione, dell’afasia, dello sbriciolamento vocale nella sillabazione impedita dalla «luce coatta» (Lichtzwang) dell’ospedale psi­ chiatrico: «Und das Zuviel meiner Rede: / angelagert dem kleinen / Kristall in der Tracht deines Schweigens» (Unten, In basso: «E il di troppo del mio dire: / aggregato al piccolo cristallo / nel fardello del tuo silenzio», trad. G. Bevilacqua, nelle Poesie di Paul Celan da lui curate nei mondadoriani «Meridiani», 1998: vi si addensano le più straordinarie lotte con l’Angelo del Silenzio che la Voce abbia combattuto nel suo lunghissimo sogno metafisico, sulla soglia critica della metafisica occidentale). «Ein Dröhnen: es ist / die Wahreit selbst / unter die Menschen / getreten, / mitten ins / Metapherngestörber» (in Atemwende: «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore»). XVII

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In quasi dieci anni, dalla prima edizione di Flatus vocis, sono apparsi molti altri saggi, studi di carattere generale e più tecnici (specie ad opera di studiosi di fonetica, o degli aspetti «fonetico-sonori» della poesia, e musicisti, musicologi, e psicologi, logoterapisti), di cui sarebbe arduo dar conto. E come ho detto, l’elenco, in sé per definizione neppure esaustivo, integra, arrichisce, ma non mi sembra modificare la sostanza dell’impostazione di questo studio. Il notevole La voce delle emozioni di Luigi Anolli e Rita Ciceri, che ho già ricordato, aiuta anche a fare il punto sulla ricchissima produzione (in particolare in lingua in­ glese) nell’ambito psico-linguistico, specialmente nei set­ tori che esaminano l’espressione delle emozioni nei campi della fonetica (mediante indicatori acustici-articolatori del contenuto emotivo) e della paralinguistica (attraverso lo studio della modulazione di ritmo, intonazione, intensità dell’eloquio). Gli studi di Ivan Fonàgy, in particolare sulle basi pulsionali dell’intonazione, la «viva voce», i significa­ ti dello «stile vocale», sono cresciuti in numero e qualità (molti mi erano stati preziosissimi nell’elaborazione dello studio). La rivista «il verri», nel 1993, ne pubblicò uno nel quadro d ’un fascicolo tematico intorno alla “vocalità”. Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia della phoné s’intitola un saggio filosofico di Vincenzo Cuomo edito a Salerno nel 1998, presso Elisud, imperniato sulla doppia natura della voce, sulla sua «trascendentalità» e sulla sua «fatticità». Silvia Magnani (che si è già occupata nel passa­ to di logoterapia e di riabilitazione della voce), con II bambino e la sua voce. Con i bambini alla scoperta della vocalità, Angeli, 2000, affronta analiticamente ed anche con scopi didattici il tema difficile dei disturbi vocali del­ l’infanzia. L. Savoia, Grammatica e pragmatica del linguag­ gio bambinesco (Baby Talk), CLUEB, 1984, affronta la questione della comunicazione “ritualizzata” esaminando­ la presso alcune culture tradizionali. Tre tomi della «Col­ lana di foniatria» dell’editore Masson, dovuti a François Le Huche e André Aliali e curati da M. Buratti, raziona­ lizzano scientificamente l’ampia questione: La voce, 1: Anatomia e fisiologia. Patologia, terapia (1993); 2. PaioloXVIII

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già vocale. Semeiologia delle disfonie disfunzionali (1994); 3. Terapia delle turbe vocali (1995). «La perdita di una persona amata e le forze psicologiche che tengono vivo il dialogo interrotto» è il sottotitolo di Voci dal silenzio della psicoanalista Louise J. Kaplan, tra­ dotto da R. Cortina nel giugno 1997: fra letteratura e vita vissuta, nella dialettica rischiosa e dolorosa di “perdere” e “perdersi”, si studiano le forme di creatività che conserva­ no attivo «il battito cardiaco deiresistenza umana» (e vorrei parafrasare con: «il battito cardiaco della voce»), ribadendo che «nessuna voce si perde mai del tutto». Il libro di M. Critchley e R.A. Henson, La musica e il cervello. Studi sulla neurologia della musica, Piccin, 1987 (che non conoscevo all'epoca della stampa in volume dello studio del 1981) contiene materiali di grande interesse anche sul nesso fra anatomofisiologia della produzione vocale, musicalità e funzioni neurologiche. A trattare que­ stioni affini sono destinati i fascicoli di «Musica e Terapia. Quaderni italiani di musicoterapia» curati da Gerardo Manarolo, il quale ha organizzato per il 3 giugno del 2000 (mentre questa seconda edizione di Flatus vocis entra in commercio) una giornata a Genova sul rapporto fra vocalità e forme terapeutiche; io stesso vi parteciperò, con (fra gli altri) Riccardo Giagni, studioso di musicologia e di fone­ tica, docente di Storia della musica per il cinema alla Facoltà di Beni Culturali deirUniversità di Lecce, che ha tenuto due corsi “vocalistici”, nel 1998-99 e nel 19992000: «Verso una fenomenologia del suono nel cinema recente, con particolare riferimento alla voce, al suo im­ piego e ai suoi simbolismi»; «Suono della voce e della musica nel cinema di Stanley Kubrick». L'opera di Michel Chion è in gran parte indirizzata alla dimostrazione della natura «vococentrica» del cinema, in cui la voce spesso “sta p er” l'immagine (sulla «voix volée» c'è un libro di Chion stesso), ed alla progettazione di un «acousmètre», ideale strumento di misurazione della «vococentricità del­ l'essere» (un fine gioco di parole, d'origine e stile lacaniani, risiede nel leggero scarto, alla Raymond Roussel, fra «acousmêtre» ed «acousmètre»): La voix au cinéma, Editions XIX

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de l’Etoile, 1982 (trad. it. Parma, nel 1991), Le son au cinéma (1985) e La toile trouée (1988), Le promeneur écoutant, uscito nel 1993 per le Editions Piume, Parigi, sono i suoi titoli di riferimento. Mi pare molto bello e coerente con la metamorfosi della riflessione epistemologica, poi, che ai fenomeni di oralità e vocalità siano destinati con sempre maggiore frequenza stu­ di specifici in storie letterarie nazionali; per tutti rammente­ rò nel Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, Bollati Boringhieri, 1996, vol. IV, Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento, le pagine raffinate e colte di Bruno Gentili e Carmine Catenacci su La riscoperta della voce, capaci di spaziare in àmbiti difformi, dalla consistenza dell'“oralità” “primaria”, “mista” e “secondaria” (secondo la celebre articolazione di Zumthor) alla riscoperta della comunicazione orale nel Novecento (Jurij Lotman attribui­ va alla televisione la formula «Voce della Verità»), dalla «neo-oralità» nella poesia contemporanea alle strategie di persuasione. Ed anche lo Spazio letterario del Medioevo volgare, diretto da P. Boitani, M. Mancini, A. Vàrvaro, presso l’editore Salerno di Roma, lascia ampio spazio agli aspetti orali-vocali della diffusione testuale in lingue ro­ manze, germaniche, slave, durante i secoli medievali (a me e ad altri sono stati chiesti alcuni contributi che intersecano variamente il campo della vocalità nel quadro della produ­ zione-diffusione-trasmissione letteraria, specie poetica). L'edizione de L ’arte di tacere. Il silenzio come difesa della propria identità, dell'Abbé Dinouart (Demetra, Varese, 1995), mette a disposizione un importante tra tta te li sette­ centesco sulle tecniche della discrezione e della “dissi­ mulazione onesta” nella vita pubblica, nei salons letterari: la caduta di valore della parola, assediata dalla massificazione dei mezzi comunicativi ha reso, parrebbe, necessario più che prezioso, e raro insieme, questo fiore antico; e l’esalta­ zione «del silenzio come difesa della propria identità», nel tempo in cui le sirene della globalizzazione dominano la scena dei mass mediay fa del libriccino dell’Abbé Dinouart una piccola perla, che trova ancora una sua utilità anche pratica. XX

Vent'anni dopo

Per chiudere, citerò la “poesia sonora”, ribattezzata anche “poesia d’azione”, interessante forma nuova di diffusione dei testi poetici, connessa storicamente alle kermesse (in voga un paio di decenni fa) su spiagge o in piazze cittadine, con sequenze di “letture dal vivo”. Recuperata di recente, questa forma di espressività-comunicazione testuale mi pare risarcire (addirittura in dimensione che mi spingerei a defi­ nire di stampo medioevale) un’inattesa saldatura della corporeità vocale del Poeta con il suo Testo, che nei fatti riconduce alla viva voce dell’Autore l’Opera, da sempre pensata come ormai relativamente autonoma dal Poeta, dal suo corpo, dalla sua memoria, talora perfino dalla sua vo­ lontà, e in tale veste offerta alla protezione e alla garanzia del filologo (chiarissimo il richiamo alla «deontologia del mestiere» di G. Contini e R. Bettarini, nell’edizione critica di Montale, Einaudi, 1980). Riprende spazio, così, l’ipotesi che i testi “vocali”, talvolta recitati senza supporto di me­ moria cartaceo, contengano, trasmettano e autorizzino (pro­ prio perché in “viva voce” !) anche solo leggère mutazioni testuali consce o inconsce, e di valore prosodico o metrico, lessicale, e perfino semantico. Bernard Heidsieck, noto pro­ duttore di champagne e poeta “sonoro”, ha raccolto recentissimamente in un cd tre testi (Vaduz, Poèmes partition T, Respirations et brèves rencontres). Un’ampia bibliografia (che fra l’altro comprende titoli quali Les cinq paradoxes de la modernité di Antoine Compagnon) selezionata da Geraldina Colotti in calce a un suo articolo, La banca in versi, in «La talpa libri/alias» de «il manifesto», consente di risalire alle radici storiche di un fenomeno come questo della “poesia sonora”, di grande vitalità e originalità anche teoriche, e che pone problemi non piccoli alla filologia testuale, alla teoria della ricezione, alla critica letteraria. Marc Dachy, a Parigi, nel 1999, ha prodotto Lunapark 0,10, un cd contenente fra gli altri le voci di Guillaume Apollinaire, di Vladimir Majakovskij, di Kurt Schwitters, di James Joyce, di Gertrud Stein, di Antonin Artaud, di Tristan Tzara, di Marcel Duchamp, di E.E. Cummings e di altri, mentre leggono proprie composizioni. In Italia, analoghi dischi (in vinile) si troveranno ormai solo nei negozi di seconda mano: XXI

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ma racchiudono uno scrigno prezioso, con letture, talora autorizzanti lezioni testuali diverse da quelle canonizzate a stampa, di poeti piccoli e grandi: c'è, in vera e viva voce umana, la “voce poetica” di Montale, di Ungaretti, di Saba, e dei massimi nomi del nostro tempo. Elsa Fonda in «stru­ mento voce», un «quaderno italiano di voci femminili dal '200 ad oggi», messo in scena il 17 marzo 2000 al Teatro Verdi del comune di Muggia, ha offerto una intensa esem­ plificazione del rapporto parola-melodia-voce in poesia. Ma si veda l'ironia della sorte, che il Linguaggio lascia trapelare, ancora una volta, così come in Flatus vocis si ripete costantemente. Esiste una radice indoeuropea (*bhl9) cui si legano (come mi fa notare sottilmente Paolo Canettieri, intenzionato a studiarla a fondo, quella radice) accanto a flatus anche flare (da cui, attraverso il provenzale, l'italiano flauto), fluere e flumen y fluxus, flectere (e quindi flexio ^ ‘inflessione”, la “flessione”), follis (il “mantice”, il sacco ripieno d'aria so­ nora, da cui per estensione metaforica, il “folle” dal “movi­ mento incontrollato”, l'uomo-sacco “ripieno di vuoto”), fiere, fiamma, flagrare, flagitare, flabellum, e altri lemmi dalla semasiologia multipla e screziata. Questa “radice”, questa base di significazione che stringe e articola in un reticolo ampio e ramificato concetti idee immagini parole, presiede a campi categoriali e semantici complessi, tutti centrati intorno all'idea di un fluire sonoro e ritmico, arti­ colato nel tempo e nello spazio, vocale, luminoso, forte di un'energia magica perché primordiale e cosmogonica. Un'energia, quindi, rischiosa, incombente con tonalità mi­ nacciosa nello scorrere della storia, sempre di nuovo pronta a restituire, pur nel flusso fragoroso, fremente, fiammante e folle del tempo, quel fiato, quella grana della Voce, che Flatus vocis sperava, e tuttora spera, di saper raccontare, nelle sue linee essenzialissime: aprendo porte e mai chiu­ dendo percorsi: e al massimo adattando, nella misura breve e dell*essai, quella tecnica “digressiva” e “negativa” che il divino humilis Ariosto insegnò ad applicare ai grandi di­ scorsi, ai grandi temi, perché non si cada mai nell'ambizio­ ne e nella superbia del “voler dire tutto”.

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Nel 1992 Flatus vocis si chiudeva intenzionalmente con Le grain de la voix di Roland Barthes, il Barthes di cui quel libro tanto si nutriva, e che avrebbe dovuto, se la sua sors fosse stata meno nefasta, scrivere lui la “voce” einaudiana da cui tutto nacque. Oggi, nel 2000 che chiude il millennio ed apre lo spiraglio del prossimo, voglio che ancora nella voce di Barthes sia per allegoriam, e con vasto respiro, sigillato questo affabile, modesto prologhetto, Ventanni dopo. E sarà il Barthes restituitoci anche filologicamente da Carlo Ossola (Einaudi, 1999) nella storica, dialettica misura del progetto iniziale d’un dittico (Plaisir du texte “e” Variations sur récriture) che denuncia l’integrale, discipli­ nata fedeltà alla «pratica infinita» di memoria e di scrittura, alla fiducia in una scrittura en quête di «dimora in sé»: fino a far coincidere, con nuova laicissima proiezione dell’immagine topica d’un liber scriptus digito Dei, l’universo intero con un corpo scritto; ma anche fino a cogliere, di quella «scrittura universale», la grana increspata e franta, il fremi­ to fiammante, il fletus e il flatus, la «scrittura ad alta voce», vocalità non più “vuota” come l’otrz-follis, ma piena d ’una significazione imprendibile e sempre dislocata “altrove”, nell’intera storia delle idee e delle immagini e delle passioni che quel radicale *bhl (come sarebbe stato caro a Pictet e Mallarmé!) in sé contiene. «Se fosse possibile immaginare un’estetica del piacere testuale, bisognerebbe includervi: la scrittura ad alta voce. Questa scrittura vocale (che non è affatto la parola), non si pratica mai, ma è senza dubbio questa che Artaud racco­ mandava e Sollers richiede. Parliamone come se esistesse. Nell’antichità, la retorica comprendeva una parte di­ menticata, censurata dai commentatori classici: Vactio, in­ sieme di ricette atte a permettere l’esternamento corporeo del discorso: si trattava di un teatro dell’espressione, l’ora­ tore-attore “esprimendo” la sua indignazione, la sua compassione, ecc. La scrittura ad alta voce, invece, non è espres­ siva; lascia l’espressione al feno-testo, al codice regolare della comunicazione; per parte sua appartiene al geno-testo, alla significanza; è portata non dalle inflessioni dramXXIII

Vent*anni dopo

matiche, le intonazioni maligne, gli accenti compiacenti, ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di timbro e di linguaggio, e può quindi essere anch’essa, al pari della di­ zione, la materia di un'arte: l'arte di condurre il proprio corpo (donde la sua importanza nei teatri estremorientali). Tenendo conto dei suoni della lingua, la scrittura ad alta voce non è fonologica ma fonetica; il suo obiettivo non è la chiarezza dei messaggi, il teatro delle emozioni; ciò ch'essa cerca (in una prospettiva di godimento), sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonan­ ti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l'articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio. Certa arte della melodia può dare un'idea di questa scrittura vocale; ma poiché la melodia è morta, è forse al cinema, oggi, che si potrebbe trovare più facilmente. Basta infatti che il cinema prenda molto da vici­ no il suono della parola (è in fondo la definizione generaliz­ zata della “grana” della scrittura) e faccia sentire nella loro materialità, nella loro sensualità, il respiro, l'increspato, la polpa delle labbra, tutta una presenza del muso umano (che la voce, la scrittura, siano fresche, morbide, lubrificate, finemente granulose e vibranti come il muso di un animale), perché riesca a trascinare lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dell'attore dentro il mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce» (è l'ultima pagina del Piacere del testo di Roland Barthes).

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Corrado Bologna

Flatus vocis

Nota al testo

Giacché soffia dove vuole e spazza via o invece accarezza, secondo leggi imperscrutabili, lo Spirito accetta difficilmente denominazioni e delimitazioni: rifugge da ciò che prescrive e descrive, sceglie misure anche smisurate, si fa violento o tenero, suadente o selvaggio. Quando c’è, irrompe e s’allonta­ na senza controllo. E se non viene, inutile evocarlo con i nomi dei venti, suoi senhal. Resta, allora, la consolazione, sterile e solitaria della «lettera» che, se non «vivifica», neppure neces­ sariamente «uccide»; e incide una traccia, «lascia un segno», a lutura memoria. Questo libro, che è stato intessuto per prescrivere e per descrivere, ambirebbe ad accogliere lo Spirito in qualcuna delle sue manifestazioni. Lo spirito ne è, d’altra parte, il tema di fondo. E la pretesa di fare del «contenuto» lo specchio della «forma», se conosce l’amaro della delusione, può riservare esperienze soddisfacenti. Avrei caro che Flatus vocis, come il /ortunale che contiene «la squisita e sacra parola “fortuna”», aiutasse ciascuno di voi, di noi, a riconoscere il sibilo del «nostro vento (...) interiore», come con mirabile metaforica ( iiorgio Manganelli in un elzeviro pubblicato postumo defini­ va «l’anima (...) ventosa, (...) il veloce anemos» [Quante facce ha Γamico vento, in «Corriere della Sera», 27-6-1991). Avrei caro che l’anima ventosa del mio libro fosse Spirito vivificante, un fortunale di buona fortuna. Hfato dei libri, come quello degli uomini, si lega in parte ad un soffio ventoso, in parte alla Sorte, alla Fortuna. E come si sa, Pro captu lectoris habent sua fata libelli (Terenziano Mauro, De litteris, syllabis et metris, 1286). Un fato è scandito, spesso, dall’incontro con una fata, come i poeti medievali sanno bene. Fate, questo libellus ne ha avute almeno due o tre, propizie e generose tutte: la prima lo 15

Nota al testo

fece nascere; le altre lo avviarono alla metamorfosi attuale. Venuto alla luce nel 1981, con parto fulmineo dopo una pensosa e studiosa gestazione, per l’invito dei redattori torinesi déTEnciclopledia Einaudi (e soprattutto di Gian Paolo Caprettini, che su suggerimento di Giorgio Agamben mi aveva già affidato il compito di preparare gli articoli Mostro e Tortura ), il mio studio avrebbe dovuto, se non sostituire, supplire per lo meno Γimpegno di Roland Barthes, allora appena scomparso. Barthes aveva già redatto Γarticolo Parola, fra gli altri: e Voce rientrava nella stessa «rete» di sapere, ovviamente. Quanto a me, unico mio merito, sospetto, Favere studiato le forme di espressione non verbale, il silenzio rituale e quello funzionale, nelle culture classiche e tardo-antiche, e d’aver impostato, nello studio del mostrum come prodigium, il tema della vocalità radicale del sapere teratologico e profetico, il suo far cenno, appunto, al Fato, alla Fortuna, allo Spirito. Rinunciando anche solo a conoscere lo schema progettato da Barthes (insostituibile!), ipotizzai, sulla linea di quei miei antichi interessi, e nel quadro problematico d’una comparati­ stica esemplificativa, i due volets di una Metafisica e di una Antropologia della Voce. Il confuso porsi e pro-porsi della vocalità quale evento della béance, della scaturigine che ci distanzia dalla Madre e perciò, nel grido delYin-fans, ci avvia all’identificazione (cioè alla «presa di parola»), era il punto d’avvio. L’esito erano le modalità di articolazione della vocalità, prima ancora che la Parola prenda nome e abbia voce, quale imprescindibile processo iniziatico alla civilité (dunque alla civilisation ). In conclusione, dopo mesi di letture, ricerche, schedature, in un paio di settimane questo saggio venne scritto: in una misura eccessiva, per la sede prevista dai committenti. Fu necessario un drastico taglio del 50%. Ciò che potei salvare vide la luce nel 1981 entro il vol. XIV déYEnciclopedia Einaudi, pp. 1257-1292. La seconda «fata» che collaborò a destinare il mio libellus offrendogli l’alea di un fato fortunato è Paul Zumthor: fra 1981 e ’82, mentre preparava la sua Introduction a la poésie orale, tenne conferenze sul tema in varie città. A Roma ci incontrammo, parlammo, confrontammo punti di vista e tagli metodologici; gli chiesi di potergli sottoporre il dattiloscritto 16

Nota al testo

nella forma più ampia (100 pagine circa): ne ritrovai precise e generose citazioni nel libro stampato nelT83, e tradotto dal Mulino Tanno successivo. Così nacque poi Tidea, alla quale sulle prime Caprettini non fu estraneo, di stampare quel dattiloscritto nella forma esatta in cui fu steso. H Mulino parve a me la sede opportuna: vi trovarono posto le versioni italiane delle ricerche di Zumthor; la collana «Intersezioni» consente un’interdisciplinarietà non sganciata dal rigore filologico, ed anche un taglio saggistico, allusivo o comunque realizzato anche attraverso la scrittura. H libellus approdava così, fortunosamente, a un sicuro ricetto editoriale, proprio mentre cresceva, dieci anni dopo l’elaborazione del mio studio, Tinteresse per gli aspetti delXoralità e specialmente della vocalità: le ricerche zumthoriane mettevano a punto categorie e loro funzioni epistemiche, connettendo alle grandi indagini medievistiche un nuovo interesse antropologico. E quelle di un altro studioso amico, Giorgio Raimondo Cardona, collaboravano a mettere a fuoco il valore linguistico-antropologico degli impieghi culturali a cui la vocalità è indirizzata nelle più disparate civiltà (per tutto ciò si V. la Nota bibliografica, in fine). Nei 10 anni trascorsi dall’originaria redazione molti studi erano apparsi, ed ormai il tema voce/vocalità incominciava a comprendersi quale oggetto d’una scienza (da fondarsi, ed il cui statuto epistemico restava da precisare) né schiettamente «antropologica», né rigidamente «filologica», né solo «lingui­ stica». Era soprattutto necessario, una volta deciso di affidare al captus lectoris la fortuna del libretto, saper rinunciare al desiderio di riscrivere, di integrare, di ripensare. D libellus aveva conseguito (il parere autorevole di Zumthor me lo confermò) un suo oggettivo profilo di «individuo», che permetteva d’identificarlo come punto d’avvio di una ricerca d’ampio raggio, e forse di cogliere proprio nell’inaugurale slancio, nell’entusiastica e appena ingenua idea d’una filologia «onnicomprensiva», dati positivi anziché negativi. Proponen­ dosi nel contempo come essai e come «messa a punto» di un problema piuttosto poco noto sul piano della sintesi e della ermeneutica, il mio libellus poteva abbandonarsi all’άνεμος in cerca d’un fato. 17

Nota al testo

Nel vederlo oggi prender forma, grazie all’offerta di Ezio Raimondi, insieme ai nuovi amici del Mulino, alla fierezza e al piacere che s’accompagnano a simili eventi s’allega la consape­ volezza di poter essere utile, di collaborare a risolvere forse (o se non altro ad aprire e a chiarire) questioni di qualche momento culturale. Un aggiornamento puntuale, sistematico, è parso per più motivi da evitarsi, preferendosi solo nei casi più urgenti qualche integrazione, qualche ritocco. Senza incidere sull’assetto complessivo del saggio, dunque, propongo il testo nell’esatto stato in cui esso si trovava nell’autunno 1981, prendendo atto, nell’essenziale annotazio­ ne, solo dei più sensibili guadagni scientifici. Peraltro, dovendo rinunciare per definizione a un progetto di esaustivi­ tà, di enciclopedia, il libellus resta quel che era: un vento impetuoso e irriverente verso le distinzioni disciplinari consoli­ date; ma un venticello affabile (così vorrebbe) ed anche scompigliante e bizzarro, quando e dove sia possibile. In origine, in verità, avrei voluto scrivere uno studio sul Silenzio. Ma a poco a poco la dialettica Silenzio-Voce mi è apparsa imperativa e ineludibile: di questo, specialmente, si parla dunque nelle pagine seguenti. L’esemplificazione è rimasta intatta, con i suoi difetti consustanziali, ed anche con il suo pregio unico, la curiosità, la mobilità di άνεμος mercuriale. Alcuni temi, anche scottanti (il nesso oralità/scrittura nella letteratura medievale; il tema della vocalità salvifica ed il suo peso nella prassi della confessione auricolare nella Chiesa cattolica) sono stati trattati brevemente o per nulla, perché avrebbero rischiato di condurre il discorso troppo in là, su lidi sassosi. Fra i molti studi che si sono impegnati negli anni recenti intorno al problema-Voce (alcuni fra i quali vengono qui, per la loro pertinenza, almeno citati), voglio rammentare solo quelli di Giorgio R. Cardona (cfr. Noia bibliografica): quando decisi, curando il postumo I linguaggi del sapere, Laterza, 1990, di intitolare al Linguaggio dell'interiorità la IV sezione del libro, pensavo proprio agli scritti ultimi e ultimissimi di Giorgio, intorno ai quali con lui avevamo parlato, confrontando le reciproche posizioni, facendo confluire e dialettizzando le nostre esperienze. 18

Nota al testo

Troppo presto, nell’angoscia degli amici, Giorgio è scomparso. Era il suo Fato, si dirà. Ma io voglio che qui, almeno qui, in un libro che gli sarebbe (oso sperare) piaciuto, e che qualcosa a lui deve, quel Fato per quanto è ancora possibile s’infranga: e che la sua voce torni, nella grande metafora dell’avepoç e dello Spirito, a risuonare — così accenna la dedica a lui del libro — come sempre, viva.

Parte prima

Metafisica della Voce

Capitolo primo

Voce, Parola, Linguaggio

Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, cè come potenzialità di significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler-dire, all*esprimere, cioè aVi esistere. La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono; è emanata dagli stessi organi che presiedono all5alimentazione e sopravviven­ za. Prima d’essere il supporto ed il canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio, dunque, la voce è imperioso grido di presenza, pulsazione universale e modulazione cosmica tramite le quali la storia irrompe nel mondo della natura: di una simile Metafisica della Voce è testimonianza in quasi tutte le culture antiche ed anche moderne, che all’emana­ zione sonora annettono un valore demiurgico, fondatore, addirittura iatrico-taumaturgico, incastonandola nell’orizzonle sacrale e individuando nel luogo dell’Origine lo spazio che essa colma. Solo in una seconda istanza si potrà dare un quadro della modellizzazione sociale di quel prius biologico-ontologico, nei termini di un’Antropologia della Voce storicamente determinata e culturalmente differenziata entro diversi campi dell'episteme. La Voce dev’essere anzitutto distinta, perciò, dalla Parola (da intendersi come facoltà di espressione orale, ma anche scritta, e quale prodotto di tale facoltà)1e dal Linguaggio che le parole ritma per segni, fonetici e non. La voce, in quanto prius biologico, anticipa qualsiasi opposizione di distinti, cioè qualsiasi differenza: mentre i fonemi si individuano per contrastività, all’interno di un sistema di opposizioni che garantisce l’identità di ogni termine, gli elementi fisico-acustici che sono alla base della fonazione non determinano di necessità (lo notava già Saussure)2 alcuna caratterizzazione 23

Metafisica della Voce

positiva. La voce è una pulsione che tende ad articolarsi, ma che nell’articolazione medesima si annulla in quanto «pura potenzialità», generando la parola differenziata e significante. La voce si confonde con il ronzante turbinìo delle pulsazioni corporee, che sfuggono alla coscienza perché la precedono. Al di fuori delle dottrine linguistiche d’impianto scientifico, il «primato dell’acusticità» proclamato da Saussure e ribadito da Jakobson3 trova un’impressionante conferma nel pensiero mitico-cosmogonico ed in quello filosofico che ad esso in ampia misura si richiama. Non esiste forse testo più efficace e denso di una pagina giovanile di Hegel4 per dare avvio al discorso sulla Metafisica della Voce. In quella notte che si distende immobile prima dell’emergere della luminosa coscienza, scrive Hegel, nessuna voce interrompe il silenzio. La nominazione (fin da quella di Adamo, che diede senso alle cose ignote e indicibili nel giardino dell’Eden, prima della storia) è la genesi del linguaggio e della memoria che lo garantisce, rendendolo trasmissibile, utilizzabile: negando ciò che nomina, il nomen lo conserva come segno sonoro. L’animale non possiede ancora una voce «sonora»: la sua è «voce vuota», pura vocale indifferenziata, grido privo di uno specifico contenuto; solo nell’atto della sua morte, l’animale esalando l’anima «ha una voce, esprime se stesso come annullato e conservato», si cancella quale «mero risuonare», mantenendo e trasformando l’urlo della propria vocalità morta: oltre la barriera dell’anima­ lità, «il puro suono viene interrotto mediante le consonanti mute, il vero e proprio arresto del puro risuonare, attraverso il quale principalmente ogni suono ha un significato per sé. (...) H linguaggio in quanto sonoro ed articolato è voce della coscienza per il fatto che ogni suono ha significato, cioè che in esso esiste un nome, l’idealità di una cosa esistente, l’immedia­ to non-esistere di questa». E perciò (come commenta Giorgio Agamben), «solo perché la voce è morte e memoria dell’anima­ le, il linguaggio umano che articola e nega il puro suono di questa voce, che articola, dunque, questa morte che ricorda, può diventare voce della coscienza, linguaggio significante»5. Si compie, nella coscienza, l’evento di una nascita, che è insieme memoria d’una morte. «La coscienza — è stato detto 24

Voce, Parola, Linguaggio

— parla unicamente e costantemente nel modo del silen­ zio»6; con ciò essa non perde la percepibilità: in quel silenzio che le è sostanziale, essa «chiama», «è udita», «richiama». La voce, prima d’essere voce della coscienza, è indistinto richiamo del silenzio; unendosi al senso, la voce (φωνή) genera in unità perfetta la parola (λόγος), in essa distendendosi e negandosi, e scomparendo in quanto «pura voce» nell’unione del pensiero e della vocalità entro il logos. «L’epoca della phoné è l’epoca dell’essere nella forma della presenza»; «l’avvento 'storiale della phoné» impone il pen­ siero dell’«oggettività dell’oggetto»: e ad esso occorre pensa­ le, «per comprendere bene in che cosa risieda il potere della voce e perché la metafisica, la filosofia, la determina­ zione dell’essere come presenza siano l’epoca della voce come padronanza tecnica dell’essere-oggetto, per compren­ dere bene l’unità della téchne e della phoné»1. La voce dell’animale, come tutto il pensiero dell’Occidente ribadisce, è «voce della natura». L’irruzione della «voce della coscienza» è violenta, impone l’interruzione e la frattura, articola il grido confuso per dargli senso e forma nel linguaggio «fatto di parole» che, solo, consente la com-passione, il rapporto con l’altro (con l’esterno, nel­ l’esterno): che, solo, garantisce dunque la socialità. L’op­ posizione fra voce e scrittura, nella filosofia occidentale da Platone a Heidegger, coincide con l’opporsi della libertà di pensare il tempo all’impossibilità di sfuggire alla storia, alla temporalità: «la voce e la coscienza della voce, cioè puramente e semplicemente la coscienza, come presenza a sé, sono il fenomeno di una auto-affezione vissuta come soppressione della dif-ferenza. Questo fenomeno, questa soppressione presunta della dif-ferenza, questa riduzione vissuta dell’opacità del significante sono l’origine di ciò che chiamiamo la presenza. È presente ciò che non è soggetto al processo della dif-ferenza»8. In Rousseau9 la voce si oppone alla scrittura come la presenza all’assenza sul piano filosofico, e la libertà alla schiavitù su quello politico. Esistette però, «all’inizio», coincidenza perfetta fra «voce di parola» e «voce di canto», così come (si legge nel Dictionnaire de musique composto in origine 25

Metafisica della Voce

per XEncyclopédie, poi pubblicato autonomamente)10 nella lingua degli antichi Greci «ci fu probabilmente un’unica voce per parlare e per cantare; e questo è forse ancor oggi il caso dei Cinesi». Ovvero di quegli uomini paradisiaci, in quella Cina in cui la sapienza antica, per i contemporanei di Rousseau, parlava ancora nei geroglifici il linguaggio allegorico ed enigmatico, improprio e silenzioso, con cui nell’Eden furono nominate le cose: lo stesso sapere arcaico che giaceva, per gli eruditi cinquecenteschi, nella voce muta delle mummie in Egitto. Come sa in quel torno d’anni anche Giacomo Leopardi, quella voce s’accende di umane parole, ma cantando, per profetizzare, ogni cin­ quecento anni, secondo un ritmo cosmico11. Una voce più veneranda (σεμνοτέρα φωνή) avevano gli antichi che parlavano in versi, secondo Plutarco12. Note 1 R. Barthes, Parola , in Enciclopedia, X. Opinione-Probabilità , Torino, Einaudi, 1980, pp. 418-437. 2 F. de Saussure, Cours de linguistique générale , Paris, Payot, 1922 [ma 1906-11] (trad. it. Bari, Laterza, 1970, pp. 56 ss.). 3 R. Jakobson, Remarques sur l ’évolution phonologique du russe comparée à celle des autres langues slaves , in «Travaux du Cercle linguistique de Prague», Π (1929) (ora in Selected Writings, I. Phonological Studies, The Hague, Mouton, 1962, pp. 7-116). 4 II testo risale al 1803-4; lo si legge in Jenenser Realphilosophie (Naturphilosophie und Geistphilosophie), I. D ie Vorlesungen von 1803-04, aus dem M anuskript, hrsg. von J. Hoffmeister (Sämtliche W erke, hrsg. von G. Lasson, Bd. XIX), Leipzig, F. Meiner, 1931 (trad. it. Bari, Laterza, 1971, pp. 65-66). 5 G. Agamben, La voce, la m orte, in «Alfabeta», XV-XVI (luglio-agosto 1980), p. 26. Cfr. anche, dello stesso A .,11 linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi, 1982. 6 M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, M. Niemeyer, 1927 (trad. it. Milano, Longanesi, 1970, p. 411). 7 J. Derrida, La voix et le phénomène, Paris, P.U .F., 1967 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1968, pp. 108-110). Ha ripreso temi derridiani G.E. Simonetti, H yde Park, Milano, Memorie spa, 1978 (allegato al disco di Demetrio Stratos, Cantare la voce, coll. «Nova Musicha», n. 19, Milano, Cramps Records).

26

Voce, Parola, Linguaggio

8 J. Derrida, De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1969, p. 190). 9 J.-J. Rousseau, Essai sur l ’origine des langues, Paris, Belin, 1817, cap. XX (trad. it. Torino, Einaudi, 1989). 10 Id., art. Voixy in Dictionnaire de musique , Paris, Duchesne, 1768. 11 C. Bologna, Mostro, in Enciclopedia, IX. M ente-Operazioni, Torino, I'.inaudi, 1980, pp. 556-680: 574. 12 Plutarco, D e pyth. or., 24, 406 C.

Capitolo secondo

La voce del Silenzio

L’armoniosità totale e unitaria della voce dell’origine, naturale, materna, flusso corporeo che si fa tempo del canto modulato sul respiro e del sangue che irrora i polmoni, s’infrange e si debilita nella storia: «via via che la lingua andava perfezionandosi, la melodia si dava regole nuove, e perdeva insensibilmente l’energia antica; il calcolo degli intervalli fu così sostituito alla finezza delle inflessioni»1. Così come in Hegel l’intervallo consonantico, interrompen­ do la «pura» energia della vocale, genera il linguaggio articolato in parole ed impone all’istintivo grido animalesco lo schema intenzionale della coscienza, anche in Rousseau è la differenza (ovvero la scansione, la pausa, il silenzio) a dar vita alle lingue storiche e tutt’insieme a distinguere la voce, sonorità perfetta che precede la confusione babelica, dal suo esito comunicativo e significativo. Alla voce, rigorosamente, non è possibile riconoscere «le due modalità fondamentali della funzione linguistica, quella di significare, di cui si occupa la semiotica, e quella di comunicare, per la semanti­ ca»2. Significante «puro», «libero», la voce sgorga prima che qualsiasi carattere semiotico/semantico abbia a formularsi, «spira» come il dictator (insieme dettatore e dittatore) Amore nei versi danteschi e stilnovistici, indicando l’atto di signifi­ cazione e ad esso accennando nel mutismo della lingua; in tal modo si attua una mediazione fra 1'intentio ancora silenziosa e l’atto di parola, grazie ad una signification langagière della lingua, «cosicché le mie parole sorprendono me stesso e mi insegnano il mio pensiero»3. Così, appunto, con il suo «dettato», Eros è dittatoriale ispiratore, la sua voce è un soffio che allude e accenna senza dire, perché solo le umane parole del poeta «diranno» compiutamente quella legge inderogabile, alla cui imperiosa seduzione il linguaggio non potrà sfuggire, come l’intera 29

Metafisica della Voce

natura alla voce suadente d’Orfeo o i marinai al mortifero canto d’invito delle Sirene: «E io a lui: “Γ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”»4. Lo «spirare» d’Amore è soffio luminoso, voce che pene­ tra il corpo attraverso le orecchie (come il sibilo dello spiri­ to adiutore sciamanico), ma anche attraverso gli occhi, sot­ tilmente: «Pegli occhi fere un spirito sottile, / che fa ’n la mente spirito destare, / dal qual si move spirito d’amare, / ch’ogn’altro spiritei falce] gentile»5; e: «Veggio negli occhi de la donna mia / un lume pien di spiriti d’amore»6. Ed è di «sospiri» che il poeta «nutrie] il core», come sa Bernart de Ventadorn e ripete Petrarca sulla soglia del Canzoniere. Quel sospiro è poi, per invito dell’tìiyyeXoq ispiratore, riemesso dal poeta innamorato quale canto ricolmo di spirito e di voce dolce/soave; il πάθος e la φωνή sono i luoghi emotivi che, culturalmente, mediano questo circuito di significazione: «Mostrasi sì piacente a chi la mira / che dà per li occhi ima dolcezza al coré, / che ’ntender no la può chi no la prova: / e par che de la sua labbia si mova / un spirito soave pien d’amore, / che va dicendo a l’anima: ‘Sospira’»7. Come già lo Chenu, Robert Klein e Giorgio Agamben hanno mostrato8, la pneumatologia e la psicologia d’amore medievali poggiano sul complesso mitico-sciamanico, trasferi­ to nel quadro concettuale-dottrinale dei medici e dei filosofi arabi, di un φανταστικόν πνεύμα che va migrando come i dèmoni, gli spettri, le umbratili e spesso mute parvenze del sogno. E così, già in pensatori quali Alberto Magno, o Tommaso d’Aquino9, è l’ingrossamento del cuore, per l’afflus­ so degli spiriti e del sangue in eccesso, a causare i travasi di sospiri (cioè appunto di «spiriti nel cor»), che fuggono dal cuore ferito dell’innamorato e lo fanno gemere di dolore, come in punto di morte. Tra lo «spirito», I’«immaginazione», la phantasia, l’«ispirazione» che al poeta «detta» le parole alate e luminose (giacché, come vuole insistentemente Sinesio, lo spiritus phantasticus emette raggi, quelli stessi che permettono di vedere i sogni, nel teatro notturno), esiste un concatena­ mento essenziale e inscindibile. La voce del poeta soffia fuori dal corpo caldo, dal sangue fumante vapori, e s’innalza oltre lo 30

La voce del Silenzio

spazio umano-animale, al di là del confine del terrestre, fino ad annullare ogni traccia di dicibilità, imponendo il silenzio che s’addice all’Amore ed alla Morte. È la voce del silenzio10 che parla dell’indicibile, attratta dal destro, che non può prender corpo in parole, che non riesce a sopportare il fardello carnale del logos fatto per comunicare significati, ma «tende-verso» quel linguaggio che è il suo fine ed anche la sua fine: «per la via (love il λόγος mi conduce come un soffio, là io debbo andare», scrive Platone11. Suonato come uno strumento musicale dallo spirito la cui voce gli soffia nel cuore e pulsa nel suo respiro, il poeta sa che quel λόγος è solo la traduzione nelle sue parole ileU’indicibile φωνή. E si fa flatus vocis, attraversando lo spazio desertico dove «Nulla è ancora detto», dove «Nulla può dirsi»; diviene discorso-in-soffio. La sua voce si dissolve nel logos per esistere ancora come forma memoriale, φωνή ϋναρθρος, voce articolata in parole che si distingue dal grido dell’Animalità (o dal sussurrare confuso della Cosalità), come pure dall’armonia totale dell’origine. Solo morendo, e tacendo di quella morte da cui trae vita la parola (e che, di fatto, le «dà la parola»), la φωνή può conservarsi nella risonanza profonda che è dietro le «parole ispirate», come eco. La voce (' un eco pura: il mito dice, coerentemente, che la ninfa Eco, perduto il corpo per amore, si fa sottile, smuore per estinzione divenendo mera sonorità, voce quintessenziale: vox manet; (...) sonus est, qui vivit in illa12. L’unica via per afferrare il lembo della voce che sfugge è ncH’adeguamento al ritmo interno, alla vibrazione del sangue che per farsi pensiero è costretta a rendersi percettibile in parole. Nella tradizione indiana «il suono (nada) è la relazione che corre fra il pensiero e l’immaginazione», energia latente ma anche «forza efficace che dona all’idea forma ed espressione sonora»13. Quella forza si colloca nel luogo imprendibile che separa la «realtà trascendente» dalla «figura sonora (i ritmi) del nostro mondo immaginativo», e su di essa poggiano le immagini che chiamiamo «realtà». La sillaba om, lasciata a lungo vibrare nei canali d’immissione e d’emissione del soffio vitale, è l’espressione in forma di inarticolata «parola» di quella sonorità originale. E come si legge nella Chândogya-Upanisad, 31

Metafisica della Voce

l’essenza di tutte le essenze è il respiro (pràna) che si manifesta come sàman nella sillaba om14. Percepire quel suono eterno e primordiale è possibile solo turando il naso e le orecchie, astraendosi dai suoni e dalle parole «terrestri»: lasciandosi «risuonare» quella voce nei meandri del corpo, nelle caverne dello spirito. L’amore e il terrore, l’angoscia e la morte (che impongono il silenzio come il dito della dea Angerona a sigillare le labbra in segno apotropaico15nella religione romana antica), ma anche l’ascesi, la mistica, la poesia, sono gli echi di quella risonanza che fa cantare corpo, spirito, anima, e addirittura le pietre, come casse acustiche dell’armonia celeste. Di essa parlano Filone, Giamblico, Proclo16e molti Padri della Chiesa; Leo Spitzer e Marius Schneider17ne hanno ricostruito la vicenda metaforica e poi allegorica entro un millennio di cultura occidentale, con imprestiti assai probabili dall’Oriente. Nel poema dantesco, e prima ancora nelle canzoni e nel diario poetico-esistenziale del passaggio iniziatico dalla giovi­ nezza (il silenzio) alla maturità (la parola «viva»), quei sentimenti e quelle strutture mentali vengono piegati all’ascol­ to della voce che insuffla lo spirito nella lettera delle parole, e la vivifica. L’ascesa al cielo irrorato dal fiume di luce è anche l’apertura del linguaggio umano all’ascolto rammutolito della voce originaria. Nel Convivio18 il risplendere dell’«aere... luminoso» è percepito come liberazione dal carcere che lega l’anima «per li organi del nostro corpo». Ma nel sonetto Oltre la spera che più larga gira, commentato nell’ultimo capitolo della Vita Nuova19, quel silenzio delle parole profane di fronte alla luce ed al canto celesti (che il poeta, come gli sciamani o i mistici, è chiamato a vedere e a udire) è l’eco del silenzio sovrannaturale della parola sacra, che si esprime nella voce inudibile e indicibile: la voce autorevole, che ha potere di fecondità e di generazione; la voce fondatrice, che ordina e mantiene nel suo fluire stabilità e vitalità. È la voce del mito e dell’amore, non traducibile nella parola della ragione: è il μΰθος che accenna al λόγος, negandolo. Al di là di questa soglia, per Dante la mirabile visione dovrà attendere un nuovo stile e un nuovo λόγος, per darsi forma nell’armonia della Commedia. 32

La voce del Silenzio

Note 1 J.J. Rousseau, Voix, cit., cap. XIX. 2 E. Benveniste, La form e et le sens dans le langage, in L e langage, Π. Actes du XIIIe Congrès des Sociétés de Philosophie de langue française, Neuchâtel, Hnconnière, 1967 [ma 1966], pp. 29-40; ora in Problèmes de linguistique Onerale, 2 voll., Paris, Gallimard, 1966-1974, Π, pp. 215-241: 224. 3 M. Merleau-Ponty, Sur la phénoménologie du langage, in Problèmes actuels de la linguistique. Actes du Colloque International de Phénoménolo­ gie , Bruxelles, Desclée de Brouwer, 1952, pp. 89-109 (poi in Id., Signes, Paris, Gallimard, 117-133: 122).

1960, trad. it. Milano, H Saggiatore,

1967, pp.

4 Purgatorio , XXIV 52-54. 3 G. Cavalcanti, son. Pegli occhi fere un spinto sottile , X X V m (ΧΧΠ), I 4 (ed. D. D e Robertis, Torino, Einaudi, 1986, p. 109). 6 Id., son. XXVI (XXV), 1-2, ed. cit., pp. 86-88: 86. 7 Dante, Vita Nuova , XXVI, w . 9-14. 8 M .-D. Chenu, «Spiritus». L e vocabulaire de l'âme au XIIe siècle , in ■Revue des sciences philosophiques et théologiques», XLI (1957), pp. .*09-232; R. Klein, La form e et Γintelligible, Paris, Gallimard, 1970 (trad. it. Torino, Einaudi, 1975, pp. 5 ss.); G. Agamben, Stanze. La parola e il tantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 105 ss. E si v. ora A A .W ., Spiritus. IV Colloquio Intemazionale, Poma, 7-9 gennaio 1983, Aiti a c. di M. Fattori e M. Bianchi («Lessico Intellettuale Europeo», XXXII), Roma 1984. 9 Cfr. rispettivamente: D e m otibus animalium, 12,4; Summa theologiae, I, II, (fu. 40, a. 6 e qu. 44, a. 1, ad 2. 10 Cfr. C. Bologna, Il linguaggio del silenzio. V alterità linguistica nelle religioni del mondo classico, in «Studi storico-religiosi», Π/2 (1978), pp. »05-342. 11 Platone, Rep., Π 349d. 12 Ovidio, M et., m 399-401. n M. Schneider, D ie Bedeutung der Stimme in den alten Kulturen, in «'Tribus-Jahrbuch des Linden-Museums», num. speciale, Stuttgart, 195219*) 3 (trad. it. ne II significato della musica, Milano, Rusconi, 1970, pp. 151-181: 169). 14 Si cfr. in particolare il seguente passo, tratto dallo stesso testo (lo si legge nell’ed. a cura di P. Filippani Ronconi, Upanisad antiche e medie, Torino, Boringhieri, 1960 (2a ed. 1968), p. 202: «La parola èia re, il respiro Ipi ana] è il siman, la sillaba Om è Tudgltha. Questa coppia, invero, di parola v respiro è la re ed il siman. Tale coppia si unisce a questa sillaba: Om. Allorché si congiungono le due metà della coppia, Tuna soddisfa il desiderio Ikäma] dell’altra». 15 C. Bologna, Il linguaggio d el silenzio, cit., pp. 318 ss.

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Metafisica della Voce

16 Filone, D e s o tm ., DI 212, 28; Giamblico, D e myst., DI 9; Proclo, Comm. in Eucl. , 21 , 14. 17 L. Spitzer, Classical and Christian Ideas o f W orld Harmony , Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1963 (trad. it. Bologna, H Mulino, 1967); M. Schneider, D ie singende Steine, Fondazione L. Keimer, Kassel 1972 (trad, it. Milano, Guanda, 1980) e Id., L e style vocal dans les pays méditerranéens, in Colloque dH am m am et , I, Tunis, 1963. 18 Dante, Convivio , Π 4, 17. 19 Dante, Vita Nuova , cap. XLI.

Capitolo terzo

La voce cTAmore

La teologia e Xerotica della voce si confondono: un livello sublima e perfeziona l'altro. Il μύθος, come l'oracolo di cui ha scritto per enigmi Eraclito, che «non dice né nasconde, ma accenna (ούτε λέγει οΰτε κρύπτει, άλλα σεμαίνει)»1, può alludere alla necessità che lega ferreamente il reale, invitare la parola a sciogliere il nodo notturno dell'indecifrabile: ma non «con le parole del linguaggio», ove già risuona la voce della coscienza fattasi λόγος, ossia ragione. La voce, come il μύθος, è Γindicibile che deve ammantarsi di panni verbali, addossarsi la carne del linguaggio per rendersi visibile. In sé, è cemo-a, richiamo-da, attrazione-verso, è segno dell'apertura di una presenza all'esterno (allo spazio, nella storia). Nella strategia d'amore l'occhio seduce gettando una rete di equivoci, brillando come uno specchio incerto sulla cui superficie prende forma, rovesciato, un torbido, appannato fantasma: è, in Bernart de Ventadorn, espiritaus: «spirituale» e «spiritato» nel contempo, come il luogo corporeo in cui lo spiritus si fa visibile2. Ma è la voce a sedurre invischiando, emanando soffi che davvero irretiscono ed afferrano incorporeamente, accen­ dendo l'impersonale luccichio dello sguardo con «un lume pien di spiriti d'amore, / che porta uno piacer novo nel core, / sì che vi desta d'allegrezza vita»3. Da cuore a cuore, il tragitto di Amore è scandito sul ritmo dello spiritus, la cui «profonda voce»4 è quella stessa che riecheggia tremenda e ammutolente di fronte al corpo dell'Amata: «Là dove questa bella donna appare / s'ode una voce che le vèn davanti / e par che d'umiltà il su' nome canti / sì dolcemente, che, s'i' '1vo' contare, / sento che '1 su' valor mi fa tremare; / e movonsi nell'anima sospiri / che dicon: “Guarda; se tu coste' miri, / vedrà' la sua vertù nel ciel salita''»5. Quella voce che chiama in alto, rispecchiandosi nello sguardo d'amore e trascrivendosi nelle parole appassionate al 35

Metafisica della Voce

limite dell’umano, ha forse lo stesso suono muto, la stessa indecifrabile musicalità dallo spessore profondo, di quelTaltra di cui Eraclito oscuramente asserì che gli uomini non riescono ad intenderla, «sia prima di porgervi orecchio, sia una volta che l’hanno ascoltata (και πρόσθεν ή άκοΰσαι καί ακούσαντες τό πρώτον)»6. Ma forse anche di quello Spiritus che ispirò il profeta Isaia7 con la voce (φωνή) di un Serafino, celeste messaggero («και ήκουσα τήν φωνήν Κυρίου / et audivi vocem Domini...»), e che diverrà, nelle parole di Paolo riferite dagli A tti degli Apostoli9, lo Spiritus sanctus, voce di Colui Che È. Essa annuncia il ritorno apocalittico della confusio linguarum nella forma dell’incomprensibilità delle parole. Quello Spiritus, «riempiendo» i cuori ed i corpi dei Dodici col proprio sonus e col proprio ignis, aveva insufflato nelle loro lingue l’eloquio estatico, simile all’ebbrezza nata dal mosto, giacché per tale la scambiano i giudei, i cretesi, gli arabi e gli altri che odono nella propria lingua quella voce piena e sonora. Voce che riempie il corpo, il cuore, le orecchie, la lingua, facendoli vibrare proprio come i fischietti e gli strumenti che lo sciamano riempie dello spirito appena entrato in lui dall’orec­ chio sotto forma di sibilo, e che lo fa tremare come un albero al vento, squassandolo, conducendolo al collasso, all’isteria, all’esplosione interna, con fuoriuscita di sangue9 È una voce ambigua; la doppiezza, anzi l’indistinzione, le sono proprie. La voce di quello Spirito sibila come un serpente o una sirena tentatrice, traboccante di desiderio e ansiosa solo di erompere in grido estatico, una volta preso pieno possesso dell’anima e del corpo entro cui si è allocata. Appunto di questa inarrestabile enfiagione vocale in forma di sibilo, espansa fino al deliquio del rapimento contemplativo, parlano i mistici e certi poeti dall’aspra, carnalissima visionarietà, moralisti che nell’estrema concentrazione intorno alla pienezza corporea individuano la crisi del mondo fenomenico, il limite del Qui-ed-Ora. E per poter dire il Vuoto e il Nulla la voce di questi poeti scandisce i nomi provvisori della sazietà, dell’appagamento, dell’esuberanza, sillaba la rima ardua mediante cui il disvelamento si fa canto di gioia, sibilo sottile, fischio che, dinanzi alla visione della Luce, accompagna la perdita della 36

La voce d ’Amore

συντήρησις, la geronimiana scintilla conscientiae. Così, in versi di straordinaria densità espressivistica, un mistico che estre­ mizza la «naturalezza» fino a sconfinare oltre i suoi bordi, qual ù il francescano Jacopone, per molti aspetti erede del provenzale Marcabru, descrive nei termini d’una vocalità ultrasonica la tracimazione dello iubilus scaturito dalXabundan­ tia cordis: «L’abudanza non se pò occultare, / loco se cce forma el iubilare, / prorompe en canto che è sibilare, / che vidde Llya»10. H soffio benevolo è un vento fecondante e vivificante; ma la sua potenza è ombrosa, tremenda. La sua voce si lascia udire solo come eco: e l’eco del silenzio dà vita e pace, ma anche morte e follia. «Se la metafora del vento, del soffio luminoso e sonoro raffigura una vita interiore umana purificata, attiva, libera dalle passioni contingenti, spesso, a raffigurare l’opposto, cioè la possibilità o parte oscura e suggestionabile del­ l’uomo, vale la metafora dell’ombra (o, trasponendo all’acusti­ co, l’eco)»11. Per questo la voce esterna è solo l’eco di quella interiore, e viceversa: non c’è «luogo d’origine», ma solo «presenza identica». L’esperienza del μύθος è consentita all’uomo attraverso il contatto con il Sovrannaturale e con l’Animalesco: che si confondono, ai bordi dell’Umanità, come le due fratture opposte e coincidenti al di là delle quali alla parola umana non è dato di spingersi, e il linguaggio si congela nel deserto del silenzio. Là regna la «voce di nessuno», che è quella della poesia, come accennano i versi supremi di Paul Valéry, il poeta che dopo Dante ha meglio compreso la tragica vicenda di estraneità, di passione e di dolore che è nella voce: «Voici parler une Sagesse / et sonner cette auguste Voix / qui se connaît quand elle sonne / n’être plus la voix de personne / tant que des ondes et des bois!»12. La scaturigine della Voce è nelle «profondità del corpo proprio», là dove «i limiti della voce sono velati dal pianto» e fanno cenno verso il naufragio nell’indicibile13. Le nostre lacrime, ha scritto Valéry in un passo su cui ha richiamato l’attenzione R. Dragonetti14, sono l’«espressione della nostra impotenza ad esprimere, cioè a disfarci attraverso la parola dell’oppressione di quello che siamo»15. Solo nell’abolirsi come parola per restituirsi al silenzio del linguaggio sovrannaturale o 37

Metafisica della Voce

al grido inarticolabile dell’animalità, la voce indica la barriera della propria origine: esperienza di Dio (teologia), dell’Amore (erotismo), del Nulla (psicosi) sono, nel pensiero europeo, da sempre coniugate in uno stesso gesto, che individua il limite e lo trasgredisce, pretendendo di dire l’indicibile, ossia di significare il solo significante «vuoto» e «puro». È quanto hanno tentato Sade attraverso le lacrime della vittima, Bataille tramite l’orgia e le lacrime di Eros; ma già i mistici, vittime della propria autotortura, con le lacrime del proprio corpo e della propria anima16. Andare in cerca di quell’origine significa sondare gli spazi del corpo, dell’anima, dello spirito, in cui la parola è in formazione. Nella poesia, scrive ancora Valéry17, non parla il Linguaggio, come voleva Mallarmé, ma l’Essere, dunque la Voce. E «il Linguaggio scaturito dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio». Note 1 Fr. 93 D.-K. = G. Colli, La sapienza greca, III, Eraclito , Milano, Adelphi, 1980, p. 20 (d'ora in avanti Colli). 2 Cfr. Bernart von Ventadorn, Seine Lieder, ed. C. Appel, Halle a. S., Niemeyer, 1915, p. 87 (Chantars no pot gaire valer , v. 47). 3 G. Cavalcanti, ball. Veggio negli occhi de la donna mia, XXVI (XXV), 2-4 (ed. D. D e Robertis, cit., pp. 86-88, a p. 86).

4 Id., son. Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, XII pp. 44-45).

(ΧΓΠ),

11 (ibid.,

5 Id., ball. Veggio negli occhi de la donna mia, XXVI (XXV), 13-20 (ibid., pp. 87-88). 6 Fr. 1 D -K .= Colli, p. 26. 7 Isaia, VI 8. 8 A cta A p ., XXVIII 26. 9 Cfr. M. Eliade, L e Chamanisme et les techniques archaïques de ΐ extase, 2e éd. augmentée, Paris, Payot, 1968, spec. pp. 102 ss. E si v. anche le ricerche di G. Rouget: Notes et documents pour servir à Γétude de la musique Yoruba, in «Journal de la Société des Africanistes», X X X V /1 (1965), pp. 67-139 (specie per il tamburo ed i «linguaggi tamburati»), e La musique et la trance, Paris, Gallimard, 1980 (trad. it. riv. e aumentata a c. di G. Mangelli, Musica e trance. I rapporti fra la musica e i fenom eni d i possessione, Torino, Einaudi, 1986, spec. pp. 105 ss.).

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La voce d ’Amore

10 Jacopone da Todi, Laude, ed. F. Mancini, Bari, Laterza, 1974 (“Scrittori dTtalia”, 257), n° 25 (Sapete m i novelle de l ’A m ore), w . •19-52, p. 69. 11 E. Zolla, Le potenze dell’anima. Morfologia dello spirito nella storia della cultura, Milano, Bompiani, 1968, p. 49. 12 P. Valéry, Œuvres, 2 voll., Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 1960,1, Charmes, La Pythie, pp. 130-136 136. 13 G. Agamben, L ’Io, Γocchio, la voce / Introduzione a P. Valéry, Monsieur Teste, trad. it. Milano, H Saggiatore, 1980, pp. 9-24: 21-22. 14 R. Dragonetti, A u x frontières du langage poétique. (Etudes sur Dante, Mallarmé, Valéry), («Romanica Gandensia», IX), Gand, Romanica Ganilensia, 1961, pp. 149-156: Les larmes ou l ’impuissance du langage. (Commentaire d ’un passage de La Jeune Parque de Paul Valéry). 15 P. Valéry, Œuvres, cit., Π, p. 183 (dal Dialogue de l ’arbre). 16 Cfr. C. Bologna, Tortura, in Enciclopedia, vol. XIV, Torino, Einaudi, 1981, pp. 344-368. 17 P. Valéry, Cahiers, 2 voll., Paris, Bibl. de la Pléiade, 1 9 7 3 ,1, p. 293.

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Capitolo quarto

La Voce s'incrina

Per questo la voce è essenzialmente una metafora, di cui Iulto può «esternamente» essere detto (tono, timbro, frequen­

za, altezza, vivacità, colore, profondità, registro, ampiezza, livello ecc. ), mentre nulla può venir descritto pienamente circa la sua «sostanza interna», che è quella del flusso, del brivido e (lei sospiro. La teologia e la metafisica della voce si confondono proprio in questo punto archimedico con Γerotismo. L'inter­ dizione linguistica grava su quegli spazi concettuali: soltanto al poeta (con la lingua del μύθος che si accosta al mugolìo, al mormorio pre-sillabico1o con quella del verso allegorico, la cui parola è solo velo e pelle, ma sotto cui pulsa un sangue silenzioso) e all'amante (che non «dice» l'amore se non «I acendolo») è concessa licenza di parlarne, giacché la Poesia e l’Amore hanno origini divine. E invece, come dice Hans Karl Bühl, il protagonista di una commedia di Hugo von Hofmannsthal2rimasto sepolto vivo in Il incea e rientrato, traboccante di sfiducia verso il linguaggio, nel chiacchiericcio quotidiano: invece, dire certe cose «è un’indecenza». Tacere è l'unica maniera per lasciar sedimenta­ re e rifluire la voce interiore della coscienza, che non ha parole distinte e sonore: «mi capisco molto meno quando parlo che quando taccio». In quel torno d'anni, Ludwig Wittgenstein alle parabole del silenzio hofmannsthaliane affiancava, nel Tractatus3, il riconoscimento dell'utopicità> cioè della rigorosa uon-esistenzal della «parola piena»: dunque della voce che dice l’ineffabile. E dicibile solo ciò che è nel mondo; come il gesto significante del Signore di Delfi, la dimensione del Mistico «mostra» (si mostra), non «dice»: «il dicibile non può raggiungere nessun Presupposto e nessuna disvelatezza — poiché esso è pro-duttivo soltanto»4. Il «carattere utopico della voce», già reso visibile in filigrana dalla grande rivoluzione musicale fra Otto e Nove41

Metafisica della Voce

cento, si manifesta nel Lied: là, dove il testo si congiunge alla voce, balena «la irreversibilità del processo che dalla voce conduce per noi al discorso significativo, all’ordine sintattico del linguaggio». La voce è un sostrato, un irraggiungibile terreno che sempre si trasforma, o acqua che sempre scorre. «Essa non ha luogo proprio. Ma proprio ciò va mostrato: che il luogo del testo non la esaurisce, che esso non è affatto la sua origine. La voce non è a casa nel testo, ma nel testo soltanto può 'andare’»5. Questo precisamente insegnano le pagine aristoteliche dello scritto Sull’espressione in cui si descrive il discorso apofatico, senza suono, da cui siamo «chiamati», «avviati» al mondo, e alla sua presenza come testo. A quel pensiero, la teologia cristiana del Medio Evo sovrapporrà l’ipotesi di una rivelazione della Voce mediata dalla Parola (dal Λόγος) che rende visibile la volontà divina, recando nel linguaggio del mondo i suoi messaggi. Ma il mondo non potrà elevarsi all’origine del messaggio, se non per il tramite dell’alata parola poetica, che vola in alto6. L’ascensione mistica di Dante al Paradiso fa riecheggiare la Voce nella voce che modula il testo poetico; ma ancor più sconvolgente è l’esperienza riferita in quel sonetto, già rammentato7, entro il quale Eros ritma la propria sospirosa salita oltre il linguaggio umano e la propria ridiscesa d’incarnazione nel corpo del testo confondendo, o ancora identificando, se stesso, la Voce, lo Spirito, l’Amata: «Oltre la spera che più larga gira / passa Ί sospiro ch’esce del mio core: / intelligenza nova, che l’Amore / piangendo mette in lui, pur su lo tira. / / Quand’elli è giunto là dove disira, / vede una donna, che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira. / / Vedela tal, che quando Ί mi ridice, / io no lo intendo, sì parla sottile / al cor dolente, che lo fa parlare. / So io che parla di quella gentile, / però che spesso ricorda Beatrice, / sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care». Quell’esperienza totale, nella quale la memoria supplisce con la propria voce illuminante alla «sottigliezza» del soffio spirituale, fornendo immagini terrestri e parole umane a un dire indecifrabile, è negata alla cultura moderna, da Hölderlin a Nietzsche, da Heidegger ai filosofi del linguaggio francesi di 42

La Voce s incrina

oggi. «O parola, parola, tu mi manchi», gridava Schoenberg nella chiusa del Moses und Aron\ e Kafka, innestando il pensiero chassidico alla riflessione esistenziale, poteva sostene­ re* che «le sirene hanno un’arma ancor più fatale del loro canto, cioè il proprio silenzio». E se qualcuno riuscì a sfuggire al loro canto, «certo nessuno mai è sfuggito al loro silenzio». La de-costruzione del linguaggio, che riduca al silenzio la parola, per riconquistare la voce originaria, e dunque il luogo in cui I lo (irraggiungibile attraverso lo sguardo e la visione, come spiega Wittgenstein nel Tractatus9) si congiunga al «suo» ( lorpo, è Γattività a cui il poeta si dedica. Al di sotto della réserve du Discours10, la pagina s’appoggia sul «blanc»; e «l’air ou chant sous le texte, conduisant la divination d’ici là, y applique son motif en fleuron et cul-de-lampe invisibles»11. La Voce canta «sotto» il testo, sotto la specie di quel Verbo, la cui teologia poetica Mallarmé descrisse come la summa dell’estendibilità fenomenologica del linguaggio, repli­ cando quasi miracolosamente il μύθος giovanneo e poi hegeliano della Voce che «si fa» Parola («le Verbe, à travers l’Idée et le Temps qui sont ‘la négation identique à l’essence’ ilu Devenir devient le Tangage. Le Langage est le développe­ ment du Verbe, son idée, dans l’Etre, le Temps devenu son mode [...]. D’où les deux manifestations du Langage, la Parole et l’Ecriture, destinées [...] à se réunir toutes deux en l’Idée du Verbe [...]. Le Verbe est un principe qui se développe à iravers la négation de tout principe, le hasard, comme l’Idée, et se retrouve formant [...], lui, la Parole, à l’aide du Temps I...]»)12. È il canto di quella Voce ad accennare, come Valéry esplicherà, al nesso fra l’Animale e l’Angelo, fra il Rumore ed il Silenzio. Il démon de Γanalogie è un angelo musicale, e forse ruggisce 0 mugola per un lutto: «Des paroles inconnues chantè­ rent-elles sur vos lèvres, lambeaux maudits d’une phrase absurde? Je sortis de mon appartement, avec la sensation propre d’une aile glissant sur les cordes d’un instrument, 1rainante et légère, que remplaça une voix prononçant les mots sur un ton descendant: ‘La Pénultième est morte’»13. Il lutto che si celebra musicalmente è la sanzione d’un trapasso 43

Metafisica della Voce

simbolico, con cui si seppellisce l’illusione cTuna presenza piena ed originaria, che è quella di tutta la metafisica occidentale fondata sul «primato dell’acustico» rispetto al «visivo» (della φωνή sul γράμμα, della voce sulla scrittura), ossia dei due livelli categoriali su cui il disegno greco e poi cristiano di una metafisica della presenza si è sviluppato, da Platone a Saussure. L’articolazione armonica (Γάρμονία dell’universo, la «giusta commessura» del reale), ha rilevato Giorgio Agamben14, apparteneva ancora, nell’età presocratica e in particolare nel pensiero eracliteo, «alla sfera tattile-visiva», e fu in seguito trasferita (ma certo lo slittamento semantico e metaforico allude a una vicenda epistemologica radicale) «nella sfera numerico-acustica», a testimoniare di «una svolta nel pensiero occidentale, in cui tuttavia è ancora possibile cogliere la solidarietà fra articolazione metafisica e significare, nel passaggio dall’aspetto visivo del linguaggio a quello acustico. Solo quando saremo giunti in prossimità di questa 'articolazione invisibile’, potremo dire di essere entrati in una zona a partire dalla quale il passo indietro al di là della metafisica, che governa l’interpretazione del segno nel pensie­ ro occidentale, diventa veramente possibile». H Poeta, quanto a lui, non rinuncia a proclamare, mentre la voce s’incrina nel grido, la morte e la decomposizione della φωνή che in antico spirava dall’alto e all’alto riconduceva, annunciando l’avvento di una Musa crudele, tecnica, raggelan­ te, che nessuno spirito d’amore vivificherà: La destruction fu t ma Béatrice.... Note 1 J. Pokórny, Indogermanisches Etymologisches W örterbuch , 2 voll., Bern-München, 1959 (I)-1969 (II). 2 H . Von Hofmannsthal, D er Schwierige, [1917-19, ed. 1921], in Gesammelte W erke in Einzelausgaben , 15 voll., Frankfurt a.M., Fischer, 1952-1959, vol. Ill [1954], Dramen I (trad. it. Milano, Adelphi, 1976). 3 L. Wittgenstein, Tractatus logico~philosophicusy London, Routledge and Kegan Paul, 1961 (trad. it. Torino, Einaudi, 1964). 4 M. Cacciari, Dallo Steinhof Prospettive viennesi d e l prim o Novecento , Milano, Adelphi, 1980, p. 139.

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La Voce s incrina

5 Ibid ., p. 79. 6 C. Bologna, Il linguaggio del silenzio , cit. 7 Dante, V/ta Nuova , XLI. 8 F. Kafka, Das Schweigen der Sirenen [1917], edito da Max Brod Ira gli scritti postumi; trad. it. ne II messaggio dell’imperatore, a c. di Anita Rho, Milano, Frassinelli (Adelphi), 1967, pp. 295-296, quindi in Tutti i racconti, a c. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1970, 2a ed. 1979, pp. 388-389. 9 L. Wittgenstein, Tractatus, cit., p. 64, propos. 5.633. 10 S. Mallarmé, Variations sur un sujet. Quant au livre , in Œuvres complètes, Paris, Bibl. de la Pléiade, 1945, p. 375. 11 12 13 14

ft«/., p. 387. S. Mallarmé, Proses diverses, Notes 1869, ibid.y p. 854. S. Mallarmé, Poèmes en prose, Le Démon de l ’Analogie , /foli., p. 212. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma , cit., p. 189.

Capitolo quinto

L’autorità della Voce

Di quella stessa Voce che risuona in tutto lOccidente, da Parmenide a Heidegger, rinviando a se stessa come esplicazio­ ne dell’univoco e perpetuandosi nella propria eco, occorrerà dire l’autorità, la tremenda autorevolezza. «Una sola voce suscita il clamore dell’essere. (...) Non ci sono due vie, come si era creduto, nel poema di Parmenide, ma una sola voce dell’Essere che si riferisce a tutti i suoi modi, i più diversi, i più vari, i più differenziati»1. L’identità di quella Voce garantisce, nel suo trascriversi e ridirsi come Parola, come Scrittura, come Testo, come speculare Commento, la slabilità del sistema sacrale, teologico-filosofico, cui l’immagi­ ne di un Dio unico, eterno, trascendente, fornisce il modello categoriale. La voce di Dio è, per il pensiero occidentale μre-cristiano e cristiano, la voce dell’Essere, le cui modalità infinite di differenziazione costituiscono la storia, il tempo, il potersi-dire del linguaggio umano. Per questo la metafisica in Occidente può confluire in una teologia della Φωνή che attraverso il suo dirsi, al di là di ogni distinzione di «contenuti», si distingue nel Λόγος, in una copula atemporale che genera e feconda («salvandolo») il tempo della storia: ma di essa Φωνή nulla è predicabile, e tutto dev’essere taciuto. L’autorità della Voce impone il silenzio, si dice nel silenzio: infatti, che cosa potrebbe dirsi intorno alla Voce che in sé nulla dice, fuorché se stessa? Così i seguaci di Pitagora di Samo, narra la Vita di Apollonio Tianèo composta da Filostrato2, sulle rivelazioni del loro maestro, che ritenevano «un messo di Zeus», mantenevano «il silenzio (σιωπή) che si conviene alla divinità, poiché ascoltavano molti misteri ineffabili, che era difficile afferrare se non avessero prima appreso che anche il tacere è un discorso» (δτι καί τό σιωπάν λόγος). Nell’esperienza della teofania mistica tardo-antica e me­ dievale quei presupposti presero corpo in una perfetta 47

Metafisica della Voce

costruzione. Già nella cultura ebraica, l’udire la Voce era esperienza rara, oneroso onore concesso a pochissimi. E l’interdizione gravava poi, assoluta, sulTenunciabilità del Nome divino (dei Nomi divini) e della scrittura che, nel tetragramma, concentrava il suo potere magico-demiurgico. Lo stesso Mosè, il quale spesso udì la voce profonda e tonante di Colui Che È, dovette scandire quel Nome (esso è anzitutto un Luogo, il luogo di un’assenza che si fa presente nella Voce) secondo una profilassi rituale, che i rabbini dettagliano minuziosamente nei loro commentari, con Possessione norma­ tiva propria dei midräshtm: «egli, che era il saggio dei saggi, il grande dei grandi, pronunziò il nome del Luogo solo dopo ventuno parole; a maggior ragione nessuno oserà pronunciarlo invano», ammonisce il Sifrë sul Deuteronomio3, replicando nella traccia memoriale il dettato imperioso del Decalogo. E il Mekhilta, «la Misura», commento sulYEsodo, afferma che «le dieci parole sono la voce di Yahweh»4. Ad ogni modo, la pronuncia del Nome dovrà essere incompleta, arrestarsi prima del naturale compimento delle sillabe; una maledizione apocalittica pesa sui trasgressori: la impone Abba Shaul nel Pea sul Lenitico5. Così appunto anche gli aruspici, i sacerdoti-magistrati di Roma delegati alla divinazione del volere celeste, dovevano osservare rigorosamente il silenzio, avvolgendo nel segreto l’oracolo che la voce del portentum, del prodigium, del monstrum, dell’ostentum, aveva loro confidato6. H silenzio deve gravare sulla voce che ha parlato anche durante la celebrazione dei μυστήρια, ad Eieusi e altrove, in Grecia. I significati mantico-sacrali possono venir tradotti, nel sistema ideologico della divinazione antica, in oscure immagini, in enigmi minacciosi, in reti verbali (γρίφοι) che sono anche indovinelli, trabocchetti, trappole foniche. Ma dietro quei significanti notturni e quei significati mortiferi, la «voce illuminante» del τέρας accenna, allude, traducendo in μύθος ed in αίνος (parabola) o in αίνιγμα (enigma) il suo sapere eccessivo. La fonazione e la grammatica delle parole umane sono insufficien­ ti a decrittare quel sapere sacro. I lettori di segni e di prodigi sovrumani impongono la propria struttura linguistica ed una funzionalità semantica ai puri segni semiotici del dire prodi48

L'autorità della Voce

gioso con cui il portentum σημαίνει, nel senso di Benveniste7, secondo cui il semiotico (il segno) va riconosciuto, mentre il semantico (il discorso) dev'essere compreso. Essi trasferisco­ no nello spazio del logos, sia pure «ispirato» e contraddittorio, la traccia silenziosa e inesprimibile della φωνή che il μάντις ha udito vibrare nel cuore e nell'orecchio. E l'interpretazione del μάντις o, nelle singole culture, del chang-mong cinese, àéLharuspex latino, dell'astrologo rinascimentale, a trasformare i segni (pre)monitori «naturali», che accennano al futuro ma il cui spazio è del passato, in segni linguistici «artificiali», ovvero in un sistema simbolico totale, che abolisce la Voce conservan­ dola nella Parola impropria e simbolica8. H dio AiuSy o Aius Locutius, come ha dimostrato il Benveniste9, venne così chiamato perché volle farsi voce egli siesso, senza intermediari umani che «traducessero» il suo messaggio: Varrone dice che «Aius deus appellatus araque ei si aiuta quod eo in loco divinitus vox edita est» («il dio Aius fu chiamato così e gli fu innalzato un altare perché in questo luogo, proveniente dalla divinità, si è fatta udire una voce»)10. IEssenziale è l'impiego del verbo aio (tramite il quale è espressa anche l'opinione comune, l'autorità del «si dice», ut aiunt, o del «la legge afferma», lex ait): esso «ha valore di affermazione categorica e positiva. Colui che proferisce aio assume in proprio un'asserzione di verità. H dio Aius è chiamato così (fuod divinitus vox edita est, perché una voce divina si è fatta sentire» (e per questo Diderot nell'articolo al dio dedicato nell'Encyclopédie11> ne farà l'emblema della superstizione oscurantista). «Il suo nome non è Dicius, ma Aius, è una voce investita di autorità»12. In sé, ogni prodigio è autorevole, poiché in esso è la voce a rendersi visibile, ad aprirsi-verso l’interprete luminosamente: «prodigium è caratterizzato dall'e­ missione {prod-) di una voce divina {-agium)»ìy. L'Autorità parla sempre, perché può tacere. Anche il silenzio è per lei discorso (come sapevano i pitagorici, e Apollonio di Tiana). Alla fissità allucinatoria della formula magica, direttamente operante, l'Autorità preferisce il mormorio confuso, la riduzio­ ne della parola significativa a mera emissione di fiato sonoro. «Voce divina» è il demone che ispira Socrate14. Voci celesti odono i mistici, si è detto: e spesso si tratta di voci luminose, 49

Metafisica della Voce

owero di luci emananti sonorità. Santa Caterina da Siena, secondo la testimonianza del suo allievo e insieme padre spirituale Raimondo da Capua, ogni volta che veniva rapita in aera (...) ab Angelis (il che accadeva septies in die), ammutoliva estatica: e quando rientrava nel tempo e nello spazio normali lasciava andare la lingua in un borbottio sommesso («audivique mussitantem vocem submissam»), nel quale continuava a mormorare le stesse parole stremate e rinunciatarie: «Vidi arcana Dei: (...) ineffabilia sunt». Ed era travolta dal fervore interiore, che le riscaldava la mente, sottoponendola ad una tremenda pressione interiore (tali mentisfervores non potevano ab intra retineri). L'intero suo corpo partecipava a quelTarmonizzarsi al cosmo, nel silenzio e nel mormorio interiore; anzi, per Γindicibile gioia di tanto in tanto il cuore le balzava nel petto, «faciendo strepitum sonorosum sive sonantem, quem clarissime audiebant sociae circumstantes»15. Parole divine ode anche s. Teresa: e sono «unas palabras muy formadas, mas con los oidos corporales no se oyen, sino entiéndense muy mas claro que si se oyesen»16. Ode «una fulgidissima luce vivente», prima di lei, Ildegarda di Bingen17. Nel Cantico spirituale di s. Juan de la Cruz18 il commento ai versi mistici delle Canciones entre el Alma y el Esposo che alludono a «rios sonorosos, / el silbo de los aires amorosos» richiama la metafora biblica del torrente che inonda Γanima di gloria con la «voz fragorosa» delle sue acque (ma si tratta, spiega Juan, di una «voz espiritual» che nessun suono sensibile accompagna). È quella stessa voce dello Spirito che risuonò «discendendo dal cielo» come tuono e che, soave e possente in cielo, udì Giovanni Γevangelista a Patmos («erat tamquam vocem aquarum multarum et tamquam vocem tonitrui ma­ gni»)19. Juan è ben conscio dell'identità metaforica fra corporeo e spirituale e del fatto che nell'anatomia dell'interio­ rità nulla può dirsi «direttamente», giacché la Voce può udirsi solo come voce, e la voce può pronunciarsi solo attraverso le parole, che occultano la sonorità originaria (il «puro significan­ te», libero ancora dalla catena della significazione) dietro il corpo ombroso del «significato». Ha scritto Elémire Zolla che «quando si vuole nominare una realtà invisibile bisogna ubbidire alle leggi dell'analogia, e 50

L ’autontà della Voce

tanto meno si sarà precisi quanto più sarà smorta la similitudine; guai a scambiare le metafore per realtà come quando si dicesse anima credendo di additare un ente in modo immediato, senza capire che si sta invece rammentando il vento (άνεμος) soffiante nel gran mondo della natura per invitare così a concepire ciò che ne abbia le medesime, esatte qualità nel mondo minore e analogo che è l’uomo»20. H parlare dei mistici è esatto perché metaforico; tocca il segno come gli επεα πτερόεντα dell’antico vate perché, come nella Vernei­ nung freudiana in cui la rimozione è abolita (Freud parla di Aufhebung, come Hegel) e il contenuto rimosso viene afferrato senza galleggiare alla coscienza, quel dire emblematico si apre all’allegoria, cioè alla significazione di qualcosa di diverso da ciò che è e che dice: «L’allegoria (...) significa esattamente il non essere di ciò che rappresenta. (...) Nelle astrazioni vive l’allegorico»21. Così Juan ci mette sull’avviso, da esperto frequentatore dell’improprio e dell’indiretto, che «la voce spirituale è l’effetto prodotto da essa nell’anima, come quella sensibile imprime il suono nell’udito e l’idea nello spirito. David vuol far capire la cosa allorché dice: “Ecce dabit voci suae vocem virtutis”22. Questa virtù è la voce interna (la voz interior) poiché l’espressione di David “darà alla sua voce una voce di virtu significa: alla voce esteriore (a la voz esterior), sensibile all’esterno, darà la virtù di quella interiore. E quindi poiché Dio è una voce infinita (una voz infinita), comunicando­ si all’anima nel modo suddetto, produce in lei l’effetto di una voce immensa»23. Innumerevole è nei testi la fenomenologia di quella voce possente e autoritaria, che può essere anche dolce e soave, e che discende dal cielo e al cielo attrae; la «voce interna» sul cui ritmo, inudibile a parole, fluisce la vita del corpo che dice «Io», non fa se non replicarla come l’eco la «vera» voce. Ma a quell’autorità bisogna obbedire. (Anche Heidegger24ribadisce che la risposta dell’uomo allo Höring è l’obbedienza). La stessa voce impetuosa, luminosa, inflessibile, risuona nell’allucinazio­ ne acustica. M audire (άκούειν) la chiamata si risponderà con Xoboedire (ύπακούειν); l’obbedienza è l’eco della chiamata, come la parola che risponde lo è della voce che chiama: anche in tedesco, c’è relazione etimologica fra hören ‘udire’, e 51

Metafisica della Voce

gehorchen 'obbedire’; lo stesso in russo, fra slysat’ e poslysat’ 'sentire’, 'prestare ascolto’ e slysat’sja 'obbedire’; 'servire’ è poslyzit’). Come Amore è «dittatore» negli Stilnovisti, perché «detta» le parole poetiche insufflando lo spirito e perché «ordina» chiamando a sé senza possibilità di replica, così Dio rapisce attraverso lo Spirito che si fa voce luminosa. E così pure, là dove l’«Io» perde la Voce, smarrendo quindi il contatto con il suo corpo, è la Voce a riappropriarsi di quel corpo svuotato. Non è più «voce della coscienza», e torna invece a risuonare come voce di morte, luttuosa sonorità gridata dall’animale che non riesce ad annullarsi mantenendosi, ma si abolisce senza conservarsi, o permane senza abolire quell’«altro sé» che dev’essere abolito. La «noche oscura / con ansias en amores inflamada» del mistico poeta25, s’illuminava e diventava subito una «noche dichosa», felice, segretamente, «sin otra luz y gufa / sino la que en el corazón ardia»26; nella notte del Nulla in cui la presenza esplode, invece, la Voce si fa crudele spessore di tenebre, unghiuto sibilo che lacera l’anima, imperioso, allo stesso modo dell’Amore sibilante, in Jacopone e in altri poeti. Hmalato che «sente le voci» non tenterà neppure di sottrarsi al loro assalto fonico: l’Altro non parla a parole, come le persone, non basta turarsi le orecchie per farlo tacere; la voce/le voci dell’Altro sono «ordini», sono qualcosa che «accade» irresistibilmente. A quel punto, «X!Altro è il regno dell’ostile di cui il paziente è schiavo, servo di un potere che lo minaccia da tutte le parti. Le voci che si rivolgono a lui lo hanno isolato, lo hanno separato da tutti gli altri»27. D’autorità, la Voce giudica, e assolve o condanna. È il suo rapporto con l’«Io» e con il «Corpo» che ne fa voce «buona» o voce «cattiva», «fondatrice-fecondatrice» o «dissolutrice-sterilizzatrice». È il suo contatto con la fonte segreta della soggettività a farne testimonianza del «tono vitale», della «qualità intima», a tradurre in metafora sonora il calore o il gelo di quel vento interiore, di quell’avepoç (o anima) che risuona nelle parole della lingua. La Voce «viene», insorge senza che la coscienza voglia, o chiami: è la coscienza a venir chiamata e formata nella risonanza. Strano che nessuno abbia ideato finora una scienza della vocalità. Riconoscereste uno spirito dal suo farsi voce sonora? 52

V autorità della Voce

Deve esistere una griglia referenziale, così come esiste (lo vedremo) un reticolo di rapporti fra il «tono», il «timbro», il «registro» della voce ed i «sentimenti», o gli «stati d'animo», che generano le parole. La voce «denuncia» la verità dell'anima, lascia spirare il cuore messo a nudo. Si provi a riconoscere la voce dietro alle parole. Ben lo sapeva quel grande, barbarico psicologo che fu il poeta-assassino François Villon, il quale s'appellò (invano!) al testimone più veridico, attendendo in silenzio la sentenza... Jugié me f eusse de ma mys...28. Note 1 G. Deleuze, Différence et répétition, Paris, P.U.F., 1968 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1968, pp. 64 ss.). 2 Vita Apollonii , I 1, [19], ed. F.C. Conybeare, 2 voll., Lon­ don-Cambridge, Mass., Heinemann-Harvard Un. Press, 1969, I, p. 4. 3 ΧΧΧΠ 3, § 347 (J. Bonsirven, Textes Rabbiniques des deux premiers siècles chrétiens. Pour servir à Tintelligence du Nouveau Textament, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1935, p. 79). 4 Mekhilta, XV 26, § 104 (ibid. , p. 24). 5 M ekhilta , I 16b, § 500 (ibid., p. 119); cfr. § 1900 (ibid., p. 515). 6 G. Dumézil, La religion romane archaïque, Paris, Payot, 1966 (trad. it. Milano, Rizzoli, 1977, p. 526); C. Bologna, Mostro, cit., pp. 563 ss. 7 E. Benveniste, La form e et le sens, cit., pp. 29-40; Id., Sémiologie de la langue, in «Semiotica», I (1969), pp. 1-12 e 127-135 (ora in Problèmes, cit. pp. 43-66). 8 C. Bologna, Mostro, cit., p. 561. 9 E. Benveniste, Le vocabulaire latin des signes et des présages, in Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II. Pouvoir, droit, religion, Paris, Minuit, 1969 (trad. it. Torino, Einaudi, 1976, II, pp. 477-484: 483). 10 G. Dumézil, Les dieux des indo-européens, Paris, P .U .F ., 1952, pp. 138 ss. 11 D . Diderot, art. Aius-Locutius, dieu de la parole, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des Sciences, des A rts et des Métiers, t. I, Paris, Briasson-David-Le Breton-Durand, 1751, p. 241a (peraltro la voce è anonima). Una trad. it. si può leggere in: Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri (1751-1772), a cura di A. Pons, 2 voli., Milano, Feltrinelli 1966, I, pp. 98-99. 12 Questa frase e la precedente fra virgolette si leggono in E. Benveniste, Le vocabulaire latin, cit., trad. it. p. 483.

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Metafisica della Voce

dell’apparenza e dell’essenza, ma la loro incongruenza e dislocazione diventavano il veicolo di una conoscenza superio­ re, in cui si saldava e, insieme, si tendeva al massimo la differenza metafisica fra corporeo e incorporeo, materia e forma, significante e significato»21. In quel progetto s’inserisce, quale summa erudita del sapere ermetico antico sulla Voce e sul Silenzio, la Descriptio silentii di Celio Caleagnini, monumento al sapiente controllo della propria voce e delle parole che già prelude alla complessa normativa ed ai rituali di controllo sociale-comportamentale delle institutiones cinquecentesche (su cui si tornerà). La «Metafisica della Voce» in quelle pagine si snoda operativa­ mente in una «Antropologia della voce» che riverbera con puntualità l’immagine di una forma del vivere poggiante sul «giusto mezzo», sulla «temperanza» e sul «buon giudicio», così del pensare come dell’agire, così del proferire come del contenere la voce prima che si incarni in parola. Né per caso al mistico Jehan Gerson si deve, verso il 1400, un De refrenatione linguae, e ad Erasmo da Rotterdam, maestro del pensiero e del comportamento cinquecentesco, un Lingua, sive de linguae usu et abusu liber utilissimus: chissà quanto ispirantesi all'Ars loquendi et tacendi (1245) di Albertano da Brescia, che già si era dedicato a delineare la forma vivendi. Nel ’600, una compilazione erudita quale YHortus caelestium deliciarum del cardinale Giovanni Bona pullula di riferimenti al Silenzio, entro un disegno di collezione di apoftegmi utili a plasmare il carattere del «buon cristiano». Ma di simili richiami alla concentrazione interiore e all’addomesticamento della voce riecheggia buona parte della cultura occidentale moderna. La base filosofica di quella precettistica è fondata sul principio che il troppo parlare «all’esterno» confonde la silenziosa «voce mentale»: che la chiacchiera osta alla condensazione di quella voce riecheggiante nello spirito, e dalla quale dipende l’equilibrata funzionalità delle parti dell’anima. Un commenta­ tore aristotelico, Nemesio di Emesa (IV-V see.), tradotto in latino a partire dall’XI see., si occupò fra l’altro del tema: De logo id est sermone endiatheto id est qui mente concipitur et eo qui voce profertur22; anche Giamblico, nel dire inneffabili gli άσημα ονόματα, i «nomi che non significano nulla» di cui si 58

Il Nome impronunciabile

ora preoccupato Porfirio (non ultimi i nomi divini), agganciò alle partizioni dell’intelletto umano i livelli della dicibiliIà-secondo-la-lingua23. Note I Esodo , XXXin-XXXIV. Esodo, 20-21; Salmi, 17, 12; I a Timoteo, 6, 16. 3 άπρόσιτος: Ps.-Dionigi (ΓAreopagita), D e div. Nom., IV 1, in V(Urologia graeca (PG), 3, 708 D; άόρατος: De myst. TheoL, 1 1, ib id . , 997 B; Γιναφής: ibid. ; cfr. R. Roques, V univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Dionyszos, Paris, Ed. du Cerf, 1983, spec. pp. 120 ss., 115-167 e passim. Una versione italiana di Gerarchia celeste, Teologia mistica, I.eitere, è stata curata da S. Lilla, Roma, Città Nuova, 1986. 4 ακατονόμαστος: Ps.-Dionigi, De div. Nom., I 8, in PG , 3, 597 C; ‘parola secca’), basterà bere per restituirle fluidità. Poi l’aria (ò:jl avviene qualcosa d’irreparabile, e anziché prodursi l’entusiasmo, nella persona del posseduto irrompe uno spirito malvagio: ad esempio quello che conquistò il corpo d’una sacerdotessa, la celebre Pizia, denunciandosi «dall’asprezza della voce (τή τραχύτητι τής φωνής), che non rispondeva più a tono e pareva una nave sconquassata (νεώς έπειγομένης)». Quello spirito, della cui voce essa era ripiena, era muto e maligno (αλάλου καί κακού πνεύματος οϋσα πλήρης): portava in giro la sua voce in un cammino perverso; la fece stramazzare al suolo priva di sensi, fuori di sé; e in pochi giorni la condusse a morte, strappandole l’anima1. Di queste, o di simili voci disumane rimbombano le pagine dei testi evangelici, i trattati esoreistici, i resoconti inquisitoriali sui sabba stregoneschi, le pagine degli etnografi testimoni dei riti vodu o di talune disperate e apocalittiche ghost dances, ed anche i manuali di psicoterapia e i diari degli schizofrenici. Sono voci autoritarie, conducono con l’ossessione della propria eco, spesso senza parole udibili dall’esterno, alla certezza disperata che la Voce ed il Corpo non costituiscono più un’identità, una sola persona. H potere delle «voci» che ode 117

La voce malata

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la voce che sana

affatto i commentatori di Freud». Anzi, nella Standard Edition delle opere freudiane, e dunque in tutte quelle che ne derivano, non figurano neppure negli indici analitici i termini «voce», «suono», «udito», «ascolto». Paradosso ancor più straordinario, visto che, per la psicoanalisi, la Voce è il solo canale di contatto fra paziente e analista: il quale non è, rigorosamente, «un medico»: bensì un «ascoltatore» ed un «interprete» della voce che risuona nella stanza di cura. H paziente non vede neppure in volto l’interprete; lo raggiunge solo l’eco della sua voce che fornisce l’interpretazione. E così, è solo la voce del paziente che interessa all’analista: prima ancora delle parole, esiste quell’aprirsi-verso, quel manifestarsi confuso ed erratico in veste sonora. H λόγος, la ‘parola che afferma’ (o ‘che nega’) si offre all’anàmnesi psicoanalitica come φωνή, ‘parola che non afferma e non nega, ma accenna’. Questo significa l’asserzione lacaniana che «il simbolico passa per la voce»29. H simbolico è trasmesso da quel canale che conduce l’aria, il cibo, l’intero mondo esterno /^//’individuo: ossia la bocca e l’organo ad essa complementa­ re, l’orecchio. Le classiche ricerche di Abraham30, oltre a quelle di Hoffer, Scott, della Klein, di Winnicott ecc., hanno illuminato la funzione insieme conoscitiva ed erotica dell’asse orale-fonico-auditivo, a partire già dalla primissima infanzia. «L’erotismo orale, il sorriso alla madre e le prime vocalizzazio­ ni sono contemporanei»31. La voce costituisce lo scheletro intorno a cui si organizza lo sviluppo psico-somatico del bambino32: anzi, come Lacan ha individuato uno stade du miroir entro il quale la vista gioca un ruolo decisivo per l’auto-riconoscimento, così è possibile parlare anche di uno stade du respiri che articola la coscienza del corpo-proprio in quanto immissione/emissione di fiato, vibrazione delle corde vocali sollecitate dall’aria, produzione di fantasmi verbalizzabi­ li in quel vibratile ritmo. «L’inconscio è strutturato come un linguaggio», ha detto Jacques Lacan. Attraverso l’udito si incorpora la voce dei genitori: i loro incoraggiamenti, le loro minacce, dunque contemporanea­ mente l’idea di amore/passione ed il principio di autorità. «Così i comandi del super-io sono di regola verbalizzati. ‘H passo entro l’Io’ è sentito dal bambino come ‘udire l’intima 123

La voce malata

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la voce che sana

6 Cfr. E. Lombard, Essai d ’une classification des phénomènes de glossolalie, in «Archives de psychologie», VII/1 ( 1908), pp. 1-51; M. Cénac, D e certains langages créés par des aliénés. Contribution à l'étude des «glossolalies», Paris, Jouve, 1925; W.J. Samarin, Tongues o f Men and Angels. The religious language o f Pentecostalism, New York, MacMillan, 1972 (su cui si v. la recensione di G.R. Cardona in «Rassegna Italiana di Sociologia», XIV [1973], pp. 698-700); M. de Certeau, Utopies vocales: glossolalies, in A A .W ., Oralità. Cultura, letteratura, discorso. A tti del Convegno Internazionale (Urbino 21-25 luglio 1980), a c. di B. Gentili e G. Paioni, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1985, pp. 611-627 (Discussione alle pp. 628-633).

7 Sofocle, Ajax, 243 ss. 8 D e pyth. or., 1, 397 C. 9 D e d iv ., I 31, 67. 10 Cfr. Epistola Fratris Rogerii Baconis de Secretis Operibus A rtis et Elaturae, et de Nullitate Magiae, in Fr. Rogeri Bacon, Opera quaedam hactenus inedita (...), I, ed. a c. di J.S. Brewer («Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores»), London 1859, Appendix I, pp. 523-551, cap. I (De et contra apparentias fictas, et de et contra invocationes spirituum), pp. 523-524. 11 Cfr. Ippocrate, Epidemiae, V 63, in Œ uvres complètes d'Hippocrate, traduction nouvelle avec le texte grec en regard, a c. di E. Littré, 10 voll., Paris, J.-B. Baillière 1839-1861, V [1846], p. 242.

12 A tti

degli Apostoli, 9, 3 ss.; 22, 7 ss.; 26, 13 ss. 13 Cfr. Corano, sure X 2; XVH 47; XXI 5, XXIII 70; XXXIV 8 e 46; XXXVIII 4; LII 29; LXXV 16 ss. 14 M et., XIV 152-153.

15 R. Jakobson, Kindersprache, Aphasie und allgemeine Lautgesetze («Uppsala Universitets Arsskrift», 9), Uppsala, 1942 (trad. it. Torino, Einaudi, 1971). 16 XVI 17-18. 17 Cfr. J. Miller, s.v. Apollonios von Tyana, in Pauly-Wissowa, Realencyclopàdie der classischen Altertumswissenschaft, II, Stuttgart, 1895, coll. 146-148. 18 Esiodo, Op. e g. , 79. 19 Omero, II, XVIII 417 ss. 20 Ovidio, M et., X 243-297. 21 Lucano, Phars., VI 507 ss. 22 Ibid., w . 685-694. 23 Ibid., w . 567-569. 24 Ibid., w . 621-623 e v. 631. 25 Giovenale, XI 43. 26 P. Cipriano, Fas e nefas («Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche», 7), Roma, Istituto di Glottologia dell’Università di Roma, 1978. 27 J. Pokórny, Ind. Etym. W ort., cit., I, p. 106.

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Capitolo tredicesimo

H diritto alla voce

Nel variegato ventaglio semantico entro cui prendono corpo l’ideologia e l’antropologia della voce esiste un’accezione che connette in maniera diretta la fonazione alla figura pubblica dell’individuo, al suo avere voce in capitolo. H potere della voce, s’è visto, è quello dell'auctoritas; e Xauctoritas è legata alla citabilità, alla ripetizione del λόγος, che deve poter essere fissato nella scrittura. Autorità, Voce e Scrittura si incatenano, per le civiltà non orali, a un’idea di permanenza del λόγος e di labilità, erraticità e incredibilità della φωνή. H motto medievale verba volant, scripta manent (che richiama l’imagine greca, addirittura omerica, degli επεα πτερόεντα) esprime contemporaneamente la fede nello strano, extra­ umano potere della voce «alata»; è alata la Fama, la «reputazio­ ne», il «si dice» dei latini (cfr. il gr. φάτις), che si lega alla radice di fatum, «un’enunciazione che non ha una fonte personale», e di fas1e nella capacità di imprigionare sulla carta quel volo, prerogativa riconosciuta alla scrittura. Vox populi, vox Del·, così si fonda un diritto dell’oralità, impersonale e collettivo, nel quale il populus ha mille lingue e dunque nessuna voce: giacché la «sua» voce è in realtà un’eco amputata di quella di Dio. Spersonalizzata, la voce umana rimane pura manifestazione sonora di presenza, segno di vitalità e di energia, non di una forza radicata nel diritto. H popolo grida «ad alta voce» per farsi udire: ma nessuna delle mille voci che compongono quella Voce di tutti ha suono, da sola. Così, in provenzale, non aber votz vale «non avere nulla da dire», «non aver voce in capitolo», e simili sensi («qualsiasi follia dica il ricco, / la sua parola è ben accolta; / se il povero invece parla assennato, non ha voce, / e anzi, tutti lo scherniranno», recita l’antico Seneca ou lo Savi); e votz (prendre la votz) assume spesso le caratteristiche semantiche del latino consilium2. 127

Antropologia della voce

La voce in capitolo prende corpo nella terminologia del diritto medievale. Nel latino dei giuristi, dei glossatori, delle decisioni conciliari, vox passa a significare, allargando lo spettro della sua estensione: «il diritto di intentare un processo contro qualcuno», «il diritto di testimoniare», «la denuncia, fazione di legge», «il titolo, la causa», «il diritto, il titolo, la pretesa»3. A questo livello metaforico, la voce è l’espressione del furor (del θυμός) controllato dall’arte di convivere, e tradotto in valore politico. È il presentarsi di un individuo in anima e corpo di fronte alla società cui appartiene, aprendo uno spazio pubblico per il proprio esserci con la presa di parola, che la collettività dovrà sancire ufficialmente. Ad un simile stadio, ma con una spinta metaforica più ardita, va anche ascritto il senso di «articolo», «saggio», «lemma enciclopedico»: la voce di un dizionario o di un’enciclopedia è una defle molte «voci» che risuonano nel teatro del sapere. La trasmissione e la conservazione del sapere era affidata, nelle culture pre-scritturali, a specialisti della memoria (bardi, sacerdoti, poeti o cantori, iniziati ai segreti, spesso anche capifamiglia), i quali con la loro parola mantenevano nel tempo e nello spazio anche la coesione del gruppo. Fissata nella scrittura, quella traccia memoriale si è gonfiata, superando i confini della trasmissibilità orale: ed è nata l’Enciclopedia, collezione del sapere universale, nella quale fanno eco le «voci» di ogni argomento, di ogni tema o termine, che si richiamano tutte e fanno cenno reciprocamente, sui diversi piani in cui quel sapere è diviso. Dello stesso passaggio «dalla voce alla scrittura» è importante e interessante traccia nello sviluppo di cicli epici e poetico-letterari scritti a partire da narrazioni orali: si pensi alle proposte di Milman Parry sulla sopravvivenza secolare di una raffinata cultura epico-orale in Jugoslavia, cui si collegano gli studi del Lord e quelli, fra l’altro, dello Havelock sulla questione omerica e sull’«oralità» della cultura greca pre-platonica4; a quella del Duggan sul confronto fra lo «stile formulare» dei testi a tradizione scritta-orale del nostro Medio Evo (p. es. le chansons de geste) e di quelli non-orali (p. es. i romans)5\ infine alla circolazione della literatura de cordel brasiliana diffusa dai cantastorie popolari, ma poi affidata ad opuscoli correnti per le mani, e da qui riassorbita anche a livello di cultura «alta»6. 128

Il diritto alla voce

Il diritto di esistere e di parlare è affidato, ormai, alla scrittura, non più alla voce. Chi presterebbe attenzione o fiducia ad una testimonianza orale che non venisse trascritta o controfirmata? Che sarà delle culture della voce, in futuro? Note 1 E. Benveniste, Le vocabulaire latin , cit., trad. it. cit. pp. 388 ss. 2 Cfr. A. D ’Agostino, Le Savi. Testo paremiologico in antico provenzale , Roma, Bulzoni 1984, p. 69, w . 313-316. 3 J. F. Niermeyer (a cura di), Mediae Latinitatis Lexicon Minus , Leiden, E. J. Brill, 1976, s.v. vox, p. 1117 a-b. 4 Cfr. M. Parry, The Making o f Homeric Verse: the Collected Papers o f M .P ., a c. di A. Parry, Oxford, Oxford Un. Press, 1971; A.B. Lord, The Singer o f Tales, Harvard Un. Press, Cambridge, Mass., 1960; E.A. Havelock, Preface to Plato , Oxford Un. Press, Oxford 1963 (trad. it. Cultura orale e civiltà della scrittura: da Omero a Platone , a c. di B. Gentili, Bari-Roma, Laterza, 1973). Fra i numerosi lavori sul tema apparsi in anni recenti si v. (anche per integrare la bibliografia) : A A .W ., Oralità scrittura spettacolo , a c. di M. Vegetti, Torino, Boringhieri 1983; A A .W ., Oralità. Cultura, let teratura, discorso , cit. 5 Cfr. J.J. Duggan, The Song o f Roland. Formulaic Style and Poetic Craft, Berkeley-Los Angeles-London, Un. of California Press, 1973. Sintetizza e sviluppa il dibattito (con messa a punto bibliografica) C. Segre, Oralità e scrittura nell'epica medioevale , in A A .W ., Oralità. Cultura, letteratura, discorso , cit., pp. 19-29 (e dibattito relativo, pp. 30-39). 6 P. Zumthor, L'écriture et la voix (d'une littérature populaire brésilienne ), in «Critique», XXXVI (mars 1980), n. 394 ( = Littérature populaires - Du dit à l'écrit ), pp. 228-239. Ed ora, dello stesso autore, al quale si devono le più ricche ed acute messe a punto della questione «vocalità» nella cultura medievale (e non), cfr. almeno: Introduction à la poésie orale , Paris, Seuil, 1983 (trad, it., La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale , Bologna, Il Mulino, 1984); La lettre et la voix. De la «littérature» médiévale , Paris, Seuil, 1987 (trad, it., Bologna, Il Mulino, 1990); Introduction alla sezione Littératures de la m ix , in A A .W ., Encyclopaedia Universalis - Le grand atlas des littératures , Paris, Encyclopaedia Universalis, 1990, pp. 70-71.

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Capitolo quattordicesimo

La voce della tecnica

Probabilmente l’era tecnologica-elettronica ha restituito alla voce una vitalità smarrita durante lo sviluppo della tecnica di stampa. «La nuova era in cui siamo entrati — scrive Ong1 — ha ridato vigore all’orale e all’aurale. La voce, soffocata dalla scrittura e dalla stampa, ha preso nuovo vigore». H suono, e così pure la dimensione visivo-tattile, si espandono all’inter­ no di quello che McLuhan chiamò l’«Universo Gutenberg», individuando spazi e modalità inediti di percezione, e strumenti di trasmissione insperati. Chi avrebbe potuto sognare la conservazione e la riproduzione della voce, anche solo un secolo fa? In un romanzo di «fantascienza» come II castello dei Carpazi di Jules Verne (1892)2 sono prefigurate, qualche anno prima di Edison, l’ideazione di un fonografo, e la sua applicazione ancillare alla riproduzione delle immagini: un innamorato senza speranza tenta di ripetere il gesto mitico di Pigmalione e di Tristano, che perduto l’oggetto adorato ne costruirono l’effigie, abbandonandosi a quella sottise che è, a detta di Flaubert (La tentation de Saint Antoine), la passione erotica per una statua. Anzi, la sua immagine è ancor più perversa, priva com’è di corporeità, affidata solo all’ombra del ricordo, alla labile parvenza di uno spettro visivo. La vitalità, l’erotismo di quella conservazione oltre la morte, risiedono nella voce condensata in una scatola magica. La protagonista del romanzo verniano è Stilla, una cantante italiana dalla voce seducente e appassionata da cui il feticista è irretito: l’assenza del suo corpo si fa tanto più tormentosa, quanto la voce artificialmente mummificata sopravvive invece nel tempo, fuori del tempo. Finché il fato, nell’ultima pagina del libro, manda in frantumi quel sepolcro vocale, imponendo anche allo spettro sonoro di Stilla la scomparsa definitiva. Al romanzo di Verne molto s’apparentano Vinvenzione di Morel dell’argentino Adolfo Bioy Casares ed il racconto The 131

Antropologia della voce

Voice (La Voce) di Anaïs Nin, compreso in Winter o f Artifice (Inverno artificiale): sono in concreto i picchi sommi della mitologia vocale del nostro tempo. Che è la prima epoca in assoluto, nella storia, in grado di trattenere e riprodurre la voce, ottenendo mediante l’artificio e la τέχνη quell’immorta­ lità che il sogno di tutte le culture ha sempre proiettato nella mitologia3. Ci si chiedeva che voce avranno avuto gli illustri personag­ gi del passato. Di alcune la traccia è rimasta, nonostante la censura («logocentrica»?) che ha espunto dall’attenzione dei cronisti, dei biografi, dei commentatori, ogni riferimento alla vocalità o al tono e al registro. Di Saffo si sa (o è mito?) che «pareva tramare un canto melodioso di suoni», armonica «ape pieria dalla limpida voce» (πιερική μέλισσα λιγύθροος)4. A Gesù G.B. Marino, nelle Dicerie sacre, attribuì una voce dolce, che attrae come la calamita (dolcezza ed impetuosità; voce sirènica; voce orfica). Nelle Vidas dei trovatori provenzali (come, ed è ovvio, nelle biografie dei cantanti) si forniscono, inserite nell’elenco delle gesta erotiche e poetiche, rapide spettrografie vocali: Marcabru fu doptatz per sa lenga\ Peire d’Alvernha ebbe tal votz / que canta de sobr e de sotz, / e siei son son douz e plasen. A Peire Vidal fu mozzata la lingua da un marito geloso, giacché egli andava intonando le lodi di sua moglie (e cantava meilz come del mon). Un gen parlar melodioso fu donato dal destino a Bernart de Ventadorn, e in genere a tutti i trovatori secondo un topos diffuso5. In età moderna il poeta Apollinaire, che per sé scelse come avatar/senhal simbolici Merlino (la cui voce inouïe e profetica grida dalla tomba), Orfeo, Apollo «il Musagete», è ricordato dalla pittrice Marie Laurencin, che fu sua amante, per «la maniera di recitare i suoi versi con una voce bassa e melodiosa, in tono di canto, che ricordava la musica di Poulenc»6; e Irène Lagut, in un disegno famoso, adornò l’immagine dell’amico Guillaume con il cartiglio, tratto da un bel verso di lui: Bonjour mon poète; je me souviens de votre voix. Estrema dichiarazione d’amore, oltre la morte...7. Né è casuale se proprio ad Apollinaire, ed ai suoi amici collaboratori futuristi, cubisti, ecc., si devono i primi tentativi di impiego del fonografo in senso «creativo», durante serate di 132

La voce della tecnica

incisione/produzione di una nuova forma di «testo vocale», rivoluzionario e scandaloso. La filologia dovrà tener conto, forse, in futuro, del textus ne varietur stabilito «a voce», su nastro, dall’autore stesso (è il caso di Ungaretti, e di molti altri). Per la prima volta, la «viva voce» di un poeta può esser chiamata a testimoniare dell’intenzione originaria, nel proces­ so ecdotico; e d’altro canto, non aveva già il fonografo attuato uno spostamento in favore della auctoritas vocale, rispetto al telegrafo, il cui messaggio non la vibrazione della voce, ma la sua trascrizione lanciava a distanza? Lo stesso avvenne, in anni relativamente recenti, per pensatori insigni: come José Ortega y Gasset, la cui voce fu incisa in due dischi il 30 giugno 1932, per volontà del Centro de Estudios Historicos, nel quadro di un originale e precursore Arquivo de la Palabra8. Dopo l’età del fonografo, quella del telefono. Non più la «voce che si conserva», anche dopo la scomparsa dell’emitten­ te, ma (pietra di scandalo radicale) la possibilità di udire a distanza la vibrazione di una φωνή senza mai vedere il corpo che la genera. H mito di Eco, ninfa «fatta di pura voce», rivive quotidianamente. E con quel mito, anche l’eròtica della voce s’avviva di colori e di flessioni nuove. Nella leggenda, la donna ha sempre voce di zucchero, sconvolgente e suadente: douche vois le attribuisce la Poissance d’amours falsamente attribuita a Richard de Fournival9. La voix doulce, et tresarmonieuse, ed anche la voix angelique armonie des deux,, / (. . . )/ Voix, vent, aleine etparollespuissantes, / (. . . ) / Flame qui mordjusqu}au centre de Fame cantano Eustorg de Beaulieu e Maclou de la Haye nei Blasons du corps féminin cinquecenteschi, in cui il corpo d’amore della Donna è fatto a brandelli, come la Natura nei Bestiari allegorici medievali, organo per organo, voce compresa10. Quando Isotta canta dulcement, la voix acorde a Instrument: e così, se les mainz sunt beles, li lais buons, parallelamente, come vuole il topos, saranno dulce la voix, bas li tons11. L’eros è dolce, finché è il Corpo visibile ad emanarlo mediante la Voce. Ma quando la voce è sintetizzata elettronica­ mente, o trasportata dai relais e dai fili nello spazio, fino alla cornetta del telefono, e s’annuncia, imperiosa e ineludibile al pari delle antiche Sirene, con un trillo metallico, impersonale? 133

Antropologia della voce

Walter Benjamin12, in pagine di proustiana risonanza, ha evocato la prima epifania di una voce artificiale al telefono, negli anfratti oscuri e odorosi dell’infanzia berlinese: «...Quando poi, io, quasi del tutto stordito, dopo lungo brancolare per il cupo cunicolo, arrivavo a bloccare quel tumulto, staccavo la cuffia pesante come un manubrio e ci forzavo dentro la testa, allora ero consegnato senza remissione alla voce che ne usciva. E niente c’era che mitigasse la inquietante violenza con cui essa mi soggiogava. Impotente, soffrivo che essa mi fugasse la coscienza del tempo, degli impegni, delle decisioni, che essa mi paralizzasse ogni capacità di riflessione; e come il medium obbedisce alla voce che lo domina dal di fuori, così io mi arrendevo a quella qualsiasi prima intimazione, che il telefono mi recapitava». Il telefono impone la voce (la voce come eros): si impone in quanto voce. Non si sfugge al richiamo. E l’immaginario si scatena: «basta ascoltare la voce di una donna al telefono per capire se essa è bella. Nel timbro della voce si concentrano e si riflettono, assumendo l’aspetto della sicurezza di sé, della naturalezza e della disinvoltura, dell’abitudine e della capacità di ascoltarsi, tutti gli sguardi di ammirazione e di desiderio che le sono stati rivolti nel corso degli anni. Essa esprime il doppio significato della parola latina gratia, che designa insieme la riconoscenza e il favore. L’orecchio è in grado di avvertire ciò che è proprio, in realtà, dell’occhio, poiché entrambi vivono dell’esperienza e dell’apprensione di una sola bellezza. Essa è riconosciuta fin dalla prima volta, come una citazione familiare di ciò che non si era ancora mai visto»13. Lo spazio di un forse più ricco, certo assai conturbante, eros vocale si spalanca nella dimensione antropologica del nuovo secolo elettronico, e forse post-elettronico, al quale ci avviamo. E lo spazio di una durata e di un’immortalità sempre ancora promesse e miticamente narrate nella mitografia moderna. Ad essa occorrerà guardare proprio per afferrare la propria autenticità senza «regredire a un’originalità che è quella del balbettio e del grido (...). La mia autenticità la devo affermare in quella lingua che mi viene dagli altri e che non posso respingere»14. È il luogo diffuso della Vocalità riconqui134

La wce della tecnica

stata. In quello spazio si stratificano affollandosi le speranze e le illusioni più segrete, che alla Voce tornano a legarsi come al labile, necessario Soggetto del proprio esistere: Car il faut bien durer un peu plus que sa voix...15. Note 1 W.J. Ong, The Presence o f the W ord, cit., trad. it. cit. p. 102. 2 J. Verne, Il castello dei Carpazi, Paris, Metzei, 1892 (se ne v. ora una trad. it. a c. di M. D i Maio, Roma, Editori Riuniti, 1989). 3 Sugli aspetti più strettamente tecnici dell'interessante problema, solo parzialmente e desultoriamente affrontato, cfr. ora almeno: A A .W ., Dalla selce al silicio. Storia d ei mass media , a c. di G. Giovannini, Torino, Gutenberg 2000, 1991. 4 Anth. P a i , Π 69-71; cfr. l'ed. a cura di F.M. Pontani, 4 voli., Torino, Einaudi 1978-1981, I, pp. 68-69. 5 Cfr. J. Boutière A.H. Schutz, Biographies des Troubadours. Textes provençaux des X U P et X IV e siècles, 2e éd. refondue et augmentée (trad. fr. dei testi di I.-M. Cluzel), Paris, Nizet, 1973, risp. pp. 12, 263 (= C h a n ta ra i d ’aqestz trobadors , w . 79-81), 351, 26. 6 M. Laurencin, Le carnet de nuits («Ecrits et Documents des Peintres», coll. dir. par P. CaUier), Genève, 1956, p. 40. 7 Cfr. la riproduzione dell'autografo di Dans le village arabe (1915) nel catalogo dell'esposizione: Apollinaire , Paris, Bibliothèque Nationale, 1969, ill. relativa alla scheda n. 370 (pp. 122-123), impaginata fra le pp. 136-137. 8 Cfr. J. Ortega y Gasset, Obras Completas , t. IV, (1929-1933), Madrid, ed. Revista de Occidente, 1941, pp. 366-368. 9 Cfr. La Poissance dA m ou rs dello Pseudo-Richard de Poumival, a c. di G.B. Speroni, («Pubblicazioni della Fac. di Lettere e Filosofia dell'Un, di Pavia», 21 - 1st. di Filologia romanza), Firenze, la Nuova Italia, 1975, § X. 13, p. 44. 10 Cfr. i Blasons du corps fém inin, in Poètes du X V Ie siècle, a c. di J.-M. Schmidt, Paris, Bibl. de la Pléiade, 1964, pp. 322-323 (cfr. la trad, it., risp. di M. Cucchi e di C. Greppi, in L odi del corpo femminile. Poeti francesi del Cinquecento tradotti da poeti italiani, a c. di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1984, pp. 57-63). 11 Romanzo d i Tristano, fr. Sneyd1, w . 791-794: cfr. Thomas, Les fragments du Roman de Tristan, poème du XIIe siècle, a c. di B.H. Wind, Genève-Paris, Droz-Minard, p. 65. 12 W. Benjamin, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, Frankfurt a.M ., Surkhamp, 1950 (trad. it. Torino, Einaudi, 1973, pp. 19-21).

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Antropologia della voce

13 Th. W. Adorno, M inima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben , Frankfurt a.M., Surkhamp, 1951 (trad. it. Torino, Einaudi, 1979, pp. 126-127). 14 J. Starobinski, La maschera e l ’uomo , intervista di G. Ferrari, Bellinzona, ed. Casagrande, 1990, p. 31. 15 R. Barthes, L e grain de la voix (Entretiens 1962-1981), Paris, Seuil, 1981, p. 9 (trad. it. Torino, Einaudi, 1986, p. 3).

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Nota bibliografica

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Finito di stampare nel maggio 2000 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

Nell’inconscio umano la voce costituisce una forza archetipica: immagine primordiale, dotata di un potente dinamismo creatore, la quale predetermina più o meno per ciascuno di noi una configurazione mentale affettiva, se non un modo di pensare simbolico. Di qui la sua notevole capacità di generare miti e di prestarsi a significazioni religiose. Affondando le proprie radici a monte di ogni formula concettuale, questa immagine, nella sua totale cecità, ci assicura che non siamo - né voi né io - soli al mondo. È questo il motivo per cui il linguaggio è senz’altro impensabile senza la voce. Eppure, le emozioni molto intense suscitano remissione della voce, non necessariamente del linguaggio: il grido inarticolato, il gemito puro, il vocalizzo senza parole ne sono l’espressione più naturale. Le situazioni che illustrano questa corrispondenza sono innumerevoli - dal primo grido del neonato, al baccano degli scolari dopo la lezione, al grido di guerra, allo «jodel» tirolese. Esplosioni dell’essere che si identifica con la propria voce, in un moto appassionato di rimonta oltre le banalità della vita.

Corrado Bologna insegna Filologia romanza all’Università di Roma «La Sapienza». Ha pubblicato un’edizione commentata del «Liber monstrorum de diversis generibus» (Milano, 1977), oltre a studi sul rapporto fra cultura letteraria delle origini e Ordine francescano (1982 e 1984), sulla tradizione dei classici italiani (nella «Letteratura italiana» Einaudi, 1986), sui primi trovatori occitanici (1991) e sulla filologia volgare agli inizi del Cinquecento (1992).

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Cover design: Miguel Sal & C. In copertina: B. Cavallino, «La cantatrice».

ISBN 8 8 - 1 5 - 0 6 8 2 9 - 5

Società editrice il Mulino 9788815068293