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Italian Pages 226 Year 2017
MIMESIS / FILOSOFIE N. Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) comitato scientifico
Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Univ. di Urbino), Luca Taddio (Università degli Studi di Udine),Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
Francesca Gruppi
DIALETTICA DELLA CAVERNA
Hans Blumenberg tra antropologia e politica
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie n. Isbn: 9788857537672 © 2017 – mim edizioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
Introduzione. Non fare i farmacisti con Blumenberg 1. Le ragioni di uno stile 1.1. Debolezza e narrativismo 1.2. Impossibile rinuncia alla filosofia e integrazione dell’inconcettuale 1.3. Variazioni sul tema 1.3.1. Alla ricerca del Grundgedanke 1.3.2. Le «belle inesattezze» delle variazioni fenomenologiche 2. La riflessione antropologica come traccia esoterica dell’opera blumenberghiana Capitolo primo. Antropologia fenomenologica e filosofia della preistoria
1. Il divieto antropologico della fenomenologia 2. Paradossi fenomenologici: superamento del divieto e legittimità dell’antropologia 3. Un’antropologia trascendentale e storica 4. La fenomenologia della storia di Blumenberg 5. Fenomenologia e preistoria 6. Archeologia e metaforologia
Capitolo secondo. Risvegli 1. Sassi (Homo faber) 1.1. Distanza, prevenzione e aggressione: dalla pietra alla trappola e oltre 1.2 Sul concetto di tecnica: un approfondimento 1.3 Esitazione e pensosità 2. A piedi nella savana (Homo theoreticus) 2.1. Distanza, visibilità e attenzione
9 9 9 13 15 15 20 22 29 29 33 38 42 48 51 57 57 65 69 78 84 92
2.2. L’uomo come Angstwesen e l’orizzonte come soglia dell’indeterminato 2.3. Umwelt, Welt, Lebenswelt. Uomini e no 3. Discesa nelle caverne (Homo symbolicus) 3.1. Distanza, simbolo e immagine 3.2. Inconcettualità e concettualità: mito, metafora, retorica, concetto 3.2.1 Mito 3.2.2 Retorica 3.2.3 Metafora versus concetto Excursus. Sul concetto di cultura: carenza, lusso,
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compensazione e domesticazione
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Capitolo terzo. How to do nothing with words 1. Il biotopo sociale 2. L’unità minima del politico: la polis tra immunità e visibilità 3. Il meccanismo della delega e il vantaggio delle istituzioni 4. Antiassolutismo e antitotalitarismo 5. Il binomio amico/nemico 6. Autoaffermazione vs. teologia politica: volontarismo vs. decisionismo 7. How to do nothing with words: mitigazione del potere attraverso la retorica 8. Conservazione e utopia 9. Brevi conclusioni
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Bibliografia Scritti di Hans Blumenberg Scritti su Hans Blumenberg Altre fonti citate
197 197 200 207
1. Blumenberg tra umanesimo e post-umanesimo
175 177 182 183 185 188 191 195
a Emiliano
INTRODUZIONE
Non fare i farmacisti con Blumenberg
[Il giovane farmacista colto] sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o Il circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.1
1. Le ragioni di uno stile2 1.1. Debolezza e narrativismo La domanda ricorrente tra i lettori ‘occasionali’ di Hans Blumenberg concerne l’ambito disciplinare della sua produzione: si può ancora parlare 1 2
R. Bolaño, 2666, I, Adelphi, Milano 2007, pp. 285-286. Per una ricostruzione della biografia dell’autore si vedano in particolare: gli sporadici accenni dello stesso Blumenberg contenuti in Id., Passione secondo Matteo, il Mulino, Bologna 1992, pp. 61-66 e Id., Concetti in storie, Medusa, Milano 2004, pp. 2526; il breve ma efficace profilo tracciato da Andrea Borsari nella sua introduzione a Id. (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, il Mulino, Bologna 1999, pp. 9-17; quello ancor più essenziale che si trova nell’importante monografia di Franz Josef Wetz: Id., Hans Blumenberg zur Einführung, Junius, Hamburg 1993, p. 11; nonché le notizie riportate da Martin Thoemmes in Id., Die verzögerte Antwort. Neues über den Philosophen Hans Blumenberg, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 26.3.1997, p. 37 e Ferdinand Fellmann in Id., Gelebte Philosophie in Deutschland. Denkformen der Lebensweltphänomenologie und der kritischen Theorie, Alber, Freiburg-München 1983, pp. 257-258. Per un ritratto di fantasia, che tuttavia non sembra tradire biografia e opera del filosofo, si veda il romanzo di Sybille Lewitscharoff: Id. Blumenberg, Suhrkamp, Berlin 2011.
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di filosofia in senso pieno, o ci troviamo di fronte a un’opera letteraria, seppur innegabilmente penetrante sul piano teoretico? Abbiamo a che fare con un «eccentrico», che «in operoso isolamento ha scritto dei libri eruditi», o al contrario con «una personalità essenziale della storia della filosofia»?3 Ancora: il gusto per l’aneddoto e per l’Umweg, la divagazione, il tratto «torrentizio»4 e barocco della scrittura blumenberghiana costituiscono un vezzo stilistico, una forma di narcisismo con cui l’autore fa sfoggio del suo sapere smisurato, o si pongono in un rapporto di interdipendenza con i motivi più profondi del suo pensiero?5 Dove, tra le molteplici direzioni prese dalla riflessione, bisogna cercare, scavare, per portare alla luce le ragioni di uno stile che talvolta appare più simile a un ostacolo che a un viatico per la comprensione del discorso filosofico che veicola? Non sono domande inedite. In maniera più o meno estesa, la gran parte degli ‘studi blumeberghiani’ ha dedicato un’attenzione preliminare alla questione della forma; perciò vale la pena tentare di ordinare le diverse posizioni entro alcune ipotesi interpretative e indicare all’interno di esse una o più strade possibili per una lettura corretta della vasta opera blumenberghiana. Se è vero che Blumenberg è stato «l’esempio, inusuale in Germania, di un pensatore che filosofava in maniera letteraria», se egli, col suo gusto per la narrazione, per le immagini evocative, per la dimensione del mitologico, del metaforico, si è trasformato nel «filosofo del racconto infinito», la spiegazione più immediata di questa contaminazione è quella che ne individua le ragioni in una peculiare forma di scetticismo filosofico. Ed è innegabile che Blumenberg sia stato a suo modo un filosofo scettico, certamente un critico acutissimo delle pretese veritative della filosofia, dei vicoli ciechi, dei fallimenti e delle delusioni che hanno segnato il percorso della storia dello spirito, cosciente dei confini angusti del pensiero speculativo e convinto che la Begriffsgeschichte si giochi in larga misura nella dimensione dell’inconcettuale. Hans Blumenberg era «un rinnegato dell’unicità», «l’antipodo del pensatore sistematico monadico»6 intento a condensare in un unico punto prospettico e in una formula definitiva la teoria vera del 3 4 5 6
O. Müller, Sorge um die Vernunft. Hans Blumenbergs phänomenologische Anthropologie, Mentis, Paderborn 2005, p. 16. G. Vattimo, Figli di Prometeo. Blumenberg e il mito: il fascino eccessivo del pensiero debole, in «La Stampa», n°170, 1991, p. 6. Si vedano a tal proposito ad esempio le riflessioni di Carlo Gentili, che peraltro di Blumenberg non è certo un lettore occasionale, in C. Gentili, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 9. Nordhofen, E., Die Proklamation des Plurals. Zum Tode des Philosophen Hans Blumenberg, in «Die Zeit», 12.4.1996, p. 47.
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mondo. Vi è chi lo definisce una delle più autorevoli voci dello «spirito pluralistico, antimetafisico, relativistico del suo tempo», conforme al «milieu intellettuale del multiculturalismo» sorto in Francia, padre di una metaforologia le cui affinità col decostruttivismo derridiano e la sua tensione verso l’ineffabile non sarebbero state sottolineate a sufficienza.7 D’altra parte è innegabile che Blumenberg faccia professione di scetticismo in numerosi passaggi della sua smisurata opera, se per scetticismo s’intende una sorta di ponderato j’accuse al carattere «dispotico» della filosofia, laddove essa pretende di sostituirsi una volta per tutte all’universo ‘umbratile’ del mito e all’innocenza della «menzogna estetica», senza essere in grado di soddisfare la propria aspirazione all’autarchia e le proprie pretese fondative; in tal modo la filosofia rimane indissolubilmente legata alla «figura originaria della delusione»,8 alla luce della quale è lecito chiedersi se non si debba, anziché coprirli, ‘dissotterrare’ i depositi di «significatività» cresciuti nello spazio del metaforico e nel lavoro del mito, come parte integrante della Begriffsgeschichte, della stessa storia della filosofia. Tale è l’intento di Blumenberg: scrivere e riscrivere l’epopea spirituale dell’Occidente spalancando le porte a tutto quanto il pensiero speculativo ha disperatamente tentato di bandire ed espungere da sé. Da ciò dipenderebbero dunque l’enciclopedismo esasperato, la «pedanteria» nell’insistere su particolari apparentemente irrilevanti, il ricorso ad «aneddoti e vignette filosofiche» che spesso «divertono più di quanto orientino», col rischio costante di una deriva nella «provincialità».9 Questa modulazione dell’incedere riflessivo, figlia della lezione wittgensteiniana secondo cui «la filosofia non è una dottrina, ma un’attività»,10 rende la prosa di Blumenberg, seppur nella sua eleganza, di difficile comprensione per i lettori e il punto di vista dell’autore non sempre facile da rintracciare nel mare magnum delle citazioni e dei rimandi.11 Così non sono del tutto peregrine le preoccupazioni di chi – come Jürgen Habermas – individua nella mise en question della differenza di genere tra filosofia e let7
Ibidem. Per un confronto tra Blumenberg e Derrida si vedano ad esempio C. Demaria, Metaforologia e grammatologia: illeggibilità del mondo e indecidibilità del testo, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., pp. 109-138; J. C. Monod, Hans Blumenberg, Belin, Paris 2007, pp. 36-39. 8 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, Medusa, Milano 2009, pp. 472-473. 9 Cfr. J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself: Hans Blumenberg’s style, in «History of the Human Sciences», n°6, 1993, pp. 4-6. 10 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009, p. 27. 11 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 37.
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teratura, condotta dal decostruzionismo e resa possibile dalla «svolta linguistica» con cui il pensiero contemporaneo si è congedato dalla «filosofia del soggetto»,12 la compiuta impossibilità di tracciare una distinzione fra finzione e realtà e fra i corrispondenti tipi di testo e generi letterari, cosicché «la casa dell’essere viene trascinata nel vortice di una corrente linguistica priva di orientamento».13 E benché i «racconti filosofici» di Blumenberg, precisa Habermas, non aderiscano al progetto di «liquidazione» della differenza di genere, non rinuncino all’orientamento verso questioni di verità, tuttavia il rischio che il filosofo sia confuso con uno scrittore e i suoi libri letti come testi letterari è reale e documentato.14 Tuttavia vi è chi non si limita a stigmatizzare il carattere «alessandrino» del metodo blumenberghiano15 e, soprattutto, non ne cerca le ragioni in un presunto ‘reincantamento’ del linguaggio filosofico, in una metamorfosi del filosofico in letterario o mitologico, bensì, inversamente e curiosamente, in una sorta di ‘eccesso di zelo filosofico’, ossia nell’applicazione al mito delle caratteristiche della filosofia. È la filosofia che «nasce quando già le cose hanno nome» e procede interrogando nomi, come interpretazione «ri-flessa» di parole già dette, limitandosi a pronunciare «parole sue, seconde, parole che interpretano altrui parole».16 È dunque a essa che va attribuita l’operazione di denominazione, di separazione dell’essere dal linguaggio, che Blumenberg assegna già al mito, il cui scopo invece risiede nella conciliazione dell’uomo con la natura. Se Blumenberg «tinge, alla fine, il tessuto della storia di un unico colore – tendente al grigio», non è perché trasforma il ragionamento in favola, ma perché, «troppo moderno, troppo alessandrino, per scorgere i limiti della modernità»,17 dipinge erroneamente il mito con i contorni della filosofia. E se invece questa monumentalità rappresentasse uno degli elementi chiave imprescindibili per comprendere la filosofia di Blumenberg nella sua complessità? Se «l’autore si trova da qualche parte tra le righe delle sue opere»,18 è necessario rintracciare le ragioni di questo nascondimento, di questo trinceramento «dietro il suo immenso schedario»,19 e capire in che 12 13 14 15 16 17 18 19
J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 238-239. Ivi, pp. 242. Cfr. ivi, pp. 238-239, 257. Cfr. V. Vitiello, La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Laterza, Roma-Bari 1998. pp. 7-9. Ivi, pp. 18-19. Cfr. ivi, P. 20. F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit. p. 8. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 14.
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senso valga la pena penetrare nei suoi testi alla stregua di chi, smarritosi tra gli alberi di un bosco, cerca il sentiero che conduca all’uscita, la via per una visione dell’intero. 1.2. Impossibile rinuncia alla filosofia e integrazione dell’inconcettuale Innanzitutto occorre chiarire i termini dello ‘scetticismo blumenberghiano’, poiché, se è vero che la riduzione del campo operata dalla filosofia viene sottoposta a revisione, è altrettanto innegabile che tale revisione non è compiuta al fine di depotenziare la riflessione filosofica, di far sì che essa si ritragga una volta per tutte dall’orizzonte dell’indicibile. Come osserva Odo Marquard, uno dei suoi interpreti più acuti, restituendo dignità filosofica all’infinitamente piccolo, Blumenberg non ha voluto sbarazzarsi dell’infinitamente grande: non ha ceduto alla tentazione di indietreggiare di fronte al divieto metafisico di porsi le domande fondamentali (su Dio, il mondo, l’uomo, la morte, il male);20 sebbene al termine dei suoi libri «la morale non arrivi mai», ciò non significa necessariamente che ci si trovi di fronte a una «filosofia dopo (o meglio, come) la ‘fine della filosofia’».21 Solo osservando l’opera di Blumenberg da una giusta distanza, che permetta di abbracciarla nel suo insieme e di coglierne le stratificazioni, è possibile sfuggire alla tentazione di omologarla «con una facile filosofia della dissoluzione della filosofia».22 Allora apparirà chiaro come la vena scettica di Blumenberg, in una sorta di torsione riflessiva, si rivolga anche su di sé, come «scetticismo sulla scepsi».23 Occorre tornare alle grandi domande, ma con una prospettiva mutata, inesorabilmente modificata dall’insoddisfazione per i risultati raggiunti e dal disinganno rispetto alle prerogative della filosofia: se ci si attiene al catalogo kantiano delle questioni ultime, scrive Blumenberg, la precedenza non va più al «Cosa possiamo sapere?». La delusione, proprio per quello che è risultato il sapere di cui siamo stati capaci, rende necessario chiedersi: «Cos’era che volevamo sapere?». Anche l’altra questione capitale del canone: «Cosa possiamo sperare?», subisce allora una variazione, che ren20 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, in F.J. Wetz, H. Timm, (a cura di), Die Kunst des Überlebens. Nachdenken über Hans Blumenberg, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999, p. 23. 21 Cfr. J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself, cit., pp. 2-3. La stessa posizione è espressa da Carlo Gentili: cfr. Id., Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., pp. 9-10. 22 A. Borsari, Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 24. 23 E. Nordhofen, Die Proklamation des Plurals, cit., p. 47.
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de inevitabile la domanda: «Cos’era che potevamo aspettarci?» […] Dove si nasconde ciò che era stato l’aspettativa? O, forse, dove ancora potrebbe sorgere?24
La resistenza all’unità sistematica e all’ideale di purezza di una filosofia decisa a sbarazzarsi di tutto ciò che esuli dal dominio del concetto non si attua come rassegnazione a uno statuto narrativo della filosofia: dalla reintroduzione di miti e metafore all’interno della propria storia essa non esce degradata o esautorata, ma «rinvigorita».25 Se il programma cartesiano di formalizzazione della scienza è irraggiungibile, non vi è scienza o filosofia che possa svilupparsi senza miti o immagini; tutte sono «bisognose di metafore» (metaphernpflichtig),26 né si può separare la sistematica filosofica dalla sua storia. Non solo: raccontare un oggetto filosofico in maniera discorsiva e aforistica è sempre anche un modo di sopportare, attraverso una loro proliferazione, il peso delle domande, il loro potere paralizzante, senza azzardare risposte che si presumano totali e definitive ma senza rifugiarsi in un’afasica epoché; si tratta di alleviare la semplicità dei problemi attraverso la molteplicità delle loro possibili formulazioni.27 In sostanza, l’aspetto ‘resistenziale’ della prosa blumenberghiana non riguarda solo gli eccessi dogmatici della teoria, ma anche la fuga di fronte all’insistenza di interrogativi inestinguibili: si resta in prossimità dei problemi, ‘girandovi attorno’, poiché si sa a un tempo di non poterli né risolvere né eludere. Continuare a fare filosofia significa tenere «a bada l’energia delle grandi aspettative» che, deluse, potrebbero sfociare in «collera universale».28 Destreggiarsi in una costante oscillazione tra oblio e memento, alleggerimento, presa di coscienza e negazione delle scorciatoie, poiché «anche questa [è] una delle più importanti funzioni [della filosofia]: reclamare che la somma delle risposte scientifiche non costituisce la risposta alla domanda un tempo posta».29 Un’ultima osservazione: la cifra del ‘racconto filosofico’ blumenberghiano consiste in un «senso di avvolgimento quasi esasperante», per cui i 24 H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, il Mulino, Bologna 1984, p. 3. 25 C. Gentili, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 9. 26 Su questo punto si veda, tra l’altro, P. Hadot, Jeux de langage et philosophie, in «Revue de métaphisique et de morale», n°67, 1962, pp. 330-343. 27 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit. pp. 22-23. 28 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 605. 29 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006, p. 498.
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materiali utilizzati non rimandano a qualcosa di esterno, ma al loro stesso statuto e orizzonte di verità: il mito di Prometeo illustra il lavoro del mito, l’episodio della caduta del protofilosofo Talete è un aneddoto sugli aneddoti, il racconto filosofico della caverna è la parabola che «parla della filosofia e della sua funzione»:30 ogni testo è in realtà un «metatesto», ognuno costituisce una cornice che «racchiude cornici, finché la cornice diventa la cosa stessa».31 Questa forma di «auto-riflessività» labirintica non è che un’ulteriore conferma di quel movimento circolare che caratterizza la prosa blumenberghiana, il cui carattere ‘ossessivo’ mostra come la comparsa di determinati miti o metafore al centro del discorso filosofico non sia casuale né pretestuosa e che, narrando e ragionando, si orbita sempre attorno al senso e alle possibilità di narrazione e ragionamento. 1.3. Variazioni sul tema32 1.3.1. Alla ricerca del Grundgedanke Più che come un processo di ‘dissolvenza’ del filosofico in letterario, lo stile blumenberghiano si potrebbe forse descrivere ricorrendo al modello delle variazioni sul tema, della suite musicale,33 o alle figure dell’albero che ramifica in innumerevoli direzioni e del delta di un fiume che si apre in mille rivoli. Ciò significa innanzitutto che l’incedere del discorso ruota attorno ad alcune tesi filosofiche ‘forti’, che si ‘animano’, prendono vita e attraversano la storia nel gioco infinito delle variazioni. In riferimento a coloro che accreditano a pieno titolo Blumenberg come uno dei grandi filosofi del secolo scorso, il «dilemma dell’interprete»34 riguarda esattamente il modo di porsi nei confronti di questa tecnica compositiva: il fine di un’esegesi rigorosa e corretta consiste nel «contornare gli infiniti dettagli rendendo l’alta definizione di un discorso continuamente esposto a deviazioni, rinvii e ritorni», o nel «venire a capo del “Grundgedanke”, del pensiero e dell’insieme di idee fondamentali che ne animano la ricerca»?35 Si tratta di ripercorrere e seguire, o di contrarre, o meglio estrarre dai testi 30 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 619. 31 J.L. Koerner, Ideas about the thing, not the thing itself, cit., p. 9. 32 Per questo paragrafo, come per tutta l’introduzione, si deve molto alla ricostruzione di A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., pp. 17-22. 33 Cfr. F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit., p. 8. 34 Cfr. A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., p. 17. 35 Ivi, p. 19.
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il loro cuore duro? Nell’un caso il guadagno consisterebbe in una restituzione più fedele dell’«aroma originario, la brama dell’aconcettuale», col limite però di una parafrasi incline ad «arenarsi in una intuizione cieca»; nell’altro il taglio «crudamente ‘teorico’» consentirebbe di estrarre dalla materia testuale i paradigmi concettuali essenziali che altrimenti troppo spesso si confondono «dietro la sterminata deriva narrativa», col rischio tuttavia di «trovarsi fra le mani una concettualità vuota».36 È dunque possibile operare una «riduzione» che non tradisca i testi originali? «Quanto […] può essere lasciato da parte, senza che il residuo di questa distruzione testuale (Textvernichtung) cessi di essere veramente Blumenberg?».37 Ciò che qui Marquard intende suggerire è che per procedere a questi ‘tagli’ senza ‘provocare la morte del paziente’ il metodo corretto consiste nello scavare alla ricerca di un motivo ricorrente profondo – non solo un «punto di domanda» ma piuttosto un «pensiero fondamentale» –, accettando però le regole del gioco della variazione, ossia considerando i libri di Blumenberg come approfondimenti prospetticamente diversi innanzitutto di quel Grundgedanke, a loro volta soggetti a molteplici rifrazioni e rielaborazioni, prima ancora che come saggi filosofici dedicati a precisi contenuti e tematiche. Il vantaggio di un criterio simile si rivela allora non tanto nella semplificazione, ma nell’ottenimento di una visione d’insieme in grado di mostrare l’impresa filosofica nella sua grandiosità e complessità, nella scoperta di una continuità che non si potrebbe percepire ad esempio classificando la varietà della produzione di Blumenberg entro alcune grandi griglie categoriali o periodizzazioni.38 Insomma, forse seguire 36 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Mito e storia in Hans Blumenberg, abstract della relazione alla giornata di studio Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, Centro Culturale della Fondazione San Carlo di Modena, 16.5.1994; cit. in A. Borsari, Hans Blumenberg, cit., p. 18. 37 O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., p. 19. 38 Così ad esempio Jean Claude Monod, che pure non rifiuta in toto la prospettiva inaugurata da Marquard, suddivide il lavoro di Blumenberg in categorie tematiche legate ai contenuti espliciti attorno cui ruotano le diverse opere: agli studi di metaforologia sarebbero dedicati Paradigmen zu einer Metaphorologie (1960), Schiffbruch mit Zuschauer (1979), Die Lesbarkeit der Welt (1981) e Höhlenausgänge (1989); al discorso sul moderno Die Legitimität der Neuzeit (1966) e Die Genesis der kopernikanischen Welt (1975); ai rapporti tra mito e metafora e, più in generale, alla delineazione di una «filosofia della cultura» Arbeit am Mythos (1979) e alcune riflessioni contenute in Die Sorge geht über den Fluss (1987); infine, al tema trasversale dell’«interpretazione del tempo» Lebenszeit und Weltzeit (1986) e ampi stralci dei due grandi saggi sulla modernità (cfr. J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., pp. 12-14). Benché una simile modalità di raggruppamento possa rivelarsi indubbiamente funzionale e non illegittima, essa ha forse
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le tracce dei ‘temi esoterici’ che percorrono le riflessioni di Blumenberg può rivelarsi più fruttuoso e più conforme allo spirito del filosofo, che lavorare esclusivamente sui contenuti dichiarati. Già ai tempi del dibattito sul mito avviato dal gruppo di ricerca di «Poetik und Hermeneutik» (che Blumenberg contribuì a fondare), Marquard sembrava aver formulato in nuce la tesi del Grundgedanke, come dimostrerebbe la propensione a inscrivere la Vorlage di Blumenberg «nel contesto del suo tentativo di riabilitazione di ciò che viene discriminato come sbagliato e apparentemente nullo»: se nei Paradigmen zu einer Metaphorologie l’obiettivo era la difesa del «diritto della metafora» di fronte alle pretese di una scienza che si vuole rigorosamente formalizzata e nel saggio sulla Neuzeit la rivendicazione del «diritto dell’autoaffermazione umana e della curiosità teoretica» contro la scomunica teologica, nella prolusione su Wirkungspotential und Wirklichkeitsbegriff des Mythos si afferma «il diritto umano ai miti» contro «ogni forma di mitocritica che si apra la strada in forza di posizioni dogmatiche».39 Il «diritto» è qui la Grundidee attorno a cui Blumenberg lavora filosoficamente. Successivamente sarà il concetto gehleniano di «esonero» (Entlastung) a guidare la lettura di Marquard, a costituire la lente di quegli occhiali la cui energia consente la concentrazione testuale che s’intende raggiungere. Propria degli uomini è l’incapacità di tollerare l’assoluto, questo l’assunto di fondo che anima la riflessione blumenberghiana nella sua interezza. Che si considerino le strategie di autoconservazione (Selbstheraltung) e autoaffermazione (Selbstbehauptung) messe in atto per difendersi dall’«assolutismo teologico» di un Dio onnipotente (Die Legitimität der Neuzeit), la mitigazione dell’«assolutismo della realtà» tramite il lavoro del mito (Arbeit am Mythos), o il riparo dall’esposizione al rischio di un rapporto immediato con la realtà grazie alla costruzione di ‘caverne’ (Höhlenausgänge), in ciascuna delle forme che assume l’Entlastung costituisce il compito vitale dell’uomo e la «cultura» la forma concreta di questo lavoro sulla distanza intesa come «esitazione», «penso-
il difetto di restare troppo in superficie, di perdere di vista tutto ciò che attraversa i testi in maniera obliqua e sotterranea e di non concentrarsi sulla possibile cifra comune in grado di comporre tra loro i vari saggi come le tessere di un grande mosaico. Inoltre questa griglia categoriale lascia completamente fuori le opere del Nachlass, che tuttavia Monod conosce in gran parte. 39 Mythos und dogma. Diskussion zu Hans Blumenbergs «Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos», in M. Fuhrmann (a cura di), Terror und Spiel, «Poetik und Hermeneutik», n°4, 1971, p. 527.
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sità» (Nachdenklichkeit).40 Tutta la filosofia di Blumenberg, sostiene Marquard, è «filosofia dell’esonero dall’assoluto».41 È dunque riconoscibile a uno sguardo acuto un punto di partenza concettuale unitario (Denkansatz), che richiede un vero e proprio lavoro d’investigazione, di ricomposizione delle tracce, per essere rilevato e riconosciuto ovunque si sia manifestato. Poiché, come ormai appare chiaro alla luce di questo tentativo d’illustrare la tecnica compositiva di Blumenberg, non esiste il saggio dedicato all’esposizione sistematica della sua Grundidee; essa è sorta e maturata gradualmente attraverso le opere, attraversandole «a poco a poco e quasi sempre solo in modo enigmatico». Secondo Franz Josef Wetz, questo Denkansatz è l’assolutismo, declinato di volta in volta come «assolutismo della metafora», «assolutismo dell’arbitrio divino» e, nella sua forma più compiuta, «assolutismo della realtà», «il vero pensiero fondamentale di Blumenberg».42 E, specularmente, le strategie distanzianti e compensatorie messe in atto dall’uomo per reagirvi e contenerlo. Di fatto, insomma, solo un modo di rinominare l’Entlastung a partire da un’angolatura lievemente dislocata. Si potrebbe allora affermare che: lo Stichwort fondamentale della riflessione blumenberghiana, ora come sfondo immaginativo ora come precisa designazione concettuale, è «distanza». Rompere l’immediatezza, allontanarsi, aggirare, ritardare l’azione, differire le urgenze, fare digressioni deviando dal percorso più breve tra due punti, sostituire, spostare, traslare […]. Prendere distanza è la prestazione basilare della coscienza intesa come struttura di rendimento (Leitungsstruktur), ovvero come complesso di operazioni costruttive.43
Al polo opposto di questa dialettica, «assolutismo» è la parola utilizzata da Blumenberg per evocare la sfingea strapotenza di tutto ciò che contrasta la vita umana: per morte, però, sia intesa anche ogni eccedenza, l’inafferrabile, l’irrappresentabile, l’incalcolabile, tutto ciò la cui massa schiaccia l’esiguità del singolo, sprofondandolo nell’insignificanza e nell’incomprensione, segnalati esisten40 Cfr. H. Blumenberg, «Pensosità», in «In forma di parole», n°3, 1981, pp. 5-18. 41 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., pp. 20-21 e Id., Lebenszeit und Lesezeit. Bemerkungen zur Oeuvre von Hans Blumenberg, in «Akzente», n°3, 1990, p. 269. 42 Cfr. F.J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, cit., pp. 12-13. 43 M. Russo, Il gioco delle distanze. Tempo, storia e teoria in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 265.
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zialmente dagli estremi dell’angoscia e della noia. Bisogna diffalcare questa massa, evitarne l’urto insopportabile, coprirsene la nuda vista: occorre istituire distanze, dal cui aumentato respiro poter scrutare ed escogitare, guardare ed ideare.44
Queste osservazioni rendono più esplicito il taglio antropologico che pure già Marquard e Wetz intuiscono essere se non il più, certamente uno dei più fecondi per comprendere la filosofia di Blumenberg, le sue tensioni, le sue domande, anche i suoi cortocircuiti; una direzione che sarà ampiamente confermata dalla progressiva pubblicazione delle opere postume. Studi successivi ruotano proprio attorno al concetto di Distanz, mettendo in rilievo un punto la cui centralità sembra essere definitivamente confermata dall’edizione di alcuni scritti del Nachlass, in particolare la Beschreibung des Menschen apparsa nel 2006, un volume monumentale e complesso che sembra occupare il posto di quel «libro fenomenologico-antropologico» di cui Marquard lamentava la mancanza, la cui esistenza avrebbe consentito di afferrare «in maniera ancor più plastica» il pensiero fondamentale della filosofia di Blumenberg».45 Concentrando l’attenzione su questo e altri testi dichiaratamente fenomenologici e antropologici e riconsiderando da tale prospettiva l’intero corpus blumenberghiano, recenti interpretazioni sottolineano ed elaborano il motivo tematico dell’actio per distans quale prestazione umana fondamentale, intesa, fenomenologicamente, come facoltà della coscienza di relazionarsi a oggetti che non sono presenti e, antropologicamente, come capacità di instaurare un rapporto mediato, preventivo, ‘culturale’ nei confronti della natura e della realtà. Al centro della filosofia di Blumenberg, dunque, l’uomo come «essere della distanza», un Grundgedanke che è potuto emergere soprattutto grazie alle scoperte più recenti, ma che in ogni caso mantiene un legame di affinità, se non di sinonimia, con quelli già individuati di Entlastung e «assolutismo».46 Soltanto mettendo a fuoco questo nucleo problematico è possibile comprendere finalmente che «gli studi di storia dello spirito di Blumenberg non sono aridi esercizi accademici», poiché «al centro di essi è sempre il problema di come l’uomo possa venire a capo di se stesso e del mondo».47 44 Ivi, p. 266. 45 Cfr. O. Marquard, Entlastung vom Absoluten, cit., pp. 22. 46 Cfr. R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur. Philosophische und theologische Perspektiven in Hans Blumenbergs Anthropologie, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009; in particolare R.A. Klein, ‚Auf Distanz zur Natur‘. Eine Beschreibung des Menschen, pp. 9-19. 47 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 14.
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Forse, di fronte alla «galassia Blumenberg»,48 all’«efflorescenza» della sua opera, l’impostazione mono-interpretativa si scontra col paradosso che uno dei pensieri fondamentali che l’attraversano è proprio la convinzione che «l’essenziale si giochi nelle deviazioni, nelle digressioni, nei cammini trasversali della cultura». Allora probabilmente occorre riavvolgere il nastro ancora una volta e ripercorrere il cammino, per scoprire «attraverso quali giri e quali svolte si operino le donazioni di senso, storicamente variate e determinate […], tramite cui l’umanità ha ‘fatto parlare’ una realtà muta».49 1.3.2. Le «belle inesattezze» delle variazioni fenomenologiche L’alternativa posta dal «dilemma dell’interprete» ci dice innanzitutto del modo blumenberghiano d’intendere la storia, e la storia delle idee, fenomenologicamente. In conclusione, ciò che di prezioso questo problema esegetico trasmette non riguarda semplicemente la rilevazione, tante volte avanzata, circa il carattere costitutivo che stile e forma hanno nella filosofia. […] Il dilemma dell’interprete traduce una caratteristica specifica e determinata del lavoro di Blumenberg. La sua qualità eminentemente ‘retorica’, la strategia difensiva messa dispendiosamente in campo a «neutralizzare» – proprio nel senso husserliano – qualunque tesi e qualunque credenza, rappresenta lo spettro illusorio, la policromia avvincente e suggestiva in cui si rifrange, sullo schermo del mito prima della storia poi, nella caverna (che è anche cinema) delle istituzioni umane, l’invarianza della nostra finitudine nel prodigio stesso della sua fantasia. Il dilemma metodico dell’interprete coglie così bene il doppio volto paradossale del pensiero di Blumenberg, che è, al tempo stesso, una atemporale fenomenologia della storia e un platonismo dell’immanenza.50
«Neutralizzate», ovvero «messe fra parentesi», sottoposte a sospensione di giudizio, affermazioni e certezze dogmatiche, Blumenberg procede all’osservazione di «oggetti esemplari», prendendo a prestito il metodo fenomenologico della «libera variazione». L’«arbitrario» non ottiene cittadinanza in quanto espressione di un’ormai raggiunta indifferenza degli oggetti e dei linguaggi rispetto alla possibilità di dire il vero, bensì perché solo attraverso il gioco ‘a briglia sciolta’ delle variazioni prodotte dall’im48 R. Brague, La galaxie Blumenberg, in «Le Débat», n°83, 1995, pp. 173-186. 49 J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 15. 50 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Mito e storia in Hans Blumenberg, cit., p. 18.
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maginazione è possibile cogliere intuitivamente ciò che permane «invincibilmente» identico nonostante tutte le deformazioni possibili dell’oggetto scelto come esempio, ovvero quell’«invariante» che per Husserl altro non era che l’«eidos», l’«essenza» o «forma essenziale ontica» cui ogni oggettività particolare rimanda. E poiché non ci troviamo in uno spazio empirico definito, bensì nel dominio della fantasia, l’orizzonte è potenzialmente illimitato e le variazioni infinite e totalmente svincolate da ogni criterio selettivo preliminare o legame con «“fatti” già dati in partenza».51 Ciò che in merito allo stile di Blumenberg si potrebbe dire è che, abbandonata la dimensione della coscienza individuale privilegiata da Husserl, egli applica il medesimo procedimento all’intera storia dello spirito, ponendo al centro di ciascuna riflessione un oggetto culturale, filosofico, un’immagine, un mitologema, assunto in modo esemplare, per ‘liberare’ letteralmente le molteplici possibilità di variazione e variazione della variazione che da esso sono scaturite nel corso del tempo e possono ancora scaturire, o che sono rimaste invisibili fino a ora, nonché quelle che germogliano spontaneamente nella mente del filosofo, poiché nessuna di esse, neanche la più infinitesimale e apparentemente insignificante, è da considerarsi illegittima, perché più ricco, più vario, più multiforme è il gioco, più ampia è la sua estensione, maggiore è la possibilità di cogliere in controluce quell’invariante cui si accennava. Anziché «indietreggiare di fronte al vago», la descrizione fenomenologica si arrischia nel campo dell’inesattezza in cui ogni fenomeno, mostrandosi, conserva sempre «il proprio sfondo di invisibilità» e che si offre solo come «unione tra ciò che è dato e ciò che si perde» entro orizzonti che possono essere costantemente spostati, messi a fuoco diversamente, ma mai esauriti e misurati definitivamente. Grazie a questo carattere d’inesattezza la variazione è libera: poiché «non può estorcere il consenso e impedire altre variazioni». Ed è perciò che, considerando il suo pensiero a partire da questa prospettiva, Blumenberg si può concedere di seguire false piste, imboccare strade chiuse, soffermarsi sui vicoli ciechi, puntare su soluzioni esagerate, senza che tutto ciò appaia smodato e fuori misura.52 E ciò a maggior ragione nell’ottica di considerare il pensiero umano nel suo complesso come qualcosa di legato a «un preciso contesto», a un «terreno di coltura epocale», come un qualcosa, insomma, che ha «storia ed è incline a 51 Cfr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari 1966, pp. 303-308. 52 Cfr. M. Moxter, Die schönen Ungenauigkeiten. Hans Blumenbergs phänomenologische Variationen, in «Neue Rundschau», n°109, 1998, p. 84.
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conclusioni precipitose, approssimazioni, errori, futilità».53 La sua insistenza sull’inconcettuale e sul metaforico ha a che fare con l’applicazione al «movimento della storia spirituale» della tecnica virtuosistica delle «ombreggiature» (Abschattungen) che Husserl aveva concepito per «il dinamismo della coscienza intenzionale».54 Mediante un movimento di ricerca atto a «stanare» ogni deviazione dall’aspettativa, a «soddisfare il poter-essere-altro», la filosofia blumenberghiana opera fenomenologicamente sulla storia della ricezione per mostrare gli spazi di nuove indefinitezze aperti da varianti di racconti o metafore, leggendo i testi attraverso variazioni di contesto che consentono di sottoporli a domande poste altrove rispetto al testo stesso.55 Secondo questa prospettiva, finalmente in grado di rendere conto filosoficamente dello «strapotere dei mondi testuali di Blumenberg»56 e del loro aspetto a un tempo fascinoso e terribile, l’articolazione diffusa e disorientante del discorso rappresenta un aspetto non solo stilistico, né banalmente contenutistico, ma metodologico, dunque costitutivo, che come tale può essere in qualche modo messo da parte dalle letture che ritengono che esso sia effettivamente pervenuto a quel quid invariante sul quale ora occorrerebbe soffermarsi, ma che al tempo stesso merita di essere ripercorso e addirittura proseguito, secondo il principio di una produttività potenzialmente inarrestabile. 2. La riflessione antropologica come traccia esoterica dell’opera blumenberghiana Come mi auguro emerga da questo primo passo esplorativo compiuto nel tentativo di affacciarsi sulla «galassia Blumenberg», non abbiamo a che fare con un autore sconosciuto, dimenticato, ignorato o fatalmente frainteso. Già dieci anni fa Andrea Borsari, curatore e coautore della più significativa raccolta di studi su Blumenberg uscita in Italia, rilevava la notevole fortuna di cui la sua opera ha goduto non solo in Germania, ma anche all’estero: in primis, appunto, nel nostro Paese fin dagli anni Sessanta, grazie 53 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 13. 54 G. Carchia, Platonismo dell’immanenza. Fenomenologia e storia in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 216. 55 Cfr. M. Moxter, Die schönen Ungenauigkeiten, cit., p. 85. 56 ivi, p. 86.
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alle traduzioni della quasi totalità dei libri pubblicati in vita (mancano solo i due saggi sulla rivoluzione copernicana) e ai lavori critici di autori come Remo Bodei, Bruno Accarino, Enzo Melandri, Giovanni Leghissa, Marco Belpoliti (oltre a Gianni Carchia, Carlo Gentili e lo stesso Borsari); in seguito, seppure in misura minore, dall’inizio degli anni Ottanta anche la ricezione in lingua inglese ha avuto un notevole sviluppo e, a partire dai Novanta, le opere di Blumenberg (in particolare il saggio sulla Neuzeit e gli studi su mito e metafora) hanno cominciato a essere tradotte e ampiamente dibattute in Francia.57 Tuttavia, come accennato, dal 1997 – l’anno successivo alla morte del filosofo – a oggi, con cadenza quasi annuale hanno visto la luce un numero cospicuo di opere postume e, con ogni probabilità, i curatori del Nachlass non hanno ancora portato a termine la loro impresa. Oltre al voluminoso studio sulla «completezza» delle stelle e il mito dell’esplorazione spaziale (Die Vollzäligkeit der Sterne, 1997), negli ultimi anni dagli archivi di Blumenberg sono usciti i contributi più disparati: brevi ritratti di autori letterari e filosofici (Gerade noch Klassiker. Glossen zu Fontane, 1998; Goethe zum Beispiel, 1999; Die Verführbarkeit des Philosophen, 2000; Vor allem Fontane. Glossen zu einem Klassiker, 2002; Der Mann von Mond, 2007; Rigorismus der Wahrheit: „Moses der Ägypter“ und weitere Texte zu Freud und Arendt, 2015), l’interessante carteggio con Carl Schmitt (Briefwechsel 1971-78, 2007), ulteriori studi di Begriffsgeschichte, metaforologia e mitoanalisi (Löwen, 2001; Quellen, Ströme, Eisberge, 2012; Präfiguration. Arbeit am politischen Mythos, 2014; Schriften zur Techink, 2015), riedizioni di saggi e articoli già parzialmente pubblicati in vita (Ein mögliches Selbstverständnis, 1997; Lebensthemen, 1998; Begriffe in Geschichten, 1998; Ästhetische und metaphorologische Schriften, 2001; Geistgeschichte der Technik, 2009; Theorie der Lebenswelt, 2010; Schriften zur Literatur 1945-1948, 2017), nonché alcuni testi dall’indiscutibile valore concettuale (Zu den Sachen und zurück, 2002; Beschreibung des Menschen, 2006; Theorie der Unbegrifflichkeit, 2007). Questi ultimi in particolare contribuiscono non solo a restituire in maniera più completa la vastità e la ricchezza del pensiero di Blumenberg, ma (assieme soprattutto a Ein möglisches Selbstverständnis e Theorie der Lebenswelt) a sviluppare ulteriormente quel filone fenomenologico-antropologico che era rimasto sottotraccia e ora appare invece fondamentale, forse decisivo per comprendere appieno il suo discorso filosofico. Quel capitolo-chiave, che già traspariva dalle opere edite e che alcuni già riconoscevano come determinante, prende insomma for57 Cfr. A Borsari, Hans Blumenberg, cit., pp. 9-10, 15-17.
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ma, assume una sua autonomia e può finalmente aspirare a una collocazione più precisa entro il panorama dei grandi temi blumenberghiani. Alla luce di tutto ciò emerge come, anche nel caso di Blumenberg – similmente a quel che spesso accade al pensiero dei grandi filosofi –, la ricezione sia stata soggetta a fasi, tendenze, nuove ondate, riflussi e scoperte che ne hanno fatto una vicenda complessa e differenziata. La varietà e diversificazione delle strade interpretative è dunque in parte dipesa dalle dinamiche secondo cui l’opera di Blumenberg è stata accolta a seconda dei periodi e dei luoghi. Inoltre, come si è tentato di mostrare nelle pagine precedenti, il ‘caso Blumenberg’ presenta un’ulteriore difficoltà ermeneutica, dovuta alla maniera peculiare con cui egli ha disposto temi e contenuti all’interno dei testi. Non soltanto la maggior parte dei concetti-chiave si sviluppa lungo un percorso che ‘taglia’ letteralmente tutto l’arco della produzione filosofica, ma altresì, durante la lettura di un saggio, capita sovente di imbattersi in una riflessione, in un’analisi determinante per la decifrazione di un altro testo. L’oggetto al centro di ogni libro assume la forma del «frammento» e funge come «una sorta di deposito che il movimento del pensiero ha lasciato dietro di sé: ne è al contempo la negazione e la traccia, una sorta di memoria concreta dalla quale, per via anamnestica […], è possibile risalire alla complessità».58 Questa ‘tecnica disseminativa’, con cui Blumenberg gioca a disperdere nei luoghi più inaspettati le tracce dei propri temi portanti, rende in qualche modo la sua opera ‘inseparabile’, impossibile da scomporre secondo i suoi ‘confini materiali’, ossia l’inizio e la fine di ciascun libro. Per questo entrare in possesso del Nachlass appare così importante. Non si tratta di una semplice integrazione, di un banale arricchimento rispetto a ciò che già si sapeva, ma di pezzi fondamentali per ultimare un quadro incompleto. Inoltre, nel caso di Blumenberg, gli scritti postumi non vanno in alcun modo trattati alla stregua di ‘opere senili’, poiché egli era solito lavorare a più testi contemporaneamente, il che offre un elemento in più per comprendere quella stratificazione di temi e livelli di lettura che caratterizza i suoi saggi, giustificando ulteriormente la scelta di non accostarsi al suo pensiero secondo una prospettiva diacronica o per grandi blocchi tematici coincidenti con alcuni gruppi di libri. Come si è detto, la progressiva pubblicazione del Nachlass ha posto in primo piano una riflessione fenomenologico-antropologica che, interrogandosi sulla peculiarità delle prestazioni umane, sull’origine della co58 C. Gentili, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 10.
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scienza, sulle strategie che hanno permesso alla specie di sfruttare a suo vantaggio i propri punti deboli, sembra poter rappresentare il terreno, l’humus filosofico su cui ogni altro approfondimento si è sviluppato. A tal proposito, oltre ai testi già citati, sono altresì significativi due studi ‘giovanili’ di Blumenberg mai pubblicati, ovvero la dissertazione finale (Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie, 1947) e lo scritto di abilitazione sulla «distanza ontologica» (Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, 1950). Il fatto che già in questa sede, soprattutto nel secondo testo, la riflessione vertesse attorno alla definizione della posizione dell’uomo a partire da un confronto critico con la fenomenologia husserliana, non fa che confermare la presenza di una meditazione che ha accompagnato Blumenberg costantemente, tanto che si potrebbe affermare che la «fenomenologia antropologica» costituisca la «parte esoterica» della sua opera.59 Negli ultimi anni la ricezione in lingua tedesca è stata fortemente influenzata dalle recenti ‘scoperte’, come risulta evidente dall’impostazione dichiaratamente antropologica di alcuni degli studi recentemente apparsi in Germania.60 Tuttavia il dibattito italiano, grazie soprattutto ai contributi di 59 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein. Überlegung zu einem Aspekt der phänomenologischen Anthropologie Hans Blumenbergs, in R. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 101. 60 Si vedano in particolare, oltre al già citato saggio di Müller uscito nel 2005 e al volume curato da Klein apparso nel 2009, la monografia di Felix Heidenreich (F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, Fink, München 2005), un articolo di Franz Josef Wetz (F.J. Wetz, Der Mensch ist das Unmögliche. Blumenbergs phänomenologische Anthropologie im Nachlass, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», n°62, 2008, pp. 274-293) e il volume collettaneo curato da Michael Moxter (M. Moxter, a cura di, Erinnerung an das Humane. Beiträge zur phänomenologischen Anthropologie Hans Blumenbergs, Mohr Siebeck, Tübingen 2011). Significativo inoltre il fatto che Joachim Fischer abbia finalmente dedicato uno spazio considerevole a Blumenberg nella sua recente «antropologia filosofica» (J. Fischer, Philosophische Anthropologie, Alber, Freiburg 2008). In generale, per completare il quadro della ricezione offerto da Borsari, occorre segnalare la monografie di Philipp Stoellger (P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt. Hans Blumenbergs Metaphorologie als Lebenswelthermeneutik und ihr religionsphänomenologischer Horizont, Mohr Siebeck, Tübingen 2000), il saggio di Stephanie Waldow su Blumenberg, Cassirer e Benjamin (S. Waldow, Der Mythos der reinen Sprache. Walter Benjamin, Ernst Cassirer, Hans Blumenberg. Allegorische Intertextualität als Erinnerungsschreiben der Moderne, Wilhelm Fink, München 2006), i volumi collettanei a cura di Almut Todorow (A. Todorow, a cura di, Unbegrifflichkeit. Ein Paradigma der Moderne, Narr, Tübingen 2004), Franz Josef Wetz e Hermann Timm (F.J. Wetz, H. Timm, a cura di, Die Kunst des Überlebens, cit.); infine, in lingua inglese il saggio di Elizabeth Brient (E. Brient,
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Accarino e Borsari, non ha ignorato questa direzione ermeneutica, intuendone l’importanza ancor prima di disporre del Nachlass. Ciò che dunque questo lavoro si propone non consiste in una riconsiderazione totalmente inedita e originale del percorso filosofico di Blumenberg; si tratta piuttosto di connettere tra loro i numerosi spunti offerti dalle intuizioni degli interpreti più acuti e da un’attenta lettura del Nachlass e, sulla scia di coloro che ne collocavano in ambito antropologico il Grundgedanke, tentare di offrire una ricostruzione dell’«antropologia fenomenologica» di Blumenberg, senza dimenticare il ruolo preponderante giocato dalla fenomenologia per quanto riguarda l’elaborazione dei contenuti e l’applicazione del metodo. Non solo: seppur in forma di abbozzo, s’intende naturalmente gettare uno sguardo sull’intera opera dell’autore a partire da tale ‘riposizionamento’. Il lavoro si apre con una parte più strettamente teorica, dal titolo Per un’antropologia fenomenologica storica, ove si tenta di tracciare uno schizzo sullo statuto disciplinare e filosofico delle riflessioni antropologiche di Blumenberg, di presentare in sostanza il ‘metodo’ che egli applica alla materia viva esposta successivamente. Qui, nella consapevolezza che quest’aspetto dell’indagine avrebbe meritato un ben maggiore approfondimento, si tratteggia la costellazione di fenomenologia, antropologia e storia entro cui l’autore dispone la propria esplorazione dell’umano, nel tentativo di far luce anche sugli elementi epistemologici del discorso filosofico blumenberghiano: che cosa possiamo sapere, in che modo lo possiamo dire, che cosa resta al filosofo, quali sono i compromessi di cui la filosofia non può fare a meno. A partire dal secondo capitolo il testo segue una ‘linea narrativa’ che è possibile ricostruire, ma di cui Blumenberg si è limitato a spargere le tracce lungo le proprie opere, in cerca di un differente testo che percorra una possibile direzione di «mobilità del significante» in senso metonimico e, lavorando con associazioni, contiguità e rimandi,61 componga le principali ‘scene del divenire umani’, ossia le circostanze che hanno fatto dell’uomo quello che è. Ciò nella convinzione, da un lato, che le ipotesi sulla genesi e The Immanence of the Infinite: Hans Blumenberg and the Threshold to Modernity, Catholic University of America Press, Washington DC 2002); nonché il più volte citato testo di Monod edito nel 2007, prima monografia in lingua francese dedicata a Blumenberg. Anch’esso pervaso di riflessioni antropologiche è inoltre il volume collettaneo, curato da Alberto Fragio e Diego Giordano, che raccoglie contributi di studiosi di diverse nazionalità: A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg. Nuovi paradigmi d’analisi, Aracne, Roma 2010. 61 Per questi concetti e per la distinzione tra «opera» e «testo» si veda R. Barthes, Saggi critici, IV. Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 57-64.
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sull’evoluzione, e in generale la dimensione storica, svolgano un ruolo centrale nella riflessione antropologica di Blumenberg, dall’altro che i concetti fondamentali possano emergere con più forza e pregnanza attraverso una sorta di ‘racconto filosofico’, coerentemente con quanto Blumenberg stesso ha più volte messo in pratica. Questa parte del lavoro si svolgerà pertanto lungo quelle che ho individuato come le tre principali fasi del ‘risveglio’ umano e che, con una semplificazione (che qualsiasi paleoantropologo disapproverebbe), si potrebbero far coincidere con la comparsa di Homo habilis, di Homo erectus e di Homo sapiens (rispettivamente i tre paragrafi: Sassi, A piedi nella savana e Discesa nelle caverne). Ma, come si vedrà, non è così semplice, poiché caratteristico di Blumenberg è sondare con lo sguardo le profondità del tempo, tracciando per ogni facoltà e prestazione umana una linea che corre dai primi passi compiuti a un possibile futuro post-storico, attraversando tutta la storia. Perciò ogni paragrafo, dopo aver scavato indietro, ci getterà avanti, verso esiti avvenuti e possibili. Non solo, non è detto che Blumenberg concepisse le sue incursioni antropogenetiche come ordinabili cronologicamente e non, invece, come sovrapponibili e interscambiabili, in conformità con la pratica della libera variazione, o del mito stesso, che ammette la coesistenza e la contemporaneità di versioni differenti del medesimo racconto; in questo caso: la nascita del genere umano. Si potrebbe più semplicemente definire i tre paragrafi che compongono il secondo capitolo in tal senso: tre prospettive sulla prestazione della distanza e le sue condizioni di insorgenza, l’una secondo la prassi, l’altra secondo la visione e la teoria, l’ultima secondo la cultura e le istituzioni (allora si potrebbe dire, da homo faber a homo theoreticus a homo symbolicus). Ma anche questa suddivisione potrebbe apparire eccessivamente semplificatrice, dato che Blumenberg contamina sempre ciascun aspetto con l’altro e non concepisce mai le sfere dell’umano come compartimenti stagni. Al capitolo segue un excursus (Sul concetto di cultura) che introduce un possibile sentiero d’indagine ancora poco esplorato per quanto riguarda il pensiero di Blumenberg: il confronto con l’evoluzionismo, la biologia e la paleoantropologia. Le domande qui poste hanno l’ambizione di gettare uno sguardo da Blumenberg oltre Blumenberg, verso nuove possibili strade percorribili da una ricerca filosofico-antropologica. Credo che, se fin dall’inizio l’antropologia filosofica ha dialogato con la scienza, oggi non possa fare a meno di tener conto di teorie scientifiche che potrebbero modificarne anche radicalmente alcuni assunti centrali. D’altra parte, un’antropologia filosofica non dovrebbe mai sottrarsi alla domanda sullo spazio che è disposta a cedere alle forze del cambiamento:
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alla storia, alla politica. A un abbozzo di riflessione filosofico-politica è perciò dedicato il capitolo conclusivo, How to do nothing with words, che getta uno sguardo su un’ulteriore dimensione, quella di homo socialis, solo in parte elaborata dall’autore in modo esplicito. Qui si mostra appunto la ‘dialettica della caverna’, la tensione fra costanti e variabili, fra staticità e dinamismo, fra sedentarietà e nomadismo dell’essere umano, fra conservazione e utopia, che vuole essere il punto di caduta dell’intero saggio. Tutto ciò è soltanto un piccolo raggio di luce che penetra in un punto possibile un’opera opulenta, sterminata, che resterà filosoficamente produttiva e feconda ancora per chissà quanto tempo. Abbracciarla tutta sarebbe stato impossibile, ma quantomeno si è tentato di non cedere alla ‘tentazione del farmacista’: indietreggiare di fronte alla grandezza dell’impresa sistematica blumenberghiana per rifugiarsi nel piccolo e nel piccolissimo dei saggi brevi e degli excursus, degli esercizi e degli aneddoti, che ingannano sulla possibilità di lasciarsi trattare come episodi di letteratura filosoficamente interessanti e stilisticamente rassicuranti, bastevoli a se stessi. Lo smisurato e il minuscolo sono altrettanto illimitati nel pensiero di questo autore.
CAPITOLO PRIMO ANTROPOLOGIA FENOMENOLOGICA E FILOSOFIA DELLA PREISTORIA
Al termine di questa introduzione, è ora di volgersi a una riflessione sul metodo filosofico e sul campo disciplinare che si andrà delineando.1 Occorre cioè comprendere a un tempo in che modo Blumenberg affianchi al suo progetto «essoterico» di una «fenomenologia storica» un’«azione esoterica parallela» sotto forma di «antropologia fenomenologica»,2 che cosa intenda con questa espressione, come in realtà i due piani – quello esplicito e quello ‘segreto’ – si compenetrino e completino vicendevolmente, quale sia il ruolo svolto dalla teoria antropogenetica, come tutto ciò componga una variante originale e inedita dell’antropologia filosofica. 1. Il divieto antropologico della fenomenologia Nel ciclo di conferenze del 1931 sul tema «Fenomenologia e antropologia», Husserl stigmatizza la fascinazione delle giovani generazioni di filosofi per l’antropologia, una seduzione che non ha risparmiato nemmeno la corrente fenomenologica, stravolgendone il senso: è chiaro infatti che situare il fondamento della filosofia nell’esserci concreto dell’uomo rappresenta una riforma radicale della fenomenologia nei suoi intenti originari, ossia nel suo carattere in ultimo trascendentale. Per combattere tale fenomeno, come Husserl intende fare, deve allora essere possibile una decisione di principio tra antropologismo e trascendentalismo, superiore a tutte le forme storiche della filosofia e dell’antropologia, cioè della psicologia.3 1
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Tuttavia denuncio immediatamente quanto questa analisi sia svolta ancora in modo troppo sbrigativo e superficiale, mentre meriterebbe uno studio ampio e approfondito, soprattutto per quanto riguarda l’esegesi e la rielaborazione blumenberghiana delle opere e delle parole chiave della fenomenologia husserliana. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 313. E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie, in «Philosophy and Phenomenological Research», n°2, 1941, p. 2.
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Occorre innanzitutto chiedersi se e in che misura una filosofia fenomenologica possa trovare la propria fondazione metodologica in un’antropologia filosofica. Husserl non intende insomma rinunciare a investire la fenomenologia del mandato trascendentale che la svolta cartesiana ha assegnato alla filosofia,4 e sono gli esiti di tale cammino di continuità e superamento a condurre lontano dall’antropologia. È chiaro che, mettendo tra parentesi il mondo nella naturalezza e nell’ovvietà del suo darsi, l’epoché investe al contempo «il mio essere come uomo-tra-gli-uomini»:5 come ego trascendentale, coscienza sottoposta a riduzione fenomenologica, non posso più guardare a me stesso come all’essere umano situato nel mondo esistente e dotato della sua consistenza fisica. Ciò che ora mi interessa, come fenomenologo, ciò che è oggetto del mio giudizio teoretico, sono le esperienze della coscienza sottoposte a riduzione trascendentale nelle loro forme tipiche. La riduzione fenomenologica è «l’unica porta d’accesso al nuovo regno»:6 se essa è abbandonata, tutto è perduto. Quando ci si considera come uomini concreti si sta già presupponendo la validità del mondo, si è insomma al di qua del metodo fenomenologico-trascendentale, ancora nel campo dell’atteggiamento naturale. Ma ciò significa – per Husserl – restare fuori dal dominio della filosofia. Occorre invece tornare dall’epoché al mondo, tematizzato ora entro una dimensione nuova e più profonda; è questa la sola via possibile per riconoscere le lacune della naiveté e «fondare la scienza nella sua vera radicalità», vale a dire: la sola via per una fondazione radicale della filosofia.7 Così Husserl, con chiaro riferimento polemico all’antropologia filosofica di Scheler e all’analitica esistenziale di Heidegger (entrambe figlie illegittime della fenomenologia), formula il suo «divieto antropologico»,8 il suo anatema nei confronti dell’antropologia come campo di sapere che non raggiunge ancora il terreno filosofico.9 E tutto ciò – paradossalmente – non solo per affermare la possibilità di una filosofia come scienza rigorosa, ma anche per ripristinare il primato del mondo messo in dubbio da antropologismi e psicologismi: la filosofia, come scienza della totalità del reale, deve 4 5 6 7 8 9
Per un approfondimento rimando a E. Husserl, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, Bompiani, Milano 2009; C. Sini, Introduzione alla fenomenologia, Shake, Milano 2012. E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie, cit., p. 7. Ivi, p. 8. Ivi, p. 13. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 59. Cfr. ivi, p. 25.
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necessariamente configurarsi quale metodo descrittivo che non fa differenza fra vicino e lontano, proprio e altro. Si tratta insomma di dimostrare, attraverso il bisogno assoluto di mondo della coscienza trascendentale, il diritto di precedenza del capitolo «mondo» all’interno del sistema, senza guardare indietro al fondo fattuale di quella coscienza, al «fatto dell’uomo».10 Le leggi della coscienza che si possono descrivere fenomenologicamente sono applicabili anche all’uomo solo in quanto valide per ogni coscienza.11 Per comprendere la «fobia antropologica»12 di Husserl, bisogna sempre tenere a mente che la fenomenologia è sorta nel contesto del diciannovesimo secolo al crepuscolo, quando la teoria della selezione naturale e i risultati delle scienze positive ipotecavano fortemente l’autonomia della filosofia, limitando il suo ambito di ricerca teoretica. La tensione di Husserl nei confronti della «coscienza in generale», della coscienza pura, dell’«essere della coscienza», porta con sé come compito necessario il fatto che l’uomo come parte della natura si renda per sé «trasparente» e «transitorio», per «liberare un altro aspetto più grande».13 Questo perché ciò che gli interessa è rispondere alla domanda gnoseologica kantiana su quale sia il grado di conoscenza raggiungibile dalla filosofia; anzi, intende radicalizzarla e riformularla in questi termini: «che cosa possiamo ottenere in maniera evidente, nella sua auto-datità, come fenomeno?».14 Non c’è filosofia se non dove impariamo a lasciare da parte, rimuovere, il fatto che siamo noi a porre queste domande e trovare le risposte, se non siamo capaci di Selbstvergessenheit; è questa la condizione di successo della fenomenologia ed è proprio così che comincia la riflessione fenomenologica: mediante la riduzione, che mette «fuori azione» il fatto della contingenza del mondo e il no10 Ivi, p. 28. 11 Cfr. E. Husserl, Husserliana, XVIII. Logische Untersuchungen, I. Prolegomena zur reinen Logik, Martinus Nijhoff, Haag 1975, p. XLVIII, nota 1; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 496. 12 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002, p. 98. 13 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 9-10. In queste pagine Blumenberg si confronta parimenti con Heidegger, col quale ha un debito filosofico di non poco conto, anche in relazione alle critiche mosse alla filosofia husserliana. Sarebbe di grande interesse svolgere questo confronto che, in una trattazione più ampia, meriterebbe uno spazio cospicuo, ma in questa sede precipuo è comprendere il nesso tra antropologia e fenomenologia. Sull’intreccio HusserlHeidegger-Blumenberg si è comunque soffermato diffusamente O. Müller: cfr. Id., Sorge um die Vernunft, cit., in particolare pp. 17-139. 14 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 10.
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stro essere questi soggetti con questo apparato percettivo. Non ci si chiede più «che cosa noi possiamo sapere?», poiché la domanda è: «che cosa e come può essere pensato, cosa può diventare contenuto della coscienza?».15 Ma – così Blumenberg – la rinuncia all’interesse per l’uomo non è un processo inevitabile per la filosofia, è però certamente il destino della filosofia della coscienza, dell’idealismo, come conseguenza diretta dell’atteggiamento teoretico, che in ciò, in realtà, è vicino e non distante dalla strada tracciata dalle scienze moderne. Qui la disposizione alla teoresi nasce come funzione dell’uomo, «organo» della sua curiosità intellettuale, ma è costretta a soddisfare tale impulso oggettivando le sue stesse prestazioni conoscitive e neutralizzando la prospettiva soggettiva e la dimensione organica. L’uomo diviene «funzionario» dello scopo che si era posto e, nel lavoro scientifico, il soggetto individuale scompare e riappare come generale. Tutto ciò non ha ancora a che fare con l’idealismo o la riflessione trascendentale, è semplicemente una «conseguenza copernicana dell’irrilevanza eccentrica [dell’uomo]»,16 della chiarificazione del fatto che l’uomo non è il punto centrale del mondo. Ma – è lecito domandarsi – perché mai dovremmo trarne la conseguenza che non debba esserlo neanche del proprio stesso interesse?17 E ancora, se l’eliocentrismo ha precipitato la terra e l’uomo in un’infinita lontananza, se l’esperienza del cosmo ha fatto sì che l’essere umano si dileguasse in un’irraggiungibile distanza ai suoi stessi occhi, che non comparisse più nella sua «fotografia (Bild) del mondo»,18 se il successo della nuova scienza risiede nel livellamento della soggettività, salvata solo per quanto riguarda il genere, il soggetto generale (salvo poi rovesciarsi in un livellamento del genere stesso e divenire – la scienza – pulsione di morte del genere),19 la filosofia può comportarsi diversamente? Nell’esecuzione dell’idea della scienza l’uomo esegue su se stesso, prendendo sul serio le sue possibilità nel mondo, la legge dell’entropia: si perde come evento improbabile nell’universo fisico. La domanda è se anche la filosofia, realizzando la sua idea propria, non possa sfuggire a tale destino, e anzi possa solo contribuire al suo compimento.20 15 16 17 18 19 20
Ivi, p. 12. Corsivo mio. Ivi, p. 13. Cfr. ivi, p. 14. Ivi, p. 15. Cfr. ivi, p. 16. Ivi, p. 17.
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2. Paradossi fenomenologici: superamento del divieto e legittimità dell’antropologia Ma allora, se ci si domanda – legittimamente – in che forma la fenomenologia possa essere riattualizzata,21 bisognerà rispondere che ciò è possibile proprio ricorrendo all’antropologia e che quest’esito è in qualche modo inevitabile e preparato da Husserl stesso. Perciò si può dire che Blumenberg si disponga a una critica della fenomenologia condotta «con i suoi stessi mezzi», svelando, grazie al metodo della libera variazione, le conseguenze e le implicazioni delle tesi husserliane rimaste inosservate e nascoste.22 La sua confutatio diviene così una vera e propria revisione della fenomenologia in senso antropologico;23 la purezza della coscienza l’obiettivo polemico a cui agganciare la svolta, nei termini di una «depurificazione antropologica».24 Si tratta insomma di sviluppare un’antropologia a partire dalla teoria fenomenologica della coscienza, per fare di quella una prw/th filosofi/a25 e fortificare la fenomenologia stessa. Questa, sulla carta la filosofia «meno metafisica del Novecento», nasconde al suo interno una «criptoteologia» proprio nella misura in cui intende impedire ed escludere la possibilità di un’antropologia fenomenologica. Il Dio del fenomenologo non è altro che la quintessenza di quella soggettività pura cui anela il soggetto mondano impegnato nella «meditazione» fenomenologica. Allora, una fenomenologia antropologica si può dare solo e proprio in forma di «resistenza contro [questa] rivalità criptoteologica» e per far ciò, e assumere così uno statuto filosofico, deve declinarsi nei termini di un’«antropologia descrittiva»,26 il cui orizzonte di applicazione non può tuttavia comprendere qualsiasi cosa rientri potenzialmente nelle sue competenze. 21 Cfr. H. Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, unveröffentlichte Habilitationsschrift, Kiel 1950; cit. in O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 315. 22 Ivi, p. 321. 23 Come sostiene e documenta Müller, probabilmente nei primi anni della propria produzione filosofica Blumenberg è ancora fortemente influenzato dal veto husserliano, che supererà solo in seguito, avvicinandosi progressivamente al pensiero di Cassirer e Gehlen. Cfr. ivi, pp. 82-93. 24 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 260. Per un’analisi articolata in punti chiave del confronto di Blumenberg con Husserl si veda O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 313-324. 25 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 103. 26 H. Blumenberg, Der verborgene Gott der Phänomenologie, in Ein mögliches Selbstverständnis, Reclam, Stuttgart 1997, p. 139.
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Suo tema primario è la «descrivibilità stessa», le condizioni di descrivibilità non più delle cose, ma dell’uomo e l’uomo – come si approfondirà in seguito – può essere descritto a partire dal dato della sua visibilità (Sichtbarkeit), il che non significa semplicemente che egli è visibile di fronte a colui che si accinge alla Beschreibung, ma che la visibilità stessa lo definisce fino a determinarne l’autorappresentazione. Soprattutto, l’uomo è visibile in quanto «impenetrabile» (undurchsichtig), non trasparente e perciò in nessun modo ‘attraversabile’ e ‘oltrepassabile’ per accedere alla coscienza nella sua forma assoluta. «Il complicarsi di visibilità e opacità» autorizza invece un’antropologia fenomenologica: essa sola può comprendere davvero ciò che le teologie – in tutte le loro varianti – comunque non sanno smentire.27 Ma allora bisogna innanzitutto pensare alla coscienza come a una «coscienza incorporata», che sorge entro il rapporto «fenomenologico-corporeo tra vedere ed essere visti»: l’uomo può sentirsi osservato e provare imbarazzo e vergogna, la memoria dell’esperienza elementare della sua esposizione è ciò che gli consente di difendersi e proteggersi; da questo punto di vista la vita della coscienza è sempre osservazione di sé come coscienza incarnata ed essere-nel-mondo.28 Riprendendo la definizione di Husserl secondo cui il corpo sarebbe il «punto zero del sistema dell’orizzonte di un soggetto» inteso come polo di riferimento di datità e azioni, Blumenberg nota come tale prospettiva resti completamente spostata sul versante dell’ottica attiva di un Io considerato nella propria assenza di estensione.29 Al contrario – stravolgendo Cartesio – la res cogitans in Blumenberg coincide con la res extensa nel contesto eminentemente antropologico della Sichtbarkeit; il soggetto non è solo «polo di irradiazione» ma altresì «entità oggettuale» (Betreffgröße), non solo «punto di attacco» (Angriffspunkt) ma anche «area di precipitazione» (Niederschlagsareal), che si dà nella propria vulnerabilità di corpo e costruisce la propria identità come «storia» leggibile a partire dalle «cicatrici» che porta.30 In questa prospettiva, «il corpo è l’organo degli organi della passività: attraverso di esso si realizza il poter-lasciarsi-vedere, la visione passiva».31 E benché si possa obiettare che, nel regno animale, il fenomeno del vedere ed essere visti esi27 28 29 30 31
Ivi, p. 140. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 111. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 831. Ibidem. H. Blumenberg, Visibilità, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, Laterza, Bari 2011, p. 152.
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sta da molto prima della comparsa del genere umano e continui a esistere al di là di esso, solo l’uomo conosce l’«incertezza» di fronte a individui della stessa specie: non può predeterminare se si tratti di amici o nemici. Questo ci avvicina alla questione fondamentale. Il punto è che un’antropologia, o delle asserzioni biologiche sulla provenienza della specifica struttura della coscienza umana dalle circostanze dell’evoluzione, addirittura delle constatazioni di matrice darwinistica hanno una funzione fenomenologica nel momento in cui mostrano che «questo organismo da un lato e quella struttura di prestazioni integrate, con il prodotto finale della cultura, dall’altro, non sono intrecciati tra loro in maniera contingente». Altrimenti detto: il fenomenologo dovrebbe colmare l’assenza di relazione – entro la fenomenologia – tra l’«eidos io» e l’«eidos Homo sapiens» e, pertanto, disporsi a uno sforzo antropologico.32 È proprio la teoria della coscienza – già fulcro della fenomenologia husserliana – a divenire cardine dell’antropologia fenomenologica di Blumenberg, che si mantiene ancora nel solco della tradizione trascendentale.33 Uno sguardo alle forme della coscienza rilevate dalla fenomenologia contribuisce dunque a compiere la svolta: intenzionalità e struttura temporale conducono entrambe a un fondamento antropologico. Svolgendo tali categorie fino alle loro estreme ma logiche conseguenze, Blumenberg procede verso un «depotenziamento del timore (Entfürchtung) nei confronti dell’antropologismo», passo preliminare per l’elaborazione di una vera e propria antropologia fenomenologica, considerandolo come una «variante del principio di economia»: infatti, da una prospettiva biologica e autoconservativa, che cosa c’è di meno economico e inutile che «avere degli oggetti»? Molto più funzionale è stabilire con le «cose» un contatto basato su un «minimo di segnali»,34 ed è proprio così che l’intera natura organica generalmente si organizza, in base a un’economia bewusstseinfrei basata sulla «struttura della pars pro toto».35 Per contro l’intenzionalità, benché in grado di sfruttare anch’essa processi riduttivi ed economici, è «in linea di principio infinita», sempre potenzialmente aperta a un surplus di informazioni, in un cammino in cui ogni tratto è continuamente sostituibile dal successivo. La coscienza intenzionale soggiace al principium rationis insufficientis, che è il vero e proprio «centro delle teorie antropologiche».36 L’intenziona32 33 34 35 36
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 475. Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 104. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 132. Ivi, p.133. Ibidem.
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lità, cui la fenomenologia non può rinunciare, è quintessenza di processi che tentano di tener testa alla vaghezza e alla refrattarietà che caratterizzano il rapporto con l’ambiente dell’organismo-uomo; la distanza, presupposto di ogni «oggettività», un prodotto dell’inesattezza.37 La temporalità, indistrincabile dalla coscienza, il vantaggio che la distanza offre al netto di una perdita di chiarezza. E il processo intenzionale non ammette alcuna conclusione in un atto finale di raggiungimento dell’evidenza: la condizione di esistenza stessa della coscienza finita coincide con l’«infinità immanente dei suoi oggetti».38 La riflessione medesima – quello sguardo riflesso del cogito sulle proprie cogitationes su cui si fonda completamente il metodo fenomenologico39 – ha uno «stadio preliminare antropologico nella funzione autoconservativa elementare del riferimento riflesso (Rückbezug) dell’ottica passiva».40 Perciò, secondo Blumenberg, una fenomenologia genetica non può fare a meno di un’antropologia. Alla luce di questa, la riflessione è: un disturbo della soggettività. Ciò significa da un lato, in termini genetici, che è sorta da un disturbo del soggetto rettale-intenzionale. Dall’altro, che essa mostra al soggetto il soggetto certamente nella sua evidenza, ma non nella sua purezza.41
È legata all’«appariscenza» del soggetto per se stesso e dunque a qualcosa che lo rende insicuro, che gli impedisce di intrattenere relazioni naturali e immediate con gli oggetti. Ogni qualvolta divengo spettatore delle mie stesse azioni e delle mie stesse sensazioni, non posso che disturbarle, interromperle, annullarle: non posso esperire le mie esperienze. La riflessione ha dunque il proprio modello nel riferimento a sé, reso necessario dall’autoconservazione, nella situazione dell’ottica passiva.42 Ciò significa che un siffatto processo non solo non riguarda un ego puro trascendentale, bensì un essere coinvolto in circostanze particolari, ma anche che non può offrire le condizioni per la fondazione di una conoscenza assolutamente evidente, poiché, non appena s’innesca, turba e allontana il suo oggetto, an37 Cfr. ivi, p. 134. 38 Ivi, p. 138. 39 Per un approfondimento sul tema della «riflessione» si veda il già citato C. Sini, Introduzione alla fenomenologia, cit., pp. 178-195. 40 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 145. 41 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 331. L’espressione utilizzata è proprio rektal-intentional. 42 Cfr. ivi, p. 335.
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che quando si tratta del soggetto medesimo. Cade dunque il presupposto che ne fondava l’evidenza: quello della sua immediatezza e imperturbabilità.43 Anche in questo caso l’antropologia corregge le pretese della fenomenologia facendo leva sui suoi paradossi interni. Veniamo a un altro tema: l’intersoggettività trascendentale, alla quale non basta una «‘storia’ delle sue prestazioni», ma serve una «storia dei presupposti organici del suo rendimento».44 La tridimensionalità corporea ottenuta con l’ottica simmetrica frontale è ciò che costituisce il campo visivo.45 Ciò significa che la mondanizzazione (Verweltlichung) del soggetto trascendentale, la sua immersione nel mondo e nel corpo, è il presupposto per la realizzazione dell’intersoggettività trascendentale in una forma di prestazioni confederate. 46
Nuovamente occorre dunque volgersi alle premesse zoologiche, evolutive che consentono di comprenderne la formazione e la sopravvivenza: a partire da ciò potrebbe risultare che «lo sviluppo di modi di comportamento e prestazioni intersoggettive faccia parte di ciò che ha reso possibile proprio quella sopravvivenza».47 L’autoconservazione ha in primis a che fare con la «fatticità» di un essere, il quale non potrebbe esistere senza quella prestazione della coscienza. Con ciò Blumenberg intende mostrare come la fenomenologia non possa accostarsi in modo sufficientemente profondo al tema dell’intersoggettività come base evidente dell’oggettivazione, fintanto che si oppone a ogni pretesa antropologica, nella fattispecie al tema dell’ottica riflessiva.48 La presenza dell’uomo nel mondo non è pacifica, è – al contrario – strettamente connessa con un alto grado di rischio. Perciò l’uomo non può essere considerato alla stregua di un soggetto intenzionale ‘puro’, perché egli si trova a dover imparare a compensare «l’ampliamento della sua apertura di fronte al manifestarsi dell’ambiente come mondo di oggetti attraverso l’acutizzazione della sua presenza in esso»; il suo ergersi in tutta l’estensione del corpo eretto e uscire dai propri dintorni ha un aspetto «provocatorio».49 È
43 44 45 46 47 48 49
Cfr. ivi, p. 335-339. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 49. Cfr. ivi, p. 59. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 456. Ibidem. Cfr. ibidem. Ivi, p. 144.
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la correlazione reciproca di visibilità e autoconservazione a costituire l’unità fenomenica che possiamo chiamare intersoggettività.50 In conclusione, «il divieto antropologico è l’atto apotropaico con cui la posizione dello spettatore trascendentale viene difesa».51 Ma è corretto domandarsi (e lo fa Husserl medesimo): i soggetti trascendentali sono gli uomini?52 Poiché poco o nulla sappiamo degli abitanti di Sirio53 e delle divinità – ironizza Blumenberg –, è bene che ci atteniamo alla «natura tellurica» che conosciamo: qui il sovrappeso quantitativo e qualitativo del mondo vegetale e animale su quello umano confuta la priorità della ragione come soluzione centrale trovata dalla natura per risolvere i suoi problemi; essa si mostra piuttosto quale «soluzione speciale ed eccentrica di uno dei suoi problemi».54 E non potrebbe funzionare nel modo in cui la fenomenologia l’immagina, se così non fosse. Ma appare allora anche chiaro che la critica immanente alla fenomenologia, come «depurificazione» antropologica, implica al contempo una riabilitazione delle scienze empiriche55 e questo, infatti, è precisamente il programma attuato da Blumenberg nella seconda parte di Beschrebung des Menschen. 56 3. Un’antropologia trascendentale e storica Eppure la contaminazione di fenomenologia e antropologia costituisce non solo un emendamento della fenomenologia in senso antropologico, ma anche viceversa: una correzione dell’antropologia filosofica in termini fenomenologici. Infatti, che cosa dovremmo intendere quando parliamo di antropologia filosofica? Essa può essere definita a partire dal ricordo della classica domanda filosofica «che cos’è l’uomo?», ma non per risvegliare la speranza in una possibile risposta, piuttosto perché, in relazione a quella domanda, si può chiedere: «che cos’era che volevamo sapere? E che cosa
50 Cfr. H. Blumenberg, Visibilità, cit., p. 153. 51 H. Blumenberg, Beschrebung des Menschen, cit., p. 91. 52 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 209. 53 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 36. 54 Ivi, p. 37. 55 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 30. 56 Su questi passaggi complessi si tornerà diffusamente nel prossimo capitolo.
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può essere ciò che potremmo esperire?».57 Come si vedrà, questa questione preliminare conduce a porsi un problema trascendentale. Anche quando integra dati scientifici – cosa che Blumenberg fa generosamente – l’antropologia filosofica correttamente intesa non è una scienza empirica, non coincide con uno studio psicologico o neurobiologico della coscienza. Al contempo essa non andrebbe intesa alla stregua di una disciplina filosofica capace di «asserzioni essenziali», insomma di un’ontologia. Questo peraltro implicherebbe immediatamente la sua incompatibilità con qualsiasi filosofia della storia, poiché è chiaro che tracciare le caratteristiche e le possibilità di un oggetto significa anche segnare i limiti della sua «capacità di modificazione»: l’antropologia filosofica così intesa coinciderebbe con una «definizione di costanti», con la fissazione dell’«orizzonte delle possibilità» che l’uomo ha «di avere storia e di produrre storia con se stesso». Il trionfo di una siffatta antropologia filosofica sarebbe al contempo «una sconfitta della filosofia della storia in tutte le sue possibili differenziazioni».58 Come si vedrà, l’intenzione di Blumenberg è di non parteggiare per nessuna delle due posizioni prese nella loro granitica inossidabilità. Notoriamente, le filosofie della storia, in particolare quelle che prediligono le «discontinuità» e descrivono gli eventi essenziali in termini di «rivoluzioni», sono propense ad attribuire all’uomo una massima capacità di cambiamento e una minima costanza di disposizioni e possibilità;59 a considerare le costanti antropologiche come «resistenze» e «momenti inerziali» opposti al movimento trasformativo della storia. È altresì possibile che il fiorire di antropologie filosofiche nel secolo scorso sia da attribuirsi anche a una certa saturazione nei confronti di forme particolarmente marcate di filosofia della storia e dell’annessa retorica dell’«uomo nuovo».60 Tuttavia entrambe, antropologia filosofica e filosofia della storia, sono «filosofie del mondo della vita», laddove la seconda definisce l’uomo in rapporto a una teoria della libertà come fine ultimo e la Lebenswelt in termini storici come medium e terreno di progressiva approssimazione allo scopo. Pertanto, le due discipline si contendono il primato entro confini condivisi e l’antropologia filosofica riesce a emanciparsi dalla propria subalternità
57 58 59 60
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 483. Ivi, p. 485. Ivi, p. 486. Ivi, p. 487.
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solo ove la filosofia della storia, o meglio, la fiducia stessa nella storia, si indebolisce ed entra in crisi.61 Tuttavia, è forse possibile e altresì auspicabile attenuare e problematizzare quest’antitesi. Soprattutto perché, secondo una riflessione condotta da Marquard a partire da Michael Landmann, se si guarda al polimorfismo culturale dell’uomo come «creatura creatrix»,62 si comprendono le configurazioni della cultura umana all’interno di una «variabilità storica»63 che apre alla possibilità di una «filosofia della storia» (Philosophie der Geschichte)64 alternativa alla «filosofia della storia» in senso classico (Geschichtsphilosophie), ma piuttosto declinata come «antropologia della cultura e della storia».65 Tenendo a mente tutto ciò, se bisogna partire dalla problematica domanda sulla natura dell’uomo per disporsi a un’antropologia filosofica, occorre porsi una «metadomanda»: che cosa vogliamo sapere quando ci chiediamo che cosa sia l’uomo?66 Quali risposte ci attendiamo da una domanda del genere? Innanzitutto, l’essenza dell’uomo non è un contenuto immediato della coscienza. È dunque definibile l’uomo? Ma, a monte ancora: è davvero importante definirlo?67 La strada blumenberghiana sarà appunto la sostituzione di questa formulazione del problema con un’altra formulazione, di tipo trascendentale, che modifica la prima: quella su come sia possibile l’uomo,68
che conduce innanzitutto al tema della sua contingenza. Allora, inventariare gli innumerevoli tentativi di accennare o parodiare una definizione 61 Cfr. O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973, pp. 124-129. 62 Cfr. M. Landmann, Creatura Creatrix. Ursprünge und Zielsetzung der philosophischen Anthropologie: Erkenntnis und Glaube, Wichern, Berlin-Freidenau 1962; cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139. 63 Cfr. M. Landmann, Der Mensch als Schöpfer und Geschöpf der Kultur. Geschichts- und Sozialanthropologie, Reinhardt, München-Basel 1961, p. 26; cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139. 64 Cfr. J.G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Einaudi, Torino 1951; cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139. 65 M. Landmann, Der Mensch als Schöpfer und Geschöpf der Kultur, cit., p. 62; cit. in O. Marquard, Schwierigkeiten mit der Geschichtsphilosophie, cit., p. 139. 66 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 502. 67 Cfr. ivi, pp. 503-504. 68 Ivi, p. 511.
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dell’uomo, proliferati negli ultimi due secoli (da Poe a Dostojevski, da Simmel a Freud, da Nietzsche a Heidegger, da Gehlen a Canetti),69 può valer la pena più che altro nel senso di una «constatazione dell’imbarazzo di definire che cosa l’uomo sia».70 E tuttavia Blumenberg non vi rinuncia, però, significativamente, chiude il suo elenco sottolineando quell’affermazione di Dilthey, che in effetti non contiene alcuna definizione dell’uomo, ma segnala il luogo esatto in cui cercarla: «che cos’è l’uomo, glielo dice solo la storia»,71 anche perché – come si è visto – non si dà un’immediatezza dell’esperienza di sé in senso antropologico.72 La storia, si badi, non la filosofia della storia. «Ma che cos’è dunque che essa dice [all’uomo] su ciò che egli è?».73 La premessa è non rinunciare alla «dimensione genetica», disporsi a quella «riformulazione genetica della domanda» che, in termini evoluzionistici, potrebbe essere posta nel modo seguente: «come l’uomo è divenuto tale?»;74 individuare così le caratteristiche che, nel corso del tempo, gli hanno permesso di sopravvivere. Questo rende evidente quanto sia importante «il contributo della preistoria (Vorgeschichte) per l’antropologia». La «preistoria» (Prähistorie) – la disciplina sorta due secoli orsono e cresciuta sotto l’impulso delle teorie di Darwin,75 «ciò che sappiamo quando osserviamo il più remoto passato del genere umano»76 – ha, secondo Blumenberg, certamente il merito di aver posto delle domande antropologiche, benché la discussione antropologica sulle scoperte paleoantropologiche sia insoddisfacente.77 Anzi, se ben osservata, nelle sue scoperte e nei suoi ritrovamenti, essa può realmente condurre alla comprensione di fenomeni antropologici decisivi, quali ad esempio l’emersione del concetto. 69 Blumenberg redige infatti, in queste pagine, un breve elenco di «saggi definitori» (Definitionsessays) in cui compaiono questi e altri autori. Cfr. pp. 512- 516. 70 Ivi, p. 512. 71 W. Dilthey, Gesammelte Schriften, VIII, Vandenhoeck & Ruprecht, Stuttgart 1960, p. 224; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 516. 72 Cfr. ivi, p. 528. 73 Ivi, p. 516. 74 Ivi, p. 523. 75 Cfr. C. Renfrew, Preistoria. L’alba della mente umana, Einaudi, Torino 2011. Preistoria – scrive Leroi-Ghouran – è «un termine vago che designa globalmente tutto quello che è avvenuto dalla comparsa del primo uomo a stazione eretta fino al momento in cui la scrittura ha proiettato un fievole bagliore sul pensiero umano». A. Leroi-Gouhran, Le religioni della preistoria, Adelphi, Milano 1993, p. 11. 76 C. Renfrew, Preistoria, cit., p. 6. 77 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 533.
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La possibilità aperta di ‘fare preistoria’, di indagare «le cause prossime e remote»78 dei fenomeni, addirittura di avvicinarsi all’ambiziosa meta di una «scienza storica»79 dell’umanità, capace di attingere a sua volta alla geologia, alla climatologia, alla biologia evolutiva, alla paleontologia, all’astronomia, rappresenta indubbiamente una risorsa per una filosofia che si voglia genetica e trascendentale. La domanda su come l’uomo sia divenuto tale traccia un ponte ideale, ad esempio, verso un’«archeologia cognitiva»,80 ovvero lo studio dei processi della mente umana e dei loro cambiamenti a lungo termine, ricostruiti a partire dai reperti materiali rinvenuti; ma anche, inevitabilmente, verso la «psicologia evolutiva».81 Traendo profitto dalle altre scienze, la storia profonda può contribuire a rispondere all’interrogativo che inaugura una rinnovata antropologia filosofica, e ad altri che possono completarla e articolarla: ad esempio «in che rapporto sta il regno dei fini [dell’uomo] con la sua propria esistenza?», o «che cosa può ancora diventare [l’uomo] sulla base del suo condizionamento antropologico?».82 Lungo questi sentieri Blumenberg si incammina, allorché si dispone alla «descrizione dell’uomo» e alla narrazione delle scene della Menschenwerdung e, nonostante alcune reticenze, apre una strada filosoficamente feconda. 4. La fenomenologia della storia di Blumenberg Alla dialettica oppositiva continuità/discontinuità, Blumenberg preferisce il tertium genus della categoria di «rioccupazione»; a proposito della teoria kuhniana del «cambio di paradigma» scrive: I miei dubbi in merito si riferiscono al fatto che trascuri il ruolo della continuità come precondizione di ogni possibile discontinuità. Così preferisco l’idea di «rioccupazione» di una struttura di posizioni che rimane intatta, che è pre-
78 J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2000, p. 325. 79 Ivi, p. 324. 80 Cfr. C. Renfrew, Preistoria, cit., pp. 116-120. 81 Cfr. ad esempio J.H. Barkow, L., Cosmides, J., Tooby (a cura di), The Adapted Mind. Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford–New York 1992; H. Plotkin, Evolution in Mind: An Introduction to Evolutionary Psychology, Allen Lane, London 1997. 82 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 536.
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supposta da un punto di vista funzionale e che rende dei mutamenti parziali non solo ‘tollerabili’, ma soprattutto ‘plausibili’.83
Ciò significa anche che, tra il ‘fatalismo’ delle costanti antropologiche e l’utopia o la distopia dell’uomo forgiato ex novo dalla storia, si pone un modo diverso e più articolato d’intendere il procedere storico, le sue accelerazioni e i suoi punti inerziali. Fenomeni culturali sorgenti e mutamenti epocali si trovano soggetti alla «pressione problematica» di questioni loro estranee, poste in precedenza, «posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminate».84 A ogni soglia si tratta di «rioccupare» tali posizioni rimaste vuote, ma al contempo si dispongono «nuovi luoghi nel quadro delle asserzioni possibili e attese sul mondo e sull’uomo», che a loro volta successivamente non potranno essere aboliti o mantenuti inoccupati.85 Non si tratta più di risposte a precedenti domande, ma di una sorta di «generazione spontanea» di risposte a partire da «grandi affermazioni dotate di efficacia acuta»:86 solo una volta tramontate quelle affermazioni ne sorgeranno le domande idealmente pregresse e si dovrà procedere a formulare risposte diverse, poiché anche quando un nuovo sistema di pensiero e di vita si oppone al precedente, è indissolubilmente legato «al quadro di riferimenti di ciò che rifiuta».87 Pertanto, se da un lato è chiaro che allo storico non interessa tanto rilevare le continuità, quanto comprendere le fratture, le riconfigurazioni, le nuove occupazioni, dall’altro: che il nuovo nella storia non possa essere di volta in volta qualcosa di arbitrario, ma sia soggetto a un rigore di aspettative e di bisogni precostituiti rappresenta la condizione grazie alla quale possiamo avere qualcosa come una conoscenza della storia. Il concetto di rioccupazione designa come implicazione il minimo di identità che deve poter essere reperito, o per lo meno presupposto, e ricercato anche nel movimento più movimentato della storia.88
Si può definire il metodo storico di Blumenberg come un’«ermeneutica dello sfondo»89 (Hintergrund), alla cui base vi è una concezione della storia 83 H. Blumenberg, The Genesis of the Copernican World, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1987, pp. 512-513. 84 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, p. 71. 85 Ivi, p. 70. 86 Ivi, p. 72. 87 Ivi, p. 75. 88 Ivi, p. 502. 89 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne. Zur Konstitution neuzeitlicher Subjektivität bei Hans Blumenberg und Wilhelm von Ockham, Karl Alber, FreiburgMünchen 1998, p. 43.
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come Problemgeschichte,90 orizzonte entro il quale la continuità nella successione degli strati è soltanto illusoria e l’ideale irenico di una «storia dello spirito» indubbiamente da rivedere: il dinamismo storico ruota attorno al problema della Selbsterhaltung e, da questo punto di vista, la storia della teoria si svolge come succedersi di prestazioni autoconservative mediante l’interpretazione della realtà,91 ma in un continuum che non si può dire né lineare-progressivo né dialettico. Piuttosto, procede in modo simile a una ‘tettonica a zolle’, laddove ‘al di sotto’ del concetto si muove la metafora come «struttura genetica»,92 sfondo della sua costruzione: la prima articolazione dell’orizzonte di attesa indeterminato verso cui si rivolgono le strategie di autoconservazione, emerso col distacco dalla Lebenswelt, è di tipo metaforico.93 Lo sfondo storico è quindi «la possibilità che c’è stata di ciò che di fatto è divenuto, la sua osservazione è la condizione della comprensione genealogica»94 dei fenomeni, nonché delle soglie critiche in cui strategie obsolete cedono il passo ad altre, producendo nuovi concetti di realtà. Attraverso fasi e costellazioni concettuali diverse, Blumenberg dà vita a una complessa «teoria delle strutture della storia» che va evidentemente intesa in senso ben più ampio di una semplice Begriffsgeschichte e che introduce la metaforologia come tassello in grado di guardare oltre, rideclinando la fenomenologia storica. Parallelamente elabora le categorie di «immagine e modello del mondo»95 e, a partire dalle riflessioni sulla Neuzeit, la struttura dialogica di domanda e risposta cui fa capo il concetto di Umbesetzung. La fenomenologia storica si sviluppa nei termini di un’«archeologia» delle «condizioni trascendentali» di formazione di Weltbilder e Weltmodelle, ed è proprio la declinazione del metodo fenome90 H. Blumenberg, Epochenschwelle und Rezeption, in «Philosophische Rundschau», n°6, 1958, p. 102. 91 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 71. 92 H. Blumenberg, Beobachtungen an Metaphern, in «Archiv für Begriffsgeschichte», n°15, 1971, p. 163. 93 Cfr. ivi, p. 170. 94 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 43. 95 Cfr. H. Blumenberg, Weltbilder und Weltmodelle, in «Nachrichten der Gießener Hochschulgesellschaft», n°30, 1961, pp. 67-75. Per «modello teorico del mondo» Blumenberg intende una «concezione della realtà» dipendente dal livello corrispondente raggiunto dalle scienze naturali, che ne integra gli enunciati. Qualcosa di analogo al paradigma kuhniano. Per «immagine del mondo» intende invece quella «quintessenza della realtà» entro la quale l’uomo orienta i propri valori e la meta delle sue azioni, comprende se stesso, le sue possibilità e i suoi bisogni. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 436-437, nota 310. Traduzione lievemente modificata.
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nologico in termini storici a produrre quella moltiplicazione degli orizzonti d’esperienza, quel pluralismo dei mondi della vita come «differenti avatar» dell’unica Lebenswelt disseminati lungo la storia;96 e a leggere la storia dello spirito europeo come il tentativo continuo di un lavoro sulla realtà a partire dalla distruzione dei mondi della vita che sempre si riformano.97 Del concetto kuhniano di «paradigma» Blumenberg accoglie la dimensione ‘strutturale-epistemica’ e il movimento conflittuale,98 ma compie dei passi ulteriori. Lo fa perché, grazie alla rioccupazione e alla metacinetica dello sfondo, è in grado di rendere conto non solo del crollo dei sistemi dominanti, cosa che la teoria delle «rivoluzioni scientifiche» fa efficacemente, ma soprattutto degli «atti successivi di nuove fondazioni»99 come qualcosa di non arbitrario o soggetto a processi di tipo decisionistico, bensì determinato da orizzonti di attesa precostituiti. È chiaro che la focalizzazione delle «soglie epocali» a livello della Hintergründigkeit comporta così anche un depotenziamento dell’enfasi sul ruolo e sull’incisività dei soggetti, le cui azioni si pongono entro l’orizzonte delle proprie possibilità storiche, il che avvicina certamente Blumenberg a Foucault e lo allontana da Kuhn. I mutamenti epocali avvengono a un livello «strutturale» più profondo e inseriscono il nuovo in schemi ereditati, per poi forzarli e trasformarli successivamente. Più che di paradigmi, Foucault preferisce parlare di «regimi discorsivi» che «governano» gli enunciati,100 o di «episteme» intesa non tanto come una visione del mondo che impone ai soggetti postulati comuni, ma «l’insieme delle relazioni che possono unire in una data epoca le pratiche discorsive che danno luogo a delle figure epistemologiche, a delle scienze, eventualmente a dei sistemi formalizzati».101 Né a Foucault né a Blumenberg interessa tanto stabilire ‘che cosa c’è sotto’ un rivolgimento epocale, nel senso delle sue condizio96 O. Feron, Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blumenberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 226. 97 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 56. Su questi concetti mi soffermerò a lungo in seguito. 98 Cfr. H. Blumenberg, Paradigma, grammaticalmente, in Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 130-134. 99 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 502. 100 Cfr. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in Microfisica del potere, A. Fontana, P. Pasquino (a cura di), Einaudi, Torino 1977, pp. 6-7; G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 15-18. In questo testo, Agamben traccia appunto un confronto fra Kuhn e Foucault attorno alla nozione di «paradigma». 101 M. Foucault, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 2009, p. 250.
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ni sociali e materiali, quanto ‘che cosa c’è dietro’, ossia le sue condizioni trascendentali preparate, nel linguaggio di Foucault dagli «a priori storici»,102 in quello di Blumenberg dalle immagini del mondo e dai reperti metaforici a cui il linguaggio e l’immaginazione restano ancorati: in altre parole, il rapporto fra l’«archivio» e l’«attuale»,103 o il debito del presente nei confronti del vecchio mondo.104 Blumenberg chiama «metafore assolute» i «geroglifici spirituali dell’esistenza storica» e «metaforologia» il «luogo di costituzione dell’archivio trascendentale della memoria storico-ideale»,105 ma la prossimità dei due autori è innegabile. Sebbene in Foucault la dimensione antropologica sia completamente assente, anche nei termini ‘funzionalistici’ in cui la intende Blumenberg. Blumenberg, infatti, non pretende di interrogare l’essere dell’uomo né le strutture eterne di una soggettività, o un’origine che sa inattingibile, ma certamente i bisogni strutturali cui lungo la storia l’uomo tenta di rispondere e un’immagine del suo passato remoto, assieme ai bisogni circostanziati che la storia stessa produce entro questi tentativi, modificandoli ma non eliminandoli. Tali contaminazioni e affinità, nonostante le differenze segnalate, aiutano a comprendere come, soprattutto, nel peculiare Historismus106 di Blumenberg vi sia una sensibile correzione della concezione husserliana della storia dello spirito. Qui, il tramandarsi delle nozioni entro la temporalità intersoggettiva, il costituirsi della «tradizione», si dà in forma di «sedimentazioni», bagagli di esperienza trasmessi alla generazione successiva, «con la quale si stabilisce così un fondamentale nesso associativo».107 La «comunità intenzionale» si compone nella dimensione del tempo grazie al «contributo operativo» di ciascuno che si somma a quello degli altri.108 Volendo individuare la differenza decisiva tra la concezione della coscienza storica husserliana e quella blumenberghiana, la si potrebbe rintracciare in ciò: 102 Cfr. ivi, pp. 169-176. 103 A proposito di questi concetti foucaultiani si veda G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli, 2007, pp. 27-28. 104 Cfr. P. Ifergan, Blumenberg’s Version of History of Science: the Copernican Case, in Atti del Convegno Hans Blumenberg – Geschichte(n) des Wissens, Lubecca 1417.10.2010, in corso di pubblicazione. 105 B. Maj, Il progetto di metaforologia e l’«Historismus» di Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p. 80. 106 Sulla via blumenberghiana allo storicismo attraverso la metaforologia si veda ivi, pp. 65-96. 107 C. Sini, Introduzione alla fenomenologia, cit., p. 147. 108 Ivi, p. 103.
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Husserl fa discendere la continuità della storia intenzionale dalla dinamica della coscienza come intenzionalità definita teleologicamente. Per contro Blumenberg de-teleologizza questo principio tramite un’antropologizzazione, che descrive come costante del formarsi della storia unicamente la pressione problematica cui la coscienza deve reagire: l’autoconservazione è la sua richiesta fondamentale. La storia dello spirito diviene così una serie di tentativi di autoconservazione, orientamento e di iniziative dell’uomo di fronte a una realtà non definitivamente intellegibile.109
Qui è già in gioco un’«antropologia genetica» quale «inconclusa autochiarificazione dell’uomo attraverso lo sguardo nella sua storia»,110 nella misura in cui sono problemi di natura anche antropologica a determinare il succedersi nel tempo del mondo di diversi realismi e concetti di realtà e questi ultimi a far luce sui primi. O, altrimenti detto, emerge un’«antropologia sperimentale» che giunge a considerazioni sulla condizione umana a partire da situazioni concrete.111 Se la storia, nelle sue variazioni, svela qualcosa che possiede uno statuto antropologico, al contempo ogni antropologia, anche quella che lo nega, è al suo cuore storica. Ammetterlo non esclude di vedere in ciò anche il suo limite e la sua intollerabilità. Resta inconcepibile per il soggetto umano che l’esperienza immediata di sé, l’essere assorto nella meditazione su di sé, l’estrema concentrazione su questo Sé evidentemente non avvicinino di un passo alla risposta alla vecchia domanda su che cosa sia l’uomo. L’indecenza sta nella contingenza delle digressioni e la storia è la più grande, la più casuale, perciò anche la più scandalosa di queste. Tuttavia proprio perciò è quantomeno più vicina delle insufficienze dell’introspezione e della riflessione all’esaurimento dell’orizzonte delle possibilità. [La consapevolezza] che però, nella fatticità delle situazioni e dei rapporti storici, il singolo resti dipendente da un modello provvisorio di se stesso, poiché non ottiene alcun appiglio per ciò che il frammento riservatogli da questa storia può esigere dal suo potenziale di destino (Schicksalkapazität), rimane l’atteggiamento preventivo per mantenersi impassibili quanto necessario per essere all’altezza della contingenza. È sempre grande la tentazione, specialmente nelle epoche più calme, di applicare l’allenamento alla vita a un orizzonte stretto di possibilità, a una gamma di richieste meno esotica. Deve diventare visibile come l’allenamento e la richiesta si relazionino l’uno all’altra, come l’uno venga legittimato dall’altra. Ma quanto più l’allenamento alla possibilità viene li109 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., pp. 76-77. 110 Ivi, p. 80; in generale cfr. ivi, pp. 77-83. 111 H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997, p. 264; cit. in E. Mazzi, I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale: la riflessione di Hans Blumenberg sull’impresa spaziale, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 286.
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mitato, tanto più cresce dai limiti di quella disposizione la paura vitale di fronte all’orizzonte delle possibilità sconosciute e impensate. Già l’accenno di un più forte spalancarsi di una realtà prevista e di una possibilità che si annuncia, tra la statistica e l’immaginazione, incrementa l’incertezza elementare, risveglia il bisogno di prevenzione indeterminata, di approssimazione all’onnipotenza.112
Solo le variazioni della fenomenologia della storia ci approssimano a un’antropologia genetica, per quanto provvisoria possa essere. Sapere di tale provvisorietà – questo dovremmo apprendere dal moderno – ci mette in guardia dalla paralisi di fronte allo sconosciuto. Tuttavia, al metodo così compreso Blumenberg aggiunge un momento ulteriore: il tentativo di elaborazione di una vera e propria teoria antropogenetica, di una riflessione non solo a ritroso verso le dinamiche antropologiche sottese al movimento della storia e rivelate da questo, ma un’ipotesi sulle dinamiche storiche (o meglio preistoriche) che hanno reso possibile la Menschenwerdung. Per quanto, anche in ciò, egli si guardi bene dall’avanzare pretese di definitività. 5. Fenomenologia e preistoria Volgiamoci allora alla ‘storia del mondo della vita’. La trasformazione della Lebenswelt in un mondo d’oggetti, attraverso la riflessione, in Husserl appare conseguenza di un atto volontaristico che ha le sembianze di una specie di «peccato originale».113 La decostruzione (Abbau) dell’atteggiamento naturale che caratterizza il regno dell’ovvio è insomma un intervento decisionistico che Husserl non solo si prefigge come punto di partenza del progetto fenomenologico, ma applica alla stessa storia della filosofia nel momento in cui ne identifica il cominciamento nell’«originaria fondazione greca» dell’atteggiamento teoretico.114 Ma allora, come la «genealogia storica» ha permesso di contestualizzare il gesto cartesiano e vederlo alla stregua di «indice di una crisi» piuttosto che di «fondamento assoluto», si tratta di ripensare tutta la «storia speculativa del
112 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 890-891. 113 Cfr. H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, in Le realtà in cui viviamo, cit., p. 30. 114 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 99; cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., pp. 50-51.
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soggetto»115 a partire da una corretta descrizione dell’uscita dalla Lebenswelt. E, anche in questo caso, al termine della ricognizione genetica risulta inevitabile operare decostruzioni sulla stessa fenomenologia husserliana come progetto filosofico, innanzitutto a partire da una rinuncia al rinnovato gesto teorico dell’auto-posizione della ragione.116 Non vi è alcuna necessità della ragione, poiché essa è un prodotto della contingenza. Il fatto è che nella Lebenswelt di per sé non sussiste e non può sussistere quella distanza dal fenomeno, quell’atteggiamento riflessivo in grado di condurre alla teoresi, al concetto, al simbolo; essa è perciò un contesto che, ignaro della contingenza e della negazione, non offre al suo interno lo strumentario per la propria messa in discussione, pertanto per immaginarne la destituzione occorre pensarne l’erosione, per «tratteggiare le condizioni genetiche originarie della coscienza»117 tematizzare almeno per ipotesi le ragioni della sua caducità. Allora, più che costituire un sovrano atto di epoché, l’uscita dal mondo della vita è semmai qualcosa che si subisce e che comincia con un «disturbo» o una «distruzione» vera e propria del precedente rapporto non tematizzato e fino a quel momento immediato col mondo, col sorgere della realtà come «resistenza».118 Da qui l’impulso all’elaborazione teorica di ciò che ha cessato di essere ovvio assomiglia più a una dura necessità inflitta che a una vivace e volitiva passione teoretica. È proprio questa rivisitazione dei concetti husserliani ad avvicinare Blumenberg alle categorie di quell’antropologia filosofica che – come si esporrà diffusamente – descrive il suo eroe come homo inermis divenuto animal rationale per necessità compensative.119 A sua volta, la teoria dell’uscita dalla Lebenswelt serve a Blumenberg per problematizzare la tesi della carenza costitutiva, per contestualizzarla in cerca delle condizioni ‘ambientali’ che l’hanno generata, per passare da una tesi antropologica a una tesi antropogenetica. Dobbiamo immaginare l’emersione della ragione e di tutte le prestazioni che caratterizzano l’umano come risposta, avvenuta nel corso della storia profonda, a una crisi ambientale, strutturale, biologica, evolutiva, e alla relativa virulenza di una realtà percepita in termini di assolutismo. Da un certo punto di vista bisognerebbe pensare alla ragione come a un ‘parto indesiderato’, laddove l’abbandono della Lebenswelt è, prima e 115 Ivi, pp. 53-54. 116 Cfr. O. Feron, Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blumenberg, cit., pp. 231-232. 117 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 52. 118 Ivi, p. 54; cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, il Mulino, Bologna 1996, p. 84. Anche questi passaggi verranno sviluppati in seguito. 119 Cfr. J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit.
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più che l’inizio del filosofare, l’uscita nella contingenza: la ragione è insomma condizionata e sempre sottoposta alla pressione della realtà e, di conseguenza, all’esigenza di autoconservazione; perciò non è libera di dispiegarsi completamente nel compito di trasformazione dell’atteggiamento naturale in attitudine teoretica, perché deve dispiegare un quantum di metaforicità allo scopo di sopravvivere.120 Declinando la riflessione sull’uscita dalla Lebenswelt alla stregua di un’«ermeneutica del pericolo», che incombe sul soggetto dal momento del suo abbandono, Blumenberg accede – come appena osservato – a una concezione della storia in cui il continuum è rappresentato dallo sforzo di autoconservazione e il dinamismo dai differenti tentativi di soddisfarlo.121 Se la Lebenswelt è – come vuole Husserl – non solo la posizione di partenza storica dell’atteggiamento teoretico, ma un substrato sempre presente, un grado di inesauribile contemporaneità, ciò va inteso in termini conflittuali e antropologici: i mondi della vita si ripropongono contro o come esito quasi-dialettico dello sforzo teoretico di destituirli, poiché inesausto è il bisogno umano di ricostruirli e perché rappresentano una strategia di autoconservazione, di produzione di distanza, alternativa e spesso più funzionale dell’Aufklärung come forma di «realismo». In tal modo dunque, riflessione fenomenologico-trascendentale, antropologia filosofica e fenomenologia della storia precipitano in una teoria congetturale sull’antropogenesi, sulle condizioni di possibilità dell’ominazione. Fenomenologia e antropologia si correggono vicendevolmente, generando così una domanda di tipo genetico-trascendentale che apre uno squarcio sulla storia profonda dell’umanità. La fenomenologia della storia sarà allora ancora il metodo per gettare uno sguardo sulla preistoria e mostrare i rudimenti del funzionamento dei processi storici e dei propri stessi concetti. L’Umbesetzung – come mostrerò – è riproponibile, assieme alla «metafora speculativa» del «trauma da separazione», come categoria applicata alla conservazione della vita attraverso le sue trasformazioni filogenetiche e le incessanti espulsioni e rioccupazioni del proprio elemento.122 Negli abissi del passato delle specie e nell’antropogenesi Blumenberg traccia l’ultimo schizzo delle strutture della storia e della teoria dei concetti di re-
120 Cfr. Ivi, p. 73. 121 Ivi, p. 69. 122 A. Fragio, «Das Überleben der Übergänge». Nuevos paradigmas de análisis de la obra de Hans Blumenberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 63.
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altà.123 E la sua è un’antropologia della ‘crisi’, fortemente evenemenziale e, in questo senso, trascendentale in senso storico: perché Homo sapiens? Questa è la domanda. E come è giunto al concetto? Non basta appellarsi a una vaga «capacità creatrice originaria», bisognerà mostrare la situazione in cui il concetto ha consentito all’uomo di compiere «un passo essenziale verso l’assicurazione della sua esistenza».124 L’originalità di Blumenberg – se considerato anche alla stregua di propaggine dell’antropologia filosofica contemporanea – sta nell’aver, senza timore alcuno di affidare la presenza umana sulla terra a circostanze improbabili, delineato una vera e propria teoria dell’antropogenesi e addirittura – come sostiene Accarino – della «biogenesi».125 Allora, ‘il micro’ delle nostre vicende circoscritte in una parte esigua di mondo – l’occidente – e in un frammento risibile di tempo – la Storia, ripropone il macro dei grandi processi evolutivi da cui veniamo e la fenomenologia della storia, che riguarda in ultima istanza le forme della Distanz e della nostra capacità di stare al mondo, è applicabile alla biogenesi e all’antropogenesi, alla ricerca delle prime risposte per le domande poste dall’ambiente. La preistoria è il primo capitolo della fenomenologia della storia, cominciata sulla soglia ove si decideva della nostra sopravvivenza o estinzione, l’antropogenesi una svolta epocale primordiale e la prima occupazione e trasformazione dell’orizzonte in orizzonte di senso orientativo. 6. Archeologia e metaforologia Scrive Leroi-Gourhan, probabilmente una fonte significativa per Blumenberg anche se poco documentata nei suoi testi,126 che gli studi preistorici hanno l’aspetto di un colosso dalla testa d’argilla, sempre più fragile man mano che si risale dalla terra verso l’alto: 123 Cfr. ivi, p. 66. La descrizione di quattro concetti di realtà definiti storicamente e in ultimo legati alle implicazioni preformate che caratterizzano ciascuna epoca si trova in H. Blumenberg, Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans, in Nachahmung und Illusion, «Poetik und Hermeneutik», n°1, 1964, pp. 49-54. 124 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 535. 125 B. Accarino, Visibilità e modernità. Hans Blumenberg tra antropologia e filosofia della storia, in Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, ciclo di conferenze della Fondazione Collegio San Carlo di Modena, 23.03.1994. 126 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22; né in Beschreibung des Menschen, né in Theorie der Lebenswelt, né in Zu den Sachen und zurück, né in Theorie der Unbegrifflichkeit ci sono riferimenti all’autore.
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I piedi, costituiti da testimonianze geologiche, botaniche o zoologiche, sono abbastanza solidi; le mani sono già più friabili, perché lo studio delle tecniche preistoriche si muove in un ambito prevalentemente congetturale. La testa, purtroppo, va in pezzi al minimo urto, e molto spesso ci si è accontentati di sostituire al pensiero del colosso decapitato quello dello studioso di preistoria.127
Non è intenzione di Blumenberg rubare il mestiere agli specialisti, il suo resta lo sforzo di un filosofo per trovare uno spazio possibile alla filosofia. Ma proprio sul terreno friabile che mette in imbarazzo le scienze, anche quelle meno esatte, la filosofia può arrischiarsi con un linguaggio proprio, a patto di sapere bene che esso è spurio, contaminato e imbevuto di storia. Diversamente, su quasi tutto quanto si è detto sin qui avrebbe dovuto tacere. La filosofia è la quintessenza delle affermazioni indimostrabili e inconfutabili, che sono state scelte a partire dalla loro efficacia. Oltretutto queste non sono nient’altro che ipotesi, con la differenza che non contengono nessuna disposizione che consenta di condurre alcun tipo di esperimento od osservazione, ma si limitano a comprendere ciò che altrimenti ci starebbe davanti come qualcosa di assolutamente sconosciuto e inquietante.128
L’indagine genetica e antropogenetica è al contempo metaforologica, perché conduce fino alle soglie della Lebenswelt e tenta, per via archeologica, di ricostruire in maniera congetturale – per quanto possa dotarsi di fonti scientificamente attendibili – gli scenari della Menschenwerdung. Tornando al problema della fondazione: se la ragione non basta a se stessa per dar conto di se stessa, ciò è già sufficiente per mostrarne l’insufficienza, giustificando a un tempo l’inconcettuale come contrappeso e strategia alternativa al concetto in circostanze antropologiche in cui comunque il puro realismo sarebbe esiziale, e la metaforologia alla stregua di indagine archeologica-fenomenologica-trascendentale a ritroso, alla scoperta di quelle circostanze. Senza dubbio non si può dire che Blumenberg pretenda di rintracciare effettivamente «l’inizio della storia»,129 di cogliere quell’Ursprung assoluta130 cui solo una ragione priva di insidie, ostacoli e difetti potrebbe pervenire. 127 A. Leroi-Gouhran, Le religioni della preistoria, cit., p. 12. 128 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 16. 129 Così J. Kirsch-Hänert, Zeitgeist – Die Vermittlung des Geistes mit der Zeit. Eine wissenssoziologische Untersuchung zur Geschichtsphilosophie Hans Blumenbergs, Peter Lang, Frankfurt am Main 1989, p. 85. 130 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., pp. 289-291. Saggio
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Certo, si spinge sempre più a fondo e, soprattutto in Beschreibung des Menschen, con strumenti sempre più affilati, nel nostro passato, alla ricerca del tempo perduto, ma proprio perché s’immerge nella storia non pretende di individuarne l’origine o la fine. In fondo il soggettivismo trascendentale husserliano evoca, con l’idea della fondazione originaria, una filosofia della storia che tradisce la refrattarietà a tematizzare il transitorio e la contingenza.131 Ma questo è, di fatto, un «‘arrestarsi nel pensiero’ dinnanzi al problema della storia» che tradisce un uso equivoco del concetto di «genesi».132 Blumenberg, per contro, sa che ogni antropologia, anche la sua, è storica, come lo sono le ricerche scientifiche che prende in prestito. La ragione situata, lontana dall’ideale dello spettatore disinteressato, si serve dell’immaginazione o della ricostruzione ipotetica per tutto ciò che non si può dare in forma intuitiva o concettuale, e di ciò fanno parte anche «gli inizi immemorabili»133 su cui si possono solo condurre ‘esperimenti suppositivi’, esercitare una memoria immaginativa nella forma della libera variazione, per condurre quel lavoro di avvicinamento all’origine che sempre si sottrae.134 Per le domande ‘da dove veniamo’ e ‘dove andiamo’ siamo nel «regno della metaforica assoluta».135 La libera variazione deve andare in cerca dell’essenziale della vita senza dipendere «dal riferimento alla realtà di questa», non perché «si nutra arbitrariamente di cose non vissute», ma perché attratta verso il tempo mai posseduto come «immediatamente attuale».136 Allora potremo partire dalle tracce e dai traumi che portiamo sul corpo, nella coscienza, nella cultura, nella storia, trattarli come reperti che ci permettano di risalire – direbbe Foucault – non all’Ursprung come «identità originaria» di fronte alla quale tutte le peripezie sono avventizie,137 ma all’Herkunft, la «provenienza», o all’Entstehung, l’«emergenza»138 o «punto d’insorgenza»,139 senza timo-
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già pubblicato precedentemente in B. Accarino, Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milano 2002, pp. 67-108. Cfr. H. Blumenberg, Die «Urstiftung». Über den Unwillen, Autor vom Vergänglichem zu sein, in «Neuer Zürcher Zeitung», 13.10.1984, p. 69; cit. in J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., pp. 63-65. H. Blumenberg, Die ontologische Distanz, cit., p. 10 b; cit. in J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 65. P. Stoellger, Imagination der Vernunft, cit., p. 151. Cfr. ivi, pp. 151-159. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 7. Ivi, p. 12. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, cit., pp. 31-32. Cfr. ivi, pp. 34-41. G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 84.
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re però di guardare indietro fino ai primi passi dell’umanità e abbozzare così un’antropologia come «storia dell’insorgenza»140 e di quel che accade ‘da subito dopo’: cioè come preistoria. La metaforologia si avvicinerebbe così a un’archeologia intesa non solo kantianamente come «storia filosofica della filosofia»,141 ma altresì come indagine che cerca di raggiungere, di figurarsi anche narrativamente, quel che Dumézil chiama la «storia più vecchia» e «la frangia di ultra-storia»,142 non esclusivamente studiando – come l’archeologia intesa in senso classico – i resti materiali traghettati dai tempi arcaici fino a noi, ma guardando a tutte le nostre culture, i nostri saperi, le nostre storie, le realtà in cui viviamo e abbiamo vissuto, come a un’eredità di qualcosa di lontano e come a degli indizi, dei segni per immaginare il passato. In tal senso si comprende come il metodo blumenberghiano sia stato anche accostato a una «psicoanalisi della storia», come «ricostruzione di un campo di possibilità datesi».143 Se è corretto parlare di archeologia a proposito di Blumenberg, si può accogliere l’analogia teorizzata da Enzo Melandri tra psicoanalisi e regressione archeologica: per entrambe la posta in gioco è l’accesso «a un passato che non è stato vissuto e che non può quindi definirsi tecnicamente “passato”, ma è rimasto, in qualche modo, presente»;144 l’archeologia lo rievoca in modo regressivo e «subliminare», muovendosi sulla soglia che discrimina conscio e inconscio, razionalizzato e irrazionale145 o, in altri termini, concettuale e metaforico. È vero allora che in un certo senso l’archeologia è l’opposto complementare dell’indagine storica intesa in senso stretto: «dove la storia manca […], l’archeologia è sovrana» (e viceversa);146 vale a dire, prende spazio un metodo di rico-
140 F. Overbeck, Kirchenlexicon Materialen. Christetum und Kultur, in Werke und Nachlass, VI/I, Metzler, Stuttgart-Weimar 1996; cit. in G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 86. 141 I. Kant, Lose Blätter zu den Fortschritten der Metaphysik, in Gesammelte Schriften. Akademie-Ausgabe, XXIX, De Gruyter, Berlin 1942; cit. in G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 82. 142 G. Dumézil, Myhte et epopée, III. Histoires romaines, Gallimard, Paris 1973, p. 14. 143 J. Goldstein, Nominalismus und Moderne, cit., p. 48. 144 G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 102. 145 E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, il Mulino, Bologna 1968, p. 86. 146 E. Melandri, Per una filosofia della metafora. Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, il Mulino, Bologna 1969, p. XIII.
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struzione congetturale, che non potrebbe né vuole raggiungere un grado di «dimostrabilità paleontologica».147 Pur tuttavia, compreso ciò, non ci si libera dalla sensazione che questo movimento speculativo abbia qualcosa del labirinto o di una sinistra circolarità: non possiamo che avanzare supposizioni su noi stessi poiché siamo nati sotto il segno della mancanza, anzi, questa mancanza ci costringe a supporre, ne abbiamo bisogno per vivere. Ma se la congettura fosse sbagliata? Si procede a tentoni per ipotesi che non possono soddisfare criteri di esattezza per ragioni in ultima istanza antropologiche, se non che, anche tutto ciò che diciamo sull’antropologia fa parte di queste ipotesi e sarà soggetto alla verifica della storia…
147 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 134.
CAPITOLO SECONDO RISVEGLI (Scene del divenire umani)
1. Sassi (Homo faber) Uno dei tanti possibili incipit, dei «c’era una volta» con cui cominciare a narrare la storia di come l’uomo è divenuto se stesso, parte da una pietra raccolta da terra e gettata lontano. Se ci si domanda quando, perché e in quali circostanze questo gesto sia balenato nella mente del ‘primo uomo’, subito si affaccia l’ipotesi che – al contrario – sia stato piuttosto un primevo barlume di mente a balenare in quel gesto. Blumenberg pensa a un vicolo cieco, un «cul-de-sac»: lo «scenario originario» della Menschenwerdung è il teatro di una scena di fuga, o meglio, di «fuga negata» e di un recupero tardivo, imprevisto e rocambolesco del «principio di lotta».1 L’antenato dell’uomo, l’animale fuggiasco (Fluchttier) che ha progressivamente perduto l’equipaggiamento biologico indispensabile per affrontare con successo uno scontro corpo a corpo col proprio predatore, potrebbe essersi trovato in una situazione senza via d’uscita, un Sackgasse che lo costringe a interrompere la corsa, voltarsi e fronteggiare l’inseguitore; una situazione limite che lo induce a imboccare un sentiero inatteso, attingendo da una riserva antica di prestazioni qualcosa che mai si era rivelato decisivo in un frangente come questo: la capacità di ergersi per breve tempo sui soli arti inferiori, liberando quelli superiori. È così che il preominide, guardando dritto davanti a sé in direzione del pericolo, poté afferrare un sasso da terra e scagliarlo con forza. Chissà quante volte prima di questo fortuito frangente in cui una mano, tastando il terreno circostante, percepì sotto i polpastrelli un oggetto, una «produzione casuale della natura» potenzialmente utile alla difesa, chissà quante volte la selezione naturale aveva svolto il suo spietato mestiere, e a quanti aveva comminato l’«ordinaria punizione biologica» di venire estromessi per sempre dall’albero genealogico degli organismi viventi. Per questo l’Urszenario è qui da intendersi eminentemente come tale, una circostanza casuale così come – è convinto Blu1
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 577.
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menberg – ciascuno degli snodi epocali nella storia dell’evoluzione, un sasso, appunto, lanciato in un oceano di incalcolabili tiri mancati, e dunque un successo che è tale in senso evoluzionistico «solo in virtù delle proprie conseguenze».2 Nello Steinwurf incontriamo una prima forma di azione «preventiva» nella dimensione dello spazio, che consente di sottrarsi al contatto fisico con l’avversario, ricreando artificialmente il «campo d’azione», lo Spielraum sottratto dall’impedimento materiale della fuga, della possibilità di movimento del proprio corpo; ci troviamo di fronte all’«invenzione della fuga stazionaria come creazione della distanza dall’inseguitore».3 Questo gesto non preordinato, né in alcun modo disposto dai meccanismi evolutivi, riconduce in un balzo e involontariamente l’antenato dell’uomo, l’animale fuggiasco, alla dimensione della lotta, trasformandolo nell’eroe immaginario dell’antropogenesi. Solo in virtù di questo «evento originario eccezionale» l’antenato naturale delle scimmie antropomorfe diviene scimmia «pitecantropogena»,4 progenitrice dell’uomo. Ma è al contempo la sua natura di Fluchttier a garantirgli quella «libertà minima» che consente di scegliere sul momento la propria strategia difensiva; una libertà dunque che si esercita e raggiunge la sua massima efficacia paradossalmente proprio nel caso in cui sia negato uno spazio sufficiente di agibilità come spostamento, dislocazione di sé, messa in salvo in un altro luogo. L’ipotesi sull’episodio antropogenetico del lancio della pietra ricalca esplicitamente la tesi centrale attorno cui si sviluppa l’opera più significativa del medico, antropologo e «outsider della filosofia»5 Paul Alsberg, uno degli astri che compongono la costellazione di autori di riferimento per
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Ivi, p. 576. Ibidem. Blumenberg riprende tale dicitura da Paul Alsberg: cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, J. Paul (a cura di) 2010: http://www.vordenker.de/alsberg/p-alsberg_ menschheitsraetsel.pdf, p. 74; ed. orig. del 1922). Questa «scimmia che partorisce l’uomo» (menschengebärend), denominata «metapiteco», al contempo progenitrice dei pongidi, coinciderebbe a sua volta con l’«ancient member» ipotizzato da Charles Darwin o con quel primate denominato Ramapithecus dal suo scopritore Edward Lewis, che ne rinvenne alcuni resti in India nel 1932. Secondo gli studi più recenti, non solo il Ramapithecus con ogni probabilità non è imparentato con l’uomo, ma soprattutto l’evoluzione ominide non ha seguito un’unica strada, bensì si è diramata in mille rivoli, molti dei quali conclusisi con l’estinzione della specie, secondo un modello «a cespuglio» (cfr. I. Tattersall, La scimmia allo specchio: saggi sulla scienza di ciò che ci rende umani, Meltemi, Roma 2003). J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit, p. 47.
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l’antropologia filosofica blumenberghiana.6 Alsberg, alla ricerca di un «principio umano» nuovo e irriducibile al motore dell’evoluzione animale, ma al contempo immanente, privo di implicazioni metafisiche e trascendenti, lo rintraccia nella «messa fra parentesi del corpo» (Körperausschaltung), un processo di trasposizione verso l’esterno di funzioni corporee, in grado di spiegare la dialettica tra involuzione biologica ed evoluzione culturale che caratterizza l’umano. Questo «disimpegno organico»7 come Menschheitsprinzip costituisce un’insorgenza che altera la linea di continuità con l’evoluzione animale, ne modifica la rotta istituendo un rapporto con la dimensione organica alternativo se non opposto a quello fino ad allora dominante. È l’uso di strumenti tecnici a determinare questa deviazione, in germe nella forma grezza della pietra usata come corpo contundente dal progenitore dell’uomo; dunque, a sua volta, il lancio del sasso rappresenta l’atto originario che inaugura quella Körperbefreiung come trasferimento di funzioni corporee su mezzi extra-corporei la quale costituisce, secondo Alsberg, la cifra dell’umano. Osservato dalla prospettiva della sua relazione con la vita e col principio evolutivo, l’atto dello scagliare una pietra si mostra come un «metodo di lotta extra-corporeo» contraddistinto da un’«incarnazione pura del principio di liberazione dal corpo»,8 ossia da un processo di inversione del rapporto gerarchico tra l’organo e l’utensile.9 Quest’ultimo non è più al servizio del primo sotto forma di appendice che potenzia il raggio e la capacità di azione dell’organo, al contrario: mette in campo «una logica estranea a quella del corpo»,10 la sua autonomia dalla biologia è il vettore che libererà l’uomo dal proprio adeguamento alle sfide dell’ambiente in termini adattivi; con l’adesione alla dimensione del disimpegno mediante l’utensile, che da anomalia si fa autentico «principio vitale dinamico»,11 l’uomo imboccherà la strada di quell’evoluzione extra-organica il cui contraltare è una parallela involuzione organica. Infatti, nel momen6
Sul debito di Blumenberg nei confronti di Alsberg si veda R. Savage, Aporias of Origin. Hans Blumenberg’s Primal Scene of Hominization, in M. Moxter, a cura di, Erinnerung an das Humane, cit., pp. 62-71. 7 L’espressione si trova in G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 143-147. 8 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 49. 9 Qualcosa che sembra addirittura anticipare e antropologizzare la celebre Antiquirtheit des Menschen che Günther Anders interpreta come cifra del disagio della modernità. Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 10 G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 145. 11 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 51.
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to in cui sostituisce «ontologicamente» la prestazione dell’organo, «l’utensile non è, come si pensa generalmente, l’infermiera premurosa del corpo, ma al contrario il killer del corpo»,12 la sua «neutralizzazione», Ausschaltung che può essere intesa come vero e proprio spegnimento, disattivazione. Dunque, più che di acquisizione di un agire strumentale tout court, sarebbe lecito parlare di «virtualizzazione», intesa come «distacco antropologico dal cerchio ambientale», emancipazione dalla necessità di adattarsi all’ambiente.13 Tuttavia, il consolidamento e la possibilità di ripetizione del gesto originario hanno bisogno di condizioni ulteriori, che favoriscano la trasformazione di una «misura occasionale» in principio di sviluppo: si tratta non solo di quei presupposti morfologici, propri già delle scimmie antropomorfe, consistenti nel possesso delle mani e nella capacità di assumere una posizione eretta, ma anche di circostanze ambientali molto particolari. Innanzitutto l’abbandono della foresta primordiale e il trasferimento in un ambiente dotato di un suolo roccioso ricco di detriti, dove la possibilità di ricorrere alle pietre per la propria protezione sia costantemente garantita. Nella foresta l’uomo non sarebbe mai divenuto tale, «solo nelle pianura, in una zona petrosa, era possibile il processo del divenire umani».14 Fattori ambientali, geologici, climatici devono aver dunque svolto un ruolo determinante nella Menschenwerdung. Rispetto ad Alsberg, Blumenberg carica di un’enfasi decisamente maggiore il fattore ‘ecosistemico’ e immagina la scimmia pitecantropogena già nell’atto di abbandonare il proprio habitat natale – la foresta pluviale del terziario che comincia a ritrarsi – per muovere i primi passi nella savana.15 Il cambio di biotopo – di cui si parlerà diffusamente nel prossimo capitolo – doveva essere, almeno in parte, già avvenuto; e, benché in quella fase il nostro antenato fosse ancora uno knuckle walker, si muovesse cioè anche nella fuga prevalentemente a quattro zampe, doveva aver già sperimentato quella capacità di orientamento dipendente dalla necessità di ergersi sulle gambe e guardare lontano, che diverrà cruciale in seguito. Ciò che ancora gli resta da scoprire consiste prettamente nella difesa tramite il lancio, dunque nella creazione della distanza. Se così non fosse, ci si dovrebbe rappre-
12 G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., p. 146. 13 B. Accarino, Quella maturità infantile nel governo delle cose, in «Materiali resistenti», 3.2.2007: http://materialiresistenti.blog.dada.net/archivi/2007-02-03. 14 P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 89. 15 Cfr. R. Savage, Aporias of Origin, cit., p. 68.
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sentare il progenitore sovraccarico di un numero eccessivo di sforzi concentrati in un unico momento.16 In ogni caso, nell’ottica di Blumenberg e Alsberg, lo scatto in avanti è sempre un ‘riscatto’, una scommessa ardita e azzardata che nasce da uno stato di minorità, un atto di coraggio determinato da una minaccia incombente. In tal senso, se la caccia era la cifra dell’esistenza dei nostri antenati, essi ne furono in primo luogo le vittime e solo in un secondo momento e in conseguenza di ciò ne divennero gli attori. L’uomo primigenio è sempre «più cacciato che cacciatore».17 La creatura cui Blumenberg e Alsberg fanno riferimento, segnata dalla vaghezza, da una forma di indeterminatezza biologica, ha origine da una linea discendente lungo la quale il corredo anatomico e istintuale per il contrasto fisico è andato perduto, e che conduce a uno stadio in cui «il vantaggio del guadagno di spazio si combina con le necessità sopraggiunte in seguito alla perdita di specializzazione».18 A partire da qui l’evoluzione partorirà – anzi, più correttamente, ‘espellerà’ da sé – un «essere imperfetto», «inibito», addirittura «regredito» rispetto alle conquiste ordinarie della natura, una creatura coatta all’azione in virtù dell’esigenza di correggere «l’erratica inesattezza» dei suoi codici biologici.19 Infatti – occorre ribadirlo – la vera e propria Entspezialisierung, ciò che Gehlen chiama «carenza» (Mangel) e pone all’origine delle umane vicende,20 costituisce nell’ottica di Alsberg piuttosto l’esito di un processo ancora in fieri. Eppure una certa dose di ‘impreparazione’ doveva già essere presente come precondizione di quell’Urereignis del «disimpegno organico» di cui ci stiamo occupando. La vicenda della ‘messa in soffitta’ del corpo come centro evolutivo ha come presupposto un’indisponibilità a fronteggiare le nuove sfide ambientali. Più precisamente, la scimmia pitecantropogena, in quanto Fluchttier, ha già compiuto una tappa verso la de-specializzazione, è già «impostata a evitare l’immediatezza corporea» di fronte ai rischi dell’esistenza, dunque in qualche modo instradata «sulla retta via» del disimpegno organico.21 Lo stratagemma adattivo della fuga, perfetto per so16 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 586. 17 Ivi, p. 579. 18 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, p. 13. 19 Cfr. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, in Le realtà in cui vivamo, cit., pp. 87-89. 20 Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1990. 21 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 589.
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pravvivere in ambienti silvestri, a vegetazione fitta, dove l’abilità di arrampicarsi sugli alberi costituisce la principale astuzia per assicurarsi la salvezza, diviene «primitivismo organico» non appena ci si trovi ‘gettati’ altrove, in un luogo privo di appigli. Ciò significa altresì che nulla nell’aspetto del nostro antenato, ai tempi del «colpo» (Schlag) che inaugurò l’umanità, lasciava supporre quale sarebbe stato il suo futuro. La Menschenwerdung consiste in un «atto» indimostrabile dal punto di vista morfologico, per questo Blumenberg suggerisce di definirla una «criptogenesi»: l’uomo era già nato benché fosse ancora in tutto e per tutto identico a ciò che esisteva un momento prima.22 Il «principio dell’umanità» – inteso in questo caso anche come cominciamento – è già in campo quando ancora l’uomo non somiglia a se stesso. Allora la scarsa specializzazione dell’uomo e la sua speculare «totipotenza» – intesa quale possibilità di «declinare qualsiasi destino specifico e qualunque ambiente determinato» – non deriveranno da un particolare fenomeno evolutivo di «caparbio infantilismo», come vorrebbe la tesi della cosiddetta «neotenia»,23 ma da una «regressione evolutiva». Il passaggio dalla scimmia all’uomo è caratterizzato dalla compresenza di una «repentinità del mutamento di principio» e di una «gradualità del mutamento di forma».24 L’uomo «è nato d’un colpo», anzi, «di getto».25 L’antropogenesi è riconducibile a un factum, un accadimento, ovvero qualcosa che può essere ‘raccontato’. L’ominazione è da intendersi come una «nascita», un’insorgenza generatrice di una cascata di prestazioni radicalmente nuove. E, come ogni nascita – anche questa – costituisce uno Zeitereignis «misterioso», così la sto22 Cfr. ivi, p. 581. 23 Cfr. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006. A proposito della neotenia si vedano H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 218, 571-573, 589, 636; ma anche G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985; E. Melandri, Zoon politikon. Bolk e l’antropogenesi, in «Che fare», n°3, 1968, pp. 48-54. 24 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 582. 25 Ibidem. Qui Blumenberg gioca sul doppio senso delle parole «colpo» (Schlag) e «getto» (Wurf), che si riferiscono sia al carattere improvviso della svolta antropogenetica, sia al gesto che l’ha innescata, ossia il «colpo» (Schlag) inferto dal «lancio» (Wurf). Inoltre c’è – a mio avviso – nell’uso presente del termine Wurf, un riferimento a Heidegger e al concetto di «getto» (Wurf) da cui scaturisce la «gettatezza» (Geworfenheit) dell’esser-ci. Ciò sarebbe coerente con lo spirito, che – come si vedrà – pervade l’impresa blumenberghiana, ovvero con il proposito di ripensare in chiave antropogenetica non solo la fenomenologia, ma anche la lezione heideggeriana.
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ria dell’origine dell’uomo ha i tratti di uno «spettacolo dalla portata storico-universale».26 La «descrizione» della scena originaria del lancio consente a Blumenberg di connettere la spiegazione della postura eretta con la genesi della prerogativa fondamentale della «distanza» entro la medesima ‘narrazione’.27 La pietra scagliata contro l’inseguitore assume il carattere di un «atto costitutivo» che diviene al contempo un’«Aktionsmetapher»,28 la figura arcaica, la metafora assoluta29 di una prestazione vitale che l’uomo riproporrà da quel momento all’infinito sotto le vesti più disparate. Pertanto ciò che troviamo nell’opera di Blumenberg – e non solo in Beschreibung des Menschen, ma in altri testi centrali – non è solamente un’antropologia filosofica, ossia una teoria antropologica filosoficamente fondata, ma in primis – come già detto – un’«antropogenesi filosofica»30 sotto forma di racconto che «illustra» la tesi, la quale non può che arrestarsi a uno stadio puramente ipotetico, poiché «la “verità” dell’antropogenesi filosofica è del tipo» – appunto – «della “metafora assoluta”».31 Essa fornisce all’antropologia un «concetto supplementare», uno «schizzo» in grado di integrare e donare volume, 26 Cfr. P. Alsberg, Das Menschheitsrätsel, cit., p. 67. 27 Cfr. J. Bauer, Masse der Distanz zur Natur. Blumenbergs Aufnahme der ‚positiven, Wissenschaften in seine Anthropologie am Beispiel seiner Rede vom ‚Freizeitgehirn‘, in R. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 160. 28 Cfr. B. Recki, Distanz als Humanum: über die Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft in der Anthropologie Hans Blumenbergs, in Atti del Convegno Hans Blumenberg – Geschichte(n) des Wissens, cit. 29 Blumenberg chiama «metafore assolute» quei traslati né deducibili da altre metafore o forme di pensiero, né «solubili» in concetti, che in virtù della loro forza immaginativa restano nell’«improprietà», definendo orizzonti di pensiero, insieme ad «atteggiamenti ed orientamenti originari nei confronti della realtà». R. Bodei, Distanza di sicurezza. Introduzione all’edizione italiana di H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, il Mulino, Bologna 1985, p. 23, nota 24. 30 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 141-144. Müller definisce l’antropogenesi blumenberghiana «una (rudimentale) storia della coscienza umana» dal profilo singolare, insoddisfacente sul piano della descrizione delle modificazioni concrete della «morfologia della coscienza» e dell’organizzazione cronologica e sistematica delle formazioni culturali, ma indubbiamente stimolante per quanto riguarda la connessione delle considerazioni sull’origine dell’uomo con la questione esistenziale delle condizioni di possibilità dell’essere umano (Menschseinkönnen), dell’«autoconservazione dell’esserci» (Selbstwahrung des Daseins). Ivi, p. 157. 31 Ivi, p. 143. Per chiarire ulteriormente questo aspetto si veda E. Mazzi, I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale, cit., pp. 263299.
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tridimensionalità alla linearità dell’argomentazione, animandola, dandole movimento, rendendola «significativa». Non solo. Il tratto ‘episodico’ dell’esordio dell’ominazione, così come Blumenberg se l’immagina sulla scorta (critica) di Alsberg, rende conto della casualità, dell’improbabilità di un processo che, anziché seguire una catena causale preordinata, ha subìto una brusca «deviazione», venendo dirottato su una «via traversa»: lungi dal descriverne il culmine, l’uomo potrebbe assai più plausibilmente rappresentare «l’inconseguenza dell’evoluzione organica»,32 il suo sviluppo il «perpetuarsi di un’anomalia (Abnormalität), come correzione ultracomplicata di un tentativo genetico fallito».33 Lungi dall’indicare all’evoluzione la «strada maestra», l’uomo è «una sorprendente e incongrua soluzione secondaria del problema generale dell’autoaffermazione (Selbstbehauptung) della vita sulla terra»;34 «un essere che vive nonostante tutto»35 e che avrebbe potuto plausibilmente non fare mai la propria comparsa sul nostro pianeta. Nell’affermare la «contingenza dell’uomo», Blumenberg si discosta da qualsiasi forma di essenzialismo antropologico, e tuttavia si spinge anche oltre il darwinismo. Egli afferma cioè che l’uomo non si limita a costituire l’esito accidentale di processi naturali e circostanze che, sebbene si sarebbero potute svolgere altrimenti, rispondono pur sempre a un’interazione tra regolarità e imprevisto, bensì «è divenuto un sopravanzo contingente della natura»,36 sottraendosi al suo gioco, configurandosi come irregolarità, difformità, dissonanza, mettendo a punto un sistema in grado di garantirgli la permanenza sulla terra malgrado il suo corredo biologico. E benché anche le scimmie possano occasionalmente disporsi al lancio di pietre o altri oggetti, solo l’uomo è in grado di rendere tale comportamento una «scoperta» e trasformarla in «istituzione», poiché egli instaura un «rapporto interiore» col proprio Entwicklungsprinzip. Non è il corpo a portare l’impronta di quella prima pietra scagliata per difesa, ma la memoria: la difesa mediante il lancio non ha altri presupposti, per la propria ripe32 H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975, p. 791. 33 H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, cit., pp. 408-409. 34 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 585. 35 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 108. 36 R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution? Blumenbergs Argumente gegen einen Erklärungsprimat von Darwins Evolutionstheorie, in R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 175.
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tibilità, che il ricordo del primo successo.37 Perciò alla specie umana non basta una memoria a breve termine, ma occorre una Lebenszeitgedächnis che consenta lo sviluppo della facoltà di «astrarre» e trascenda il tempo della vita di individui e generazioni come «capacità di avere una tradizione». È questa l’unica forma a noi conosciuta di «ereditarietà dei caratteri acquisiti»: laddove nulla possono la complessa meccanica del genoma e le mutazioni selettive, là giunge la nostra facoltà di ricordare oltre il tempo di un’esistenza intera e addirittura al di là della durata di tutta una cultura. In tal senso linguaggio e scrittura fungono da «stabilizzatori, portatori di persistenza».38 Cionondimeno, col trascorrere del tempo, l’adesione interiore a quel principio di sviluppo innescherà una potenza dinamica di progressivo adattamento morfologico, «recupero» somatico di quanto anticipato sul piano delle prestazioni, che avrà come risultato una crescente riduzione della possibilità di volgersi indietro, finché il principio di sviluppo non condurrà a un punto di non-ritorno. Mutamenti corporei, come la perdita graduale di mobilità orizzontale per le zampe d’appoggio, renderanno sempre meno agevole il ricorso al principio di fuga quale alternativa di sopravvivenza, obbligando a tollerare il confronto. Fino a quando per l’uomo «l’eventualità di una ricaduta» non cesserà di esistere: poiché ciò che produce ed escogita lo inchioda sempre più inesorabilmente alla strada un tempo imboccata. Il toolmaker celebrato da Benjamin Franklin è al contempo una creatura toolmade (werkzeugschaffen): «attraverso ciò che fa, diviene in modo sempre più preciso e stringente ciò che è».39 Eppure, al contempo, sarà il «privilegio dell’immaturità»40 così ottenuto a suggerire all’uomo gli stratagemmi meravigliosi con cui incessantemente tenterà di diventare adulto. 1.1. Distanza, prevenzione e aggressione: dalla pietra alla trappola e oltre Si potrebbe dire che nell’Urzsenario della fuga negata – molto tempo addietro rispetto al sorgere dei monumenti megalitici preistorici – abbia luogo «la prima domesticazione del minerale»41 da parte dell’uomo e inizi la sto37 38 39 40 41
Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 583. Ibidem. Ivi, p. 588. B. Accarino, Quella maturità infantile nel governo delle cose, cit. R. Caillois, L’écriture des pierres, in Oeuvres, Gallimard, Parigi 2008, p. 1096.
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ria dell’entrata «nel mondo diverso» in cui i linguaggi degli uomini e delle pietre si intrecciano.42 A partire da questo momento esse divengono multiformi e multifunzionali in un modo completamente nuovo e, a sua volta, l’uomo apprende da loro la propria prestazione fondamentale: se è lecito chiamare sineddoticamente «linguaggio delle pietre» il linguaggio della distanza, è questo il codice che lo Steinwurf mette per la prima volta a disposizione del nostro antenato. Più correttamente, la nuova prestazione ‘fa’ l’uomo, il quale altro non è che «l’essere dell’actio per distans»,43 dell’azione compiuta grazie all’interposizione di un medium spaziale e temporale. Tramite la schematica radicale della rappresentazione della situazione genetica umana, Blumenberg suggerisce una «risposta alla domanda su come l’uomo sia possibile», che potrebbe così suonare: «mediante la distanza». In tal modo individua un’«unità sitematico-funzionale» nella molteplicità differenziata delle nostre facoltà,44 il «radicale specifico del complesso delle prestazioni umane».45 La produzione della distanza costituisce il Menschheitsprinzip che guida l’umanità dal suo «primo atto di resistenza» fino alle più sofisticate costruzioni concettuali. Tutto, nel nostro agire, risponde ancora all’arcaica esigenza di «tenere la realtà alla larga dal corpo».46 L’originario distanziamento in senso spaziale, come creazione di una barriera fisica che trattiene il nemico lontano da sé, assume via via articolazioni sempre più complesse e annuncia già l’acquisizione della dimensione temporale, nella forma della «prevenzione». Agire prima che una presenza estranea potenzialmente pericolosa varchi la soglia oltre la quale siamo fisicamente vulnerabili è l’imperativo che regola le strategie resistenziali dell’umanità fin dai primordi, trasformando mediante l’«anticipazione», la «previsione», infine la negazione preventiva delle mosse dell’avversario, la difesa in attacco. A causa dell’«incostanza dell’orizzonte» che contraddistingueva il suo «remoto mondo della vita», l’uomo ha acquisito la propria «costituzione preventiva» come «arte del non-avvicinarsi-troppo, del non-essere-troppo-aperti»47 e al contempo penetrare in 42 F. Jesi, Il linguaggio delle pietre. Alla scoperta dell’Italia megalitica, Rizzoli, Milano 1978, p. 21. Per un’ampia trattazione di questo affascinante testo di Jesi si veda E. Manera, Furio Jesi. Mito, violenza e memoria, Carocci, Roma 2012, pp. 96-105. 43 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 10. 44 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 570. 45 Ivi, p. 575. 46 Ivi, p. 578. 47 H. Plessner, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, Laterza, Bari 2001, p. 98.
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anticipo «la zona d’origine dello sconosciuto» in modo da impedirne l’insorgenza improvvisa.48 Così, tuttavia, la caratteristica che la preistoria porta in dote a quest’anomala creatura è un’ambigua forma di «prudenza»:49 la diffidenza, poiché il «vantaggio delle distanze» consiste nella possibilità «di far dipendere le proprie decisioni dalle cose che accadranno e non da quelle presenti. Solo che in questo modo [l’uomo] non è diventato un essere che nutra fiducia».50 Dal sasso scagliato contro l’aggressore alla trappola posizionata per tendere un agguato alla preda il passo è breve. La bestia braccata impara a proteggersi dalle conseguenze di un evento collocato nel futuro preparandosi al suo avvento, e si trasforma finalmente in cacciatore.51 La trappola, costruita in assenza della preda ma messa in moto in assenza del cacciatore, è vera e propria «attesa divenuta materiale».52 L’uomo cessa di reagire al dato e al riconoscibile e comincia ad affrontare «il mero possibile», ad agire «in riferimento all’assente, al non percepibile; “reagisce” al semplice sospetto. In questo senso è l’unico animale che diffida».53 Allontanando fino all’annullamento il momento dell’interazione, il campo d’azione fisico e temporale si dilata al punto da divenire di fatto illimitato: poiché anche il rivale, se umano, sarà sempre in grado di prevenire le mosse di colui che lo attende, non esiste di fatto un confine che la prevenzione non possa superare: non appena la tecnica lo consentirà, al nemico non sarà dato nemmeno il tempo di palesarsi all’orizzonte, egli potrà essere ‘congelato’ nell’immagine rarefatta dell’«avversario continuamente atteso»: La reazione ai segnali di amicizia o inimicizia si muta tendenzialmente in una prevenzione che non è assolutamente più in rapporto col riconoscimento di una persona che ci sta dinnanzi, ma trasforma lo spazio e il tempo stessi in un intervallo di influssi minacciosi e inibenti ‘estesi a tutta la zona’.54
Il progresso tecnico consente una diminuzione dei tempi di intervento direttamente proporzionale all’allargamento dello spazio.
48 H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2010, p. 136. 49 Cfr. anche H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 171. 50 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, il Mulino, Bologna 1989, p. 32. 51 Cfr. R. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166. 52 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 13-14. 53 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 31. Corsivo mio. 54 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 592.
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Tuttavia nessuna delle pratiche di difesa-attacco è riconducibile a un presunto «istinto aggressivo»55, l’arcaismo dell’atteggiamento feroce non ha a che vedere con la natura dell’uomo, ma con il suo «passato remoto»,56 con la sua «storia profonda»:57 l’aggressione fa la sua comparsa «in un panorama in cui prevenire è tutto»58 e lo è al punto tale che la stessa vista del nemico avviene post factum, solo dopo averlo colpito o addirittura ucciso. Si fa la conoscenza del proprio simile previa assicurazione di averlo reso inerme a ogni costo.59 Tutto ciò risponde sempre al medesimo principio del disimpegno organico: si ‘spengono’ i corpi ancor prima che siano abbastanza vicini da poterli vedere. Combattere le azioni precedendo il loro palesarsi, rendere la distanza «assoluta» è la motivazione recondita che sta alla base della progettazione di quelle «armi da guerra che devono rendere la guerra impossibile».60 La morte altrui è «il concetto limite di ogni prevenzione», l’«assicurazione assoluta» contro il rischio che l’altro violi i confini del nostro incerto orizzonte. Per questo, non certo a causa di un’essenza oscura, di una rapace «bestia dentro di lui»,61 l’uomo «è l’animale che uccide i propri simili»: egli si limita a «pensare fino in fondo», a portare a termine «il pensiero della prevenzione».62 La coscienza che l’altrui 55 Sarebbero d’accordo anche alcuni filosofi cognitivi, che tuttavia si mantengono saldamente ancorati a una prospettiva biologico-evolutiva. Daniel Dennett fa ad esempio risalire le prestazioni preventive alla «tendenza iperattiva ad andare in cerca di agenti» (D.C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 129), che è conseguenza dello sviluppo ipertrofico di un vantaggio evolutivo: la capacità di ritrarsi dal pericolo discernendo se i movimenti rilevati siano banali e innocui o potenzialmente vitali, ovvero se si tratti del «movimento animato» di un altro «agente» animale appartenente alla propria o a una diversa specie (ivi, p. 117). Nell’uomo (e non solo) questa funzione economica è connessa a un’altra conquista: l’atteggiamento intenzionale, qui inteso alla stregua di un impulso innato a trattare alcune cose presenti nell’ambiente come agenti dotati di credenze, desideri, conoscenze e scopi (ivi, p. 119). È a partire da ciò che prende piede quella «corsa agli armamenti» con tanto di «mosse e contromosse, trucchi ingannevoli e capacità di riconoscerli». Ivi, p. 118. 56 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, il Mulino, Bologna 1991, p. 45. 57 Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Roma 2006. 58 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 593. 59 «Il risparmio di tempo è la categoria autentica della prevenzione. Prevenzione significa sferrare il colpo decisivo prima che sopraggiunga il contatto». Ivi, p. 616. 60 Ibidem; cfr. anche H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., pp. 209-210. 61 Cfr. J. Klama, L’aggressività. Realtà e mito, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 29-54. 62 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 610.
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decesso possa garantire una «prevenzione totale» conduce alla rivelazione che ciò vale specularmente anche per la controparte nei propri confronti. Tale scoperta avviene tramite una «generalizzazione del principio» che attualizza una contraddizione, senza che essa si sia verificata effettivamente, per semplice deduzione, figurandosi una situazione spazio-temporale situata in un altrove più o meno lontano. Insomma, null’altro che un’actio per distans.63 Qui Blumenberg mostra però come il medesimo agire preventivo, talvolta capace di dispensare morte per scongiurarla, si trovi all’origine delle operazioni intellettuali umane più sofisticate e meno ‘tangibili’. Ed è su quest’ultimo aspetto che la sua riflessione preferisce insistere. I dispositivi di difesa-aggressione messi a punto da preominidi e sapiens preistorici costituiscono «il primo trionfo del concetto» (Begriff):64 nella trappola che letteralmente ‘cattura (greift) l’assente’ si manifesta l’«attitudine teoretica» dell’uomo,65 la capacità di lavorare con dei materiali che non si trovano fisicamente qui ora. D’altra parte «precedere tutto ciò con cui potrebbe succedere di venire alle mani significa soprattutto localizzare la propria azione nell’orizzonte della possibilità. Ma ciò vuol dire che la visione viene sostituita dal pensiero».66 1.2 Sul concetto di tecnica: un approfondimento Prima di approfondire il rapporto fra pensiero e actio per distans, credo sia importante soffermarsi brevemente sugli sviluppi che, lungo il percorso intellettuale di Blumenberg, hanno interessato il concetto di «tecnica», balzato – come si è visto – sul proscenio della rappresentazione alsberghiana.67 I primi saggi dedicati da Blumenberg al tema risalgono all’inizio degli anni ’50, allorché, all’indomani delle devastazioni della seconda guerra mondiale e in balia della minaccia atomica, tra i grandi filosofi molte voci critiche si levano contro la potenza distruttrice della tecnicizzazione scate63 64 65 66 67
Cfr. Ivi, p. 612. H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 14. Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 593. Per la stesura di questo paragrafo devo molto agli studi di Oliver Müller: si veda, oltre al già citato Sorge um die Vernunft (in particolare pp. 63-82, 182-188), O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese. Die Technikphilosophie Hans Blumenberg und die Struktur der Technisierung, in «Philosophisches Jahrbuch», n°115/I, 2008, pp. 99-124; Id., Zwischen Mensch und Maschine. Vom Glück und Unglück des homo faber, Suhrkamp, Berlin 2010.
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nata.68 Ma il «problema» della tecnica continuerà a impegnare Blumenberg fino all’importante testo del 1963 sul rapporto tra mondo della vita e tecnicizzazione,69 per poi depositarsi nella grande opera sulla legittimità del moderno e subire, come si vedrà, una significativa torsione prospettica con l’accentuarsi dell’attenzione verso le tematiche antropologiche. Fin dall’inizio la tecnica viene infatti inquadrata nell’ambito di una dialettica tra la definizione antropologica e quella storica del fenomeno, anzi, proprio nel saggio del 1951 che inaugura questo percorso filosofico si trova un’ampia riflessione di carattere antropologico, straordinariamente coerente con i motivi che Blumenberg porrà al centro del proprio pensiero in materia. L’uomo – scrive Blumenberg – è, secondo la sua origine, quel principio su
68 Cfr. O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 101. Per il dibattito di quegli anni bisogna nominare, naturalmente, in primis Heidegger, con la sua Frage nach der Technik (1954), ma già con la definizione della tecnica come «produzione incondizionata» in Brief über den Humanismus (1947), che infatti Blumenberg cita fin dal saggio del 1951 (cfr. H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, in Ästhetische und metaphorologische Schriften, A. Haverkamp, a cura di, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001, p. 265); ma anche, per menzionare solo alcuni nomi celebri, Anders (cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato cit.; edito per la prima volta nel 1956) e Horkheimer (cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Per la critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969; edito per la prima volta negli U.S.A. come Eclipse of Reason nel 1947 e poi, nel 1967, in Germania come Zur Kritik der instrumentellen Vernunft). Estremamente influenti per quella stagione filosofica e per Blumenberg stesso sono però anche le meditazioni sulla tecnica di Ortega y Gasset del 1939 (J. Ortega Y Gasset, Meditación de la técnica, in Obras completas, V. 1933-1941, Revista de Occidente, Madrid 1964, pp. 317-375), cui si fa riferimento sempre nel primo saggio (cfr. H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., p. 264) e, certamente, le riflessioni husserliane sulla crisi delle scienze europee del 1936 (cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., ad esempio pp. 188-192), anch’esse ampiamente analizzate (cfr. H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., pp. 19-49). 69 Cfr. H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., pp. 11-49. I testi precedenti sono Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, la cui prima pubblicazione si trova in «Studium Generale», n°4, 1951, pp. 461-467; Technik und Wahrheit, in «Zeitschrift für Kulturphilosophie», n° 2/I, 2008, pp. 137-143 (ed. orig. del 1953); „Mimesi della natura“. Sulla preistoria dell’idea dell’uomo creativo, in Le realtà in cui viviamo, cit., pp. 50-84 (ed. orig. del 1957); Ordnungsschwund und Selbstbehauptung. Über Weltverstehen und Weltverhalten im Werden der technischen Epoche, in Geistesgeschichte der Technik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, pp. 101-136 (ed. orig. del 1962).
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cui si fonda il complesso rapporto tra natura e tecnica nei termini di una «posizione intenzionale» (willentliche Setzung):70 In quanto animale la cui esistenza non è garantita dall’adattamento organico all’ambiente naturale, che pertanto si trova costretto dalle sue condizioni di vita nel modo d’esserci dell’autoaffermazione (Selbstbehauptung) e dell’autoproduzione (Selbstproduktion), l’uomo crea la tecnica come risposta alla specifica problematica del suo essere. L’uomo è un animale tecnico; la realtà tecnica è l’equivalente di una mancanza nella sua dotazione naturale. Perciò la tecnica moderna non è una manifestazione unica della storia umana, ma solo il compimento, spostato nella coscienza e assunto intenzionalmente, di una necessità radicata nell’essenza dell’uomo.71
E tuttavia, in questa fase, Blumenberg è assolutamente convinto che la spiegazione antropologica, benché corretta, non sia sufficiente a rendere conto del fenomeno osservato nelle sue espressioni più recenti e che occorra dunque accostarsi alla questione della tecnica secondo la sua valenza epocale, lo «stile» peculiare che acquisisce nel contesto storico inedito della modernità. La tecnica moderna ha infatti conquistato una dimensione autonoma, una cifra qualitativa che né l’essenza dell’uomo, né la sua situazione di partenza sono in grado di spiegare. Per comprendere come il fenomeno abbia assunto i propri caratteri unici, bisogna interpretare la «cornice ontologica» entro cui è sorto, il «mutamento nella comprensione dell’essere»72 che ne costituisce il fondamento. Così, negli scritti di quegli anni, Blumenberg ripercorre a più riprese la vicenda dei quadri cognitivi, culturali, filosofici e teologici entro i quali si è inscritta la determinazione della relazione tra natura e tecnica lungo la storia dell’Occidente. La tecnica moderna, intesa come «applicazione» (Anwendung) della scienza naturale del tempo, va indagata sullo sfondo storico dell’esprit che l’ha originata, così come si è fatto per lo spirito del capitalismo.73 È già ben visibile il «metodo storico-spirituale» (geistesgeschichtlich)74 che diverrà la cifra filosofica di Blumenberg, il tentativo incessantemente iterato di costruire una «fenomenologia della storia».75 70 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., p. 254. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 257. 73 Cfr. ivi, p. 259. 74 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 104. 75 H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 10.
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Innanzitutto una definizione preliminare. La tecnica – scrive Blumenberg: non è primariamente un regno di oggetti determinati scaturirti dall’attività dell’uomo; essa è originariamente uno stato del rapporto stesso che l’uomo ha con il mondo.76
Questo rapporto si declina differentemente ed evolve lungo la storia. Sullo sfondo di una perdita d’orientamento come sopraggiunta «assenza di terreno (Bodenlosigkiet) per l’uomo»,77 vera e propria «crisi di fiducia ontologica»,78 il moderno introduce la necessità di una «costituzione tecnica del mondo».79 L’uomo viene «rigettato nella mera economia della sua autoaffermazione (Selbstbehauptung) e la ‘verità’ è compresa come funzione di questa economia»,80 ossia posta al servizio di un’‘assimilazione’ e trasformazione (Bewältigung) della realtà e convertita in «lavoro».81 La tecnica diviene, marxianamente, strumento di emancipazione dalle barriere organiche82 e autentica «attualizzazione della verità scientifica»,83 assumendo un tratto demiurgico totalmente assente nell’armonica visione della classicità, e acquisendo la sua impronta peculiare ed epocale: tra un comportamento tecnico indotto dalla pressione autoconservativa e la percezione e comprensione della propria tecnicità quale «contenuto e segno della propria autointerpretazione (Selbstdeutung) e autorealizzazione (Selbstverwirklichung)»84 passa tutta intera la storia dell’occidente. Nel rapporto tra uomo moderno e mondo l’antitesi tra natura e tecnica si diversifica in base a un presupposto del tutto inedito: «il piglio risoluto con cui l’epoca moderna agisce».85
76 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 32. 77 Cfr. H. Blumenberg, Die ontologische Distanz, cit., p. 88; cit. in O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 102. 78 Ibidem. 79 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., p. 264. 80 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 138. 81 Ibidem. 82 Cfr. K. Marx, Il capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1997, ad esempio p. 127. 83 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 107. 84 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102. 85 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 11.
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La tecnica finisce per assumere i contorni della «tecnicizzazione», di un «pathos della prestazione tecnica»86 che si slega dai bisogni immediati e semmai ne produce di secondari. La Technisierung mostra il proprio volto peculiare nel momento in cui occulta «con il manto dell’ovvietà» i processi da cui sono scaturiti i dispositivi artificiali di cui ci serviamo: «la realtà artificiale, estranea alle cose già presenti in natura, a un determinato punto risprofonda nell’“universo delle ovvietà”, nel mondo della vita».87 La natura si converte in «quintessenza dei possibili prodotti della tecnica»88 e l’opera umana indossa a sua volta le vesti di una naturalità che si autoregola in base alle proprie leggi immanenti.89 Tutto ciò – come si evince – non è privo di rischi: nei saggi degli anni ’50 l’«ontologia della tecnica» è definita «seconda natura»,90 formula che rimanda a uno scenario insidioso in cui l’uomo, un tempo guardingo nei confronti della natura, si trova nella condizione di doversi proteggere dall’universo tecnico e macchinico che egli stesso ha creato.91 Un motivo, quello della zweite Natur, che ricorre spesso in antropologia filosofica – il che mostra ancora una volta quanto Blumenberg già all’epoca ne sia incuriosito –, ma che nei primi scritti presenta ancora – sulla scorta di Heidegger e sotto l’influenza della critica alla tecnica tipica di quegli anni – accenti problematici, che andranno via via stemperandosi nel corso degli anni.92 Blumenberg traccerà il proprio personale percorso come «filosofo della tecnica» contrapponendosi sempre più decisamente al discorso heideggeriano, e polemizzando altresì con l’Husserl della Krisis e la sua stigmatizzazione dei processi di Technisierung che investono la scienza moderna.93 La tecnica è un alleggerimento vitale e la sfera degli apparati non ha realizzato la propria supremazia sull’uomo,
86 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102. 87 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 37. 88 H. Blumenberg, „Mimesi della natura“, cit., p. 82. Traduzione lievemente modificata. 89 Cfr. U. Dierse, Hans Blumenberg. Die Zweideutigkeit des Menschen, in «Reports on Philosophy», n°15, 1995, p. 122. 90 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 143; cfr. Id., Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., pp. 264-265. 91 Cfr. U. Dierse, Hans Blumenberg. Die Zweideutigkeit des Menschen, cit., pp. 122123. 92 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 67-68. 93 Cfr. O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., pp. 100-101; cfr. anche Id., Sorge um die Vernunft, cit., pp. 63-64.
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come le più fosche distopie avevano vaticinato:94 i celeberrimi Modern times rappresentati da Chaplin oggi [fanno] l’effetto del documento storico di un’utopia mancata, poiché la visione spaventosa del povero automa alla catena di montaggio non è divenuta realtà […]. In Chaplin non si vede l’entelechia della tecnica, ma la caricatura del primo stadio di una nuova formazione.95
Asserire ciò significa naturalmente – secondo l’intenzione di Blumenberg – operare una sostanziale riabilitazione della tanto vituperata modernità.96 In ogni caso, il gioco dialettico tra «perdita d’ordine» e «autoaffermazione» dà luogo alla tecnica moderna quale fenomeno dotato di «una propria dinamica»97 e conferma il primato della spiegazione storica su quella antropologica: in Legitimität der Neuzeit Blumenberg afferma chiaramente che lo «stadio moderno della tecnicità» non può più essere semplicemente inteso come «sindrome della struttura antropologica della carenza» e «accelerazione di un processo che abbraccia l’intero arco della storia dell’umanità»; esso mostra piuttosto una «nuova qualità della coscienza»,98 una «svolta coscienziale»99 che inaugura l’emergere di una «volontà che affronta consapevolmente la realtà estraniata»100 sotto forma di Selbstbehauptung, di «autocomprensione prometeica»,101 per «estorcere a quella realtà una nuova umanità».102 E tuttavia, nonostante la radicale peculiarità del moderno e della Technisierung, Blumenberg stesso – nel testo del ’62 – suggeriva la possibilità di un confronto tra l’alba della Neuzeit e il momento antropogenetico: Può inizialmente rimanere aperta la questione se l’autocomprensione (Selbstauffassung) dell’uomo realizzata nella tecnicizzazione sia stata qualcosa di 94 Cfr. ivi, pp. 67-68. 95 H. Blumenberg, Mythos und Ethos Amerikas in Werk William Faulkners, in «Hochland», n°50, 1957/58, p. 245. Una diagnosi opinabile, a mio avviso… Poche righe sopra Blumenberg si domanda se il «demone della tecnica» non operi sempre più come artificio retorico contro un’esperienza che parla piuttosto di una confidenza crescente con i processi e le strutture meccaniche. Cfr. ibidem. 96 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 64. 97 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 112. 98 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 144-145. 99 O. Müller, Natur und Technik als falsche Antithese, cit., p. 113. 100 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 145. 101 O. Müller, Zwischen Mensch und Maschine, cit., p. 80. 102 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 145. Traduzione lievemente modificata.
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originale e radicalmente fondante, dunque un progetto spontaneo e storico, o se anche in questo caso sia venuta prima una necessità, questa volta spirituale, paragonabile alla situazione di partenza biologica, alla quale si è dovuta dare una risposta la cui espressione più pregnante si è realizzata nel fenomeno della tecnica.103
Il fatto che solo un anno dopo – nel saggio su Lebenswelt und Technisierung – Blumenberg affermi che occorra comprendere la tecnicizzazione come «processo», e dunque evitare di accogliere in modo «aproblematico» l’assunto dell’antropologia filosofica e biologica che vorrebbe l’uomo quale «essere naturale definibile proprio a partire dai suoi prodotti»,104 non deve – a mio avviso – fuorviare. Ciò che qui si mette in discussione non è la prospettiva antropologica in sé, ma una forma di antropologia essenzialistica, che definisce a priori l’uomo come «già un homo faber»105 senza problematizzare l’origine di tale identità. Il che verrà ribadito ancora in Beschreibung des Menschen, quando la costruzione di un’antropologia diverrà un progetto esplicito, ma sempre nel quadro di un’impostazione storicofenomenologica, o genetica. Sta di fatto che in quel passo del ’51 affiora già un’«antropologia della tecnica»106. E non manca – in Technik und Wahrheit – un accenno fugace alla Menschenwerdung, allorché si descrive la tecnicità umana non solo come capacità di produrre oggetti, ma soprattutto come realizzazione tecnica di sé:107 nella catena organica l’uomo comincia laddove la meccanica del processo di sviluppo viene “afferrata” (ergriffen) come tale, il che significa: dove i primati cominciano a sviluppare “se stessi” – nel vero senso del riflessivo. L’uomo è essenzialmente debitore per sé a se stesso, è auto-tecnico.108
In questa fase la riflessione antropologica blumenberghiana ha ancora tratti esistenzialistici, sartriani e heideggeriani,109 ma saranno proprio questi motivi – la dimensione auto-tecnica come sinonimo del «progetto» 103 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 102. 104 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 19. 105 Ibidem. 106 O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 66. 107 Cfr. H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 142. 108 Ivi, p. 143. 109 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 72-73.
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(Entwurf) e prodromo della Selbstbehauptung,110 la contingenza e la cura, la libertà come «principio dell’esserci»111 – a condurlo, da un lato, all’analisi della razionalità moderna, dall’altro, all’antropologia.112 L’autoaffermazione, descritta nei primi saggi quale atteggiamento storicamente determinato che ripropone un «modo d’esserci» (Daseinsmodus)113 già generato dalla situazione di partenza dell’umanità, uno stadio in cui l’uomo viene «ricacciato» (zurückgeworfen),114 a partire dal 1962 viene distinta sempre più nettamente dal contesto biologico dell’assicurazione dell’esistenza.115 Sebbene contrassegnare l’età moderna mediante il fenomeno della tecnicizzazione rinvii necessariamente alla «tecnicità» quale «caratteristica antropologica originaria» e «struttura umana onnipresente»,116 questa non basta per dedurre quella: la tecnicizzazione è un processo spontaneo della storia, […] che non sembra stare in alcun comprensibile rapporto con la natura dell’uomo, ma che al contrario lo costringe ad adeguarsi spietatamente a una natura che risponde in maniera inadeguata alle sue richieste.117
La tecnicità – scrive Blumenberg – «si radica nella natura dell’uomo», meglio: «è vecchia quanto l’uomo»118 e sarebbe opportuno che un’antropologia filosofica indagasse e stabilisse come si sia originato tale legame, come «la peculiarità della dotazione organica dell’uomo renda comprensibile il complesso delle sue prestazioni quale condizione di possibilità del
110 Cfr. ivi, p. 73. 111 H. Blumenberg, Ist eine philosophische Ethik gegenwärtig möglich?, in «Studium Generale», n°9, 1954, p. 183; cit. in O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 74. 112 Cfr. ivi, p. 75. 113 H. Blumenberg, Das Verhältnis von Natur und Technik als philosophisches Problem, cit., p. 254. 114 H. Blumenberg, Technik und Wahrheit, cit., p. 139. 115 In Legitimität der Neuzeit Blumenberg scrive chiaramente: «con autoaffermazione non si intende qui la pura conservazione biologica ed economica dell’essere vivente uomo con i mezzi disponibili alla sua natura. Essa significa un programma di vita, al quale l’uomo sottopone la propria esistenza in una situazione storica e nel quale egli traccia il modo in cui intende affrontare la realtà che lo circonda e cogliere le proprie possibilità». H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 144. 116 Ivi, p. 247. 117 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 19. 118 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung, cit., p. 101.
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suo esserci».119 Tuttavia, per vedere la situazione di «crisi esistenziale»120 dell’uomo sottratta al primato del contesto moderno e osservata non solo attraverso la lente di «una vaga forma di antropologia»,121 ma di una vera e propria indagine antropogenetica articolata, come un fenomeno a tutti gli effetti già antropologicamente fondato, bisognerà attendere le opere degli anni ’70 (in particolare, fintanto che Beschreibung des Menschen rimane custodita nell’archivio, il grande saggio sul mito). Le pagine di Beschreibung des Menschen dedicate ad Alsberg – la cui elaborazione comincia significativamente nel 1976 – rappresentano, a mio avviso, lo sforzo portato a compimento di indagare a fondo la dimensione antropogenetica della tecnica. Vi è chi – proprio per avere analizzato la rilettura blumenberghiana di Alsberg – è convinto che si possa a tutti gli effetti parlare di una «riabilitazione della ragione strumentale»122 e che Blumenberg condivida con Cassirer l’assoluta rilevanza antropologica del «principio della tecnica».123 Contrassegnando la pietra gettata dal preominide quale «mezzo strumentale di autoaffermazione»,124 Blumenberg assegna alla tecnica un ruolo tutt’altro che occasionale nella Menschenwerdung, confermato dalla definizione dell’uomo come werkzeuggeschaffenes Wesen, che lo fa letteralmente derivare dall’utensile, qualificando la tecnica come «radicale antropologico».125 Si tratterebbe sostanzialmente di una riedizione articolata della definizione dell’uomo come creatura «autotecnica».126 Non solo: benché effettivamente il ritratto antropologico che emerge da Arbeit am Mythos sia contrassegnato soprattutto dalle prestazioni simboliche, narrative, comunicative, concettuali, al tempo stesso il mito sulla cui ricezione l’intera «elaborazione» s’interroga è – non a caso – quello di Prometeo. La ragione dell’immutata fascinazione, lungo le epoche della storia dell’occidente, per questo topos, risiede proprio nel fatto che Prometeo rappresenta un «modello antropologico»:127 tramite la sua sto119 120 121 122 123 124 125 126 127
Ibidem. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 75. Ivi, p. 73. Cfr. B. Recki, Auch eine Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft. Blumenberg über Technik und die kulturelle Natur des Menschen, in M. Moxter (a cura di) Erinnerung an das Humane, cit., in particolare pp. 48-61. Ivi, p. 48. Ivi, p. 50. Ivi, p. 51. Ibidem. Ivi, p. 53.
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ria «l’autocomprensione dell’animale culturale uomo»128 si articola in senso eminentemente tecnico. Alla luce di ciò, la scena alsberghiana della Menschenwerdung assume l’aspetto di una «naturalizzazione di Prometeo»,129 o meglio, forse il mito prometeico appare come «mito fondamentale»130 che affonda le proprie radici nell’antropogenesi. Lo stratagemma tecnico, ritratto in Beschreibung des Menschen nell’immagine plastica dello Steinwurf, in Arbeit am Mythos viene raffigurato nel motivo del dono del fuoco. 131 Indubbiamente sussiste un «primato genealogico»132 della prassi sulla teoria, nella misura in cui la prestazione della distanza precipita dal gesto al concetto, assume forma compiuta nello sviluppo delle facoltà intellettuali, ma «si mostra già in modo pronunciato nel primo uso dell’utensile».133 Eppure: l’urgenza iniziale di agire, la spinta primordiale alla prassi, produce il pensiero anche come sua negazione. 1.3 Esitazione e pensosità In un articolo del 1980 – pressoché coevo quindi alle riflessioni contenute in Beschreibung des Menschen – Blumenberg afferma che, a dispetto della tendenza di ogni forma di vita a organizzarsi attorno allo schema domanda-risposta immediata, stimolo-reazione, «solo l’uomo si permette la tendenza opposta. È l’essere che esita».134 L’Umwegigkeit, come capacità di seguire delle deviazioni, perdersi lungo vie traverse, ha direttamente a che fare con la tendenza a temporeggiare di fronte a uno stimolo, letteralmente a ‘prendere tempo’, creare la dimensione dell’attesa che si frappone tra azione e reazione e dunque aprire lo spazio della scelta vera e propria. L’indecisione rischiosa di fronte all’alternativa: fuga o attacco può essere stato il primo passo verso la civiltà […], come rinuncia, cioè, alle soluzioni rapide, alle vie più brevi.135 128 Ibidem. 129 Ivi, p. 54. 130 Per una definizione di «mito fondamentale» si veda H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 219. 131 Cfr. B. Recki, Auch eine Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft, cit., p. 55. 132 Ivi, p. 58. 133 Ibidem. 134 H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 5. 135 Ivi, p. 6.
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Ciò che l’uomo biologicamente insufficiente (poiché esita solo chi «non dispone di un bagaglio istintuale univoco»136) guadagna ricusando lo schema stimolo-reazione, consiste nell’«esperienza» (Erfahrung) come risultato della percezione non di semplici «segnali», ma di «cose» passibili di essere richiamate alla mente, capacità acquisita di aspettarsi «quello che di volta in volta si manifesterà ancora».137 La stessa Ich-Identität, come centro di immagazzinamento e rielaborazione di vissuti d’ora in avanti sempre disponibili, rivela il proprio carattere funzionale-protettivo:138 «imparare dall’esperienza» significa, ben più che analizzare esperimenti andati a buon fine, soprattutto registrare nella propria memoria le «precipitose interpretazioni errate delle prime impressioni», in modo da non abbandonarsi senza condizioni all’impulso e «porre il ritardo al proprio servizio».139 In altri termini, l’uomo può sopperire alla propria inadeguatezza organica esclusivamente «non concedendosi senza mediazioni a questa realtà», istituendo con essa un rapporto «indiretto, circostanziato, differito, selettivo e soprattutto “metaforico”».140 Scrive Blumenberg in un passo di Die Sorge geht über den Fluss: Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la via più breve, arriverebbe uno soltanto. Da un punto di partenza a un punto di arrivo c’è una sola via più breve, mentre moltissime sono le vie indirette. La civiltà consiste nello scoprire e nell’aprire, nel descrivere e nel raccomandare, nel valorizzare e nel premiare le deviazioni. Perciò da un lato essa sembra caratterizzata da un’insufficiente razionalità, poiché nel senso più rigoroso solo la via più breve ottiene il marchio di qualità della ragione, e tutto quello che si dirama e passa accanto a destra e a sinistra è, a rigore, il superfluo, che con tanta difficoltà può affrontare la questione della propria ragion d’essere. Ma d’altro lato sono le digressioni che danno alla civiltà la funzione di umanizzare la vita. La pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nella consequenzialità delle sue esclusioni, barbarie.141
La ragione è «lenta», perché la sopravvivenza della specie non ha mai poggiato sul suo successo, al contrario: il suo trionfo potrebbe essere l’ul-
136 137 138 139 140 141
B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 298. Ibidem. Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 40. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 557. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 95. H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., pp. 130-131.
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tima tappa della storia del genere umano.142 Il «superfluo», nell’orizzonte dell’esistenza umana, è tale solo in apparenza, in realtà coincide con ciò di cui l’uomo non può fare a meno per sopravvivere,143 poiché gli consente di conservare quella distanza per lui vitale da ciò che provoca il suo agire, di indugiare, ovvero di «riflettere». La possibilità concreta dell’actio per distans che il preominide sperimenta nell’Ursituation dà luogo allo sviluppo «epigenetico»144 di ulteriori prestazioni distanzianti, sicché, dalla capacità di uccidere a distanza discende direttamente il lusso dell’esitazione, che costituisce a sua volta la vera scaturigine del pensiero: Afferenza ed efferenza, impressione sensibile e reazione fisica non devono […] stare più in rapporto diretto l’una con l’altra, bensì possono essere interrotte dal momento della riflessione. Dalla capacità di tenere a distanza l’avversario biologico o la preda (Opfertier) deriva di conseguenza la possibilità di una presa di distanza da sé.145
E ne deriva anche lo sviluppo di quell’attitudine pensosa che poco ha a che fare con l’ottimizzazione dei passaggi necessari a giungere a una soluzione, tipica della ragione calcolatrice. È dunque tale catena di eventi a generare la peculiare intelligenza umana e non il contrario: «l’uomo esita e tentenna non perché possiede la ragione, bensì possiede la ragione perché ha imparato a concedersi l’esitazione e il tentennamento».146 La ragione, intesa come principale «struttura di rendimento» umana,147 rappresenta esattamente questo «superamento dell’immediatezza del rapporto dei sensi con la realtà».148 La percezione stessa comincia nel momento in cui si rompe la «bella immediatezza» dell’arco riflesso (Reflexbogen) che risponde a segnali ambientali chiari e precisi, e il recettore, bombardato da una molteplicità di 142 Cfr. H. Blumenberg, Die Langsamkeit der Vernunft. Über die Verwechselbarkeit anthropologischer und politischer Kategorien, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 153. 143 Ortega y Gasset ha scritto che «l’uomo è un animale per il quale solo il superfluo è necessario». J. Ortega y Gasset, Meditación de la técnica, cit., p. 329; cit. in O. Müller, Zwischen Mensch und Maschine, cit., p. 56. 144 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 37; sul concetto di epigenetica si veda ad esempio R.C. Francis, L’ultimo mistero dell’ereditarietà, La biblioteca delle scienze, Roma 2011. 145 F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 37. 146 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 559. 147 Così Marco Russo traduce l’espressione blumenberghiana Leistungsstruktur. Cfr. M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 265. 148 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 554.
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stimoli, rinuncia a respingere quelli indistinti e confusi e li accoglie.149 La percezione emerge così come «processo di elaborazione di stimoli imprecisi. Sensazione e innesco dell’azione sono dissociati»150 e dunque il sistema organico è libero di incamerare lo stimolo sotto forma di sensazione tenendolo ‘in stand by’, svincolandosi dalla coazione all’azione. La coscienza «intenzionale» nasce come capacità di «lasciare in sospeso» gli input recepiti interrompendo l’arco riflesso, come organo della «latenza della reazione»,151 «disturbo dell’immediatezza»,152 e proprio nell’elusione «della fretta e della precipitazione, della rapidità e della leggerezza, dell’immediatezza come perdita di sensi (Besinnungslosigkeit)» consiste la «pesante dignità dell’uomo».153 In altri termini, nell’intervallo esitante tra domanda e risposta l’uomo conquista la libertà: La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienza della libertà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Già nelle sue manifestazioni più primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d’uso, è contenuto il gesto dell’acquisto della liberà dallo scopo, della sospensione dell’economia. Dall’esitazione come momentanea perplessità, come pura utilizzazione di un rinvio, può nascere la condizione che ha un valore di vita diverso di quello dell’esame delle scelte.154
La filosofia medesima, nella sua versione rigorosa di «pensiero regolato» e severo disciplinamento della digressione, scaturisce in realtà dalla «pura pensosità» contenente un’autentica esperienza di «libertà del divagare»; in altri termini, occorre ricondurre il «pensiero» all’«esser pensosi», rintracciandone l’origine nella dimensione sfuggente ma ineludibile della
149 Si ha qui a che fare con il teorema gehleniano del «profluvio di stimoli», che Blumenberg riprende letteralmente: in virtù della propria «apertura al mondo» come «disancoraggio da un ambiente preciso» dai significati «istintualmente ovvi», l’uomo, scrive Gehlen nella sua opera capitale, «è soggetto a una profusione di stimoli assolutamente estranea alla natura animale, […] alla piena “senza scopo” di impressioni che lo raggiungono e che egli deve in qualche modo padroneggiare», le quali pertengono a un mondo inteso come «campo di sorprese, dalla struttura imprevedibile, che va elaborato, cioè esperito, con circospezione e prendendo ogni volta misure e provvedimenti». A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 63. 150 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 554. 151 Ivi, p. 555. 152 Ivi, p. 560. 153 Ivi, p. 559. 154 H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 7.
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Lebenswelt,155 laddove la Nachdenklichkeit come «perdita di tempo» si fa strada come viatico per la sopravvivenza del genere umano, poiché «gli uomini non sopportano l’assoluto [e] pertanto “esitano” a reagire in maniera assoluta e proprio attraverso ciò divengono “pensosi”».156 Nonostante i suoi molteplici camuffamenti, la filosofia è ancora al servizio di quella pensosità;157 malgrado le diffidenze che suscita in coloro che legittimano il pensare solo nella misura in cui realizza «il collegamento più breve tra due punti, tra un problema e la sua soluzione, fra un bisogno e la sua soddisfazione, fra gli interessi e il consenso ad essi»,158 anche la teoria «schietta e senza riserve» – quella, per intendersi, del Talete deriso dalla servetta tracia o del Socrate condannato a morte – si rivela figlia di «un’astuzia della pragmatica»,159 vitale proprio in quanto totalmente avulsa dal crudo realismo dell’immediato.160 Quando accetta la propria dimensione pensosa, si potrebbe dire, la filosofia si scopre «fatta della stessa materia di cui è fatto il riso»,161 intimamente affine al comico – come mostra proprio l’episodio del protofilosofo caduto nel pozzo a furia del troppo contemplare il cielo delle idee –, luogo protetto di «esilio della serenità»: infatti, nel suo stare a guardare restando con un palmo di naso», essa «ha un effetto liberatorio, alleggerente perché, cercando di accettare tutto, costituisce un risparmio di rimozione, sospensione del dispendio della disciplina necessaria all’istupidimento.162
Come si è visto nel paragrafo precedente, nell’opera di Blumenberg è sempre presente una tensione tra la diagnosi epocale e l’attenzione alle co155 Per altre ipotesi eziologiche sull’atteggiamento teoretico si veda P. Sloterdijk, Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina, Milano 2011, pp. 73-106. 156 O. Marquard, Lebenszeit und Lesezeit, cit. p. 269. 157 Cfr. H. Blumenberg, «Pensosità», cit., pp. 10-12. 158 Ivi, p. 8. 159 H. Blumenberg, La caduta del protofilosofo o la comicità della teoria pura (storia di una ricezione), Pratiche, Parma 1983, p. 15. 160 Esiste e regola l’esistenza umana, secondo Blumenberg, qualcosa come l’«opportunità dell’inopportuno» (eine Zweckmäßigkeit des Unzweckmäßigen), che Bruno Accarino chiama a sua volta «la funzionalità del disfunzionale» che anima ogni dilazionamento, ogni digressione: qualcosa di rigoglioso e metastatico, una «fantasia procedurale» che consente di prendere respiro di fronte alla rapidità dei processi cui si è esposti. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., pp. 101-102; B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 304. 161 O. Marquard, Esilî della serenità, in Estetica e anestetica, il Mulino, Bologna 1994, p. 117. 162 Ivi, p. 118.
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stanti dell’agire umano, che non può essere risolta a vantaggio dell’uno o dell’altro polo dell’indagine. Benché il moderno sapere scientifico abbia assunto l’aspetto di un perpetuum mobile (secondo una definizione di Victor Hugo) autosufficiente ed estraneo a motivazioni provenienti dalla sfera del mondo della vita,163 è forse plausibile assumere seriamente «la questione antropologica» sulla spinta che ha originato l’impulso al sapere. Accogliendo la distinzione proposta da J. Mittelstrass tra «curiosità ingenua» e «curiosità riflessa» – ove quest’ultima costituirebbe il proprium della modernità –, Blumenberg accenna a una possibile risposta: Come chiunque voglia caratterizzare l’età moderna quale epoca contrassegnata dalla tecnicizzazione, oppure sfociante in essa, si vede rinviato costantemente alla tecnicità in quanto caratteristica antropologica originaria e quindi struttura umana onnipresente che tra la pietra scheggiata e il razzo lunare ammette solo una differenza quantitativa nell’aumento della complicazione, così accade anche per l’evidenziazione del fattore della curiosità. Essa è una caratteristica della giovinezza già negli animali, e più che mai una caratteristica dell’uomo in quanto animale rimasto giovane. La curiosità ingenua sarebbe dunque la costante; ma al tempo stesso essa è il substrato sul quale poggiano l’articolazione e la centratura storiche.164
Il processo inaugurato con la Neuzeit e tematizzato nella Legitimität è proprio quello qui accennato: il passaggio, tramite la distinzione, dall’«elemento naturale-evidente» a una sua comprensione cosciente, dall’autoconservazione (Selbstheraltung) all’«autoaffermazione» (Selbstbehauptung).165 E tuttavia, benché l’esistenza di tale processo escluda di accettare la visione naturalistica che nella curiositas moderna non ravvisa altro che l’eterno e fatale ritorno dell’identico, è pur vero che la curiosità autocosciente diviene tale non in virtù dell’assunzione di un atteggiamento qualitativamente nuovo, ma perché «continua a possedere l’ubiquità ingenua di sbirciare sotto ogni pietra e sopra ogni siepe, e quindi anche nei propri atti».166 Ma ora, appunto, occorre tornare indietro, alle pietre e alle siepi. 163 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 245. 164 Ivi, p. 247. Corsivo mio. È un’evocazione della tesi neotenica, poi discussa e messa a confronto con l’ipotesi alsberghiana in Beschreibung des Menschen? Va detto che anche qui l’ipotesi della neotenia non viene scartata, ma semplicemente sottoposta a critica alla luce di un altro paradigma. 165 Ivi, p. 248. 166 Ivi, p. 250.
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2. A piedi nella savana (Homo theoreticus) Affinché da quello spaurito antenato descritto da Alsberg potesse scaturire l’ingegno della Distanzierung come qualcosa «che si può apprendere» (erlernbar),167 ricordare, trasmettere, il cambio di scenario era indispensabile. Rispetto all’interrogativo se sia dipeso dalla migrazione ‘volontaria’ di una specie de-specilizzatasi per altre ragioni o, viceversa, da mutamenti climatici e geologici dell’ambiente stesso, che avrebbe perso così i segni caratteristici sui quali l’adattamento del recettore era sintonizzato, Blumenberg opta decisamente per la seconda ipotesi.168 Ma soprattutto, affinché si potesse giungere all’uomo così come lo conosciamo, occorreva un cambio di scenario definitivo e irreversibile: l’assenza di appigli dovette diventare quotidianità, le fronde ombrose degli alberi qualcosa di raro, i rifugi d’occasione una risorsa scarsa, il suolo viceversa una riserva di pietre e detriti. L’«esitazione», come conquista specificamente umana durevole, sarebbe allora in primo luogo il risultato di un «turbamento» ambientale: un cambiamento del biotopo o un mutamento di flora e di fauna causato dalle oscillazioni climatiche potrebbe aver turbato, deformato, modificato l’univocità e la sicurezza dei dati del mondo ambientale per il comportamento. La famosa sintesi teorico‑conoscitiva della molteplicità delle sensazioni sarebbe sorta dalla mancanza di chiarezza, dalla estraneità del mondo ambientale.169
Per la genesi della storia umana, la riduzione della foresta pluviale del Terziario e la conseguente migrazione delle specie che l’abitavano verso la steppa170 assumono pertanto un ruolo capitale. Lasciate le zone boschive, il nostro antenato si trova dinnanzi un habitat inesplorato, caratterizzato da «vastità e apertura ottica»:171 ciò che avviene in sostanza è una dilatazione 167 168 169 170
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 576. Cfr. ivi, p. 557. H. Blumenberg, «Pensosità», cit., p. 6. Soffermandosi sui riferimenti bibliografici da cui traggo il discorso sul cambio di biotopo e sulla postura eretta, apparirà evidente quanto sostenuto da Manfred Sommer nella sua postfazione a Beschreibung des Menschen, ossia che i testi contenuti nella seconda parte del saggio, la cui elaborazione prende le mosse già nel biennio 1976-77, possono essere letti come «Paradigmi di un’antropologia fenomenologica» che prosegue senza soluzione di continuità con la grande opera sul mito del 1979 e con il saggio sulle uscite dalla caverna del 1989. Cfr. M. Sommer, Nachwort des Herausgegebers in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 901-902. 171 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 557.
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spaziale che provoca nel progenitore dell’uomo uno «schock della visibilità»172 e genera al contempo una nuova «ottica a distanza».173 L’esperienza preistorica della «perdita della vecchia sicurezza nel segreto della foresta primordiale»174 ha un carattere traumatico, poiché inaugura una «forma della visibilità» fino a quel momento sconosciuta e ingenera nell’antenato la coscienza di essere una creatura «con ‘molto dorso’»,175 sovraesposta alle insidie. In termini ‘antropo-fenomenologici’, egli sperimenta la «situazione pura della prevenzione indeterminata» nella forma dell’«angoscia» (Angst), come «intenzionalità della coscienza senza un oggetto», e s’imbatte nell’«orizzonte» come soglia indifferenziata di pericolo, «totalità delle direzioni dalle quali “qualcosa può sopraggiungere”».176 D’altro canto, accedendo a un biotopo che ha perduto quel carattere di naturalezza (Selbstverständlichkeitscharakter) tipico della Lebenswelt,177 l’ominide fa il suo ingresso nello «spazio della percezione autentica quale quintessenza di reazioni indifferenziate (unspezifisch) e per lo più latenti»;178 ossia in un luogo che, in virtù della sua stessa conformazione geomorfologica, favorisce la comparsa di sensazioni le quali non necessitano di un’immediata traduzione in «istruzioni per l’azione» e, solo connettendosi e componendo costellazioni percettive, assumono il carattere complesso di «oggetti». Il che – come spiegato – genera ritardo nelle risposte e dilazione fino all’ottenimento di un grado sufficiente di chiarezza. Il vantaggio della steppa – «articolata in base alle distanze e perciò calcolando i tempi di preavviso»179 – rispetto alla foresta primordiale, che offre rifugio ma al contempo approssima il minaccioso, consiste dunque nel guadagno di tempo e nel potenziamento di quell’atteggiamento esitante e riflessivo che farà l’ambigua fortuna dell’uomo. 172 173 174 175
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Ivi, p. 785. Ivi, p. 560. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 26. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 785. La medesima definizione si trova anche in Arbeit am Mythos, a proposito del «divieto di voltarsi indietro», topos fondamentale attorno a cui ruota il mito di Orfeo e Lot: H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 220. In Zu den Sachen und zurück Blumenberg parla a tal proposito di «deficit dorsale»: H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 299. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 26. Su questo concetto husserliano e sulla sua rilettura blumenberghiana tornerò in seguito, in un sottoparagrafo specifico. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 558. Ivi, p. 559.
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L’abbandono del biotopo originario segna tuttavia una transizione problematica anche dal punto di vista della ‘biografia interiore’ della specie: vero e proprio «trauma filogenetico», che a suo modo ricalca quell’antichissima «apertura di un campo di gioco evolutivo»180 consistita nell’emersione dal mare alla terra delle prime forme di vita181 e conferma quanto – esattamente al pari dell’ontogenesi182 – anche la filogenesi si dipani come storia violenta, dominata da separazioni dolorose.183 La prospettiva di Sándor Ferenczi – cui Blumenberg si rifà in queste riflessioni – affascina e seduce il filosofo, tra le altre cose, per la sua impostazione ‘eretica’ nei confronti del darwinismo: non un semplice adattamento tramite selezione naturale può dar conto, secondo Ferenczi, delle profonde trasformazioni che scandiscono l’evoluzione; bensì – più ‘lamarkianamente’ – «non c’è evoluzione senza motivazione interna»184 e non vi è «catastrofe» di cui il bíos non serbi memoria e cui non tenti incessantemente di porre rimedio. Dopo il ripristino della «tridimensionalità» motoria – perduta nel transito dall’elemento liquido alla piatta solidità del suolo terrestre – in quel «mondo di arrampicamenti» guadagnato grazie alla successiva salita sugli alberi,185 la foresta primordiale si ritrae o viene abbandonata in seguito a spostamenti: così il ‘ramapiteco’,186 lasciando il suo iniziale luogo protetto e avventurandosi 180 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 15. 181 Qui Blumenberg, citando un verso di Gottfried Benn («Oh fossimo i nostri protoantenati./ Un grumetto di muco in una calda palude; tutto è riva. Il mare chiama in eterno»), osserva come talvolta la poesia riesca a esprimere qualcosa di inafferrabile come «la memoria delle crisi della separazione, di quei traumi dell’espulsione o della fuoriuscita, le soglie di dolore nell’evoluzione organica», che hanno a che fare con le soglie della capacità di esperienza e verità. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 17. 182 Rifacendosi alle teorie dello psicanalista, allievo di Freud, Sándor Ferenczi, Blumenberg ritiene che la migrazione dalla foresta alla savana ripeta non solo il trauma filogenetico del passaggio dal mare alla terra, ma altresì quello ontogenetico della nascita, la quale a sua volta si configura come «catastrofe anfibia», laddove la «piccola tragedia dell’infanzia» diviene il «ricordo della patria perduta della vita». Il grembo materno svolge allora la funzione di surrogato della sicurezza primordiale nelle profondità marine: H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, p. 51; cfr. anche Id. Elaborazione del mito, cit., p. 27; cfr. S. Ferenczi, Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, Raffaello Cortina, Milano 1993. 183 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 14. 184 S. Ferenzi, Thalassa, cit., p. 87. 185 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 16. 186 Quello che Blumenberg identifica erroneamente col Ramapithecus si potrebbe a grandi linee far coincidere, in base alle più recenti classificazioni paleoantropologiche, con l’Australopithecus anamensis o l’Australopithecus afarensis (Lucy, per intendersi), ossia con le più antiche specie ominidi rinvenute (risalenti a un perio-
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nella savana, varca una soglia simile a quella tra mare e terra, servendosi di una peculiarità prima non necessaria: l’andatura eretta.187 Già Darwin, all’epoca di The Descent of Man (1871), era convinto che «qualche antico membro della serie dei primati» avesse modificato il proprio modo di camminare dopo aver cominciato «a vivere un po’ meno sugli alberi», a causa dell’insorgere di un nuovo modo di procurarsi il cibo o «per qualche cambiamento di condizioni ambientali»,188 e che l’acquisizione del bipedismo fosse stata il motore primo (e immediato) del perfezionamento della manualità e delle facoltà intellettuali umane.189 E il collega e co-inventore dell’evoluzionismo Alfred Russel Wallace concordava con tale assunto darwiniano, secondo cui «la perfezione della struttura corporea», raggiunta dall’uomo per selezione naturale, aveva comportato parallelamente l’aumento di volume e lo sviluppo del cervello.190 Blumenberg (benché del parere che la teoria della selezione naturale e dell’adattamento ambientale non colga la peculiarità dello sviluppo umano) è ancora persuaso che il carattere morfologico distintivo più certo che separa l’uomo dal resto del regno animale – seppur prerogativa saltuaria anche di altri esseri viventi – consista senz’ombra di dubbio nel bipedismo, che ha dato il nome all’antenato più prossimo del sapiens: Homo erectus, comparso un milione e mezzo circa di anni fa ed evolutosi nella specie ‘biologicamente moderna’ cinquecentomila anni fa.191 Da un lato dunque, in accordo con la tesi ormai più accreditata in ambito scientifico, egli sostiene e rafforza il primato della rivoluzione posturale rispetto alla comparsa delle prestazioni razionali più complesse, legate alla categoria fonda-
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do compreso tra 4 e 3 milioni di anni fa circa) di cui si sa che adottavano una postura eretta, quantomeno sul terreno. Il genere Homo e la specie Homo erectus appariranno molto dopo. Cfr. I. Tattersall, Il mondo prima della storia. Dagli inizi al 4000 a.C., Cortina, Milano 2009. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18. C. Darwin, L’origine dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 66. Cfr. ivi, pp. 66-72. Cfr. A.R. Wallace, Darwinism. An Exposition of the Theory of Natural Selection with some of its Applications, Macmilland and co., London 1889, p. 461. Wallace credeva tuttavia che le capacità superiori dell’uomo, morali, intellettuali e spirituali, non fossero il prodotto dell’evoluzione per selezione naturale da altre specie animali, ma il risultato dell’intervento di una potenza superiore. Cfr. ivi, pp. 461478; cfr. anche S.J. Gould, Il pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 39-50. Blumenberg sa bene, e in ciò mostra l’attualità del suo pensiero, che l’evoluzione umana è stata un cammino incerto, dagli esiti assolutamente imprevedibili, e che anche il passaggio da erectus a sapiens non era affatto garantito.
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mentale dell’Auffälligkeit, della vistosità del corpo che solo con la stabilizzazione dell’aufrechter Gang si dà nella forma più acuta. «L’uomo è l’animale dotato di un’andatura eretta»,192 poiché solo per lo sviluppo e le caratteristiche dell’uomo questa ha assunto un ruolo decisivo. Facendo propria una convinzione espressa da Herder già nel 1784, a sua volta ripresa da Gehlen, Blumenberg ne tenta una riedizione scevra dai debiti che la formulazione herderiana ancora contraeva nei confronti della tradizione: se il precursore dell’antropologia filosofica considerava la forma umana costitutivamente «eretta» in quanto rivolta all’oltre da sé,193in sostanza al cielo, egli faceva però al contempo riferimento al «guardare lontano da sé» tipico dell’uomo. È su tale terreno che Blumenberg sviluppa la propria riflessione. Tuttavia con Herder, anche Blumenberg è convinto che la postura eretta abbia potuto imporsi e stabilizzarsi – come abbiamo visto a proposito dello Steinwurf – solo come risultato di sforzi e tensioni da un certo punto di vista estremamente artificiosi e contrari all’andamento regolare della natura; per questo non si può parlare di evoluzione in senso darwinistico, ossia adattivo.194 Siamo insomma di fronte a un attributo che, tra gli altri, fornisce l’immagine di una creatura «a rischio» e «biologicamente straordinaria», una qualità che tradisce «un’estrema fatica contro tutti i vantaggi e le agevolazioni di un confortevole quadrupedismo».195 Qualunque aspetto possa avere avuto l’essere preumano che, abbandonato per necessità o per caso l’ambiente in cui viveva, fu indotto da questo mutamento ad approfittare del vantaggio sensoriale del rizzarsi per correre a due gambe, e a stabilizzare questo vantaggio nonostante tutti gli svantaggi interni nel funzionamento degli organi – quest’essere in ogni caso aveva abbandonato la protezione di una forma di vita più nascosta, adattata, per esporsi ai rischi dell’orizzonte allargato della sua percezione: i rischi della sua percepibilità. Non fu ancora un balzo in avanti della curiosità, un godere dell’orizzonte allargato, un senso di esaltazione per la conquista della verticalità, ma semplicemente lo sfruttamento di una possibilità di sopravvivenza eludendo la pressione selettiva, che lo avrebbe spinto verso una specializzazione irreversibile. Fu 192 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 518. 193 Cfr. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, III/6, Joseph Melzer, Darmstadt 1966, pp. 98-101. «L’uomo», scrive Herder, «è a“nqrwpoj, una creatura che guarda al di sopra di sé, che guarda lontano attorno a sé». Ivi, p. 99. 194 E tuttavia Blumenberg naturalmente accoglie proprio ciò che Herder considerava un paradosso inaccettabile: l’ipotesi della provenienza dell’uomo da animali ‘inferiori’ e dunque del bipedismo dal quadrupedismo; cfr. J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, cit., pp. 100-101. 195 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 520.
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un salto situazionale, che trasformò l’orizzonte lontano, non occupato, nel permanente stare-in-attesa di cose fino a quel momento sconosciute.196
Da un punto di vista morfologico, il «salto evolutivo» provoca esiti contradditori di ‘perdita e acquisto’. La verticalizzazione del corpo durante il processo di ominazione produce una sorta di «effetto-periscopio»: l’avvicinamento e lo spostamento degli occhi sulla parte anteriore del cranio favoriscono una coordinazione della vista e del tatto e l’acquisizione di funzioni prospettiche rivolte all’ambiente circostante, il che consente il rapido controllo dell’orizzonte visivo accresciuto dalla nuova postura.197 Il mutamento situazionale procura all’antenato dell’uomo uno spostamento sensoriale, un miglioramento e un ampliamento della visuale anteriore a scapito di altre ‘rotte dello sguardo’ e di altri sensi. Nella «zona di transizione dall’uomo all’animale» (TierMensch-Übergangsfeld; transizione in parte già cominciata con l’acquisizione da parte dei primati della «visuale stereoscopica» dalle cime degli alberi), lo spazio e gli oggetti che lo occupano si aprono alla vista dell’uomo, ma contemporaneamente il campo visivo si restringe alla prospettiva frontale, rendendo l’ominide diffidente e aggressivo; inoltre, l’indebolimento del fiuto sottrae «all’ampliamento dell’angolo morto la sua possibilità di compensazione».198 La mano – indubbiamente anche per Blumenberg «un salto quantico per l’abilità tecnica dell’uomo»199 – solo all’inizio, ma non a lungo, resterà vuota, per poi subito produrre e riempirsi di quell’eccedenza chiamata «cultura» che rappresenta la dignità – ma anche la sola possibilità – dell’umano.200 A sua volta, la storia della postura eretta – ormai è chiaro – è indissolubilmente intrecciata a quella dello sviluppo del cervello. Quand’anche non dipendessero entrambe esclusivamente dal Menschheitsprinzip che si afferma nella scena alsberghiana come «salto evolutivo», è certo che a partire dal cambio di biotopo si assiste a un’«auto-regolazione autonoma ed endogena della vita umana» come fuoriuscita dai meccanismi selettivi, che il definitivo congedo dall’ambito ‘naturale’ e il consolidamento della dimensione culturale non faranno che portare a compimento.201 A tal proposito è centrale l’attenzione prestata agli studi neurologici di Hugo Spatz,202 se196 197 198 199 200 201 202
H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-26. Corsivo mio. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 764. Ivi, p. 870. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., p. 148. Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 323. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 173. Cfr. H. Spatz, Vergangenheit und Zukunft des Menschenhirns, in «Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 1964, pp. 228-242.
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condo cui zone diverse del cervello si sviluppano in tempi diversi e, nella fattispecie, nei primati le funzioni non automatiche e le rispettive parti di materia grigia si accrescono in un secondo momento, ma tendono in seguito a prevalere e accelerare la propria crescita rispetto alle zone più antiche, il cui cammino si ferma o addirittura recede.203 Introducendo i principi dell’«introversione» e della «prominazione», Spatz formula l’ipotesi secondo cui, durante la filogenesi e l’ontogenesi, si sarebbero ritirate quelle regioni nervose deputate a mansioni vitali e istintive, mentre si sarebbe ampliato l’areale della neo-corteccia, legato a prestazioni più elevate, culturali.204 La storia del cervello – sostiene Spatz – è «una storia endogena»,205 storia dello straordinario sviluppo di un organo che non segue processi evolutivi classici di interazione esogena con l’ambiente, per la quale dunque sarebbe meglio non parlare più di evoluzione in senso selettivo. Se la teoria di Spatz è vera, la recessione della funzione olfattiva seguita allo sviluppo cerebrale della neo-corteccia sarebbe una delle premesse per l’assunzione della postura eretta e, a sua volta, dipenderebbe dallo spostamento in avanti degli occhi richiesto dalla visione prospettica; il che significa, secondo Blumenberg, che «l’ottica deve avere già avuto un ‘vantaggio’, prima che cominciasse il processo che ha condotto al bipedismo (Aufrichtung)».206 La teoria di Spatz207 è perciò evidentemente capace di conciliarsi con quella di 203 Per la trattazione delle ricerche di Spatz cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 541-549. 204 Cfr. J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 154. 205 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 540. 206 Ivi, p. 542. 207 Hugo Spatz non è l’unico autore citato da Blumenberg per quanto riguarda gli studi neurologici. Grande attenzione è riservata ad esempio alle ricerche del ginecologo olandese Klaas De Snoo, cominciate già a partire dal 1932, sui rapporti tra andatura eretta, gestazione umana e sviluppo cerebrale (cfr. K. De Snoo, Das Problem der Menschenwerdung im Lichte der vergleichenden Geburtshilfe, Fischer, Jena 1942; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 580-581); o al principio della «cerebrazione progressiva» formulato nel 1929 dal neuro-anatomista Constantin von Economo (cfr. C. von Economo, Der Zellaufbau der Großhirnrinde und die Progressive Cerebration, in «Ergrebnisse der Physiologie», n°29, 1929, pp. 82-128; cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Mesnchen, cit., p. 541); o al concetto di «internazione» con cui Adolf Remane anticipava già nel 1952 l’idea di Spatz dell’eterocronia dello sviluppo delle regioni nervose (cit. in H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 542). Vari interpreti di Blumenberg hanno posto l’attenzione sul suo uso poco ortodosso della letteratura scientifica. Le fonti paleoantropologiche cui attinge risalgono in gran parte agli anni ’20 e per la descrizione del cervello – come riporta Bauer – non recepisce solo i risultati più attuali (ossia le scoperte neuro-anatomiche degli anni ’70), ma
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Alsberg per spiegare la postura eretta, anzi, la seconda completa la prima, mostrando come i meccanismi di inversione evolutiva nel sistema nervoso dipendenti da processi endogeni debbano essere arricchiti da una prospettiva che individui la «situazione acuta»208 in cui quelle capacità acquisite poterono essere giocate per compiere il salto evolutivo decisivo. Gli studi sullo sviluppo del cervello vanno perciò integrati da una prospettiva capace di collegare il bipedismo a un evento particolare occorso nella storia evolutiva dell’uomo. L’acquisizione definitiva della postura eretta ha infatti portato a compimento il processo, cominciato col lancio della pietra, di sviluppo della capacità di actio per distans.
cita testi che hanno tra i dieci e gli ottant’anni. «L’attualità dei risultati», sostiene Bauer, «non può perciò essere stata per Blumenberg l’interesse dominante», come dimostra il fatto che non vi sia traccia della «svolta cognitiva» che negli anni ’60’70 investì la psicologia e di conseguenza l’interpretazione delle scoperte neuroanatomiche (J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 156). Inoltre, sebbene la letteratura su cui Blumenberg si concentra non sia irrilevante per la storia della ricerca neurologica, non è quella che oggi si ritiene ‘scolastica’ (a tal proposito Bauer riporta la notizia secondo cui, per la propria ricerca, Hugo Spatz avrebbe approfittato dell’Aktion T4 del Reich e utilizzato consapevolmente cervelli di persone uccise dal ’37 fino a dopo la fine della guerra). Secondo Bauer, scopo di Blumenberg non é intraprendere una ricerca aggiornata né rappresentare l’ampia corrente degli studi sul cervello; le fonti di cui si serve sono valide e stimolanti per lui per un altro motivo: «con documenti empirici di diverse epoche e contesti, Blumenberg può mettere in risalto proprio il carattere storico di ciascuna antropologia e con ciò anche quello delle scienze empiriche che si occupano dell’uomo» e dei loro risultati. Così «l’antropologia stessa di Blumenberg, attraverso l’ancoraggio a precise interpretazioni storiche delle scoperte empiriche, si comporta in modo storico-contingente: è una descrizione dell’uomo in un preciso momento e contesto e non intende assolutamente dissimularlo» (ivi, p. 157). Secondo Savage, l’ausilio della «più datata ricerca scientifica» è una conferma del carattere mitico e fantascientifico del «proto-dramma» antropogenetico che Blumenberg mette in scena (cfr. R. Savage, Aporias of Origin, cit., p. 63). Diversamente, Sommer offre una lettura molto meno liquidatoria del perché il senso e il valore della ricostruzione narrativa di Blumenberg non rispondano al criterio dell’attuale stato dell’arte della ricerca empirica: «ciò che la filosofia fenomenologica fa proprio dei risultati [degli studi biologici, paleontologici, anatomici e neurologici dell’epoca] non diventa semplicemente obsoleto con loro. Poiché utilizza il sapere delle scienze positive non solo come contributi finiti per le proprie teorie, ma soprattutto come occasioni e stimoli, come esortazione e incoraggiamento per ciò di cui è capace con le sue sole forze: essa opera con finzioni e tipizzazioni, valori limite ed esperimenti mentali, variazioni e trasformazioni dell’immaginazione». M. Sommer, Nachwort des Herausgegebers, cit., pp. 904-905. 208 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 575.
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2.1. Distanza, visibilità e attenzione L’uomo ‘gettato’ negli spazi aperti della savana è preda di un insopprimibile «desiderio di invisibilità» radicato nella condizione stessa del suo genere. Per questo, fin dalle origini, ogni forma di chiarificazione – nel senso più elementare di un processo che illumina per distinguere, dunque vedere meglio – esercita su di lui un effetto ambiguo poiché, rendendo visibile ciò che è, «consegna però anche l’uomo a un aumento di visibilità realistica per sé e per gli altri, gli impone la coscienza della sua nudità e della sua incapacità di difendersi».209 La Sichtbarkeit vistosa della creatura nuda che cammina su due gambe produce un incremento della diffidenza ed è alla base della genesi dello «straniero» che – suggerisce Blumenberg – andrebbe inteso, à la Simmel,210 come categoria non solo sociologica, ma antropologica. Dalla scoperta della visibilità «nella sua consistenza spaziale» ha origine l’autocoscienza:211 la possibilità di essere visti ha come conseguenza il fatto che siamo in grado di rappresentarci a noi stessi. Tuttavia, un atteggiamento esplicitamente volto al nascondimento presuppone la consapevolezza della propria visibilità: «solo chi sa di poter essere visto può mirare a non essere visto».212 Entro la vicenda antropogenetica, il cambio di biotopo segna dunque quel «momento cosmico di un’autocoscienza che si è costituita a partire dall’essere-visti, si prepara al poter-essere-visti e infine si rivolge al voler-essere-visti».213 L’assunzione dell’aufrechter Gang è in tal senso l’«atto originario del confronto con se stessi (Selbstvergleich)».214 A partire da allora, l’autoconservazione ha a che fare con la fatticità di un essere che deve preoccuparsi di risultare visibile e rintracciabile dagli altri anche quando la sua attenzione si interrompe, o mentre dorme. Egli scopre così il proprio corpo come «localizzazione del punto d’incontro di minacce». Ma è proprio tale facoltà di vedere se stesso «dall’esterno», come un corpo in un mon209 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 40. 210 Cfr. G. Simmel, Lo straniero, Il Segnalibro, Torino 2006; cfr. A. Borsari, Il Simmel antropologo della Beschreibung: una noterella, in A. Fragio, D. Giordano, a cura di, Hans Blumenberg, cit., pp. 349-353. 211 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 803. 212 Ibidem. 213 Ivi, p. 786. Quest’ultimo passaggio caratterizza quello stadio della civiltà in cui il vedere e l’essere visti, nella loro versione «tarda», si sono ormai esonerati da quella componente di rischio che ne aveva segnato la genesi, rovesciandosi in piacere, in godimento, in desiderio, esemplificati in un certo senso dalla figura del «flaneur». Cfr. ivi, pp. 777-778. 214 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, in Theorie der Lebenswelt, cit., p. 141.
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do corporeo, e di separare il proprio soggettivo sentimento di presenza dalla circostanza oggettiva della sua percepibilità indipendente dalla coscienza, a conferire all’uomo un vantaggio vitale decisivo nella biosfera.215 Tutto ciò significa, paradossalmente, che l’antropogenesi contiene un’«antinomia elementare», poiché, se da un lato si fonda sul principio alsberghiano del «disimpegno organico» come vera e propria neutralizzazione del corpo, dall’altro la fisicità dell’organismo, esposto come nudo Leib, viene accentuata e resa manifesta.216 L’allargamento dell’orizzonte percettivo significa innanzitutto questa «opacità», questa vulnerabilità del corpo allo sguardo altrui. Il nesso fra la visibilità e la nudità dell’uomo primitivo è lampante, così come lo è – di conseguenza – la funzione autoconservativa, preventiva e protettiva, all’origine dell’abbigliamento.217 Il corpo nudo e indifeso di Adamo al cospetto di Dio racconta di una condizione d’esistenza esposta, la quale si declina non solo come vulnerabilità fisica nei confronti dei potenziali nemici, ma anche come verifica della propria identità grazie allo sguardo altrui e possibilità di essere riconosciuto come soggetto morale responsabile, imputabile, colpevole.218 La creatura visibile ‘uomo’ deve pertanto preoccuparsi della propria vita, della propria peculiarità individuale e della propria integrità morale, da quando, in posizione eretta, ha fatto il suo ingresso nella vistosità (Auffälligkeit) della pianura.219
La visibilità, come consapevolezza del proprio apparire, è ben più del mero dato di fatto della propria ‘appariscenza’ di corpo situato nello spazio su cui si riflette la luce solare: essa significa essere costantemente penetrati e definiti dal poter-vedere dell’altro, fare «esperienza dell’altro» in qualità di «vedente» inserito nel contesto del calcolo della durata e dello svolgimento della propria vita. La visibilità presuppone la Fremderfahrung come esperienza del fatto «che l’altro mi vede come io lo vedo», che «mi identifica con e attraverso la mia manifestazione fenomenica (Erscheinung)»; esperienza che possono momentaneamente interrompere solo la maschera – «esonero 215 216 217 218
Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 52-53. Ivi, p. 777. Cfr. ivi, pp. 778-779. Cfr. H. Langbein, Sichtbarkeit und Ebenbildlichkeit. Zur Theorie der Visibilität des Menschen bei Hans Blumenberg, in R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., pp. 89-90. Sulla figura di Adamo e sulla responsabilità morale cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 779-790. 219 H. Langbein, Sichtbarkeit und Ebenbildlichkeit, cit., p. 90.
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episodico dall’identificabilità» – e i suoi derivati,220 già in germe nel gesto infantile di chiudere gli occhi nel desiderio di essere ignorati.221 Tuttavia, dallo shock della visibilità e dall’ottica passiva dell’«esposizione all’essere-visti» (exponiertes Gesehenwerden) ha origine l’ottica attiva dell’«esplosione del poter vedere» (explodiertes Sehenkönnen),222 la possibilità di visione da lontano come capacità di attenzione-previsione (Vor-sicht) e pregiudizio (Vor-Urteil). In tal modo, l’uomo compensa con un rovesciamento attivo la propria condizione di ‘creatura in balia’ e «si conserva […] guardando il proprio mondo a distanza»: l’occhio diviene garante della «Distanz zur Natur», nella misura in cui vedere significa al contempo tenere lontano dal corpo. Rettificando la propria precedente definizione, Blumenberg precisa come la coscienza, più che un «disturbo dell’immediatezza», sia già un «arrangiamento» di quel disturbo, che sfrutta il tempo guadagnato dall’allargamento dello spazio per elaborare comportamenti anticipatori, azioni preventive di fuga, nascondimento e armamento; la ragione, anche quella scientifica, è ancora quest’«organo di attese» e di «formazione di un orizzonte di attesa».223 La visione prospettica, come capacità di discernere diverse impressioni ottiche nello spazio, prelude alla ragione concettuale come facoltà di integrare stimoli dislocati nel tempo.224 220 221 222 223
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 778. Cfr. ivi, p. 781. Cfr. ivi, p. 777. Cfr. ivi, pp. 560-561. Sia nel saggio sulla genesi del mondo copernicano, sia in Legitimität der Neuzeit e nel già citato articolo su curiosità e istinto di sapere, è riportata una definizione feuerbachiana della ragione, i cui echi nella riflessione filosofico-antropologica di Blumenberg appaiono evidenti. A proposito del fatto che Copernico non ebbe modo di vedere Mercurio, che pure era inserito nel suo sistema astronomico, Feuerbach osserva come in tale vicenda si definisca la relazione tra ragione e sensi su un piano antropologico, epistemologico e storico: «la ragione è sempre un’anticipazione dell’intuizione; visione e tatto non costituiscono il materiale grezzo, il substrato del pensiero, ma piuttosto l’essenza della relazione con la realtà pienamente realizzata. […] La ragione non è la perfezione della sensualità, ma la sua anticipazione», il che, nella misura in cui l’insoddisfazione per le conoscenze non acquisite nel presente mostra ciò che potrà essere in futuro, rivela anche la «dimensione temporale del sapere». H. Blumenberg, The Genesis of the Copernican World, cit., p. 633; cfr. anche H. Blumenberg, Neugierde und Wissenstrieb. Supplemente zu Curiositas, in «Archiv für Begriffsgeschichte», n°14, 1970, p. 25 e H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, pp. 474-483. 224 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 563. Quanto Blumenberg consideri cruciali le ‘vicende ottiche’ dell’uomo risulta evidente da moltissimi pas-
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L’uomo non è divenuto l’essere del pregiudizio a causa di un’aberrazione della storia, di cui si sarebbe liberato grazie al rischiaramento (Vernünftigung) moderno. Egli è un essere del pregiudizio poiché è un essere della prevenzione.225
Nelle considerazioni di Blumenberg sull’allargamento del campo visivo echeggiano alcune riflessioni di Erich Rothacker, suo maestro, la cui influenza sull’antropologia fenomenologica blumenberghiana è indubbia. Secondo Rothacker «distare» nel senso di «sporgere» (Abständigkeit), «stare di fronte, allargamento, ampiezza, campo visivo» sono i concetti che descrivono lo specifico dell’uomo in opposizione alla «ristrettezza» del raggio d’azione di cui dispone l’animale. «L’uomo ha una visuale del suo di-fronte» – dunque può ottenere una visione d’insieme della situazione – e un difronte si dà solo se non è troppo aderente a noi.226 E la «coscienza distanziante» (distanzierende), che Blumenberg attribuisce all’uomo, si configura al contempo come «coscienza preventiva» e «coscienza attenta» non solo in quanto vigile, ma anche – in termini fenomenologici – in quanto «intenzionale», ovvero propria di un essere capace di adattarsi alla propria finitezza, poiché cerca ciò che è dotato di senso nel proprio «essere orientato» verso il mondo. Attenzione, in tale prospettiva, equivale a delimitazione, facoltà di operare un «intervento deciso nella sovra-offerta di possibili nessi coscienziali (Bewusstseinsbindungen)»,227 «economizzando» le prestazioni allo saggi delle sue opere (oltre che – ovviamente – dal capitolo conclusivo di Beschreibung des Menschen, dedicato alle Variazioni della visibilità (cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschn, cit., pp. 777-895). Basti in questa sede citare – ancora una volta – il capitolo che chiude Die Genesis der kopernikanischen Welt, dedicato proprio alla «visione» nel mondo copernicano. Il rapporto dell’uomo con la visuale, con l’orizzonte, ha una sua storia e continua a evolvere e modificarsi nel corso del tempo, ben oltre quel primo rovesciamento dell’ottica passiva in ottica attiva. L’invenzione moderna del telescopio rappresenta un esempio unico di «come un orizzonte ottico rimasto costante attraverso i millenni venga trasformato in un confine continuamente dislocabile» (H. Blumenberg, The Genesis of the Copernican World, cit., p. 640) e, allo stesso tempo, l’affermarsi del copernicanesimo ‘ristabilisce una verità antropologica’ obliata dal «postulato della visibilità», ossia dal presupposto della coincidenza perfetta tra uomo e cosmo, tra dotazione organica umana ed elementi costitutivi della realtà: l’insufficienza biologica dell’uomo e la limitatezza del suo campo visivo. Rompendo il postulato della visibilità, «il copernicanesimo ha fatto a pezzi la coincidenza (che era già allentata, antropologicamente) tra il mondo e gli organi umani: la congruenza tra realtà e visibilità» (ivi, p. 642). Per l’«uomo post-paradisiaco» la scienza «può basarsi su ciò che può essere realizzato con mezzi indiretti», artificiali. Ivi, p. 638. 225 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 871. 226 Cfr. E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, Bouvier, Bonn 1964, p. 123. 227 H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 182.
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scopo di sfruttare al meglio le conoscenze acquisite.228 E rivela un rapporto intrinseco con un altro concetto cardine del pensiero di Blumenberg: quello di «significatività» (Bedeutsamkeit), intesa – secondo il «principio di significatività» formulato sempre da Rothacker – come attribuzione di valenze alle cose filtrata dall’attenzione e dalla distanza vitale da esse:229 Una volta uscito dalla regolarità di una condizione in cui il suo comportamento era determinato dall’ambiente, l’animale ominide ha a che fare con l’inefficacia degli indicatori e delle determinanti del suo comportamento, con l’indeterminatezza di ciò che le componenti della sua realtà “significano” per lui. Egli reagisce alla scomparsa di significati rigorosi definendo delle significatività.230
L’attenzione – definita da Husserl «il tendere dell’io verso l’oggetto intenzionale, dunque un «tendere al compimento» del processo cominciato col volgersi dell’io verso l’oggetto231 – viene qui indagata secondo le particolari circostanze genetiche che la impongono quale necessità. Il «mondo» sul quale il «soggetto» umano si affaccia gli ‘impone’ l’attenzione e l’attribuzione di valori nella misura in cui «sovraccarica e inonda» il suo «fabbisogno di informazioni», introducendo una «mancanza di precisione» sconosciuta nell’universo binario e auto-regolato del meccanismo stimolo-reazione.232 Invero, il fenomeno dell’attenzione ha il carattere di una «ridondanza» che può sorgere solo in presenza di una coscienza capace di uno «spazio di tolleranza» situato tra «l’apertura delle impressioni (impressionistiche Öffnung) dinnanzi a un universo di affezione diffusa» e «la logica immanente della propria intenzionalità», il che non potrebbe mai 228 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., pp. 108-110. 229 «Nel mondo storico e culturale dell’uomo le cose possiedono valenze diverse per l’attenzione e la distanza vitale da quelle che possiedono nel mondo oggettivo di ciò che viene studiato dalle scienze esatte, nelle quali l’investimento soggettivo di valore nei fenomeni tematizzati tende di norma a zero» (H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 96). «Anzitutto, quando ciò che è pertinente è divenuto in un certo senso significativo e rilevante per una comunità umana e perciò può essere accolto nel lessico vivo (lebendig) di quella comunità, le “impressioni” di una coscienza umana possono trasformarsi nel contenuto di un mondo dotato di senso, grazie al quale le conosciamo e comprendiamo. Dapprima dunque esse si costituiscono come occasioni sensibili che “toccano le nostre corde” per creare la “melodia di un mondo definito”». E. Rothacker, Zur Genealogie des menschlichen Bewusstseins, Bouvier, Bonn 1966, p. 44. 230 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 213. 231 E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, p. 73. 232 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 188.
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darsi in un sistema istintivo – per così dire ‘automatico’ – di autoconservazione. L’attenzione opera tra questi due estremi tracciando «contorni» e producendo «strutture»233 e in tal modo, grazie alla sua azione ‘formatrice’, alla sua capacità di «disporre della facoltà percettiva per quanto riguarda la sua intensità, la sua offerta mirata di energia», si attesta come forma di libertà, di autonomia234 – rispetto alla coercizione del comportamento istintuale – di un soggetto che si relaziona al flusso dei dati sensibili «prestandovi attenzione in maniera differenziata».235 Allo stesso tempo essa scaturisce dall’angustia, dalla ristrettezza: l’attenzione, scrive Blumenberg, si trova in fondamentale connessione con la costituzione temporale della coscienza, la quale ne «costringe i contenuti […] a passare tutti in una volta attraverso il punto presente (Jetztpunkt) dell’affezione», poiché entrambe sorgono da una qualità elementare della coscienza: la sua «limitatezza».236 L’attenzione rappresenta in sostanza «l’aspetto funzionale del fatto che la coscienza non conosce tutto in una volta, non conosce in una volta più di una cosa», essa è «organo» di «ripartizione spaziale di momenti affettivi» e anche in uno spazio pensato di oggetti compresenti può afferrarne e soffermarsi intenzionalmente su di uno soltanto, allontanando tutto il resto sullo sfondo (Hintergrund), applicando l’arte del «circoscrivere» (Umschreibung).237 2.2. L’uomo come Angstwesen e l’orizzonte come soglia dell’indeterminato Horizont e Angst sono i due concetti – rispettivamente di matrice husserliana238 e heideggeriana239 – che Blumenberg accosta al fine di compiere, 233 234 235 236 237 238
Cfr. ivi, p. 182. Cfr. ivi, p. 183. Ivi, p. 185. Ivi, p. 198. Ibidem. Si vedano E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, pp. 61-62; Id., Meditazioni cartesiane, cit., pp. 73-75; Id., La crisi delle scienze europee, cit., ad esempio pp. 188-192; Id., Esperienza e giudizio, cit., in particolare pp. 29-37. 239 Si vedano M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2006, paragrafi 39, 40 e 68b; Id., Einführung in die phänomenologische Forschung, in Gesamtausgabe, II. Vorlesungen 1919-1944, XVII. Marburger Vorlesung Wintersemester 1923/24, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1994, par. 50 c, pp. 288-290;
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ancora una volta, quella traduzione antropologica della fenomenologia che anima il progetto filosofico di Beschreibung des Menschen. Abbandonate le selve ed espostosi ai «rischi della sua percepibilità»,240 l’ominide cessa di «avere un ambiente» e si trova ad «avere un orizzonte», laddove la foresta pluviale era «un ambiente privo di orizzonte».241 Prima di trasformare l’orizzonte remoto, «non occupato» nel «permanente stare-in-attesa di cose fino a quel momento sconosciute», la «situazione pura della prevenzione indeterminata» è l’«angoscia»,242 la vuota intenzionalità il cui «davanti-ache» è «completamente indeterminato»,243 che per questo omologa l’intero orizzonte come spazio indifferenziato di ciò che può manifestarsi. La non-oggettivabilità dell’angoscia è effettivamente un rapporto col mondo, nella misura in cui essa è ciò che circonda e trascende l’orizzonte del mondo della vita, ciò che si trova dietro quell’orizzonte, ciò che è presente al di là di quei confini come incessante possibilità della loro instabilità.244
Heidegger, sulla scorta di Kierkegaard,245 considera la «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia» affine e tuttavia sostanzialmente distinta dalla paura, sempre rivolta a «un ente intramondano proveniente da una determinata direzione, avvicinantesi nella prossimità, nocivo e tale da poter essere evitato».246 Tuttavia l’angoscia – e qui Blumenberg segue Heidegger e lo costringe a fermarsi – che teme «l’essere-nel-mondo stesso»,247 inducendo alla fuga verso la deiezione, verso la «diversione» e il rifugio nella dimensione degli enti intramondani, rende originariamente possibile la paura, come opportunità di temere gli enti dai quali si è circondati. E questa è per Blumenberg una conquista fondamentale dell’umanità. La paura non è per lui «un’angoscia deietta nel “mondo”, inautentica e dissimulata»,248
240 241 242 243 244 245 246 247 248
Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, in Gesamtausgabe, II. Vorlesungen 1919-1944, XVIII. Marburger Vorlesung Sommersemester 1924, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2002, par. 17 b e ss., pp. 176-179 e ss.; Id., Che cos’è la metafisica?, Adephi, Milano 2001, pp. 49-51. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 25. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 564. Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-27. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 227-228. H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 136. Cfr. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1991, pp. 1-102. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 227. Ivi, p. 229. Ivi, p. 231.
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ma una forma vitale di trasformazione dell’ignoto in qualcosa di familiare e nominabile: «qualcosa viene “messo avanti” per fare di ciò che non è presente l’oggetto dell’azione diretta ad allontanare, a scongiurare, a mitigare o a depotenziare».249 Prima del Biotopwechsel, l’animale fuggiasco conosceva la paura come «carattere compulsivo» che, dinnanzi a precisi segnali scatenava un’immediata reazione di fuga. Non aveva ancora raggiunto «una condizione dominante di angoscia».250 Ora la semplicità della vecchia situazione emotiva non è più possibile: si tratta di ricrearla artificialmente in condizioni radicalmente mutate. Innanzitutto conquistando una disposizione «permanente di massima tensione del sistema organico in stato di allarme» e sviluppando la capacità di «assumere un atteggiamento di attesa, di esplorativa anticipazione che si riferisce all’intero orizzonte»; ma, in un secondo momento, riducendo lo stato di tensione tramite espedienti che consentano di razionalizzare costantemente l’angoscia in paura, ovvero il non familiare nel familiare.251 La tensione dinamica verso il «sentirsi-a-casa-propria» non è più intesa, heideggerianamente, come momento transitorio da superare nell’apertura all’Eigentlichkeit, ma come Leitmotiv antropogeneticamente fondato, legittimo e irrinunciabile dell’esistenza umana, terreno di coltura altresì delle espressioni più sublimi e più alte dell’umanità. Lo «spaesamento» di cui Heidegger parla è – a mio avviso – un concetto centrale per la riflessione blumenberghiana, in gran parte volta a descrivere fenomenologicamente e comprendere le strategie con cui, nella storia, l’uomo ha tentato di «essere familiare con…».252 Allorché, nel «processo antropogenetico», il subominide subisce la «disgrazia biologica» di perdere i fattori di «ovvietà» della propria condotta, la gehleniana esposizione alla «profusione di stimoli», l’«essere consegnati inermi al mondo privo di segnali», tutto ciò ingenera l’Angst.253 Perdute la sicurezza e la precisione proprie dell’«arco riflesso», a vantaggio di una nuova «elasticità»254 della coscienza, come facoltà di offrire riposte diverse a situazioni analoghe in base all’esperienza accumulata, l’orizzonte – che non viene semplicemente allargato, ma realmente posto per la prima volta – appare, da un lato, come «una soglia meramente apparente», dall’al249 250 251 252 253 254
H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 28. Ivi, p. 27. Ibidem. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 230-231. Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 621. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 563.
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tro come qualcosa di decisivo per la formazione della coscienza di un essere la cui ottica si è ridotta alla prospettiva frontale. Ora che il progenitore dell’uomo può vedere «solo in una direzione» ma «può essere visto da tutte», ora che l’angoscia, come «segnale del vicolo cieco» ha preso il sopravvento,255 egli ha il compito di convertire l’orizzonte da «totalità delle direzioni dalle quali si deve essere pronti a veder comparire cose indeterminate» a «totalità delle direzioni verso le quali sono orientate anticipazioni di possibilità e avvicinamenti verso di esse»;256 di assegnare all’orizzonte «una sorta di determinatezza morfologica».257 L’uomo, «essere dell’angoscia in senso estremo», fa esperienza dell’orizzonte nudo come dell’ antagonista primordiale della coscienza umana e della sua familiarità al mondo (Weltvertrautheit), in tal senso controparte anche della ragione, in quanto essa è legata al concetto come anticipazione dell’ancora assente, ma definito e reso possibile dall’attesa.258
È in tale contesto che la prevenzione si afferma come «quintessenza della razionalità», superando l’angoscia quale «indice dell’incapacità di prevenzione». Da questo punto di vista, angoscia e razionalità sono «valori limite antitetici», e tuttavia la seconda sarebbe impossibile senza la prima: l’Angst, «stato d’allarme» della prevenzione a venire, ne prepara il terreno.259 Qui Blumenberg, ponendo l’Angst a momento intermedio che conduce dal profluvio di stimoli alla dotazione razionale di forma al mondo, si distanzia tanto da Gehlen quanto da Cassirer: infatti né «il “non-adattamento” come tale» né «la “facoltà simbolica”» costituiscono l’uomo, ma «l’effetto del non-adattamento e la causa della creazione simbolica, l’angoscia».260 L’emozione perciò, guidando verso il raggiungimento di scopi lontani, è una delle premesse dell’actio per distans, nella misura in cui permette di superare distanze spaziali mediante sequenze di azioni disposte nel tempo, «avvicinamenti» progressivi, tenendo ferma un’identica finalità.261 E, prima che l’emozione assuma le forme varie e moderne della passione, del deside255 Ivi, p. 564. 256 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29. 257 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 21. 258 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 565. 259 Ibidem. 260 F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., p. 38. 261 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 566.
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rio sessuale, della smania di possesso, della pretesa di felicità, essa, nel contesto della «nuda autoconservazione», si manifesta nella forma non elaborata e grezza dell’«angoscia panica» ed è strettamente dipendente dall’essere gettati nella vastità degli spazi aperti circondati dall’orizzonte, allorché la «simbiosi originaria» con l’ambiente di provenienza è stata spezzata.262 In tal senso, orizzonte aperto e Angst sono all’origine di un altro fenomeno, la cui trattazione è al centro di Arbeit am Mythos: l’«assolutismo della realtà». Il salto situazionale umano è accompagnato da un insieme di effetti definibili come manifestazioni di questa forma primaria ed elementare di assolutismo, ossia di uno stato in cui l’uomo non controlla le condizioni della propria esistenza e, ancora più importante, semplicemente crede di non controllarle; percepisce se stesso alla mercé del «potere soverchiante» di ciò che è «per lui, di volta in volta, l’Altro».263 Parafrasando Hobbes: Se la stessa antropogenesi è già stata la crisi di tutte le crisi, in quanto ha reso la non-estinzione dell’uomo un’incoerenza biologica, genera allo stesso tempo condizioni di vita che meritano la qualifica di assolutismo, inteso nel senso più generale possibile […], quello cioè di un assolutismo della realtà stessa.264
Dall’angoscia originaria scaturisce il processo di attribuzione dei significati, come occultamento e oblio di quell’angoscia stessa. Senza la consapevolezza di tale processo generativo, non sarebbe possibile comprendere la reale funzione (pratica) del significato. La significatività (Bedeutsamkeit) ha il carattere di un «bisogno», radicato «nel fatto che noi siamo consci di non esserci mai liberati definitivamente dall’inquietudine».265 Anche in questo caso Blumenberg si confronta con Heidegger, elevando il piano che questi intende oltrepassare: nel contesto di una significatività come esigenza vitale derivata da una condizione intollerabile, l’ideale di autenticità proposto da Heidegger risulta inaccessibile; esso coincide con quei terrificanti abissi da cui la vita tenta di allontanarsi proprio stabilendo una congruenza tra ambiente e significato. «La “nuda verità” non è qualcosa con cui la vita possa vivere»,266 per questo la dimensione della significatività 262 Ivi, p. 567. 263 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 25. 264 H. Blumenberg, Teologia politica III, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 116. Corsivo mio. 265 H. Blumenbreg, Elaborazione del mito, cit., p. 146. 266 Ibidem.
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non può essere identificata con uno stadio teoretico preliminare a cui debba seguire un rapporto più autentico con ciò che si intende conoscere, ma è una strategia volta a padroneggiare la precarietà dell’esistenza umana, una «qualità apotropaica rispetto allo stordimento consegnato all’“assolutismo della realtà”».267 Ai primordi dell’uomo si situa l’origine di tutte le prestazioni – non solo tecnico-manuali – volte a «rendere conosciuto un mondo sconosciuto, decifrabile un’area inarticolata di dati di fatto». Questa è, nella sua prima manifestazione, la linea dell’orizzonte al di là del quale si stende il campo di ciò che non è accessibile all’esperienza. «Riempire l’ultimo orizzonte, nel senso del mitico “margine del mondo”, significa semplicemente anticipare le origini e le degenerazioni di ciò che non è familiare»,268 opporsi alla mancanza di affidabilità del proprio mondo, all’assolutismo della realtà, approntando «pratiche apotropaiche» basate sulla Leistung fondamentale della distanza. E se – scrive ancora Blumenberg nel 1989, all’inizio di Matthäuspassion – riempire «realmente» l’ultimo orizzonte, «percorrerlo» fisicamente, a piedi, «misurarlo» attraversandolo, altro non è che un paradosso, una «metafora dell’irrealizzabile», una fatica di Sisifo, poiché a ogni orizzonte illusoriamente raggiunto con i propri passi se ne apre uno nuovo «ugualmente irraggiungibile»; se esiste in sostanza una «logica aperta dell’orizzonte» che assume le sembianze di un «gioco semantico tra il conosciuto e lo sconosciuto, nel quale nessuno dei due elementi è riducibile all’altro»,269 è altrettanto vero che l’occhio umano è l’organo che dispiega la propria indispensabilità vitale proprio nella funzione di «ispezionare» l’orizzonte, seguirlo in una delle sue direzioni possibili.270 Nell’antropogenesi l’occhio diviene «organo dell’allungamento del passo (Ausgriff) delle funzioni organiche nell’ampiezza dello spazio».271 E ancora, a sua volta, il pensiero supera lo sguardo, permettendo di esplorare l’orizzonte al di là del visibile: l’intelligenza giunge laddove l’allargamento del raggio ottico non si può spingere, il concetto offre prestazioni migliori della vista nella misura in cui consente di superare l’orizzonte visivo.272 La declinazione dell’Angst in Furcht, il depotenziamento dell’assolutismo della realtà, sono al contempo processi di trasformazione dell’orizzonte in qualcosa di penetrabile quan267 Ivi, p. 147. 268 Ivi, p. 30. 269 A. Koschorke, Die Geschichte des Horizonts. Grenze und Grenzüberschreitung in literarischen Landschaftsbildern, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1990, p. 81. 270 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 43. 271 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 866. 272 Cfr. ivi, p. 591.
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tomeno nello spazio del pensiero. In questi termini, è vero, solo l’uomo possiede un orizzonte in senso proprio, nella misura in cui può riferirsi all’assente, ampliando il visibile nella direzione del pensabile273. Con questo rivolgimento attivo, l’uomo trasforma l’orizzonte in «orizzonte oggettuale» e costruisce per sé l’idea di «mondo», come il «più comprensivo degli orizzonti», «polidea regolativa di tutte le possibili esperienze»,274 sullo sfondo del quale può operare l’«accentuazione» (Pointierung), l’isolamento dell’oggettuale su cui si focalizzano l’attenzione e l’intenzione.275 Il mondo, scrive Husserl nella Krisis, rappresenta per la coscienza l’«orizzonte universale, l’universo unitario di tutti gli oggetti»;276 Ed è l’idea di mondo – prosegue Blumenberg – che permette all’uomo di affrontare il proprio paradossale desiderio di misurare l’orizzonte: il concetto di orizzonte racchiude in sé l’ambivalenza di circoscrivere entro un’unità visibile la molteplicità di ciò che è raggiungibile a livello sensoriale, «indicando» così la pericolosità di un confine oltre il quale si estende l’«eccetera» (das Und-so-weiter).277 Per «fuggire questo limite» l’uomo cerca «nell’“orizzonte di tutti gli orizzonti” un mondo definito».278 E d’altra parte, poiché il concetto di orizzonte ha una relazione col tempo, nella misura in cui vicinanza e lontananza possono essere entrambe assunte come metafore di passato e futuro, lo «schema ottico-spaziale» si rivela efficace per la «comprensione della “realtà” che si dà nella conoscenza e nell’esperienza vissuta»279 e l’orizzonte si configura poi nella dimensione temporale universale come «storia». Poiché percorrere l’orizzonte significa anche «abbracciare» tutto ciò che rientra nella posizione che si occupa, in cui ci si intende «trasferire» con la propria comprensione, ciò implica considerare quel che accade, che «ha luogo», ha avuto luogo o avrà luogo, come qualcosa che sta «in primo piano» sullo sfondo di un orizzonte temporale: a seconda di ciò che si mette a fuoco, un «orizzonte di attesa» o un orizzonte «della memoria».280 Ogni Erlebnis ha un orizzonte intenzionale variabile a seconda delle sue connessioni nella coscienza, sia nel momento stesso della percezione ester273 Cfr. F. Heidenreich, Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg, cit., pp. 37-38. 274 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 21. 275 Ivi, p. 22. 276 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 138. 277 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., pp. 22-23. 278 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 43. 279 Ibidem. 280 Cfr. ivi, pp. 43-44.
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na, sia nel ricordo corrispondente.281 A partire da ciò, l’intenzionalità e il suo legame con la temporalità possono estendersi dalla coscienza alla storia, dotando la struttura dell’orizzonte del suo vero senso: Ciò che è attuale in ogni esperienza può adesso essere il ricordo di un’intera comunità culturale, il suo patrimonio di tradizioni, ma anche l’aspettativa rivolta al futuro che dipende da una peculiare e ben radicata coscienza della possibilità.282 Infatti, benché la coscienza in ogni momento abbia a disposizione solo un campo percettivo limitato, una piccola porzione di mondo e di tempo, fa altresì parte del percepito un orizzonte dischiuso di esperienze possibili che lo completano: «ogni campo visivo e veduta dispongono di un orizzonte esterno aperto, che non può essere separato dall’esperienza»,283 il che fa sì che ciò che di volta in volta è attuale si connetta in un’unità d’esperienza, e garantisce che il mondo esperito resti sempre il medesimo.284 A Blumenberg – a quanto sembra – interessa appunto soprattutto l’Husserl che estende dal piano della coscienza a quello della storia ‘universale’ quella «costante presunzione di orizzonte».285 Blumenberg intende ripercorrere la formazione di queste strutture e della stessa idea di mondo, per mostrare che la coscienza, così come la fenomenologia la descrive, è il risultato di frangenti ed effetti legati alla Menschenwerdung. Grazie all’orizzonte lo sguardo umano è in grado di intenzionare gli aspetti che non si trovano immediatamente sotto la sua visuale diretta, salvo dover cedere all’indeterminatezza ciò che MerleauPonty286 chiama «il contesto lontano», quella zona fatta di oggetti e ricordi non più distinguibili, che il soggetto non può più «tenere in pugno».287 Que281 Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., pp. 73-74. 282 H. Blumenberg, Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, cit., p. 22. 283 E. Husserl, Husserliana, IX. Phänomenologische Psychologie: Vorlesungen Sommersemester 1925, Martinus Nijhoff, Haag 1962, p. 62. 284 A tal proposito si veda E. Mazzi, I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale, cit., pp. 271-272. 285 E. Husserl, Phänomenologische Psychologie, cit., p. 63. 286 Sulle affinità tra le due strade rispettivamente imboccate da Blumenberg e Merleau-Ponty a partire dalla fenomenologia husserliana si veda O. Müller, Antrhopoligische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 111; cfr. inoltre H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 88. 287 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 116.
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sto è esattamente il contesto che Blumenberg ‘prende alla lettera’ e problematizza, situandone l’origine nella storia profonda dell’uomo. Dal punto di vista husserliano, si tratta di «mettere tra parentesi» l’atteggiamento naturale ingenuo e non riflessivo tramite la riduzione fenomenologica, per accedere alla sfera della «soggettività fenomenologica trascendentale» pura, non più ‘contaminata’ dal proprio essere situata nella mondanità, per indagarne gli atti e le prestazioni;288 diversamente, per Blumenberg, la dogmatizzazione della purezza della coscienza è uno dei problemi principali della fenomenologia e ha a che fare con l’«oblio sistematico»289 della condizione di esistenza e della storia dell’origine di coloro che si pongono tali questioni e propongono determinate risposte.290 Così anche il concetto fenomenologico husserliano di orizzonte, contestualizzato entro lo scenario antropogenetico, diviene un «concetto cultural-antropologico» che definisce la «prima cornice di orientamento» per l’uomo nonché, come «confine del percepibile», uno dei criteri della coscienza. Con l’emergere dell’orizzonte, la coscienza acquisisce una qualità inedita e si forma proprio come Horizontbewusstsein, il che costituisce la precondizione stessa del formarsi dell’intenzionalità.291 Infatti, «da un punto di vista antropologico/biologico la statura eretta e l’ottica frontale sono indici sia della naturale proiezione dell’uomo oltre i limiti spaziali, che della sua protensione oltre quelli temporali».292 La struttura temporale della coscienza intenzionale, che rende intellegibili gli oggetti senza permettere una totale aderenza e identità con essi, fa sì che l’oggetto sia sempre di più, al di là e diverso rispetto alla coscienza, e dunque di fatto che sussista un mondo.293 Allo stesso tempo, il concetto di orizzonte così inteso rimanda alla dimensione dell’«intersoggettività», ulteriore elemento chiave del pensiero husserliano e della sua rivisitazione blumenberghiana: Un orizzonte che non posso mai raggiungere davvero, poiché si sposta insieme al movimento del mio corpo, ha il proprio significato precisamente per ciò che mi nasconde, per ciò che non si è ancora mostrato come grandezza valutabile; ma allora [ha il proprio significato] in termini soprattutto intersoggettivi, 288 Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., pp. 104-105. Ho consultato anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, pp. 118-122. 289 O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstsein, cit., p. 105 290 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 11. 291 Cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 148-149. 292 D. Giordano, Decentramento antropologico e neutralizzazione simbolica, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 22. 293 Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, cit., p. 125.
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nella misura in cui altri al mio posto possono attraversare quest’orizzonte in entrambe le direzioni, ricavare notizie da me, trasmettermene altre.294
L’orizzonte, nella propria consistenza paradossale, si fa «soglia delle funzioni delegate» e dunque zona di interazione intersoggettiva, laddove per intersoggettività non si intende solo, husserlianamente, identità dell’attenzione che io e altri rivolgiamo a identici oggetti, ma soprattutto «occupabilità (Besetzbarkeit) di un mondo anche al di là dell’orizzonte dello spazio vicino e lontano che mi circonda, dello spazio del mio tatto e della mia visuale».295 Con l’«oltrepassabilità» dell’orizzonte l’uomo non guadagna solo il pensiero, ma anche la condivisione dell’esperienza, nella forma non della simultaneità, ma della delega, ossia in una dimensione in cui gli orizzonti si integrano in una «realtà omogenea di fusione intersoggettiva».296 L’intersoggettività si dipana lungo linee diacroniche, nella dimensione del tempo, come estensione della «protensione» intenzionale della coscienza attraverso gli altri, permettendo la comunicazione e la parziale conciliazione di Lebenszeit e Weltzeit: «tra il tempo soggettivo e il tempo oggettivo, tra il tempo della vita vissuta e il tempo del mondo» si pone il «livello di costituzione rappresentato dalla temporalità intersoggettiva».297 L’altro è «colui che mi sostituisce per il mio mondo», colui che poteva esserci prima che lo percepissi e che forse «mi sopravviverà»:298 questo lo so non appena i nostri tempi cessano di convergere e ci allontaniamo l’uno dall’altro. Come so che il mondo, dove gli altri si muovono, mi è estraneo e indifferente, sussiste indipendentemente da me, ma al contempo che gli altri che ne partecipano mi garantiscono proprio perciò una certa dose di obiettività, sicurezza, memoria e, talora, speranza. Grazie al pensiero e all’immaginazione, l’uomo ha imparato a dominare l’orizzonte, nella relazione con l’altro è riuscito a percorrerlo, anche qualora – come i sette messaggeri di Buzzati299 – non si faccia ritorno nell’arco del tempo della nostra vita, il messaggio andrà a depositarsi lungo il cammino del tempo del mondo, e tutto questo è ciò che fin qui ci ha permesso – entro certi limiti – di vivere e sfidare l’angoscia. 294 295 296 297 298 299
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 672. Ibidem. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 544. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 331. Ivi, p. 332. Cfr. D. Buzzati, I sette messaggeri, in Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1958, pp. 3-7.
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2.3. Umwelt, Welt, Lebenswelt. Uomini e no Jakob von Uexküll – riferimento ineludibile per l’antropologia filosofica novecentesca, le cui ricerche furono definite da Heidegger «una delle cose più fruttuose che oggi la filosofia possa far propria dalla biologia»300 – descriveva l’ambiente in termini di «totalità chiusa» comprendente il «mondo percettivo» e il «mondo operativo» di un animale:301 attraverso organi percettivi e operativi il soggetto animale imprime delle «marche» al contesto circostante, in modo tale che soltanto alcuni fattori si traducono in «stimoli» cui seguono risposte precise e immediate da parte dell’organismo. Questo significa che, rispetto alla ricchezza di ciò che sta intorno all’animale, l’ambiente si struttura in termini di depauperamento, barattando l’opulenza in cambio della sicurezza del comportamento. I «dintorni» vengono così tradotti in un ambiente «ottimale» che se ne distingue quantitativamente e qualitativamente e che si interseca e sovrappone ad altri ambienti coesistenti e differenti.302 Questi passaggi mostrano già chiaramente quanto feconde potessero essere le teorie di Uexküll per un’antropologia filosofica che avrebbe fatto della sicurezza insita nel meccanismo stimolo-risposta la cifra della superiorità organica dell’animale. I «dintorni» cui Uexküll allude altro non sono che «il nostro stesso ambiente, l’ambiente umano»,303 ossia il più sofisticato di quei «mondi percettivi superiori»304 in cui forma e movimento si articolano in una connessione strutturale; il solo dominio in cui gli «obiettivi» si sostituiscono ai «piani naturali».305 Tuttavia c’era ancora bisogno di Heidegger per sancire che il contesto umano non è solo un ambiente estremamente complesso, ma un «mondo» dominato da regole radicalmente altre; se da un lato il mondo perde la rigida sicurezza dell’ambiente, d’altro canto esso è una «struttura pervasiva» che esclude e sostituisce completamente la possibilità umana di avere-ambiente: «non siamo animali che hanno un po’ di mondo e un po’ di ambien300 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Il melangolo, Genova 1002, p. 337. Per un profilo teorico essenziale del barone biologo von Uexküll e per un accenno alla ricezione filosofica della sua opera rimando al saggio introduttivo di M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti. Uexküll, il cane guida e la crisi dello Stato, in J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 7-33. 301 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 39. 302 Cfr. ivi, p. 52. 303 Ivi, p. 55. 304 Ivi, p. 88. 305 Ivi, p. 96.
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te, che in parte devono costruire i loro dintorni e in parte no, ma una forma di vita radicalmente e totalmente mondana».306 Già Scheler, nel 1928, era partito dagli studi di Uexküll per giungere alla celebre definizione dell’uomo come «essere spirituale», «persona», tale proprio in virtù della capacità di emanciparsi dalla pressione e dalla dipendenza dall’organico, dalla «vita»; dunque di essere «libero dall’ambiente-proprio» e «aperto al mondo»,307 laddove l’animale fluttua «in un’indifferenza esistenziale con l’ambiente e il suo gruppo, in una fusione emotiva col principio vitale».308 Mentre la «struttura dell’ambiente-proprio» si trova in perfetta sintonia con la «struttura pulsionale» e la «struttura di rilevanza significativa» dell’animale,309 «estaticamente immerso nell’ambiente-proprio», la forma dell’«apertura al mondo» coincide con un comportamento «capace di un ampliamento illimitato, vasto quanto l’estensione del “mondo” delle cose esistenti»,310 che delinea lo spazio come campo occupato da oggetti verso cui indirizzare azioni libere. «Ovunque vada, l’animale si porta dietro l’ambiente-proprio come una struttura di rilevanza, alla guisa di una lumaca che si porta in giro il proprio guscio», diversamente la mondanità umana è legata a un doppio movimento di «estraniazione» e «sostanzializzazione»:311 l’uomo, sfuggito alla prigione ambientale e alla supremazia della ‘simbiosi’, è ‘a piede libero’ nel mondo. Un anno dopo – appunto – col corso tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1929-30,312 Heidegger ripercorre e scava più in profondità lo iato tracciato da Scheler tra Umwelt e Welt.313 Nella celebre definizione dell’animale «po306 M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti, cit., p. 20. 307 M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, FrancoAngeli, Milano 2004, p. 121. 308 Ivi, nota p. 121. 309 Ivi, p. 122. 310 Ivi, p. 124. 311 Ibidem. 312 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit. 313 Certamente non è intenzione di Heidegger aderire alla nascente antropologia filosofica, la cui funzione all’interno dell’ambito filosofico reputa «oscura e indecisa» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 183). E d’altra parte anche gli autori della nuova corrente – in particolare Plessner – rimarcano le nette divergenze dell’antropologia filosofica dalla riflessione heideggeriana (cfr. B. Accarino, Tra libertà e decisione. Alle origini dell’antropologia filosofica, in B. Accarino, a cura di, Ratio imaginis. Uomo e mondo nell’antropologia filosofica, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, pp. 12-17). Tuttavia, nonostante le dichiarazioni di estraneità, la contiguità cronologica e ‘ambientale’ ha dato indubbiamente luogo a significative contaminazioni. Anzi, a metà degli anni ’20, la riforma scheleriana della fenomenologia aveva avuto per Heidegger
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vero di mondo» allude a un «fare a meno»314 del mondo, inteso quale «accessibilità dell’ente in quanto tale» fondata su una «manifestatività dell’ente in quanto tale […] nella sua totalità».315 Certo, «all’animale è accessibile qualcosa», il suo «modo di essere, che noi chiamiamo “vita”» entra in relazione con il contesto in cui è immerso secondo quella forma di connessione che Uexküll chiamava appunto «mondo-ambiente». Tuttavia l’animale è inserito nel proprio mondo-ambiente nella forma di un imprigionamento e solo in tal senso l’ente gli è accessibile. La sua vita, il suo «specifico esserepresso-di-sé» ha la forma di uno «stordimento»,316 di un «esser-assorbito da…» nei cui riguardi l’ente «non è dischiuso»,317 non è fruibile nella forma dell’apprendimento, e tuttavia non si presenta neppure come ermeticamente chiuso: è «sospinto-verso» dagli istinti e assorbito in un «cerchio ambientale» che ne rende possibile il comportamento. In tal senso la disposizione animale nei confronti dell’altro è un’«apertura» nella forma della «disinibizione».318 Ma se il modo d’essere dell’animale è il «comportamento» che scaturisce dalla possibilità di un «disinibente» di essere colpito da «stimoli»319 molto precisi, allora appare quantomeno dubbio che sia lecito «parlare di un mondo dell’animale».320 In effetti l’animale non può avere un mondo, in lui c’è «un non-avere mondo nell’avere l’apertura del disinibente».321 Diversamente, l’uomo «è posto di fronte al mondo», lo «ha» come «ciò in cui si muove, con il quale si confronta, che domina e al tempo stesso serve e al quale è assegnato».322 E questo mondo non è solo più ricco, più esteso e più ampio quanto a penetrazione rispetto a qualunque ambiente animale, ma «costantemente ampliabile», sempre potenzialmente in espansione in termini di vastità e decifrabilità; perciò tale «continuo accrescimento» si può intendere come «formazione di mondo».323 L’uomo è «formatore di mondo»,324 è il suo esser-ci a produrre, rappresentare, costituire la «totalità
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grande importanza, tanto che tra i due si era instaurato un intenso dialogo filosofico (cfr. J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit., pp. 55-57). M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 253. Ivi, p. 363. Ivi, p. 305. Ivi, pp. 316-317. Ivi, pp. 324-325. Ivi, p. 327. Ivi, p. 337. Ivi, p. 344. Ivi, p. 231. Ivi, p. 251. Ivi, p. 232.
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unitaria»325 dell’ente accessibile «in quanto tale», dell’ente «con cui si ha commercio».326 Al comportamento animale come «esser-capace» istintuale, l’uomo oppone una «condotta» che indica un «fare e agire» tuttavia fondato su una disponibilità nei confronti del manifestarsi dell’ente, dell’«esser-sospinti», del «lasciar-essere» l’ente manifesto.327 Infatti, al di qua di ogni eventuale asserzione e predicazione, dev’essere possibile per l’uomo un’apertura pre-predicativa e pre-logica nei confronti dell’ente.328 Questo porgersi che, fondandola, accade in ogni condotta asserente – porgersi incontro a un ente vincolante – lo definiamo un rapporto fondamentale: l’esser-libero in senso originario.329
Il carattere dell’«apertura-di-mondo» propria dell’uomo è dunque l’«esser-portato-incontro»330 nella dimensione del «progetto» quale «struttura fondamentale della formazione di mondo».331 Se il superamento di un antropocentrismo antropomorfico nei confronti di tutto il vivente e la «radicale disumanizzazione della natura»332 compiuti da Uexküll costituivano probabilmente un passaggio obbligato per un’antropologia filosofica moderna profondamente contaminata dai saperi scientifici, d’altra parte la sterzata data dal «filosofo del Novecento che si è maggiormente sforzato di separare l’uomo dal vivente»333 doveva essere più conforme a una disciplina che ha ragionato sempre attorno all’‘anomalia’ umana.334 325 326 327 328 329 330 331
Ivi, p. 363. Ivi, p. 255. Cfr. ivi, pp. 350-351. Cfr. ivi, p. 436. Ivi, pp. 437-438. Ivi, p. 439. Ivi, p. 464. L’interesse di Heidegger nei confronti del concetto di «aperto» si deve all’ottava delle Elegie duinesi di Rilke: cfr. R.M. Rilke, Poesie. Nuove Poesie, Elegie duinesi, Sonetti a Orfeo, Poesie sparse e ultime, EDIPEM, Novara 1973, pp. 114-116. 332 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 44. 333 Ibidem. Agamben ha trattato diffusamente le tesi di Uexküll, Rilke e Heidegger su cui anche in questa sede ci si è soffermati. Cfr. G. Agamben, L’aperto, cit., pp. 44-65. 334 In tal senso ritengo corretta la lettura di Derrida: quantomeno all’epoca del seminario su Mondo, finitezza e solitudine, «il discorso heideggeriano è ancora cartesiano» (J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, p. 205); ossia si muove ancora nel solco di una forma di umanesimo. E la frattura profonda fra l’animalità dell’animale – tutto l’animale – e l’umanità dell’uomo ruota attorno a quella struttura dell’«in quanto tale» che Heidegger nega all’animale e concede all’uomo (cfr. ivi, pp. 199-222). Se la successiva Brief über den «Huma-
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Solo un mondo estraneo alla «stretta unità funzionale»335 della Umwelt poteva tradursi nello spazio di conversione della mancanza in distanza, della minorità in vantaggio. L’umana arte di vivere che rende l’uomo «formatore di mondo» non potrebbe mai prodursi nella «bolla»336 ambientale di Uexküll. Al contempo, da quella Kunst/Künstlichkeit la vita umana dipende completamente: per gli umani, almeno ab origine, «creare una struttura storico-culturale […] non è un’opzione ma una necessità biologica».337 La tesi dell’uomo formatore di mondo è stata dunque sostanzialmente fatta propria e rielaborata dall’intera tradizione antropologico-filosofica.338 Pur senza un esplicito riferimento a Heidegger, riallacciandosi direttamente alle tesi di Uexküll, Gehlen ribadisce che «il mondo dell’animale non è il nostro».339 Anziché seguire la via heideggeriana della frattura ontologica, introduce il concetto di «istinto» – lasciato da parte da Uexküll che preferiva parlare di «arco riflesso»340 – assegnandogli un ruolo centrale nel superamento di una «concezione ecologica soggettivistica»341 che ha finito per trascurare e cancellare, nel brulicare delle differenze individuali, la distinzione primaria: «si prendono le figure comportamentali originarie, autenticamente istintive, degli animali, che si rapportano ad ambienti naturali e a loro coordinati, per le specializzazioni acquisite del comportamento» – Heidegger direbbe della «condotta» – «che nell’uomo corrispondono a una ricca e articolata sfera culturale».342 L’uomo è contrassegnato da «apertura al mondo» e «riduzione degli istinti», cui corrisponde un grado molto alto di «plasticità» e «instabilità».343 Appurata l’inapplicabilità del concetto di Umwelt all’uomo,344 Gehlen vi oppone una nozione di «mondo» declinata in senso fortemente cultural-antropologico, come il «grande tutto» che per ogni essere umano contiene «la sua società, il suo milieu culturale,
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nismus» rappresenti davvero un’uscita definitiva dall’umanismo rimane per me fonte di dubbio. G. Agamben, L’aperto, cit., p. 46. Cfr. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 39. A tal proposito si veda anche P. Sloterdijk, Sphères, III. Écumes, Hachette, Paris 2006, pp. 5256. M. Mazzeo, Il biologo degli ambienti, cit., p. 20. Cfr. ivi, p. 22. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 106. La prima edizione di Der Mensch è del 1940. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., nota p. 44. A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 106-107. Ivi, p. 107. Ibidem. Ivi, p. 108.
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il paesaggio che gli fa da sfondo»,345 ma rimarcando altresì come l’idea di un mondo si dia solo e soltanto per un essere in grado di concepire il visibile come «parte di un mondo non dato», di vedere «nel percepito il percepibile»;346 vale a dire di inscrivere «ogni tipica particolare» in una «tipica della totalità».347 Infine, intendendo l’apertura al mondo nei termini di una «situazione pulsionale», come esposizione a una molteplicità di esperienze, impressioni e intuizioni e «“orientabilità” delle pulsioni»348 verso «valori lontani»,349 «verso ciò che è assente».350 Ci si avvicina sempre più alle sfumature semantiche blumenberghiane. Ancora un passaggio prima di approdarvi: Rothacker, con cui Blumenberg collabora dagli anni ’50, ai tempi dell’«Archiv für Begriffsgeschichte»,351 fino alla morte del primo sopraggiunta nel 1965, pubblica nel ’64 la sue lezioni sull’antropologia filosofica. Il concetto di «distanza», come già accennato, vi occupa una posizione centrale. È nel saper porre una distanza rispetto al mondo esterno e al proprio mondo interiore che risiede la specificità umana. L’animale è «vincolato all’istinto» (dranggebunden), ciò che l’attrae resta sempre nelle sue vicinanze, poiché il vincolo istintuale è sinonimo di «vincolo al presente», «al momento», «alla situazione», al questo-qui-e-ora: l’orizzonte esperienziale animale è «circoscritto» (eingeengt)352 a ciò che lo attrae praticamente, a ciò che lo minaccia, al pericolo che incombe, e tutto questo sempre nella situazione presente e immediata. Esso «vive solo in modo simbiotico, immediato con le cose e i fenomeni» e non dispone di alcuno «spazio di azione (Spielraum) per agire così o colà». Al polo opposto, l’uomo è in grado di guadagnare una «distanza materiale» dai fenomeni, di muoversi in una dimensione
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Ivi, p. 110. Ibidem. E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 34. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 384. Ivi, pp. 385-386. Ivi, p. 386. Assieme a Gadamer e a Joachim Ritter, Rothacker è uno degli animatori dell’«Archiv für Begriffsgeschichte», cui Blumenberg collabora e nel cui ambito s’inserisce anche la sua proposta metaforologica. Per alcuni cenni sulle vicende della rivista e i rapporti fra Rothacker e Blumenberg si vedano A. Fragio, «Das Überleben der Übergänge», cit., pp. 34-40; J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit., pp. 134-152, 339-340, 435-438; H. Blumenberg, Nachruf auf Erich Rothacker, in «Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur im Mainz», 1966, pp. 70-76. 352 E. Rothacker, Philosophische Anthropologie, cit., p. 121.
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«prospettica».353 Può ritagliarsi un «intervallo» (Zwischenraum), uno spazio d’azione che si dà come «apertura, libertà di movimento, distacco, alienazione […], visione d’insieme, espansione»354 rispetto alla limitatezza del mondo situato degli animali, così aderente al corpo. Solo mediante il guadagno di questo «spazio di movimento», che proietta l’azione nelle molteplici dimensioni dello spazio e del tempo, il contesto umano diviene un «mondo spazio-temporal-oggettivo-relazionale», un «orizzonte relazionale».355 Il mondo, d’altra parte, si dà solo per chi è capace di guardare e pensare «al di là dell’orizzonte esperito spazialmente e temporalmente»: esso in effetti «non è esperibile. Esperibili sono solo ambienti», ma è aperto per il continuamente domandante e per la coscienza continuamente esperente.356 Posto che, rifiutando il gesto classificatore dell’antropologia filosofica, Blumenberg è estraneo anche alla tipica tendenza a «inventariare le differenze tra uomo e animale»,357 egli contrappone esplicitamente, nella scena antropogenetica, l’orizzonte da cui preme tutto ciò che «può costituire il mondo dell’uomo»358 all’«ambiente (Umwelt) fatto di segni (Merkmale) chiaramente determinati e determinabili», descrive l’uomo come «non legato a un particolare ambiente» (Umwelt),359 definisce l’ambiente (Biotop) silvano «Umwelt ohne Horizont».360 Blumenberg utilizza ambiguamente il termine Umwelt, ora nel senso soggettivo-trascendentale di Uexküll,361 ossia nei termini del rapporto percettivo e operativo che si instaura tra un vivente e una porzione precisa di esteriorità (l’unica alla quale ha accesso), dominato da meccanismi di stimolo e risposta, ora nel senso darwinistico e naturalistico di environment, habitat naturale, Biotop, ossia come zona terrestre caratterizzata da una specifica flora e fauna a cui determinate specie animali si rapportano in termini di adattamento.362 Per effetto – forse – della sovrapposizione tra feno353 Ivi, p. 111. 354 Ivi, pp. 124-125. 355 Ivi, pp. 126-127. 356 Ivi, pp. 136-137. Corsivo mio. 357 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 504. 358 Ivi, p. 564. 359 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 85. 360 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 564. 361 L’espressione «mondo subiettivo», utilizzata da Uexküll come sinonimo di Umwelt (cfr. J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin 1909), può apparire in tal senso ancora più evocativa. 362 Anche Scheler, citando Uexküll, sostiene che il processo di adattamento non sia riconducibile, come vorrebbero Darwin e Spencer, «a un unico ambiente uguale
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menologia e antropologia, sovrappone il «mondo subiettivo», l’«abitazione», alla «patria».363 L’uomo abbandona l’ambiente in entrambi i sensi: lasciando fattivamente l’ambiente-habitat foresta per la savana, che non sarebbe il suo ecosistema di riferimento, è costretto a sostituire l’adattamento con le prestazioni della distanza, il che comporta automaticamente che egli non viva il suo rapporto con l’esteriorità nella forma dello stordimento ambientale, ma nell’apertura percettiva dell’avere-un-mondo, che solo le distanze della pianura e le facoltà sorte di conseguenza potevano consentire; e ancora, geograficamente, tutto ciò fa sì che habitat peculiare dell’umanità diventi il mondo intero, tutta la superficie terrestre, insomma che Homo sapiens assuma le sembianze della creatura globale par excellence.364 Ma tra Umwelt e Welt, benché non in senso propriamente cronologico, Blumenberg frappone un altro concetto, quasi inafferrabile e ineffabile: il concetto di Lebenswelt.365 La costituzione preventiva dell’uomo sta in rapporto con l’incostanza dell’orizzonte del suo mondo della vita, in particolare del suo mondo della vita più remoto, che va sempre visto come di passaggio tra un ambiente biologico che funziona automaticamente e un mondo della vita premodale, contrassegnato dall’ovvietà ma non universalmente protetto.366
Venire a capo di queste sottili distinzioni è tutt’altro che semplice. «In termini fenomenologici», scrive Blumenberg, «mondo-della-vita» è «il concetto contrario al mondo “della scienza obiettiva”».367 E, per Husserl, ha un duplice significato, «storico» in quanto stadio germinale del «mutamento dell’atteggiamento teoretico» e «astorico» come strato fonda-
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per tutti gli esseri viventi» (M. Scheler, Gesammelte Werke, X. Schriften aus dem Nachlaß, I. Zur Ethik und Erkenntnislehre, Bouvier, Bonn 1957, p. 312). Cfr. A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 104-105. Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit. «Centauro concettuale» ben più ostico di quanto possa apparire, a detta dello stesso Blumenberg (H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 32), che coniuga in sé la già discussa componente del «mondo» quale «integrazione di totalità ed evidenza rispetto all’atteggiamento teoretico» e della «vita» intesa in termini di «esistenza» piuttosto che di flusso vitale (ivi, p. 33), ma riferita in ogni caso non alla dimensione soggettiva bensì alla «realtà come essa è innanzitutto e per lo più». Ivi, p. 35. H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 136. Corsivo mio. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 656.
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mentale della vita sempre compresente alla teoresi.368 Blumenberg mantiene la duplicità del concetto, distinguendo tra la Lebenswelt originaria, posta al principio della vicenda umana, e le Lebenswelten che incessantemente si danno nel corso di questa storia. Tuttavia – come appare chiaro già da questi passaggi – lo scarto dalla formulazione husserliana è consistente e motivato dalla convinzione che si tratti di un’impostazione teorica insufficiente, poiché lascia aperta l’ineludibile domanda su «quali siano i presupposti per poter avere un mondo della vita», ovvero un mondo «dotato di grande stabilità», di una «costanza fissa»369 nonostante le differenze di contenuto che sussistono tra mondi-della-vita. È perciò lecito, anzi doveroso, chiedersi: si tratta di una categoria antropologica?370 Lo è, risponde Blumenberg, nel caso in cui la utilizziamo «a partire dal fatto che è un essere dagli “adattamenti perduti” quello a cui viene attribuita».371 L’uomo è «l’essere circondato dall’ovvietà (Selbstverständlichkeit). Non potrebbe vivere se dovesse studiare a fondo tutto ciò su cui si basa la possibilità della sua esistenza. Egli proviene», deriva, trae origine (herkommt) dalla lontana naturalezza (Selbstverständlichkeit) che nel linguaggio biologico si chiama “adattamento” e, dopo che ha dovuto completamente perdere
368 A. Borsari, L’«antinomia antropologica». Realtà, mondo e cultura in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 386. Blumenberg parla a tal proposito di un’oscillazione di Husserl tra una Lebenswelt intesa in senso «protologico», come «preistoria della coscienza», e una Lebenswelt «ipologica» come sottostruttura quotidiana di familiarità non tematizzate, che accompagna e a cui attinge ogni processo esplicito (cfr. H. Blumenberg, Beschrebung des Menschen, cit., pp. 814-815). 369 Ivi, p. 656. 370 Anzi – scrive Blumenberg in Beschreibung des Menschen – proprio il tema della Lebenswelt sarebbe il punto d’applicazione di un’antropologia fenomenologica, poiché è impossibile apprestarsi a una descrizione del mondo della vita prescindendo dall’essere vivente che si suppone abiti quel mondo. Husserl tuttavia non ha saputo procedere in questa direzione, proprio perché il suo concetto di Lebenswelt è rimasto a tutti gli effetti «formale» (ivi, p. 814), dal momento che egli non intendeva veder altro se non la sua «chiusura», per volgere il proprio interesse tematico verso «le fasi della sua rottura» (ivi, p. 816). Ma allora, sostiene Blumenberg, una Lebenswelt siffatta «non avrebbe mai potuto diventare tema di una fenomenologia» (ibidem), poiché fungeva unicamente da «formazione ipotetica di un cominciamento» a partire dal quale la fenomenologia appare come stadio conclusivo conseguente, senza che i concetti di vita e mondo siano in alcun modo relati all’«essere vivente uomo» (ibidem). 371 Ivi, p. 656.
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quella, se ne costruisce continuamente una nuova nelle regolamentazioni e nelle forme di affidabilità fatte ad arte della sua cultura.372
Partiamo dunque con l’analisi del primo corno del concetto, quello che lo intende in senso storico-genetico. In realtà, l’uomo deriva dalla naturalezza dell’adattamento, ma come tale non è mai stato là. Dal primo germinare del Menschheitsprinzip si trova già fuori di essa. La stessa Lebenswelt remota non è propriamente da confondersi con un’Umwelt, perché – scrive Blumenberg parafrasando Wittgenstein – un mondo della vita non è «tutto ciò che accade (was der Fall ist)»373 e nemmeno «una parte definita o definibile di ciò che accade».374 Soprattutto, la Lebenswelt non è un ambiente poiché non ne conserva il carattere esiziale: In un ambiente i rapporti tra segnali e reazioni, tra fattori scatenanti e modi di comportamento sono rigidamente determinati. Un ambiente è un complesso costante all’interno del quale, quando i rapporti tra segnali e reazioni non funzionano, non ci può essere delusione o mancanza, ma solo la morte. Per contro, il mondo della vita è una regione definita dal fatto che in essa le delusioni non hanno bisogno di essere mortali.375
Il preominide è in transito tra la forma di vita animale e quella compiutamente umana. Quali sono dunque le caratteristiche della Lebenswelt? I mondi della vita antepredicativi sono anzitutto «mondi estranei», «predicativamente chiusi», mondi «nei quali su di essi nulla si può dire»376 e fuori dai quali ogni predicazione è insufficiente e congetturale. Tra questi, il mondo della vita preistorico, «primario», è più correttamente da inten372 Ibidem. 373 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 135. Il riferimento è alla prima tesi del Tractatus di Wittgenstein, che – come noto – recita esattamente: «il mondo è tutto ciò che accade» (cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., p. 5). Non un mondo della vita abitato da evidenze premodali, ma solo un «mondo» accessibile a forme di rischiaramento e meccanismi di delega è concepibile come «tutto ciò che accade» (cfr. H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., pp. 138-139). Per quanto riguarda il confronto di Blumenberg con Wittgenstein si vedano, tra l’altro, H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 579-605; Id., Außer dem, was der Fall ist. Beobachtungen an Wittgenstein, in «Neue Zürcher Zeitung», 21.4.1989, pp. 65-66; Id., Lebensthemen, Reclam, Stuttgart 1998, pp. 120-121. 374 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 135. 375 Ibidem. 376 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 39.
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dersi come «prestorico»,377 avendo con ciò in mente più che un preciso momento della nostra storia profonda, quella dimensione posta «al di sotto della soglia di percezione di una vita individuale e di una generazione intersoggettiva»378 e al di qua della storia come «separazione di aspettativa ed esperienza».379 Una dimensione priva del carattere fatale dell’ambiente, ma che non sa ancora nulla del rivolgimento attivo e preventivo con cui l’uomo costruisce l’idea di mondo come orizzonte di tutti gli orizzonti e sfondo di un’attenzione oggettivante. «Non c’è stata […] una “storia del mondo nell’età della pietra”»,380 ma possiamo servirci del concetto di Lebenswelt per comprendere come «ciò che è» sia divenuto «ciò per cui esso si dà»;381 in termini antropogenetici: che cosa l’uomo abbia dovuto perdere e acquisire per divenire tale. Poiché qui ci figuriamo esattamente «l’uomo nel suo mondo nel punto in cui compare il suo bisogno di teoria, come compensazione dell’inevitabile perdita del mondo della vita».382 Si può immaginare il primo mondo della vita come «una sfera di permanenti presenze»383 al di qua di ogni mezzo approntato per cogliere l’assente (concetti e simboli, giudizi e inferenze), una «fase iniziale in cui per l’uomo l’assente non era soltanto indifferente, non era soltanto per lo più sconosciuto, ma nemmeno rappresentabile».384 In altri termini, se l’intreccio dello spettatore col mondo ha il carattere della «distanza dal mondo» (Weltdistanz), il mondo della vita è un «mondo che non ha nessuno spettatore».385 Rispetto alle Umwelten delle altre forme di vita organiche, il mondo della vita umano è sì anch’esso «definito dalla propria capacità funzionale», ma ha sempre contorni indistinti alle sue periferie, è sempre leggermente mutevole, per così dire sfilacciato tra la sua ovvietà (Selbstverständlichkeit) costan-
377 Così infatti Bruno Argenton traduce il termine «vorgeschichtlich» nell’edizione italiana di Tempo della vita e tempo del mondo. 378 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 82. 379 Ivi, p. 83. 380 Ibidem. Il riferimento è a O. Menghin, Weltgeschichte der Steinzeit, Schroll & Co., Wien 1931; citato anche da Husserl nella Krisis. 381 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 46. 382 Ivi, p. 47. 383 Ivi, p. 49. 384 Ivi, pp. 49-50. Traduzione lievemente modificata. 385 H. Blumenberg, Wie man Zuschauer wird, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 104.
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te e le invasioni dello sconosciuto – dunque di ciò che accade (was der Fall ist), ma non era ovvio.386
Si potrebbe dire che, se nella chiusura degli ambienti animali il mondo rimane sempre inaccessibile, nell’instabilità della Lebenswelt il mondo ulteriore preme e si fa avanti continuamente. Il processo con cui si entra nel mondo equivale a «far sorgere il mondo» e «uscire da ciò che esso non è o non è ancora».387 Il mondo «non esiste da sempre»,388 bensì «diventa tale, nella misura in cui l’entrata/uscita verso di esso si apre, si raggiunge, si rende praticabile».389 L’ambiente non può mai tradursi in un mondo, il mondo della vita deve sempre, inesorabilmente, esaurirsi per lasciare spazio a un mondo. Dunque tra «patrie»390 animali e umane sussistono differenze specifiche. Se l’adattamento ambientale consiste nella «precisione dell’interdipendenza di informazione e comportamento», volgersi verso di esso per suggerire un’analogia con la Lebenswelt originaria aiuta a comprendere come gli strumenti logici di cui l’uomo dispone non costituiscano per lui nulla di dato, non siano insomma «l’idealistico appannaggio dell’essere razionale “uomo”».391 Al contrario si trattò, una volta perduto il mondo della vita, di «riparare o evitare interruzioni di coerenza»392 dovute alla cancellazione del «parco dei vissuti».393 E si tratta, per una fenomenologia antropo-genetica, di indagare come abbia avuto luogo tale trasformazione, tale cancellazione. Lo sconosciuto che «insorge alla periferia» della Lebenswelt viene continuamente captato/intercettato/neutralizzato (aufgefangen) tramite «azioni di superamento» che significano già un abbandono della Selbstverständlichkeit: attribuzione di nomi, integrazione metaforica, infine subordinazione e classificazione concettuale, insomma appunto Umwegigkeit.394 L’universo emozionale composto dai processi di stupore, spavento, orrore, paura occupa il «margine del mondo della vita» da cui si dipartono tutte le strategie 386 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 135. 387 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 9. 388 B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 336. 389 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 9. 390 Cfr. B. Waldenfels, In den Netzen der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985, p. 194. 391 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 64. 392 Ibidem. 393 Ivi, p. 65. 394 Cfr. M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 267.
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di superamento come «possibilità di influenzare attraverso azioni».395 L’angoscia si situa sulla linea dell’orizzonte della Lebenswelt come «ciò che sta al di là dei suoi confini».396 Il mondo della vita è «un mondo dell’incipiente dividersi (Auseinander), della dissociazione nascente: l’istante (Augenblick) del passaggio dall’unità al dualismo».397 Il mondo inteso come realtà coriacea, ‘capricciosa’ e ostinata, contrapposta al soggetto costretto a farvi fronte, sorge dalla dissoluzione del mondo della vita. La storia [dell’] assolutismo [della realtà] comincia quando ci rendiamo conto di esso: quando viene in “vita” ai margini del “mondo della vita”. Ad un certo punto questa “mancanza di riguardi” del mondo verso ognuno, non solo verso le vittime del suo speciale sfavore, fu scoperta e sopportata – un primo giorno del realismo.398
Il mondo che l’umanità ai suoi albori guadagna sarebbe quindi un mondo-della-vita. Detto ciò, l’uomo lascia il mondo-della-vita, l’“universo delle ovvietà pre-date”, dietro di sé, da quando riempie di senso, interroga in cerca del senso ciò che senza dubbio esiste, ciò in cui si confida, ciò che è conosciuto – e proprio per questo anche ciò che è sconosciuto. Dal tempo dei greci l’ovvietà si tramuta in comprensibilità nel processo della curiosità teoretica.399
Ma allora c’è stato un tempo della Lebenswelt remota? Dove e quando è questa Lebenswelt? Ha una durata? Coincide con uno stadio della nostra preistoria? Si vede che queste domande non sono oziose, dato che in effetti Blumenberg stesso propone tre alternative in merito all’esegesi del mondo della vita come ipotesi sull’origine: «può essere stato l’istante più fugace della storia dell’umanità: l’innocenza – già in pericolo nel momento in cui viene all’esistenza – di una modestia che si accontenta di ciò che è dato, forse congiunta con la prima angoscia di fronte al non dato».400 Transizione quasi impercettibile dall’ambiente animale al mondo. Oppu395 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 135. 396 Ivi, p. 136. 397 M. Sommer, Lebenswelt und Zeitbewusstsein, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1990, p. 7. 398 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 82. 399 M. Meyer, Figuren der Lebenswelt. Bücher von Hans Blumenberg, in «Merkur», n°36/11, 1982, p. 1115. 400 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 50.
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re potrebbe aver rappresentato «la condizione normale di questa umanità per lunghi spazi di tempo, nei quali le sue forme di vita restarono immutate».401 Forse il tempo degli knuckle walker, delle forme pre-umane che cominciavano le proprie escursioni dalla foresta in via di erosione verso la savana? Infine, ci si potrebbe accontentare di introdurre il concetto di Lebenswelt «semplicemente a titolo di ipotesi», pensare «un mondo caratterizzato da un adattamento ottimale della coscienza alle situazioni e alle esigenze determinate da fattori reali» come postulato, modello su cui studiare «tanto le possibilità che esso contiene, quanto l’impossibilità della sua conservazione». 402 Dunque un dispositivo concettuale – o meglio, metaforico – per illustrare «i dintorni (Umgebung)403 di un soggetto nel quale poteva sorgere, per opera di vissuti descrivibili, qualcosa che poi, a partire dalla sua originaria funzione, si trasformava in una attrezzatura di strumenti predicativi per chiarire “situazioni”».404 Cioè per dar conto della processualità del soggetto, dell’emergere della coscienza come «frattura» e dunque episodio di una storia; per mostrarla non come qualcosa di dato, ma come l’esito di una situazione profondamente instabile. Anche grazie all’introduzione di motivi vitalistici legati a una «metaforica della fonte»,405 il concetto di Lebenswelt è in grado di condurre la fenomenologia a una feconda «autoriparazione»: 406 da un’«eidetica statica» a una «genetica dinamica»407. Così, improvvisamente, da un lato «la teoria del mondodella-vita è anche già un pezzo di filosofia della storia»,408 dall’altro 401 Ibidem. 402 Ibidem. Anche Barbara Merker – commentando questo passo – rileva come Blumenberg «non voglia escludere che una vita priva di delusione sia stata una volta in passato possibile» (B. Merker, Bedürfnis nach Bedeutsamkeit. Zwischen Lebenswelt und Absolutismus der Wirklichkeit, in F.J. Wetz, H. Timm, a cura di, Die Kunst des Überlebens, cit., p. 74). 403 Qui Argenton traduce «ambiente», ma io ritengo più corretto – proprio ai fini del presente tentativo di orientarsi in questa complessa e fluida costellazione concettuale e terminologica – attenersi alla distinzione lessicale e semantica introdotta da Uexküll tra «ambiente» (Umwelt) e «dintorni» (Umgebungen). 404 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 53. 405 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 71. A proposito della «metaforica della fonte» si veda in particolare H. Blumenberg, Quellen, U. von Bülow, D. Krusche (a cura di), Deutschen Literaturarchiv Marbach, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach am Neckar 2009. 406 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 51. 407 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 71. 408 Ivi, p. 72.
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«l’autocoscienza della fenomenologia» s’inscrive «entro la storia della filosofia».409 Ma allo stesso tempo, una fenomenologia così intesa offre lo spunto per un’ulteriore antropologizzazione. Infatti, per dar conto delle «transizioni pre-predicative verso forme originarie della negazione e della moralizzazione» bisogna presupporre una «fragilità della relazione immediata con l’ambiente (Umweltbeziehung)»410 della soggettività a esse predisposta. Occorre aver spezzato la sicura circolarità dell’ambiente. Poiché tale fragilità è tutt’altro che ovvia, essendo tutt’altro che ovvio il fatto che la conformità di ambiente e prestazione organica sia stato «disturbato», sorge legittimamente la domanda su come un simile essere organico si sia prodotto entro il contesto dell’evoluzione e sia mutato in modo da potersi esporre a tali vissuti (Erlebnisse) prepredicativi, ovvero vissuti dotati di un campo di esperienza (Erfahrungsfeld) variabile sottoposto a continue interruzioni di familiarità. I vissuti del mondo della vita che preludono e conducono alla qualità negativa del giudizio e alla modalizzazione sono già disturbi nello stato di normalità dell’adattamento, acutizzazioni della dipendenza da un’elaborazione costante di esperienza per mezzo dello strumentario logico.411
La coscienza è dovuta venire a capo del «crollo del mondo-della-vita quale universo originario (o primitivo) delle ovvietà»412 segnato da una volubilità che l’ambiente non conosce. Questa sembra essere la strada ermeneutica che Blumenberg predilige. La Lebenswelt come «regno di evidenze originarie» è proprio perciò «un regno di grande predisposizione verso ciò che porta discrepanza tra le evidenze» e dunque «ha una struttura di auto-decadimento».413 Improbabile allora che prima della sua storia, esattamente quanto nella «quotidianità» durante la sua storia, sia stata concessa all’uomo la «continuità del soggiorno»414 nel mondo della vita.
409 H. Blumenberg, The Life-World and the Concept of Reality, in L.E. Embree (a cura di), Life-World and Consciousness. Essays for Aaron Gurwitsch, Evanston 1972, p. 430. L’articolo è stato ripubblicato in lingua tedesca in H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., pp. 157-180. 410 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 73. 411 Ibidem. 412 Ibidem. 413 Ivi, p. 83. 414 Ibidem.
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Insomma, indescrivibile, di difficile collocazione nello spazio e nel tempo, di incerta durata che sia, Blumenberg non rinuncia del tutto a situare, storicizzare e naturalizzare la Lebenswelt (soprattutto in quei testi più dichiaratamente interessati a una dimensione antropologica): anche in Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, in riferimento all’assunzione della postura eretta, afferma che «prima che il mondo della vita potesse mai essere abbandonato, è stato abbandonato, trasceso l’ambiente (Umwelt)».415 D’altra parte Blumenberg è «pienamente consapevole della refrattarietà del concetto di “mondo della vita” a lasciarsi maneggiare in modo filosoficamente univoco» e – secondo Accarino – lo tratta infatti per lo più come un «concetto limite»,416 dunque incollocabile per definizione. Perciò, anche qualora s’intenda il concetto di mondo della vita ‘in salsa blumenberghiana’ come sostanzialmente aderente al «mondo naturale, primitivo, quale è esistito precedentemente alla prima assunzione dell’atteggiamento teoretico specialmente grazie ai Greci»,417 resta sostanzialmente impossibile fissarlo in un punto preciso della storia. Anche nella sua torsione storicoantropologica, resta soprattutto «un concetto trascendentale».418 In effetti il mondo della vita blumenberghiano sembra di fatto un «non luogo», una dimensione in cui non ci veniamo mai a trovare perché ci espelle incessantemente da sé. Ciò in quanto l’«“atteggiamento” descrittivo» stesso sorge solo laddove la Lebenswelt tramonta, cosicché «non si danno “storie del mondo della vita”» ma al limite congetture postume intorno al «ricordo» di qualcosa che dev’esser già sempre stato abbandonato per diventare oggetto di teoresi.419 Il mondo della vita «“desunto” fenomenologicamente»420 è – secondo Blumenberg – una deduzione, un’ipotesi sullo stato iniziale della storia immanente della logica. Presupposto ipotetico di cui una fenomenologia genetica non può fare a meno, esso è «una condizione da sempre abbandonata», nei confronti della quale «in gioco è sempre anche una fuga o una cacciata da una familiarità col mondo probabilmente insostenibile», 415 H. Blumenberg, Selbstverständlichkeit, Selbstaufrichtung, Selbstvergleich, cit., p. 142. 416 B. Accarino, La ragione insufficiente. Al confine tra autorità e razionalità, Manifestolibri, Roma 1995, p. 144. 417 G. Brand, Die Lebenswelt. Eine Philosophie des konkreten Apriori, de Gruyter, Berlin 1971, p. 17. 418 H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 79. 419 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 37. 420 Cfr. ivi, pp. 69-70. Sulla Lebenswelt come concetto limite si veda l’introduzione all’edizione italiana di Gianni Carchia, pp. 9-15.
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all’inseguimento di una familiarità del mondo che ci si attende sostenibile.421 Al termine della ‘ruminazione’ blumenberghiana, il concetto husserliano di Lebenswelt mostra contorni mutati in cui sembra echeggiare una dialettica impossibile tra «vita» e «forma».422 Perciò più che un mondo – anteriore, compresente o ulteriore che sia – la Lebenswelt così intesa è «l’“idea” di un mondo», dotata di una «sua quasi trascendenza»: chi vi fosse immerso, non ne saprebbe nulla, chi ne sa qualcosa, non può farvi ingresso o ritorno.423 La domanda che dà il titolo al paragrafo della prima parte di Beschreibung des Menschen, dedicato al concetto di Lebenswelt: «il mondo della vita: un tema per chi ci vive?»424 sembra a tutti gli effetti retorica. Secondo Stoellger, il concetto blumenberghiano di Lebenswelt è strettamente connesso alla costruzione di una metaforologia e non è formulato né propriamente – à la Husserl – in termini trascendental-teoretici, né – à la Schütz425 – cultural-sociologici, né – habermasianamente – secondo i criteri di una teoria della comunicazione.426 Tuttavia, nella distinzione tra mondo-della-vita inteso al singolare e «mondi-della-vita» al plurale,427 così come essa è delineata in Lebenszeit und Weltzeit, il primo termine denomina «un ipotetico terminus a quo della storia quasi-trascendentale»,428 mentre il secondo fa riferimento ai mondi della vita culturali e storici.429 In Blumenberg, proprio la tonalità ‘traumatica’ del distacco dalla ‘prima Lebenswelt’ – assente in Husserl – determina lo statuto dei mondi della vita che sempre ci accompagnano. Si potrebbe dire che la ‘compresenza’ husserliana diviene qui ritorno del rimosso in forma conflittuale e plurale. La 421 Ivi, cit., p. 70. A tal proposito si veda anche J. Kirsch-Hänert, Zeitgeist, cit., pp. 114-121. 422 Cfr. G. Simmel, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997. 423 Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 76. 424 Cfr. H. Blumenberg, Die Lebenswelt: ein Thema für den, der in ihr lebt?, in Beschreibung des Menschen, cit., pp. 70- 92. 425 Cfr. A. Schütz, T. Luckmann, The Structures of the Life-World, I-II, Northwestern University Press, Evanston 1973-1989. 426 Cfr. P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 257. 427 Come anticipato, al di qua del concetto genetico di cui si è discusso fin qui, vi sono – come ora si vedrà – pseudo-mondi-della-vita «substorici» che corrispondono ad altrettanti tentativi di ricostruire sfere di familiarità e ovvietà. 428 P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 257. 429 E in tal senso i mondi-della-vita possono essere intesi effettivamente – in accordo con Husserl, ma insistendo sulla molteplicità, nonché su una loro compromissione con la dimensione tecnica e culturale dell’esistenza umana – come «le realtà in cui viviamo». Cfr. Ibidem.
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Lebenswelt originaria, comunque intesa, doveva essere abbandonata già con l’incarnazione della struttura dell’esserci umano nell’«antagonismo del ‘preominide’ tra vita e mondo».430 Ce la siamo dunque lasciata per sempre alle spalle? Non è così: da quel momento l’intenzionalità doveva divenire il «germe del mondo della vita»431 e della sua «strada lungo la storia»,432 poiché «la genesi [dei] mondi della vita culturali sostituisce la perdita della (mai ‘avuta’ [secondo Stoellger]) origine»,433 a partire dalla situazione di carenza immediatamente successiva. Il mondo della vita originario si situa al di qua della dinamica antagonistica dell’intenzionalità che dà vita alle Lebenswelten «quotidiane-substoriche» di tipo «secondario»434 e che, a loro volta, testimoniano di quella «tendenza verso un mondo con la qualità definitiva di mondo della vita»435 (Tendenz auf finale Lebensweltlichkeit) che è il «movente genetico»436 stesso della cultura. Anche il «realismo» sorge come effetto della «lesione» e della distruzione del mondo della vita,437 dalla sua precipitazione nel «substorico» (e dalla sua persistenza «spettrale» nel desiderio incessante di restaurarlo),438 in seguito alla quale il mondo assume quella specie di «senso proprio» e si impone come «realtà effettiva» priva di «riguardo» per le aspettative del soggetto.439 E tuttavia, proprio per l’insostenibilità di un realismo senza sconti, la storia che comincia con l’abbandono della Lebenswelt non è una storia di emancipazione compiuta e definitiva. Essa si dipana anzi come vicenda incessante di «distruzione» e «ristruzione» del mondo della vita, laddove le «costanze substoriche», questi «mondi parziali» che ‘somigliano’ a un mondo della vita («mondi del lavoro e della festa, della domesticazione e dell’urbanità»),440 svolgono esattamente la funzione di rimediare alla «nostra solitudine nell’intervallo tra i mondi della vita», quello ipotetico degli inizi e quello utopico della fine, tra la distruzione mai completamente com-
430 431 432 433 434 435 436 437
Ivi, p. 258. M. Sommer, Lebenswelt und Zeitbewusstsein, cit., p. 64. P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 258. Ivi, p. 259. Ivi, p. 260. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 81. P. Stoellger, Metapher und Lebenswelt, cit., p. 261. Per un approfondimento di questo passaggio si veda B. Merker, Bedürfnis nach Bedeutsamkeit, cit., pp. 81-82, nota 24. 438 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 83. 439 Ivi, p. 84. 440 Ivi, p. 80.
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piuta e la ristruzione sempre in corso. La «quotidianità» non è che «una specie di prosecuzione del mondo della vita».441 Ricapitolando, e tornando a Beschreibung des Menschen e alle sue nuances antropologiche: In un senso più che storico-economico, l’uomo è un essere nomade, le cui origini risalgono alla scomparsa delle foreste pluviali del terziario e le cui peregrinazioni in tutto il mondo stavano sotto la pressione selettiva delle ere glaciali. Nessun mondo-della-vita emergente si può conservare, e ciò rende necessari mezzi più astratti per affrontare l’esperienza. Ma ciascuno di questi mezzi mira all’elusione del tipo di imbarazzo dalla cui evasione esso proviene. Aumentando la tolleranza di ciò che è sopportabile, esso conserva la tipica di ciò che è ammesso. Al posto delle familiarità costanti sorgono orizzonti di attendibilità, all’interno dei quali anche il cambiamento è avvertito come ovvio. La scienza è perciò in gran parte volta a ristabilire mondi-della-vita, poiché conferisce alla realtà lo status dell’attendibile. Ci si può immaginare uno stadio limite dell’applicazione della scienza, nel quale l’uso della negazione e della modalità diverrebbe nuovamente superfluo: il definitivo ritorno al mondo-della-vita e dunque anche all’impossibilità definitiva del fenomenologo. Questa riflessione rende chiaro come egli non possa affidare la scienza positiva al suo compimento immanente, ma naturalmente solo all’approssimazione a esso, addirittura solo a quella pensata.442
Il primo mondo della vita culturale ‘postlapsario’443 è la caverna. 3. Discesa nelle caverne (Homo symbolicus) Strappato alla foresta pluviale del terziario, raggiunte le steppe in espansione, appreso il vantaggio ‘obbligato’ dell’andatura eretta, per innescare il «progresso nell’aperto delle savane», l’uomo aveva altresì bisogno di un «ritiro»; per tener fede al «precetto dell’autoconservazione», doveva porsi in un «duplice atteggiamento nei confronti della realtà»444 e garantire al suo «essere esposto» un riparo. Fu così che, in cerca di nuovi rifugi per il riposo e per la prole che sostituissero il guscio protettivo della foresta, l’uomo 441 Ivi, p. 81. 442 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 84. 443 Blumenberg dedica pagine bellissime di Lebenszeit und Weltzeit al mito della cacciata dal Paradiso terrestre, come rappresentazione dell’uscita dal mondo della vita e della divaricazione tra tempo della vita e tempo del mondo: cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., pp. 91-95. 444 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 615.
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incontrò la caverna, divenne cavernicolo. «Nella formula “cacciatori e madri” è compreso il superamento della perdita della vecchia sicurezza nel segreto della foresta primordiale».445 Perciò, immaginare una «preistoria “senza caverne”» sarebbe illogico e inaudito: mai una creatura nuda e indifesa come l’uomo avrebbe potuto sopravvivere dormendo liberamente ai piedi degli alberi.446 E in effetti, in un certo senso, è andata così: nel Vecchio Continente, scosso dalle glaciazioni, Homo neanderthalensis – apparso 300-250.000 anni orsono – allestiva notoriamente i propri accampamenti all’ingresso delle grotte, abitudine che gli valse il titolo di ‘uomo delle caverne’ per antonomasia. Ma anche l’uomo anatomicamente e intellettualmente moderno – meglio noto come Cro-Magnon –, giunto in Europa circa 40.000 anni fa, viveva spesso presso l’entrata di caverne, le cui profondità utilizzava – come si vedrà – per altri scopi.447 Come si può ben notare, Blumenberg comprime nella narrazione momenti straordinariamente distanti della «storia profonda» dell’antropogenesi. In ogni caso, anche all’epoca delle caverne (se di una tal cosa si vuol parlare, includendo un arco temporale di centinaia di migliaia di anni), queste ultime non furono mai dimore stabili, bensì rifugi abitati in modo sporadico e fugace da popoli di cacciatori e raccoglitori448 ‘in transito’ non solo in senso letterale-spaziale, ma evolutivo: creature ancora in cammino verso una forma di vita più sedentaria, in cui le sistemazioni non sarebbero state più cercate nell’‘offerta abitativa’ della natura, ma costruite secondo le proprie necessità. ‘Cavernicolo’, dunque, è un «costrutto», la figura estremamente semplificata di una storia cominciata ben prima e proseguita, anche ai tempi delle caverne, nella forma della «transumanza».449 Rispetto al celebre mito platonico e alla credenza – riportata sempre da Platone nel Protagora450 – in un’origine ctonia del genere umano, forgiato dagli dèi nel grembo sotterraneo e tratto alla luce dalle viscere della terra, le caverne si pongono semmai come una tappa intermedia preceduta da una 445 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 25-26. 446 Cfr. Uscite dalla caverna, cit., pp. 399-400. Il riferimento è, rispettivamente, a H.S. Reimarus, Die vornehmsten Wahrheiten der natürlichen Religion, VII, par. 3, in H.S. Reimarus, Gesammelte Schriften, II, Vanderhoeck & Ruprecht, Göttingen 1985, p. 566; e naturalmente J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, Editori riuniti, Roma 2002 e Id., Il contratto sociale, Einaudi, Torino 2005. 447 Cfr. I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp. 11-30. 448 Cfr. B. Accarino, La caverna di Blumenberg. Il lungo apprendistato alla modernità, in «Il Manifesto», 2.7.2009, p. 11. 449 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 608. 450 Cfr. Platone, Prot. 320d.
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«profondità temporale antropologica».451 Con la rivoluzione posturale, la discendenza di quel «subominide che [aveva] perduto il suo spazio vitale»452 non era in condizione di tollerare – direbbe Kafka – l’«eccessivo soggiorno nell’assurda libertà»,453 e dovette compiere la propria discesa nelle «caverne culturali», per assicurarsi l’«esonero dal “realismo” del campo aperto».454 La caverna soddisfa il desiderio di invisibilità radicato nella condizione umana, nella sovraesposizione alla luce cui l’uomo è destinato.455 L’uomo ‘preistorico’ non sarebbe sopravvissuto senza l’espediente della discesa nelle caverne, eppure allo stesso tempo egli non poteva rimanervi. Indugiare nella caverna rappresentava un pericolo per la specie, ciò perché la caverna – ma si potrebbe dire «la cultura» – ha bisogno di instaurare un rapporto «parassitario» nei confronti della natura per innescare una dinamica virtuosa.456 Deve intrattenere una relazione con l’esterno in cui i due domini possano comunicare, contaminarsi, eventualmente confliggere, ma di fatto garantire l’uno la sussistenza dell’altro. L’uomo di Cro-Magnon seppe sfruttare la caverna nei termini di un’«intermittenza dell’estrema tensione di tutti i sensi nello spazio vitale dei cacciatori», da un lato, e, dall’altro, del «sonno profondo libero da preoccupazioni, la conquista simmetricamente corrispondente di una specie che si dirigeva verso una sedentarietà circondata da quattro mura».457 Ossia fu in grado di instaurare quell’equilibrio tra «estasi» e produzione di indoors,458 che riproporrà da lì in avanti nelle forme più disparate. La logica dell’alternanza di «avanzata e ritirata, lotta per la vita e sogno»459 rispecchia un duplice atteggiamento verso la realtà che traccia ‘la via peculiare dell’uomo all’autoconservazione’. Nella caverna si può vivere, ma non trovare in loco il sostentamento per la vita: occorre lasciare la caverna ed esporsi al rischio della caccia, al fine di consentire la prosecuzione della vita nella caverna. Ed è così che per l’animale uomo il tempo si scinde in Mußzeit e Kannzeit: tempo dedicato a soddisfare le esigenze di autoconservazione e «libero margine di compi451 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18. 452 Ibidem. 453 F. Kafka, La tana, in Racconti, Mondadori, Milano 1970, p. 522. 454 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 18. 455 Cfr. ivi, p. 40. 456 Cfr. ibidem. 457 Ivi, p. 615. 458 Cfr. B. Accarino, Peter Sloterdijk filosofo dell’estasi, in P. Sloterdijk, Sfere, I. Bolle, Meltemi, Roma 2009, p. 48. 459 Ibidem.
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menti indeterminati»,460 laddove il primo – il tempo speso per permettere la vita – garantisce l’aprirsi dello spazio per il secondo, per la produzione di quell’eccedenza che, a sua volta, farà sì che gli sforzi umani per sopravvivere non si rivelino vani. Nella dialettica tra la veglia e l’attenzione diffusa del cacciatore e il sonno di chi resta al sicuro, scaturigine dell’immaginazione, sorge per la prima volta quella tensione, tipica dell’umano, tra la tentazione all’autosufficienza degli spazi protetti ove prolifera il ‘virtuale’, il regno dei desideri e delle rappresentazioni, e la spinta alla soddisfazione dei bisogni primari e della curiosità che trascina fuori, lasciando maturare nell’uomo «di necessità» una «specie di “realismo” subìto» sotto forma di «disintossicazione dallo spazio chiuso degli appagamenti immaginari».461 Eppure, se un eccessivo ritiro può diventare tossico, il realismo passivo divenuto attiva brama, che trova la propria «“figura” assoluta» nella «cannibalesca fame di realtà», nell’incorporazione della realtà come metabolismo, deve essere bilanciato dalla «controtendenza verso la simbolizzazione», come risposta culturale fondata sull’emergere della coscienza, «cardine della conservabilità della civiltà nel senso più crudo».462 Gli avversari della realtà reale rifugiati nella caverne sono da sempre in contrasto coi fuggitivi che alla realtà reale tentano di resistere;463 ma da sempre devono convivere e cooperare con loro. Nei primordi cavernicoli si radica la congiunzione – fondamentale per la sopravvivenza umana – tra il guadagnare e il dissipare il tempo e, nel processo chimico e alchemico di trasformazione di porzioni sempre maggiori di Mußzeit in Kannzeit, consiste – dovrebbe consistere – ciò che chiamiamo «il progresso dell’umanità».464 È qui, all’interno della caverna, che l’uomo «definisce il proprio orizzonte del mondo, prima di entrarvi», che trova le condizioni per trasformare l’orizzonte in spazio della progettualità.465 La caverna, che «invita a restare e fornisce i mezzi per andarsene», non poteva essere che un «episodio».466 Nella storia umana, nella dialettica della Menschenwerdung, non esiste Heimkehr, «ritorno a casa», e giunge il momento di approntare un guscio nuovo con ciò che si è raccolto e messo a punto nel precedente, o – detto altrimenti – di «farsi una nave con i resti del naufragio».467 460 461 462 463 464 465 466 467
H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 323. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 615. Corsivo mio. H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 35. Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 612. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 324. Ibidem. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 612. Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, cit., pp. 105-111.
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Nel rapporto ambivalente con la caverna si delinea per l’uomo, spiega bene Accarino, l’alternativa vitale e filosofica fra «nomadismo» e «stanzialità».468 Sostiene Blumenberg sulla scia di Ferenczi: è il «fatto fondamentale della vita», in ognuna delle sue forme, che essa non possa «rimanere dove e come è»469 ed è questo fatto, in ultimo, a risuonare nelle profondità più abissali del mito della caverna. Per mutuare categorie deleuziane, «deterritorializzazione» e «riterritorializzazione» sono i due movimenti che scandiscono le vicende del vivente.470 La vita consuma le sue condizioni di possibilità, dà fondo al suo substrato, esaurisce i fondi e riempie gli spazi che la ospitano con i rifiuti e le macerie del suo esito, con gli escrementi del suo metabolismo. Lo sviluppo non è misteriosa nostalgia per mete sempre più alte; è il superamento di difficoltà che il livello inferiore si pone da sé e che non può risolvere con i propri soli mezzi. Il dinamismo nasce dall’esautorazione: su questo paradosso si fonda la fiducia della vita in se stessa, in prossimità della sua apocalisse.471
E, tra gli altri, un aspetto in particolare rende questi riferimenti psicoanalitici di Blumenberg estremamente rilevanti: la «metafora speculativa» di ispirazione freudiana dei «traumi da separazione», come cesure che scandiscono la vita e ne spiegano la persistenza attraverso innumerevoli trasformazioni filogenetiche, rappresenta anche la cifra della maniera blumenberghiana di intendere i processi storici. Il concetto di «soglia» va inteso pertanto come categoria di una «teoria generale della storia» e anche la nozione di «rioccupazione» si radica nel tempo arcaico della filogenesi.472 Le «transizioni» (Übergänge), le Höhlenausgänge, sono il Leitmotiv che attraversa la narrazione blumenberghiana dai ‘traslochi’ filogenetici, all’abbandono della ‘caverna-madre’ fino a ciò che chiamiamo, con una metafora, «svolte epocali».473
468 Cfr. B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 329. 469 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 47. 470 Si veda per esempio G. Deleuze, lettera «A» di «Animal», in Abecedario, videointervista a cura di Claire Parnet, regia di Pierre-André Boutang, DeriveApprodi, Roma 2005. 471 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 47. 472 Cfr. A. Fragio, «Das Überleben der Übergänge», cit., pp. 63-66. 473 Cfr. B. Merker, Was ist der Mensch? Zum Verhältnis von (historischer) Anthropologie, Phänomenologie, Metaphorologie und Epistemologie, in M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane, cit., p. 3.
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Blumenberg è interessato al «parassitismo umano-culturale».474 Per questo rifiuta di applicare all’uomo i meccanismi della selezione naturale, poiché ritiene che l’organismo umano si conservi, a differenza di quanto accade per le altre specie, non attraverso un incremento del proprio «adattamento» (Anpassung) organico all’ambiente, bensì – come già spiegato – proprio grazie alla sua capacità di prendere «distanza» dall’ambiente, trascendendo le proprie funzioni corporee, che da sole lo condannerebbero all’insuccesso.475 Se la vita intrauterina è per i mammiferi riproduzione ‘incarnata’ dell’esistenza nell’originario elemento acquatico e dunque forma biologica di «regressione talassale», la caverna di Blumenberg e le sue rivisitazioni sono una forma tutta umana di regressione talassale culturale, o – ancor meglio – la cultura, come dimensione propria dell’umano, altro non è se non regressione talassale. Tornare a una caverna che non sia un surrogato e inabissarsi per sempre in essa è, per la vita, un desiderio impossibile a realizzarsi; perciò intrattiene un legame sinistro con la pulsione di morte. O con la follia di una «fantasia che non escludeva nulla»,476 quella dell’Hitler inabissato nel suo bunker, dove realizzò la propria «Untergang» come abbandono della «superficie della visibilità, del vedere e del visionare».477 O con gli scenari post-atomici evocati da Chernobyl,478 in cui il mondo come superficie e orizzonte cesserebbe di fatto di esistere. O col raggiungimento futuribile di tecniche di simulazione tanto avanzate da far letteralmente «“sparire” il mondo» al di sotto di una dimensione a esso sovrapposta di pura illusione.479 Insomma, «il ritorno nella caverna – della foresta, della terra, del corpo – è la nostalgia recondita (heimlich) della quale tutti sanno che nessuno se la può permettere».480 3.1. Distanza, simbolo e immagine Descrivendo la sua visita alle grotte affrescate di Les Combarelles I, nella Francia sudoccidentale, Ian Tattersall racconta di un percorso impervio, attraverso cunicoli bui e stretti, lungo i quali ci si addentra nella roccia per circa centocinquanta metri prima di giungere dinnanzi a una parete che, illuminata alla luce della torcia, mostra all’improvviso uno spettacolo im474 475 476 477 478 479 480
H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 48. Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 166. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 613. Ibidem. Cfr. ivi, p. 570. Cfr. ivi, p. 615. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 567-568.
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pressionante: centinaia di incisioni raffiguranti animali (cavalli, mammut, bisonti, leoni), eseguite con estrema grazia e scaturite certamente da un’osservazione attenta di ciascuna specie, probabilmente risalenti a 13.000 anni fa, opera di popolazioni vissute durante l’Era glaciale. Ma, ciò che ancor più sorprende, gli artisti cui si deve questo autentico tesoro poterono raggiungere il punto prescelto solo strisciando sdraiati sul ventre, poiché all’epoca il pavimento era più alto, a circa sessanta centimetri dal suolo.481 Gli spettatori contemporanei di tale meraviglia, prosegue Tattersall, una volta usciti dalla grotta vengono immancabilmente «divorati dai “perché”»: Perché infilarsi in un cunicolo stretto, senz’aria, buio, scomodo e potenzialmente pericoloso, che si addentra nella roccia terminando in un antro cieco dove c’è a malapena lo spazio per rigirarsi? Perché creare un’arte che può essere vista solo affrontando grandi difficoltà? Perché ignorare la parte più esterna della grotta, per eseguire le incisioni solo nei suoi recessi più profondi? Perché sovrapporle e perché disseminare immagini così vive di disegni geometrici e di una profusione di segni dall’oscuro significato e apparentemente superflui?482
Non solo noi esseri umani siamo gli unici ad avere creato arte, ma «siamo anche le uniche creature capaci di comportamenti misteriosi e imperscrutabili come questo».483 Nelle pitture di Les Combarelles nasce probabilmente l’enigma, il mistero, l’immaginazione artistica, la proiezione simbolica, la capacità di astrazione, la sacra mistura di sapienza e demenza, di logica e imperscrutabile irrazionalità che Homo sapiens porta con sé.484
Anche Blumenberg menziona Altamira e Lascaux e riporta alcuni dati tratti dall’inventario di Herbert Kühn, relativi al numero delle caverne dipinte risalenti all’Era glaciale, alla quantità di immagini riprodotte, alle ipotesi sulla loro antichità.485 Salvo affermare, appena una riga sotto, che «la correlazione di spazio interno e immaginazione non ha bisogno di inventari».486 Ed è tale correlazione, la «nascita della fantasia nelle caver481 482 483 484 485
Cfr. I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp. 7-8. Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., p. 248. Il riferimento dovrebbe essere a H. Kühn, Die Felsbilder Europas, Kohlhammer, Stuttgart 1971. 486 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22.
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ne» (come recita il titolo del III capitolo di Höhlenausgänge) l’evento fondamentale inscritto nel cammino della Menschenwerdung cui ora Blumenberg presta attenzione. Facendo riferimento agli studi statistici di André Leroi-Gourhan sulla presenza di «schemi omogenei» nelle pitture rupestri,487 riscontrabili ad esempio nella diversa distribuzione delle varie specie animali in zone determinate della grotta, Blumenberg ipotizza la presenza di «programmi» disposti da «quelli che sapevano come fare e come ordinare, e sui quali tutti gli altri facevano affidamento seguendo la loro opera», e costoro, suppone, «dovevano essere comparsi abbastanza presto nella preistoria».488 Il primo fenomeno legato all’‘ecosistema parassitario caverna-steppa’ è di natura sociale e coincide con una distinzione di ruoli. Il «gioco» di interdipendenza tra lo spazio protetto e tuttavia non autosufficiente della caverna e le distese aperte in cui i cacciatori si avventurano ha un’immediata ricaduta sul piano dell’organizzazione della collettività. Se «destrezza e prontezza» sono i requisiti fondamentali di coloro che cacciano nella savana e misura del loro «diritto all’esistenza», le immagini lasciate sulle pareti delle caverne provano che almeno lì, nello spazio chiuso, «deve essere stata infranta, o per lo meno limitata, la legge del più forte».489 Protetti dalle madri, che avevano dalla loro la riconoscenza dei forti ai quali offrivano nutrimento, ossia dei loro stessi figli, i deboli e i cagionevoli si candidavano a trasformarsi in «antieroi del superfluo»490 o, per usare una categoria moderna, in «intellettuali».491 I figli della caverna […] inventarono il meccanismo della compensazione. Non contribuivano ad assicurare la vita, ma imparavano a darle tutto ciò che l’avrebbe resa degna di essere vissuta. […] Sotto la protezione delle caverne, e della legge delle madri, quelli che restavano dentro fecero sorgere la loro risposta al libero vagare all’aria aperta: nasceva la fantasia.492
Non solo, dacché la caverna aveva fatto dono all’uomo del privilegio di un’«attenzione circoscritta» e di un «sonno profondo», esso divenne «l’ani-
487 488 489 490 491 492
Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I-II, Eianudi, Torino 1977. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 22. Ivi, p. 20. B. Accarino, La caverna di Blumenberg, cit. Ibidem. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 20. Corsivo mio.
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male sognante»,493 ma soprattutto, dalla discendenza degli inetti all’azione giunsero coloro che per primi seppero andare ben oltre le storie «terribilmente noiose»494 narrate dai cacciatori di ritorno dalle loro spedizioni, raggiungendo il livello della vera immaginazione, dell’invenzione, del mito. Costoro impararono a rappresentare il non visto e narrare il non vissuto e fondarono così sul «raccontare storie» un inedito privilegio. Grazie a esso, dapprincipio si limitavano a compensare la propria minorità fisica, ma gradualmente si resero conto che quell’arte era apprezzata dai garanti del loro sostentamento, e da qui al rovesciamento dei ruoli il passo fu breve: Il superfluo giunse come il prodotto più strano del mondo e seppe farsi necessità. L’alleanza tra fantasia e magia non si sarebbe fatta attendere; chi riusciva ad ammaliare con l’immaginazione ebbe ben presto dalla sua parte gli spiriti e gli dèi. Dove nascevano le immagini, potevano nascere i culti. Perfino i più forti alla fine sarebbero usciti dalla caverna grazie al potere del rituale compiuto alle loro spalle. I deboli sarebbero diventati i custodi del tempio.495
In effetti, anche tra gli specialisti, vi è chi sostiene non solo la natura sciamanica e magica dell’arte paleolitica,496 ma anche che essa fosse prerogativa di una «classe elitaria di “stregoni” che detenevano le chiavi del successo economico del gruppo e godevano di uno status separato da quello di coloro che li mantenevano», sicché «il successo nella caccia, basato […] sulle capacità e sull’impegno dei cacciatori, visto in retrospettiva doveva apparire come la prova dell’efficacia [dei] riti».497 Si tratta – a leggere il testo blumenberghiano – di una forma di divisione del lavoro e sovvertimento delle gerarchie che ha qualcosa dell’astuzia della nietzscheana «morale degli schiavi», benché in Blumenberg la rivalsa dei deboli sui forti, degli «impotenti» sui «sovraccarichi di forza»,498 in tutta evidenza non coincida con un fenomeno relativamente recente di matrice ebraico-cristiana, bensì con l’origine stessa della cultura in quanto 493 Ivi, p. 20. Sull’«implicazione antropologica» del sogno si veda anche H. Blumenberg, Ausgeträumte Träume. Über den ursprünglichen Realismus des Erwachens, in «Neue Zürcher Zeitung», 22/23.12.1990, p. 54. 494 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21. 495 Ibidem. Corsivo mio. 496 A tal proposito Pievani menziona gli studi di David Lewis-Williams e Thomas Dowson. Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., p. 251. 497 I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 27. 498 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, uno scritto polemico. Prima dissertazione. «Buono e malvagio», «buono e cattivo», in Opere di Friedrich Nietzsche, VI/II, Adelphi, Milano 1968, pp. 223-254.
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tale, che affonda le proprie radici nel tempo arcaico dell’umanità e che dunque deve il suo carattere di mascheramento e congettura non a un’Umwertung tardiva e falsificatrice, ma semmai – se così si può dire – all’‘Umwertung strutturale’ della condizione umana, radicata nel complesso rapporto dell’uomo con la realtà. I «deboli» delle Höhlenausgänge somigliano di più a coloro che in Benjamin oppongono da sempre la «favola» al «mito», ossia si schierano dalla parte della narrazione come contestazione umana nei confronti dell’elemento spaventoso e ostile, per depotenziarlo e minimizzarlo.499 Comunque sia, è in questo punto del tempo profondo che i deboli apprendono una forma di actio in absentia et per distans ben più raffinata dell’ancestrale e fortuita pietra scagliata contro l’aggressore. Se, come sostiene Jonas, Homo è per sua essenza pictor, in quanto essere «simbolico», dedito a rappresentazioni e immagini la cui ricaduta biologica immediata è nulla, e dunque sembra di fatto indulgere «alla produzione di cose inutili»,500 tuttavia la «finzione» – scrive Blumenberg – proviene dalla stessa sorgente della «compensazione».501 Qui il riferimento a Nietzsche pare particolarmente opportuno e, più della Genealogie, il breve saggio Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873) sembra aver decisamente influenzato Blumenberg, laddove Nietzsche afferma che «l’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione»502 e la finzione, a sua volta, altro non è se non il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci.503
L’uomo vive e si forma immergendosi nell’illusione e nelle immagini oniriche, è per genesi e condizione «soggetto artisticamente creativo»504 che tratteggia attorno a sé un mondo compiutamente antropomorfico, piuttosto che creatura in contatto con la verità pura delle cose. Il linguaggio 499 Cfr. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus R. Solmi (a cura di), Einaudi, Torino 1995, pp. 247-274. 500 H. Jonas, Homo pictor: della libertà del raffigurare, in Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, p. 206. 501 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 23. 502 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873. Opere di Friedrich Nietzsche, III/ II, Adelphi, Milano 1973, p. 356. 503 Ibidem. 504 Ibidem.
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stesso, che «ricorre all’aiuto delle più ardite metafore»,505 è figlio della «menzogna» più che della «verità». Solo gli uomini, i più deboli fra gli animali e, fra di loro, i più deboli fra gli uomini, sono «maestri di finzione» e, viceversa, dotati di «un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare».506 Blumenberg va oltre, definendo la «cultura» stessa una «“congiura” contro la standardizzazione esclusiva dell’umano in virtù dei più dotati».507 Chi resta indietro, sono loro i custodi della compensazione, «figura collaterale dell’autoaffermazione». In tal modo i deboli (e tramite loro l’uomo in senso specifico) si fanno strada «passando attraverso le smagliature della selezione naturale», finché ciò che inizialmente si presentava come un’«infiltrazione» non diverrà «istituzionalizzazione della debolezza».508 Chiamiamo “cultura” quell’esercizio, l’opporre alla pressione della violenta legge evolutiva, il “corpo fantasma”, il “Phantomleib” delle istituzioni (miti, riti, idee, teorie, ed altri ‘trasportatori’ e ‘reggitori’ di senso). Ivi la pressione, l’immediatezza, la coazione ad agire, vengono dilazionate, differite, attraverso procedure simboliche, che ne attutiscono l’urgenza, ne dilatano spazi e tempi; il tumulto si rende eco, la presenza viene scorporata, l’assedio del reale passa nei riflessi della rappresentazione. Il mito della caverna, oltre la ricezione platonica, è indizio di una situazione originaria: la necessità del distacco, di una sospensione del puro scaturire.509
Sarà già balzato agli occhi il grande debito di Blumenberg, sottolineato in numerosi studi, nei confronti dell’antropologia filosofica cassireriana e della descrizione dell’uomo come «animal symbolicum».510 È indubbio che, come Cassirer, egli ritenga le forme simboliche parte essenziale della vita culturale dell’uomo. E con ciò intende riferirsi, prima ancora che all’universo variegato del linguaggio, del mito, dell’arte e della religione, all’elemento che accomuna ciascuna di queste modalità di espressione umana, 505 506 507 508 509 510
Ivi, p. 359. Ivi, p. 370. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 23. Ivi, p. 23. M. Russo, Il gioco delle distanze, cit., p. 267. Cfr. E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Armando, Roma 1972. Per un confronto tra Cassirer e Blumenberg si vedano in particolare: B. Recki, Der praktische Sinn der Metapher. Eine systematische Überlegung mit Blick auf Ernst Cassirer, in F.J. Wetz, H. Timm, H. (a cura di), Die Kunst des Überlebens, cit., pp. 142-163; C. Polke, Symbol, Metapher, Kultur. Beschreibungen des Menschen bei Ernst Cassirer und Hans Blumenberg, in R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., pp. 42-57; B. Recki, Auch eine Rehabilitierung der instrumentellen Vernunft, cit., pp. 39-61.
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ossia il fatto che «l’uomo non si trova più direttamente di fronte alla realtà», che «egli non può più vederla faccia a faccia».511 In altre parole, l’attitudine umana alla distanza, all’Entlastung, alla mediazione. Per usare le parole di Jonas, all’origine del processo che ha portato la «funzione rappresentativa» molto lontano dalla somiglianza figurale con l’oggetto, verso una sempre maggiore «emancipazione dalla “letteralità” della riproduzione», un graduale avvicendamento della «rappresentazione riproduttiva» con quella «sostitutiva», vi è la medesima facoltà raffigurativa che guidava i ritratti animali di Altamira e che era già dotata di un buon grado di «astrazione» e «stilizzazione».512 E, nel suo essere «inattiva e ferma», l’immagine depotenzia e neutralizza la realtà poiché, rappresentando movimento e azione, li relega «in una presenza statica», taglia il rappresentato fuori dal nesso causale delle cose, e in tal modo «può rappresentare il pericolo senza mettere in pericolo, il dannoso senza danneggiare, il desiderato senza appagare».513 Il dato «specificamente umano» che entra in gioco nella produzione di immagini è la facoltà del soggetto di separare intenzionalmente materia e forma, eidos ed esistenza, consentendo «la presenza figurativa del fisicamente assente insieme all’autonegazione del fisicamente presente»,514 il che coincide in ultima istanza con un’acquisizione di libertà come «libertà della distanza e del dominio».515 Non solo: tornando al Blumenberg di Beschreibung des Menschen, a riprova dell’assoluta unicità della dimensione simbolica come sfera precipua dell’umano, vi è il nesso strettissimo che essa intrattiene col principio della «messa fra parentesi del corpo» rilevato da Alsberg: decostruendo ancora una volta un assunto darwiniano, ossia la teoria biologica ed evolutiva dei moti espressivi come obsolescenza e residuo di precedenti azioni istintive orientate a uno scopo, Blumenberg avanza l’ipotesi che espressioni, segni e simboli siano al contrario più frequentemente forme di revoca e negazione della pratica corporea originaria da cui tuttavia discendono, come l’abbraccio lo è dello strangolamento.516 «Quanto meno il corpo è esso stesso strumento, organo esecutivo di azioni, tanto più può diventare puro veicolo espressivo (Ausdrucksträger), in grado di sostituire, evitare, rifiutare o suscitare azioni tramite il repertorio delle sue informazioni mimiche 511 512 513 514 515 516
E. Cassirer, Saggio sull’uomo, cit., p. 80. H. Jonas, Homo pictor, cit., p. 209. Ivi, p. 210. Ivi, p. 214. Ivi, p. 219. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 595.
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e gestuali».517 Da questo punto di vista la sfera delle «esternazioni estetiche e razionali dell’uomo» si configura come culmine del processo della Körperausschaltung, ove si compie quella «libertà dallo scopo» in cui «si manifesta in maniera unica il ‘successo’ dell’antropogenesi».518 La facoltà di raffigurazione riproduttiva o anche di rappresentazione simbolica è parte della capacità di evitare di venire alle mani con la realtà, malgrado una perdita minima della sua presentificazione (Vergegenwärtigung).519
Già il gesto dell’indicare, prima ricusazione dell’assolutezza del possesso corporeo, si configura come precursore elementare dell’actio per distans, «gradino intermedio capitale tra la presa (Ergriff) e il concetto (Begriff)», che ha fatto dell’uomo «un essere indicante» e ha reso possibile denominazione e delega.520 Analogamente il simbolo consente di «provocare effetti senza compiere azioni reali in senso fisico».521 «L’uomo, come animal symbolicum, è un essere che mira al risparmio di confronti con la realtà» e solo in quanto tale è divenuto capace di un incredibile spreco di energia, allorché l’ha riversata sull’apparentemente superfluo, sul lusso delle sue sublimazioni, sulla ridondanza della sua cultura.522
Il lato «creativo» dell’uomo non è in effetti, più prosaicamente, altro che «potenza liberata nel suo bilancio energetico».523 L’«esplosione creativa»524 verificatasi alla fine dell’Era Glaciale, circa 40.000 anni fa, il «grande balzo in avanti» del Paleolitico superiore,525 a partire dal quale l’uomo anato517 518 519 520 521 522 523 524
Ivi, p. 596. Ivi, p. 597. Ibidem. Ivi, p. 598. Ivi, p. 614. Ibidem. Ivi, p. 615. Cfr. J.E. Pfeiffer, The Creative Explosion: An Inquiry Into the Origins of Art and Religion, Harper & Row, New York 1982; I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., pp. 11-30. 525 Cfr. ad esempio J. Diamond, Il terzo scimpanzé: ascesa e caduta del primate Homo sapiens, Bollati Boringhieri, 2006; Id., Armi, acciaio e malattie, cit., pp. 24-25; M. Barenghi, Homo sapiens. Intervista a Telmo Pievani, in «Doppiozero», 25.1.2012: http://www.doppiozero.com/materiali/interviste/homo-sapiens-intervista-telmopievani.
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micamente moderno ha cominciato a manifestare la propria intelligenza simbolica e artistica, dovrebbe dunque la sua origine – stando a Blumenberg – innanzitutto a uno scatenamento della crescita del superfluo come eccedenza di «una natura che si ritira e si tiene lontana dal contatto con la realtà, nel suo parassitismo culturale».526 3.2. Inconcettualità e concettualità: mito, metafora, retorica, concetto 3.2.1 Mito Attorno ai fuochi accesi nelle caverne si cominciano a raccontare storie, ha inizio la mitopoiesi. Ai frutti della vera e propria invenzione si accompagna, nel corso del tempo, una sorta di «memoria professionale»527 che coltiva, assieme alle storie, il ricordo di famiglie, orde, insediamenti le cui gesta si siano mostrate altrettanto degne di trasmissione quanto i racconti fantastici. Ma, al di là delle congetture, quel che più conta è comprendere in che cosa consista la «prima perfezione»,528 ancora ineguagliata, di ciò che ci è pervenuto attraverso miti, culti, religioni e pratiche magiche; e dove si celi, tutt’ora, l’efficacia inesauribile del mito per la specie umana. In sostanza, occorre porsi la questione del terminus a quo del mito, ossia del problema che esso tenta di risolvere,529 il che costituisce anche il primo passo per superare la tendenza – ancora presente ad esempio in Cassirer – a considerare il mito come una forma simbolica resa obsolescente nel momento in cui sorge la scienza moderna,530 ad associarlo a una qualche sorta 526 527 528 529
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 615. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 24. Ibidem. Cfr. R.M. Wallace, Translator’s Introduction, in H. Blumenberg, Work on Myth, MIT Press, Cambridge-London 1985, p. IX. 530 Secondo Cassirer, che sviluppa questi temi nella Philosophie der symbolischen Formen, la spiritualità mitica è, insieme al linguaggio e all’arte, una delle forme trascendentali attraverso cui il soggetto ordina e filtra il caos delle impressioni. Si tratta perciò di uno stadio necessario allo sviluppo della conoscenza, in cui viene già avviato il processo di elaborazione del materiale sensibile. Cassirer invita dunque a non sottovalutarne la funzione, ma ritiene altresì – e questo è l’aspetto della sua teoria che Blumenberg non può condividere – che il mito costituisca uno stadio in cui non si è ancora raggiunta la piena oggettività, accessibile invece al sapere teoretico logico-matematico. Il mito è ancora troppo prossimo all’individualità del dato sensibile, che soltanto il logos potrà spiritualizzare compiutamente. «Invece del movimento dialettico del pensiero, per cui ogni dato particolare di-
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di «mentalità primitiva».531 Tale sorgente problematica, la fonte della reale e persistente importanza del mito «indifferentemente da ciò (se c’è qualcosa) che viene ‘dopo’ di lui»,532 altro non è che il fenomeno, già precedentemente introdotto e inserito nel contesto antropogenetico, che Blumenberg chiama «assolutismo della realtà». Pertanto, ancora una volta, egli mostra di andare oltre la mera constatazione delle forme simboliche come espressione spontanea della natura umana, per affrontarle in termini «funzionalistici»,533 quali rimedio alle peripezie biologiche dell’uomo, mostrando così al contempo la ‘legittimità del mito’ e la necessità – anche per i moderni – di prenderlo sul serio. Il mito agisce come dispositivo di razionalizzazione dell’angoscia in paura, indirizzata ora verso specifici agenti nominati, poteri personalizzati e soprattutto plurali. La Furcht, come forma intenzionata dell’Angst, e il suo scongiuro provengono dalla medesima fonte: il timore si fa «figura» in modo tale da convertirsi in qualcosa che possa essere «cacciato, represso, contenuto e sconfitto», reso ripetibile e trasportabile.534 Il mito come «corpo fantasmatico», «istanza immaginaria di interposizione»535 che scongiura la collisione con la realtà, opera innanzitutto assegnando nomi: nominare è l’atto in cui si cristallizza la mediazione del confronto col reale attraverso la costruzione di una «tradizione». Ciò che serve alla continua razionalizzazione dell’angoscia in paura non consiste in primo luogo nell’esperienza o nella conoscenza, ma in espedienti in grado di operare sostituzioni536 tra il familiare e il non familiare, di offrire «spiegazioni per l’inesplicabile» e soprattutto «nomi per il non
531 532 533 534 535 536
venta solo l’occasione per collegare un singolo fatto ad un altro, per riunirlo in serie con altri e inserirlo così finalmente in una legge, vi è [nel mito] il semplice abbandono all’impressione stessa e alla sua particolare e momentanea “presenza”». E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II. Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze 1964, p. 53. Cfr. L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966. R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. IX. Sul «funzionalismo» blumenberghiano si vedano J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., pp. 33; R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. XVII. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29. La «sostituzione» è figura ricorrente nei racconti mitici, tanto che Blumenberg afferma che «il docetismo è l’ontologia adeguata al mito». H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 176.
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nominabile»,537 per la definizione dell’«indefinito numinoso»,538 del caos anonimo.539 In altri termini, occorre che qualcosa come un simulacro sia «messo avanti» in vece di ciò che terrorizza, per operare su di esso e tramite esso e consentire azioni che scongiurino, mitighino, allontanino o depotenzino, insomma realizzino nelle sue varie forme la prestazione della distanza nei confronti dell’assolutismo della realtà. L’interminabile lavoro del mito comincia con un’«invocabilità» (Appellationsfähigkeit)540 che aprirà la strada all’influenza del magico, del culto e del rito, ove si manifesta compiutamente l’efficacia del meccanismo sostitutivo: grazie allo «“scambio” magico e cultuale»541 l’incommensurabile s’informa in grandezze calcolabili con le quali è possibile quantomeno trattare. In primo luogo si tratta dunque, prima ancora del proliferare delle narrazioni, di far proliferare i nomi finché sembri che non siano rimaste lacune alla raggiunta padronanza del mondo. Con la transizione dall’Altro a un altro hanno inizio «il lavoro della comprensione fisiognomica»,542 le varie forme di tipizzazione, dai teriomorfismi al «bell’antropomorfismo delle divinità dell’Olimpo»,543 e il pluralismo che vuole sempre, ovunque si dà un altro, che esso abbia i suoi altri. Così comincia la «fiducia nel mondo»544 e si apre la strada al racconto. «Ogni storia procura alla nuda potenza un tallone d’Achille»,545 umanizza il non umano in senso letterale e figurato, lo sottopone ad antropomorfosi rendendolo fallibile e procede, con ciò, alla «domesticazione del tutto».546 Il mito è anche una parola che riempie gli spazi vuoti, un racconto che si sovrappone all’ineffabile e smentisce così – in un certo senso – l’assunto wittgensteiniano secondo cui si dovrebbe tacere su ciò di cui nulla si può dire. In questo mostra tutta la sua distanza dalla teologie negative che accompagnano i monoteismi (salvo poi dotarsi nel tempo di «elementi della 537 Ivi, pp. 27-28. 538 O. Müller, Von der Theorie zur Praxis der Unbegrifflichkeit: Hans Blumenbergs anthropologische Paraethik, in A. Haverkampf, D. Mende (a cura di), Metaphorologie. Zur Praxis von Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, p. 272; cfr. R. Otto, Il sacro, SE, Milano 2009. 539 L’espressione precisa utilizzata da Blumenberg è appunto «irruzione del nome nel caos del senza nome». H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 59. 540 Ivi, p. 39. 541 Ivi, p. 28. 542 Ivi, pp. 46-47. 543 Ivi, p. 54. 544 Ivi, p. 60. 545 Ivi, p. 39. 546 Ivi, p. 38.
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visibilità e della narrabilità»547 che sopperiscano a un inesausto bisogno di immagini), ove il «nome di Dio» non ha più nulla a che fare con quell’invocazione che prelude alla figurazione e alla personificazione, ma viene attribuito solo e soltanto a quell’entità «che non si lascia abbordare, accostare, designare se non in modo indiretto e negativo».548 L’estinzione dei mostri, creature poste ai margini del mondo in cui si compendiano in figura «l’inavvicinabilità e l’insopportabilità»549 del terrore primigenio, rappresenta un topos fondamentale nell’economia del mito: la reiterazione, tradotta in immagine, del gesto con cui gli uomini si appropriano del mondo trasformandolo in una dimora sicura, invertendo definitivamente il rapporto di sottomissione nei confronti della natura.550 Ciò che importa al mito è il conseguimento di un’«amabilità del mondo»551 intesa non tanto in senso etico quanto in senso morfologico. E nel mito sono innanzitutto gli dèi a condurre l’eliminazione dei mostri quando la posta in gioco è il riscatto del mondo nel suo insieme; il «mondo dei mostri e del caos»552 è lo stadio che precede l’avvento del nome, la nascita stessa delle divinità olimpiche: la divina Afrodite che sorge dal seme di Urano, il dio che generava mostri, è già l’immagine del lavoro compiuto dal mito, di una raggiunta mitezza, di un avvenuto depotenziamento (e in ciò si vede anche come ogni mito parli del mito stesso). E così tutti i più antichi mitologemi giunti fino a noi. La «divisione dei poteri», uno dei dispositivi più caratteristici di cui il mito si serve, raggiunge nel politeismo olimpico dei greci la massima grazia ed efficacia.553 Lungo il succedersi delle generazioni divine, «a misura che il potere si consolida, il suo esercizio diviene più sopportabile».554 L’atto di divisione dei poteri e ‘spartizione del territorio’ tra i Cronidi lascia trapelare quanto imprevedibile sarebbe stato il comportamento di ognuno di loro in caso di mantenimento del monopolio nell’uso della forza. Il Pantheon pagano è insomma il luogo di una salutare «dissipazione dell’assoluto».555 Alla limitazione dell’assolutismo fa da complemento il consolidamento 547 Ivi, p. 181. 548 J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 2, Jaca Book, Milano 2009, p. 174. 549 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 38. 550 Si veda E. Manera, Elementi per una teoria del mito in Hans Blumenberg, in «L’Ombra», n°7-8, 1999-2000, pp. 95-123. 551 H.L. Ollig, Blumenberg, in difesa del mito, in «Il nuovo Areopago», n°3, 1984, p. 126. 552 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1999, p. 72. 553 Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 163. 554 Ivi, p. 149. 555 H. Blumenberg, Teologia politica III, cit., p. 115.
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della raggiunta identificazione del mondo con un «cosmo», ma ciò significa per l’appunto che l’ordine non richiede un potere incondizionato per essere difeso, ma semmai una «costituzionalizzazione del potere».556 L’autorità di Zeus resta potenzialmente minacciabile, il che impedisce che egli si riconverta in istanza «assolutamente minacciosa»;557 l’epoca del suo regno vede addirittura l’introduzione di elementi giuridici nella regolazione delle controversie fra dèi. Le potenze del mito – e con ciò non s’intende certo solamente le antiche divinità greche558 – hanno successo solo in quanto limitate nella soddisfazione dei propri desideri, assoggettate a «procedure»,559 insomma inscritte entro un regime di tipo ‘liberale’. Nel momento stesso in cui sorge, il mito allontana dallo sguardo gli interrogativi dai quali prende le mosse; la realtà che narra è già «rioccupazione di una dimensione antropologica in cui la presa di distanza dall’origine si è compiuta e sedimentata».560 Poiché il simbolo sa essere «generoso», grazie a ciò può fare in modo di «non dover essere interrogato».561 I miti narrano il «tempo dell’origine», ma con una leggerezza, testimoniata dalla libertà delle molteplici variazioni sul tema della Urzeit, concessa solo a «un’umanità che da tempo si è liberata del suo peso»,562 testimoniano dunque un superamento avvenuto, una distanza conquistata. Sono tecnologie dell’«oblio» nei confronti «dell’assolutezza delle origini e della realtà, e al limite, della verità stessa».563 D’altra parte le caverne, prima dimora del mito, sono anche questo: «luoghi dell’oblio» del mondo che si agita fuori. In tal senso è già chiaro come caverna e mito affrontino il problema – parafrasando Nietzsche – di quanta coscienza (e di quanta scienza) ha bisogno l’uomo:564 poiché questa è una soluzione ‘clamorosa’ al problema ele556 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 158. 557 Ivi, p. 159. 558 Blumenberg mostra ad esempio come, nella trasformazione della situazione emotiva dei primi cristiani dall’attesa impaziente della parousia alla sua dilazione, entri in gioco nuovamente l’inesauribile necessità di «venire a patti col mondo» e la tecnica mitica della complicatezza sotto forma di un costituzionalismo concesso dalla stessa potenza assoluta. Cfr. ivi, pp. 183-184. 559 Ivi, p. 184. 560 G. Leghissa, Mito, dogma e genesi del moderno in Hans Blumenberg, in H. Blumenberg, Il futuro del mito, Medusa, Milano 2002, p. 25. 561 H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 76. 562 G. Leghissa, Mito, dogma e genesi del moderno in Hans Blumenberg, cit., p. 25. 563 M. Cometa, Mitologie dell’oblio, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., p.157. 564 Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, Einaudi, Torino 1981, pp. 79-161.
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mentare umano, «quando quel clamore si approssima all’intollerabilità, ci si deve sempre ricordare che esiste la possibilità di dimenticare».565 Il mito si offre come una dimora sicura, «un piccolo rifugio contro la luce implacabile»566 e questa è la precondizione di ogni agire che non resti irretito dall’assolutismo della realtà; anche se, celando le proprie ragioni, il mito non può evitare il riemergere di tensioni regressive e così non assicura mai all’uomo la certezza di trovarsi definitivamente al di là della ricaduta nel soggiogamento allo strapotere di forze indomabili, qualsiasi sia la forma che esse assumono. Tuttavia il suo potere di ‘distrazione’ è innegabile. Il mito non argomenta, offre una tecnica di «differimento» della risposta tramite la proliferazione e la complicazione delle domande. È un procedimento di «produzione di inquestionabilità» (Unbefragbarmachung),567 che si serve di un «allontanamento» in senso non figurato: i fatti con cui il mito rappresenta la propria origine non sono ordinati secondo una cronologia, anzi, vengono risospinti in «uno sfondo temporale indeterminato» 568 che li rende ininterrogabili. Trattando il caos piuttosto come «metafora» di un abisso, di una notte che può rigurgitare ogni sorta di cose terribili, il mito ‘scherma’ la visione dell’inizio del mondo, non ne parla, lo lascia nell’oscurità e anzi «genera questa oscurità, la infittisce».569 Rievocando con le armi della fantasia, della libera immaginazione, o del gioco, il «mondo orrorifico» generato dal caos originario e dominato dall’insicurezza, ne destituisce la serietà e ne depotenzia i caratteri spaventosi. Fluidità e incostanza, dilazione, esitazione e digressione trovano nel mito un’espressione razionale estremamente performativa, sotto forma di «complicatezza» come «grazia di ciò che non accade o che ci viene risparmiato».570 Si tratta già, in altri termini, di una variazione sul tema della distanza, di un avvicinamento alla condizione dello Zuschauer, dell’homo theoreticus, del fenomenologo intento a fare – direbbe Sloterdijk – dei dati di coscienza «nature morte» da esporre in una «collezione permanente»,571 come si mostra esplicitamente nella trasposizione mitica da parte della tragedia 565 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 33. Corsivo mio. 566 Ivi, p. 41. 567 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 168. Il riferimento è a Schopenhauer. Cfr. A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlass, I, Kramer, Frankfurt am Main 1966, in particolare p. 151. 568 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 165. 569 Ivi, p. 167. 570 B. Accarino, Nomadi e no, cit., p. 299. 571 P. Sloterdijk, Stato di morte apparente, cit., p. 52.
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classica: lo spettatore ‘aristotelico’ era il destinatario del dramma messo in scena e la sua catarsi «ciò che la materia mitica lasciava dietro di sé» in forma di «respiro di sollievo», allorché «il mondo non era più così come il mito lo aveva trovato».572 Ciò significa che, sebbene Blumenberg sia concorde col romanticismo nell’individuare nel mito una manifestazione di libertà, ha in mente una «libertà secondaria»,573 molto al di qua di un presunto legame con un Terror o, in alternativa, uno Spiel originari;574 dunque «il risultato di un processo, un prodotto, una conquista anzi proprio del rischiaramento».575 In questo senso l’autonomizzazione della sfera mitica costituisce un momento dell’Aufklärung. Blumenberg sa, con Freud, che l’apparato psichico umano, così come esso si è formato lungo la Menschenwerdung, è sostanzialmente «mitomorfo».576 Il mito trova il proprio spazio nella dimensione del «razionale inconcettuale», come forma storicamente determinata di produzione funzionale d’inconcettualità. Ciò basta a rendere la sua liquidazione una faccenda quantomeno problematica. Quello che lo rende interessante e vernünftig è la sua performatività. 572 H. Blumenberg, Wie man Zuschauer wird [«come si diventa spettatori»], cit., p. 96. 573 H. Blumenberg, Il futuro del mito, cit., p. 47. 574 Terror und Spiel è precisamente il titolo del quarto volume di «Poetik und Hermeneutik» su cui viene per la prima volta pubblicato nel 1968 Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos, il saggio (tradotto in italiano col titolo Il futuro del mito) che inaugura gli studi sul mito di Blumenberg e contemporaneamente apre quella riflessione interdisciplinare avviata in Germania alla fine degli anni ‘60 e proseguita fino agli anni ‘80, meglio conosciuta come Mythosdebatte. Blumenberg intende appunto ridiscutere le due «categorie metaforiche antitetiche» che generalmente rappresentano l’origine e l’originarietà del mito: «terrore» e «poesia», ovverossia da un lato la «pura espressione della passività prodotta dall’incantesimo demonico», dall’altro l’«eccesso immaginativo dell’appropriazione antropomorfica del mondo e dell’innalzamento teomorfico dell’uomo» (H. Blumenberg, Il futuro del mito, cit., p. 44). 575 G. Carchia, Introduzione all’edizione italiana, in H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 8. 576 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 530. Il riferimento è a una lettera di Freud a Fließ del 12 dicembre 1897: «La confusa interna percezione del proprio apparato psichico stimola le illusioni del pensiero che vengono naturalmente proiettate verso l’esterno e in modo particolarmente caratteristico nel futuro e nell’aldilà. L’immortalità, la retribuzione, il mondo dopo la morte: sono tutte rappresentazioni del nostro interno psichico. Psicomitologia». S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fließ, abbozzi e appunti 1887-1902, Boringhieri, Torino 1961, p. 146.
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Il sapere è sempre solo parziale; l’assolutismo della realtà era (o è, o sarà) totale, e richiede qualcos’altro oltre al solo sapere per essere superato, per essere lasciato alle nostre spalle. E se qualcuno dicesse che “non è più un problema” per noi – ossia, che la nostra mancanza di una nicchia biologica, il nostro deficit istintuale, non è più un problema per noi (dunque che non abbiamo più alcun bisogno del mito) – ciò equivarrebbe ad asserire che siamo definitivamente liberi dalle nostre origini biologiche, proposizione che difficilmente possiamo credere di poter dimostrare.577
In altre parole, credenze e conoscenze sono frutto dello stesso processo adattivo e, dagli albori dell’umanità fino alle più mirabili conquiste scientifiche della modernità e della contemporaneità, il nostro rapporto col mondo si configura come alternanza, articolazione e contaminazione tra saperi effettivi e assunzioni taken for granted,578 senza le quali non saremmo in grado di integrare ciò che sappiamo, di orientarci e di organizzarci in gruppi umani.579 In tal senso «la linea di confine tra mito e logos è immaginaria»,580 anzi, la classica formula «dal mito al logos» non veicola che «disinformazione»,581 poiché eternizza e ipostatizza una separazione tarda. È una «tarda e cattiva invenzione»582 sorta dal rifiuto di riconoscere nella creazione di distanza dallo status naturalis un «logos del mito».583 Ogni qualvolta «la distruzione filosofica» si è indirizzata contro i contenuti mitici, prendendoli ‘alla lettera’,584 essa ha «misconosciuto i bisogni intellettuali ed emotivi che questi contenuti avevano il compito di soddisfare», non accorgendosi di fare una mitologia di se stessa.585 Per questo il mito filosofico della caverna, che racconta «l’espulsione dei miti»,586 non 577 R.M. Wallace, Translator’s Introduction, cit., p. XI. 578 Per l’uso di questa espressione in relazione ai concetti di habitus e doxa si veda Pierre Bourdieu, ad esempio P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, con Tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003, in particolare p. 190; e Id., Il senso pratico, Armando, Roma 2005. 579 Ringrazio Giovanni Leghissa per queste suggestioni e – in generale – per gli spunti offertimi per la stesura del presente paragrafo. 580 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 35. 581 Ivi, p. 51. 582 Ivi, p. 75. 583 Ivi, p. 163. 584 Ivi, p. 29. Chi non sa capire le metafore e, in generale, le tecniche inconcettuali di «trasferimento» è vittima di un «rigido realismo dell’immediatezza» che non ammette sostituzioni, sgravi, deleghe, e può compiere azioni solo nella forma dell’«iper-reazione». Ibidem. 585 Ivi, p. 75. 586 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 83.
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può fare a meno di rivelare una buona dose di coercizione nell’impresa del filosofo che tenta di trarre i compagni alla luce: tutto sommato, grazie alle ombre, nella caverna si era sviluppato un sapere in grado di rimuovere «il timore di sorprese da parte della natura»;587 perché mai, allora, bisognerebbe abbandonare tutto ciò, acconsentire alla «rinuncia del dato»588 e rivolgersi alla «paradossale teoria dell’invisibile»589 senza alcuna garanzia di una contropartita? È un fatto che il ritornato giunga «a mani vuote»;590 per contro, le ombre, per quanto insignificanti se prese come oggetti di un sapere, come simboli restano funzionali alla costruzione di una datità autonoma, a prescindere dal loro statuto di realtà o irrealtà.591 Benché privo degli argomenti stringenti della scienza, nonché della forza cogente del dogma religioso, il mito è espressione e manifestazione di «significatività»,592 ovvero di un principio di rilevanza dotato di uno status di realtà non sorretto da verifica empirica, ma basato sulla riconosciuta «ovvietà» e «familiarità» dei contenuti, sul fatto che essi sono «parte del mondo fin dagli inizi» e non necessitano di essere sorretti da ulteriori argomentazioni. Il mito si serve dunque di ‘dispositivi di produzione di significatività’, «figure di senso» (Sinnfiguren) ricorrenti in grado di opporre forme di coerenza alla «minacciosa indifferenza di spazio e tempo».593 Blumenberg ne elenca sei: la simultaneità come «coincidenza», categoria mitica poiché «non spiega nulla»594 ma si fonda sui nessi del perturbante, laddove l’improbabile sotto forma di sincronicità genera stupore e induce a escludere il caso in favore del senso. L’identità latente come legame ipotetico istituito tra valori dando l’impressione di un ordine basato su compensazioni e risarcimenti.595 La ripetizione come garanzia del «rigore del ritorno dell’eguale», intensificazione delle «resistenze contro l’arbitrio delle variazioni»,596 sottrazione dell’ordinario ai casi del mondo esterno, vero e proprio «principio strutturale»597 del mito. Poi, la reciprocità di resisten587 588 589 590 591 592 593 594 595 596 597
Ivi, p. 122. Ivi, p. 124. Ivi, p. 122. Ivi, p. 124. Ivi, p. 127. Cfr., oltre a Rothacker, W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 347. H.U. Lessing, Osservazioni sul concetto di significatività in Hans Blumenberg, in «Discipline Filosofiche», n°1, 1992, p. 58. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 438. Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., pp. 100-104. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 21. H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., p. 238.
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za e intensificazione dell’esistenza e la circolarità, che trovano nel viaggio di Odisseo la loro rappresentazione somma, laddove il nostos si riempie di significatività grazie al superamento di avversità esterne e sviamenti interiori e a una chiusura del cerchio che è al contempo «restituzione del senso», immagine di un ritrovato «ordine del mondo e della vita contro ogni apparenza di arbitrio e caso».598 Infine, l’isolamento del grado di realtà di una cosa fino all’esclusione di ogni realtà concorrente, come avviene nel caso del masso di Sisifo. Si trovano «figure dalla qualità mitica», come Odisseo, Prometeo, Sisifo, o il figliol prodigo, ovunque vi sia una storia che dà «pregnanza immaginativa» a dei fenomeni elementari e quotidianamente presenti nel «mondo della vita».599 Certo, la pregnanza del mito trascina con sé la propria patologia caratteristica: poiché «la suggestione che con esso e in esso non resti nulla di non detto»600 non equivale all’esaurimento degli interrogativi grazie al raggiungimento di certezze fondate, ma a un’impressione di compiutezza e totalità tale da far cessare l’ossessiva ricerca di risposte alle domande, il rischio è che la Fraglosigkeitsgeneration spenga la curiosità teoretica, che la pregnanza sia così pregnante da sfociare in un sonno senza sogni, un «sonno della ragione» che alla lunga non può che produrre mostri.601 Qual è l’antidoto? Risiede, probabilmente, nella «labilità» che sempre accompagna la «stabilità» del mito, nella sua capacità di variazione come principio dinamico della stessa Arbeit am Mythos, nella «licenza di immaginazione»602 che non solo il mito, ma la ragione come mescolanza di concettuale e inconcettuale si concede. In altri termini, la generazione continua di zone nuove di significatività in un mito603 è direttamente proporzionale alla sua capacità di esemplificare una relazione o una condizione esistenziale considerata essenziale, nonostante i mutamenti di prospettiva storicamente determinati che su questa possono incidere. Il «mito artificiale» (Kunstmythos), che sembra semplicemente utilizzare la tradizione come tecnica narrativa cui ispirarsi al fine della pura invenzione di miti inediti, si sviluppa in realtà sempre come elaborazione di «elementari modelli di base», la cui configurazione è sogget598 599 600 601 602 603
H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 106. Ibidem. Ivi, p. 220. Cfr. P. Stoellger, Imagination der Vernunft, cit., p. 159-161. Ivi, p. 160. Inteso come «sistema altamente complesso di simbolizzazioni, il quale si trasforma insieme alla situazione socio-culturale»: V. Cesarone, Mito e razionalità. Blumenberg, Hübner, Jamme, in «Idee», n°31-32, 1996, p. 219.
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ta a processi di svuotamento e soprattutto di «rioccupazione» (Umbesetzung) delle forme date. Non si impone nella memoria il testo che irrompe come l’«impensato-sconvolgente», ma quello che «riferisce qualcosa che completi il pensato-in-anticipo» e che invoca un’«evidenza iconologica».604 E resistono al potere corrosivo del tempo quelle narrazioni che tradiscono una «vicinanza associativa a rappresentazioni dell’origine e del destino umani».605 L’elaborazione del mito sottopone certo tutti i materiali al proprio «darwinismo delle parole», ma tiene sempre in conto e tende a salvare quelle familiarità con determinate immagini, radicate nella storia profonda e dunque affidabili; sa che non si possono infrangere alla leggera. Per questo una ricezione, come riscrittura o interpretazione, è sempre «tanto opposizione e distanza, quanto dipendenza e prossimità».606 Essa si dà come un’ermeneutica «irrisolvibile nell’univocità», che accompagna l’assimilazione della tradizione testuale con una dose indispensabile di ignoranza, di dimenticanza.607 Così funziona il «gioco» della ricezione, come un ‘telefono senza fili’, impedendole, qualora abbandonasse ogni equivocità, di trasformarsi in scienza.608 3.2.2 Retorica Il meglio del mito risiede allora nel suo carattere retorico, inteso come criterio di tolleranza che oppone al dogmatismo una riduzione della serietà.609 Ma questo sarebbe il criterio della ragione tutta, una volta ammessa la propria insufficienza e l’imbricazione dei suoi concetti con le forme dell’inconcettuale. La retorica è una prassi costitutivamente umana non solo in quanto forma di ciò che rende unico l’uomo: il linguaggio, ma perché in essa il linguaggio si mostra quale «funzione della specifica inibizione dell’uomo»,610 e tale inibizione è da intendersi in un duplice senso: come deficit istintuale e ‘divieto di immediatezza’ nei confronti della realtà e come deficit cognitivo, dipendenza da un principium rationis insufficientis, dall’impossibilità di accedere all’essenziale. Il che però non significa – ed 604 605 606 607 608 609
H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 31. Ivi, p. 618. Ivi, p. 178. Corsivo mio. Ivi, p. 562. Cfr. ivi, p. 560. Cfr. A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo: retórica y mito en Blumenberg, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., pp. 163-164. 610 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 88.
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è qui che entra in gioco la retorica – che l’uomo possa permettersi di rinunciare al fondamento; solo, deve sapere che «nella sfera della fondazione della prassi vitale l’insufficiente può essere più razionale dell’insistere su una procedura “scientiforme”»;611 che anche il moderno metodo scientifico procede storicamente – secondo «la struttura delle rivoluzioni scientifiche» – sul terreno di ipotesi precarie basate in ultima istanza su un consensus che potrebbe stabilizzarsi oppure no. La retorica interviene nella misura in cui non si ha piena corrispondenza tra la realtà e i concetti, tra le parole e le cose. Sarebbe anzi lecito domandarsi se la significazione non possa essere intesa come una «retorica generalizzata, vale a dire che la “retoricità” potrebbe essere vista, non come un abuso, ma come costitutiva (in senso trascendentale) della significazione».612 Ma allora la ‘doppia compensazione’ cui la retorica è chiamata ne evidenzia un uso duplice e apparentemente contradditorio: da un lato, come medium, ossia strumento linguistico che si frappone tra l’uomo e la realtà, essa opera – come ben si mostra nei meccanismi di funzionamento del mito – con sostituzioni, filtri, forme di Umwegigkeit, esitazione e circostanzialità che differiscono o impediscono l’azione. In tal senso essa è «arte della dilazione»613 e «dell’illusionismo»,614 usa il linguaggio come un «derealizzatore»615 che, creando un mondo di apparenze, ci tiene occupati per evitare la coazione all’azione. In quanto «strumento di messa fra parentesi del corpo»,616 la retorica è «originariamente legittima difesa. E la sua figura fondamentale è quindi l’apotropaion: la fuga dietro un’immagine».617 In tal senso la retorica ha a che fare con la «struttura temporale» delle azioni618 nel senso dell’esitazione e della pensosità e in modo inversamente proporzionale rispetto all’aggressione e alla «tecnicizzazione», il cui intento è precisamente il risparmio di tempo. D’altro canto, spesso dinnanzi alla coazione all’azione e alla decisione è proprio la retorica a farsi veicolo di automatizzazione del comportamento 611 Ivi, p. 104. 612 E. Laclau, L’articulation du sens et les limites de la métaphore, in Interpréter la métaphore, in «Archives de philosophie», n°70/4, 2007, p. 603. 613 C.G. Cantón, Absolutism: Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., p. 128. 614 Ivi, p. 129. 615 Ivi, p. 128. 616 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 614. 617 N. Bolz, Das Gesicht der Welt. Hans Blumenbergs Aufhebung der Philosophie in Rhetorik, in J. Kopperschmidt (a cura di), Rhetorische Anthropologie. Studien zum homo rhetoricus, Wilhelm Fink, München 2000, p. 95. 618 H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 100.
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umano, interrompendo il «lavoro infinito» della ragione (Husserl), favorendo il conseguimento di quel consenso che solo può garantire l’azione e il vivere associato, stabilendo forme di «morale provvisoria».619 Da questo punto di vista sembra che essa, mostrando all’interno dei propri meccanismi «la temporalità double face dell’essere umano», si configuri al contempo come arte della dilazione e soluzione per la costitutiva mancanza di tempo umana.620 Dunque, se per un verso è vero che tecnica e retorica sono due «modulatori temporali» che funzionano antiteticamente, la prima mediante accelerazione entro lo spazio dell’agire umano storico sotto forma di «progresso»,621 la seconda tramite rallentamento, sovrapponendo l’agire comunicativo all’azione tout court,622 al contempo entrambe sono soggette a rovesciamenti e contaminazioni, laddove la tecnica libera il campo per una «nuova lentezza» e la retorica sovente opera per «rendere più conciso il corso naturale della comunicazione o sfuggire a un’impasse».623 E inoltre non va dimenticato che la retorica stessa è una tecnica, come a sua volta la tecnica è una forma di rapporto ‘retorico’, ossia indiretto con la realtà. Anche qui Blumenberg mette in guardia dallo snobismo che oppone a un’eloquenza presunta come gratuita e fallace la purezza del concetto, introducendo un bisogno antropologico e facendo luce sulle ibridazioni di cui anche i saperi che si vogliono più incontaminati non possono fare a meno.624 Se sul piano antropologico il principio di ragion sufficiente non può essere soddisfatto, ciò significa che la natura ha posto all’azione e al volere dell’uomo confini invalicabili, di cui l’etica e la filosofia della società devono entrambe tenere conto: «sono i confini oltre i quali solo la consolazione è ancora possibile».625 L’uomo è, tra le altre cose, un «essere bisognoso di consolazione» e i mezzi in grado di procurargliela sono «preferibil619 Cfr. C.G. Cantón, Absolutism, cit., pp. 135-142. 620 Ivi, p. 142. 621 R. Campe, Von der Theorie der Technik zur Technik der Metapher. Blumenbergs systematische Eröffnung, in A. Haverkamp, D. Mende (a cura di), Metaphorologie, cit., p. 291. 622 Su questa ‘Zeitdialektik’ si tornerà nel prossimo paragrafo. 623 R. Campe, Von der Theorie der Technik zur Technik der Metapher, cit., p. 292. 624 Ciò tuttavia non giustifica – come già discusso nell’introduzione – le posizioni di chi sostiene che «via metaforologia Blumenberg ponga la retorica come sostituto della filosofia», per quanto certamente si possa affermare che egli ne supera le pretese fondative di tipo metafisico via «antropologia retorica». J. Haefliger, Imaginationssysteme. Erkenntnistheoretische, anthropologische und mentalitäthistorische Aspekte der Metaphorologie Hans Blumenbergs, Peter Lang, Bern 1996, p. 106. 625 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 651. Corsivo mio.
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mente e forse esclusivamente di natura retorica».626 Perciò la retorica non va disprezzata, poiché più che un’«arte della seduzione demagogica» va compresa soprattutto come una «forma della cura dell’anima», come un felice artificio in grado di restituire all’uomo la giusta dose di buona Stimmung e gioia di vivere, certo, spesso attraverso una dissimulazione delle cause, vere sì ma irrimediabili, dell’umana miseria. Credere che la «nuda verità» possa bastare alla vita sarebbe un abbaglio di cui anche la filosofia dovrebbe avere timore.627 «Bisogno di consolazione e inconsolabilità dell’uomo»628 sono i due poli di un’humana condicio che legittima l’assunto, scomodo per le ambizioni veritative della filosofia, secondo cui – con esplicito riferimento a Boezio – anche quest’ultima si presta e si mostra spesso più adatta a soddisfare un bisogno di consolazione che una pretesa di verità. Per quanto la consolazione possa apparire l’appendice spregevole di un realismo in partenza refrattario a modificare la realtà, essa è soprattutto una categoria antropologica centrale e ineludibile. A tal proposito, scrive Blumenberg in un passo di Die Sorge geht über den Fluss, «Sigmund Freud ha completamente ragione quando afferma che chi cerca il senso della vita è malato. Pertanto lo si deve guarire, non accontentare; e se non lo si può guarire, consolare».629 In ultimo il principium rationis insufficientis da cui la retorica scaturisce investe proprio il nostro stare al mondo: l’uomo deve pur sempre tollerare «la non-ovvietà del suo esserci, come specie e come individuo»,630 la sua contingenza. In fondo la questione fondamentale dell’essere si può così riformulare in termini antropologici: «l’uomo è un essere razionale perché la sua esistenza è irragionevole, ovvero: priva di una ragione adducibile».631 Perciò sbarazzarsi di retori, sofisti e dispensatori di consolazione risulta quantomeno complesso. Non solo: la retorica porta con sé una «radicalità paleontologica»632 anche perché trova le sue fondamenta nelle profondità della questione vitale della visibilità (Sichktbarkeit) e dell’opacità (Undurchsichtigkeit) dell’es-
626 Ivi, p. 655. 627 Cfr. ibidem. 628 Questo – significativamente – il titolo del capitolo IX di Beschreibung des Menschen. Cfr. ivi, pp. 623-655. 629 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 65. 630 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 634. 631 Ivi, p. 638. 632 N. Bolz, Das Gesicht der Welt, cit., p. 90.
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sere umano: l’uomo è visibile agli altri in qualità di corpo impenetrabile, «corpo oscuro» (Dunkelkörper).633 Diversamente, al di fuori del contesto intersoggettivo, «per l’io il proprio corpo, al livello della normalità, è per eccellenza penetrabile (durchsichtig); così penetrabile che si trova sempre al di fuori di sé».634 Tuttavia la riflessione non può sorgere nello stato della normalità, ossia della «trasparenza del corpo per l’io corporeo»,635 poiché nel benessere e nell’assenza di pericolo il corpo semplicemente non c’è, non viene percepito, non è luogo di «esperienza».636 Solo nel dolore esso diviene reale, quando non soddisfa più l’esigenza di non farsi notare. Similmente «la visibilità non significa nulla senza la circostanza, la situazione, la qualità del terreno in cui è diventata percettibile».637 Ma allora è chiara la natura mediata della riflessione. La riflessività è la partecipazione all’ottica passiva, all’attenzione che già sempre altri hanno rivolto alla visibilità, del tutto irrilevante per il soggetto in sé, del suo corpo, e che volge la propria “intentio recta” dall’esterno – e non tramite il fattore interno “anima”: la piega all’indietro verso il dato di fatto fino a quel momento non tematizzato che quest’io rappresenta nell’ambito della propria visibilità.638
Nella situazione acuta dell’appariscenza, della visibilità e della scoperta della propria opacità per gli altri, si ottiene anche un’«inevitabile autopresentazione».639 Paradossalmente, mentre il nostro corpo resta inavvertito, trasparente, al contempo nella dinamica innescata dallo «sguardo estraneo»640 l’interiorità si mostra come mito,641 si palesa l’«impenetrabilità dell’uomo per se stesso»:642 anche «l’autoconoscenza dell’uomo procede per vie traverse (sei umwegig)».643 L’io – secondo un’espressione goethia633 634 635 636 637 638 639 640 641 642 643
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 658. Ibidem. Ivi, p. 669. Ivi, p. 676. Ivi, p. 679. Ivi, p. 699. Ivi, p. 770; cfr. anche H. Blumenberg, Der verborgene Gott der Phänomenologie, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 140. Cfr. H. Müller, Lo sguardo estraneo. Ovvero, la vita è una scoreggia in un lampione, Sellerio, Palermo 2009. Faccio riferimento al titolo di un libro del celebre psichiatra Giovanni Jervis: «il mito dell’interiorità». Cfr. G. Jervis, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2011. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 882. Ivi, p. 886.
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na – è la «zona cieca della retina», una «regione di inettitudine percettiva»:644 nessuno può guardare se stesso negli occhi e in ciò sta anche l’impasse dell’impresa fenomenologica che, giungendo alla soluzione trascendentale, ‘scopre’ che la riflessione non conduce all’esperienza di sé, all’autoconoscenza, ma a una coscienza assoluta, mentre attraverso lo sguardo degli altri otteniamo un’esperienza di noi stessi nella forma della deviazione. L’uomo diviene spettatore del suo stesso osservare, avendo preso coscienza della propria visibilità. Ma ciò significa prendere davvero alla lettera quel reflexiv: la coscienza è riflessa, la riflessione non si dà semplicemente; si apprende artificiosamente a partire dalle auto-relazioni che divengono necessarie per la sopravvivenza nell’ottica passiva. Per questo non può riguardare un io trascendentale puro: essa è un «dato antropologico esistenziale ancorato all’esserci dell’uomo» e al suo coinvolgimento nel mondo.645 Tutto ciò conduce a una comprensione dell’essere umano, prima e più che come homo sociologicus, come fenomeno, come qualcosa che «si mostra».646 Un’autorappresentazione efficace presuppone una «retorica interna»,647 che Blumenberg chiama appunto la «schermatura retorica dell’autopresentazione»648 e che è originariamente una forma di autoconservazione. Dunque, si potrebbe dire, per poter vivere è necessario che vi sia consensus anche tra sé e sé. 3.2.3 Metafora versus concetto Si potrebbe descrivere la metafora come «il relitto di un mito», la forma ermetica, ultracondensata, di «una storia con grandezze chiamate per nome, alla quale non c’è bisogno di richiedere una completezza degli eventi»,649 poiché si tratta di una parzialità in grado di produrre un senso di totalità e insostituibilità. Ma allora una corretta metaforologia non funge solo da rettifica e complemento per la storia dei concetti, essa fa anche luce sul nesso che ogni formazione linguistica conserva col «retroterra del mondo della vita in quanto sostegno motivazionale costante di ogni teoria».650 Le metafore alludono al luogo in cui 644 645 646 647 648 649 650
Ivi, p. 880. Cfr. O. Müller, Anthropologische Verunreinigungen des Bewusstseins, cit., p. 112. N. Bolz, Das Gesicht der Welt, cit., p. 91. Ibidem. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 99. H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 64. H. Blumenberg, Verso una teoria dell’inconcettualità, in Naufragio con spettatore, cit., p. 115.
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sono sorti interrogativi che le risposte scientifiche hanno finito per scansare e negare, spesso barattando significatività in cambio di certezze; sono «fossili guida di uno strato arcaico del processo della curiosità teoretica».651 Restituire cittadinanza alla metafora dentro e fuori la Begriffsgeschichte significa innanzitutto svincolarla dalla dimensione estetica per ricondurla all’orizzonte dell’antropologia. Infatti, se da un lato – soprattutto nel primo programma metaforologico enunciato in Paradigmen zu einer Metaphorologie (1960) – si tratta di ripercorrere la storia dell’uso e delle concezioni della metafora entro il discorso filosofico e scientifico, svelando così come alcune metafore e i loro slittamenti di senso partecipino alle svolte epocali che segnano la storia delle idee e delle concezioni del mondo, generando, preparando, nutrendo come un fertile humus il cammino del concetto; d’altro canto esistono metafore refrattarie a qualsiasi forma di traduzione concettuale, «metafore assolute»652 in grado di tracciare vie immaginarie d’accesso a una totalità «che resterebbe, altrimenti, irrappresentabile, ma che non possiamo fare a meno d’interrogare fin tanto che “ne” siamo presi».653 Sono proprio queste ultime a svolgere un’eminente funzione pratica e teorica di orientamento (la dimensione estetica è loro propria solo in seconda battuta, come esito della riuscita delle loro performances), a rispondere a un inesausto bisogno metafisico654 quantomeno su un piano operativo: insomma la metaforica assoluta «si apre al posto del non sapere».655 Se anche filosofia e metodo scientifico hanno inteso tracciare 651 Ivi, p. 116. 652 Si ricordi che ci si riferisce, con questa espressione, a traslati indeducibili e irriducibili ad altre forme di pensiero, capaci tuttavia di definire orizzonti di senso e orientare in virtù della propria potenza immaginativa. Si veda ad esempio H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, cit., p. 21. 653 J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 46. Mi permetto di accelerare un po’ su questi passaggi che riguardano opere già ampiamente trattate anche dalla ricezione italiana. In ogni caso, si conviene generalmente sul fatto che vi sia uno slittamento prospettico tra i Paradigmen del 1960 e il breve saggio Ausblick auf eine Theorie der Unbegrifflichkeit, pubblicato nel 1979 in chiusura di Schiffbruch mit Zuschauer: cfr. M. Macciantelli, Verso una teoria dell’inconcettuale: Hans Blumenberg e la metaforologia, in «Studi di estetica», n°13, 1985, pp 154-169; A. Comincini, Hans Blumenberg. L’ansia si specchia sul fondo, in «aut aut», n°231, 1989, pp. 145-147; F. Desideri, Una filosofia in contro-luce. Glosse su teoria e metafora in Hans Blumenberg, in A. Borsari (a cura di), Hans Blumenberg, cit., pp. 47-63; E. Melandri, Per una filosofia della metafora, cit., pp. VII-XIV. 654 Cfr. B. Merker, Phänomenologische Reflexion und pragmatische Expression. Zwei Metaphern und Methoden der Philosophie, in A. Haverkampf, D. Mende (a cura di), Metaphorologie, cit., p. 159. 655 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 494.
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confini netti tra ciò che può e non può essere detto, occorre non confondere l’indicibile (Unsagbare) con l’«indescrivibile» (Unbeschreibbare) o l’«inappellabile» (Unverweisbare) linguisticamente, poiché esso coincide soltanto «con l’irraggiungibile mediante il concetto come correlato della sostanza».656 Se davvero ci si dovesse attenere a una piena aderenza definitoria, a un ideale severo di chiarezza e distinzione, si vedrebbe come il campo di ciò di cui non si può parlare si estenderebbe tanto da impedire di pronunciarsi su quasi tutto quello che riteniamo importante. Il punto è che «anche qualora si riuscisse a rispondere a tutte le domande scientifiche, i nostri problemi vitali non sarebbero ancora nemmeno toccati».657 Per questo la filosofia non si può permettere di lasciare l’ineffabile «senza patria»;658 per questo deve accogliere la metafora, perché le metafore – le metafore assolute – non mostrano solo il cammino del concetto ma conducono, a ritroso, verso il mondo della vita. Se anche si ammette che il concetto rappresenti il «trionfo» della ragione, tra ragione e concetto non sussiste identità. Se la ragione è quintessenza delle «prestazioni a distanza», il concetto declina questa funzione nei termini di una «sostituzione dell’attualità», di una relazione con un oggetto fortuitamente o costitutivamente assente.659 Esso sorge dall’actio per distans, ha il suo prototipo nelle trappole dei cacciatori semi-nomadi, la sua chiarezza e distinzione sono prefigurate nella situazione ottica di partenza. Anch’esso, come mezzo di prevenzione, prefigurazione e progettualità, ha un’origine nettamente performativa; l’oggettività che il concetto conquista «non è ancora un fine, è in prima istanza un mezzo per essere in grado di trattare gli uni con gli altri»,660 dato che anche la costruzione della trappola presuppone una rappresentazione condivisa della preda che si attende. Ma nemmeno la scienza è completamente guidata da un principio di economia, anche teorie stabili hanno bisogno di operazioni superflue.661 Come il mito, scacciando la paura, libera inesausta e inutile bellezza, così il concetto, adempiendo alla propria prestazione intesa come «distacco dalla contemplazione», relazione con l’invisibile, permette proprio perciò un 656 H. Blumenberg, Bruchstücke des «Ausblicks auf eine Theorie der Unbegrifflichkeit», in Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 102. 657 H. Blumenberg, Bruchstücke, cit., p. 103. 658 Ivi, p. 104. 659 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 9; cfr. anche H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., p. 313. 660 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 15. 661 Cfr. in particolare H. Blumenberg, Exkurs über Ökonomie und Luxus, in Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 19-25.
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«ritorno alla contemplazione (Anschauung)»;662 l’Entlastung che realizza apre le porte all’«aspirazione a un nuovo presente» sotto forma di godimento e consumo.663 Ma allora è già visibile come nella «sfera originaria del concetto» e tutto intorno ad esso dimori la metafora, come l’estetico emerga dal mitico e dal metaforico nel loro rapporto genetico, funzionale e ausiliario con il concetto.664 Talvolta, come nel caso delle ‘idee della ragione’, ci si trova di fronte a formazioni la cui identità concettuale o metaforica è indecidibile: l’idea di mondo è uno «spazio indeterminato» in cui si cela una metaforica.665 Si tratta insomma di «determinazioni deboli»666 attraverso le quali può farsi strada la metafora; vale a dire che emergono metafore post-concettuali, che attendono di comparire laddove i concetti si svuotano: ovunque si dia una «vacanza del concetto»667 lo «rioccupano» con nuove significatività come i pesci fanno dei relitti la loro dimora. Ancora: da una frase che comincia con il soggetto «l’Essere» ci si devono attendere metafore e metafore assolute.668 Vale la pena arrischiarsi su questo terreno? L’Essere è «un MacGuffin»,669 quel «vuoto», quel «niente» che muove l’azione, uno «zero efficiente» – per usare un’espressione jesiana:670 qualcosa che avvia e alimenta la conversazione, perché svelarne il nome non fa che aumentare la suspense sulla sua identità. Anche i filosofi – scrive Blumenberg – «hanno avuto e devono avere i loro MacGuffin 662 663 664 665 666 667 668 669
H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 27. Ibidem. Ivi, p. 28. Ivi, p. 57. Ivi, p. 62. Ivi, p. 74. Cfr. ivi, p. 65. H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., pp. 157-160 (ed. orig. del 1987). Su questo bellissimo brano blumenberghiano, sul suo significato e sull’esercizio del pensiero in rapporto a ciò che manca si veda L. Boella, Come preservare il desiderio di pensare. Introduzione, in H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., pp. 7-20. Blumenberg fa riferimento a F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma 1989, pp. 111-114. 670 Jesi definisce così il mito, «un “ciò che non c’è”», o «il meno quid che si possa immaginare», che tuttavia appare come qualcosa e ha un potere dinamico, mobilitante (F. Jesi, Esoterismo e linguaggio. Studi su R.M. Rilke, D’Anna, Firenze 1976, pp. 36-38). Ma potrebbe venire in mente anche il nesso derridiano tra «letteratura» e «segreto», laddove la prima si origina dal secondo, meglio, dal suo inesorabile tradimento e smarrimento. Cfr. J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
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per mantenere il lavoro del pensiero così come il piacere dei suoi risultati».671 «I mezzi giustificano il fine e i segreti svelati lungo la via giustificano ciò che resta insvelato».672 La grande, imponente impresa della scienza è stata avviata, rendendo disponibile per noi tutto ciò che serve «per mantenere in vita il nostro mondo»;673 certo, ci ha detto tutt’altro rispetto a «ciò che volevamo veramente sapere», ma ciò non significa che possiamo accontentarci dei risultati sbarazzandoci del resto, poiché spegneremmo il motore della ricerca. Lungo la via c’era la pensosità, l’indugio – e «l’indugio si è dimostrato il senso della via».674 Per chi non si lascia tentare dalla tensione, per coloro che considerano la domanda sul senso dell’essere priva di senso, tutti gli allestimenti per la spedizione nella terra incognita della comprensione dell’essere consistono in una noia profonda. La curiosità muore, e con essa la filosofia, se non si ammette la metafora: «il concetto sopravvive grazie al refrigerio dei bagni che prende in nuove metafore».675 Come distinguere dunque concetto e metafora? Le loro «possibilità operative» – scrive Blumenberg – sono entrambe «iperboliche», ma l’una sfocia nella mistica, l’altra nel mito; questo perché – per ragioni ancora una volta antropogenetiche – intrattengono un diverso rapporto con la negazione. Nella situazione preventiva originaria, in presenza di un orizzonte mai così vasto, il concetto funge da «organo della perceptio per distans»676 non solo introducendo nella previsione la «possibilità» di ciò che non è immediatamente colto, dunque tramite «presunzioni positive», ma anche segnando la «differenza tra possibilità e realtà», riducendo nuovamente l’orizzonte, operando «esclusioni negative».677 L’«esplorazione delle possibilità» conduce alla «produzione della negazione».678 La negazione produce «la scelta della realtà sulla coscienza delle possibilità».679 Ora, come la vita onirica secondo Freud, la metaforica non conosce negazione né esclusione, a meno che non sia sottoposta a verifica concettuale. Le me671 H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, cit., p. 159. Ad esempio – prosegue Blumenberg - la seconda parte di Sein und Zeit non fu scritta perché non poteva essere scritta e Heidegger sapeva che avrebbe messo in pericolo tutta la significatività se non l’avesse lasciata in forma di frammento. 672 Ivi, p. 160. 673 H. Blumenberg, Sguardo su una teoria dell’inconcettualità, cit., p. 122. 674 H. Blumenberg, Das Sein – ein MacGuffin, cit., p. 160. 675 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 60. 676 H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 75. 677 Ibidem. 678 Ibidem. 679 Ivi, p. 76.
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tafore non sono attraversate da conflitti, sono in linea di massima sovrapponibili, purché alludano a qualcosa evocandone la significatività e rendendolo disponibile a discorsi; dalla metafora è sempre possibile creare un mito,680 essa forza la povertà del linguaggio spingendolo in direzione di un «rapporto espansivo col mondo», di una «dinamica centrifuga».681 Al contrario, l’extrema ratio del concetto è la teologia negativa, il punto in cui, nella sua prestazione per eccellenza di presentificazione dell’assente, esso semplicemente lascia che l’assente rimanga tale, si volge in negazione, in estrema povertà. Il fatto è che, nella massima rarefazione del concetto, laddove questo dovrebbe disfarsi della metafora, della rappresentazione, proprio qui entra in gioco la mistica e ha luogo (Blumenberg fa l’esempio della gnosi, o dell’idea heideggeriana di Nulla) un’audace connessione funzionale di concetto e metafora: l’«aumento debordante della negazione si rovescia in metafora».682 Allora, nel campo della produzione di distanza, metafora e concetto, inconcettualità e concettualità lavorano gomito a gomito e, pur azionando meccanismi differenti, talvolta non possono evitare di prendere in prestito il rispettivo strumentario e intervenire l’una sul prodotto dell’altra. La ragione filosofica, se non vuol fare germogliare in sé miti e metafore come rigogliose metastasi, non deve spingere il concetto alle sue estreme conseguenze, ma procedere nella consapevolezza critica dei propri limiti, intesi non solo in termini spaziali, ma anche temporali. Si tratta per l’appunto di condurre una critica antropologica della ragione, di tracciarne una genealogia, o meglio di tentare un’«archeologia»683 delle condizioni di bisogno che ne hanno determinato genesi, facoltà, funzioni e confini. La postura filosofica stessa di Blumenberg, che è quella ‘orfica’ del fenomenologo che predilige la descrizione alla definizione e la metaforologia all’ideale di una storia dei concetti puri, lo conduce alla domanda antropologica684.
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Cfr. ivi, p. 73. Ibidem. Ivi, p. 79. Cfr. O. Müller, Von der Theorie zur Praxis der Unbegrifflichkeit, cit., pp. 267-268. Cfr. J. Goldstein, Arbeit an der Bedeutsamkeit. Humane Selbstbehauptung bei Hans Blumenberg, in M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane, cit., p. 88.
EXCURSUS
Sul concetto di cultura: carenza, lusso, compensazione e domesticazione
La caverna in Blumenberg è la «fondamentale metafora esistenziale (Daseinsmetapher) della costituzione culturale dell’uomo».1 Difesa e abbondanza sono in effetti i termini chiave di una concezione originale e ambivalente della cultura, che tenta di trovare una propria collocazione, ma anche per certi versi di posizionarsi in maniera eccentrica, rispetto all’annoso dibattito antropologico su «lusso» e «carenza» dell’essere umano. Le Anthropologische Annäherung an die Aktualität der Rhetorik si aprono proprio con la riproposizione di tale questione, e vale la pena riportarne l’incipit per intero: I modi di ciò che oggi si chiama antropologia filosofica si possono ridurre a una alternativa: l’uomo quale essere “ricco” o “povero”. Che l’uomo, da un punto di vista biologico, non sia legato a un determinato ambiente, lo si può intendere come una deficienza fondamentale dell’ordinario equipaggiamento per l’autoconservazione, oppure come apertura alla pienezza di un mondo non più esclusivamente vitale. Lo rende creativo l’emergenza dei suoi bisogni, oppure il rapporto giocoso con il sovrappiù delle sue qualità? Egli è l’essere incapace di far qualcosa senza scopo, oppure è l’animale capace solo di un acte gratuit? L’uomo viene definito in base a ciò che gli manca, oppure in virtù di quella simbolica creativa con la quale si appaesa in mondi propri? Egli è lo spettatore dell’universo, posto al centro del mondo, oppure è l’eccentrico scacciato dal paradiso su quel granellino insignificante che è la terra? L’uomo custodisce in sé il prodotto ben stratificato di tutta la realtà fisica, oppure è un essere imperfetto abbandonato alla natura, travagliato da residui istintuali divenuti incomprensibili e privi di funzione?2
Si potrebbe attribuire al «paradigma dell’incompletezza» una storia assai lunga, cominciata col mito di Prometeo così come esso è narrato da Esiodo nelle Opere e i giorni e nel Protagora di Platone, proseguita col teomorfismo di Pico della Mirandola fino a giungere, passando per Tomma1 2
C. Polke, Symbol, Metapher, Kultur, cit., p. 51. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 85.
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so D’Acquino, alla nostalgia di Montaigne per la natura autentica dell’animale, alle cui leggi l’uomo avrebbe deciso scelleratamente di sottrarsi, e al rigido dualismo cartesiano fra natura e cultura, in cui l’assenza di vincoli di specializzazione diviene attestato di superiorità come libertà dalle leggi deterministiche che regolano la materia.3 Con Herder si ha la formulazione canonica del teorema,4 ma sarà Gehlen a offrirne la versione più interessante e sofisticata.5 Ricorrendo giocoforza al «principio dell’esonero», che gli permette di consolidare abitudini e comportamenti, risparmiare energia evitando di ripetere ogni volta delle scelte in risposta al flusso copioso di stimoli esterni e pulsioni interne, l’uomo può destinare l’energia salvata a prestazioni superiori e creare il proprio «ambiente culturale», l’unico che gli consente di costruirsi un nido nel mondo.6 La sfera culturale, che sorge come «surrogato» di ciò che per l’animale è rappresentato dall’ambiente, si configura come l’insieme delle condizioni naturali padroneggiate, modificate e utilizzate dall’uomo con la sua attività, il suo lavoro, incluse le abilità e le arti più condizionate, esonerate, che divengono possibili solo su quella base.7
È chiaro che Blumenberg si pone sulla scia di Gehlen, il cui pensiero è a sua volta radicalizzato dalla prospettiva alsberghiana,8 che intende l’Entlastung come Körperausschaltung in grado non solo di trasformare la carenza biologica in serbatoio per la produzione di lusso culturale, ma di innescare una progressiva e inesorabile atrofia ulteriore delle funzioni corporee. Pertanto le affermazioni di Blumenberg sull’uomo ora come Mängelwesen ora come «legato al principio del lusso»9 sono i due lati inseparabili della stessa medaglia. Se segue Cassirer nel definire l’uomo animal symbolicum, tuttavia sente il bisogno di ‘correggerlo’ con Alsberg e Gehlen nel momento in cui l’antropologia cassireriana «rinuncia a chiarire perché si 3 4 5 6 7 8 9
Cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 15-17. Cfr. J.G. Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, Pratiche, Parma 1995. Cfr. ade esempio A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 60. Cfr. M.T. Pansera, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano 2001, 5866. A. Gehlen, L’uomo, cit., p. 65. Naturalmente – come mostra Fischer – Gehlen in primis era profondamente influenzato dall’opera pionieristica di Paul Alsberg: cfr. J. Fischer, Philosophische Anthropologie, cit., p. 176. H. Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit, cit., p. 17.
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impongano tali “forme simboliche”»10 e comprendere a partire da ciò come abbia potuto sopravvivere «nonostante la sua inadeguatezza biologica».11 Solo ponendo la questione in questi termini è possibile vedere il rapporto metaforico e simbolico dell’uomo con la realtà come risposta all’imperativo di sopravvivere. La storia dell’uomo insegna che i meccanismi sostitutivi e compensativi sono ciò che ha scongiurato l’eventualità della sua estinzione. Per questo demonizzare il bisogno umano di «surrogati» è un atteggiamento che in un certo senso ‘offende la memoria dell’umanità’.12 L’uomo abita e si muove in un universo supererogatorio e non potrebbe essere altrimenti. La cultura è – a conti fatti – eminentemente una «possibilità seconda». La predilezione di Blumenberg per il paradigma dell’incompletezza non dipende tanto da considerazioni valutative né da un’analisi esaustiva di materiali empirici, quanto dall’intenzione di razionalizzare l’indagine antropologica liberandola dai suoi presupposti sostanzialistici,13 affidandosi piuttosto al motto di Dilthey secondo cui «ciò che l’uomo è, glielo dice solo la storia».14 E, visto da questa prospettiva, «l’uomo è l’essere che avrebbe potuto fallire e può ancora fallire».15 La cultura umana è «un programma di emergenza per la compensazione di mancanza di equipaggiamento biologico».16 Ma le strategie compensative conducono l’uomo quasi subito dal regno della sopravvivenza a quello del kultiviert Leben: «ciò che all’inizio era efficace solo come compensazione, può essersi reso successivamente completamente indipendente per le più sublimi prestazioni culturali».17 Lo Zeitgewinn attraverso la distanza è la categoria genuina della prevenzione e della Selbsterhaltung, ma la tecnica messa in campo per guadagnare tempo su alcune attività ne libera altrettanto per altre. Ciò in cui la proposta filosofica blumenberghiana si distingue, soprattutto in virtù del forte influsso di Alsberg, consiste da un lato in un’indagine genetica, a ritroso, della carenza, dall’altro in una concezione retroattiva della «cultura» nei confronti della «natura» (e i due aspetti sono strettamente connessi l’uno all’altro). Non solo l’attività simbolica ha una storia: 10 11 12 13 14 15 16 17
H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, cit., p. 94. Ivi, p. 95. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 599-600. Cfr. ivi, p. 523. Ivi, p. 528. Ivi, p. 524. Ivi, p. 552. Ivi, p. 490.
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anche l’inadeguatezza biologica ne ha una, ovvero è l’effetto di una serie di ‘eventi’ filogenetici che prendono l’avvio dallo scacco del Fluchttier. In quanto gesto non previsto all’interno delle risposte comportamentali rodate del pre-ominide, né in alcun modo disposto dai meccanismi evolutivi, lo Steinwurf è già un’azione ‘culturale’ in senso lato; dunque, da questo punto di vista, il paradigma dell’incompletezza viene rovesciato, in quanto la cultura determina la carenza e non viceversa. Da questa prospettiva l’eccedenza, non la mancanza, è il principio dell’umano. Per meglio dire: se il lusso – ossia le facoltà superiori dell’uomo – non è un attributo innato della natura umana ma un prodotto della carenza di equipaggiamento organico, questa a sua volta discende da risposte ‘lussureggianti’ e anti-adattive date a sfide ambientali che altrimenti si sarebbero perse. Dunque – ciò che più importa – entrambi i principi dipendono in ultima istanza da una circostanza storica: l’intervenuta mutazione ambientale. Ma ciò significa al contempo che la cultura rispetto alla natura si pone non come «compensazione che segue (nachkommend)», ma come «compensazione anticipata» (vorweggenommen)18 e foriera perciò di sensibili modifiche per quanto riguarda l’utilizzo e la percezione del soma umano. Rispetto alle potenzialità acquisite evolutivamente,19 l’introduzione delle prestazioni culturali inaugura una «danza del cervello»20 che ‘balza fuori’ dai meccanismi selettivi, e nulla esclude che le parti del cervello tendenti alla prominazione, legate alle facoltà superiori dell’uomo, si possano ancora estendere.21 Insomma, a quanto pare la cultura degli strumenti avrebbe consentito allo strumento di tutti gli strumenti (il cervello) di alleggerirsi, non dovendo più destare prestazioni acute, e diventare un Freizeitgehirn che si tiene in funzione in maniera lussureggiante.22 Anche la postura eretta è una risposta ‘eccessiva’ – benché biologica e non culturale – a un problema di autoconservazione. La rischiosa spedizione da Homo erectus a Homo sapiens dovrà chiamare in soccorso ragione e cultura come correlati di un aumento di problematicità dell’esistenza, che non può essere consistita solo nella lotta per l’esistenza con forme di vita rivali e nelle condi-
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Ivi, p. 863. Il riferimento a queste si trova alle pp. 571-577 di Beschreibung des Menschen. Cfr. D. Falk, Braindance, Holt & C., New York 1992. Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 524-549. Cfr. ivi, p. 540.
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zioni ambientali ostili, ma nella complicazione di tenere in vita il sistema organico dell’essere divenuto bipede.23
Così, di lì a un po’ (alcune centinaia di migliaia di anni) avremo quell’Homo sapiens dall’aspetto inerme, sguarnito, fragile, che non potrà più fare a meno della cultura (ora intesa nel senso pieno del termine) e vi si abbandonerà fino a smarrirsi completamente in essa: Nei confronti della cultura che egli stesso ha creato e del nidificare negli involucri che si è costruito e cucito, l’uomo è divenuto un parassita sui generis e dotato di una peculiare grazia. La sua nudità è quella di un resto di organismo, il residuo dell’“annullamento del corpo” nell’ominizzazione. Da nudo egli dimostra il suo bisogno di cultura come il suo essere disarmato. […] La cultura è la quintessenza di ciò che ci permette di essere così deboli e nudi sotto i suoi involucri.24
Lo sviluppo umano appare strutturalmente caratterizzato da un principio di «riflessività auto-innervante» che fa sì che l’uomo non solo produca la propria «sfera cosale e culturale» come un involucro che si cristallizza, ma venga costretto, da quanto proviene da lui, sempre più fortemente sul cammino intrapreso.25 I gusci tecnico-culturali operano una sostanziale riduzione della «resistenza» tramite delle soluzioni sostitutive, ossia dotandosi di «dispositivi artificiali per il suo «auto-collaudo».26 Il che ha come conseguenza che, nel dominio della cultura, ciò che l’uomo è in grado di sopportare diventa irriconoscibile (e il fatto che egli si metta alla prova con imprese estreme fa parte di un interesse del tutto culturale volto alla scoperta di quel residuo di possibilità naturali di cui non sa più nulla). La cultura non si limita a proteggere il corpo, essa modifica il rapporto dell’uomo col proprio corpo per far fronte alla sua appariscenza rischiosa. In termini fenomenologici, «la cultura è intensità dell’intenzionalità, non solo come riferimento teorico a oggetti in senso stretto, ma come il non-abbandonarsi a sé del soggetto»:27 essa trasforma la Selbsterfahrung in «esonero del soggetto da sé», ponendolo al di sopra e al di là del corpo, delle sue sensazioni, del suo essere condizionato, del suo essere mortale.
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Ivi, p. 522. Ivi, pp. 862-863. Cfr. ivi, p. 588. Ivi, p. 591. Ivi, pp. 723-724.
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La definizione della natura umana da un punto di vista filosofico-antropologico si inscrive nel quadro dei mutati rapporti tra l’indagine filosofica e le diverse scienze particolari, e di una forma di ‘attenzione diffidente’ nei confronti di queste. L’interesse dell’antropologia filosofica verso i contributi delle scienze empiriche dell’uomo è in realtà una sorta di reazione della filosofia all’avvento di forme di sapere che le contendono l’oggetto. Così – benché intenda superare il dualismo radicale e incomunicante di matrice cartesiana – la «svolta verso l’uomo» è pur sempre un tentativo di spiegare la deviazione dell’uomo dalla natura, ovvero la cultura come dominio a sé; in particolare, il paradigma dell’incompletezza difeso da Gehlen resta «la sponda dualistica che cerca di salvaguardare l’uomo come qualcosa di speciale e sostanzialmente differente da tutto il resto».28 Se si crede che un’antropologia (anche un’antropologia filosofica) aggiornata non possa invece fare a meno di lasciarsi contaminare coraggiosamente dai risultati della biologia, della paleoantropologia, della zoologia, della geologia, della climatologia, qual è l’atteggiamento di Blumenberg in merito a ciò? Quanto – è forse giunto il momento di porsi questa domanda – è attuale la sua impostazione? Dal punto di vista dell’uso delle fonti non c’è dubbio che vi sia un autentico sforzo di comunicazione interdisciplinare con i settori dell’antropologia storica, della paleontologia, dell’anatomia, della neuropsicologia e della biologia, poiché «è la descrizione dell’uomo nella vastità delle discipline ciò che a Blumenberg interessa».29 Egli ritiene legittima non solo l’antropologia come disciplina filosofica, ma anche l’assunzione di risultati empirici tratti delle scienze umane e comportamentali. Certamente la posizione di Blumenberg interpreta la dialettica natura/ cultura in termini più ibridativi rispetto a una visione rigidamente dicotomica e separatista. Le considerazioni blumenberghiane sul cervello come «strumento biologico universale che precede tutti gli altri strumenti culturali»30 dimostrano l’intenzione di confondere e mescolare la descrizione delle caratteristiche fisiologiche dell’uomo con quella delle sue facoltà spirituali, così da restituire l’immagine di una «zona culturale» che «non comincia semplicemente attorno al corpo» ma «nel corpo dell’uomo», sfruttando la preesistente «potenza delle funzioni cerebrali» per informarla tramite un’attualizzazione culturale.31 A sua volta, la cultura in 28 29 30 31
R. Marchesini, Post-human, cit., p. 12. J. Bauer, Masse der Distanz zur Natur, cit., p. 152. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 540. Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., pp. 166-167.
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Blumenberg letteralmente produce l’uomo, incide sul suo corpo, lo ridimensiona. Ma ciò significa che quell’intervenuta attualizzazione si configura di fatto come un’inversione e come una fuoriuscita dal dominio della natura. Pur contestando l’antropocentrismo che innalza l’uomo a signore del creato e sottolineando a più riprese l’assoluta contingenza e improbabilità della Menschenwerdung, la posizione ‘antropo-eccentrica’ di Blumenberbg proprio perciò radicalizza ulteriormente il punto di vista di chi ascrive l’uomo a una dimensione quasi esclusivamente culturale, separandolo da tutto il resto. È vero, solo a partire da alcuni eventi naturali (le mutazioni climatiche e ambientali, lo sviluppo del cervello dei primati) è possibile comprendere l’antropogenesi, ma essa si caratterizza fin dal principio come un salto vertiginoso al di fuori delle cosiddette ‘leggi di natura’. Innanzitutto perché la sfera culturale – in Blumenberg – non ha la funzione di indicare la peculiare via dell’umano all’adattamento e alla selezione naturale, ma di interrompere la regola spenceriana della «survival of the fittest» e invertire per sé la rotta dell’evoluzione. L’organismo umano – come si è già visto – cessa di rapportarsi all’ambiente in termini di «adattamento» sostituendo al principio dell’Anpassung quello opposto della Distanz (tanto da poter affermare che la sua sopravvivenza si fonda proprio sulla Nicht-Anpassung).32 L’uomo abita a tutti gli effetti un «mondo-non-darwinista» (Nicht-Darwin-Welt).33 Eppure forse, per comprendere l’umano e apprezzare le mirabili vette del suo sviluppo culturale, non c’è bisogno di appellarsi al paradigma dell’incompletezza, né a una concezione della cultura come ‘svalutazione organica’. Rinunciare a pensare l’uomo come «un tentativo di scarso successo della natura»34 e cominciare a trattarlo come un vero e proprio «miracolo biologico»35 non vuol dire necessariamente aderire a una forma di riduzionismo naturalistico. Forse la realizzazione di quel «complesso epigenetico che chiamiamo cultura»36 presuppone non una carenza, quanto un’eccellenza organica di cui la «ridondanza» cerebrale è un elemento coerente. È possibile intendere la cultura umana come «un evento rivoluzionario nel panorama evolutivo»,37 senza che ciò implichi un allontanamento dai mo32 Cfr. ivi, pp. 165-170; cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 551. 33 Ivi, p. 552. 34 Ivi, p. 521. 35 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 14. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 83.
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delli naturali, senza che debba sempre sussistere tra i due domini la legge dell’inversione proporzionale, spiegando invece quest’ultima come «espressione della complessità biologica», liberazione di un repertorio di «virtualità».38 Poiché poter attingere a un maggior contenuto di «virtualità cognitiva» vuol dire, superando un’altra dicotomia – quella fra istinto e apprendimento che anche Blumenberg fa sua –, essere «più ricchi di innato»39 dal punto di vista della propria istruzione genetica, disporre di strutture neurali complesse che possono essere organizzate tramite l’apprendimento nelle maniere più variegate e creative. Inoltre, il carattere lussureggiante che Blumenberg attribuisce alle prestazioni culturali, capaci, nel momento stesso in cui creano involucri protettivi, di dissolvere equilibri preesistenti per produrne di nuovi, insomma di fungere da fattore di instabilità, si confà molto di più a una concezione della cultura come «non-equilibrio creativo»40 consentito da un corredo organico ridondante e aperto a una moltitudine di possibilità, che a un paradigma compensativo. E, d’altra parte, non si vede perché la capacità della cultura – rivendicata da Blumenberg – di «retroagire sul sistema uomo» e comportarsi come «motore della natura» debba essere intesa come progressiva Verminderung del corpo, e non piuttosto in termini di «espansione» e «ibridazione».41 Se uno strumento viene acquisito fino a incarnarsi nel sistema-uomo, metamorfizzando la performatività e le caratteristiche del corpo,42 ciò non equivale a emendare una carenza né a produrne una, ma ad «aumentare il potenziale virtuale del corpo stesso»43 attraverso contaminazioni con il non-umano. E ancora: che tutto ciò produca uno slittamento della pressione selettiva non significa che la cultura sia «un fattore di involuzione né un elemento di reversione»: potrebbe essere semmai l’apertura di «un nuovo percorso evolutivo».44 Se la cultura fa parte delle possibilità presenti in natura – come dimostra peraltro il fatto che non siamo gli unici esemplari del mondo animale a saper fare uso di trasmissioni educative e tradizioni culturali45 – non c’è ragione di ritenere che il suo insorgere abbia svincolato l’essere umano dai meccanismi evolutivi. Eppure Blumenberg – e, gli va dato atto, 38 39 40 41 42 43 44 45
Ivi, p. 22. Ivi, p. 17. Ivi, p. 25. Ivi, p. 28. Cfr. ivi, p. 64. Ivi, p. 65. Ivi, p. 31. Cfr. J.T. Bonner, La cultura degli animali, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
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non è il solo a formulare quest’ipotesi46 – è convinto che lo sviluppo del lato fisico-biologico dell’uomo sia terminato e «solo il ‘dispiegamento delle prestazioni (Leistungsentfaltung) in senso culturale [sia] modificabile, ossia ottimizzabile»,47 il che significa che si può parlare a tutti gli effetti di «evoluzione sospesa»48 nell’uomo e attraverso l’uomo.49 E non si tratta di un processo localizzato né reversibile. Tuttavia, la contingenza umana può essere salvata anche in un quadro evoluzionista, se è vero ciò che un post-darwinista come Stephen J. Gould ha scritto, ossia che migliaia di volte la specie umana è stata vicina all’estinzione e che la sua comparsa era così improbabile che verosimilmente non si ripresenterebbe nemmeno riavvolgendo un milione di volte il film della vita.50 Una concezione della storia naturale e umana non più basata sul cosiddetto «gradualismo filetico» caro alla sintesi moderna51 e in fin dei conti prediletto anche da Darwin,52 ma su «speciazioni allopatriche» ed «equilibri punteggiati»;53 l’interpretazione della selezione naturale in termini non solo adattivi, ma «ex-attivi»,54 potrebbero dar conto della contingenza dell’uomo e – in un orizzonte completamente laico e libero da ogni forma di creazionismo – del grado di miracolosità della comparsa di questa creatura, senza il bisogno di sbarazzarsi dell’evoluzionismo. Inoltre, l’influenza della cultura sui processi evolutivi umani potrebbe essere interpretata come slittamento della pressione selettiva in seguito a mediazioni da parte di partner non-umani, dunque non interruzione dei processi evolutivi, ma 46 Cfr. S. Jones, Darwin’s Ghost. The Origin of Species Updated, Ballantine Books, New York 2001; U. Kutschera, Tatsache Evolution. Was Darwin nicht wissen konnte, Dt. Tanschenbuch, München 2009. 47 J. Bauer, Maße der Distanz zur Natur, cit., p. 154. 48 H. Blumenberg, Ein Futurum, in Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 194; cfr. ivi, pp. 185-196. 49 Cfr. R.A. Klein, Das Ende der Humanevolution?, cit., p. 168. 50 Cfr. S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, Milano 2007, ad esempio p. 297. 51 Cfr. J. Huxley, Evolution. The Modern Synthesis, Harper & Brothers, New YorkLondon 1942; T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit., pp. 40-43; N. Eldredge, S.J., Gould, Gli equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo filetico, in N. Eldredge, N., Strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze 1991, pp. 252-253. 52 Cfr. N. Eldredge, S.J. Gould, Gli equilibri punteggiati, cit., p. 225-228. 53 Cfr. E. Mayr, L’evoluzione delle specie animali, Torino, Einaudi 1970; N. Eldredge, S.J. Gould, Gli equilibri punteggiati, cit. 54 Cfr. S.J. Gould, E. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, T. Pievani (a cura di) Bollati Boringhieri, Torino 2008.
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loro trasformazione in processi «coevolutivi».55 Ciò implica che la peculiarità dell’umano non ha nulla a che fare con una forma di separatezza dal resto del vivente, che la cultura non è da intendersi come un regno autarchico, un «affare privato di specie» che sancisce la «solitudine» di Homo sapiens sul pianeta.56 Al contrario, secondo tale prospettiva la cultura vive di prestiti, ibridazioni e contaminazioni anche da parte del mondo animale, si accresce alleandosi e non distanziandosi dalla biosfera, attingendo «voracemente dal mondo esterno»,57 facendosi alterare e istruire da esso. 1. Blumenberg tra umanesimo e post-umanesimo È, quella di Blumenberg, un’antropologia filosofica pienamente novecentesca e dunque classica, oppure affaccia già su un orizzonte post-umano? Ma dov’è situato e che cos’è il post-umano? Secondo una buona definizione, se ne può individuare l’espressione sintetica nel concetto di «ibridazione», come «volontà di rottura della chiusura individualistica del soggetto umanistico-liberale»,58 e l’elemento caratterizzante in una concezione ‘aperta’ della soggettività umana, i cui confini di separazione rispetto all’alterità, sia animale (a livello di ecosistema naturale) sia meccanica (a livello di sistemi ‘artificiali’), divengono delle vere e proprie ‘soglie’ di reciproco scambio, le quali rendono possibili delle pratiche di coniugazione.59
Il riferimento da cui il postumanesimo a un tempo discende e prende le distanze è dunque l’antropologia filosofica. Nello specifico, l’elemento problematico risiede nell’umanesimo implicito che questa disciplina, così ansiosa di mostrare l’unicità della specie umana rispetto al resto del Bìos, porta con sé. Per usare le parole di Peter Sloterdijk se l’umanismo è un’«antropodicea»,60 facilmente un’antropologia rischierà di essere umanista. Il post-umanesimo conduce la riflessione sull’uomo a oltrepassare e violare i confini dell’umano, attraverso un «incremento di coniugazione-conta55 56 57 58
Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 32. Ivi, p. 43. Ivi, p. 62. M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011, p. XV. 59 Ivi, p. 3. 60 P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999, p. 19.
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minazione» con il non-umano, verso una forma di «antropodecentrismo»;61 in tal senso supera una riflessione filosofica che, per quanto incalzata dallo sviluppo inarrestabile delle scienze contemporanee e tesa a comprendere l’uomo al di là della dicotomia di naturale e spirituale, di res cogitans e res extensa, per recuperarne l’«unità vitale»,62 tenta pur sempre di spiegare la deviazione dell’uomo dalla natura, ossia la cultura come un dominio a sé.63 Si tratta allora di capire dove si collochi l’antropologia fenomenologica di Blumenberg lungo la linea che dalla Neue Anthropologie conduce alle più recenti teorie postumaniste. Perché ci interessa? Fondamentalmente per una ragione: che si aderisca o meno al pensiero postumanista, a questo va riconosciuto uno sforzo nuovo verso la contaminazione interdisciplinare e il confronto con le scienze della vita, che pare un presupposto ineliminabile per pensare in termini di antropologia filosofica oggi. Di conseguenza, scoprire «quanto post-human» ci sia in Blumenberg è un modo per capire quanto sia attivo e vivo il suo pensiero, quanto ‘ci parli’ ancora. Nonostante la forte tensione verso sentieri inesplorati e fecondi per la riflessione filosofico-antropologica, Blumenberg – con la sua insistenza sull’Umwegigkeit dell’uomo, sul suo accesso metaforico, mediato, retorico alla realtà che lo distingue dalle altre creature – mostra di muoversi ancora nel solco dell’«umanismo»,64 di servirsi di una «macchina antropologica»65 di tipo umanistico. Altre prospettive filosofiche suggeriscono invece di abbandonare un sentiero che conduce pur sempre alla «continua battaglia per l’uomo, che si compie come lotta tra tendenze alla bestializzazione e alla domesticazione».66 Chissà che non occorra «rendere inoperosa» la macchina antropologica e sospendere ogni articolazione in uno «shabbat tanto dell’animale che dell’uomo»?67 Oppure: chissà che la domesticazione uma61 Cfr. R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, p. 5. 62 Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 45. 63 Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 12. 64 Cfr. M. Höfner, Leben als Reden. Rhetorik, Ethik und die Frage nach dem Menschen bei Hans Blumenberg und Martin Heidegger, in R.A. Klein (a cura di), Auf Distanz zur Natur, cit., p. 28. Ma si vedano soprattutto le riflessioni di Müller sull’«umanismo scettico» di Blumenberg: cfr. O. Müller, Sorge um die Vernunft, cit., pp. 326-336. 65 Cfr. F. Jesi, La festa. Antropologia, etnografia, folklore, Rosenberg & Sellier, Torino, 1977, p. 15; G. Agamben, L’aperto, cit. pp. 80-82. 66 P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark, cit., p. 17. 67 G. Agamben, L’aperto, cit., p. 94.
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na non avvenga spesso per tramite dell’animalità? Chissà che non avvicini l’uomo all’animale, anziché allontanarli entrambi dalla bestia? La giusta esigenza di conferire profondità storica alle prestazioni umane conduce a una domanda: viene prima la natura o la cultura, o forse fin dai tempi più remoti ciò che appare è un composto inscindibile delle due? Se definiamo la cultura come «il primo sistema comportamentale complesso» costruito da conoscenze sui materiali, abilità manuali, capacità di coordinamento senso-motorio, competenze nella trasmissione del sapere,68 comprendiamo come essa intervenga molto prima che l’evoluzione organica conduca all’uomo quale esso è attualmente; la cultura stessa è un «ambiente» in cui il cervello umano si sviluppa e si specializza.69 Ciò può voler dire che l’uomo è da sempre post-umano, ibridato e potenziato da componenti extracorporee; d’altra parte, nella spinta a utilizzare la tecnica per modificare la propria morfologia e migliorare la propria condizione «il post-umano si rivela molto umano».70 Ciò che Blumenberg non riesce a dire è che la cultura precede l’uomo perché è una possibilità dell’evoluzione, non una prerogativa della sola specie umana, ma una strada percorsa da molti altri animali.71 Se invece si suppone che l’uomo si sia differenziato e continui a differenziarsi dalle altre specie «proprio perché ha saputo costruire eteroreferenze che lo hanno avvicinato, non allontanato rispetto al mondo nonumano»;72 se si ritiene altresì la cultura una «dimensione zoologica»73 che nell’umano raggiunge il più alto grado di articolazione in virtù di un programma genetico più elastico, ma non più carente; se – ad esempio – si riprende la tesi neotenica, ossia l’idea di un prolungamento nell’uomo del periodo ontogenetico e del mantenimento di «una sorta di incompletezza giovanile»,74 che è cosa in effetti diversa da un’inadeguatezza adattiva o da una regressione organica; se si pensa l’umano nei termini di un’«apertura», ossia di un’identità magmatica e disponibile a molteplici interazioni con
68 Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi, cit. 69 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, RomaBari 2011. 70 I.R. Marino, Scienza e cambiamenti socio-culturali, in L. Marini, A. Carlino (a cura di), Il corpo post-umano. Scienze, diritto, società, Carocci, Roma 2012, p. 104. 71 Cfr. J.T. Bonner, La cultura degli animali, cit.. 72 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 83. 73 F. Remotti, Cultura, cit., p. VII. 74 R. Marchesini, Post-human, cit., p. 60.
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l’esterno,75 è forse possibile superare la declinazione immunitaria della relazione dell’uomo col mondo, che la tesi di un’incompletezza prerequisitiva o acquisita necessariamente porta con sé. Leggere l’uomo come un sistema aperto può – con uno spostamento d’accento quasi impercettibile – contribuire a cogliere nel suo In-der-Welt-Sein qualcosa di diverso dall’esonero e dalla dialettica tra protezione ed espansione verso l’esterno, qualcosa come uno spirito ‘cooperativo’. Tuttavia la posizione di Blumenberg è mobile, liminare. Non solo per lo sforzo di comunicazione interdisciplinare e perché interpreta la dialettica natura/cultura in termini più ibridativi rispetto alla tradizione; ma soprattutto perché – come si è visto –, attraverso l’antropologizzazione della fenomenologia, giunge a un’antropologia fenomenologica e trascendentale che si spoglia di ogni residuo di essenzialismo per interrogarsi sulla genesi e le condizioni di possibilità della vicenda umana, per concepirsi come storia e nella storia, assegnando un ruolo chiave all’indagine preistorica intesa come ricerca archeologica metaforlogica e congetturale sulle cause remote di insorgenza del fenomeno umano. Quest’attenzione genetica consente a Blumenberg un’apertura verso una domanda eminentemente post-umana: «che cosa può ancora diventare [l’uomo] sulla base del suo condizionamento antropologico?».76 Non solo, proprio il metodo metaforologico potrebbe ridimensionare l’umanesimo blumenberghiano: Blumenberg è un ponte tra umanesimo e post-umanesimo anche perché conosce la transitorietà e la caducità dei linguaggi e delle categorie. Insomma, si può parlare di carenza o virtualità, di «cattiva strada» dell’evoluzione o apertura di un peculiare sentiero evolutivo, probabilmente si fa riferimento a modelli descrittivi diversi per dire la medesima cosa. Blumenberg lo sa, per questo utilizza i concetti in maniera sempre libera, dinamica, non ideologica. Comprende alla perfezione di essere, come tutti i pensatori di ogni tempo, vittima dei meccanismi di inerzia della coscienza e miseria del linguaggio che giustificano la metaforologia come ermeneutica degli sfondi, degli orizzonti di senso, delle strutture epistemiche e dei reperti linguistici e immaginativi che stanno dietro alla produzione di discorsi, linguaggi, concetti di realtà e teorie. Può darsi che Blumenberg sia già entrato nei territori brulli del post-umanesimo, gli mancano solo «le parole per dirlo».
75 Cfr. ivi, p. 20. 76 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 536.
CAPITOLO TERZO HOW TO DO NOTHING WITH WORDS1 Indizi per una filosofia politica
1. Il biotopo sociale Al termine di questo viaggio attraverso l’antropologia fenomenologica blumenberghiana, è interessante domandarsi quali siano o potrebbero essere le configurazioni del politico all’interno di questa prospettiva antropologica. Quanto sono segnate e limitate, e non invece rese aperte e plasmabili, dalla complessa dinamica di lusso e carenza? Blumenberg viene generalmente considerato un autore prima facie «impolitico». In effetti si è sempre mantenuto al di qua di una riflessione esplicitamente filosofico-politica, o sembra averne relegato gli sparuti accenni in una posizione satellitare rispetto al suo «sistema filosofico». Bisogna dunque semplicemente considerare la teoria politica un ambito negletto e periferico per un autore che ha in realtà preferito parlare d’altro, o si tratta di un aspetto meritevole di maggiore attenzione? Forse è possibile andare in cerca delle tracce di una meditazione portata avanti «in sordina»;2 oppu1 2
Questo capitolo è già apparso, con lievi differenze, in forma di articolo: F. Gruppi, «How to do nothing with words». Considerazioni sul politico in Hans Blumenberg, in «Storia del pensiero politico», n° 2, 2015, pp. 277-306. Come non vi sono opere di Blumenberg esplicitamente dedicate ai temi tipici di una filosofia politica, così la letteratura secondaria raramente cerca di ‘dedurli’ dal suo pensiero. Per un tentativo in tal senso si vedano in particolare: R. Faber, Der Prometheus-Komplex. Zur Kritik der Polytheologie Eric Voegelins und Hans Blumenbergs, Königshausen-Neumann, Würzburg 1984, pp. 75-87; P. Behrenberg, The Explorations of the relation between Politics and Myth: Vico, Cassirer, and Blumenberg, in «New Vico Studies», n° 9, 1991, pp. 17-28; sempre nel segno di una considerazione politica della teoria blumenberghiana del mito il recente C. Bottici, Filosofia del mito politico, Bollati Boringhieri, Torino 2012, in particolare pp. 114-144; poi B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., in particolare pp. 49-92, 127-172; di particolare interesse J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., pp. 205-221. Nelle ultime raccolte di saggi su Blumenberg vi sono alcuni tentativi di ‘politicizzare’ certi aspetti del discorso blumenberghiano: si vedano in particolare
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re lasciarne emergere i contorni ideali «giocando» con alcune categorie della filosofia blumenberghiana, e ottenere così i lineamenti di una riflessione politica tutt’altro che banale o estemporanea. Il campo della politica – e la riflessione sul moderno – prende forma e acquisisce nuovo spessore alla luce della speculazione sull’uomo e sulle circostanze della sua genesi. D’altra parte, come ha scritto Carl Schmitt riportando un’osservazione di Helmut Plessner, non esiste filosofia o antropologia che non sia politicamente rilevante3 e non potrebbe essere altrimenti, nella misura in cui le teorie politiche si costruiscono tradizionalmente a partire da ipotesi sulle condizioni di partenza germinali della sfera politica stessa. Nel caso di Blumenberg non siamo di fronte a una semplice astrazione funzionale sullo stato naturale ma, al contrario, a una teoria antropologica integrata, seppur erratica e sotterranea, che merita di essere esplorata anche perché capace di offrire un quadro più comprensibile e completo della fenomenologia della storia di Blumenberg e delle sue posizioni, cariche di significato politico, in merito al moderno. Come si è visto, proprio talune categorie classiche della teoria politica (istituzione, delega, conservazione, assolutismo, divisione dei poteri) sono prese a prestito da Blumenberg per descrivere il contesto antropologico e antropogenetico. L’effetto rovesciato di tale operazione consiste in un’antropologizzazione della dimensione politica a un tempo problematica e interessante. La cultura comprende in senso lato anche la costruzione del «biotopo sociale», che avrà dunque a sua volta una funzione in primis «immunitaria». Salvo accennare ai prodromi della divisione del lavoro nell’opposizione forti/deboli e al riscatto di questi ultimi nel regno cavernicolo dell’immaginazione,4 a differenza di altri autori Blumenberg non si sofferma tanto sulle fasi germinali del politico, sul vivere associato degli uomini preistorici.5 Tuttavia, nell’opera sulle uscite dalla caverna troviamo una riflessione su una forma più tarda del «corpo di gruppo» come «serra antro-
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A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutimso, V. Pavesich, Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror and the Faces of Absolutism, in A. Fragio, D. Giordano (a cura di), Hans Blumenberg, cit., pp. 143165, 167-203 e J.C. Monod, Politische Theologie. Blumenberg als ein Leser von Schmitt und Benjamin, in M. Moxter (a cura di), Erinnerung an das Humane, cit., pp. 210-225. Cfr. H. Plessner, Potere e natura umana, Manifestolibri, Roma 2006, cit. in C. Schmitt, Le categorie del «politico», il Mulino, Bologna 1972, p. 144. Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 20-27. Cfr. P. Sloterdijk, Sphères, III, cit., pp. 316-319.
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pica primaria»:6 la città7 che, nonostante l’ellissi temporale, lo esemplifica alla stregua di una metafora che illumina anche il passato. Si può forse allora tracciare il profilo della riflessione politica blumenberghiana a partire dall’unità costitutiva del politico, la polis, tenendo sempre a mente la caverna come suo prototipo. Comincerò da qui per muovere verso successivi snodi tematici: il nesso «istituzioni “erette”»-visibilità,8 il carattere immunitario della sfera politica e il vantaggio della delega, la declinazione politeistica e «costituzionale» di questo dispositivo e il correlativo anti-assolutismo, i motivi antropogenetici che spiegano l’emergere di queste dinamiche e la problematizzazione del binomio amico/nemico, la critica alla teologia politica, la teoria della retorica come mitigazione del potere, la dialettica tra conservazione e utopia. 2. L’unità minima del politico: la polis tra immunità e visibilità La città è «ripetizione della caverna con altri mezzi»9 e come tale è legata ab origine a un bisogno bio-psicologico regressivo: isola, insonorizza le proprie pareti da tutto ciò che pullula fuori e che non ha prodotto essa stessa. In ciò dissimula la propria natura parassitaria nei confronti dei «dintorni» da cui dipende, fungendo da calamita per tutti i prodotti di cui necessita e che non contiene in sé, da centro propulsore di scambi, da «acceleratore del processo economico»10 e polo produttivo per eccellenza del mezzo primario di tale accelerazione: il denaro. Così, la città sussiste grazie a una forma sofisticata di presa di distanza dalla realtà, come capacità di disporre dell’assente come del presente, e può ripresentificare l’esterno al proprio interno senza il bisogno della magia, poiché le basta il calcolo in termini di economia monetaria; per ottenere o scongiurare qualcosa non è più necessario dipingere su delle pareti, è sufficiente astrarre in termini di valore di scambio, una forma «più illuministica» di mediazione con il fuori.
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Cfr. Ivi, p. 319. Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., pp. 56-60. Cfr. B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., p. 139. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 56. Ibidem. Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 2005.
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Tuttavia, se l’astrazione è «surrogato della magia»,11 deve pur sempre conservare qualcosa di essa. In tempi di capitalismo avanzato l’esplosione delle grandi metropoli moderne si fa allora autarchia illusionistica: la città impedisce il ricordo del mondo esterno e lo rimpiazza col proprio mondo interno, accoglie un quantum di natura solo sotto forma di parco, giardino botanico o fioriera, ove essa diviene innocua e indisturbata a un tempo; promette fortuna in luogo di vita e realtà, incatena con la propria «attrazione artificiale» eppure, al sommo della sua «umbratilità sbiadita», si rivela luogo del massimo «bombardamento di stimoli» e al contempo di estremo isolamento.12 E tuttavia Blumenberg osserva, con il sottile sarcasmo che gli è proprio, che prima di ogni critica alla civilizzazione e ai suoi effetti alienanti occorrerebbe accertarsi che le persone abbiano qualcosa da dirsi,13 che insomma sia questa la loro prioritaria esigenza. In fondo la funzione primaria della città è quella di schermare, difendere, con una propensione di cavernicola memoria all’autosufficienza: per sopravvivere come luogo che catalizza flussi14 deve «chiudere le porte, presidiare le mura»15 in senso reale o figurato. Talvolta lo fa talmente bene che incorre in una forma avanzata di quella stessa dialettica della visibilità in cui si dibatteva il nostro antenato: involucri sempre più imponenti eretti attorno alla corporeità producono un «incremento della visibilità», rendendo gli uomini più vulnerabili e accessibili all’intromissione dell’estraneo, oltre a manifestare, nel «comparativo di grandezza»,16 un implicito segnale di sfida. La morfologia dello spazio urbano – unità minima della sfera politica – dipende dall’«ineluttabilità del farsi visibili» e altrettanto ne dipende la divisione del mondo coabitato dall’uomo in amici e nemici potenziali; di questa materia «fisica» e antropologica è fatto il «realismo» (come disposizione a considerare prioritariamente i bisogni legati all’autoconservazione): entro il suo dominio, all’uscita della caverna, l’immaginazione ha dovuto cercare «nuovi spazi protetti, istituzionali più che fisici» per dispiegarsi, il che significa «costruire le condizioni d’esistenza dell’immaginazione con lo strumento dell’immaginazione»,17 escogitare altre forme 11 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 57. 12 Ivi, p. 59. 13 Cfr. ibidem. 14 Traggo questa dicotomia di matrice sociologica da Aldo Bonomi, in particolare Il capitalismo molecolare. La società del lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997. 15 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 56. 16 Ivi, p. 44. 17 Ibidem; cfr. B. Accarino, La ragione insufficiente, cit., p. 139.
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di schermatura. Così luoghi di culto sono stati posti sotto la protezione di dèi, città e Stati santificati, monumenti eretti, «distinti e segnati già per i realismi delle prossime guerre».18 3. Il meccanismo della delega e il vantaggio delle istituzioni A partire dalla città come prototipo della sfera politica è lecito domandarsi: è questo il senso ultimo delle «istituzioni»? Proteggere la stabilità di una comunità dalle minacce che provengono dall’esterno (o dall’interno)? Insomma, secondo il lessico del pensiero politico classico, produrre un ordine che conservi la pace e consenta così ai singoli l’esercizio della propria libertà? Bisogna, con Arnold Gehlen, considerare le «istituzioni», grazie all’«esonero» di cui sono portatrici, antropologicamente essenziali in quanto mezzo principale che consente all’uomo – povero d’istinto ed eccessivamente plasmabile – di difendersi dalle minacce esterne come da se stesso, di controllare la propria «diposizione […] alla degenerazione»?19 Da questo punto di vista, se consumano ed erodono porzioni di libertà, ciò che conta è che in cambio le istituzioni «conservano» e stabilizzano.20 Nella sicurezza, e dunque nel nesso protezione-obbedienza, risiede «l’estrema legittimazione della facoltà di impartire disposizioni da parte del potere».21 Oppure, con Adorno, si deve sollevare la legittima obiezione secondo cui i processi di adattamento cui le istituzioni costringono l’uomo contemporaneo conducono a forme non solo di sottomissione, ma di vera e propria deformazione, a fenomeni di atrofizzazione e repressione delle potenzialità, a rapporti nevrotici, di soggezione e subalternità nei confronti della sfera tecnica?22 Come Gehlen, Blumenberg è sensibile alle difficoltà che inducono gli uomini a desiderare esoneri. Un punto che Adorno nuovamente problematizza, suggerendo che proprio le istituzioni e il loro «strapotere» inducano negli uomini il bisogno di essere esonerati: in una sorta di «identificazione con l’aggressore», essi si rifugiano e cercano riparo proprio presso quella 18 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 45. 19 A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore 2004, p. 30. 20 Cfr. T.W. Adorno, A. Gehlen, La sociologia è una scienza dell’uomo? Una disputa, in T.W. Adorno, E. Canetti, A. Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano 1995, p. 102. 21 A. Gehlen, Le origini dell’uomo, cit., p. 78. 22 T.W. Adorno, A. Gehlen, La sociologia, cit., pp. 102-103.
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società, quel potere, che li ha oppressi e scacciati.23 Blumenberg è per molti versi distante da Adorno, ma nonostante ciò, si potrebbe dire, entrambi si mantengono nel solco dell’illuminismo; tenere a mente il monito adorniano nei confronti dello strapotere delle istituzioni può essere utile per comprendere come Blumenberg si distanzi da Gehlen, pur condividendone alcuni assunti importanti (oltre a – come si è visto – numerose premesse antropologiche). Al termine di Höhlenausgänge egli si sofferma sulle tesi gehleniane, traendone una definizione ampia di «istituzione» come concetto che designa «ogni abitacolo che si possa stabilire e fondare, di tipo materiale o di tipo spirituale». Istituzione è tutto ciò che riduce il «bisogno di elaborare la realtà», che offre «nuovi dispositivi di sicurezza» alla vita esposta, dunque un dispositivo di matrice antropologica prima che politica, grazie al quale soltanto si aprono spazi eccedenti disponibili per l’evasione, l’avventura, l’ascesa, si potrebbe dire la libertà. Se si interpretano queste tesi come un’ultima possibile variante dell’allegoria platonica della caverna, i fabbricanti di ombre (alias: le istituzioni), benché certamente sospetti di sfruttare la stupidità e la fragilità umana, soddisfano prima di tutto il «bisogno di immagini» dei prigionieri. Al proprio pubblico di incatenati-incantati non offrono solo intrattenimento e varietà, ma soprattutto orientamento, affidabilità, fiducia.24 Blumenberg ammette dunque che il «vantaggio delle istituzioni» consiste nel fatto che consentono «di non dover intervenire personalmente in ogni cosa». Su questo occorre essere onesti prima di disporsi spensieratamente alla loro delegittimazione o dissoluzione. Il rifiuto nei confronti dei meccanismi di delega e di rappresentanza risponde a un «rigido realismo dell’immediatezza» che pretende di partecipare a tutte le decisioni, rimuovendo il fatto inaggirabile che queste forme d’«arte di vivere»25 hanno a che fare innanzitutto con l’«esilio ambientale» dell’uomo. La delega, prima che un meccanismo utilizzato da alcuni sistemi politici, è un bisogno antropogeneticamente fondato, apparso fin dal momento in cui divenne di vitale importanza ispezionare l’orizzonte con la massima copertura possibile. Fintanto che si accetta di essere-nel-mondo, piuttosto che rinunciare a esso, la «funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza mondana» non può venire interrotta. Ma la prestazione più efficace dell’intersoggettività risiede, più ancora che nell’accordo simultaneo, nella delega che ne consen23 Ivi, p. 106. 24 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 621. 25 H. Blumenberg, Elaborazione del mito, cit., p. 29.
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te la profondità temporale. Essa origina – come mostrato in precedenza – dal «gesto dell’indicare» come «ritrarsi primario dall’esclusività del possesso corporeo», fondamentale passaggio intermedio dalla «presa» (Ergiff) al «concetto» (Begriff). Indicare il punto da cui l’assente potrebbe giungere, prevenire il pericolo senza il bisogno di toccare, «venire alle mani»; ma anche indicare a qualcun altro la direzione in cui avventurarsi per ispezionare l’orizzonte e allargarne la prospettiva. Da qui la delega come atto dell’«indicare una persona» per cederle e trasmetterle qualcosa di cui non ci si fa più carico. La delega si mostra come una «sottofunzione dell’actio per distans», del fatto che per vivere non sempre occorre «trovarsi sul luogo del delitto».26 Non serve all’uomo, fin dai primordi della sua uscita dal «mondo-della-vita» silvestre, che tutto il gruppo, l’orda o la famiglia siano impiegati nella funzione sociale di far fronte all’ignoto.27 Al contempo, la visibilità ci rende collocabili, fa sì che possano esserci attribuite responsabilità e fonda il mandato che assegniamo all’altro nel meccanismo di riconoscimento. Responsabilità e delega, le più importanti istituzioni umane, hanno la medesima origine nella visibilità e, se paiono contraddirsi, ciò dipende dal paradosso costitutivo per cui «l’uomo è quell’animale che vuole fare tutto da sé, ma per farlo deve delegare tutto ciò che può – per poi subito rammaricarsi di non poterlo più fare da solo. La quintessenza di questa delega» – prosegue Blumenberg – «è lo Stato, il rammarico dei cittadini nei suoi confronti è il potenziale delle utopie».28 Addirittura – ironizza Blumenberg – sul principio di delega s’infrange il tabù della critica alla divisione del lavoro e del riferimento – carico di coloriture rousseauiane e romantiche – a un’ipotetica dimensione ideale (un «mondo-della-vita») in cui ciascuno sarebbe in relazione con tutti e con la totalità dei compiti e dei prodotti.29 A quanto pare il concetto di Lebenswelt è entrato a far parte del «gergo esclusivo degli amici del proletariato»,30 assumendo i tratti da Fata Morgana di un mondo perduto sotto la coercizione della costruzione d’identità, che avrebbe alienato la vita a se stessa usurpandone la pienezza. Blumenberg individua qui una forma di recupero del marxismo, probabilmente proprio di matrice francofortese, che mischia Hegel con Kierkegaard e riflette usando «la logica della lotta di classe».31 Al con26 27 28 29 30 31
H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 598. Cfr. H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., pp. 151-153. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 508. Cfr. H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 153. Ivi, p. 227. Ivi, p. 230.
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trario, anche la divisione del lavoro è antropologicamente fondata sul principio di delega e sulla possibilità di non impiegare in ogni attività la totalità della persona. Se dover vendere la propria forza lavoro non è certamente «la fortuna della vita»,32 è pur sempre meglio che vendere se stessi per vivere, oppure offrire se stessi per risarcire un danno, o pagare una multa. E il denaro, a sua volta, è un’istituzione che sta in stretto rapporto con la capacità umana di delegare e assumere prestazioni. In generale si tratta di guadagnare tempo, di far fronte alla propria finitezza, il che spiega anche come mai i rappresentati spesso accettino le azioni dei rappresentanti anche qualora si discostino palesemente dal loro volere: la fiducia e l’identificazione non bastano a spiegare il fenomeno, bisogna presupporre che esso conservi la propria legittimazione nella misura in cui consente di guadagnare tempo rinunciando a certe competenze ed espressioni della volontà. L’impossibilità della delega scaraventerebbe nuovamente l’uomo nelle caverne quanto il suo abuso. Il principio secondo cui ciascuno è sostituibile deriva di certo dall’idea di uguaglianza, la sua applicazione è però anche motivo di scandalo per chiunque sia in grado di azzardare l’idea di divenire insostituibile. […] Non si sarebbe arrivati al pieno sviluppo di questa specie a rischio, l’Homo sapiens, se le sue necessità non avessero potuto essere sempre sostituibili. […] Se ciascuno deve essere sostituibile, è pur vero che ognuno vuole essere insostituibile. In questa scissione dell’esserci si sviluppa una terza idea: quella della rappresentanza. L’insostituibile non deve fare da sé ciò a cui è preposto: può ricorrere al mandato e in virtù della delega lasciare che sia come se fosse lui ad agire e ad agire per gli interessi altrui.33
Il binomio eguaglianza e libertà, una delle opposizioni chiave della moderna filosofia politica, è qui risolto semplicemente mediante la sintesi operata dalla rappresentanza. Al di là dell’imbarazzo di fronte a una soluzione così sbrigativa, qui emerge un problema che si potrebbe definire servendosi delle categorie proposte da Roberto Esposito per una critica all’antropologia filosofica. Questa, applicando il concetto di compensatio all’originaria carenza dell’essere umano, conduce all’assunto secondo cui, per la propria conservazione, la vita umana ha bisogno di «oggettivarsi», «esteriorizzarsi» in forme che trascendono il suo semplice darsi, di costruire «un ordine artifi32 Ivi, p. 153. 33 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 49; anche in Id., Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 173.
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ciale che la scarta rispetto a se stessa». Ma in tal modo l’«immunizzazione antropologica» perviene a un «esito anticomunitario»:34 la comunità in quanto tale è insostenibile;35 per resistere al rischio entropico che la minaccia, va sterilizzata nei confronti del suo stesso contenuto relazionale attraverso il consolidamento di forme (ruoli, norme, istituzioni), producendo un «eccesso di mediazione istituzionale».36 Insomma, la «semantica della compensazione» slitta in quella dell’immunizzazione.37 Nel caso di Gehlen, il paradigma immunitario non procede semplicemente per chiusura difensiva, come nell’immagine della città fortificata, ma si impone soprattutto tramite il principio dell’esonero,38 laddove per esonerarsi compiutamente l’individuo deve esonerarsi da se stesso, scaricando le decisioni sul «dispositivo sociale» di cui è parte e liberare energia per prestazioni superiori.39 Ciò significa che l’espansione della libertà è direttamente proporzionale alla crescita dell’apparato istituzionale e di un codice di abitudini e automatismi: la libertà «scaturisce dalla stessa necessità che la trattiene», trova il proprio spazio entro una «tendenziale eteronomia».40 Di sicuro, così intesa, libertà non è autonomia in senso kantiano, né partecipazione. Benché a proposito di Gehlen affermi che il suo «assolutismo delle “istituzioni”» riporta l’antropologia al proprio punto di partenza (il modello del contratto pubblico, in cui si presuppone che lo stato «naturale» sia in contraddizione con la possibilità stessa dell’esistenza umana); benché ammetta che il dibattito su tale antropologia non ha chiarito se «questo fatale ritorno sia inevitabile»;41 benché scriva che, in generale, la retorica dell’«“insicurezza” universale» testimoni come «la mera insaziabilità nel bisogno di nido invada le aspettative della scienza e della politica»;42 benché sia convinto che un’eccesso di delega rischi di rovesciarsi nella liqui34 R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, p. 16. 35 Cfr. R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 2006, in particolare pp. VIIXXXII. In verità, il negativo dell’immunitas, la communitas, ne costituisce l’oggetto e il motore: l’immunizzazione è l’ingranaggio interno della comunità (Id., Bíos, Einaudi, Torino 2004, p. 48), che per sopravvivere ha bisogno di introiettare il proprio opposto. Questo meccanismo nascosto altro non è che la sovranità. 36 R. Esposito, Immunitas, cit., p. 17. 37 Ivi, p. 99. 38 Cfr. ivi, p. 125. 39 Ivi, p. 127. 40 Ivi, p. 128. 41 H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 95. 42 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 43. Corsivo mio.
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dazione di ogni «resto di diritto del privato»;43 nonostante tutto ciò, anche a Blumenberg interessa soprattutto garantire uno spazio di agibilità per l’esercizio di quel diritto. Il punto è allora una modulazione dell’intensità d’intervento delle istituzioni, una limitazione e costituzionalizzazione dei poteri che consenta ai singoli di disinteressarsi di molte questioni con una certa dose di spensieratezza e dedicarsi a ciò che può arricchire la loro esistenza nel breve tempo che hanno a disposizione prima di morire. Tuttavia quest’esito apparentemente banale va osservato lungo le sue articolazioni e i momenti che vi conducono, per mostrarne le nuances e gli elementi di originalità. 4. Antiassolutismo e antitotalitarismo Per Blumenberg non si tratta di sposare l’«assolutismo perfetto»44 delineato da Hobbes, basato su un «atto di sottomissione volontaria»45 e di delega allo Stato sovrano di tutto ciò che il singolo non ritiene di poter fare da solo, in cambio di una garanzia di sopravvivenza. Se non altro perché ciò implicherebbe – paradossalmente – la cessione del «potere definitorio», della sovranità nell’uso della ragione e nella decisione (gravida di conseguenze biopolitiche) su che cosa e chi sia o non sia un uomo, su dove cominci e dove debba terminare una vita.46 Se la vita si difende e si sviluppa solo allargando progressivamente il cerchio della morte, il biopotere può giungere fino al punto (come nel caso della «tanatopolitica» nazista) di separare coloro che devono restare in vita da coloro che vanno respinti nella morte, instaurando un nesso causale tra le due condizioni, in virtù di un confine intraspecifico posto all’interno della dimensione umana: si individua «il non-uomo nell’uomo», con uno «scambio incontrollato tra norma biologica e norma giuridico-politica.47 Tornando alla terminologia blumenberghiana, il punto è che il delegante non dispone affatto della facoltà di rispondere alla «questione di fondo dell’antropologia»,48 cioè chi e che cosa sia un uomo, dunque non si vede 43 44 45 46
H. Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, cit., p. 155. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 506. Ivi, p. 505. Sul potere biopolitico di «far vivere o respingere nella morte» cfr. M. Foucault, Storia della sessualità, vol. 1, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2001. 47 R. Esposito, Bíos, cit., p. 126. Esposito rielabora qui le riflessioni di M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 206-227. 48 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 506.
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perché dovrebbe delegare qualcosa che non è nemmeno potenzialmente di sua competenza. Checché ne pensasse Hobbes, il potere definitorio non è mai delegabile, e «per ciò che non si può delegare nessuno ha la competenza».49 Quando ciò accade si entra precisamente in una variante della «dialettica della visibilità» che potrei definire «dialettica dell’autoconservazione» e che comporta la trasformazione della difesa in assolutismo, dell’istituzione in istituzione totale, che decide arbitrariamente chi sarà sommerso e chi salvato, senza odio né banalmente in ragione del pregiudizio, bensì per la più alta necessità dell’autoconservazione.50 Qui, lo sterminio stesso diviene forma perversa della Selbsterhaltung, si fa «zoopolitica», nel senso della «disinfezione sociale».51 Nel sovvertimento totalitario, l’assolutismo si accosta alla «prevenzione assoluta»:52 la psicosi preventiva si rivela – a conti fatti – il rovescio della sicurezza. Alla luce di tutto ciò la «limitazione della possibilità di delegare» auspicata da Blumenberg ha una fondamentale «funzione di difesa» contro ogni tentazione totalitaria e assolutistica, ossia contro «il presunto diritto ad approfittare o far approfittare della funzione delegata».53 In altre parole, se il potere condivide col mito la facoltà di definire, «dare nomi alle cose», del mito dovrà condividere anche il carattere dubitativo, relativo, parziale, politeistico, plurale, che rimanda alla divisione dei poteri.54 Resta il fatto inaggirabile che «tutta l’antropogenesi si basa sul principio della delega» e che ciò costituisce «la radice antropologica dello Stato»,55 fonda il suo potere e rende meno inaudito il fatto che questo, spesso e volentieri, si discosti assai dalla mera funzione della rappresentanza. 5. Il binomio amico/nemico Se la barbarie non è giustificabile a partire da sentimenti innati, ma si compie grazie alla mediazione di diagnosi, ideologie, teorie e decisioni, dobbiamo tornare criticamente ai «concetti del politico» schmittianamente intesi, ossia ipotizzare che essi siano insufficienti o addirittura fuorvianti 49 Ivi, p. 508. 50 Cfr. H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., pp. 150-151. 51 R. Esposito, Bíos, cit., p. 123; cfr. H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 243; Id., Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 145. 52 H. Blumenberg, Concetti in storie, cit., p. 171. 53 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 509. 54 Cfr. C. Bottici, Filosofia del mito politico, cit., p. 131. 55 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 508.
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nel definire la sfera politica. L’«inimicizia» infatti – esplicita e chiarisce Blumenberg – è sì una categoria politica,56 ma in primis l’antonimo, l’«amicizia», è una categoria antropologica, ossia definisce un rapporto tra esseri umani pre-politico, o meglio impolitico;57 in secondo luogo l’inimicizia stessa e con essa il ‘politico’ hanno radici antropogenetiche che vanno osservate attentamente. Il binomio amico/nemico descrive una polarizzazione sorta dalla fretta che connota tutti i pregiudizi. Essa coincide con una «prima occupazione» del «terreno antistante lo strumentario concettuale»58: la creatura mortale gettata negli spazi aperti della savana, sottoposta a severe esigenze temporali, non può permettersi la perizia di un’attenta e approfondita valutazione di ciascuno a partire da un atteggiamento di indifferente neutralità; è invece costretta a «decidere rapidamente per l’inimicizia», mentre solo concedendosi un arco temporale più lungo può verificare e stabilire l’amicizia. «La totalità delle conseguenze della decisione immediata, con tutti gli aspetti preventivi e gli aggravi successivi, costituisce il “politico”» schmittianamente inteso.59 Se nemico è «presuntivamente chiunque si avvicina», la scena originaria è «assolutamente politica»,60 in quanto priva di passato: solo in virtù di un passato rammemorato, ossia in seguito al riconoscimento di qualcuno che già si conosce, la categoria antropologica dell’amicizia può intervenire a emendare il verdetto precedente. Ma tutto ciò riguarda una situazione che coincide col cominciamento o, in alternativa, con una patologica perdita di fiducia in un’«adeguata economia» della razionalità.61 Detto più brutalmente: la civiltà consiste nel premiare e valorizzare le deviazioni – per quanto ciò possa apparire il segno di una ragione insufficiente –, poiché solo queste le consentono di «umanizzare la vita», mentre «la pretesa “arte di vivere” della via più breve è, nella consequenzialità delle sue esclusioni, barbarie».62 Le dinamiche della politica moderna sono estranee alla logica dell’amicizia e conservano un legame debole e mediato con quella dell’inimicizia. 56 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 87-165. 57 Cfr. C. Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Le categorie del «politico», cit., in particolare pp. 195-96 (dove Schmitt propone la sua ricostruzione dell’origine dei termini Freund e Feind). 58 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., pp. 565-566. 59 H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 153 (già pubblicato in H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, cit., pp. 345-348). 60 H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 153. 61 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 566. 62 H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, cit., p. 131.
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Che si parli di «amicizia tra i popoli», ignorando che solo in sua assenza i malumori «diplomatici» promettono di restare tali e non degenerare, deriva solo da un riflesso condizionato a basare le proprie interpretazioni su qualcosa che «ciascuno conosce “per propria intuizione”»63 e a immaginare le azioni politiche fondate su un fattore che a sua volta non ha alcuna consistenza politica: la fiducia. Dall’altro lato, se non occorre simpatia per conservare la pace, per stipulare trattati, non c’è alcun passaggio graduale e obbligato dall’ostilità all’omicidio e alla persecuzione e, se è vero che l’Ursituation ha insegnato all’uomo a diagnosticare e agire preventivamente, gli ha mostrato anche come molto più fruttuoso, allo scopo dell’autoconservazione, sia esitare e sostituire. «Tutta la sfera politica è una realtà derivata, e altrettanto lo sono le sue categorie»,64 le quali non portano necessariamente con sé tutto della loro origine. Perciò risalire all’antropogenesi serve anche a far luce sull’emergenza di quella «realtà derivata», sul delinearsi, sull’evolversi e sull’eventuale pervertirsi dei suoi compiti. E – implicitamente – a confutare la derivazione teologica del moderno alla base del paradigma schmittiano della secolarizzazione: il binomio amico/ nemico descrive una condizione di partenza in cui è sempre possibile ricadere, ma non è il perno immutabile di traslazioni che si succedono l’una all’altra fino al dislocamento che, riconoscendolo o neutralizzandolo, ha animato il percorso dell’umanità europea dalla teologia cinquecentesca, alla metafisica del 1600, fino alla morale umanitaria dell’età dei Lumi e all’economia dell’‘800.65 6. Autoaffermazione vs. teologia politica: volontarismo vs. decisionismo Se è vero che l’operazione di legittimazione del moderno è compiuta su un piano storico-fenomenologico, quando scrive Die Legitimität der
63 H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 146 (questo brano è stato ripubblicato sulla base della versione manoscritta, lievemente diversa, e col titolo originario, Si deve anche poter non amare, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., pp. 134-142). 64 H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, cit., p. 146. 65 Cfr. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del «politico», cit., pp. 167-183; M. Revault D’Allonnes, Sommes-nous vraiment «déthéologisés»? Carl Schmitt, Hans Blumenberg et la sécularisation des temps modernes, in «Les Études philosophiques», n° 68, 2004, p. 27.
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Neuzeit,66 inserendosi polemicamente nel dibattito sulla secolarizzazione, la posta in gioco per Blumenberg non è solo dirimere una controversia terminologica e metodologica per meglio comprendere un’epoca, ma soprattutto confutare le tesi di colui che considera un oppositore non solo filosofico, ma anche politico, forse, addirittura un nemico:67 contestare la teologia politica di Carl Schmitt – nella quale Blumenberg ravvisa una dose specifica di «pericolosità» – e, con essa, la legittimazione dell’assolutismo politico compiuta attraverso un uso improprio e letterale di quelle che a tutti gli effetti sono e devono restare metafore. Grazie alla teoria della secolarizzazione, la teologia politica si mostra come strategia attiva di giustificazione del politico tramite traslazione e attribuzione a esso del carattere fatale e indiscutibile dell’assolutismo teologico, rendendo così «invisibile l’arbitrio dei suoi provvedimenti».68 La dinamica della «rioccupazione» (Umbesetzung) è legata a una situazione costitutiva di miseria del linguaggio e inerzia della coscienza, che produce «metastasi terminologiche»,69 fenomeni di residualità e sopravvivenza delle espressioni linguistiche ben al di là del tempo in cui aveva senso «prenderle alla lettera». Perciò accade che «la causa dell’assolutismo politico» divenga nota e sanzionata grazie alla familiarità dei contemporanei con il linguaggio dell’assolutismo teologico e che, appunto, «si possa di nuovo prendere alla lettera ciò che era già divenuto metaforico», con esiti «storicamente produttivi».70 In tal senso si ha non la secolarizzazione che vorrebbe Schmitt,71 ma il processo inverso: la «fenomenalità teologica dei 66 Dopo la prima edizione del 1966 ne esce, nel 1974, una seconda, aggiornata alla luce della reazione di Carl Schmitt e al suo testo del 1970: Politische Theologie II. 67 Cfr. J.C. Monod, Hans Blumenberg, cit., p. 210. 68 A. Schmitz, M. Lepper, Logica delle divergenze e tracce di comunanze. Hans Blumenberg e Carl Schmitt, in H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 210. Per una chiara comprensione della posizione di Schmitt si veda C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996, pp. 333-459; in particolare sul confronto con Blumenberg cfr. pp. 412-414. 69 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 69. 70 Ivi, p. 96. 71 Così come definita dalla celebre formula di Politische Theologie (1922): «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del «politico», cit., p. 61). Molto più condivisibile – secondo Blumenberg –, ma sostanzialmente diversa, la nuova formulazione del principio in Politische Theologie II (1970) nei termini di una «parentela strutturale» tra concetti teologici e giuridici (cfr. C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992, p. 83,
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concetti politici» è «conseguenza della qualità assoluta delle realtà politiche»72 e l’uso che esse fanno del linguaggio teologico sanzionato è al servizio della comprensibilità di esigenze, familiari a quel vocabolario e al suo orizzonte di riferimento, ma rifiutate e negate dal razionalismo illuminista. Accusando la razionalità moderna di «plagio» nei confronti della stessa teologia che apertamente aggredisce, i sostenitori della secolarizzazione – Schmitt nella fattispecie – ritengono, con un gesto che ha molto di platonico, di operare una sorta di «anamnesi», una «restituzione attraverso il riconoscimento [di un] rapporto di indebitamento»:73 essi ostentano di conferire al moderno la sua «identità storica», il cui carattere precipuo riposa proprio nel fatto che è acquisita «con altri mezzi»74 rispetto a quelli dell’auto-affermazione. Da tale operazione traggono perciò una teologia politica, che tuttavia cela piuttosto una «teologia come politica»,75 una forma di giuspositivismo che si serve di tale presunta profondità storica per sottrarre allo sguardo la «contingenza delle disposizioni positive»,76 cercando per esse «un aggancio al fondo dell’indiscutibile».77 In realtà, il volontarismo moderno applicato alla fondazione del vero è legato a un contesto di Selbstbehauptung e al postulato dell’«autoproprietà della verità tramite l’autogenerazione»:78 in tal senso esso incarna «l’instabilità istituzionalizzata del potere assoluto»79 e si pone al polo opposto rispetto al decisionismo, ove tutte le decisioni sono «sempre già state prese».80 Il Führer, che aspirava alla «definitività politica», voleva decidere della storia una volta per tutte. In ciò ha mostrato il punto più estremo del decisionismo, che è però anche il punto in cui la politica è messa sotto scacco: per Hitler «la politica non era destino», ma solo un surrogato del
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nota 1; cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 100). Per un’interpretazione diversa da quella blumenberghiana di questa evoluzione teorica rimando a M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 624-637; cfr. anche C. Galli, Genealogia della politica, cit., p. 13. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 98. Corsivo mio. Ivi, p. 78. Ivi, p. 103. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 104. Ivi, p. 79. Ivi, p. 104. Ibidem.
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destino e di una vita che si dà esclusivamente come unica vita che reclama per sé la totalità incondizionata.81 7. How to do nothing with words: mitigazione del potere attraverso la retorica La celebrazione schmittiana della decisione, del sovrano e dello Stato in quanto katechon, ossia forza che trattiene il caos, va dunque decostruita. E con essa – afferma Blumenberg in un articolo del 1968, Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie – il marchio d’infamia che grava sulla politica quando sembra coincidere con la «pura retoricità». Non è forse meglio una politica di sole parole, che sappia «congelare» i conflitti e trasformarli in mera intimidazione, sostituendo i «proclami» alle «decisioni»? Piuttosto che sopravvalutare «il repertorio tradizionale della “realtà” politica», la sua – spesso funesta – «gioia di decidere»,82 converrebbe spesso apprezzarne la mera simulazione.83 In mancanza di una «pace perpetua», frutto di un grande e consapevole sforzo dell’umanità, alla guerra è pur sempre preferibile la «pace cattiva» (ma «non la peggiore»)84 scaturita dalla certezza della delusione e della catastrofe che discenderebbero dalla sua violazione, difesa col mantenimento degli eserciti e della leva militare, protetta dalla costante minaccia di una guerra «possibile» (tutti dispositivi che però meriterebbero di esser sciolti all’istante se dovesse fallire la loro finalità). Bisogna insomma pensare a fondo e saper sopportare il paradosso del «potere impotente»,85 ossia la circostanza per cui – scrive Blumenberg – il potere oggi è efficace non in senso classico, coercitivo, in termini di forza, ma come capacità di disporre delle «teste» che «liberamente» acconsentono alla volontà politica, ovvero si sostiene proprio su ciò che in effetti «non si può né ottenere né dominare con il potere»,86 sull’intelligenza spontanea e la facoltà inventiva, come capacità di produrre ideologia e padroneggiare la sfera intellettuale. L’immagine della statualità che trapela alla luce di ciò è allora quella di uno «Stato suggeritore», che deve la sua sussistenza alla 81 H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, cit., pp. 103-104. 82 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, in B. Accarino, Daedalus, cit., p. 132. 83 Cfr. anche H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., p. 97; A. Rivera García, Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo, cit., pp. 143-165. 84 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 132. 85 Ivi, p. 133. 86 Ivi, p. 134.
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«retorica istituzionalizzata» e vacillerebbe se l’abbandonasse per presentarsi come incarnazione dello zoon politikón o come nudo esercizio di potenza.87 Questa «politica delle parole» è una «politica impolitica», se con politica s’intende appunto l’esercizio materiale del potere.88 D’altra parte la trasformazione di conflitti, minacce e aggressioni in «discussione infinita» è un meccanismo antropologicamente fondato cui dovremmo essere avvezzi.89 La retorica è infatti, secondo Blumenberg, quel medium linguistico che si frappone tra l’uomo e la realtà, operando con sostituzioni, filtri, forme di digressione (Umwegigkeit), esitazione e circostanzialità che differiscono o impediscono l’azione90. In tal senso essa nasce, nella perplessità e nell’incertezza causate dalla carenza istintuale e sotto la pressione della sovrabbondanza di stimoli, come «arte della dilazione» e «dell’illusionismo», utilizzando il linguaggio come un «de-realizzatore» che, creando un mondo di apparenze, ci tiene occupati per evitare la coazione all’azione.91 Allora, nella sfera politica, «non è né il potere che risiede nella verità, né la verità che risiede nel potere. Potere significa potentia – e tale deve rimanere: la sua realtà è possibilità». La realizzazione, la decisione, l’atto non è destinazione naturale della potenza, ma al contrario il suo snaturamento, il suo tradimento e la sua fine. Separare etica e politica significa anche desacralizzare le azioni di quest’ultima e ammettere che possano essere «rioccupate» da «quasi-azioni».92 How to do nothing with words:93 questa è divenuta la missione dell’agire politico. Innescare preventivamente discorsi in luogo di azioni e interventi, combattere i concorrenti entro un agone discorsivo e razionale non è – habermasianamente – la quintessenza di una politica fondata sulla ratio comunicativa, orientata dall’intenzione di intendersi, di raggiungere, sullo sfondo di un mondo vitale condiviso, il consenso mediante un uso non strumentale del linguaggio, messo al servizio della comprensione come effetto di un riconoscimento intersoggettivo delle rispettive pretese di validità, basate su ragioni e passibili di critica.94 Al 87 88 89 90 91 92 93
Ivi, p. 135. Ivi, p. 137. Ivi, p. 138. Cfr. H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, cit., pp. 85-112. Cfr. C.G. Cantón, Absolutism, cit., pp. 128-129. H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 139. Blumenberg fa la parodia di un noto testo: J.L. Austin, How to do things with words: the William James lectures delivered at Harvard University in 1955, Londra, Oxford University Press, 1976. 94 Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 v., il Mulino, Bologna 1986.
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contrario, la sostituzione retorica è per Blumenberg la strategia vincente di una politica che sa di dipendere completamente dalla conservazione e dalla tutela dell’efficacia e della credibilità della parola, a prescindere dalla sua veridicità consensuale equamente condivisa, come meccanismo performativo che «depotenzia l’atto». C’è un tratto di realismo pessimista in questa posizione di Blumenberg; per questo, si potrebbe aggiungere, mentre Habermas è un convinto sostenitore delle istituzioni internazionali, egli sembra, in Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie, difendere una politica di equilibrio tra blocchi contrapposti. In ogni caso bisogna porsi come obiettivo il «depotenziamento ontologico dello Stato» inteso in senso forte come «realizzazione dell’idea etica», decostruirlo ri-costruendo e mantenendo «l’aporia del depotenziamento del potere» contro la «falsa delusione» che si accompagna alla sostituzione delle parole ai fatti.95 In altri termini, sarebbe totalmente paradossale immaginare di superare l’assolutismo della realtà, la violenza dello status naturalis riproponendo nuove forme di assolutismo.96 Se dev’esserci passaggio dal caos al cosmo, non deve incarnarsi nello Stato che rivendica la propria «dignità cosmica», ma – come insegna il politeismo olimpico – nella forma costituzionale della divisione dei poteri, che sola garantisce la conservazione dell’ordine e la sua accettazione. Non si può, hobbesianamente, «rinunciare a se stessi per conservarsi».97 Andrebbe invece riletto l’Ésprit des lois, e non come una teoria sulla possibilità dell’emersione dello Stato dalle sue condizioni pre-statuali, ma sulla necessità di «portare lo Stato storico, quale è già dato, alla misura della sopportabilità umana», di «neutralizzare e frenare la dinamica autentica del potere».98 Se la politica nasce come ulteriore sfera protettiva opposta alla precarietà dell’esistenza umana, non può mai mimare la catastrofe naturale, mai assumere i tratti della fatalità, mai soggiogare gli uomini a un potere assoluto, poiché il potere assoluto della realtà è proprio ciò contro cui è sorto come mitigazione. Qui sta, a mio giudizio, il nucleo teorico forte della posizione filosoficoantropologico-politica di Blumenberg, definibile come una «lode del politeismo»,99 applicato – anche attraverso la «fenomenologia della ragione narrativa» sviluppata negli studi sul mito e nella teoria dell’inconcettua95 96 97 98 99
H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 138. Cfr. H. Blumenberg, C. Schmitt, L’enigma della modernità, cit., pp. 116-117. H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 143. Ibidem. Cfr. O. Marquard, Apologia del caso, cit., pp. 37-62.
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lità – al gesto di autoaffermazione della ragione moderna, al fine di scongiurarne il pervertimento in «delirio di onnipotenza».100 La «politeologia»101 che Blumenberg oppone alla teologia politica parrebbe implicitamente farsi carico di una religione civile dei moderni, adeguata alle esigenze di una democrazia pluralista, capace pertanto di immunizzarsi rispetto al rischio – additato dalle teorie della secolarizzazione – che i miti fondatori del moderno divengano più virulenti del dogma di cui intendono sbarazzarsi. Insomma, sembra emergere la questione di una «religione dei moderni non in quanto mitologia della ragione, ma in quanto creazione di uno spazio di convivenza tra ragione e mito, a cui affidare la possibilità di nuove creazioni mitologiche».102 E certamente tale questione non può che essere posta sul terreno della politica e della prassi. Ma tutto ciò rimane in Blumenberg solo abbozzato e suggerito, tocca dunque ai suoi interpreti intraprendere un cammino che conduca, a partire dalle sue indicazioni, a sviluppi e applicazioni ulteriori ma coerenti con esse. 8. Conservazione e utopia Sul terreno della politica, dove a quanto pare si mostrano i nessi più rilevanti tra l’ipotesi antropogenetica, la teoria del mito e della retorica e la questione della legittimità del moderno, Blumenberg mette in scacco Hobbes, Schmitt e Gehlen coi loro stessi mezzi, pensa «con» e «contro» di loro:103 dal bellum omnium contra omnes e dalla precarietà della situazione di partenza giunge al politeismo e alla divisione dei poteri; dalla polarizzazione amico/nemico trae non la confutazione del liberalismo, ma la sua giustificazione; dalla necessità dell’esonero la negazione dell’assolutismo; dall’insicurezza il sospetto sulla decisione e uno smaliziato elogio della retorica. Eppure sembra pervenire alla fondazione antropologica di una certa forma di governo liberal-costituzionale non priva di problematicità. Questo perché sussiste una sorta di rapporto analogico tra modernità e antropogenesi, tra strutture del moderno e strutture antropologiche, certamente problematico benché in ultima istanza consapevole, dato che – come abbiamo
100 G. Leghissa, Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna, Medusa, Milano 2004, p. 280. 101 Ivi, p. 281. 102 Ivi, p. 282. 103 Cfr. P. Bourdieu, Choses dites, De Minuit, Paris 1987, pp. 63-65.
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visto – Blumenberg sa e dichiara frequentemente che ogni antropologia è figlia del suo tempo. C’è un’ulteriore questione: il «soddisfacimento di sfondo»104 (ossia l’appagamento dei bisogni primari assicurato dalle istituzioni fondamentali) che garantisce stabilità e percezione diffusa di sicurezza, può essere «reale o virtuale».105 Blumenberg intende questa «virtualità» in tal senso: bisogna sempre tenere a mente che il principio della delega è legato a un’«economia della coscienza», a una dose necessaria di fuga dal realismo che discende dalla costitutiva inconsolabilità umana. Anche la consolazione, quale necessaria «istituzione per l’elusione della coscienza», fa parte delle prestazioni della delega. Entrambe intrattengono un nesso forte con la retorica, la forma di espressione istituzionale che Blumenberg predilige. E, anche nel caso della sete di consolazione, «lo spettro dei bisogni di un organismo è al contempo misura del suo grado di libertà e individualità»,106 libertà che consiste soprattutto nella possibilità di conservarsi in vita «nonostante la sussistenza della realtà, dunque infine di poterlo fare anche attraverso la finzione (fiktiv)»:107 tramite la compensazione di un’eccedente disponibilità dell’immaginario.108 Blumenberg afferma la necessità e la positività della simulazione anche come forma surrogata di democrazia: va tenuto in considerazione che, in un «mondo sovraffollato», il contatto autentico con la realtà non è più possibile per tutti nella medesima misura ed è il caso di chiedersi, seppur cautamente, se la fruizione dei surrogati non sia comunque meglio del semplice accesso negato alla realtà. Se non ci fosse il teatro lirico col suo pubblico elitario, non esisterebbero nemmeno i dischi e la televisione!109 Questa la sua rassegnata risposta allo scandalo dei rematori sordi che accompagnano Ulisse al di là dello scoglio delle Sirene.110 E tuttavia la tendenza verso l’indistinguibilità di realtà e illusione non può essere sottovalutata111. È sempre in agguato il rischio di scivolare dalla «funzionalità della gestione intersoggettiva dell’esistenza mondana», 104 A. Gehlen, Le origini dell’uomo, cit., p. 57. 105 Ivi, pp. 58-59. 106 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 631. Il passo è tratto da H. Jonas, Philosophical Essays, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1974, p. 196. 107 H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 631. 108 Cfr. ivi, p. 632. 109 Ivi, p. 600. 110 Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, in particolare p. 42. 111 Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, cit., p. 601.
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come «fondo di garanzia per il mondo», alla «rinuncia al mondo» tout court112, agevolata da un dispiegamento degli arsenali della simulazione, dalla sovrabbondanza di informazioni e immagini che fanno sorgere «un “mondo” dei non vedenti perché onniscienti», un mondo di soli esoneri dal reale.113 Le questioni mi sembrano allora le seguenti: fino a che punto possiamo aspirare a trasformare il reale e sbarazzarci di questa compensazione virtuale, di questi «appagamenti immaginari»?114 Non sono anch’essi una forma di quello «strapotere delle istituzioni» additato da Adorno?115 Come vigilare sul potere mistificatorio della retorica, operando smascheramenti? In che modo si può scongiurare la degenerazione della rappresentanza in mera autoreferenzialità, nell’invito a ‘non disturbare il manovratore’? Quanto possiamo emanciparci? Si può denunciare lo stato di cose presente senza ricadere in nuovi realismi e assolutismi? Dove corre il confine tra la minaccia della pace e una giusta esigenza di cambiamento? E se i cittadini, anziché esercitare la propria libertà nella dimensione privata, ambissero a occupare in qualche forma lo spazio pubblico, revocando almeno in parte la delega alle istituzioni? C’è il margine per una critica sociale? Nel testo del ’68-’69, Blumenberg afferma che la pace mondiale, raggiungibile per via «tecnica», è solo il primo passo per poter sperare nella felicità dell’umanità, la precondizione dell’utopia: «a entusiasmare e scatenare le forze costruttive può essere solo quel che potrebbe venire dopo l’acquisizione della pace».116 Rinfacciando al reale le possibilità che ha rifiutato, l’utopia ne confuta la «sussistenza cogente»,117 funziona come istanza di mantenimento dello Stato entro i confini della propria contingenza e mostra che le cose possono essere diverse da come sono, che si può «contestare la coscienza della loro ovvietà».118 Tuttavia, va tenuto presente che, se la trascendenza dell’utopia viene «recuperata nell’immanenza del tempo unico», ovvero di fatto rimossa nel momento in cui è posta al servizio del progresso come «realizzazione permanente di possibilità», essa incorre in un’«atrofia funzionale». La provincia utopica deve restare al di fuori del contesto della realtà. Diversamente, se si 112 113 114 115
H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 614. Ivi, p. 615. Ibidem. Per un’analisi di alcuni aspetti del tema cfr. V. Pavesich, Hans Blumenberg, cit., pp. 167-203. 116 H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello Stato, cit., p. 141. 117 Ivi, p. 142. 118 Ivi, p. 143.
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trasforma in «utopia del futuro» nei termini di «ciò che deve comunque accadere», non può che produrre ottimismo o rassegnazione, atteggiamenti inclini ad «abbandonare la storia a se stessa».119 Detto altrimenti, se l’utopia cede il proprio esotismo per assumere tratti profetici, perde a un tempo tutto il suo potenziale critico: perciò non può dare «insegnamenti su come dev’essere il mondo o lo Stato», ma soltanto su come non devono essere.120 Purtuttavia bisogna prendere sul serio in senso sperimentale l’intenzione dell’immagine della caverna; fatta la tara della qualità mitica che le deriva dalla prossimità con l’origine, occorre – dice Blumenberg nelle ultime pagine di Höhlenausgänge – pensarne ancora l’intento in relazione al nostro tempo: se la situazione data si giustifica in base a un bisogno di autoconservazione, ciò non impedisce di mettere in discussione gli strumenti e le funzioni della retorica, quand’anche questo non dovesse condurre a un grado maggiore di possesso della realtà.121 Un’allegoria della caverna capace di «cogliere la problematicità del presente» dovrebbe, oltre a comprendere in termini antropologici, e non più metafisici, gli oppositori delle verità superiori,122 i fautori della «conservazione», e riconoscere il bisogno di affidabilità che induce a rifugiarsi nelle istituzioni, altresì pensarne il culmine non più nel mondo delle idee, ma nella «fantasia».123 Essa è «lo strumento delle sorprese che l’uomo riesce a farsi»,124 qualcosa che intrattiene un legame segreto con la giovinezza. E se, in quest’allegoria finale, dall’acme della fantasia liberata si tornasse alla caverna dell’abitudine, ciò significherebbe solo «il declivio della perdita di giovinezza, fino alla morte». La fantasia è autistica, è un «organo per altri mondi» e perciò è «incapace di generare vincoli», nei confronti di ciò che si lascia alle spalle come verso quel che è a venire, nel futuro. Per questo, come la sua traduzione coatta in meta del movimento reale della storia, anche il suo volgersi all’indietro è sempre forzato, è un anelito a ritirarsi là dove regna la certezza del ritorno dell’eguale, non ha a che fare con alcuna saggezza o esperienza, coincide soltanto con «la perdita di organizzazione che si ha con l’invecchiare».125 119 120 121 122 123
Ivi, p. 142. Ivi, p. 143. Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 619. Ivi, p. 620. Qui Blumenberg usa come sottotesto ancora gli scritti di Gehlen, in questo caso il saggio giovanile del 1927: Reflexionen über Gewohnheit, in Gesamtausgabe, v. 1, Philosophische Schriften, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1978, pp. 97111. 124 H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 624. 125 Ivi, p. 625.
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L’adultità è un’altra cosa ancora: si conquista «non rinunciando alle sfere, ma imparando ad abitare in modo corretto al loro interno»;126 uscendo dallo stato di minorità senza credere di poter fare a meno delle caverne, ma sapendo che nell’orizzonte del moderno si tratta piuttosto di una «reintegrazione della sfericità […] entro contesti più complessi»127, di demitologizzare senza negare il mito, ma liberando «la perla dalla sua conchiglia teologica».128 Essere adulti significa tener sempre a mente che un andamento virtuoso dell’agon, in equilibrio tra affidabilità e stimolo dell’inusuale, sarebbe il punto d’intersezione desiderabile, il «riferimento della realtà» in grado di fare della caverna l’«istituzione delle istituzioni»,129 e che proprio i riusciti esoneri aprono gli spazi per le promesse, le esperienze esotiche, le sfide sconosciute. 9. Brevi conclusioni La dialettica inesausta tra il binomio ripiegamento-vecchiaia e quello antitetico slancio estatico-giovinezza e il loro appartenere alle forme dell’abitare nel mondo mostrano quel gesto blumenberghiano di antropologizzazione della sfera politica di cui si è parlato in apertura al capitolo. Blumenberg sembra dire che la politica è antinomica perché l’antropologia lo è: la prima eredita dalla seconda l’oscillare di aggressione ed esitazione, riparo e uscita, tecnica e retorica, bisogno di mito e illuminismo, conservazione e utopia. Quelle che noi chiamiamo nel linguaggio del pensiero politico «destra» e «sinistra» sono dimensioni legate da un lato alla Stimmung delle diverse età della vita, dall’altro ai meccanismi di sopravvivenza, in ultima istanza all’opposizione antropologica di «nomadismo» e «sedentarietà». Gli uomini sono per Blumenberg esseri «nomadi» ed «entropici» nella misura in cui devono la loro sussistenza a un gioco complesso di deviazioni «anestetiche», peregrinazioni rese possibili da ricoveri sparsi lungo il tragitto, perciò al contempo è coessenziale all’Umwegigkeit, al divagare e al vagare, la creazione degli spazi interni, di istituzioni dalla funzione protettiva.130
126 127 128 129 130
G. Leghissa, Sulla sferologia di Peter Sloterdijk, in «Iride», n° 63, 2011, p. 440. Ivi, p. 442. P. Sloterdijk, Sfere, I, cit., p. 103. H. Blumeneberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 624. Cfr. B. Accarino, Nomadi e no, cit.
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Il riferimento alla caverna come allegoria antropologicamente fondata del politico, dove i fautori della conservazione delle istituzioni sono anche coloro che permettono la liberazione della fantasia, si potrebbe tradurre in questi termini: la «cultura di destra»131 è per definizione conservazione dello status quo, o addirittura reazione, è naturalizzazione dell’esistente tramite lo strumento della falsa coscienza, ossia della retorica, del linguaggio mitico che eternizza e depoliticizza il presente.132 Tuttavia, allo stesso tempo, è grazie ai suoi solidi puntelli, alla sussistenza di questo mondo istituzionalizzato, che può liberarsi la critica, la fantasia, l’utopia ed è questa tensione la cifra del nostro essere-nel-mondo. La posizione di Blumenberg rispetto a questa dialettica è definibile come un invito alla maturità, alla sobrietà, per utilizzare una formula di Remo Bodei, e alla rinuncia non solo a «utopie di dominio», ma anche «di miglioramento globale della realtà».133 E tuttavia mi piace pensare che anch’egli si considerasse mobile rispetto a questo centro, membro esemplare di quella specie indocile a cui ha dedicato la propria «antropologia dinamica». Non è casuale che chiuda Höhlenausgänge con un’apertura, domandandosi se, forse, non saranno nuovi rapporti di legittimità tra le età della vita a plasmare l’inizio del secondo millennio,134 ossia – credo – se il futuro non riservi una diversa sintesi tra vecchiaia, maturità e giovinezza, tra conservazione, equilibrio e trasformazione …
131 Cfr. F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979. 132 Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, Eianudi, Torino 1994. 133 R. Bodei, Introduzione all’edizione italiana di H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, cit., p. XIX. 134 Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, cit., p. 626. Sulla base di una traduzione modificata rispetto alla versione italiana di Martino Doni.
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FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento 201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione 202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura 203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme 204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti 205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch 206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia 207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero 208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione 209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura 210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea 211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath 212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione 213. Luca Mori, Tra la materia e la mente 214. Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno 215. Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica 216. Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere 217. Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana 218. Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico 219. Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger 220. Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza 221. Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali 222. Liliana Nobile, Democrazie senza futuro 223. Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita 224. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale 225. Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica 226. Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin 227. Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka 228. Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia 229. Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine 230. Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento 231. Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze 232. Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo 233. Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso
234. Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume 235. Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim 236. Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità 237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica
269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità 273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010) 274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher 301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte
302. 303. 304. 305. 306.
Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello Zarathustra di Nietzsche 307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia» 308. Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe 309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi 310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita 311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza 312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche 313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica 314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico 315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione 316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario 317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto 318. Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco 319. Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch 320. Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont 321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) 322. Leonardo V. Distaso - Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo 324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone 325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, 326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto 327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni 328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione 329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter 330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion 331. Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio, etica, estetica 332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena 333. Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino 334. Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio
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366. Jan Spurk, E se le rane richiedessero un re? 367. Petre Solomon, Paul Celan. La dimensione romena, a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Irma Carannante, postfazione di Mircea Ţuglea 368. Luisa Della Morte, Margherita Tosi, Nascere umani. Continuare Reich per i bambini del futuro 369. Riccardo Roni, La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite 370. Emanuele Iula, Carlo Maria Martini. La Parola che rigenera il mondo 371. Cecilia Ricci, Leggere Babele: George Steiner e la “vera presenza” del senso 372. Giuseppe Schiavone (a cura di), L’utopia: alla ricerca del senso della storia 373. Matteo Canevari, Lo specchio infedele. Prospettive per il paradigma teatrale in antropologia 374. Franco Ricordi, L’essere per l’amore 375. Roland Barthes. Il discorso amoroso. Seminario all’Ecole pratique des hautes études 1974-1976 seguito da Frammenti di un discorso amoroso (inediti), Introduzione di Éric Marty, Presentazione e cura di Claude Coste, Introduzione all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio 376. Giovanni Botta, La struttura dell’eterno. Le Mélodies di Gabriel Marcel, Prefazione di Pierangelo Sequeri. Contiene un CD con le trascrizioni e le registrazioni sonore delle Mélodies 377. Francesco Panaro, Contro la cultura. Esseri e universi ben invisibili 378. Riccardo Fedriga, La sesta prosa. Discussioni medievali su prescienza, libertà e contingenza 379. Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio, Con un’intervista a Judith Butler e saggi di Massimo Filippi, Richard Iveson, Marco Reggio, James Stanescu e Federico Zappino 380. Paolo Pecere, Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario 381. Nazzareno Mazzini, La nebbia non c’è più. Passeggiata lungo i film di Milano 382. Aldo Marroni (a cura di), Laure. La sovrana dell’erotismo 383. Voltaire, Premio della giustizia e dell’umanità, a cura di Domenico Felice. Traduzione di Stefania Stefani 384. S. Facioni, S. Labate, M. Vergani (a cura di), Levinas inedito. Studi critici 385. Luciano Ponzio, Roman Jakobson e i fondamenti della semiotica 386. Julia Ponzio, L’altro corpo del testo . Modello sintattico e interpretazione in Jacques Derrida 387. Romeo D’Emilio, Sub-limis e sub-limo. Al limite estremo: fra Goya e Malevič 388. Marco Piazza, L’antagonista necessario. La filosofia francese dell’abitudine da Montaigne a Deleuze 389. Gian Mario Anselmi, Riccardo Caporali, Carlo Galli (a cura di), Machiavelli Cinquecento. Mezzo millennio del Principe 390. Bethania Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, Introduzione di Simona Forti, Traduzione e cura di Enrico Valtellina 391. M. Hess, L. Feuerbach, M. Stirner, K. Fischer, Szeliga, La questione Stirner, a cura di Marcello Montalto 392. Rosario Diana, La forma-reading. Un possibile veicolo per la disseminazione dei saperi filosofici. Resoconto ragionato, programma e strumenti di lavoro 393. Giovanni U. Cavallera, Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come fondamento nell’Impero Romano d’Oriente 394. Luigi Fraschini, Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto. Percorsi
antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale «pre-greca», prefazione di Giulio Giorello 395. Fabio Farotti, Et in Arcadia ego. L’incantesimo del nichilismo in pittura, Prefazione di Emanuele Severino 396. Andrea dal Sasso, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, prefazione di Emanuele Severino 397. Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale 398. Marco de Paoli, Il soggetto eroico e il suo sguardo da lontano. Sul possesso e sull’oblio di sé 399. Günter Figal, Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia, edizione italiana a cura di Antonio Cimino, postfazione di Luca Crescenzi 400. Onorato Grassi e Massimo Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive 401. Luca Casadio, L’arte della psicoterapia e la psicologia dell’arte. Per una psicologia narrativa 402. Sergio Sorrentino, Oltre la ragione strumentale 403. Thomas Percival, Etica medica. Ovvero un Codice di istituzioni e precetti adattati alla condotta professionale dei medici e dei chirurghi, a cura di Sara Patuzzo, traduzione italiana di Giada Goracci, con la collaborazione di Sebastiano Castellano 404. Pierpaolo Lauria, Leopardi Filosofo maledetto, prefazione di Alberto Folin 405. Virgilio Melchiorre (a cura di), Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, con la partecipazione di Sibilla Cuoghi, Anna Ferruta, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza 406. Mario Augusto Maieron e Giuseppe Armocida, Storia, cronaca e personaggi della psichiatria varesina 407. Georg Simmel, Cultura femminile 408. Francesco Allegri, Gli animali e l’etica 409. Gustav Gustavovič Špet, La forma interna della parola. Studi e variazioni su temi humboldtiani (1927), traduzione e cura di Michela Venditti 410. Maurizio Balistreri, La clonazione umana prima di Dolly. Una fantasia che diventa realtà? 411. Monique Jutrin, Lo zibaldone di Ulisse. Con Benjamin Fondane al di là della storia (1924-1944), traduzione e cura di Anna Carmen Sorrenti 412. Antonio De Simone, L’io reciproco. Lo sguardo di Simmel 413. Mattia Geretto, L’essere e le sue determinazioni. Sulla monadologia di Bernardino Varisco 414. Luigi Ferrari e Luca Vecchio (a cura di), La psicologia critica e i rapporti tra economia, storia e psicologia 415. Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, prefazione di Angelo Panebianco 416. Sergio Solombrino, Intenzionalità ed esperienza nel Wittgenstein intermedio 417. Alice Gonzi, Monique Jutrin (a cura di), Benjamin Fondane: una voce singolare 418. Vinicio Busacchi, La via della creazione. di valore. Nuovi interventi buddisti 419. Rainer Matthias Holm-Hadulla, Passione. Il cammino di Goethe verso la creatività. Una psicobiografia, traduzione dal tedesco e cura di Antonio Staude 420. Enrico Valtellina, Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger come oggetto culturale
421. Sarah Songhorian, Sentire e agire. L’etica della simpatia tra sentimentalismo e razionalismo. Prefazione di Massimo Reichlin 422. Giacomo Leopardi, “Lo stato libero e democratico”. La fondazione della politica nello Zibaldone, selezione dei testi, introduzione e commento a cura di Fabio Vander 423. Sergio Scalia, Quale futuro. Potenzialità e rischi delle nuove tecnologie 424. Felice Accame, Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto 425. A. Berriedale Keith, D.C.L., D.litt., Il sistema . Storia della filosofia 426. Paolo Calegari, La comprensione del sociale. Strategie cognitive e prospettiva sul futuro 427. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità 428. David Baumgardt, Il problema della possibilità nella Critica della ragion pura, nella moderna fenomenologia e nella teoria dell’oggetto, edizione italiana a cura di Luigi Azzariti-Fumaroli 429. Giuseppe Polistena, Diacronia. Appunti per una ontologia del tempo 430. Giuseppe Zuccarino, Prospezioni. Foucault e Derrida 431. Silvia Casini, Il ritratto-scansione. Immaginare il cervello tra neuroscienza e arte 432. Simone Furlani, L’immagine e la scrittura. Le logiche del vedere tra segno e riflessione 433. Carmelo Alessio Meli, Kant e la Possibilità dell’Etica. Lettura critico-sistematica dei Primi Principi Metafisici della Dottrina della Virtù 434. Luca Marchetti (a cura di), L’estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo 435. Teresa Tonchia (a cura di), Lo spettro della fine. Pensare l’Apocalisse tra filosofia e cinema 436. Jean Soldini, Alberto Giacometti. Lo spazio e la forza 437. Paolo Piccari (a cura di), Forme di realtà e modi del pensiero. Studi in onore di Mariano Bianca 438. Gianfranco Longo, Empireo. Dio, i cori angelici e il fondamento blu della creazione 439. Domenico Gallo, Il ribelle del pensiero. Albert Einstein e la nascita della fisica quantistica 440. Martino Feyles, Margini dell’estetica 441. Francesco Gregorio, Giuseppe D’Anna, Alessandra Anna Sanna (a cura di), Filosofia e pratiche dei saperi 442. Tiziana Pangrazi, Ritorno al cielo. L’estetica musicale in Italia dal Trecento al primo Novecento 443. Leo Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima, traduzione e cura di Luciano Arcella 444. Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale 445. Roberto Bertoldo, La profondità della letteratura. Saggio di estetica estesiologica 446. Giorgio Tettamanti, L’eone della cosa. Saggio filosofico da Aristotele a Carl Schmitt 447. Markus Ophälders, Dialettica dell’ironia romantica 448. Luciano Ponzio, Icona e raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall 449. Viola Carofalo, Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro
450. Elisa Cecconi, Ontogenesi molecolare e cellule staminali pluripotenti indotte. Indagini epistemologichce e implicazioni bioetiche 451. Marcello Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’altrove, Festschrift per Giangiorgio Pasqualotto 452. Marco Gigante, Il dovere di non essere sé stessi. La filosofia dell’il y a nell’opera di Emmanuel Levinas 453. Enrico Arduin, Il sottosuolo del presente 454. Giuseppe Craparo (a cura di), Elogio dell’incertezza. Saggi psicoanalitici, prefazione di Franco De Masi 455. Giovanni Gurisatti, L’animale che dunque non sono. Filosofia pratica e pratica della filosofia come est-etica dell’esistenza 456. Ferruccio Rossi-Landi, Linguistica ed economia 457. Lucia Maria Grazia Parente (a cura di), La scuola di Madrid. Filosofia spagnola del XX secolo, prologo di Lane Kauffmann, epilogo di Javier San Martín 458. Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, introduzione di Remo Bodei 459. Susanna Fresko e Chiara Mirabelli (a cura di), Qual è il tuo mito? Mappe per il mestiere di vivere 460. Volker Halbach, Manuale di logica, a cura di Carlo Nicolai 461. Giovanni Valente, Causalità relativistica. Problemi filosofici all’incontro di teoria dei quanti e relatività ristretta 462. Emilio Mazza, Gazze, whist e verità. David Hume e le immagini della filosofia 463. Simona Alagia, Jan Patočka: la responsabilità del pensiero in pratica 464. Danilo Soscia, Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana 465. Paolo Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia 466. Giuseppe Goisis, Dioniso e l’ebbrezza della modernità. Sei saggi su politica e società, prefazione di Luigi Perissinotto 467. Giuliana Mannu, Aldo Capitini filosofo dell’azione e della libertà. Con un carteggio inedito con Augusto Del Noce 468. Massimo Dell’Utri e Antonio Rainone (a cura di), I modi della razionalità 469. Maria Giuseppina Di Monte, Giuliana Pieri, Simona Storchi (a cura di), Visualizzare la guerra. L’iconografia del conflitto e l’Italia 470. Giuseppe Morello, La parola e il Leviatano. Segni, linguaggio e retorica nel pensiero politico di Hobbes 471. Fulvio Palmieri, Troppo umano. Sociologia della genetica 472. Marco Ferrari, Libertà va cercando. Percorsi di filosofia medievale 473. Calogero Caltagirone, Ri-pensare l’uomo “tra” empirico e trascendentale 474. Paolo Calandruccio, Alessio Tommasoli, Guido Traversa (a cura di), Storia della filosofia per consulenti filosofici 475. Claudio Corradetti, Kant e la costituzione cosmopolitica. Tre saggi 476. Francesco Cerrato, Stili di vita. Fonti, forme e governo nella filosofia spinoziana degli affetti
Finito di stampare nel mese di xxxx 2017 da Digital Team - Fano (PU)