Migranti e rifugiate. Antropologia, genere e politica
 9788870432145

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Barbara Pinelli

MIGRANTI E RIFUGIATE Antropologia, genere e politica

www.raffaellocortina.it

Questo libro è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali, Università degli Studi di Milano.

ISBN 978-88-7043-214-5 © 2019 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2019 Stampato da Geca SRL , San Giuliano Milanese (MI) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 0 1 2 3 4 5 2019 2020 2021 2022 2023

Indice

Introduzione Capitolo Primo Antropologia, prospettive di genere e femministe 1. Verso un progetto d’etnografia femminista

Genere identificante, genere disidentificante Gerarchie etnografiche e parzialità della rappresentazione Il punto di vista: implicazioni politiche nella costruzione della conoscenza

2. L’invisibilità delle donne. Studi sul patriarcato e sulla subordinazione

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Sistema patriarcale e subalternità L’invisibilità delle donne e la nascita dell’antropologia delle donne Sex/gender system: l’analisi dell’oppressione

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Storia: silenzio e voce National Black Feminism Movement Intersezionalità, margine, posizionamento

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3. La critica femminista al femminismo 4. La questione razziale (e le sue intersezioni): il femminismo nero

5. La natura politica della metodologia e della rappresentazione: il femminismo postcoloniale Quale soggetto sotto gli “occhi dell’Occidente”? Sull’imperialismo della conoscenza Se le categorie valgono più della storia

6. Eredità, nuove rotte 7. Dove si posiziona l’agency. Quando potere e azione percorrono strade non note

Capitolo Secondo Migrazioni, teorie femministe, genere

1. Punti di partenza 2. L’assenza delle donne nelle ricerche sulle migrazioni e l’assenza delle immigrate negli studi femministi Dal lato delle prime prospettive teoriche

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Indice Guardando al contesto europeo Il posto delle donne (migranti) Se la migrazione è (vista come) la via d’accesso all’indipendenza

3. Donne e Migrazioni?

Studi sul lavoro, sullo sfruttamento e sulla divisione sessuale Indagini sul lavoro salariato delle donne migranti Classe, genere, “razza”, status di migrante Critiche e passaggi

4. Continuità e trasformazioni (delle migrazioni e del genere)

Transnazionalismo e i suoi albori Nuove teorie recuperando l’eredità Gerarchie globali e sfera domestica: le logiche dello sfruttamento capitalista sulle sfere d’intimità Sofferenza di lunga durata, affettività transnazionale. Critiche femministe alla prospettiva del tempo

5. Intersezionalità: critica delle teorie femministe e sulle migrazioni 6. Genere, una chiave analitica 7. Potere e agency. Cosa hanno da dire le donne della migrazione? Non è solo il canone maschile a essere un problema Le rappresento: ma come? Il posto delle donne migranti nelle prospettive teoriche (e nell’etnografia femminista)

Capitolo Terzo Politiche dell’asilo

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1. La questione delle donne e gli studi sui rifugiati Agli inizi Questioni di definizione?

2. Immaginari incorporati sulle donne e gli studi sui campi: destoricizzazione e vittimizzazione 3. Etnicizzazione del genere/genere etnicizzante, ovvero la ricaduta degli immaginari di “razza”, genere e cultura 4. Regimi di in/visibilità e d’in/ammissibilità del dolore (dell’Altra) Etnicizzare la vittima Verso il buon spettacolo Perdere l’innocenza

5. Temporalità e intersezionalità della violenza (di genere)

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Normative e definizioni Prospettive di critica

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Continuità, dimensioni strutturali e intime della violenza Sicurezza dello Stato (dal punto di vista delle prospettive femministe), e la debolezza delle donne (dal punto di vista dello Stato) Corpi politici anche se da proteggere, da proteggere perché politici

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6. Protezione, distribuzione della vulnerabilità, sicurezza

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Epilogo. Il passato, e l’attualità

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Bibliografia

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Ma la pelle della terra non ha cuciture. Il mare non può essere chiuso in un recinto, el mar non si ferma ai confini. Per mostrare all’uomo bianco cosa pensava della sua arroganza Yemaya ha rovesciato con un soffio la rete metallica. (Gloria Anzaldúa, La patria, Aztlàn El Otro México 1987)

Possiamo mettere le rifugiate e le donne che hanno fatto esperienza migratoria al centro della storia per discutere dello Stato, del potere, delle forze sociali e del soggetto, e attraverso le loro esperienze trovare nuove strade di lettura del mondo che ci circonda e anche farne teoria? Possiamo partire dalla loro testimonianza per costruire una rivendicazione comune di diritti? Questo libro intende far dialogare alcuni studi etnografici sulle migrazioni delle donne alla luce dei passaggi storici delle teorie di genere e femministe. In molti modi nel dibattito attuale, genere e migrazione si intersecano. Tuttavia, le genealogie dei due specifici ambiti e ancor più la ricerca empirica sulla loro intersezione hanno conosciuto resistenze e sguardi di sospetto, e al contempo rivendicazioni da parte di chi riteneva invece del tutto rilevante partire dalle donne, dal genere e dalla mobilità umana per discutere delle strutture di dominio e prevaricazione, di subordinazione e lesione dei diritti, di resistenze e lotte. Le pagine che seguono cercano di tracciare queste genealogie mostrando il potenziale scientifico e politico degli studi che hanno accompagnato la migrazione delle donne e delle richiedenti asilo. Dal punto di vista della ricerca e della riflessione teorica, il transito dal campo ristretto “donne e migrazioni” alle prospettive che 7

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hanno inglobato il genere come elemento costitutivo delle migrazioni e come chiave analitica per esplorarle ha allargato gli studi alla costruzione della mascolinità nella diaspora, alla relazione fra mobilità, omosessualità, transessualità, studi gay e lesbici, e infine alle teorie queer. Nel contesto italiano, questi e altri temi hanno ri ricevuto negli ultimi anni attenzione nella ricerca etnografica e nella itinerariflessione teorica sulle migrazioni, seguendo anche diversi itinera ri geografici di mobilità. Rispetto alle migrazioni forzate e agli studi sull’asilo, affermatisi nel dibattito antropologico negli anni Ottanta piutdel Novecento, l’analisi della relazione con il genere è ancora piut tosto scarsa, a eccezione, in particolare nel panorama italiano, degli studi storici che hanno tenuto traccia del rapporto fra lo Stato e i profughi nel corso del Novecento, guardando anche alle esperienze migradelle donne. A livello di dibattito pubblico, il discorso sulle migra zioni appare appropriarsi del linguaggio antropologico – cultura, etnia, identità, appartenenza – senza portare con sé la profonda revisione che ha investito questi concetti nella storia della disciplina. Queste parole – usate di frequente per marcare differenze, legittimare esclusioni, ledere il diritto alla mobilità e la richiesta di protezione – quando intersecano il genere leggono la migrazione come una salita culturale dalla tradizione (dei luoghi d’origine) alla modernità (offerta dai contesti riceventi), ripropongono schemi che intersecano sessismo-razzismo, discutono di modelli di mascolinità, di femminilità o di famiglia stringendo le persone in ruoli di dominio prevaricante oppure di sottomissione. Rispetto alle donne migranti e richiedenti asilo è ancora persistente lo sguardo che le ritrae come soggetti posti al di fuori della storia, le cui traiettorie migratorie conferiscono loro emancipazione, libertà e progresso culturale come se esse e le loro esperienze di vita sociale non avessero chiavi per interpretare tali istanze. Questo testo entra in queste discussioni dal lato delle donne intersecando studi sulla mobilità umana, ricerca etnografica e prospettive di genere e femministe. Poiché i campi teorici e di ricerca considerati sono articolati e consistenti, lo studio proposto non mira a essere esaustivo; esso intende piuttosto tracciare dei percorsi fra gli studi sulla mobilità, l’evoluzione dell’antropologia femminista e le prospettive sull’intersezionalità, mettendo queste ultime al centro della discussione per la capacità di tener conto delle congiunzioni storiche fra diversi assi d’oppressione, in particolare genere, razzismo e classismo, mostrando quanto la loro potenza stia nel raffor-

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zarsi reciprocamente. In senso più ampio, questo libro è un’occasione per mostrare il portato puntuale delle prospettive di genere e femministe per l’analisi dei processi sociali e politici.

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Tracce

Era il 1976 quando la rivista Anthropological Quarterly dedicò un numero speciale alla mobilità delle donne. Il numero, intitolato Women and Migration, fu forse la prima raccolta di saggi etnografici interamente centrata sulle esperienze migratorie delle donne. Era invece il 1892 quando Anna Julia Cooper (1858-1964) pubblicò A South. Educatrice e storica, discendente di schiavi e Voice from the South attivista del movimento di liberazione dei neri, fra le prime donne afroamericane a ottenere il titolo dottorale, Anna Cooper parlò in congiunquel testo di discriminazioni razziali e sessuali, della loro congiun tura e dell’importanza di una trasformazione egalitaria della società. Quella voce si elevava verso la comunità nera, dove le donne erano “la nota muta e senza voce” (1988, p. I), e verso i movimenti delle donne bianche, al tempo legate alla battaglia per il suffragio, che nella loro lotta elitaria avevano cancellato la storia delle donne afroamericane. Sono passati decenni dalla pubblicazione di Women and Migration, eppure le riflessioni sollevate al tempo sono ancora rilevanti. Mettendo al centro le esperienze delle donne, si sottolineò la necessità di pensare alle migrazioni come circolazioni di persone, capitali e modelli che legano luoghi d’arrivo e di origine, e come processi strettamente connessi alle profonde disuguaglianze del capitalismo globale. Tuttavia, per molto tempo a venire lo sguardo pubblico e sovente scientifico sulle donne sarebbe stato riduttivo: le loro esperienze erano lette come percorsi specifici, relegati alla sfera privata e separati dalla storia ufficiale come se le loro traiettorie migratorie e di vita non avessero nulla da dire, né a che fare con processi sociali, politici, economici più ampi, tantomeno con il fare teoria. Judith-Maria Hess Buecheler, antropologa che curò l’introduzione al numero, scrisse che le migrazioni delle donne avrebbero permesso d’indagare l’emarginazione sociale, gli effetti del colonialismo, le conseguenze del socialismo e del capitalismo internazionale. Anche questa lettura tardò a radicarsi: per molti anni, e probabilmente ancora persiste tale convinzione, si considerò rassicurante occuparsi delle donne, perché l’attenzione alla loro mobilità, ritenuta meno pubblica e meno poli-

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tica di quella maschile, come vennero a dire studiose femministe negli anni a venire, sviava l’attenzione dai processi di sfruttamento del lavoro capitalista, come se le donne fossero altra cosa, “qualcosa in meno” (Strathern, 1987, p. 279), rispetto alle dinamiche sociali ed economiche, alle strutture politiche e alla società. Più di un secolo è passato dalla pubblicazione di A Voice from the South, e la storia in seguito tracciata appare scorrere su due strade. La prima ha reso potente quell’eredità: la battaglia politica e teorica del femminismo nero è stata dirompente e necessaria, per sola sua lotta contro il razzismo e per aver rimarcato come non sia so lo “la linea” del genere a cancellare la storia delle donne.1 È invece la questione razziale intersecata al genere, alla classe sociale e ad alal tre oppressioni a costruire storicamente la subordinazione. Quella proriflessione e quella battaglia hanno costruito il terreno per la pro spettiva sull’intersezionalità (ossia: le oppressioni di genere, sesso, “razza”, classe sono fra loro intersecate e solo un’analisi congiunta può mostrarne la potenza). Questa prospettiva ha messo in discussione il significato di “genere” (esso non è neutro dal punto di vista di altre variabili oppressive o di appartenenza), di “soggetto donna” (storicamente definito da diverse coordinate di oppressione e dalla presa di parola dinanzi a esse) e di “potere” (non è solo il dominio patriarcale a colpire le donne, ma questo combinato ad altri assi discriminatori). Istanze sulla metodologia e sulla rappresentazione vennero poi avanzate dai femminismi postcoloniali che rivendicarono quanto le categorie d’analisi e la costruzione della conoscenza prodotta (anche dalle femministe bianche) sulle donne nere, postcoloniali, latine o, più in generale, diversamente posizionate rispetto alle donne bianche euroamericane nella scala del privilegio, fossero fortemente investite dalla disparità di potere economico, politico, sociale e culturale storicamente vissuto da queste donne. La seconda strada appare invece non aver compreso tale complessità di pensiero e ragionamento, o ne ha perso memoria, ren-

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1. Il riferimento è alla “linea del colore” discussa da William E. B. Du Bois (in italiano, vedi la raccolta di saggi del 2010) e alla rilettura che il femminismo nero fece rispetto all’intersezione fra la linea del colore, della “razza”, del genere, del sesso, della classe per sistematizzare quella che divenne la prospettiva sull’intersezionalità. Ricordo che l’espressione “la linea del colore” [color line] – la linea della segregazione razziale negli Stati Uniti dopo l’abolizione della schiavitù – fu usata da Du Bois in The Souls of Black Folk (1903), dove espose anche le sue riflessioni sulla “doppia coscienza” poi riprese da Paul Gilroy (1993) e Frantz Fanon (1952, 1961); l’espressione apparve per la prima volta dalle mani di Frederick Douglass nell’articolo “The Color Line” del 1881 nella rivista North American Review.

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dendo per esempio la mobilità delle donne, le donne migranti e le inrifugiate luogo di profonde rappresentazioni politiche capaci di infrangere la sicurezza degli Stati nazionali. Se proprio, inoltre, quequeste donne intendono entrare nei confini dello Stato, l’unico ruolo loro permesso e riconosciuto è quello di impotenti vittime – come direbbe Chandra T. Mohanty in un’immagine di “splendore a-sto a-storico” (1984, p. 352) – e non di corpo politico. Viene da dire, e in verità è ciò che ho inteso fare in questo libro, sicuche anche per tali motivi sono proprio coloro che infrangono sicu rezze presentandosi sulla scena politica come profughe e migranti, superando le linee del colore, del genere, della classe e altre ancora, a offrire prospettive radicali per l’analisi dei poteri dello Stato, delle gerarchie sociali, dei regimi economici sovranazionali, dell’ineguale distribuzione delle risorse, dei diritti e anche del dolore. Pur essendo il genere definito in antropologia nel suo essere pervasivo, ovvero considerato come un principio strutturante il mondo e insieme da esso strutturato (Moore, 1988, 1994a, 1994b), la relazione con gli studi antropologici è sovente stata scomoda (Strathern, 1987) laddove l’antropologia stessa, e in generale le discipline scientifiche, hanno relegato gli studi delle e sulle donne a lato della storia generale. Tuttavia, già negli anni Ottanta, le prospettive femministe e di genere interpellavano l’antropologia, e più in generale la comunità scientifica, rispetto allo statuto conferito alle donne, alla loro storia e alla ricerca che le coinvolgeva. La questione fu posta anche da Louise Lamphere (2004) sostenendo che indagare la “storia non ufficiale” (costruita da coloro che a più riprese erano messi ai margini della società) della disciplina, ma in generale del sapere scientifico, permetteva di cogliere punti di sviluppo riflessivo ed empirico fondamentali, eppure non messi al centro della discussione teorica e della costruzione del sapere. Da queste riflessioni, nasce il mio punto partenza: quando il soggetto dei nostri studi diventa sufficientemente autorevole, tale da non limitarsi a essere considerato un oggetto interessante di ricerca, ma da assumere uno statuto degno di modificare e innovare modelli interpretativi e prospettive teoriche? Cosa le donne profughe e migranti hanno da dirci sugli studi sul potere, sulla resistenza e sulla società?

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Posizioni

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abbondonandoIniziai a scrivere questo libro qualche anno fa,2 poi abbondonandolo per seguire da vicino questioni riguardanti la mobilità forzata e le politiche di asilo adottate sul confine meridionale d’Europa, misu misurando il loro impatto sulla sicurezza delle donne. Sono state poi le prevaricerche sulle richiedenti asilo e sulle rifugiate, condotte in preva lenza in Sicilia, che sempre più mi hanno coinvolta personalmente esplie scientificamente, a convincermi che fosse necessario rendere espli quecito quanto le prospettive sul genere, in particolare nel porre la que stione dell’intersezionalità del potere, abbiano costantemente fatto lo sforzo di portare il soggetto – nella gamma delle sue espressioni riche spaziano dalla vulnerabilità alla forza – nella storia. La lunga ri cerca sulle richiedenti asilo, e sulle migrazioni forzate più in genera generale, è iniziata con la raccolta delle loro memorie e delle loro voci, per svilupparsi poi lungo una linea di continuità fra un livello di microanalisi e uno di macroanalisi. Il risultato è stato il fatto che mi sono convinta della profonda dimensione (e valenza) politica dei corpi e delle storie delle donne, non solo nel mostrare l’impatto delle politiche di governo delle migrazioni e dei confini meridionali d’Europa, ma nel dar testimonianza di uno scenario venutosi a creare alla fine del Novecento e ancora in corso di evoluzione. Le ricerche sulle richiedenti asilo – compresa un’analisi dei modi con cui sempre più si sta ledendo la memoria dinanzi all’altezza storica dell’istituto dell’asilo – mi ha in questi anni anche costretta a riflettere su quanto fosse centrale, parafrasando Judith Butler (2003), partire dal lutto e dalla perdita per comprendere la politica e il potere (dello Stato, delle istituzioni, dei regimi sovranazionali, delle forze sociali). Nella vastità della letteratura su genere, migrazioni, asilo e su temi a questi connessi, e dinanzi alla ricchezza e alla profondità storica dei femminismi e delle migrazioni, ho fatto delle scelte e collocato queste pagine in un preciso quadro di riferimento. Una parte consistente degli studi empirici e teorici sui processi migratori utilizza l’espressione “femminilizzazione” delle migrazioni, ponendola come caratteristica precipua e distintiva delle migrazioni in età di globalizzazione (Castles e Miller, 1993, p. 33). Agli

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2. Desidero ringraziare Alessandra Brivio, Luca Ciabarri, Alessandra Gribaldo, Claudia Mattalucci, Lucia Manassi, Selenia Marabello e Anna Pramstrahler per aver letto con attenzione queste pagine nel corso della scrittura restituendo preziosi suggerimenti e per i confronti che in questi anni abbiamo condiviso sui temi in esse argomentati.

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occhi di molti, e forse di molte, questa frase assume un significato politico e sociale importante, laddove esprime la volontà di togliere comdall’invisibilità le esperienze migratorie femminili, provando a comprendere le specificità dei loro percorsi. Studiosi e studiose apparte appartenenti ai diversi campi del sapere, saggi pionieristici, testi e ricerche ritenuti fondamentali per lo studio delle mobilità contemporanee evidenziano così di volta in volta la migrazione delle donne come un tratto caratteristico, pionieristico e differenziato, anche nel voler far emergere il ruolo attivo da queste occupato lungo il corso del delprincipalla protratta traiettoria migratoria. Negli ultimi decenni, principal mente dagli anni Ottanta del secolo scorso, molte ricerche hanno transraccontato, per esempio, aspetti centrali come la maternità trans nazionale, le sfere della cura e del lavoro domestico, la parentela; hanno enfatizzato come la presenza femminile nella diaspora, oltre che dal ricongiungimento con un coniuge già residente all’estero, dipenda anche da una ricerca di accresciuta autonomia e indipendenza e dalla capacità di associarsi e di costruire reti di relazioni. Negli anni Novanta, alcune studiose notavano come il numero delle monografie dedicate alle donne immigrate fosse ben più alto rispetto a quello degli studi dedicati agli uomini, o “neutri” dal punto di vista del genere (Gabaccia, 1992; Hondagneu-Sotelo, 2000). Si è così sviluppata un’attenzione specifica e accurata su queste traiettorie che ha attenuato la profonda miopia iniziale e sempre più l’immagine di una forte femminilizzazione delle migrazioni accompagna lo scenario delle mobilità contemporanee. Per chi è impegnato a leggere la mobilità umana volontaria e forzata (per quanto possa valere tale distinzione) in una prospettiva di genere e con uno sguardo femminista, l’espressione “femminilizzazione delle migrazioni” è insufficiente a sostenere un’analisi di genere delle migrazioni, tantomeno invita a un recupero delle riflessioni che hanno caratterizzato le prospettive femministe sin dagli anni Settanta del secolo scorso. Essa rischia di ripetere, invece, gli stereotipi che hanno attraversato la produzione scientifica nei confronti dapprima delle donne e poi del genere come categoria di analisi. L’espressione “femminilizzazione delle migrazioni” dovrebbe, in altri termini, destare dei sospetti: considerare le migrazioni femminili come una caratteristica o un aspetto precipuo, che a un certo punto della storia, molto recente, inizia a connotare i processi

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migratori,3 significa pensare alla mobilità maschile come la normamovilità o il dato universale da cui partire e particolari e specifici i movimenti delle donne, o di altri generi, incapaci pertanto di avere “una funzione specchio” (Palidda, 2008) o di mostrare la mobilità come fatto sociale totale (Sayad, 1999) – che indaga processi e dinamiche più ampie. Eppure, l’intenzione di parlare di strutture di potere e forze sociali attraverso le esperienze e le migrazioni delle donne è stata la via percorsa da molte studiose già dagli anni Ottanta – che, per esempio, si occuparono di maternità e sfera della cura con l’in l’intenzione diretta di produrre una critica importante alle strutture del capitalismo globale e che ben tenevano a mente che la storia prece precedente era stata attraversata dalle donne. miIl discorso pubblico sulle donne immigrate e rifugiate, e sulle mi grazioni più in generale, costantemente riformula prospettive etni etnicizzanti, sovente ancora razziste, dando ancora da sciogliere la “co “coniugazione infernale di razzismo e sessismo” (Nadotti, 1998, p. 7). Nella sua versione edulcorata, stringe i soggetti in categorie omogenee al loro interno – le donne arabe, le rifugiate nigeriane, le donne dell’Est, le vittime velate o quelle da salvare – rendendo una probabile differenza o una provenienza geografica, o ancora condizioni sociali che hanno generato situazioni di sofferenza, tratti distintivi posti come marchio, capaci di portare i soggetti fuori dal tempo storico e dalla materialità dell’esperienza sociale. La letteratura scientifica, da parte sua, soprattutto quando riferita alle richiedenti asilo e rifugiate, vede talvolta persistente un immaginario – forte, reale, che si fa pratica – salvifico e civilizzante, per poi inasprirsi quando queste donne avanzano diritti e una considerazione di sé come soggetto politico. Nella letteratura sulle migrazioni che tratta soggetti femminili – talvolta anche scritta da mani sensibili alla prospettiva di genere/femminista – si avverte un’ombra etnicizzante o culturalista, e un ritorno al genere come principio che identifica le donne in quanto donne. Le espressioni “donne immigrate” o “rifugiate” appaiono talvolta ripetere quelle operazioni analitiche, con le loro implicazioni politiche, e quei processi di costruzione del “paradosso donna” che hanno caratterizzato le prime ondate del pensiero

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3. Le storiche avrebbero qui molto da dire. Per esempio, Gabaccia (1996) e con Iacovetta (2002) ove evidenziano come le migrazioni transatlantiche del Novecento erano almeno per la metà femminili. Nel dibattito italiano, la raccolta curata da Luconi e Varricchio (2015) offre un’utile riconfigurazione storica delle esperienze migratorie delle donne, delle miopie analitiche e delle prospettive di studio.

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femminista, e che negli anni sono state sostituite e criticate da anabilisi processuali, dove il soggetto femminile è capace di eccedere i binari delle appartenenze culturali, religiose, sociali o economiche. Una sorta di sorellanza imposta categorizza spesso l’esperienza di essere donne immigrate. Certamente servono nomi per parlare di esperienze, del mondo sociale e dei soggetti che in esso agiscono. La loro funzione dovrebbe però essere nominare una realtà su cui sgresi è prodotta un’analisi e il loro scopo raggiungere altresì uno sgre tolamento delle categorie, come già insegnava la storica femminista Joan Scott (1991), per mostrarne la variabilità sociale e le gerarchie sulle differenze costruite, più che metterle in ombra. In questo libro cercheremo dunque di spostare l’asse verso una prospettiva politica degli studi sulle migrazioni, nella convinzione geche nelle riflessioni che hanno accompagnato la metodologia di ge nere, i femminismi e la storia degli studi sulla mobilità volontaria e forzata delle donne sia possibile comprendere qualcosa d’importante delle logiche di Stato, dei regimi economici e politici internazionali, dei processi che legittimano il funzionamento di tali sopraffazioni. La profondità temporale può essere uno strumento di difesa rispetto a una lettura del presente che rischia di rimanere ancorata a ciò che accade nella scena attuale, e dunque auto-evidente, rischiando così anche di ripetere tratti del discorso pubblico, anziché proporne un’analisi profonda. In questo senso, il mio obiettivo è riposizionare gli studi che dagli anni Settanta, e rispetto alla questione delle rifugiate in particolare dagli anni Ottanta, si sono occupati di genere, di mobilità, e della richiesta di protezione, per mostrare il loro contributo alla ricerca sulle migrazioni e, in senso più ampio, all’analisi di dinamiche globali, dell’operare degli Stati e dell’economia, delle forze sociali e politiche. Tali contributi ci aiutano a sviluppare una visione critica delle logiche di differenziazione sociale (che sfociano talvolta nel razzismo e nella xenofobia), dello sfruttamento e delle disuguaglianze economiche, del potere degli Stati-nazione e della centralità che la sicurezza ha assunto negli ultimi decenni nelle interazioni fra i cittadini e lo Stato.

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Genere, analisi del potere e metodologia Esiste una letteratura di genere che offre al campo delle migrazioni un approccio analitico capace di andare ben oltre la critica ai discorsi sessisti/etnicizzanti e al genere come principio che identifica soggetti 15

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ed esperienze sociali, aspetti che già di per sé sono importanti. Molto lavoro è stato fatto, in altre parole, dalle teoriche femministe, dalle studiose del genere e delle migrazioni – caratteristiche spesso sovrapposte – e il loro contributo tocca, ha toccato, argomentazioni che si estendono oltre alla questione delle donne. Lavorando su gruppi sociali storicamente resi subalterni eppur capaci di dar vita a battaglie politiche e d’infrangere teorie e modelli che volevano appropriarsi delle loro esperienze, o erano incapaci di vederle, il pensiero femminista e la letteratura sul genere hanno costruito un quadro metodologico e prospettive analitiche che con passo dirompente sono entrate nelle tematiche principali delle discipline sociali – per quanto, essendo tematiche emerse nell’ambito del femminismo, si è pensato a lungo che riguardassero esclusivamente le donne. Partendo dagli anni Sessanta e Settanta, esploreremo i passaggi principali delle riflessioni dapprima sul soggetto donna e successivamente sul genere, guardando alle loro intersezioni con la letteratura sulle migrazioni e gli studi sull’asilo politico, per soffermarci su prospettive che sono riuscite a cogliere – dal punto di vista analitico, storico, dell’esperienza – la capacità delle forze sociali d’intersecarsi (per esempio, lo scorrere della combinazione razzismo e sessismo nella ripartizione del mercato del lavoro, o l’incorporazione nei programmi di Stato di stereotipi di genere e cultura per riabilitare le rifugiate) trasformando questi sguardi in teorie sul potere e sul soggetto. Queste prospettive – sulle connessioni delle sfere del potere e dei modi con cui esse colpiscono distintamente le donne a seconda del loro posto nella storia e nella società – erano già presenti nei primi libri di Angela Davis (1974, 1981), Audre Lorde (1984) e bell hooks (1981, 1984), mentre Cherrie Moraga e Gloria E. Anzaldúa (1981) ponevano questioni sul canone di rappresentazione agli inizi degli anni Ottanta. In un certo senso, ciò che il femminismo nero e i femminismi postcoloniali avevano marcato rispetto alle miopie di genere, “razza”, classe, sesso e altre ancora proprie del femminismo egemonico (bianco ed euroamericano) può oggi presentare un conto storico anche alla letteratura sulle migrazioni e alle sue rappresentazioni pubbliche, rendendo le istanze rivendicate da quei femminismi un angolo in cui mettersi per guardare a queste produzioni del sapere. Nelle fila dell’attivismo, della produzione letteraria, artistica e scientifica, sono stati proprio il femminismo nero e postcoloniale a interrogarsi su concetti centrali – potere, soggetto, relazioni sociali, marginalità, azione, resistenza – sulla metodologia 16

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e sulla rappresentazione, contribuendo in modo imprescindibile alla revisione di teorie (sul modo stesso d’intendere il genere, per fare un esempio) e nel costruire nuove prospettive (per esempio, l’intersezionalità che ha intaccato gli studi sul potere, le metodologie di studio e di rappresentazione). Come secondo punto, è importante comprendere le genealogie per collocare gli studi del presente. Ricordava Paola Di Cori (2000) che probabilmente è stata Joan W. Scott a imporre nel 1986 con Gender: A Useful Category for Women’s History il termine genere alla comunità scientifica, e in senso più ampio al discorso pubblico. Il lavoro di Gayle Rubin The Traffic in Women: Notes on the “Political Economy” of Sex, del 1975, fu indubbiamente il precursore, ma le sue argomentazioni trattavano “un vero e proprio sistema psico-socioeconomico, da lei denominato per l’appunto sex-gender system – un sistema di relazioni sociali in grado di trasformare la sessualità biologica in prodotto dell’attività umana” (Di Cori, 2000, pp. 17-18) che, per essere compreso, chiedeva conoscenza della psicoanalisi, delle teorie marxiste e freudiane, dello strutturalismo francese (si pensi, sottolineava Paola Di Cori, che la prima traduzione italiana lasciò in lingua originale sex-gender system, la stessa parola “genere” rimase senza traduzione). Le storiche invece, oltre a Joan W. Scott anche Nathalie Zemon Davis (1977), lo usarono come tratto distintivo dei ruoli delle donne e degli uomini “in una prospettiva storica e all’interno di un quadro comparativo ad ampio raggio” (Di Cori, 2000, p. 17). È bene però ricordare che il saggio di Gayle Rubin aprì la strada all’antropologia delle donne, campo di studi che gettò luce, e soprattutto s’impegnò nel porvi rimedio, sull’assenza e sull’invisibilità delle donne nel campo della ricerca e negli studi etnografici. Non si fermò a questo in verità, laddove l’occhio critico si rivolse alle categorie interpretative e alla presunzione di neutralità nei processi di costruzione della conoscenza, per poi scavare nelle logiche del dominio patriarcale e nel dato storico della subalternità delle donne. Appare oggi ingenuo lo sguardo dell’antropologia delle donne, forse anche nel suo rimediare allo sguardo androcentrico producendo etnografie sui ruoli delle donne nelle diverse società umane (costruendo in questo senso modelli contestualizzati di sesso e genere, di riproduzione e parentela). Bisogna però ricordare che l’antropologia almeno fino alla fine degli anni Settanta era “dominata dall’idea di dover indagare, in modo privilegiato, realtà di piccola scala, integrate e coese” (Bellagamba, 2000, p. 74). Questo significa che la 17

Introduzione

produzione letteraria e critica va sempre considerata nel suo legame con il tempo storico in cui è sorta. Questa contestualizzazione serve per comprendere il rapporto di filiazione e soprattutto l’effetto che intendono avere le prospettive di rottura (come le teorie di genere e femministe furono e sono) sul contesto in cui sono rivendicate. Essa serve anche per indagare in che modo le prospettive di rinnovamento sono accolte o rifiutate nei campi disciplinari. La relazione fra il sapere prodotto dalle/sulle donne e, in questo caso, l’antropologia non è sempre stata neutrale, e sovente poco è stato riconosciuto il lavoro di profonda revisione mantenuto lungo l’intero sviluppo dell’antropologia delle donne, di genere e femminista. L’antropologia, e in generale le discipline sociali e umane, conobbe per esempio negli anni Ottanta una svolta importante legata a una profonda riflessione sulla metodologia, sulla costruzione del sapere etnografico e sulle forme di rappresentazione. L’antropologia delle donne e femminista, che già stava al tempo avviandosi verso un più ampio campo del genere, sulla scia delle rivendicazioni dei movimenti femministi afroamericani e postcoloniali si fece investire da tali riflessioni. E in verità, su questi ragionamenti era sorta e si era innovata, in dialogo con il sapere prodotto dalle studiose che rimarcavano il peso che gli assi legati al razzismo (storico e attuale), alla classe, all’orientamento sessuale e altri ancora avevano nella rappresentazione delle donne non occidentali o che dalla storia del dominio occidentale erano state profondamente lese. Pertanto, se in quel contesto di rinnovamento e di aporie l’antropologia fatta dalle donne trovò per sé una collocazione, è anche vero che leggendo le pagine di Writing Culture (Cliffora e Marcus, 1986), testo che fu rappresentante della svolta interpretativa degli anni Ottanta, si scopre che la teoria femminista è nominata per giustificare la sua esclusione, in virtù del fatto che, a parere degli autori, essa aveva mancato nel produrre innovazione nella teoria e nella rappresentazione. Tornando indietro, è da ricordare anche che Gayle Rubin parlò di sex-gender system in termini di “dispositivo” e di norme sociali prescrittive e disciplinari che regolano la sessualità per trasformarla in attività umana. Già allora dunque non si trattava solo di registrare le differenze di modello fra culture e la costruzione sociale del genere (peraltro nell’intento di marcare l’universalità del dominio maschile). La spinta verso questa direzione – del dispositivo e della forza delle norme – arrivò con la pubblicazione nel 1976 di Storia della sessualità, in particolare il primo dei quattro volumi, di 18

Introduzione

Michel Foucault (nel dibattito anglofono nel 1978), sebbene la sua riflessione sarebbe stata assorbita pienamente nel decennio successivo. Quel lavoro impose l’impossibilità di considerare il sesso come una natura esistente fuori o prima dei discorsi che al corpo biologico danno significato. Al campo antropologico, questo lavoro offrì un quadro interpretativo che permise di abbandonare l’idea che maschio e femmina fossero due categorie discrete, fisse e immobili, che i generi fossero due e che il paradigma dell’eterosessualità come eteronormatività, compresa l’opposizione binaria dei due sessi, fosse universalmente condivisa a livello sincronico e diacronico. Dal punto di vista del pensiero sul genere e della prospettiva femminista, il lavoro di Michel Foucault fece sentire la sua impronta nei testi fondamentali di Judith Butler Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity (1990) e prima Foucault and the Paradox of Bodily Inscriptions (1989), di Teresa de Lauretis Technologies of Gender. Essays in Theory, Film and Fiction (1987) ed Eccentric Subjects (1990). In dialogo con le istanze rivendicate dal femminismo nero e da quello postcoloniale, il lavoro di Judith Butler, ripreso in antropologia per esempio da studiose come Saba Mahmood per indagare la centralità del corpo come pratica attiva di costruzione del sé devoto (2005, 2009), fondò le teorie della performatività del genere, mentre quello di Teresa de Lauretis contribuì alla riformulazione del soggetto (mobile, molteplice che può anche eccedere i confini delle norme sociali) mettendo in evidenza i limiti del concetto di differenza sessuale, e aprì la riflessione sulle tecnologie di genere intese come quell’insieme di apparati sociali, tecnici, biomedici che s’inscrivono su corpi, generi e soggetti. Entrambe le studiose, e non solo loro in realtà, marcarono un avanzamento rispetto al lavoro di Michel Foucault nel considerare come i discorsi, le tecnologie sociali, gli apparati generassero “sollecitazioni diversificate sui soggetti/ corpi maschili e femminili” (de Lauretis, 1987, p. 133). Percorsi Come primo punto, “genere” significa guardare alla dimensione politica e gerarchica dei processi sociali, e indica un’analisi delle forme di potere e dei loro effetti. Esso non si limita a registrare la presenza del femminile nel mondo, ma entra diretto nella questione del potere. Scrivevano le femministe nere nel loro libro/manifesto But Some of Us Are Brave che la parola “politica” deve essere usata 19

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“nel suo senso più ampio per indicare ogni situazione o relazione fra gruppi o individui caratterizzate da differenza di potere” (Hull, Smith, 1982, p. XVII). La storia del femminismo ha in sé un effetto dirompente. D’altronde, scriveva Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel, “il porsi della donna non implica (solo) una partecipazione al potere maschile, ma una messa in discussione dell’intero concetto di potere” (1974, p. 20). Come secondo punto, “genere” indica allora, e forse soprattutto, una metodologia. Offre in altri termini quadri interpretativi e linee teoriche che danno impostazione alla ricerca empirica comprendendo anche un’analisi critica delle stesse. Discutere di metodologia nel campo del genere significa utilizzare strumenti analitici e categorie esplorative per lavorare sulle relazioni fra soggetti e forme di potere in modo contestualizzato e tenendo conto delle condizioni storiche, culturali, sociali, economiche e politiche all’interno delle quali questa relazione si concretizza. Già nelle sue prime elaborazioni si sottolineava quanto la parola genere dovesse essere usata come categoria analitica esplorativa, e non come il risultato o il punto finale della ricerca (Scott, 1991). È prioritario, per esempio, nella metodologia di genere, un dialogo costante e a più livelli fra la dimensione macro-strutturale e l’esperienza delle persone. Il lavoro condotto dalle femministe nere sul razzismo ricondusse negli anni Settanta e Ottanta alla memoria dell’oppressione sociale legata alla schiavitù e ai modi con cui questa avesse storicamente segnato dimensioni della vita politica, pubblica, lavorativa e privata rendendo oppressione e razzismo gerarchie attualmente vissute nelle sfere sociali e private. E ancora, un lungo lavoro è stato fatto da antropologhe e sociologhe femministe sulle gerarchie occupazionali e di mercato cui erano (sono) destinate le donne immigrate a partire dagli anni Ottanta, poi sviluppato nel decennio a seguire. Studiando e raccontando le esperienze concretamente vissute, le ricerche sul lavoro di cura delle migranti hanno puntato verso le dinamiche di sfruttamento del capitalismo globale e i modi con cui esse hanno prodotto effetti devastanti attraverso la ripartizione sessista e razzista del mondo del lavoro. Il tema della soggettività – del soggetto nel femminismo – compare a sua volta non come soggetto astratto, posto fuori dalla storia e dall’arena sociale di relazioni in cui è coinvolto; si tratta invece di un soggetto sempre posizionato, anche indisciplinato e dirompente. 20

Introduzione

Questo percorso si snoda in tre capitoli. Il primo riguarda la nascita dell’etnografia femminista e le riflessioni che hanno accompagnato il suo sviluppo, compresa la riformulazione del genere e delle sue istanze dagli anni Settanta per metterle in dialogo con la teoria antropologica. Centrali sono state le rivendicazioni avanzate dal femminismo nero e postcoloniale che obbligarono a riflettere su istanze fondamentali del genere e del femminismo – sfere d’azione, emancipazione, soggetto, potere – per romperle e riportarle sulla scena cariche di significati situati e storici, insieme capaci di delineare lotte comuni. Mentre il femminismo nero, come si è visto, ha permesso di sviluppare la prospettiva dell’intersezionalità, il femminismo postcoloniale ha rivendicato la revisione delle categorie analitiche e delle forme di rappresentazione usate dalle studiose bianche e occidentali per descrivere le donne postcoloniali, chicane, latine, afroamericane, nere costringendo il femminismo egemonico a riflettere sulle conseguenze politiche delle loro strategie di rappresentazione. Ho ritenuto questi aspetti – sviluppati a più livelli nel testo – particolarmente importanti per costruire un quadro interpretativo e d’analisi delle mobilità delle donne migranti o rifugiate, e nei fatti pongo la prospettiva intersezionale come uno sguardo da ritenere centrale. Il Capitolo Secondo definisce dapprima il campo di ricerca “donne e migrazioni” sorto negli anni Settanta, per poi seguirne l’evoluzione verso la prospettiva attuale, che considera la migrazione delle donne in un orizzonte che guarda al genere come a una chiave analitica per lo studio della mobilità umana. Il percorso mette al centro le prospettive femministe dirette a posizionare gli studi sulle donne in una critica di classe alle disuguaglianze del capitalismo, alle ripartizioni sessiste e razziali del lavoro delle donne, alla disparità e alle gerarchie sociali fra le donne occidentali e le migranti. Le pagine tracciano il percorso con cui l’intersezionalità e il dibattito interno al femminismo provocato dal femminismo nero e postcoloniale si sono fatti strada nel campo delle migrazioni delle donne. Questi passaggi hanno contribuito alla revisione di dicotomie quali lavoro produttivo-riproduttivo e sfera privata-pubblica e alle loro gerarchie interne, portando le studiose a rivedere categorie di analisi e istanze considerate globalmente condivise e universali, quali l’emancipazione delle donne, la libertà di scelta, la modernità. 21

Introduzione

Il Capitolo Terzo è dedicato alle rifugiate e agli studi sulle migrazioni forzate delle donne.4 Il dialogo con la storia contemporanea è qui importante per i modi con cui rintraccia genealogie dell’istituto dell’asilo, dei campi e delle politiche degli Stati nazionali nella gestione dei profughi, oltre a ricordarci le coordinate su cui occorre appoggiare categorie oggi usate per discutere di asilo e rifugiati, e il significato stesso dell’istituto dell’asilo (anche per difenderci dalla lesione di significato che tale diritto ha subito nell’attualità). Il capitolo traccia le ricerche, le coordinate e le riflessioni che si sono fatte strada dagli anni Ottanta in poi, mettendo in evidenza dapprima l’assenza d’attenzione sulle donne, e sulle ragioni che le possono rendere rifugiate, e successivamente ponendo l’attenzione sull’aver reso le donne richiedenti asilo e rifugiate terreno di profonde rappresentazioni politiche, laddove gli immaginari di genere, “razza” e cultura sono stati incorporati dalle politiche umanitarie. Il capitolo trae origine dai miei studi in Italia sulle politiche dei campi e sul controllo (nazionale ed europeo) rispetto all’ingresso e alla permanenza delle richiedenti asilo, per allargare le analisi a considerazioni più ampie sulla violenza, sulla responsabilità politica della sofferenza, sui regimi di visibilità e invisibilità dove i dispositivi di genere, “razza” e cultura regolano i livelli di ammissione e la separazione della vittima/del corpo politico. Uno spazio è dedicato alla violenza di genere nelle migrazioni forzate alla luce delle normative internazionali e del dialogo di queste con la riflessione antropologica, la critica postcoloniale e il femminismo giuridico. Il capitolo si chiude con una riflessione femminista che legando analisi di micro e macro livello parte dalle esperienze delle rifugiate per produrre una critica alla ragion di Stato e al concetto di sicurezza (dei confini, degli Stati, delle persone) offrendo un’angolatura innovativa per lo studio degli ingranaggi del governo della mobilità umana.

4. Ringrazio i compagni e colleghi del Centro di Ricerca Escapes. Laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate, Università di Milano: Luca Ciabarri, Emanuela dal Zotto, Elena Fontanari e Chiara Marchetti con cui, dal 2014, condivido ricerche, discussioni, impegno politico e l’idea che la dimensione collettiva degli studi possa avere una voce più solida.

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Capitolo Primo

Antropologia, prospettive di genere e femministe

Convenzionalmente, tre ondate1 hanno segnato la genealogia del pensiero femminista contemporaneo. La prima e la seconda, comprese fra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, furono contraddistinte dalla divisione fra sesso – inteso come anatomia fisica e biologica – e genere – l’interpretazione culturale e sociale di esso. In queste prime fasi, studiose e attiviste pensavano alla “categoria ‘donna’ come una costruzione sociale fondata sul corpo femminile” (Owen, 2000, p. 220). Nella terza ondata delle teorie femministe, che prese avvio verso la fine degli anni Ottanta, la biologia smise di essere considerata “un destino” (ibidem) “svincolando” la costruzione del genere dalla sessuazione del corpo. Il passaggio a questa terza fase sorse sul “collasso della categoria donna” (Snyder, 2008, p. 175) e sulla centralità dell’intersezionalità rendendo il genere “un campo dibattuto di sempre maggiore problematicità” (ibidem) e “uno spazio discorsivo contestato” (Bellagamba, 2000, p. 71). Henrietta Moore (1988) ha riproposto una periodizzazione simile per l’antropologia. Fra gli anni Sessanta e Settanta, una picco1. Vedi, per esempio, Code (2000), McPherson (2000), Starr (2000) e Snyder (2008). Nella produzione scientifica italiana rispetto all’intersezione storica fra teorie di genere e antropologia vedi Busoni (2000), per lo sviluppo delle teorie di genere e femministe vedi Demaria (2003). Occorre dire che rispetto al contesto italiano, fra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento, il dibattito sul genere nella letteratura antropologica fu poco frequentato. Tuttavia, sono da ricordare alcune studiose che in modo pionieristico affrontarono istanze femministe e di genere nella disciplina. Fra questi ricordiamo gli studi di Vanessa Maher, che agli inizi degli anni Ottanta lavorò sul tema del posizionamento (1982), mentre già in lingua inglese aveva pubblicato le sue ricerche sulle condizioni delle donne in Marocco (1974) e raccontato le vite delle operaie impiegate nell’alta moda torinese intersecando genere e classe sociale (1987), e di Cristina Papa (1975) che ha posto la questione delle politiche di Stato sul corpo delle donne raccogliendo scritti sull’aborto, per tornare sul dualismo di genere e sulle norme sociali nei processi di costruzione della maternità (2013).

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

la parte di questa disciplina fece proprie le riflessioni del pensiero femminista sino a costituire il campo dell’antropologia delle donne, ambito di riflessioni teoriche e ricerche etnografiche, centrato sulla condizione specifica delle donne nelle diverse società umane. Seguì poi l’analisi del genere come processo sociale di costruzione del femminile e del maschile. Iniziò così a definirsi l’antropologia del genere, al tempo intesa come lo studio del femminile, del maschile e della loro relazione. Già negli anni Ottanta, al genere come costruzione sociale e come sistema di relazioni fra il maschile e il femminile, si aggiunsero, grazie principalmente ai movimenti omosessuali e in seguito allo sviluppo delle teorie queer,2 riflessioni riguardanti il corpo, la sessualità, il desiderio e le norme sessuali. Per merito soprattutto delle rivendicazioni del femminismo nero (anche congiunto alle prospettive di cui sopra) e dei femminismi postcoloniali, si fece spazio una discussione sull’interposizione del genere con altre variabili di differenza, quali la “razza”, la classe sociale e l’orientamento sessuale con l’obiettivo di decolonizzare il pensiero femminista (Anzaldúa, 1987). In quest’ultima formulazione, l’antropologia di genere è ridefinita inglobando il genere come un pensiero critico sulle differenze, comprese le differenze interne ai modelli di genere nelle diverse società umane (Moore, 1993), come una metodologia e un’analisi capaci di guardare alle molteplici e interagenti strutture di potere. Così descritti, questi passaggi semplificano percorsi storici ricchi e fertili, fatti di battaglie teoriche, congiunture e rotture, rivendicazioni politiche e di campo, continue critiche e revisioni. In tale complessità e ricchezza storica, politica e letteraria, fra gli aspetti che approfondiremo c’è la ricerca empirica sulle donne, una ricerca che dapprima definì la relazione fra etnografia e studi delle/ sulle donne, e successivamente fra etnografia e genere. Considereremo anche la storia della nascita del genere come concetto e come prospettiva, guardando alla riformulazione del suo significato dagli anni Settanta in poi. Questa riformulazione è avvenuta gra2. Teresa de Lauretis (1991) e Judith Butler (1990) sono studiose di riferimento per la teoria queer. Nella letteratura italiana, vedi il lungo lavoro di Marco Pustianaz (per esempio 2018 e 2010, che raccoglie contributi di ricerca sul tema) il quale ben descrive la posizione obliqua per “far emergere la visibilità della differenza di genere e delle sue operazioni culturali e identitarie” (2000, p. 106) e soprattutto “per mostrare come il discorso dell’impurità e dell’ibridazione sia quello che permette di rendere visibili le costruzioni binarie della differenza laddove appaiano denaturalizzate” (ibidem, p. 113). Rispetto alla relazione con l’antropologia vedi Boellstorff (2007).

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1. Verso un progetto d’etnografia femminista

zie principalmente alle voci più dissonanti e dirompenti del femminismo, legate al femminismo nero e ai femminismi postcoloniali, che in queste pagine troveranno un posto centrale. Per Teresa de Lauretis la teoria femminista è divenuta tale grazie all’emergere dell’ottica postcoloniale: ovvero, quando le voci delle donne che si sentivano escluse dal discorso femminista egemonico, e posizionate al margine della cultura dominante (maschile, eurocentrica, bianca, eteronormativa), lo costrinsero ad allargare il suo sguardo critico posto su soggetti, oggetti e campi del sapere al femminismo stesso (1990, p. 36). È grazie al femminismo nero e postcoloniale e alle loro eredità – in particolare rispetto alle riflessioni poste attorno al potere e al soggetto (entrambi definiti da un sistema intersezionale di più assi oppressivi), alla costruzione delle categorie di analisi e dell’oggetto di ricerca, alle politiche di rappresentazione di coloro che per molto tempo furono le altre donne (mostrando quanto la riflessione del femminismo bianco euroamericano fosse sull’orlo dell’etnocentrismo e del razzismo) – che le teorie femministe e di genere sono arrivate alla terza ondata. Soprattutto, è la prospettiva dell’intersezionalità a costringerci a mettere al centro la connessione stretta fra oppressioni di genere, “razza”, cultura, classe sociale ed economica, per guardare le specificità con cui in determinati contesti e periodi storici esse si sovrappongono nella formazione del soggetto. 1. Verso un progetto d’etnografia femminista Genere identificante, genere disidentificante La vocazione comparativa dell’etnografia – la messa a confronto cioè di sistemi sociali e politici e di modelli culturali delle società umane sia in senso sincronico che diacronico – ha giocato un ruolo del tutto rilevante nel mettere in discussione i presupposti di naturalità rispetto alle posizioni sociali delle donne, e degli uomini. In Histories of Feminist Ethnography, Kamala Visweswaran scrive che sebbene l’espressione “etnografia femminista sia emersa solo recentemente” (1997, p. 591), ovvero alla fine degli anni Ottanta del Novecento con gli scritti della stessa antropologa (1988, 1994, 2003) e di altre come Lila Abu-Lughod (1990a) e Judith Stacey (1988), guardando indietro nella storia è possibile rintracciare almeno quattro fasi storiche che ne hanno costruito il percorso. Que25

Antropologia, prospettive di genere e femministe

sto percorso aiuta a comprendere non tanto cosa si debba intendere con “etnografia”, ma i modi con cui le donne hanno portato avanti le loro ricerche e quali significati l’appellativo “femminista” possa conferire. La prima radice risale agli anni 1880-1920 che ancora non conoscevano la parola “genere”: la letteratura parlava di uomini e di donne (quando ne parlava) in termini di differenza sessuale, intesa come una conseguenza della biologia e una variabile determinante dei ruoli sociali maschili e femminili. Il sesso del corpo e il posto sociale, rispettivamente e distintamente occupato da uomini e donne, erano fra loro sovrapposti e il primo ne determinava il secondo. Solo in un secondo momento, fra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento, sesso e ruolo sociale procedettero verso una distinzione. Queste due fasi, che Kamala Visweswaran separa, sono probabilmente da leggere in profonda continuità principalmente per l’entrata pionieristica nella ricerca etnografica di antropologhe britanniche – come Audrey Isabel Richards (1899-1994) che, dopo gli studi dottorali sotto la supervisione di Bronislaw Malinowski, compì le sue ricerche nello Zambia degli anni Trenta – e nordamericane – come Matilda Cox Stevenson (1849-1915) ed Elsie Clews Parsons (1875-1941). La prima condusse le sue ricerche fra gli Zuni, e fece parte dello Smithsonian’s Bureau of American Ethnology; la seconda con idee e pensieri espliciti sui diritti delle donne (oggi la si considera dalle posizioni femministe) compì lunghe ricerche fra “le donne native americane”. Queste ricerche la portarono a scrivere che le donne “nelle comunità primitive” del Nord America non conducevano vite degradanti, al contrario onore e rispetto erano caratteristiche della loro vita sociale (Visweswaran, 1997, pp. 597598). Tali posizioni, scritte e documentate con le sue ricerche, non erano semplicemente dei resoconti sulle comunità studiate. Esse “sfidavano l’idea evoluzionistica vittoriana secondo cui le donne occidentali occupavano, fra le culture del mondo, il posto più alto in termine di onore” (ibidem, p. 598) muovendo così una critica aperta, peraltro retta da una comparazione fra le condizioni delle donne nelle società studiate da Parsons, all’impostazione evoluzionista della disciplina e allo sguardo delle donne euroamericane verso le “altre donne”. Seppur per molto tempo non riconosciuta, di grande rilevanza fu, inoltre, la figura di Zora Neale Hurston (18911960) che compì i suoi studi dottorali sotto la direzione di Franz 26

1. Verso un progetto d’etnografia femminista

Boas occupandosi di folklore americano e conducendo ricerche sul vodu ad Haiti (Tell My Horse, 1938). Impegnata in battaglie politiche contro la segregazione razziale e sessuale, Zora Hurston è da ricordare soprattutto per il contributo alla letteratura afroamericana con i libri Their Eyes Were Watching God (1937, tradotto come I loro occhi guardavano Dio) ambientato nel periodo del movimento Harlem Renaissance di cui lei stessa era parte, e Barracoon. The Story of the Last “Black Cargo” scritto sulla base di una lunga intervista a Cudjoe Kazoola Lewis, l’ultimo sopravvissuto alla tratta atlantica degli schiavi (2018, in precedenza furono pubblicati stralci dell’intervista). Rimasta in ombra per molti decenni, Zora Hurston venne poi riscoperta principalmente grazie ad Alice Walker che mostrò l’importanza del suo impegno contro la segregazione sociale della comunità nera e per l’affermazione delle donne, e a cui dedicò uno scritto nel 1975 dal titolo In search of Zora Neale Hurston. Le due antropologhe più famose, Ruth Benedict (1934; vedi anche Mead, 1959) e Margaret Mead (1928; 1930; 1935; 1949; 1956) furono fra le prime a sostenere con studi etnografici comparativi il carattere culturalmente costruito dei ruoli basati sul sesso – oltre a condividere con la scuola di Franz Boas una posizione antirazzista – mettendo in luce due aspetti decisivi per lo sviluppo delle riflessioni sulle differenze sessuali e sui significati sociali su esse costruiti. In primo luogo, le società umane oggetto di studio antropologico presentavano fra loro differenze nella distribuzione dei ruoli sociali maschili e femminili, e soprattutto differenze rispetto al modello nordamericano. Se il ruolo sociale era dipendente dalla differenza sessuale, se alle donne spettavano determinati compiti e agli uomini altri perché così biologicamente deciso, come poteva spiegarsi l’esistenza di modelli culturali del maschile e del femminile così diversi fra loro? La descrizione dei comportamenti sessuali e di cura di uomini e donne in tre società della Nuova Guinea (Arapesh, Mundugumor e Ciambuli), fatta in Sesso e temperamento da Margareth Mead (1935) ebbe una certa risonanza pubblica, oltreché scientifica, poiché da questa monografia il sesso biologico e il ruolo sociale risultavano avere corrispondenze diverse da quelle dominanti nella società nordamericana. Fu fondamentale, in secondo luogo, l’attenzione data alla costruzione dei ruoli sociali sessuali: ovvero, ai processi di crescita attraverso cui “una bambina diventa una donna”. Questo tema, sviluppato in particolare in Growing Up in New Guinea (Mead, 1930), fu centrale nel mostrare come 27

Antropologia, prospettive di genere e femministe

l’identità sessuale fosse acquisita attraverso processi sociali e culturali, anziché essere una natura predata, diretta conseguenza del corpo biologico. Erano, in altri termini, i significati culturali che circondano il corpo biologico a essere trasmessi e appresi, sino a far diventare quella persona uomo o donna. Queste ricerche etnografiche e le riflessioni che le accompagnarono condussero verso la terza fase dell’etnografia femminista datata da Kamala Visweswaran fra gli anni Sessanta e Ottanta con la pubblicazione delle raccolte Woman, Culture and Society e Toward an Anthropology of Women sotto la rispettiva cura di Michelle Rosaldo con Louise Lamphere (1974) e di Rayna Rapp Reiter (1975a). La seconda raccolta vide comparire la parola “genere”, o meglio l’espressione “sistema sesso-genere” [sex/gender system], nelle pagine del contributo The Traffic in Women: Notes on the “Political Economy” of Sex 3 per mano di Gayle Rubin, scuotendo quelle che, sino a quel momento, erano state le convinzioni sui ruoli sessuali e teorizzando, per la prima volta nelle discipline sociali, la relazione sesso-genere come sistema (vedi anche Oakley, 1972). Questi due decenni furono centrali: essi conobbero lo sviluppo teorico e sociale del pensiero femminista grazie alla voce politica dei movimenti delle donne e portarono l’attenzione etnografica dalla costruzione dei ruoli sociali a un impegno diretto a svelare il dominio patriarcale e la subordinazione delle donne nelle diverse società umane. Il termine genere ebbe immediatamente un significato politico, oltreché teorico.4 Inteso come la costruzione sociale e culturale dell’essere uomo o donna, e come l’insieme dei significati sociali attribuiti alle differenze sessuali, il genere aveva il compito di illustrare, già nelle pagine di Gayle Rubin, la gerarchia sociale inscritta sulle differenze anatomiche. Riprenderemo la discussione più avanti nel testo, ma preme qui sottolineare la considerazione avanzata da Kamala Visweswaran: la discussione sul sistema sesso-genere portò con forza lo sguardo sulle dinamiche di potere che mettevano le 3. Il saggio è disponibile in italiano in una traduzione parziale: “Lo scambio delle donne. Una rilettura critica di Marx, Engels e Freud”, in Nuova DWF, 1976, pp. 2565. Per approfondire le prospettive del tempo e il femminismo di seconda ondata vedi anche la raccolta curata da Nicholson (1997). 4. Haraway (1991a) rintraccia le origini del termine “genere” e dei suoi significati nella psichiatria nordamericana degli anni Cinquanta ove il termine fu usato dinanzi a quelli considerati disturbi della sessualità e delle identità di genere. Nella letteratura italiana, rimando a Di Cori (1987, 1997, 2000) che discute i significati attribuiti al genere e costruisce i passaggi dalla storia delle donne alle prospettive di genere e dei suoi significati.

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1. Verso un progetto d’etnografia femminista

donne in posizioni di subalternità sociale. Se il termine genere indicava la differenza sociale e culturale fra uomini e donne, esso in realtà aprì la strada all’analisi delle donne come “gruppo sociale” al fine di evidenziare la struttura patriarcale delle società umane. Da un altro punto di vista, considerare le donne come “gruppo sociale” sottoposto al dominio maschile pose una questione. Per lungo tempo dopo la sua comparsa, il genere rimase legato a un “principio identificante” (Visweswaran, 1997): ovvero, un principio che identifica, e unifica, le donne in quanto donne, sino a sostenere l’esistenza di un “soggetto donna” in cui tutte potevano riconoscersi. La costruzione del soggetto donna aveva indubbiamente un’intenzionalità politica nel rivendicare, e rendere evidente, l’universalità della subordinazione al dominio maschile, ma la riduzione delle donne a categoria sociale comportava dei rischi. Primo fra tutti, la negazione delle specificità delle esperienze storiche e sociali. Classificate come gruppo sociale, le donne risultavano un gruppo indistinto e omogeneo al suo interno. Nel movimento femminista e anche nella ricerca si avvertì un forte limite analitico: tutte le donne si riconoscono in altre donne per l’appartenenza allo stesso sesso/genere, oppure la storia, l’esperienza sociale e le forme specifiche di discriminazione differenziano questo soggetto? Se il genere era concepito come una categoria universale e omogenea al suo interno, destoricizzata e cieca dinanzi all’eterogeneità dell’essere donne, come poteva cogliere proprio l’esperienza delle donne? Furono le istanze del femminismo nero e postcoloniale ad affrontare il limite di questa prospettiva essenzialista (che essenzializzava le donne, essenzialismo di genere) aprendo la strada alla revisione del concetto di genere. Il punto sollevato da questi femminismi riguardava soprattutto il fatto che identificare le donne sotto una categoria, ne cancellava le differenze di potere e la storia che le aveva generate, mettendo così in ombra la scala del privilegio. L’identificazione cadde dinanzi a un dato storico. Il movimento femminista euroamericano (in particolare, rispetto a questa discussione, nordamericano) era sorto in contesti sociali e culturali specifici: la maggior parte delle sue componenti erano donne bianche e di classe economica medio-alta (tali condizioni permettevano per esempio maggior facilità d’ingresso all’istruzione universitaria) o comunque in situazioni di privilegio rispetto alle comunità afroamericane, latine o appartenenti a classi socioeconomiche marginali. Il 29

Antropologia, prospettive di genere e femministe

centro della battaglia di questo femminismo era inoltre il dominio maschile. Le linee della bianchezza e della classe, e anche dell’eteronormatività che iniziò al tempo a essere discussa, rendevano questo femminismo egemonico in sé, ma principalmente perché queste linee affondavano le radici nella storia del colonialismo, dell’egemonia maschile e dell’imperialismo occidentale. La segregazione razziale e sociale, la subordinazione economica, l’eterosessualità divennero i luoghi di battaglia rivendicati dalle donne afroamericane, latine e postcoloniali; da coloro che, come vedremo in seguito, dal femminismo bianco e privilegiato si sentivano escluse. Oltre a rappresentare il lato più etnocentrico del femminismo del tempo, queste istanze rappresentavano anche le coordinate storiche che assegnavano alle donne posizioni diverse nella società del presente. La vita di una donna nera era diversa da quella di una donna bianca non solo in termini di colore della pelle e per via della questione razziale: era la stessa subordinazione di genere a distinguerle, perché il patriarcato subìto da una donna nera era insieme bianco, nero e intersecato al razzismo. Alla fine degli anni Ottanta, il “principio identificante” lasciò il posto al genere come “principio disidentificante” (Visweswaran, 1997, p. 592). Dal punto di vista della ricerca etnografica occorreva rivedere i modi con cui le appartenenze di genere erano studiate per connetterle, nei luoghi di studio, con altre differenze che definivano i soggetti e le strutture di potere. Rispetto alla testualizzazione della ricerca si trattava di individuare “strategie testuali di ‘disidentificazione’” (ibidem, p. 595), nella consapevolezza che “l’identificazione di genere oscura la differenza e il lavoro del potere” (ibidem), mentre l’obiettivo dell’etnografia doveva essere la loro esposizione e messa in luce. La periodizzazione proposta da Kamala Visweswaran sulla transizione del genere da categoria identificante a categoria disidentificante è un’indicazione metodologica utile per direzionare le etnografie sulle donne migranti e rifugiate, e per evitare di costruire questi soggetti come categorie pienamente identificanti. Questa transizione analitica e metodologica, compreso il superamento dell’essenzialismo di genere, non è sempre andata di pari passo con la letteratura sulle migrazioni. Negli anni Ottanta, come vedremo, la critica di classe sarà per esempio centrale negli studi femministi sulle donne migranti per mostrare la ripartizione sessista e razzista del lavoro. In altri casi, però, le studiose sono cadute in stereotipi e gerarchie di genere rilevanti: per esempio, la mobilità delle richie30

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denti asilo è stata letta talvolta come un percorso di acquisizione di modelli culturali più emancipati, oppure sono apparse costruzioni categoriali (quali “le madri asiatiche”) o ancora discorsi identitari che hanno impedito di scalfire immaginari sedimentati sulle esperienze migratorie delle donne. Gerarchie etnografiche e parzialità della rappresentazione Nel 1976, Annette Barbara Weiner pubblicò Women of Value, Men of Renown: New Perspectives in Trobriand Exchange, risultato di una lunga ricerca sullo scambio Kula nelle isole Trobriand. L’intento era mostrare quanto il “canone maschile” (anche Behar, 1995) avesse impedito dapprima a Bronislaw Malinowski e in seguito alla comunità scientifica di vedere le donne, e soprattutto di coglierne, nella ricerca etnografica, il ruolo occupato negli scambi economici e cerimoniali, in quel caso dei rituali di scambio, per poi metterle in secondo piano o cancellarle nella fase di testualizzazione.5 Eppure, scrisse Edwin Ardener nella prima metà degli anni Settanta, “a livello di osservazione nella ricerca di campo, il comportamento delle donne è stato, di sicuro, quanto quello degli uomini, tracciato in modo esaustivo” (1975, p. I). Tale constatazione poteva essere sufficiente alla comunità scientifica delle donne che già allora aveva messo al centro una riflessione sul potere? La questione stessa del canone rimandava a una discussione profonda sui modelli condivisi e sul posto sociale che le donne occupavano nelle società umane, e poi nella scrittura scientifica. Rispetto ad altre discipline, scrisse in seguito Henrietta Moore (1988) in commento all’affermazione di Edwin Ardener, e più in generale all’intero saggio The Problem Revisited che la conteneva (1975),6 che nei resoconti etnografici le donne non erano invisibili, o almeno non lo erano del tutto. L’antropologia, infatti, aveva al tempo fra i suoi oggetti prioritari di stu5. Il testo di Weiner rappresenta il campo dei re-studies – studi etnografici compiuti da antropologhe presso gli stessi luoghi in cui furono prodotte monografie etnografiche classiche al fine di rivendicare la presenza sociale, culturale e politica delle donne (assenti nelle monografie originarie). Vedi anche Goodale (1971). Rispetto al canone, fu Rich (1979) ad avanzare la necessità di una re-visione di testi classici (ossia un nuovo modo di interpretare i testi, Demaria, 2003, p. 69) che avevano escluso le voci delle donne, proponendo anche di inaugurare un nuovo canone di rappresentazione (riscoprendo quello che le donne avevano scritto nella storia e incoraggiandone una nuova produzione letteraria). 6. Il saggio fu pubblicato insieme al precedente, forse più famoso, Belief and the Problem of Women (prima edizione 1972) nella raccolta Perceiving Women curata da S. Ardener (1975).

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dio la parentela e il matrimonio (Ardener, S., 1985, p. 25) considerati ambiti ove le donne avevano un ruolo. Commentando le note di Judith Stacey e Barrie Thorne (1985) in cui affermavano che, rispetto ad altre scienze sociali, l’antropologia si era posta su un piano di vantaggio rispetto alla relazione con l’impianto femminista grazie “alla centralità della parentela e del genere nell’analisi antropologica tradizionale, e a una prospettiva olistica che accetta il genere come principio pervasivo di organizzazione sociale”, Marilyn Strathern (1987, p. 278) s’interrogò sul rapporto di convergenza e scomodità fra la disciplina e la prospettiva femminista. Già negli anni Settanta la prospettiva femminista impose (sovente senza avere adeguata risposta scientifica) alle scienze sociali di “mettere le donne al centro, come soggetti d’inchiesta e come agenti attivi nella raccolta della conoscenza” (Stacey e Thorne, 1985) rilevando altrettanto che le ricerche empiriche dell’antropologia offrivano un grande terreno d’informazioni per l’impresa femminista (ibidem). Ma il punto, scrisse Marilyn Strathern, era comprendere quale fosse lo statuto dato alle donne nella disciplina: le si considerava capaci di innovare e trasformare i modelli teorici della disciplina stessa? E questi modelli potevano essere modificati a partire dalle ricerche fatte dalle/sulle donne?7 Questo significava che il semplice aver dato “alle donne un posto da qualche parte nei resoconti etnografici non era abbastanza” (Strathern, 1987, p. 279). Judith Shapiro affermò già nel 1983 che nessuna disciplina sociale aveva “fatto i conti con il genere come fatto sociale”: seguendo questo ragionamento, Marilyn Strathern sottolineò ancora che la relazione fra teorie femministe e antropologia doveva interrogare i modelli d’interpretazione e i modi di rappresentazione usati nella disciplina (vedi anche Mahmood, 2001, pp. 206-207). Come scrisse Henrietta Moore (1988, p. I) la questione da affrontare riguardava dunque i modi con cui le donne erano raccontate nei resoconti etnografici, e ancor prima i modelli d’interpretazione delle società. Vi è un punto “di giuntura critica” ha sottolineato Lila AbuLughod “nelle traiettorie del femminismo e dell’antropologia che rende lo sviluppo di un’etnografia femminista possibile e desidera7. Nel testo, Strathern fa riferimento al concetto di “cambiamento di paradigma” di Thomas Kuhn, muovendo dapprima una critica alla trasposizione di un modello elaborato nelle scienze esatte nel campo delle scienze umane e sociali, e in seguito per interrogarsi su quanto l’antropologia fatta dalle donne e la pratica femminista fossero considerate capaci di innovare le prospettive teoriche della disciplina.

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bile” (1990a, p. 8). Questo punto di giuntura critica si riferiva alla pretesa, o all’auspicio, della disciplina antropologica di raggiungere un’oggettività “della ricerca di campo e del resoconto etnografico” (ibidem), mentre l’impostazione femminista già s’interrogava sulla parzialità della produzione e dei prodotti della conoscenza (Stacey, 1988). D’altronde, erano stati proprio i modi in cui le donne erano state escluse dalle rappresentazioni ufficiali e l’assenza di interrogativi sulle strutture di disuguaglianza a rendere esplicito – almeno alle femministe – che le scienze sociali non erano oggettive nella produzione della conoscenza e nei suoi prodotti (Abu-Lughod, 1990a, p. 12). La teoria femminista di prima ondata criticò la presunta oggettività della costruzione del sapere concentrandosi sull’impostazione androcentrica della ricerca (ibidem).8 La critica avanzata dalla seconda ondata mise in discussione, invece, il concetto stesso di oggettività inserendo la discussione in una prospettiva che contemplava il soggetto che costruisce conoscenza e quello coinvolto nella ricerca. Inizia qui una riflessione sulla (possibilità della) separazione fra l’impostazione impersonale della metodologia (associata a un’idea di maggior scientificità) e una di stampo più personalistico ed empatico.9 La prima coincide con il rigore oggettivo della scienza, il campo del maschile e gli studi compiuti da uomini; la seconda con una conoscenza fondata sulla relazione, sul particolare e sull’empatia, meno oggettiva, fatta coincidere con gli studi sulle donne e compiuti dalle donne. Le dicotomie personale/impersonale, emozionale/razionale, parziale/universale, e altre ancora (ibidem, p. 13) caratterizzano rispettivamente conoscenza (e produzione della conoscenza) del femminile versus il maschile. Furono alcune studiose, ricorda Lila Abu-Lughod, a esprimere esplicitamente contrarietà a tali dualismi e a porre al centro della discussione il posizionamento:10 Dorothy Smith (1987) e Catharine MacKinnon (1982) dissero che le dicotomie si dissolvono nell’accettare che la conoscenza è fortemente 8. Abu-Lughod (1991) in senso più ampio colloca la discussione sulla parzialità della conoscenza nella crisi del concetto di cultura in antropologia. Sul tema vedi anche Wagner (1975). Sulla costruzione del discorso egemonico e sulla sua capacità d’imporsi come coerente e inclusivo vedi Jean e John Comaroff (1992). 9. Per una discussione dettagliata e storica sulla metodologia, Malighetti e Molinari (2016). 10. Rimando al saggio, ritenuto un classico sulla politica del posizionamento, di Rich (1986).

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legata alla posizione in cui ci si mette per osservare la società (anche Maher, 1982), e che peraltro tale parzialità non andava confusa con emotività e poca scientificità. Non si trattava solo di ammettere l’esistenza di un punto di vista nella ricerca, ma di comprendere che se la conoscenza era prodotta dagli uomini – da una prospettiva che si considerava oggettiva – tale assunto e il modo stesso in cui si produceva conoscenza erano strumenti di dominio. Se esistono le ineguaglianze sessuali nelle diverse società, una prospettiva che si considera oggettiva – “non situata, punto di vista universale” (MacKinnon, 1982, p. 536) – allora essa stessa è non solo “un diniego dell’esistenza o della potenza dell’ineguaglianza dei sessi”, ma “tacitamente partecipa alla costruzione di una realtà dal punto di vista dominante” (Abu-Lughod, 1990a, p. 15). La presunzione di una conoscenza oggettiva e universale – che nega il posizionamento da cui la conoscenza è prodotta – è complice nel negare l’esistenza delle donne e la possibilità di dar voce alle loro esperienze. Queste riflessioni sulla parzialità della conoscenza nacquero dalla volontà di costruire un “punto di vista delle donne” sulle società e sulle loro dinamiche attribuendo a esso lo stesso prestigio e la stessa scientificità conferiti allo sguardo maschile. Mentre quest’ultimo si riteneva universale, il punto di vista delle donne prendeva atto, a partire dalla consapevolezza delle condizioni di subordinazione e dei modi con cui le donne erano state raccontate o nascoste, dell’inesistenza di uno studio non situato. Lavorando sulla standpoint theory a breve analizzata, Sandra Harding scrisse che questa strada portò allo sviluppo del tema del posizionamento che migliorò in modo netto il più ingenuo “punto di vista delle donne”. La filosofa (1993) propose il concetto di “oggettività forte” [strong objectivity] nell’epistemologia femminista, dove l’aggettivo non indica neutralità o universalità del sapere, ma al contrario si pone in antagonismo all’oggettività scientifica (che essa ha definito invece “oggettività debole” perché inconsapevole della sua limitatezza) per marcare la contezza che l’unica oggettività possibile è quella che considera le parzialità e i posizionamenti del processo di costruzione della conoscenza. Donna Haraway ha invece sottolineato la necessità di ripensare l’intero processo della produzione del sapere acquisendo consapevolezza dinanzi al fatto che le narrazioni sono sempre frutto di una “conoscenza situata” (1988). Questo presupposto ha una doppia 34

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un’implicazione politica. La prima: vi sono narrazioni che possiamo definire egemoniche. Per esempio, le narrazioni occidentali sulla differenza sessuale e razziale delle popolazioni situate nei luoghi in cui l’Occidente stesso ha espresso il suo dominio storico, economico e ideologico. La seconda: il posizionamento, il posto in cui ci si mette per produrre conoscenza, definisce uno sguardo sul potere. La conoscenza situata contempla “la capacità di guardare dalle periferie” (Haraway, 1988, p. 583) offrendo un sapere sul mondo che legge le dinamiche del potere da punti innovativi, e per nulla neutrali. La femminista afroamericana bell hooks ha sostenuto più apertamente che il punto di vista dei subalterni (per esempio le donne nere), ovvero coloro che “guardano dal margine” il “centro”, è privilegiato: questo posizionamento permette di osservare ciò che accade al margine (coloro che occupano posizioni di prestigio hanno dei “margini” una conoscenza molto limitata), e poiché i gruppi marginali sono direttamente investiti dagli ingranaggi del potere, essi ne possono comprendere la struttura, il modo di operare e la forza (1998). Vanessa Maher e Paola Sacchi scrivono, introducendo l’edizione italiana di Sentimenti Velati di Lila Abu-Lughod e ben sintetizzando tale percorso, che il termine posizionamento ha a che fare con la dimensione del politico: esso indica non solo consapevolezza e valutazione dei modi con cui le caratteristiche di chi fa ricerca – genere, classe, provenienza, età, formazione, e altre ancora – inscrivono le relazioni di campo, ma anche “la valutazione contestuale, secondo gli stessi criteri, dei comportamenti ed enunciati dei suoi interlocutori” (2007, p. XIII). Altrettanto, Anna Paini, mettendo in rilievo le relazioni asimmetriche nel fare ricerca e insieme l’impegno per costruire un contesto di condivisione e dialogo, evidenzia “che le relazioni instaurate sul campo sono anche rapporti politici” e che tale consapevolezza mette “al centro della riflessione e della pratica il coinvolgimento a livello sociale e le responsabilità nei confronti dei soggetti della ricerca” (2000, p. 194). Il punto di vista: implicazioni politiche nella costruzione della conoscenza Alcune femministe cercarono modi e strumenti di conoscenza alternativi a quelli dominanti nelle scienze sociali al fine di costruire un campo specifico di ricerca femminista, altre preferirono rompe35

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re la solidità attribuita all’oggettività e pensare in termini di “conoscenza situata”, percorso che nei fatti rappresentò una critica alle narrazioni dominanti, egemoniche e maschili che si pretendevano universali. Questo dibattito sulla possibile rottura dell’oggettività è comprensibile guardando agli sviluppi dell’epistemologia femminista e in particolare al lavoro della filosofa Donna Haraway, con cui la stessa Lila Abu-Lughod dialoga in Can There Be a Feminist Ethnography? (1990a), e di Sandra Harding. È esplicita quest’ultima nel dire: Le strutture concettuali androcentriche, economicamente avvantaggiate, razziste, eurocentriche ed eterosessiste assicuravano una sistematica ignoranza delle vite degli oppressi, ma anche delle vite dei loro oppressori, e così dei modi con cui natura e relazioni sociali in generale lavoravano (2004, p. 5).

Dagli anni Settanta, come visto, la questione metodologica e i processi di produzione del sapere iniziarono a occupare centralità nel dibattito femminista. La discussione interna all’antropologia sulla possibilità di pensare a un’etnografia femminista, sulla rappresentazione e successivamente sul tema del posizionamento trovò spazio di approfondimento grazie al dialogo con le riflessioni che avvenivano fuori dai confini disciplinari, in particolare nel dibattito femminista più allargato. In linea generale, la volontà di mettere al centro la parzialità della conoscenza confluì nelle prime elaborazioni della standpoint theory. Inizialmente, fu soprattutto il femminismo d’impronta marxista a portare tale eredità nell’analisi della costruzione del sapere sviluppando “il punto di vista delle donne” (e il punto di vista dell’oppressione vissuta dalle donne), partendo dall’idea che la classe operaia – dei lavoratori e delle lavoratrici – producesse da quella posizione anche un certo tipo di conoscenza del mondo e che tale posizione fosse direttamente collegata alla coscienza di classe. In verità, questa eredità fu abbandonata in fretta dal femminismo stesso (Harding, 2004), principalmente per l’eccesso di empirismo – per quanto questo “progetto marxista possa ancora trovare importanti risultati” (ibidem, pp. 2-4). La standpoint theory affonda le sue radici fra gli anni Settanta e Ottanta “come una teoria femminista critica sulle relazioni fra la produzione della conoscenza e le pratiche di potere” (ibidem, p. 2) proponendosi in realtà non solo come teoria, ma come “teorie sul 36

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metodo (una metodologia) per guidare la futura ricerca femminista” (ibidem). E ancora: la standpoint theory – che in effetti Sandra Harding chiamerà standpoint methodology – è per la studiosa uno dei lasciti più importanti della teoria femminista nel suo indicare “alla fine del XX secolo, lo sforzo di sviluppare modi più utili per pensare la produzione della conoscenza nelle economie politiche locali e globali” (Harding, 1998, p. 382). Lontana dalla “nozione naïf” (Stoetzler, Yuval-Davis, 2002, p. 317) del “punto di vista delle donne” (ibidem), anzi nata proprio in contrasto a essa (ibidem), tale prospettiva non ha più l’ingenua pretesa di credere che un gruppo – per esempio le donne o la classe operaia o il proletariato – possa esprimere una visione del mondo perché ogni membro di quel gruppo condivide con gli altri una variabile d’appartenenza, o parte delle sue posizioni sociali. Al contrario, il soggetto – individuale o collettivo – lo si considera anch’esso situato all’incrocio di più variabili di differenza fra loro intersecate, e dunque caratterizzato da punti di distinzione. L’interesse di Sandra Harding per questi temi è da rintracciare nella sua formazione di filosofa della scienza e nel suo interesse per l’epistemologia (è infatti considerata figura centrale nell’epistemologia femminista, la cui impronta ha avuto risonanza anche nelle scienze biologiche, oltre che sociali e umanistiche). Tuttavia, è il dialogo con la critica postcoloniale e lo studio dei sistemi di oppressione ad avere un ruolo centrale nelle sue riflessioni. La sua prospettiva ha, infatti, inteso scalfire la presunzione di verità della conoscenza e marcare quanto essa sia il risultato di un dialogo fra soggetti che occupano diverse posizioni di potere per dirigersi verso lo studio delle culture dominanti a partire dal punto di vista dei gruppi da esse esclusi o oppressi, nella convinzione che tale punto di vista possa essere una metodologia centrale per comprenderne la forza e il funzionamento. Il punto diventa allora sollecitare consapevolezza dinanzi al fatto che il potere e le relazioni di potere entrano nelle relazioni di produzione della conoscenza e che le differenze (storiche, sociali, gerarchiche) legate all’oppressione siano “risorse politiche e di conoscenza” (Harding, 2004, p. 7).11 11. Parzialità e situazionalità della conoscenza sono state anche oggetto di controversie nel dibattito femminista (per esempio, rispetto a un pericolo di eccesso di relativismo epistemico o a distorsioni della conoscenza quando pensata come strettamente dipendente dal posto sociale occupato). Vedi Harding (1993) ove analizza tali controversie.

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

Donna Haraway ha messo al centro dei suoi studi la relazione fra scienza, tecnologie e genere per tracciare la possibilità di un pensiero non dicotomico: le strutture binarie di pensiero e le categorie di opposti (uomo/donna, ma anche corpo/mente, natura/ cultura) hanno caratterizzato il pensiero occidentale, ma principalmente sono state del tutto funzionali a sostenere, e a legittimare, le forme di dominio rispetto a differenze di genere, sessuali, razziali, culturali. Le strutture binarie non sono infatti neutrali: al contrario, una categoria prevale sull’altra, rendendo la loro relazione un rapporto profondamente asimmetrico e gerarchico.12 In Situated Knowledges, la filosofa, in dialogo critico con il lavoro di Harding (1993), sostiene che il discorso sull’oggettività è comunque limitato e da abbandonare, poiché la pratica femminista ha reso evidente che l’unica conoscenza possibile è quella sempre situata (1988, p. 581). Un punto particolarmente rilevante del lungo lavoro di Donna Haraway riguarda la responsabilità della conoscenza e della sua produzione: sostenere che la conoscenza è sempre situata non indica che ogni conoscenza è valida poiché relativa – il relativismo implicherebbe mettere sullo stesso livello per esempio la conoscenza prodotta dai margini o dalle periferie e quella prodotta da posizioni di dominio che s’impongono con le loro ideologie, rendendo legittimi i rapporti di potere, e in questo senso il relativismo fa lo stesso gioco delle ideologie totalizzanti (ibidem, pp. 583-584). Significa invece aver consapevolezza dell’importanza della decostruzione dei linguaggi dominanti (per esempio, rispetto alle narrazioni essenzializzate delle donne “del Terzo Mondo”) poiché prodotti da posizioni di dominio, e che il sapere, le narrazioni, la conoscenza sono sempre frutto di un corpo che occupa determinate posizioni nella scala del privilegio. In modi diversi e con diverse terminologie, il posizionamento come spazio storicamente dato e socialmente costruito da cui guardare forme e reti del potere e dell’oppressione – per svelarne meccanismi e mostrarne la forza – è un tema centrale per scrittrici, studiose e poetesse nere, chicane, latine, postcoloniali che sono state, e sono, voci importanti dei femminismi non allineati a quel12. La cyborg theory di Haraway nasce dalla critica a questi dualismi: il cyborg rappresenta il superamento delle dicotomie macchina-essere umano, uomo-donna, natura-cultura, finzione-realtà e delle differenze sessuali, razziali, etniche diventando simbolo di quella condizione umana dove sciogliere i confini delle appartenenze (1985).

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la definita “cultura dominante occidentale”. Nel suo lavoro letterario fatto di versi e prosa Gloria Anzaldúa (1987) racconta la sua esperienza di vita fra il Messico e il Texas per poi rendere il confine uno spazio concreto, sociale e simbolico necessario per riflettere sulla posizionalità politica della mestiza (l’essere collocata sulla frontiera – frontera – dei territori, del genere, del sesso, delle culture, delle appartenenze). Le sue opere sono ancora del tutto rilevanti per comprendere lo sguardo sul mondo di coloro che abitano, per la storia e per il posto sociale occupato, ai confini dei generi, delle culture o delle norme sociali. La posizione della mestiza è nel suo essere portatrice dei segni dell’oppressione (della storia coloniale, del dominio maschile, dell’eteronormatività, del razzismo) anche privilegiata per interpellare le ideologie dominanti e mettere in discussione le norme delle società bianche ed egemoniche. Chela Sandoval, esponente, per usare le sue parole, “del femminismo postcoloniale e del Terzo Mondo”, nel lungo lavoro sulla metodologia dell’oppressa (1991, 2000) e di critica al U.S. hegemonic feminism guarda alle posizioni d’oppressione delle donne come i luoghi da cui riscrivere la storia a partire dalla lotta e dalle battaglie intraprese per infrangere le strutture del dominio. Tale posizione inoltre non è da considerarsi utopia o ideologia, ma espressione di una pratica politica e di una metodologia. E ancora, bell hooks che insieme a Chela Sandoval troverà spazio nelle pagine a seguire, guarda e descrive il margine come posizionamento politico e come sguardo “particolare sul mondo”, spazio da cui poter guardare ai dominanti oltre che ai dominati. Come altre attiviste del pensiero femminista nordamericano, Donna Haraway ha costruito con queste scrittrici e studiose, e con le loro opere, un dialogo che essa stessa ha considerato imprescindibile: l’immagine della mestiza, per esempio, è un riferimento centrale nello sviluppo della sua critica ai dualismi e alle strutture binarie della cultura occidentale. La conoscenza situata è in questo senso politica (ritorna il tema della responsabilità): senza romanticizzare e senza rendere più innocente lo sguardo di coloro che hanno meno potere, la posizione delle periferie e dei margini rappresenta una narrazione antagonista perché dà vita a rappresentazioni contro-egemoniche del mondo e perché svela la posizione di potere e di privilegio storico da cui le narrazioni dominanti sono prodotte. 39

Antropologia, prospettive di genere e femministe

2. L’invisibilità delle donne. Studi sul patriarcato e sulla subordinazione Sistema patriarcale e subalternità “L’umanità è maschile” scriveva Simone de Beauvoir in Il secondo sesso (1949). Quando negli anni Settanta del secolo scorso il femminismo si pose la domanda “chi è la donna?” (de Lauretis, 1990, p. 11) riconobbe la sua inesistenza nella storia ufficiale. Questa inesistenza mostrava in realtà il paradosso su cui da lì in poi il pensiero femminista affondò parte delle sue radici. Ovvero: “Il paradosso di un essere che è allo stesso tempo assente e prigioniero nel discorso” (ibidem); un essere esibito, ma non auto-rappresentato, costruito come oggetto ma portatore di una storia che impediva di rivendicare se stesso come soggetto. In un secondo passaggio della sua storia, questo paradosso venne direttamente affrontato. “Paradosso donna” significava denunciare la costruzione oggettiva della donna e la volontà di mostrarla nel suo essere soggetto attivo, fautore e partecipe della storia personale e sociale. Convenzionalmente nato negli anni Sessanta del Novecento, il movimento femminista contemporaneo dei contesti euroamericani13 aveva l’obiettivo di far emergere il soggetto donna nella storia. Quest’obiettivo obbligava a rendere evidente il patriarcato o, in termini più corretti, il sistema o il dominio patriarcale. Storicamente sedimentato e socialmente ancora attivo e produttivo, dominio patriarcale indica la costruzione storica dei rapporti di dominio del maschile sul femminile e i modi con cui esso ha pervaso le strutture sociali, politiche, simboliche, economiche e culturali attraverso le quali mantiene la for13. Da un punto di vista storico, vi sarebbero da notare le differenze fra le genealogie e lo sviluppo dei movimenti sorti in Europa (dove differenze vi furono anche fra gli stessi paesi) e Stati Uniti. È da sottolineare, inoltre, che momenti precedenti a questa datazione hanno segnato la storia delle donne mettendo le fondamenta per la nascita dei movimenti femministi. Per esempio, molte studiose considerano i movimenti delle suffragette, storicamente definiti nei paesi europei e americani, che hanno inaugurato la rivendicazione dei diritti politici delle donne, come le fasi iniziali delle lotte femministe; vi è da ricordare ancora che la presa di parola delle donne nere di fronte al razzismo iniziò già nell’Ottocento; così come donne nella storia moderna alzarono la voce per la rivendicazione dei diritti. Rimando a testi curati dalle studiose di storia delle donne, in particolare, al lavoro di Zemon Davis (1977), Duby e Perrot, 1992, voll. IV e V sulla storia delle donne in Occidente, Bock (2000) sulla storia delle donne in Europa. Rimando anche, per una lettura più analitica, ai lavori di Di Cori (1987, 1996, 1997). Vedi per una configurazione storica dei movimenti delle donne e per un’analisi del pensiero politico Baritono (2012b e 2011). Rimando infine alla consultazione di Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche, ove recuperare contributi importanti sulla storia delle donne.

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2. L’invisibilità delle donne. Studi sul patriarcato e sulla subordinazione

za conservatrice e si perpetua, legittimando (costruendosi come doxa, come ordine sociale iscritto nelle relazioni, nei soggetti, nei corpi) la posizione di minor potere delle donne nelle diverse sfere della vita empirica e simbolica.14 Parlare di dominio del maschile – della posizione cioè di maggior potere degli uomini rispetto alle donne nelle società umane – significa mettere in luce la subordinazione delle donne, e ancor più i processi storici, sociali, simbolici e culturali attraverso cui questa posizione si è realizzata e ancora si manifesta. Il femminismo – inteso qui sia come movimento politico sia come lo sviluppo di apparati teorici – è stato e ancora è, seppur poi arricchitosi di altre riflessioni, la voce di sfida alla differenza di potere fra uomini e donne e alla gerarchia sociale costruita sulle differenze sessuali. Queste rivendicazioni avanzate sul piano politico, sociale, economico, culturale e simbolico confluirono nei movimenti delle donne e femministi, luoghi di battaglia civile e politica. Dalla pratica politica, dal sapere e dai discorsi delle donne emersero anche prospettive teoriche e nuovi quadri interpretativi. Nel momento in cui il pensiero femminista compie questa operazione – ovvero mostra il pregio di essere contemporaneamente un movimento di protesta e un pensiero teorico innovativo – il passo compiuto è una critica epistemologica alla costruzione della conoscenza che influenza l’intero scibile umano, compresa l’antropologia e il campo teorico costruito intorno alle migrazioni. Emergerà dalle pagine successive che parlare di femminismo non implica in verità “solo” una riflessione sulle differenze di potere fra uomini e donne, né un’analisi puntuale dei processi che realizzano queste differenze. È invece una riflessione ben più profonda e articolata, maturata attraverso autocritiche, critiche esterne, profonde riflessioni su tematiche prioritarie, quali soggetti, corpi, forme d’oppressione, relazioni. L’invisibilità delle donne e la nascita dell’antropologia delle donne L’eco dell’invisibilità delle donne nella storia ufficiale denunciata dalle femministe arriva alle discipline sociali provocando nel campo dell’antropologia un dibattito legato ai diversi livelli di costruzione del 14. Per un’analisi di ordine culturale e simbolico della permanenza del dominio patriarcale e per una riflessione ragionata sul mantenimento di un ordine sociale di dominio e sopruso vedi Pierre Bourdieu (1998). Per un’analisi attuale sulla rappresentazione e sulla valenza dei simboli nella riproduzione di logiche di dominio maschile rimando a Gribaldo e Zapperi (2012).

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

sapere: l’etnografia (relazioni fra antropologi e informatori), l’analisi teorica, la testualizzazione e la rappresentazione delle società studiate, compresa la restituzione del sapere nello spazio pubblico e scientifico. Le antropologhe che negli anni Settanta fecero proprie le istanze del movimento femminista avanzarono una battaglia nella disciplina diretta a svelare un doppio cieco: l’assenza delle donne come oggetto di studio e il numero estremamente ridotto delle donne ricercatrici nell’ambito accademico. Queste assenze disciplinari rispecchiavano la gerarchia fra uomini e donne presente nella società: rivendicare un sapere e un discorso sulle donne in quel momento storico – nei contesti euroamericani e nelle discipline accademiche – significava far propria una posizione politica diretta a rendere visibili le gerarchie della differenza e le condizioni di subalternità. Henrietta Moore (1988) scrive che il pregiudizio androcentrico dell’antropologia di quegli anni si presentava a diversi livelli. Il primo era legato alla presunta neutralità del ricercatore e delle relazioni etnografiche. Sino agli anni Sessanta, vi era la convinzione che il genere (prevalentemente maschile), insieme ad altri assi di differenza, non influenzasse la costruzione della ricerca. Dalla scelta degli informatori, alla relazione etnografica con essi costruita, sino al processo di costruzione della conoscenza e della testualizzazione dell’indagine etnografica erano considerati passaggi per nulla legati alla questione del genere. Il secondo livello era legato all’universalità del dominio maschile e della subordinazione delle donne, considerate costanti di tutte le società umane. Ai tempi, il dibattito femminista intendeva dar conferma, ovviamente in una prospettiva fortemente critica, a questa universalità, e anzi leggendo Gayle Rubin, Sherry Ortner (1974) o Karen Sacks (1974) è ben evidente quanto la volontà delle loro analisi fosse rivolta a rilevare il carattere transculturale della subordinazione delle donne. Il pregiudizio androcentrico riguardava qui non il tema della subordinazione in sé, ma l’analisi condotta per dimostrarlo. Dal punto di vista della ricerca condotta da antropologi, il dominio patriarcale non era messo in discussione, non era cioè considerato un ambito da esplorare; da un punto di vista più allargato, che comprendeva anche parte delle ricerche condotte dalle antropologhe, la volontà di confermare il dominio maschile come una costante e un’evidenza universale aveva impedito di indagare etnograficamente il modo specifico con cui le strutture sociali e simboliche operavano per mantenere le gerarchie sessuali. In altre parole: 42

2. L’invisibilità delle donne. Studi sul patriarcato e sulla subordinazione

assumere il dominio patriarcale come dato universale neutralizzava un’analisi sistematica dei modi storici e situati con cui le strutture di potere costruivano ruoli e posizioni delle donne e degli uomini. Occorre ricordare che Sherry Ortner affrontò in modo ben diverso l’universalità della subordinazione femminile, descrivendola come “una verità universale” e “un fatto panculturale” (1974, p. 67) sottolineando però l’importanza di considerare – a livello teorico e soprattutto etnografico – strutture sociali, ideologie e simbolizzazioni locali e specifiche, “straordinariamente diverse e mutualmente contraddittorie” (ibidem), attraverso cui questa subordinazione si realizza. A questi due livelli – il fatto universale della subordinazione delle donne e la dimensione locale, storica e situata con cui questa costante si realizza – l’antropologa ne aggiunse un terzo: le attività e i modi con cui le donne rispondevano o contrastavano tali ideologie. Questo ambito di conoscenza poteva scaturire solo dall’etnografia, ovvero dall’osservazione diretta e dalla partecipazione alle pratiche locali da parte di ricercatori e ricercatrici (ibidem, pp. 68-69). Il terzo livello contemplava la mancanza di una comparazione sistematica fra le società studiate dagli antropologi e la realtà euroamericana cui appartenevano. Essi leggevano le gerarchie sessuali incontrate come simili a quelle delle società di cui erano membri, senza interrogarsi sulle specificità delle relazioni di potere che costruivano queste gerarchie e sui posizionamenti sociali storicamente costruiti degli uomini e delle donne. La consapevolezza maturata intorno a questi pregiudizi, e la conseguente protesta contro essi, portarono alla nascita dell’antropologia delle donne: campo di studio e di ricerca intenzionato a incorporare le donne nella ricerca empirica e teorica sia come oggetto di studio che come studiose sociali. Sebbene oggi se ne comprenda la limitatezza, l’antropologia delle donne mirava a correggere “il pregiudizio androcentrico nella disciplina” (di Leonardo, 1991, p. I) e a riempire quel vuoto conoscitivo che a esso era conseguito. Rilevando l’invisibilità delle donne come ricercatrici, essa voleva innalzare il numero delle ricercatrici nel campo dell’antropologia e mettendo in evidenza l’invisibilità delle donne negli studi etnografici, l’antropologia delle donne sollecitò lo studio di temi che le vedevano direttamente coinvolte – come la riproduzione e l’educazione, ma anche lo status e i ruoli sociali giocati nella sfera privata e pubblica – cogliendone le variazioni culturali e specificità locali. L’antropologia delle donne, dunque, nata e sviluppatasi negli anni Settanta faceva riferimento “sia a un’antropo43

Antropologia, prospettive di genere e femministe

logia sulle donne, sia a un’antropologia fatta dalle donne, sviluppando stili e metodi di ricerca originali” (Bellagamba, 2001b, p. 63). Focalizzare “le ricerche di terreno e le analisi su ciò che le donne dicono e pensano, vale a dire reintrodurre “il punto di vista delle donne nelle descrizioni e nella teoria” (Busoni, 2000, p. 115) ebbe il pregio di far luce sulla connessione fra l’oppressione delle donne nell’ambito sociale e la costruzione sessista (androcentrica) del sapere. Sex/gender system: l’analisi dell’oppressione L’analisi delle cause dell’oppressione è una premessa indispensabile per individuare cosa si dovrebbe cambiare in vista di questa società. La questione non è da poco, visto che le risposte che vi si danno determinano le nostre prospettive per il futuro e indicano se la nostra speranza di realizzare una società libera da discriminazioni sessuali sia realistica o no. (Gayle Rubin, 1975)

Malathi de Alwis scrive che la relazione fra antropologia e femminismo si è “solennizzata” (2007, p. 122) con due testi: Woman, Culture and Society (1974) e Toward an Anthropology of Women (1975) curati rispettivamente da Michelle Rosaldo con Louise Lamphere e Rayna Rapp Reiter, svoltando lo sviluppo degli studi femministi, dell’antropologia femminista e delle scienze sociali e biologiche più in generale (ibidem). Come sottolinea Mila Busoni, questi testi “sfidavano apertamente l’epistemologia nella disciplina e proponevano un vasto progetto di revisione teorica e descrittiva” (2000, p. 114). I due testi non raccoglievano semplicemente scritti di donne sulle donne, ma si rifacevano a un progetto politico femminista (ibidem, p. 103). È vero in particolare per il secondo, dove Rayna Reiter scrisse esplicitamente: “Questo libro ha le sue radici nel movimento delle donne” (1975, p. 11) affermando che le questioni poste sarebbero state ben più “che accademiche: le risposte aiuteranno le femministe nella lotta contro il sessismo nelle loro stesse società” e contro “la critica politica che deve essere basata sulla comprensione delle origini e dello sviluppo del sessismo” (ibidem). Mentre la prima raccolta conteneva “Is female to male as nature is to culture?” di Sherry Ortner sopra menzionato, la seconda comprendeva “The traffic in women: Notes on the ‘political economy’ of sex” di Gayle Rubin che segnò nel 1975 un momento centrale nel dibattito. Comparve in quest’ultimo saggio l’espressione “sistema sesso-genere” [sex/gender system], e prima ancora la parola genere 44

2. L’invisibilità delle donne. Studi sul patriarcato e sulla subordinazione

[gender] nella sua distinzione dal sesso. Il saggio è ricordato solitamente per il modo con cui Gayle Rubin sistematizzava la distinzione fra uomo e donna inscritta nel corpo biologico operata attraverso il genere, inteso come la costruzione sociale e culturale del maschile e del femminile, differente o a tratti simile nelle diverse società umane. Occorre dire che non è un caso che questa distinzione sia nata nella riflessione antropologica: per via della sua attitudine comparativa, il sapere antropologico, basandosi su ricerche etnografiche, aveva mostrato come l’essere uomo o donna fosse profondamente diverso fra le società umane: i ruoli sociali di conseguenza non potevano derivare dal sesso biologico, ma dalla sfera culturale e sociale che a esso dava significati specifici. In verità, quel saggio compì un passo più raffinato analizzando come la sfera sociale organizzasse la sessualità e la componente biologica e intendendo il sistema sessogenere come “la tendenza dei dispositivi tramite i quali una società trasforma l’istinto sessuale biologico in prodotto dell’attività umana” (1975, pp. 24-25). È da rammentare che Gayle Rubin aveva al tempo di questa scrittura circa 25 anni, che già era politicamente attiva nei gruppi lesbici e femministi del periodo e che non era suo interesse ridurre il genere a una semplice costruzione sociale inscritta sul corpo – come se le donne fossero “materiale grezzo” (ibidem, p. 24) da forgiare. Attraverso un’analisi puntuale della teoria sociale marxista, ne volle mostrare l’inadeguatezza nel leggere la genesi dell’oppressione delle donne (la subordinazione delle donne non era il risultato dell’origine del capitalismo, ma era quest’ultimo a essere conseguente alla subordinazione delle donne, riposizionando nel testo il ruolo della differenza sessuale per un’analisi sociale dello sfruttamento e dell’oppressione).15 Nel testo, Gayle Rubin fece dialogare l’analisi delle teorie sociali marxiste con gli studi sulla parentela e sulla sessualità, ripercorrendo i lavori di Claude Lévi-Strauss e Sigmund Freud per indagare l’origine dell’oppressione pensando al sistema sesso-genere come una prospettiva per lo studio dell’organizzazione sociale della sessualità e “della riproduzione delle norme relative al sesso e al genere” (ibidem, p. 33). L’analisi e la definizione del sistema sesso-genere erano politicamente – oltreché scientificamente – importanti nel voler mostrare co15. Nel testo, l’antropologa pone una discussione più articolata rispetto all’analisi del capitalismo dal punto di vista del lavoro riproduttivo, entrando nel vivo della discussione sulla relazione fra capitalismo e patriarcato, modi di produzione e modi di riproduzione.

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

me i ruoli di subalternità delle donne nelle società non fossero “naturali”, né “innati” o semplici conseguenze delle differenze biologiche inscritte sui corpi. La subordinazione storica e sociale della donna era dovuta al modo con cui la differenza sessuale si traduceva – per via di un ordine egemonico patriarcale – in un ruolo socialmente e culturalmente subordinato delle donne rispetto all’uomo. La prospettiva del sistema sesso-genere non si limitava, dunque, a mostrare i significati sociali costruiti intorno ai sessi, né si accontentava di rimanere sul piano della constatazione della differenza. Registrava invece le modalità di costruzione sociale dei ruoli, o meglio i processi sociali che costruivano identità del maschile e del femminile nelle diverse società. Se i ruoli del maschile e del femminile erano socialmente costruiti, significava che donne e uomini lo si diventava all’interno di determinate relazioni sociali. In altre parole, erano le strutture e le relazioni sociali a conferire posizioni di potere oppure di subalternità. La posizione di minor potere delle donne, l’assenza nei ruoli di prestigio e l’articolazione della voce erano questioni sociali e non dati naturali. La divisione fra i sessi e la gerarchia sociale su essi inscritta andavano disancorate dalla convinzione di un’innata predisposizione iscritta nel corpo o nella natura dei due generi a svolgere attività differenti o a occupare campi di potere o sfere sociali distinte, poiché entrambi dipendenti da gerarchie di potere e da norme che li rendevano operative. Queste riflessioni appaiono oggi ovvie e riduttive dinanzi al dibattito attuale. Eppure, questo fu un passaggio importante. Sino a questa data, sesso e genere, identità sessuale e di genere apparivano intercambiabili e sovrapposti, e ancora mancava un’analisi sistematica della loro relazione. Questa prospettiva svincolò il genere dal sesso e fece un passo in avanti verso l’abbandono di una lettura statica delle differenze – che si limitava a cogliere variazioni culturali nei significati dati alle differenze sessuali – a favore di una dimensione analitica e processuale – che mirava a indagare i processi attraverso cui si generano e si ripetono gerarchie e strutture del potere che mettono le donne in posizioni di subordinazione. Occorre ricordare, aspetto che sarà utile a comprendere lo sviluppo delle prospettive femministe sulle migrazioni, che l’analisi del genere non fu slegata dalla variabile della classe e che anch’essa trovò spazio nel dibattito del tempo. Introducendo Toward an Anthropology of Women, Rayna Rapp Reiter scriveva che dinanzi alla divisione sessuale del lavoro, le femministe non si accontentarono di rilevare la supremazia maschile ma “vollero sapere perché” (1975, p. 12). 46

3. La critica femminista al femminismo

Le nozioni di classe, di spazio privato come luogo della riproduzione della forza lavoro e della divisione sessuale del lavoro produttivo e riproduttivo delle teorie marxiste, andavano ridiscusse e riposizionate nella storia della subordinazione delle donne. Se questa prospettiva era presente in Gayle Rubin che, come scriveva Rayna Rapp, usava le categorie di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud per costruire una teoria critica del processo di subordinazione femminile (ibidem, p. 18) lo era ancor più in Engels Revisited: Women, the Organization of Production and Private Property di Karen Sacks, saggio contenuto nella raccolta di Lamphere e Rosaldo (1974). Dalla prospettiva del femminismo socialista, Karen Sacks non era tanto critica verso il concetto di classe elaborato da Engels in sé, quanto verso il fatto che egli individuasse l’origine storica dell’oppressione delle donne nella nascita della proprietà privata (mentre come Rubin, Sacks ritiene che la subordinazione sia precedente e che essa riguardi anche le società che non conoscono la proprietà privata). Tornò in modo più approfondito sul tema nel 1989, con un saggio dedicato alla necessità di rivedere “il concetto di classe e di lotta di classe come forze-chiave dei processi di trasformazione sociale” (p. 534) alla luce delle sue intersezioni con il genere e la “razza” (la classe, scrisse, non è un concetto neutro e se lo si vuole usare per comprendere la subordinazione e le lotte per la trasformazione occorre considerarlo in un’analisi unificata con il genere e la “razza”) – tali prospettive troveranno spazio nel Capitolo Secondo. 3. La critica femminista al femminismo Ignoring the differences of race between women and the implications of those differences presents the most serious threat to the mobilization of women’s joint power. (Audre Lorde, 1984)

Negli Stati Uniti degli anni Sessanta, voci dissonanti di donne iniziarono a elevarsi ai margini del femminismo: il dominio patriarcale era l’unica forma di oppressione che universalmente vivevano le donne? E la loro subordinazione nella storia dipendeva da questo asse di oppressione? Scrisse apertamente Barbara Smith: “Le donne bianche non lavorano sul razzismo” pertanto occorre discutere “del razzismo negli studi delle donne e del razzismo nel movimento delle donne in generale” (1982, pp. 48-49). Arroganza razziale, classismo e impron47

Antropologia, prospettive di genere e femministe

ta colonialista nella produzione del sapere iniziano a essere avvertiti da gruppi di donne affini al movimento femminista per presupposti politici, ma che da esso si sentivano escluse sulle linee della discriminazione razziale, sessuale, di classe sociale ed economica. I due assi portanti del pensiero femminista del periodo – su cui si reggevano sia l’antropologia delle donne che gli studi sulle donne più in generale – iniziano a vacillare: le donne come soggetto comune e gruppo sociale; il patriarcato come struttura che agisce in modo indistinto su tutte le donne, accomunandole in questa esperienza d’oppressione. Da un punto di vista interno all’antropologia, la disciplina fu attraversata da un’autocritica che iniziò a produrre nuovi terreni epistemologici. Furono le stesse antropologhe a mettere in crisi l’antropologia delle donne: questo campo specifico di studi su temi legati alle ripartizioni sessuali dei ruoli sociali aveva confini troppo stretti. Era vero che rispetto ad altre discipline “idee generate dall’inchiesta femminista ricevettero una rapida risposta nelle correnti principali dell’antropologia” (Strathern, 1987, p. 278), principalmente grazie alla centralità degli studi sulla parentela e sulla configurazione dei modelli sociali. Ma da un altro punto di vista, questa conoscenza accumulata, cui si aggiungeva l’accesso da parte dell’antropologia al sapere comparato sulle società umane, faceva sì che nessuno poteva dirsi “inconsapevole delle condizioni delle donne” (ibidem). Inoltre, grazie alla sua declinazione etnografica, l’antropologia doveva fare i conti con il fatto che i modelli culturali usati per descrivere le posizioni delle donne (e degli uomini, come di altri soggetti più in generale), i paradigmi interpretativi e le norme sociali studiate potevano riscontrare diversi livelli d’adesione o di resistenza da parte delle donne stesse (Bellagamba, 2000, 2001a). Ovvero: i modelli e le rappresentazioni delle società potevano essere molto limitate rispetto a ciò che accadeva realmente nella vita sociale. Queste conoscenze che rendevano la relazione fra antropologia e pratica femminista privilegiata rispetto ad altre discipline permettevano anche di sollecitare interrogativi importanti da parte delle antropologhe: “Qual è il posto dell’ideologia nelle rappresentazioni collettive? Come nascono i sistemi di disuguaglianza? Categorie come “domestico” e “politico” sono utili dal punto di vista analitico?” (Strathern, 1987). Occorreva in sostanza interrogare apertamente i rapporti di potere dal punto di vista analitico e empirico. Questa strada gettò le basi per l’antropologia femminista che non si accontentò di un’antropologia fatta dalle/sulle donne, ma volle entrare negli studi sulla società, sul potere, sulle norme e nel dibat48

3. La critica femminista al femminismo

tito allargato legato alle istanze di ricerca, alla metodologia e al fare teoria (vedi anche Scheper-Hughes, 1983). Vi è da sottolineare che nel rivendicare il legame fra la produzione scientifica delle antropologhe e il movimento femminista, Rayna Rapp Reiter sottolineò che lo studio della subordinazione e della variabilità locale con cui essa si manifestava presupponeva prendere sul serio “il pregiudizio razziale e le forme di etnocentrismo” (1975, p. 14) avanzando al tempo una riflessione sulla disparità di potere fra le persone (le donne) coinvolte nei processi di costruzione della conoscenza. Da un punto di vista più ampio, questa diversa distribuzione del potere (anche fra le donne e non solo fra uomini e donne) fa avanzare una critica femminista verso tutti i campi del sapere, ma soprattutto verso lo stesso pensiero femminista. Che cosa è il potere? Chi sono le donne e chi è il soggetto donna di cui parla il femminismo? Queste domande fondano il pensiero di seconda ondata, e preparano il terreno alla terza. Il potere fatto coincidere con il patriarcato e le donne come soggetto universale restringevano la riflessione femminista entro contesti egemonici, sino a diventare i due assi aspramente criticati. Con più precisione: il patriarcato era stato visto (dalle femministe bianche e euroamericane) come neutro dal punto di vista della “razza”, della classe sociale ed economica e di altre variabili di differenza; il soggetto donna del femminismo nasceva da presupposti identificanti, e per molti versi era stato elevato a “soggetto Donna” sovrastando la soggettività storica, situata nel tempo e nello spazio delle donne. Il femminismo bianco composto da donne che occupavano posizioni di privilegio storico e sociale dovette, su questi punti, rispondere alle critiche delle donne afroamericane (le cui vite erano state segnate dalla storia della schiavitù e dalla segregazione razziale) e postcoloniali (sulle cui vite si era imposto il dominio economico e culturale dell’Occidente) che ne denunciavano la dimensione profondamente egemonica. Il potere andava analizzato nelle sue intersezioni con forme di oppressione razziale e di classe sociale guardando sia alle configurazioni storiche di queste intersezioni sia ai modi con cui le loro eredità posizionavano le donne nel presente. Questa prospettiva riposizionava anche i significati delle lotte e delle rivendicazioni delle donne: se, per esempio, la battaglia del femminismo bianco comprendeva una riflessione sullo spazio privato e domestico 49

Antropologia, prospettive di genere e femministe

(considerato il luogo da cui emanciparsi perché a esso erano state storicamente relegate), per le femministe afroamericane l’emancipazione era anche una lotta di riappropriazione dell’ambiente domestico, laddove la lunga storia della schiavitù, dei genocidi, del razzismo aveva precisamente operato nel rompere le loro comunità e le famiglie (hooks, 1990; anche Davis, 1981; Lorde, 1984). Il soggetto donna doveva allora essere decostruito laddove era stato fatto coincidere con una categoria omogenea e omnicomprensiva, poiché così inteso metteva in ombra le esperienze delle donne anziché svelarne le storie d’oppressione e le modalità storiche e situate che avevano segnato i tentativi di sovvertire le strutture del dominio. Rimanendo silente dinanzi alla pluralità delle forze di oppressione e negando le donne come soggetti storici, il femminismo bianco si era fatto perpetuatore e complice delle culture egemoniche e degli ordini dominanti. Nasce da qui l’espressione “femminismo egemonico”. Da parte loro, le femministe nere e postcoloniali non rivendicarono uno spazio di parola specifico da cui raccontare le loro specifiche esperienze, ma il riconoscimento delle donne nere, postcoloniali, chicane, latine e di tutte coloro messe a margine dei privilegi della storia come soggetti storici testimoni dei segni d’oppressione e insieme di esercizio di forza politica. 4. La questione razziale (e le sue intersezioni): il femminismo nero Quando la specificità storica viene negata, si presume che tutte le donne siano bianche e che tutti i neri siano uomini. (Gloria T. Hull e Barbara Smith, 1982) It is a particular academic arrogance to assume any discussion of feminist theory without examining our many differences, and without a significant input from poor women, Black and Third World women, and lesbians. (Audre Lorde, 1984)

Siamo fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, e non a caso negli Stati Uniti. Il movimento femminista nero contemporaneo affonda le sue radici nella storia delle donne afroamericane la cui memoria legata alla schiavitù, alla segregazione e al patriarcato bianco e nero era in quegli anni, e ancora lo è, politicamente vivace. Trovando espressione nella lotta sociale e nell’attivismo politico, quanto nell’elaborazione di un pensiero intellettuale e critico, esso 50

4. La questione razziale (e le sue intersezioni): il femminismo nero

fu importante, se non fondamentale, per l’intero apparato teorico e politico del pensiero femminista. La memoria storica della schiavitù e il suo ripresentarsi nel presente nella segregazione sociale e nel razzismo segnano una linea di demarcazione fra il femminismo nero e quello bianco. La linea razziale come categoria imposta d’appartenenza e il razzismo come esperienza di oppressione sono gli assi portanti del discorso femminista nero16 e gli spazi delle sue battaglie teoriche e politiche. Il movimento femminista e il movimento per i diritti civili degli afroamericani particolarmente attivi negli anni Sessanta e Settanta sono stati fra le principali lotte sociali per i diritti politici e civili del secolo scorso. Il primo vedeva nel patriarcato e nel sessismo la repressione delle donne e aveva fatto della liberazione della donna dagli schemi del potere maschile il suo grido di battaglia. Il secondo esprimeva la sua lotta verso le forme di razzismo legate a tutte le sfere della vita pubblica, sociale e privata dei neri, e vedeva nella segregazione razziale-sociale la memoria della schiavitù e uno strumento di repressione ancora vitale e produttivo. Sessismo da una parte e razzismo dall’altra erano gli obiettivi verso cui questi movimenti indirizzarono rispettivamente le loro proteste. Erano anni di fervore sociale e politico, in cui le proteste e le lotte della società civile per la rivendicazione dei diritti ne caratterizzavano la vita culturale. Eppure, il femminismo nero – autodefinitosi “la lotta nelle lotte” – nacque in un rapporto di condivisione/opposizione ai due movimenti di liberazione e di emancipazione, elevando una profonda voce dissonante rispetto a entrambi. Invisibili e rese silenti. Così le donne nere pensavano a se stesse nella società civile e dinanzi ai due movimenti: discriminate in termini di “razza” dentro a un femminismo bianco e ricco di privilegi, oppresse dal punto di vista del genere e del sesso nel movimento di liberazione della comunità afroamericana. L’impegno per la libertà portato avanti dal movimento nero per i diritti civili17 era un impegno per la libertà maschile. L’assenza di 16. Uso il termine “femminismo nero” come traduzione di Black Feminism usato nella maggior parte delle opere e dei saggi nella produzione letteraria di queste attiviste, e in particolare nella letteratura frequentata in queste pagine. 17. La storia del movimento nero per i diritti civili meriterebbe un’analisi nella sua interezza, compresa una valorizzazione dei suoi movimenti interni (per esempio il movimento Black Panthers o il Black Movement). I diversi movimenti per i diritti civili sono convenzionalmente indicati come Civil Rights Movement e fatti risalire al 1954. Dopo l’esperienza razzista vissuta e denunciata da Rosa Parks, iniziò nel 1955 il boi-

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

una riflessione sul patriarcato nero – costruito in un rapporto egemonico rispetto alla sessualità delle donne e di forte subalternità rispetto al patriarcato bianco – era uno dei punti su cui le femministe nere avevano ancorato la loro critica.18 In quegli anni, le donne afroamericane denunciavano un forte interesse da parte degli uomini afroamericani rispetto al controllo della sessualità femminile e un regime di oppressione sessista vissuto tanto nella società civile, quanto dentro il movimento stesso. Denunciavano anche come la costruzione della libertà e della mascolinità passasse per molti dall’uso del corpo femminile e dall’accesso alla sessualità femminile. Le femministe muovevano accuse anche verso le donne della comunità afroamericana che non si ribellavano al patriarcato nero, o che lo perpetuavano, per esempio negando il sessismo dentro a una comunità che rappresentava una lotta di liberazione e di acquisizione dei diritti. Non a caso, il femminismo nero più impegnato era composto per larga parte da donne nere lesbiche con uno sguardo già critico sulla norma eterosessuale e sulle dinamiche di sopruso sociale e simbolico vissute come donne poste storicamente in posizioni di subalternità al dominio maschile (Laforest, 2000). Il movimento femminista bianco nacque dalla volontà di far emergere “l’esperienza delle donne” e denunciare il dominio maschile nello spazio pubblico e privato. Il “patriarca” era il nemico verso cui rivolgere la propria lotta e nel patriarcato era identificata la forma di oppressione universale agita sulle donne. Universalità significava sempre nella storia e trasversalmente alle specifiche cottaggio dei mezzi pubblici a Montgomery (Alabama), cui fecero seguito proteste che portarono nel 1964, al Civil Right Act dichiarando illegali la segregazione razziale nelle scuole e nelle strutture pubbliche, nei posti di lavoro, nelle elezioni. Rimando per esempio al lavoro di Lawson sulla storia dei movimenti per i diritti civili afroamericani (1991, 2003) e al testo di Foner (1998) per un’analisi più ampia dei movimenti e della costruzione del concetto di libertà negli Stati Uniti. Oltre alla letteratura, menziono anche la documentazione visuale prodotta negli anni Quaranta-Cinquanta sotto il nome di Race Film, che ben documenta la violenta crudeltà del razzismo del tempo, di cui un esempio è il recente documentario (che raduna anche immagini di repertorio appartenenti allo stesso filone dei race film) The Rape of Recy Taylor. Una storia di razzismo e violenza (di Nancy Buirski, 2017). 18. Un’analisi storica approfondita riporta alla ricostruzione della mascolinità nera dello schiavo, storicamente costruita come subalterna alla mascolinità bianca del padrone. Una delle tragedie principali del razzismo fu la perdita della mascolinità – manhood “questo uomo che non è un uomo”, vedi gli studi di Fanon rispetto alla sedimentazione dell’oppressione e alla potenza del razzismo nella costruzione del sé (1952, 1961) e di Du Bois (2010) – dove la redenzione della mascolinità nera divenne un aspetto caratterizzante il movimento nero. Essa fu identificata come un principio di libertà, ma vissuta dalle donne come una forma spietata di sessismo laddove questa mascolinità per riabilitarsi si manifestava con ripercussioni violente sulle donne.

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4. La questione razziale (e le sue intersezioni): il femminismo nero

esperienze femminili: universali erano pertanto l’oppressione, l’oppressore e anche l’oppressa. Il patriarcato era la forma di potere da combattere e verso cui rivolgere la propria lotta; la donna era il soggetto oppresso da liberare dal patriarcato. Ma chi era in realtà questa donna? Di quale storia faceva parte? Di quali donne il femminismo stava parlando? Scrive Maria Nadotti in prefazione a bell hooks (1998, p. 8): “Vedere nella donna un’alleata naturale di un’altra donna è un vizio concettuale e ideologico”, incapace di considerare la storicità e la specificità di ognuna. “Non solo le donne non sono uguali fra loro, ma ridurle a un unico denominatore significa condividere il gioco sessista e dunque ridurle al silenzio, cancellarle, teorizzarle e non conoscerle” (ibidem). Scrive bell hooks in Ain’t a Woman?: Black Women and Feminism: Quando il movimento delle donne (bianche) fece dell’oppressione sessista la sua battaglia, noi pensavamo al sessismo come insignificante alla luce di un’oppressione più dura e più brutale con cui eravamo da secoli abituate a combattere, e che era la realtà del razzismo. Eravamo impaurite dal riconoscere che il sessismo potesse essere oppressivo quanto il razzismo e speravamo che la liberazione dall’oppressione razziale significasse per noi essere libere a tutti gli effetti. (1981, p. 1)

Sulla memoria dell’oppressione e sul razzismo, il movimento delle donne nere prese vita e si distinse dal femminismo “bianco e classista”. Da parte delle femministe bianche e nordamericane, l’accettazione del discorso femminista nero fu almeno all’inizio del tutto parziale (de Lauretis, 1987), e nel loro sguardo cieco perpetuavano atteggiamenti razzisti e classisti. L’assenza per esempio di un dibattito sulla classe aveva impedito di guardare con responsabilità al fatto che, negli Stati Uniti degli anni Sessanta, il 90% delle domestiche a servizio delle donne bianche erano nere. Nel discorso femminista (bianco) fu data parola alle donne (nere): eppure, proprio in questo dar la voce vi era il punto del contrasto e del dominio. Questa voce (data) che parlava dell’esperienza del razzismo aveva la misura della specificità. La donna nera rappresentava uno specifico delle esperienze delle donne, essa parlava per sé e non delle condizioni delle donne. Mentre il femminismo bianco radunava sotto di sé le donne pensandosi così universale, la voce delle donne nere parlava di una comunità specifica, occupando uno spazio minore, ristretto a un pezzo della sfera pubblica e politica. 53

Antropologia, prospettive di genere e femministe

Eppure, la storia stessa del femminismo aveva individuato nella sovrapposizione del maschile con l’universale e del femminile con lo specifico uno dei punti cardine della manifestazione patriarcale: il maschile parla della società intera, il femminile esclusivamente dell’esperienza delle donne. La stessa operazione di cui erano stati autori gli uomini (compresi gli studiosi) nei confronti delle donne era così ripetuta dalle donne bianche verso le donne nere. L’incapacità delle femministe bianche d’ammettere l’esistenza di forme di razzismo dentro il movimento, di leggere se stesse come soggetti al contempo oppressi e oppressori, e infine di vedere nell’oppressione sessuale una delle forme di discriminazione rappresentava una perpetuazione del potere. La battaglia contro il sessismo in sostanza non portava con sé anche la battaglia di liberazione dal razzismo. “Come donne nere, consideravano entrambi i movimenti incapaci di cogliere, riconoscere e denunciare le forme di oppressione che caratterizzavano la vita delle soggettività femminili nere”: lì nacque il movimento femminista nero che avrà come suo obiettivo una lotta sociale per la liberazione delle donne nere dal razzismo, dal classismo e dal sessismo. Storia: silenzio e voce Sul finire dell’Ottocento, come già visto nelle pagine introduttive, l’attivista e studiosa Anna Julia Cooper scriveva con chiarezza che l’oppressione delle donne nere aveva antiche radici: per comprendere la costruzione delle gerarchie oppressive contemporanee e la forza del loro radicamento era necessario guardare al passato, volgere lo sguardo alle dinamiche storiche della loro costruzione e in particolare alle eredità tracciate dalla schiavitù.19 Così inizia per esempio uno dei testi più importanti del femminismo nero: All’epoca della storia americana, quando le donne nere in ogni area del paese si sarebbero potute unire per chiedere uguaglianza sociale per le donne e riconoscimento dell’impatto del sessismo sul nostro status sociale, rimanemmo in gran parte silenziose. Il nostro silenzio 19. Rimando a Davis (1972), Reflections on the Black Woman’s Role in the Community of Slaves. Ricordo inoltre l’importanza di scrittrici come Toni Morrison (in particolare 1987, 2008) e i libri già citati di Zora Neale Hurston, che nelle loro opere raccontano le eredità della schiavitù e della segregazione. Questa narrativa è spesso identificata come Slave Narrative. Per un’utile comparazione con le eredità della schiavitù sulla storia delle donne e sui significati di emancipazione e libertà dal punto di vista dell’africanistica vedi Brivio (2015, 2019).

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non era una reazione contro i movimenti di liberazione delle donne, né un gesto di solidarietà con il patriarcato nero. Era il silenzio degli oppressi – quel profondo silenzio generato dalla rassegnazione e dall’accettazione del proprio destino. Eravamo una nuova generazione di donne di colore a cui era stato insegnato a sottomettersi, ad accettare l’inferiorità sessuale, e a stare in silenzio. (hooks, 1981, p. 1).20

Eppure, ricostruendo le radici d’oppressione e le loro eredità, la stessa bell hooks rintraccia altrettanti momenti di lotta e di emancipazione portati avanti dalle donne, come la stessa Anna Cooper e Zora Neale Hurston testimoniavano. Una storia che al contempo era segnata dal silenzio e dall’abbassamento dello sguardo verso il padrone, e dalla presa di parola e dalla ripresa dello sguardo. Nel 1896 fu fondata la National Association of Coloured Women con l’obiettivo di tutelare le prime forme di attivismo delle donne nere e di migliorare le loro condizioni sociali ed economiche e quelle delle loro famiglie. Ancora Anna Cooper, per esempio, nel 1893, scrivendo sullo status delle donne nere, le definiva schiave due volte, e insieme soggetti attraversati dal silenzio e dalla lotta. In A Voice from the South (1892) usò la sua biografia in forma allegorica per parlare del razzismo, del sessismo e dell’importanza dell’educazione; lei stessa, infatti, era un’educatrice particolarmente attenta alla potenzialità di cambiamento dei processi di trasmissione culturale. Il testo fu escluso dal circuito degli intellettuali neri, perché scritto da una donna. Anna Cooper fu critica anche verso il movimento delle donne bianche del tempo, principalmente legato al movimento delle suffragette e profondamente disegnato sulla linea della bianchezza, poiché la loro battaglia per i diritti civili e politici non comprendeva le esperienze delle donne afroamericane. Il movimento delle donne, diceva, aveva al suo interno una forma di razzismo istituzionalizzato. Sostenne ancora nel suo testo che la vera misura del progresso o del regresso razziale per gli uomini e per le donne risiedeva nello statuto sociale delle donne nere. Elisabeth Cady Stanton21 in un articolo apparso su The Revolution e intitolato Women and Black Men del 1869 evidenziava come le don20. La raccolta di saggi fu scritta fra il 1971 e il 1973, poi pubblicata nel 1981. 21. Elisabeth Cady Stanton (1815-1902) fu figura pioniera e centrale dei primi movimenti femministi dell’Ottocento, emancipazionista e abolizionista. La figura divenne poi più controversa, quando la sua posizione abolizionista si fece molto più tenue sino ad abbondonarla per rivendicare il diritto al voto delle donne (bianche istruite) e negarlo invece alla popolazione afroamericana che proveniente da una storia di oppressione, non istruita ed economicamente povera non avrebbe garantito l’avanzamento della democrazia americana. Per esempio, Philip Foner (1999) e Ellen Dubois (1999).

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ne appoggiassero tanto il movimento delle donne bianche americane nella lotta per il suffragio, quanto il movimento dei neri contro la segregazione sociale e a favore dei diritti civili. Le donne nere, però, rispetto a entrambi questi movimenti, rimanevano invisibili come nere rispetto alle (donne) bianche, come donne rispetto agli uomini (neri). Era radicata l’esperienza dell’oppressione dunque, ma era radicata anche l’esperienza della lotta e della rivendicazione. Nacque da qui il movimento femminista nero: dalla coscienza dell’oppressione e delle sue conseguenze, compresa la riduzione al silenzio, e dalla consapevolezza che la battaglia fosse necessaria e possibile. Questo sguardo sul mondo – che coniugava in modo inestricabile margine e resistenza – sarà teorizzato pochi anni dopo e prenderà il nome, con bell hooks in particolare, di teoria del margine. National Black Feminism Movement La data d’inizio è fatta convenzionalmente coincidere con il 1973, quando a New York contro il razzismo delle femministe bianche e contro il sessismo del movimento nero fu fondata la National Black Feminist Organization (NBFO).22 I suoi obiettivi erano coordinare la lotta sociale già iniziata dalle donne nere e avviare un pensiero teorico critico su tutte le forme di oppressione sistematiche, istituzionalizzate e interagenti che sulle donne afroamericane agivano nella sfera pubblica come in quella privata. “Razza”, sesso, classe sociale e orientamento sessuale furono delineati come i principali sistemi di oppressione. Soprattutto, era la loro azione combinata e simultanea a costituire il punto più innovativo – e più vicino alla realtà dell’esperienza – del pensiero femminista nero. La NBFO, ai suoi inizi presieduta da Margareth Sloan-Hunter, è stata la prima organizzazione nella storia a porsi come obiettivo lo sradicamento del connubio sessismo/razzismo. Le sue appartenenti furono invitate a costituire un forum permanente di discussione (attivazione della coscienza) sulle forme di razzismo vissute nella società e all’interno del femminismo bianco, sul sessismo vissuto nella società come nel movimento nero, sulle discriminazioni economiche e di classe. Altrettanto incoraggiata fu la produzione letteraria e artistica con l’intento politico di darsi voce e riappropriarsi dello sguardo. Nel 1974 a Boston, alcune femministe già componen22. Vedi http://www-personal.umd.umich.edu/~ppennock/doc-BlackFeminist.htm.

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ti della NBFO guidate da Alice Walker diedero vita al Combahee River Collective, un gruppo rivoluzionario lesbico e anticapitalista che portò avanti una riflessione sulla connessione fra discriminazione sessuale-razziale e sfruttamento capitalista. A Black Feminist Statement fu la Dichiarazione del collettivo.23 Pubblicata nel 1979, in essa si teorizzava il sistema multiplo delle oppressioni, ovvero dell’intersectionality – l’intersezione fra più sistemi di oppressione.24 La data d’inizio del femminismo nero è talvolta fatta risalire al 1970 con l’uscita di un’antologia di poesie per mano di scrittrici nere – Black Woman – a cura di Toni Cade Bambara. Seppur simboliche, queste date segnano l’intento di dar voce a soggetti resi silenziosi dalle esperienze storiche di oppressione. Le stesse parole silenzio e voce riecheggiano costantemente negli scritti delle femministe nere: la produzione narrativa e letteraria è stata infatti – da questi anni in poi – particolarmente fertile e impegnata, radunando anche il discorso delle donne e femministe latine, e più in generale di coloro che si definivano “di colore” per marcare una presa di posizione radicale dinanzi alla cultura dominante (occidentale e bianca). This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color pubblicato nel 1981 da Gloria Anzaldùa e Cherrie Moraga si centrò sulle esperienze delle donne di colore, ponendo al cuore dell’antologia la questione dell’intersezionalità. Insieme alle altre partecipanti alla raccolta, esse sfidarono apertamente il femminismo bianco e soprattutto l’idea che potesse essere rivendicata “una sorellanza” che non tenesse conto delle differenze. E fece altrettanto Gloria Anzaldúa in La frontera (1987) in cui teorizza la posizione della mestiza come luogo di produzione di un sapere obliquo, di frontiera, che non intende allinearsi alle dicotomie di genere, sesso o cultura. Questi testi e altri – in particolare All the Women Are White, All the Blacks Are Men, But Some of Us Are Brave: Black Women’s Studies (1982) curato da Gloria T. Hull, Patricia Bell Scott, Barbara Smith – segnano l’inizio della terza ondata delle teorie femministe 23. Il manifesto A Black Feminist Statement è contenuto in forma integrale in Hull, Scott e Smith (1982, pp. 13-22), vedi infra. 24. Nella letteratura e nella ricerca etnografica prodotta in Italia, rimando al lavoro di Ribeiro Corossacz per un’analisi della relazione fra sessismo e razzismo (2013), e (2004, 2005) ove approfondisce, facendo riferimento a ricerche etnografiche condotte in Brasile, i dispositivi di “razza”, sesso e genere come strumenti di regolazione della riproduzione della nazione, le politiche della “razza” e la costruzione della mascolinità. Sull’intersezionalità, vedi Perilli (2007, 2009); mentre per un’analisi raffinata del razzismo vedi il lungo lavoro di Tabet (1996) e Rivera (2003).

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provocando una rottura e uno scivolamento nella coscienza femminista, mostrando la politica delle femministe nere come la critica più importante fatta al femminismo (de Lauretis, 1987). Eppure, “le accuse di razzismo, eterosessismo, classismo e privilegio sociale sono state per la maggior parte recepite dal pensiero femminista, ma forse sono state accolte troppo in fretta o troppo facilmente” (de Lauretis, 1990, p. 39). In fretta e facilmente significa che tali assi discriminatori sono stati – almeno inizialmente – posti in parallelo, non comprendendo appieno il peso dell’oppressione sociale nel loro reciproco rafforzarsi. Per esempio: “Quanto il genere incide sull’oppressione razziale, e sui processi di soggettivazione” (ibidem, p. 40)? Per le donne bianche non era facile a comprendersi, poiché parlavano da una posizione che si presume neutra: “Le donne nere non esperiscono il razzismo in quanto persone nere ma in quanto donne nere” (ibidem, p. 41). Intersezionalità, margine, posizionamento “Politica è usata qui nel suo senso più ampio, per indicare ogni situazione/relazione differenziale di potere fra gruppi o individui”, scrivono Gloria T. Hull e Barbara Smith in The Politics of Black Women’s Studies (1982, p. XVIII) introducendo All the Women Are White, All the Blacks Are Men, But Some of Us Are Brave. E ancora: “Gli orrori che abbiamo storicamente affrontato e che continuiamo ad affrontare come donne nere in una società dominata da uomini bianchi hanno implicazioni su ogni aspetto delle nostre vite” (ibidem). Con quel suo “particolare sguardo sul mondo” (hooks, 1998, p. 67) costruito nella storia e nella memoria della schiavitù e nell’oppressione attualmente vissuta, il pensiero femminista nero ha trasformato e arricchito di punti inediti gli studi sul potere, sul soggetto e sul margine, costringendo le discipline sociali e lo stesso femminismo a fare i conti con tali riflessioni. Da un punto di vista teorico, epistemologico e politico questi temi confluiscono nello sviluppo della prospettiva sull’intersezionalità e del margine quale luogo di oppressione e di lotta. La subordinazione sessuale è per le donne afroamericane esperita non in quanto donne, bensì in quanto donne nere. La variabile della “razza” associata a quella del sesso è predominante nel loro discorso e nella loro battaglia. Si legge nel Black Feminist Statement del Combahee River Collective: 58

4. La questione razziale (e le sue intersezioni): il femminismo nero

Noi crediamo che la politica sessuale sotto il patriarcato sia pervasiva nelle vite delle donne nere quanto la politica della classe e della razza. Troviamo, inoltre, spesso difficile separare la razza dall’oppressione di classe e di sesso, perché nelle nostre vite esse sono esperite simultaneamente. Sappiamo che una cosa come l’oppressione razziale-sessuale non è esclusivamente razziale o sessuale, per esempio la storia dello stupro delle donne nere usata da uomini bianchi come strumento di repressione politica. (1982, p. 16)

L’oppressione allora non è, e soprattutto non può essere definita, esclusivamente come il dominio del maschile (bianco e nero): più forze sociali e forme di dominio storicamente sedimentate e contestualizzate sono fra loro interconnesse. Questi molteplici assi di dominio colpiscono le donne con più forza in relazione alle posizioni che esse occupano nelle gerarchie del genere e della sessualità, della “razza” e della classe. Era necessario dunque comprendere come diverse forme di oppressione non agissero singolarmente, ma in modo sovrapposto, rafforzandosi in un’azione combinata, interagente e simultanea. È il femminismo nero a denunciare per primo l’incapacità del movimento femminista, e più in generale degli studi e dei movimenti che si occupavano dell’analisi del potere, di farsi carico delle molteplici forme di discriminazione vissute dalle donne e di saper leggere il funzionamento integrato di molteplici assi di oppressione. Nel saggio contenuto in Home Girls e partendo dalla sua esperienza di donna discriminata in termini di genere, “razza” e orientamento sessuale, Barbara Smith afferma la teoria della simultaneità delle oppressioni, che ben sintetizza Teresa de Lauretis dicendo che “gli assi ‘di differenza’ e i modi di oppressione che ne derivano non sono allineati o paralleli ma sovrapposti o imbricati gli uni negli altri; i sistemi di oppressione sono interconnessi e si determinano reciprocamente” (de Lauretis, 1990, p. 41; in originale Smith, 1983, p. 273). L’intersezionalità (intersectionality theory) è stata elaborata sotto forma di teoria da Kimberlé Crenshaw (1989, 1991) in due saggi fondamentali per lo sviluppo di tale pensiero: qualsiasi analisi che non tenga conto dell’intersezionalità, della “multidimensionalità delle esperienze delle donne nere” (1989, p. 139) non potrà comprendere “come le donne nere sono subordinate” (ibidem, p. 140). “Le donne nere sono talvolta escluse dalla teoria femminista e dal discorso politico antirazzista perché entrambi basati su un insieme discreto di esperienze, che spesso non riflettono in modo accurato l’interazione di razza e genere” (ibidem). Tuttavia, queste esclu59

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sioni non si risolvono “includendo le donne nere all’interno di una struttura analitica già stabilita” – non è sufficiente in altri termini considerare la somma del razzismo e del sessismo – come se “razza” e sesso fossero variabili “discrete” (ibidem). Si tratta, invece, di modificare la “struttura analitica” (ibidem) dei “modi dominanti” (ibidem) in cui è concepita, letta e interpretata l’oppressione. Come fa notare Valeria Ribeiro Corossacz, il Combahee River Collective proponeva sì elementi per una politica dell’identità: la lotta contro l’oppressione è “incorporata nel concetto di politica dell’identità” (The Black Feminist Statement, 1982, p. 16). È vero altrettanto che essa era “intesa come qualcosa che si modifica, come una rete aperta di relazioni e non necessariamente come un’essenza” (Ribeiro Corossacz, 2013, p. 116): “Questo significa riconoscere che l’identità (di donna, di nera, di donna nera lesbica) non è qualcosa di originario e statico, ma qualcosa di multiplo, situazionale, in movimento, e che come tale va considerato” (ibidem). La questione dell’intersezionalità non riguarda dunque solo la connessione fra forme del potere: è la stessa definizione del “soggetto donna” a essere rivisto, anch’esso definito da più identità, posizionamenti, differenze fra loro interconnesse e storicamente situate (vedi anche Brah, 1996; Brah e Phoenix, 2004). In Manifesto Cyborg, Donna Haraway (1985), per esempio, afferma che nulla lega naturalmente le donne (nulla le identifica le une con le altre). A sostegno del suo pensiero, rimanda alle esperienze delle “donne di colore” la cui coalizione politica condivisa si fonda sulle affinità e non sulle identità. La stessa Kimberlé Crenshaw riconosce che “l’esperienza condivisa” ha permesso storicamente alle donne di politicizzare le loro istanze e “che le richieste politiche di milioni parlano più forte delle richieste di poche voci isolate” (1991, p. 1241). Abbracciare delle identità politiche – per le donne, ma anche per altri gruppi gay, lesbici, persone di colore – ha permesso di rafforzare lo sviluppo di comunità e progetti intellettuali, e di avanzare istanze di giustizia sociale. Il problema però è che tali politiche identitarie falliscono non tanto nel contrasto con altri gruppi che pongono altre questioni identitarie, ma poiché “ignorano le differenze interne agli stessi gruppi” (ibidem, p. 1242). Rispetto alle condizioni di vita delle donne e dinanzi alle forme d’oppressione che esse sperimentano, “questa elisione della differenza è problematica, fondamentalmente perché la violenza che molte donne sperimentano è spesso mo60

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dellata da altre dimensioni delle loro identità, come la razza e la classe” (ibidem). “Gli sforzi femministi” pertanto di politicizzazione delle esperienze delle donne e “gli sforzi antirazzisti di politicizzare le esperienze di persone di colore hanno spesso proceduto come se i problemi e le esperienze si verificassero su terreni reciprocamente esclusivi. Sebbene il razzismo e il sessismo si intersechino prontamente nella vita delle persone reali” (ibidem). Questo bel saggio di Kimberlé Crenshaw continua in un’analisi importante dei modi con cui l’intersezione fra genere e “razza” dia forma a diversi aspetti strutturali, simbolici, politici della violenza contro le donne di colore.25 Queste riflessioni hanno un portato analitico e metodologico prioritario nell’analisi delle strutture di potere e dei modi con cui colpiscono quelle soggettività che occupano – nelle sfere stesse del potere – determinate posizioni storiche, e di cui fanno esperienza. Posto lo sguardo politico sul potere e sul soggetto, come pensare la loro relazione? Scrive bell hooks, offrendo anch’essa indicazioni metodologiche nel pensare alla marginalità anche come “posizione e come luogo di resistenza” (1998, pp. 69-70): se consideriamo la marginalità – prodotta dalle intersezioni delle variabili d’oppressione – “solo come un segno che esprime disperazione, veniamo penetrati distruttivamente da uno scetticismo assoluto. Non sto cercando di riabilitare e romanticizzare il concetto di marginalità spaziale: voglio affermare che questi margini sono stati luoghi di repressione, ma anche di resistenza” (ibidem). Come movimento di liberazione sorto nella società civile americana per divenire poi esso stesso una prospettiva di pensiero, il femminismo nero prese vita dalla coscienza delle donne nere di occupare contemporaneamente più posizioni di marginalità. Nel suo discorso sull’oppressione, il femminismo nero è lontano dal far coincidere la marginalità con il luogo della resa al potere o dell’assenza di presa di parola. Teorizzata nel femminismo nero, la questione della marginalità – o meglio, del posizionamento nel margine – diviene anche lo spazio per pensare la politica dell’identità e della lotta, dal quale osservare la relazione fra strutture del dominio e possibilità di azione e resistenza. Lontano dall’essere solo un luogo di privazione e disperazione (hooks, 1998, p. 68), il posizionamento nel margine, 25. Il termine “donne di colore” deriva dalla traduzione dell’espressione usata dalla stessa autrice women of color.

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prospettiva elaborata in particolare da bell hooks nella sua teoria del margine (1984) è un luogo da cui si eleva “una risposta critica al dominio” (ibidem, p. 72), e dove recuperare la storia e l’esperienza: “faccio una distinzione precisa tra marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza – spazio di possibilità e apertura radicale. Questo luogo di resistenza è permanentemente caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la nostra risposta critica al dominio” (ibidem). E ancora: Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Vivendo in questo modo – all’estremità – abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e di centro. Questo senso di appartenenza, impresso nelle nostre coscienze dalla struttura della vita quotidiana, ci ha dato una visione oppositiva del mondo – un modo di vedere sconosciuto a gran parte dei nostri oppressori. Esso ci ha sostenuti e aiutati nella lotta contro la povertà e la disperazione, rafforzando il nostro senso di identità e di solidarietà. (hooks, 1998, pp. 67-68)

Donna Haraway aprendo un dialogo con il lavoro sulla metodologia dell’oppressa(o) di Chela Sandoval (2000) sottolinea con entusiasmo che scritti e voci delle donne nere “mostrano la formazione di quella nuova voce politica chiamata donne di colore” (Haraway, 1995, p. 48) per teorizzare un modello di identità politica chiamata “coscienza antagonista”. Essa indica “l’abilità nel leggere le reti di potere dalla parte di chi è escluso o posto a margine delle categorie dominanti di razza, sesso, classe” (ibidem). Chela Sandoval usa l’espressione “topografia culturale delle coscienze antagoniste”: un incitamento alla costruzione di una metodologia capace di esplorare i modi con cui gruppi marginali – trasformando i poteri dominanti e oppressivi – costruiscono se stessi non solo come soggetti oppressi, ma come resistenti e oppositivi (ibidem, p. 54). La politica del posizionamento26 – intesa come sguardo e produzione di un discorso sul mondo nella coscienza della posizione che si occupa – implica “as26. Calefato, introducendo l’edizione italiana di Chow (2004) definisce la politica della location / posizionamento come “una pratica discorsiva che consiste nel prendere la parola non separando i propri enunciati dalla consapevolezza dichiarata di quale sia il ‘proprio’ posto nell’ambito delle relazioni sociali, sessuali, etniche” (2004, p. 10).

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sumere un ruolo attivo nella creazione di pratiche culturali controegemoniche”. Per dirla con bell hooks “una politica di posizione intesa come punto di osservazione e prospettiva radicale [che] impone di individuare spazi da cui iniziare un processo di re-visione” (1998, p. 20). Questo discorso sulla consapevolezza del punto d’intersezione fra oppressione e sguardo attivo sul mondo va a intaccare anche la standpoint theory. È qui importante, per esempio, il lavoro di Alice Walker In Search of our Mother’s Gardens: Womanist Prose, termine contenuto anche in Il colore viola, dove usa il termine Womanism per indicare la posizione occupata dalle donne nere, e la specificità del loro sguardo sul mondo dovuto alla multidimensionalità delle esperienze di oppressione.27 Anche in questo caso, è il femminismo nero a dirci che è l’esperienza, non l’autenticità, a definire le posizioni delle donne. 5. La natura politica della metodologia e della rappresentazione: il femminismo postcoloniale Let us begin with the claims that knowledge is always socially situated. (Sandra Harding, 2004)

Scriveva Audre Lorde in The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House:28 il femminismo occidentale non annuncia alcun cambiamento positivo alle donne del Terzo Mondo poiché usa gli stessi strumenti usati dal patriarcato per opprimere le donne. Apertamente, il testo criticava la sua partecipazione su invito a una conferenza ove si trovò a parlare in una sezione esclusiva per donne nere e lesbiche: “Leggere questo programma significa assumere che le donne lesbiche e nere non hanno nulla da dire sull’esistenzialismo, l’erotismo, la cultura e il silenzio delle donne, lo sviluppo della teoria femminista, l’eterosessualità e il potere” (1984, p. 110). Può avere il pensiero femminista un potenziale epistemologico radicale se costruito “entro le pareti della casa del padrone”? Si 27. Okonjo Ogunyemi (1985, saggio riapparso anche in Phillips, 2006), scrittrice e studiosa di origine nigeriana, è rispetto al tema un importante riferimento; vedi la raccolta di novelle, storie e studi di scrittrici nigeriane sull’African Womanism dalla stessa curata. 28. Il saggio è contenuto in Sister Outsider: Essays and Speechs (1984), raccolta di saggi scritti fra il 1976 e il 1984.

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chiedeva Teresa de Lauretis facendo propria la metafora della stessa Audre Lorde (1987, p. 132). Il femminismo nero aveva già posto la questione interrogando – dai margini – il posto sociale dato alle donne non allineate alle culture dominanti ed egemoniche, la produzione del sapere, la storia che si era espressa con l’oppressione, la possibilità di coloro che stanno al margine di interpellare il centro. Pertanto, cosa le donne “di colore”, postcoloniali, latine, afroamericane, non occidentali hanno da dirci rispetto agli studi sul potere, sulla resistenza, sulla società? E nello specifico di queste pagine, quanto la ricerca sulle migranti parla esclusivamente delle migrazioni delle donne, e quanto invece siamo disposti a considerare queste esperienze, e questi soggetti, autorevoli sino a innovare i modelli di lettura della realtà e delle società umane? Complesso da definire, il femminismo postcoloniale29 lo diventa ancor più se pensato come uno spazio entro il quale radunare le molteplici forme di dissenso e le voci delle donne non allineate ai criteri di appartenenza del mondo occidentale e non identificabili, per posizioni economiche, culturali, religiose o altro, con il soggetto donna bianco, americano o europeo, di classe socioeconomica medio/alta. Tale distanza non era definita solo dai criteri di appartenenza al più ricco mondo occidentale, ma dal fatto che coloro che a questo mondo non appartenevano, o vi appartenevano da posizioni di marginalità, avevano esperito le conseguenze sociali, politiche, economiche del colonialismo e dell’imperialismo. Sorto e poi maturato in risposta ai femminismi delle donne occidentali – in termini di critica e non come semplice conseguenza – il femminismo postcoloniale ha messo al centro razzismo, sessismo, classismo alla luce del potere coloniale e dei modi con cui esso era penetrato nelle strutture economiche, sociali, culturali e politiche dei paesi colonizzati che, a loro volta e a più riprese, colpivano le donne nelle realtà coloniali e postcoloniali, comprese le sfere d’azione in cui esse muovevano le loro vite. Questo femminismo ha 29. Per una prima definizione di femminismo postcoloniale, vedi Mehta (2000, pp. 395-397). Vedi inoltre: il saggio, ritenuto un classico, di Min-ha (1989); Jayawardena (1986) sui movimenti femministi e di partecipazione delle donne alle lotte politiche in una prospettiva comparata, ove mostra “similitudini e chiare differenze di strategie basate sui loro specifici tessuti storici” (1986, p.1); Narayan (2000) e della stessa a cura di Harding (2004) ampia raccolta sul tema. Vedi anche inscriptions n. 3-4, numero curato da Gordon (1988) sul dibattito fra femminismo e critica postcoloniale. La raccolta di Lewis e Mills (2003) racchiude contributi classici per le teorie del femminismo postcoloniale. Vedi, in lingua italiana, il numero monografico di Genesis, curato da Donato (2015).

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puntato lo sguardo alle esperienze delle donne e alle strutture sociali in cui queste si materializzavano (tanto nei paesi colonizzati, che nei paesi industrializzati), ai modi con cui queste donne sono state rappresentate e descritte dalle femministe occidentali, e dal sapere occidentale più in generale. Nella letteratura postcoloniale, il termine colonialismo viene a indicare le forme storiche di dominio economico e di controllo politico di determinati paesi su altri e le sue persistenze, ma anche la produzione di sapere, discorsi, conoscenza prodotta su quelle zone del mondo sottoposte a dominio coloniale e spesso raggruppate, come la letteratura ha enfatizzato, sotto grandi categorie geografiche come Oriente o Terzo Mondo (Loomba, 1998).30 Nei testi delle studiose postcoloniali, il termine colonialismo è usato per rimarcare il suo significato politico dal punto di vista della produzione scientifica e letteraria, rivendicando tanto l’autorappresentazione quanto denunciando le forme di riduzione, semplificazione e appropriazione della realtà storica esperita dalle donne non occidentali e non bianche nelle opere di studiose occidentali e bianche. Come ben sintetizza Raffaella Baritono: il femminismo postcoloniale “metteva a nudo l’eredità molteplice e contraddittoria del colonialismo e delle sue perduranti influenze nel contesto discorsivo ‘occidentale’, ma soprattutto, impegnava il femminismo (bianco e occidentale) a intraprendere un’analisi critica della sua stessa storia, delle rimozioni e delle aporie che avevano attraversato e persistevano nel suo percorso teorico” (2012a, p. 8). È rigorosa la discussione sulla complicità della teoria femminista occidentale nella produzione di un discorso culturale – dominante ed etnocentrico – sulle donne del Terzo Mondo31 o non native occidentali e la loro riduzione a oggetto sociologico o a soggetto astorico. Trinh T. Minh-ha (1989), Gayatry C. Spivak (1985, 1987) e Gloria Anzaldúa (1987, p. 71-72) furono aspramente critiche anche con l’antropologia denunciando un “fondamento razzista e sessista” (Mohanty, 2003, p. 103) nella costruzione del suo oggetto d’indagi30. Mbembe (2000), Wolf (1982), Said (1978). Loomba (1998) sulla relazione colonialismo e postcolonialismo. Nella produzione letteraria dei Subaltern Studies vedi Chakrabarty (2000), Spivak (1999, 1996) sulla conferenza delle donne di Beijing del 1995; Guha e Spivak (2002). Vedi Gledhill (1994) per un’analisi storica nel quadro dell’antropologia politica, e sulla relazione fra antropologia ed eredità coloniale nella costruzione del sapere. 31. L’espressione “donne del Terzo Mondo” traduce Third World Woman, espressione usata in particolare da Mohanty (1984).

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ne e soprattutto nell’aver contribuito, partendo dall’immagine del “nativo” e del “primitivo”, alla costruzione della “donna del Terzo Mondo” come categoria destoricizzata e inferiore dal punto di vista della civilizzazione. Denunciando l’imperialismo della conoscenza, la letteratura prodotta nell’ambito del femminismo postcoloniale ha discusso la distanza fra la teoria messa a punto dalle studiose bianche e le pratiche di vita delle donne non occidentali rese oggetto di studio; la distanza fra l’immagine della donna come oggetto di studio e le donne come soggetti della storia – distanza su cui lavorerà Chandra Talpade Mohanty analizzando la produzione analitica e discorsiva della “donna media” (1984), ovvero di un’ideale femminile del mondo non occidentale; l’universalismo eurocentrico che mostra la complicità delle femministe bianche al discorso umanista occidentale sul Terzo Mondo, inteso come categoria monolitica, statica, sospesa nel tempo e nello spazio. Dal dibattito portato avanti dalle femministe postcoloniali si ricavano indicazioni teoriche, strumenti analitici e temi di ricerca ancora del tutto innovativi, e una metodologia d’indagine che rivendica consapevolezza e coscienza dinanzi ai modi con cui la produzione di sapere e conoscenza può essere corresponsabile nella perpetuazione delle logiche di dominio. Ne emergerà uno sguardo sulla cecità delle femministe occidentali rispetto al fatto che, come scrive Kumari Jayawardena: “I paesi del Terzo Mondo hanno una storia di femminismo attivo, di movimenti per l’emancipazione delle donne, sostenuti sia da uomini sia da donne” (1986, p. IX). Quale soggetto sotto gli “occhi dell’Occidente”? Sull’imperialismo della conoscenza Questi studi sollecitano una riflessione centrale sulla questione della visibilità, esplicitando quanto il problema non sia l’assenza d’interesse o di studi sulle altre donne. Al contrario, il punto è: quali donne sono riconosciute come soggetto storico? La rappresentazione delle donne – nere, migranti, latine, rifugiate, del Terzo Mondo come gruppi oppressi – permette un’autorappresentazione del sé come il vero soggetto della contro-storia (Mohanty, 1984, p. 351), mentre loro/le altre “non superano mai la loro generalità e il loro status di ‘oggetto’” (ibidem). E soprattutto: in quali sfere sociali e in quali arene politiche quelle donne sono poste se pensate come oppresse nel loro “splendore astorico” (ibidem, p. 352)? 66

5. La natura politica della metodologia e della rappresentazione...

Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourse esce nella sua prima versione nel 1984,32 e per quanto la critica femminista postcoloniale al femminismo egemonico fosse già iniziata, questo lavoro di Chandra Talpade Mohanty è una lucida analisi del sapere scientifico maturato dalle femministe occidentali sulle “donne del Terzo Mondo”. Tendenza colonialista, arroganza razziale, impronta etnocentrica e universalismo metodologico sono le questioni emergenti in quelle pagine. Il testo, che uso qui come esemplificativo delle discussioni poste dal femminismo postcoloniale, è prima di tutto una critica alla metodologia e al processo di costruzione della conoscenza, aspetti non solo ancorati all’attualità, ma direttamente coinvolti nella costruzione del sapere e delle forme di rappresentazione delle donne migranti. Quel lavoro fu, infatti, un profondo intento di smantellamento per mostrare quanto “donne del Terzo Mondo” fosse una produzione discorsiva conseguente all’uso di specifiche categorie di analisi e strategie di rappresentazione. Furono soprattutto “le implicazioni politiche di queste strategie analitiche” (ibidem, p. 336) a interessare la studiosa. Fare oggi un gioco di sostituzioni fra il termine “donne del Terzo Mondo” e immigrate fa emergere frequenti stereotipi e riduzioni ancora particolarmente vivi. Under Western Eyes contiene un’accurata analisi di alcuni testi scritti da femministe bianche e occidentali sulle condizioni di vita sociale, religiosa, politica ed economica delle donne appartenenti a paesi del Sud e dell’Est del mondo. In termini più schietti, sostiene Chandra T. Mohanty: testi scritti da studiose appartenenti alla cultura imperialista e colonizzatrice dell’occidente su donne appartenenti a paesi colonizzati. Il punto è: “Cosa accade quando questa assunzione ‘donne come gruppo oppresso’ si colloca nel contesto della scrittura femminista occidentale sulle donne del Terzo Mondo? È qui che individuo la mossa colonialista” (ibidem, p. 351). Questa mossa indicava anche un gioco di sguardi: guardando le altre come oppresse, il sé poteva autoritrarsi come soggetto storico, moderno e progressista. A sostegno delle sue analisi, Chandra Mohanty prende in esame alcuni libri pubblicati fra gli anni Settanta e Ottanta dalla casa editrice Zed Books Radical International Publishing, appositamente scelta poiché sensibile ai temi trattati, soffermandosi su sei modi 32. Disponibile in traduzione italiana in Mohanty (2003). Le citazioni nel testo si riferiscono all’edizione originale.

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di rappresentazione delle donne del Terzo Mondo. È utile il genere come categoria di analisi se non si guarda ai significati che esso assume nell’esperienza concreta? Solo un’operazione analitica approfondita, libera da presunzioni ideologiche e da categorizzazioni decise a priori, permette di vedere la posizione delle donne facendo emergere la loro soggettività come processo attivo di costruzione del sé dentro relazioni sociali storicamente e geograficamente situate. La prima forma di rappresentazione è: le donne sono vittime della violenza maschile, citando un testo di Fran Hosken (Female Genital Mutilations and Human Rights, 1981) in cui è raccontata la relazione fra i diritti umani e le mutilazioni genitali femminili in Medio Oriente e in Africa. La mutilazione sessuale delle donne è spiegata come “la volontà da parte degli uomini di mutilare il piacere sessuale e l’orgasmo delle donne”, esprimendo un controllo maschile della sessualità femminile e della riproduzione. Non è la negazione di pratiche di appropriazione violenta del corpo femminile, o dei modi storici attraverso cui il maschile s’inscrive con violenza sui corpi, a essere messa in discussione, ma, direbbe anche la prospettiva antropologica, l’assenza di un’analisi storica situata e di una teoria sulla violenza in essa inscritta, che sappia cogliere specificità sociali, nonché la voce delle donne di cui si sta parlando.33 Quali significati per esempio esse danno a tali pratiche? E come, dovremmo aggiungere, si giocano le dinamiche di opposizione e di ripetizione? Che posto, in sostanza, occupano le donne oggetto-di-ricerca in questa discussione sulle mutilazioni genitali? Continua Chandra Mohanty: le donne (e i loro corpi) confluiscono in una categoria destoricizzata e onnicomprensiva, in rappresentanza di due enormi aree geografiche; se esse appaiono sulla scena storica, lo fanno sempre in un ruolo di vittima (del controllo maschile, anch’esso destoricizzato) sessualmente oppressa – oppressione da cui eventualmente sarà l’Occidente, con i suoi diritti umani, a liberarla (Fusaschi, 2011). L’uomo – categoria altrettanto omogenea e comprensiva – è sempre il perpetuatore della violenza e del controllo sulla donna. La donna è il soggetto sempre senza potere, l’uomo è sempre il soggetto detentore del potere, sempre posti in una relazione binaria. Le categorie d’analisi sono qui degli assunti che definiscono la realtà prima d’indagarla, anziché essere strumenti d’interpretazione della realtà storica stessa. 33. A tal proposito, Fusaschi (2003 e 2011) per un’analisi antropologica delle mutilazioni genitali femminili, sui processi di esaltazione delle donne vittime e sul discorso umanitarista.

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5. La natura politica della metodologia e della rappresentazione...

La seconda rappresentazione è: le donne sono soggetti posti in un’universale condizione di dipendenza. Il testo usato come esempio è una raccolta curata da Beverly Lyndsay (Comparative Perspectives of Third World Women: The Impact of Race, Sex and Class, 1983) sullo sviluppo delle relazioni di dipendenza delle donne del Terzo Mondo, in termini di “razza”, genere, sesso, classe e della loro perpetuazione attraverso le istituzioni sociali, religiose, educative. In questa lettura, tutte le donne del Terzo Mondo sono descritte come dipendenti, esperienza che le unisce e le accomuna. Un secondo testo – Women of Africa: Roots of Oppression di Maria Rosa Cutrufelli (1976)34 prende in esame le “donne africane”, e come riporta Mohanty, l’analisi inizia “dalla constatazione che tutte le donne africane vivano in un contesto politico-economico dipendente”. Certamente, le donne del continente africano sono e possono essere dette donne africane; tuttavia, quando questa definizione diventa una categoria omogenea – che identifica tutte le donne africane come dipendenti, oppresse e prive di potere – quelle donne sono completamente slegate dalla storia e dall’eterogeneità dell’esperienza. Si azzarderebbe qualche studiosa a scrivere “Women of Europe: Roots of Oppression” (Mohanty, 1984, p. 340)? Poste fuori da sfere di relazioni sociali e d’azione, le “donne africane” diventano un gruppo oppresso e dipendente, privo di legami con la dimensione temporale e locale; negando la specificità storica delle relazioni di potere, e delle sue opposizioni o dei significati che le persone vi danno, questa categoria perde ogni utilità analitica limitandosi a confermare la convinzione che esse sono state e sempre saranno subordinate e marginali. Anziché essere le istituzioni – famiglia, scuola, lavoro – e le relazioni ove le donne sono costruite e insieme divengono soggetti attivi della storia a essere rese oggetto d’analisi, i presupposti categoriali divengono solo conferma di una realtà sociale già immaginata. Il genere stesso, lontano dall’essere una categoria analitica e storica – come ben dice Joan Scott (1986) – si limita a distinguere uomini e donne, entrambi raccontati come gruppi senza storia, e fatti rientrare in oppressori e vittime. Sono poi elencate due rappresentazioni successive riferite agli effetti delle strutture di parentela: Le donne sposate come vittime dei processi coloniali e Le donne e i sistemi familiari. Analizzando 34. In italiano: Donna perché piangi? Imperialismo e condizione femminile nell’Africa nera (1976). Mohanty si riferisce alla traduzione in lingua inglese.

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un caso etnografico contenuto in Women of Africa sui rituali matrimoniali fra le donne Bemba prima e dopo la colonizzazione, le donne sono qui viste oggetto di scambio sessuale e politico, vittime esclusive della colonizzazione europea, senza mettere quest’ultima in connessione con i significati locali e storicamente sedimentati del matrimonio e dei suoi rituali. In un secondo esempio, sono riportati gli studi di Elisabeth Cowie (Woman as Sign, 1978) e Juliette Minces (The House of Obedience: Women in Arab Society, 1980) che trattano la natura politica delle strutture familiari. Nello specifico, si riferiscono alla “famiglia araba-musulmana”, definita come un insieme di pratiche ideologiche che assegnano a donne (e uomini) determinati ruoli sociali di marito, moglie, madre, figlia, sorella. Le posizioni delle donne e le strutture familiari non sono lette in una rete di relazioni storicamente organizzata, vissuta e agita, la famiglia arabo-musulmana appare come uno stato delle cose che assegna ruoli sociali non negoziati dai soggetti. Il patriarcato (musulmano) è visto qui alla base della divisione fra uomini e donne, ed è il farne esperienza a rendere queste donne (arabe) sempre subordinate e omogenee fra loro, anziché essere analizzato come una relazione storicizzata in luoghi sociali specifici. Come soggetto, le donne scompaiono per divenire categoria femminile (le donne arabo-musulmane) costruita nella famiglia patriarcale e da essa resa oppressa. La formula Le donne e i processi di sviluppo appare infine come un apparato categoriale e universalista (che non fa differenze fra territori locali, né fra i ruoli sociali che le donne possono occupare nelle strutture economico-sociali) dove lo sguardo femminista (occidentale) esprime appieno le sue ideologie di emancipazione. Per esempio, è enfatizzato il ruolo delle donne nei processi di sviluppo grazie alla loro affidabilità, alla capacità di cooperare e collaborare (rispetto a un maschile meno abile nell’usare tali attitudini). Di nuovo sulla scena compaiono donne del Terzo Mondo, fatte muovere come gruppi coerenti e omogenei in grado di garantire o meno una certa idea di sviluppo economico e sociale. Se le categorie valgono più della storia “Dare storicità alle categorie”, scriveva Joan Scott nel suo importante saggio The Evidence of Experience, è la prima operazione da compiere per rendere visibili mondi volutamente nascosti (1991). 70

5. La natura politica della metodologia e della rappresentazione...

Lo studio dei gruppi subalterni – per esempio, le donne e gli omosessuali – implica un’analisi delle logiche con cui la repressione sociale agisce per costruire la subordinazione. Il punto, sosteneva Joan Scott, è che chi fa ricerca deve entrare nei presupposti ideologici della repressione (anziché limitarsi a evidenziarla) e darsi il compito di lavorare sull’esperienza sociale, intesa come il modo storico e situato con cui le persone stanno nel mondo per gettar luce sui processi attraverso cui le logiche della repressione lavorano. In alternativa, l’indagine scientifica finisce per essere ideologica e usare le stesse categorie della repressione per denunciarla o parlarne, ma senza svelarne il funzionamento. Il genere per esempio non può essere il risultato delle nostre ricerche, ma la categoria analitica che entra nella storia per esplorare i processi entro i quali le donne, o altri generi, sono come tali costruiti. Questa attitudine, continua Joan Scott, chiede consapevolezza della differenza esistente fra le categorie analitiche e la realtà empirica che le prime dovrebbero indagare: le donne appaiono spesso in categorie precostituite (per esempio, le donne migranti, le donne asiatiche) a discapito di un’analisi che dovrebbe mirare a comprendere le relazioni sociali e di potere – ma anche le sfere d’azione – che mettono certi soggetti o gruppi umani sotto determinati nomi o in posizioni subalterne. Quando il femminismo nero e quello postcoloniale sollevarono a gran voce la sovrapposizione fra categorie d’analisi e realtà storicamente vissuta (nei fatti negata dalle prime, anziché essere portata alla luce) ciò che evidenziarono furono i processi di oscuramento delle donne nere e postcoloniali non come oggetti di studio, ma come soggetti storici, comprese le loro sfere d’azione e di pensiero, restituendo al contempo una visione statica del potere. Più in generale, una certa confusione fra il genere come categoria superordinata di analisi e il genere come prova universale della differenza fra uomini e donne e della subalternità delle donne ne offuscava la rilevanza empirica e la valenza analitica. L’indicazione è metodologica e interpella di nuovo le implicazioni dei processi di costruzione della conoscenza e la natura politica delle rappresentazioni. Scrive ancora Mohanty (1984): Questi studi del femminismo occidentale sulle donne del Terzo Mondo non sono intenzionati a scoprire le specificità materiali e ideologiche che costituiscono un particolare gruppo di donne co71

Antropologia, prospettive di genere e femministe

me privo di potere in un particolare contesto. Piuttosto, sono intenzionati a individuare una varietà di casi in cui gruppi di donne si manifestano senza potere, al fine di dimostrare che le donne sono appunto un gruppo privo di potere.

Rimangono esclusi da questo quadro interpretativo proprio le donne come soggetti della storia: per esempio, quali interpretazioni danno alle reti in cui sono avvolte, alle relazioni sociali che “agli occhi dell’Occidente” sono solo di sottomissione? E quali pratiche, pubbliche, private o collettive agiscono e in quali spazi di negoziazione? E ancora, come individuare forme condivise di resistenza, se queste categorie non sono contemplate o se gli strumenti analitici sono incapaci di vederle? Definendo il femminismo bianco come U.S. hegemonic feminism, Chela Sandoval punta alla definizione di marginalità e di resistenza dai margini. La volontà del femminismo bianco di gettar luce sull’oppressione delle donne aveva fatto pensare al margine come a un luogo di privazione (2000, p. 54), rendendo il suo sguardo scientifico miope rispetto alle forme di opposizione ai poteri, e aveva a esso impedito di vedere le forme di resistenza e “le espressioni delle coscienze antagoniste” (ibidem) dei movimenti sociali e di protesta, oppure dei gesti nelle fessure del quotidiano, cui le donne nere, chicane, asiatiche, immigrate davano vita. La studiosa incita a una revisione delle categorie analitiche di resistenza e opposizione per cogliere diversi modi d’espressione dell’antagonismo della coscienza e dei processi di liberazione. Ripercorrendo le fasi topiche del femminismo nero, essa traccia “una topografia delle coscienze antagoniste” – definita come “history of oppositional consciousness/topography of consciousness in opposition”: al contrario di tipologia (che vuole indicare tipizzazioni di lotta e opposizione), topografia richiama posto, luogo e situazione nella sua etimologia. L’opposizione delle donne occorre scriverla guardando a specifiche realtà materiali, fisiche, psicologiche, culturali in cui esse prendono forma. Con l’espressione “topografia culturale delle metodologie dell’oppressa(o)” Chela Sandoval intende ricavare una revisione della storia – e soprattutto delle categorie con cui essa è stata vista e letta – d’individui e gruppi, in apparenza oppressi e vittime, che agendo sui poteri dominanti si sono costituiti antagonisti trasformando la subordinazione in lotta. Come avremo modo di vedere nei capitoli successivi, queste distorsioni metodologiche evidenziano rischi in cui ancora s’incorre 72

6. Eredità, nuove rotte

negli studi sulle migrazioni delle donne anche quando gli obiettivi perseguiti vogliono dar visibilità e voce alle loro esperienze. 6. Eredità, nuove rotte Each generation of anthropologists revises history, finding in the past precursors of present-day topics of intense debate and reformulation. But there is also a pedagogical goal in rethinking our history. Whose work gets taught and how it is connected to other traditions is critical to the shaping of anthropology for the next generation. By stressing the breadth and creativity of the contributions of women and minorities, we can enrich our description of what anthropology has been and continues to be. (Louise Lamphere, 2004) Mi è parso ben presto chiaro che, nel momento in cui il soggetto umano è collocato in rapporti di produzione e di senso, è parimenti collocato entro rapporti di potere. (Michel Foucault, 1994)

“La contestazione interna da parte tanto di donne di colore al razzismo quanto di donne ebree all’antisemitismo, nonché di donne lesbiche di ogni colore all’eterosessismo, ha costretto il femminismo a fare i conti, emotivamente e concettualmente, con la presenza di relazioni di potere alla cui comprensione non bastavano, anzi erano di ostacolo, i concetti di genere e di differenza sessuale” (de Lauretis, 1990, p. 39). La terza ondata, qui ben sintetizzata dalla filosofa, ha riposizionato sia il dominio patriarcale in un sistema congiunto e simultaneo di oppressioni sia la soggettività storica delle donne la cui identità sessuale e di genere ha perso il suo potere identificante. A questo punto, cosa ne è del genere? Gli sguardi sulle differenze che hanno portato verso una definizione del genere come categoria disidentificante e un pensiero critico sulle diversità e sulle gerarchie in esse inscritte hanno lasciato aperta, e anzi hanno sollecitato, la possibilità di tracciare comunanze per un progetto femminista condiviso e per una lotta comune. Solo la consapevolezza e il riconoscimento di situazioni storicamente specifiche d’oppressione vissute dalle donne e i significati che esse danno alla libertà e alla lotta possono annunciare un progetto femminista di giustizia globale (Mahmood, 2001; Abu-Lughod, 2002; 73

Antropologia, prospettive di genere e femministe

Mohanty, 2012). Audre Lorde lo scriveva con chiarezza: “Ignorare le differenze razziali fra le donne e le implicazioni di queste differenze rappresenta la più grande minaccia a una mobilitazione congiunta delle donne” (1984, p. 117). Il soggetto di genere (gendered subjectivity) diviene “un soggetto costituito sì nel genere, però non dalla sola differenza sessuale” (de Lauretis, 1987, p. 132) ma “soggetto in-generato nel vissuto delle relazioni di razza e di classe” (ibidem, p. 133; vedi anche Moore, 2007). Sino agli anni Ottanta, il sistema sesso-genere che ha visto nel lavoro di Gayle Rubin la sua analisi più raffinata era considerato un punto di arrivo della discussione: significati sociali, simbolici, economici e culturali s’inscrivono in modo disciplinare e prescrittivo sulle differenze biologiche dei corpi. Non a caso, ricordo, Gayle Rubin usò il termine “dispositivo” per descrivere i modi con cui le società trasformano la sessualità biologica in attività umana. Sebbene il lavoro della studiosa fosse ben più articolato di questa sintesi, tale prospettiva presupponeva l’esistenza dapprima di un corpo biologico e, successivamente, dei significati dati a esso: il sesso – la differenza sessuale (natura) è l’antecedente del genere – e la differenza di genere (cultura). Ovvero: il sesso precede il genere, e il genere è conseguente al sesso. Vi è indubbiamente qui il merito d’aver chiarito come corpo, ruoli, posizioni sociali, desideri fossero culturalmente e socialmente definiti e prescritti come norme. Ciò che è stato posto in discussione è la direzione di tale relazione, e i significati stessi dati al corpo e alla sessualità. Partendo dal lavoro di Michel Foucault (1976), Teresa de Lauretis (in particolare, 1987) e Judith Butler (1989, 1993) e in antropologia studiose come Rosalind Morris (1994, 1995), hanno compiuto passi fondamentali per ripensare la più articolata relazione fra genere, corpo, desiderio, sessualità, normatività e potere. Vi è da dire che il contributo dell’attivismo politico e teorico lesbico, omosessuale e queer è stato fondamentale nel restituire interrogativi raffinati sul paradigma normativo dell’eterosessimo, sulla costruzione del desiderio, sulla tipologia di relazione fra sesso e genere, sul corpo quale luogo su cui s’inscrivono regole morali e significati sociali.35 35. Dagli anni Duemila, il dibattito italiano sul genere si è arricchito interrogando temi quali le politiche del corpo, la riproduzione e la parentela mettendo in evidenza i presupposti di naturalità costruiti sul corpo e sui ruoli delle donne. In particolare, oltre ai lavori già citati di Ribeiro Corossacz, gli studi di Gribaldo (2005), Gribaldo, Judd,

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6. Eredità, nuove rotte

Dapprima in Gender Trouble (1990) e poi nei suoi lavori successivi, Judith Butler argomenta sulla scia di Michel Foucault che le stesse (due) categorie del sesso non sono naturali, ma il risultato della ripetizione delle norme nel tempo, dove i corpi stessi sono costrutti culturali. La ripetizione della norma fa apparire il corpo sessuato – e il soggetto sessuato – come l’asse naturale rispetto al genere, che si definisce invece come discorso. Nella sua teoria della performatività del genere (il discorso sul genere performa le categorie del sesso, e dunque il corpo sessuato è il frutto del discorso disciplinante sulla sessualità – in particolare, 1993) Butler mostra quanto profonda sia l’ovvietà (intesa qui come norma sociale che nel suo essere doxa non appare nel suo processo di costruzione e costrizione) del sesso inteso come materia biologica predata, e quanto dunque sia profonda l’incorporazione della norma. Ne consegue che nulla di naturale vi è nella dicotomia sessuale e nell’eterosessualità (paradigma fortemente normante i corpi e la sessualità). Il punto è: il sesso è un prodotto del discorso, e se il femminismo rimane ancorato alla divisione sesso-genere esso non può divenire una strategia di critica e di lotta. Scriveva Saba Mahmood a proposito del lavoro di Judith Butler: “in contrasto con coloro che sostenevano che le differenze di genere fossero radicate nei sistemi di significati biologici e/o culturalmente simbolici, Butler ha irrotto in un nuovo terreno analitico proponendo che il genere sia inteso come un effetto del potere assicurato attraverso la ripetuta esecuzione delle norme” (2001, p. 211). E ancora citandola: “Il genere non è un nucleo interiore o un’essenza statica, ma un ennesimo atto reiterato di norme, che producono, retroattivamente, l’apparenza del genere come una profondità interiore” (Butler, 1997, p. 14). Il lavoro importante di Judith Butler sulla materialità del potere e sul corpo quale luogo primario della sua manifestazione (non solo il potere agisce sul corpo, ma esso è nel corpo – Mahmaod, 2005, p. 84) non scorre in parallelo ai lasciti del pensiero femminista nero e postcoloniale: al contrario, ritiene che da questi presupposti occorra partire per comprendere il fallimento dei processi d’identificazione nella categoria donne, e per costruire degli strumenti di lotta. Kertzer (2009), Mattalucci (2017a, 2017b), Marabello (2017). Vedi Alcano (2011, 2014) sulla costruzione della mascolinità non normativa connessa a fattori di classe e povertà; Bisogno e Ronzon (2007) sul “terzo genere”. Vedi anche le raccolte di Mattalucci (2012) e Gribaldo e Ribeiro Corossacz (2010) contenenti saggi etnografici sul genere come prospettiva, metodologia e oggetto di ricerca.

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Antropologia, prospettive di genere e femministe

Descrivendo la fase di transito del genere, Teresa de Lauretis scrive che negli anni Sessanta e Settanta il “concetto di genere o differenza sessuale ha avuto il ruolo centrale nella critica della rappresentazione” e “nell’analisi delle teorie della soggettività e della testualità” (1990, p. 131). Inteso come differenza sessuale, questo concetto di genere è stato “il fondamento teorico degli interventi femministi” (ibidem), e insieme dell’“elaborazione di pratiche e discorsi specifici, e la creazione di ambiti sociali” (ibidem) – per esempio, scrive i luoghi delle donne, le riviste femministe. La differenza ha così potuto essere affermata e rivendicata. Tuttavia, il genere come differenza sessuale è divenuto poi il suo stesso limite. Ovvero: relegare la critica femminista alla differenza sessuale (senza ripensarla) rimanendo ancorate all’opposizione binaria dei sessi rende impossibile “articolare le differenze interne alle donne” (ibidem, p. 132) – oltre a ripetere, come ben sostiene Judith Butler, – il dualismo del genere senza comprendere la possibilità umana di essere altri generi. Significa, scrive ancora Teresa de Lauretis, riprendendo come già si è visto Audre Lorde, rimanere “entro le pareti della casa del padrone” (ibidem). Occorre allora rendere problematica la biologia sessuale, che storicamente era stata pensata come avulsa dal linguaggio e dal discorso. Il genere – come il sesso – è il prodotto di tecnologie sociali, “come il cinema, e di discorsi istituzionali, epistemologie e pratiche critiche, nonché di pratiche della vita quotidiana. Potremmo quindi dire che il genere, come la sessualità, non è una proprietà dei corpi e qualcosa che esiste in origine degli esseri umani” (ibidem, p. 133). E in modo più esplicito: “Il soggetto sociale non è dotato di una sessualità naturale, innata o originaria, ma si costruisce – e si costruisce sessuato – come effetto delle rappresentazioni del genere” (ibidem, p. 60), dove questi effetti sono ancorati a dispositivi di potere, “ossia a istituzioni sociali, quali la famiglia, la scuola, la medicina, il diritto, il linguaggio, i mass media, e a saperi disciplinari-disciplinati, quali la filosofia o la teoria” (ibidem). Entrambe le studiose mettono al centro l’opera di Michel Foucault, anche se entrambe ricordano che egli non considerava “l’essere in-generato” (ibidem) pur discutendo delle tecnologie della sessualità. Entrambe soprattutto spingono – seppur in modi diversi – verso il genere come tecnologia disciplinare da esplorare in una relazione stretta con altre tecnologie, quali quelle della “razza” e della classe (vedi, per esempio, Ong, 2006). A tal punto della riflessione, si tratta di mettere a profitto le discussioni poste dai femminismi, le indicazioni sulla metodologia, 76

7. Dove si posiziona l’agency. Quando potere e azione percorrono strade non note

l’accortezza che chiedono dinanzi allo studio della relazione stretta fra soggetti e forme del potere. 7. Dove si posiziona l’agency. Quando potere e azione percorrono strade non note What does freedom mean if we accept the fundamental premise that humans are social beings, always raised in certain social and historical contexts and belonging to particular communities that shape their desires and understandings of the world? (Lila Abu-Lughod, 2002)

Già nel 1992, la scienziata politica Bonnie Honig rivisitando il lavoro di Hannah Arendt36 (in particolare The Human Condition, 1958), a favore di un femminismo politico “agonistico” (Bellagamba, Di Cori, Pustianaz, 2000, p. 11), ha sostenuto quanto la pluralità della condizione umana sia anche la condizione stessa dell’agire umano e del suo ingresso nella sfera pubblica. Il modo con cui possiamo comprendere l’agire politico nel femminismo (e anche il modo con cui il femminismo ci permette di vedere le sfere dell’azione politica e sociale delle donne, e dell’umano) è strettamente legato alla consapevolezza della varietà e della differenza, entrambe considerate in una prospettiva che, pur non annullando la parità, non concepisce un’unica possibilità d’azione, né rimane ancorata a visioni oppositive e dicotomiche. Vorrei chiudere queste pagine, e anticipare alcune riflessioni che saranno affrontate nei capitoli successivi, mostrando quanto la letteratura sinora analizzata, in particolare la strada che ha portato la prospettiva intersezionale al centro del dibattito, abbia dato un contributo fondamentale all’avanzamento dei modi con cui etnograficamente possiamo cogliere significati articolati di azione, corpi, soggetti e poteri, per poi tentare di rendere la teoria, in particolare proprio i concetti di agency e di potere, sufficientemente malleabile dinanzi a circostanze che richiedono di guardare nelle fessure e nelle (apparenti) contraddizioni delle relazioni che le persone hanno con 36. Scrive Hannah Arendt nelle prime pagine del testo The Human Condition [Vita activa]: “L’azione corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificamente la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica” (1958 [1964], p. 7).

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le strutture sociali d’oppressione, nei modi con cui posizionano il sé e gestiscono le proprie azioni. Ritengo queste indicazioni particolarmente importanti per lo studio della mobilità contemporanea delle donne sia migranti sia rifugiate. Nel suo lungo e prezioso lavoro etnografico condotto in Egitto sul movimento delle donne della moschea – movimento che comprendeva donne di diverse provenienze sociali ed economiche e dove ognuna insegnava alle altre le scritture islamiche, le pratiche sociali e d’incorporazione per raggiungere un ideale virtuoso del sé (2001, p. 202) – Saba Mahmood (2001, 2005) raccontava come la pratica del velo e i rituali religiosi fossero coscientemente agiti e non semplicemente imposti da modelli tradizionali o da forme di patriarcato. Tali pratiche rappresentavano una politica del corpo che – lontano dall’essere per quelle donne un’imposizione, ma al contrario una performance agita e ripetuta – significava coltivare la virtù, il desiderio e la vicinanza a Dio. Lo studio teologico fatto da queste donne sulle scritture sacre e queste pratiche d’incorporazione della virtù costituivano un’esperienza senza precedenti, poiché questi ambiti erano storicamente considerati prettamente maschili. Faceva notare Saba Mahmood che l’obiettivo della sua analisi etnografica non era far emergere un possibile e latente progetto di liberazione delle donne, piuttosto indagare “le concezioni del sé, dell’agency morale e della disciplina che sottostanno alle pratiche di questo movimento non liberale e comprendere il desiderio che lo anima” (2001, p. 203). Partendo da qui, si trattava di sfidare attraverso un dettagliato resoconto etnografico i concetti di agency e di libertà così come le teorie femministe occidentali li avevano concepiti sino a quel momento. Questa ricerca sulla partecipazione delle donne al movimento di rinascita islamica37 della moschea del Cairo poneva – come dichiarato dalla stessa antropologa – importanti sfide concettuali alle teorie femministe e di genere. Questi movimenti religiosi, in particolare quello da essa indagato, parevano essere “ostili all’agenda politica” del femminismo, soprattutto “in un momento storico in cui maggiori possibilità emancipatorie per le donne sembrano es37. Precisa nei suoi testi Mahmood (2001, 2005, 2009) che intende con Islamic Revival l’orientamento di alcuni gruppi politici verso lo Stato, ma soprattutto una sensibilità religiosa sviluppatasi in Egitto a partire dagli anni Settanta. Etnograficamente, il suo progetto indagò negli anni Novanta il movimento delle donne della moschea al Cairo, che a sua volta era parte di un più ampio movimento di rinascita islamica in Egitto. Rimando alla lettura dei testi per un approfondimento.

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sere più disponibili” (2001, p. 202). Sottolineò l’antropologa che il punto principale delle teorie femministe era stato comprendere come “questioni relative a specificità storiche e culturali informino sia le analisi sia le politiche di ogni progetto femminista” (2009, p.13). Tuttavia, continuò, mentre per compiere tale rivoluzione nei modi d’intendere soggetti, potere e resistenza le istanze di classe, “razza”, genere erano state prese in larga considerazione, la questione “delle differenze religiose è stata relativamente inesplorata” (ibidem), in particolar modo rispetto all’Islam. Probabilmente, come ha scritto a più riprese anche Lila Abu-Lughod, la ragione era dovuta al fatto che agli occhi dell’Occidente, e delle femministe occidentali, la religione islamica, compresi i suoi movimenti contemporanei e i processi di secolarizzazione, rappresentava una perfetta forma di “conservatorismo sociale” e uno spazio chiave per esplorare il tema dell’assenza di libertà delle donne (Mahmood, 2009). Nel 2002, Lila Abu-Lughod sostenne quanto fosse ancora necessario un discorso sulle donne musulmane che, senza cadere nella retorica dell’aiuto e della salvezza, apprezzasse “le differenze fra donne nel mondo come prodotti di differenti storie, espressioni di differenti circostanze, e manifestazioni di desideri differentemente strutturati” (ibidem, p. 786). È abitudine cognitiva ancora attuale quella che vede nelle donne musulmane velate – o nella pratica dell’indossare il velo – “la quintessenza della non libertà delle donne” (ibidem). Nel testo, l’antropologa prende come esempi il linguaggio e le ideologie delle campagne promosse negli Stati Uniti a favore delle donne in Afghanistan durante la guerra civile – che dichiaravano di volerle salvare dalle pratiche religiose imposte dall’ascesa al potere dei talebani (giustificando così, continua, anche gli interventi militari occidentali e sottolineando peraltro: come se tali pratiche fossero comparse di colpo sulla scena storica e sociale) – per sottolineare quanto poco innocui siano i progetti che “intendono salvare le altre donne”. Essi, anzi, dipendono e rinforzano “un senso di superiorità degli occidentali, una forma d’arroganza che merita di essere sfidata” (ibidem, p. 789). La retorica sulla salvezza e sulla libertà delle donne – che nel caso delle migranti e delle rifugiate echeggia nella maggior libertà che la migrazione stessa (come strada verso l’emancipazione), la società d’arrivo o di protezione, i professionisti dell’aiuto umani79

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tario offrono alle donne –38 era risuonata, e per molti versi ancora mostra le sue sopravvivenze, negli studi delle donne euroamericane sulle donne altre. Sin dai suoi inizi, il femminismo nero dichiarò che il femminismo bianco non poteva comprendere le sue lotte, né le aveva viste, perché l’oppressione razziale non era compresa nel concetto di potere di questo femminismo. Non avendo storicamente esperito il razzismo, le femministe bianche euroamericane individuavano il patriarcato come l’asse della subordinazione e la resistenza a esso come l’espressione della lotta. Cosa accadeva – come venne a sostenere il femminismo postcoloniale – quando le forme di potere e le azioni di contrasto, o più semplicemente le pratiche e le parole delle donne, assumevano forme non note allo sguardo occidentale, non erano riconosciute, né viste dall’analisi e non erano comprese nella definizione di potere e di resistenza delle donne bianche occidentali? È questa capacità d’individuare specificità contestuali delle forme di potere e dei modi in cui agiscono, di rielaborarle e di contrastarle e soprattutto di usare tali istanze per decentrare e rendere più ricchi i concetti di potere e di agency, compresa l’analisi della loro relazione, a esprimere la sintesi delle riflessioni precedenti e il contributo che vorrei mettere in luce in queste pagine conclusive. A livello di battaglia politica, la questione del velo – come altre pratiche e altri simboli sul corpo considerati perfetti esempi di subordinazione – è complessa, scrive Lila Abu-Lughod, poiché l’angolo di lettura richiesto interseca il pericolo dell’etnocentrismo (delle donne femministe occidentali) con il rischio del relativismo culturale (di cui l’antropologia è complice nel reificare le differenze, e nel non condannarle in certe circostanze storiche). Ma una risposta potrebbe essere: anziché “cercare di ‘salvare’ le altre (con la superiorità che implica e le violenze che comporterebbe) potremmo pensare di (1) lavorare con loro in situazioni che riconosciamo come sempre soggette a trasformazione storica e (2) considerare le nostre grandi responsabilità dinanzi alle forme di ingiustizia globale, che sono potenti produttrici dei mondi in cui esse si trovano” (2002, p. 789). A livello di discussione più ampia, Saba Mahmood, Aihwa Ong (2006) e la stessa Lila Abu-Lughod in modi simili e diversi affrontano questi dibattiti sostenendo che il punto non è misurare la liber38. Questi argomenti sono affrontati nel Capitolo Secondo e nel Capitolo Terzo.

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tà, la capacità di resistenza, la considerazione del sé delle donne. È invece chiederci quali potenzialità diamo ai concetti di agency e di potere e quanto siamo disposte a usarli per indagare le esperienze sociali delle persone e i significati che esse danno a tali assi di esperienza. Scriveva per esempio Saba Mahmood39 che la misura dell’agency delle donne non è necessariamente chiusa nella sovversione al patriarcato. Occorre dire che sollevando tale questione, essa non negava quel lungo pezzo di storia del femminismo e la sua lotta politica contro il dominio maschile. Ciò è evidente dalla dichiarazione di un profondo legame con il lavoro di Judith Butler. Piuttosto, riflessione ben più profonda, si trattava di ideare strumenti che permettessero di pensare a forme e modi di agency eccedenti i progetti femministi secolari e liberali o che a essi non erano conformi e affini (2005, p. X; anche 2001, p. 202). Al comparire del dibattito sull’agency, sottolineò, questo concetto fu reso complicato dagli studi sul genere in contesti arabo-musulmani (per esempio: AbuLughod, 1986, e soprattutto 1989, 1998). In effetti, è proprio “nella riconcettualizzazione del potere come un insieme di relazioni che non solo dominano il soggetto, ma stabiliscono anche le condizioni della sua possibilità” (Mahmood, 2001, p. 210, citando Butler) a costituire il punto di partenza. Questa revisione del concetto di potere che Saba Mahmood usò in diretto riferimento al lavoro di Judith Butler è da quest’ultima chiamato il “paradosso dell’assoggettamento” (1997):40 “Gli stessi processi e le stesse condizioni che assicurano la subordinazione di un soggetto sono anche il mezzo con cui esso diventa un’identità e un agente autocosciente”; ossia se il potere “forma il soggetto e al contempo delinea le condizioni stesse della sua esistenza e la traiettoria del suo desiderio, allora esso non è più semplicemente ciò a cui ci opponiamo, ma anche, in un senso forte, ciò da cui dipendiamo” (ibidem, p. 8). Pratiche che miravano all’incorporazione della modestia, dell’umiltà, della timidezza condivise fra le donne della moschea – associate a un’ideale di passività femminile, e non a un’immagine emancipatoria – erano al contempo ciò che esse usavano “per affermare la loro presenza in sfere in precedenza solo maschili” e ciò che tradizionalmente assicurava la loro subordinazione (Mahmood, 2001, p. 205). Partendo da qui Saba Mahmood scrisse che la partecipazione 39. Nella prefazione alla nuova edizione del 2012 di Politics of Piety (2005). Vedi anche S. Mahmood (2001), in particolare p. 205. 40. Il riferimento è qui a Foucault, in particolare 1980, 1983, 1994.

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attiva delle donne della moschea nella costruzione del sé devoto le aveva permesso di comprendere come la teoria femminista non poteva pensarsi solo come libertà dai rapporti di dominio, ma doveva “ripensare la relazione concettuale fra desiderio e autoformazione, performance e costruzione del soggetto, agency morale e incorporazione” (2001, p. 203). Chi allora debba essere considerato “agente” e chi no porta a indagare “una particolare nozione di human agency nella dottrina femminista – che cercava di individuare l’autonomia politica e morale del soggetto dinanzi al potere – usata per lo studio delle donne coinvolte nelle tradizioni religiose patriarcali come l’Islam” (2009, p. 15). Nonostante le importanti intuizioni che questo concetto ha permesso di elaborare, “questo modello di agency limita fortemente la nostra capacità di comprendere e interrogare la vita di donne i cui desideri, affetti, senso di sé, aspirazioni e progetti saranno stati modellati da tradizioni non liberali” (ibidem; 2001, p. 203).41 Il lungo lavoro di ricerca sul campo con il movimento (non liberale) delle donne della moschea e il dialogo diretto con le teorie femministe contemporanee spinse Saba Mahmood a sostenere che “l’agency non è un sinonimo di resistenza alle relazioni di dominio, ma una capacità di azione che le relazioni di subordinazione storicamente specifiche consentono e creano” (2001, p. 203).

41. Precisa Mahmood che l’autorealizzazione non è un’invenzione liberale, né occidentale. Sia la storia premoderna che altre culture, tradizioni e religioni hanno dato riflessioni sul sé e sulla sua autodeterminazione (vedi 2001, p. 207).

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