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Italian Pages 220 Year 1990
Letteratura Italiana Laterza
Cultura, narrativa e teatro nell'età del positivismo di F. Angelini e Carlo A. Madrignani
PQ 4086 ANG
Angelini,
F.
QMW
Library
291080073:
LIL 5
WITHDRAWN FROM STOCK QMUL LIBRARY
LETTERATURA Direttore
IL
ITALIANA Carlo
LATERZA
Muscetta
DUECENTO
. Le origini e la scuola siciliana, dî Emilio Pasquini e Antonio E. Quaglio, . Lo stilnovo e la poesia religiosa, dî Emilio Pasquini e Antonio E. Quaglio, . La letteratura didattica e la poesia popolare del Duecento, di Emilio Pasquini, La poesia realistica e la prosa del Duecento, di Antonio E. Quaglio, pp. . Dante, di Nicolò Mineo, pp. 316. NIpPWLN
IL
. . . .
TRECENTO.
Petrarca, di Raffaele Forme poetiche del Boccaccio, di Carlo La letteratura civile + IL
. . . . .
pp. 348. pp. 228. pp. 200. 256.
Amaturo, Trecento, Muscetta, e religiosa
pp. 412. dî Achille Tartaro, pp. 180. pp. 384. del Trecento, di Achille Tartaro, pp. 280.
QUATTROCENTO
I centri culturali dell’Umanesimo, di Francesco Tateo, pp. 184. Il primo Quattrocento toscano, di Achille Tartaro, pp. 144. Alberti, Leonardo e la crisi dell’Umanesimo, di Francesco Tateo, pp. 144. Pulci e la cultura medicea, di Salvatore S. Nigro, pp. 108. Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano, di Francesco Tateo, pp. 176.
. Quattrocento
. L’Umanesimo
settentrionale,
di Antonia
ineridionale, di Francesco
Tissoni Benvenuti,
pp. 240.
Tateo, pp. 224.
+.
IL
CINQUECENTO
. . . . . . .
Niccolò Machiavelli, di Nino Borsellino, pp. 196. Ludovico Ariosto, dî Nino Borsellino, pp. 164.
Lirica, poemi e trattati civili del Cinquecento, dî Marcello Aurigemma, pp. 228. Gli anticlassicisti del Cinquecento, di Nino Borsellino, pp. 156. Il teatro del Cinquecento, di Nino Borsellino e Roberto Mercuri, pp. 136. La novella del Cinquecento, di Bruno Porcelli, pp. 124. Guicciardini e la crisi del Rinascimento, dî Emanuella Scarano Lugnani, pp. 168.
. Cultura e vita civile fra Riforma e Controriforma, di Nicola Badaloni, Renato Barilli
e Walter Moretti, pp. 214. . Torquato Tasso, dî Walter Moretti, pp. 124.
IL SEICENTO
. . . . .
La cultura della Controriforma, di Alberto Asor Rosa, pp. 252. Galilei e la nuova scienza, dî Alberto Asor Rosa, pp. 152. La lirica del Seicento, di Alberto Asor Rosa, pp. 218. Il teatro barocco, di Franca Angelini, pp. 300. Daniello Bartoli e i prosatori barocchi, di Alberto Asor Rosa e Franca Angelini, pp. 92. . I poeti giocosi dell’età barocca, di Alberto Asor Rosa e Salvatore S. Nigro, pp. 208. IL
SETTECENTO
. Dalla vecchia Italia alla cultura europea del Settecento, di Gaetano Compagnino e Giuseppe Savoca, pp. 232. . Metastasio e il teatro del primo Settecento, di Guido Nicastro, pp. 120. . Parini e la poesia arcadica, di Giuseppe Savoca, pp. 334. . Gli illuministi italiani, di Gaetano Compagnino, pp. 150. . Dalla crisi del classicismo ai libertini, di Gaetano Compagnino e Giuseppe Savoca, pp. 240. . Goldoni e il teatro del secondo Settecento, dî Guido Nicastro, pp. 168. . Vittorio Alfieri, di Guido Nicastro, pp. 138.
. IL PRIMO OTTOCENTO . Cultura e letteratura dell’800 e l’età napoleonica, di Nicolò Mineo (in preparazione). . Da Foscolo all’età della Restaurazione, di Nicolò Mineo e Attilio Marinari (in prerazione).
. . . . . .
Manzoni, di Salvatore S. Nigro (in preparazione). Leopardi, di Carlo Muscetta (in preparazione). Porta e Belli, di Maria Teresa Lanza (in preparazione). Giustieil teatro del primo Ottocento, di Nicolò Mineo e Guido Nicastro (in preparazione). Mazzini e gli scrittori democratici, di Giovanni Pirodda, pp. 96. Gli scrittori cattolici tra reazione e liberalismo, di Mario Themelly e Vito Lo Curto (in preparazione).
. Niccolò Tommaseo
e la crisi del romanticismo,
di Rosa Maria Monastra
e Luisa
Gallotti Giordani (in preparazione). VIII.
IL SECONDO
OTTOCENTO
. I dissidenti del Risorgimento. Cattaneo, Ferrari, Pisacane, di Ugo Dotti, pp. 128. . Nievo e la letteratura campagnola, di Arnaldo Di Benedetto, pp. 96. . La cultura meridionale e il Risorgimento, di Attilio Marinari e Giovanni Pirodda,
pp. 172. . Francesco De Sanctis, di Carlo Muscetta, pp. 120. . Cultura, narrativa e teatro nell’età del positivismo, di Carlo A. Madrignani e Franca Angelini, pp. 208. . Carducci e il tramonto del classicismo, di Rosario Contarino e Rosa Maria Monastra (in preparazione). . Verga, di Romano Luperini (in preparazione). . Dalla scapigliatura al verismo, di Lina Bolzoni e Marcella Tedeschi (in preparazione).
. Bizantini e decadenti nell’Italia umbertina, di Elsa Sormani (in preparazione).
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https://archive.org/details/culturanarrativa0000fran
CULTURA, NARRATIVA E TEATRO NELL'ETÀ DEL POSITIVISMO di Franca Angelini e Carlo A. Madrignani
Editori
Laterza
1975 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & figli, Spa, Roma-Bari
CL 20-0826-2
IL SECONDO LO STATO
UNITARIO
OTTOCENTO E L'ETÀ DEL POSITIVISMO
$$ 51-72
Per facilitare i rinvii ad altri volumi della stessa collana, la numerazione dei paragrafi è data progressivamente all’interno di ciascun secolo e non per ogni singolo volume.
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SCIENZA, FILOSOFIA, STORIA E ARTE NELLA CULTURA DEL POSITIVISMO di Carlo A. Madrignani
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SCIENZA, FILOSOFIA, STORIA E ARTE NELLA CULTURA DEL POSITIVISMO
$ 51.
Il periodo, i termini, i modelli europei
Nel trentennio che intercorre tra la formazione dello stato unitario e la nascita del partito socialista (1891) predomina in Italia una nuova moderna corrente d’idee, sopraggiunta a contendere il potere al giobertismo e all’hegelismo della Destra liberale. Presentandosi a liquidare la metafisica in nome della scienza,
con le caratteristiche di una più accessibile filosofia popolare, il positivismo aveva tutti i requisiti per vincere una dura battaglia contro le resistenze del romanticismo filosofico e del cattolicesimo retrivo, e tenere lungamente il campo anche quando, con la fondazione della 1 Internazionale (1864) e la crescita del movimento operaio, si diffuse con maggiore ampiezza il materialismo storico e dialettico di Marx ed Engels: esso costituiva per le classi lavoratrici non solo un pensiero più coerente e rigoroso, ma autonomo rispetto a quello che avevano condiviso con la classe antagonista. Dopo che la Commune parigina aveva allarmato l’Europa e rievocato i terrori quarantotteschi (1870-1), la Destra liberale borghese aveva dato il campo alla Sinistra con un’operazione trasformistica (la cosiddetta rivoluzione parlamentare del ’76). Questa nuova Sinistra costituzionale e moderata poté valersi dell’ideologia positivista come di uno strumento egemonico, tanto più efficiente quanto più esso si era esteso in tutti i campi della cultura, nelle Università e nei giornali, nella letteratura e nelle arti figurative, tra i cattedratici e i pubblicisti del riformismo
conservatore,
tra gli intellettuali
repubblicani,
anarchici,
socialisti, eversori della politica e dell’arte (i « petrolieri», gli «scapigliati »), soprattutto a Milano e nel Nord, fenomeno tipico della società industriale come era stata la bohème a Parigi dagli anni trenta al ‘48. La ribellione delle élites risorgimentali nel nuovo clima di libertà si era estesa, coinvolgendo nella protesta non solo l’educazione confessionale ma anche quella rettorica, spiritualistica, idealistica, che pure poteva vantare le sue benemerenze patriottiche. Maturava l'esigenza di una «filosofia scientifica », di un metodo di ricerca oggettivo per conoscere il presente e il passato, la società, la natura, la storia. Si proponevano nuovi modelli europei in ogni disciplina, tradizionale o recente, per fondare lo studio nei « fatti », nel reale, e rappresentare la vita « dal vero ». Il neologismo italiano che ebbe corso negli anni settanta, e che fu coniato negli ambienti delle arti figurative (come attestano il vocabolario di Pietro Fanfani e il Nouveau Larousse), fu appunto quello di « verismo », e designò solo le correnti artistiche e letterarie. Altri termini invece, più comprensivi o polivalenti, testimoniavano la compresenza nella nostra cultura di tutto un movimento ideale (e non solo di pensiero estetico) ormai di circolazione europea. Tali termini, a differenza di
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La cultura del positivismo
« positivismo », erano di conio molto più antico, anche se usati in un contesto e in un’accezione affatto recenti. Qualche chiarimento dunque, a questo proposito, non sarà inopportuno, per evitare gli equivoci e le confusioni che potrebbero comportare le oscillazioni sinonimiche, del resto risalenti all’uso di quegli anni. L’avvento
del nuovo
tipo di pensatore
«realista, positivista,
naturalista »,
fu salutato sarcasticamente dal maestro dell’hegelismo napoletano Bertrando Spaventa (cfr. $$ 34 e 52) nei suoi Principii di filosofia (1867). Privilegiato tra gli «ismi » correnti (come fu sottolineato da un noto articolo di Luigi Capuana, gli astratti imperversarono più che mai in quegli anni), il termine « realismo » aveva una connotazione estremista, perché negli anni cinquanta aveva costituito la bandiera del gruppo raccoltosi a Parigi intorno alla rivista « Réalisme », animata per pochi mesi da letterati e pittori (tra cui Champfleury e Courbet) che si richiamavano a Diderot, a Hegel, a Balzac e a Proudhon, il socialista anarchico
in voga, che più tardi avrebbe teorizzato anche una sua estetica (Du principe de
l’art et de sa destination sociale). Realisti furono chiamati negli stessi anni cinquanta due scrittori, Baudelaire e Flaubert, processati per immoralità dall’ipocrita regime del secondo impero, allarmato dal significato eversivo della loro opera: anche se la componente realistica, soprattutto nelle Fleurs du mal, era subordinata alla risultante formale e tematica del decadentismo, con quelle implicazioni che si riscontreranno poi nella nostra produzione sia in prosa che in verso
in una delle due correnti della scapigliatura. Ma non mancò un recupero del sostanziale aspetto positivo del termine, in una formulazione dialettica che contrapponeva «reale » e «ideale », dentro una rappresentazione totale della società e delle sue classi: e fu soprattutto De Sanctis, che, avversando
il realismo
dete-
riore, considerò tale il verismo, in quanto rappresentazione parziale e meccanica della vita. Ma tornando alla terminologia e all’accezione più propriamente filosofica, va osservato che parlare di « realismo » era corretto, proprio in omaggio al tradizionale significato dualistico che tale definizione comportava e se si tien conto che le istanze materialistiche di quasi tutti i muovi pensatori e scienziati non approdavano a un monismo conseguente, e autorizzavano posizioni scettiche e agnostiche, quando non cercavano addirittura la conciliazione tra scienza e fede, che placava sincere ansie religiose, ma soprattutto finiva per soddisfare esigenze conservatrici o perfino reazionarie. Anche l’altro termine, « naturalismo », prima che fosse usato nella critica letteraria, soprattutto francese, poteva vantare,
in Italia, le ascendenze
remote
di «filosofo naturale » o «naturalista », e poteva valere ancora come sostituto eufemistico di quel naturalismo che aveva fatto scandalo in Germania negli stessi
anni cinquanta, parallelamente alla sinistra hegeliana di Ludwig Feuerbach e al nascente marxismo. In Italia era stato introdotto da due maestri di fisiologia, profughi in Svizzera dalle Università tedesche, Jakob Moleschott e Moritz Schiff, la cui scuola avrebbe avuto grande importanza fra noi. Dell’olandese Moleschott (1822-93), chiamato nel 1861 a insegnare a Torino dal suo amico De Sanctis,
apparvero negli anni sessanta le prolusioni e l’opera Der Kreislauf des Lebens,
$ 51.
Il periodo, i termini, i modelli europei
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tradotta da Cesare Lombroso (La circolazione della vita, Milano 1869), mentre cominciarono a diffondersi gli scritti di Ludwig Biichner (1824-99), fratello del drammaturgo rivoluzionario e precursore dell’evoluzionismo nel famoso e vulgatissimo Kraft und Stoff [Forza e materia] (1855), che il repubblicano Lorenzo Stefanoni tradusse con altri suoi libri (Scienza e natura, L'uomo secondo la scienza) tra gli anni sessanta e settanta. Appunto in questi anni, mentre si divulgava un altro testo base della nuova filosofia della scienza, l’Introduction
à l’étude de la
médecine expérimentale (1865) di Claude Bernard, che teorizzava la funzionalità delle parti nella totalità dell'organismo, si traducevano le opere del più geniale naturalista moderno, l’inglese Charles Darwin (1809-82), la cui validità scientifica,
invano
contestata,
ha avuto
recenti e clamorose
conferme:
On the
Origin of Species by Means of Natural Selections or the Preservation of Favored Races in the Struggle for Life [Sull’origine della specie per selezione naturale ovvero la conservazione delle razze favorite nella lotta per l’esistenza], Londra 1859, 1872° (trad. di Giovanni Canestrini, Modena 1864) e The Descent of Man and Selection in Relation to Sex [L'origine dell’uomo e la selezione sessuale], Londra 1871 (trad. di Michele Lessona, Torino 1872).
L’enorme popolarità delle teorie scientifiche, sperimentali ed evoluzioniste e la preminenza sull'uomo assegnata alle forze della natura furono essenziali nell’estensione alla letteratura e alle arti del termine « naturalismo ». Ma furono le discussioni sulle nuove idee a mettere in circolazione quello di « positivismo », quando negli anni sessanta si confrontarono con la produzione inglese quella tedesca e soprattutto quella francese. Immediata risonanza ebbero in Italia le polemiche tra John Stuart Mill e gli scolari del primo banditore e profeta di questo vero e proprio culto della scienza, quale in effetti era stato Auguste Comte (1798-1857), con il tipico fervore ereditato dal misticismo sociale del suo maestro Saint-Simon. Sebbene le sue opere non avessero avuto una pronta notorietà, a partire dagli anni sessanta parve che si realizzasse un rinnovamento epocale e che nel xIx secolo si cominciasse ormai a vivere quello che egli aveva preconizzato come terzo stadio della storia umana nel suo Cours de philosophie positive (1830-42): la seconda metà di quest'opera in sei volumi era destinata infatti a edificare la nuova scienza delle scienze, dall’autore chiamata sociologia. Non ignoto a Ferrari e a Cattaneo, e forse nemmeno a Pisacane, Comte veniva riscoperto soprattutto attraverso l’interpretazione dei suoi scolari Emile Littré e Hippolyte Taine, che, rifiutando la sua religiosità sociale, lo accreditavano soprattutto come colui che aveva applicato alla filosofia il metodo delle scienze esatte. Mentre i fisiologi tedeschi erano schierati per il socialismo e consideravano il loro materialismo « volgare » come uno strumento della emancipazione popolare, del positivismo comtiano veniva soprattutto diffusa una versione accademica, dommatica, moderata. Del naturalismo positivista, lontano dalla carica utopistica e dalla problematica sociale di Comte (sia pure ridotta a generica fiducia progressista in un’armonia sociale realizzata con la riparazione delle ingiustizie e nell’ambito del sistema borghese), il divulgatore più efficace fu innanzi tutto
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La cultura del positivismo
Hippolyte Taine (1828-93). Più di quella di Littré, la sua produzione ebbe un’importanza decisiva per l’estensione del nuovo metodo non solo alla filosofia, ma a tutte le nuove « scienze morali » e agli studi tradizionalmente umanistici: la psicologia, l'antropologia, la glottologia, la critica e la storiografia artistica e letteraria. Dalla monografia su Tito Livio (1856) all’Histoire de la littérature anglaise (1863), agli studi su La philosophie de l’art (1865-9), la sua opera fu determinante nell’indirizzare gli studi estetici anche italiani, e per la sua diffusione nella penisola e per le applicazioni riguardanti le nostre arti figurative. Questo desiderio di scientifizzare lo studio della produzione artistica, di considerarlo come una scienza sperimentale che parte dagli elementi più semplici per risalire alle composizioni più complesse, sta alla base di quello che può essere considerato il manifesto dell’estetica positivista, l’Introduzione preposta da Taine alla sua Storia della letteratura inglese. Per l’autore, un’opera letteraria non è un «semplice gioco dell’immaginazione, il capriccio isolato di una testa calda, ma una copia dei costumi circostanti e il segno di uno stato spirituale»): esiste, secondo Taine, un sistema nei sentimenti e nelle idee umane, e questo sistema ha per « pensiero motore certi tratti generali, certi caratteri di spirito e di cuore comuni agli uomini di una razza, di un secolo e di un paese». Con un paragone tratto dalla mineralogia, Taine parlava di una derivazione delle varie civiltà da certe forme spirituali semplici, analoga alla derivazione dei diversi cristalli da certe forme materiali semplici; e, seguendo la logica del suo materialismo determinista, arrivava a quella famosa definizione, che fu un vero choc per i lettori del tempo, in base alla quale il vizio e la virtù non sarebbero altro che prodotti come il vetriolo e lo zucchero. Per lui, l’opera d’arte non aveva nulla di « misterioso », ed egli anzi affermava che all’intelligenza umana tutto è possibile. Non gli sfuggiva tuttavia la complessità del fenomeno artistico, per cui il suo invito alla semplificazione era un invito al metodo scientifico della « scomposizione », della progressiva riduzione di un fenomeno complesso ai suoi strati fondamentali. La sua concezione non aveva certamente niente a che fare con la dialettica (anche se elementi hegeliani si possono rintracciare nelle sue teorie), e seguiva con fedeltà il modello epistemologico della ricerca sperimentale del laboratorio scientifico, senza per questo voler disconoscere o minimizzare il valore storico o estetico dell’opera d’arte. La sua estetica era in primo luogo la negazione globale dell’estetica romantica, che aveva esaltato la dimensione individualistica e psicologica della poesia come fatto eccezionale e abnorme: per Taine la prima verità estetica è che l’opera d’arte non nasce mai isolata, non è un’eccezione, ma il risultato di una convergenza di elementi naturali, politici e sociali, da cui non si può staccare l’artista, ma nei quali anzi è compito del critico-scienziato riimmergere il prodotto estetico. Nelle fortunate lezioni che egli raccolse nel 1865 col titolo Filosofia dell’arte, si dice che le produzioni dello spirito umano, come quelle della natura vivente, si esplicano attraverso l’ambiente, e vi si riprende di seguito il metodo già esposto nell’Introduzione alla Storia della letteratura inglese, secondo il quale tre sono le componenti che stanno alla base dell’opera d’arte, la razza,
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II periodo, i termini, i modelli europei
g
l’ambiente e la situazione storica (race, milieu e moment). Fin qui l’estetica di Taine sembrerebbe
rimandare
ad una concezione strumentale,
meramente
do-
cumentaria del prodotto artistico, secondo i canoni della storiografia di costume e d’idee tipica della cultura della Restaurazione: non è un caso che la Storia della letteratura inglese sia dedicata, come a un maestro, a Guizot, e che l'esempio additato sia il Port-Royal di Sainte-Beuve. Ma la concezione di Taine non si limitava a trarre da un documento letterario la psicologia di un’anima (com’egli diceva), di un secolo e perfino di una razza; essa intendeva, pur sempre all’interno di questo canone storiografico, stabilire i princìpi su cui si fonda l’opera d’arte in quanto prodotto autonomo e distinto. Ovviamente proprio in forza del suo ideale documentario, il primo canone della filosofia dell’arte di Taine non poteva non essere quello classico dell’imitazione; ma non si trattava di un’imitazione passiva, fotografica, ché anzi era affermata la necessità di distinguere nettamente fra imitazione materiale e imitazione intellettuale: l’opera d’arte nasce dalla facoltà di cogliere ed esprimere il carattere dominante degli oggetti e si basa sui rapporti e la mutua dipendenza delle parti. Essa «ha il fine di manifestare qualche carattere essenziale o saliente, mettendo in evidenza qualche idea importante più chiaramente e più completamente di quanto non facciano gli oggetti reali »; e raggiunge tale fine « coll’impiego di un insieme di parti collegate fra di loro, di cui essa modifica sistematicamente i rapporti». Questa è la definizione più completa che il metodo scientifico di 'Taine ha elaborato, e fu la definizione di un metodo che ebbe una grande importanza al suo apparire. Basti pensare agli elementi che sorreggevano questa indicazione generale — la concezione dell’opera d’arte come « organismo », come un tutto che segue una sua coerenza interna —, che sarebbe stata uno dei motivi tipici della critica dopo il ’60 e si sarebbe riproposta nei contesti più diversi, da quelli articolati secondo aperture «idealistiche » a quelli assoggettati ai voluti rigori della scienza. E in verità tale concezione dell’opera d’arte come «sistema di rapporti », per quanto non sviluppata, ed anzi contraddetta spesso dal Taine critico (che fu sempre schiacciato fra i due poli del suo gusto, o troppo proclive alle generalizzazioni storico-psicologiche o abbandonato al descrittivismo impressionistico), è la più coerente conclusione a cui possa giungere una corretta estetica positivistica, quando accetta fino in fondo la sua organica scientificità e minimizza la natura storica e ideologica del prodotto artistico (e si pensi alla riprova che ci deriva dall’odierno revival dei neopositivismi neocapitalistici). Infine ancora nell’estetica di Taine si trova il problema del rapporto tra realtà e imitazione artistica, problema che l’impiego della fotografia aveva sollevato in termini nuovi. Il concetto dell’arte come « documento umano », e non cronaca
o fotografia, e quello dell’arte come maniera originale e autonoma di aggiungere nuovi elementi alla conoscenza scientifica del reale sono qui presenti, e costituiscono il primo approccio a quella problematica del realismo, del naturalismo o del verismo, che soprattutto negli anni settanta fu al centro del dibattito critico in Italia.
La cultura del positivismo
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Ma il quadro dei modelli della nuova filosofia scientifica predominante sarebbe incompleto, se non si accennasse alla fortuna che ebbero negli anni ottanta le traduzioni del pensatore Herbert Spencer (1820-1903), l’ideologo dell’ottimistica età vittoriana, destinato ad avere successo non solo in Inghilterra e in America ma in tutte le società che avessero bisogno di un sistema popolare e generico, disponibile di fronte alle irraggiungibili verità assolute e al gradualismo delle riforme, sostanzialmente e intelligentemente conservatore in nome di un evoluzionismo applicato alle scienze e alla sociologia. Era il positivismo edulcorato, rassicurante e conciliante, la cui esigenza era stata già espressa in Italia e che si rivelò più che mai funzionale al trasformismo borghese, arroccato sempre più a destra e avviato ormai alle sue prime avventure colonialiste. Di Spencer non solo furono tradotte Le basi della morale e l’Introduzione allo studio della sociologia (Milano 1881), ma anche L’educazione intellettuale, morale e fisica (Milano 1884), che autorizzava la nuova pedagogia ormai trionfante nelle cattedre universitarie. Sullo stesso pensiero estetico egli influì soprattutto con i Principles of Psychology (trad. francese, Parigi 1874-5), che teneva conto dei decisivi apporti della psicologia sperimentale del tedesco Gustav Theodor Fechner e dell'inglese Francis Galton nell’ultima rielaborazione accresciuta (1880). Per Spencer il problema estetico si poteva risolvere solo studiando la base neuro-fisiologica delle sensazioni, da cui i sentimenti
estetici
non
differiscono, se non
quanto all’origine e alla natura. Sono in azione le stesse energie, e la differenza sta unicamente nell’atteggiamento della coscienza e negli stati che ne risultano.
I sentimenti estetici non sono che dei modi perfezionati di sensazioni, c possono sorgere quando le cause fisiche sono tali da far entrare in azione l’apparato sensoriale nel modo più efficace, incontrando i minori ostacoli. Questa concezione sensistica si fondava soprattutto sulla musica, e assegnando all’arte l’esclusivo fine del piacere contro ogni sopravvalutazione dell’elemento intellettuale non poteva non
approdare
a un edonismo
sensistico su base materialistica.
Questa
vulgata positivistica fu il punto di riferimento obbligato a partire dagli anni ottanta, mentre a un livello più tecnico al centro delle prime discussioni dell’Italia unita era già stato il pensiero più rigoroso di un altro maestro inglese, John Stuart Mill (1806-73), seguace dell’economia classica di Ricardo e non pedissequo ammiratore di Comte. Già noto per i suoi Principi di economia politica (tradotti da Francesco Ferrara, Torino 1851), egli fu oggetto di studi non solo per i saggi sul liberalismo democratico e progressista, ma anche per la sua metodologia ed epistemologia, destinate ad avere un’importanza non minore del pensiero politico (cfr. La libertà, Torino 1865, più volte ristampato). Il lavoro di Paolo Emilio Goggia La mente di Mill. Saggio di logica positiva specialmente applicata alla storia (Livorno 1869) si aggiunse infatti a quelli ben più notevoli di Littré e di Taine, che lo avevano imposto ormai all’attenzione della cultura europea. Nessuno meglio dell'autore di Utilitarianism, critico superamento dell’eredità di Bentham, avrebbe potuto essere accolto dagli ini-
ziatori del positivismo teorico e storico italiano, quando si rinnovarono le strut-
$ 52.
Centri promotori e contraddizioni di sviluppo
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ture culturali dello stato unitario, e il nuovo
«Politecnico » di Cattaneo avviò
il dibattito sulla moderna filosofia, ospitando articoli di Pasquale Villari, e poi del pedagogista Aristide Gabelli, futuro organizzatore della scuola elementare italiana, anche lui sostenitore del positivismo ridotto a metodo.
$ 52.
Firenze, sviluppo
Milano,
Torino,
Napoli:
centri promotori e contraddizioni
di
Professore a Pisa, Pasquale Villari era stato chiamato a insegnare storia e metodologia all’ Università di Firenze, che, nei sei anni in cui fu capitale provvisoria (1864-70), divenne un centro attivo della nuova cultura e della nuova arte. All’Istituto superiore fiorentino insegnarono infatti i primi maestri della scuola storica italiana e i sostenitori della nuova critica letteraria, Comparetti, Rajna, Trezza (cfr. $ 54), i fisiologi materialisti Moritz Schiff e Alessandro Herzen, e un versatile orientalista torinese, Angelo De Gubernatis (1840-1913), benemerito non tanto per la feconda (ma poco rigorosa) operosità negli studi di mitologia, etnologia e letteratura comparata, quanto soprattutto per i suoi utilissimi dizionari biografici contemporanei e per il tentativo di una « Rivista europea » (1869-76), primo periodico di tendenza democratica che ospitasse scritti d’indirizzo materialista. A Firenze infine insegnava antropologia e fondava la Società e l’« Archivio di antropologia e etnologia » (1871) Paolo Mantegazza, che fu anche uno dei più brillanti e rappresentativi pubblicisti della nuova letteratura filosofica (cfr. $ 55). Inoltre, negli anni sessanta la città era già divenuta il centro più importante della pittura bozzettista e verista, in cui eccelsero Giovanni Fattori e Adriano Cecioni, quando il dibattito sul realismo, animato dal repubblicano e poi socialista Telemaco Signorini, fece circolare le idee di Courbet e di Proudhon, ben più avanzate rispetto alla teoria della macchia, introdotta al tramonto del regime granducale dal pugliese Saverio Altamura. Il mordente satirico e l’interesse sociale riattivava anche il clima letterario, nel quale si collocano non solo gli esordi dei toscani Collodi e Fucini, ma
un tentativo di romanzo sociale del sici-
liano Emiliani Giudici (cfr. $ 35), che aveva precorso nell’emigrazione i conterranei Capuana e Verga. Prima di trasferirsi a Milano, nella nuova capitale Luigi Capuana cominciava la sua attività di critico militante del realismo, e De Sanctis pubblicava sulla rivista nazionale e « ufficiale » della borghesia al potere, la « Nuova antologia » (fondata nel 1866), i suoi nuovi saggi e brani della Storia della letteratura, compiuta appunto a Firenze con la famosa pagina consuntiva e augurale in polemica con la vecchia cultura e in simpatia con la nuova (cfr. $ 46): una pagina significativa per la prontezza con cui si registravano i grandi eventi rinnovatori (« comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale »), concretamente attivi nella vita accademica e politica (nel 1865 era stato fondato « Il proletario » da un gruppo di seguaci di Proudhon,
10
La cultura
del positivismo
tra cui Osvaldo Gnocchi Viani, che a Milano avrebbe guidato il partito operaio socialrivoluzionario). Se a Firenze si riscopriva l’attualità filosofica e « politica » di Galilei e di Machiavelli, provocando la reazione dei « piagnoni» e la nascita della « Rassegna nazionale » (1879) diretta da Augusto Conti (che, aperta col significativo programma « scienza e fede », sarebbe poi approdata a posizioni concilianti e al modernismo di Fogazzaro), a Padova Roberto Ardigò (1828-1920) in nome di Pomponazzi ripristinava con alta dignità le antiche tradizioni dell’ Università averroista, recando il più originale contributo di pensiero italiano al positivismo europeo, nel tentativo di superare l’impasse dualistica di Spencer e di recuperare attraverso le idealità sociali la libertà dell’uomo. Ed è significativo che appunto una serie di articoli di Ardigò su La morale dei positivisti apparisse sulla « Rivista repubblicana », diretta dal suo scolaro Arcangelo Ghisleri (1873-80), instancabile promotore del rinnovamento culturale di Milano, orbata della grande luce di Cattaneo. Dal gruppo radicale ormai in crisi sarebbero presto emersi due giovani discepoli del maestro positivista lombardo, destinati a diventare guide del socialismo riformista, Leonida Bissolati e Filippo Turati, che ricordò con gratitudine colui che lo aveva liberato « dalla mitologia cristiana cattolica »: « fu Roberto Ardigò che ci porse alcune delle pietre più solide del nostro edificio mentale e morale. Morale soprattutto » (Uomini della politica e della cultura, Bari 1949, p. 691). Nonostante l’assenza di un insegnamento universitario avanzato, nella Milano manzoniana dove Cesare Cantù ha ancora influenza con la filantropia reazionaria della sua educazione popolare, tra gli anni ’75-90 maturano le svolte decisive di questi giovani che rompono con Carducci e guardano a De Sanctis, orgogliosi di contrapporre Ardigò a Spencer, di proclamarlo emulo di Haeckel (il nuovo teorico tedesco del monismo evoluzionista). Sono gli intellettuali della scapigliatura politica che, guidati ancora da Ghisleri, con la collaborazione di Pietro Siciliani (pedagogista dell’Università di Bologna e attivo divulgatore del positivismo democratico), animeranno i periodici « La vita nuova », « Il preludio », « Cuore e critica », alla vigilia della prima e più importante rivista del socialismo riformista che Turati fonderà nel 1891: « La critica sociale ». La produzione letteraria più vistosa della pubblicistica scapigliata fu affidata a due sequestratissimi quotidiani di sinistra. Dapprima al « Gazzettino rosa », diretto dal garibaldino Achille Bizzoni (1841-1904), che intorno a un gruppo radicale e internazionalista convogliò tutte le varietà politiche e letterarie dei « petrolieri », dal repubblicanesimo classicista di Carducci, ancora Enotrio
Romano, alla
protesta anarchica e comunarda. Più importante, anche per la più ferma direzione politica, « La plebe, monitore quotidiano del presente per l’avvenire », ridottosi poi a settimanale e a mensile (1876-82), fondato a Lodi da Enrico Bignami, che con Osvaldo Gnocchi Viani e Andrea Costa diresse il processo di evoluzione ideologica dall’anarchia al socialismo rivoluzionario, e aprì il dibattito sul marxismo. Nel 1875 iniziò la fortuna di Zola, pubblicando nelle sue appendici la tra-
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duzione di La curée per suggerimento di Felice Cameroni. Come ha supposto Bigazzi, che ha messo in evidenza l’importanza di questo critico militante coperto da molti pseudonimi, egli fu la più vivace anche se estemporanea e non organica coscienza di questa maturazione del movimento letterario milanese e italiano, che non si svolse solo nei giornali d’opposizione, ma anche in quelli della borghesia, come « Il sole » (il bollettino quotidiano della borsa, dove Cameroni era anche critico teatrale) e il « Corriere della sera » (cui collaborava Capuana). Ma a caratterizzare Milano come centro promotore dell’arte nuova furono i periodici letterari d'avanguardia e le nuove case editrici (tra cui quella di Sonzogno, specializzata nella produzione economica e popolare, quella recentissima di Dumolard, che divulgò i primi testi del positivismo, di Giuseppe ed Emilio Treves, che lanciò la nuova letteratura, e di Vallardi, che organizzò i nuovi-manuali della
cultura positivista sotto la direzione di Villari). Ciò che invece, sia pure a un livello notevole, Milano aveva in comune con altre città erano gli spettacoli teatrali e musicali e il mercato delle arti figurative: si pensi alla nuova opera di Arrigo Boito e si ricordi che dalla pittura di Tranquillo Cremona alla scultura del grande Medardo Rosso si espresse quel processo rinnovatore che si era iniziato con la scapigliatura. Rimandando i particolari del discorso al duplice processo evolutivo di questo movimento verso il realismo e il decadentismo, ci limiteremo qui a indicare tra i periodici la « Rivista minima » fondata da Antonio
Ghislanzoni
nel 1865
e successivamente
diretta, tra il ’72 e il ’77, da
Salvatore Farina, moderatore borghese e benpensante di un « verismo che evitasse le crudezze del realismo ». Non altrettanto fiorente la vita accademica e scientifica (rispetto a questo movimento di così ampia portata), se si eccettui il campo della glottologia, assurta per merito soprattutto di Graziadio Isaia Ascoli a livello europeo (cfr. $ 54). Diversa la situazione di Torino, che in seguito al trasferimento della capitale resisteva con energia alla sua provincializzazione e al depauperamento di forze intellettuali seguito al decennio preparatore dell’unità, quando l’emigrazione vi si era riversata da ogni parte d’Italia, incrementando l’industria editoriale e le riviste, nonostante le resistenze incontrate dall’azione di Cavour, che
era riuscito a rammodernare l’insegnamento universitario solo in alcuni settori con sviluppi notevoli proprio sul piano ideologico più difeso dall’ala reazionaria e conservatrice del cattolicesimo liberale. A Torino insegnò il grande economista siciliano Francesco Ferrara e lo storico Nicola Marselli (1832-99), già scolaro di De Sanctis a Napoli, professore alla Scuola superiore di guerra, autore di poderose indagini come La guerra e la sua storia (1875) e dello studio metodologico La scienza della storia (1873-80). Marselli, come poi il fisiologo abruzzese Salvatore Tommasi (1813-88), fu tra i primi hegeliani ad accogliere con simpatia le nuove dottrine che con il materialista Moleschott (successo a Tommasi nella cattedra torinese) irruppero con grande scalpore, suscitando, tra l’altro, le proteste di Mazzini. Torinesi furono le nuove case editrici che, a cominciare dagli anni ottanta, promossero la cultura positivista (Loescher e suc-
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cessivamente Bocca) e la « Rivista di filosofia scientifica » (1881-91), il primo e più importante periodico dove si raggrupparono i più noti pensatori del nuovo indirizzo, tra i quali sarebbe emerso poi lo scolaro e traduttore di Moleschott, il veneto Cesare Lombroso, autorevole maestro di antropologia (cfr. $ 55). Su questa rivista scrissero non solo altri espositori e divulgatori del darwinismo come il pedagogista Francesco Saverio De Dominicis, ma anche critici letterari,
come Gaetano Trezza e uno dei giovani maestri della « scienza della letteratura », Arturo Graf, che ritroveremo nel 1883 fra i fondatori del « Giornale storico della
letteratura italiana » (cfr. $ 54). Graf avrebbe partecipato in prima persona anche a quel movimento letterario, che in Piemonte ebbe notevoli sollecitazioni europeizzanti e in contatto con la scapigliatura milanese contribuì, soprattutto verso il decadentismo, agli sviluppi del tardo romanticismo subalpino, quando si fecero avanti le nuove generazioni. Sulla « Gazzetta piemontese » (e sul supplemento domenicale, la « Gazzetta letteraria ») e soprattutto sulle « Serate italiane » (1874-8) la nuova narrativa si esercitò sotto la guida di Vittorio Bersezio, collegato col suo omologo di Milano, il già citato Salvatore Farina: quel Bersezio che con Giacosa assicurò a Torino una funzione egemone con la produzione teatrale (cfr. $ 71). Un nuovo centro culturale si andò formando anche a Roma, sebbene desti-
nato a scarsa vitalità per strutture che non fossero legate all’influenza dei due governi, dello Stato e della Chiesa. Durata di un triennio (1878-82) ebbe il periodico della conservazione illuminata, sorto per suggerimento di Villari, di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, la « Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere e arti», che offrì un modello rimasto ineguagliato per la serietà e la coerenza d’indirizzo. Nell’intento di conoscere la realtà del paese per poter operare adeguate e misurate riforme, i direttori non esitarono a chiamare intorno a sé Fucini, De Marchi, Verga, che collaborò con alcune delle sue più signifi-
cative novelle. Ben presto il trasformismo avrebbe travolto gli onesti superstiti della Destra, che tuttavia avrebbero continuato la loro utopistica battaglia alla ricerca di un «buon governo » liberale, capace di affrontare quella « questione meridionale » che essi non si stancarono di studiare con mirabili inchieste. Fu qui che diede il suo giovanile contributo alla critica militante Francesco Torraca, preceduto da un anonimo collaboratore (messo in evidenza da Bigazzi), nel quale possiamo identificare un altro allievo della seconda scuola desanctisiana, il meridionalista Giustino Fortunato, che plaudendo alla ristampa del «Bruzio » di Vincenzo Padula invitava i giovani scrittori che avevano «in bocca il vero e il verismo » a studiare « l’Italia vera, i suoi veri bisogni, il suo stato reale » (5 maggio
1878). A periodici ben più diffusi e addirittura scandalistici era sollecitata la nuova letteratura; ma su tutti emerse quello di un abile editore di moda, Angelo Som-
maruga, che rinnovò con enorme successo l’esperimento del settimanale milanese «La farfalla ». La sua « Cronaca bizantina » (come emblematicamente dichiarava lo stesso titolo) accolse tutta la produzione che accreditasse gli equivoci
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dell'ormai fiorente età umbertina e gli esordi del decadentismo nostrale, quali che fossero le sue componenti, classicistiche e pagane, o romantiche e cattoliche. La concorrenza della nuova capitale non poteva certo avvantaggiare Napoli, l’altro grande centro storico della cultura italiana, che negli anni sessanta era rinata grazie al ritorno di tanti esuli. Dopo il crollo dei Borboni, si era ripresa in effetti con più vigore della periferia meridionale e siciliana (ma si ricordino anche la casa editrice di Nicola Giannotta, che a Catania svolse più modestamente il ruolo romano di Sommaruga, e la « Rivista popolare » di Napoleone Colajanni, che promosse la cultura positivista e socialista in Sicilia). La Destra liberale, arroccata sul consolidamento politico-amministrativo dello stato unitario, e la Sinistra, scarsa di forze intellettuali e non rafforzata da un socialismo anarchicheggiante ed estremista, senza risonanze e consensi letterari (il maggior merito culturale fu il compendio del Capitale ad opera di Carlo Cafiero), non favorirono quelle posizioni mediatrici che altrove si potevano avvantaggiare di strutture industriali e organismi più moderni, efficienti case editrici e riviste non effimere. Il « Giornale napoletano di filosofia e lettere », ideato sullo scorcio degli anni sessanta, uscito nel ’72 e ripreso dopo l’interruzione di un triennio, oltre che fare la concorrenza alla « Nuova antologia » romana, ufficiale e nazionale, corrispose piuttosto alla crisi dell’idealismo napoletano, col declino di Bertrando Spaventa il quale lasciò al suo collega Francesco Fiorentino la direzione nominale della rivista. Questa ebbe vita difficile, alimentata da occasionali contributi accademici,
senza una impostazione organica. Collaboravano vecchi amici di Spaventa e De Sanctis, politicamente in dissenso da quest’ultimo, come l’antievoluzionista De Meis, come Settembrini, o come Vittorio Imbriani, proclive a chiusure mu-
nicipaliste. Per quanto riguardava la letteratura moderna non furono certo la polemica maliziosa e la satira di Imbriani, attardate in battaglie critiche di retroguardia contro l’abate Vito Fornari e l’abate Zanella, a conferire la richiesta attualità alla rivista, bensì un altro giovane allievo della seconda scuola desanctisiana, Giorgio Arcoleo (che presto abbandonò gli studi letterari), con i suoi acutissimi « appunti » sulla Letteratura contemporanea, poi ristampati in opuscolo (Napoli 1875), nello stesso anno in cui il « professore » pubblicava il « racconto » del suo Viaggio elettorale esortando a non cercare « l’arte nei cimiteri » e a « volgersi al mondo intorno, vivo, palpabile, parlante, plastico ». Non meraviglia quindi di trovare Arcoleo a collaborare al periodico meridionale più importante, fondato nel 1879 a sostegno del nascente realismo da un repubblicano moderato, l’irpino Carlo Del Balzo (1853-1908), autore di interessanti romanzi di ambiente parlamentare; ma neppure la sua « Rivista nuova » visse a lungo, anche perché non aveva alle spalle un movimento letterario, per l’attrazione esercitata sugli intellettuali meridionali dalla nuova capitale. Parimenti il « Giornale napoletano della domenica », dove Fiorentino e Imbriani polemizzarono contro il nascente bizantinismo, durò solo un anno (1882). Meglio dei numerosi fogli che avevano vita effimera e testimoniavano piuttosto una dispersione, un costume di tarda e disgregata scapigliatura, disposta più alla ricerca di un pubblico im-
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piego che alla protesta sociale, erano le appendici dei quotidiani più solidi che offrivano possibilità di pubblicazione: «Il pungolo », il popolare « Roma», e soprattutto il nuovo giornale « Il corriere di Napoli », che organizzarono Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao quando nel 1888 « Il corriere di Roma » fu trasferito e fuso col « Corriere del mattino ». Allorché era già molto inoltrata la grande stagione del realismo, si esprimevano così la crescita borghese e la ripresa culturale di Napoli, mentre si affermava una civiltà figurativa, che è rilevante se si vuole
delineare una storia letteraria in un compiuto contesto: si pensi al filone verista dei fratelli Palizzi, e soprattutto a Gioacchino Toma, che anche come scrittore sempre più grandeggia nella valutazione critica odierna rispetto a Morelli e a Dalbono;
si pensi ad Antonio
Mancini, che evolse verso un sontuoso
na-
turalismo, e allo scultore Vincenzo Gemito, che approdò a un realismo classicista. Solo negli anni ottanta, in questa città che era stata la roccaforte dell’hegelismo cominciò la penetrazione — che non poteva non essere lenta e difficile — della cultura positivista; ma proprio uno scolaro di Spaventa, Andrea Angiulli (1837-90), inviato da De Sanctis a studiare in Germania e reduce da un viaggio a Parigi e a Londra, riuscì a promuovere una battaglia di rinnovamento metodologico e pedagogico, dirigendo la « Rassegna critica » (1881-91). Se non fu capace di dare uno sbocco teoretico al suo « realismo sperimentale », egli pose però con intransigente chiarezza il problema di una svolta materialistica ai positivisti inconseguenti. In questo clima, in cui Salvatore Tommasi con notevole vigore di scrittura contribuiva a riaffermare l’importanza del naturalismo nella fisiologia, non è un caso che negli ultimi anni della loro vita i vecchi maestri hegeliani, come Spaventa e De Sanctis, e il kantiano Francesco Fiorentino si sentissero sollecitati a una radicale autocritica, anche se non ebbero ormai più né il tempo né le energie per formularla. Questo fu il compito riservato dalle circostanze al maggior allievo di Spaventa, Antonio Labriola, che solo superando i limiti di classe del positivismo riuscì a criticarne a fondo i presupposti per i quali esso aveva offerto un’ambivalente ideologia alla borghesia progressista e al socialismo riformista. Ma col primo teorico marxista italiano siamo ormai alla fine del secolo e alle soglie del neoidealismo, che avrebbe risolto in senso opposto quelle contraddizioni, sistemando per conto della borghesia gli strumenti teorici della belle époque giolittiana. Resta tuttavia da apprezzare il merito sostanziale del positivismo, di là dai suoi sistemi e dalla sua adialettica filosofia della storia: la mas-
siccia diffusione di una cultura popolare, che si fondò sui presupposti di un sapere e di una Weltanschauung scientifici e trovò, spesso creandoseli, i suoi canali di divulgazione nei giornali, nelle riviste, nelle enciclopedie, nei manuali, negli almanacchi, nella letteratura per ragazzi e in tutti i rami di un sapere scolastico (non a caso il medico e il maestro furono i due tipici « eroi » dell’età umbertina, organicamente legati alle strutture e alla strategia politica del nuovo regno). Ma i motivi più profondi di questa cultura, nel momento in cui si faceva, o tentava di farsi, interpretazione dell’uomo al di là delle ideologie ufficiali, li
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ritroviamo alla base di quella nuova letteratura, che si potrebbe chiamare, con
un richiamo a un comune denominatore ideologico, anche l’« arte positivista »: il potenziale di emancipazione e di conoscenza del nuovo materialismo coinvolgeva l’intera dimensione dell’uomo, sia a livello bio-psicologico che a livello sociale. Non è un caso che spesso questa arte, mentre collaborava per molti aspetti con l’ideologia dominante, per altri ne contraddiceva in varie forme l’ottimismo filisteo, per quelle scelte soggettive che le sovrastrutture artistiche fanno valere nel giuoco complesso dei loro rapporti con le determinazioni socio-economiche. Fu in forza di tale carica di « verità ) e di conoscenza che l’arte realista, natura-
lista e verista del secondo Ottocento, tutta calata nei piani della strutturazione capitalistica della nuova Italia, si assunse un duplice compito: da un lato quello di amplificarne le giustificazioni ufficiali, dall’altro quello di rappresentare anche le forze sociali che opponevano la loro resistenza di classe mentre assecondavano questo processo di integrazione. È una contraddizione, oggettiva e scarsamente o malamente consapevole, che rimanda alla composizione di classe dell’Italia dopo il ’60 e ai conflitti interni, alle differenziazioni sociali, di fronte ai quali la pianificazione dello stato incontrò molte difficoltà prima di poter pervenire ad un soddisfacente livello di omogenizzazione. In tale storia apparentemente solo letteraria della narrativa postunitaria, si riflettono dunque le esigenze e le velleità di quelle classi che dal processo unitario non ebbero nessuna adeguata risposta. Non a caso questa letteratura assunse le coloriture di ceti molto diversi fra di loro e anche antagonisti, unificati da un fondo di non allineamento oggettivo; come non è un caso che fosse la piccola borghesia, la nuova e tartassata classe più necessaria e meno assimilata dai disegni centripeti del potere, a rappresentare più largamente e più vivacemente, più contraddittoriamente, il suo ruolo di ambiguità e la sua tesa volontà di maturazione sociale. Questo è il senso
profondo e drammatico
della ventata antirettorica di cui
si fece propagatore il moderno realismo, la cui amara rappresentazione di condizioni di vita disperate e perfino tragiche (a diversi livelli e secondo prospettive diverse) contraddiceva ogni acclamazione di un avvenire di « magnifiche sorti progressive », come proprio le andava dimostrando il positivismo, e più in generale la borghesia al potere. Ai nuovi scrittori capitò in sorte, al di là delle loro professioni di fede politica, di costringere ad un confronto concreto i programmi e le prospettive ufficiali con la materia della loro rappresentazione, che si adeguava ai triboli e alle frustrazioni della sorgente società capitalistica da una parte e dall’altra alla disumanità di quella vita rurale, arcaico-patriarcale, che il « progresso » stava impietosamente spazzando via, senza sostituirvi forme alternative. Proprio per il contatto fecondo che si ebbe con le varie realtà nazionali, la storia di questo complesso filone letterario si articola secondo le componenti geografiche ed economiche dell’Italia nelle sue situazioni regionali, così come se le trovò davanti il nuovo stato. La complessità del quadro economico e sociale e dei suoi riflessi sovrastrutturali (basti pensare, nel nostro caso, alla presenza significativa delle varie culture e tradizioni letterarie) dà ragione degli esiti diver-
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genti all’interno dello stesso movimento, esiti che possono configurarsi ora come tipici della società toscana coi suoi residui leopoldini e con la sua struttura a mezzadria, ora interni alla cultura lombarda e alle sue nuove strutture capitalistiche, col conseguente inurbamento, che permettono di parlare di una civiltà milanese moderna. Per il Sud invece più netto si pone il contrasto fra « paese legale » e « paese reale », proprio per l’eccezionale rapporto di innovazione, di demistificazione, che ebbe il verismo siciliano nei confronti della pianificazione nazionale, secondo una prospettiva che consentì al regionalismo più esemplare di approdare, soprattutto con Verga, alla cultura dei grandi centri italiani ed europei (Firenze, Milano, Parigi). Non altrettanto validi furono invece i risultati dell’altra letteratura meridionale, che ripiegò verso un naturalismo consolato nell’idillio e nel sentimentalismo, o regredì a temi e a procedimenti di estrazione ancora romantica, mentre
lo stesso recupero della tradizione dialettale non si collocò all’altezza del realismo di Porta o di Belli, anche quando si sollevò dalla popolaresca produzione di consumo legata a Piedigrotta. Di tale complessità fu dunque il rapporto dello scrittore verista con la realtà «ufficiale » e « reale » di una nazione nei suoi anni di costituzione; e fu un rapporto, ovviamente, molto spesso reso drammatico
dal ruolo che lo scrittore, in
quanto appartenente a una classe e in quanto figura sociale nuova, si trovò ad assumere esponendo se stesso e la sua arte ad una conflittualità sulla quale poca presa poteva avere, nel profondo, l’azione captatoria della classe dominante. Sono fin troppo significativi il diffusissimo pessimismo di questa letteratura che avrebbe dovuto essere quella della « nuova » Italia (come in realtà non fu) e lo scontento
ricorrente, sotto varie forme, nei confronti della nuova
realtà socio-
politica. E non si trattò di un pessimismo per così dire polemico, ma di un pessimismo organico, perché nasceva da quella ideologia materialistico-fisiologica che dal positivismo passò al naturalismo, là dove esso proponeva un rapporto uomo-natura opposto al secolare credo antropocentrico e là dove il tema del «male » assumeva i contorni scientifici, clinici, di una deteriorazione del fragile
organismo umano. D'altronde in armonia con questa spinta scientifizzante e col nuovo gusto dimostrativo e « democratico », si assiste ad una trasformazione degli stessi strumenti letterari: muore la concezione classica della letteratura «alta » e s'impone il genere « medio » del romanzo e del racconto, coi suoi sforzi di adeguamento linguistico, che sarà il compito più urgente, e difficile, nelle mani della borghesia postmanzoniana. Saranno proprio il genere narrativo e questa lingua «moderna » a dover descrivere lo status dell’uomo contemporaneo, 1’ invivibilità » della sua condizione
material-esistenziale,
oltre che a insinuare
elementi
di oggettiva contraddizione nei confronti di quelle ideologie ufficiali, a cui anche la letteratura, come istituzione, non poteva non ricondursi.
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La « filosofia positiva » e la storiografia di Pasquale Villari
La
de)
filosofia positiva» e la storiografia di Pasquale Villari
Se dunque idee e metodi che risalgono a Taine è facile scorgere nelle opere di critica e di estetica italiane (più a livello della critica militante e giornalistica che di quella accademica), va subito aggiunto che in Italia il positivismo, e più specificatamente l’estetica positivistica, spenceriana o tainiana che fosse, trovarono terreno non troppo favorevole, ed anzi dovettero entrare in competizione con altre formule critiche di antica o recente tradizione. L’Italia degli anni sessanta era ancora l’Italia letteraria giudicata con polemica impazienza da De Sanctis, l’Italia dell'Arcadia, delle Accademie,
della rettorica e del moralismo;
la critica normativa e puristica non era ancora tramontata, anche se il suo declino era segnato irreversibilmente. Accanto a questa cultura in regresso era penetrata da non molti anni un’altra cultura, di origine hegeliana, che si era, almeno nelle intenzioni, riallacciata ad una riscoperta « attuale » di Vico. Il clima in cui meglio fecondarono i germi del metodo positivo fu appunto questo di stampo hegeliano. Non deve sorprendere questo congiungimento di idealismo e di positivismo: si trattò in concreto di una « callida junctura » che, se peccò di coerenza, valse tuttavia a spostare l’asse ideologico-culturale in direzione decisamente «moderna ». Quello che gli hegelo-positivisti cercavano non era tanto una nuova filosofia, un sistema bell’e pronto in cui immergere le loro convinzioni o le loro recenti acquisizioni per dar loro una « garanzia » filosofica, ma piuttosto alcuni princìpi di fondo che permettessero il superamento dell’impasse in cui si trovava l’Italia alle soglie dell’unità; e questo superamento, e questo avvio al nuovo, giungevano dalle altre nazioni come un invito agli studi positivi e insieme alla nuova religione del xrx secolo, quella della Storia. La conferma della diffusione di tale atteggiamento nell’intellighentia progressista di questi anni si trova in alcuni dei Saggi critici di De Sanctis (apparsi sulla rivista ufficiale della borghesia al potere, la « Nuova antologia »), e soprattutto — come già abbiamo avuto occasione di dire (cfr. $ 52) — nelle ultime pagine della Storia della letteratura italiana. Tuttavia bisogna precisare che questo quadro così aperto a quanto di nuovo si andava imponendo anche in Italia era più il segno di una pronta registrazione e di una speranza, inserite in una riflessione complessiva (dal passato al presente, e di qui al futuro della nuova Italia), che una vera adesione al nuovo clima e al nuovo metodo (sia scientifici che politici). La polemica contro gli idealismi delle stagioni precedenti comportava la simpatia per il « nuovo », ma il monito ad una maggior « serietà di studii e di vita » aveva ben poco a che fare con il binomio positivismo-socialismo, ed anzi postulava una frattura fra strategia politica e rigenerazione ideologica. In questa prospettiva va situata anche la conferenza del ’72 La scienza e la vita, dove De Sanctis si poneva come un interrogativo inquietante quello che era il fondamento stesso della religione positivista: « Conoscere è veramente potere ? ». E la risposta negativa risultava coerente con
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quella esigenza etico-pedagogica, che era stata sempre alla base dell’insegnamento desanctisiano. Per essa veniva affermata la priorità irrefutabile della « vita »: ad ogni determinismo e fatalismo « scientifici ) il critico contrapponeva una concezione strumentale della «scienza », e comunque un ampliamento semantico del termine, da lui inteso come espressione del moto collettivo del popolo (di « quel cervello collettivo che dicesi popolo »). In tal senso siamo fuori dall'ambito specifico delle scienze positivistiche, nel nome dei « valori) umani e morali. Ancora negli anni successivi, tra il ’76 e 1’83, affrontando il problema della scienza in vari saggi o articoli o conferenze (da Il principio del realismo, agli interventi zoliani, a Il darwinismo nell’arte), De Sanctis mantenne inalterato il proprio atteggiamento, che era quello tipico del democratico risorgimentale, disposto a considerare il « nuovo corso » come un progresso solo a patto di vedere attuate le potenzialità etico-religiose della sua giovinezza. E infatti al compiacimento per la pars destruens del naturalismo si accompagna sempre la diffidenza nei confronti delle teorie zoliane, in specie per quella dell’« onnipotenza dell’ambiente »: il che spiega come mai in // darwinismo nell’arte una complessa polemica coinvolga insieme determinismo, fatalismo, amoralismo e materialismo (« Non senza
inquietudine — si legge — sento oggi ripetere: il fine della vita è godere la vita )). Sebbene estraneo nel suo fondo a quel realismo e a quell’empirismo che furono alla base dell’ideologia e della prassi dei ceti dominanti negli anni di ristrutturazione fra il °60 e l’80, il discorso di De Sanctis è tuttavia quanto mai importante per comprendere certe riserve assai diffuse anche tra coloro che maggiormente si accostarono al nuovo indirizzo culturale. Non per nulla fu proprio un suo discepolo, Pasquale Villari (1826-1917), a portare nel campo delle scienze umane le esigenze più vive del positivismo con la mente fissa a preoccupazioni di carattere morale (che, però, nel caso specifico — come del resto ben di frequente fra gli intellettuali italiani del tempo — si allontanavano dall’impostazione rigorosamente laica del maestro, colorandosi di tinte piagnone). Educatosi negli ambienti liberali della Napoli prequarantottesca, in cui il verbo giobertiano non escludeva affatto l’influsso di Mazzini; discepolo fedele di De Sanctis nel concepire la cultura come impegno non solamente teorico (fu anche lui sulle barricate nella giornata del 15 maggio, accanto allo sfortunato Luigi La Vista); esule per un decennio (1859-69) nella Firenze del Capponi e del Vieusseux, dove l’attenzione alla realtà nazionale (si pensi all’« Archivio storico ») si inseriva entro le ben note direttive piagnone; docente illustre prima nell'Università di Pisa (1859-65) e poi nell’Istituto di studi superiori di Firenze (1865-1913), già nel 1866 Villari, pubblicando sul « Politecnico » lo scritto La filosofia positiva e il metodo storico, aveva dimostrato con estrema chiarezza quali fossero le caratteristiche, e insieme i limiti, della propria posizione nei confronti della nuova corrente di pensiero e della nuova metodologia. Nelia Firenze degli anni sessanta, dove i materialisti scandalizzavano i benpensanti paolotti con gli esperimenti della nuova fisiologia e coi loro programmi darwiniani, il saggio di Villari ebbe
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La « filosofia positiva» e la storiografia di Pasquale
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il compito, apparentemente modesto, di collegare la filosofia positiva con gli studi umanistici. In questa operazione l’autore voleva che due punti fossero ben chiari: primo, ch’egli non intendeva fondare una nuova filosofia positivistica o materialistica; secondo, che l’utilità del positivismo, in cui egli credeva come storico, era soprattutto negativa, nel senso che i nuovi storici dovevano adottare il metodo positivo solo in quanto metodo idoneo ad evitare i falsi problemi, quelli cioè non risolubili alla luce dell’esperienza (che erano poi i problemi metafisici). Cosa dunque Galileo aggiunse al processo, al metodo seguito dagli antichi ? Certo ciò che il Galileo aggiunse portò una così vasta e radicale riforma che a fatica s'intende come l’uomo abbia osato tanto e vi sia riuscito; ed è pure cosa tanto semplice, che riesce più difficile persuadersi come vi abbia pensato così tardi. Veramente laddove Galileo ebbe un coraggio scientifico inarrivabile, fu nel dire la prima volta: « La ricerca delle esserze, io l’ho per impresa poco meno che impossibile. Quando voi mi dite che la nuvola è vapore, che il vapore è acqua, che l’acqua è sostanza o forza, o materia, voi arrivate sempre ad un ignoto che non potete spiegare, e l’essenza, alla fine del vostro ragionamento, resta oscura come prima. Dunque bisogna abbandonare la ricerca delle essenze, e preferire una sola e piccola verità certa, a mille grandi verità incerte, ipotetiche ». Con queste semplici parole, avendo avuto il coraggio di rinunziare alle ricerche che per tanti secoli avevano occupato tutto il genere umano, tutte le più grandi intelligenze, egli chiudeva per sempre il medio evo, e cominciava un secolo di ricerche e di fatti. Questa però era la parte negativa della sua riforma. L’essenza del mondo e delle cose ci resti pure ignota; ma se dobbiamo contentarsi solo di poche verità certe, come trovarle, come accertarle ? L’autorità di Aristotele era caduta, come abbiam detto, l’osservazione e l’induzione erano già cominciate; ma l’uomo osservando,
induceva, e appena che era così salito dal particolare al generale, afferrata la prima idea, saliva subito dall’una all’altra, coll’aiuto della logica; ed in balìa di se stesso e della propria immaginazione, s’allontanava sempre più dal mondo reale. Galileo invece disse: « Osservate i fenomeni e determinateli, inducete poi cautamente, non per cercarne l’es-
senza, ma la cagione o la legge, e quando credete d’averla trovata, arrestatevi. Prima di dare un altro passo, e andare ad un’altra legge, riscontrate colla natura quella che avete trovata: provate e riprovate, in una parola sperimentate » (Saggi di storia, di critica e di politica, Firenze 1868, pp. 11-2).
In questa pagina è il positivismo di Villari, un positivismo che sarà tipico di molta cultura italiana, coi caratteri della moderazione, della mediazione e del
concreto. Il suo impegno antimetafisico non ha un significato polemico (se non nel senso molto diffuso e ben accetto dell’anticlericalismo), ma un significato « riduttivo ». Lo stesso galileismo tanto proclamato si compendia piuttosto nella formula più corretta di « metodo sperimentale », che è poi una formula empiricoriduttiva: « noi non vi diamo un nuovo
sistema —
dice ancora Villari —,
ma
un nuovo metodo, il quale viene, nella filosofia, a fare né più né meno di quello che fece il metodo sperimentale nelle scienze naturali »; e con tale metodo l’autore
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La cultura del positivismo
«vuol condurci a studiare i fatti, a trovare le relazioni che passano fra il nostro spirito e la società umana ». Questo il credo del positivista moderno, che corregge la lezione di De Sanctis coll’accettazione cauta ma sicura di certe esigenze « positive », ma che di De Sanctis conserva ancora certi atteggiamenti problematici, anche se meno drammatici. Il programma antimetafisico di Villari (e di molti altri) vuol coprire in realtà una aporia teorica generale, che lascia sospeso questo tipo di positivismo in una zona intermedia fra materialismo e idealismo e costringe ad assumere come metodo l’epoché del giudizio, la quale, se è difficile a livello gnoseologico, è poi impossibile nei rapporti teoria-prassi, nella sfera etica. Al Villari politico, a differenza di quanto succedeva a De Sanctis, sembra però sfuggire la drammaticità di questa posizione, cosicché l’ottica ristretta di siffatta metodologia riduce di molto la possibilità di scegliere e d’intervenire nel processo storico e rende illegittimo ogni richiamo all'impegno morale (o al discorso moralistico), che invece era la conclusione coerente dell’impostazione storicistico-idealistica di De Sanctis, con tutta la sua carica di pessimismo attivo e giudicante. È l’antimaterialismo più che l’antispiritualismo che spiega il « positivismo » di Villari, questo metodo da disciplina specializzata, settoriale, il cui compito è di porre e di porsi dei limiti, lasciando che tutte le altre branche del sapere abbiano un ambito d’azione non definito né definibile. Non a caso anche per il « galileiano » Villari la « vita » sta al di sopra della « scienza », cosicché egli può domandarsi: ha la scienza « il diritto, per la vana pretesa di spiegare la vita, di abbandonarci in preda d’una disperazione, che rende la vita stessa una perenne contraddizione, le toglie il suo valore morale ? ». Che è poi l’ultimo interrogativo della borghesia dopo il 48 e dopo il °’70, quando negli uomini del Risorgimento più acuto si fece il contrasto fra «reale » e « ideale », alla luce delle imperanti leggi del nuovo stato. Al positivismo spettò appunto il compito di « garantire » sul piano ideologico il corso politico, di essere cioè l’espressione ufficiale della politica culturale del nuovo regno, collaborando con la classe dirigente, da una parte a « prosaicizzare » quelli che erano stati gli ideali delle lotte risorgimentali, e dall'altra a renderli neutrali imbalsamandoli in una mitologia nazionale pronta per tutti gli usi (con tutti i compromessi che una tale sintesi comportò: basti pensare all’incrocio di istanze moralistiche e di Rea/-politik, che sarà tipico dell’acceso nazionalismo postunitario). Ma questa spinta realistica propria del positivismo ebbe certamente anche l’effetto di mettere la scienza al servizio dello Stato e di contrabbandare per scientifico-universali soluzioni politiche che derivavano da un certo uso (quello della borghesia al potere) delle scienze ai fini di una strategia economica nazionale. Il positivismo come metodo fu dunque qualcosa di ben diverso da come lo professava Villari quando ne magnificava, proprio per i suoi limiti, la purezza e l'efficienza. Nella realtà si ponevano due sole versioni del positivismo sul piano generale: la prima, quella di Villari, che sfociava nella teoria, e nella prassi, della doppia verità, per cui per alcune discipline tornava utile, anzi necessario, il metodo empirico-positivo, mentre per le scienze etico-politiche bisognava fare ri-
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La «filosofia positiva » e la storiografia di Pasquale Villari
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corso al buon senso riformatore e all'impegno individuale e collettivo; e poi la seconda, che universalizzava il principio scientifico del positivismo e identificava l’uomo colle leggi scoperte di recente dalle varie scienze naturali (fisiche, biologiche, fisiologiche). Si trattava di due versioni che corrispondevano ai due livelli della borghesia italiana dopo il ’60: da una parte c’era una borghesia ancora legata all'ideologia risorgimentale ed espressione di un’economia arretrata ed incerta, in massima parte preindustriale; dall’altra c'era la nuova borghesia postunitaria, che si creava una nuova ideologia nel momento in cui gettava le basi per le strutture politiche di un’economia idonea ai compiti di uno stato moderno. Intanto al positivismo era affidato un altro compito ideologico e politico per conto della classe dirigente, quello di contrastare con ogni mezzo l’incalzante avanzata del proletariato e di opporsi alla propagazione del socialismo proprio per le sue istanze scientifiche. Ecco perché dopo il ripensamento successivo al "48, dopo l’avvio degli anni 60, il biennio ’70-71 rappresentò un momento decisivo per la borghesia italiana e straniera: furono gli anni della guerra francoprussiana, con la conseguente disfatta della Francia che era stata per l’Italia la civiltà-guida (per il secondo Ottocento bisogna sempre tener presente che la nostra cultura, e letteratura, era di fatto una cultura franco-italiana); furono gli
anni dell’affermarsi nel campo politico del modello prussiano della Real-politik; ed infine furono gli anni della Commune, primo esempio di lotta proletaria, che dava corpo e identità a tutti quegli ideali socialisti che fino ad allora avevano interessato solo il campo dei dibattiti ideologici. Per l’Italia il ’”70 rappresentò anche una grossa vittoria della borghesia positivista, grazie alla presa di Roma, che si configurò come la fine dell’oscurantismo teocratico, come una prima tappa nel cammino della laicizzazione voluta dal positivismo, specie dalla sua ala portante formata da massoni anticlericali. Battuto, almeno parzialmente, il pericolo
nero, ecco profilarsi all'orizzonte il pericolo rosso, contro il quale la borghesia non aveva ancora pronte armi intellettualmente affilate: la Commune fu un colpo a sorpresa, che prospettò una nuova realtà da respingere ed esorcizzare con le più diverse parole magiche. Fu facile per i clericali indicare in essa la logica conseguenza del liberalismo; più complesso fu il compito della borghesia « illuminata », la quale non si nascose che certe ragioni dell’orrore rivoluzionario potevano risalire a quella « rivoluzione » scientifica della cultura, che essa aveva promosso nel momento in cui aveva voluto instaurare la sua egemonia economicopolitica. Di fronte alla Commune ogni storicismo evoluzionistico o provvidenzialistico falliva. Quella che era stata la fede della Restaurazione fatta propria dal liberalismo veniva a cadere, proprio perché il socialismo, per la prima volta nella storia delle idee e dei fatti, rompeva con quella ideologia che aveva sostenuto e fornito di un alibi di classe la borghesia dall’Illuminismo al liberalismo: l’ideologia cioè per cui alla borghesia e solo ad essa spettasse il compito storico delle emancipazioni intellettuali, politiche e sociali. Fino al ’70 si era assistito a « lotte in famiglia » per la migliore conduzione e l'aggiornamento della ricchezza e dei
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La cultura del positivismo
privilegi; dopo i fatti della Commune ci si accorse che una nuova classe voleva prendere il posto della borghesia alla testa delle lotte e, quel che è peggio, con il fine di «espropriare gli espropriatori », di combattere e sconfiggere definitivamente la borghesia, la sua economia e la sua cultura. Nessuna meraviglia dunque che la Commune diventasse un punto di riferimento obbligato per le nuove classi politiche e il nuovo polo d’attrazione per gli intellettuali borghesi, anche per coloro che nella Storia e/o nella Scienza avevano trovato tutte le garanzie che erano da secoli patrimonio delle fedi religiose. Il problema desanctisiano della «fede », della rigenerazione morale della nazione ritornò dunque puntuale negli anni successivi alla scomparsa del critico; e quella problematica moralistica, che già appariva drammaticamente inadeguata nelle conferenze e negli articoli di De Sanctis fra il ’”70 e 1°80, si riaffacciava in un saggio di Villari, pubblicato nel 1891 sulla « Nuova antologia », cioè sulla rivista di quella classe dirigente che volle fare da ponte fra Risorgimento e positivismo. Ivi si dice che «la scienza e la ragione non possono certo creare la fede, né produrre alcuna riforma religiosa », e si aggiunge: Giammai come ora, il sacrifizio delle classi sociali, l’una a vantaggio dell’altra, apparve necessario a ristabilire l'armonia sociale turbata a segno da minacciare calamità nuove, e da farci, in mezzo al nostro vantato progresso, veder da lontano riapparire lo spettro della barbarie. La questione sociale non sarà risoluta, finché noi la risguarderemo solo come una questione economica, dimenticando il suo lato morale. È necessario il volontario sacrifizio degli uni agli altri, ispirato da un vivo sentimento di fratellanza, di pietà, di amore (La storia è una
scienza?,
in « NA », vol. cxvI, fasc. 14, 16
luglio 1891, p. 220).
Queste « belle parole » vanno prese per quello che sono, e cioè la conclusione effettiva, e non rettorica, a cui è giunto Villari all’interno del suo positivismo.
La rettorica del buon cuore, che qui spunta, si profila come il risarcimento morale nei confronti di un positivismo antimaterialistico e puramente metodologico, di cui l’autore dovette sentire tutta l’inadeguatezza ed astrattezza. E inoltre la paura di propagandare col suo positivismo non solo un metodo, ma anche una «fede» che sconvolgesse il quadro dei valori costituiti ha finito col rendere inefficace lo stesso empirismo, fatto cieco e sordo dalla ristrettezza del suo stesso sedicente galileismo. Può stupire che la tirata sulla fratellanza, sulla pietà e sull'amore come rimedio aila « questione sociale » non venga dal pulpito di un predicatore da sacrestie o da salotto, ma da un cittadino che applicò il metodo dell’investigazione concreta, nelle sue famose Lettere meridionali del 1878,
proprio sulla miseria delle popolazioni meridionali; da un cittadino al quale si devono alcune fra le analisi più spietate e veritiere, nonché sdegnate, intorno alle responsabilità sociali, collettive di quelle condizioni di vita: analisi che si tradussero in una drammatica proposta di riforme coraggiose, e inascoltate. Se uno sbocco moralistico abbiamo additato come conclusione almeno in-
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La « filosofia positiva » e la storiografia di Pasquale Villari
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dividuale di un’accorata indagine sociale, decisamente idealistico è l’approdo a cui si rifà quell’abbozzo di estetica che si può estrarre dagli studi critici, specie intorno alle arti figurative, che Villari veniva saltuariamente scrivendo. In queste pagine il rinvio a De Sanctis è fin troppo palese, e ovvio. E infatti il vecchio scolaro ricorda, come un ammonimento, che il maestro non volle mai assumere
l’abito dello scienziato, ma intese ispirarsi all'opera d’arte nel suo complesso, come ad una « unità vivente », sintesi di contenuto e forma, e non prodotto del-
l’ambiente o di altre forze esterne invocate da Taine. Ecco perché De Sanctis fu grande critico, secondo Villari: appunto perché seppe fare a meno della « notomia » dello scienziato e volle invece far prevalere «il gusto, l’ispirazione, la divinazione del critico», a cui spetta il compito di ricreare «consapevolmente quell’opera che l’artista ha creato inconsapevolmente ». L’atteggiamento di Villari era dunque contrario a quel « metodo storico e scientifico » che il positivismo portò nella critica letteraria, e accennava semmai a conclusioni che sarebbero state poi tipiche del neoidealismo (basti leggere una frase come questa: « Il genio dell’artista è un mistero, che si spiega solo con un altro mistero, cioè il genio del critico »). Se questo era l’abbozzo di teoria che Villari coltivò in campo artistico, tutt'altra cosa fu la sua pratica di studioso e di storico, estranea com’era alla ricerca degli assoluti e fedele invece allo studio umile, concreto, secondo i dettami del
suo empirismo antisistematico. Villari è soprattutto un ricercatore infaticabile, uno storico perfettamente saldato con l’erudito, dal quale bisogna aspettarsi il massimo scrupolo documentario unito al desiderio di fornire un quadro il più possibile coerente con le « fonti » del tempo: le due grandi biografie (che sono insieme studi di tutto un periodo) a cui è affidata la sua fama, la Storia di Gerolamo Savonarola e dei suoi tempi (1859) e Niccolò Machiavelli e i suoi tempi (1877-82), sono esemplari proprio come ricostruzioni a largo raggio di una personalità calata (con interesse non troppo diverso da quello di Taine) nella sua età. L’ambizione dello studioso era quella di «far rivivere il passato » sulla scorta dei documenti e delle testimonianze, anche se al fondo della ricerca si muove-
vano motivi extrascientifici, e cioè la passione retrospettiva, tipicamente risorgimentale, per i precedenti dell’unità della nazione, ed insieme un certo controllato moralismo etico-politico di ascendenza piagnona (basti pensare al giudizio disincantato, e perfino arcigno, che Villari espresse sul Rinascimento). Siffatto atteggiamento, in cui un’austera disciplina di studio si sposava a una milizia patriottica e a preoccupazioni di carattere morale, trovava la sua matrice nell’ambiente fiorentino dominato da Capponi e da Vieusseux, e poi venne a coincidere anche con le direttive della cosiddetta «Scuola storica » (cfr. $ 54): sicché Villari sullo scorcio del secolo continuò ad essere una delle personalità più eminenti nella produzione e nell’organizzazione della cultura. Presidente della « Dante Alighieri » dal 1896 al 1903, fondatore (per Vallardi) della collana di manuali di storia letteraria ordinati per generi e per secoli, egli poté soddisfare, insegnando
e applicando i criteri secondo cui va attuata una minuziosa ricerca storico-lette-
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raria, le proprie esigenze di concretezza e di realismo, da lui riproposte, già nell'articolo del 1866, sotto l’etichetta del positivismo.
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La scienza della letteratura; i maestri e le riviste della « Scuola storica »
La «Scuola storica» fu una delle tante manifestazioni di quello spirito « positivo » che andava investendo tutte le forme della cultura moderna: letteratura, filosofia, psicologia, diritto, medicina, pedagogia, folklore (si pensi a un Pitré),
ecc. Essa proponeva un metodo di studio, che alla maniera « ispirata » della critica romantica intendeva contrapporre un interesse preminente (e spesso anche piatto e aproblematico) per i dati di fatto, facendo della scoperta materiale e dell’erudizione il suo centro d’attenzione e d’intervento. L’influsso del positivismo si riduceva pertanto a una mera questione tecnico-pratica, e come tale era suscettibile dei più ibridi connubi: da quello con la «filosofia dello Spirito » nella Napoli hegeliana, a quello con la tradizione moralistico-patriottica della Toscana « piagnona ». Di tali situazioni culturali teoricamente così spurie non è tanto importante sottolineare l’incoerenza o la fragilità, quanto il fatto che il vero elemento unificatore era la comune ideologia « difensiva ) e universalizzante, di cui si armava la borghesia perseguendo i suoi fini politici di conservazione economica con una ragionevole spregiudicatezza nell’impiego e nella propaganda di princìpi etico-filosofici di natura diversa e perfino opposta. Insomma per l’ideologia della borghesia postunitaria e umbertina vale più che mai il discorso marxiano sulla natura pretestuosa delle ideologie, intese come operazioni di copertura politica: quello che interessava alla classe dominante del secondo Ottocento era « nobilitare » la propria funzione storica ed economica coll’aiuto di una «scienza ») o di una «filosofia » che presentasse i crismi dell’« eternità » e dell’« universalità »; e cioè, in questo caso, che facesse filtrare attraverso il concetto di « progresso » (come era stato elaborato dalle più recenti scienze e filosofie) una giustificazione del potere, la quale, con i programmi di « universalità » e « oggettività », permettesse alla borghesia di rinsaldare e fare avanzare la sua egemonia. Sotto tale profilo classista si spiega la precoce commistione di elementi filosofici idealistici e materialistici, così come è comprensibile il passaggio indolore, all’interno dello stesso ceto intellettuale, dalle posizioni positivistiche a quelle, dominanti nel giro di pochi lustri, idealistico-spiritualistiche, in corrispondenza con il succedersi di una politica religiosa meno rigida, dopo l’iniziale anticlericalismo della Destra storica. In Toscana, le direttive impresse da Capponi e da Vieusseux esercitavano ancora una tale stringente pressione, da conferire alla cultura locale una certa coloritura piagnona, o quanto meno vanificare qualsiasi tentativo di positivismo rigidamente dottrinario. Spiritualista fu la formazione di Isidoro Del Lungo (Montevarchi 1841-Firenze 1927), preoccupato più di conseguire certi effetti stilistici e di magnificare la tradizione letteraria italiana (non per nulla fu amico
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I maestri e le riviste della « Scuola storica »
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di Carducci e presidente dell’Accademia della Crusca), che non di coordinare in una prospettiva organica le proprie sparse ricerche, il più delle volte puramente aneddotiche (si pensi soprattutto agli studi danteschi). Più vicino ai dettami del positivismo, oltre che per l'atteggiamento più decisamente laico, anche per una maggiore intransigenza metodologica, fu invece Adolfo Bartoli (Fivizzano 1833Genova 1894), già avvocato a Lucca, poi professore di liceo a Livorno e a Piacenza, quindi nella Scuola superiore di commercio a Venezia, e infine (dal 1874) nell’Istituto di studi superiori di Firenze. Erudito infaticabile, egli concepiva il rigore filologico come esigenza etica e dovere imposto da carità di patria, e con le sue ricerche sulla poesia delle origini suscitò l’entusiasmo di un gruppo di discepoli e ammiratori di Carducci, i « Nuovi goliardi ». Prossimo a Bartoli per formazione e per intenti, oltre che per grado di autorità nei quadri della cultura « ufficiale », fu Alessandro D'Ancona (Pisa 1835-Firenze 1914), anche lui passato alla letteratura dalla giurisprudenza (però, a differenza di Bartoli, aveva interrotto assai presto tale tipo di studi), anche lui fra i docenti più in vista della regione (nell'Università pisana tenne dapprima, dal 1860 al 1900, la cattedra di letteratura italiana, e poi, dal 1900 al 1909, l’incarico di esegesi dantesca), anche lui infiammato da una duplice passione erudito-patriottica (come testimonia il suo prevalente interesse per la poesia popolare, considerata quale espressione «schietta e limpida » del genio italiano). Già uditore di De Sanctis a Torino, egli ne ridusse l’insegnamento (che nel maestro era tutto teso a sviscerare nella loro genesi i caratteri della realtà nazionale) entro i limiti di una filologia e di un’erudizione spesso approdanti a valutazioni e giudizi assai discutibili; ma ad ogni modo non va trascurata la serietà (e l’utilità) delle sue ricerche, specie ove si tenga conto dei contributi da lui forniti come direttore (1893-1910) e collaboratore della « Rassegna bibliografica della letteratura italiana ». Più di Bartoli e di D’Ancona, era però legata al positivismo militante una personalità come quella di Domenico Comparetti (Roma 1835-Firenze 1927), professore di letteratura greca nell’ Università di Pisa e poi (dal 1872) nell’Istituto di Firenze, benemerito soprattutto per la magistrale ricostruzione Virgilio nel Medioevo (Livorno 1872). Nato e vissuto da giovane nell’arretratissima Roma, egli superò tale inferiorità di partenza grazie ai suoi legami con studiosi stranieri, e riuscì a congiungere la più viva erudizione storico-culturale con la conoscenza del mondo popolare e con una larghissima consapevolezza metodologica. Notevole anche la personalità di Pio Rajna (Sondrio 1847-Firenze 1930), professore a Milano (prima al liceo Parini, poi nell'Accademia scientifico-letteraria), quindi (1884-1922) docente di lingue e letterature neolatine nell’Istituto fiorentino, punto obbligato di riferimento per lo studio su Le fonti dell’ « Orlando furioso » (Firenze 1876, 19002). Menzione particolare merita in tale contesto Gaetano Trezza (Verona 1828Firenze
1892), professore di letteratura latina nell’Istituto
di Firenze,
che osò
far entrare nei sacri penetrali dell'accademia il metodo evoluzionistico con tutta la sua carica sistematica opposta ad ogni compromesso empirico, ad ogni cautela
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La cultura del positivismo
agnostica. L’antispiritualismo lo portò a considerare (e a propagandare) Lucrezio come il poeta-pensatore, che avrebbe anticipato il moderno spirito positivo e opposto il materialismo epicureo agli idealismi della tradizione classica: «se fosse prevalso — si legge nel Lucrezio (1870) — il concetto socratico, invece dei laboratori di fisica e di chimica adopreremmo ancora la ‘ mantica ’’ per interrogare la volontà degli Dei ». In questa coraggiosa interpretazione tutta positivistica, attuale, della dimensione scientifica del De rerum natura sta l’aspetto più interessante della monografia di Trezza: si tratta di un Lucrezio precursore, eroe del libero pensiero, che non si rifà tuttavia, come sarebbe piaciuto ai liberi pensatori del tempo, a Giordano Bruno, ma a Claude Bernard. Sul piano critico-estetico, invece, lo studioso si mostra preoccupato più della tradizione che delle « novità », incline com’era ad un realismo moderato e classicheggiante, in polemica con il realismo contemporaneo. Questo conservatorismo di fondo diventa esplicito là dove Trezza ripropone la querelle classico-romantica con l’intento di « scoprire » una mediazione storica da intendersi come una sintesi estetica ideale: Nel compenetrarsi del sentimento ellenico col germanico l’arte moderna s’infuturava in un contenuto più alto; usciva per sempre dall’artificioso e dall’astratto e rientrava in quel realismo nuovo che non è né classico né romantico, ma vero ed umano. Nello Schiller, nel Goethe, nel Manzoni tu trovi più che negli altri poeti moderni il senso del reale storico non intorbidato da’ sovrapposti fantastici. Nel Guglielmo Tell e nel Wallenstein, nel Faust e nell’Hermann e Dorothea, nei Promessi sposi, tu trovi il mondo storico innalzato ad un mondo ideale tanto organico ed uno, che indarno vi
discerneresti il confine dove l’uno comincia e l’altro finisce. Non v'è alcun vestigio di quel simbolismo ideale che tu ritrovi nelle tragedie dell’Alfieri e nei drammi del Byron e di Victor Hugo [. . .]. Non hanno la fantasia smisurata e la profondità dell’intuizioni animatrici dello Shakespeare, ma discoversero aspetti nuovi della realtà psicologica. Se il loro genio è meno spontaneo ed immediato, la loro riflessione è più vasta e più matura. Nulla v’è in loro che ti accusi l’impazienza agitata che scinde l’unità organica del creare, e ti dà spesso il frammento invece dell’individuo poetico (La critica moderna, Firenze 1874, pp. 317-8).
È una pagina della Critica moderna (1874), l’opera filosoficamente più ambiziosa di Trezza, ed è una pagina significativa non perché originale (tutt’altro!), ma perché rivela appieno una tematica che da De Sanctis passerà, proprio attraverso certo gusto dei positivisti, a Croce — che è poi il gusto della borghesia conservatrice anche sul piano artistico, la quale troverà nello sfocio idealistico la sua conclusione più coerente. In questo senso la storia della critica artistica del positivismo è una significativa spia delle aporie critiche della « filosofia positiva ); perfino in un contesto come questo di Trezza entrano in gioco motivi idealistici (in conflitto con il determinismo, altrove affermato) per « riscattare » l’opera d’arte da un giudizio troppo contenutistico. Forse senza avvedersene, Trezza, sulla traccia della forma hegeliano-desanctisiana, riesce a sublimare
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l’opera d’arte al di là di ogni esigenza etica e a ritagliarle intorno un alone di «eternità », in cui le esigenze del giudizio scientifico o politico vengono neutralizzate, almeno nel campo della valutazione estetica. Non a caso questo ritratto di un Manzoni sommo proprio per la sua medietas è ripreso, con tutta la sua carica di apparente apoliticità e di reale filisteismo, dal Capuana maturo, quando superò l’iniziale antimanzonismo proprio in nome di una concezione « pura » dell’arte (che sarà un elemento del suo complessivo rifiuto di ogni poetica naturalistica). Proprio da Trezza tuttavia Capuana aveva tratto uno dei motivi della sua critica positivistica: troviamo infatti Trezza discusso in una recensione ai Saggi di Canello (apparsa dapprima sul « Corriere della sera » nel ’77), nella quale si discute dei problemi scientifici che investono anche il mondo letterario. Al Capuana di questi anni, acceso propagatore del naturalismo francese e immerso, sia pure non senza superficialità ed eclettismo, nella cultura positivistica dominante, si poneva il problema di scientifizzare tutto lo scibile, quindi anche la letteratura, secondo i più moderni e aggiornati metodi delle scienze naturali. Così infatti si legge nella recensione (passata nei primi Studi sulla letteratura contemporanea, Milano 1880, pp. 304-5): C'è di già una scienza delle religioni; c'è già anche o dovrebbe esserci una scienza delle letterature. Come non è un accidente che dal feticismo siamo arrivati al cattolicismo (la forma religiosa più perfetta e quindi la più vicina alla corruzione di tutte le forme religiose), così non è un accidente che dall’epopee primitive si sia arrivati al Fausto di Goethe (un capolavoro il più vicino alla corruzione della vera forma poetica). Chi vorrà dire che il poema, la tragedia, la commedia, la lirica, il romanzo siano forme
accidentali? [. . .] In che modo il poema epico è diventato prima tragedia e poi commedia ? In che modo le vediamo oggi assolutamente lirica e romanzo ? Ecco alcuni dei problemi che la scienza della letteratura si è proposti ed ha sciolti con una precisione di metodo da non invidiar nulla a quello delle scienze naturali. Manca forse un lavoro che, riassumendo questi criteri di metodo e i risultati ottenuti, li faccia apprezzare nel loro valore complessivo anche dai profani della scienza. [.. .] Il Trezza meglio d’ogni altro in Italia potrebbe scrivere oggi un tal libro: anzi in parte l’ha fatto. Il suo lavoro sulla Critica moderna ha solamente il torto di aver circoscritto a poche pagine ciò che riguarda quella che io chiamo la scienza della letteratura. È vero però che quelle poche pagine valgono, per chi sa leggervi, parecchi volumi. Portare nella storia della letteratura il metodo di osservazione positiva già adoperato per le scienze naturali ed ora anche per lo studio delle religioni, non è un tentativo pericoloso e di semplice analogia. I tre mondi umani della sensazione, del sentimento e della ragione corrispondono ai tre mondi minerale, vegetale ed animale della natura.
Qui appare, volgarizzato e semplificato, uno dei motivi ricorrenti della critica positivistica, quello cioè di catalogare l’attività letteraria secondo uno schema evolutivo che segue il processo diacronico delle apparizioni e delle scomparse di certe unità letterarie complessive, che sono le « forme », ovvero, come si dirà
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allora, i generi letterari. Checché ne dica Capuana, il tentativo di tale « sistemazione » è « pericoloso » e proprio « di semplice analogia », nel senso che, confrontando la letteratura con le scienze naturali fondate sul metodo di Cuvier integrato con l’evoluzionismo di Darwin, rimaneva come presupposto mai discusso la certezza che tale metodo fosse assolutamente scientifico e in quanto tale universale, estendibile cioè ad ogni forma di sapere. Tuttavia Capuana in queste pagine di rilancio giornalistico, sulla base di questa tesi della critica più «avanzata »,
non intende solo darsi un attestato di fede positivistica (molto sincero ed entusiastico in questi anni, ma destinato a contaminarsi ed affievolirsi fra non molto), ma anche utilizzare una teoria filosofica in favore di una sua battaglia letteraria allora di estrema attualità, la battaglia in favore del romanzo come « forma » tipica del suo tempo. In questo innesto di motivi militanti sulla tematica positivistica stanno l’originalità e la particolare persuasività della proposta estetica di Capuana, che si presenta come una mediazione opportuna fra il mondo dei filosofi e dei metodologi e quello degli artisti (basti ricordare che uno scrittore come Verga, così laconico sul piano dei programmi, non rinnegò mai, a differenza di Capuana, la sua adesione al positivismo, inteso come metodologia, e al materialismo). Il problema
delle «forme », o dei « generi », ebbe inoltre un’altra versione, oltre
questa « filosofica » e programmatica, e fu la versione storiografico-erudita praticata per lo più da studiosi scolastici bisognosi di un sistema di etichette ed estranei ad ogni battaglia per il rinnovamento letterario (che era promosso sì da certi scrittori positivisti, ma non, lo si è visto, da « filosofi » quali Villari e
Trezza, così moderati anche da un punto di vista del gusto). Questo metodo, nella sua più diffusa prassi della ricerca fine a se stessa, collaborò a retrodatare la cultura letteraria dopo De Sanctis a quel tipo di erudizione settecentesca, con cui si riduceva la critica a una storiografia cronachistica, che isola il fatto letterario dal contesto storico e lo colloca meccanicamente, sulla scia delle carat-
teristiche esteriori dei vari generi (poema didascalico, poema cavalleresco, lirica, novella, ecc.). Nei positivisti invece il richiamo a certe formule filosofiche è essenziale per spiegare il carattere di certi fenomeni storico-artistici e la loro « necessità » e storicità: Trezza, ad esempio, scrive: V’ha forme poetiche le quali non si possono riprodurre nel nostro stato recente; l’Epopea omerica, il Dramma
eschiliano, la Commedia
dantesca, vi sarebbero impossi-
bili. La parte di vita ideale che contenevano in se stessi s'è trasmessa nel tempo e si propaga perennemente nel nostro cervello, ma la loro forma è morta per sempre. È un fossile umano,
maraviglioso,
se vuolsi, ma
non
altro che fossile, e nessuna
virtù
può risuscitarlo ad una vita seconda. Si dovrebbe dir dunque che la riflessione moderna congelò le sorgenti della poesia, e che il vero discoperto nelle cose è la tomba dell’arte? No certo. Nel cervello di Shakespeare e di Goethe la virtù creatrice è più vasta che in quello di Eschilo e di Dante; il concetto della vita umana v'è più profondo, le intuizioni più larghe e più sane, e nella realtà storica han discoverto relazioni nuove non
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I maestri e le riviste della « Scuola storica »
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sospettate nemmeno innanzi di loro. Il mondo di Eschilo è un atomo verso quello di Shakespeare, come il mondo di Goethe è senza misura più vasto e più scientifico di quello di Dante. Eppure la fantasia dei due poeti moderni non s’è abbreviata col distendersi della riflessione. [. ..] Più lo spirito umano moltiplica la quantità ideale che riceve dagli organi di tanti cervelli confederati in un’azione comune, e più cresce e si dilata la sua virtù creativa, giacché non è possibile creare fuor del pensiero. La fantasia che move, dispone ed organizza le forme estetiche delle idee sarà tanto più vigorosa quanto più le si porge abbondante il nutrimento ideale (op. cit., pp. 218-9).
Questa è fra le pagine che più hanno richiamato l’interesse di Capuana; e si capisce il perché. Il problema della apparizione storica delle forme artistiche è il problema che più di ogni altro attraeva gli studiosi che tentavano di dare una spiegazione a un dilemma cruciale sia per gli storici che per i filosofi. Sembrava evidente a molti che nella scansione rappresentata dal succedersi dei generi antichi si riproduceva lo stesso fenomeno che, in una prospettiva ravvicinata, stava interessando la letteratura contemporanea, e cioè il superamento e l'abbandono sempre più evidenti di certe forme poetiche (come il dramma e il romanzo storici) che erano state dominanti nella letteratura romantica: Trezza, per il suo scarso interesse alla letteratura militante, non sottolinea se non indirettamente (ad esempio quando parla del « sentimento della natura » come unico motivo moderno) questo tema attuale, ma offre il materiale, per un’articolazione meno accademica e più spicciola, a un dilettante intelligente e di buon fiuto come Capuana, che propagherà giornalisticamente queste idee, in formato ridotto, in ambienti limitrofi se non estranei al mondo degli « scienziati » (ad esempio il mondo giornalistico degli anni ’80, dove Capuana si venne a trovare, fra i dibattiti dei giornali e delle riviste d’attualità). L’altro problema, questa volta di ordine teorico, che attraversa la pagina trezziana è quello del rapporto scienza-poesia (cioè, come si legge, se «il vero discoperto nelle cose è la tomba dell’arte »). La risposta di Trezza è decisa e coerente al suo evoluzionismo rettilineo: la «riflessione moderna » è un elemento di arricchimento della fantasia, perché offre al poeta un più ricco materiale psicologico e storico e perché diventa essa stessa uno strumento di creazione poetica più moderno ed efficace. Con questo ragionamento Trezza rispondeva a quello che era uno degli interrogativi più diffusi nell’età postromantica, che era poi l’eredità più vistosa (e più facile) dell’estetica hegeliana, con la sua « dimostrazione » dell’immancabile fine del momento artistico. Il tema della « morte dell’arte » ebbe ampia diffusione e credibilità nel generale disorientamento ideologico-artistico seguito al declinare delle letterature romantiche, mentre l’insorgere della filosofia positivistica sembrò, anche sotto questo profilo, porre fine a un’epoca ed iniziarne una tutta nuova, tanto « prosaica ) quanto « poetica » era stata la precedente. Hegel diventò così un potente alleato di quei pensatori « positivi » che unificavano sotto lo stesso segno la Filo-
sofia dell’Evoluzione della natura secondo i dettami di Darwin con la concezione
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La cultura del positivismo
della Filosofia dello Spirito. Tale è appunto, con diverse contaminazioni ed accentuazioni, il più diffuso clima filosofico nell’Italia dopo il ’60, e non a caso la parola-chiave di questa « filosofia » è la parola Progresso, e cioè il concetto che ha permesso di unificare, alla luce di un fatalismo ottimistico, la concezione evoluzionistico-materialistica con quella storicistico-idealistica. Di questo connubio teoreticamente così spurio non è importante tanto sottolineare l’incoerenza o la fragilità, quanto il fatto che il vero elemento unificatore è la comune ideologia difensiva e universalizzante, di cui si arma la borghesia perseguendo i suoi fini politici di conservazione economica con una ragionevole spregiudicatezza nell’impiego e nella propaganda di princìpi etico-filosofici di natura diversa e perfino opposta. Insomma per l’ideologia della borghesia postunitaria e umbertina vale più che mai il discorso marxiano sulla natura pretestuosa delle ideologie, intese come operazioni di copertura politica. Quello che interessava alla classe dominante del secondo Ottocento era « nobilitare » la propria funzione storica ed economica coll’aiuto di una « scienza » o di una « filosofia » che si presentasse con i crismi dell’« eternità » e dell’« universalità », e facesse filtrare attraverso il
concetto di Progresso (come era stato elaborato dalle più recenti scienze e filosofie) una giustificazione del potere, la quale, con i programmi di « universalità » e «oggettività », dava alla borghesia la possibilità di rinsaldare e fare avanzare la sua egemonia. Sotto tale profilo classista si spiega la precoce commistione di elementi filosofici idealistici e materialistici, così come è comprensibile il passaggio indolore, all’interno dello stesso ceto intellettuale, dalle posizioni positivistiche a quelle, dominanti nel giro di pochi lustri, idealistico-spiritualistiche, in corrispondenza con il succedersi di una politica religiosa meno rigida, dopo l’acceso anticlericalismo della Destra storica. Se intorno agli anni ’70-80 l’ideologia dominante della classe dominante era quella del positivismo con le sue varie diramazioni più o meno «audaci», l’evoluzionismo storicistico, hegelo-darwiniano, si presentava come una delle sue versioni più accreditate tanto da estendere il suo ambito interpretativo a tutto il sapere, contrastando, in nome del « sistema », il programma «empirico » dei filosofi-scienziati. Uno dei più noti fra questi «sistematici», ancora più polemico di Trezza nei confronti degli «empirici», è il medico mezzo-hegeliano, Angelo Camillo De Meis (Bucchiano 1817-Bologna 1891), che nella sua opera più famosa, i due volumi di Dopo la laurea (1868-9), porta avanti la sua battaglia storicistico-fatalistica di contro al positivismo troppo « positivo ». In questo contesto il pensiero estetico di De Meis appare il coerente sviluppo e l’adeguata applicazione di tutta quella problematica che accomunava,
come si è visto, filosofi, scienziati e lette-
rati; e questo spiega il facile entusiasmo di Capuana, il quale definirà Dopo la laurea «un profondo e compiuto manuale di critica letteraria, al quale non sappiamo che si possa contrapporre di simile ». Inoltre con maggiore attenzione che non Trezza, De Meis svolge il tema della letteratura contemporanea, particolarmente incentrato sulla giustificazione filosofica dell’enorme e inarrestabile for-
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I maestri e le riviste della « Scuola storica »
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tuna di cui godeva il romanzo in quegli anni; a questo proposito le pagine di Dopo la laurea sono esplicite e ampiamente articolate, in un processo di saldatura che unisce il pensiero filosofico al gusto e all'impegno della critica letteraria. Si veda la seguente citazione: Ma la riflessione positiva non si sviluppa, e non acquista la vera coscienza di sé che nel mondo germanico: nel mondo latino anche vi è, ma è incosciente, e per così dire irreflessa, e perciò non scaccia intieramente di sede, e non soppianta la poesia, ma si asside bellamente al suo fianco, e divide con essa il trono e l’impero. Da questo connubio, o per meglio dire, da questa transazione, nasce una forma mai più veduta di epopea, un genere affatto nuovo di poesia, in cui la riflessione procede d’accordo con la immaginazione: fedele immagine dello spirito umano al principio del secolo x1x. Questo genere è il romanzo, ed è la vera epica, la sola possibile epopea del tempo moderno: una epopea tutta naturale e umana, senza soprannaturale, e tutta infiltrata, ma non compenetrata di realtà e di riflessione (Dopo la laurea, vol. 1, Bologna 1868, p. 226).
È un brano canonico della critica positivistica, proprio per il fatto che i riferimenti più immediati sono all’Estetica di Hegel, laddove si legge (trad. it., Torino 1967, p. 1223) che il romanzo è «la moderna epopea borghese », a cui «quello che manca è però la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l’epos vero e proprio. Il romanzo — conclude Hegel — nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa». Ma i riferimenti sono in realtà riconducibili ad una tematica che non è quella di Hegel, per il quale il genere « romanzo » va ricollegato alla « realtà » e, in questo caso, alla borghesia che egli chiama « una realtà già ordinata a prosa », mentre il discorso di De Meis prende rilievo solo se visto in simbiosi, e non in opposizione, col positivismo. De Meis non parla di « borghesia », ma più astrattamente di scienza, di « riflessione », e già prima aveva scritto, parlando sempre in generale, del « nuovo secolo » come del « tempo della riflessione positiva » che «è sapere ad un tempo e poesia: è la vivente scienza — diceva —, è il pensiero sentito e formato di fantasia, ma che è prima di tutto scienza e pensiero ). Come si vede sono sempre gli stessi temi che circolano, con accentuazione diversa: Trezza (a cui si deve la definizione di Hegel come « quell’impenitente apostolo di un dogmatismo impossibile ») si era posto lo stesso problema e lo aveva risolto in termini quasi eguali, accettando e teorizzando, come De Meis, la presenza
inconfutabile
dell’elemento
razionale,
« scientifico », nel moderno
messaggio poetico. Le stesse differenze, che sembrano così corpose, fra la fiducia di Trezza per l’arte razionale moderna in via d’espansione e l’accenno demeisiano al lento tramonto dell’arte stessa, queste differenze in realtà non hanno molto peso, perché quello che conta è l'evidente affinità dei metodi e delle argomentazioni, strettamente collegate ad un presupposto primato universale della Ragione (e/o della Scienza), da cui discende la comune giustificazione dell’arte più recente, sia pure secondo angolature diverse (con nostalgie classicistiche
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La cultura del positivismo
Trezza, con una generica simpatia « realistica » De Meis). Semmai la discrepanza fra i due discorsi si fa più sensibile quando spunta l’hegelismo di seconda mano di De Meis, che si traduce in una religione della storia come sinonimo di quietismo conservatore, mentre l’evoluzionismo molto composito di 'Trezza rimane pur sempre ancorato, se non fosse altro, più che ad una fatale scansione epocale, allo svolgersi di una storia in cui si ritrova l’uomo, con i suoi « gusti », ma anche con i suoi condizionamenti. Più che Firenze o Pisa, la vera roccaforte del metodo
« storico » fu senza
dubbio Torino, grazie all'incremento di una critica comparata largamente nutrita di esperienze europee (si pensi ad Arturo Farinelli, giunto alla cattedra di letteratura tedesca dell’Università torinese dopo una lunga permanenza all’estero, a Zurigo, Parigi, Innsbruck), e grazie soprattutto a un'iniziativa giornalistica destinata a rimanere come pietra miliare nel progressivo arricchimento e affinamento degli strumenti e dei sussidi culturali. Nel 1883 infatti fu fondato, sotto la direzione di Arturo Graf, Francesco Novati (Cremona 1859-Sanremo 1915), Rodolfo Renier (Treviso 1857-Torino 1915), il « Giornale storico della letteratura italiana », il quale venne a testimoniare in concreto come l’erudizione e la specializzazione « positive » non fossero un ritorno alla mentalità da studioso solitario, ma una maniera collettiva di organizzare sul piano nazionale (come voleva l’ideologia del regno) un tipo di lavoro utile proprio per la sua volontà di rigore « scientifico ». Il Programma del « Giornale » può ben dirsi il programma di tutta la « scuola storica », al di là delle divergenze personali e accademiche: Il giornale, quale noi lo intendiamo, non soppianta il libro, ma lo prepara; esso è lo strumento vivo e incessantemente operoso della critica, è una creazione di quello spirito critico ond’è animata la scienza moderna. In esso si cimentano le opinioni, in esso si elaborano i materiali, in esso si compie tutto quel lavoro preparatorio, minuto e paziente, ond’esce poi la verità scientifica, costruita e provata: lavoro di molti che non può aver luogo nel libro, ma richiede un campo libero e neutro. Non altro, insomma, è il giornale, se non l’organo per cui il contributo continuo del sapere e dell’opera di molti passa mano mano in corpo di dottrina: al qual proposito importa di ricordare come oggimai il sapere cresca assai più pel lavoro paziente e minuto dei molti, che non per le larghe divinazioni dei pochi. La storia della letteratura italiana va in massima parte rifatta. [.. .] E valga il vero: che cosa sono, generalmente parlando, dopo quella del Tiraboschi, e salvo alcuna eccezione recentissima, le storie della nostra letteratura ? O esposizioni superficiali e manchevoli, o sintesi più o meno geniali, in cui, più assai che allo studio diretto dei fatti, si badò ad alcuni preconcetti
estetici, politici, filosofici, con l’aiuto
de’ quali si pretese d’interpretare e ordinare fatti male sceverati e mal noti, ossia di ricostruire sistematicamente la storia. Ond’è che esse, e più particolarmente quelle che corrono per le scuole, o sono al tutto insufficienti, o danno dello svolgimento e delle vicende delle nostre lettere un assai falso concetto. [.. .] La nuova storia della letteratura italiana bisogna che poggi essenzialmente sullo studio diretto dei monumenti, e che rifugga da ogni costruzione sistematica. Le biblioteche e gli archivii nostri riboccano di documenti, o ignoti affatto, o intraveduti appena;
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la lezione della massima parte dei nostri testi è da assoggettare a nuovo ed accurato esame;
le relazioni delle lettere nostre con quelle delle altre nazioni di Europa, ed i
molteplici rapporti delle lettere con la politica, con la scienza e con le arti figurative sono, come s’esce dal medio evo, a mala pena avvertiti; infiniti punti di storia biografica, di storia della lingua, di bibliografia, sono da discutere e da chiarire; v'è insomma tutto
uno sterminato materiale da vagliare e da ordinare prima che altri possa, in modo degno della scienza, accingersi all’ingente fatica di scrivere una storia generale della letteratura
italiana (A. Graf,
F. Novati,
R.
Renier,
Programma
del
«GSLI », 1, 1883,
pp. 1-3).
Questo indirizzo storico-erudito, rivolto fruttuosamente alla scoperta di inediti, doveva promuovere una serie di indagini specifiche (riguardanti l’ambiente, le fonti, la tradizione, la biografia, il testo, la lingua, la metrica, ecc.),
quanto mai ricche di interesse: basti pensare ai due volumi di Graf, Roma nelle immagini e nelle memorie del Medioevo (Torino 1882-3), a tutt'oggi basilari per una ricerca sull'argomento. Inoltre tale indirizzo, proprio per la sua volontà di scientificità, doveva favorire, anche a livello di metodo, dei tentativi di rinno-
vamento, che talora si spinsero oltre i programmi dello stesso « Giornale storico ». Esponente notevole di questo rinnovamento « positivo » delle discipline letterarie fu il giovane filologo romanzo Ugo Angelo Canello (Guia 1848-Padova 1883), docente di storia comparata delle lingue neolatine nell’ Università padovana, il quale si propose di applicare il « metodo sperimentale e positivo, trovato eccellente
nelle scienze naturali»,
anche
allo studio delle lingue, e cercò, nei
suoi Saggi di critica letteraria (1877), d’introdurre, coi debiti adattamenti, certi concetti dell’evoluzionismo darwiniano. Significativo è il necrologio che di Canello si legge nel « Giornale storico », nel suo primo anno di vita: da una parte infatti vi si riconosce allo studioso precocemente scomparso il merito di appartenere «a quella vigorosa e laboriosa scuola italiana che da vent'anni in qua ha rinnovato nel nostro paese l’indirizzo della storia letteraria, la ragion della critica,
i metodi d’insegnamento »; dall’altra però vi si limita tale merito attraverso la constatazione che Canello «troppo facilmente trascorreva a interpretare i fatti con le teoriche, e a integrare coi concetti la storia ». Era insomma il metodo empirico che non ammetteva nessuna «filosofia », un episodio di quella generale contrapposizione che si ebbe all’interno del positivismo fra i sostenitori del
«metodo » e quelli del « sistema ». A Torino (e a Milano) si verificarono dunque le proposte più nuove, destinate a sollevare una problematica ricca di interesse. Già prima del « Giornale storico », la stessa casa editrice Loescher aveva dato vita a due riviste « scienti-
fiche »: nel 1872 comparve la « Rivista di filologia e d’istruzione classica », che, secondo i canoni della recente politica culturale, univa a una nuova attenzione verso le discipline filologiche e ad uno spirito di più larga collaborazione anche la volontà di trasformarsi in un utile strumento per i docenti della nuova Italia; nel 1873 Graziadio Isaia Ascoli (Gorizia 1829-Milano 1907), fin dal 1861 docente
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presso l'Accademia scientifico-letteraria di Milano, fece uscire l’« Archivio glottologico italiano », grazie al quale anche le discipline linguistiche entravano ufficialmente sotto la guida di quel « metodo scientifico » che (come si legge nel Proemio) aveva «ancora gran bisogno che fosse aumentato il numero de’ suoi proseliti, com’egli medesimo aveva ancora bisogno di perfezionarsi e progredire ».
E veramente si può dire che questa lucida presa di coscienza dei pregi e dei limiti della metodologia positivistica costituisse in fondo la punta più avanzata della nuova cultura italiana.
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Fisiologia e psicologia dell’arte
In generale, si può dire che il clima culturale italiano intorno all’80 era quello di una vaga filosofia positiva subordinata, in una maniera o nell’altra, ai metodi e alle « leggi» che le scienze naturali (in particolare quelle biologiche) avevano imposto come modelli universali. Nessuno sfuggiva a questo « ricatto » scientifico: neppure i cattolici, che erano pur sempre additati come l’esempio tipico della mentalità da superare coi lumi della scienza. Perfino nel Veneto, feudo prima di Zanella e poi di Fogazzaro, le nuove istanze non tardarono a farsi sentire. Uno scolaro e successore di Zanella, Giuseppe Guerzoni (1835-88), combattente garibaldino e biografo di Nino Bixio e di Garibaldi, espressione tipica di certo risorgimentalismo e moralismo attardati anche a livello culturale, nella proluzione accademica L’arte nella filosofia positiva (1876) si poneva questi turbati interrogativi: «In mezzo alle conquiste della scienza moderna, al cospetto di quella che chiamano rivoluzione intellettuale [. . .] che cosa fa l’arte, quale ufficio le spetta, quale dovere le incombe, quale diritto le avanza, quale sorte l’attende?». La posizione di Guerzoni era esplicita: se infatti da una parte egli condannava «le cieche resistenze di Roma e gli incivili anatemi del Sillabo » ed elogiava i « benefizii » della scienza, dall’altra si rendeva conto che «il fiume grosso, rapido, minaccioso davvero » era quello che scendeva « dalle sommità delle scienze fisiche e naturali, [. . .] il fiume della filosofia positivista », del materialismo teorizzato da un Biichner. Di fronte a tale dilemma l’unica via era di riproporre tarde rimasticature dell’estetica giobertiana, proclamando che la vera arte è quella che « educa e migliora, che esalta e commuove, che allieta e consola»; l’arte che «adombra (se non incarna) quell’amplesso, quel connubio del vero, del bello, del buono ». Nondimeno qua e là Guerzoni sentiva la necessità di teorizzare una letteratura legata allo sviluppo dei tempi (e della sovrana scienza): che era poi una non meglio specificata poesia rispondente ai comandi del «vero », a un realismo (se così si può chiamare) tutto intriso di aromi ideali. È ben vero che gli esempi citati da Guerzoni a convalida della sua estetica e della sua etica, non erano quelli di un pio classicismo, bensì le opere poetiche di un nuovo popolo, quello americano (già esaltato dal tardo De Sanctis come « il popolo più forte », perché « non fantastica, ma opera »); tuttavia è anche
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vero che a questo punto i convincimenti religiosi e politici del professore-soldato si sovrapponevano alle istanze letterarie, abbozzando una forma di neocattolicesimo non ignaro dell’ethos calvinista. E infatti nel presentare Washington come l’eroe esemplare (non senza impliciti riferimenti all’idealizzante tradizione garibaldina), egli ne faceva un esponente moderato della nuova Italia, aborrente così dagli eccessi dogmatici come dal moderno materialismo: Eroico e pio, temperato e gagliardo, libero e credente, fondatore della più schietta democrazia, ma reverente all’aristocrazia dell'impegno e della virtù, il più potente e il più modesto cittadino della patria sua, ecco l’archetipo d’uomo in cui le nuove generazioni dovrebbero modellarsi (L’arte nella filosofia positivista, Padova 1876, p. 62).
Se abbandoniamo la provincia e ci avviciniamo ai centri della cultura imperante fra il °60 e il ’90, ci si impone una figura veramente tipica di intellettuale positivista. Si tratta di Paolo Mantegazza (Monza 1831-San Terenzio in Liguria 1910), studioso di scienze naturali, curioso di ogni disciplina, enciclopedico e volgarizzatore, sempre pronto a interessarsi di ogni « novità », dietro la spinta di un empirismo onnivoro e superficiale. La sua opera molteplice, la sua stessa labilità ideologica e scientifica (che gli permise di conciliare, su un piano di tollerante laicismo, quello che non era riuscito a fare l’arretrato Guerzoni), vanno situate entro i limiti della cultura positivistica italiana nel suo complesso, attenta alle soluzioni concrete più che alla coerenza sistematica e aperta a suo modo (cioè da un punto di vista borghese) a una concezione « democratica » del sapere. Il rapporto fra scienza e fede, che aveva spinto Villari a un conseguente dualismo intellettuale e morale (cfr. $ 53), non turbava l’animo di Mantegazza. Nella Commemorazione di Carlo Darwin (Firenze 1892) si legge infatti che «la scienza non offende né può offendere la fede », giacché « l’una e l’altra hanno una missione diversa e zampillano da diverse sorgenti della natura umana »: dove la ripresa di motivi galileiani si configura come un modo per trasformare la scienza moderna nella pupilla delle classi dominanti, avendo la preoccupazione di eliminare ogni turbamento delle coscienze. Le implicazioni sociali del discorso del resto erano già state chiaramente enunciate da Mantegazza nello scritto La scienza nell'Italia nuova (Firenze 1880). Ivi infatti lo scienziato assumeva il ruolo del « riformatore », che si rivolge ai conservatori per spingerli ad appoggiare la sua « politica », il suo uso della scienza, costringendo così il positivismo a svelare il suo « valore » di classe. « Noi — scriveva Mantegazza — abbiamo abbassato la politica all’arte di vivere oggi, senza pensare al domani [...] la scienza è la politica del domani, del posdomani, del sempre ». E aggiungeva: « Vogliamo che non vi sia una scienza di Destra e una scienza di Sinistra, ma una scienza nazio-
nale, che stia al di sopra di tutte queste miserie quotidiane, che chiamiamo partiti, gruppi, sottogruppi ». Oltre l’ovvio significato offerto dal primo livello del discorso — l’atteggiamento individualistico piccolo-borghese di chi respinge con
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fastidio le beghe politiche e sogna qualunquisticamente un suo Aventino al di sopra delle lotte —, si affacciava qui un altro tema, politicamente più compromettente. Mantegazza sapeva bene che la scienza da lui esaltata al di sopra di ogni partito, né «liberale » né « codina », era oggetto di una larga polemica (e non solo da parte dei clericali), come responsabile dei mali della civiltà moderna: era insomma ancora una volta il socialismo il nucleo centrale di un discorso appa-
rentemente solo scientifico. Di fronte allo spettro della Commune ogni intellettuale si sentiva chiamato a discolparsi: giacché solo in questa maniera egli poteva chiedere « libertà » e privilegi per la sua disciplina e per se stesso. Questo era il senso profondo, storico, dell’autocritica (peraltro ingenua e fideistica) che Mantegazza sentiva di dover fare quando scriveva: So benissimo che alcuni pochi in piena buona fede si sgomentano degli ardimenti della scienza, e nella loro paura giungono a tanto da farla ispiratrice dei più scellerati progetti di perturbamento sociale e di vandalismo politico. [. . .] Se l’antica fede tramonta è per lasciare il posto a nuovi ideali più alti e più splendenti; non è Newton, non è Galileo, non saranno neppure Darwin né Huxley, né Herbert Spencer né Heckel, che anche con tutte le loro impazienze faranno crescere il numero dei delitti umani (La scienza nell'Italia unita, Firenze 1880, p. 62).
Qui, più che altrove, l’ingenuità di Mantegazza svelava il vuoto ideologico ch’egli avrebbe voluto coprire con la sua scienza. Questo darwiniano, che assicurava l’intangibilità della religione da parte di ogni attacco scientifico, che diffidava quanti definivano Darwin « l’apostolo primo del petrolio », questo instancabile banditore di una filosofia igienico-sanitaria, era in sostanza il divulgatore di una squallida rettorica, accettabile solo ai palati inesperti della borghesia meno evoluta e più filistea. All’insegna della rettorica e del filisteismo era anche il trattato di estetica Epicuro, ovvero saggio di una filosofia del bello (1891). Ivi infatti comparivano i luoghi comuni della cultura borghese, fosse essa materialista o idealista e cattolica, ora in forma scopertamente conservatrice («la società umana è essenzialmente e eternamente aristocratica )), ora attraverso l’unzione interclassista («le gioie che ci dispensa il bello sono fra le più democratiche, e il povero artista, che con un pezzo di pane e cacio in tasca, ammira i capolavori delle Gallerie e degli Uffici, gode assai più del milionario idiota »). Ma quel che più importa notare è come lo stesso tentativo di scientifizzare la dottrina del bello riuscisse scarsamente efficace: ad esso mancava in effetti proprio il rigore scientifico, giacché Mantegazza, invece di sviluppare le premesse sensistico-intellettuali fino a formulare una vera e propria psicologia materialistica del bello, si arrestava a una concezione elementarmente
materialistica delle sensazioni estetiche, da lui de-
scritte sempre sulla base di elementi empirici o per analogia con altre sensazioni (quelle del palato e del sesso). Va comunque precisato che egli aveva coscienza della incompletezza sistematica della sua estetica, ed anzi la teorizzava:
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Fisiologia e psicologia dell’arte
Si
Il bello ha molte incognite, ma la x delle x è la conoscenza delle vibrazioni delle cellule nervose, che sentono il bello. L’istologia del sistema nervoso e la chimica della materia viva potranno soltanto in un giorno lontano darci la fisica dell’estetica. Oggi in ogni studio sul bello al vero che manca supplisce sempre la metafisica e la divinazione (Epicuro, ovvero saggio di una filosofia del bello, Milano 1891, p. 46).
A questa problematica si ispirò anche uno studioso di provincia, Mario Pilo (Pallanza 1859-Mantova 1920), tipico professore dell’età umbertina. La sua Estetica (Milano 1894) e i suoi saggi, come avviene per tutte le opere compilatorie e di scuola, univano alla pedanteria nei particolari una genericità di fondo, che invano l’autore tentava di mascherare con una esemplificazione tanto straboccante quanto eterogenea. Ritroviamo in queste pagine la ripresa di un sensismo e di un edonismo globali, ma con un’imprecisione terminologica quanto mai significativa: « Il bello è [. . .] ciò che piace: ma ciò che piace innanzi tutto e soprattutto al senso; e questo, necessariamente, per definizione; poi, eventualmente e subordinatamente, magari anche allo spirito, cioè al sentimento, all’intelletto, all’idealità, assurgendo così gradualmente a più alte bellezze » (Estetica cit., p. 6).
Giustamente Mantegazza aveva notato che una simile estetica sensoriale avrebbe potuto dirsi soddisfacente solo quando avesse avuto l’appoggio della conoscenza scientifica del sistema neuro-sensitivo e dei centri nervosi. Pilo invece non si accorgeva nemmeno della difficoltà, e parlava, oltre che di « senso », anche di « sentimento », d’« intelletto » e addirittura di « idealità », come se si fosse trat-
tato di specifiche zone del cervello, senza mai darne le caratteristiche scientifiche. D'altra parte la concezione meramente cumulativa, il rapporto troppo lineare con cui si cerca di spiegare la genesi della sensazione estetica, senza un’adeguata strumentazione scientifica, lascia nel vago proprio la pretesa scientificità del discorso. Rimane infatti una teoria semplicistica che riduce l’origine del « bello » ad una sensazione nervosa, la più elementare possibile, poiché « condizione essenziale, sine qua non — precisa Pilo —, è l’immagine sola, l’immagine viva, calda immediata, evidente », così come vuole la teoria secondo la quale «il bello dei sensi basta a se stesso ); e qui nasce spontaneo l’accostamento alla teoria dell’arte prelogica, dell’arte « pura». E infatti l’estetica positivistica conduce per vie contorte al purovisibilismo oppure si contraddice, riassumendo inconsapevolmente termini e concetti idealistici (come « fantasia »), resi ovvi dalla critica postromantica. D'altra parte l’estetica positivistica (questo « grande e nobile ramo della psicologia », come la definisce Pilo) non poteva andare oltre il livello a cui si trovava la psicologia scientifica o della neuro-fisiologia, e la stessa psichiatria del tempo, pure ricca di spunti moderni, prepsicanalitici, non dava certo un aiuto agli studi di estetica. Le aporie e le contraddizioni aumentano quando Pilo passa a parlare non più del bello naturale, ma di quello artificiale, artistico. Qui si rivela la cura
meticolosa dello scolaro di Carducci nei confronti della forma e della tecnica, in
polemica con ogni mistica romantica. Per Pilo tutto deve essere chiaro e semplice:
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La cultura del positivismo
«l’arte — egli dice — è l’espressione del bello, né più né meno; » e aggiunge: «cioé la riproiezione all’esterno, conscia od inconscia, inalterata od elaborata, di una immagine interna prodotta prima da uno stimolo esterno ». Se dunque il processo artistico è, di fatto, quello fotografico (conferma che il « senso estetico » per eccellenza è la vista), allora siamo di fronte ad una forma di oggettivismo
aprioristico, rintracciabile nell’egemonia esemplare del bello di natura su tutto il campo dei fenomeni estetici. Non stupisce dunque che venga trascurato ogni aspetto soggettivo e dinamico del processo estetico e venga presupposta una corrispondenza lineare di sensazione e riproduzione: è ovvio che a questo livello il nodo dei problemi è di natura gnoseologica, quel famoso rapporto fra « esterno » ed « interno », che il successivo idealismo risolverà « interiorizzando » il tutto —
e facendo di conseguenza scomparire ogni teoria intorno al bello di natura. Un contributo di diversa natura alla storia dell’estetica dava allora il noto scienziato Cesare Lombroso (1835-1909), la cui opera di antropologo e criminologo ebbe una risonanza e un influsso internazionali. Fin dai suoi primi studi egli si soffermò sul problema del « genio » anche artistico, ch’egli considerava come una degenerazione nervosa, uno stato morboso, e collegava con una qualche forma di epilessia (almeno psichica), da lui chiamata ora « nevrosi » ora perfino « pazzia ». Ecco come, nella seconda edizione « completamente rifusa e ampliata » di Genio e follia (Milano 1872; 1864), veniva descritto il « genio »: Se noi, colla scoperta delle autobiografie e delle osservazioni, indaghiamo più addentro, in che distinguasi l’organizzazione d’un uomo di genio da quella d’un uomo volgare, noi troviamo, che, in grandissima parte, la prima si risolve in una squisita, ed, alle volte, pervertita, sensibilità. Il selvaggio e l’idiota sentono pochissimo i dolori fisici; hanno poche passioni, e avvertono soltanto quelle sensazioni, che più direttamente li interessano, per i bisogni dell’esistenza. Quanto più si procede nella scala morale, cresce la sensibilità, che è massima negli elevati ingegni, ed è fonte delle loro sventure come dei loro trionfi; sentono e avvertono più cose e più vivacemente, che non gli altri uomini; — e più tenacemente, e più cose ricordano e nella mente combinano. Le parvenze, gli accidenti che il volgo vede e non nota, sono da loro sorpresi, ravvicinati, per mille e mille guise, che l’uomo chiama creazioni; e non sono che combinazioni binarie e quadernarie di sensazioni (p. 14).
La « sensibilità » di cui qui si parla, non ha niente a che vedere con l’estetica sensistica, ma sta ad indicare un vero e proprio fenomeno fisiologico di rottura: la «legge » delle « melancolie » e delle « sventure » dei geni è per Lombroso «la legge di dinamismo e di proporzione, che tanto sovraneggia, anche nel sistema nervoso, per cui ad un eccessivo consumo o sviluppo di forze, succede un’eccessiva reazione, e rilascio delle forze medesime ». Nelle opere successive, cioè in Genio e degenerazione (5% ed. « completamente mutata » di Genzo e follia, 1888) e in L’uomo di genio (6% ed. defin. 1894), questa teoria lombrosiana appare più precisa, diventando una parte delle generali teorie
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Fisiologia e psicologia dell’arte
psico-patologiche con molti aspetti in frutto di una degenerazione morbosa, sarebbero gli « ingegni »): per lui, come dezza » e del « male » sta nell’epilessia
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comune con la criminologia. Il « genio », è sempre un grande malato (mentre sani per tutti i criminali, l’origine della « gran(anche latente), presupposto — secondo
Lombroso — di ogni « eccesso ». Su questa base è fondata una minuta casistica, la quale tutt'al più potrebbe interessare come un enorme schedario clinico delle anormalità che i geni presenterebbero in quanto malati (donde il lapidario, sprezzante giudizio espresso da Croce nella sua Estetica). Senonché bisogna riconoscere che Lombroso, si potrebbe dire ma/gré lui, trascinato dalla coerenza degli studi psico-patologici e dai suggerimenti e dalle polemiche che la sua opera suscitava in Italia e all’estero, toccava qua e là temi e nodi che lo spingevano ad articolare un po’ meglio la sua semplicistica teoria degenerativa: per esempio là dove, distinguendo fra « genio » e «ingegno », affermava che nel genio agiscono «le fa-
coltà subliminali dell’inconscio ». Tale tema ritorna in un capitolo dei Nuovi studi sul genio (1902), l’x1 del vol. 11 (I sogni e l’incosciente nel genio), dove l’autore, sulla scia di studiosi francesi e tedeschi (fra cui il primo Freud), dà una nuova valutazione dei sostrati psicologici morbosi che sottendono l’opera del genio, fino ad avanzare un'ipotesi sul rapporto fra ragione e inconscio difficilmente accordabile con le generali teorie scientifiche e criminologiche lombrosiane: « Il lavoro mentale — si legge —, osserva giustamente Saint-Paul, è compiuto in gran parte dal cervello senza che noi ne abbiamo coscienza; siamo come il filo elettrico che trasmette il segno, ma non avverte cosa questo significhi, né cosa dirà combinato con altri segni ». Questa attenzione tardiva al mondo dell’inconscio spinge l’analisi lombrosiana su una via, in fondo alla quale s’intravedono l’eliminazione del dualismo genio-opera geniale e l’introduzione ad una conoscenza della genesi dell’opera d’arte, che presuppone e giustifica un rapporto organico fra psicologia, o magari psico-patologia, dell’artista e opera d’arte. In effetti però l’applicazione di Lombroso rimane quella dell’archivista di forme degenerate: l'enorme massa delle sue analisi empiriche (condotte del resto secondo un metodo anche statisticamente generico e impreciso) costituiva per lui il non plus ultra di una « verità » neutrale e oggettiva. Senonché tale enciclopedia criminologica, non solo appare quanto mai insoddisfacente da un punto di vista realmente scientifico, ma si rivela in concreto profondamente condizionata dalla più diffusa ideologia classista del tempo: che sono poi la logica e l’ideologia in nome delle quali allo scienziato si affida il compito di distinguere nettamente fra la parte « sana » della società e quella « insana », pazza e delittuosa (con tutto quello che ne deriva sul piano di un conseguente razzismo di necessità repressivo). A questo tipo di selezione artificiale si riconnettono dunque anche il concetto e la definizione di « genio », a cui Lombroso conferisce alcuni attributi di eccezionalità di ascendenza romantica, ma che nel complesso osserva col distacco del piccolo-borghese conformista di fronte ad ogni manifestazione non allineata con quella che si è stabilita essere la realtà « normale ». C’è infatti al fondo della criminologia e dell’antropologia di Lombroso una ben precisa concezione della « na-
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La cultura del positivismo
tura », che è in realtà il riflesso di un’ancor più precisa concezione della « società », quella borghese, che viene innalzata a quel modello a cui tutti devono adeguarsi: non a caso il criminale di Lombroso ha punti di contatto col « selvaggio », la cui «mentalità ) è citata solo come esempio di inciviltà, a cui regredisce chi compie atti delinquenziali. È dunque la stessa matrice di conformismo di fondo che relega nel ghetto dei « pazzi » i «geni» come i delinquenti, i selvaggi come le prostitute, in nome di una morale pubblica che confonde paternalismo e razzismo, repressione «umanitaria ) e socialismo. Non deve stupire che un positivista integrato nel processo di ristrutturazione autoritaria del nuovo stato abbia mostrato simpatie per il socialismo di quei tempi (un suo prediletto scolaro, Ferri, fu anzi promotore di un incontro teorico fra positivismo e socialismo). Vi era allora molta confusione circa i princìpi del marxismo: le teorie di Marx unite a quelle di Darwin sembravano favorire una forma di socialismo evoluzionistico, da cui erano esclusi ogni forma di lotta di classe ed ogni scontro rivoluzionario, e il progresso appariva tanto più sicuro quanto più si presentava come «naturale », indolore e « democratico ». ‘Tale versione edulcorata di darwinismo sociale portava Lombroso a magnificare « l’acquistata libertà di stampa e il cresciuto spirito critico individuale », e inoltre «i criteri nuovi e più evoluti di giustizia » in contrapposizione con «i falsi, le minacce, le violenze di forsennati » dei comunardi. D'altra parte un reazionarismo di fondo lo spingeva a considerare l’uomo « sempre peggiore quanto più si trova unito ai suoi simili», secondo l’interpretazione schiettamente antidemocratica già canonizzata nella Psicologia delle folle di Le Bon. Cosa fosse questo socialismo fra virgolette risulta dunque fin troppo esplicito, specie negli scritti politici raccolti nel volume // momento attuale (1903), dove le polemiche da sinistra contro Crispi o contro gli imperialismi italiani e stranieri sono dettate dallo spicciolo buon senso economico di un riformismo di piccolo cabotaggio, che niente ha a che fare né col socialismo né col riformismo più serio: basti pensare alla miopia classista con cui Lombroso avrebbe trattato i delinquenti del Sud, mostrando la sua assoluta estraneità a quei problemi del Meridione, che avevano sollecitato l’intelligente interesse politico di un Villari e per i quali si sarebbe levata la generosa protesta di Colajanni. Contro siffatto darwinismo «buono per tutto » si scagliava Labriola (cfr. La concezione materialistica della storia, Bari 1965, p. 247), definendolo «una gratuita invenzione dei pubblicisti a corto di scienza, e dei decadenti della filosofia ); ed esso già era stato condannato da Engels, nella Dialettica della natura (trad. it. di L. Lombardo
Radice, Roma 1950, p. 167), là dove scriveva, accomu-
nandolo al malthusianesimo, che « è molto facile trasferire di nuovo queste teorie dalla storia naturale alla storia della società » e definiva «un’ingenuità davvero troppo forte affermare di avere con ciò dimostrato che tali affermazioni sono eterne leggi naturali delle società ». Sono valutazioni esplicite e perfino troppo severe (oltre che molto rare all’interno del socialismo italiano del tempo); esse tuttavia aiutano il giudizio storico sul positivismo, inteso come il risvolto ideologico della
$ 55.
Fisiologia e psicologia dell’arte
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borghesia al potere nella seconda metà dell'Ottocento, e con ciò dissipano l’equivoco allora imperante in base al quale la nuova scienza caricava sulle spalle della osannata oggettività tutte le responsabilità del corso politico a cui era avviata l'economia italiana dopo il '60. Non è di poco conto constatare che molti positivisti trovarono,
dopo un’accesa carriera laica e materialistica, uno sbocco
metafisico, fosse esso cattolico, spiritualistico o spiritista, in perfetta consonanza con la spinta conservatrice insita nel carattere e nella missione stessa del positivismo;
ed è altrettanto
interessante
notare
come
l’avvento
del neoidealismo,
così contrastato nelle discussioni e nelle polemiche culturali, fosse in effetti un cambio di guardia voluto dalla stessa logica economico-politica. Non a caso un’ideologia idealistica e decadente si era venuta imponendo proprio perché più confacente alla svolta imperialistica che lo sviluppo capitalistico aveva imposto. In realtà la scienza razzista d’impronta scientifica fu utile solo come momento iniziale per una nuova religione idealistica e misticheggiante della storia, come la venne coltivando la borghesia illuminata e civilizzatrice, che si autoproclamava guida e salvezza dei popoli e dei ceti « inferiori ». In questo quadro la natura e i compiti del positivismo non appaiono equivocabili. Sarebbe tuttavia errato non valutare il peso del positivismo come elemento rinnovatore della cultura postromantica, poiché fu col positivismo che ritornarono, dopo un cinquantennio di mistificazioni irrazionalistiche e antiscientifiche, lo studio delle scienze e la filosofia materialistica. Pur con tutte le defi-
cienze e le incongruità che tale materialismo « volgare » portò con sé, è ben vero che esso, insieme al suo sperimentalismo poco avveduto, aprì la via ad una moderna interpretazione del sapere, che rifiutò i primati teoretici a favore della pubblica utilità e propagò, al di là del suo immediato trionfalismo, un realistico, ed anche pessimistico, rapporto dell’animale-uomo con la natura e con la società, rapporto con il quale veniva rifiutata la mistificazione criptocapitalistica ed irrazionalistica degli spiritualismi e dell’individualismo romantici. Poiché, se da una parte il positivismo impose per la prima volta i temi che sarebbero stati dominanti nella società contemporanea, facendo passare con la sua nozione di scienza l’egemomia e lo sfruttamento tecnologici al posto di quella lotta di classe che il materialismo storico propugnava, è pur vero che la nozione di uomo legato a questo rinnovato culto delle scienze, riallacciandosi alla tradizione illuministica, costituiva la riaffermazione sostanzialmente non cristiana dell’essenza biologica dell’uomo in quanto individuo e in quanto collettività; e in questa maniera il concetto stesso di civiltà si riallacciava più direttamente con quello di natura, liberandosi, almeno tendenzialmente, dal dominio secolare dei vari spiritualismi
e idealismi, di ieri e di oggi. Sulla base di tale materialismo, come è stato studiato e rivalutato recentemente da Timpanaro in polemica anche con certo hegelismo marxista, s'imponeva dunque una disincantata Weltanschauung, che, se si avverte come componente marginale ed episodica nell’estetica scientifica e sensistica del tempo, trovò invece la sua piena e corretta rappresentazione nella grande fioritura del romanzo realista-naturalista europeo: specie nei drammi ciclici dello sfrutta-
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La cultura del positivismo
mento e dell’ereditarietà dei Rougon-Macquart di Zola e nell’epopea del tragico « progresso» di Verga — per non parlare di quelle rappresentazioni fisio-psicologiche che si trasformavano da introspezioni narrative a veri e propri « studi » di
demistificante umanità. Insomma è all’arte positivista che si possono far risalire tante delle « scoperte » artistiche, che certe poetiche di fine Ottocento e del Novecento vorranno far passare come i frutti di diverse, più moderne e « misteriose » creazioni dello «spirito » contemporaneo.
BIBLIOGRAFIA
$ 51. Per un quadro politico generale cfr.: G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voll. v, vi, vit, Milano 1968-74; per la storia delle idee e delle ideologie cfr.: L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. v (Dall’Ottocento al Novecento), Milano 1971 e in special modo i capp. 1 (Caratteri positivi e negativi della nuova epoca), xvii (Positivismo e antipositivismo in Francia) e xvii di M. Quaranta (Positivismo ed hegelismo in Italia). Cfr. inoltre: P. Piovani, // pensiero idealista, in Storia d’Italia. I documenti, Torino 1973, nonché G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. 11 (I positivisti), Messina 1921. Per le idee generali e la terminologia cfr.: R. N. Stromberg, Realism, Naturalism and Symbolism, Londra-Melbourne 1968; per l’Italia P. Arrighi, Le vérisme dans la prose narrative italienne, Parigi 1937 e R. Bigazzi, I colori del vero. Vent'anni di narrativa : 18601880, Pisa 1969. Inoltre L. Malvano, Naturalismo e realismo, in Arte 2. Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Milano 1971 e C. Maltese, Storia dell’arte italiana. 1875-1943, Torino 1960. Per le idee estetiche cfr.: B. Croce, Estetica, parte II, cap. xVII, Bari 1921. Su Taine cfr.: H. Taine, Philosophie de l’art, a c. di J.-F. Revel, Parigi 1964 (esigua antologia); F. G. Ippolito, Taine e la filosofia dell’arte, Roma 1911; L. Venturi, Storia della critica d’arte, Torino 1948 (ma 1936); S. J. Kahn, Science and Aesthetic Fudgment. A Study of Taine’s Critical Method, New York 1963; S. Morawky, Les conceptions esthétiques de Taine, in « La Pensée», 74, 1957, pp. 32-48; R. Wellek, A History of Modern Criticism, New Haven-Londra 1965, vol. iv (tra it., Bologna 1970); Sociologia della letteratura, a c. di G. Pagliano Ungari, Bologna 1972. Su Spencer cfr.: J. D. Y. Peel, H. Spencer, the Evolution of Sociology, Londra 1971; F. Ferrarotti, Il pensiero sociologico da A. Comte a M. Horkheimer, Milano 1974 (con bibl.). Sull’estetica di Spencer cfr.: E. Gilbert e H. Kuhn, A History of Aesthetics, Bloomington, 1954; F. Miele, Teoria e storia dell’estetica, Milano 1964 (cfr. anche C. Ranzoli, La fortuna di H. Spencer in Italia, in « Rivista di filosofia e scienze affini », 1904); infine A. T. W. Borddorf, Science of Litterature : On the Theories of Taine and H. Spencer, Londra 1903. $ 52. Per un quadro letterario dei centri italiani cfr. le notizie in G. Mazzoni, L’Ottocento, vol. 11, Milano 1964, con vasta bibl. aggiornata da A. Vallone; ricco di notizie S. Landucci, Cultura e ideologia in F. De Sanctis, Milano 1964; molto documentato G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Roma-Caltanissetta 1967; molto importante R. Bigazzi, op. cit.; L. Russo, F. De Sanctis e la cultura napoletana, Firenze 1959*; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari 1973; G. Squarciapino, Roma bizantina, Torino 1952. Cfr. anche di G. Gentile, G. Capponi e la cultura toscana nel secolo XIX, Firenze 1926 e Il tramonto della cultura siciliana, Bologna 1929. Molte notizie si ritrovano nelle biografie di scrittori, edite dalla UTET, citt. s.v. $ 53. Su questo nodo desanctisiano cfr. S. Landucci, op. cit.; G. Scalia, introd. a F. De Sanctis, Scritti critici, Milano 1966; G. Muscetta, F. De Sanctis, in Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, vol. vini, Milano 1968; A. Prete, Il realismo di De Sanctis, Bologna 1970. Su Villari cfr.: G. Salvemini, P. Villari, in « NRS », 2, 1918, pp. 113-39; E. Pistelli, Profili e caratteri, Firenze 1921; L. Villari, Profilo di P. Villari, Mazara del Vallo 1951; E. Garin, La cultura italiana fra Ottocento e Novecento, Bari 1963; Id., Storia della filosofia italiana, vol. n1, Torino 1966; R. Villari, // Sud nella storia d’Italia, Bari 1966; G. Pagliano Ungari, Villari e Taine : analisi di una lettura, in « Trimestre », marzo 1968,
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La cultura del positivismo
pp. 119-25; cfr. infine P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, a c. di L. Chiti, Torino 1971.
$ 54. Cfr. in generale i capp. III, IV, v, vi in Marz. Cr., 1 e Il (e prima in G. Mazzoni, op. cit., cap. XXI); L. Russo, Maestri della vecchia scuola storica, in La critica letteraria contemporanea, Firenze 19672;L. F. Benedetto, Ai tempi del « metodo storico », in Uomini e tempi, Milano-Napoli 1953; R. Wellek, op. cit., cap. vi; C. Dionisotti, La « Scuola storica », in « LI », 3, 1973, pp. 339-55, poi in Dizionario critico della letteratura italiana, a c. di V. Branca, Torino 1973 (ancora utile B. Croce, La critica erudita della letteratura e i suoi avversari, in La letteratura della nuova Italia, vol. iti, Bari 1915). Su Del Lungo cfr.: A. Gigli e C. Mazzi, L’opera letteraria e civile di I. Del Lungo, Firenze 1922; G. Mazzoni, I. Del Lungo, in « NA », 1 giugno 1927, pp. 257-66 e C. Fontana, in « Convivium », gennaio-febbraio 1933, pp. 45 sgg. Su Bartoli cfr. la voce di A. Asor Rosa in DBI con bibl. Su D’Ancona cfr.: L. Ferrari, G. Manacorda, F. Pintor, Bibliografia degli scritti di A. D'Ancona, Firenze 1915; F. Novati, A ricolta, Bergamo 1907; Id., In memoriam A. D’ Ancona, Firenze 1915; cfr. infine l’ed. del carteggio D’Ancona-Amari a c. di P. Cudini, Pisa 1972. Su Comparetti cfr.: G. Pasquali, Terze pagine stravaganti, Firenze 1942; P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962; S. Timpanaro, in Marz. Cr., 1. Su Rajna cfr.: Miscellanea di studi critici dedicata a P. Rajna, Firenze 1911; M. Casella, P. Rajna, in « Civiltà moderna », 15 ottobre 1931, pp. 851-82. Per un’impostazione corretta riguardo a questa cultura cfr.: V. Masiello, Scientismo e ideologia nella critica di E. Bertana, in « Angelus novus », 11, 1968, pp. 122-57; e S. Timpanaro, JI primo cinquantennio della « Rivista di filologia e di istruzione classica », in « Rivista di filologia e di istruzione classica », c, 1972, pp. 379-441. Su Trezza cfr.: F. Torraca, Saggi e rassegne, Livorno 1885; G. Tarozzi, Il pensiero di G. Trezza, Verona 1894; B. Croce, La letteratura cit., 1, Bari 1914; L. Tonelli, La critica letteraria italiana negli ultimi cinquant'anni, vol. 11, Bari 1914; G. Gentile, op. cit., cap. x; G. Bolla, A. Aleardi e G. Trezza, in « Atti Acc. di Verona », Verona 1923; F. Piccolo, La critica contemporanea, Napoli 1921; P. Treves, op. cit. Su De Meis cfr.: B. Croce, La letteratura cit., 1; A. Del Vecchio-Veneziani, La vita e le opere di A. De Meis, Bologna 1921; G. Gentile, op. cit., parte II, cap. iv; L. Russo, F. De Sanctis e la cultura napoletana, Venezia 1928; E. Miscia, A. C. De Meis, in «La fiera letteraria », 16 ottobre 1949; L. Santini, A. C. De Meis, L'Aquila 1960; G. Negrelli, Storicismo e moderatismo nel pensiero politico di A. C. De Meis, Milano 1968; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana cit.; P. Piovani, Il pensiero idealista cit. Su Capuana cfr. bibl. al $ 61. Su Novati cfr.: AA. VV., F. Novati, Milano 1917; L. De Vendittis, F. Novati, in « Belf. », 1,1960, pp. 30-62. Su Renier cfr.: F. Novati, R. Renier, in «GSLI», LXv (1915), pp.193-8; B. Cian, Commemorazione di R. Renier, in «Atti Acc. delle scienze di Torino », Torino 1920, e infine V. Crescini, R. Renier e F. Novati, in Romanica fragmenta, Torino 1932. Sul « Giornale storico » cfr.: V. Cian, Il « Giornale storico della letteratura italiana », in « NA », 16 ottobre 1916, pp. 385-404; C. Varese, I primo venticinquennio del « Giornale storico della letteratura italiana », in Cultura italiana contemporanea, Pisa 1951; M. Berengo, Le origini del « Giornale storico della letteratura italiana », in AA. VV., Critica e storia letteraria, Padova 1970 (e cfr. anche A. Stussi, Salomone Morpurgo, in « Studi mediolatini e volgari », 1973, pp. 261-337). Su Graf critico cfr.: V. Cian, A. Graf, in « Atti Acc. delle scienze di Torino », Torino 1918 e L.F. Benedetto, op. cit. Su Canello cfr.: F. Torraca, op. cit., e Miscellanea di filologia e linguistica in memoria di N. Caix e U.A. Canello, Firenze 1886; F. Sesler, Per un romanista, in « Fanfulla della domenica », 15 agosto 1905; V. Crescini, op. cit. Per la « Rivista di filologia e d’istruzione classica » cfr.: S. Timpanaro, art. cit.; su Ascoli cfr. la voce di T. Bolelli in DBI; S. Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell’Otto-
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45
cento italiano, Pisa 1965; Id., G. Ascoli, in « Belf. », 2, 1972, pp. 149-76. Di Ascoli cfr.: Scritti sulla questione della lingua, a c. di C. Grassi, Milano 1967. $ 55. Su Guerzoni in generale cfr.: F. Montefredini, Studi critici, Napoli 1873; A. L. Bianchi, G. Guerzoni. La vita e l’opera letteraria, Genova 1928; B. Croce, La letteratura cit., vi, Bari 1940. Su Mantegazza cfr.: A. De Blasio, Biografia di P. Mantegazza, Napoli 1905; E. Ehrenfreund, Bibliografia degli scritti di P. Mantegazza, in « Archivio per l’antropologia e etnologia », 1926; B. Croce, La letteratura cit., VI. Su Lombroso cfr.: AA.VV., L’opera di C. Lombroso nelle scienze e nelle sue applicazioni, Torino 1906; R. Michels, C. Lombroso. Note sull'uomo politico e privato, Milano 1911; G. Ferrero, C. Lombroso, Roma 1921; A. Zerboglio, C. Lombroso, Roma 1925; G. Gentile, od. cit., cap. v.; F. Turati, Tempo ritrovato, Roma 1947; L. Bulferetti, Le ideologie socialistiche in Italia nell’età del positivismo evoluzionistico, Firenze 1951; M. Salvadori, /deologia e criminalità, Milano 1968; Id., Il mito del buongoverno, Torino 1960; F. Ferrarotti, op. cit.; G. Ferrero, La Mala Italia, Milano 1973. Presso le edd. Napoleone di Roma sono usciti L'uomo delinquente, 1971 e Genio e follia, 1972.
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REGIONALISMO, VERISMO E NATURALISMO NEL SUD: COLLODI, PRATESI, CAPUANA, DE
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Carlo Collodi dalla Firenze granducale a « Pinocchio »
A cavallo fra tempi e gusti vecchi e nuovi si pone l’opera dei narratori (bozzettisti, novellieri, scrittori di schizzi e macchiette) della Toscana nei suoi anni di trapasso dal granducato all'Italia unita. È un ambiente dove, sulla scia dell’azione determinante
dell’« Antologia », si erano conservati, ed anzi accentuati,
gli elementi di una cultura provinciale, politicamente moderata e religiosamente chiusa, incapace cioè, anche a livello letterario, di recepire i motivi nuovi che do-
minavano la cultura italiana e straniera. Le cose cambiarono di poco anche negli anni della Firenze capitale: dopo il ’60 la Toscana fu per gli scrittori non toscani la patria della lingua, mentre fu Milano ad imporsi ben presto, intorno agli anni ’70, come il più avanzato punto di riferimento; solo più tardi Roma diverrà un centro importante. I tentativi di ammodernamento furono pochi e poco fortunati: basti ricordare il caso del romanzo Beppe Arpia di Emiliani Giudici; e perfino la proposta moderata avanzata da Bonghi nel ’55 nelle sue Lettere critiche, che si chiedevano Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia, incappò nella polemica passatista dei classicheggianti « Amici pedanti », tra cui era il giovane Carducci. Se si esclude Guerrazzi, narratore sui generis e comunque ai margini, la cultura toscana presenta scarsi agganci con la moderna narrativa, preferendo coltivare il genere della novella campagnola o del bozzetto comico secondo i canoni di una tradizione umoristica che si rinnovò in certo giornalismo locale e nelle facezie di certi schizzi. Ad una sua « totalità » fiorentina si fa ricondurre Carlo Lorenzini, più noto con lo pseudonimo di Collodi, nato e morto a Firenze. La vita e la figura di questo giornalista sono quelle di un buontempone un po’ irregolare, passato, dalle premesse democratiche della giovinezza, a posizioni sempre più ammorbidite ed infine decisamente allineate (fu lui a scrivere la difesa ufficiale delle an1826,
1848:
23 novembre: nasce Carlo Lorenzini a Firenze. Studia in seminario e presso gli scolopi. Entra, dopo gli studi, nella libreria Piatti a Firenze. Si dà al giornalismo politico. combatte a Curtatone e Montanara. Fonda a Firenze il giornale satirico « Il lampione »,
poi soppresso dalla censura. 1853: fonda il giornale umoristico « La scaramuccia ». 1857: pubblica I misteri di Firenze (rimasto incompleto). 1859-60: prende parte alla guerra. Pubblica il pamphlet annessionista Il sig. Albéri ha ragione! Fa parte della commissione per la censura teatrale. Grande attività giornalistica. 1875: scrive libri per bambini per l’editore Paggi (Giannettino, Minuzzolo, grammatiche, ecc.). 1880: raccoglie i suoi bozzetti in Macchiette. 3 1883: esce Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino. È chiamato a dirigere « Il Giornale per i bambini ». 1890, 26 ottobre: muore. 1892-3: escono postumi, a c. di G. Rigutini, le raccolte Note gaie e Divagazioni critico-umori-
stiche.
50
Regionalismo,
verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
nessioni col pamphlet Il sig. Albéri ha ragione!, Firenze s.d., ma 1860). Anche come giornalista e letterato Lorenzini rimase fedele, negli articoli fra il 50 e il ’60 apparsi su « Scaramuccia » o sulla « Nazione » (raccolti da G. Rigutini in Divagazioni critico-umoristiche, 1892), ad una certa cultura toscana antiroman-
tica, che sarebbe arrivata fino agli « Amici pedanti » e a Carducci (anche se va ricordato che tentò almeno di seguire Sue col suo / misteri di Firenze, 1857, rimasto al primo volume, o di ammodernarsi con certe commedie di costume). Su tale metro toscano, con quanto di antiquato e retrogrado comportava, nasceva l’articolo caricaturale con cui il giornalista stroncava un autore o un’opera: ora definendo « declamato-convulso-epilettico-drammatica » la scuola verdiana, ora prendendosela con l’« antinazionale » Rodolfo di Prati, che fece l’errore di cedere «alle fantasticherie d’oltralpe » per approdare alla « atmosfera rarefatta del misticismo e del vaniloquio ». Comunque stupisce che questo critico « pedante » sapesse fiorentinamente trasformare la sua critica nella maniera geniale di una perpetua caricatura: in questa operazione estremizzante Collodi è scrittore abilissimo, incalzante, logico, sempre piacevole e nel contempo impietoso; è lo stile del primo Collodi che raccoglie le sue caricature in Macchiette : racconti (1880), poi in Storie allegre (1881) ed infine, sempre nell’81, in Occhi e nasi. Ricordi dal vero, nei quali viene ritratta, con gusto maligno e malizioso, una Firenze vecchiotta dei poveracci e dei borghesucci. L’atteggiamento dello scrittore è nel complesso conservatore e nostalgico, come poteva essere quello di un italiano ancora attaccato sentimentalmente ai costumi e allo «spirito » del granducato. Così si spiega come mai l’esaltatore (almeno letterario) dell’annessione assumesse poi un atteggiamento di lepido qualunquismo di fronte alle nuove istituzioni portate dall’unità: si vedano i ritratti parodistici del Cavaliere del secolo XIX o del Giurato, e non si dimentichino le tirate retrive contro l’istru-
zione d’obbligo e contro la nuova legislazione fiscale, dove compare non tanto lo scontento per procedure poco avvedute o burocraticamente brutali, quanto la diffidenza del tradizionalista che pensa di esorcizzare, per amore del quieto vivere, ogni « novità », con la battuta scanzonata o popolaresca (che è poi un patrimonio della tradizione, più volte rievocata da Collodi là dove egli si richiama all’« antico spirito fiorentino », o al «brio sarcastico fiorentino », o anche a « quel riso geniale, che fa buon sangue e che usava al tempo dei nostri vecchi »). L'atteggiamento di questo scrittore così interno alla tradizione fiorentina si mostra nelle sue peculiarità nel confronto con i ceti della società locale: Collodi è affettuosamente curioso di quel sottobosco costituito da ragazzi di strada, cocchieri e ubriaconi, e in specie nei confronti del « ragazzo di strada »; al distacco del borghese si mescola una vera simpatia per questo « figlio genuino della natura », dotato di una « sua cinica spensieratezza ) soprattutto riguardo alle istituzioni. Questo piccolo eroe (così com'è descritto in Occhi e nasi) va incontro al ribellismo privo di contenuti politici, che il Collodi uomo praticava nella sua vita privata, ed insieme si compenetra con quel suo gusto per l’« abnorme », per quanto di liberamente critico può trovarsi ai margini della società: in tal senso si può
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Carlo Collodi dalla Firenze granducale a « Pinocchio »
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dire che il «ragazzo di strada » che argomenta: « è inutile parlare di libertà, fin tanto che in questo mondo ci saranno i carabinieri e i questurini ), è uno dei pochi « picari » che possa vantare la nostra narrativa, così come Collodi, col suo
tradizionalismo esacerbato, è una specie rara di scrittore in cui l’estremismo dell’estro si congiunge col moderatismo quasi qualunquistico, Eppure anche per lui, così « eccentrico », saltò fuori ben presto la sua « sistemazione »: l’editore Paggi di Firenze lo incluse fra i suoi autori di letteratura infantile, accanto al famoso Thouar; e così Collodi, dopo una traduzione delle favole di Perrault del ’75, divenne autore scolastico con manuali fortunati come
Giannettino (1876) e poi il «secondo libro di lettura » Minuzzolo (1877), in cui l’estro umoristico trovava una finalizzazione in una pedagogia intinta di piacevolezze toscane. Ciò significava una riduzione delle esigenze « libertarie » del « ragazzo di strada » al ruolo subalterno delle esigenze infantili, nei confronti delle quali gli adulti non possono che sorridere compassionevolmente: del resto, il conformismo complessivo di questi testi scolastici è confermato dalla loro fortuna, che indusse l’autore a continuare la serie con più uggiosi manuali, come Il viaggio per l’Italia di Giannettino, in tre parti (1880, 1885 e 1886), La grammatica di Giannettino (1883), La geografia di Giannettino (1880) e altri. Messosi su questa strada, lo scrittore umorista sembra aver perduto ogni possibilità di far fruttare il suo estro di bohémien simpatizzante di ideologie minoritarie e atipiche ed aver indossato la divisa del funzionario zelante: lui che prendeva in giro l'istruzione obbligatoria e i piani progressisti della scuola del regno. Eppure, nel mezzo di questa carriera, Collodi pubblicò nell’81 sul « Giornale per i bambini» La storia di un burattino (che sarebbe diventata nell’83 il volume Le avventure di Pinocchio), un’opera che esula dal nozionismo o dal moralismo scolastici e si riallaccia alla vena del macchiettista indiavolato, amante della boutade e delle
situazioni inverosimili. Le vicende piuttosto avventurose della stesura, scritta in tre tempi e con intenti narrativi diversi (il libro dapprima doveva finire al cap. XV), suggeriscono l’idea di una trama libera e spregiudicata: sembra che l’autore pensi, ad ogni puntata, come farla proseguire, affidandosi più alla spinta inventiva che a quella compositiva e lasciando un largo margine di ambiguità interpretativa, di cui già il succedersi dei due titoli è un sintomo. Infatti almeno due sono i piani della «storia», anche nella prima parte. C'è un Pinocchio che si «ribella ai suoî genitori e che abbandona capricciosamente la casa paterna » (come dice il Grillo parlante nel cap. Iv); ma c’è pure il Pinocchio con la sua filosofia e il cinismo del ragazzo-di-strada che dichiara: «... io.. di studiare non ne ho voglia, e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido ». L'atteggiamento dello scrittore è, per quest’aspetto, quello dell’umorista che, pur non osando contrastare le leggi, trova divertente ed ammirevole chi lo fa in sua vece: ne deriva una sovrapposizione dei punti di vista, per la quale Pinocchio è, sì, il racconto degno di un foglio moderato come il « Giornale per i bambini » di Martini, ma è anche l’occasione per rilanciare quell’umorismo dal basso, l’umorismo del po-
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Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
polino e dei ragazzi di Firenze (« Se sapeste che schiuma sono i ragazzi fiorentini », si legge già nel Sig. Albéri ha ragione !). Ecco perché anche a livello politico Pinocchio è un libro ambiguo, destinato a soddisfare opposte tendenze: quelle dei « grandi », grazie al suo moralismo programmatico, e quelle dei piccoli (di qualsiasi età), grazie alla sua critica sarcastica e divertita in nome della «libertà » e dell'avventura. Si mescolano infatti, nel succedersi degli avvenimenti, il livello
esopico zoomorfo e moralistico-didattico con quello fantastico-avventuroso, che dalle novelle popolari è passato ai racconti più letterari: Pinocchio si situa dunque fra Esopo e Perrault, pur giovandosi di tutta una sua libertà compositiva e aggiungendovi la dimensione di un realismo umoristico-caricaturale. Non a caso due registri si alternano di fronte ai poveri e ai deboli: quello, meno saliente, della predica anche aspra (tipico il brano del cap. xxIV contro tutti coloro, esclusi i vecchi e gli infermi, che vanno elemosinando: « Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare; e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro »); € l’altro, divertito ed anche canzonatorio, vicino agli atteggiamenti del ragazzo-distrada. Ecco infatti Pinocchio, guardato con cinismo picaresco, mentre se la gode di fronte alla rissa fra maestro Ciliegia e Geppetto; ecco l’ironia, amara e divertita, quando il giudice manda in galera il nostro « povero diavolo », ed ecco infine l’articolata comicità, degna di un Molière da teatrino, con cui è seguita la
scena dei medici al capezzale del burattino. Dopo il cap. xv (che portava in fondo la parola « fine ») la narrazione riprende smorzando un po’ l’interesse realistico-psicologico e accentuando il carattere fantastico, con l’introduzione della Fata, ma mantenendo tuttavia un suo equilibrio fra imprese inverosimili e glosse educative. Ad ogni modo, pur in questo equilibrio di fondo, gradualmente s’impongono nuovi motivi e perfino episodi volutamente assurdi, quasi del tutto slegati dal tessuto narrativo: si veda l’episodio del pescatore e del serpente, che è ben difficile finalizzare all’interno del racconto. Intanto l’azione procede velocissima, quasi febbrile, col ritmo indiavolato delle comiche del cinema muto, e Pinocchio appare sempre più, in questa girandola di eventi, oggetto di una dura sorte e dolorosamente scisso fra il suo ideale di rifiuto del lavoro e il progressivo inserimento, coatto, nella morale lavoratrice dei « grandi », specie dopo che gli viene inoculata la norma competitiva del cambiar stato, di passare da burattino a ragazzo, e poter così crescere e diventare « grande ». Di tale natura è questa odissea verso la normalità, e si potrebbe quasi parlare di Bildungsroman, se l’autore non avesse preferito, invece dei recuperi interiori, una vicenda tutta esterna, tutta movimento, tutta avventure. Si tratta però di un’ispirazione avventurosa ben diversa dal vitalismo positivo che circonda il protagonista del romanzo picaresco; Pinocchio si trova in mezzo a un mondo « strano », dominato da presenze e potenze estranee o superiori, di fronte alle quali viene meno ogni intenzione eroica e si affaccia una sconsolata meditazione da « poveraccio »: «... come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si mettereb-
bero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri . . . ».
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Mario Pratesi fra manzonismo
e naturalismo
e;
Certo è che Pinocchio, sempre in bilico fra la ribellione del monello e il trasformismo del povero diavolo, si trova coinvolto in situazioni pericolose, a cui riesce a tener testa con grande difficoltà o con l’aiuto dell’imprevedibile. Se lui è a volte crudele con gli altri, questi ultimi non sono da meno: basti pensare al paternalismo impietoso della Fatina o ai castighi che gli impone la Lumachina. Come in tutte le favole popolari, il mondo di Pinocchio si presenta popolato di elementi terribili: sono i fantasmi della morte che incombono sulla vita del protagonista, le cui «avventure » richiamano lontane tradizioni del salvamento e della rigenerazione, così come il «viaggio » rientra nell’antico #6pos dei riti d’iniziazione. Non a caso (anche se non forse con tutta la consapevolezza del suo autore) Pinocchio è pieno di motivi mitico-fiabeschi, abilmente mimetizzati nell’aneddotica realistica: si pensi ai motivi classici del volo sul Colombo e delle trasformazioni zoomorfe. Come un eroe di miti o favole antiche Pinocchio non vuole tanto diventare un ragazzo (motivo secondario), quanto farsi una sua esperienza, superando le grandi prove in cui viene messa in gioco la vita sua o di altri a lui vicini: ovunque si trovano presenze mortuarie (ed anzi al cap. xv Pinocchio muore davvero), e « muoiono » anche Geppetto e la Fata, cioè i sostegni affettivi (i due « genitori ») del burattino, il quale lotta appunto contro queste forze di morte che minacciano la sua integrità fisica ed affettiva di figlio. In questo sfondo «terribile» assumono un significato allusivo, al di là del piano realistico, le caratteristiche esasperate della narrazione. La sua velocità scattante, il tono da mimo significano il passaggio costante dal registro realistico a quello onirico e surreale. La stessa comicità seria, intrisa di umori funebri o spaventosi, suona come uno humour a doppio fondo, fatto più di angoscia che di ilarità: basti ricordare il motivo ricorrente dei monologhi imbrogliati di Pinocchio in stato di choc (non estranei, sembra, al teatro delle maschere), che sono i momenti
estremizzati di una tensione nascosta e sintetizzano lo spirito dell’opera, col loro stravolgimento di ogni « classicismo » fiorentino nelle forme patologiche di un discorso asintattico,
analogico, nevrotico,
quasi automatico,
un nonsense in
cui il terrore fa da matrice all’umorismo. In tale atmosfera di movimento e di comicità allucinanti, dove reale e fantastico convivono
in uno stato di costante
interscambiabilità, le « avventure di Pinocchio » sul cammino della rigenerazione contro la Morte (si ricordi l’episodio archetipico del ventre del Pescecane) assumono il significato simbolico di un viaggio alla scoperta dell’Io, al quale corrisponde, come programma ideologico consapevole, l'immediata e confortante razionalizzazione dell’etica e della pedagogia con cui la società aveva « convinto » e irretito anche l’irregolare Collodi.
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Mario Pratesi fra manzonismo e naturalismo
Con Mario Pratesi entriamo in una particolare dimensione del « verismo » nazionale: e cioè in quel filone toscano che ha caratteri suoi propri, e perché si
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riallaccia a una tradizione autoctona (e questo vale soprattutto per Fucini, come vedremo), e perché tenta un innesto sul materiale sociologico offerto dalle condizioni di vita dell’ex-granducato. Già in quello che costituisce — se si escludono le composizioni in versi del primo periodo pisano — il primo scritto di Pratesi (risalente, nella prima redazione, al ’69), e cioè nelle pagine autobiografiche dal titolo Da fanciullo, memorie del mio amico Tristano, si avanza, con un tocco affettuoso e trasognato che non ritornerà, l’evocatore e il memorialista, il ritrattista
commosso e divertito dei suoi concittadini, disegnati con la pietas un po’ ironica di chi vive fra altra gente. Ad accrescere lo spessore di queste « memorie » si aggiunge una scoperta vena autoanalitica, per cui quel «loghicciuolo nascosto, di due o tre gatti » è la terra dell’infanzia, delle prime indelebili conoscenze ed esperienze, delle prime illusioni destinate a scomparire. L’evocatore alterna due maniere descrittive: quelle liricizzanti o divertite impiegate per l’ambiente paesano e i suoi personaggi, e quelle folgorate, meditate e sofferte legate all’esperienza diretta. La narrazione rimanda quindi alla preistoria del fanciullo, ai suoi primi contatti, ai primi traumi che hanno lasciato un segno indelebile nell'uomo: «I ricordi di quel tempo mi somigliano ad una musica indefinita », dice; e aggiunge: «... altre musiche, ben diverse, ci assordano, ma quella prima continua sempre
a mandarci qualche ricordo, finché si muore ». In questa atmosfera di trasognata evocazione le persone e i fatti assumono spesso i bagliori corruschi di una Urszene, specie nella « scoperta » cruciale della madre morta, a cui si lega il primo amore per una bambina, che ebbe per lui, si legge, « pensierini affettuosi da madre ». Ma questo non è che uno dei toni di queste Memorie, paesane e autobiografiche, sentimentali e grottesche, ironiche e serie, le quali si avvalgono di un complesso gioco di molteplici punti di vista: quello dell’autore-Tristano, che finge di rivolgersi a Giuliano, l’estensore di queste «memorie » (scritte appunto in prima persona). È sulla base di tale intreccio di « voci » che si fonda il fraseggio variegato di questa prosa, in una complessiva clausola armonica che ha fatto parlare di « poemetto in prosa ». Ma questo esordio, così felice e pieno, rimane un momento
di eccezionale
abbandono anche narrativo. In seguito Pratesi, fra le mille difficoltà di una giovinezza povera e laboriosa, da autodidatta di provincia che cerca di farsi strada 1842, 11 novembre: nasce a Santa Fiora sull’Amiata. 1863-70: studia a Pisa. Conosce G. C. Abba, di cui diventa amico. 1866). Fa da segretario a Tommaseo a Firenze.
Pubblica
poesie (La notte,
1869: pubblica Memorie del mio amico Tristano. 1372: pubblica Jacopo e Marianna. È nominato professore di lettere italiane. Insegna in varie città d’Italia. 1883: pubblica i racconti In provincia. 1889: pubblica L’eredità. 1893: è fatto provveditore agli studi. 1894-5: appare sulla « Nuova antologia » I! mondo di Dolcetta, subito raccolto in volume (ed. Galli); la seconda ed. corretta sarà del 1916. Scrive ancora novelle e romanzi di minore impegno. 1906: abbandona il pesante lavoro scolastico. Continua a pubblicare. Si stabilisce a Firenze. 1921,
3 settembre:
muore.
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Mario Pratesi fra manzonismo
e naturalismo
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come può (a Pisa si legò di duratura amicizia con Abba; a Firenze fu segretario del vecchio Tommaseo) si accinse a scrivere un vero e proprio romanzo, Iacopo e Marianna (1872), il quale gli permise di diventare, per meriti letterari, professore. La situazione del romanzo è quella manzoniana (nozze contrastate), ma c’è la melensaggine alla Carcano, e in più tirate noiose sul buono e sul bello (l’amico di Iacopo è un pittore). Tutta l’opera è di un’ovvietà imperturbabile fino alla conclusione felice. Ma ci sono notazioni e accentuazioni che hanno un loro significato: Iacopo ha sì un’irruenza tramaglina, ma qualificata da una vaga ideologia di popolano oppresso, idealista-liberale (siamo prossimi all’unificazione), timorato di Dio ma anticlericale: è insomma un eroe del filone populista, sano, in-
tegro, vivace rappresentante di quel « popolo » le cui « virtù » si contrappongono alle falsità dei potenti; il che comporta che il motivo melodrammatico della onesta miseria si accompagni santamente all’esaltazione della famiglia, attraverso la figura eterea di questa nuova Lucia, Marianna, che ha il compito di contrapporre l’esempio della virtù (« un cuore pieno soltanto di Dio, di te, del figliuolo e di memorie sante consolate dalla speranza ») alla malvagità delle istituzioni. Pur nel gaudio di questo finale s’intravede il filone del pessimismo « sociale », per ora subalterno all’idealismo individualista. La complessiva arretratezza del romanzo
è confortata da un formulario narrativo anacronistico, tardoromantico
ed enfatico, a cui si oppongono certi artifici di tipo popolareggiante o colloquiale, come sono alcuni esordi o commenti, prologhi da commedia buffa o didascalie e apostrofi ironiche o sornione (del tipo: «Ma qui sento bisbigliarmi all’orecchio: « E le donne? ”’. Avete ragione! Scusino le signore ...»; oppure «il mio eroe è un impertinente! », ecc.). È un ingenuo mezzo che, rifacendosi alla mediazione manzoniana, finisce per cadere nella goffaggine strapaesana coi suoi riboboli senesi, la cui efficacia, forse involontaria, sta nell’oggettiva parodia dei canoni romantici in direzione scherzevole o colloquiale, sia pure in uno scontro di per sé perdente. Negli anni successivi l’autore tenta nuove strade e nuovi stili: nelle « novelle » e nei « bozzetti » del volume In provincia (1883), già dal titolo si sente la nuova ambizione dello scrittore, vicina a quella del verismo, per la materia che tratta e per la nuova versione data al toscanismo iniziale. Pratesi è ora attratto dalla Toscana senese-maremmana primitiva e selvaggia: si veda Un vagabondo, del ’77, dove è rappresentato questo mondo subumano di poveracci costretti a una vita di animali, perseguitati, si legge, dai «ricchi crudeli e dai sacerdoti, loro ministri», sottoposti al massacro della fatica e della malaria (esemplare la pagina sui mietitori), tanto da ridursi alla vita dei fuorilegge (nei confronti dei quali tuttavia lo scrittore assume il tono perbenistico di chi condanna le violenze ed invita al « rispetto, sommissione, obbedienza, pazienza »). Prevale in queste novelle una violenza descrittiva, che si rivela nel paesaggio, al di là di ogni tradizione ornamentale, fino a raggiungere esiti grotteschi e macabri (le tombe etrusche oppure i morti di Un ballo in convento), di ascendenza scapigliata (vedi il tragicomico bozzetto Il dottor Febo, così teso e crudele). Tale vio-
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lenza diventa condanna e sferzante ironia sugli italiani, « orgoglio dei mari — si legge in Signor Diego — come promettono le formidabili navi », oppure accusa esplicita di quei ricchi che « par che vogliano crepare d’indigestione: né si ricorderanno di chi non ha né casa né tetto, e muore di fame e di fastidio ». Tuttavia la durezza della rappresentazione e delle rampogne quasi mai si fa accusa sociale: l’autore preferisce immergere questo mondo di miseria e sopraffazione in un pessimismo complessivo, che tocca la vita bestiale dei suoi poveri e dei suoi vagabondi o banditi, ma impregna ancor di più, come già si vedeva nel primo romanzo, la «civiltà» cittadina, oltre che quella contadina. Il romanzo L'eredità, del 1889, narra appunto la vicenda di una famiglia di contadini che, a contatto con la città (Siena) e spinti dal desiderio di cambiar stato, si accaniscono intorno ad un’eredità e la ottengono con la frode, finché la punizione non li colpisce: più che mai prevale una nota cupa e violenta, dettata da un moralismo rigido e perfino angusto, da predicatore fedele al testo biblico e paolino. Al di là comunque di tale pessimismo (o almeno delle sue motivazioni esplicite) L’eredità s'impone per la compattezza della sua ispirazione naturalistico-verista, che concentra l’attenzione dell’autore su due temi di fondo, la « vita dei campi» di questa Toscana primitiva, e la potenza del denaro. Su queste basi nasce un’opera materialistica, nel senso almeno di una materialità terribile e opaca, come la poteva concepire un rigorista estraneo al positivismo (non si dimentichi che quasi tutti i racconti di In provincia uscirono sulla « Rassegna settimanale », che non fu certo, nel suo programma riformista, un giornale polemicamente materialistico), pronto a cogliere quanto c’è d’animalesco e di sordido in questi contadini aridi e avari. Tutta l’opera è, nelle sue linee maestre, il ritratto impietoso di una
maniera di vivere « precivile », tipica di un mondo tagliato fuori dal progresso, in una zona di riflusso storico in cui prevale un primitivismo degradato (anche l'ambizione di polemizzare con il passato codino-lorenese e di dare uno sfondo storico alla narrazione è sacrificata all’immediatezza di una rappresentazione «verista )). Pur continuamente disturbato dai commenti moraleggianti, il racconto procede per la via di una rappresentazione scabra, violenta, sgradevole: se i contadini Casamonti vivono nella brutalità della natura, in luce anche peggiore si presenta l’esistenza dei cittadini, quella dell’osteria del sordido e corrotto Fernando e dell’avida Beppa o quella della casa di tolleranza in cui finisce Amerigo. Dovunque Pratesi si volga, non vede che luoghi di miseria e d’infamia, tutti dominati da uno stesso egoismo e dalla legge universale di un basso utilitarismo. Pur intervenendo spesso, l’autore non assume come punto di vista narrativo quello della sua ideologia « religiosa », così come evita di scegliere fra i terribili personaggi il suo «eroe »: la continuata « cattiveria » della rappresentazione appare come un’imparzialità che si trasforma in oggettività narrativa; quasi un’inaspettata vittoria dello studio « verista » sulle preoccupazioni morali. La bestialità e la corruzione sono le due furie che ispirano la parte più viva del romanzo: tanto che la campagna assume i contorni di un mondo zoomorfo, mentre la città
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Mario Pratesi fra manzonismo
è stravolta dall’imperversare
e naturalismo
del denaro
e del sesso.
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Questa corruzione
assume
il rilievo di un disfacimento fisico, di uno stravolgimento esteriore, di un vero e proprio orrore visivo, che diventano la cifra, originale e geniale, delle pagine al limite dell’espressionismo. Si legga l’episodio delle maschere nel bordello, oppure quello della degenza di Amerigo in ospedale, dove decadenza, schifo e violenza danno un senso di stordita allucinazione e di grottesca crudeltà: Alcuni di que’ letti erano vuoti, ma nei più facce tristi e slavate d’infermi di tutte l’età: dal fanciullo scrofoloso al vecchio decrepito: altri seduti sul letticciuolo, e altri giacenti, e taluno con su i piedi il passaporto, cioè la stola nera. Un odore nauseabondo quale si sente nei vecchi spedali, un odore di farmachi e d’altre cose, contribuiva pure a rendere increscioso quel camerone: un camerone tutto bianco, salvo che qua e là,
di sotto le scrostature del barbaro intonaco, scappava l’ala acuta di qualche serafino biondo o il lembo azzurro di qualche Vergine medioevale. [. . .] Intanto una monaca andava sempre su e giù per la desolata corsia, con un monotono sbattimento di chiavi e di paternostri sull’anca sformatamente massiccia. Dava grandissima importanza ai nonnulla, e suscitava per la più piccola faccenduola un gran moto di gambe e di voci. Pareva che dipendesse tutto da lei: la vita e la morte, la dannazione e la salvazione, i bisogni spirituali e anche i corporali degli infermi. [. . .] A una giovane servigiale ripugnava di toccare qualche cadavere, e lei diceva: « Ecco come si fa! ecco come si fa! » e lo brancicava e lo rivoltava e lo trascinava sola il cadavere nel fetente lenzuolo (da L’eredità, cap. IX, ed. cit., pp. 142-3).
Purtroppo questo timbro sgradevole e feroce non sorregge tutta la narrazione. Spesso il narratore-pedagogo insorge contro ogni esemplarità oggettiva di tipo naturalistico e si ripropone il vecchio modulo di un lettore subalterno alla « verità » dello scrittore. In tal modo si sminuisce l’autenticità della rappresentazione: come avviene nel finale moralistico (non troppo lontano dal populismo di Jacopo e Marianna), nel quale si predica la « raccomandazione di non desiderare troppo le ricchezze e le eredità, e di andare sempre per la via retta, che è la più liscia ». Certo questo moralismo predicatorio non è la dimensione di In provincia 0 dell’ Eredità; ma è pur sempre, di contro alla spregiudicatezza naturalistico-veristica, il segno di una educazione e di una mentalità «toscane », che rivelano la
ristrettezza e la scarsa efficacia di un ipotizzato « verismo » locale, nel senso militante e innovatore che il termine aveva in questi anni. Né poteva essere diversamente, se si tiene presente l’esclusione (e l'opposizione) di ogni istanza positivistica. Rimane il generale senso di pessimismo che nasce dallo studio di queste terre depresse, dalle viscere di questa Italia « reale »; ma anche qui occorre fare le opportune distinzioni: ché laddove il pessimismo dei veristi-naturalisti nasce da una concezione pessimistica del mondo, quello di Pratesi è invece un pessimismo di ritorno, proprio di chi ha una fede, sia pure contristata dalla realtà, fede a cui si richiamano ogni conoscenza e ogni giudizio. È il ri-
Regionalismo,
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verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
gorismo cristiano che misura ogni azione ed esclude la sottomissione dell’uomo alla natura; non a caso così, religiosamente, Pratesi scrive intorno alle leggi na-
turali: « Ammiriamo — dice — il provvido magistero della sapientissima natura che non produce nulla d’inutile, riconosciamo anzi che tutto è infinitamente benefico, tutto è prezioso nell’universo ». È un luogo comune provvidenzialistico, che contraddice quella materialità oscura e terribile di cui si è parlato; ma è di qui che si svilupperanno poi le forme tardive di quel totalitarismo mistico, che si ritrova in certi scritti del volume Di paese in paese (1892) (si pensi ad affermazioni del tipo: «la morte,
il male, il dolore non
esistono realmente, ma solo
come illusioni sensate e parziali dell’individuo: il tutto le ignora affatto »). D’altra parte le teorie artistiche di Pratesi sono legate a questa ideologia moraleggiante: in un articolo dell’87, Arte vecchia e nuova (in Di paese in paese), c'è un'aspra polemica contro il « carattere di volgarità e di meccanicità » degli scrittori moderni, e altrove viene auspicata la possibilità di «accordare, nella misura dell’arte, i tratti della reale esperienza con ciò che il poeta, la storia, la tradizione, la fede hanno in lui trasfuso ».
Su queste basi di « storia, tradizione e fede » si fonda il romanzo Il mondo di Dolcetta, uscito in una prima redazione nel 1895 e in forma definitiva nel 1916. In esso prevale lo studio psicologico-moralistico sul mondo aristocratico e borghese, visto in controluce alla realtà storica della Toscana del ’59. Con la nuova ispirazione nasce anche una diversa struttura del racconto: mentre nell’Eredità si notava una certa semplicità di mezzi (ad esempio, i personaggi erano pochi, tutti legati alle stesse torve passioni, e quindi la loro psicologia era unanimemente elementare), nel Mondo di Dolcetta c’è invece un gioco complesso di vicende e di personaggi, studiati in profondità e incastrati in una trama fitta e calcolata di interazioni (secondo un procedimento a catena, per cui un personaggio di secondo piano diventa di primo piano nell’episodio successivo, e così via). Insomma l’ambizione è ora quella di darci un affresco del morente granducato, seguendo la logica empirico-mimetica per cui i « fatti) sono calati in un momento più generale di storia e in esso trovano una loro conclusione morale. Anche per questo aspetto siamo all’opposto dell’Eredità, che si presentava nella forma di una vicenda fuori della storia, immersa in una natura « eterna ) come
«eterne » erano le maledette passioni dei personaggi: il che spiega la tenuità dello svolgimento e quella dimensione da giustizia patriarcale che vuole un ordine immobile. In verità con Il mondo di Dolcetta Pratesi retrocede da un verismo paranaturalistico, per riallacciarsi ai toscani preunitari, ai loro ideali di classicismo moraleggiante, e quindi rifiuta il canone della semplicità (supremo approdo del verismo italiano), per riprendere le fila del romanzo psicologico realistico di stampo manzoniano. Ne derivano l’identificazione dell’io narrante col commentatorepredicatore, e la ripresa, al livello di Jacopo e Marianna, della contrapposizione fra personaggi buoni e cattivi. Solo che nell'ultimo romanzo il potenziale edificatorio, proprio per la più elaborata costruzione complessiva, non si svela diret-
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Il bozzettismo macchiaiolo e campagnolo di Renato Fucini
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tamente, opera come controspinta destrutturante, come elemento di disturbo dell’autore interposto fra il narratore e il lettore. Ma nel complesso una diversa ideologia sovrasta il romanzo. Lo stesso intento patriottico è coinvolto in un tipo di preoccupazioni « superiori »: l’eroe non è più, come Iacopo, di necessità liberale così come il cattivo non è codino o legittimista, ma, peggio, materialista e ateo, come il dottor Ignazio. Così succede che in questa cronaca toscana si disperde il significato storico e si fa avanti un pessimismo religioso, che si trasforma in una concezione spirituale, e cioè repressiva, della morale. Infatti si dice che il dottor Ignazio aveva corrotto Costanza per la sua pretesa di fare «anche di lei uno spirito forte e superiore a ogni religione: una superiorità — si precisa — che l’abbassava sotto la croce dei x
sensi, che, tra le croci umane,
è la più obbrobriosa;
aveva voluto innalzarla a
quella che egli chiamava libertà spregiudicata, e che non è se non l’emancipazione da que’ sapienti freni morali che mantengono i nostri pravi istinti in un relativo equilibrio, e in una subiezione benefica a noi e agli altri ». Siamo al centro del moralismo più sfrenato, quel moralismo che cova sotto tutta l’opera di Pratesi e che si libera allorché l’impegno descrittivo del verismo non agisce più come benefico correttivo. Da questo momento in poi il romanziere darà libero corso al suo impegno di restauratore dei valori « autentici » (lo « spirito », la religione, la famiglia) contrapposti ai pericoli dell’età moderna: è una concezione vecchioborghese che si difende di fronte al dilagare dell’ideologia della nuova borghesia; è insomma la Toscana leopoldina che non riesce ad adeguarsi alla integrazione nazionale. Nelle ultime opere (Le perfidie del caso, 1898; Il peccato del dottore, 1902; La dama del minuetto, 1910, e altre uscite nella « Nuova antologia ») sempre più esplicito, nel suo crescente anacronismo, si fa il retroterra paolotto dell’arte di Pratesi, che simboleggia il generale moderatismo e l’arretratezza della cultura toscana anche dopo l’unità.
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Questo moderatismo antiquato (vivo specie nella cultura della provincia) ha condizionato in varia maniera anche scrittori « paesani » più liberi e leggeri, come Ferdinando Paolieri (1878-1928) e, prima di lui, il più folkloristico Ildefonso Nieri (1853-1920), tutto legato alla sua Lucchesia. A tale incrocio fra toscanismo e verismo si rifà l’opera di Renato Fucini (1843-1922), noto anche con lo pseudonimo di Neri Tanfucio, la cui « carriera » ha più di un punto in comune con quella di Pratesi. Anche lui infatti, pur senza laurea in lettere (aveva studiato agraria a Pisa), giunse, per meriti letterari, all'insegnamento e poi all’ispettorato scolastico. Il reclutamento degli intellettuali attraverso le forme impiegatizie assicurava una piena adesione conservatrice a livello ideologico-politico: Fucini non sarebbe stato da meno di Pratesi, prendendosela, in tarda età, con «i più volgari demagoghi arruffapopoli » (cfr. Acqua passata) e inveendo contro i
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Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
«liberaloni [. . .] che credono d’essere schiavi perché guardie e carabinieri italiani gli sono d’impaccio ad empirsi le tasche con la roba degli altri » (come dice in Foglie al vento). La prima opera di Fucini sono i Cento sonetti in vernacolo pisano del 1872 (cui seguirono altre poesie, in dialetto e in lingua): da essi gli derivò la fama di poeta dalla parola e dalla battuta pronte, tutte interne a questa produzione « popolare » e « minore ». In effetti il tono dei versi è piacente e ridanciano, specie per quell’andatura conversevole, di botta e risposta, che dà ai sonetti lo spazio di commediole minime, argute e piccanti, tutte gestite dai ceti inferiori di una Pisa beceresca. In tale teatrino di provincia si rappresenta la vecchia commedia del « popolo », che sa cavarsela con parodie o barzellette, e così evidenzia, mentre cerca di nasconderlo, il suo modus vivendi da subalterno, diviso fra mo-
ralismo e qualunquismo: la « saggezza » di questi pisani non ha un'ottica di classe, se non nella misura in cui può averla un commento dal basso alle istituzioni e novità politiche tipico di uno stato di ignoranza e superstizione, stato che l’autore sottolinea col compiacimento del « signore » che se la gode a sentirne di così grosse. Si veda il sonetto La ’olte dell’assisi (La corte d’assise), tutto mosso e anzi spezzettato dal solito dialogare curioso e attento, dove la storia del servo che ha ucciso il padrone è ridicolizzata dalla « spiegazione » del « povero reo », il quale precisa: «’r delitto nun è premeditato / pelché avanti lo feci anco avisare ». La clausola umoristica nasce appunto dall’indifferenza verso la materia triste, poiché all’autore interessa solo il gioco di per sé, come se fosse fuori di ogni dialettica sociale. Si sviluppa così una specie di muto accordo fra il perbenismo passivo e disimpegnato dell’autore e le critiche o i commenti messi in bocca a questi poveracci: si vedano i sonetti in cui sono bersagliate le istituzioni del nuovo stato, come quello su Er voto universale, con la figura del popolo che se ne infischia delle elezioni e si lascia corrompere; o quello su Er parlamento, in cui l’ignoranza politica del popolo è presentata come innata, degna di riso più che di pietà. Sulla « Rassegna settimanale » anche Fucini pubblicò molte delle novelle, raccolte poi nel volume Le veglie di Neri (1884), cui fecero seguito le « novelle » e 1 «bozzetti» di All’arza aperta (1887). La dimensione ristretta, quasi miniaturistica, di questo « verismo » campagnolo è frutto di una felice autolimitazione per uno scrittore di gracile vena narrativa, portato semmai a costruzioni più statiche e chiuse, fra ritratto e commedia: non è un caso che, come già nei sonetti, così nelle novelle prevalga una capacità di dialogo di grande vivacità, prontezza e verosimiglianza, con locuzioni dialettali o imprecazioni popolari ben intonate. In altri contesti invece il ricorso al parlato o riesce a una amabile scioltezza di narratore rustico al focolare di un casolare toscano (luogo prediletto, o comunque
postulato, dalla novella fuciniana), o si colora di un’affettazione
di
rusticità espressa per bocca di un parlante colto. Il linguaggio delle novelle rispecchia l’intimità dello scrittore con il suo mondo campagnolo, da cui 'deriva la naturalezza di questo «verismo», tutto legato all’Aic et nunc di una vita ristretta
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entro i limiti di una sottociviltà rusticana. Comunque questa naturalezza non implica che il piglio bonario dello scrittore borghese compenetri il mondo contadino: è' semmai l’atteggiamento di uno che vive fra di loro, nel sistema a mezzadria, dove esistono contatti più stretti fra «signori» e contadini, senza che perciò venga ridotta la separazione classista. Da questa disposizione sociale nasce la simpatia dello scrittore per i suoi personaggi, il paternalismo di chi si diverte o si commuove guardando alle loro vicende, senza predisporsi a comprenderne la logica (si veda il delitto d’onore di Tigrino, narrato con compatimento, senza dare al lettore, attraverso coordinate psico-sociali, la possibilità di comprenderne le motivazioni). Il narratore è spesso il personaggio narrante della novella, che osserva e partecipa alla vicenda, mantenendo le sue caratteristiche sociali di esponente delle classi superiori, pronto a versare una lacrima, a fare un po’ di elemosina o a dare una pacca sulla spalla, cosicché i contadini possano esclamare: « Oh, se tutti i signori fossero come lei! » (cfr. L'eredità di Vermùtte, in All’aria aperta). Proprio per questa familiarità col « suo » mondo a Fucini è negata la dimensione drammatica o tragica della rappresentazione: si veda, nelle Veglie, Sereno e nuvole, la storia di taglio verghiano col suo tragico duello, dove, pur nella pretesa di una cornice impassibile, manca proprio la tensione tragica, in agguato fin dall’inizio. Tutto il racconto ripropone i soliti quadri « toscani », con il solito indugio sui colori locali, cosicché la tragedia si scarica deviando lungo il corso la tensione del dramma; non a caso le «tragedie » di Fucini volgono sempre al patetico (cfr., ad es., Lo spaccapietre e Fiorella). Il bozzetto larmoyant è il genere più frequentato in queste pagine e anche il più facile. Tuttavia Fucini ambiva molto a raggiungere anche traguardi di un umorismo rusticano libero e schietto: ma si tratta di un umorismo beffardo, nel senso che nasce sempre da una situazione di « beffa » perpetrata ai danni dei contadini da un borghese, « beffa » che è il vero pendant della bonomia o del patetismo pelosi di altre pagine. Colpisce comunque constatare che patetismo o umorismo si trasformano in un’ironia acre e perfino malevola quando l’autore non affronta più casi singoli, ma spaccati di vita contadina; insomma di fronte agli agglomerati sociali (villaggi o paesi) la disposizione dello scrittore è quella del « cittadino » schifiltoso e sprezzante. In novelle come La fonte di Pietrarsa o Il monumento (in All’aria aperta) si vuole dimostrare quanto stupida sia la vita collettiva di questi paesetti, dove il « popolo » appare ignorante e fazioso, oltre che imbecille. Per Fucini non ci sono dubbi: tutte le volte che il popolo entra in scena, con lui entra la stupidità. Ed è questa la giusta conclusione a cui arriva il populismo antipopolare di un borghese campagnolo sicuro della sua fede antidemocratica, che non sa parlare se non con il linguaggio ovvio del potere costituito. Il «verismo » di Fucini si carica degli umori razzistici propri di un colonialista toscano di fronte ad altre civiltà meno coltivate e meno « pulite »: com'è ad esempio la plebe napoletana, di cui lo scrittore si occupò, per la « Rassegna settimanale », nello studio Napoli a occhio nudo
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(1877), dove si parla espressamente di « vergogna dell’umanità » e di « pericolo manifesto di espansione e di contagio per le altre provincie d’Italia ». Tuttavia è possibile assaporare qualche novella su cui meno diretta è la pressione ideologica dell’autore, e gustare soprattutto quel linguaggio parlato di viva toscanità (che piaceva a Manzoni e a suo genero, l’ultratoscanista Giorgini), quando si libera dalle tentazioni delle leziosaggini (diminutivi-vezzeggiativi) e dà vita a quel gioco di vivacità descrittiva che arricchisce il livello prenarrativo della prosa. Si prenda la novella Scampagnata, dalle Veglie, in cui è di scena la solita «ignoranza orgogliosa » dei paesani contrapposta alla buona educazione dei cittadini. Dove questa contrapposizione prevale, il racconto prende il tono di distacco e di condanna che mal si maschera dietro un pesante umorismo; in genere però Fucini riesce a portare avanti l’odissea del povero ospite cittadino capitato in una casa di rozzi campagnoli sul filo di un contrappunto comico al limite del grottesco. Presentato con tutti i requisiti della comicità di una caricatura è, fra gli altri personaggi, quello della signorina Olimpia, la letterata di casa, agghindata con «in capo una pamela di paglia giallo sudicio guarnita con un tralcio d’ellera naturale » e con «due pendoni di capelli impecettati » che «le scendevano con dolce voluta quasi fino sulle guance leggermente salsedinose ». Già in questa presentazione si noti il crescendo burlesco delle caratterizzazioni, che contrappongono preziosità, per così dire, petrarchesche ad altre bernesche (l’alternarsi di parole « comuni » con altre dotte corrobora l’effetto ridicolo): è un ritratto che anticipa la psicologia della poetessa, con le sue velleità di cultura e di eleganza contraddette dalla realtà mediocre di donna grossamente manierata e culturalmente provinciale (si veda il felice dialogo su Leopardi, romanziere incompleto: «non c’è un episodio finito... Lo stesso è dei caratteri. Ci sarebbe quello di Nerina, che sarebbe bello; ma, Dio mio, è così poco spiegato! . . . »). Il diapason della descrizione burlesca è raggiunto al momento del pranzo, una vera orgia pantagruelica in cui le vivande sotterrano il povero ospite. Qui la dimensione del ridicolo si dilata fino al limite del grottesco, e sfiora il mostruoso: l’invitato-narratore non è più solo un osservatore che si diverte, la situazione gli ha preso la mano e il rito parodistico di questa inesauribile mangiata non lo diverte più, lo mette in pericolo. La situazione cessa di apparire ridicola e comincia a suscitare un senso di pena; o meglio ancora si presenta come un tumulto cibario da cui il cittadino cerca di salvarsi. Si spiega così il penoso e preoccupato humour, che diventa dominante e dà una nuova cifra a tutta la scena: Questa gentilezza di Gostino fu il segnale dell’attacco vestito in pieno dalla spaventosa valanga delle cortesie di Gostino messe a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, sfamare un can da pagliaio, fatta rovinare dalla forchetta gran manata del Cappellano nel gomito di Gostino. « Non lo finisco ». «Senza pane, perdio! ».
«È impossibile ».
[...] e mi trovai allora incotesta buona gente. e giù una frana di ciccia da del sor Cosimo e da una
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Verismo, romanticismo e bozzettismo nella narrativa meridionale
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« Dunque è segno che il pollo non gli piace!». E giù, anche una targa di manzo. E bisognò che mangiassi ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s'era a nulla! Infatti cominciò la succulenta dinastia degli umidi. [. . .] Dio signore! non ne posso più. E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il resto non bastasse, le mosche insistenti dell'autunno mi finivano per conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù per le gote! [...] E il sor Cosimo sempre più feroce m’assaliva con una cucchiaiata d’erba perché era roba leggera, e il prete, con una stiappa di ciccia che mi buttava nel piatto da lontano ... [. . .] Ma la tempesta delle gentilezze mi si scatenò addosso più furibonda che mai dopo il buonumore suscitato nei miei aggressori dalla riuscita dell’ultima bottiglia. Mi trovai il piatto pieno a cupola di uccelli che mi piovevano da tutte le parti; e uno me ne tirò nel viso il bambino fra le risate dei parenti che restaron sorpresi dallo spirito di quel ragazzo (Tutti gli scritti cit., pp. 146-7).
Questo « attacco » culinario (si notino appunto i termini militari e guerreschi) incalza senza requie il poveraccio, finché la situazione precipita nel patologico, con l’« insulto di core » di cui cade vittima, per eccesso di cibo, un commensale. Da questo momento lo stesso ospite, « gonfio come un rospo e con un cerchio di ferro alla testa »), si trova coinvolto in una atmosfera irreale, di una com-
plessiva deformazione che ha i caratteri di un grottesco, di un comico degradato e spiacevole, in cui il disagio del « civile » invitato si carica della violenza di un rifiuto schifato, che mette a nudo la natura dei rapporti possibili fra civiltà rurale e civiltà urbana.
Insomma,
l’intento di individuare nella rusticità toscana una
zona di ilarità « naturale » si rivela in realtà impraticabile proprio per le strutture psicologico-sociali attraverso cui filtra questa comicità: la verità è che il ricorso al riso lascia vedere in trasparenza la disumanità reale di uno stato di « beffa » « naturalmente » subalterno alla fruizione del beffatore-sfruttatore.
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Verismo, romanticismo e bozzettismo nella narrativa meridionale
Minore diffusione ebbe la scuola veristica nel Sud dell’Italia, dove manca-
vano i centri culturali, se si esclude Napoli, a cui fecero riferimento i letterati meridionali. A Napoli incomincia la fortuna del calabrese Nicola Misasi (18501922), che pubblicò i suoi primi racconti su riviste e poi in volume: sono i Racconti calabresi usciti nell’81, cui seguirono altre raccolte narrative, come In magna Sila (1883) e Anima rerum (1889), scritti d’illustrazione regionale, ed alcuni romanzi, come Briganteide (1906), che riunisce due volumi precedenti, e Frate Angelico (1892). L’opera di Misasi si ricollega, sotto un certo aspetto, al grande esempio verghiano, e deve la sua fortuna appunto a quella ventata di regionalismo, che attraversò tutta l’Italia e fu qualche volta scambiata per l’ispirazione verista, pur nascendo da presupposti solo parzialmente eguali. Infatti il regiona-
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Regionalismo,
verismo e naturalismo
in Toscana e nel Sud
lismo di Misasi, anziché rappresentare un modo di vivere e di lavorare nella loro oggettività « scientifica », intendeva rivelare ai lettori colti dell’Italia unita le zone misconosciute dell’Italia regionale. Il fine degli scritti calabresi di Misasi è dunque di carattere apologetico e illustrativo, estraneo ad ogni pretesa di oggettività e ad ogni programma di rappresentazione antirettorica. In realtà tutta la sua opera nasce dall’ambizione di scoprire ed esaltare la « nobilissima » terra di Calabria, con tutte le sue caratteristiche più appariscenti e stupefacenti: le violente passioni in primo luogo, i grandi caratteri, le straordinarie tradizioni, le terribili morti, i duelli, gli omicidi; insomma una diffusa violenza, che è presentata come violenza innata, « naturale », e non come risposta ad una situazione
sociale. Si veda uno degli argomenti prediletti dell’autore, il brigantaggio, che ritorna in moltissime pagine, come una delle caratteristiche più « interessanti » della Calabria: esclusa ogni forma di spiegazione politica o sociale, esso è rappresentato come un fenomeno che sta fra l'ammirazione e la paura, e che comunque l’autore si guarda bene dal giustificare sulla base di una documentata situazione economico-sociale. Questo spiega perché in Misasi manca quasi del tutto ogni forma di denuncia oggettiva, che metta sotto accusa l’amministrazione « piemontese », o almeno ne metta in dubbio l’efficacia, se non la giustizia. L’unico eventuale elemento di non allineamento lo si può trovare nell’esaltazione quasi campanilistica della terra natia, che tuttavia non è un motivo di contrasto, ma un’altra
maniera di esacerbare il proprio patriottismo: il regionalismo, infatti, si propose, sì, il compito di mostrare agli occhi dell’Italia legale la verità dell’Italia reale, ma lo fece troppo spesso come se si trattasse di un tributo di fedeltà alla « grandezza » della madre-patria; e così si spiega perché esso abbia fornito, dopo l’unità, uno dei temi più ricercati e stimolati dalle riviste e dagli organizzatori culturali più organici alla cultura nazionale (ad esempio, fu Martini fra i primi a lanciare Misasi). D'altra parte la narrativa di Misasi risente, più ancora che del verismo, del pathos romantico della letteratura melodrammatica di cui si pasceva ancora la provincia italiana: lo scrittore insiste spietatamente nell’ammassare le truci ombre delle passioni e dei delitti in un paese cupo e selvaggio, e, prima di arrivare alla disumanità di certi costumi di cui il verismo lasciava testimonianza, si
sofferma sulla succulenta barbarie di questa terra di passioni indomabili. Prevale spesso un certo terribilismo di scuola victorhughiana, che sconfina nell’orrido e si sublima nell’idealità delle passioni nobili e grandi (specie in romanzi «avventurosi » come Frate Angelico): insomma il regionalismo è un aggiornamento della vecchia letteratura romantico-popolare. Ad una misura più sobria e coltivata di « verismo » regionale si conforma l’opera dell’abruzzese Domenico Ciampoli (1852-1929), uomo di larga cultura, noto studioso e traduttore di letterature slave, che gli procurarono una cattedra universitaria. Il suo esordio fu appunto di scrittore verista, con i primi due volumi di « novelle abruzzesi », Trecce nere dell'82 e Cicuta dell’84 (dello stesso anno è Diana); in seguito raccolse le sue novelle in Fra le selve (1890), e abbandonò il genere verista per dedicarsi a romanzi di più complicata natura, come // barone
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Verismo, romanticismo e bozzettismo nella narrativa meridionale
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di S. Giorgio (1897). Per Ciampoli l’esempio di Verga fu certo determinante: il buon fiuto letterario e la coscienza critica lo resero avvertito della grandezza verghiana, sia nelle sue rese stilistiche sia nei presupposti programmatici. Si avverte in ogni pagina di Ciampoli il desiderio di aderire originalmente al mondo espressivo dello scrittore catanese e di ritracciare un suo Abruzzo secondo le linee della Sicilia verghiana: è veramente interessante constatare come lo stile di Verga influenzi la prosa di Ciampoli, dandole una forza nervosa e un’asciuttezza che non si ritrova in altri imitatori. La verità è che una viva sensibilità, aiutata da
una vasta cultura, gli permise di assimilare con discrezione il nuovo stile verista, senza cadere in eccessi mimetici o scolastici. Va solo aggiunto che il « verghismo » di Ciampoli rimane a livello degli stilemi e delle atmosfere, presentandosi nel complesso come una forma di addolcimento, di mediazione pacata e vagamente, pudicamente, sentimentale. Si ritrovano certe esclamazioni di tipo popolare-discorsivo (come « Cristo inchiodato »), che cercano di riprodurre il discorso indiretto di Verga con le sue intrusioni di discorso diretto assunto dalla parlata viva e franca dei personaggi; in definitiva però Ciampoli scrive in una prosa ancora troppo corretta e tradizionale per ambire alla forza della maniera verghiana (è d’altra parte sintomatico che egli abbia scrupoli tradizionalisti proprio di fronte al discorso indiretto
libero).
Quello che comunque
ne menoma
alla radice il verismo è la disposizione verso la « sua » terra, che non è l’orgoglio provinciale di Misasi, ma neppure il distacco e la passione di scoperta di Verga: Ciampoli vede negli Abruzzi un terra selvaggia, ma insieme carica di sentimenti amabili, ed invita il lettore a questo tipo di conoscenza complessiva, sì che, come dice nella Prefazione a Fra le selve, si possa rinnovare «la simpatica fama per la quale i nostri Abruzzi son detti forti e gentili ». Così ad esempio nella novella Maestrina le terribili prove a cui è sottoposta una maestra in un paesino abruzzese, selvaggio ed ostile, sono, sì, presentate
nella
loro brutalità, ma s’inseri-
scono anche in un contesto pietoso, con i personaggi buoni che in qualche maniera servono a bilanciare quelli cattivi. Si potrebbe dire, generalizzando, che l’autore tenta di correggere il sentimentalismo inserendolo in una rappresentazione nervosa, realistica, perfin cruda: si veda ad esempio anche la storia dell’infelice passione della protagonista di Cicuta, o il delitto d’onore, ma anche di giustizia, della Festa delle serpi. Insomma anche per Ciampoli l’esigenza di correggere la durezza del suo verismo nasce dal tipo di conoscenza « sentimentale » e non scientifica del « suo » mondo: gli Abruzzi sono terre di grandi bellezze e grandi sentimenti, ma le sue condizioni di vita ci sfuggono, o ci vengono presentate sempre in maniera subalterna all'immagine generale della regione; anche di fronte al terribile problema dell’emigrazione, di cui si tratta specificatamente in due novelle (A/ di là dal mare e Di qua dal mare), prevale il tema delle passioni su quello economico e i personaggi non assumono mai le caratteristiche tipiche di un sistema di sfruttamento che sta « prima » delle loro passioni. D'altra parte questa intonazione, sempre calata in una visione sobria e ferma, si rifà al moderatismo dello scrittore, che non ha alcuna pretesa di contrapporre il suo mondo a quello
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Regionalismo,
verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
«civile »: cosicché lo ritroveremo, negli anni avvenire, fra quanti intenderanno svuotare di ogni contenuto rivoluzionario il verbo naturalista, fino al punto di presentare uno Zola «machiavellico » che avrebbe mostrato «di che lagrime grondi e di che sangue ogni rivendicazione violenta »! (cfr. la Commemorazione di Emilio Zola, Chieti 1903). Una mescolanza di motivi
naturalisti, veristi,
regionali, si ritrova in molti
scrittori meridionali che iniziarono la loro carriera intorno agli anni ’80, per poi seguire tutt'altra ispirazione, adeguata alle nuove mode letterarie. Specie a Napoli è possibile incontrare scrittori di questo tipo, come il giovane Scarfoglio del Processo di Frine, o come Amilcare Laurìa (1854-1932) che pure alternò al gusto verista-macchiettistico di certe novelle e di Povero don Camillo (1897), che piacque a Capuana, una facile vena di realismo estravagante e colorito, nonché un gusto particolare per la ricreazione di ambienti storici napoletani. In generale tuttavia Napoli non può essere definita un centro del moderno verismo, neppure quando vi ritornò l’ormai famosa Serao. Un tentativo in senso verista cercò di appoggiare la « Rivista nuova » di Carlo Del Balzo, uscita a Napoli intorno all’80, a cui collaborarono Verga, Capuana, e soprattutto Ciampoli e il napoletano Federico Verdinois (1849-1927). Questi scrisse alcuni volumi di novelle con lo pseudonimo di « Picche » (Racconti, del ”78; Nuove novelle, dell’82), gustosamente ispirate allo psicologismo di marca francese; ma le sue cose migliori sono nel campo giornalistico, i Profili letterari napoletani (1882) e i Ricordi giornalistici
(1920). $ 60.
Matilde Serao fra cronaca ed elegia
Nella Napoli degli anni ’80 farà le sue prime prove narrative la giovane Serao. Era una Napoli inquieta e confusa, legata ancora alla letteratura regionale 1856,
7 marzo:
nasce
a Patrasso da un emigrato
napoletano
e da una
greca.
1869: la famiglia rientra in Italia e poi a Napoli. 1872: si iscrive alla Scuola Normale. Prende il diploma da maestra. Si impiega ai telegrafi. S’introduce nel mondo giornalistico. È redattrice del « Corriere del mattino» diretto da Verdinois. 1878:
pubblica una
1882: si trasferisce 1883: 1884: 1885:
raccolta di bozzetti col titolo Dal vero.
a Roma.
Redattrice di « Capitan Fracassa » e collaboratrice di molti giornali
e riviste, fa nuove amicizie, fra cui D’Annunzio. esce Fantasia. escono I/ ventre di Napoli e La virtù di Checchina.
sposa Scarfoglio; pubblica La conquista di Roma e Il romanzo marito « Il corriere di Roma ». 1886: Scarfoglio fonda « Il corriere di Napoli »; lo segue a Napoli e la fortunata rubrica « Api, Mosconi, Vespe ». 1887: pubblica il romanzo Vita e avventure di Riccardo Foanna. 1890: pubblica Il paese della cuccagna, uscito nel nuovo giornale diretto sempre a Napoli. E parte attiva del giornale. 1902: si separa dal marito. Fonda poi il giornale « Il giorno », che la periodico « La settimana ». Continua a scrivere novelle e romanzi, senza
più estro.
1927, 25 luglio: muore
a Napoli.
della fanciulla.
Dirige col
collabora al giornale con dal marito « Il Mattino »,
occupa molto, e anche il richiamandosi a Bourget,
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Matilde Serao fra cronaca ed elegia
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preverista e divisa nel campo filosofico fra l’affascinante produzione degli hegeliani e il positivismo altrove imperante. La letteratura risente solo in parte di questo travaglio culturale e incontra più di una difficoltà a mettersi al passo con il naturalismo-verismo della più recente narrativa. Autonomamente, e quasi autoctonamente, operò l’infaticabile Francesco Mastriani (1819-91), che fu il romanziere d’appendice per antonomasia e quasi un preverista nelle sue descrizioni accuratissime della Napoli popolare e dei suoi caratteristici « bassi » (e per questo fu ricordato con rispetto dalla Serao). Fra le moltissime sue opere, allora famose, ricordiamo Vermi (1863-4), non tanto per la pretesa di rappresentare le cause della corruzione e della miseria napoletane, quanto semmai per il quadro vivissimo che se ne ricava, ricco di particolari e di ritratti. Celebre fu anche / misteri di Napoli (1869-70), ove, prendendo spunto dal celebre I misteri di Parigi di Sue, l’autore vuole restituirci una Napoli segreta, pullulante di uomini, azioni, modi di vita « interessanti », descritti col calore passionale che deriva dal «socialismo » umanitario dello scrittore. Con Matilde Serao veniamo a contatto con un fenomeno tipico della cultura dell’Italia unita: cioè con quella letteratura che accettava certe formule realistiche sdegnando nello stesso tempo ogni impostazione positivistica, secondo l’ottica di un pubblico nuovo e imponente, che era la borghesia, media e piccola, comunque di cultura modesta, politicamente conservatrice e moderata, ma con esigenze di novità nel campo letterario. Il caso della Serao fu esemplare, e perché rappresentò in tutta la sua virulenza quella letteratura femminile come la voleva l’ideologia ufficiale, e perché si avvalse di quel nuovo mezzo di comunicazione che era il giornale in tutte le sue manifestazioni: fu insomma non solo una scrittrice ben intenzionata come ce ne furono molte, ma la giornalista che si creò un’enorme cassa di risonanza anche alla scrittrice. La vita della Serao è tutta nella sua duplice opera di articolista e di narratrice. Dopo un esordio precoce a Napoli, ella si trasferì a Roma, dove collaborò soprattutto al « Capitan Fracassa »; poi nell’85 fondò, col marito Scarfoglio, « Il corriere di Roma», che divenne l’anno seguente « Il corriere di Napoli »; nel ?92 i due coniugi fondarono a Napoli « Il Mattino », che ebbe larga fama, e nel 1904, dopo la separazione dal marito, la Serao diede inizio al « Giorno ». Intorno all’80 vennero alla luce le prime opere: dal volume di racconti del ’79 (riedito accresciuto nell’83) Da/ vero, al primo romanzo Cuore infermo (1881), al secondo Fantasia (1883), ai racconti di Piccole anime (1883), al racconto lungo La virtù di Checchina (1884). In questi anni a cavallo fra la giovinezza napoletana e le prime esperienze romane (l’82 è l’anno del trasferimento) la Serao mette a punto alcune tessere del suo mosaico: prevale un interesse per le storie dolorose, anzi lacrimose (specie femminili) e insieme s'impone una autentica passione per la descrizione degli oggetti, delle persone, degli ambienti. C’è proprio in queste prime opere un veloce maturare dell’arte della scrittrice, una progressiva presa di coscienza del momento vitale della sua rappresentazione: insomma la Serao, a prima vista destinata a rimanere scrittrice sentimentale, sta trovando la sua via,
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la sua « realtà y, partendo dai dati immediati della sua conoscenza, dal retroterra
cioè della sua personale vicenda individuale e sociale, su cui ritorna senza sosta il suo occhio indagatore, la « visività » della sua memoria. Già da adesso si definiscono i canali espressivi della Serao, che confluiscono
in ambiziosi affreschi di coloritura balzacchiana, partendo da un bozzettismo « dal vero », che rimarrà sempre il limite di fondo non superato. Mosaico di fanciulle, ad esempio, è appunto un mosaico, la composizione tipica della Serao, un abile intreccio di personaggi-vicende (ogni figura è presentata per come si vede ed insieme per quel tanto di vita che lascia trapelare): essi non hanno in comune nessun addentellato oggettivo (come invece avveniva nei disegni organici di Balzac), all’infuori di un’atmosfera pateticamente mossa. Tuttavia le ambizioni della scrittrice non si fermavano a questi « mosaici »; nell’83 ella riuscì ad imporsi con il secondo romanzo, Fantasia, il cui tema, la storia di una donna egoista e
stucchevole, andava incontro al diffuso gusto per la psicologia femminile cautamente velato di curiosità neurologiche, mentre lo stile moderno invitava ad accostare il romanzo ai gusti del naturalismo, con in più uno spiccato senso dell’intreccio, degno del miglior romanzo « popolare ». Fantasia è un’opera sovrabbondante e malcentrata, e soprattutto dichiaratamente sentimental-moralistica, come volevano i canoni del romanzo d’appendice: il lettore (o meglio la lettrice) è subito indirizzato a fare la scelta dello scrittore, parteggiando per il personaggio «buono » e condannando quello « cattivo ». Tuttavia la Serao è, pur entro questi limiti ideologici, una scrittrice composita, sicché occorre fare un’operazione di smistamento (o anche di smembramento) per mettere in luce i diversi elementi delle sue composizioni: così in Fantasia, ad esempio, si sovrappongono, o s’incastrano, la trama sentimentale, un quadro mosso dalla curiosità moderna dello psicologo, ed infine una ricostruzione d'ambiente che è vicina a quella del coté naturalistico. Già in questo romanzo, ma più in altre opere, s'impone il particolare realismo visivo della scrittrice, che tutto osserva e ricorda, per cui le cose sono eguali alle persone, entrambe «sono in quanto appaiono » e vengono ritratte non seguendo segrete leggi che ne diano la chiave, ma puntando su certi particolari, che, sommandosi,
si completano:
basti ricordare la cura, il gusto, l’inventività
inesausti, con cui vengono citati nomi e cognomi dei molti personaggi minori, mai lasciati nel vago, nello stereotipo, fuggevolmente presentati; oppure l’interesse per quegli aspetti singolari (tic, modi di abbigliarsi o di comportarsi) che fanno emergere un personaggio fuori dell’anonimato. Tutta l’arte della Serao, nei suoi momenti di più libera e felice trasposizione,
gode del particolare privilegio di una cattivante veridicità. Si avvertono spesso un eccesso di coloritura o vibrazioni troppo intense di partecipazione, ma questo non riduce o sbiadisce il contatto con la vita, anche se questa facilità di tocco,
questo impulso simpatetico sostituiscono i canoni del realismo naturalistico. Se per i naturalisti si trattava di dare un quadro scientifico del reale così com'era, per la Serao si trattava di un’operazione realista nell’apparenza, elegiaca nell’essenza, quella di ricostruire i luoghi della « sua » Napoli, cioè di alcuni rioni come
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punto d’incontro fra popolani e piccolo-borghesi. Coll’appoggio della memoria si costruisce quella tecnica molecolare, con cui vengono strutturati i brani collettivi, nei quali ogni elemento emerge per quel tanto di autentico che la folgorazione mnemonico-mimetica gli conferisce. In questo «descrivere » (che Lukécs oppone al narrare) sta la forza e il grande limite della scrittrice, alla quale interessava non « studiare » ma «guardare » e riempire il quadro di particolari autentici, spesso i più umili e ignoti, come succede nelle pagine più felici, scritte fra 183 e il ’90. Basti ricordare alcune celebri novelle, come Telegrafi dello stato e Scuola Normale femminile (dal volume Il romanzo della fanciulla, 1886, ripubblicato nel °95 in Telegrafi dello stato), dove il quadro di questi ginecei popolani o borghesi è l’occasione per non farsi sfuggire nessun particolare, che la memoria ha definitivamente fissato (non le sfugge neppure l’innocente lesbismo delle ragazze). Certo fece (e fa tuttora) impressione la compattezza del colore da cui esce precisata tutta un’atmosfera sociale; ma il colore assume troppo spesso l’alone di una partecipazione sentimentale che lega nella stessa complicità autore, personaggio e lettore: il « realismo » della Serao sarà sempre legato al momento coloristico, e quando tenterà di superare questo momento atomistico, come nelle «scene di vita napoletana » del Paese della cuccagna (1891), si rivelerà incapace di organizzare in un ciclo narrativo le varie « scene », nelle quali d’altra parte andrà illanguidendosi l’immediatezza della visione diretta. Nel ’91 incomincia un processo d’impoverimento, che intacca quel miracolo di accumulo visivo destinato — sembrava — a non doversi mai estinguere, quasi fosse un inesauribile archivio di tutte le possibili immagini della miseria umana. Basta risalire alle migliori novelle per riscoprire le componenti più felici di questa prosa. Si veda l’inizio di Terno secco, dove, sulla piattaforma di referti autobiografici, si segue l’azione progressiva del metodo « visivo » di questo « verismo » immediato e minuzioso: Alle sette del mattino, una chiave girò discretamente rino: Tommasina, la serva, rialzò da terra un secchio di boni che aveva deposti per riposarsi e per aprire la porta, tente, per aprirlo completamente, ed entrò un po’ di fianco.
nella serratura del quartieacqua e un paniere di carspinse col ginocchio il batEra una creatura alta e sot-
tile, scarna scarna, con un volto assai giovanile, lungo e bruno; ma la persona gracile,
intorno a cui la gonnella di percallo scuro e la baschina di mussola bianca sembravano fodere di ombrello intorno alla semplice mazza, la persona di giovinetta fine e malaticcia era sproporzionata da una grossa pancia che il grembiule di cotonina azzurra disegnava precisamente, che rialzava la gonnella di percalle sui piedi, di mezzo palmo. E appena giunse nella scura cucinetta, Tommasina posò di nuovo per terra il suo carico, e si sedette per respirare. Ogni mattina, alle sei, partiva dal vicolo Violari al Pendino e andava al suo servizio, in piazza Santa Maria dell’Aiuto, mettendoci tre quarti d’ora, poiché la distanza è grande e poiché non poteva correre, con quel peso che le rallentava il passo: prima di arrivare su, per risparmiare un po’ di fatica, comperava il carbone, attingeva un secchio d’acqua al pozzo del cortile e lentamente, lentamente, saliva i tre piani, vacillando, ansando, socchiudendo gli occhi per la pena. Pensava al
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verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
marito, che era una guardia di pubblica sicurezza e che a quell’ora, forse, rientrava in casa, si buttava a dormire lungo disteso, sul letto vuoto, per riposarsi della dura pattuglia notturna. Quella mattina di sabato, come le altre, Tommasina scosse la cenere del fo-
colaretto, per trovarci qualche carboncino acceso, che vi lasciava appositamente la sera, e mormorava: «In nome di Dio... ». Era la invocazione mattutina, quella che tutte le lavoratrici fanno, prima di mettersi al lavoro. Ora soffiava sui carboni per accenderli, buttandosi indietro, ogni tanto, perché il puzzo dell’acido carbonico la nauseava: quando vi ebbe messo su il bricco del caftè, con un po’ di ribollitura del giorno prima, cercò nella paniera dei carboni, e vi pescò un uovo ravvolto in una carta. Cercando di fare il meno rumore possibile, sbatteva quest’uovo
nel bicchiere, il solo tuorlo, con lo zucchero fine, e soffocava il rumore,
per non risvegliare le persone che dormivano
nel quartierino.
È una sequenza girata col rallentatore, in maniera che «si veda » la scena in tutte le sue componenti, mentre la fissità dei movimenti, la loro quasi ritualità tende a sottolineare l’abitualità di un avvenimento. Qui tutto è preciso e « na-
turale »: senza l’aiuto di alcun commento
conosciamo, de visu, una forma di vita
tipica dei rioni napoletani (e la toponomastica accresce questa tipicità); vediamo «come » questa gente vive nella sua quotidianità più spicciola, seguendola in ogni suo momento,
da come
cammina,
si veste, lavora, si stanca, come
infine
accetta lo stato di servitù e di miseria, invocando Dio e rispettando i padroni. Qui è il segno originale del descrizionismo
della Serao, ma
qui è anche il
suo limite: tale « verismo » infatti punta tutto sul « come » vive la povera gente senza mai coinvolgere le cause di questa vita. Sembra che a chi racconta interessi sottolineare la naturalezza, l’ovvietà, quasi la necessità, di simile modus vivendi:
che è poi la caratteristica estrema di questa scrittrice senza pensiero, senza intenzioni ideologiche e, proprio per la sua neutralità, tramite appassionato dell’ideologia piccolo-borghese filistea, interamente catturata dai miti della classe dominante. Questa Serao è la stessa giornalista che si prostra ad « adorare » la regina Margherita, che fa propaganda alla tradizionale concezione della donna umbertina, che muta paternalismo e populismo in un universale mammismo viscerale, pronto a patrocinare le più viete virtù domestiche e patriottiche, come ad esaltare e condannare insieme, da buona madre di famiglia con ubbie letterarie, le
passioni proibite (i rapporti della Serao con l’altro suo idolo, la Duse, simboleggiano bene questa Italia inibita e sognante). Tutta l’ultima Serao è dentro a questa ideologia e a questa psicologia; venuto meno ogni interesse per la « scena » del mondo, per le varie componenti della società, per i più diversi destini singoli, si è imposto come unico tema, sulla scia del supposto maestro Bourget, quello della psicologia amorosa: in romanzi come Addio, amore (1890), Dopo il perdono (1906), Evviva la vita! (1909), Temi il leone (1916), non si parla d’altro che di amori più o meno infelici con soluzioni più o meno improbabili, comunque incentrati sul tema maledetto dell’adulterio («un paese di ebbrezza, di servaggio e di morte », come lo definisce in Evviva la vita !, con gusto fin troppo scoperto).
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Eppure questa non era la conclusione che ci si poteva aspettare. Entro i limiti di un populismo così esplicito l’antologia della scrittrice può arricchirsi di altre pagine, di altri ritratti, di altri scorci, dove i luoghi e le persone della sua Napoli hanno acceso i colori del quadro, con quei poveracci che rimangono buoni anche nella sofferenza subumana (si ricordino le telegrafiste che, per amor di patria, fanno gli straordinari non retribuiti). Meritano di essere riletti alcuni racconti di quegli anni, come O Giovannino 0 la morte (dal volume All’erta, sen-
tinella, 1889) che è un dramma popolare scritto con avvincente pathos e semplicità di scansione; e soprattutto come il racconto lungo La virtù di Checchina (1884), un unicum nell'opera della Serao, per l’impiego di un’ironia amabile e divertita, attraverso la quale l’autrice riesce finalmente a schermare il rapporto, di solito troppo diretto, col suo personaggio e a giocarlo su più piani (i vari e non troppo definiti atteggiamenti di Checchina nei confronti del marito, della serva, dell’ospite aristocratico, dell'amica «leggera »), rifiutando di dare un giudizio su quel mondo piccolo-borghese che rappresenta. A tutt'altra vena si rifanno invece i romanzi, La conquista di Roma (1885) e Vita e avventure di Riccardo Foanna (1886, ristampato nel 1909 con il titolo I capelli di Sansone), in cui emerge l’ambizione, già di Fantasia, al grande romanzo, non più psicologico, ma d’ambiente (il primo dipinge il mondo parlamentare, il secondo quello giornalistico); e proprio a queste finalità espressive i due romanzi risultano mancanti, per la solita incapacità a narrare, a connettere in un comune tessuto ideologicostilistico le varie «scene ». Così succede che i romanzi risultano diversi dalle intenzioni dell’autrice. La conquista di Roma non raggiunge nessun obiettivo politico: la politica è puro spettacolo e il romanzo parlamentare si trasforma in una storia «romana », che vuol essere insieme un efficace quadro dei rioni popolari e del raffinato mondo aristocratico, e conclude, incongruamente, in un’improbabile storia d’amore, descritta coi toni di una sensibilità esaltata, degni di un pro-
vinciale inurbato e abbagliato (vi sono pagine descrittive, rarefatte e calibrate, che rivelano l’influsso non infecondo degli amici « bizantini » sulla Serao, e la disponibilità di un’artista non solo naîve). Vita e avventure vorrebbe darci uno spaccato sulla corruzione del mondo giornalistico, mescolando i toni « alti» di Balzac col freddo gusto fotografico alla Zola: ma al posto del quadro d’ambiente abbiamo una biografia predisposta ad uno psicologismo generico e spesso falsato dalla pietà per il protagonista, cattivo ma non troppo (non a caso le pagine migliori sono quelle dedicate alla fanciullezza di Riccardo, dove l’affetto si combina abilmente con la curiosità). Rimane poi un gruppo di romanzi brevi (entro spazi limitati alla Serao riesce più agevole controllarsi), abbastanza omogeneo, La ballerina (1899), L’anima semplice. Suor Giovanna della Croce (1901) e Storia di due anime (1904): qui s'incontra la Serao che si accanisce a descrivere atmosfere di miseria anche psicologica, dove prevalgono i toni grigi delle esistenze di queste eroine dell’umiliazione, della rinuncia. Siamo ancora di fronte alla Serao descrittiva, con mate-
riale di prima mano: si veda, ad esempio, la ricostruzione del posto di lavoro
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Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
della ballerina, da sottoccupata sicura, precisa, quelli delle case
così minuziosamente demistificato e proletarizzato, o della vita dell’ex-suora fatta con tutti i mezzi forniti da un’osservazione originale (basterebbe citare gli interni in cui vive la ballerina, o dove va a servire Giovanna). Vi è d’altra parte il supporto ideo-
logico su cui si sorregge non la descrizione, ma l’interpretazione di queste vite: e l’interpretazione contraddice la descrizione anche nello stile. Queste povere donne non sono tanto vittime della società, quanto eroine, sia pure negative, della sofferenza e della femminilità offesa: la tendenza all’oggettività viene sostituita dalla volontà di illustrare questa grandezza nella miseria, anzi nel martirio, e il particolare significativo è soffocato da uno psicologismo appassionato e sentimentale, tutto parole e niente cose. Tale psicologismo, apparentemente « innocuo », ha una sua autorevolezza, in quanto rimanda alla visione arretrata del vecchio cattolicesimo antifemminista, per il quale la donna è portatrice di valori negativi, irrazionali, ma grandi: la ballerina « dimostra » la grandezza della passione come la suora quella della sopportazione, di contro a un mondo di volgarità e di violenza. Al di là del suo « verismo », ma in maniera tale da coinvolgerlo e corroderlo, stanno questo moralismo e la sua sostanza politica, che si traduce in un vittimismo piccolo-borghese e nel suo linguaggio fatto di luoghi comuni, fra il pedagogico e il sentimentale.
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Luigi Capuana:
verismo e naturalismo psicologico
Luigi Capuana fu insieme teorico e scrittore di quel naturalismo, che interpretò e introdusse fra i primi in Italia. Gli studi giovanili furono quelli di un provinciale siciliano (era nato a Mineo in provincia di Catania), ancora legato alla cultura classicheggiante. Il desiderio di aggiornarsi lo spinse, nel ’64, a trasferirsi a Firenze, dove divenne il critico teatrale delle « Nazione »: le recensioni apparse su tale giornale formarono poi il suo primo volume, Il teatro italiano contemporaneo (1872). In seguito Capuana trascorse, sempre in fervida attività culturale, 1839, 1858:
1864: 1869: 1877:
28 maggio: nasce a Mineo (Catania). Studia malvolentieri a Mineo, poi al Real Collegio di Bronte. Abbandona la scuola e si dà a letture disordinate. va a Catania come studente di giurisprudenza; in realtà si fa prendere dalla passione letteraria e politica. va a Firenze e scrive in alcune riviste. Scrive anche drammi mai pubblicati. rientra a Mineo e ne diventa ispettore scolastico e sindaco. Continua gli studi letterari e filosofici. Matura la sua decisione di darsi alla narrativa. va a Milano e pubblica Profili di donne. Pubblica su riviste e giornali. Diventa convinto assertore del naturalismo.
1879:
1880-2: 1882-3: 1890:
pubblica
Giacinta
con
dedica
a Zola.
raccoglie i suoi Studi sulla letteratura contemporanea. Pubblica libri di favole. dirige a Roma il « Fanfulla della domenica ». Torna spesso a Mineo. pubblica Profumo.
Continua
a pubblicare
saggi e articoli.
Lavora
al nuovo
1901: esce Il marchese di Roccaverdina. 1902: va a Catania a insegnare all’Università lessicografia e stilistica. Continua cando di tenere il passo del nuovo mondo letterario. 1915, 29 novembre: muore.
romanzo.
a scrivere cer-
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Luigi Capuana:
verismo e naturalismo psicologico
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come giornalista e direttore di riviste, molto tempo a Milano e a Roma; negli ultimi anni tornò in Sicilia come professore universitario. Al periodo intorno all’80 risalgono le prese di posizione più accese e rigorose in difesa dell’impersonalità
naturalistica,
di contro'all’ostilità
della cultura
ufficiale.
Era
anche
la difesa di quell’arte moderna che Capuana intendeva trasferire in Italia, proponendo una concezione dell’arte che assimilasse il credo naturalistico a quello positivistico, in sintonia (ma non sempre coerentemente) con un impianto materialistico-biologico (si vedano gli articoli raccolti nei due volumi di Studi sulla letteratura contemporanea, del 1880 e del 1882). Considerando nel loro « fatale » cammino storico i generi letterari, Capuana ne derivò che l’unico « genere » possibile nei tempi moderni fosse il romanzo, come egli lo poteva giustificare sia con la teoria hegeliana della morte dell’arte sia con l'impianto evoluzionistico di De Meis (ma sul gusto del critico militante ebbero influsso la polemica di De Sanctis contro la rettorica e il suo concetto di autonomia estetica). Fino all’uscita del volume Per l’arte (1885), Capuana, preceduto dal più coerente
critico,
Felice
Cameroni,
difese il naturalismo
francese
e si mostrò
interessato a qualsiasi « novità » potesse presentare il giovane romanzo italiano. Qui cadono i migliori giudizi del critico militante, quelli profetici su Gualdo o su Dossi, oppure la scoperta del Verga verista, le cui « sgrammaticature » vengono finalmente rivalutate nella loro funzione di un nuovo linguaggio e di una nuova arte, antirettorica e modernissima;
Verga anzi viene celebrato
come
il grande
maestro dell’impersonalità (superiore perfino a Zola) e come il primo scrittore di un romanzo italiano degno di stare alla pari con quelli stranieri, dopo il caso isolato di Manzoni. Subito dopo questi giudizi, Capuana cominciò a smussare le punte del suo programma d’avanguardia e a ridurre o contaminare la sua stessa adesione alla poetica del naturalismo: vacilla sempre di più l’analogia arte-scienza e prende il sopravvento la concezione dell’arte come Forma, mentre rimane invariato il canone dell’impersonalità, come garanzia di ogni possibile arte narrativa. Così si spiega come mai all’antimanzonismo iniziale succedesse una riabilitazione dei Promessi sposi, da inserirsi in una generale rivalutazione della tradizione (e anche del nostro romanzo, specie di Fede e bellezza): era la conclusione coerente di chi, abbandonata ogni rottura avanguardistica, si appoggiava ad un credo saviamente storicista e tradizionalista. La critica non è più legata organicamente ad un’azione di rinnovamento (che a sua volta rimanda alla cultura moderna del positivismo), ma diventa l’occasione (specie sopo il °90) per il mestiere del giornalista, ormai in posizione subalterna ai processi artistici contemporanei (l'opposto cioè di quanto Capuana aveva cercato di fare negli anni precedenti come organizzatore e diffusore di una nuova critica, anche dirigendo alcune riviste fortunate come il « Fanfulla della domenica »). Gli articoli raccolti poi in volume,
anche famosi (come Libri e teatro, 1892; Gli «ismi) contemporanei,
1898;
Cronache letterarie, 1899), rappresentano questa ultima tappa del critico: insieme ad alcuni giudizi acuti e ad analisi che furono vere e proprie scoperte (si pensi agli articoli sul primo D'Annunzio e sul primo De Roberto), si trovano
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Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
pagine di giornalismo spicciolo, e comunque estranee ad un disegno complessivo che sintetizzi i vari « pezzi ». Questo scadimento critico è d’altra parte legato al generale decadimento della cultura positivistica (e quindi di ogni prospettiva artistico-scientifica), a cui Capuana si adeguerà riducendo anche il naturalismo ad uno dei tanti «ismi ) in cui — a suo dire — si « traveste » l'Arte. L’ambizione maggiore di Capuana, fin dagli anni fiorentini, non era quella del critico, ma dello scrittore. Dopo alcune prove nei campi della lirica e del dramma (prima storico e poi « borghese », sulla traccia di Dumas fils) Capuana raggiunse, come abbiamo detto, la coscienza della modernità e « necessità » del romanzo: donde la spinta a provarsi direttamente in questo genere. Già da ora si profila un Capuana scrittore strettamente legato al critico proprio nella sua metodologia di artista: che significa poi uno scrittore che intende mettere in primo piano il momento gnoseologico e intellettuale interno ad un’arte razionale, a cui risulti estraneo ogni atteggiamento intuitivo o irrazionale. Il narratore nasce dunque dalle profonde convinzioni teoriche del critico-« filosofo » e dalla conoscenza di alcuni esempi significativi, soprattutto di area francese: sarà dapprima la vena psicologico-sentimentale di Dumas fils a determinare il gusto dei racconti compresi in Profili di donne del ’77, e saranno poi i naturalisti a spingerlo a scrivere il romanzo d’avanguardia Gracinta, apparso nel °79 e dedicato nientemeno che a Zola. Con Gtiacinta Capuana metteva in pratica quel naturalismo e quei canoni di narrativa moderna che stava difendendo come critico in questi anni, rifacendosi coscientemente ai modelli francesi, con un’operazione che, più che di plagio, si dove considerare di adattamento e di competizione. Infatti il naturalismo di Giacinta è diverso da quello zoliano: gli manca appunto quel gusto per l’ambiente che è il riferimento costante della polemica di Zola contro il terzo impero. Lo « studio » di Capuana è tutto legato ad un « caso » di psicologia abnorme, quello di una donna, che, poiché si sente disonorata per esser stata sedotta da bambina, decide di sposare un uomo meschino e prendere per amante l’uomo che ama, evitando così di dover subire da parte sua rimproveri sulla sua « colpa » (la donna, dopo varie vicende infelici, finirà suicida). Tutto il romanzo vorrebbe essere l’analisi scientifico-artistica di questa strana storia psicologica, ma il narratore non riesce a raggiungere quello stato d’impassibilità, se non d’impersonalità, che pure gli era indispensabile nel suo programma di rinnovamento. Pur sottoposta ad un’analisi minuta e impietosa, Giacinta rimane una « povera » donna oppure un’eroina da romanzo sentimentale, e solo raramente si presenta come un caso umano da studiare con curiosità analitica. In effetti anche nella sua scansione interna il romanzo soffre di squilibri strutturali: da una fase strettamente descrittiva si passa al tono « alto » del dramma interiore vicino al gusto tardoromantico francese, per poi ridiscendere al momento realistico. Il punto di vista è dunque sempre faticosamente stravolto da nuovi e insorgenti obiettivi narrativi, a tal punto che, per rafforzare il programma scientifico, viene introdotto un personaggio, il dottor Follini, che ha la funzione di osservatore scientifico, di portavoce cioè delle intenzioni analitiche dell'autore. Ma Giacinta rimase
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nel fondo un’eroina che paga le trasgressioni al codice della moralità collettiva, come voleva la tradizione psicologico-romantica; e per questo non riuscì ad essere né una sfida al vecchio romanzo né un centro di riferimento per i giovani romanzieri, come avrebbe voluto Capuana nella sua ambizione di scrittore d’avanguardia. Dopo il ’79, Capuana si diede a scrivere molte novelle e a riscrivere il suo romanzo, che uscì interamente rifatto nel 1889. In questi e negli anni successivi, Capuana tentò di darsi una lingua letteraria, adeguata alle necessità unitarie proprie di ogni intellettuale organico del nuovo stato. Perciò egli si sforzò di superare sia i colori francesizzanti sia gli schemi classicheggianti; ma lo sforzo di italianizzazione e di modernizzazione si ridusse ad un compromesso che Capuana definì « confusionale »: si trattò in realtà di una prosa franco-manzoniana per la narrativa psicologica, oppure d’intonazione verghiana per le opere veriste. Intanto uscivano molti volumi di novelle (Homo/, 1883; Ribrezzo, 1885; Fumando, 1889), che l’autore suddivise in seguito in due gruppi con caratteristiche tematiche e stilistiche ben precise, esplicitando tale distinzione nei titoli di due raccolte, Le appassionate (1893) e Le paesane (1894). Come « paesane » Capuana intendeva le novelle di tipo regionale (cioè siciliano) o verista: certo l'esempio, se non il plagio, di Verga riduce di molto l’originalità di queste pagine, nelle quali si mettono in rilievo le capacità mimetiche e la larga disponibilità stilistica dell’autore; tuttavia Capuana vi introduce una nota tutta sua, l’interesse cioè per un mondo di poveri tutto esploso in superficie, in colori e gesti che rimanda al sottobosco di esistenze « strane », legate alla superstizione o alla magia popolari oppure ad una vita di affetti abnormi o di mestieri eccentrici. Questa rappresentazione istrionica e grottesca riflette l’atteggiamento dell’autore nei confronti dei suoi « poveracci »: la miseria non gli appare come uno status che l’artista-scienziato debba demistificare da ogni rettorica ottimistico-sentimentale (come faceva Verga), bensì come un «teatro » di guitti, che attrae la curiosità dello studioso di folklore e diverte il borghese, proprio perché si tratta di un divertimento, cioè di una fase ulteriore di sfruttamento, compiaciuto e sadico. Diversa l’ispirazione delle novelle « appassionate », in cui prevale il motivo psicologico-amoroso, con trattamenti ed esiti assai difformi: ci sono le novelle commerciali e filistee, quelle dei buoni sentimenti o del drammone amoroso; ma vi sono anche altri racconti di maggior impegno e più direttamente legati al positivismo, a quella teoria del narratore come «scienziato dimezzato » che Capuana andava elaborando intorno all’85. Ciò che distingue queste novelle è il rigore «clinico» con cui è trattato l'argomento, apparentemente di carattere amoroso: in realtà il cosiddetto amore è l’occasione per mettere a nudo atteggiamenti ed esistenze lontane da ogni « norma ». L’impianto, come l’esito, di queste pagine è quanto di più positivistico, di più « sperimentale » sia uscito da Capuana: l’amore è, a questo livello, un processo psicofisico che sottintende un’ideologia materialistica. La tensione che sorregge il racconto consiste nel seguire una vicenda sempre al limite del patologico, nella quale l’«io » segreto della protagonista (si
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Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
tratta per lo più di donne) entra in conflitto coi valori tradizionali e con la sua stessa volontà; affiorano così situazioni
e momenti che rimandano ad una visione
psicologica più profonda e ardita di quella positivistica, con spunti che noi avviciniamo alla dinamica dell'inconscio. L'amore è dunque un processo psicopatologico e non la solita passione al di là di ogni legge. Si tratta quasi sempre di un atteggiamento complesso che trasforma la coppia degli « amanti» nei due poli di un’irriducibile estraneità o anche in un’avversione senza ragione: basti ricordare il caso limite della bambina di Precocità, innamorata del protagonista, che investe la sua delusione in un’accusa e in un conflitto che la consumano; oppure la repugnanza invincibile e involontaria che rende impossibile ogni rapporto sessuale di Giustina col suo amante in Ribrezzo, per non dire dell’incompatibilità patologica che ossessiona la coppia di Anime in pena. L'esito di questi insolubili drammi è di necessità tragico. Nessuno «guarisce » da queste strane malattie: ecco la conclusione dell’autore, che rifiuta così tutto l’ottimismo del positivismo ufficiale. Tale pessimismo fisiologico è la nota più autentica di un’arte ardua e sconfortante, e deriva dal nesso profondo fra l’impostazione scientifica di questi «studi » narrativi e le convenzioni positivistico-naturalistiche del letterato. Non a caso lo « studio » della psicologia porta ad una sorta di regressione, in nome della quale sempre più ristretto si fa il dominio della ragione e più forte e invadente l’aspetto istintuale dell’uomo e delle forze oscure che lo minacciano; e tuttavia tale è l’impegno razionale di questi drammi interiori, che ogni tentazione irrazionale ne viene esclusa, così come ne è allontanata, per « rigetto », ogni soluzione decadente. Queste novelle, spesso della misura del romanzo breve, hanno un taglio più conciso di quanto non avvenga generalmente per uno scrittore facile e versatile come Capuana (che tentò perfino i versi prosastici dei Semiritmi, 1888). Narratore di situazioni al limite della precipitazione, Capuana sfrutta fino in fondo la durata media di tali narrazioni, saturandola di tutti quegli ingredienti che sembrano fermare il tempo nei movimenti obbligati di alcune essenziali mosse psicologiche, per poi farne sprigionare l’ultimo atto fatale. D'altra parte con tale conclusione (che è spesso la morte o la pazzia) si ritorna, secondo l’ideologia dell’autore, all'ordine, nel senso che le forze « oscure » sono destinate a cadere
di fronte alla ragione degli « altri ». Ma questa impassibile forza di descrizione scientifica è legata a pochi eccezionali casi; generalmente il Capuana delle « appassionate » se la cava con l’atteggiamento dei benpensanti, diviso fra l’ammirazione per la passione e il più forte sentimento dei doveri sociali (sintetizzati in una religione della famiglia buona a tutti gli usi). Il romanzo Profumo (1891) mostra una doppia natura: da una parte ritroviamo il « caso », rigorosamente presentato, di un’inibizione sessuale in un giovane marito che scatena l’isteria della moglie (e qui la narrazione si avvale di una verosimiglianza scientifica illuminante e moderna: basti ricordare la ricostruzione dell’impotenza del protagonista, in cui viene in luce l’importanza del ruolo della madre in tutta la vicenda); per un altro verso si tratta di un’opera piacevole e ben intenzionata, ligia ai canoni
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Luigi Capuana: verismo e naturalismo psicologico
vivi
di un pubblico timorato, cosicché questo spirito di moderazione attenua la spinta a conoscere e a rappresentare nella loro logica situazioni e conflitti di per sé drammatici e a salvarli con un lieto fine. Con la rappacificazione dei coniugi, con la «guarigione » del marito si conclude il dramma: non a caso il deus ex machina è ora il dottor Mola, che pedagogicamente esprime le preoccupazioni del borghese incattivito dai fatti della Commune e decisamente reazionario. Così anche 1 « mali », che la scienza aveva scoperto e studiato, rivelando aspetti ignoti del-
l’uomo, vengono superati in una visione armonica della natura, dell’uomo e della società. Con Profumo, che pure si lega per molti aspetti alla cultura positivistica, cade ogni postulato materialistico e prevale quell’ideologia borghese del positivismo che porterà al razzismo e al colonialismo. Siamo nel periodo, dopo il ’90, in cui la crisi del positivismo si lega a quella della borghesia italiana e della sua cultura: scompare ogni gusto «scientifico » e ogni letteratura positivistica. Per molti scrittori fu la fine, ma Capuana si avvalse della sua capacità di saper cogliere nuove idee e nuove mode: eccolo mostrarsi favorevole allo spiritualismo, avvicinarsi quasi al cattolicesimo, ammirare D’Annunzio e soprattutto imbeversi di un patriottismo crispino, che sarà poi rettorica nazionalistica e colonialistica. Così, fra articoli e lezioni, ossessionato dai debiti, Capuana continua a narrare, accumulando novelle su novelle (basti ricordare: Il Decameroncino, 1901; Coscienze, 1908; La voluttà di creare, 1911; Eh, passa la vita!, 1913; Il nemico
è in not, 1914; Nostra gente, 1915), scrivendo un romanzo breve, La sfinge (1897), in cui mette a frutto le sue curiosità parapsicologiche (anche sullo spiritismo è da notare un allontanamento dalla curiosità positiva di Spiritismo, 1884, in Mondo occulto, 1896) per accentuare il carattere eccezionale di una passione. Vi è poi anche la produzione teatrale: dopo la poco fortunata versione scenica di Gtacinta, si arriva al tardo teatro in dialetto (1912), di cui si ricorda Malìa, Lu cava-
lieri Pidagna e Lu paraninfu (questo del ’15). E intanto prosegue anche l’attività dello scrittore per l'infanzia: già nell’82 era uscito C°era una volta, una raccolta ispirata alla tradizione e al folklore, in cui il «verismo » grottesco trovava una dimensione di popolarità semplice e maliziosa, legata ad un’inventiva esperta e fantastica; seguì poi La reginotta (1883), e quindi molte altre opere per ragazzi, di cui si ricordano le più realistiche, non solo per il loro ambiente siciliano, ma perché si legano al disegno di italianizzazione etico-politica presente nel migliore di questi volumi, amabilmente, ma non fatuamente pedagogico, Cardello (1907). (Non bisogna dimenticare le deliziose pagine autobiografiche, i Ricordi d'infanzia, usciti postumi nel ’22.) Interessanti a modo loro sono le opere sulla questione meridionale, come La Sicilia e il brigantaggio del ’92 e L’isola del sole del ’98, nelle quali si cerca di mistificare e perfino ignorare la situazione della Sicilia per pregiudizi nazionalistici, campanilisti e sociali (che sono alla base dell’acrimonia antisocialista di Re bracalone). Nel 1907 esce Rassegnazione, l’ultimo romanzo che cerca di adeguarsi alla moda del romanzo d’idee e di competere con D'Annunzio, proponendosi di
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Regionalismo,
verismo e naturalismo
in Toscana e nel Sud
dimostrare la fatuità del dannunzianesimo e la verità della « rassegnazione ». Nel 1901 era già uscito // marchese di Roccaverdina, considerato il capolavoro di Capuana, la cui composizione risale però a molti anni prima, fino al fervore positivistico, riflettendo poi, nello stratificarsi delle stesure, le posizioni successive.
Il marchese ha come modello il Mastro don Gesualdo, specie per la sua struttura narrativa imperniata su un protagonista, ma con le misure dell’affresco. Più che al naturalismo o al verismo, l’opera risponde ad un realismo regionale ancora stimolante, pur privato com’è di ogni audacia espressiva. Piace particolarmente (ed è il motivo della sua fortuna presso critici e lettori) l'accuratezza della scrittura, piuttosto rara in un facilone come Capuana, e piace l'armonia complessiva dell'organismo narrativo (si sentono i frutti della revisione accanita di Giacinta). In quasi vent'anni di progetti e tentativi la prosa ha guadagnato in sicurezza e precisione rispetto sia ai clichés francesizzanti che alla maniera verista vistosamente subalterna al modello verghiano, riuscendo tuttavia a non cadere in quei brani di bravura classicheggiante, che stridevano sempre con l’impianto colloquiale o scientifico di altri lavori. A questa gradevolezza di scrittura, in buon equilibrio fra verghismo e psicologia, si aggiunge il ritmo ordinato e scandito del movimento narrativo, la cui progressione passa attraverso il filtro di una misuratissima gradualità, che introduce deviazioni o soste all’interno del dramma in azione (è la storia, psicologica, di un marchese torturato dai rimorsi e dalla gelosia). Tale dramma è tutto studiato, con occhio scientifico da una parte, ma anche con la tecnica dostojevskiana delle folgorazioni, registrando gli ondeggiamenti irrazionali e i propositi positivi del personaggio. Non manca anche il quadro del mondo siciliano, con le sue strutture feudali e i costumi quasi borghesi dei possidenti: così, anche sulla forza di certi ricordi, è ricostruita una cornice di convincente sicilianità attorno ad una passione psicopatologica. L’ambizione di Capuana, giunto alla piena coscienza del proprio metodo e dei propri mezzi, era appunto di unificare l’ispirazione « paesana » con quella scientifico-psicologica; eppure proprio questo programma inficia l’autenticità del Marchese, facendone un romanzo
tutto di seconda mano,
nato da un’intenzione
di metodo
più che dalla necessità di sviluppare un « caso ». La stessa mancanza di squilibri, l'armonia e la compostezza insolite rivelano una preoccupazione formalistica che, nel suo perfezionismo, fa di questo tardivo romanzo naturalistico un’opera di compilazione, la cui « maniera » risulta più evidente se confrontata con il gusto ben diverso che era ormai nell’aria e da cui lo stesso autore mostrava di lasciarsi irretire. In realtà il piglio maturo del romanzo nasce da un piano di continue riduzioni e addolcimenti che permettono di sovrapporre senza stridori (almeno apparenti) le due forme d’ispirazione. Da questo spirito di ricercata mediazione derivano sia l'impasto realistico di stampo verghiano, senza la durezza del Mastro, sia la forza introspettiva dello « studio » psicologico, che perde ogni curiosità scientifica per assumere i caratteri dello scandaglio « spirituale »: cosicché il dramma del protagonista sta a mezza strada fra lo studio clinico e il suggestivo rilevamento di una crisi spirituale molto vicina alla nozione cattolica di peccato.
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Imitatori e propagatori del verismo siciliano
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D'altra parte, come già in Profumo, il punto di vista dell’autore si fa sempre più estraneo all’ottica scientifizzante, pessimistica e « materialista » del periodo positivistico e si avverte, sia pure non chiaramente, che egli si preoccupa di dare un significato a questa vicenda di progressiva pazzia; tale significato è poi quello che l'ideologia borghese della fine del secolo gli suggerisce, e cioè la negazione dell’oggettività della materia in nome di nobili valori dell’uomo. Perciò la pazzia finale non tanto conclude un processo neurofisiologico, quanto « condanna » il peccato ed è garanzia, per quegli « altri » (fra cui si mette l’autore stesso), della necessità di un «ordine» universale (basti ricordare la figura di Agrippina, la serva-amante, che nella sua dedizione « santa » riflette la concezione di classe di
un
Capuana
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ovviamente
solidale con le classi egemoni).
Imitatori e propagatori del verismo siciliano
Sulla scia di Capuana, ma anche indipendentemente da lui, nel più generale moto di rinnovamento derivato dal naturalismo francese, si muovono
altri scrit-
tori siciliani, come Emanuele Navarro Della Miraglia (1838-1919). Questi visse a lungo in Francia, e pubblicò nel 1879 un romanzo « regionale » La nana, subito recensito da Capuana che ne elogiò la capacità di rappresentazione fedele, 1’« esattezza fotografica » e il «colorito » ambientale; scrisse inoltre Storielle siciliane (1885), nelle quali con gusto quasi capuaniano si ricreano certi tipi e casi di vita siciliana descritti con amabile compiacimento (a queste Storzel/le si aggiungano le precedenti opere Le fisime di Flaviana, 1873, e Donnine, 1883). All’attività del Navarro giornalista si deve la fondazione a Firenze della rivista « La Fronda », con intenti di ammodernamento regionale sia pure moderato. In Sicilia intanto dopo l’80 molti giovani scrittori si raccoglievano intorno alla rivista « Il Momento »: fra questi era quel Girolamo Ragusa-Moleti (1851-1917), che portò avanti la sua opera di ammodernamento non solo con la narrativa (Il signor Macqueda, 1881; Miniature e filigrane, 1884; ecc.), ma anche con scritti di folklore siciliano, legati al metodo di Pitré, o con saggi critici di materia contemporanea (come quello su Baudelaire del ’78, o quello sul Realismo, anch'esso del ”78, che è una difesa desanctisiana del moderno realismo, con aggiunta una maggior audacia per i contenuti sociali, ai quali si dovrebbe rivolgere lo scrittore moderno). Più ortodossa in senso naturalistico fu la proposta di un altro critico siciliano, Giuseppe Pipitone Federico, direttore appunto del « Momento »; più incerta la posizione del rapisardiano e realista insieme Enrico Onufrio (1858-85), a cui si deve l’interessante romanzo L’ultimo borghese. Alla stagione naturalista e ad un libro di recente riscoperto, L’eredità Ferramonti (1883), è legato il nome di Gaetano Carlo Chelli (1847-1904). Egli ritrae in «un’opera di vasta osservazione» (come lui la chiama) il mondo chiuso e rapace della piccola borghesia di Roma, riprendendo spunti di stile e indicazione di metodo non solo da Capuana e Verga, ma anche dai naturalisti francesi. La storia
Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
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è quella, drammatica,
di una contesa familiare, tra figli e nuore, per impadro-
nirsi dell’eredità del vecchio padre: nel descrivere questi personaggi e il loro ambiente Chelli padroneggia uno stile di ripugnante distacco, che incide con freddo zoliano furore sulla « putredine » della materia umana (o subumana) di questo dramma. In tale atmosfera asfittica di passioni ottuse o sornione ha poteri assoluti la forza del denaro, tanto più determinante quanto più meschini e mediocri sono l’ambito delle passioni stesse e la personalità dei personaggi. A tanta complessiva opacità umana si contrappone la statura della protagonista, la bella e terribile Irene, che aggiunge, unito al suo temperamento calcolatore ed ambizioso, una nota di sensualità
perversa, fredda ed interessata
(una vera combi-
nazione degna della combinazione zoliana di «carne e denaro »). Ma proprio nell’atteggiamento protagonistico della storia di Irene (specie dei suoi « amori ») consiste l’errore prospettico di questo romanzo « sociale », dapprima tutto espressione di un ceto e poi vicenda di eccezionali azioni e personaggi (si veda, oltre Irene, la passione e il suicidio del cognato-amante Mario). Così succede che nei capitoli finali si fa strada, ed anzi predomina, il gusto per l’intrigo con sfumature sadico-amorose e Irene diventa un’eroina (quasi una superdonna) della volontà e del male; è l’ambiente della « Cronaca bizantina » (intorno al quale ruotava a Roma il Chelli) che suggerisce toni e ingredienti destinati ad imporsi di lì a poco. Tuttavia L’eredità Ferramonti rimane uno degli esempi di più maturo naturalismo in Italia, non solo per il sapiente impiego dei piani narrativi (purtroppo non omologati) e di altri stilemi tratti da Verga o Capuana, ma anche per la compattezza della rappresentazione socio-psicologica, nella quale ogni tratto, nell’oggettività dettata dal descrizionismo naturalistico, si inserisce nel quadro fortemente caratterizzato di una Roma moderna, legata al mondo degli affari e degli imbrogli economico-politici. Un'altra opera strettamente connessa (meglio sarebbe dire, derivata) al verismo italiano è quella di Remigio Zena (cfr. Il secondo Ottocento, $ 151), il quale peraltro fu ideologicamente estraneo al sottofondo positivistico del naturalismo e volto verso esiti di conservatorismo religioso, come dimostrano le sue poesie e l’ultimo romanzo. Tuttavia nella Genova degli anni ’80, Zena ebbe la funzione di portare avanti la discussione sul naturalismo con molti articoli, specie con quelli apparsi sulla rivista « Frou-Frou », dove appare chiaro che il suo culto del « vero » ha solo pochi tratti in comune con il verismo dominante. Nel primo libro di novelle Le anime semplici. Storie umili (1886) (e si noti l’impudico evangelismo del titolo) si avverte la presenza del gusto istrionesco di Capuana innestato sul modello stilistico di Verga, anche se le storie narrate non raggiungono mai l’impersonalità o la fermezza del verismo, aperte come sono a tutte le sfumature del grottesco e tenute sempre a un livello di tensione stilistica che ha del virtuosistico, come se si trattasse della versione immoderata e compiaciuta di certe « storielle » intristite di De Marchi. Fra queste « storie umili » ce n’è anche una che anticipa il romanzo verista uscito nel ’92, La bocca del lupo, che è forse l’opera di derivazione
verghiana più prestigiosa. L’esemplarità dei Malavoglia si riscontra ad ogni pa-
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Federico De Roberto dalle novelle a «I Viceré »
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gina, anzi l’impianto del romanzo ricorda proprio il modulo corale di Verga: al posto di Aci Trezza e della famiglia protagonista troviamo un quartiere povero di Genova e la Bricicca con le sue figlie. L’atmosfera è quella dell’ininterrotta lotta per la sopravvivenza, quotidianamente impegnata per soddisfare i bisogni elementari in un ambiente di miseria e cattiveria, al limite dell’illegalità. E tuttavia l’atteggiamento di Zena, al di sotto di tanto sfarzo di stile oggettivo, oscilla fra la repulsa ben distaccata e una certa pietà per le vittime di questa atroce maniera di vivere. Manca la verghiana impassibilità di chi osserva i meccanismi di una certa società che non è quella « normale »: ad essa si sostituisce la scoperta di una umanità « diversa », vista con l’occhio di chi non dimentica mai quanto sia abnorme tale « diversità » (la comprensione dello scrittore è pur sempre comprensione aristocratica, nata da un distacco « naturale », che il conservatorismo
papalino-nobiliare di Zena esalta, nel tentativo di rifiutare quel pietismo populistico che gli è più congeniale e facile). Lo stacco moralistico è sottolineato dalla forzatura estrema a cui è sottoposta la lingua, accanitamente spinta verso esiti di rigido verghismo. La volontà di superare ogni maniera « normale » di esposizione fa sì che quest'opera, nel suo desiderio di essere immediata, perda ogni naturalezza: i piani narrativi della coralità si accavallano in un gioco di impietosa mimesi che satura ogni linea del discorso, fino al limite di un rigore verista guadagnato con la pazienza e il labor limae degni di quello sperimentalista e parnassiano che fu lo Zena poeta. Che l’ispirazione migliore del romanzo consista in questo impegno dello stilista lo dimostra, fra l’altro, la morale da padre di famiglia inserita nella Prefazione, che vuol indurre il lettore a recuperare, al di sotto di tanto modernissimo oggettivismo, la vetusta preoccupazione cattolica di un’arte edificatoria, così come voleva la tradizione.
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Federico De Roberto crebbe nella Catania di Verga e Capuana, e come loro andò a Milano nell’ultimo decennio del secolo, e in seguito più volte a Roma. Iniziata precocemente la carriera dello scrittore e del giornalista, ai primi del 1861, 16 gennaio: nasce a Napoli. 1870: la madre vedova si trasferisce a Catania. Studia all’istituto tecnico. 1881: dirige il « Don Chisciotte ». Fa il consulente all’editore Giannotta ed è in relazione con Capuana, Verga, Rapisardi. 1883: manda a Capuana la novella La malanova. 1884: collabora con articoli di critica letteraria al « Fanfulla della domenica » diretto da Capuana. 1887: esce La sorte. Conosce Bourget in vacanza in Sicilia. Si trasferisce a Milano. 1891: esce L'illusione. 1894: pubblica I Viceré con l’ed. Galli. Collabora a molti giornali e riviste. Ritorna a Catania e lavora come bibliotecario e poi come sopraintendente onorario per i monumenti. Si dedica sempre più al lavoro giornalistico e quasi abbandona quello letterario (se si esclude qualche novella psicologica e, dopo il ‘17, di ambiente bellico). 1927, 27 luglio: muore, isolato e dimenticato. 1929: esce postumo il romanzo incompleto L’imperio (ed. Mondadori).
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°900 lo ritroviamo ritirato a Catania con cariche culturali onorifiche, ben presto dimenticato dal resto dell’Italia, almeno come romanziere (fu invece ancora nutrita, specie al momento della guerra 15-18, l’opera giornalistica); e dimenticato, e bassamente stimato dalla critica, anche nei decenni successivi. Il primo libro è una raccolta di articoli di critica letteraria, Arabeschi (Catania 1883), dove s’intravede lo sforzo di un giovane siciliano in cerca della sua identità culturale, diviso fra la passione parnassiana per l’arte e i dettami del credo naturalistico (dai quali tuttavia egli si stacca nettamente per rigettare la teoria di Zola dell’analogia arte-scienza): è insomma l’opera di uno scrittore che incomincia laddove sta terminando Capuana, dopo il suo periodo di più impegnato naturalismo. Tuttavia la prima prova narrativa di De Roberto è tutta sotto l’influsso dello stesso Capuana e di Verga: le novelle della Sorte (Catania 1887) ricordano molto da vicino i temi e gli stilemi dei due maestri nella loro produzione regionale; con questo di particolare che l’autore ha voluto contaminare la maniera rusticana di Verga con quella « paesana » di Capuana per un certo suo gusto di perfezionismo che sfiora qua e là il virtuosismo. Comunque l’interesse per l’esperimento verista, per il rifacimento, sostituisce ogni simpatia o curiosità umane nei riguardi del mondo contadino o paesano: De Roberto sarà sempre lontano da queste classi, e già in questa raccolta tutte le sue forze vengono rivolte verso uno strato sociale ben diverso, i nobili, i nobili decaduti allo stato di parassiti e la ricca borghesia isolana. Questi sono i protagonisti della novella La disdetta, la migliore del libro, nella quale viene descritto, col distacco del borghese moderno, tale mondo in decadenza, che vive ancora i suoi ultimi giorni con i sussulti estremi di una pazzia collettiva: così si spiega perché la passione divorante della protagonista per il gioco assuma il valore emblematico di tale follia, di una malattia a cui, come a
una specie di destino («la sorte »), nessuno sfugge. Questa forma di esistenza maniacale e inutile è l’oggetto di una narrazione il più possibile ferma, quasi estranea ad ogni precisa determinazione temporale, fissata in una grande scena in cui viene iterato lo stesso rito sociale e dove i personaggi, più che dialogare, ripetono il loro monologo di schizofrenici. A questo mondo e a quello della borghesia in cerca affannosa di contatti nobiliari si rifà un’altra novella, Nel cortile, dove alla fissità della Disdetta si sostituisce la linea concentrica, a vite, di una
narrazione che descrive, attraverso gli occhi di una serva, le storie di un gruppo di famiglie che abitano la stessa casa: anche qui la narrazione è governata da un celato dissenso ideologico nei confronti dei personaggi, che diventa disgusto per tale gente in smodato movimento. L'occhio schifato dello scrittore borghese deforma la rappresentazione, accentuando non solo la stupidità di questo mondo ma soprattutto la volgarità, che si riflette nei dialoghi o nei commenti in cui servi e parvenus si confondono. In questi due racconti il giovane De Roberto dà già la misura delle sue preferenze e della sua maturità di narratore che sa trovare all’interno della « maniera » verista nuovi spazi socio-ideologici e nuove soluzioni formali. Nell’89 esce un romanzo psicologico dal titolo Ermanno Raeli, di evidente
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Federico De Roberto dalle novelle
a «I Viceré »
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impronta autobiografica, davvero inaspettato dopo La sorte. Si tratta di un tributo molto appassionato alla tematica e allo stile del romanzo intimo alla Dumas fils o alla Bourget, che sarà poi uno dei maestri anche per opere successive. De Roberto, quando ripubblicherà, molti anni dopo nel ’23 il volume, aggiungerà un’Appendice sulla Vera fine di Ermanno Raeli, e dichiarerà esplicitamente il limite autobiografico dell’opera, coinvolgendola nella condanna di un’età in cui prevalgono «il dilettantismo analitico, il pessimismo e il nullismo ». Questo giudizio colpisce da vicino il De Roberto giovane, che nelle vesti di Ermanno appare, al di là delle stesse intenzioni dell'autore, come un nevrotico chiuso ai rapporti con gli altri e soprattutto inibito a livello dei rapporti sessuali. Il tema dell’eros rivela, molto più di quanto il romanzo ci racconti, lo stato di scissione e frustrazione inconscia con cui si apre la via a quella problematica dell’« illusione » che sarà un elemento costante della concezione artistica dell’autore (come filtra perfino dal suo studio su Leopardi uscito nel ’98). A questo nodo amore-illusione è dedicato il successivo romanzo, uscito nel ’91, dal titolo appunto
L’i/lusione,
dove con tale parola s'intende, sì, la mancata (anzi impossibile) corrispondenza fra ciò che si immagina per amore e quello che la vita poi ci offre, ma anche, più in profondo, una scissione morbosa fra l’io e il reale. Tuttavia L’i/lusione presenta un atteggiamento diverso dal Raeli proprio perché, come il titolo stesso dimostra, non la materia immediatamente autobiografica è quella che interessa, ma solo quell’autobiografismo profondo che viene oggettivato nella figura, ben precisa, di una donna. Costei è la protagonista del romanzo così come lo è Giacinta, con la differenza che ci troviamo davanti ad uno psicologo naturalista tanto sfumato pur nella sua logica da evitare quel determinismo fisiologico che uno Zola o un Capuana avevano applicato (il modello è semmai la Emma di Flaubert). Da un impegno costante di psicologia oggettiva, dalla registrazione interna di pensieri ed azioni, nasce il tono di tutto il romanzo,
che nulla concede alla
deformazione ironica o a quella sentimentale, tanto che a volte quasi si vorrebbe sentire la mano dell’autore dietro questo ritratto così coerente e dettagliato; e invece la narrazione prosegue imperterrita, lucida, circostanziata come un’analisi tutta calata nel giro vizioso di rinnovate e sempre analoghe esperienze interiori. L’autore infatti non si permette nessuna diversione, così fedele al suo « metodo » da correre il rischio della monotonia, dell’unidimensionalità, come vuole la logica
di un punto di vista narrativo sempre univoco (il registro ininterrotto della voce del protagonista costantemente al centro e all’origine di tutta la vicenda). La storia procede fitta, senza veri colpi di scena, sempre rapportata ai contraccolpi che riecheggiano nell'animo della donna; i fatti reali e gli stessi personaggi risultano deformati e distanziati, perché presentati attraverso la lente con cui li guarda e giudica Teresa, in un’atmosfera asfittica di esaltazione accesa e desolata. Pur pieno di episodi, L'illusione è un romanzo poco mosso, con scansioni temporali quasi inavvertibili, anche perché gli amori di ‘Teresa rimangono momenti collaterali rispetto alla vicenda centrale dello stratificarsi di esperienze sentimentali nell'animo della protagonista: ed è questa esperienza tutta intima, tutta parlata
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da Teresa a se stessa, che forma la polpa della narrazione e le dà quella dilatazione verbale di commento psicologico continuato, tale da sopraffare ogni autonoma spinta all’azione. Il tema del fallimento è la nota dominante del romanzo, specie nell’ultima parte, dove il dramma di Ermanno si ripresenta nella traumatizzante autoanalisi di Teresa, che nel suo ruolo di amante tradita e traditrice « scopre » l’universale impossibilità di amare se non con l’inganno e l’autoinganno. Insomma Teresa non può essere un’eroina della passione, perché la sua funzione, genialmente antiromanzesca, è quella di negare la passione, di demistificare ogni ideologia amorosa, riportandola al piano delle singole spinte psichiche che la compongono (vanità, orgoglio, egoismo, ecc.) e svelandone quindi la natura illusoria e ingannatrice. A questo punto si affaccia la desolata ispirazione del De Roberto psicologo e gnoseologo, che si pone tutti gli interrogativi fino al limite estremo, fino alla polverizzazione di ogni mito storico, di ogni convenienza, di ogni cosiddetta «verità ». In tali circostanze Teresa da personaggio oggettivato in tutte le caratteristiche psico-sociali diventa non solo punto di riferimento, forza centripeta dell’azione,
ma
anche
senso
interno,
direzione
interpretativa,
funzione
teleo-
logica di tutto il romanzo: ciò spiega perché il solito monologo-commento assuma il significato di una didascalia, fungendo da saldatura fra autore e personaggio, senza tuttavia rompere l’omogeneità di uno stile oggettivo che non permette nessuna intrusione. La storia di Teresa diventa, interiorizzandosi sempre di più, la storia esemplare di chi nell’amore trova un mezzo di conoscenza, una maniera di svelare la «verità »: così le parole della donna disillusa acquistano un’eco nuova, si nutrono di tutta una visione del mondo, di tutta una « filosofia » ana-
litica, tanto più convincente quanto più scaturita dall’incontro coi fatti reali di una vicenda, di una vita. In queste situazioni il realismo problematico di De Roberto raggiunge le sue punte più alte, allarga l'ispirazione positivistica fino a toccare i temi e gli approdi della grande narrativa europea. Teresa è ora uno strumento di conoscenza, è il personaggio emblematico con cui l’autore interroga il mondo e se stesso; l'angoscia, che in Raeli affondava le radici nell’eros inappagato, non ripiega più su un rifiuto autistico di conoscere, di vivere, diventa in-
vece una sonda di autoanalisi su sé e sugli altri. Si leggano brani cruciali come questi: Ella scopriva ora la gran differenza tra le cose immaginate e le reali. Quella passione tanto aspettata,
creduta
sublime,
era cominciata
male, non
le aveva
impedito
una prima infedeltà; ora non le impediva di pensare che vi erano altri uomini dai quali si sarebbe lasciata amare. Ella era dunque veramente perversa? ... No. Riconosceva ancora che qualche cosa di simile accade in tutti, che nessuno è nell’animo quale appare esteriormente; che tanti istinti, tanti moventi, tante idee si nascondono, si mascherano
[.. .] (L'illusione cit., n, 2). Qualche cosa come una caduta di fogle avveniva dentro di lei; ella sentiva di sopravvivere a se stessa; la miglior parte del suo cuore, della sua bellezza, era morta. Le restava il fascino delle rovine, delle torri slabbrate dal fulmine, delle fronti curvate
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dalle avversità. [.. .] Nonostante la negligenza delle sue vesti, l’istintiva eleganza della signora di razza doveva pure attirare l’attenzione dei passanti. [. ..] Ed ella sentiva che era un altro inganno quell’immaginarsi oggetto all’attenzione di qualcuno, quella nuova aspettazione di non essere capace di vincere la diffidenza che la amareggiava . . . Ella sentiva freddo quando pensava a che stato era ridotta. Ah, se l’autore di quella rovina avesse potuto leggerle nel cuore, vederne lo strazio! Stolta ella stessa, che gli aveva creduto, che aveva fatto di quell'amore la ragione della propria vital... [...] L’istinto di sedurre, la smania di piacere l'avevano perduta: la sua vanità era stata eccitata dalla preferenza dimostratale dagli uomini; ma adesso ella riconosceva che l’avevano preferita perché s’erano visti incoraggiati. Considerando tutta la sua vita, da lontano, quasi disinteressatamente, ella scopriva la logica che l’aveva regolata, la fatalità di ogni evento. [. . .] Ma quando pure ella fosse stata fatta a un altro modo? Se pure avesse amato lui soltanto, senz’altre ragioni fuorché quelle del cuore? Tutto sarebbe finito egualmente! Il tempo, i disaccordi inevitabili, la diversità dei caratteri presto o tardi avrebbero prodotto lo stesso effetto! [. . .] Ella aveva creduto che l’amore durasse eternamente: ma v'era qualche cosa senza fine, nel mondo? Aveva creduto ancora che ogni creatura umana non potesse amare più d’una volta in tutta la vita: ma quanti uomini aveva ella amati, in modo diverso? Ed ora domandava tra sé che cos'era dunque l’amore, se esisteva, se era anch’esso un inganno, il più funesto di tutti? ESCI, MII, 2).
Qui tutto il mondo di problemi o d’interrogativi di De Roberto ci viene offerto allo scoperto, in un vortice di deduzioni psicologiche, con cui Teresa e l’autore ricercano e scoprono le leggi e i fini ultimi delle passioni che sorreggono l’uomo. In queste pagine l'andamento analitico del romanzo si colora di un pathos leopardiano, di chi ricerca la verità ad ogni costo e l’accetta come essa è, e la prosa acquista la tensione saggistica di un pensatore drammatico, di uno scienziato del cuore umano, proprio come l’aveva teorizzato (senza poi metterlo in pratica) il Verga dell’Introduzione all’ Amante di Gramigna. Anche dopo L'illusione lo scrittore continuò a tormentarsi intorno ai problemi esistenziali riguardanti la natura dell’amore, senza riuscire però a raggiungere esiti artistici migliori o eguali, e senza neppure trovare nuove dimensioni psicologiche: l’amore rimane sempre un’illusione, un inganno anche tragico. Lo scrittore, non avendo nuovi elementi da aggiungere, può solo variare lo stesso motivo accentuandolo o smorzandolo: nascono così le prose degli Amori (Milano 1898) e la ricostruzione della relazione della Sand con de Musset (Una pagina della storia dell'amore, Milano 1898), oppure i saggi « storici » di Come st ama (Milano 1900), e poi di Le donne, i cavalier’ ... (Milano 1913), dove l’interesse storico si mescola con quello clinico e con lo sdegno moralistico, non senza tuttavia una partecipazione personale («la vita è tanto dura, l’amore è tanto difficile »). Ma è soprattutto col precedente «lungo studio fisio-psicologico » L'amore (1895) che De Roberto si propone più alte ambizioni scientifiche; ed è proprio qui che l’ambizione allo « studio » incorpora taciuti, inconsci scompensi privati, e la ricercata oggettività serve come elemento di razionalizzazione nei confronti del
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proprio mondo interiore. Con insistenza e lucidità maniacali, già presenti in raccolte di novelle come Documenti umani (Milano 1888) e L'albero della scienza (Milano 1890), l’autore si riprova coll’appariscente preziosismo dello psicologo raffinato in opere narrative come Spasimo (Milano 1897) o La messa di nozze (apparsa insieme ad altre novelle nel 1911). In queste pagine De Roberto si presenta come l’analista decoroso, ma anche puntiglioso, dei conflitti sentimentali tipici della nobiltà e della ricca borghesia del suo tempo: neppure lui sfugge al tema d’obbligo della letteratura umbertina, il motivo del peccato per eccellenza e cioè l’adulterio, con tutti i suoi connotati di classe, quelli della borghesia decadente, incapace di superare, nel suo avanzamento, l’impasse di valori e istituti voluti sacri dalla tradizione. Tuttavia, pur nelle vesti eleganti del narratore fin-de-siècle, l’autore riesce a trovare, se non soluzioni, motivi meno ovvi, quando
passa ad analizzare situazioni eccezionali,
quasi abnormi,
Messa di nozze, dove alla soluzione ultratradizionale
com’è quella della
della vittoria della fedeltà
sull'amore peccaminoso viene contrapposta l’analisi di una situazione particolare, fuori e contro i dettami della morale comune. Questo gusto per lo « strano », per il paradosso intellettuale e morale o sfocia nel moralismo psicologico, che costruisce i casi più eccezionali con lo scopo, raggiunto negli scioglimenti, di épater il lettore timorato, oppure si trasforma in quella che l’autore chiama la sua « unica passione della curiosità », con la quale intende — dice — « scoprire il dietroscena delle anime », in uno sforzo di penetrazione e di originalità testimoniato soprattutto da alcune novelle dell’ Albero della scienza, uscito nel 1890. Dello stesso anno
è Processi verbali, in cui De Roberto ritenta l’esperimento verista della Sorte con una coscienza dei canoni veristi portata agli estremi, fino a trasformare, come dice nella Prefazione, la rappresentazione nel « puro dialogo »; queste novelle ricadono tutte sotto il dominio di quello sperimentalismo raffinatamente mimetico che già si vedeva nella Sorte, ma poco aggiungono all’arte del narratore, se si esclude la forte novella I/ rosario, in cui la tragedia di un mondo schiavo di arcaiche regole si presenta direttamente da sola, in un dialogato corale e rituale, molto vicino alla tecnica teatrale (a cui in seguito sarà ridotta). Nel ’94 esce il terzo e ponderoso romanzo, I Viceré, l’opera che riprende anche esteriormente
l’ambiente
della Disdetta, un tema
di cui l’autore doveva
aver compreso tutta la fertilità artistica, se, dopo averlo sfiorato al suo esordio, lo sfruttava appieno in una narrazione di così alto impegno. Il tono di distacco un po’ schifato rimane, voluto dall’argomento (le sordide lotte familiari degli Uzeda), ma il punto di vista ideologico cambia, imponendo una diversa struttura narrativa al romanzo: mentre nella Disdetta la vicenda non ha quasi nessun peso in quel mondo di chiuso ammuffimento, ora la storia delle generazioni degli Uzeda acquista un suo spessore, un suo significato, quello che le deriva dalla storia generale in cui è inserita. Non è un caso che gli anni in cui si situa la trama siano quelli dal ’50 all’82, cioè prima e dopo l’unificazione; e così diventa significativo il fatto che gli avvenimenti politici della Sicilia entrino come elementi di forza in questo quadro. Eppure / Viceré non è un romanzo storico, non pretende cioè
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Federico De Roberto dalle novelle a «I Viceré»
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di darci l’affresco di un’età vista da un osservatore che coglie il meccanismo dei mutamenti e traccia le linee di tendenza di questo processo. De Roberto studia con spirito scientifico la storia di una famiglia e non si fa sfuggire nessun tocco che possa completare il quadro, ma non risale mai dal particolare all’universale: lo studio rimane sempre quello iniziale e da esso si possono trarre leggi che per analogia possono allargersi ad altri fenomeni; ma in concreto lo scrittore non esce mai dai limiti iniziali della ricerca, approfondisce, precisa, non allarga — e di qui derivano il ritmo del romanzo, la sua unilateralità, il suo tono di staticità complessiva, la sua atmosfera di aria chiusa e stantia. È insomma una visione
della storia quale la può avere un positivista che analizza un campione di vita sociale entro limiti cronologici ben precisi e con l’intento di estrarne poi rilevamenti esemplari, da cui si possano estrapolare leggi generali; ed è questo impianto scientifico che conferisce al romanzo un andamento di cronaca di famiglia, tutta composta di uomini e fatti assunti nella loro dimensione più domestica, e toglie dunque ogni alone di leggenda, di mistero, ogni possibilità di slargo epocale, di dialettica universale alla vicenda di cui sono protagonisti gli Uzeda. Anche come storico De Roberto si rivela artista del particolare, dell’empirico, dell’esperito, senza nessuna ambizione alla grande sintesi, alla magniloquenza del sistema: antihegeliano per eccellenza (anche nell’accezione spuria e rettorica che ebbe il cosiddetto hegelismo scientifico) il romanziere si attiene alla visione diretta degli eventi di una famiglia in tutte le sue vicende: il che gli permette di scoprire i « retroscena » di quelle azioni, di quei personaggi, di quelle «anime ». Tuttavia lo studio delle « anime » non ha niente a che fare con l’analisi in primo piano che occupava L'illusione: ora il metodo narrativo cambia interamente; invece dello scavo dall’interno abbiamo i profili psicologici tracciati con linee schizzate e nervose, e l’intero personaggio è oggettivato in un ritratto psico-fisiognomico complessivo. Tutto l’interesse è dunque al « di fuori » dei personaggi e non più rivolto al loro mondo interiore: a questo fine il narratore sacrifica ogni approfondimento analitico e riduce a un dinamismo psichico elementare la psicologia dei personaggi, tanto da stilizzarli ed irrigidirli in alcune, poche pose e « fissazioni ». È superfluo aggiungere che questo impoverimento nasce da una precisa coscienza artistica, quella di sminuire la vita interiore dei singoli per sottolineare i segni della vita collettiva: gli Uzeda non sono solo una famiglia, sono un clan, una tribù civilizzata che mantiene ancora saldissimi i legami non affettivi o di sangue, ma di complicità o di isolamento razzistico — e questa cruda affinità si rinsalda in un’ideologia nobiliare tramandata nei secoli come una forma necessaria di razionalizzazione degli impulsi aggressivi su cui si fonda l'equilibrio interno della famiglia e la sua forza nei confronti dell'esterno. De Roberto insiste senza moderazione sull’inciviltà di questa nobilissima schiatta: tutti gli Uzeda senza eccezione sono dei personaggi meschini, vili e interessati, tanto che il vero legame che li accomuna non è né la parentela né la vanità nobiliare quanto la più compatta e meschina volontà di arricchirsi o imporsi sugli altri. E non è possibile distinguere dove tale volgarità sia frutto della storia, del-
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l'educazione di casta e dove invece essa si presenti come uno dei tanti aspetti della generale, « naturale » malvagità dell’uomo. A questa malvagità interessata, stupida e/o furba, coerente e/o contraddittoria, nessun Uzeda può sfuggire; la stessa « pazzia », che, come un male di famiglia, infetta ogni personaggio, sia pure nelle forme più oblique e bizzarre (fra le follie di Ferdinando c’è anche il suo ritorno alla normalità e alla mondanità!), più che una malattia vera e propria, è una reazione comportamentale, una maniera di salvare un barlume di umanità in un mondo di alienazione storico-sociale: insomma una deviazione dalla regola pazzamente utilitaristica che permette una qualche forma di liberazione solo attraverso qualche stranezza. Ma in realtà nessuna « stranezza » rompe la regola come sistema; alla fine dei conti i personaggi devono inchinarsi alla grande legge che accomuna tutti, la legge dell’interesse, la legge della ricchezza (non si dimentichi che I Viceré è, naturalisticamente, il romanzo di un’eredità disputata e contrastata). Si veda il caso di Raimondo, apparentemente il più lontano da questa logica, il più sovrastrutturale, nel suo stolido girovagare di amore in amore; eppure anche lui rientra nel giro degli interessi di famiglia e serve ai piani egemonici del fratello maggiore così come polarizza intorno al suo secondo matrimonio le opposte fazioni familiari; anche il fatuo, il noncurante Raimondo è un Uzeda ed incrementa la nuova ristrutturazione della stirpe, e rappresenta un anello di questa catena generazionale che porta gli antichi viceré ad imporsi anche nella Sicilia liberale dell’unificazione. Per non parlare di Consalvo, il diseredato, il traditore, passato al fronte nemico dei liberali, che spiega all’ostinata zia Ferdinanda che con lui al parlamento andavano gli Uzeda, che insomma anche la fede liberale era una maniera di affermare la superiorità dell’antica razza nobiliare. Consalvo col suo apologo finale tira le fila della lunga vicenda e illumina le costanti ideologiche del romanzo: La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni
esteriori mutano;
certo, tra la Sicilia di prima del sessanta,
ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L’ Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti? ... In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi... Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni... Di qui a ottant'anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dun-
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a «I Viceré »
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que come legittimi anche i Savoia... Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta...
Dobbiamo
farci mettere
il piede sul collo anche
noi?
Il nostro
dovere,
invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene! . . . (I Viceré cit., 11, 9).
Qui il personaggio assume su di sé il senso dell’opera ed esprime la ragione che ha manovrato nascostamente tutte le azioni narrate, come se l’autore, che fino
alla fine si è tenuto al di fuori, voglia lasciare ad un personaggio la responsabilità di «spiegare » il succo di quel maneggiare, di tutti quei mutamenti che approdano alle posizioni da cui si è partiti. Certo nelle parole di Consalvo filtrano anche molte convinzioni di De Roberto, il suo relativismo, lo scetticismo, il pessimismo;
ma sarebbe sbagliato credere ad un’identificazione tout court fra scrittore e personaggio e illudersi di avere finalmente in mano la chiave con cui leggere, retrospettivamente, tutto il romanzo. La verità è che Consalvo anche in questa tirata finale è un personaggio determinato in ogni suo movimento, come tutti gli altri, e, quando parla, lo fa secondo le ragioni ideologiche che hanno guidato il suo operare; d’altra parte l’ideologia di questo nobile arrivista travestito da democratico non è certo l’ideologia dello scrittore borghese che critica sì la società moderna e democratica, ma senza, naturalmente, nostalgie feudali. Infatti non è possibile far coincidere l’ottica di Consalvo, che è un’ottica teleologica e perfino positiva, con l’ottica di uno scrittore borghese sfiduciato, che ha perso ogni punto di vista e si rifiuta di accettare come giusta l’interpretazione della classe dominante: questa è in realtà la posizione critica della piccola borghesia emarginata socialmente quando sfugge alla mistificante integrazione e contrappone la propria ottica scettica e immobilistica al progressismo ufficiale e interessato della borghesia al potere. Insomma l’intento di fondo non mira solo a dimostrare quale sia la sorte dei viceré in un momento di trapasso che sembra significare la fine dei loro privilegi, ma mira piuttosto a mettere in luce i meccanismi profondi (istintivi ed economici) che agiscono nella storia, che « fanno » la storia; con questa riserva però da parte dell’autore, e cioè che nessun meccanismo spinge in una direzione precisa, perché la storia non segue nessun disegno, non tende ad alcun fine prestabilito, è semmai la summa delle singole rivalità, delle singole furbizie che si equilibrano in un perenne, « naturale » status quo. Solo partendo dalla particolare angolazione sociale dell’autore è possibile intendere l’ideologia della sua opera e distinguere la sua «sincerità » di artista (così come la vuole Lukàcs) dalle posizioni politiche dell’uomo, le quali, se non furono univocamente reazionarie come quelle di Verga o Capuana dalla Commune in poi, si fecero col passar degli anni sempre più decisamente nazionalistiche, come dimostrano gli articoli scritti durante la guerra °15-18, raccolti in A/ rombo del cannone e All’ombra dell’ulivo (Milano 1919 e 1920). Un disgusto spregiatorio nei riguardi della storia ufficiale è a monte dei Viceré e ne determina l’angolazione ideologica come quella espressiva: se quello che De Roberto nega è una
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Regionalismo,
verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud
qualsivoglia concezione razionale della storia, ciò vuol dire che egli non condivide l’idea di progresso che la borghesia positivista ha travasato dallo studio del mondo animale a quello dei fenomeni sociali (che è poi il progresso che s’identifica con la conquista dei privilegi borghesi); ma nello stesso tempo egli non sa contrapporvi nessun’altra « filosofia della storia », che spieghi in termini extraindividuali il meccanismo della società. Non è un caso che nella cronaca delle rivalità e degli arrivismi manchi sempre ogni riferimento alle classi popolari (quando il popolo appoggia lo zio duca, lo fa secondo i soliti canoni della passività plebea); e questo spiega non solo la chiusura entro cui agiscono i personaggi (e le idee dell’autore), ma anche l’assenza di ogni lotta di classe, sostituita da una fitta lotta di casta, in coerenza d’altronde con una sottintesa concezione politica aristocratica, di stampo machiavellico, secondo cui le sorti della nazione si deciderebbero sempre e solo in alto (in questo senso, tradizionale, I Viceré è un libro politico, senza però quel mordente genuinamente socio-economico che sorregge un libro apparentemente apolitico come Mastro don Gesualdo). Per meglio valutare il significato dei Viceré non si deve inoltre dimenticare il peso determinante che ha per l’arte e l’ideologia di De Roberto l’imperante positivismo, attraverso il quale l’autore riesce ad esorcizzare ogni soluzione decadente, ogni rifugio irrazionalistico o idealistico. Si tratta appunto di un positivismo senza fede, senza illusioni, senza mistificazioni ideologiche: è semmai un positivismo metodologico, applicato come una formula scientifica, così come lo hanno teorizzato certi filosofi nostrani, convinti della scientificità del metodo quanto respinti da ogni estrapolazione sistematica o moraleggiante. Se di una fede fosse il caso di parlare, forse si potrebbe utilizzare la « fede negativa » di cui parla l’Appendice del Raelt, per avanzare
l’ipotesi che la brutalità,
la negatività dei Viceré affondi,
prima di razionalizzarsi in un metodo, in un inconscio atteggiamento di rifiuto, che coinvolge ora tutta la storia e può spiegare la spinta, poi coperta da giustificazioni storiche, a « sporcare », a brutalizzare tutto ciò che si pone nella società come elemento di dominio e di stabilità. In tal maniera s’intenderebbe meglio anche la fenomenologia erotica del romanzo, che viene presentata coi toni del cinismo più meschino e volubile, come una trista « fissazione » fra le altre e semmai più volgare e schifosa (basti ricordare la coppia Lucrezia-Giulente, o quella Chiara-Federico, con l’episodio saliente del feto mostruoso); con l’unica eccezione del personaggio di Matilde, una ripresa di moduli dell’I/lusione, non privo tuttavia di sfumature vittimistiche contrapposte al sadismo sistematico degli Uzeda. Il motivo dello spregio, dello schifo per ciò che fa storia, è un atteggiamento conoscitivo e non moralistico, come dimostra la forma in cui si cala, che non è quella dello sdegno o del sarcasmo, ma lo stile obliquo, di seconda mano, la cui
funzione consiste nello stravolgere il tono della narrazione, nel connotarla coi segni di un sistema deformativo che ammette tutte le gradazioni, dall’increspatura sorniona al taglio grottesco o lugubre. Si è detto che questa angolazione abnorme e deviante fa tutt'uno con l’ideologia dissacrante dell’autore; la storia
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a « I Viceré »
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viene negata nel suo stesso farsi, nel suo sovrapporsi di segmenti disgiunti, come se un elemento disturbatore ne sconvolgesse ogni germinale pianificazione. Si veda la funzione di certi personaggi didascalici, come don Blasco o il cocchiere Pasqualino, espositori interessati e perciò deformanti ed insieme attori della vicenda: sono una geniale risorsa stilistico-narrativa che permette all’autore di non intervenire e ottenere tuttavia l’effetto di una sanguigna e tetra parodia, che s'impone come la cifra paradossale, e finalmente liberata da ogni censura stilistica, del tono diffuso e sia pure frenato e quasi dissimulato di tutto il libro. Ma questa accentuazione non è casuale, così come non è casuale che ne siano portatori personaggi dalle caratteristiche sociali ben definite, come un servo-ruffiano o un nobile declassato e frustrato, perché queste sono le voci più adatte per intonare l'epopea della meschinità e dell’arrivismo (che rimanda ad una generale interpretazione « maligna » da escluso, quella tipica di uno storico in uno stato di costante sospetto nei confronti di quanti raggiungono o detengono il potere). Tale atteggiamento si traduce in un particolare habitus espressivo, in una forma di dissimulata e raggelata parodia stilistica, quasi fosse un discorso di seconda mano, riecheggiato con i toni striduli dell’osservatore curioso e schizzinoso, anche se non sempre convulso o fazioso come nelle tirate di don Blasco o Pasqualino. Se non sempre per involgarire o immeschinire, questa « maniera » riflessa funge di volta in volta come alone ironico, come suggestione di artificiosa grandezza, come rettorica svuotata dal suo interno: basti ricordare due momenti ti-
pici di questa « commedia » stilistica, la lettura che zia Ferdinanda fa al piccolo Consalvo del libro genealogico di Mugnòs (la cui prosa, un rifacimento secentesco molto gustoso, suggerisce un giudizio sugli Uzeda e sulla loro « politica » più vivo di ogni presa di posizione esplicita), e l’altro brano, l’unico di tono leggero e piacevole, in cui si assiste ad una parodia per contrappunto fra le. regole benedettine e la versione godereccia dei frati. Ma le citazioni potrebbero moltiplicarsi. De Roberto non si stanca di variare la sua prosa con gli accorgimenti della deformazione, della interpolazione; eppure il tono generale non è quello del pastiche linguistico o stilistico, perché non sulla varietà, sulla diversità punta il romanzo, ma piuttosto sulla complessità e sulla compattezza, a cui si riportano, come a un comune denominatore, tutte le variazioni, le quali poi non assumono mai
i caratteri
della trouvazlle,
ma
sono
linee convergenti,
pezzi concatenati,
tutti tesi all’unico fine di rafforzare l’ossatura narrativa (e ciò spiega perché / Viceré, pur coi suoi bei brani e i felici personaggi, sia un’opera tutta d’un pezzo, mal antologizzabile). Questa fondamentale ispirazione all’unità la si nota nella stessa scansione materiale del romanzo. De Roberto è un narratore di gran lena, che ha bisogno di predisporsi grandi spazi per poter distendere la sua materia e dipanarne tutti gli svolgimenti: da qui la disposizione della materia in grossi blocchi, ampiamente scanditi secondo precise regole modulari. È significativo che sia L'illusione che I Viceré abbiano le stesse misure: tre parti ognuna, divisa in nove capitoli; è un’identità esteriore che mostra la maniera di procedere del narratore, che è quella tipica del narratore « ordinato », rivolto a raggiungere
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effetti di regolarità, di compostezza, di coerenza e soprattutto di organicità: l'impressione di piattezza e perfino di noia che nasce dalla lettura dei romanzi derobertiani è un effetto voluto, deriva dal taglio e dal tempo che vengono impressi alla narrazione. Certo, quest'« ordine» è una scelta narrativa cosciente e impegnata tanto quanto quella dei più audaci naturalisti, e non si tratta solo di tecnica, ma piuttosto di un’ideologia narrativa complessiva che cade sotto le leggi di un’ideologia esistenziale: seguire pedissequamente il tracciato diacronico dei fatti, evitare i finali bruschi o le riprese ex abrupto significa, sì, decidere di scrivere un romanzo « regolare », ma significa soprattutto ubbidire ad una ben precisa nozione del tempo, esistenziale prima che letteraria, ad una elementare Weltanschauung. Possiamo dire che i canoni tecnici dei naturalisti corrispondono ad una visione drammatica dell’uomo e del suo « destino », mentre la narrazione
di De Roberto rispecchia da cui deriva che narrare di avvenimenti, così come ad una meta, o meglio nel sta maniera di narrare è
una concezione immobilistica della vita e della storia, vuol dire disporre entro un arco di tempo una sequela appaiono, nel loro susseguirsi empirico, senza tendere loro presentarsi come motivi in continuo ritorno. Quedunque una maniera di percepire il tempo da parte
di uno scrittore, per cui la storia è il regno del discontinuo, ma non del nuovo,
al quale interessa registrare le « conversioni repentine » e le « ostinazioni » di una famiglia, negando nello stesso tempo che vi sia mai stato un vero cambiamento. Così si spiegano il procedere lento del romanzo, la sua monotonia di fondo, la sovrapposizione di due piani contrastanti, dell’identico strutturale e della varietà episodica: in realtà nessun romanzo ha tanta varietà di elementi e così effimera «storia) romanzesca, come se esso non solo si negasse come opera storica, ma perfino, paradossalmente,
come
movimento
organizzato,
come
romanzo.
Dopo / Viceré De Roberto in un lungo giro d’anni, che va dal ’93 al primo decennio del ’900, pose mano a un romanzo parlamentare, che rimase incompleto e inedito e venne pubblicato postumo nel ’29 da Mondadori col titolo L’imperzo. L’opera, così com'è, appare allo stato di una prima redazione, con diverse incongruità e difetti di lingua. Si tratta tuttavia di uno scritto molto significativo, e non di un abbozzo saviamente messo da parte: semmai troppo significativo, tanto da assumere un valore testamentario — il che spiegherebbe il «ritiro » (o quasi) dello scrittore negli anni successivi. L’imperio è un romanzo parlamentare o meglio politico, anzi il più esplicito ed impegnato sul tema della Roma politica fino a I vecchi e i giovani, condotto con i criteri della veridicità e della documentazione voluti dal naturalismo, e certi « quadri » di sedute parlamentari, di salotti parapolitici, di corridoi e retroscena hanno il rilievo a tutto tondo degno dell’arte di Zola. Ma il naturalismo iniziale ben presto si rivela per quello che è solitamente in De Roberto, una spinta allo « studio » delle eco che i dati producono nel personaggio, che è poi uno studio così approfondito, pur senza mai essere irrelato, da disperdere nei meandri dell’interiorità i caratteri classici dell’oggettività della rappresentazione. "Tale processo di progressiva erosione della visuale esterna è accentuato dal fatto che i protagonisti sono due (elemento que-
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sto che permette di alternare le corsie della narrazione e di rompere l’unilateralità e l’unidimensionalità psicologica dell’I/lusione), e così si ottiene un altro effetto, quello di problematizzare i « fatti » narrati presentandoli da due diversi punti di vista, e inoltre di ulteriormente
sottolineare il carattere riflessivo ed autori-
flessivo, giustapponendo ed intersecando le due interpretazioni, oltre che le due vicende. Più che mai questi personaggi non tanto agiscono quanto riflettono, giudicano o almeno osservano;
sono dei contemplativi, dei meditativi, uomini per i
quali vivere è sempre successivo a pensare, come se una forma di inibizione togliesse loro ogni facilità, ogni naturalezza, e riuscisse a frenare o ritardare ogni spinta all’immediatezza, all’azione. Questo atteggiamento è tipico dell’idealista Ranaldi, osservatore prima entusiasta e poi sempre più deluso; ma lo è anche del suo antagonista, il Consalvo dei Viceré, la cui carriera di politicante non è rappresentata come nel precedente romanzo tutta nel suo farsi, ma anche nei piani e negli indugi tattico-riflessivi con cui il giovane deputato si affanna interiormente nella continua tensione di aprirsi la via al successo. Questo Consalvo tormentato dai mille dubbi del suo cinico arrivismo si anima come non gli succede mai nei Viceré: anche lui è in fondo, al di là di ogni giudizio morale, una vittima del relativismo universale da cui nasce la disperazione di Ranaldi. Il crollo della fede risorgimentale di quest’ultimo scaturisce dallo stesso atteggiamento con cui l’ultimo Uzeda studia la società: sia pure con opposti intendimenti morali e civili, entrambi i protagonisti sono costretti a demistificare di volta in volta i loro ideali e i diversi programmi politici, scoprendone non solo le contraddizioni e le debolezze, ma più ancora le assurde parzialità, le incongruenze, che
rivelano la natura molto relativa, equivoca e particolare delle « verità » sbandierate dai vari partiti. In tanto accanimento demistificatorio non si può tuttavia non notare che l'evoluzione dello scrittore va verso una politicizzazione dei propri impulsi negativi, nel senso che la risultante è ancora una visione negativa della politica, ma da situarsi « dopo » e non prima (come avveniva nel Rael) della conoscenza del mondo e della storia. Così si spiega la curiosità quasi ossessiva (presente, sia pure diversamente, già nei Viceré) per il mondo di chi ha in mano le sorti degli « altri », e cioè dei sottomessi, degli estromessi, come è appunto la classe sociale da cui proviene l’autore. C'è un senso di frustrazione e di rivalsa in questa attenzione fredda e sdegnata, e insieme una forma di ripugnante attrazione, la spia di un complesso d’inferiorità che si tramuta in un’inconscia rivalsa sociale di un intero strato costretto a mansioni subalterne. In tale nodo di lucidità politica e di ribellione socio-psicologica sta la spiegazione della eccezionale carica ideologica di cui è investito il romanzo: come non mai, in queste pagine De Roberto si scopre in tutte le sue convinzioni, che sono in primo luogo una condanna della democrazia parlamentare, ed in specie del trasformismo, ed in secondo luogo una malcelata simpatia per l’estrema sinistra, o meglio per gli ideali della sinistra, come dimostra l’episodio della conferenza antisocialista di Consalvo, parodiata
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criticamente dall’autore. Ma questa simpatia non vuol certo dire apertura verso le idee socialiste, a cui l’autore si oppone con la sua ipoteca pacifista e col rifiuto inorridito della violenza rivoluzionaria. In realtà la tormentata riflessione politica di De Roberto rimane un processo puramente intellettuale e morale, non nasce dallo scontro della realtà, ma da una concezione della politica come diverbio polemico, o come — si legge — « movimento fatale delle idee »: dal che deriva quello svuotamento di concetti e di interessi, che permette di opporre al trasformismo una forma di trasformismo idealistico, come mediatore dei programmi contrapposti sulla base di un’inconsapevole ideologia interclassista. Comunque il tratto caratteristico di questo De Roberto « politico ) non consiste in questi ingenui piani di coesistenza pacifica, e neppure nello sdegno « democratico )-moralistico con cui viene stigmatizzata la prassi politica, ma nell’analisi tutta negativa a cui vengono sottoposti i valori e le idee della classe dominante. Questa verifica a contrario la si può riscontrare nel discorso di Consalvo, abilmente costruito di tali feroci luoghi comuni (peraltro attualissimi) così da cadere sotto i colpi della propria logica egoistica; oppure nel terribile monologo dell’ultimo capitolo, quando Ranaldi, ritiratosi in provincia deluso e amareggiato, tira le fila delle sue esperienze del « mondo ». In questo amaro consuntivo, il concetto-chiave dell’illusione, la teoria dello scacco, già provata sul terreno psicopatologico di un Raeli isolato e senza storia, diventa un giudizio sul mondo e sulle sue leggi: la « perfidia dell’eterna illusione » non è più dovuta ad uno squilibrio fra illusione e realtà, ma è l’estrema conseguenza di una valutazione globale supposta come oggettiva. In questa operazione universalizzante s’intravede l’antico influsso leopardiano, il cui pessimismo razionale, deduttivo è certo presente, ma volto ad esiti meno raffinati intellettualmente, più oscuri e più torbidi,
privo com'è di ogni rigore materialistico-sensistico. Questo impegno pessimistico è in realtà l’Antiginestra, il rifiuto di ogni solidarietà, anzi di ogni società, è l’affermazione della «vanità e inutilità di tutto» contro alla « ferrea necessità del dolore, della morte, del male ». Infatti l’unica conseguenza logica di tale primato del male è che « mai, mai, qualunque cosa si tenti — come dice Ranaldi —, qualunque mutamento si compia, qualunque rivoluzione trionfi, i mali sociali scompariranno, come non scompariranno i mali morali, come non scompariranno i fisici,
manifestazioni particolari del male infinito ed eterno ». A riprova di questa affermazione l’autore analizza le teorie anarchiche o meglio nichiliste, di cui egli ha mostrato di sentire il fascino anche in certe pagine del « mondano » Spasimo; ma è significativo che tale fascino sia quello del piccolo-borghese che cerca di ribellarsi ad ogni costo, del piccolo-borghese sovversivo che non vuole la distruzione di questa società, ma di ogni società, proprio perché universalizza la propria condizione di alienato senza vedere lo sbocco in una diversa composizione sociopolitica. Così si spiega il nuovo messaggio « politico » di questo De Roberto, che propaganda la morte come unica salvezza possibile ed auspica la violenza sugli uomini allo scopo di «liberarli e liberarsi », e immagina nuove sette « liberatrici ), cui spetterà il nome di « biofobi » e di « geoclasti ». Siamo dunque fuori
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da ogni contesto storico così come da ogni discorso politico, e non sarà un caso che questo De Roberto « sovversivo », posto di fronte alla realtà, si tramuterà in uomo d’ordine (nazionalista, colonialista, fascista), poiché questo sovversivismo si offre « naturalmente » ad incarnazioni di destra, che sono poi le uniche possibilità con cui un borghese può tentare di uscire dal labirinto del proprio sistema, dopo aver guardato in faccia le mostruose condizioni in cui si trova costretto a vivere. E Voriginalità dell’Imperio, fra i romanzi
di fine Ottocento,
consiste nella
furia analitica distruttiva con cui si dimostra l’ineluttabilità del Male e l’invivibilità della vita. Le proposte politiche positive non appartengono all’artista ma all’uomo: per un borghese cosciente e disilluso non c’è positività politica, ma solo negatività — quando egli tenta di superare questo stadio, non gli rimangono che i luoghi comuni, il cosiddetto buon senso. La chiusa del romanzo è, infatti un’inattesa esaltazione della morale piccolo-borghese casalinga, individualistica, che nella rassegnazione vede l’alternativa agli orrori della politica. Sul piano formale, nell’Imperio prevalgono due caratteristiche, quella della pittura d'ambiente e quella del saggismo monologante; ma manca la circolarità o la compattezza che si aveva nei Viceré o nell’IMlusione. Si ha la sensazione che De Roberto abbia tentato una nuova strutturazione narrativa, non più fluida e graduata in un disegno di continuità, ma a grossi blocchi, con i capitoli che tagliano l’azione in altrettanti momenti cruciali quasi autonomi, dove la tecnica del romanzo chiuso s'impone con quel finale « spurio » di cui si è detto. Esso serve comunque anche tecnicamente ad imbrigliare la latente forza di apertura e di continuità che opera negli altri romanzi, conformemente
d’altronde con la tensione intellettuale, inquieta e mai
paga, che anima i personaggi (non a caso tutti i finali, anche la «spiegazione » di Consalvo, sono in qualche maniera l’interruzione di un movimento narrativo destinato a non fermarsi). Dopo L’imperio il narratore quasi tace, trasformandosi in giornalista politico (specie in occasione della Grande guerra) o dedicandosi a quella «via di mezzo tra le severe indagini e gli amabili ragionamenti » intorno ad argomenti storico-erotici che risultò, come aveva previsto nell’Avvertenza all’ Amore, una «via ambigua, cioè pessima ». Le poche novelle scritte dopo La messa di nozze (raccolte in parte nei volumi La «cocotte » e Ironie del ’19 e del ’20) portano i segni della stanchezzae della convenzionalità dello psicologo salottiero e mostrano tutto il filisteismo patriottardo e propagandistico dello scrittore interamente integrato, che di fronte ai pericoli interni ed esterni ha abbandonato ogni atteggiamento «critico ) e si è fatto portavoce fedele delle « necessità » proclamate dalla borghesia in pericolo (si vedano i racconti di ambiente militare, mai raccolti in volume). E tuttavia ancora una volta, almeno, è concesso
all’artista di smentire
le « falsità » dell’uomo, quando in una delle novelle militari egli, patriota e interventista accanito, descrive le condizioni psicologiche e di vita dei soldati costretti a disumani eroismi: La paura (1921), che dà il titolo al racconto, è la risposta elementare che questi soldati, uomini prima che patrioti, contrappon-
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gono alla rettorica omicida dei comandanti. Certo De Roberto non è Lussu, e sarebbe assurdo attendersi un’esplicita condanna della guerra e dell’ideologia interventista (basti ricordare l’enfasi « eroica » dell’ufficiale Alfani che degrada l’intera novella); ma questo secco racconto dialogato nei vari dialetti fa tabula rasa dell’interpretazione ufficiale dell’eroismo dei « nostri» soldati e ce li presenta come uomini deboli, come vittime inutili e perfino, almeno in un’occasione, come
esseri « esposti — si dice — a morte certa, inutile e ingloriosa », che mormorano «contro i lontani Comandi, contro i pezzi grossi ben tappati al sicuro d’ogni pericolo ».
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A.
# Alle voci ordinate con riferimenti ai singoli $$ precede una parte generale ordinata così: Antologie. — B. Opere di carattere generale.
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Chiarini, nuova present. di S. Timpanaro, Firenze 1961. Opere di Collodi: Tutto Collodi per î piccoli e per i grandi, a c. di P. Pancrazi, Firenze 1948; di Pinocchio cfr. l’ed. di A. Camilli, Firenze 1946 e l’ed. naz., Firenze 1955, con introd. di L. Volpicelli e biogr. di F. Del Beccaro; cfr. anche Narratori dell’Ottocento e del primo Novecento, vol. II, cit. in bibl. gen. (A). Su Collodi cfr.: La guida bibliografica per Pinocchio, in « Rassegna lucchese », 1952 (e prima G. Puccinelli, Bibliografia di C. Lorenzini, Roma 1933); B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. v, Bari 1938; Ragguagli di Parnaso cit. in bibl. gen. (A); P. Bargellini, La verità di Pinocchio, Firenze 1941; U. Biscottini, Pinocchio uomo qualunque, Firenze 1941; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze 1945; D. Provenzal, La lingua di Pinocchio, in « LN », marzo 1952, pp. 25-6; F. Chiappelli, Sullo stile del Lorenzini, in « Lett. », 5-6, 1953, pp. 110-8; E. Servadio, « Le avventure di Pinocchio » all’esame della psicanalisi, in « Il Tempo », 3 ottobre 1954; L. Volpicelli, La verità su Pinocchio e saggio sul « Cuore >, Roma 1959; R. Bertacchini, Collodi narratore, Firenze 1961; Id., C. Collodi, in Marz. Min., 1v; Id., Collodi educatore, 1964; P. Guarducci, Collodi e il melodramma ottocentesco, in « Quaderni della fondazione C. Collodi », Firenze 1968; negli stessi « Quaderni »: G. Genot, Analyse structurelle de Pinocchio, Firenze 1970 (e altre pubblicazioni fra cui la ristampa del fascicolo cit. della « Rassegna lucchese », 1967); G. Kamber, Le fonti nel « Decamerone » di due episodi di « Pinocchio », in « It. », 3, 1969, pp. 242-78; V. Spinazzola, Pinocchio e le risorse della fantasia, in « ACME)», 2, 1969, pp. 125-59; F. Tempesti, Chi era 11 Collodi. Com'è fatto Pinocchio, introd. a Pinocchio, Milano 1972; G. Jervis, pref. a Pinocchio, Torino 1968; F. Del Beccaro, voce in Dizionario critico della letteratura italiana cit. (con bibl.). $ 57. Di Pratesi cfr.: la ristampa dell’Eredità, a c. di V. Pratolini, Milano 1942, riedita nel 1965 a Milano con uno studio di R. Bertacchini sulla fortuna critica di Pratesi (c’è unito Memorie del mio amico Tristano); a c. di R. Bertacchini è uscito il Mondo di Dolcetta, Bologna 1963, la cui prima redazione è compresa in Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento, vol. 11, cit. in bibl. gen. (A). Su Pratesi cfr.: L. Anzoletti, Per lo studio di un romanziere, in « Rassegna nazionale », 1 febbraio 1907, pp. 459-75; B. Croce, La letteratura cit., v; G. Guidotti, Un’aurora sull’Amiata, Siena 1956; R. Bertacchini, Figure e problemi di narrativa contemporanea, Bologna 1960; G. Luti, Narrativa italiana dell’Otto e Novecento, Firenze 1964; M. Ramuzzi, Le tre edizioni delle « Memorie di Tristano », in « RLI », 1, 1966, pp. 87-101; F. Mattesini, Il decennio milanese di M. Pratesi, in Studi sulla cultura cit.; F. Del Beccaro, voce in Dizionario critico della letteratura italiana cit.
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Bibliografia
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le recenti riedd.: I misteri di Napoli, Firenze 1966, con introd. di G. Luti (e la più recente scelta a c. di G. Innamorati, Novara 1972), e I vermi, Napoli 1972, 2 voll. In generale cfr.: L. Russo, Napoli letteraria dopo il 1860, op. cit. in bibl. gen. (B). Su Mastriani, cfr.: G. Algranati, Un romanziere popolare a Napoli, Napoli 1914; F. De Filippis, Il romanziere degli umili, F. Mastriani, in « Il tesoretto », 1947, pp. 1081-3; G. Innamorati, Mastriani non verista, in « Par. », aprile 1957, pp. 42-54; G. Luti, Attualità di F. Mastriani
(introd. cit.); E. Ghidetti, Eugéne Sue e il romanzo sociale in Italia, introd. a E. Sue, I misteri di Parigi, Firenze 1965; A. Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli 1972 (molto importante); Id., il vol. x della Storia di Napoli. Dopo il °60: Napoli dopo un secolo (1860-1960), Napoli 1961; in generale sul fewilleton cfr.: A. Bianchini, Il romanzo d’appendice, Torino 1969. Di M. Serao cfr.: Le più belle pagine di M. Serao, a c. di A. Consiglio, Milano 1934; Serao, a c. di P. Pancrazi, Milano 1944, 2 voll.; L’occhio di Napoli, con pref. di A. Banti, Milano 1962; Il ventre di Napoli, a c. di A. Consiglio, Napoli 1973. Su M. Serao cfr.: B. Croce, La letteratura cit., 11; Raffa Garzia, M. Serao, Rocca S. Casciano 1916; I. Giusso, La grande borghese M. Serao, in « NA », 1 febbraio 1931, pp. 36177; G. Petronio, in «Italia che scrive», 7-8, 1946, p. 140; A. Momigliano, Ultimi studi, Firenze 1954 (ma del 1946); G. Squarciapino, Roma bizantina, "Torino 1952; S. Spellanzon, M. Serao, in « Pon. », 12, 1956, pp.2092-100; M. Prisco, Ritratto di M. Serao, in «NA », 1 febbraio 1954, p. 221-36; M. Picchi, « La conquista di Roma » di M. Serao, in « FL», 18 e 20, 1957; A. M. Gisolfi, M. Serao Conquest of Rome, in « It. », 1, 1960, pp. 22-43; R. Frattarolo, M. Serao trent'anni dopo, in Dal volgare ai moderni, Roma 1962; E. Caccia, in Marz. Min., iv, 1962; M. Meunaud-Jeuland, Sur un portrait probable de M. Serao, in « REI », 1, 1967, pp. 51-64; A. M. Gisolfi, The Dramatic Element in M.
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Bibliografia
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L’ultimo borghese, a c. di G. Comes, Milano 1969; su Onufrio cfr.: G. Raya, Un dimenticato dell'Ottocento siciliano, E. Onufrio, in « Idea », 37, 1957, e G. Comes, E. Onufrio nella «grande conversazione », Firenze 1969, nonché la rec. di M. Paladini all Ultimo borghese, in « Problemi », 15-6, pp. 718-22; M. Sipala, Ideologia e letteratura in E. Onufrio, in « Archivio storico per la Sicilia orientale », LXI (1969), pp. 297-310; G. Miligi, Il soggiorno milanese di E. Onufrio, in Studi sulla cultura lombarda in memoria di Mario Apollonio, vol. 11, Milano 1972; G. Mariani, Ottocento romantico e verista, Napoli 1972. G. C. Chelli, L’eredità Ferramonti, con nota introd. di R. Bigazzi, Torino 1972; cfr. inoltre B. Croce, La letteratura cit., vi, e R. Bigazzi, Un verista dimenticato : G. C. Chelli, in « RLI », gennaio-aprile 1964, pp. 111-29. I romanzi e racconti di Zena sono usciti a c. di E. Villa, Bologna 1971; La bocca di lupo è edito anche in C. Boito, A. G. Cagna, R. Zena, Opere scelte, a c. di G. Spagnoletti, Milano 1967, oltre che in Narratori, In, cit. in bibl. gen. (A); cfr. gli articoli critici raccolti da E. Villa, in Verismo polemico e critico, Roma 1971. Su Zena cfr.: L. Capuana, Libri e teatro, Catania 1892; B. Croce, La letteratura cit., VI; E. Vivaldi, R. Zena, Genova 1930; A. Varaldo, R. Zena, in « NA », 1 giugno 1930, pp. 379-91; A. Baldini, I perduti de « La farfalla », in Fine Ottocento, Firenze 1947; G. Del Vecchio, R. Zena, Roma 1960; E. Villa, Scapigliatura e verismo a Genova, Roma 1969; G. Spagnoletti, La «verve» satirica di Zena, in « NA », 1 luglio 1972, pp. 339-45; A. Briganti, Note su R. Zena prosatore, in « Trimestre », settembre-dicembre 1972, pp. 395-420. $ 63. Delle opere di De Roberto, sono edite da Garzanti I Viceré e L'illusione (Milano 1959); L’imperio è edito da Mondadori (Verona 1959); dei Viceré esiste un’altra ed. a c. di L. Russo, che ha curato le Opere, Milano 1950, in cui sono comprese La messa di nozze, Il rosario (riduzione teatrale) e La paura (dei Viceré c'è anche un’ed. scolastica a c. di M. Turchi, Milano 1960); La messa di nozze è stata ripresentata insieme ad una scelta di racconti da G. Spagnoletti, Milano 1963. Cfr. anche: Cronache per il « Fanfulla », a c. di G. Finocchiaro Chimirri, Milano 1973; Il trofeo, a c. di P. Meli, in « Le ragioni critiche », 1, 1974; Casa Verga ed altri saggi verghiani, a c. di G. Musumarra, Firenze 1964. Cfr. comunque A. Navarria, Saggio di una bibliografia di F. De Roberto, in « Cultura Siciliana », 1, 1960. Su De Roberto cfr.: L. Capuana, Libri e teatro, Catania 1892; B. Croce, La letteratura cit., vi; L. Russo, Ritratti cit.; G. Mariani, F. De Roberto narratore, Roma 1950 (ora in op. cit.); L. Baldacci, Letteratura e verità, Milano-Napoli 1963; G. Trombatore, Riflessi letterari del Risorgimento în Sicilia cit.; M. Turchi, Natura problematica e prospettive storiche dei « Viceré » di De Roberto, in « RLI », 1, 1960, pp. 69-75; M. Pomilio, L’antirisorgimento di De Roberto, in « Ragioni narrative », novembre 1960, pp. 154-74 e Il silenzio di De Roberto, in « Realtà del Mezzogiorno », 6-7, 1961, pp. 467-82; V. Spinazzola, F. De Roberto e il verismo, Milano 1961; A. Navarria, Due capitoli della biografia letteraria di De Roberto,
in « L’osservatore politico-letterario », 8, 1962, pp. 33-42; G. Grana, in Marz. Min., vol. 1v, 1962 (con bibl.); P. Guarino, Ricerche derobertiane, in « RLI », 2, 1963, pp. 310-6; G. Catalano, Riflessioni sul primo De Roberto, Napoli 1965; E. Scuderi, F. De Roberto e la letteratura d’oggi, Catania 1968; A. Navarria, Le novelle di De Roberto del 1910 e della guerra, in « L’osservatore politico-letterario », 11, 1968, pp. 58-73; T. O’Neil, Lampedusa and De Roberto, in « It. », 2, 1970, pp. 170-82; A. Barbina, L’amara vocazione teatrale di De Roberto, in « RLI», 2-3, 1972, pp. 384-94; C. A. Madrignani, « Illusione » e realtà nell'opera di F. De Roberto, Bari 1972; N. Tedesco, Strutture conoscitive e invenzioni narrative dal Manzoni ad oggi, parte 11, Palermo 1972; S. Briosi, voce in Dizionario critico della letteratura italiana cit.; S. Zappulla Muscarà, F. De Roberto critico e traduttore, Catania 1972.
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L’EREDITÀ MANZONIANA E LE PROPOSTE DI REALISMO NELLA SOCIETÀ INDUSTRIALE: ROVANI, DE MARCHI, DE AMICIS di Carlo A. Madrignani
L'EREDITÀ MANZONIANA E LE PROPOSTE DI REALISMO NELLA SOCIETÀ INDUSTRIALE: ROVANI, DE MARCHI, DE AMICIS
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Giuseppe Rovani e la crisi del romanzo storico
« È veramente prodigioso il numero di romanzi che si pubblicarono in questi ultimi cinque anni...; il romanzo è divenuto oggimai l’unica letteratura veramente universale, l’unica le cui produzioni si trovino ad un modo nelle sale dell’alta aristocrazia, come nella più umile abitazione popolana »: così scriveva all’inizio
del
’65
un
giornalista,
Zoncada,
sulla
fiorentina
« Rivista
italica »;
e tale testimonianza può dare un’idea circa l’atteggiamento corrente, in quel giro d’anni, da parte della cultura italiana nei confronti del nuovo genere imperante, il romanzo. Può forse meravigliare che ancora nel ’65 ci si interessasse ai romanzi italiani con un distacco un po’ stupito e perfino preoccupato; ma questa era la realtà: la critica ufficiale non accettava ancora come « naturale » tale prodotto letterario, considerato fino a quel momento opera inferiore, rivolta a tutti e perciò di facile fattura. Basti ricordare la difesa, ironica e arguta, che ne
faceva nel ’57 Giuseppe Rovani nel Preludio ai suoi Cento anni. Egli così si esprimeva: Tutte le verità e della religione e della filosofia e della storia, se hanno voluto uscire dall’angusta oligarchia dei savj, per travasarsi al popolo, hanno dovuto attraversare la forma del romanzo che tutto assume: la prosa, la poesia, le infinite gradazioni dello stile; ei si innalza, in un bisogno, nelle più alte regioni dell’idea, s’abbassa tra le realtà del mondo pratico; è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia; è critica, è satira, è discussione; al pari dell’iride, ha tutti i colori, ed è per questo che
si diffonde nel popolo, e piove come luce di luogo in luogo e di ceto in ceto e d’uomo in uomo, e per l’onnipotenza sua appunto può recar danni funestissimi come vantaggi supremi; ché tutto dipende dalla mente che lo governa. [...] Il romanzo di Scott invogliò alla ricerca delle memorie rivelatrici del Medio Evo, e inspirò il sommo Thierry; Carlo Dickens in Inghilterra propose ed ottenne riforme legali, indarno proposte e domandate dalla scienza in toga (da Cento anni, a c. di B. Gutierrez, Milano 1934, p. 2).
1818, 1838:
1843: 1847:
12 gennaio: nasce a Milano, da un povero orefice. Studia al ginnasio. scrive un libretto per opera tratto dal Don Garzia dell’Alfieri. Fa lo scrivano alla biblioteca di Brera. Scrive articoli vari, spinto dalla miseria. pubblica il romanzo storico Lamberto Malatesta. Continua nel genere e tenta anche, senza fortuna, il dramma storico. va a Venezia come istitutore in una casa nobile; dopo la caduta di Venezia va a Roma passando per Firenze. Va in esilio in Svizzera dove si lega d’amicizia con Cattaneo. Rientra a Milano e ritorna a lavorare alla Brera e a pubblicare.
1856: esce a puntate Cento anni sulla « Gazzetta ufficiale »; l’opera è completata nel ’63. 1868: pubblica La Libia d’oro. 1873: pubblica La giovinezza di Giulio Cesare. Conduce vita disordinata; carico di debiti si dà al bere. È seguito dai giovani artisti e la scapigliatura vede in lui il suo precursore. 1874, 27 gennaio: muore nella casa di salute di Porta Nuova.
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e proposte di realismo nella società industriale
In queste parole si rivela appieno la doppia preoccupazione dell’artista tradizionale messo di fronte al romanzo. Dapprima infatti si vuol mostrare la legittimità del nuovo « genere » proprio sottolineandone la natura eclettica e onnivora, da genere-summa di tutti i generi letterari, e come tale degno di ogni considerazione da parte degli artisti e dei lettori più colti e raffinati (come a dire che la novità del romanzo sta nella sua capacità di mettere insieme tutto quanto ci ha tramandato la tradizione letteraria); in seconda istanza (e subordinatamente alla prima) si cerca di spiegare la fortuna del romanzo presso i ceti meno abbienti, che lo scrittore chiama « popolo », volendo con ciò indicare la media e piccola borghesia alfabeta, da poco affacciatasi al mondo della cultura e già in grado di chiedere, se non d’imporre, una produzione artistica a lei adeguata. Nel contrapporre « l’angusta oligarchia dei savj » al « popolo », Rovani assume proprio il romanzo come veicolo storico per una democratizzazione del sapere: a questo fine, la struttura stessa di tale genere letterario, nella sua proclamata varietà, giustifica in sede extraformale una concezione secondo cui gli si assegna il compito di raccogliere tutto lo scibile umano per « diffonderlo nel popolo ». È una concezione populistica, degna di quell’arcade-giacobino che fu Rovani, sempre anelante ad un «nuovo », che fosse in realtà una modulazione
dell’antico mo-
dello rettorico, semmai « perfezionato »; come dimostra il fatto che il pubblico qui teorizzato non è altro che un pubblico alla fin fine ancora più raffinato e dotto di quello educato dalla tradizione. Insomma Rovani difende un romanzo di tipo ciceroniano, come era poi il suo (la cui reincarnazione ideologico-formale sarà, nel Novecento, l’opera di Bacchelli); e combatte così la sua battaglia puristica contro il romanzo moderno, gettando un grido d’allarme nei confronti dell’imperante feuilleton delle appendici parigine. D'altra parte risulta evidente che per Rovani, a differenza di altri scrittori più impegnati, non esiste neppure la possibilità di dar vita ad un nuovo genere di stampo democratico, così come gli è estranea ogni teoria che si appoggi su un concetto egalitario del sapere. La « dottrina » è, e rimane, privilegio « naturale » di un'« oligarchia » di sapienti: si tratta solo, ora, di « travasare ) queste « verità »
dallo spazio ristretto di chi sta in alto a quello molto più vasto di chi sta in basso, per allargare la zona d’influenza di quel sapere che sembra compiacersi del proprio ristretto campo d’azione. Stando così le cose è ragionevole che Rovani tiri in ballo, appoggiandosi agli esempi dei romanzieri Scott e Dickens, la teoria settecentesca di un’erudizione storico-filantropica, in linea d’altronde con una proposta sostanzialmente paternalistica. Per Rovani non solo il nuovo romanzo non ha nulla di nuovo proprio per la sua natura ultraletteraria, ma non presenta neppure alcun motivo di preoccupazione che dia ragione dell’ostilità di cui vien fatto oggetto: insomma il romanzo, punto di incontro delle «forme » passate, è per lui solo uno strumento in più in mano dei pochi « savj » che governano il « popolo ». Nella sostanza la difesa di Rovani è un elemento di una complessiva battaglia di retroguardia all’interno della politica culturale della borghesia italiana del-
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l’Ottocento. Non bisogna farsi irretire dai giochi d’artificio dell’esprît rovaniano, così apparentemente moderni e avanzati (tanto che collaborarono a creare la leggenda di un Rovani «spirito forte » e, sul piano storiografico, ne fecero un rappresentante della diversa battaglia scapigliata). Occorre invece guardare al livello ideologico che questa difesa riflette: ed è un livello arretrato anche rispetto a quello della borghesia più conservatrice e diffidente nei confronti del nuovo romanzo. Perché è pur vero che quest’ultimo portava con sé un elemento di novità proprio sul piano sociale sconvolgendo, con la sua natura « popolare », il rapporto tradizionalmente aristocratico del vecchio letterato col suo pubblico (con quantc di « pericoloso » ciò comportava nelle gerarchie dei « valori ) dominanti); ma agli occhi di Rovani non si trattava tanto di evitare dei pericoli, quanto solo di adeguarsi ad una novità letteraria, immettendola entro le ben note teorie dell’arte tradizionalmente accettata. Insomma la difesa di Rovani era in realtà una retrodatazione del romanzo stesso al « genere misto », secondo una visione strettamente rettorica, in nome della quale il significato politico dell’opera letteraria veniva riassunto in un rapporto naturalmente subalterno ad un’immediata strumentalizzazione pratica (si ricordi che Scott apre la strada a Thierry e Dickens alle riforme della legislazione). A Rovani sembra sfuggire del tutto il ruolo moderno della nuova letteratura, non più legata a vecchi, ristretti circuiti, ma ca-
lata nel mondo in via di trasformazione dell’editoria e dell’opinione pubblica: come a dire che era troppo facile difendere il romanzo da parte di chi non riconosceva neppure i caratteri « nuovi »), specie sul piano ideologico, di una modernissima espressione della borghesia in ascesa. L’orizzonte entro cui Rovani si mosse fu quello della Milano risorgimentale e poi scapigliata; ma la sua cultura fu una tipica cultura trasformistica, priva cioè di ogni preciso riferimento ideologico e pronta invece a trovare sempre nuove soluzioni su cui esercitare versatilità e cultura e passione da letterato puro e insoddisfatto. In questo senso si può dire che il suo contributo non fu tanto di scrittore autonomo, quanto di esperimentatore e di pioniere, nel senso che egli fu un artista intento a rinnovare dall’interno la tradizione manzoniana (e tale spericolatezza di apparente disordine è ciò che ha confermato la sua fama presso gli scapigliati, ed ha permesso che un prosatore « geniale » e irrequieto come Dossi lo eleggesse a suo maestro e lo facesse oggetto di una grande stima, mettendolo secondo solo dopo Manzoni). La storia di Rovani, dunque, non sta tanto nella balucinante
aneddotica
dell’uomo
di spirito, del maestro
scamiciato da osteria,
quanto nel suo tentativo di dare un proseguimento a quel Manzoni che era stato travasato nel romanzo storico. Nella fenomenologia romanzesca Rovani rappresenta appunto la crisi del romanzo storico, che egli tentò più volte in gioventù (Lamberto Malatesta, 1843; Valenzia Candiano, 1844; Manfredo Pallavicini, 1845-6), ma da cui si distaccò certo anche per la scarsa convinzione che dovette suggerirgli, col passare degli anni, il confronto di questo genere con altri, specie stranieri. Del tutto privo di quell’equilibrio etico-politico su cui Nievo fondò le sue Confessioni, Rovani fu tuttavia spinto sulla stessa via battuta da Nievo
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e proposte di realismo nella società industriale
proprio dal suo desiderio di fare un romanzo che unisse il gusto cronachistico del romanzo storico (con sensibilità e meticolosità degne di un raffinato antiquario) al gusto per il romanzo di costume, di derivazione francese. Si nota infatti spesso un qualche accostamento a Balzac: esso fornisce il tono scientifizzante di certi enunciati, che potrebbero far supporre un precoce indirizzo naturalistico, se poi l'impasto narrativo e linguistico non riportasse la scelta di Rovani alla sua poetica molto rispettosa della tradizione e del « buon gusto » (quella che l’autore teorizza in opposizione agli « estremismi del convenzionalismo e del naturalismo »). Cento anni (1859-64), pur con la sua pretesa di riflettere, nella longeva esperienza di un personaggio, il succedersi di un’intera epoca storica, garantita inoltre dall’%ic et nunc di chi la visse, era un’opera di gusto superato nel momento stesso della pubblicazione, non riuscendo ad aprire nessuna prospettiva, anche a livello formale, per chi volesse imprendere a narrare con intendimenti nuovi (e cioè opposti o estranei ai dettami manzoniani). La narrazione risulta infatti stremata dal virtuosismo descrittivo di uno scrittore che non perde mai l’occasione per dare saggio della sua bravura stilistica, messa al servizio del suo ingegno di ricercatore dilettevolmente erudito. In questo consiste il sapore storico di molte pagine, nelle quali tuttavia non tanto la storia fa scorgere le sue leggi quanto la cronaca minuziosa, se pur non oziosa, in cui l’autore intende — come appunto dice, non senza presunzione ma, in pratica, con molta pedante angustia — mettere in luce la connessione fra «la vita intima della società » e «l’impulso della vita pubblica». Piace semmai, almeno al lettore di oggi, l’abile gioco da burattinaio con cui il romanziere scopre a volte la fila dell’ordito, oppure, con una tecnica che può ricordare Thackeray se non Sterne, diventa egli stesso partecipe del dialogo col lettore, sulla testa dei fatti e dei personaggi, rievocando così l’atmosfera colta di certi salotti milanesi che sembrano essere il pubblico ideale della saputa vicenda. Infatti le opere successive, se pur meno monumentali rispetto all’architettura d’insieme, rispecchiano in pieno l'ambizione di una scrittura dotta ed accurata, che metta in luce, insieme all’erudizione « storica », le preoccupazioni
formali di un artista tutto dedito ad un appassionato esercizio regolato dai canoni dell’aurea tradizione del « bello scrivere ». Se la cultura di Rovani è messa a profitto in opere come la Storia delle lettere e delle arti in Italia, che risale al 1855-8,
essa pesa come erudizione non assimilata al testo nelle opere successive, che pure si pongono mete più libere e « fantastiche » che non avesse Cento anni. Nel romanzo risorgimentale La Libia d’oro, del 1868, l’ambiente « storico » (quello delle società segrete) è sopraffatto dal desiderio di portare avanti una vicenda affascinante e tenebrosa, in cui prenda il sopravvento un improbabile studio psicologico, incentrato soprattutto su un amore « eccezionale » quasi fino al ridicolo. Ed infine nell’ultimo romanzo (se così si può chiamare), La giovinezza di Giulio Cesare (uscito nel 1873, ma scritto già nel ’68), ogni pretesa manzoniana è abbandonata e con essa ogni interesse, sia pure erudito-aneddotico, per la storia: l’autore libera finalmente tutti i suoi umori di prosatore, accurato e sbrigliato insieme, che non ha più la preoccupazione di tracciare un quadro unitario e nemmeno
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quella di adeguarsi ad un'analisi psicologica, e così scrive un’opera di prosa viziata e genialoide, del tutto estranea alla dimensione narrativa che il nuovo romanzo (difeso, come si è visto, se non compreso, nel Preludio a Cento anni) portava con sé.
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Il realismo popolare e cristiano di Emilio De Marchi
Ad una realtà e ad una dimensione tutte milanesi si rifà l’opera di Emilio De Marchi, che a Milano trascorse la sua breve esistenza fra gli impegni dello scrittore, del critico, dell’insegnante e del benefattore. Se è vero che larga parte dell’opera è fortemente influenzata dall’umanitarismo e dall’apologetica dello scrittore cattolico, tuttavia egli fu molto vicino (e in parte influenzato) alle discussioni della Milano scapigliata e democratica, da cui si allontanò non appena temette di essere coinvolto politicamente. Sulla rivista « Vita nuova » (di cui fu uno dei direttori) apparvero i suoi primi romanzi, Il signor dottorino e Due anime in un corpo (1876-7), che sono il tributo al gusto per lo « strano » scapigliato da parte di uno scrittore ancora acerbo e diviso fra preoccupazioni formali e tensione morale. Si tratta comunque di un’esperienza parziale, anche se questa tecnica narrativa (vicina al romanzo popolare), così mossa, colorita e drammatica rimarrà come una tentazione ricorrente in opere e periodi successivi. l'uttavia già in queste pagine misteriose e raccapriccianti, De Marchi tende a rivolgere un’intensa attenzione al mondo della Milano povera, con gusto realistico mai disgiunto da una pietas cristiana, come succederà nelle opere successive, in molte delle novelle raccolte in vari volumi (da Storielle di Natale dell’80, a Sotto gli alberi dell’82, a Storie d’ogni colore dell’85, ai Racconti dell’89, ed infine a Nuove storie d’ogni colore del ’95). Fin dalle prime novelle pubblicate insieme a Due anime nel ’78, come Lucia e Don Asdrubale, si fanno strada interessi destinati poi a prevalere: da una parte la descrizione degli ambienti più poveri e delle situazioni psicologiche più tristi, sempre al limite della rassegnazione o della rinuncia; dall’altra lo studio, condizionato ma non distorto dall’impegno morale, di situazioni dolo1851, 1876-7:
31 luglio: nasce a Milano.
Studia all'Accademia scientifico-letteraria e vi si laurea.
dirige la rivista « La vita nuova » e si dà ad un’intensa attività giornalistica e saggistica (ad esempio nel « Corriere della sera »). 1879: succede a Eugenio Camerini come segretario dell’Accademia scientifico-letteraria. 1880: pubblica Storielle di Natale. 1881: pubblica l’opera pedagogica L’età preziosa e alterna operosità critica e letteraria con interessi didattici e opere di beneficenza. 1887: esce su un giornale // cappello del prete, raccolto in volume nell’88. 1889-90: esce Demetrio Pianelli prima su giornale poi in volume. 1892-3: pubblica Arabella. 1890: prende la libera docenza in stilistica che insegnerà all'Accademia. 1894: pubblica l’opera pedagogica / nostri figliuoli. 1897: gli muore la figlia quindicenne; esce Giacomo l’idealista. 1898: fonda il periodico « La buona parola » per educare il « popolo », onde evitare sommosse come quelle di quell’anno a Milano. 1901, 6 febbraio: muore. Esce postumo, raccolto in volume, il romanzo Col fuoco non st scherza.
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e proposte di realismo nella società industriale
rose, quasi tragiche, da cui scaturiscono drammi di straziante umanità. Intorno a questi poli si aggira l'ispirazione di De Marchi, tutte le volte che riesce a liberarsi dalla tentazione pedagogico-religiosa. Lo dimostrano alcune novelle e soprattutto quella intitolata Carliseppe della Coronata (da Sotto gli alberi), dove la storia di un contadino sfruttato viene vista dall’interno, evitando così di cadere
nell’invettiva moralistica o nel compatimento lacrimoso: coi soli mezzi della narrazione l’autore riesce a sottolineare il contrasto insanabile fra l’indifferenza del padrone e lo stato disumano di subordinazione del contadino. Nell’87 esce // cappello del prete, dapprima in appendice a un quotidiano, «L’Italia », poi in volume. De Marchi nella Premessa sottolinea che questo romanzo è fatto « anche per i lettori », intendendo così rifiutare ogni concezione d’arte aristocratica ed insieme ogni estetismo amorale. Il cappello è un romanzo realistico-popolare, con in più una trama avvincente e « misteriosa », da vero e proprio « giallo ». L’autore è eccezionalmente abile nel far procedere verso l’inaspettato scioglimento la macchina narrativa, la quale mostra di saper sorreggere anche l’implicita polemica antipositivistica incorporata nel libro. Oltre alle teorie positivistiche (che sono bandite appunto dall’assassino), c’è in queste pagine un altro motivo di irrequietezza, che sarà tipico di De Marchi: l’aspra critica « cristiana » alle ingiustizie di cui è fatto segno il basso clero da parte degli alti ecclesiastici (altrove questi saranno oggetto di una sferzante ironia), critica che si ricollega, come
impostazione,
alla problematica sociale del nostro
Ancora sul giornale «L'Italia» esce nell’88 un romanzo
autore.
dal titolo La bella
pigotta, che, dopo vari rifacimenti, diventerà, nel 1890, Demetrio Pianelli. È la
storia di un impiegatuccio a cui capita di dover sistemare e mantenere una famiglia, lasciatagli in eredità dal fratello suicidatosi per debiti. Nel mentre che intesse questa vicenda intrisa di pacato realismo pessimistico, De Marchi coglie l'occasione per delineare l’ambiente che più gli sta a cuore: la Milano dei vicoli oscuri, della povera gente, che stenta la vita con i risparmi e i taciti eroismi, di
cui è rappresentante proprio Demetrio. Questa attenzione all'ambiente (sottolineata dal sottotitolo Ritratti e costumi di vita milanese) può far pensare ad un realismo naturalistico, a quel « metodo analitico » (citato dall'autore in una lettera del ’97, in cui parla dell’« artista [. . .] specchio de’ suoi tempi», Varietà e inediti, vol. 11, Milano 1965, pp. 790-1), che è il segno della modernità; ma si tratta di un naturalismo molto assottigliato e privato dall’ambizione oggettivistica che rimanda ai valori della scienza, e non a quelli di una morale religiosa come fa De Marchi. In realtà questi « ritratti e costumi » non raggiungono l’orizzonte di un quadro collettivo, di una Milano moderna,
brulicante di affari e di
uomini come la Parigi di Zola (0, su un piano diverso, l’Aci Trezza di Verga); la Milano di queste e altre pagine sfuma fra i colori del bozzetto e quella rievocazione elegiaca, che ispira le prose cadenzate in dialetto dal significativo titolo Milanin Milanon (riunite postume nel 1902). Il che non vuol dire che la vicenda individuale del travet buono e burbanzoso non raccolga elementi di autenticità
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Il realismo popolare e cristiano di Emilio De Marchi
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dal realismo del quadro complessivo, sia esso la povera casa che dà sui rioni o l’ambiente avvilente di lavoro. D'altra parte in tutto il romanzo spira un’atmosfera di chiusura e di tristezza, una forma di desolazione incombente che circuisce cose e personaggi. È l’atmosfera di un dramma silenzioso, che, attraverso gli occhi del protagonista, si diffonde dovunque. Il legame fra ambiente e personaggio è perciò strettissimo, e tutto in relazione diretta con la vita di quest’ultimo; in tal senso la miseria dell’ambiente in cui si muove Demetrio è proiezione del suo destino: che è il destino di un antieroe che nessuna fede salva, nessun sacrificio beatifica e sopra il quale l’autore, felicemente fedele all’inconscia e quasi patologica clausola del suo pessimismo
esistenziale anziché all’ortodossia o alla rettorica della sua
fede, non fa
piovere nessun aiuto dal cielo, mettendone anzi a nudo lo stato di abbandono e di annullamento a cui lo costringe la sua rettitudine contrapposta alla disonestà del mondo e dei potenti. Ancora una volta sono i poveri e gli umiliati a stare al centro dell’opera demarchiana, ancora una volta il loro stato è uno stato di disperazione senza requie: così « finisce » Demetrio, quando si trova trasferito lontano da ogni suo interesse ed effetto e scopre che non c’è nessuna alternativa alla sua vita. Ecco infatti quello che pensa, mentre compie il viaggio di trasferi-
mento: Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e più in là San Donato, e tra una macchia bruna
di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch’essa aveva lavorato per il bene de’ suoi. « Ciao, mamma...»
disse una voce che un Demetrio
irritato e
sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all’orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall’acqua livida, e venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un’ombra sull’aria oscura; e più in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnata la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! (da Grandi romanzi cit., pp. 366-7).
Questo periodo che chiude la parte v, è la vera conclusione del romanzo, anche se esiste una brevissima parte VI, intitolata Gli altri, che è solo un'appendice didascalica. Autentica è l’« oscura tragedia » di questo « epilogo » in cui è sintetizzata in una fuga di paesaggi la « storia » del protagonista, dalla sua infanzia di contadino all’inurbamento. Nella rievocazione, dal figlio si risale alla madre morta, e il legame si rafforza nel ricordo della « povera donna » che « inutilmente anch'essa [corsivo mio] aveva lavorato per il bene de’ suoi ». È un'eredità di do-
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lore, che ribadisce il destino del personaggio: è significativo che il brano decisamente, « classicamente » descrittivo si interiorizzi poco per volta, trasformandosi, insensibilmente, in monologo interiore e assumendo qua e là, quasi automaticamente, le caratteristiche del discorso indiretto libero. Demetrio guarda fuori dal finestrino del treno e pensa alla sua storia — così nella meditazione l’esperienza personale si salda col suo destino ancestrale, per cui si raccoglie solo dolore per chi ha lavorato « inutilmente » per « gli altri ». Questa è la conclusione
coerente
di un’impostazione integralmente pessimistica: la bontà, messa a confronto con la possibile felicità, si rivela inutile se non portatrice di ulteriori disinganni, di altre tribolazioni. Così si arriva all'estrema conclusione: di contro a questa disperata esperienza sorge spontaneo il richiamo del nulla, la volontà di non essere o, che è lo stesso, di essere stato tanti anni prima (il passato è qui negazione del presente, richiamo di morte). A questo punto il tono descrittivo cade del tutto e — come succede spesso nell’opera demarchiana — con esso cade ogni diaframma di oggettività: il discorso del narratore si sovrappone a quello del personaggio, in un’impennata (« Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra! ») di mal represse « nostalgie » nichilistiche, che rappresentano l’estremo approdo di tutta un'esistenza e della meditazione su di essa. A questa luce Pianelli dunque non è più un rassegnato, un umile che accetta di bere l’amaro calice, è piuttosto un disperato che scopre l’inutilità del bene e, anziché consolarsi con compensazioni etiche o prospettiche, si lascia prendere dalla tentazione di un suo pacato cupio dissolvi: che è una dissimulata, ed invincibile, vocazione suicida oggettivamente operante, sia pure a livello inconscio, come risposta alla realtà. A questo punto l’ortodossia cattolica passa dall’opera dell’artista all’indefessa, accanita operosità del cittadino e del benefattore, accentuando così la contraddizione fra la pietà esibita ed argomentata e questo cupo pessimismo che sfida la ragione, anche quella con la lettera maiuscola.
Questa
vocazione
eterodossa
esclude De Marchi dalla legione dei manzoniani, anche per il meno sorvegliato razionalismo, oltre che per quel latente alone di morbosità da cui la sua « filosofia » è sempre lambita. L’invincibile richiamo mortuario tocca anche altri aspetti morbosi di Demetrio, che, in sintonia con l’autore, pulsa di segreti palpiti, subìti con pudica prepotenza: tutta la storia del celato e poi soffocato amore per la nuora (che andrà sposa ad un altro) è sotto il segno di un’interiore proibizione. In questo tipo di rapporto subalterno, l’abbagliato amante sente riemergere lontane latenze ancestrali come se il suo codice affettivo non potesse disgiungere l’amore dal presagio della morte: « Una mano si posava sulla sua testa — si legge ad un certo punto —, da cui scese un brivido ad invadere il corpo. Sentì ancora un bisbiglio confuso di parole, è un’onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l’ultimo momento
della sua vita ». Queste soluzioni rientrano
in quella zona, ampia e risonante, dell’introspezione, in cui De Marchi immette le tentazioni più moderne della sua arte, nei momenti in cui trasforma il romanzo in un’evocazione-soliloquio elegiaco-meditativo (con un corrispondente passag-
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Il realismo popolare e cristiano di Emilio De Marchi
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gio «fisiologico » dalla narrazione in terza persona al discorso indiretto libero). Più ampio, come sappiamo, era l’orizzonte artistico in cui De Marchi voleva inscrivere la sua opera; se anche per Demetrio Pianelli vale questa più larga misura, nell’intenzione, se non nella realizzazione, di un quadro ambientale autonomo, nella realtà però si tratta di un romanzo centripeto col suo « eroe » tradizionale, almeno come elemento strutturale della trama intesa ancora tradizionalmente,
e
la storia di Demetrio è più un unicum che non un esempio ambientale o sociologico. Perciò si può dire che col Pianelli non si procede sulla strada del romanzo sociale o scientifico, ma su quella del realismo psicologico, ancora estraneo alle morbidezze e ai bagliori del romanzo decadente. Il Pianelli è dunque un romanzo ottocentesco così come lo voleva la grande stagione del realismo europeo. La scansione regolare, il respiro calmo e tacito del racconto impongono un « tempo » all’azione secondo una lenta progressività. Infatti dopo la lentezza del preambolo, l’azione accelera verso la fine, senza tuttavia ricorrere a strappi, evitando anche la canonica grande scena finale (la quale semmai — lo scontro col superiore — precede la conclusione); cosicché nelle ultime pagine noi assistiamo alla vicenda di Demetrio che continua, più triste e disperata, ma pur sempre nello stesso tono, con gli stessi ingredienti (paesaggio e «anima ») che hanno conformato tutta la vicenda del personaggio. Il romanzo finisce come è stato portato avanti, e la parola « fine » significa che Demetrio continuerà a vivere,
o meglio a sopravvivere, così come è vissuto fino
all’incontro con la « bella pigotta », l’unico elemento di novità di un’esistenza che non ammette novità, e cioè disordini, pena l’evocazione di emozioni e pulsioni che impongono un ordine assoluto che nessuno può turbare. Per questa sua struttura di romanzo continuato e planante Demetrio Pianelli riesce a raggiungere un equilibrio unico nell’opera demarchiana (se si esclude qualche novella), un equilibrio dato dall’armonia e complementarietà dei dati temporali e spaziali e dal loro succedersi nell’ordito ben organizzato della trama. Inoltre l’autore ha ridotto al minimo l’attrito fra l'ambizione pedagogica e l’introspezione psicologica, mantenendo una mediocritas tonale, che ha fatto fare a molti il nome di Manzoni. Ma il romanzo si pone ben al di là del manzonismo, sulla via di quel romanzo popolare che era annunciato nella Prefazione al Cappello del prete: un romanzo morale ma non predicatorio, legato ai problemi moderni ma non polemico, ed infine un romanzo di morbida e chiusa psicologia meditativa, ma estraneo ai moduli aristocratici o avanguardistici; insomma un romanzo « popolare » come lo poteva concepire un conservatore moderato, legato per certi aspetti alle vicende dolorose degli sfruttati ed insieme estraneo, ed anzi opposto, ad ogni ideologia egalitaria o sovversiva. Questa tensione alla « popolarità » comporta, naturalmente, la ricerca della semplicità e dell’evidenza, a cui l’autore ambisce senza però riuscire a « semplificare » l'autentica natura di certi « suoi » motivi, che egli evoca per poi subito mistificarli. Così fa per la passione criptosuicida di Demetrio, sempre riportata alla misura della morale cristiana; e nella stessa maniera si comporta di fronte
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Eredità manzoniana
e proposte di realismo nella società industriale
al dramma sociale dei « suoi » poveri: la tragedia oggettiva della miseria, della sopraffazione e dell’ingiustizia è illuminata in pieno, ma il punto da cui la guarda l’autore è quello della testimonianza cristiana, che rimanda, pur fra molte contraddizioni, alla logica dello status quo. In questa contraddizione fra rappresentazione artistica e « copertura » etico-politica consiste il dramma sociale di De Marchi e del suo ceto, cioè di quella piccola borghesia che si trovò quasi d’improvviso in un ambiente di lavoro e di vita nuovo e disumano: si ricordi che i personaggi demarchiani provengono dalla campagna e subiscono lo choc di un mal accettato inurbamento. Tutta l’opera di De Marchi è sorretta dall’ideologia nostalgica e frustrata della piccola borghesia di origine campagnola, a cui fa « naturale » riferimento il diffuso pessimismo costantemente corretto da una volontà consolatoria: è il dramma che si scatena sui ceti subalterni e ideologicamente meno attivi in quelle zone d’incipiente industrializzazione, a cui si lega la fine di una gerarchia di valori ritenuti « eterni ». La prima reazione della piccola borghesia è dunque quella di frenare questo processo a livello ideologico, denunciandone idealisticamente la disumanità, ma rimanendo positivamente, proprio per la mancanza di alternative, nella logica generale dello sviluppo capitalistico: insomma anche la letteratura piccolo-borghese postunitaria riflette, con la sua larghissima presenza, tutte le posizioni diverse, ed insieme irreversibili, di questo ceto. Infatti anche De Marchi non disdegna di avanzare una protesta antiprotestataria, una denuncia cioè che rifiuta ogni indicazione alternativa ed esclude,
a priori, la violenza delle classi in lotta: che è una maniera di allinearsi, non senza tuttavia ricattare i nuovi padroni per la scarsa stima che mostrano verso gli ideali del passato (in questo caso del cattolicesimo preindustriale). Comunque al di là di questa conflittualità, sia pure secondaria, dell’opera artistica, De Marchi prese posizioni ben decise come uomo pubblico, soprattutto con apprezzate opere pedagogiche come L’età preziosa (1888), Lettere a un giovine signore (1891), I nostri figliuoli (1894): ivi, con finezza d’intuito e alto impegno morale o moralistico, egli presentava un cattolicesimo impegnato e fattivo, lontano da ogni rettorica patriottarda e ossequioso verso le istituzioni e le tradizioni. Intanto continuava l’opera dell’insegnante e del letterato, a cui si devono le monografie su Carlo Maria Maggi (1885) e su Lettere e letterati del secolo XVIII (1882); e lo scrittore non cessava di pubblicare, su riviste e giornali, novelle e romanzi. Nel ’92 sul « Corriere della sera » uscì la continuazione del Pianelli, il romanzo Arabella (passato nel ’93 in volume): Arabella è la nipote di Demetrio e, come lui, segnata dallo stesso destino di sacrificio e di rinuncia,
nella sua opera provvidenziale verso gli «altri» (specie il losco suocero e il marito). Tuttavia Arabella non è una « pura » come lo zio, pronto a contemplare la sua stessa disperazione
nell’attesa
che tutto finisca; ella invece, scoperto
l’amore,
si sente capace di viverlo. Ma proprio allora insorgono a contrastarla, non solo gli interessi e la morale degli «altri», ma le sue stesse leggi dell’abnegazione: la situazione si mostra quindi disperata, proprio perché la ribellione della donna non coinvolge solo la cattiveria degli altri, ma le ragioni ultime che governano
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Il realismo popolare e cristiano di Emilio De Marchi
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gli uomini. Si tratta insomma di una ribellione in nome del bene, che, virtualmente,
si pone come
una ribellione teologica: come
se, in nome
della felicità,
si chiedesse a Dio il perché dell’umana disperazione. A questo punto ad Arabella non resta che morire, ma l’autore devia questa logica conclusione e sottrae la donna al suicidio facendola finire vittima di un incidente. Intanto De Marchi continuava a prodigarsi nell'opera dell'insegnante e del cittadino, sfibrando la sua costituzione malaticcia. Nel ’97 il terribile dolore per la morte della figlia quindicenne venne ad accentuare il suo stato di prostrazione. Nel ’98 i fatti di Milano lo spinsero verso posizioni decisamente reazionarie, basate sull’autoritarismo e il paternalismo, che sfociarono nella pubblicazione di certe « letture del popolo » intitolate La buona parola, con cui s’intendeva « educare » il « popolo » ed evitare le sommosse. Era l’atteggiamento di copertura ed omertà dell’intellettuale piccolo-borghese che vede in pericolo la classe da cui dipende: di fronte alla minaccia del socialismo anche il cattolico più restio e dubbioso avverte le necessità di far fronte unico e di portare il proprio contributo, quello che la sua tradizione gli suggerisce. Per De Marchi si trattò infatti di riprendere la vecchia tematica cattolico-assistenziale con la fiducia di trovare buon ascolto fra il popolo (con gli scarsi frutti che si possono immaginare). Ma questa conclusione «impegnata » non esclude che anche il romanzo Giacomo l’idealista, del ’97, ripresenti le contraddizioni ed i tormenti dell’artista. Già nel romanzo d’appendice Redivivo (1895), fra gli espedienti di effetto più immediato e rozzo, si levava l’accusa contro questa società su cui domina incontrastato il potere del denaro; in Giacomo appare la stessa violenza accusatrice, in un contesto però in cui non solo i nobili e ricchi, ma anche i poveri, coi loro comportamenti egoistici e meschini, cadono sotto la medesima accusa. Il romanzo rispecchia uno stato di crisi generale nei confronti di una società interamente corrotta, dove un personaggio arriva ad accusare il Risorgimento di tale sfacelo: è il punto più alto della « ribellione » del piccolo-borghese di fronte alle « novità » della situazione postunitaria. Giacomo riprende la situazione manzoniana, estremizzandola nei fatti e nelle intenzioni (la povera fidanzata del protagonista è violentata e messa incinta dal nobilotto del paese), e presenta un mondo tutto stravolto dall’imperante logica dell’interesse, a cui niente di alternativo il disorientato autore sa contrapporre (se non una platonica virtù a tutti ignota). Il libro infatti rimane a uno stadio di irresolutezza: muore la fanciulla e il fidanzato scopre dunque l’inutilità del suo « idealismo » e constata l'impossibilità di qualsiasi azione. La virtù si dimostra impraticabile: e infatti De Marchi ha accentuato, col passare degli anni, il pessimismo in direzione di un’astratta volontà di bene. Il male domina tutti, anche gli umili, tanto che questo cupo fatalismo,
con la sua condanna onnivora, tende a stravolgere i connotati storici e sociali della vicenda. Non a caso Giacomo, dopo tanto farneticare e meditare, conclude con un rassegnato: « Forse bisogna cominciare da capo », che più che la speranza sembra sottolineare l’immobilismo proprio della disperazione; ma è lo stesso Giacomo che poco prima ha detto che non può esserci « qualcosa di più santo della
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Eredità manzoniana
e proposte di realismo nella società industriale
morte ». Questa è la logica conclusione del libro: è la morte di Celestina che «libera » la situazione etica e narrativa del romanzo. Chi vuole « ricominciare » deve passare sul suo cadavere e lasciare che tutto sia immutato: insomma invece che a «cominciare da capo », lo stimolo di questo finale spinge a mettersi fuori
della storia, come
ha fatto
Celestina, o contro
la storia, come
avrebbe
dovuto fare Giacomo, se avesse saputo (o potuto) dare una direzione al suo «idealismo » (l’umiltà del « filosofo » nei confronti delle proprie intenzioni intellettuali è in realtà una forma di umiliazione nata dallo sconforto più che da vera rassegnazione). Così con interna coerenza ai propri problemi e alle proprie contraddizioni sociali, De Marchi si avviava a concludere la sua parabola di romanziere, avverso ad ogni forma di decadentismo e alla tracotanza dannunziana (e in specie contrario all’arte che intendeva «filosoficamente » sciogliere il « mistero» dell’uomo). Nel ’95, nella Dedica a Nuove storie d’ogni colore, l’autore lamentava che «il povero e logoro senso comune non ha più nulla da suggerire a gente, che corre come infatuata dietro ai simboli d’una magnifica arte piena di abissi filosofici », e rimpiangeva così il suo realismo moderato, invitando il lettore a « conservare più che si può il gusto della minestra casalinga ». De Marchi rimase fedele a questo programma di conservazione anche letteraria pure nei poemi di Vecchie cadenze e nuove (1899) e già nella assai felice traduzione delle Favole di La Fontaine (1385); e subì semmai l’influsso di Fogazzaro, specialmente nell’ultimo romanzo Col fuoco non si scherza, apparso nel 1900 sulla « Rassegna nazionale » (e nel 1901, postumo, in volume). Tuttavia questo influsso non mutò le idee (come dimostrano le lettere) né lo stile dell’autore: l’ultimo romanzo, pur fra qualche « turbamento » fogazzariano, è opera un po’ stanca e facile, che si risolleva a contatto col tema dell’amore « pericoloso » (e sempre vietato: in questo caso, quello di una persona anziana per una fanciulla), ricorrendo ad un abile e un po’ forzato gioco psicologico. È il solito intuito che mette a nudo, al di là di ogni intenzione timorata, la presenza di certe forze e la precarietà delle difese di questi « poveri » personaggi.
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Un educatore popolare-borghese : Edmondo
De Amicis
Dopo aver trascorso i primi anni dell’adolescenza e della giovinezza nella carriera militare, Edmondo De Amicis si dedicò interamente al giornalismo e 1846,
21 ottobre:
nasce ad Oneglia (Imperia).
1848: la famiglia si trasferisce a Cuneo. 1861-3: entra nel collegio militare di Torino e poi nell'Accademia di Modena. 1866: prende parte alla guerra. 1868: dirige a Firenze il giornale 1’« Italia militare », e pubblica Bozzetti di vita militare. 1870: abbandona la carriera militare e diventa famoso reporter. Coi suoi articoli mette insieme molti fortunati volumi (Spagna, Marocco, ecc.). 1875: si stabilisce definitivamente a Torino.
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Un educatore popolare-borghese : Edmondo
De Amicis
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alla letteratura, specie quando si sentì economicamente al sicuro, coi contratti di Treves, suo editore quasi esclusivo — e intanto, dopo il soggiorno nella Firenze capitale, scelse come
«sua»
città Torino.
A Firenze
nacque
il primo volume,
che andò crescendo col succedersi delle edizioni, La vita militare (Milano 1868; Firenze 18692; Milano 18803). Il libro possiede, nella sua esuberanza sentimentale e stilistica, quelle caratteristiche destinate a rendere famoso (e famigerato) lo scrittore, il « capitan cortese », come lo chiamò nel ’71 Carducci nel Canto dell’Italia che va in Campidoglio (dove si trova anche la definizione di «Edmondo da i languori »). La vita militare incontrò subito una grossa fortuna proprio per l’enfasi con cui viene presentata, e giustificata, la vita dei soldati; Vista in tale ottica radiosa non solo la guerra è « bella », prima che eroica o santa, ma è anche l’occasione per sperimentare un modus vivendi collettivo esso pure bello di rattenute tenerezze e compiaciuta solidarietà. « Il cuore non è mica gallonato, come il berretto », si dice a un
certo momento,
con una frase in cui si
potrebbe sintetizzare tutto lo spirito di subordinazione mistificata nel liquor sentimentale, che circola in queste pagine di persuasione alla leva. Nelle stesse, tuttavia, si fa strada, su un altro versante, lo scrittore di una zona bonaria e domestica, decisamente borghese, dove il tenue realismo si alterna alla rettorica languido-patriottica. Insomma, così com'è, il libro rispondeva bene alle necessità della situazione postunitaria, col suo tardivo spirito risorgimentale contrapposto ad ogni richiesta di Real-poltik, ed incontrava le simpatie di una larga cerchia di lettori di gusti semplici e ideologicamente fermi al vecchio credo unitario. Perfino la mescolanza poco vigilata di prosa altisonante con quella più modesta e moderata, che ora stride tanto, non doveva dispiacere al lettore degli
anni ’70, anche per l’impiego di una lingua il più possibile sciolta e colorita, modellata, sia pure con molta approssimazione, su un toscano di stampo manzoniano, cui De Amicis rimarrà sempre fedele, pur nell’inevitabile svolgimento (l’ultimo scritto organico sarà appunto di lingua, L’idioma gentile del 1905). Sfruttata l’esperienza militare, l’autore passò al giornalismo, esordendo sulla « Nazione » con una serie di articoli sulla Spagna: da qui prese il via lo strepitoso successo del De Amicis giornalista e prosatore, che sarebbe divenuto lo scrittore più letto dell’Italia umbertina. Va precisato che questo giornalismo era un esercizio in certo senso esigente, non privo di supporti culturali anche se poco raffinati, attraverso i quali l’autore migliorò il suo stile, come dimostrano i molti volumi di viaggio, Spagna (1873), Olanda (1874), Marocco (1876), Costantinopoli (1878-9), oltre ai Ricordi di Londra e di Parigi (1873 e 1879). Sono opere in cui la curiosità dell’ingenuo viaggiatore è sostenuta da un impegno descrittivo 1886: pubblica Cuore con Treves. 1890: si proclama « socialista ». 1898: il figlio Furio si suicida. 1899: col volume La carrozza di tutti si fa prevalente l’attività del giornalista e dello scrittore con intenti sociali. 1905: pubblica L’idioma gentile. 1908, notte fra il 10 e 1’11 marzo: muore a Bordighera.
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rivolto in due direzioni: il gusto per il tratto psicologico-paesaggistico, condito spesso di cordialità popolaresca, è alternato al tono « alto » del visitatore colto di città, chiese o musei, il quale deve unire alla descrizione il commento sublime,
tutto arditezze e ineffabilità, come voleva la più pomposa critica figurativa. Da pagine come queste si può trarre l'indicazione di quali fossero le esigenze dei ceti medi, che un editore moderato e tecnicamente evoluto come Treves seppe accogliere e far fruttare, al punto da permettere all’autore di vivere della sua arte, in una autonomia pienamente borghese. Dalla collaborazione e dalla buona intesa fra autore e editore non nasce solo la prosa «interessante » del reporter (che si raffina stilisticamente in alcuni momenti di oggettività visiva, specie negli estetizzanti esiti di Costantinopoli), ma anche il «libro per ragazzi » Cuore, uscito nell’86, dopo anni di promesse e di titubanze dell’autore e di spinte e ricatti dell'editore,
che
aveva
fiutato,
fin
dall’inizio, il successo
dell’impresa.
Così
esplose, nel pacifico regno dell’editoria postunitaria, il «caso Cuore», uno di quei casi di popolarità travolgente che sono di per sé la spia di un’atmosfera e di un’attesa sociali. Da questo punto di vista il «libro per ragazzi ) è un vero e proprio breviario della cattiva coscienza civile dell’italiano medio uscito dal ’60: se ai tempi della Vita militare De Amicis si era mostrato un facile esaltatore dell’esercito, appare ora in tutta la sua potenza la capacità di assimilazione nei confronti di tutti i luoghi comuni
e di tutte le mitologie,
ingenue o interessate,
che lo stato unitario aveva creato e fatto circolare nella sua azione di omogenizzazione-emarginazione. Nessun libro è più politico di questo, ancorché le sue posizioni politiche siano fra le più superficiali (Cavour o Garibaldi, ad esempio, valgono lo stesso); viene presentato come un testo di mera edificazione civile, tutto dovere e sacrificio, e lo è purché si tenga presente che il suo fine non è quello di elaborare o suggerire nuovi ideali, ma di dimostrare, sul piano della moralità sociale, l’assoluta necessità che nella scuola si insegni a vivere secondo il codice ufficiale dello stato unitario. Sotto questa luce tutto nel libro ha un suo significato: ad esempio, i ragazzi non devono essere ragazzi per non sminuire l’esemplarità dei ritratti, ma uomini in sedicesimo, eroi in calzoni corti, che si
comportano come deve comportarsi un «vero » uomo, un uomo cioè sul quale ha già funzionato, fin nei più riposti atteggiamenti, l’azione repressiva di una società borghese, fedelissima ai propri canoni paternalistici e autoritari. Il successo strepitoso del libro (durato fino a poco fa) risponde proprio del conformismo profondo che aleggia in ogni pagina. Il lettore è stato, ed è tuttora, sorpreso non dal fatto di trovarvi qualcosa di nuovo, ma anzi dal « ritrovare » in quel personaggio o in quell'episodio proprio quanto voleva e si aspettava, magari in forma inconsapevole: si veda il personaggio di Franti, il cattivo per vocazione, apparentemente atipico in questo museo di manichini del perbenismo, ed invece profondamente legato a questo mondo virtuoso, perché attraverso di lui viene ribadito il preconcetto del cattivo che c’è in ogni società e del « dovere» che hanno gli uomini «veri» di individuarlo,
isolarlo ed eliminarlo, fa-
cendo così funzionare, fra gli sdilinquimenti più grossolani, quel sadismo di
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Un educatore popolare-borghese :Edmondo
De Amicis
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classe che trova la prima applicazione nella selezione scolastica. Eliminato Franti, tutto scorre via senza una grinza, come fosse un inno ai dettami « progressisti » della piccola borghesia in ascesa, che per entrare nei più comodi ranghi del ceto superiore ritiene giusto (e « bello ») pagare uno scotto in cambio delle sue « alte » aspirazioni. Questo è l’insegnamento che si trae dalle lezioni tenute nella scuola Baretti della città di Torino nell’anno 1882; e fu un insegnamento significativo e subito recepito e diffuso proprio perché esprimeva le esigenze e gli « ideali » della piccola borghesia, in un suo momento di emancipazione, ed insieme forniva ogni garanzia di fedeltà alla classe dirigente. Non a caso nel libro il problema della miseria compare sempre in maniera subalterna, come uno status poco definito e poco definibile, nei suoi risvolti di nobiltà o di bontà,
e comunque
come
una situazione non troppo dura, non fosse altro perché ci sono i ricchi proprio lì pronti a fare l’opera buona, come succede appunto fra gli scolari. Nel suo piccolo, dunque, Cuore affronta e risolve, nella maniera più « pu-
lita », tutti i problemi del suo tempo: e questa è la vera ragione del suo successo. Ma c’è da aggiungere che De Amicis, per parte sua, collaborò a rendere popolare il libro, oltre che con il suo candore ideologico, anche con la sua malizia di scrittore. Già al livello del linguaggio l’autore s'impose un controllo sistematico, per eliminare ogni effetto coloristico o colloquiale e sostituirlo con un diverso linguaggio, molto castigato, se non aulico, quasi si trattasse di un sermone o un apologo da cui è escluso ogni tono confidenziale. È lo stile di un maestro « serio », di quelli che non ridono mai, come questo di Cuore, e che soffrono in silenzio. Predisposta quest’atmosfera di eroismo quotidiano, di raccolta religiosità laica, l’autore si preoccupa di strutturare l’opera in maniera da evitare il rischio più ovvio, quello della noia pedagogico-ammonitoria; ed in effetti, pur nell’ineliminabile monotonia ideologico-normativa, Cuore si dispone secondo una linea interna dinamica con una ricchezza di espedienti drammatico-narrativi, od anche meramente compositivi, che rendono appetibile sul piano rettorico quello che è in realtà il libro più indigesto dell’Italia unita. La grande «trovata » dello scrittore consiste nello sfruttare il filone patetico inserendolo in una dimensione narrativa, quella del romanzo drammatico-popolare, con le ingenuità, le coincidenze, i colpi di scena e perfino gli ingredienti « orrorosi » di un romanzo tipicamente ottocentesco vicino al feu:lleton. Così si spiega, ad esempio, l’infrazione costante del canone della verosimiglianza con cui si garantisce l’onniscenza del protagonista; e così si spiega anche il gioco scoperto delle corrispondenze patetiche per cui tutti i personaggi si presentano legati fra di loro da una catena di accadimenti pietosi, che permette al lettore di «assistere », uno dopo l’altro, una madre malata, uno scolaro infortunato, un padre redento, eccetera. D'altra
parte la stessa disposizione e la varietà del materiale concorrono a movimentare una lettura di per sé poco « mossa »: Cuore è infatti un inseguirsi nel tempo (non si dimentichi la suddivisione in mesi) di tante piccole « scene », ritratti e bozzetti, abilmente intercalati dalle noiosissime lettere dei genitori e dalle novelle mensili. Così è raggiunto lo scopo di non stancare il lettore e di dare una sequenza da
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narrazione al libro, allacciando un brano dopo l’altro attraverso una forma di «continua ») da romanzo popolare, in maniera cioè che la nota patetico-descrittiva non emargini totalmente l’azione. Proprio per tale combinazione di oratoria e rettorica Cuore si guadagnò il primato della popolarità e poté affermarsi come il catechismo antipositivista del sentimentalismo: proprio in quanto tale, esso trovò facile accoglienza, più che negli ambienti dei letterati o degli studiosi, in quella larga zona di media cultura, a cui repugnavano sia il materialismo positivista che le due «forme » contrapposte del naturalismo e del classicismo. Con la sua prosa « media », facile, discorsiva, intonata alla rappresentazione garbata, ma non leziosa, De Amicis fu dunque lo scrittore più letto, e non solo per Cuore, ma anche per opere meno ufficiali, meno « collaborazionistiche », come è, ad esempio, il volume scritto negli stessi anni di Cuore, ma pubblicato nel ’90, Il romanzo d’un maestro. Questo
s'impernia di nuovo sul mondo della scuola, ma con una prospettiva molto diversa da quella di Cuore, proprio perché diversa è la concezione sociale della figura del maestro. Mentre in Cuore il maestro veste i panni dell’eroe dell’abnegazione interclassista, nel Romanzo egli è un lavoratore diviso fra lo stato di sfruttamento indicibile, che il libro documenta mirabilmente, e le sue rivendicazioni
di privilegiato: tutto il libro ruota intorno a questo dramma fra sopravvivenza ed emancipazione, in un’atmosfera di colorito e perfino acre realismo ambientale, in cui il personaggio, nella dura attesa della liberazione (che alfine otterrà, vincendo il concorso per una scuola di Torino) si dibatte, fra « miserie ed amori » (come dice il sottotitolo della prima parte), che assumono ai suoi occhi le proporzioni di vere « avventure e battaglie » (così suona la seconda parte). Su tale tematica il libro raggiunge l’unica forma di realismo compatibile con l’ideologia e il gusto di De Amicis, il quale sa descrivere con tocchi di verità le situazioni di maggiore tristezza materiale, senza che la sua indignatio abbia il taglio dell’accusa oggettiva; anzi al contrario questo realismo antinaturalistico vuole uno sfondo melodrammatico, l’aiuto cioè e l'amplificazione delle /acrymae hominum al posto della denuncia delle /acrymae rerum. Nel Romanzo infatti il vero interesse dell’autore, pur nell’assunto pensoso e perfino sdegnato, consiste nel patetico ed insieme divertito divagare fra le vicende, piccole e minime, di questo mondo paesano e scolastico; un divagare che esclude l’organizzazione di una trama narrativa (per la quale l’abile prosatore e bozzettista non troverà mai la forza), sostituita da una felice serie di quadretti e ritratti. Solo a questo livello minore (avvilito poi dal frammentarismo e dal bozzettismo) si liberano i miglior umori dello scrittore, il suo garbo di pacata ironia, indulgente e ottimistica, che si contrappone all’artificiosità della rettorica in buona fede di Cuore. Lo studio della condizione del maestro innesta dunque una nuova curiosità nella visione artistica di De Amicis (curiosità pur sempre priva di problemi o idee): è l'interesse per le situazioni sociali disagiate che porterà l’autore ad avvicinarsi ai ceti popolari, dapprima con un atteggiamento di simpatia e poi con una volontà di comprensione opposta al filisteismo militare dei primi anni. Que-
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De Amicis
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sto interesse lo si avverte particolarmente in alcune pagine di un altro reportage, Sull’oceano (Milano 1889), in cui l’occhio del giornalista s'incontra per la prima volta con la massa degli emigranti e scopre la realtà di questi condannati, la loro sorte di « venduti » ed insieme il problema, lasciato a terra, della loro possibile redenzione sociale. De Amicis non raggiunge tuttavia una posizione interna al « popolo », ma sente urgente, dal suo mondo di borghese, la necessità di affrontare la famosa questione sociale; da qui, con tutti i limiti d’origine aggravati dalla scarsa
attitudine
all’elaborazione
intellettuale,
scaturisce
intorno
al
°90 la conversione al socialismo con conseguente militanza di scrittore impegnato in conferenze, dibattiti e articoli (che rifluiranno nella raccolta Lotte civili. Bozzetti sociali, ed. definitiva, Milano 1910). Si trattò di un socialismo molto generico,
legato « naturalmente » a quella prassi simpatetica da cui è sempre stato dominato « Edmondo da i languori »; ma soprattutto fu un socialismo da piccolo borghese estraneo alla lotta di classe (quel « socialismo da professori » che stigmatizzerà anni dopo Gramsci). Proprio in quanto piccolo borghese, esso farà esplodere la sua carica polemica nei confronti della borghesia « corrotta » ed « egoista ), senza proporre nessuna vera alternativa: non è un caso infatti che l’apostolato dello scrittore si rivolgerà al borghese « trattabile » e « benevolo » (com°egli lo chiama) per dimostrargli L’imbecillità progressiva della borghesia (così s’intitola un articolo), e farsene quindi un alleato nella lotta per un socialismo inteso come sostituto « naturale » di quel mondo capitalistico, la cui morte vedeva prossima e fatale. Così caratterizzato, il socialismo deamicisiano rimase dunque una nuova simpatia fra le molte che mossero l’arte dello scrittore, la quale, anche se « socialista », fu in fondo sempre la stessa, con qualche tocco di populismo in più (ma non troppo: un certo orrore misto a curiosità rimase dominante). Ecco perché De Amicis non divenne, dopo esser stato lo scrittore popolare-borghese, anche lo scrittore socialista che Turati si augurava; dell’impossibilità di questa trasformazione dovette rendersi conto l’autore stesso, se si rifiutò di portare a termine e pubblicare il romanzo socialista tanto atteso, Primo maggio ed evitò, in genere, di politicizzare la sua prosa (se si escludono alcuni inserti anticolonialisti in La carrozza di tutti, Milano 1898). Ma qualcosa tuttavia doveva cambiare: nei bozzetti e racconti di Fra scuola e casa (Milano 1892) si assiste alla dissacrazione dei due numi tutelari di Cuore, la Famiglia e la Scuola (con esiti anche molti rozzi nella loro lacrimosità invereconda, specie nel « melodramma socialista» La maestrina degli operai), fino ad arrivare, in certe pagine più accese, come La scuola in casa, ad uno spaccato degli egoismi e delle stupidità su cui si fonda l'ambizione scolastica della famiglia borghese, che mai avremmo potuto immaginare dallo scrittore di Cuore. Ma il migliore effetto di questo distacco critico lo si ha nell’erosione divertita ed impietosa a cui il mondo della scuola viene sottoposto in certe novelle, come Latinorum e Il professor Padalocchi, e soprattutto in Amore e ginnastica (tutti e tre in Fra scuola e casa), dove col tono sornione già intravisto nel Romanzo (e con una leggerezza ed amabilità che si
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ritrovano, in parte, nei libri di memorie: Memorie,
1899, e Ricordi d’infanzia e
di scuola, 1901), De Amicis se la gode maliziosamente a mescolare, con sapida morbosità, il sacro e il profano, la sacra missione di una fanatica insegnante di
educazione fisica e la repressa passione di un ex-seminarista: fra amore e ginnastica, fra queste due passioni assolute, s’intreccia così un duello, che, sotto la durezza e la meschinità degli avvenimenti, nasconde il sorriso del doppio senso in una sequela di mosse da danza che un radioso happy end conclude.
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Gerolamo Rovetta (1851-1910), di Brescia, passò la sua vita a Milano, tutto dedito ai lavori letterari e teatrali. Privo di una regolare istruzione, si fece una sua cultura con letture disordinate, in un’agiatezza che gli permise di tentare da autodidatta il mestiere dello scrittore (con gli anni sarebbe venuta meno l’agiatezza e si sarebbe sempre più imposto il mestiere). Nell’82 uscì il primo romanzo, Mater dolorosa, che diede allo scrittore la prima notorietà: è la storia ultradrammatica dei sacrifici di una madre esemplare narrata sullo sfondo di una società corrotta. Nell’insieme è ancora un romanzo lacrimoso di drammi nobiliari, scritto
col getto poco controllato e con l'esuberanza di chi ha la vena facile e si abbandona al vortice della vicenda. Vi si trovano già le caratteristiche degli altri, più maturi romanzi: in primo luogo la misura « grande » della narrazione, che conosce vari cicli di sviluppo e tende ad allargare il quadro d’insieme fino all’affresco (meno pronta è la narrazione stringata della novella: si pensi ad esempio alla raccolta Ninnoli, uscita nell’82). Col passare degli anni la tematica del primo romanzo subisce una trasformazione significativa: si tratta ancora di drammi della nobiltà, ma inseriti nel mondo « nuovo », quello dell’Italia moderna, in cui
sempre più s'impone la presenza della borghesia industriale. Rovetta, ridotto al ruolo dello scrittore di professione, oltre che nobile decaduto e déraciné, è appunto un esponente critico di questa nuova Milano borghese, della vera capitale d’Italia: tale ruolo è quello di un Balzac, in ritardo e immeschinito, postscapigliato, influenzato inoltre dal gusto pittorico-cronachistico di un altro milanese come Rovani. In realtà il conflitto o la connivenza fra nobiltà e borghesia sono i temi di fondo delle opere di Rovetta, il quale mostra di sapersi interessare più al lato economico delle sue storie che non alla problematica psicologico-morale (anche se a questa ritornerà in più di un caso, come, ad es., nel racconto lungo Baby e in molte altre pagine di romanzi, sia pure marginalmente). In Le lagrime del prossimo (I Barbarò) del 1888 come in La baraonda del 1894 (e poi, dieci anni dopo, ancora in La moglie di Sua Eccellenza), Rovetta si fa esaltatore ed accusatore insieme della forza invincibile del denaro (« Il danaro, sempre il danaro, solo il danaro, così in cielo come in terra », dice Barbarò), e fa dell'economia la
spinta propulsiva di ogni vicenda, pubblica e privata, dipingendo foschi, da drammone
popolare, le macchinazioni
con colori
più infami con cui lo scaltro
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arrivista o il cinico riccone raggiungono i loro fini. A prima vista l’impiego di tanto terribilismo tentacolare dà l'impressione di una narrazione sensazionale, buona per i palati di lettori rozzi in cerca di emozioni violente; ma il gusto deciso per la storia e per la cronaca politica aggiunge un piano di mediazione e di polemica, che rende più credibile il ricorso agli effetti della violenza. Insieme all’argomento del denaro viene drammatizzato il tema dei rapporti della ricchezza con la politica, ed infine lo sfruttamento e l’avvilimento a cui vengono piegati, per interessi ben precisi, gli ideali e gli uomini del Risorgimento. Raramente è dato incontrare una parodia così virulenta, così plateale del credo risorgimentale della nuova Italia: quello che è un complesso atteggiamento di opposizione nei Viceré, qui è un palese motivo di acre, insistita ironizzazione esteriore. Sui sacri temi della Patria e della Famiglia — pilastri della rettorica ufficiale — i personaggi di Rovetta gettano il discredito più assoluto, senza pietà, con sfacciataggine esemplare, come se volessero rabbiosamente dimostrare che quello che si è ottenuto è appunto il più sporco tradimento di quegli ideali. Comunque, se tale tesi sostiene arditamente i romanzi (inarcati fra i fantasmi di impossibili purezze eroiche del passato e poco credibili traffici dello sporco tempo presente), l’abilità dello scrittore consiste soprattutto nel tratteggiare, con sommarietà non priva di efficacia, il quadro entro cui s'intrecciano le figure e gli interessi delle due classi egemoni, la nobiltà e la borghesia. L’impegno di verità di queste rappresentazioni deriva dall’intuizione acuta dei contrasti che urgevano dietro alla società « bene » dell’Italia degli anni ’80 (anche se manca ogni acutezza nei riguardi delle lotte proletarie). In questo quadro si valorizzano la sensibilità e la penetrazione con cui vengono descritti e giustapposti nobili in via d’impoverimento e ricchi appena arrivati, nei loro difficili contatti e nella loro necessaria osmosi: tale è appunto l’ambiente in cui si muove ogni storia di Rovetta, anche quelle psicologico-amorose (come Il processo Montagi, 1885, oppure La signorina, 1899), in cui, venuto meno il tono « forte » delle scene catastrofiche — quelle che daranno il successo di pubblico all’autore di teatro —, s'impone una ricercatezza manierosa e bamboleggiante, tutta vezzi tardoromantici. Ma se la psicologia dei personaggi è quella legnosa e improbabile dei manichini, nell'insieme il racconto di Rovetta trova una sua scansione più «vera » al livello della storia degli affari e delle macchinazioni politico-finanziarie, dalla cui logica spietata esce un quadro ben preciso delle forze che determinano il « progresso » di un popolo. Per la verità, tuttavia, proprio su questo piano politico-affaristico, il romanzo di Rovetta soffre, ideologicamente come formalmente, di una conta-
minazione e d’una indecisione strutturali. Per un verso infatti esso sembra affiancarsi, pur nella rozzezza semplificatrice degli schemi narrativi, ai grandi aftreschi e alle cupe analisi del romanzo naturalista più spinto (si pensi a certi romanzi scapigliato-naturalistici di Tronconi o dell’ultimo Arrighi), dove denaro, malvagità, decadenza fisica e morte sono gli ingredienti volutamente sgradevoli di un quadro di violenta materialità e smitizzazione sociale. Per un altro verso invece questo sinistro positivismo arrivista (che è definito sarcasticamente « il
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gran talento degli uomini moderni, degli uomini all’americana ») s’inturgidisce di tutti gli effetti della letteratura d’appendice più « orrorosa », degradando spesso la forza della rappresentazione al colpo di scena fine a se stesso, vero choc emotivo teso a sbalordire il lettore con una teatralità grandguignolesca: e anche qui tornano in mente certi scapigliati oppure, ma nella vena drammatico-amorosa, i fortunatissimi romanzi d’appendice di Carolina Invernizio (1851-1916). Scrittore molto amato dal pubblico, specie femminile, del suo tempo fu il fecondissimo romanziere Salvatore Farina (1846-1918), che svolse la sua attività a Milano, in stretto contatto con gli scapigliati (di cui ha lungamente parlato nei suoi tre volumi autobiografici La mia giornata, 1915-8), dirigendo la « Rivista minima », secondo un programma di amabile eclettismo, che richiamò molti letterati del tempo. Farina è il tipico scrittore di narrativa «rosa », tutto legato alla tematica piccolo-borghese dei sacri affetti e estraneo, anzi opposto, ad ogni eccesso scapigliato: ogni sua storia si conclude con la nota racconsolante della pace che si ritrova nella sicurezza dei sentimenti e delle istituzioni tradizionali. Tutte le sue pagine sono un’esaltazione appassionata e candida della famiglia come centro di ogni virtù « civile », e perciò l’abusata soluzione matrimoniale in lui ha non solo il sapore di uno scioglimento sentimentale, ma anche il significato di un’indicazione morale. La morale a cui accede ogni libro di Farina è insomma una morale conservatrice-moderata, come moderato è sempre il tenue realismo delle sue rappresentazioni, che si conformano spesso ai clichés delle situazioni romanzesche tipiche: le dure peripezie per coronare una passione, oppure il superamento dei dislivelli sociali attraverso la potenza dell’amore. Come ogni romanziere «rosa », Farina è insensibile alle questioni sociali: ambienta indifferentemente le sue azioni fra conti e marchesi così come fra artisti squattrinati, ma sempre con l’intenzione di dimostrare, come dice un personaggio di Dalla spuma del mare, che «il denaro non si deve confondere colla gioia e colla felicità », o al massimo indicando nella filantropia e nella generosità l’unica forma di avvicinamento fra ricchi e poveri. Dai molti romanzi (da Cuore e blasone del 1864, al Romanzo di un vedovo del 1871, a Il tesoro di Donnina
del 1873,
a Capelli biondi del 1876, e ad altri ancora) emana questa forma di «filosofia» pacificatrice e casalinga, tutta basata sulla valorizzazione dei sentimenti e delle gioie interiori. In questo messaggio sta la chiave della fortuna dello scrittore in quella zona sociale di fine Ottocento che rimase estranea agli influssi naturalisti e decadenti, così come alle forme « eccessive » del romanzo d’appendice. Ebbe poi particolare efficacia ai fini della sua diffusione popolare la maniera con cui è condotto avanti il racconto, con la malizia della commediola garbata non priva dei suoi colpi di scena, ed insieme con una certa dose di umorismo bonario (a volte perfino insulso), che condisce le frequenti uscite moraleggianti dell’autore. D'altra parte questa maniera di narrare è espressione del programma eclettico dell'autore, che si professa avverso ad ogni fazione in nome di una pia mediocritas: infatti,
a suo avviso, «un’arte sola esiste, quella che cerca di unire il bello
al vero » e che accetta anche l’idealismo in quanto « forma esso pure del vero,
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ché l’uomo è per lo meno metà matematico, metà sognatore ». Così si esprime Farina nella Prefazione a Capelli biondi, quasi a spiegare il particolare « verismo » con cui è affrontato nel libro il naturalistico tema della prostituzione, o meglio delle cocottes, con genericità di tocchi e leziosità di colori, tali da non far arrossire la più pudibonda delle lettrici. E questo è il fine « popolare » del romanzo di Farina: innestare nella forma più facile e simpatica la sua lezioncina di moralista
Una non sessantina) di Savona), dove sempre fedele baldi, di cui
minimo,
fiducioso
nella bontà
dei sentimenti
e delle istituzioni.
troppo dissimile notorietà godettero anche i molti romanzi (una Anton Giulio Barrili, che operò quasi sempre a Genova (era di diresse giornali e riviste e nella cui Università infine insegnò, ai suoi ideali risorgimentali e in specie al suo generale Gariera stato seguace e poi portavoce giornalistico. Ma l’ideale per
eccellenza che entusiasmò sempre lo scrittore, fu l’ideale amoroso, visto, sì, alla
luce dell’ideologia familiare borghese — basata sull’esaltazione della donna amata e pur sempre subalterna —, ma anche mitizzato, secondo i procedimenti provinciali del sentimentalismo romantico-cavalleresco, quale poteva piacere alla schiera più arretrata dei lettori (che era gran parte del pubblico, come doveva ben sapere l’editore Treves, che da queste appendici di giornali trasse molti dei suoi volumi). Questo sentimentalismo deriva dal garibaldinismo « ideale » dell’autore, un garibaldinismo che non ebbe mai caratteri politici e disorientò Barrili nelle sue rare esperienze politiche, così come dettò l'impostazione conservatrice e nostalgica (se non medievaleggiante) dei suoi romanzi (come rivela apertamente lo sfondo moralistico del romanzo parlamentare Diamante nero del ’97). Narrare le « gesta » suscitate da una passione grande e gentile è dunque il fine del romanziere, sempre attento ad innalzare la sua trama in un’atmosfera avventurosa,
o comunque mossa. Già nel primo racconto lungo, Capitano Dodèro, del °65, è presente questo schema; ma anche in altre opere meno movimentate l’amore è sempre prova di grandi anime o comunque incontro fatale: non solo nell’inversomile Santa Cecilia (del ’66), così legato ai canoni più crudi del fewilleton e alla presunzione di una rozza cultura storica, ma pure in romanzi rosa come L’olmo e l’edera (1868), oppure Val d’olivi (1871) o Come un sogno (1875) ed altri ancora, che rappresentano il risultato medio a cui poteva arrivare l’autore, quando non si fingeva erudito per tentare romanzi storici di infimo ordine. Comunque le situazioni predilette da Barrili non escono dai termini delle storie più comuni: non manca mai lo scioglimento finale che corona la travagliata vicenda amorosa, e tutte le storie conducono dunque alla venerazione di quella divina trinità che viene nominata in Val d’olivi: « Dio, la donna, l’onore » (quasi mai, se non forse in Fior di mughetto, del 1883, la storia d’amore
assume
i contorni concreti di
uno studio, per quanto moderato, d'ambiente). Narratore tradizionale e convenzionale per eccellenza, Barrili ha tuttavia una sua «maniera » per farsi leggere, cioè la maniera di narratore naîf, che tiene sempre aperto il colloquio col suo lettore, a cui si rivolge con bonomia, con ammiccamenti maliziosi, quasi si trovasse in un salotto di gente « bene »; e così abbassa al tono quotidiano, alla rifles-
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sione del buon senso, quella storia che sta narrando con entusiasmo e veemenza inesauribili (e stancanti): che è poi lo stesso procedimento che trasforma amabilmente i ricordi di Con Garibaldi alle porte di Roma (1897) in quella che egli chiama una «scampagnata epica ». Fra le molte scrittrici di appendice che adornavano, sotto vari pseudonimi, le pagine dei giornali e delle riviste, vi fu anche Neera (1846-1916), cioè Anna Radius Zuccari. L'ispirazione di questo romanziere è legata alla sua attività di moralista, quale appare da alcune opere come // libro di mio figlio (1891) o Le idee di una donna (1903), che mettono a nudo le preoccupazioni dell’autrice e quella sua ideologia tutta intimistica che ritroviamo nelle pagine narrative. Al centro dell’opera di Neera ci sono sempre la figura della donna, messa a confronto con quella dell’uomo, suo compagno e padrone, e il correlativo problema di ridefinire il posto che spetta alla donna nella società moderna. In questo senso tutta l’opera di Neera è opera di moralista, una vera e propria polemica per illuminare con la giusta luce l’insostituibile missione della donna. Già nei primi racconti, come Addio! del °77, viene descritta quella che sarà poi la costante virtù muliebre, l’abnegazione, la rinuncia, il sacrificio, che solo una donna può con-
cepire e attuare come riti della sua religione di sofferta spiritualità o come superamento di ogni vincolo edonistico o materiale. Non a caso Neera sarebbe stata, nella « propaganda » per la sua fede, fieramente avversa al moderno femminismo che i tempi nuovi stavano propagando anche in Italia; la sua rivalutazione della donna avviene tutta all’interno di un’ideologia (o mitologia) femminile arcaizzante, quella che si basa su una concezione tradizionale della famiglia e deila società con la priorità assoluta concessa al matrimonio e alla maternità. Così intesa l’eroina di Neera sarà in fondo sempre la stessa o almeno avrà sempre lo stesso accento, pur nelle diverse «variazioni »: l’amore, a cui queste donne anelano, è, sì, l'argomento dei romanzi, ma con toni diversi dal-
l’ispirazione «rosa » di tante altre opere, non foss’altro perché la volontà pedagogica sostiene dal di dentro tutta l’opera e ne fornisce quasi sempre la soluzione finale. Questa matrice unitaria, che si apre alle due possibilità del sentimentalismo e del moralismo, è anche la ragione della povertà complessiva dei romanzi, i quali, anche sul piano narrativo, si svolgono sempre secondo la stessa parabola di intimismo a volte predicatorio, e comunque troppo angusto per poter reggere il peso di tutta l’azione. Da Addio !, col suo finale di nobile rinuncia, a Un nido (1880), a Lydia (1887), con il suicidio che « punisce » la protagonista, a Nel sogno (1893) o a L’amuleto (1897), con ancora la storia di un amore che si realizza nella rinuncia, alle opere più tarde come il pretenzioso Duello d’anime (1911), che è un inno alla « vera » nobiltà della donna misconosciuta ed avvilita e pur capace di un sublime sacrificio, sempre l’autrice ha portato avanti questo suo programma di restaurazione « spirituale », secondo un’ispirazione romantica vecchio-borghese, che fa della donna, della forza del suo «spirito » il simbolo di un antipositivismo e antimaterialismo tanto accaniti quanto vaporosi. È quanto viene « dimostrato » anche nelle opere migliori, come ad esempio nel Romanzo
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della fortuna (1905), dove l’esaltazione « milanese » per la promozione sociale si accompagna ancora una volta con la « storia » tipica della santa donna, che soffre e accetta nobilmente il proprio destino subalterno; oppure come in Teresa (1886), dove la «spiritualità » della protagonista riesce più autentica e meglio narrata proprio perché calata in una minuziosa descrizione della vita di provincia e di una misera esistenza di donna soffocata dal suo ambiente. Se in Teresa prevale dunque lo studio di un carattere che si chiude in sé e vive della ignota nobiltà di un amore incompreso, nel Romanzo della fortuna, di vent'anni dopo, la stessa figura viene assunta in una dimensione più larga, legata al processo di inurbamento, e il sacrificio rituale della protagonista assume il significato di un sacrificio positivo, imposto cioè dalle leggi « necessarie » del progresso e dell’avanzamento sociale, che sono poi le uniche leggi a cui la santa donna di Neera riconosca
di doversi, generosamente,
immolare.
Su un piano di pensosità aliena da ogni pretesa pedagogica o « filosofica » si pone l’opera di Enrico Castelnuovo (1839-1915), che improntò la sua vasta produzione ad un'analisi, piana e garbata, dei problemi psicologici di innamorati o di coppie sposate. Già con i primi romanzi, come // professor Romualdo, si impone quel piacere dell’osservazione psicologica che si sofferma sui drammi o sulle incomprensioni degli amanti; ma questo tema, a differenza che in tante altre opere contemporanee, è trattato con molta moderazione di accenti e di tinte, tipici di un autore a cui interessa presentare nei termini del realismo più quotidiano ed empirico i suoi soggetti. Questo ideale di moderazione stilistico-psicologica è del tutto conforme all’ideale etico dello scrittore, che difende in ogni sua opera, pur senza le pretese di saccente modestia di Neera, i valori « intimi » della società borghese: in primo luogo la famiglia e poi la donna. Il problema di fondo di Castelnuovo è quello di confrontare i suoi ideali personali con i nuovi aspetti della società: nascono così non solo l’ultimo romanzo I Moncalvo (1913), che tenta di essere un romanzo di un ciclo familiare immerso nei costumi dell’epoca, ma anche opere come L’on. Paolo Leonforte (1894) e I coniugi Varedo (1899), che rientrano in quelli che si chiamano i «romanzi parlamentari », in quanto l’ambiente —
come
già in altri romanzi della Serao, di De Roberto, e
prima ancora nella reazionaria e acuta cronaca nostalgica di Ferdinando Petrucelli Della Gattina (1815-90), I moribondi di palazzo Carignano (1862), e poi in Le ostriche di Carlo Del Balzo (cfr. $ 52) — è appunto la Roma politica dopo il ’70. A Castelnuovo manca tuttavia un interesse politico (o etico-politico) autonomo e neppure lo stimola un’agguerrita polemica di parte; quello che lo interessa è, nel darci un quadro fedele e particolareggiato di questo nuovo mondo, mettere in rilievo il contrasto fra i valori della famiglia e quelli della politica: come succede appunto nei Coniugi Varedo, dove è descritta la carriera di un uomo politico che finisce col rompere l’unità familiare. A questo stesso tipo di problemi morali si ricollega anche // fallo d’una donna onesta del 1897, dove con buona intuizione psicologica è narrata la storia di una « donna onesta » costretta dalla propria coscienza a concludere col suicidio una sua « colpevole » relazione: anche
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in questo caso l’autore non muta il registro narrativo, che gli permette di diminuire e umanizzare la tragedia in una rappresentazione sciolta e moderata. In tale « mediocrità » sta la nota simpatica dell’autore, che, coscientemente, non presume di scrivere capolavori, ma preferisce, come si legge nella Prefazione ai racconti Sulla laguna (1899), suggerire più modeste sensazioni: « un onesto sorriso » o «una lacrima pietosa ».
BIBLIOGRAFIA
$. 64. Di Rovani cfr.: la preziosa ed. di Cento anni, a c. di B. Gutierrez, Milano 1934-5 (cfr. anche l’ed. Milano 1960); C. Cordié ha curato una ried. della Libia d’oro (c’è anche nella B.U.R. uscita nel ’62); per La giovinezza di Giulio Cesare cfr. l’ed. Milano 1937 (ampia antologia in Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento, a c. di A. Borlenghi, vol. 1, Milano-Napoli 1961 sgg.). Cfr. anche Le più belle pagine di G. Rovani, a c. di Cazzamini Mussi, Milano 1935 (che però è poco utile). Su Rovani cfr.: C. Dossi, Rovaniana, Milano 1946;B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. 1, Bari 1914; P. Nardi, Scapigliatura : Da G. Rovani a G. Dossi, Bologna 1923; F. Lopez Celly, Il romanzo storico in Italia, Bologna 1939; P. Arrighi, Le vérisme dans la prose narrative italienne, Parigi 1937; G. Ferrata, Il manzoniano scapigliato, in « Primato », 1 luglio 1940, pp. 13-5; R. Rugani, Ri/eggendo i « Cento anni », in « Belf. », 1, 1951, pp. 816; A. Seroni, Nuove ragioni critiche, Firenze 1954; A. Romanò, Il secondo romanticismo lombardo e altri saggi sull’Ottocento italiano, Milano 1958; C. C. Secchi, G. Rovani, in Marz. Min., rv; G. Baldi, G. Rovani e il problema del romanzo nell'Ottocento, Firenze 1967 (molto interessante); fondamentale: G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma 1967; ben impostate le pagine di S. Romagnoli, Narratori e prosatori del Romanticismo, in Storia della letteratura italiana, vol. viti, Milano 1968; R. Tordi, G. Rovani tra avanguardia e tradizione, in « RLI >», 1, 1968; R. Merolla, // protagonista di una leggenda scapigliata : G. Rovani, in « Angelus Novus », 9-10, 1966; R. Bigazzi, I colori del vero. Vent'anni di narrativa : 1860-1880, Pisa 1969; G. Baldi, voce in Dizionario critico della letteratura italiana, a c. di V. Branca, Torino 1973. $ 65. Di De Marchi cfr.: l'antologia E. De Marchi, a c. di A. Galletti, Milano 1943; Romanzi, racconti e novelle, a c. G. Titta Rosa, 2 voll., Milano 1963; Esperienze e racconti, Grandi romanzi, Varietà e inediti, 4 voll., a c. di G. Ferrata, Milano 1959-65; Demetrio Pianelli, a c. di L. Baldacci, Firenze 1970. Su De Marchi cfr.: B. Croce, La letteratura cit., irr; A. Sacheli-Grixoni, La vita e l’arte di E. De Marchi, Genova 1925; C. Linati, Un romanziere lombardo : E. De Marchi, in «NA », 16 ottobre 1926, pp. 454-60; A. Pesante, Due narratori manzoniani : Nievo e De Marchi, Trieste 1930; G. Ferrata, E. De Marchi, durante la « Vita nuova », in « Pan », 6, 1934, pp. 209-24; V. Branca, E. De Marchi, Brescia 1946 (ma del 1942); E. Pesce, De Marchi moralista minore, in « Convivium », 1, 1952, pp. 25-30; D. Forni, Interesse e valore documentario di alcuni saggi giovanili di E. De Marchi, ivi, 2, 1952, pp. 245-71; L. Baldacci, E. De Marchi, in « Inventario », 1952, pp. 144-8; A. Rossi, Verifica della narrativa di De Marchi, in « Par. », 1959; V. Branca, Rassegna demarchiana, in « LI », 2, 1960, pp. 209-16; D. Mattalia, Marz. Min., Iv (con bibl.); M. Cecconi Gorra, Il primo De Marchi fra storia, cronaca e poesia, Firenze 1963; G. Nava, E. De Marchi e la crisi di un’età, Bologna 1964; A. Fittipaldi, All'origine dell’esperienza narrativa di E. De Marchi, in « Fil. L », 1965, pp. 201-24; C. Colicchi, Socialità e arte nei romanzi di E. De Marchi, Firenze 1965; D. De Renzo, Rassegna demarchiana, in « LI », 4, 1966, pp. 435-49; A. Leone De Castris, L’epica subalterna di E. De Marchi, in « Angelus novus », 14, 1968-9, pp. 1-60; V. Spinazzola, E. De Marchi, romanziere popolare, Milano 1971 (importante); C. A. Madrignani, E. De Marchi romanziere e pedagogo; Una lettera giovanile di E. De Marchi a Ambrogio Bazzero; Il rilancio di E. De Marchi, in Ideologia e narrativa dopo l'unificazione, Roma 1974; F. Portinari, voce in Dizionario critico cit. 9
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Eredità manzoniana
e proposte di realismo nella società industriale
$ 66. Di De Amicis cfr. De Amicis, a c. di A. Baldini, 2 voll., Milano 1945; Cuore, a c. di L. Tamburini, Torino 1972, con note accuratissime; Amore e ginnastica, a c. di I. Calvino, Torino 1971. Su De Amicis cfr.: B. Croce, La letteratura cit., 1; 'T. De Vita, E. De Amicis, Napoli 1906; Giona, Enciclopedia : E. De Amicis (1945) in Il politecnico, a c. di M. Forti e S. Pautasso, Milano 1960, pp. 317-20; A. Baldini, Fine Ottocento, Firenze 1947; G. Petrocchi, Scrittori piemontesi del secondo Ottocento, Torino 1948; G. Pasquali, Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951: A. Momigliano, Ultimi studi, Firenze 1954; M. Valeri, E. De Amicis, Firenze 1954; E. Frattarolo, in Marz. Miîn., 1v; P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a c. di C. Galimberti, vol. 1, Milano-Napoli 1967; S. Spellanzon, De Amicis senza languori, in « Pon. », 11, 1958, pp. 1426-43; P. Spriano, Soctalismo e classe operaia a Torino, Torino 1958 (importante); utile la biografia di L. Gigli, De Amicis, Torino 1962. In generale cfr. G. Carella, Appunti per una bibliografia su De Amicis, Bari 1960. $ 67. Di Rovetta cfr. La trilogia della vita (Mater dolorosa, Le lagrime del prossimo, La baraonda), Milano 1943. Su Rovetta cfr.: E. Bevilacqua, Saggio di bibliografia rovettiana, in « La lucerna >», Ancona 1916; P. Arcari, Un meccanismo umano, Milano 1909-11, 2 voll.; B. Croce, La letteratura cit., 111; E. Bevilacqua, Traverso il mondo rovettiamo a volo d’uccello, in « Rassegna nazionale », dicembre 1924, pp. 163-72; C. Apollonio, Marz. Min., iv (cfr. anche pp. 328-9 di N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. 111, Firenze 1956, pp. 328-9). Per l’Invernizio cfr. la recente ried. Romanzi del peccato, della perdizione e del delitto 2 voll., Milano 1973. Inoltre A. Bianchini, Il romanzo d’appendice, Roma 1969 e l’Almanacco Bompiani, 1972. Su Farina cfr. la bibliografia in Mio figlio, a c. di M. Lombardi Lotti, Firenze 1939; B. Croce, La letteratura cit., 1; D. Mantovani, Pagine d’arte e di vita, Torino 1915; G. Zvuccarini, Schegge e sprazzi, Ancona 1912; G. Molteni, Da F. Rostand a S. Farina, in « Vita e Pensiero », 1919; V. Dendi, Un romanziere dimenticato : S. Farina, Pisa 1921; C. Morandi, S. Farina, in « Il pensiero », 33, 1926; A. Balestrazzi, Il romanzo di S. Farina, Pavia 1933; N. Valle, Attualità di Farina, in « Il Convegno » (Cagliari) 1946; Id., Letteratura sarda, in « Pon. », 9-10, 1951, pp. 1246-51; R. Bigazzi, op. cit. Di Barrili cfr. Opere, a c. di A. Varaldo, Milano 1947. Per la biografia cfr.: G. Orioli, A. G. Barrili, in DBI, vi, Milano 1964; B. Croce, La letteratura cit., 1; E. Morando, A. G. Barrili e i suoi tempi, Napoli 1926; I. Scovazzi, A. G. Barrili e î suoi romanzi storici, in «Atti della Soc. ligure di storia patria », 1938; A. Baldini, Fine Ottocento, Firenze 1947; L. Giusso, Il viandante e le statue, Roma 1942; G. Natoli, Dal Guinizelli al D’ Annunzio, Roma 1942; A. Varaldo, A. G. Barrili, Genova 1950; V. Furlani, A. G. Barrili, l’uomo e lo scrittore, in « Il veltro », 3, 1959, pp. 13-20. Della Neera cfr. Opere, a c. di B. Croce, Milano 1943. Su di lei cfr.: L. Capuana, Studi sulla letteratura contemporanea, serie 11, Catania 1882; B. Croce, La letteratura cit., II; F. Flori, Saggi di critica estetica, Milano 1910; F. Cazzamini Mussi, Uomini e libri, Palermo 1927; C. Linati, Neera, in « L’Ambrosiano », 3 marzo 1943. Su Castelnuovo cfr.: G. Bordiga, E. Castelnuovo, Venezia 1916 (poi in Discorsi e ricordi d’arte e d’artisti, Venezia 1935); A. Fradeletto, E. Castelnuovo, in « NA », 1 aprile 1922, pp. 201-15; B. Croce, La letteratura cit., v.
IL TEATRO di Franca Angelini
IL TEATRO
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Caratteri generali
Gli intellettuali della generazione risorgimentale avevano teorizzato il rapporto fra teatro, società e realtà e lo avevano in vario modo risolto, principalmente nella direzione indicata dai romantici lombardi e da Manzoni. Gli intellettuali della generazione successiva fecero del teatro, insieme al giornalismo e alla critica militante, uno strumento essenziale di affermazione e divulgazione della contemporanea ideologia sociale, di fondazione dell’Italia unita, non solo politicamente e geograficamente, ma nell’etica del lavoro e della costruzione, nel costume, nel modo di vita, nell’affermazione dell’etica familiare intesa come primo
patrimonio del nucleo sociale. Questo progetto ideologico costituisce il più macroscopico carattere del teatro del secondo Ottocento che « direttamente o 'indirettamente, polemicamente o apologeticamente, presuppone sempre e comunque, come punti di riferimento imprescindibili in ogni sua rappresentazione, le strutture morali e intellettuali, sociali e politiche di una società, di una mentalità, di una
cultura borghesi » (C. Bozzetti, introd. a Il teatro del secondo Ottocento, Torino 1960, p. 19). Si tratta dunque di un teatro che si incarica di sostenere e divulgare i temimiti ovvero l’ideologia della classe egemone: di una rappresentazione del presente, di situazioni e personaggi esemplari, volta più a sostenere tesi edificanti che a esplorare nuove possibilità tematiche e nuove soluzioni drammaturgiche. In questo senso, tale teatro si può anche definire realista, a condizione di intendere per realtà non il termine di un rapporto fra l’uomo e la totalità della sua esperienza del mondo ma, al contrario, la conferma di un’ipotesi del mondo preesistente a tale esperienza. Oltre i risultati, e naturalmente con alcune eccezioni, la produzione teatrale dell’epoca tende a fondare l’egemonia culturale della borghesia italiana che, dal progetto dell’unità nazionale, passa ora alla sua realizzazione, quindi all’uso, didattico e formativo, delle sue istituzioni: editoria, giornali, teatri, ecc. Tale ipotesi unitaria, affermata oltre i dislivelli tra le varie regioni, tra le classi al loro interno, tra Nord e Sud, deriva, senza sostanziali
soluzioni di continuità, dalla cultura risorgimentale piemontese, lombarda e toscana; ma ad essa aderiscono anche gli intellettuali provenienti dal Meridione e dalle isole. Così sarà proprio Capuana che, dai fogli della fiorentina « Nazione », parlerà, negli anni 1866-7, della necessità di un teatro
delli letterari specialmente francesi e il dramma
nazionale,
contro
i mo-
storico del primo Ottocento,
malgrado le divisioni regionali, i dislivelli linguistici, i particolarismi dialettali;
di un teatro che rispecchi la società italiana, la quale « svariata com'è con quattro o cinque capitali e con sì diverse provincie, pure ha sempre un lato comune che si porge all’arte stupendamente, senza trascinarla a rompere nello scoglio delle
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Il teatro
cose troppo locali ». I caratteri nazionali « che da seimila anni durano i medesimi nella loro sostanza, subendo appena qualche modificazione dalla necessità dei climi e dei luoghi » consistono, secondo Capuana, nelle « passioni ») e nei « caratteri ), cioè in una generica zona della psicologia umana che si dovrà supporre ereditaria, cioè immune dai condizionamenti di « climi» e «luoghi ». A questa convinzione di Capuana corrispondeva un dato di fatto: la produzione teatrale prosperava nei centri culturali dove più intensa era la programmazione di una politica culturale unitaria e la realizzazione delle strutture sociali che consentissero di assorbirla. Nella seconda metà del secolo Milano assolve esemplarmente questo compito; scrittori, musicisti, attori vi compiono le loro prove decisive. Ma la diffusione dei prodotti teatrali è qui accompagnata da un’intensa opera di organizzazione e divulgazione della cultura — spesso in senso paternalistico — svolta contemporaneamente dalle biblioteche e Università popolari, dai circoli culturali come il Filologico, in cui insegnarono i commediografi Paolo Ferrari e Giuseppe Giacosa. Il maggior teatro di prosa, il Manzoni, nasce e vive per una iniziativa sociale, la Scala « prospera per la presenza associata di palchettisti, per i quali appartenere al nucleo dei fedeli scaligeri era un titolo d’onore » (Orio Vergani, Il milanese, da Ricordo di Marco Praga, Milano 1959, p. 18). Da Milano si diffonde il teatro di Verga, a Milano nasce la sperimentazione drammaturgica di Bertolazzi, appoggiata da un ricco contesto di repertorio meneghino. Ma accanto al valore positivo del programma culturale di formazione della classe egemone e di controllo della partecipazione delle classi subalterne, occorre ricordare quanto da questo programma viene escluso: in primo luogo la produzione dialettale (che a Milano vive in teatri specializzati, a Napoli nel ghetto del folclore) sottoposta a un processo di esclusione parallelo all’imposizione dell’italiano nelle scuole; quindi la produzione eccentrica e sperimentale, in senso tematico e drammaturgico (Verga, oltre le traduzioni musicali e le deformazioni di recitazione del « grande attore »), che proponeva concezioni del mondo meno ottimistiche e modelli culturali preborghesi. Dal programma unificante, ottimisticamente proposto come compito culturale del teatro, è possibile tuttavia estrarre le linee di una storia che, pur sostanzialmente aderendo all’ideologia indicata, registra anche le stasi e le fratture di una società in faticosa formazione come quella postunitaria; di un teatro che, assai poco aderendo
a tale ideologia, inventa nuove
forme drammatiche,
nuovi
tempi e luoghi scenici, un nuovo tipo di dialogo; di un teatro infine che estende il privilegio della rappresentazione alle classi subalterne, piccolo-borghesi e popolari, e perciò usa il dialetto e altri ingredienti scenici che Capuana bandiva come «troppo locali ». Entro questo schema è possibile individuare altre linee di sviluppo, altri scambi tra linguaggi apparentemente diversi come la lingua e il dialetto (e poi il teatro e il nascente cinema). Così, ad esempio, si può constatare che, mentre nel primo ventennio postunitario il teatro utilizza strumentalmente alcuni modelli come Goldoni o il teatro francese da Dumas padre a Henry Becque, negli anni seguenti domina il gusto di una rappresentazione diretta della società
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dell’epoca, seppure vista secondo l’ottica ideologica del lavoro e della famiglia. In questo quadro, è significativo il percorso di uno scrittore altamente rappresentativo della classe dirigente italiana e particolarmente piemontese com’è Giuseppe Giacosa dagli arcaismi di Una partita a scacchi e dalla piacevole mondanità dei «proverbi » e delle commedie di intrigo elegante, ai quadri via via più foschi della vita politica (L’on. Ercole Mallardi), della vita familiare (Tristi amori), della decadenza borghese (Come le foglie), delle fratture tra generazioni (Il più forte). Il che significa che l’ipotesi ottimistica iniziale, pur praticata nel corso del secolo dal teatro di maggior successo, presenta poi alcuni momenti di frattura che conducono ad isolati esperimenti ed invenzioni di una nuova drammaturgia che avrà il suo corso nel teatro del primo Novecento e nel cinema: è il caso della produzione verghiana, dalla Cavalleria rusticana alla Lupa, del Rosario di De Roberto, del Nost Milan di Bertolazzi; il caso cioè di due tipi di teatro eccen-
trici, anche tecnicamente, dal modello drammaturgico borghese perché i primi due condensano nell’atto unico il tempo di un dramma che si dà per ineluttabile, cioè intangibile dalle evoluzioni, o ripensamenti o compromessi dei drammi intimi; Bertolazzi, al contrario, estende questo tempo fino a rappresentare, come nota Althusser, anche il lungo momento di vuoto dell’esistenza emarginata e fuori della storia. Se mancano, nel panorama del teatro italiano, gli esempi di grande drammaturgia che caratterizzano invece il contemporaneo teatro europeo: da Henrik Ibsen (1828-1906) a Anton Cechov (1860-1904), a August Strindberg (1849-1912), a Maurice Maeterlinck (1862-1949), ai simbolisti francesi, ai drammi sociali e le soluzioni espressionistiche di Gerhart Hauptmann (1862-1946), ciò avviene, oltre che per evidenti motivi di carattere storico-politico, per un motivo che ci sembra costituire, paradossalmente, anche il suo pregio; cioè per la sua posizione di rappresentatività dei gusti del pubblico medio che scopre per la prima volta, dopo Goldoni, il valore del teatro come pratica sociale, come mezzo che possiede una specifica forza di convinzione e di orientamento dell’ideologia dello spettatore. Di qui la sfiducia, negli scrittori di maggiore ingegno, di poter usare il teatro con la stessa libertà sperimentale applicata invece alla narrativa. Di qui la coscienza delle differenze strutturali fra narrativa e teatro per il differente uso sociale dei loro specifici modi di comunicazione così espressa da Emile Zola: «Il y a la question du lecteur isolé et des spectateurs pris en masse: le lecteur isolé tolère tout, va où l’on veut le mener, méme lorsqu’il se fàche, tandis que les
spectateurs pris en masse ont des pudeurs, des effarements, des sensibilités dont il faut tenir compte, sous peine de chute certaine. Tout cela est vrai, c'est précisément pour cela que le théàtre est la dernière citadelle de la convention » (Le roman expérimental, Parigi 1880, p. 115). In Italia, la sfiducia di Verga verso il
teatro era dovuta, ancora per un paradosso, alle stesse cause del suo successo: alla funzione prevaricante della musica nella riduzione melodrammatica della Cavalleria rusticana e all’istrionismo
del «grande attore », del mattatore,
fosse
Grassi o la Duse, che piegava all'effetto la massima tensione drammatica otte-
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Il teatro
nuta nel testo con una scarnificazione dei mezzi espressivi, con una loro riduzione all'essenziale; il fatto insomma che il gesto teatrale, da lui pensato e costruito nel testo come gesto essenziale e sobrio, diventa plateale in palcoscenico, come un ammiccamento compiacente al gusto del pubblico. Riassumendo: è possibile, oltre una definizione tematica in senso verticale, periodizzare la produzione drammatica del secondo Ottocento in due fasi: dal ’60 al ’70 prevale l’ipotesi di un teatro ideologico a fondo unitario, di costruzione dell’ideologia sociale della classe dirigente (e il modello di questo teatro sarà Goldoni); dal 70 al ’90 il teatro prende atto delle fratture esistenti nella società italiana, della fine dell’utopia attivistica e costruttiva, delle differenze tra Nord
e Sud e tra classe e classe, ed esperimenta nuovi linguaggi drammaturgici per nuove situazioni (Verga, i veristi, alcuni dialettali come Bertolazzi); uno sperimentalismo tanto più coraggioso quanto più sembrano mancare progetti ideologici edificanti. Un discorso a parte merita il teatro napoletano: anzitutto perché ogni tendenza e programma vi è presente, da quello immediatamente postrisorgimentale di un’egemonia etico-culturale borghese, in Achille Torelli, alla « crisi » di questo programma nella ricerca veristica di Roberto Bracco, che presuppone una cultura positivista di tipo europeo, una traduzione in chiave italiana della tematica ibseniana e che annuncia il suo rovesciamento in quesiti esistenziali di tipo pirandelliano. Il teatro di Bracco rappresenta uno specifico momento di passaggio al teatro del ’900, con le sue aperture al grottesco, al melodramma grandguignolesco, al cinema. Altrettanto rilevante la produzione napoletana in dialetto, nella versione comica,
dissacrante,
di Antonio
Petito, in quella di un comico
più moderato ed urbano come Eduardo Scarpetta, in quella preespressionista, patetica e melodrammatica di Salvatore Di Giacomo. Come è impossibile, in un’analisi del teatro del secondo ’800, prescindere dal complesso degli istituti culturali che lo sostennero e divulgarono, così la sua comprensione sarebbe assai parziale se non tenesse conto di tutti i fenomeni teatrali, extraletterari in senso stretto, che accompagnarono l’opera degli scrittori. In primo luogo della nascita di quella che poi Gramsci analizzerà come «industria teatrale » nella sua fase degenerativa (il potenziamento cioè degli spettacoli di varietà nel primo °900, a scopo commerciale): la formazione cioè di grandi compagnie che richiedono e diffondono il nuovo repertorio (come avviene per la produzione dialettale di Gallina, richiesta da Morolin), assicurando il successo grazie all’interpretazione del « grande attore »; la prima comparsa di critici teatrali « militanti ». Il mito del «grande attore » caratterizza il teatro italiano di fine secolo rispetto al teatro europeo, dove già domina la figura del metteur en scène (il regista, che comparirà da noi dopo la seconda guerra mondiale): da Tommaso Salvini a Adelaide Ristori, a Eleonora Duse, Teresa Mariani, Paolo Grasso, Bella Starace Sainati e poi Irma Gramatica, Ermete Novelli, Emilio Zago, Oreste Calabresi,
Angelo Musco.
Col grande attore, il mito dell’individuo romantico,
geniale e
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Caratteri generali
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spontaneo, totalmente immerso nel culto dell’arte, cui sottopone anche le regole della vita,
sembra
trionfare.
Nel
1838 così scriveva l’attore Gustavo
Modena
da Bruxelles, dov'era in esilio: « [. . .] Supponiamo che mi si accordi di rientrare, cosa faccio in Italia? Recitare? [...] L’ideale dell’arte non si può conseguire in Italia: non autori, non pubblico, non corona di buoni attori [. . .]»; ma alla fine del secolo, Edoardo Boutet così scriveva dell’arte di Ermete Zacconi: « Non
esiste più per Ermete Zacconi la ribalta e la platea: come sotto l’impero di una volontà più forte, l’ascoltatore diventa la persona che nell’attore s’agita, freme,
vive. [. . .] A questo risultato Ermete Zacconi giunge perché la felice disposizione naturale egli ha nell’osservazione fortificata, si può, anzi si deve dire appurata. Come l’autore drammatico,
l’autore che al nobilissimo titolo ha diritto, Ermete
Zacconi nella esistenza quotidiana, che turbinosamente va, sorprende e scruta le anime; e quando una creatura deve impersonare, sorgono dall’intelletto e dal cuore i vivi ricordi da lui già veduti e già vissuti [. . .] » (Ermete Zacconi, in « NA », xxIV [1897], pp. 688-700). Contro questa posizione privilegiata dell’attore e contro le sue deformazioni che lo potevano indurre a cambiare il testo insorgeva Verga; e contro questa invadenza Marco Praga potenziò e diresse la Società degli autori. In particolare contro la dittatura di Zacconi insorgeranno i più accesi giudizi della critica militante di Piero Gobetti che, traducendo in termini culturali i caratteri di quel tipo di recitazione, definirà, nel 1921, l’attore come il rappresentante del « positivismo italiano nato, come intermezzo e stasi, dopo l’anelito
alla liberazione del Risorgimento »; Zacconi « resta attore caratteristico di quella crisi, tormentato in problemi sbagliati. [. . .] Ridottosi a studi di psicologia applicata, sotto l’influenza della scuola lombrosiana [...] è diventato celebre per G& spettri [di Ibsen] in cui egli riduce la tragedia di base a un fatto di clinica ». AI verismo della recitazione zacconiana, Gobetti opponeva l’arte di Eleonora Duse che « rappresenta la liberazione esasperata della vita da tutte le formule e da tutti i limiti in cui il positivismo voleva contenerla » (Scritti di critica teatrale, Torino 1974, pp. 416 e 230). Dal punto di vista degli argomenti critici noteremo solo l’importanza di questa posizione gobettiana che, se si avvicina alle tesi crociane nella polemica contro il positivismo, profondamente se ne distacca nell’importanza artistica assegnata all’attore, « personalità artisticamente autonoma » (Giorgio Guazzotti) dalla struttura del testo letterario. Oltre il mito del grande attore, la personalità della Duse (Vigevano 1859-Pittsburg 1924) va oggi ripensata come un momento della storia della cultura italiana dell’epoca per la tecnica della recitazione, per le scelte del suo repertorio, per la elaborazione personale dei suoi incontri con uomini, idee, atteggiamenti della cultura e del costume. Figlia d’arte, dopo i primi successi a Napoli, nel °78, come Ofelia, Desdemona e Elettra nell’Oreste di Alfieri (la apprezzò Matilde Serao), incontra a Torino nel 1881 Sarah Bernhardt e si appropria di un tipo di recitazione veristico sul registro però della naturalezza (« Recitava come uno che si sentisse completamente inosservato », disse di lei un critico) e così interpreta la parte di Santuzza nella
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Il teatro
Cavalleria verghiana. Il suo successivo repertorio comprende i francesi (La stgnora delle camelie di Dumas figlio), Ibsen; dopo l’incontro con Arrigo Boito (1890) di nuovo Shakespeare, dopo l’incontro con D'Annunzio (1895) le tragedie dannunziane; infine un ritorno a Ibsen (La donna del mare), in cui raggiunge il massimo della sua tensione espressiva che « riempie i vuoti del testo » grazie alla massima semplicità di mezzi, e per il cinema Cenere, dal romanzo di Grazia Deledda. Come si vede, la carriera della Duse non fu solo quella di una grande attrice ma ancor più quella di uno strumento raffinatissimo di scelte culturali, che valsero ad ampliare il campo del repertorio teatrale diffuso in Italia e a rinnovare il gusto del pubblico. Uno schematico quadro del teatro nel secondo Ottocento non può ignorare quell’espressione che continuava a caratterizzare la specificità del genio teatrale italiano, cioè il melodramma. L’epopea popolareggiante di Verdi cede ora il passo a diverse concezioni musicali, grosso modo definibili naturaliste, segnate dalla Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (1890), dalla Bohème di Giacomo Puccini (1896), dai Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892), dall’ Andrea Chénier di Umberto Giordano (1896), dall’ Ar/esiana di Francesco Cilea (1897). Ma il musicista che meglio rappresenta il nuovo gusto teatrale (particolarmente nella versione della piccola borghesia lombarda tra scapigliatura, verismo alla Maupassant e crepuscolarismo in arredamento già art nouveau) è Giacomo Puccini (Lucca 1858-Bruxelles 1924), con la sua Bohème, che introduce nel corpo musicale del melodramma una nuova dimensione comunicativa. « Essa consiste nella scoperta [...] del quotidiano, cioè del tempo discontinuo, relativo, multidirezionale, in cui è immersa la vivente quotidianità [...] Esso risulta da una catena di eventi drammatico-musicali momentanei protesi di continuo fuori della propria attualità, verso il passato e verso il futuro [...] colti da punti di vista ora soggettivi ora oggettivi, secondo angolazioni sempre diverse. Puccini immette questa nuova vitalità nello schema del melodramma tradizionale e ne mina la compattezza narrativa » (Piero Santi, Nei cieli bigi..., in « Nuova rivista musicale italiana ), 1, 2, luglio-agosto 1967, pp. 350-1). Nell’opera pucciniana, al fasto romantico verdiano si sostituisce l’ambiente casalingo o esotico con intrecci in cui domina la prospettiva « femminile » di Mimì, di Butterfly, di Tosca, di Turandot, della Fanciulla del West. Una «musica di zucchero », come voleva
Toscanini, ma sorvegliatissima, lucidamente orchestrata e aperta a Ravel e Debussy, a Richard Strauss e all'opera postwagneriana, di Schoenberg e Berg, per il suo « divisionismo
sonoro »; fonte inesauribile di temi musicali utilizzati nel
‘900 dalla canzonetta, dall’operetta, dal varietà. Puccini occupa nel melodramma italiano una posizione omologa a quella di Guido Gozzano nella poesia. Al polo opposto si colloca il totalitarismo estetico-musicale di Riccardo Wagner, che avrà in Italia i suoi sostenitori e diffusori in Arrigo Boito e in D’Annunzio. Direttore con Emilio Praga del settimanale « Figaro » nel primo semestre del ’64, Arrigo Boito espose su quei fogli (e poi sulla « Perseveranza », il « Giornale della società del quartetto », la « Gazzetta musicale », il « Museo di famiglia »,
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Il teatro della borghesia italiana
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il «Pungolo », il « Politecnico ») la sua estetica, attraverso un’assidua opera di divulgazione e critica di testi musicali e drammatici. Condividendo con gli scapigliati la convinzione che le varie forme d’arte dovessero scambiarsi i linguaggi espressivi specifici e che la letteratura dovesse giovarsi del linguaggio musicale e figurativo, Arrigo Boito volle ricostituire l’unità del melodramma attraverso la «incarnazione » della parola nella musica, cioè con una poesia libera dai « vincoli del metro e della forma », senza schemi precostituiti, che si fondesse con ogni
possibile e nuova combinazione musicale, secondo una evidente suggestione wagneriana. La sua collaborazione con Giuseppe Verdi (per cui scrisse l’Otello e il Falstaff) ebbe esiti diversi, anche perché il senso teatrale del musicista ebbe la meglio sulla retorica del letterato. Il sogno del teatro wagneriano restò in Italia confinato e non realizzato nell’estetismo totalizzante del teatro di D’Annunzio.
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Il teatro della borghesia italiana : Paolo Ferrari, Achille Torelli, Marco Praga, Roberto Bracco, Girolamo Rovetta, Giuseppe Giacosa, Pietro Cossa
Vittorio Bersezio, autore di fortunate commedie in ambiente popolare e piccolo-borghese, constatava, alla della tragedia manzoniana « nella quale la psicologia, per posto, e il dramma invece di eseguirsi in successioni di
dialetto piemontese e di metà del secolo, la fine così dire, pigliava troppo fatti estrinseci e concreti
all'occhio dello spettatore, si effettuava in lente e diffuse modificazioni dell’animo dei personaggi »: perciò questo tipo di tragedia non rispondeva al gusto del pub-
blico italiano « pratico e può dirsi plastico » (I! regno di Vittorio Emanuele II, I, Torino 18783, p. 187). La forma drammatica che meglio rappresenta infatti il gusto dominante della seconda metà del secolo non è quella tragica bensì quella comica; e l’autore che funziona da « modello » di tecnica teatrale — ma anche di un’idea di teatro come metafora della società da formare ed educare — è Goldoni. Quanto poi questa utilizzazione tardottocentesca del commediografo veneziano abbia negativamente inciso sulla sua comprensione critica; quanto cioè il goldonismo ottocentesco abbia ridotto il Goldoni settecentesco prevalentemente ad una funzione pedagogica quindi moralistica mettendo in ombra le sue invenzioni drammaturgiche e le sue novità tematiche, sarebbe interessante analizzare, in altra sede.
Nel 1851 Paolo Ferrari (Modena 1822-Milano 1889) scriveva Goldoni e le sue sedici commedie nuove (rappresentato alla fine del °52 al Ginnasio drammatico di Firenze)!;
qualche anno dopo il marchese Cesare Trevisani, in una relazione
storica sul teatro italiano redatta per incarico ministeriale in occasione dell’espo1 Altri drammi di Ferrari: E! sor Baltromeo, calzolaro (1847), Un’anima forte (48-49), La butèsa del capler e Il Tartufo moderno (*52), Una poltrona storica (*53), La satira e il Parini (54), Marianna (’65), Il duello e Gli uomini seri (*68), Il ridicolo (72), Il suicidio (*75), Due dame (77), Il giovane ufficiale e Alberto Pregalli (*80), Il signor Lorenzo e La separazione (’86), Fulvio Testi (88).
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sizione
Il teatro
internazionale di Parigi (Delle condizioni della letteratura
drammatica
italiana nell’ultimo ventennio, Firenze 1867) affermava che Ferrari era stato mosso,
in questa commedia, dalla convinzione « che la società di tutto il mondo civile si riaccosta nel costume e nel pensiero » e che dal commediografo veneziano aveva preso «il fondo e la ragione » mentre dalla società contemporanea « l’indirizzo » e dai bisogni e difetti di essa «lo scopo ». In questa commedia, Goldoni entra da protagonista come intellettuale saggio ed ironico, produttivo e insieme capace di muoversi nell’ingranaggio commerciale del teatro e dei suoi impresari conservando la sua dignità di uomo e di artista. Se le sue angustie coi rivali e con gli impresari appartengono alla storia goldoniana, del tutto inventata invece è la presenza in primo piano della moglie Nicoletta, che introduce il tema della famiglia e della fedeltà caro al pubblico ottocentesco. Così Goldoni finisce personaggio storico eppure totalmente aggiornato, personaggio goldoniano e insieme portatore dell’ideologia che appartiene al nuovo autore Paolo Ferrari, al suo pubblico, al suo programma di teatro educativo e nazionale. Operazione geniale, destinata a grande successo, se non nella formula specifica certamente nell’affermazione di una comicità ragionevole e temperata, in una lingua convenzionale ma non accademica, per un tipo di conversazione mondana ma non fatua e per situazioni che esaltino in primo luogo il lavoro e la famiglia. Tecnicamente, la commedia punta sulla recitazione dell’attore protagonista (e grande successo riscosse infatti nel ’53 a Venezia, con Achille Majeroni nella parte di Goldoni); ma si avvale di un notevole talento mimetico dello stile goldoniano, evidente specialmente nei cenni storici che la precedono e che sembrano un calco dello stile paratattico e aneddotico dei Mémoires: «La scrissi nel ’51. La lessi a mio padre; egli m’incoraggiò a mandarla a un concorso apertosi in Firenze [. . .]}. La mandai [. . .]. Per caso un mio amico [...] passando di Firenze udì parlare di una commedia recitata al Ginnasio drammatico [. . .] ». La mimesi si trasferisce alla lingua della commedia, alla tecnica dell’intreccio, dei colpi di scena, dei travestimenti, del teatro nel tea-
tro, del temperamento di comico-patetico-drammatico; quindi al suo significato generale perché, come nel Teatro comico di Goldoni, qui si assiste ad una poetica drammatica in azione. Se Ferrari cita Goldoni come modello, altri ripropongono dopo di lui e in altri termini la stessa lezione: goldoniana è La trilogia di Dorina (1889) di Girolamo Rovetta (Brescia 1851-Milano 1910), storia dell’evoluzione sentimentale e sociale, da istitutrice a aspirante virtuosa a diva del canto, della protagonista; quindi da ragazzetta timida a donna sofisticata che sa conservare la sua purezza e sposare finalmente il giovane marchese per il quale era stata, al primo atto, scacciata dalla casa patrizia e gettata nelle angustie del mondo. Ancora in senso goldoniano vengono svolti i numerosi « proverbi » che quasi tutti gli scrittori di successo sceneggiarono per il teatro seguendo l’esempio di de Musset, da Un bacio dato non è mai perduto (1868) di Francesco De Renzis, a Chi sa il gioco non l’insegni (1872) ‘di Ferdinando Martini, ai numerosi «proverbi» di Giuseppe Giacosa: atti unici moraleggianti ma in senso mondano, paragonabili all’aneddoto
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Il teatro della borghesia italiana
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narrativo che frantuma la struttura chiusa del racconto, come il «proverbio » i tre atti dell’azione drammatica tradizionale. Questo goldonismo di ritorno, esplicito o implicito, definisce il carattere e i limiti del teatro postunitario che, se intendeva fondare i valori morali e culturali della borghesia italiana come classe egemone, doveva però ricorrere all’ormai lontana ideologia mercantile-borghese del veneziano Goldoni. Da tale vasta produzione teatrale emerge una singolare monotonia di temi, situazioni, soluzioni; e la commedia Cause ed effetti di Paolo Ferrari li contiene tutti, dall’organizzazione di un matrimonio di convenienza, al I atto, che unisce un anziano viveur-libero pensatore ad un’ingenua giovinetta, agli effetti lagrimosi di tale male assortita unione, cioè all’adulterio del marito, alla morte della figlia, al ritrovamento, in una stamberga, del frutto dell’adulterio, al perdono finale. Accanto a quella di Goldoni è presente in questi drammi l’influenza del teatro francese di Scribe, Dumas figlio, Sardou, Augier, Becque: ma di entrambi i modelli si trascurano le indicazioni di linguaggio specificamente teatrale (varietà e taglio rapido delle scene, coralità, ritmo o sofisticata arte del dialogo) a vantaggio delle suggestioni puramente tematiche: il dramma dell’unità familiare, della passione che ne minaccia la stabilità, dell'avventura contro l'impegno modesto e quotidiano; e il dramma connesso della dissoluzione economica, degli attentati al lavoro onesto e produttivo, delle differenze e conflitti generazionali che minacciano lo sviluppo in ascesa della società. La figura legale del marito e della moglie diventa figura teatrale privilegiata, insieme a quella, derivata, dell'amante e dei figli; dell'amante
che minaccia e dei
figli che salvano l’unità della famiglia. Questo totalitarismo dell’etica familiare funzionerà da centro tematico del teatro borghese, non solo italiano, almeno fino a quando Pirandello non lo ridurrà a puro schema, disarticolando le funzioni di queste figure e mostrando madri, padri, figli e amanti che, per essere tali, devono accettare un « ruolo » e rinunciare ad ogni altra « qualità ». Anche il luogo scenico, quindi la situazione, appare obbligata: il salotto elegantissimo o l’amena villeggiatura e, all’opposto, la squallida stamberga oppure il salottino dello scapolo, o il palco del teatro o il casino di caccia abbandonato rappresentano, ai due poli, la socialità e la pubblicità della famiglia e all’opposto l’isolamento, la disintegrazione, l’attentato. Luoghi e situazioni sceniche dei Mariti del napoletano Achille Torelli (1841-1922), rappresentato il 25 novembre 1867 al Niccolini di Firenze 2, dove le figure muovono un perfetto congegno di coppie mal assortite chiuso, in alto, dalla vecchia aristocratica coppia dei duchi d’Herrera, in basso dalla nascente e borghese unione della frivola Emma e dell’avvocato Regoli, il portavoce dell’autore, che dimostrerà la tesi del dramma: «il buon marito fa la buona moglie ». 2 Altri drammi di Torelli: Dopo morto (1860), Gli onesti (*65), La moglie (*69), Triste realtà e L’uomo I derisi e Il colore del tempo (’75), Scrollina (*81), Lo dialetto napoletano), Madre (o L’israelita; 33), Filia
La missione della donna (’64), La verità e mancato (poi La scuola degli artisti; ’71), buono marito fa la buona mogliera (’82; in suavissima (’96).
Il teatro
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L’usura dello schema induce più tardi Marco Praga (Milano 1862-Varese 1929) all’apparente paradosso della Moglie ideale, rappresentato 1°11 novembre 1890 al Gerbino di Torino con Eleonora Duse nella parte della protagonista Giulia 3. Qui la situazione triangolare moglie-marito-amante è gestita (secondo il modello della Parisienne di Henry Becque, 1883) dalla donna, con un gusto del paradosso psicologico-legalitario che seguiterà in certo Pirandello e nei « grotteschi »; ma Praga usa l’anomalia della situazione per confermare la priorità del rapporto familiare su ogni possibile variante, come dice un personaggio alla protagonista: « [. . .] all'amore per un uomo che non è vostro marito voi sacrificate tutto [. . .] sì, ma fino a quel punto in cui non è compromesso e non corre pericolo l’affetto per la vostra casa ». Giulia infatti, da « donna moderna che ragiona », si divide equamente fra marito e amante, con piglio mascolino; ma non esita a rientrare nei ranghi di moglie ideale e, quando l’amante vorrà lasciarla, pretenderà da lui, con logica pirandelliana, che tutto, nella forma, seguiti come prima affinché il marito non perda « quella cieca fiducia » che ha in lei: «[.. .] voglio poter fare quello che voglio — conclude — [...] senza che io debba fingere più o meglio di quello che ho finto continuamente finora ». Molte sono le varianti dello schema triangolare e invece univoche le soluzioni. Nell’Infedele di Roberto Bracco (Napoli 1861-Sorrento 1943), rappresentato al Sannazaro di Napoli il 22 maggio 1894 4, la protagonista finge, fino alla parodia, un adulterio per affermare la propria autonomia e infine confermare la sua soggezione al marito. Unica eccezione forse allo schema familiare, L’invincibile (1902) di Alfredo Oriani (Faenza 1852-Casola Valsenio, Ravenna, 1909) che propone, in abiti e luoghi moderni, una versione dell’ Am/eto, cioè un'immagine più problematica dei rapporti familiari e un diverso «triangolo » fra genitori e figli 5. L’altra costante tematica di fondazione, in teatro, dell’ideologia borghese tardottocentesca
è quella
del lavoro, della produttività, dell’onestà, spesso in-
trecciata a quella dell’etica familiare. Come nei Disonesti di Girolamo Rovetta (il dramma di un benessere economico ottenuto attraverso un antico peccato della moglie, casualmente scoperto dal marito che, da rigido censore della disonestà altrui, finirà col diventare ladro egli stesso perché la colpa della moglie « non si sappia da tutti ») 5; e come nell’ultima produzione teatrale di Giuseppe Giacosa (Colleretto Parella, Ivrea, 1847Milano 1906), lo scrittore che usò varie formule teatrali e che meglio rappresentò, come Puccini nella musica, sia i miti della borghesia italiana dell’epoca, che la
3 Altri drammi di Praga: Le vergini (1889), Alleluja (92), L’erede (’93), IL bell’ Apollo (*94), La mamma (’95), Il dubbio (°99), L’ondina (1903), Il divorzio (*15); collaborò, con Giacosa e altri, alla stesura di Manon Lescaut, musicata da Puccini. 4 Altri drammi di Bracco: Maschere (1893), La fine dell’amore (*96), Le disilluse (*98), Tragedie dell’anima (*99), Sperduti nel buio (1901), Maternità (1903), Il piccolo santo (ed. 1909, rappr.
1912). 5 Altri drammi di Oriani: Ultimo atto e Gli ultimi barbari (1903), L’abisso (1904). 6 Altri drammi di Rovetta: Romanticismo (1901), Papà Eccellenza (1906), Molière e sua moglie (1909).
$ 69.
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loro rapida usura e il presentimento di un vuoto, di una morte incombente. Così si spiega anche il loro profondo accordo col pubblico, non solo italiano. Di Giacosa, Benedetto Croce rilevava, come caratterizzante, quella versatilità che gli consentiva di passare « dall’idillio sentimentale (La partita a scacchi) al dramma storico (// conte rosso) da questo al dramma realistico (Tristi amori), dal realistico al tragico, anzi sanguinario (La signora di Challant), dal sanguinario al nordico ibseniano (/ diritti dell’anima) [. . .] alla protesta e satira del buon senso borghese contro l’abulia della gente raffinata (Come le foglie) [. . .] alla protesta di un intellettuale e raffinato contro gli ideali borghesi (// più forte) » (La letteratura della nuova Italia, 11, Bari 1948, p. 222); ma considerava poi tale mu-
tevole disposizione come il segno di una scarsa originalità. Giacosa, invece, percepì perfettamente l’evoluzione del gusto del pubblico non solo italiano (la grande Sarah Bernhardt rappresentò nel ’91 a New York La signora di Challant nella versione francese) e pienamente lo padroneggiò, da intellettuale piemontese convinto del proprio ruolo egemonico; accentuando ora il suo estetismo, come nella Partita a scacchi e nella Tardi ravveduta, di grande successo, ora il suo pessimismo e moralismo, come nell’On. Ercole Mallardi, che piacque molto a Verga, o in Come le foglie, che ancora piacque nel secondo dopoguerra per la rappresentazione « cecoviana », fatta di silenzi, allusioni, asciutta tetraggine, della crisi e
decadenza di una grande famiglia borghese. Certo è che, nei drammi di ambiente borghese, Giacosa seppe, meglio di altri, evitare la fatuità della casistica triangolare e, come in Tristi amori, prospettarne tutto lo squallore che la provoca e lo squallore che ne sancisce il rientro nella norma. E meglio di altri, da borghese, seppe rappresentare coi mezzi del teatro, cioè dell’arredamento, dell’uso del luogo scenico, degli oggetti, ecc. quell’aspetto della civiltà borghese che riguarda gli apparati, gli abiti, il valore della presenza fisica degli oggetti e degli uomini. Ben poco resta invece di altri drammaturghi che pure riscossero grande successo ai loro tempi: di Pietro Cossa (Roma 1830-Livorno 1881), ad esempio, che dette il via ad una « maniera », quella dei drammi storici, di ambiente preva-
lentemente romano, ripristinati col nobile intento di trattare con « verismo » personaggi e situazioni assai remoti. Il suo Nerone (1871)? inserisce il protagonista in una Roma canagliesca e popolare e lo giudica come il simbolo della decadenza morale e civile; diversamente, il Nerone di Arrigo Boito (rappresentato postumo nel 1924) è un artista decadente avant-lèttre, in un rapporto estetizzante ed erotico col nascente cristianesimo. Il Nerone di Cossa considera il potere « come mezzo a variare e raffinare la sua vita di animale »; è un artista velleitario e vacuo,
che cerca « gli applausi del circo, le rappresentazioni teatrali, le compagnie degli istrioni », secondo
il giudizio di Francesco
De Sanctis, che tuttavia vi vedeva
un positivo processo di diseroicizzazione dei personaggi storici ed un esempio di ricerca del reale. ? Altri drammi di Cossa: Mario e i cimbri (1864), Puschkin (70), Beethoven (°72), Sordello, Monaldeschi e Cola di Rienzo (74) Messalina e Ludovico Ariosto e gli Estensi (*75), Cleopatra (?77),
Cecilia (*79), I napoletani del 1799 (*81).
Il teatro
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Un esempio contrario, di proiezione al passato di avvenimenti reali e prossimi, può essere offerto dalla Marcia di Leonida di Felice Cavallotti (Milano 1842Roma 1898), scritto nel 1880; in cui Leonida rivisita i luoghi dell’eroismo nella storia fino a Mentana, secondo il modello dei Sepolcri foscoliani; un interessante esempio, oltre l'impianto retorico, di mistione tra monologo e dialogo, tra recitativo e didascalico 8.
$ 70. Alla ricerca di una nuova drammaturgia : Luigi Capuana, Federico De Roberto
Giovanni Verga,
Se una linea di continuità e di accordo unisce esperienze teatrali apparentemente diverse, dalle nostalgie medievaleggianti di Giacosa alle sue rappresentazioni del mondo odierno, dalle proiezioni storiche di Cossa a quelle esistenziali di Boito; se la borghesia italiana fondava la sua ideologia costruendosi anche i termini della rivolta (com'è il caso degli scapigliati, se si escludono le aristocratiche sperimentazioni di Dossi, nella prosa), accadde che le ricerche di una nuova drammaturgia furono condotte da scrittori che marginalmente vi si dedicarono e che ebbero col teatro e col pubblico un rapporto scontroso, di malintesi e temporanei successi e infine di delusione reciproca. Rapporto che permise a questi scrittori, e specialmente a Verga, di non cedere al programma della rappresentatività ideologica e di tentare invece l’invenzione di nuovi tempi e nuovi luoghi scenici per situazioni e personaggi eccentrici. Una stessa geografia e una stessa storia guida il viaggio di Capuana e di Verga dalla Sicilia a Firenze, capitale di una cultura radicata ma tradizionale,
e a Milano, centro delle avanguardie lette-
rarie e teatrali, ma anche metropoli della nascente borghesia industriale italiana, grande città che divide, che isola, che provoca l'emersione di vari sistemi di difesa,
tra cui quello di ingigantire ed isolare la civiltà contadina lasciata nell’originaria Sicilia. A Firenze, dove viveva dal 1864, Capuana (cfr. $ 61) elabora, come abbiamo visto, la sua teoria di un teatro nazionale, non particolaristico, non dialet-
tale, basato sui caratteri permanenti e le passioni che uniscono gli italiani, sulla loro ampia comprensibilità, sulla loro forza di persuasione; di qui l’esaltazione di una commedia come / mariti di Torelli perché permette alla platea di identificarsi coi personaggi del palcoscenico e infine coglierne la lezione morale;di qui la condanna della Dame aux camélias di Dumas figlio perché « per combattere l’eccessiva dominazione dello spirito proclamò la dominazione altrettanto eccessiva della carne » (« La Nazione », 12 novembre 1867). A Firenze Capuana elabora, desanctisianamente, la sua richiesta di un rinnovamento anche formale del nostro
teatro, contro l’invadenza del « concetto » che « non costituisce per sé medesimo il punto più rilevante in un’opera d’arte, perché rientra nel dominio della specu8 Altri drammi di Cavallotti: I pezzenti (1871), Guido e Agnese (’72), Alcibiade e La sposa di Mènecle (*80), Il cantico dei cantici (81), Sic vos non vobis (84), La figlia di Yefte (*86).
$ 70.
Alla ricerca di una nuova
drammaturgia
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lazione politica, filosofica, sociale ecc., mentre invece è la forma, esclusivamente
la forma, quella che ne determina sempre il carattere e n’assicura l’esistenza » (« La Nazione », 26 agosto 1867). Solo più tardi, grazie anche a quella produzione «di transizione » al verismo, di Giacosa ad esempio, nel decennio ’70-’80, e gra-
zie ai suoi Viaggi e permanenze nella capitale lombarda nel ”77, nel ’78 e nel ’79, dove sostenne le sue battaglie sul « Corriere della sera », Capuana passerà interamente al verismo in teatro, anche con opere proprie, alcune in lingua (Giacinta, °88; Serena, ’99; Castigo, 1901), molte in dialetto siciliano, del quale intanto si
sarà fatto convinto assertore: « Io credo che bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano » scriverà nell’Introduzione al suo Teatro dialettale siciliano (Palermo 1911). Dopo una commedia giovanile composta a Catania (I nuovi tartufi, perduta), anche Verga, introdotto da Dall’Ongaro nella società teatrale fiorentina, compie a Firenze la sua prima esperienza drammatica documentata: Rose caduche (con questo titolo fu pubblicata nelle « Maschere » di Catania nel giugno del 1928), composta poco dopo il romanzo Una peccatrice, probabilmente nel 1869 (Perroni: secondo Russo nel 1873-5). Numerosi i contatti tematici fra romanzo e dramma; in entrambi i casi si tratta del fallimento di una passione amorosa, dalla quale il personaggio femminile esce esaltato mentre quello maschile, con una significativa inversione rispetto al romanzo francese, sembra modellato sulla Madame Bovary di Flaubert e cioè sembra vivere tale passione, come poi si dirà, in modo inautentico, da provinciale e da eterno adolescente. Ma il romanzo verghiano introduce al successivo dramma anche perché ci documenta il primo atteggiamento del giovane scrittore verso il teatro; infatti Pietro Brusio, protagonista di Una peccatrice (18 ed., Catania 1865), conoscerà la sua affermazione mondana, e con essa la passione amorosa, solo dopo essersi affermato come drammaturgo di grande successo: « Alla fine del second’atto l’autore, chiamato fragorosamente dal pubblico, venne sulla scena [. . .] in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all’agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all’inebriamento di quell’ovazione quasi delirante » (Una peccatrice, Milano 1965, pp. 69-70). Diverso l’esito del suo dramma Rose caduche, che piacque a Dall’Ongaro ma non fu rappresentato anche perché seguiva da vicino il modello della Dame aux camélias di Dumas figlio (di cui ripeteva la metafora floreale del titolo e la scelta di un personaggio femminile assoluto ed eccentrico). Ma è a Milano, dove Verga arriva nel novembre
del °72, che lo scrittore
trova l’ambiente letterario e sociale adatto alla sua sperimentazione formale; una sperimentazione realizzata soprattutto nella narrativa e solo mediatamente nel teatro, in accordo con le contemporanee
tesi di Emile Zola che «le roman,
gràce à son cadre libre, restera peut-étre l’outil par excellence du siècle, tandis que le théatre ne fera que le suivre et en compléter l’action »; e che la formula naturalista,
ormai
interamente
stabilita nel romanzo,
«est très loin de l’étre
au théatre, et j’en conclus [. ..] qu’elle y prendra tòt ou tard sa rigueur scientifique; si non le théatre s’aplatira, deviendra de plus en plus inférieur » (Le roman
146
Il teatro
expérimental cit., pp. 149 e 141). I due successivi drammi di Verga seguono infatti le prove narrative di Vita dei campi, I Malavoglia, le Novelle rusticane, Per le vie e sono entrambi tratti da precedenti novelle: Cavalleria rusticana (1884) dalla novella dello stesso titolo in Vita dei campi, come poi La lupa, e In portineria (1885) dalla novella Il canarino del n. 15 di Per le vie. Intanto l’idea del teatro si era fatta in Verga più sfumata e contraddittoria, se nel romanzo Eva (1873) aveva scritto delle sue «implicanze simboliche » per cui «sulla scena, lusso e colori: dietro le quinte, polvere, unto, sudicio »; ovvero del conflitto ad
esso connaturato tra illusione e realtà, tra quel « paradiso di tela dipinta e di fiori di carta ) e quel che nasconde, tra lontananza e vicinanza 0, come anche si diceva, « poesia ) e « prosa ». E se contemporaneamente sperò e ottenne dal teatro un grande successo con la Cavalleria, successo che andò poi esaurendosi a causa, come Verga diceva, del « gusto attuale del pubblico » e del divismo degli attori « solisti »; per ripiegare infine ad un’aspettativa puramente commerciale che accomunava teatro e cinema, di cui pure temeva e riprovava « l’ingrossamento fotografico ». Malgrado questo difficile rapporto, lo scrittore dette al teatro del secondo Ottocento le sue uniche invenzioni drammaturgiche, l’invenzione cioè di un nuovo tempo drammatico, di un nuovo luogo scenico e di una diversa funzione del dialogo. Giovò naturalmente alla sua drammaturgia l’esperienza felice della narrativa; tuttavia non sembra lecito ridurre interamente il valore di questo teatro alle qualità delle sue traduzioni dalla lingua e dallo stile del racconto a quelle della sua rappresentazione scenica; perché, consapevole o inconsapevole che fosse in lui l'autonomia della sua esperienza teatrale, questa costituisce l’unico precedente di rilievo del teatro novecentesco anche europeo e del linguaggio cinematografico. In questo senso, l’opera che più radicalmente scardina le regole del dramma borghese è la sua Cavalleria rusticana (dedicata a Giacosa; rappresentata a Torino il 14 gennaio 1884 con la Duse nella parte di Santuzza), accolta favorevolmente dal pubblico per l’esotismo dell'ambiente ma anche per l’abile mescolanza di colore locale e passione, derivata dalla massima lontananza del colore locale e dalla massima vicinanza della passione. Come scriveva Giuseppe Giacosa sulla «Gazzetta piemontese », annunciando la rappresentazione, «la novità del Verga non consiste nel ‘“ fare di più ”’, ma, forse nel fare di meno, certo nel
“ fare diversamente ”’ ). Nella Cavalleria non c’è personaggio protagonista attorno a cui si organizza la coppia o il triangolo; quindi non c’è il tempo lungo, scandito in tre atti, del dramma intimo che deve potersi svolgere, culminare, rientrare ovvero risolversi; c'è invece una comunità contadina del Sud che vive o assiste alle sue «scene popolari », di cui quella rappresentata non è che un esempio e perciò avviene sempre al presente (non a caso sulla scena è giorno di festa, la Pasqua); l’atto unico serve ad ingrandire macroscopicamente la « piazzetta del villaggio » e a bloccare il tempo in un episodio altrettanto macroscopico di amore, gelosia e morte. Senza dinamica e senza soluzione oltre la rappresentazione (come avviene invece
$ 70.
Alla ricerca di una nuova drammaturgia
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nei drammi a lieto fine, che rimandano a un «e vissero felici e contenti...» dopo la rappresentazione), la Cavalleria sostituisce il dialettico triangolo con una catena di rapporti che abolisce la soluzione e riconduce il dramma al suo grado zero: Santuzza, Turiddu, Alfio, Lola si rimandano l’uno all’altro colpe e pene fino a raggiungere ognuno la sua propria e solitaria soluzione di annullamento; i quattro personaggi si rincorrono per amore e reciprocamente si uccidono sino all’azzeramento finale della catena; alla quale dovremmo aggiungere le altre figure del dramma: la madre di Turiddu, Nunzia, che via via prende campo sino a restare sola in palcoscenico « colle mani nei capelli, fuori di sé»; e gli altri, comparse e macchiette, la zia Filomena, Pippuzza, lo zio Brasi e la moglie Camilla che legano il centro del dramma alla sua periferia, il villaggio e la sua vita; i due carabinieri infine, che attraversano correndo la scena a suggellarne la conclusione. La continuità orizzontale dei rapporti a catena è significata anche dall’organizzazione del luogo scenico: la piazza del villaggio contiene tutti gli elementi visivi del dramma, cioè la bettola, la chiesa, la caserma (ovvero i luoghi pubblici nei quali si faranno espliciti alcuni temi che percorrono la trama: il vino del giorno di festa, che rimanda alla festa in chiesa e rimanda anche al motivo
dell’amore
e della morte; la caserma che rappresenta l’intervento della società dopo il dramma), l’inizio dei campi con le siepi di fichidindia e, fuori scena, il resto del paese,
evocato al momento della sfida (« Aspettatemi alle ultime case del paese... e son subito da voi» dice Turiddu) come il luogo del duello e della morte. Se la Cavalleria è il dramma, più che della passione-gelosia-morte, del loro ineluttabile ordine, cioè del loro organizzarsi fisso e immutabile nel codice della cavalleria rusticana, la grande intuizione di Verga sta nell’aver rappresentato appunto l’ineluttabilità di un codice, la sua immunità dalle scansioni del tempo, le interferenze della storia, gli scatti delle psicologie, le decisioni e le scelte. E nell'aver rappresentato tale ineluttabilità mediante un tempo scenico serrato, senza interruzioni, che livella le figure del dramma (se si esclude la funzione «registica» di Santuzza), e mediante un dialogo monocorde, che presuppone l’identità sociale e psicologica dei parlanti. Priva di salti temporali e delle sfumature linguistiche del dramma psicologico, la Cavalleria propone un altro tipo di significanti, che potremmo definire simbolici ed espressionistici: il tempo della festa religiosa, la Pasqua, che si ripete sempre identica e quindi, in certo senso, è fuori del tempo, mentre crea un’analogia con la morte finale, il « sacrificio » di Turiddu; il vino (con le sue varianti « bere insieme », « rifiutare di bere insieme »,
ecc.); gli ori della gnà Lola (che provocano la gelosia di Santuzza, il risentimento di Alfio e significano la diversità sociale delle due coppie); e i gesti (l’abbraccio finale tra i due rivali, il morso dell’orecchio, l'abbraccio fra Turiddu e la madre).
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Il teatro
[CAVALLERIA RUSTICANA] [Scena seconda] Turippu SantTuzza
Intendo che sei una matta con questa gelosia senza motivo. Che colpa ci ho io? Vedete come son ridotta? La gnà Lola è meglio
di me, lo so! Ha il collo e le mani cariche d’oro! Suo marito non le fa mancare
nulla,
e la tiene come la Madonna sull’altare, quella scomunicata! Turipbu SantTuzza
Lasciala stare! Vedete se la difendete?
Turippu Non la difendo. A me non me ne importa se suo marito la tiene come la Madonna sopra l’altare. Quello che m'importa è di non passare per uno che non sia padrone di fare quello che gli pare e piace. Questo no!
Scena
terza
La GnÀ Lota dalla prima viottola a destra. 'TURIDDU e SANTUZZA. GnÀà Lora Oh, compare Turiddu! Che l’avete visto andare in chiesa mio marito? Turipbu Non so, comare Lola, arrivo in questo momento. Mi disse: vado dal maniscalco pel baio che gli manca un ferro, e GNÀ LoLa subito ti raggiungo in chiesa. Voi, che state a sentirle di qua fuori le funzioni di Pasqua, facendo conversazione ?
TurIppu Comare Santa qui, che stava dicendomi... x Gli dicevo che oggi è gi ornata grande; e il Signore, di lassù, vede SANTUZZA ogni cosa! GNÀ Lora E voi che non ci andate in chiesa? SanTUZzza In chiesa ci ha da andare chi ha la coscienza netta, gnà Lola. GNÀ Lora Io ringrazio Iddio, e bacio in terra. [si china a toccare il suolo colla punta delle dita che poscia si reca alle labbra] SANTUZZA Ringraziatela, gnà Lola, quand’è così. Ché alle volte si dice: « Quello, nella terra su cui posa i piedi, non è degno di metterci il viso ». TurIpbU Andiamo via, gnà Lola, che qui non abbiamo nulla da fare.
I. GrovannI VERGA, 22-58 e 78-98, da
Cavalleria rusticana, sc. Teatro, Milano 19664,
pp. 18-21 e 23-6.
di palcoscenico, laconica
e rapida, conferma
interno alla struttura teatrale del dramma,
È stato notato che con la sua presenza in scena (fino alla sc. 5%) Santuzza « guida l’attenzione della platea nella ricerca dei protagonisti, regola il montaggio del dialogo, interrompendolo o prolungandolo, impone. il timbro della recitazione [...] la stessa uscita
il
rilievo del personaggio » (S. Ferrone, I/ teatro di Verga, Roma 1972, p. 139 n.); un rilievo non
di tipo psicologico bensì drammaturgico. Nello stesso senso funziona l’alternanza di scene a due,
a tre
e corali,
che
consente
un
ampio
margine di organizzazione scenica — comparse, gesti, movimenti, ecc. — al regista.
$ 70.
Alla ricerca di una nuova drammaturgia
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GNÀ LoLa Non v’incomodate per me, compare Turiddu, che la strada la so coi miei piedi, e non voglio guastare i fatti vostri. Turippu Se vi dico che non abbiamo nulla da fare! SANTUZZA [trattenendolo per la giacchetta] No, abbiamo da parlare ancora. GNÀ Lora Buon pro vi faccia, compare Turiddu! E voi restate qui pei fatti vostri, ché io me ne vo pei fatti miei. [Via per andare in chiesa] Scena quarta TURIDDU
Turippu SANTUZZA
e SANTUZZA.
[furibondo] Ah! vedi cosa hai fatto? Sì, lo vedo!
TurIppu SANTUZZA TurIDDU
L'hai fatto apposta dunque? Sì, l'ho fatto apposta! Ah! sangue di Giuda!
SANTUZZA TurIbpDU
Ammazzami. L'hai fatto apposta! l’hai fatto apposta!
SANTUZZA
Ammazzami,
non me ne importa, via!
TurIDDU No, non voglio manco [Per andare]
ammazzarti!
SANTUZZA Mi lasci? TurIDDU Sì, questo ti meriti. [Suona la campana dell’elevazione] Santuzza Non mi lasciare, Turiddu! Senti questa campana che suona? TurIppu Non voglio essere menato pel naso, intendi? SANTUZZA Tu puoi camminarmi coi piedi sulla faccia. Ma essa, no! TurIippu Finiamola! Me ne vado per troncare queste scenate! SANTUZZA Dove corri? TurIDDU Dove mi pare... Vado a messa. SANTUZZA No, tu vai a far vedere alla gnà Lola che m'hai piantata qui per lei; che di me non t’importa! TurIDDU Sei pazza! SanTUzza Non ci andare, Turiddu! Non andare in chiesa a far peccato oggi! Non mi fare quest'altro affronto di faccia a quella donna. Turippu Tu piuttosto! Vuoi farmi l’affronto di mostrare a tutto il mondo che non son padrone di muovere un passo; che mi tieni sotto la tua scarpa come un SanTUZzA Che te ne importa di quel che dice lei, se non mi vuoi far morire disperata ?... TurIDDU Sei pazza! SANTUZZA Sì, è vero, son pazza! Non mi lasciare con questa pazzia in testa! TuripDu [strappandosi da lei] Finiamola ti dico! mannaggia! SanTuzza Turiddu! per questo Dio che scende nell’ostia consacrata adesso, non mi lasciare per la gnà Lola! [Turiddu via) Ah! mala Pasqua a tel
Il teatro
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Scena quinta Compar ALFIO în fretta, dalla viottola in fondo a destra, e SANTUZZA a metà della
scena. SANTUZZA Oh, il Signore che vi manda, compar Alfio! Compar ALFIo A che punto è la messa, comare Santa? SanTUZzzA Tardi arrivate. Ma vostra moglie c'è andata per voi con Turiddu Macca.
Compar ALFio Cosa volete dire? SANTUZZA Dico che vostra moglie va attorno carica d’oro come la Madonna dell’altare, e vi fa onore, compare Alfio! Compar ALFIo Oh, a voi che ve ne importa? SANTUZZA Me ne importa per voi che, mentre girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar dei regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa in altro modo! CompPar
SANTUZZA
ALFIO
Cosa avete detto, comare
Santa?
Dico che mentre voi siete fuorivia, all’acqua e al vento, per amor del
guadagno, comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in malo modo! Compar ALFIO Pel nome di Dio, gnà Santa, che se siete ubbriaca di buon’ora,
la mattina di Pasqua, vi faccio escire il vino dal naso! Santuzza Non sono ubbriaca, compar Alfio, e parlo da senno. CompPar ALFio Sentite! S'è la verità che m’avete detto, allora vi ringrazio, e vi bacio le mani, come se fosse tornata mia madre istessa dal camposanto, comare Santuzza! Ma se mentite, per l’anima dei miei morti! vi giuro che non vi lascerò gli occhi per piangere, a voi e a tutto il vostro infame parentado! SANTUZZA Piangere non posso, compar Alfio; e questi occhi non hanno pianto neppure quando hanno visto Turiddu Macca che m'ha tolto l’onore, andare dalla gnà Lola vostra moglie! Compar
ALFIO
[tornando calmo tutto ad un tratto] Quand'è
così, va bene, e vi
ringrazio, comare. SanTUZzA Non ComPar ALFIO
mi ringraziate, no, ché sono una scellerata! Scellerata non siete voi, comare Santa. Scellerati son coloro che
ci mettono questo coltello nel cuore, a voi e a me. Che se gli si spaccasse il cuore davvero a tutti e due con un coltello avvelenato d’aglio, ancora non sarebbe niente! Ora, se vedete mia moglie che mi cerca, ditele che vado a casa a pigliare il regalo pel suo compare Turiddu. [Via dalla prima viottola a destra] La gente comincia a tornare dalla chiesa e si disperde a destra e a sinistra. 'TURIDDU Macca,
la GNÀ LOLA,
COMARE
CAMILLA,
la GNÀ
NUNZIA,
la ZIA FILOMENA
vengono
avanti senza badare a SANTUZZA che resta verso la viottola in fondo a destra, imbacuccata nella mantellina. Solo lo zio BRASI, che viene l’ultimo, accorgendosi di lei:
Zio Brasi O comare Santa, che va in chiesa quando non c’è più nessuno! SANTUZZA Sono in peccato mortale, zio Brasi! [Via verso la chiesa]
en
$ 70.
Alla ricerca di una nuova
drammaturgia
151
Scena settima
Compar ALrIo, dalla destra, CAMILLA e la Zia FILOMENA.
Compar TuripDu
ALFio
TurIiDDU,
lo Zio
Brasi,
la GNÀ
LoLa,
COMARE
Salute alla compagnia.
Venite qua, compar
Alfio, che avete a bere un dito di vino con noi,
alla nostra salute l’uno dell’altro. [colmandogli il bicchiere] Compar ALFIO [respingendo il bicchiere col rovescio della mano) Grazie tante, compare Turiddu. Del vostro vino non ne voglio, che mi fa male. TuRIDDU A piacer vostro. [butta il vino per terra e posa il bicchiere sul deschetto. Rimangono a guardarsi un istante negli occhi] Zio Brasi [fingendo che qualcuno lo chiami dalla stalla] Vengo, vengo. Turippu Che avete da comandarmi qualche cosa, compar Alfio? Compar ALFIO Niente, compare. Quello che volevo dirvi lo sapete. TurIbbu Allora sono qui ai vostri comandi. [Lo Zio BRASI di sotto la tettoia fa segno a sua moglie di andarsene a casa. COMARE CAMILLA via]
GnÀ Lora Ma che volete dire? Compar ALFIO [senza dar retta alla moglie e scostandola col braccio] Se volete venire un momento qui fuori, potremmo discorrere di quell’affare in libertà. TuRIDDU Aspettatemi alle ultime case del paese, che entro in casa un momento a pigliare quel che fa bisogno, e son subito da voi. [Si abbracciano e si baciano. Turiddu gli morde lievemente l’orecchio] Compar ALFIO Forte avete fatto, compare Turiddu! e vuol dire che avete buona intenzione. Questa si chiama parola di giovane d’onore. GnÀ Lora O Vergine Maria! Dove andate, compar Alfio? Compar ALFIO Vado qui vicino. Che te ne importa ?Meglio sarebbe per te che non tornassi più. Zia Filomena [s'allontana balbettando] O Gesummaria! TurIpDU [chiamando in disparte compar Alfio] Sentite, compar Alfio, come è vero Dio so che ho torto, e mi lascierei scannare da voi senza dir nulla. Ma ci ho un debito
di coscienza con comare Santa, ché son io che l’ho fatta cadere nel precipizio; e quant'è vero Dio, vi ammazzerò come un cane, per non lasciare quella poveretta in mezzo alla strada. Compar ALFIO Va bene. Voi fate l’interesse vostro. [Via dalla viottola in fondo a destra]
Scena ottava Turippu
e la GNÀ
LoLa.
GNÀ Lora O compare Turiddu! In questo stato mi lasciate anche voi? Turippu Non ci ho più nulla a fare con voi. Adesso è finita fra noi due. Non avete visto che ci siamo abbracciati e baciati per la vita e per la morte con vostro marito? O madre.
152
Il teatro
GNA Nunzia [affacciandosi] Che c’è ancora? TurIppU Vado per un servizio, madre. Non ne posso fare a meno. Datemi la chiave del cancello, che esco dall’orto per far più presto. E voi, madre, abbracciatemi come quando sono andato soldato, e credevate che non avessi a tornar più, ché oggi è il giorno di Pasqua. GNÀ Nunzia © che vai dicendo? TurIpDu
Dico così, come parla il vino, che ne ho bevuto un dito di soverchio,
e vado a far quattro passi per dar aria al cervello. E se mai... alla Santa, che non ha nessuno al mondo, pensateci voi, madre. [entra in casa]
Scena nona
La GNÀ
NunzIA
attonita ; la GNÀ
LOLA în gran iurbamento ; COMARE
CAMILLA
che fa capolino dalla cantonata ; la Zia FILOMENA sull’uscio di casa ; lo Zio BRASI presso la tettoia.
GNÀ Nunzia
© cosa vuol dire?
Zio BrasI [accostandosi premuroso] Gnà Lola, tornate a casa, tornate! GnÀ Lora [turbatissima] Perché devo tornare a casa? Zio Brasi Non sta bene in questo momento che vi troviate qui, in piazza! Se volete essere accompagnata ... Tu, Camilla, resta qui con comare Nunzia, se mai. Zia FILOMENA [avvicinandosi] O Gesummaria! Gesummaria! GNÀ Nunzia Ma dov’è andato mio figlio? ComarE CAMILLA [accostandosi all’orecchio di suo marito] O ch'è stato? Zio BrasI [piano] Non hai visto, sciocca, quando gli ha morsicato l’orecchio? Vuol dire, o io ammazzo
voi, o voi ammazzate
me.
Comare CaMILLA O Maria Santissima del pericolo! GNÀ NuNnZIA [sempre di più in più smarrita] Ma dov'è andato mio figlio Turiddu ? Ma che vuol dire tutto questo? GnÀ Lora Vuol dire che facciamo la mala Pasqua, gnà Nunzia! E il vino che abbiamo bevuto insieme ci andrà tutto in veleno! Pippuzza [accorre dal fondo gridando] Hanno ammazzato compare ‘Turiddu! Hanno ammazzato compare Turiddu! Tutti corrono verso il fondo vociando ; la GNÀ NuUNZIA colle mani nei capelli, fuori di sé. Due carabinieri attraversano correndo la scena. Tela
La stilizzazione di Cavalleria rusticana, nella quale la maggior parte dei critici ha voluto vedere il segno di quella frigidità, intellettualismo, scarsa partecipazione che guida tutta l’esperienza teatrale di Verga, deriva a nostro avviso dall’esigenza di presentare come una totalità organica, intangibile, autonoma un mondo altro rispetto a quello della grande città lombarda nel quale viveva lo scrittore e il suo pubblico. Da questo, la sua sfiducia di essere capito: «la mia
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Alla ricerca di una nuova drammaturgia
153
commedia (tentativo di commedia, chiamiamola meglio, in un genere arrischiatissimo e che fa a pugni col gusto attuale del pubblico) passerà inosservata anche in Italia, e i più alzeranno le spalle come a un’idea sbagliata »; questa apprensione aveva accompagnato anche la pubblicazione di Vita dei campi « ma allora ero io nel mio libro faccia a faccia col lettore [. ..] mentre adesso le mie idee devono passare per degli interpreti né convinti né audaci forse come me [.. .] sarà una caduta di certo; a me preme soltanto affermare il genere » (Lettere al suo traduttore, Firenze 1954, pp. 80-1). Il dramma successivo, In portineria (rappresentato a Milano il 16 maggio 1885), ha carattere più stratificato e composito, come sempre quando Verga tenta la rappresentazione della grande città e delle sue vittime. La qualità specifica del dramma sta infatti nell’essere la rappresentazione di una prigionia, di un’impossibilità a uscire dalla gabbia del palazzo cittadino; da questo la metafora del «canarino ) che compariva nella novella — poi tradotta nel veristico «in portineria» — e le analogie con il giovanile romanzo Storia di una capinera (la frustrazione erotica delle protagoniste, il taglio dei capelli per la monacazione nell’una e per la malattia nell’altra, il trasferimento del loro desiderio dall’amore alla morte, ecc.). Da questo la polarità fra la protagonista — malata, quindi immobile — e la sorella Gilda che scappa via. Ma il dramma si risolve sostanzialmente in un compromesso tra la « crudeltà » della situazione e il suo contrario, il patetismo e i toni melodrammatici; e
ugualmente di compromesso è la sua struttura teatrale: il tempo si stempera di nuovo nei due atti e viene scandito da due finali di grande effetto (il grido di Màlia al primo, la sua morte al secondo) che tuttavia riconducono all’isolamento privilegiato della protagonista. L’intento di rappresentare un ambiente cittadino, la portineria, e le sue «scene popolari» rimane dunque puramente intenzionale; e il centro del dramma è ancora nel personaggio e nel gruppo famigliare. Che poi Verga riesca a «rovesciare » i connotati borghesi sia del personaggio che della famiglia sarà da ascrivere alla sostanziale estraneità dello scrittore verso questi temi nell’accezione borghese e cittadina; nonché al « rovesciamento » implicito nell’essere il dramma non la rappresentazione di un « agire » bensì di un « patire ). Così la protagonista possiede connotati opposti a quelli della donna fatale, il triangolo Màlia-Carlini-Gilda entrerà nel cuore stesso della famiglia e vedrà rivali le due sorelle, ogni gesto di amore della famiglia si risolverà in una spinta alla morte della vittima. Si veda la scena finale: Gilda, amata da Carlini, e scacciata per la sua vita dissoluta, torna a casa per vedere la sorella moribonda; questa assiste al perdurante amore di Carlini per la sorella e silenziosamente muore. L’orchestrazione di questo «triangolo » rovesciato e sconnesso (Màlia ama Carlini, che ama Gilda, che è riuscita a scappare dalla portineria-prigione) si svolge in chiave melodrammatica (« Come sei pallida!... Che viso hai!...») e mediante battute a mezza bocca e sospese, secondo il cliché del « dramma intimo » che qui Verga ha voluto seguire: « Ho voluto che il dramma fosse intimo rigorosamente, tutto a sfumature d’interpretazione ...» (lettera a Capuana del
154
Il teatro
5 giugno 1885, in Verga, De Roberto, Capuana.
Catalogo della mostra, Catania
1955; pe154). Il pubblico accolse molto freddamente In portineria, ma già prima della sua rappresentazione, Verga aveva progettato la riduzione teatrale di un racconto, I drammi ignoti dell’83, poi ristampato col titolo di Dramma intimo; riduzione teatrale che, per la sua ambientazione
aristocratica, avrebbe dovuto concludere
una sorta di trilogia, iniziata con la Cavalleria. Ne conosciamo la trama da una lettera a Salvatore Paola del 17 gennaio 1885: madre e figlia sono rivali in amore ma la madre si sacrifica e abbandona l’amante per consentire alla figlia, che si consuma in lenta malattia, di sposarlo; la figlia nutre tuttavia sospetti sui passati rapporti tra suo marito e sua madre; e quando, per la sua malferma salute, sta per morire, la tensione fra i tre raggiunge il culmine, e tocca anche il marito tradito ovvero padre della moribonda che impedisce alla madre di visitarla con un « No, non entrate! » rivelatore della sua consapevolezza e della sua condanna. Come In portineria, Verga intendeva portare la mortale rivalità nel cuore stesso della famiglia e, con maggiore tensione drammatica, tra madre e figlia (come poi tra padre e figlio D'Annunzio, nella Figlia di Forio); che è quanto farà nel dramma successivo La lupa, di nuovo ambientato però nel microcosmo autonomo e diverso del « contado di Mòdica » e che perciò sembra proseguire la drammaturgia rusticana della Cavalleria anziché quella intimistica di /n portineria. La lupa fu rappresentata il 26 gennaio ’96 al teatro Gerbino di Torino, con grande successo al I atto e qualche freddezza al 11; poi replicata a Milano e a Roma con successo decrescente. Ma di un certo interesse è la sua preistoria: dalla novella di Vita dei campi Verga trasse un dramma in prosa e la prima stesura di un libretto, che doveva essere posto in versi da De Roberto e musicato da Puccini (fu invece musicato da Pier Antonio Tasca, ed eseguito nel 1933 a Noto); indi la stesura del dramma in prosa per la rappresentazione del ’96, con qualche correzione per la seconda rappresentazione; infine la pubblicazione nella 12 ed. del suo Teatro (Milano 1896), che comprendeva anche Cavalleria e In portineria. Intanto il rapporto di Verga col teatro si faceva sempre più difficile; pur giudicando La lupa come «la più accentuata » delle novelle di Vita dei campi, non è improbabile che la sua versione teatrale sia nata dall’ipotesi primaria di un melodramma
musicato da Puccini che, come la Cavalleria musicata da Ma-
scagni, avrebbe assicurato un grande successo. È certo comunque che La lupa accentuò il suo distacco dal teatro, specialmente a causa degli scempi operati dagli attori; e che manca al dramma quella forza inventiva che aveva caratterizzato la Cavalleria. Qui Verga tenta un equilibrio — o un compromesso — tra clima stregonico dell’ambiente, magia della festa e delle sue ore incantate, e carattere
stregonesco della protagonista (una femme fatale dei campi: quindi la metafora zoomorfa, che caratterizza le sue donne, è di tipo aggressivo ma magico-campestre, diversamente
dalla tigre, mondana
e di lusso, di un suo romanzo
gio-
vanile, e dalle capinere e canarini, cioè le vittime ingabbiate). In senso drammaturgico, il compromesso si rivela nell'uso incerto del tempo, tra il « presente
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Alla ricerca di una nuova
drammaturgia
155
assoluto » della scena di apertura che rimanda alla fiaba, alla magia, alla festa, e i «cicli d’intensità » (Chiappelli) che la passione provoca, coi suoi sbalzi temporali e brusche transizioni da una situazione ad un’altra che il dramma eredita dalla novella. Come In portineria, tra il 1 e il Il atto è trascorso il tempo della crisi; in entrambi i casi, l’atto si chiude con un effetto drammatico (il grido di Màlia — l’amore tra la Lupa e Nanni Lasca, al 1 atto; la morte delle protagoniste al 1); in realtà, il 11 atto è pleonastico ed iterativo, prolungando nel tempo il significato del gesto che aveva concluso l’atto precedente; il grido paralizzante di Màlia, il compimento dell’amore della Lupa. Diversamente dall’aristocratica madre del progettato dramma intimo, questa farà sposare Nanni Lasca alla figlia Mara non per tirarsi indietro ma, al contrario, per possedere l’uomo, e per esserne posseduta sino a pretendere da lui l’omicidio. Della necessità di comprimere nel dramma i tempi della narrazione si rese conto anche Verga: infatti nel racconto si succedono rapidamente vari tempi: l’innamoramento della Lupa, la confessione della passione, la profferta della figlia, il matrimonio dei due giovani, la nascita dei figli e, infine, l’incesto; mentre nel dramma tutta questa fase si concentra al I atto, in una lunga serata che termina con l’appagamento
dell’amore della Lupa: «il tempo narrativo tende a coincidere col tempo reale di recitazione » (F. Chiappelli, Una lettura verghiana : « La lupa », in « GSLI »,
Cxxx[1962]427,
p. 373).
II. [LA MAGICA
NOTTE
DELLA
FASCINAZIONE
AMOROSA]
Atto primo Nell’aia, sull’imbrunire. A destra la capanna dei mietitori, a sinistra una gran bica ; mucchi di covoni e di attrezzi rurali sparsi qua e là. In fondo l’ampia distesa della pianura,
II. GIOVANNI
48-72-82-92,
VERGA,
La lupa, a. 1, sc. 12-32-
dall’ed. cit., pp. 69-76, 81-9.
La sc. 12, con la fiaba e la battuta iniziale La Maga dunque [...] costituisce il prologo tematico; le successive alternano con molta perizia coralità e spicco del triangolo, nel quale la parte maggiore tocca alla Lupa e alla sua divorante passione, aggressiva e passiva, sfrontata e remissiva. Ma anche gli altri due personaggi hanno rilievo; diversamente dalla Cavalleria in cui l’essenza delle figure coincideva con la loro presenza in scena e si esprimeva nel « gesto », qui il disegno contiene connotati psicologici, del resto indicati da Verga nelle didascalie iniziali che presentano i personaggi: Mara [...] quasi la colpa non sua
le pesasse sul capo biondo [...] Nanni Lasca [...] tenero con le donne, ma più tenero ancora del suo interesse ; sobrio e duro al lavoro, come chi
mira
ad
assicurarsi
uno
stato,
che
offre
una chiave di comprensione naturalistica del dramma: Nanni Lasca subisce il triangolo per amore della roba. Totalmente privo di connotati psicologici è invece il ritratto della Lupa ancora bella e provocante [...] col seno fermo da vergine [. . .] e il bel fiore carnoso della bocca, nel pallore caldo del viso: un primissimo piano del suo ritratto fisico, che serve ad allontanare la donna, a renderla puramente emblematica e priva di sfumature che non siano quelle della passione. La didascalia finale (21 mormorio del fiume, il fruscio delle spighe, il trillare dei grilli [...] l’uggiolare dei cani, lugubre, nel-
156
Il teatro
carica di messe, già velata dalla sera, e il corso del fiume, tra i giunchi e le canne palustri. Si odono passare in lontananza delle voci, delle canzoni stracche, il tintinnio dei campanacci delle mandre che scendono ad abbeverare, e di tanto în tanto l’uggiolare dei cani, sparsi per la campagna, sulla quale scorrono delle folate di scirocco, con un fruscio largo di biade mature. Negli intervalli di silenzio sembra sorgere e diffondersi il mormorio delle acque e il trillare dei grilli, incessante. La luna incomincia a levarsi, accesa — sbiancandosi man
mano, în un alone afoso.
Scena prima Bruno,
MALERBA,
NELI, CARDILLO,
GRAZIA e LIA stanno seduti in crocchio, dopo
cena, ascoltando una fiaba che narra la Zia FiLoMENA. — Compare JANU sull’uscio della capanna, fumando. - Nunzio sbocconcella pian piano un tozzo di pan bigio, accoccolato sulle stanghe della treggia, in fondo all’aia. FiLomeNA [narrando] La Maga dunque... CarpILLO [levando il capo a ogni soffiar di vento] Sentite che scirocco ? Domani si vuol sudare il pane! FiLoMmeNA [seccata] Mi lasciate narrare la fiaba? CARDILLO [con una spallucciata] A voi. Filomena La Maga dunque se ne stava nel palazzo incantato, tutto d’oro e di pietre preziose, e come passava un viandante, s’affacciava alla finestra per tirarlo in peccato mortale. Giovani e vecchi, vi cascavano tutti! . . . religiosi anche, e servi di Dio!... Bruno [ridendo] Bene, bene! FiLomeNA Voi che cosa avreste fatto? Se vi ho detto che era una Maga!... e di vecchia si faceva giovane!... bianca e rossa come una ragazza di quindici anni! ... con due occhi in fronte che erano due stelle! . .. MAaLERBA [ghignando] Bene, bene, ditemi dove sta di casa! FiLomeNA Dove sta? All’inferno! E volete sapere che ne faceva di quei poveri disgraziati, poi? Con un colpo di bacchetta, paff! li mutava in asini o in maiali, con rispetto parlando. Finché un santo eremita, che venne che vada io, se no finisce il mondo ...
a saperlo, disse: Qui bisogna
CarpiLto [colla sua aria bonacciona] Uno che si pigliava le corna altrui, quel santo eremita, e se le metteva in testa!
MaLERBA [sghignazzando] Eh! eh! avrà voluto provare anche lui! ... FiLoMmeNA [scandalizzata] Così parlate dei santi? Allora non dico più nulla. MacrerBA Infine non me ne importa. Son storie che si raccontano. FiLomeNA Storie? Saranno storie! Però accadevano allora, quando c’era il timor di Dio! Bruno [in tono di scherzo] No, no, ci credo! Quando vi guardo negli occhi, comare Grazia, ci credo alla Maga! [le scocca un bacio da lontano, colle dita]
l’ora tragica) chiude con la stessa atmosfera stregonica iniziale. E ricorda l’atmosfera magica di un altro dramma «naturalista », che
certo Verga non conosceva, di Strindberg (1888).
cioè
Miss ulîe
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JANU [gravemente, togliendosi la pipa di bocca] Maga o non Maga, sapete come dice il proverbio ?« L’uomo è il fuoco, la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia! ». Bruno [alle ragazze, facendo per abbracciarle] Soffia tu, che soffio io! Ora son’io la stoppa, com'è vero Dio! GRAZIA [lo respinge ridendo] 'Tenetevi le vostre mani, però! CarpILLO [col fare di un puledro messo a un tratto in allegria) È la favola della Maga che ci ha messo il pizzicore addosso! Facciamo quattro salti! Bruno [al ragazzo] Su, su, Nunzio! Mano alla zampognetta! NeLI [brontolando] Quattro salti? Vi ringrazio tanto! ... Come se fossi stato a spasso, tutta la giornata! ... JANU Come se fossi stato a spasso! Te la pago la giornata, sì o no? NELI Me la pagate... me la pagate... Ora ho le ossa rotte. Vi ringrazio tanto. CarpILLO Non gli badate a quel poltronaccio. Su, Nunzio, suonaci il ballo tondo. Qui non
si spende nulla.
Bruno [allegro] Comare Grazia, su! ... Gnà Lia! Ora comincia il festino! Nunzio si alza, cava fuori la zampognetta dalla bisaccia appesa alle stanghe della treggia, e comincia a suonare, dondolandosi goffamente ora su di un piede e ora sull’altro. MALERBA [a Grazia e Lia] Ehi, ragazze! ... Si fanno pregare anche loro! Benedetta la gnà Pina che porta l’allegria dove va lei! [sghignazzando] Quella sì che non si fa pregare! Bruno [chiamando ad alta voce verso il fondo della scena] O gnà Pina!... Che diavolo fa sino a quest'ora? Ci voleva tanto a raccogliere quelle quattro spighe? [torna a chiamare c. s. în tono di scherzo] O venite qua, gnà Pina bella!
DEI
Scena terza
La GNÀ PINA dal fondo a destra, con un fascio di manipoli sul capo, e i precedenti. MALERBA [correndo colle braccia aperte verso la gnà Pina che ha buttato il fascio di spighe in un canto, e s'avanza sorridente, rassettandosi il fazzoletto in capo] O gnà Pina!... benedetta! gioia mia! ... cuore mio!... Venite qua che vogliamo fare un terremoto! Pina [ridendo] No... Voglio ballare con compare Nanni... [con civetteria facendo una bella riverenza a Nanni Lasca] se son degna di questo onore... MALERBA [ironico] Ah, dev'essere proprio lui? Lo sappiamo che vi piace! Un pezzo che lo sappiamo! Buon pro vi faccia! PinA [sdegnosa] E a voi chi vi parla adesso? MacrerBA [canzonatorio] Parla a te, Nanni! Non vuoi sentirci di quell’orecchio? Bruno [ridendo] Nanni Lasca non vede e non sente. Pina [a Nanni, tra scherzosa e ironica, canticchiando nel passargli accosto] O voi che avete occhi e non vedete,
allora di quegli occhi che ne fate?
Il teatro
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CarpiLLo Su, su, Nanni!... poltronaccio! Nanni [brontolando] Avete voglia, voialtri! Prima una giornata colla falce in pugno! ... E poi pigliarsi le budella anche! Come se v’invitassero a maccheroni e stufato, adesso!
JANUu [ridendo] Nanni Lasca non fa niente per niente, gnà Pina. PinA [a Nanni con civetteria] E voi sapete che vi dico ? « Chi non mi vuole non mi merita ». [va ad invitare Cardillo e balla con grazia dinanzi a lui, tenendo distese le due cocche del grembiule colla punta delle dita, e piegando il capo sull’omero] CarpILLO [eccitandosi] Tanto peggio per Nanni Lasca!... Mi sento diventare un leone con voi!... Fossi anche morto nel cataletto, guardate! MacerBA [accendendosi anche lui al veder ballare la Pina) Un po’ anche a me, gnà Pina! ... Non mi tengono le catene! ... Chi non vi vuole non vi merita! . .. Perdete il ranno ed il sapone con quella bestia di Nanni Lasca!... Grazia [ridendo] Vile chi si pente, compare Nanni! NannI [pigliando fuoco infine lui pure, e risolvendosi ad alzarsi, con un risolino goffo] Sangue di...! Corpo di...! Se mi pigliate per quel verso! Via, eccomi qua. Pina «Chi tardi arriva male alloggia », compare Nanni! [gli volta le spalle con una risata, e se ne va a destra colle altre donne] NANNI [piccato] Ora che mi avete scaldato le orecchie? Ora non mi tengo più! Mi sento un Mongibello! Scena quarta MAra dal fondo a destra, con un covone di spighe sul capo, e detti. NANNI [andando incontro a Mara, che va a deporre il covone accanto a quello di sua madre] Vostra madre mi ha lasciato nel meglio, gnà Mara! Almeno venite qua voi. Voglio fare il ballo tondo! Voglio sudare una camicia! MARA [ravviandosi, in aria timida] Vi ringrazio, compare Nanni... NANNI Non volete neanche voi? .. perché ve lo dico io ? MARA [sempre più imbarazzata] No, scusatemi ... non ballo. NANNI Che avete? le gambe molli? O avete il cuore duro? Mara [a capo chino, rossa fino ai capelli] No .... Vi ringrazio anzi... Scusatemi, compare Nanni. NANNI [tra piccato e scherzoso] Cuore
duro, cuore
di sasso!
La voglia in corpo mi lasciate adesso?.. MALERBA [canzonatorio a Nanni] Ma no! ma no! Vuoi che si piglino pei capelli con sua madre? Pina [a Malerba, bruscamente] Finiamola! Lasciate in pace mia figlia! MacerBA Chi ve la tocca? [a Nanni dandogli uno spintone per ischerzo] Lasciala inpacellco. NANNI [ridendo] Ah! Si fa questo giuoco, adesso? [ricambia la spinta a Neli] A te! NELI [che sta per cadere, si rivolta irato] Eh... Io che c'entro! [poi si sfoga con Bruno, dandogli un urtone] Divertitevi tra voi!
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drammaturgia
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Bruno Ah sì? Ah sì? [tenta di abbracciare Grazia] Ora tocca a voi, bellezza! GRAZIA [lo schiva ridendo, e respinge Malerba dall’altra parte] Non mi piace questo giuoco. [Lia scappa essa pure] MaLerBA [finge di barcollare, avanzandosi verso la gnà Pina colle braccia aperte] Allora la gnà Pina, che le piace... PINA [respingendolo sdegnosa] Tenete le mani a casa, voi! MaLERBA [ironico] Perché? Ho le mani sudice forse? Bisogna lavarsi le mani con voi, ora?
PINA Avete le mani e la lingua, sporche! MaLerBA Guarda la gnà Pina che patisce il solletico, adesso! Vuol dire che il diavolo si fa eremita, adesso!
PinA Vuol dire che siete una bestia. MALERBA [c. s. sardonico] Una bestia! Sissignora! Per questo non volete che vi tocchi! Toccala tu, Nanni, che hai le mani pulite! NannI [ridendo] Non gli date retta, gnà Pina. È il vino che lo fa parlare. PinA [accorata] E voi che vi fa parlare, l’aceto ?... che sputate amaro quando vi parlano gli altri? NANNI Perché? Che vi ho detto? PinA [tristemente] Niente... Lasciamo andare... [cambiando tono, e con dolcezza ancora un po’ triste] Vi avevo portato un pugno di ciliege, lassù dalla vigna... Non importa che sputiate amaro con me... Le ho colte per voi. Le volete? [gli offre le ciliege raccolte nel grembiule] NANNI Sì, vi ringrazio... se volete darmele ... Bruno A pigliare è sempre pronto lui! NANNI Piglia anche tu... Malerba... Pina [buttando per aria le ciliege] Tutti quanti! pigliate! ... NANNI [sorpreso] O bella! perché? Pina [quasi colle lagrime agli occhi, ma contenendosi] E voi, perché ? [gli volta le spalle corrucciata] NeLI [raccattando le ciliege, carponi] Peccato! la grazia di Dio! MALERBA [sbracciandosi a impor silenzio] Sss! Sss! Janu Che c’è? [Si odono uggiolare i cani per la campagna]
MALERBA JANU Ora CarpiLLo Bruno I
[scoppiando in una risata buffa] Niente. Avete fatto ribellare i cani... piglio un pezzo di bastone per te e per loro! I cani abbaiano alla luna. cani e gl’innamorati. [rivolto a Grazia, in aria galante] Vediamo, chi
ci avete in testa, voi?
GRAZIA Lia E MALERBA tate le vostre NANNI
[schermendosi con civetteria) Io? Nessuno. neppure io. O gnà Pina, perché non parlate voi? L’avete con la luna, che le conpene? [canticchiando in tono di scherzo]
Chi ha la doglia se la tiene. Chi sospira è fra le pene.
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Il teatro
PinA [con una tinta d’amarezza] La luna c’è per tutti lassù, compare Nanni. CarpiLLo O gnà Mara, parlate voi almeno! Ditelo voi chi ci avete in testa. NAnnI [ridendo, a Mara] Non ballate! non parlate! . . . Che diavolo avete dunque ? Mara [senza dar retta] Mamma, devo andare al fiume per l’acqua? PinA [bruscamente] Va, va! NANNI Eh, che male c’è? Avete la roba, grazie a Dio! ... e gli anni pure, per maritarsi . .. Mara [voltandogli le spalle] Io non voglio maritarmi. [entra nella capanna]
Scena settima
La GNÀ PINA, dalla sinistra in fondo, recando sul capo la brocca d’acqua, e NANNI.
NANNI O gnà Pina, siete voi? Che paura mi avete fatto! PinA [accigliata, nell’andare a deporre la brocca accanto all’uscio della capanna] Scherzate sempre, voi! Vi piace burlarvi del prossimo! ... NANNI Siete ancora in collera? Non ve lo siete rinfrescato il sangue, laggiù al fiume ? PINA [come risolvendosi, dopo un istante d’esitazione, andando diritto a lui, risoluta,
ma colle braccia cadenti in atto triste e desolato] Perché ce l’avete con me, compare Nanni? Che vi ho fatto? Nanni Io? Perché?... Che vi ho detto? PinA [siede accasciata su di un covone lì presso, quasi parlando fra sé e lamentandosi] Se ho fatto del male, l’ho fatto a me stessa ... Ma a voi non ho fatto nulla. E neanche
a quella bestia di Malerba... Allora perché m’ingiuria e mi carica d’improperi?... in presenza vostra, anche! NannI Malerba scherza sempre. Non ci pensate più. Buonanotte. Pina Buonanotte a voi, che potete dormire! NANNI [sempre in tono quasi canzonatorio] E voi, no? Pina Io no, compare Nanni. Lo sapete bene! NANNI Fatevi cantare la ninna nanna da qualchedun altro allora, e lasciatemi dormire, che ho sonno. PinA Benedetto il vostro santo patrono, che vi ha fatto di quella pasta! NANNI [ridendo] O come son fatto? PINA
Finta che avete occhi e non vedete, finta!
NANNI No, al buio non ci vedo, gnà Pina. PINA S'è buio, tanto meglio! ... che le parole non si perdono, al buio! ... ma vanno diritte, come escono dal cuore. Le vostre tagliano peggio d’un coltello, compare Nanni! NANNI Non le capisco le parabole, gnà Pina. PINA [în tono d’amarezza] Ah! che testa avete voi! E il cuore anche! ... duro come un sasso! NANNI Non le capisco! non le capisco! PiNA Non le capite! ... E vi lasciate morire la gente dinanzi! ... E voi voltate la testa dall’altra parte! ... NANNI Ohi! ohi! Si parla già di morti e di feriti!
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Pina [dopo un breve silenzio, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani, quasi soffocata dalla passione dolorosa] Garofano
pomposo,
dolce amore,
NANNI Che non ne sapete altra canzone, Pina [asciugandosi gli occhi febbrilmente] perché ne ho il cuore pieno! ... Finta che non cuocere a fuoco lento! Mi chiamano la lupa . .. rire la gente dinanzi... NANNI O che volete infine, gnà Pina? Pina
gnà Pina? Mi torna in bocca sempre quella... lo sapete, voi! Finta che non mi vedete ma il lupo siete voi che vi lasciate mo-
[chinandosi su di lui, viso contro viso, con un suono rauco e inarticolato di
belva] Voglio tel... NANNI [scoppiando in riso) Voi! ... Perché non mi date vostra figlia invece? ... Datemi vostra figlia ch’è carne fresca invece . . . Pina Ah, compare Nanni!... Come vorrei vedervi piangere coi miei occhi! NANNI Scusate! ... Dico per ischerzo ... Sapete la canzone? Se vuoi dar retta al maestro
di scuola,
lascia la madre e piglia la figliuola. Pina Come potete scherzare adesso? Perché vi divertite a calpestarmi coi piedi sulla faccia? Sono la lupa è vero... Sono una cosa vile... Vedete come divento soltanto a parlarvi? ... un pezzo di cosa vile! Mi butterete via come un cencio poi... quando non mi vorrete più... NANNI No! no!... « Pensa la cosa prima che la fai! » Pina [amaramente] Quanto siete giudizioso! Pensate le cose prima, voi! NANNI Devo pensare ai fatti miei... Sono un povero diavolo che campa a giornata... Non posso mettermi in questo imbroglio ... e avere poi chissà che fastidî. Pina [umilmente] Che fastidî potreste avere con me? . .. Sapete quella che sono! .. . NANNI Sì, perché lo so! Non me ne sbarazzo più, se mi metto in quest’imbroglio. E io devo pensare a maritarmi, capite? Non ho nulla ... Solo il buon nome e la buona salute. Devo pensare a trovarmi un po’ di dote, capite? Ditelo voi stessa... Gliela dareste vostra figlia a un cristiano che si fosse messo in quest’imbroglio ? ... con una come voi? Non vi offendete, ora...
Pina [avvilita] No, non mi offendo. Da voi non mi offende nulla, compare Nanni. NANNI Dunque lasciamo stare le chiacchiere che è tardi. E buona notte davvero, adesso. [torna a distendersi sulla paglia, voltandosi dall’altra parte] PinA [quasi lamentandosi tra sé dopo essere rimasta alcuni istanti in silenzio, col capo tra le mani] Anche questa mi fate? ... Mettete il coltello in mano alla mia figlia stessa, anche? ...
Nanni [infastidito] Io non vi faccio niente. Lasciatemi dormire, caspita! Pina [con voce sorda, come fuori di sé, balbettando] Bene... volete sposare mia figlia dunque?
162
Il teatro
NANNI [sorpreso, voltandosi a metà] Diavolo! diavolo! ... Dite sul serio stasera? Pina [come sopra] Sì, dico sul serio. Nanni [ancora incredulo, ma levando il capo e sgranando gli occhi] E voi davvero me la date in moglie? Pina [soffocata, chinando prima il capo due o tre volte senza poter parlare] Sì... Posso negarvi niente a voi? ... Sposerete mia figlia, giacché così volete... Ed io me ne andrò ... lontano... per non vedervi più. NANNI [dopo averla fissata un momento, dubbioso, torna a voltarsi dall’altra parte, quasi temesse d’esser preso a gabbo] Va bene, se ne può parlare più tardi, quand’è così. Pina [come sopra] E anche adesso, giacché così volete... È meglio parlarne adesso. NANNI [vivamente, rizzandosi a sedere] Dite proprio sul serio, gnà Pina? Pina [amara] Vi pare che abbia voglia di scherzare in questo momento ? NANNI [gongolante, alzandosi del tutto] Bè, bè! quand'è così vi piglio in parola! E maledetto chi si pente, gnà Pina! Pina [accasciata] Maledetto chi si pente. NANNI E domenica si va dal notaio, per fare le cose spiccie ... Però, badate che non ho niente. Pina Che volete che vi dica?... NANNI
Il buon nome e la buona salute . .. Questo sì! Ma infine, la roba la date
a vostra figlia. Pina Tutto quello che volete ... Ormai non m'importa di nulla! ... Lo troverò un cantuccio, dove cadere e morire, lontano dagli occhi vostri! ... NANNI No, sarete sempre la padrona in casa vostra. Pina Non me ne importa, ormai! È finita... per sempre è finita! NANNI Resta a vedere cosa dice vostra figlia, adesso. Bisogna che dica la sua anche lei. Pina [colle lagrime agli occhi] Oh! mia figlia è sangue mio! Vorrà anche lei, non dubitate! Ora ve la chiamo io stessa. [chiamando verso la capanna] Mara! ... NANNI Subito? Volete far le cose a precipizio? PinA Meglio cavarselo subito il dente che duole! Voi non cambiate certo . . NANNI No, io non cambio. Ma c’è tempo... Domani... Pina Meglio cavarselo subito il dente che duole. Già non dormiamo più né voi né io con questa spina in mente! NANNI Bene, bene... fate come volete. PinA [respingendolo, quasi duramente] Ma andatevene, ora, andatevene! Lasciatemi sola con mia figlia, ora! Voi non c’entrate tra madre e figlia. [chiamando] Mara! ... Mara! Eccola che viene! Vedete che viene subito ? Andatevene! [Nanni esce dalla sinistra]
Scena ottava
MARA, e la GNÀ PINA.
Mara [dalla capanna, che volete?
ancora assonnata, ravviandosi i panni addosso)
Mamma,
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Pina [facendosi forza, per raffermare la voce tremante] Ho . .. che compare Nanni . si è già spiegato infine... Dice che vuol sposarti . . . MARA [sorpresa, recandosi le mani al petto, quasi colpita al cuore] Me? Pina Te! Non mi far la stupida! Io ho detto di sì... e ora devi dire se sei contenta anche tu... Mara
Io, mamma?..
Pina [masticando amaro] Sei tu la sposa... Sei tu che devi parlare adesso .. MARA [sempre più sbigottita] Che volete che dica?... Così all'improvviso! .. Se non lo conosco nemmeno quel cristiano! Pina Ah! non lo conosci ? Da un mese che è qui a lavorare nello stesso podere! . . . Mara [smarrita, balbettando] Non ci ho mai pensato con quest'idea . . . vi giuro! ... vi giuro, mamma! PinA Bene... ora si è spiegato chiaro... È là, che aspetta la risposta. Mara [vivamente] No! diteglielo voi! PINA [dura] No? perché? Mara Perché non mi marito! ... Non voglio maritarmi ... PINA [sarcastica] Cosa vuoi fare? ... la monaca santa? MARA [come sopra] Non voglio maritarmi!... Non lo voglio quel cristiano! . Pina [torva, quasi minacciosa] Non lo vuoi? Perché non lo vuoi? Mara [tutta tremante, fuori di sé dallo sbigottimento] Perché non può essere... [fissandola con gli occhi in cui balena il sospetto atroce] Sapete bene che non può essere! Pina [bieca, andandole quasi con le mani addosso) Che vuoi dire? Parla chiaro! MARA [scoppia a piangere] Mamma! Perché mi tormentate adesso ?... che vi ho fatto? Pina Ti fai anche pregare! ... Vuoi che ti preghi io stessa? Sarebbe bella anche questa! Mara Lasciatemi andare, per carità! Diteglielo voi stessa, che non può essere questo matrimonio . . . Pina Io ho detto di sì. Dirai di sì anche tu, perché così voglio! Mara
Pina Mara
Voi, mamma!
Io sono tua madre! Devo dartelo io il marito. Voi, mamma!
PinA [incalzandola, fiera e risoluta] Io! ... Te lo do io! Lo piglierai perché te lo do io! Mara [supplichevole, a mani giunte] No, mamma! non lo fate! PinA Dovessi trascinarti all’altare pei capelli... Mara Non fate questo, mamma! ... non fate questo! Il Signore ci castiga! ... PinA [afferrandola per le treccie e guardandola torva, viso contro viso] Che dici? Parla! parla chiaro! Mara [strillando] Mamma! mamma mia!
Scena nona
NANNI
e dette.
NannI No, gnà Pina!... colle buone! Pina. [a Mara, ancora stravolta) Vattene ora, vattene! [a Nanni bruscamente)
Voi
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Il teatro
@
non c’entrate tra madre e figlia! . . . [a Mara c. s.] Vattene! Non mi fare dannare l’anima del tutto. [Mara piangendo rientra nella capanna] NANNI Che è stato?... Perché?... Dice di no? PINA [ricomponendosi a poco a poco, ma ancora tutta tremante, con un sorriso amaro] No ... non temete per voi ... Sono io che devo portare il carico adesso . .. son io! ... NANNI Ma che avete? Parlate! ... Siete tutta sottosopra ... Pina Ab, vi par nulla quello che ho fatto ?... NANNI Scusate... perdonate... Ma non c’è bisogno di guastarvi il sangue per questo. S'è cosa che si può fare, bene; se no, pazienza, e vi ringrazio lo stesso del vostro buon cuore. Pina Lasciatemi! ... lasciatemi stare adesso! ... [scoppia în lagrime, col volto fra le mani] NANNI E piangete anche! ... Ma ch'è successo ? parlate. Pina Niente; lasciatemi sfogare il cuore. Sapeste che c’è qui dentro! NANNI [imbarazzato] Sentite! ... mi dispiace proprio ... s'è per causa mia... o per qualche parola che ho detto ... proprio per ischerzo ... [confondendosi sempre più, con calore] Ma finitela ora, caspita! Pina Adesso fate come il coccodrillo, voi! NANNI No, com’è vero Dio! ... Finitela, com’è vero Dio!
PinA [scuotendo il capo desolata] Non posso! ... non posso più! Ho quello che volete voi, ma ora non posso più!... Ah, quello che mi avete compare Nanni!... NannI Non lo sapevo! Non voglio farvi fare le cose per forza, no! Pina [fissandolo cogli occhi ardenti e lagrimosi] Lo vedete almeno se vi bene ? NANNI Sarei un ingrato se non lo vedessi. Mi date la figlia, mi date la potete fare di più? PINA [col capo fra le mani) Niente! niente!
fatto tutto fatto fare,
ho voluto
roba! Che
NANNI Avete un cuore grande come il mare! ... Il vostro che non è vostro!... Vi spogliate anche della roba per darla a vostra figlia! ... Pina [scuotendo la testa, col grembiule agli occhi] Questo è nulla! ... questo è nulla! ... NANNI Sarà niente, ma è anche un bel tratto! Spogliarvi viva del fatto vostro! ... mentre siete ancora in gamba!... meglio di vostra figlia! ... Lo ha detto lo stesso Malerba ... [in tono di scherzo, onde rabbonirla] Fortuna che ci mettiamo il parentato fra di noi!... Eh! eh!... [sempre più imbarazzato] Via, finitela! ... se no non so che dirvi più ... Vedete che non so dire due parole ? Mi fate fare qualche sciocchezza! [ridendo goffamente] Mando all’aria San Giovanni e il parentato! Pina
AA!...
scherzate anche coi santi, voi!
NANNI [mentre il riso gli muore sulle labbra, sempre più commosso e turbato di mano in mano lui pure] No, no, dico sul serio ... Siete un diavolo in carne ed ossa! ... Ora finitela e asciugatevi gli occhi... Fatelo per amor mio! Pina Lo sapete quello che mi avete fatto fare? ... che mi avete messo il coltello in mano voi stesso . . . e poi mi avete detto ... Te’, ora! ... strappati il cuore tu stessa! NANNI [smarrendosi del tutto] Basta ora, basta... Non posso vedervi piangere
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così! ... Mi fate perdere la tramontana anche a me! ... Basta ora! . . . fatelo per amor mio! [l’abbraccia] Pina [svincolandosi di scatto, tutta tremante e sconvolta] No!... Lasciatemi!... Fate come il coccodrillo adesso! ... [Rimangono a guardarsi negli occhi, pallidi entrambi] NAnnI [smarrito, balbettando] Perché? ... Perché gnà Pina?... PINA. [con voce sorda e rotta, quasi incalzandolo irata] Fai come il coccodrillo! . . . infame! ... scellerato! ... per farmi impazzire del tutto!... NANNI [indietreggiando, come per fuggirla] No!... gnà Pina!... Che volete? PINA [con voce sorda, afferrandolo pel braccio, fiera e risoluta] Taci! ... Ci sentono quis NANNI [tentando di svincolarsi] No, gnà Pina! [cava dal petto l’abitino della Madonna con mano tremante] Vi faccio lo scongiuro, guardate! Pina Lascia stare quell’abitino che non giova! Te l’ho fatto io tante volte lo scongiuro ... e non è giovato!... NannI No!... no, gnà Pina!... Andiamo diritto all’inferno adesso!... [.Sz ode stridere in alto la civetta] Sentite, la civetta! [imprecando col pugno rivolto al cielo] Su te il malaugurio, bestiaccia! Pina Su me! Sono io la maledetta! Non me ne importa, ormai! L’inferno l’ho avuto qui! L’ho pagato prima il male che fo! NANNI [vinto, colle gambe molli, la faccia stravolta, senza aver più la forza di resisterle] Ah, maledetto Giuda! ... Pina [tirandoselo dietro pel braccio, a capo chino, torva, come una vera lupa] Taci! ... Non bestemmiare adesso! Scompaiono
dalla sinistra, in fondo. Silenzio ; odesi lontano il mormorio
del fiume,
il fruscio delle spighe, il trillare dei grilli, e di tanto in tanto, l’uggiolare dei cani, lugubre, nell’ora tragica. A un tratto passa di nuovo stridendo la civetta. Tela
Nel 11 atto il tempo è passato; da Nanni Lasca e da Mara è nato un figlio, anche se si suppone che l’uomo abbia continuato a vivere nel peccato. Ad apertura di scena, un’altra festa ma religiosa: Nanni s’è confessato ed è uscito dalla fascinazione della Lupa; la comunità lo riaccetta e lo designa a portare lo stendardo della Confraternita durante la processione, come a chi è toccata una grazia; su questa atmosfera di festosa espiazione arriva la Lupa che, dopo una lite con la figlia, si fa uccidere, con un gesto assai simile a quello erotico, dall’amante. Il I1 atto ripete, rovesciate, le situazioni del primo: la festa pagana e l’erotismo diventano festa religiosa e morte. L’analogia delle conclusioni dei due atti, amplesso e morte, è talmente evidente che Grasso adottò, nella rappresentazione parigina del 1908, certo arbitrariamente, il « lieto fine », cioè una nuova scena erotica tra i due amanti. Così Verga confermava la sua intenzione di far morire la Lupa: «Il Grasso si permette di travisare il finale così che tutta la commedia diventa barocca ed assurda. Non è più la passione cieca, carnale, brutale anche se volete, ma quasi fatale della Lupa, che dà la figlia a Nanni non per
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Il teatro
turpe mercimonio, ma perché essa non sa resistere alla sua volontà, carne della
sua carne, che arde e si consuma e soffre della sua passione, e si pente del suo peccato, sinceramente, ma non può divellersene, e torna a lui, e lo avvince così
nel suo spasimo che egli ne è vinto pure, e sempre, e per sottrarsene non sa far altro che ucciderla. Invece il Grasso lo fa cadere di nuovo nelle braccia di lei, all’ultimo — figuratevi! » (Lettere al suo traduttore cit., p. 245). Con La lupa, Verga estende al massimo il bozzetto veristico: nato con la Cavalleria per essere svolto in un atto, nella contrazione del presente, si estendeva — per esigenze passionali, psicologiche, cioè melodrammatiche — al tempo lungo dell’agonia di Màlia e della passione della Lupa. Non restavano a Verga che due strade: riprendere il bozzetto in un atto, oppure sviluppare il ciclo di formazione del personaggio e della situazione, tornare cioè ai tre atti del dramma tradizionale. E infatti, pur nel progressivo distacco e disinteresse per la produzione teatrale, lo scrittore praticò sia il bozzetto in un atto (La caccia al lupo, La caccia alla volpe, scritte nel 1901, rappresentate l’anno successivo; la prima Caccia deriva da una novella del ’97; della seconda si conosce
solo la versione
teatrale) sia il dramma in tre atti (Dal tuo al mio, rappresentato a Milano nel 1903, pubblicato in forma di romanzo nel 1905, nella « Nuova antologia »). Delle precedenti prove teatrali non si conoscono che i titoli: A villa d'Este e La commedia dell’amore che, secondo Aurelio Navarria, sarebbero poi una sola commedia di cui variò il titolo (Di alcune opere teatrali inedite di G. Verga, in « Belf. », 6, novembre 1962, pp. 713-5); alcune scene di una commedia dal titolo Dopo furono pubblicate nel 1902 nella rivista « La settimana » di Napoli, diretta da Matilde Serao. Tuttavia, nei due bozzetti, Verga non ripete l’esperienza della Cavalleria: abolisce l’ambiente, il coro, il rapporto «a catena » tra le figure del dramma e sceglie invece il luogo chiuso, il rapporto triangolare, l’analisi intima non di uno sviluppo ma di un tracollo, di una conclusione.
Si tratta, in entrambi i casi, di
un dramma « delle porte chiuse » (come, molti anni dopo, Sartre chiamerà un suo dramma, in cui questa struttura sarà diventata maniera asservita alla dimostrazione di una tesi filosofica o moralistica); di un dramma cioè della prigionia (se-
condo un'intuizione di In portineria) del luogo e, per metafora, dei rapporti umani che nel luogo chiuso si scatenano e rivelano il loro lato aggressivo e annientante; si tratta infine dell’omicidio psichico (secondo l’espressione usata da Strindberg per analoghe situazioni) del più forte verso i più deboli, omicidio che si verifica a tutti i livelli della scala sociale, seppure con mezzi specifici e in forme diverse. Nella Caccia al lupo, come indica la metafora animalesca del titolo, l’ambiente popolare esprime l’omicidio psichico e la vendetta in forme animalesche e brutali, infine con un reale omicidio, che vendica l'offesa dell’adulterio; nella Caccia alla volpe i toni si fanno raffinati, la conversazione mondana
assorbe interamente la situazione, ma identica è l’estraneità reciproca dei tre personaggi che giocano la loro schermaglia, il loro « gioco dell'amore e del caso ». Entrambi i bozzetti rappresentano comunque la strada del distacco fra Verga e il teatro e sembrano derivare, più che da un effettivo interesse per la loro rap-
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presentazione, dal contemporaneo interesse per il mai compiuto romanzo La duchessa di Leyra, rispetto al quale i bozzetti rappresentano insieme un momento di evasione e un momento di approfondimento di situazioni psicologiche. Dal tuo al mio, ultimo dramma di Verga, fu scritto in un periodo in cui le sue precedenti opere venivano spesso e con successo rappresentate; questo può spiegare la sua destinazione immediatamente teatrale, cui seguì quella narrativa, nonché la sua struttura più ampia, i regolamentari tre atti e il suo carattere di « sintesi ), in senso tecnico e ideologico, della sua visione del mondo
agli inizi
del nuovo secolo. Dal tuo al mio sembra superare quell'idea puramente sperimentale che aveva guidato la sua precedente produzione. Si sa che il progetto di Verga di rappresentare in una trilogia l’intero ciclo dei « vinti » fallisce per le sue difficoltà a sviluppare La duchessa di Leyra: il dramma, forse inconsapevolmente, gli si presenta come un possibile sostitutivo di quell’affresco e come una possibile sintesi dei fallimenti umani. Da questo i tre atti, il moltiplicarsi dei personaggi, la loro stratificazione sociale fino a rappresentare tutte le classi, l’aristocrazia, la borghesia e il proletariato delle miniere; da questo la varietà e rappresentatività dei luoghi scenici (la grande casa patrizia, l'interno degli uffici della zolfara, l'esterno), l’ampia orchestrazione della presenza dei personaggi, fino a due scene « di massa », una nella casa patrizia, al I atto, una alla fine, con gli scio-
peranti che chiedono giustizia. Tra le opere di Verga, la più vicina a questo dramma è il romanzo Mastro don Gesualdo, non solo per la centralità, in entrambi, del tema economico della
« roba » ma per quello, ancora più radicato, della inevitabile ascesa e decadenza, con gli uomini, delle classi sociali cui appartengono; e, perciò, per la scelta, in entrambi i casi, di un preciso tempo storico, assai prossimo a quello dell’autore e che rappresenta per lui un tempo di crisi e disgregazione. Dal! tuo al mio è ambientato in un paese della Sicilia, tra i padroni che si passano di mano una zolfara e i lavoratori che reclamano maggiori salari; e rispecchia la reale situazione storica della nascita della coscienza sindacale in Italia e, in Sicilia, degli avvenimenti che culminarono nei moti dei Fasci e nella loro repressione. Nella sua tetra visione della decadenza dell’aristocrazia, del volgare economicismo borghese e dell’arrivismo delle classi popolari in ascesa Verga coinvolge tutti i personaggi: il barone Navarra, che non riesce a mantenere l’integrità della famiglia per inettitudine ad affrontare la realtà come va, cioè cinicamente; le due figlie che eccedono nelle soluzioni scelte, l’una perché accetta il ruolo di sterile vestale della dignità familiare, l’altra perché accetta per marito il subalterno Luciano; il borghese Rametta che presenta solo la faccia cinica dell’affarista; Lu-
ciano, che ascende nella scala sociale prima sposando la figlia del barone, poi mettendosi alla testa degli scioperanti, infine passando a difendere i padroni della miniera in vista del suo futuro possesso di quella proprietà (mentre l’esercito in arrivo garantirà la repressione del moto sindacale). Il carattere ideologico di questo impianto drammatico, cioè il suo riflettere una concezione del mondo preconcetta,
priva di dinamica,
meccanicamente
strutturata verso la dimostra-
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Il teatro
zione di una tesi, ha sempre diviso i critici sulla sua validità. Ai tempi di Verga, i socialisti disapprovarono la conclusione del dramma, tanto da spingere l’autore a premettere questa dichiarazione all'edizione del romanzo: «Per il significato che si è voluto dare qua e là alla rappresentazione di questo mio lavoro teatrale, dichiaro che non ho voluto fare opera polemica, ma opera d’arte. Se il teatro e la novella, col descrivere la vita qual è, compiono una missione umanitaria, io ho fatto la mia parte in prò degli umili e dei diseredati da un pezzo, senza bisogno di predicare l’odio e di negare la patria in nome dell'umanità. Però i Luciani d’oggi non li ho inventati io» (in Tutte le novelle, Milano 1942, 11, p. 389). Anche in tempi più recenti, il dramma è stato interpretato prevalentemente in chiave ideologica: come specchio fedelissimo e spassionato del fallimento borghese risorgimentale e di quei fallimenti operai che condurranno al fascismo, in senso positivo o negativo — nella valutazione del dramma — a seconda dell’ideologia del lettore-critico. Mentre non c’è dubbio che il dramma corrisponde al graduale incupimento e irrigidimento della concezione verghiana, di cui il progressivo isolamento della persona e la rinuncia alla letteratura sono ulteriori conferme; e che la Prefazione al romanzo citata va anche oltre, esprimendo una concezione reazionaria della vita, oltreché dell’arte; è anche vero che Dal tuo al mio
ha diritto alla sua interpretazione drammaturgica, per la sua collocazione nell’ambito della produzione verghiana e di quella teatrale e narrativa immediatamente seguente: si pensi all’influenza esercitata su un romanzo come I vecchi e i giovani di Pirandello e al carattere canonico, per il teatro e per il cinema, di scene come l'iniziale (la grande festa di matrimonio, fallita, con i vari tipi di parenti che vi partecipano, ecc.) o la finale (la massa degli operai che preme minacciosa, la conversione
del bravo
ragazzo
deviato
e, lontano,
la tromba
dell’esercito
che
salverà i padroni). Il teatro verista in lingua non ha superato, in Italia, le dimensioni del teatro di Verga, che pertanto resta l’unico esempio di sperimentazione che si proietta verso il futuro dannunziano e pirandelliano. Accanto al quale porremmo solo // rosario di Federico De Roberto (cfr. $ 63), tratto dal racconto dello stesso titolo nei Processi verbali, pubblicato nel 1899 nella « Nuova antologia », rappresentato nel 1912 al Manzoni di Milano e nel ’19 in versione dialettale siciliana. Dei difficili rapporti col pubblico teatrale di De Roberto è un’eco la sua corrispondenza con l’amico drammaturgo Sabatino Lopez, al quale, dopo che gli era stata rifiutata la rappresentazione di Strada maestra, scriveva così, annunciando il suo nuovo dramma: « [. . .] IZ rosario sarà troppo inumano [. . .] questa è roba buona per il teatro del Grand Guignol. Poi c’è l’affare dei paternoster e delle avemarie che corrono il rischio di esser recitate dal loggione in coro con gli attori; poi c'è la tenuità, o meglio l’assenza dell’intreccio [.. .]», previsioni che si rivelarono tutte giuste alla rappresentazione, accolta malamente dal pubblico ma non dalla critica. Si tratta di una lunga unica scena, che molto abilmente si costruisce in vista dell’effetto finale nella stupefatta, inorridita e insieme affascinata contemplazione di un personaggio e di una situazione. Tre figlie
zitelle aspettano la recita del rosario per informare la tremenda madre autori-
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Alla ricerca di una nuova drammaturgia
taria dell'imminente morte del marito della quarta sorella, povera e ripudiata dalla madre. L’uomo muore mentre, sempre recitando il rosario, la tremenda donna nega il perdono alla figlia.
III. [LA RECITA DEL ROSARIO]
ri LA BaronEssa
Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta
fra ttutte nen
[Sz odono in lontananza campane che suonano a morto] LA BARONESsA [riprendendo la preghiera dopo una pausa] .. + fra tutte le donne, e benedetto . ..
[Z! suono delle campane arriva più nitido, più vibrato] LA BARONESSA [resta ancora un momento a udire, con la testa alta, gli occhi socchiusi] Chi è morto? AGATINA
[con mal nascosta ambascia] Mamma,
non so; ma forse è successa una
gran disgrazia... UNA DELLE DONNE [porgendo l’orecchio] Eccellenza, picchiano all’uscio. Vado a vedere? [fa per alzarsi] LA BaronEssA [ad Agatina] Va’ tu. Qui non entri nessuno. [Agatina esce] ... e benedetto il frutto del vostro ventre: Gesù. [suggerendo] Santa Maria... IL coro Santa Maria, madre della nostra morte: così sia.
di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell’ora
La BaronEssa [dopo una pausa] Che disgrazia sarà successa? CARMELINA Mamma, il cognato era moribondo ... Gli avevano portato il Viatico poco fa... LA BaRONEssA Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il frutto del vostro ventre: Gesù. [alla figlia, senza guardarla] Come hai detto? CARMELINA Salvatore... Salvatore Pirrone, Eccellenza ... LA BaronEssa Ah!... E di che malattia? CARMELINA Non si sa bene... Senza un buon medico!... venire
Bisognava
LA BaronEssa Perché non l’ha fatto venire? CARMELINA Come, se non c’era più nulla in casa?... CATERINA Per ciò, mamma, volevamo dirle... Quella povera Rosalia... poveri bambini...
scena
costruita
cinematografica. Il crescendo della
come
preghiera,
quei
una sequenza
tensione provocata dal crudele rifiuto della grazia, usa la parola in senso espressionistico, come effetto sonoro. La tecnica, intrecciata naturalmente alla situazione di stridore tra la preghiera e la mancanza di carità di chi prega,
parallelo
sarà spesso adottata noro del cinema.
III. FepERICo DE ROBERTO, // rosario, sc. 32, da Il teatro del secondo Ottocento, a c. di C. Bozzetti, Torino 1960, pp. 647-9.
È una
farlo
da Palermo ...
alla
dal linguaggio
visivo-so-
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Il teatro
LA BARONESsA [suggerendo] Santa Maria... madre di Dio... IL coro Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte: così sia. LA Baronessa Ave Maria piena di grazie, voi siete benedetta fra tutte le donne, e benedetto il frutto ... AGATINA [rientrando, pallida, smarrita, con voce tremante] Mamma, mamma! ... Purtroppo non m’ingannavo!... È morto il marito della povera Rosalia ... Quella sventurata chiede in grazia di buttarsi ai piedi di Vostra Eccellenza ... di ottenere il suo perdono... CARMELINA
Le disobbedì, è vero, mamma...
ma adesso sconta amaramente
il
suo errore... CATERINA
La colpa non fu neanche sua... Quel giovane, Dio l’abbia in gloria, lesfece perdere la, testa... AGATINA E poi, mamma, se sapesse ... Quante cose tristi! ... I creditori venuti a pretendere il loro, mentre quel disgraziato spirava ... Il padrone di casa che minaccia di mandarla via... Quel poco di denaro che resta non basta neppure alle spese del funerale . . . UnA Donna Eccellenza, lo so io che c’è una gran miseria in casa... UN'ALTRA DONNA [a un cenno di esortazione delle sorelle] Che vuol farci oramai, Vostra Eccellenza ?. .. Quel che è stato è stato . . . Vostra Eccellenza deve fare la volontà di Dio... Per l’amore di quei poveri piccolini . . . UNA BAMBINA I bambini piangono, Eccellenza. AGATINA [inginocchiandosi accanto alla madre] Diede un gran dispiacere a Vostra Eccellenza; Vostra Eccellenza ebbe ragione... Ma dopo questa gran disgrazia! ... Ha mandato i suoi bambini . .. Quegli innocenti sono giù che aspettano . .. che Vostra Eccellenza apra loro le braccia, che perdoni a tutti... [La baronessa è rimasta a guardar fiso dinanzi a sé, come non vedendo, non udendo. Fa scorrere un’altra pallottolina] LA BaronEssa
Re da burla incoronato,
Ecce homo ingiuriato; che dolore in fronte prova! Furon spine come chiodi. IL coro O gran Vergine Maria, la pena vostra è anche mia. LA BARONEssA Padre nostro che state in cielo . . . [s'interrompe, socchiude gli occhi] Di chi avete parlato? Le soRELLE [insieme] Di Rosalia, mamma!... Di nostra sorella... della sua figliuola . ... LA BaronEssA
Sia fatta la vostra
santa, divina volontà,
così in cielo come
in
terra... [st alza, rigida e tragica; con voce rauca] Io non ho figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta. CATERINA [supplice e dolente} Mamma, mamma! ... Non dica così... Perdoni a quella sventurata . .. CARMELINA [giungendo le mani] Lo faccia per noi... AGATINA [col pianto nella voce] Le abbiamo mai chiesto nulla per noi, mamma ? ... Perdoni ora a quegli orfanelli, a quei poveri innocenti... Sono del suo sangue anch'essi . . .
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Il teatro în dialetto nell’Italia settentrionale
171
LA BaRONEssA [più forte, quasi gridando] Non conosco nessuno del mio sangue! AGATINA [più piano, abbattuta, sconfortata) Perdoni alla loro mamma, alla sua figliuola . .. LA BaronEssa Mia figlia è morta. L’ho pianta. Non vedete? ... [mostra le sue vesti] Ne porto ancora il lutto, da nove anni... [torna a sedere ; suggerisce] Dateci oggi il nostro pane quotidiano . . . [il coro mormora appena la preghiera ; si ode solo il mormorio che ha ripreso, più lugubre, e la voce della baronessa che continua a recitare] Il nostro pane quotidiano . .. Perdonate i nostri peccati come noi perdoniamo i nostri nemici . . .
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Il teatro in dialetto nell’Italia settentrionale : Vittorio Bersezio, Giacinto Gallina, Carlo Bertolazzi. Il Grand Guignol
Il teatro in dialetto, osteggiato negli anni immediatamente successivi all’unità italiana perché particolaristico, non unitario e socialmente limitato a rappresentare
«una
classe
sociale
inferiore », acquista via via terreno
negli anni
successivi, parallelamente all’affermazione del teatro verista. Significative sono le due posizioni in Capuana, che nel 1872 scriveva contro il teatro in dialetto, «inferiore pei mezzi che usa, inferiore pel suo contenuto che non esce e non può affatto uscire da una certa classe sociale, inferiore per le intenzioni artistiche che son messe al secondo, al terzo, all'ultimo posto nella mente dello scrittore. Vuol dire inoltre vita locale, provinciale, frazionamento, analisi [. ..] da cotesto basso
fondo, ove si è ridotta fra noi la sola reale poverissima scintilla dell’arte, quando n’è uscito un capolavoro come Ménssù Travet, n’è uscito tutto: non gli si può chiedere di più » (// teatro italiano contemporaneo, Palermo 1872, p. xxx). Ma nell’ultimo ventennio del secolo e agli inizi del ‘900, Capuana passò a sostenere la produzione dialettale e a contribuirvi con opere proprie; nella sua Prefazione al Teatro dialettale siciliano (Palermo 1911) controbatteva ad un ipotetico contestatore: « Come
se i personaggi veneziani, fiorentini, napoletani,
siciliani non
fossero forse più italiani di quelli del teatro non dialettale, perché più sinceri, al pari degli attori che li rappresentano! »; concludendo poi con la necessità del teatro dialettale proprio per la formazione di quello nazionale. È la più coerente deduzione delle premesse veriste, ed è inoltre un'ipotesi di ampia presa culturale, se si pensa che tra la fine del xIx e gli inizi del xx secolo gli interessi degli studiosi si rivolsero alla ricognizione e ricostruzione del patrimonio di cultura popolare (vocabolari dialettali, raccolte di proverbi, favole e, per il teatro, studi sulla commedia popolare, sulla Commedia dell’arte, sulle maschere regionali, sul teatro religioso, ecc.). Tendenze tutte che mal si accordavano col programma dello stato unitario che imponeva l’italiano come lingua scritta e parlata e che quindi relegava la produzione dialettale ad una circolazione subalterna e limitata alle regioni. Perciò, a farne la storia, il teatro dialettale è
ben lungi da presentarsi in modo omogeneo e, per così dire, con una « coscienza dialettale » implicita; diversa la produzione tra il ’60 e il °70 da quella di fine secolo, come diversa da regione a regione, da Nord a Sud, da scrittore a scrit-
Il teatro
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tore a seconda che la sua formazione sia prevalentemente letteraria o prevalentemente teatrale. Qualche tema unificante: la rappresentazione della grande città (EI nost Milan di Bertolazzi e i drammi napoletani di Di Giacomo), degli interni popolari o piccolo-borghesi; il tema del gioco del lotto come sogno di una ricchezza e di una rispettabilità che la società non assicura; i temi connessi al lavoro —
o alla sua mancanza;
i drammi passionali, che sfociano nell’omicidio,
nella condanna e nella pena (quindi la presenza di ambienti come i tribunali, le carceri). Resta da analizzare la produzione dei maggiori rappresentanti di teatro dialettale, mantenendo le uniche discriminanti legittime: quella tra produzione del Nord e del Sud, e tra produzione immediatamente postunitaria e produzione di fine secolo, che rispecchia la coscienza di una situazione storica diversa specialmente per le classi subalterne (crescente industrializzazione del Nord, aumento demografico, emigrazione dal Sud, imprese imperialistiche, repressioni politiche e sindacali). Il teatro dialettale di Vittorio Bersezio e di Giacinto Gallina si muove nell’ambito di quel revival goldoniano che abbiamo visto nel teatro in lingua postunitario. Il piemontese Vittorio Bersezio (1830-1900) condivideva l’idea, ancora risorgimentale, di una « missione educatrice » della letteratura: « l’autore piglia dalla massa comune le buone idee, le nozioni del vero, il riprovo del male, l’ac-
cenno del bene, li accentra, li individua, li colorisce [. . .] e li rende al pubblico » (pref. a Il novelliere contemporaneo, Torino 1855, pp. xxv-xxVI); in altra occasione lamentava la mancanza di originalità e di invenzione nella letteratura italiana; in altra polemizzava con la concezione positivistica di Taine, di cui accettava però la funzione determinante dell'ambiente sulla formazione dell’uomo. Tutti temi ideologici che ci introducono alla sua opera teatrale di maggior successo, Le miserie d° M6nssù Travet (travet = travicello), rappresentata il 4 aprile 1863 all’Alfieri di Torino (tradotta in italiano nel ’71), che si aggiunge, e forse conclude, una tradizione dialettale iniziata nella prima metà del secolo con la Cichina d° Méncalé di Giovanni Toselli (che Cavour osteggiò per il suo provincialismo) e proseguita da Giovanni Zoppis con commediole di trama semplice, su fatti contemporanei, in un dialetto dimesso (La paja vsin al feu, Mariouma Clarin). Bersezio osteggiò, per motivi « unitari », questo teatro, poi finì col subire una sorta di imposizione del pubblico e si dette a comporre opere dialettali di carattere moralistico come La violenssa a l’ha semper tort (poi tradotta in italiano col titolo / violenti), accanto a commedie di esplicita derivazione goldoniana (Una bolla di sapone, dal Ventaglio di Goldoni). Moralismo e goldonismo aggiornato che caratterizzano anche Le miserie d’ M6nssù Travet, insieme però all’invenzione di un tipo, l’impiegatuccio onesto e perciò tartassato, succubo dei colleghi e, in casa, della moglie, pronto a tutto sopportare per quieto vivere, salvo che venga intaccato il suo onore; quindi disposto a rinunciare alla sua povera dignità impiegatizia e ad accettare un posto presso il panettiere mdnssù Giachétta. Il grande successo di questo personaggio è dovuto al rovesciamento in
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Il teatro in dialetto nell’Italia settentrionale
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senso piccolo-borghese dell’eroe tragico, cioè all’invenzione di un antieroe, e al carattere apologetico della burocrazia piemontese, della sua integrità morale; perciò ha poco senso trovare al Travet fratelli d’oltralpe come il Bellemain del vaudeville La chanson ou l’intérieur d’un bureau (1823) di Eugène Scribe?. Posizione non lontana da quella di Bersezio occupa il veneziano Giacinto Gallina (1852-97) che scoprì «il senso della realtà » dalla lettura di « quel prosaico Goldoni » e, dal ’70 all’80, rimase in ambito goldoniano; sia pure con molti aggiornamenti, dovuti ai tempi mutati, al pubblico e soprattutto al suo temperamento di scrittore coscienzioso, tutt'altro che disposto alla semplice imitazione. Dopo alcuni insuccessi, Gallina accolse l’invito di Angelo Morolin, titolare dal °70 di una compagnia dialettale veneziana simile a quella piemontese di Toselli, a fornirgli una commedia in dialetto; nacque così Le barufe in famegia, rifacimento della goldoniana Famiglia dell’antiquario, cui seguirono numerose altre, che trassero dal commediografo settecentesco la tecnica e lo stile del dialetto, della costruzione e taglio delle scene, l’analisi delle situazioni sociali attraverso l’analisi delle situazioni
familiari,
l’attenzione
al «carattere » umano,
la piega
moralistica delle conclusioni. Il modello goldoniano è usato per una certa congenialità e, come tutti i modelli, funziona da schermo su cui proiettare il personale mito della città di Venezia, la personale disposizione alle situazioni patetiche e moralistiche, svolte in un senso romantico che manca assolutamente a Goldoni. Dopo un decennio di silenzio, e dopo l’insuccesso di Esmeralda (88), un atto unico in lingua, Gallina riprese a scrivere in dialetto: Serenissima (°91), Fora dal mondo e La famegia del santolo (*92), La base de tuto (94); commedie al limite del dramma, in cui è presente la mutata situazione culturale italiana, cioè l’assimilazione dell'esperienza verista, e la mutata situazione storico-sociale, cioè
la coscienza della determinazione economica nei fatti della storia e nei destini individuali. È in questi drammi che Gallina va oltre il cliché goldoniano; come avviene con la Famegia del santolo !°, nel dramma cioè del pover’uomo che vive in una situazione ambigua (il solito vecchio peccato della moglie che procura benessere e protezione) e che improvvisamente deve accorgersi di quanto la sua coscienza ha finora rifiutato (una situazione che sarà ripresa dal Pirandello di Tutto per bene): « MiceL Nessuna novità... Altro che in una note go vissuo quasi trent'anni de vita... Me xe nato come se a un orbo i ghe dasse d’improviso la vista, soto el sol de mezogiorno . .. Eco el segreto de tante contrarietà che no saveva spiegarme ... Eco la rason che no riussio a far gnente ... Eco la causa 9 Altre opere di Bersezio: in dialetto: La sedussiòn (1861), La beneficenssa, ’Lisangh bleu, I gieiigh ’d B0rssa e L’ambissiòn (*62), La cassa a la dote, La cassa a l’eredità e *Na serp an famija (’63), L’onestà e Un barba milionari (*°64), Le prosperità d’ M6nssù Travet (*70), Bastian còntrari (’82); in lingua: Fra i due contendenti (*73), Uno zio milionario e Fratellanza artigiana (*76), Da galeotto a marinaio (’74 e °76), Il perdono (77). 10 Altre opere di Gallina: Le serve al pozzo (1873), Una scimia coi fiochi (*74), El moroso de la nona, La chitarra del papà e Zente refada (*75), Tuti in campagna (*76), Teleri veci (*77), Mia
fia (78), I oci del cuor e La mama no mor mai (’80).
Il teatro
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de quel senso de malesser che provava a trovarme in mezo a la zente! Che difarenza dai mii primi ani . .. La fede, l’ambizion de riussir a qualcossa, l’istinto de l’alto, a poco a poco, zorno per zorno spariva... Me so visto ridur un automa ... Respirando l’aria dela mia famegia gera rivà a vergognarme come de una bricohada...» (a. III, sc. 44). Questa drammaturgia, come quella di Bersezio, utilizza tutti gli elementi della commedia di carattere; tempi brevi, luogo unico — per lo più l’interno borghese — razionalizzazione dell’intreccio, che si pone al I atto, si sviluppa al 1 e conclude — felicemente — al mm. Diversa invece la drammaturgia di altri scrittori dialettali, che rivolgono la loro attenzione ad altri gruppi sociali e specialmente agli emarginati delle grandi città e perciò devono inventare nuove forme drammaturgiche, nuove unità di tempo, durate e luoghi scenici: è il caso del teatro milanese, che nasce da una feconda tradizione dialettale « colta », da
Carlo Maria Maggi a Carlo Porta, ma insieme da una tradizione espressiva « subalterna », dalle improvvisazioni musicali di Barbapedana al romanzo di Paolo Valera e Cesare Tronconi.
Tra teatro, lirica dialettale
e romanzo
gli scambi,
oltre che tematici, tecnici, sono notevoli: nella prima metà del secolo scrivono per il teatro Tommaso Grossi e Carlo Porta, nella seconda metà Carlo Dossi scrive Ona famiglia de Cilapponi. Al teatro in dialetto milanese dette un notevole impulso lo scapigliato Cletto Arrighi (cfr. $ 108), cui si deve la fondazione dell’Accademia del teatro milanese (vitale dal 1870 alla prima guerra mondiale), nata dalle nostalgie popolareggianti dell’ideologia scapigliata, dal suo interclassismo che elegge la città di Milano come centro di sperimentazione artistica e insieme di sperimentazione sociale. Sintomatica anche la storia dell’Accademia del teatro milanese: dapprima occupata dalla letteratura, ospitava le traduzioni in dialetto di testi comici francesi (La cagnotte di Labiche) di Cletto Arrighi e di altri: poi Edoardo Ferravilla (1846-1915), attore comico specializzato nell’invenzione di tipi e di variazioni linguistiche meneghine, ne farà un centro di sperimentazione attorica, di teatro attivo e in certo senso militante. Nel 1876 Ferravilla formerà una
compagnia stabile, che rappresenterà al Carcano La povera gent, nel 1893, e I sciòri, nel 1895, di Carlo Bertolazzi. È certo che questa struttura teatrale fu il primo strumento di affermazione e diffusione del teatro milanese, e dette modo a scrittori e librettisti come Luigi Illica (1857-1919), Antonio Curti (1858-1945), Decio Guiccirdini (1870-1918) di sperimentare i modi di una nuova drammaturgia che raggiunse la sua maggiore espressione in Carlo Bertolazzi (1870-1916). In questo tipo di teatro dialettale, diverso da quello di Bersezio e di Gallina, manca il protagonista, il carattere centrale, quindi manca il tempo di maturazione e risoluzione di una crisi del personaggio; diversi tipi si dispongono qui a rappresentare un ambiente, e se drammi psicologici si danno, questi si pongono in alternativa e antitesi alla rappresentazione ambientale. Tempi lunghi (fino a quattro atti) o tempi brevissimi (l’atto unico secondo l’insegnamento di Verga) oppure ancora un’alternanza di tempi lunghi e tempi brevi all’interno di
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uno stesso dramma, a rappresentare, i primi, l’impercettibile movimento degli emarginati dalla storia, i secondi il rapido scoccare del dramma individuale. Qualcosa di simile accade nella struttura del romanzo popolare di Paolo Valera: « La folla è un romanzo a flusso ininterrotto, privo delle partizioni canoniche in capitoli, ignaro dei meccanismi di trama o intreccio, esente da qualsivoglia architettura a diagramma chiuso ed articolato per agganci predisposti » (G. Viazzi, Appunti sulla prosa di Paolo Valera, in « Belf. », xxvitt [1973], 2, p. 208). Così funziona il dittico di Bertolazzi E! nost Milan, che comprende La povera gent, in quattro atti, e / sciòri, in cinque, e che fu composto dopo una serie di bozzetti in un atto (Ona scènna de la vita, In verzee, Al mont de pietaa), cioè dopo un lavoro di apprendistato alla rappresentazione verista. Come Carlo Porta, suo grande maestro, passa dal sonetto ai lunghi componimenti in sestine o in ottave sulle disgrazie dei suoi eroi popolari Giovannin Bongee, Ninetta del verzee o Marchionn di gamb avert, così Bertolazzi piega ai fini della propria rappresentazione la convenzione drammatica, l’uso dei tempi e dei luoghi. Si prenda ad esempio la prima parte del Nost Milan, La povera gent: i luoghi dell’azione sono quattro e rappresentano quattro luoghi di incontro popolare, cioè il Tivoli, un parco di divertimenti per i poveri, mendicanti, soldati, prostitute, ladri « popolani e popolane »; il cortile del Broletto, dove avviene l’estrazione del lotto; le cucine economiche; l’asilo notturno. Sono determinate le ore del giorno
(la notte, il pomeriggio, il mezzogiorno, la sera), ma indeterminato il lasso di tempo fra un atto e l’altro; infine, ogni atto contiene un quadro di ambiente e,
contemporaneamente, svolge un dramma, la storia cioè del Peppon e di sua figlia Nina che cadrà nelle mani del Carlocu, detto il Togasso, prepotente sfruttatore; Peppon ucciderà il seduttore, ma Nina sceglierà cinicamente la strada del benessere disonesto, opponendo all’etica dell’onore del padre l’etica dell’utile, la sola che gli emarginati possono progettare in un mondo che non si lascia progettare da loro. La struttura drammatica della Povera gent, la composizione aperta ai tempi e ai luoghi, perfettamente orchestrata tra coralità e storie individuali, pone quest'opera accanto ad altri prodotti del « populismo » tardottocentesco e primonovecentesco, accanto a Nel fondo (Na dne, 1902) di Maksim Gorki e al più recente Kasimir e Karoline (1932) di Odon von Horvath. L’azione del dramma si svolge nel 1890, in un’epoca cioè di intensi rivolgimenti socio-politici, in una grande città capitalistica come Milano comincia ad essere; da questo, il carattere europeo di tale rappresentazione; carattere che apparteneva alla cultura letteraria di Bertolazzi, come dimostrano le sue infinite variazioni sui personaggi femminili, fino a Lulù, rappresentazione italiana della donna fatale come la Lulù di Frank Wedekind lo era di quella mitteleuropea. Sono probabilmente questi i motivi che, recentemente,
hanno indotto il Piccolo Teatro di Milano ad una
rappresentazione del Nost Milan, prima parte, con la regia di Giorgio Strehler, la cui rappresentazione parigina, nel luglio 1962, ha provocato un intelligente e fazioso saggio dello studioso marxista Louis Althusser dal significativo titolo Bertolazzi et Brecht. Notes sur un théòtre matérialiste; intelligente per quanto
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riguarda l’interpretazione del dramma bertolazziano, rigido nelle generalizzazioni implicite o esplicite. Nel Nost Milan il critico francese nota come la struttura di tempo e luogo aderisca non ad una convinzione ideologica dell’autore ma a una realtà sociale che segue gli entusiasmi quarantotteschi e testimonia il lungo tempo di attesa del popolo che, in miseria, non si identifica più coi fatti della storia; il tempo dell’azione corale è, nel dramma, tempo vuoto, senza termini
e senza scopo, com'è il tempo storico del sottoproletariato, che attende ma al quale non succede mai niente. Alla visione realistica del popolo si oppone, in rapporto dialettico, la visione mitica, la storia patetica di Peppon, Nina e del Togasso, che risponde alla falsa coscienza del padre, alla sua adesione ideologica a temi morali che non dovrebbero appartenergli: la loro vicenda, nota Folco Portinari, « potrebbe essere inserita o tratta dai ‘“ racconti mensili ’” di De Amicis ». Si veda il Im atto di Povera gent: alle cucine economiche si svolge una povera conversazione, qualche sottoproletario parla di industria, di politica « mais è peine et encore mal. C’est l’envers de Milan, 20 ans après la conquéte de Rome et les fastes du Risorgimento » (L. Althusser, saggio cit., in Pour Marx, Parigi 1966, p. 132); poi appaiono le due figure maschili del dramma, o melodramma, e il padre uccide il seduttore della figlia, in un tempo rapido e « pieno », ma di un gesto tanto irreale quanto le chiacchiere del coro popolare erano «vuote» di realizzazione.
[ALLE CUCINE ECONOMICHE] Ampio locale destinato alle Cucine Economiche. La comune a sinistra. Una finestra a destra. Una tramezza in fondo. Nella tramezza tre sportelli. Sopra gli sportelli sta scritto : « Minestra », « Pietanze » e « Pane, Vino ». In alto una lapide colla scritta : « Nome dei Benefattori ». Tre tavoloni disposti perpendicolarmente alla scena colle rispettive panche di legno. Paoloeu dietro lo sportello « Minestra » distribuisce le minestre ; altri due impiegati per la distribuzione si vedono al di là della tramezza dietro gli sportelli « Pietanze » e «Vino». All’alzarsi della tela, popolani seduti dinnanzi ai tavoloni mangiano in silenzio. Quando un avventore ha finito di mangiare porta il piatto all’impiegato che trovasi dietro la tramezza e se ne va. Destra e sinistra dello spettatore.
Scena prima CeccH, CESER, seduti, mangiano. GASPER, in piedi, presso lo sportello « Minestra » in atto di ritirare la scodella. Sul primo tavolo è posata la sua fisarmonica. PAOLOEU dietro la tramezza. Popolani che mangiano.
I. CarLo BeRTOLAZZI, E! nost Milan: La povera gent, a. III, sc. 18-38, da E! nost Milan,
a c. di F. Portinari,
Torino
1971, pp. 41-5.
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Gasper Cià! on’altra tazzina, e lassa che la vaga! PaoLoru [allegro] La te pias incoeu 2, eh ? Te la voeuret rara o spessa? GasPER En vui tanta... PaoLogu Tanta, tanta, quel che te và, nè pù, nè men! Gasper No, con sù la pigna. Ceser [mangiando] Quell li el mangiaria anca i tavol! GasPer Propri de bon! L’è l’aria fina de Milan? L’è la fisarmonica che mett addoss ona famm birbona? le sa Dio! Ceser [scherzando] Mi disi che l’è la fisarmonica... Gasper Gh’hoo idea anmi! Insomma, cred o no cred, per fà sù assee3 de minga andà a dormi al scur, bisogna che faga passà tutta Porta Tenaja! gh’è in gir voeuna de quii bolett 4 che fa paura! [con naturalezza) Pazienza la bolletta, che s’ciao 5 ormai, in la miseria gh’hoo fa denter l’oss, ma el mal l’è che di volt se ravana 6 quaicoss d’alter. [Fa cenno alle percosse, poi siede e mangia] CeccH [un bel vecchio di settant'anni. Tipo del veterano borbottone|] Per esempi? GasPeR Per esempi de ciappan sù ona frega” come me capitaa l’altra sira alla Montagnetta! [cambia tono di voce, indicando la minestra di Cecch, con ironia] Ehj, se ghe fà mal i dent mangiand i verz, che mi e daga pur a mi... CeccH. [rabbioso] Sha de fàm mal i dent, che ormai ghe n’hoo pù? Mi gh’hoo ona bocca che biassi8 anca i sass!... GasPeR
El soo, el soo!, adess a mont; mi vorevi domà? digh che se per caso el
trovass ona quai codega 19, e che a li la ghe piasess no... Ceser [subito] In sta minestra l’è assee trovagh denter i barbis!! di codegh, quest gh’el disi mi! CeccH Ehi! Se ne imbrocca voeuna!? ogni mort de vescov!... GAsPER [scherzoso] E tutt perché? perché voeuren minga che faghen pés!3 a on stomeghin delicaa come el sò ... CEccH [piccato] Cos'è, delicaa ? delicaa el mè stomegh? Ma el sa no che in del quarantott hoo faa el mè dover? GasPER Jesusmaria che brutt caratter gh’è vegnuu!! Se pò pù parlà con li! CeccH. Minga domà i codegh ghe mangi, ma on porscell intregh!4 s’el voeur! Gasper CeccH
Credi, credi, gh’è bisogn de vosà 15 insci tant? Le sà che sont bon, eh?
GasPer Oh el soo ch’el gh’ha famm! CeccH [riscaldandosi] Ma che famm, che famm d’Egitt! L’è la forza natural che gh’ho in del sangu! Mi coi mè settant’ann sui spall, sont pussee giovin de li! La generazion che ven sù adess l’è tutta da strasc!16 CEser Ma se l’ha fada ld!
1. 2. 3. 4.
Cià: Prendi (ciappa). incoeu: oggi. per...assee: per raggranellare abbastanza. voeuna de quii bolett: una di quelle micragne.
5. s’ciao:
6. 7. 8. 9.
schiavo,
ciao.
ravana: raccoglie. frega: fregatura. biassi: mastica. domà: soltanto.
10. codega: cotica. 11. : barbis: i peli. 12. voeuna: una.
13. voeuren...pés:
l
non
peso.
14. intregh: intero. 15. vosà: vociare. 16. da strasc: da straccio.
vorranno
mica
far
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Il teatro
CeccH
Mi hoo faa on bell nient, mi...
Ceser
[con malizia] Ah! l’è per quel ch’el s'è conservaa insci ben!
Scena seconda BIGETTA
e detti.
BIGETTA [tipo della popolana milanese buona e allegra] Bon appetitt a tutta la compagnia. [va allo sportello « Minestre » e ritira la sua scodella dopo aver dato una « marca » all’impiegato] Ceser Te la chi quella che porta l’allegria! Lee l’è semper contenta, lee de dispiasè ghe n’ha mai! Bicetta Oh Dio! de dispiasè ghe n’hoo ancami come tanti alter! Ognun g’ha i sò a stoo mond! Soo de fagh, mi la ciapi come la ven, senza stagh sòra tant ai robb! Se dovess casciamm!, guaj! bisognarfa che fuss in collera col mond intregh tredes mes all’ann! Quand el mè Giovann el ven a cà prest e el ciappa minga la ciòcca 8, mi sont felice, cambiarfa minga cont on scior. [si stede e mangia] CESER Ah, la ghe voeur semper ben al sò Giovann, vera? BiGETTA [mangiando] Ma com'è? hoo minga de voregh ben? Quel calaria!!9 se ghe fuss minga quell benedetto lunedi! Ceser [ridendo] El ciccia 29, el ciccia, quell boja, eh? BIGETTA [vivace] El par on fioeu de tetta?! addirittura ... Ceser Che la me daga a trà a io ?2; quand el donda ?3, on quai scuffiottin 24 el fà mai mal, tant per tegnil in riga... BicettA Ma disi, el diventa matt? Pover diavol an li! el lavora come on’anima dannada tutta la settimana! Santi Dei, alla fin de l’ascia già 25, dent per dent, bisogna ben che se le ciappa on quai sollazzo ... Ceser [gentile] Cont ona bella mierina 28 come lee... BicetTtA
Ehi, el voeur rid? El sa cosa foo mi quand lè in cimbalis ??, quand el
me stà li di or in mezz alla stanza a famm vedè che lè bon de sta sù cont ona gamba sola? Ghe foo per tutta nott el muso duro; nanca ona parola ghe disi, stoo lf quietta quietta, quaccia quaccia, sotta ai covert, e alla mattina poeu, appena ch’el Trani l’è passaa ...28
CEsER [con intenzione] Tombola! BicetTA [naturale] Ma che tòmbola d’Egitt! se rivom nanca all’ambo! Alla mattina, el capis, ghe paghi mi de bev! ghe doo on cafferin de quii taj col zucchero Pilato, insci el dessedi .
.?9
Ceser E dopo? BIGETTA [pausa] Dopo, ghe perdoni; lù naturalment, e la pace è fatta! 17. 18. 19. 20. 21. 22.
casciamm: accasciarmi. la ciòcca: la sbronza. Quel calaria: Ci mancherebbe! ciccia: beve. un fioeu de tetta: un lattante. Che...to0: Mi dia retta.
23. donda:
è ubriaco.
24. 25. 26. 27. 28. 29.
el giura de cambià vita,
scuffiottin: scappellotto. alla fin...già: alla fin fine. mierina: mogliettina. lè in cimbalis: è sbronzo. ch’el Trani l’è passaa: che la sbornia è finita. insci el dessedi: così si sveglia.
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Ceser Donca l’è propri felice? BiceTTA Felicissima! Del rest cosa me cala 80 a nun? nient. Sem pover Crist, quest l’è vera, lavorom per viv, ma chi ai Cusinn se mangia con poch; se restom all’aria aperta ghem tant de Asili notturni; quand semm malaa gh’è l’Ospedal; el Governo el m’ha fina concess on fior d’on Lott 8! per tenere il cuore aperto alla speranza; cos'em de vorè ancamò ?3? di bott?88 Evviva Milan, el prim sit del mond! ... [ride da spensierata]. Ceser Evviva la soa faccia! Quand la parla lee, se sent a slargà el fiaa! L’è tanto rar trovass cont della gent de coeur, cont di bon milanes come lee! CeccH [a Gasper come continuando un discorso incominciato] Figuret Gasparin che mi s’era dedree d’ona carrozza larga minga de pi de stoo tavolj quii moster de magnasèv 34 eren lontan de nùn dusent pass, a di tant! BicettA Miracol ch’el parla del quarantot! Ceser [scherzando] El se scalda l’eroe della Sesta Giornata! CeccH [alla frase : eroe della sesta giornata, si alza di scatto come spinto da una molla, rosso in volto per l’ira, col braccio teso în aria di minaccia, forte] Ch’el ritira quella parola! che le ritira in nome di Dio! CeseRr El diventa matt! CeccH [più forte] Che le ritira, ghe ripeti! se de no foo on sproposit!... Eroe della sesta giornata a mi? A mi?!!! Mi, se le sà no, gh’hoo el mè passaport in regola! Mi el mè dover l’hoo faa, minga compagn de lù, che intanta che nùn s’erom là a ris’cià la pell, per i alter, lù l’era anmò in d’ona sverza! 35... Ch°el ritira... miserabile!
CeseR Hoo dit inscî per rid!... Ch’el se calma... CeccH Se disen no per rid certi robb! [calmandosi un po] Voraria avell vist lù mi, in quii moment là, quand fioccava giò ball de tutt’i part! GAsPER [malizioso, fra sé] E che ball!
Cecci
Cosa thee ditt?...
GasPER [c. s.] Mi? nient; mi mangi... [strizza l’occhio] CeccH Ah! perchè me pareva ... [torna a sedere borbottando con aria sospettosa ; gli altri discorrono fra loro piano]
Scena
GiovannN,
MARTIN,
terza
PEDER, LUISIN e detti.
[Tutti vanno a prendere la minestra] Giovann [dalla comune; come continuasse un discorso incominciato] Che vaghen all'inferno noeuv el padron, l’ingegnee, el capmaster. .. MARTIN E i operari insemma! GIovaNnN Bravo vuj, te voeut mandam an nùn?...
30. 31. del 32.
me cala: mi manca. on fior d’on Lott: un fior fiore Lotto. ancamò: ancora.
di banco
33. di bott: i botti? i fuochi d'’artificio?
34. quii moster de magnasèv: quei mostri di mangiasego; cioè gli austriaci. 35. la ...sverza: lui era ancora in un cavolo; cioè non era ancora nato.
180
Il teatro
MARTIN Giovan
[solenne] Ma nùn sem minga operari. Noi siamo costruttori! Ah sf che l’è vera!
MARTIN
Perchè, on cunt l’è vess operarî, e on cunt l’è ves...
PepER Cominciee no per l'amor di Dio a fà di discussion seri!! sem minga all'Arena 86, vedii! Adess l’è ora de trà in castell?37 donca mangièm in santa pàs!... Luisin [a Paoloeu; parla bosino88. Tipo del muratore di campagna ignorante e sospettoso] Va raccomandi, a sont maraa! 8° PaoLoEu Se gh’avii? Luisin A ghoo ol fregior! 99 PaoLOEU [ironico] Allora ve la daroo rara 4! per mettev a post el stomegh neh! LuIsin No, per l’amor! la vuj spessa, ma spessa ben! PaoLoEU Ecco spèssa! [Luisin prende la minestra e và al tavolo ; siede e mangia]
DEC
II. [L'OMICIDIO DI PEPPON] PePPON
dalla comune e detti.
TuTTI Tel li el Peppon! GasPER ‘Se diavol! Ti ai Cusfnn? [El Peppon non risponde. È preoccupato e di cattivo umore] CeseR Vuj, te me paret invers!, ma ben! PepPon Mi? Sont mai staa content come incoeu! ? Gasper Lassèmel in del sò broeud. [a Cecch] Come l’era quella canzon? [Cecch dà il braccio a Gasper, poi ripigliano sottovoce il ritornello di prima e se ne vanno canticchiando sottovoce] Guarda Giulay? che ven la primavera, se guardarem in cera 4 coi bombol e i cannon. [Via per la comune] Ceser [al Peppon] Te spettet quaidun? 36. all’ Arena: stadio milanese dove si tenevano anche i comizi. . de trà în castell: di mangiare. . bosino: dialetto contadino dell’alto Milanese. . maraa: malato. . ol fregior: il raffreddore. . rara: lenta, brodosa (la minestra). Il popolo, nota Althusser, non ha altra storia ormai che nei sogni e nei rimpianti di un 48 che l’aveva chiamato a contare qualcosa e ormai è solo un ricordo; sul tema dell’estra-
neità al presente di Povera gent. II. CarLo
ruotano
BeRTOLAZZI,
tutte le scene
Milan:
La
povera gent, a. III, sc. 58 e 68, dall’ed. pp. 50-3. 1. invers: di cattivo umore.
cit.,
2. incoeu: oggi. 3. Giulay: feldmaresciallo
E/
mnost
corali
austriaco; divenne governatore della Lombardia nel 1859. 4. se...cera: ci guarderemo in faccia.
$ 71.
Il teatro in dialetto nell’Italia settentrionale
PePPON
181
[serio] Mi no, perché?
Ceser Inscî, me pareva ..., PePPON [cupamente] T’hee vist el Carloeu?
Ceser Che Carloeu? PePPON [piano] Si, el Togasso ... Ceser
No, e si ch’el ven chî tutt’i mattin!
PePPON Grazie. Ceser Ciao vuj. [via per la comune] PepPon Saludi! [si guarda attorno. Nello stanzone è solo, si avvicina allo sportello : « Vino >] PaoLoeu Minestra? PePPON PaoLoEU
No, on lumin!5 [versa in un bicchierino della grappa] Ecco el lumino.
PePPON [beve] E adess, on sottovoce. PaoLOEU [ride poi versa un altro bicchierino] S'el voeur ciappà la ciocca? PePPON [scherzoso alludendo alla poca quantità di liquore contenuta nel bicchierino] Ciapà la ciocca con stii robb chi? Paren settimin! PaoLoeu L'è allegher incoeu... PePPon [ironico] Quand i affari van ben se va giò de gross! PaoLoEu Bravo Peppon, insci và faa! [vedendo el Carloeu entrare dalla comune] Ehj, gh’è chi el Togasso; quell che stoffa!
Scena sesta CARLOEU
dalla comune
e detti.
PePPON [con un brivido, fra sé] Spettavi propri lù! [si allontana un po’ senza guardare Carloeu] PaoLoeu [a Carloeu] Minestra? CarLoEu [si avvicina allo sportello, sprezzante] Mangi minga mi de quella roba li! siamo ricchi noi, sicuro, viviamo
di rendita!
PaoLoEU E che rendita! CarLoeu [violento, subito] Ste brontolet? PaoLoEU [pauroso] Mi? nient! [versa un bicchierino] CarLoEU Ah! poch ciaccer: damm del rhum, ma vuj, giamaica, ch’el sia sceff, se de no tel tiri adree! [saluta con un gesto el Peppon] Saludi. PePPON [con voce tremante] Gh°hoo de parlatt. CarLoeu [beve] A mi? [fissando al Peppon] Se gh'è? [Vengono sul davanti Carloeu e Peppon. Prima parlano sottovoce poi inveendo con forza sino alla soluzione. Paoloeu si ritira] PePPON [serio] Dò paroll, e nùn se spiegom! CarLoEu [sempre insolente] Disi, in pressa perchè mi gh’hoo minga temp de trà via $. 5. on lumin: un grappino (e, sotto: voce, con lo stesso significato).
on sotto-
6. temp de trà via: tempo da perdere.
182
Il teatro
PePPON Tel set che te cercava... CarLoeu EI soo! [ironico] E ringrazi quell lassù d’aver avuto l’onore di incontrarla! PEPPON [con voce sempre più tremante] Te savaree forsi anca el perchè .... CarLoEu [subito secco] Io non so nulla e ci tengo a dichiararlo! PePPON Fall no, che se capissom! [breve pausa] Tel see no? Allora tanto mej! Mi te diroo ona roba sola: [con voce strozzata, fissandolo] pientela, e lassa sta la gent. CarLoeu [subito con violenza] Pientà cosa? cosa pientà? PepPon Lassa sta la gent! CarLoeu [brutale] Che gent? PepPon [con dolore] Ti jer te gh’hee daa!” CARLOEU [negando sfacciatamente] L'è minga vera! PePPon La gh’aveva on brasc che sanguanava, e te see sta ti, brutta canaja, ti te see staal [con orgasmo crescente] Di minga de no, veh! Perché s’te gh’hee di reson de fa foeura8, ciapetela no coi donn, che l’è minga de... Togasso, ma ciapetela con mi s’te gh’heet el fidegg!® [lo guarda con aria di sfida]. CarLoeu Fa piasè, fa piasè, fall pù el pajasc 19, che semm minga al Tivoli!!! ... PePPON [lo piglia per lo stomaco e lo scuote violento] Pajasc a mi? brutt vigliacch! [imperioso] Ti te la lassaret, e subit, perchè mi vuj no! CarLoeu [terribile con un urto liberandosi dalla stretta] Giò quii man pivel! [Peppon lo lascia] Giò chi man, e ringrazia el tò Santo protettor che te see vecc e rimbambii, perchè se no a st’ora te seret già de là! ... PEPPON [con passione, straziante] Mia tosa l’è roba mia, l’è el mè sangu! CarLoeu [insolente sillabando] Toa tosa l’è la mia morosa, e la sarà semper mia! PePPon [minacciando] Carloeu, guarda cosa te diset! CarLoEU [c. s.] E vuj fan quell che voeuri mi, tegnetel ben a ment, ona volta per semper! Fai pur minga i oeucc!?, ch’el Togasso el se stremiss no 18 l’istess! [sottovoce, molto provocante] Vuj dagh sî, vuj dagh no, vuj dagh quand me par e pias, e el borsin el vuj semper pien! guarda pajasc! [rivelando tutto il suo cinismo leva di tasca delle monete, le scuote in mano poi terribilmente ironico] Ti sentet ? Quisti hin danee de toa tosa! [st avvia verso il fondo poi si volta e ridendo sguaiato in faccia al Peppon dice] Saldato! PePPON che ha subìto come una specie di trasformazione, non si frena più, dà in un urlo di rabbia, di passione, di dolore, si slancia con tutta veemenza su CARLOEU. I due uomini st abbracciano, si stringono, cadono, si morsicano con ira, con vera ferocia. A terra
rotolano fin sotto le tavole : si vede CARLOEU estrarre un coltello, PEPPON glielo strappa di mano e colpisce più volte l’avversario. CARLORU dà un grido, fa per rialzarsi, poi cade. PEPPON st alza sporco di sangue, i capelli irti, spaventatissimo, pallido in viso, butta lontano il coltello, e fugge. CARLOEU rantola, dà un gemito e muore. Cala rapidamente la tela.
7. Ti...daa: Tu ieri l’hai picchiata (allude a sua figlia Nina). 8. de fa foeura: di dare in escandescenze. 9. fidegg: fegato, coraggio. 10. pajasc: pagliaccio. 11. al Tivoli: luogo riservato alle fiere e ai luna park, nei pressi dell’Arena. 12. oeucc: occhiacci. 13. el se stremiss no: non si spaventa.
Peppone uccide per una « legge morale borghese » che
cadrà,
alla
fine
del
dramma,
di
fronte «alla diversa consistenza logica, d’altra estrazione, della figlia » (F. Portinari): « nous avons à faire à une conscience mélodrammatique critiquée par une existence du sousprolétariat milanais en 1890» (L. Althusser).
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Il teatro in dialetto nell’Italia settentrionale
183
Della seconda parte del Nost Milan (I sciòri) è protagonista l’unico personaggio vincente della Povera gent; Nina, abbandonato il quartiere, l’ospizio dei poveri, è diventata una prostituta di lusso e si fa chiamare Belle Helène. Diversa l'ambientazione e diverso il dialetto, più civile e mondano; qui prevale il moralismo e la satira antiborghese condotta dal punto di vista borghese dell’opposizione tra denaro e onestà: nuova dame aux camélias ma, ancora una volta, di tono
raziocinante e borghese, Nina lascia libero l’uomo amato per non comprometterlo con una prostituta qual è (così comincia anche quel gioco delle parti, dei ruoli sociali o familiari che piacerà molto al ’900) 11, Tra
le numerose
opere
dialettali milanesi,
vale ricordare,
come
esempio
specifico di delusione postrisorgimentale, La guéra di Pompeo Bettini (1862-96), in quattro atti, tradotto in dialetto da Ettore Albini (autore di importanti cronache teatrali) e rappresentato nel 1901. Altri centri di teatro vernacolo: Firenze, con Augusto Novelli (1867-1927) e Bologna, con Alfredo Testoni (1859-1931), autore di un’opera in lingua di grande successo, // cardinale Lambertini, un tentativo riuscito di rendere popolare un grande prelato e perciò un cavallo di battaglia del grande attore Zacconi. Anche il teatro dialettale, come quello in lingua, vive del contributo determinante del grande attore, da Grasso a Musco. Un'altra scuola di attori, in cui l'ambientazione popolare, le tinte accese della passione sono spinte fino alla parodia è il così detto Grand Guignol o teatro del terrore, importato in Italia dalla Francia alla fine del secolo e che riscosse grande successo di pubblico agli inizi del ’900, grazie alla compagnia di Alfredo Sainati e Bella Starace. Gramsci, nel 1917, decretando la morte del Grand Guignol, ne forniva anche una definizione
sociologica ineccepibile quando rilevava la sua rispondenza ad un gusto borghese che «vuole l’impressione della vita fittizia della suburra, del bassofondo », che gode di quelle « figure da incubo » di un «realismo truce e ingenuo »; nonché una definizione estetica quando rilevava il valore « plastico » di quelle scene e figure da incubo. Del resto, un gusto grandguignolesco era presente anche nel teatro borghese « serio ); si pensi a Sperduti nel buto di Roberto Bracco, ridotto per il cinema nel 1915 da Nino Martoglio, con la scena iniziale in una bettola, col suonatore cieco e la bambina destinata al marciapiede e poi con le eleganze vampiresche dell'ambiente aristocratico del II atto; oppure a Maschere dello stesso autore, sul suicidio di un’adultera incinta e sulla vendetta del marito che
pretende dall'amico che l’ha tradito il pieno rispetto delle forme. Si tratta di un Grand Guignol psicologico che recupera il romanzo d’appendice e che finirà poi nel cinema muto e nei films gialli del cinema sonoro.
11 Altre opere di Bertolazzi: La trilogia di Gilda (1889), La lezione per domani (°90), Ona scènna de la vitaa (91), Al mont de pietaa (92), In famiglia (*93), Strozzin! (’94), La maschera (996), La gibigianna (*98), L’egoista (1901), La casa del sonno (1902), Il diavolo e l’acqua santa (1904), La sfrontata (1907), Il focolare domestico (1909), I fratelli Bandiera (1916).
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Il teatro
Il teatro napoletano: Antonio Petito, Eduardo Giacomo
Scarpetta, Salvatore Di
Anche il teatro dialettale dell’Italia meridionale rispecchia la grande città sovraffollata e miserabile; gli incontri caotici che la piazza provoca, rivelando più l’isolamento e l’inimicizia degli individui che la loro solidarietà (diversamente da quanto avveniva nei campielli goldoniani, dove l’utopia sociale dello scrittore collocava i momenti di incontro di tutte le classi cittadine); i sogni evasivi che il gioco del lotto favoriva e deludeva; i luoghi deputati della vita familiare e del lavoro (i « bassi », le bettole, la miniera) oppure del castigo e della drastica educazione sociale (i tribunali, la galera). Sono temi che caratterizzano la drammaturgia delle classi subalterne settentrionali e meridionali, il teatro dialettale milanese e quello napoletano o siciliano (i Mafiusi di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto, rappresentato al Sant'Anna di Palermo nel 1863, U° riffanti di Nino Martoglio, rappresentato al teatro Olimpia di Milano nel 1916, La zolfara di Giuseppe Giusti Sinipoli). Tuttavia alcune differenze sono subito evidenti; il teatro dialettale milanese arriva ad individuare, con Bertolazzi, i termini del conflitto fra ideologia, ovvero falsa coscienza, e condizione sociale dei ceti subalterni (così
il conflitto fra padre e figlia nella Povera gent), oppure la doppia morale erotica e familiare dei ceti borghesi nei Sciéri; perché il retroterra storico delle prime lotte operaie e delle loro organizzazioni gli consente di storicizzare i suoi « popolani e popolane », così come la presenza di una forte borghesia industriale, produttiva e intraprendente, gli consente di sottoporre quella stessa borghesia alla critica della sua moralità o di prospettare il fallimento di quei personaggi — per lo più femminili — che tentano il passaggio da una classe sociale all’altra con la sola intraprendenza, calcolo o passione individuale. Da questo, l'ampiezza delle proposte drammaturgiche di Bertolazzi, il moralismo che affiora nei suoi drammi, la univocità tragica, infine, delle loro soluzioni.
Diversa la situazione storica di Napoli, capitale meridionale della grande città, ma
sovraffollata, disoccupata,
coi caratteri
costretta all'emigrazione;
con
importanti istituzioni culturali (giornali, editoria, teatri) e con un omogeneo gruppo di intellettuali che denunciano i termini politici e sociali della « questione meridionale », che penetrano nel « ventre » della metropoli arretrata e ne denunciano i contrasti, le disfunzioni, gli arcaismi; che tuttavia sono costretti ad emi-
grare, sia pure solo ideologicamente, nelle capitali culturali del Nord (Roma, Firenze, Milano, Torino) se aspirano alla diffusione dei propri prodotti; che infine sono in certo senso costretti a presentare il proprio mondo di origine come luogo del primitivo e dell’intatto, come luogo dello scatenamento passionale, dell’irrazionale e dell’arcaico. Si costruisce così un paradosso: che quanto più la coscienza degli intellettuali, degli artisti, dei drammaturghi meridionali è italiana o europea, tanto più deve pagare lo scotto al « colore locale ) o a generici miti populisti perché il loro prodotto circoli e venga accolto dalla cultura ufficiale;
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Il teatro napoletano
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l’altra strada è che l’intellettuale meridionale perda i suoi caratteri originari e rinunci alla testimonianza di quel mondo due volte subalterno che è il mondo subalterno meridionale. Le due strade saranno entrambe percorse da Pirandello e spiegano la preferenza di Gramsci per il drammaturgo «siciliano » rispetto al drammaturgo «europeo ). Per questi motivi, il teatro napoletano tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900 si presenta come un micro-modello delle varie tendenze e esiti del teatro nazionale; tendenze tutte espresse a un notevole livello di incandescenza, sia nei suoi aspetti tradizionali derivati dalla volontà di rivolgersi ad un pubblico nazionale, che nei suoi aspetti di novità, destinati però all’isolamento della « dialettalità ». Nel primo caso, la specializzazione napoletana tende al melodrammatico, al patetico o al Grand Guignol psicologico; nel secondo tende al comico, al parodistico, al dissacrante; ed entrambe le componenti troveranno felici momenti di sintesi nel °900, in Raffaele Viviani o in Eduardo De Filippo. I motivi di tale vitalità della cultura teatrale a Napoli sono molteplici e dipendono in gran parte dalla sua precedente posizione privilegiata di capitale dello stato borbonico; da questo, il buon numero e l’efficienza degli edifici teatrali e l’assuefazione del pubblico allo spettacolo, anche di piazza. Come per la cultura teatrale milanese, la tradizione napoletana si arricchisce, alla fine del xIx
secolo, dei rapporti e degli scambi con la narrativa e col giornalismo di Matilde Serao (cfr. $ 60), di Edoardo Scarfoglio, di Salvatore Di Giacomo, e si arricchisce anche del tipo di cultura europea, francese e tedesca, degli intellettuali napoletani, che si riflette nel teatro con continui aggiornamenti; così l’ibsenismo e l’espressionismo avant-lèttre di Roberto Bracco. Ma il successo nazionale di Torelli e Bracco, pagato dalla loro drammaturgia con molte concessioni verso un’ideologia conservatrice che mal corrispondeva alla novità delle situazioni proposte, non si ripete per la produzione teatrale in dialetto, scarsamente diffusa e relegata al ghetto della comunicazione dialettale; comunicazione ritenuta particolare e subalterna per la sua stessa struttura dialettale, in realtà strutturalmente inadatta solo a tramandare i temi ideologici di cui la classe egemone italiana aveva investito il teatro, e perciò destinata all’isolamento dialettale, cosa che del resto
accadeva anche alla produzione milanese di Bertolazzi. Nato fuori di ogni tradizione culturale che non fosse quella del palcoscenico e della recitazione; erede peraltro della tradizione culturale della Commedia dell’arte, della farsa, del teatro di piazza e dei burattini, Antonio Petito (1822-76),
figlio di Salvatore, grande Pulcinella, sottopose, come autore e come attore, gli atteggiamenti retorici della vita e della letteratura agli acidi di una satira dissacrante e alla secca meccanica di una comicità che prelude il futuro cinema comico. Il teatro di Antonio Petito si pone in direzione diametralmente opposta a quella del teatro bertolazziano; il registro dello scrittore milanese è moralistico, melodrammatico,
tragico, quello del napoletano è comico, farsesco, irridente, grazie
al processo di « aggiornamento » cui sottopose la maschera napoletana di Pulcinella, e all'invenzione di un tipo di borghese fatuo e squattrinato, che si chiamò
Il teatro
186
Don Felice Sciosciammocca e che fu il primo ruolo di Eduardo Scarpetta. Il Pulcinella di Petito, sul quale, com’è stato notato, è ben passata la riforma goldoniana, lavora, ha famiglia, abbandona gli stereotipi della fame e delle botte per rappresentare la miseria tragicamente introiettata dalla plebe cittadina e divenuta il suo modo comico di vivere.
[PULCINELLA DON
FELICE
CIABATTINO
E
SCIOSCIAMMOCCA]
Camera terranea meschinamente arredata, abitata da PuLCINELLA e nella quale vi esercita il mestiere da ciabattino — A destra, porta d’ingresso aperta — A sinistra, una porticina che mena in cucina — In fondo, a sinistra, un letticciuolo ; a destra un tavolino sul quale sono deposte una fascia, una cuffia ed una camicia. Sul davanti della scena, a sinistra, un cestone adibito ad uso di culla nel quale un bambino in fasce, ed accosto una sedia — Fra l’uscio e la culla, sempre davanti, a destra, un panchetto per ciabattino con
sopra tutto l’occorrente per lavorare. Accosto al panchetto, due sedie — Ciabatte e forme sparse per terra.
Scena prima PULCINELLA în giacca logora, berretto con visiera, con antesino*, seduto, davanti il suo
panchetto, intento a rattoppare ciabatte. RITA in abito di percale, con grembiale nero, fazzoletto sulle spalle, seduta, intenta a cullare il bambino.
PuLcINELLA [martellando con forza sulla suola di una ciabatta] Dàlle dà!... Mannaggia l’arma? de’ ssòle ... e comme so toste. Aggiu rotte pe mo tre suglie! Pe st'accunciatura a sta scarpa aggio fatto ’o patto tre solde, e i ssuglie stanno cinche solde l'una... Nce vonne ‘e refosa 3 dudece solde e a’ fatica. Hanno ragione ’e mercante de scrivere ncopp’ ‘e pputeche 4 « Liquidazione volontaria ». RITA [con collera, a Pulcinella] A buje sulo succedono sti disgrazie... Io sa che saccio: che masto Chieppe, ’o scarparo derimpetto, pure fatica comm ’a buje, e guadagna bbuono e dà a mangià ’a famiglia. PuLciNELLA Che ragione è chesta. Chille travaglia a la francese; ... io travaglio all'italiana. RITA ([c. s.] E mme facite murì ’e famme! PuLcIiNnELLA E perciò andiamo nel numero dei martiri. Rita E che martire e martire! ... Io sola so mmartorizzata tutt’ ’a jurnata, cu
I. ANTONIO PETITO, Don Felice Sciosciammocca, creduto quaglione ’e n’anno, a. unico,
2. l'arma: l’anima. 3. ’e refosa: di rimessa.
sc. 12-22, Napoli 1900, pp. 3-10. 1. antesino: grembiule.
4. ’e pputeche:
alle botteghe.
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Il teatro
napoletano
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stu guaglione che bo essere vucato 5 d’’a matina a la sera! Ogne tantillo ... ‘a pappa . .. mo ‘a pupatella 6 e . . . figliola, figliola m’ aggia chiagnere ’e juorne micie, senza speranza de puterme fa na magnata a gusto mio. Ogne gghiuorno fasule, pastenache ?, cocozze, cìicere e chichierchie! 8 PuLcineLLA Robba corroborante, intofosa? ed indigeribile che resiste nelle viscere al basso ventre. RITA [con risentimento] Mo mme coffiate 10 pure appriesso ?! PuLcineLLA Tu che buò da me, si la sorte mme perseguita sempe! Mme spusaje a mammeta cu na dote ’e cincuciente ducate che mme dette o pate ... Vaco pe cagnà ’a polesa !! che mme dette e, ... n’ato ppoco jevo ngalera, perchè era fauza ... Avett’ ’a casa fatta e ‘a biancaria a dudece a dudece ... Pigliaie possesso d’’a casa ’a primma notte; quanno fuie ‘a matina nne fuieme cacciate io e mammeta da dint’ ’a casa. Rita E pecchè? PuLcineLLA Pecchè chilli mpise!? d’’o pate e d’ ’a mamma avevano affittata ’a casa pe na sola notte, e ’a robba non era d° ’a lloro. A polesa era fauza e... ’a matina appriesso avette da pavà l’affitto d° ’a casa, sinò abbuscavo. E pe ppoco nun ghiette ngalera. RITA E pecchè tutto chesto? PULCINELLA Pecchè ’o pate ’è mammeta era nu fiero jucatore; e pe se levà mammeta da tuorno, mme la fece sposà a me, promettennome nu sacco e’ cose e dicennome ch’era ricca. Comme jette a fenì?... Che n’ato ppoco avevo da dà a mangià puro ’a isso! Non avenno addò ì, mme ne jette ncoppa ’a lucanna!3 d’’a commara mia; llà mme pigliaie na cammarella; armaie 14 °o bancariello e facette casa e puteca, senza pagare i diritti di mostra, de vetrine e de tenna. Llà pò, mammeta ascette prena de te e te figliaje. RITA [con curiosità] Facisteve festine? PULCINELLA [con ironia] Te pare!... N’ato ppoco non te vattiave 15 manco, pecchè afforza vulevano essere pavate ’e dritte d’ ’o vattisemo. RITA [meravigliata] Uh! mamma mia... e che miseria! PULCINELLA Stette cujeto 16 diciott'anne ... E a mammeta non Ile venette ncapo de fa cchiu figlie, vedenno le mie finanze ridotte malissime. Non saccio comme ‘o diavule nce mettette
’a coda! N’anno fa, mammeta
ascette !? gravida n’ata vota, de chisto
cetrolillo 18. [indica il bambino nella culla] ’A commara lucannera l’appuraje !9 e nce ne cacciaie nobilmente da coppa ’a lucanna. Mammeta, chillo juorno era de sabbato, pigliaie n’ambo
’a bonafficiata 29; arremediaje cinche piezze ?!, e accussì, siccome
steva
sta putechella a spasso 22 dette na mesata ’o patrone ’e casa; mme facette chillo strappuntino ’e lietto, addò essa murette nfiglianza ?3, lasciandomi in eredità le sue immense ricchezze! 5. vucato: imboccato. 6. ’a pupatella: il poppatoio. 7. pastenache: rape. 8. cìcere e chichierchie: ceci e cicerchie. 9. intofosa: che gonfia. 10. coffiate: burlate. 11. polesa: polizza. 12. mpise : impiccati. 13. a’ lucanna : alla locanda. 14. armate: organizzai, misi su.
15. vattiave: battezzavo. 16. cujeto: quieto. 17. ascette: uscì. 18. cetrolillo: cetriolino. 19. l’appuraje: l’appurò, se ne accorse. 20. ’a bonafficiata: al lotto. 21. piezze: monete. 22. steva ...spasso: c’era questa botteguccia libera. 23. nfiglianza: di parto.
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Il teatro
RITA [melanconica, con rimpianto] Povera mamma mia! Mme ne facette chianto 4 quanno murette! Mancomale c’a commara Barbara tene ’a figlia ca l’è morta ’a criatura, e se vene a piglià ogne ghiuorno stu piccerillo per farle dà latte; sino chi l’allattava? PuLcinELLA L’avrei allattato io. Fra moglie e marito non si va con tanta convenienza.
Cai
Scena seconda
Don
FELICE e detti.
FeLICE [da fuori l’uscio] Sapete se si può entrare? PuLcINELLA Regolatevi voi. FELICE [soffermandosi sotto l’uscio, volgendosi a Pulcinella] Voi accomodate le scarpe . .. 0 le fate nuove soltanto ? Se le fate nuove soltanto . .. Vi faccio na confidenza: Non m”e pozz’accattà 25. Se poi l’accomodate, allora entro; ma basta ca pe l’accomodatura ve pigliate poco, pecchè . .. Ve faccio na confidenza: resto digiuno stammatina. Non già ch'io fossi miserabile, perchè mìo padre è ricco e mi manda ogni momento denaro da fuori onde mantenermi a studiare ... Ma vi faccio na confidenza: appena ho il denaro... Vi faccio... PULCINELLA [interrompendolo, con ironia) Na confidenza. [fra sé, meravigliato] Chiste chi nce l’ha mannato ?! FeLICE [avvicinandosi a Pulcinella] Giusto ... Vi faccio na confidenza: io non tengo nessun vizio; non piglio tabacco, non mi piace il vino, non ho fatto mai all’ammore. Vi faccio... FELICE [con intercalare] Na confidenza. PULCINELLA [con ironia] —_——— FeLIcE Tengo ’o vizio d’ ’o gioco... e perdo sempre! Saccio giocare soltanto ’a scopa, a piripacchio e ’o mariuole 28. PULCINELLA E a me che me ne importa? Rita [guarda Felice, e tra ironica e benevola, fra sé] È nu poco scemolillo . .. ma è aggraziatiello. PuLcINELLA [a Felice] Nzomma: che v’aggio da fa? FeLIcE Vi dirò: mio padre, l’altro jeri, mi mandò pel corriere un paio di scarpe e un abito nuovo . .. Vi faccio na confidenza: io me jucaie tutta sta robba ’a scopa, a piripacchio e, o mariuole; ma... Eh!... Vi faccio na confidenza... PULCINELLA [impazientito] Mall’arma?? de mammeta! RitA [con allusione a Felice, fra sé] Chisto quanto è afflettivo!28 FeLice [a Pulcinella] Sti scarpe che tengo ai piedi se so aperte tutte e doje; si cammino n’ato ppoco rummano ’e ssole mmiezo’ a strada. Perciò... Ve faccio... PULCINELLA [interrompendolo] Aggio capito: v’e bulite arrepezzà.
24. Mme...chianto: Me ne feci di pianto. 25. Non...accattà: Non me le posso comprare. 26. a piripacchio e °o mariuole: a «l’asso piglia
tutto » e a « rubamazzo ») o « rubamonte ». 27. Mall’arma: All’anima, maledetta l’anima; imprecazione. 28. afflettivo: noioso, affliggente.
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FeLICE Giusto così... M°’avite da fa l’amicizia de metterce ’e ssòle nove, ’e tacche, ’e doje molle, ’© mascarine e ’e fascette. PULCINELLA [continuando con ironia] ’A fodera, ’e zeppe e ’e centrelle?9. FELICE [facendo segno d’adesione col capo] Eh . . . ‘Selo feredete. PuLcINELLA E po te faccio ’e stivalette nuove. FeLICE Nuove nò, perchè... Vi faccio . PULCINELLA [interrompendolo, con ironia] Na confidenza. ’O ssaccio. FELICE [risentito] Voi mi burlate?! Mme pare che chesta non sia la maniera . . . Mo ve ne pigliate troppo mò! ... Mo mme fate perdere a pazienza mò! ... Voi dovete rispettare a chi ve dà pane... Oh cattera mo! 30 PULCINELLA [guardando Felice, con intenzione] Tu comme t’ammuine? 3! Tu non m’haje dato niente ancora.
FeLICE [con diffidenza] E si tu non ’e faie bone? . . E si tu m’arruine ’e scarpe? . E si mmece 8? de me l’accuncià tu m’ ’e guaste? . «. Estm'’e faje e n’ato. modello E si se rompono appena che m’ ’e metto? PuLcINELLA Vì quanta chiacchiere sta facenno chisto per nu paro ’e mezecape! 33... [1mpazientito] Miette ccà. FeLice [a Pulcinella] Chiude ’a porta. Chi passa mme vede scauzo! PULCINELLA [con significato a Felice] Chiud’ ’a porta? Chi passa, vedenno ’a porta chiusa, và trovanno che po sospettà. FeLICE Mo te scrivo nu piccolo bigliettino. Tu l’azzicche mmocca 84 ’a porta... Nce scrivo « Chiuso per causa di morte ». PULCINELLA [con scatto di sdegno] Mall’arma de mammeta! Rita [a Felice] Signurì, che malaurio! Venite ccà: Mettiteve arreto ’o lietto; pare ch’accussì nisciuno ve vede. [Prende Felice per un braccio e lo conduce presso il lettuccio. Felice cogliendo il destro, alle spalle di Pulcinella, abbraccia e bacia Rita. Pulcinella di nulla accorgendosi, s'alza, s avvicina a Felice e, nel togliergli le scarpe, queste si scuciono,
rimanendogli le suole in mano. Controscena 35 a soggetto fra Felice e Pulcinella] PULCINELLA [con significato, a Felice] Tu ’e tenive fravecate 36 ’e piede. FeLIcE Ve faccio na confidenza. PULCINELLA [con significato] E che puteva mancà?! FeLIcE [continuando, a Pulcinella] Io dormo cu tutte ’e scarpe, giusto pe non farle maltrattà. PULCINELLA [con ironia] Comme dormeno ’e ciucce.
29. 30. 31. 32. 33.
due funzioni teatrali complementari: qui Pulcinella varia il registro comico nel senso della
’e centrelle: le bullette, i chiodi. Oh... mo: oh, capperi! t'ammuine: ti scaldi. mmece: invece. ’e mezecape: un paio di mezze suole.
serietà del lavoro e della miseria, mentre
Felice
Compendia la richiesta di Don Felice. 34. l’azzicche mmocca: l’attacchi davanti. 35. Controscena: scena muta, di appoggio o commento all’azione. 36. fravecate: fabbricate. Secondo
la tradizione
l’arte, Petito di Pulcinella
crea
con
e Don
della Commedia
questi due Felice
del-
personaggi
Sciosciammocca
è il borghesuccio
fatuo
Don
e striminzito
scemolillo ma aggraziatello; la loro caratterizzazione è in queste scene prevalentemente ver-
bale
(mentre
avrà
una
nelle
comicità
scene anche
seguenti mimica,
la farsa con
Don
Felice che corteggia Rita in assenza del padre e che, sorpreso da questo, si fingerà neonato nella culla); il dialetto di Pulcinella è assai vario, aperto ad esclamazioni popolaresche e continuamente acceso dalla concretezza degli stenti e della loro dimensione tragicomica: la
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Il teatro
Formatosi come attore allo scuola di Antonio Petito nel ruolo di Don Felice Sciosciammocca, Eduardo Scarpetta (1853-1925) sviluppò in seguito il suo talento comico in una drammaturgia più urbana, capace cioè di fondere la tradizione pulcinellesca a quella goldoniana, più garbata, di Don Felice. Nel suo teatro Pulcinella compare in tutti i ruoli, anche come « studente de letteratura »,
ma tende a scomparire come figura e a trasmettere le sue tecniche espressive, linguistiche e gestuali, alla struttura della commedia. Si prenda ad esempio la sua opera più famosa, Miseria e nobiltà, rappresentata al Fondo di Napoli il 7 gennaio 1887: un gruppo di disgraziati, ridotti alla fame più nera, si travestono da nobili per far sposare al marchesino l’amata, una ballerina ricca ma socialmente inferiore; si scoprirà alla fine che il marchese padre negava il consenso alle nozze contemporaneamente corteggiando egli stesso la ballerina col nome finto di Bebé. Diversamente dalla farsa petitiana generalmente scarna, la commedia di Scarpetta moltiplica i tipi, le parlate, i tic linguistici (Luigino ripete « bellezza mia », Concetta sproposita: «[...] questa vostra sollecitazione nel parlare, mi gonfia di gioia e di condoglianza »; il refrain « Vicienzo che t’'è ? » — « Vicienzo m'è patre » accompagna il riconoscimento della paternità di Felice); usa il tema comico pulcinellesco della fame, ma lo risolve in pantomima (così la scena muta in cui tutti si precipitano sulla tavola imbandita, che chiude il primo atto). Come nella commedia sono presenti tutte le classi: i poveracci, il borghese arricchito, la nobiltà, tutte equamente parodiate e poste in caricatura; così la struttura comica usa contemporaneamente i modi della farsa popolare e della commedia di carattere, ugualmente parodiandoli. Tutto il secondo tempo di Miseria e nobiltà si svolge infatti sulla caricatura di un modulo fondamentale della commedia di tradizione letteraria, cioè l’agnizione: nella casa della ballerina tutti si incontrano,
si ritrovano vecchie coppie divise dal tempo, padri e figli, nobili e plebei. Qui sta la grande perizia della comicità scarpettiana, e in parte il limite del suo talento, che è talento combinatorio, tendente più all’utilizzazione estrema di vecchi
modi che all’invenzione di nuovi. Non a caso, Scarpetta osò, felicemente, parodiare la più macroscopica mistificazione delle espressioni del mondo subalterno, cioè La figlia di Forio di D’Annunzio. Nel suo Figlio di Forio, « parodia » e «commedia presepiana » in due atti, si svolge a Pozzuoli la fatale passione tra Alice e il protagonista Torillo che, dopo un’audace proposta amorosa della madre di Alice a Torillo e una pronta reazione manesca della ragazza, si conclude con la galera per il giovanotto. La puntuale conversione al dialetto napoletano e alla misura media dei perso-
lingua invece di Don Felice ha un campo semantico limitato e angusto, la cui cifra è la ripetizione: ve faccio na confidenza [...]. In altre farse i ruoli si diversificheranno ulteriormente; protagonista sarà Don Felice, col suo abito corto e stretto, da borghese che sogna e perde i contatti con la realtà, mentre
Pulcinella farà da spalla, col compito di commentare realisticamente e smascherare la vicenda principale. Quanto al cognome di Don Felice, Sciosciammoca, significa allocco, sciocco. Nella commedia ’O baraccone d’ ’e mariumette meccaniche si fa derivare da ‘«sciuscia [soffia] in bocca ».
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naggi della lingua aulica e della tragedia dannunziana, non è senza effetti comicocritici. Così le battute di apertura:
« 'TRIVELLA
Che te miette, frate bello, /
Pe sta festa? Fascia rossa / O fascia verde? CovieLLo Fascia verde ricamata e cazetta [calzetta] trapuntata! TRIVELLA Io tutto giallo me voglio vestì [. . .] Cumm’a mitria ‘e san Gennaro » (Napoli s.d., pp. 11-2), o quelle di chiusura: «CommIssaRIO Arrestatelo! [...] ToriLLo Almeno carcerato m’arreposo nu poco! Commissario Mo te magne quattre fave! ToriLLo E che me mporta! °A fava me piace, ’a fava è bella! [...]» (ivi, p. 78). Si tratta però, oltre l'immediato effetto comico, di una parodia, cioè di una riduzione del « già fatto »; di una riduzione « interna ) al modello, nel senso che si limita ad accentuare le
distanze tra il livello « alto » del mondo dannunziano e quello « basso » della sua traduzione dialettale. La produzione teatrale di Salvatore Di Giacomo (1860-1934), poeta lirico, prosatore, giornalista, storico, propone problemi tutti diversi; e principalmente quello del valore e dei limiti che la sua dialettalità e la sua drammaturgia assumono nel tessuto complessivo di una produzione che nasce dalla letteratura, dalla cronaca, dal giornalismo e in gran parte ne dipende. Come nelle novelle, nelle cronache, nelle opere storiche sul teatro San Carlino o sulla Prostituzione in Napoli dal XV al XVII secolo (Napoli 1889), la città è in primo piano e costituisce il centro del suo interesse o della sua curiosità. È, quello di Di Giacomo,
un raro caso di « partecipazione ) e di « osservazione » che coesistono in modo organico e fondono alcune espressioni tipiche del mondo napoletano; la canzonetta, la macchietta,
il fatto di cronaca,
lo studio degli ambienti (il « basso »,
la prigione, il tribunale, la stanza della famiglia piccolo-borghese, miserabile e rispettabile, l’ospizio) e delle situazioni (amore-passione, gelosia, amore materno, conflitti con la moralità o il pregiudizio) caratterizzano il suo teatro come tentativo di rappresentare la specificità napoletana, mondo «altro» ma coi caratteri della totalità umana e sociale. Da questo, i due linguaggi estremi, non mediati e scarsamente sorvegliati, del tragico, fatale e immotivato, tendente a sbigottire lo spettatore con la coloritura accesa dell’urlo e del gesto, e del lirico, inteso come contemplazione di alti silenzi e di profonde e semplici verità che sublimano
la bruttura della realtà. Una liricità, va detto, tutt'altro che intuita,
almeno nel teatro, bensì esibita con la piena consapevolezza dei suoi effetti di commozione e di frisson drammatico. Così la conclusione di Assunta Spina (1910), i gesti accentuati dell’uomo, le lunghe didascalie che sottolineano il crescendo della concitazione, l’omicidio fuori scena, la fine in pianissimo (« Chi è stato ? »),
e la scena mimica finale (Flaiano, la guardia, « sospinge la vetrata e l’apre tutta. Il chiaro di luna inonda, fuori, la via. La campana della chiesa di San Dome-
nico Maggiore squilla, triste e solenne [. . .] ») che corrisponde, nel melodramma, alle battute finali per sola orchestra (situazione e tecnica fanno pensare alla conclusione musicale del Woyzeck di Alban Berg). Così la conclusione di ’O voto (1889, scritto in collaborazione con Cognetti): l’urlo della Capuana al Cristo illuminato nel vicolo: «Giesù Cristo mio!... Tu ’o ssaie chello c’aggio suf-
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ferto... E accussì sia! ...», col coro di ragazzi che canta con voce argentina « Carmé, quanno te veco! » prima che la Capuana bussi freneticamente alla porta del bordello dove dovrà rientrare; e la didascalia finale « Cristina s’arretra, inor-
ridita... Si copre la faccia. S’ode il suo singhiozzo. Finalmente, a tentoni, ella entra...
Marianna la cieca resta impiedi, tremante, muta, nel silenzio, sotto il
Crocifisso » (Il teatro e le cronache, Milano 1952 ?, pp. 361-2 e 143-5). Si tratta dell’uso consapevole e perfettamente dosato di tecniche drammatiche di recitazione e di tecniche musicali che collaborano a suggestionare e a coinvolgere lo spettatore. Sono tecniche per effetti di forte espressività, in cui parola, gesto e musica
collaborano
alla costruzione
di situazioni
estreme;
scaturite
da un
livello di umanità che si suppone intatto e primordiale e svolte sotto il segno della fatalità. Il dialetto dunque funziona, nel teatro di Di Giacomo, come mezzo linguistico che permette una maggiore immediatezza e violenza espressiva, secondo le esigenze di una ricerca stilistica più che per le esigenze di una drammaturgia popolare; basterebbe pensare alla dolcezza musicale e alla comprensibilità del suo
dialetto,
rispetto
a quello,
fortemente
idiomatico,
subalterno
di Antonio Petito. Come il teatro espressionista sarà usato e superato da Bertold Brecht, così il teatro di Di Giacomo da quelio di Raffaele Viviani: che scinderà il momento drammatico da quello melico, sceglierà, nel momento melico, i modi « popolari » della canzonetta, della macchietta, della musica da varietà; userà infine i due linguaggi anche in funzione di una reciproca estraneazione, come pause che si rivelano a vicenda, il drammatico che si rivela e accentua col comico, il verbale col musicale e viceversa 12,
12 Altre opere di Di Giacomo: A San Francisco (1896), ’O mese mariano (musicato da Umberto Giordano nel 1895), Quand l’amour meurt (rappresentato nel 1911 al Mercadante di Napoli) e l’intermezzo L’abbé Pèru. Per il ricchissimo repertorio di Petito e Scarpetta si rimanda a A. G. Baragagli, Pulcinella e a V. Viviani, Storia del teatro napoletano citt. in bibl.
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Il teatro
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Bibliografia
195
Verde, G. Verga drammaturgo, Catania 1936 e 1940; P. Marletta, Appunti per una critica del teatro verghiano, in « Atti della Reale Accademia peloritana » (Messina), anno acc. 1939-40, vol. xLII, pp. 48-60; A. Navarria, « Dal tuo al mio », in « Belf. », 15 maggio 1946, pp. 286-91; V. Pandolfi, Natura del teatro di Verga, in Spettacolo del secolo cit., pp. 205-9; N. Sapegno, A proposito del teatro di Verga, in « Arena », 1 (aprile-settembre 1953), 1-2, pp. 50-4, poi in Ritratto di Manzoni, Bari 1961, pp. 271-6; F. Chiappelli, Una lettura verghiana : « La lupa», in « GSLI », cxxxIx (1962), 427, pp. 370-83; A. Navarria, Di alcune opere teatrali inedite di G. Verga, in « Belf. », 6, 1962, pp. 713-5; V. Frosino, Mito e storia nel teatro di Verga, in « Galleria », xv (gennaio-aprile 1965), 1-2, pp. 115-27; A. Mango, « Dal tuo al mio », in « Pon. », 1, 31 gennaio 1967, pp. 130-2; S. Monti, Il teatro di Verga e la società della « Nuova Italia », in « Problemi », 1 (luglio-ottobre 1967), 4-5, pp. 174-86; S. Ferrone, I! teatro di Verga, Roma 1972; A. Barsotti, Verga drammaturgo. Tra commedia borghese e teatro verista siciliano, Firenze 1974. Il rosario di De Roberto è pubblicato in Opere scelte, a c. di L. Russo, Milano 1950, e nelle antologie citt. a c. di C. Bozzetti e di A. Barbina; Il cane della favola, in « La lettura », gennaio 1912; sul teatro di De Roberto: S. Lopez Tabet, De Roberto commediografo, in «Il Dramma », febbraio 1964, pp. 49-54; G. Lopez, Lettere di Verga e De Roberto a Sabatino Lopez, in « Osservatore politico e letterario », giugno 1969, pp. 65-90. $ 71. Le miserie d° M$nssù Travet di V. Bersezio sono state edite, con versione italiana e present. di R. Laguzzi, Torino 1945; inoltre nelle citt. antologie a c. di A. Croce, vol. 11, e a c. di C. Bozzetto; un elenco delle opere in dialetto si legge in G. Drovetti, Storia del teatro piemontese, Torino 1956; un elenco dei drammi e commedie inediti in M. Mattalia, V. Bersezio, Cuneo 1911; cfr. inoltre: G. C. Molineri, / teatri, in Torino, Torino 1880, pp. 463-94; A. De Gubernatis, Storia del teatro drammatico, Milano 1882, pp. 429 e 432; D. Orsi, « Ménssù Travet » e la commedia in Piemonte, Torino 1889; Id., Il teatro în dialetto piemontese, Milano 1891, 3 voll.; Id., V. Bersezio, in « NA », 1 marzo 1900, pp. 17-27; B. Croce, V. Bersezio e il teatro piemontese, in « Crit. », 20 maggio 1906, pp. 168-78, poi in La letteratura della nuova Italia, 1, Bari 1943, pp. 138-50; C. Monnet, « Les misères de Monsieur Travette » et une pièce de Scribe, in Mélanges de philologie, d’histoire et de littérature offerts à H. Hauvette, Parigi 1934, pp. 729-35; A. Momigliano, « Le miserie d’” MOnssù Travet », in Studi di poesia, Bari 1948, pp. 204-8; G. Calendoli, Per un’interpretazione de « Le miserie d’ Ménssu Travet », in « Dialoghi », maggio-dicembre 1954, pp. 124-37; D. Seren Gay, Storia del teatro dialettale piemontese, Torino 1971. L’ed. del teatro di G. Gallina è: Teatro completo di G. Gallina, Milano 1922-30, 18 voll.; su Gallina: A. Gentile, Dell’arte di G. Gallina, in « Rivista teatrale italiana », 1 (16 febbraio 1901), 1, pp. 175-86; B. Croce, G. Gallina, in « Crit. », 20 luglio 1906, pp. 25460, poi in La letteratura della nuova Italia, 111, Bari 1945, pp. 143-56; L. Tonelli, Il teatro di G. Gallina, in « NA », xLV (16 gennaio 1930), pp. 193-213; G. Damerini, G. Gallina, Torino 1941; Il teatro veneto, con saggio critico e note di E. F. Palmieri, Milano 1948. Sul teatro milanese: C. Arrighi, F. Fontana e Jarro, Ferravilla e compagni, Milano 1890; S. Zambaldi, Il teatro milanese, Milano 1927; E. Guicciardi, Romanzo del teatro milanese cit. Il teatro di Bertolazzi è parzialmente raccolto in Preludio, a c. di A. Curti, Milano 1892 e in Teatro, con pref. dell'autore, Milano 1915; recente E! nost Milan, Torino 1971, a c. e con ottima introd. di F. Portinari; su Bertolazzi: B. Croce, Scrittori in dialetto, in La letteratura della nuova Italia, vi, Bari 1950, pp. 127-9; A. Fiocco, pref. a « Lulù », Roma 1941; R. Simoni, Trent'anni di cronaca drammatica, "Torino 1954; G. Pullini, Moralismo e ambientazione nel teatro di C. Bertolazzi, in «Arena», 11 (1954), pp. 14576; E. Possenti, pref. a Il teatro della nuova Italia cit.; G. Strehler, Riproposta di « L’egoista » al pubblico contemporaneo, in « Il Dramma », dicembre 1960, pp. 72-4; G. Guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano, Torino 1965; L. Althusser, Le Piccolo, Bertolazzi et Brecht, in Pour Marx, Parigi 1965, pp. 131-52.
196
Il teatro
Sul Grand Guignol: A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1950, pp. 237-8 e 276-8; C. Antona Traversa, Histoire du Grand Guignol, Parigi 1933; « Théatre », 2, 1969 (fasc. monografico); Teatro del Grand Guignol, a c. di C. Augias, Torino 1972, pp. 351-88. $ 72. Sul teatro siciliano: Teatro verista siciliano, a c. di A. Barbina, cit. (con introd. e bibliografie); sul teatro napoletano, fondamentale: S. Di Giacomo, Storia del Teatro San Carlino (1738-1884), Milano 19356; E. Scarpetta, Dal San Carlino ai Fiorentini, pref. di B. Croce, Napoli 1900; A. G. Bragaglia, Pulcinella, Roma 1953; V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli 1969. Oltre le opere teatrali, di A. Petito cfr.: Autobiografia inedita, con pref. di A. G. Bragaglia, Roma s. d. Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta (Torino 1974) sono presentate, rivisitate, riadattate e talvolta riscritte, da Eduardo De Filippo. Le opere teatrali di S. Di Giacomo furono raccolte dall’autore in Teatro, Lanciano 1910 e 1920, 2 voll., poi nel vol. 11 delle Opere, Il teatro e le cronache, a c. di F. Flora e M. Vinciguerra, Milano 19522; sul teatro di Di Giacomo: G. A. Borgese, I! teatro di S. Di Giacomo, in La vita e il libro, Torino 1910, 1, pp. 164-73; C. Grabher, L’azione muta nel teatro di S. Di Giacomo, in « Rivista d’Italia », xxtv (1921), pp. 341-7; O. Apicella, Il mondo dialettale nel teatro di S. Di Giacomo, in « Arena », 11 (1954), 6, pp. 22-36.
TAVOLA
DELLE
ABBREVIAZIONI
Manuali,
storie generali, dizionari, collezioni, ecc. ; riviste e atti accademici :
« AAlf. » «AGI
»
«AManz. » APOLL., Teatro «AR» « ASI »
«ASL » «ASNPisa » « ASPN » BAR « BCSic. » « Belf. » « BISI » « BISIM » « BSD » BCard. Cinquantennio
Rossi
CIS «CN
»
COIR CTSic. « Crit. » « Cult. » D’AnNcOoNA-BaccI «DDJb» DBI DEI De SancTIS De Sanctis DOP «EI »
EIt. « Fil. L» «FL» « FRom. » Garz. stl. «GD
»
« GFR » GGr. « GIF » « GSLI » «ID » «IL» «ICS»
(Ein.) (Lat.)
«Annali alfieriani » « Archivio glottologico italiano » « Annali manzoniani ) APOLLONIO, Storia del teatro italiano (Firenze, Sansoni, 1954) « Archivum Romanicum » « Archivio storico italiano » « Archivio storico lombardo » «Annali della (R.) Scuola Normale Superiore di Pisa » « Archivio storico per le provincie napoletane » Biblioteca dell’Archivum Romanicum « Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani » « Belfagor » « Bollettino dell’Istituto storico italiano » «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo » « Bullettino della Società dantesca italiana » Biblioteca Carducciana (Firenze, Sansoni) Un cinquantennio di studi sulla letteratura italiana (1886-1936) Saggi raccolti... e dedicati a V. Rossi (Firenze, Sansoni, 1937) Classici italiani Sansoni « Cultura neolatina » Collezione di opere inedite e rare Collezione di testi siciliani dei secoli xIV e xv «La Critica » «La Cultura » Manuale della letteratura italiana (Firenze D’ANCONA-BACCI, 1906-10) « Deutsches Dante-Jahrbuch » Dizionario biografico degli italiani Dizionario etimologico italiano DE Sanctis, Opere, ed. Muscetta (Torino, Einaudi) DE SANCTIS, Opere, ed. Russo (Bari, Laterza) Dizionario delle opere e dei personaggi (Milano, Bompiani) « Études italiennes » Enciclopedia italiana (Treccani) « Filologia e letteratura » «La Fiera letteraria » « Filologia romanza » Storia della letteratura italiana (Milano, Garzanti) « Giornale dantesco » « Giornale di filologia romanza » G. GROÒBER, Grundriss der romanischen Philologie (Strasburgo 1888) « Giornale italiano di filologia » « Giornale storico della letteratura italiana » « Italia dialettale »
« Italia letteraria » « Italia che scrive »
200
Tavola
« IMU » «It.» «LM » « Lett. » Lett. It. Ricc.
« LI » «LN »
Marz. Marz. Marz.
C. Cr. Magg.
Marz.
Min.
Marz.
NORS
Marz. POO Marz.
OSM.
« MeL.incei » MIGL. « MIL
»
Misc. «MLN
»
MONACI «NA
»
«NI »
«NM » « NRS » « NSM » « NuA »
« Par. » Parn. « Peg. » PI Firenze «PMLA » « Pon. » « Pr. » « RBLI »
« ReLincei » « RCLI » « REI » « REW » «RFR
»
« RI »
«RIL » « Rin. »
delle abbreviazioni
« Italia medioevale e umanistica » « Italica » « Letterature moderne » « Letteratura » La letteratura italiana, Storia e testi (Milano-Napoli, Ricciardi) « Lettere italiane » « Lingua nostra » Le Correnti (Milano, Marzorati) I Critici (Milano, Marzorati) I Maggiori (Milano, Marzorati) I Minori (Milano, Marzorati) Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell'Unità d’Italia (Milano, Marzorati) Problemi, orientamenti, questioni di lingua e di letteratura italiana (Milano, Marzorati) Questioni di storia medievale (Milano, Marzorati) « Memorie della (R.) Accademia (nazionale) dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche » MicLIORINI, Storia della lingua italiana (Firenze, Sansoni, 1960) « Memorie del (R.) Istituto lombardo di scienze e lettere, Classe di lettere, scienze storiche e morali > (per le miscellanee, la formula: Misc. D’ Ancona, Misc. Monteverdi, ecc.) « Modern Language Notes » MonNAcI, Crestomazia italiana, nuova ed. a cura di F. Arese (Roma 1955) «Nuova Antologia » «La Nuova Italia » « Neuphilologische Mitteilungen » « Nuova rivista storica ) « Nuovi studi medievali » « Nuovi Argomenti » « Paragone » Parnaso italiano (Torino, Einaudi) « Pegaso » Pubbl. del (R.) Istituto di studi superiori in Firenze, Sezione di filosofia e filologia « Publications of Modern Languages of America » « Il Ponte » « Il Propugnatore » « Rassegna bibliografica della letteratura italiana » « Rendiconti della (R.) Accademia (nazionale) dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche » « Rivista critica della letteratura italiana ) «Revue des études italiennes » « Romanisches etimologisches Wéorterbuch » « Rivista di Filologia romanza » « Rinascimento », rivista dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento « Rendiconti del (R.) Istituto lombardo di scienze e lettere » « Rinascita »
Tavola
delle abbreviazioni
« RLC » «RLI
»
« Rom. » «RR»
« RSI » «RSR
»
« SbWien » SCHLOSSER
SCL Scritt.Wlt.
Dati
«SD » «SFI
»
«SFR »
« SFra » «SG
»
« SGh. » « SLI » «SM
»
«SMV
»
« Soc. » «SP»
« SR » «ST »
« St. Boc. » St. crit. GSC «SU
»
TMFR Tomm.-Bell.
UTET" UTET 2 Winbstst Vall. gen. Vall. st. Vall. stl. « ZRPh »
201
«Revue de litterature comparée » « Rassegna della letteratura italiana » « Romania » « Romanic Review » « Rivista storica italiana » « Rassegna storica del Risorgimento » « Sitzungsberichte des Kaiserl. Akad. der Wissenschaften in Wien » ScHLOSSER MacnINO, La letteratura artistica (Firenze, La Nuova Italia) Scelta di curiosità letterarie inedite e rare (Bologna, Romagnoli) Scrittori d’Italia, Laterza « Studi danteschi » « Studi di filologia italiana » « Studi di filologia romanza » « Studi francesi » « Siculorum Gymnasium » « Studia Ghisleriana » « Studi di letteratura italiana » « Studi medioevali » « Studi mediolatini e volgari » « Società » « Studi petrarcheschi » « Studi romanzi » « Studi tassiani » « Studi su Boccaccio » W. BINNI, / classici italiani nella storia della critica (Firenze, La Nuova Italia, 1960?) « Strumenti critici ) I « Studi urbinati » Testi e manuali dell’Istituto di filologia romanza di Roma N. Tommaseo - B. BELLINI, Dizionario della lingua italiana (Torino 1865-79) Classici italiani, dir. da R. Balsamo-Crivelli (Torino, UTET) Classici italiani, coll. fondata da F. Neri e dir. da M. Fubini (Torino, UTET) Storia d’Italia coordinata da N. Valeri (Torino, UTET) Storia dei generi letterari (Milano, Vallardi) Storia d’Italia (Milano, Vallardi) Storia letteraria d’Italia (Milano, Vallardi) « Zeitschrift fur romanische Philologie »
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INDICE
DEL
VOLUME
$$ 51-55. Scienza, filosofia, storia e arte nella cultura del positivismo $ 51. Il periodo, i termini, i modelli europei $ 52. Firenze, Milano, Torino, Napoli: centri promotori e contraddizioni di sviluppo $ 53. La «filosofia positiva » e la storiografia di Pasquale Villari $ 54. La scienza della letteratura; i maestri e le riviste della « Scuola storica » $ 55. Fisiologia e psicologia dell’arte
3
24 34
BIBLIOGRAFIA
43
9 17
$$ 56-63. Regionalismo, verismo e naturalismo in Toscana e nel Sud: Collodi, Pratesi, Capuana, $ $ $ $ $ $ $ $
56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63.
De Roberto, Serao
Carlo Collodi dalla Firenze granducale a « Pinocchio » Mario Pratesi fra manzonismo e naturalismo Il bozzettismo macchiaiolo e campagnolo di Renato Fucini Verismo, romanticismo e bozzettismo nella narrativa meridionale Matilde Serao fra cronaca ed elegia Luigi Capuana: verismo e naturalismo psicologico Imitatori e propagatori del verismo siciliano Federico De Roberto dalle novelle a « I Viceré »
49 53 59 63 66 va. 79 81
BIBLIOGRAFIA
97
$$ 64-67. L’eredità manzoniana
e le proposte di realismo nella società indu-
striale: Rovani, De Marchi, De Amicis $ $ $ $
64. 65. 66. 67.
Giuseppe Rovani e la crisi del romanzo storico Il realismo popolare e cristiano di Emilio De Marchi Un educatore popolare-borghese: Edmondo De Amicis Realismo piccolo-borghese e narrativa di consumo
105 109 116 122
BIBLIOGRAFIA
129
$$ 68-72. Il teatro $ 68. Caratteri generali $ 69. Il teatro della borghesia italiana: Paolo Ferrari, Achille Torelli, Marco Praga, Roberto Bracco, Girolamo Rovetta, Cossa $ 70. Alla ricerca di una nuova drammaturgia: Verga, Federico De Roberto
Giuseppe
Giacosa,
Pietro
139 Luigi
Capuana,
Giovanni
$ 71. Il teatro in dialetto nell’Italia settentrionale: Vittorio Bersezio, Giacinto Gallina, Carlo Bertolazzi. Il Grand Guignol $ 72. Il teatro napoletano: Antonio Petito, Eduardo Scarpetta, Salvatore Di Giacomo /ENF/R&X
BIBLIOGRAFIA TAVOLA
DELLE
ai ABBREVIAZIONI
|
LONDON
a»
133
144 171
184
193 Î
197
Finito di stampare nel giugno 1975 con i tipi della Tipografia ‘ Tiferno Grafica” di Città di Castello
Letteratura Italiana
I
i
Laterza
20-08 CL