Cratino. Archilochoi – Empipramenoi (frr. 1-68): Introduzione, Traduzione, Commento 9783938032930


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Italian, Greek Pages 460 [461] Year 2015

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Cratino. Archilochoi – Empipramenoi (frr. 1-68): Introduzione, Traduzione, Commento
 9783938032930

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Fragmenta Comica Kratinos Archilochoi – Archilochoi Boukoloi Bousiris Deliades Didaskaliai

Empipramenoi Dionysalexandros Dionysoi Drapetides Empipramenoi

VerlagAntike

Lay_Titelei_FrC_Band_9.2_Aristomenes-Metagenes_. 30.07.14 09:44 Seite 1

Fragmenta Comica · Band 3.2

Lay_Titelei_FrC_Band_9.2_Aristomenes-Metagenes_. 30.07.14 09:44 Seite 2

Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann

Band 3.2 · Kratinos, Archilochoi – Empipramenoi

Lay_Titelei_FrC_Band_9.2_Aristomenes-Metagenes_. 30.07.14 09:44 Seite 3

Francesco Paolo Bianchi

Cratino Archilochoi – Empipramenoi (frr. 1–68) Introduzione, Traduzione, Commento

VerlagAntike

Lay_Titelei_FrC_Band_9.2_Aristomenes-Metagenes_. 30.07.14 09:44 Seite 4

Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.

Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar.

© 2015 Verlag Antike e.K., Heidelberg Satz Martin Janz, Freiburg Einbandgestaltung disegno visuelle kommunikation, Wuppertal Einbandmotiv Dionysos-Theater, mit freundlicher Genehmigung von Bernhard Zimmermann Druck und Bindung AZ Druck und Datentechnik GmbH, Kempten Gedruckt auf säurefreiem und alterungsbeständigem Papier Printed in Germany ISBN 978-3-938032-93-0

www.verlag-antike.de

A mia madre, a mio padre A nonna. A Luna, per sempre ‘sorella’

Sommario Premessa! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Nota ! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Commedie e frammenti! . . . . . . . . . . Ἀρχίλοχοι (Archilochoi) (‘Sostenitori di Archiloco’)! . . . . . . . Βουκόλοι (Boukoloi) (‘Bovari’)!. . . . . . . . . . . . . . . . . Βούσιρις (Bousiris) (‘Busiride’)! . . . . . . . . . . . . . . . . ∆ηλιάδες (Dēliades) (‘Fanciulle di Delo’)! . . . . . . . . . . . ∆ιδασκαλίαι (Didaskaliai) (‘Prove6/6Rappresentazioni’)!. . . . . . . ∆ιονυσαλέξανδρος (Dionysalexandros) (‘Dionisalessandro’)! . . . . . . . . . . . ∆ιόνυσοι (Dionysoi) (‘Dionisi’)! . . . . . . . . . . . . . . . . ∆ραπέτιδες (Drapetides) (‘Fuggitive’)! . . . . . . . . . . . . . . . Ἐµπιπράµενοι (Empipramenoi) (‘Bruciati’)! . . . . . . . . . . . . . . . .

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Bibliografia! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa Il presente volume (FrC 3.2) è il primo ad uscire dei sei complessivi previsti dal progetto Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie (KomFrag) per l’opera di Cratino (il secondo nella successione del piano complessivo: precede il volume contenente l’introduzione generale e i testimonia, di prossima pubblicazione) e il primo dedicato al commento delle commedie note per via frammentaria; in particolare, vengono qui considerate le prime nove, dagli Archilochoi agli Empipramenoi, alcune delle quali tra le più celebri del commediografo: su tutte, gli Archilochoi, spesso considerati uno dei possibili modelli delle Rane di Aristofane, e il Dionysalexandros, la cui hypothesis papiracea rappresenta certamente uno dei ritrovati più importanti per lo studio dell’archaia. Mi sia qui consentito ringraziare quanti con il loro aiuto hanno contribuito, a vario titolo, a dare forma definitiva a questo lavoro. Roberto Nicolai, che con disponibilità, pazienza e scrupolo segue il mio lavoro fin dagli anni della tesi di laurea magistrale; le sue osservazioni attente e i suoi preziosi consigli rappresentano per me un punto di riferimento e di partenza sempre fondamentale e senza il quale molto sarebbe diverso da come oggi effettivamente è. Bernhard Zimmermann, della cui vasta competenza ed esperienza ho avuto la fortuna di poter approfittare, in vario modo, dagli anni del dottorato di ricerca e al quale rivolgo anche un ringraziamento particolare non solo per avermi offerto la possibilità di far parte di un gruppo di ricerca, quello di KomFrag, che non ha pari altrove, ma anche per avermi dato modo di vivere, da alcuni anni a questa parte, in un piccolo e delizioso angolo di paradiso, nella gemma della Foresta Nera, Freiburg im Breisgau, una città alla quale devo molto più di quanto io possa dire. Con Michele Napolitano ho avuto modo di discutere ampiamente fin da quando questo lavoro era poco più che un abbozzo; dalle fasi iniziali a quelle conclusive ho sempre potuto contare sul suo aiuto e sulla sua esperienza e pratica con la commedia greca. Difficile dire quale sia il debito che ho contratto; mi limiterò qui a menzionare, oltre a tutte le singole osservazioni e gli spunti di ricerca e di approfondimento, i moltissimi suggerimenti bibliografici, articoli, dissertazioni, monografie, alcuni dei quali di fatto altrimenti ignoti, tutti materiali che Napolitano mi ha segnalato e dato poi la possibilità di consultare prontamente grazie alla sua fornitissima biblioteca. Sono certo che questo commento sarebbe molto diverso se non avessi avuto fin dal 2011 la possibilità, preziosissima, di essere nel gruppo di ricerca KomFrag; non solo perché Friburgo, la città e le sue biblioteche (in particolare per me la biblioteca del Seminar für klassische Philologie e la UB), offrono un

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Premessa

ambiente di lavoro ideale, ma anche perché gli abituali incontri del mercoledì tra i partecipanti al gruppo sono un’occasione in cui si realizza in una delle sue forme più compiute e più alte l’ideale del συµφιλολογεῖν. Nel corso degli incontri molte parti di questo lavoro sono state discusse e ho ricevuto osservazioni, precisazioni, rettifiche, spunti di approfondimento che hanno contribuito a migliorare la redazione finale del commento; ringrazio per questo tutti i partecipanti abituali: Andrea Bagordo, Stelios Chronopoulos, Elisabetta Miccolis, Anna Novokhatko, S. Douglas Olson (che vorrei ringraziare anche per avermi sollecitato a porre maggiore attenzione, nello stile e nella presentazione dei materiali, al mio lettore), Christian Orth. Utili suggerimenti su singoli punti ho avuto nel corso degli anni anche da Maurizio Sonnino, che ringrazio per la sua sempre preziosa disponibilità. Naturalmente, la responsabilità di ogni omissione, errore o svista ancora presenti nel testo è esclusivamente mia. Un ringraziamento speciale a Maria Jennifer (MJ), per la quale tutto ciò che potrei dire sarebbe assai riduttivo, quindi inutile e che voglio ringraziare, senza alcuna inutile retorica, semplicemente perché c’è, sempre; e questo è un privilegio per nulla scontato. Una parola a parte vorrei spendere per Luigi Enrico Rossi. La sua scomparsa nel settembre del 2009 ha fatto venire meno occasioni di dialogo e di confronto dalle quali avrei tratto senz’altro ampi benefici nella realizzazione di questo commento. Sento, però, e so quanto la mia formazione debba alla fortuna di aver seguito le sue lezioni e i suoi seminari e di aver potuto intrattenere molte discussioni, serie ma informali, tutte occasioni nelle quali ho avuto modo di conoscere non sine viva voce (una nota citazione che a Rossi piaceva spesso ripetere) molti insegnamenti che mi hanno sempre accompagnato: tra tutti, mi piace ricordare quello che ‘porsi le domande giuste è meglio che darsi le risposte sbagliate’ e, forse più degli altri, quello che i testi dell’antichità classica vanno studiati con il necessario distacco per poter essere filologicamente obiettivi, ma devono anche e soprattutto essere amati. Che da questi insegnamenti io abbia tratto buon frutto è questione differente. A Rossi ogni pagina di questo libro è a suo modo debitrice. Freiburg im Breisgau, settembre 2015

Nota Nel presente commento ci si uniforma ad alcuni dei criteri adottati nei precedenti volumi già pubblicati. Il testo greco, l’apparato critico e la numerazione dei frammenti seguono l’edizione di Kassel–Austin (PCG IV, pp. 122–156, per quanto riguarda i frammenti qui presi in esame [1–68]); alla numerazione adottata da Kassel–Austin segue, tra parentesi, quella corrispondente nelle edizioni di Kock (CAF I, pp. 11–32 [frr. 1–64]) e di Demiańczuk 1912, pp. 30–34 (frr. 1–4 e hypothesis al Dionysalexandros), in un caso (fr. 57 K.–A., Drapetides) quella di Tsantsanoglou 1984. Tutti i casi in cui ci si discosta dall’edizione di riferimento sono segnalati e discussi singolarmente. Per quanto attiene all’hypothesis al Dionysalexandros le edizioni di riferimento sono specificate nel relativo commento, così come le scelte testuali adottate (e, in questo caso, anche l’apparato critico si discosta in parte dai criteri usualmente adottati). Per alcuni testimonia dei frammenti (ad es. scoli ad Aristofane, Esichio π-σ e τ-ω, Fozio ε-µ e ν-φ, Stefano di Bisanzio, Synagōgē etc.) si è tenuto conto di edizioni critiche più recenti rispetto alla data di edizione del quarto volume dei Poetae Comici Graeci (1983). Rispetto all’edizione di Kassel–Austin si è scelto di ampliare la porzione di testo relativa al contesto in cui è tràdito il frammento, per cercare di definire più chiaramente il motivo della citazione; al contrario, si è scelto di fornire un apparato critico più selettivo per avere immediatamente conto della constitutio textus e delle varianti a livello di tradizione manoscritta (i riferimenti precisi, assenti dall’apparato, assieme ad ulteriori discussioni si trovano nella sezione Testo). Sia i testimonia che i frammenti sono stati tradotti; in alcuni casi (ad es. fr. 24) con il corsivo si indica una traduzione che rispecchia un testo incerto e non chiaro, in altri casi (ad es. fr. 54 phialai baleneiomphaloi) si è scelto di non tradurre e di lasciare il testo greco traslitterato (si rimanda al commento per la spiegazione del lemma [dei lemmi]). Nell’analisi metrica i singoli metra sono distinti da uno spazio; la cesura è indicata con | e, nel caso di più di una cesura, quella ritenuta principale con | e le altre possibili con | (in grigio). Nel caso di frammenti in cui sia conservata solamente una parte di un dato metro, la parte mancante viene ugualmente scandita e inserita tra parentesi uncinate (〈 〉); in tutti questi casi la parte metrica mancante è data in maniera semplificata e non indica tutte le possibili realizzazioni (ad es. nel caso di un trimetro giambico lo schema di una parte mancante sarà alkl e non iyoy; nel caso di anapesti ylyl e non ytyt). In alcuni casi (ad es. fr. 10 K.–A.) alle sezioni della struttura del commento previste per i frammenti ne è stata aggiunta una, Metrica, dove vengono discusse le diverse possibilità di interpretazione metrica.

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Nota

Tutti i frammenti dei commediografi sono citati secondo l’edizione di Kassel–Austin (PCG I–VIII). Per i frammenti di altri generi letterari viene indicata l’edizione di riferimento. Per le commedie di Aristofane si seguono le seguenti edizioni: Acarnesi: Olson 2002, Cavalieri: Wilson 2007, Nuvole: Dover 1968, Vespe: MacDowell 1971, Pace: Olson 1998, Uccelli: Dunbar 1995, Lisistrata: Henderson 1987, Tesmoforiazuse: Austin–Olson 2004, Rane: Dover 1993, Ecclesiazuse: Vetta 1989 e Wilson 2007, Pluto: Wilson 2007. Per tutti gli altri autori si seguono le edizioni di riferimento correnti. Per le edizioni dei testimonia, v. l’elenco precedente la bibliografia. Per gli autori greci le abbreviazioni sono quelle comunemente date in LSJ, dalle quali ci si discosta in tutti quei casi in cui l’estrema compendiosità potrebbe rendere poco chiaro il riferimento (così, ad es., si citerà Aesch. e non A., Soph. e non S., ecc.); per gli autori latini, le abbreviazioni sono quelle dell’Oxford Latin Dictionary (OLD).

Commedie e frammenti Ἀρχίλοχοι (Archilochoi) (‘Sostenitori di Archiloco’)

Datazione(Dopo il 449 a.6C., probabilmente 435 ca.–423/422 a.6C. Bibliografia Runkel 1827, p.  5–9, Bergk 1838, pp.  1–30, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 15–26, Meineke FCG ed. min. I (1847), pp. 7–10, Bothe PCGF (1855), pp. 7–9, Kock CAF I (1880), pp. 11–16, Zieliński 1887, pp. 8–11, Baker 1904, pp. 138–141, Norwood 1931, p. 1356s., Whittaker 1935, p. 1856s., Pieters 1946, pp. 133–135, Schmid 1946, p. 786s., Edmonds FAC I (1957), pp. 22–27, Luppe 1963, pp.  4–22, Schwarze 1971, pp.  79–87, Kassel–Austin PCG IV (1983), pp.  122–130, Kugelmeier 1996, pp.  178–189, Ornaghi 2004, pp.  218–228, Bakola 2010, pp. 70–79, Rotstein 2010, pp. 289–292, 3166s., Henderson 2011, pp. 178–180, Storey FOC I (2011), pp. 268–275, Zimmermann 2011, p. 7276s. Titolo La forma Archilochoi condivide con altre commedie di Cratino (Dionysoi, Kleoboulinai, Odyssēs, Ploutoi, Cheirōnes) la peculiarità di un plurale basato su un nome proprio; inoltre Archilochoi ed Hēsiodoi di Teleclide (su questo titolo v. Bagordo 2013, pp. 117–121) sono gli unici due esempi che conosciamo di titoli dedotti dal nome di un poeta noto volto al plurale1. 1

Incerto è il caso delle Kleoboulinai di Cratino. La storicità di una poetessa di nome Cleobulina è attestata da Diogene Laerzio e Ateneo (Cratin. Kleoboulinai test. i K.–A.): Diog. Laert. I 89 Κλεόβουλος Εὐαγόρου Λίνδιος […] γενέσθαι τε αὐτῳ θυγατέρα Κλεοβουλίνην, αἰνιγµάτων ἑξαµέτρων ποιήτριαν, ἧς µέµνηται καὶ Κρατῖνος ἐν τῷ ὁµωνύµῳ δράµατι, πληθυντικῶς γράψας; Athen. X 448b: Κλεοβουλίνη ἡ Λινδία … ἐν τοῖς αἰνίγµασιν. È tuttavia probabile che, nonostante queste testimonianze, il personaggio di Cleobulina sia un’invenzione comica e il suo nome sia fittiziamente modellato su quello del padre, v. Kassel–Austin PCG IV, p. 168 e Arnott 1996, p. 2936s. (per la commedia Kleoboulinē di Alessi). Un altro caso è quello ipotizzato da Webster 1970b, p. 146s.: alcune raffigurazioni vascolari di Anacreonte come capo di un kōmos e accompagnato da kōmastai “may represent a stage version of the Anacreontes; a number of these choruses on black-figure vases prefigure the choruses of Old Comedy”; di conseguenza Webster ipotizza l’esistenza di una commedia dal titolo Anakreontes, priva di ogni attestazione, ma possibilmente fondata proprio per il confronto con gli analoghi Archilochoi di Cratino ed Hēsiodoi di Teleclide, idea suggestiva, ma non dimostrabile, cfr. Ladianou 2005, p. 566s. Infine, un titolo Ἀρχίλοχοι è indicato per Alessi dal testimone del fr. 23 K.–A. (antiatt. p. 106,16), ma si tratta quasi sicuramente di una corruzione e questa commedia di Alessi aveva con ogni probabilità come titolo Ἀρχίλοχος, v. Arnott 1996, p. 112.

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Cratino

L’interpretazione del titolo Archilochoi ha trovato diverse spiegazioni; la più convincente è che esso faccia riferimento ai componenti del coro: le forme plurali nell’archaia rimandano infatti in genere ai coreuti e così si possono interpretare i diversi casi di Cratino menzionati2. In questo senso sono possibili due spiegazioni: 1) Archilochoi = censori severissimi, secondo Bergk 1838, p. 46s. e Kock CAF I, p. 11, chiaramente perché essi assumevano caratteristiche proprie del giambografo Pario; 2) Archilochoi = i sostenitori di Archiloco, i quali costituiscono “un semicoro che si confronta con l’altro semicoro dei sostenitori di Omero” (Pretagostini 1982, p. 45 n. 9). Quest’ultima è l’ipotesi prevalente e anche la più probabile data la relazione che in genere intercorre tra il nome proprio e la forma al plurale, come ad es. Odyssēs = i compagni di Ulisse (v. n. 2) e per la presenza quasi certa di un gruppo di sostenitori di Omero (e di Esiodo, fr. 2, cfr. p. 40 s., 42 s.); per Archilochoi = sostenitori di Archiloco, per primo Baker 1904, pp. 138–40 (“Archilochi fautores”, p. 140), poi Whittaker 1935, p. 185, Pieters 1946, pp. 16–20, Pickard-Cambridge 2 1962 , p. 160, Pretagostini 1982, p. 45 n. 9, Quaglia 1998, p. 51, Ornaghi 2004, p. 2186s., Bakola 2010, p. 656s., Zimmermann 2011, p. 727 (“Archilochos und seine Anhänger”). Altre, differenti interpretazioni del titolo sono: 1) secondo Meineke FCG II.1, p. 25 Archilochoi indica tutti i poeti presenti nella commedia, così definiti perché Cratino avrebbe trasferito su di loro la caratteristica maldicenza del giambografo di Paro e li avrebbe rappresentati come intenti a contendere aspramente tra di loro (si intende, quindi, qualcosa come Archilochoi =

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Si prescinde dai Dionysoi di cui sopravvive un solo frammento (51 K.–A.) da cui non è possibile trarre alcuna deduzione, cfr. pp. 302–308. Gli Odyssēs possono essere i “Gefährten des Odysseus, die als Ὀδυσσῆς der Komödie den Namen gaben” (Kaibel 1895, p. 76) e il fr. 151 K.–A. di questa commedia potrebbe essere parte della parodo in cui i coreuti (v. 36s.) fanno riferimento a loro stessi (da ultima Bakola 2010, p. 2386s.); Kleoboulinai può significare ‘le compagne di Cleobulina’, le quali formavano il coro della commedia, di cui la poetessa era protagonista; nei Ploutoi il fr. 171,116s. K.–A. Τιτᾶνες µὲν γενεάν ἐσµ[εν | Πλοῦτοι δ᾽ ἐκαλούµεθ᾽ del tutto analogo ad uno dei Cheirōnes (v. infra) contiene verisimilmente l’autopresentazione dei coreuti e, quindi, il plurale del titolo potrebbe indicare i componenti del coro (v. da ultima Bakola 2010, p. 496s.); Cheirōnes si può intendere come una “Vervielfältigung des einen mythischen Chiron zu einem Chor von Chironen” (Koerte 1922, col. 1650) e, quindi, in riferimento ai componenti del coro, il che potrebbe essere indicato anche dal fr. 253 K.–A. σκῆψιν µὲν Χείρωνες ἐλήλυµεν, ὡς ὑποθήκας se qui i coreuti presentano se stessi (v. Kassel–Austin PCG IV, p. 249).

Ἀρχίλοχοι

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maldicenti, litiganti o simili)3; 2) i titoli al plurale, al di là della loro forma, indicano in realtà una pièce che trae il nome dal suo protagonista, v. Koerte 1922, col. 1650: “wie Ὀδυσσῆς die Odysseuskomödie, Κλεοβουλῖναι die Kleobulinenkomödie, so bedeutet Ἀρχίλοχοι die Archilochoskomödie und entsprechend werden ∆ιόνυσοι und Πλοῦτοι zu verstehen sein” (cfr. anche Wilamowitz 1895, I p. 56 n. 14 per l’utilizzo di forme plurali: “wie Ἀθῆναι und Φίλιπποι die Stadt der Athena und des Philipp, Αἶθναι und Καµικοί (wie die Titel überliefert sind, wenn man genauer zusieht) die Tragödien von Aitna und Kamikos. Wahrscheinlich ist der plural früher noch öfter verwandt worden”). Lo stesso Koerte (ibid.) interpretava però differentemente dai precedenti il plurale Cheirōnes in riferimento ai coreuti e la stessa interpretazione può valere anche senz’altro per i Ploutoi4 e probabilmente per gli altri titoli (v. n. 2). Per l’idea di intitolare una commedia a partire dal nome di Archiloco, si ricorda anzitutto il rapporto tra Cratino e Archiloco stabilito da alcune fonti (Platon. diff. char., Proleg. de com. II, 1 p. 6 Koster = Cratin. test. 17 K.–A.); la ripresa di almeno un asinarteto caratteristico del giambografo testimoniata da Efestione, v. fr. 11 K.–A.; la presenza di altri metri così come di stilemi archilochei in altri frammenti, v. Kassel–Austin PCG IV, p. 121. Inoltre, il richiamo esplicito ad Archiloco si motiva anche sia per la forte presenza del giambografo in commedia, sia per il rapporto più volte sottolineato tra giambo e commedia, v. von Blumenthal 1922, in part. 3–8, Rosen 1988 (in part. su Cratino, pp. 37–58), Degani 1993, Kugelmeier 1996, pp. 169–189, Ornaghi 2009, pp. 232–256, Rotstein 2010, pp. 289–293. Contenuto(Quasi certamente una commedia a tema letterario con il confronto agonale tra Archiloco da un lato e Omero (ed Esiodo) dall’altro, supportati dai rispettivi sostenitori. La presenza di Archiloco e Omero come dramatis personae appare esplicita nel fr. 6 K.–A. dove sono indicati rispettivamente come Θασία ἅλµη (v. 1) e ὁ τυφλός (v. 3)5; non sicura, invece, quella di Esiodo, 3

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5

Meineke FCG II.1, p.  25: “quum Archilochus unus omnium maledicentissimus poeta haberetur, nomen eius etiam ad ceteros poetas transtulisse videtur Cratinus, ut qui Archilochi maledicentiam aemulati acerrimis se invicem pungerent aculeis”. A Koerte non era infatti noto, almeno alla data di redazione dell’articolo della RE, il testo dell’attuale fr. 171 K.–A. restituito da un papiro pubblicato per la prima volta da Norsa e Vitelli nel 1935 (PSI XI, 1212), che indica con ogni verisimiglianza che i Ploutoi del titolo erano i coreuti (cfr. n. 2). Cfr. Schmid 1946, p. 70 n. 14. Secondo Schwarze 1971, p. 80 e n. 197, nel fr. 6 K.–A. (a proposito di Θασία ἅλµη  = Archiloco nel v. 1) “kann es sich auch um eine einzelne Reminiszenz handeln, derart, daß, die Choreuten, die ja als Zeitgenossen des parischen Dichters figurieren, von einem Vertreter des gegenwärtigen Athen

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Cratino

ma molto probabile sulla base del fr. 2 K.–A.: Cratino (tràdito da Clemente Alessandrino) parla di un σοφιστῶν σµῆνος e una testimonianza di Diogene Laerzio, con ogni verisimiglianza relativa al medesimo verso, riporta: ἐκαλοῦντο […] καὶ οἱ ποιηταὶ σοφισταί, καθὰ καὶ Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν οὔτως καλεῖ (τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν è espressione che si adatta bene a designare uno σµῆνος σοφιστῶν, cfr. infra fr. 2 K.–A.). Secondo Meineke FCG II.1, p.  25 la contesa era tra Archiloco, Omero, Esiodo e altri poeti maldicenti (dal nome di Archiloco, v. supra) e, quindi, “in den Ἀρχίλοχοι spielte sich ein Agon zwischen den großen alten Dichtern unter Beteiligung eines großen Schwarms von Kunstgenossen ab, dabei Homer, Hesiodos, Archilochos, der mit seiner scharfen und bissigen Art zur Wort kam” (Schmid 1946, p. 78); a ciò Whittaker 1935, p. 185 obiettava che “the conditions of Attic Comedy precluded the appearance of more than three or four actors on the stage at the same time, and three or four poets can hardly be called a swarm” (in riferimento al fr. 2 K.–A.) e interpretava, dunque, il fr. 2 K.–A. come riferito “to a chorus or rather a half chorus of poets who supported Homer and Hesiod […] The altercation then would take place between Homer and Archilochus, each supported by his half chorus, with Hesiod as a tertius gaudens” (un’altra possibilità, simile, è quella proposta da Zimmermann 2011, p. 727: “die zwei Halbchöre bestanden aus Archilochos und seine Anhängern auf der einen sowie Homer und Hesiod als Vertretern von zwei Grundformen der Epik und deren Anhängern auf der anderen Seite”). Che Esiodo potesse apparire come terzo attore è coerente con l’informazione che Cratino stesso fissò in tre il numero degli attori della commedia (Cratin. test. 19 K.–A.) e, inoltre, con il fatto che il nesso articolo + περὶ + accusativo (come in Diogene Laerzio τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον) indica in genere gli appartenenti ad un certo gruppo (v. infra fr. 2); come sviluppo di questa possibilità Pretagostini 1982, p. 45 n. 2 ha proposto di interpretare il fr. 6 K.–A. come la σφραγίς dell’agone e che qui i due cori si riunissero in uno solo di sostenitori di Archiloco e decretassero il giambografo di Paro vincitore dell’agone poetico (cfr. anche Ornaghi 2004, p. 2186s.). Un’ipotesi di ricostruzione metrica dell’agone è possibile, ma non dimostrabile: se il fr. 6 K.–A. era effettivamente la sphragis dell’agone, è noto che questa sezione riprende il metro dell’antepirrema (Gelzer 1960, p. 122), anch’esso quindi in esametri; ma, poiché nell’agone chi perde parla per primo e il vincitore dell’agone in Cratino era Archiloco, ne consegue che l’epirrema über ihr Idol ausgefragt werden” (cfr. anche Rosen 1988, p. 43); v. però la giusta obiezione di Kugelmeier 1996, p. 182: “εἶδες muß aber ein tatsächliches Erblicken bedeuten”.

Ἀρχίλοχοι

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era pronunciato da Omero, il quale doveva naturalmente esprimersi in esametri, il ‘suo metro’ e che, quindi, l’agone degli Archilochoi fosse omeoritmico. Un indizio in questo senso potrebbe essere il fr. 7 K.–A., forse parte dell’ode della commedia e in esametri: i sostenitori di Omero che parlavano per primi decretavano il tipo di metro che si sarebbe utilizzato (Whittaker 1935, p. 186). Un’ipotesi differente è quella di Kugelmeier 1996, pp. 181–185, secondo cui le parole di Diogene Laerzio (v.  supra) (Κρατῖνος) τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν (un giudizio elogiativo) non possono in alcun modo riferirsi ad un gruppo di poeti destinati a perdere (il semicoro di sostenitori di Omero secondo Whittaker), ma indicano invece, “daß Homer, Hesiod und ihre Gefolgsleute […] einen Teilnehmer des Agon unterstützen” (p. 1836s.); di conseguenza, Kugelmeier ritorna all’ipotesi Ἀρχίλοχοι = poeti maldicenti (Meineke, v. supra)6 e pensa, in particolare, che tutti i poeti rappresentino la tradizione archilochea (“alle beteiligten Dichter gleichermaßen in die Tradition des parischen Meisters”, p. 184) e quindi nell’agone “Homer und Hesiod könnten dabei als Autoritäten auftreten, die Archilochos unterstützen. Als Gegner könnte man sich […] neumodische Dichter von der Art des bei Kratinos öfter als weichlicher Neuerer angegriffenen Gnesippos vorstellen” (p.  1846s.; su Gnesippo cfr. fr. 17.2, p.  121 s.). Tuttavia non vi è alcuna testimonianza a noi nota della presenza di Gnesippo o altri poeti simili negli Archilochoi e il fr. 6 indica abbastanza evidentemente una contrapposizione tra Archiloco e Omero, difficilmente spiegabile (e non spiegata, di fatto, da Kugelmeier) se Omero (ed Esiodo) avessero preso le parti del poeta di Paro; oltre a ciò, il participio ἐπαινῶν potrebbe riferirsi ad un giudizio di Cratino, ma potrebbe anche essere un’inserzione personale di Diogene Laerzio (e, inoltre, si deve tenere conto della incerta valenza di σοφισταί in Cratino, che potrebbe anche essere negativa, v. infra, fr. 2 K.–A.). Per commedie di argomento letterario, il parallelo più ovvio sono le Rane di Aristofane (Eschilo vs Euripide), ma si possono richiamare anche probabilmente gli Hēsiodoi di Teleclide (v. Bagordo 2013, pp. 117–121) e il Gērytadēs di Aristofane (v. in part. fr. 156 K.–A.), cfr. in part. su questa tematica von 2 Scheliha 1987 , cap. 4, pp. 107–149 e Cavalli 1999 (per i modelli delle Rane). Sulla base del confronto con Rane e Gērytadēs si può immaginare che ci fosse una catabasi e quindi una Unterweltszene e che l’oltretomba costituisse come nelle Rane lo sfondo dell’agone poetico; ma non si può d’altra parte escludere 6

Così Kugelmeier 1996, p. 184 (a proposito dell’ipotesi di Meineke): “das hieße, daß der Name des Iambographen gleichsam metaphorisch auf Dichter ,seines Schlages‘ übertragen zu denken ist, die sich seiner Dichtung und seinen aus ihr herausgelesenen angeblichen Charakterzügen entsprechend verhalten”.

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Cratino

che il confronto avvenisse in seguito a una nekyomanteia, di cui il modello più ovvio è l’evocazione dell’anima di Dario nei Persiani di Eschilo (vv. 608 ss.). Una simile doppia possibilità è stata discussa anche a proposito del caso, pur diverso, dei Dēmoi di Eupoli, dove Telò 2007, pp. 24–33 ha però documentato l’effettiva presenza di scene oltretombali e argomentato, tra l’altro, il fatto che la necromanzia ha in genere una “necessità di ordine puramente conoscitivo […] che in quanto tale impone ai νεκροί un’apparizione solo momentanea” (p. 26 n. 56), il che non sarebbe particolarmente adatto alla rappresentazione di un agone. L’ipotesi di una catabasi negli Archilochoi sembra dunque la più probabile. Una parte di un qualche rilievo dovevano avere nella commedia anche i riferimenti politici, come si ricava dall’elogio di Cimone nel fr. 1. Poco si deduce dagli altri frammenti: alcuni paragoni riferiti a figure femminili sono presenti nei frr. 4 e 8 e un soggetto femminile sembra additato anche nel fr. 10; un paragone con un soggetto maschile è nel fr. 5; ad un invertito si riferisce probabilmente il fr. 3.; un riferimento metapoetico è probabilmente quello del fr. 9 e forse nello stesso senso si intende anche l’ ἰθύφαλλος del fr. 16, o il fallo rituale delle feste dionisiache o il fallo tradizionalmente parte del costume dell’attore comico; come kōmōdoumenoi sono additati Callia III nel fr. 12 e un altro non meglio noto personaggio, †Μιννύωνα†, nel fr. 14; ignoto a cosa si riferisse la presenza dei Cercopi nel fr. 13; un esplicito richiamo, metrico e linguistico, ad Archiloco è nel fr. 11. Cronologia(Nel fr. 1 K.–A. la persona loquens, Metrobio, tesse un elogio di Cimone e lo compiange perché defunto; la morte di Cimone si colloca nel 449 a.6C. (v. p. 35 s.) e, di conseguenza, Bergk 1838, p. 20 datò la commedia immediatamente dopo questo evento (“consentaneum est recenti huius calamitatis memoria scriptam esse comoediam: fuit igitur non ista multo post Olymp. LXII.3 acta”), un’ipotesi poi divenuta communis opinio7. Questa ipotesi è stata revocata in dubbio da Luppe 1963, p. 56s. e pp. 19– 22 ~ Luppe 1973, che definisce un “rein subjektivtes, keineswegs zwingendes Urteil” (Luppe 1973, p. 125) il fatto che il lamento per la morte di Cimone 7

Questa la dossografia già segnalata da Luppe 1973, p. 125 (da cui deduco anche l’opinione di Darquenne 1941, che non mi è stato possibile consultare): “Meineke FCG II.1, p. 25 “circa Olymp. LXXXII,4”, Kock CAF I, p. 11 “non multo post Ol. 82,3”, Tanner 1920, p. 172 “only within a short time after the death of the admired statesman”, Koerte 1922, col. 1651 r. 116s. “bald nach dem Tode Kimons”, Geissler 1925, p. 186s. “nicht viel nach 449”, Wilamowitz 1927, p. 16 n. 1 “die ersten vierziger Jahre”, Darquenne 1941, p. 436s. (447–446), Schmid 1946, p. 78 n. 5 “nicht lange nach Kimons Tod”, Pieters 1946, p. 68 (448–447), Edmonds I, p. 27 n. e e p. 995 (449), Schwarze 1971, p. 83 “kurz nach 450”.

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segua immediatamente l’evento stesso, mentre nulla esclude che esso possa essere posteriore anche di molto alla morte dello statista ed esprimere così il rimpianto per un fatto luttuoso del passato; in sostanza il testo del fr. 1 K.–A. non offrirebbe altra informazione per la datazione che il semplice terminus post quem del 449 a.6C., la morte di Cimone8. Il punto di partenza più sicuro per la datazione è offerto, invece, da un altro dei frammenti, il 12 K.–A., dove è menzionato come kōmōdoumenos Callia, con ogni probabilità Callia III (450–367 a.6C. ca.), additato per la sua vita depravata e per aver scialacquato il patrimonio di famiglia, una raffigurazione ben presente in commedia; al contrario, l’identificazione di questo personaggio con Callia II ὁ λακκόπλουτος (520–446 a.6C. ca.), è dovuta solamente alla necessità di far essere coerente la menzione di questo kōmōdoumenos con la datazione immediatamente successiva al 449 a.6C. dedotta dal fr. 1 e, inoltre, a questo personaggio non si possono riferire le accuse di depravazione e dilapadazione del patrimonio qui presenti (v. infra fr. 12 K.–A.). Se si accetta questa interpretazione, si deve datare la commedia in un periodo in cui Callia III poteva già essere oggetto di attacco in commedia, quindi, come proposto da Luppe 1973, p.  127 “etwa 435 bis allenfalls 423 […]. Es ist also ein ,Drama der Reife‘”; a sostegno di questa datazione bassa, Tammaro 1978–79, p. 2046s. ha aggiunto un possibile confronto con Eupol. fr. 221 K.–A. (Poleis, ca. 422 a.6C. v. Kassel–Austin PCG V, p. 424) κακὸς µὲν οὐκ ἦν, φιλοπότης δὲ κἀµελής·6/6κἀνίοτ᾽ 〈ἄν〉 ἀπεκοιµᾶτ᾽ ἂν ἐν Λακεδαίµονι6/6κἂν Ἐλπινίκην τῇδε καταλιπὼν µόνην, un ritratto poco lusinghiero di Cimone9: “che significato aveva richiamare, ad oltre venticinque anni dalla sua scomparsa, i difetti di un uomo come Cimone? Rientrava in una querelle che si era accesa in quegli anni, di cui la testimonianza opposta sarebbe il panegirico di 8

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Luppe 1963, p. 4 = 1973, p. 126 accetta nel fr. 1 v. 3 la lettura di Hermann πρὸ τοῦ per il tràdito e corrotto † πρώτῳ (v. p. 22 s.). Questa lettura favorisce l’ipotesi che il rimpianto di Metrobio sia successivo alla morte di Cimone, ma esclude la possibilità di fondare su tale congettura ipotesi per la datazione e deduce dal fr. 1 il solo terminus post quem del 449 a.6C. Testimone del frammento è Plut. Cim. 15,3: τοῦ Κίµωνος […] κατεβόων συνιστάµενοι καὶ τὸν δῆµον ἐξηρέθιζον, ἐκεῖνά τε τὰ πρὸς τὴν ἀδελφὴν ἀνανεούµενοι καὶ Λακωνισµὸν ἐπικαλοῦντες. εἰς ἃ καὶ τὰ Εὐπόλιδος διατεθρύληται περὶ Κίµωνος, ὅτι κτλ. Secondo Storey 2003, p. 223 il giudizio su Cimone di Eupoli è ambivalente, ma probabilmente positivo: “the reference to Kimon’s Lakonophilia, fondness for drink, and his relations with his sister Elpinike […] make this less than the full encomium that others might want. The passage, however, probably went on to say that for all these personal shortcomings, Kimon was still a leader far superior to the modern degenerates”.

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Cratino

Cratino? […] Sarebbe possibile, quindi, che il problema della leadership nella πόλις post-periclea avesse avuto l’effetto di riproporre e ridiscutere la figura di Cimone”. fr. 1 K.–A. (1 K.) κἀγὼ γὰρ ηὔχουν Μητρόβιος ὁ γραµµατεύς σὺν ἀνδρὶ θείῳ καὶ φιλοξενωτάτῳ καὶ πάντ’ ἀρίστῳ τῶν Πανελλήνων † πρώτῳ Κίµωνι λιπαρὸν γῆρας εὐωχούµενος αἰῶνα πάντα συνδιατρίψειν. ὁ δὲ λιπών βέβηκε πρότερος 1 κἀγὼ Xylander: κάτω codd.ƒƒƒ3 πρώτῳ codd.: πρόµῳ Muretus: πρὸ τοῦ Hermann: µακρῷ Austin. alii alia

E anche io infatti Metrobio lo scrivano confidavo, con un uomo divino e amantissimo degli ospiti e in tutto il migliore di tutti i Greci † per primo Cimone, godendomi una pingue vecchiaia, di trascorrere tutto il tempo. Ma quello mi ha lasciato, se n’è andato per primo Plut. Cim. 10, (1)–4 Ἤδη δ’ εὐπορῶν ὁ Κίµων εὐροίᾳ τῆς στρατείας, ἃ καλῶς ἀπὸ τῶν πολεµίων ἔδοξεν ὠφελῆσθαι, κάλλιον ἀνήλισκεν εἰς τοὺς πολίτας […] (4) ὧν δὴ καὶ Κρατῖνος ὁ κωµικὸς ἐν Ἀρχιλόχοις ἔοικε µεµνῆσθαι διὰ τούτων· κἀγὼ — πρότερος E Cimone essendo già ricco per la buona riuscita della campagna militare, i proventi che si riteneva avesse onorevolmete guadagnato dai nemici, li impiegò ancora più onorevolmente a vantaggio dei cittadini […] (4) Di queste cose certo anche il commediografo Cratino sembra ricordarsi negli Archilochoi con questi versi: e anche io — per primo

Metro(Trimetri giambici

llkl l|lkr klkl klkl l|lkl klkl llkl l|lkl ll†ll klkr l|lk|l llkl llkl k|lrl lrkl klkr u

Ἀρχίλοχοι (fr. 1)

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Bibliografia(Runkel 1827, p.  56s. (fr. II), Runkel 1829, p.  187, Bergk 1838, p. 19–24, Meineke FCG II.1 (1839), p. 156s. (fr. I), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 7, Bothe PCGF (1855), p. 7 (fr. I), Kock CAF I (1880), p. 116s., Blaydes 1896, p. 2, Rutherford 1897, p. 16, van Herwerden 1903, p. 2, Geissler 1954, p. 41, Geissler 1925, p. 18, Luppe 1963, pp. 4–6, Schwarze 1971, p. 816s., Luppe 1973, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 122, Bona 1988, pp. 200–203, Ornaghi 2004, pp. 225–227, Henderson 2011, p. 178, Storey FOC I (2011), p. 2706s. Contesto della citazione(Testimonianza letteraria della liberalità e generosità di Cimone e dei suoi seguaci (per questo aspetto della politica cimoniana, cfr. ad es. Plut. Per. 9, 2.3, Plat. Gorg. 515e, Aristot. Ath. Pol. 27, 3–4, Pol. 1274a 8–9, Corn. Nep. Cim. 4.2, El. Arist. 46,143) di cui Plutarco ricorda alcune caratteristiche: Cimone aveva tolto le recinzioni dei suoi terreni perché tutti potessero prenderne i frutti senza timore; presso la sua dimora era sempre disponibile un pasto per tutti; i suoi amici scambiavano le loro raffinate vesti con quelle di anziani in cattive condizioni e avevano sempre monete che distribuivano ai poveri. Le fonti che Plutarco usa per descrivere la liberalità di Cimone in 10, 1–3 sono Aristot. Ath. Pol. 27, 3–4 e soprattutto Theop. 115 F 89 (“followed almost verbatim, but non named”, Blamire 1989, p. 129); quest’ultimo è un testimone tradizionalmente ostile a Cimone, ma tanto Plutarco quanto Cornelio Nepote (Cim. 4.2, che vi risale), “con un sapiente giuoco d’alchimia tradussero in elogio la valutazione negativa data dalla loro fonte all’evergetismo di Cimone” (Piccirilli 1990, p. XI n. 1 con rimando a W.R. Connor, Theopompos and Fifth- Century Athens, Washington 1968, pp. 34–36, 111–113 e nn., v. id., Theopompos’ Treatment of Cimon, «GRBS» 4, 1963, pp. 107–114; per le fonti della bibliografia di Cimone, v. ancora Levi 1955, pp. 89–109, Blamire 1989, pp. 4–10 e p. 1286s. [per Cim. 10], Piccirilli 1990, p. XLIV). Dopo questa descrizione, Plutarco cita tre fonti letterarie relative alla liberalità di Cimone: Cratino per primo, poi un detto di Gorgia di Leontini (fr. 82 B 20 D.–K.) Γοργίας µὲν ὁ Λεοντῖνός φησι τὸν Κίµωνα τὰ χρήµατα κτᾶσθαι µὲν ὡς χρῷτο, χρᾶσθαι δ’ ὡς τιµῷτο (cfr. su questo Musti 1984) e un distico da un’elegia di Crizia (fr. 88 B 2 8 D.–K. = 6 Gent.–Prato = 8 W. ) πλοῦτον µὲν Σκοπαδῶν, µεγαλοφροσύνην δὲ Κίµωνος,6/6νίκας δ᾽ Ἀρκεσίλα τοῦ Λακεδαιµονίου (la descrizione della liberalità di Cimone prosegue ancora in 10, 6.7). Per la citazione di Cratino cfr. Blamire 1989, p. 131: “Plutarch claims that Kratinos allude to Kimon’s liberality, but the lines quoted seem to refer not to the simple meals which Kimon provided for the poor, but rather to the Homeric banquets at which he entertained socially” (cfr. εὄικε µεµνῆσθαι, introduttivo della citazione, possibile indizio che quella di Plutarco possa essere, effettivamente, una lettura personale del testo di Cratino, v. anche Interpretazione). Per le citazioni di Plutarco da

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Cratino

poeti comici del V sec. a.6C., v. Stadter 1989, pp. xliii-xlix (in generale e con riferimento specifico a Pericle) e Zanetto 2000. Testo(Al v. 1 κάτω dei codici, qui privo di senso, si imputa senz’altro a cattiva lettura dell’antigrafo (“graphisch ist die Verschreibung leicht zu erklären: ΚΑΓΩ – ΚΑΤΩ”, Luppe 1963, p. 4): la correzione fu opera di Xylander 1630, p. 138. Al v. 3 il tràdito πρώτῳ è corrotto metri causa per la sillaba lunga in sede pari; tra i diversi tentativi esperiti, si segnalano: 1) µακρῷ di Austin apud PCG IV, p. 122 (ultimo in ordine di tempo), che offre diversi esempi da poter confrontare per la dizione: Eur. Alc. 151 (γυνή τ’ ἀρίστη τῶν ὑφ᾽ ἡλίῳ, µακρῷ), Bacch. 1234 (πάντων ἀρίστας θυγατέρας σπεῖραι µακρῷ), Hdt. I 134.2 (νοµίζοντες ἑωυτοὺς εἶναι ἀνθρώπων µακρῷ τὰ πάντα ἀρίστους) e IX 71.2 (καὶ ἄριστος ἐγένετο µακρῷ Ἀριστόδηµος κατὰ γνώµας τὰς ἡµετέρας), ai quali si può aggiungere Ar. Vesp. 1303 τούτων ἁπάντων ἦν ὑβριστότατος µακρῷ. In questo caso presenta una qualche difficoltà spiegare la possibile genesi dell’errore nei codici, ma si potrebbe forse supporre che πρώτῳ sia una glossa poi penetrata nel testo (cfr. infra Geissler 1954, p. 41 per la lettura ἄκρῳ, ma nel caso di µακρῷ il senso della eventuale glossa πρώτῳ è poco chiaro). 2) πρόµῳ di Muretus10 (sostenuto anche da Reiske [Plutarchus, Quae supersunt omnia 3: Vitae parallelae 3, ed. J.J. Reiske, Lipsiae 1775, p. 193 n. 40], Runkel 1827, p. 5, Meineke FCG II.1, p. 6, Blaydes 1896, p. 2, van Herwerden 1903, p. 2), sostantivo che appartiene allo stile alto di epica e tragedia (ad es. Γ 44, λ 493, Aesch. Ag. 200 [lyr.], Soph. OT 660 [lyr.], Eur. Her. 670) ed è assente dalla lingua della commedia con l’unica eccezione di Ar. Thesm. 50, un contesto lirico (fatto già notato da Kock CAF I, p. 11, cfr. Austin–Olson 2004, p. 69), ma che potrebbe giustificarsi con un intenzionale utilizzo di lessico alto non impossibile in questo contesto, cfr. Meineke FCG II.1, p. 16 “utrique [πρὸ τοῦ, ἑνί, v. infra] praestare mihi videtur πρόµῳ, quod epicis tragicisque familiare nec Cratini sublimem orationem dedecet” e v. anche Interpretazione (contra Luppe 1973, p. 126 secondo cui πρόµῳ e βροτῷ di Kock [v. infra] “wiedersprechen dem Stil”); 3) πρὸ τοῦ di Hermann apud Runkel 1829, p. 187 è sostenutο anche da Luppe 1973, p. 126 n. 12, ma cfr. Kaibel ms. apud PCG IV, p. 122 “minus apte collocatum”: infatti nei casi in cui il nesso πρὸ τοῦ indichi qualcosa o qualcuno collocato anteriormente nel tempo, si trova o tra l’articolo e il sostantivo come 10

Adnotationes di Muretus in Notae et Emendationes, posposte a Plutarchus, Vitae, cur. A. Bryan–M. Solanus, Londini 1723–1729 (non vidi). Cfr. la bibliografia di Piccirilli 1990, p. 4 e 7 e l’apparato critico a Cim. 10,4 (p. 36).

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in Cratin. fr. 256,1 K.–A. (Cheirōnes) µακάριος ἦν ὁ πρὸ τοῦ βίος βροτοῖσιν, o dopo il solo articolo come in Ar. Eq. 5736s. καὶ στρατηγὸς οὐδ’ ἂν εἷς6/6τῶν πρὸ τοῦ σίτησιν ᾔτησ’ ἐρόµενος Κλεαίνετον, Ar. fr. 611 K.–A. (inc. fab.) εἰς οἶ᾽ ἀνάλουν οἱ πρὸ τοῦ τὰ χρήµατα (cfr. anche Ar. Thesm. 4106s. πρὸς τοὺς γέροντάς οἳ πρὸ τοῦ τὰς µείρακας6/6ἤγοντο, dopo il pronome relativo), mai, invece, dopo l’insieme di articolo e sostantivo, come sarebbe in questo caso. A parte gli esempi citati, il nesso πρὸ τοῦ ha un ampio utilizzo in commedia, anche in fine verso di trimetro giambico, come nota Luppe 1973, p. 126 n. 12, ma gli esempi che questi cita (Eupol. fr. 219, 1s. K.–A., Ar. Nub. 5, Pac. 401, 402, 1199, Av. 199, Thesm. 398, 418, Eccl. 221–228) hanno tutti una diversa funzione e non valgono come parallelo per πρὸ τοῦ riferito ad un sostantivo (“nec tollitur scrupulus exemplis quae congessit Luppe”, Kassel–Austin PCG IV, p. 122): v. ad es. Eup. fr. 219, 1s. K.–A. (Poleis) οὓς δ’ οὐκ ἂν εἵλεσθ’ οὐδ’ ἂν οἰνόπτας πρὸ τοῦ,6/6νυνὶ στρατηγοὺς ἔχοµεν e le nove ripetizioni di Ar. Eccl. 221–228 ὥσπερ καὶ πρὸ τοῦ. Cfr. anche Marzullo 1962, p. 549, Tammaro 1978–1979, p. 2036s., Edmonds 1957, p. 22 n. 3. Altre ipotesi proposte: a) βροτῷ secondo Kock CAF I, p. 11, nel senso di mortale (già epico, ad es. Ε 304) di impiego comune in tragedia (ad es. Aesch. Supp. 295, Soph. OT 981) e commedia (ad es. Ar. Av. 1267, 1491, Thesm. 1023), ma quando questo aggettivo è legato a un pronome o aggettivo (come sarebbe in questo caso) prende di norma l’articolo, v. ad es. Ar. Eq. 601 ἡµεῖς οἱ βροτοί e cfr. LSJ s.6v. (per l’obiezione stilistica di Luppe 1973, p. 126 v. supra a πρόµῳ; il tono alto di questi versi potrebbe giustificare questa forma); b) ἀγῷ secondo Rutherford 1897, p. 16, che sarebbe derivato da un compendio ᾱτῳ erroneamente sciolto in πρώτῳ e da leggere ἀγῷ con correzione di γ in τ, ma una simile abbreviazione per πρώτῳ è in una forma inusuale, v. Gardthausen 1913, pp. 358–374 (ἀγός, inoltre, è termine alto [già in Hom. ∆ 265, Ε 217, 647 etc. (v. LfgrE I s.6v. [Laser]), cfr. Pind. Nem. I, 51, Aesch. Suppl. 248, 905, Eur. Rhes. 29 [su cui Liapis 2012, p. 81] e mai attestato in comicis, ma v. supra a πρόµῳ e βροτῷ); c) ἐνί secondo Bergk 1838, p. 23 e ἄκρῳ secondo Geissler 1954, p. 41, due proposte che alterano in maniera vistosa la forma tràdita e che non migliorano il senso del testo; cfr. in part. per ἄκρῳ Luppe 1973, p. 126 che alla motivazione addotta da Geissler a sostegno della propria lettura (“ein Glossem, das einen etwas ungewöhnlicheren, allenfalls der Erklärung bedürftigen Ausdruck verdrängt hat”), oppone la giusta considerazione che tale spiegazione, in sé possibile (sebbene il senso della glossa stessa non risulti del tutto perspicuo), non conferma ἄκρῳ per la quale i paralleli che Geissler stesso adduce (Aesch.

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Cratino

Ag. 628 τοξότης ἄκρος, Eur. fr. 703,1 K. ἄνδρες Ἑλλήνων ἄκροι) non sono probanti, perché sempre attributi di un sostantivo, mancante nel caso di Cratino. Interpretazione(Il frammento contiene un elogio di Cimone e, nello stesso tempo, un accorato rimpianto per la sua morte, che ha privato il locutore Metrobio della possibilità, che questi si era prospettato (ηὔχουν v. 1), di trascorrere con lo stratego tutta la propria vita e di godersi una “pingue vecchiaia” (vv. 4 e 5). Al linguaggio altisonante del frammento (v. infra) fa riscontro il reale motivo enunciato: il fatto che la morte di Cimone abbia privato Metrobio delle sue aspettative. Al v. 1 la persona loquens si presenta e indica il proprio nome (Mētrobios) e il proprio ruolo (ὁ γραµµατεύς); nei vv. 2 e 3 sono contenute espressioni di encomio, il cui destinatario, Cimone, è nominato esplicitamente solo al v. 4, un ritardo che crea un effetto di attesa e sottolinea, nel contempo, la grandezza delle sue virtù: Cimone è elogiato perché anēr theios, un appellativo in genere riservato agli eroi, ma anche proprio dei Lacedemoni e da mettere in relazione con il noto filolaconismo dello stratego; perché philoxenos e, generalmente, perché “in tutto il migliore di tutti i Greci” (si nota il polisindeto καὶ φιλοξενωτάτῳ καὶ παντ᾽ αρίστῳ e l’allitterazione πάντ᾽ ἀρίστῳ τῶν Πανελλήνων “Die Doppelung […] macht die Aussage besonders nachdrücklich”, Luppe 1963, p. 4); al v. 4, dopo l’esplicitazione del nome, il participio εὐωχούµενος unito all’omerico λιπαρὸν γῆρας riporta l’attenzione sul locutore, Metrobio, e insieme al successivo v. 5, spiega il motivo dell’elogio e completa il senso di ηὔχουν di v. 1: Metrobio si aspettava di vivere tutta la vita con Cimone e godersi una serena vecchiaia; i vv. 5 e 6, spiegano che, però, Cimone è morto (ὁ δέ al v. 5 crea un efficace effetto di contrasto con quanto detto finora) e ciò ha vanificato le attese di Metrobio. L’attacco del frammento, κἀγὼ γάρ, presuppone una sezione precedente al cui contenuto il discorso di Metrobio si riallaccia, cfr. Luppe 1963, p. 4 “aus κἀγώ ist zu entnehmen, daß im vorausgehenden Teil jemand in ähnlicher Weise den Tod eines von ihm geschätzten Mannes beklagte, aus dem begründenden γάρ, daß eine allgemeine Feststellung vorausging, etwa der Art: ‘Wahrhaftig entreißt der Tod uns unerwartet die besten Menschen’. Dem folgt: ‘auch ich nähmlich’”. Metrobio sembra configurarsi come un parassita: a ciò potrebbero rimandare sia l’accenno alla philoxenia di Cimone, di cui egli avrebbe certo approfittato, sia l’espressione del v. 4 λιπαρὸν γῆρας εὐωχούµενος, dove il verbo εὐωχέω è in genere usato in relazione ai banchetti (v. infra ad loc.), sia, in generale, l’atteggiamento di rimpianto per la possibilità persa di trascorrere una ‘pingue vecchiaia’, evidentemente grazie alla generosità di Cimone; in questo caso si potrebbe pensare ad un gruppo di parassiti che discutono della loro arte (o dei loro tentativi falliti, il che spiegherebbe il tono di rimpianto del locutore) e uno di loro, Metrobio, riferisce del suo piano,

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ormai vanificato, di approfittare della liberalità di Cimone. A ciò si potrebbe connettere anche il fatto che Metrobio si presenti indicando la sua professione (ὁ γραµµατεύς): nel discutere della loro arte i parassiti farebbero riferimento al loro mestiere e al modo in cui intendono (o intendevano) approfittare di qualcuno o di qualche circostanza; inoltre si potrebbe pensare che Metrobio sia un personaggio che entri in questo momento in scena e che per questo si presenti, cfr. Luppe 1963, p. 4: “Da der Sprecher ausdrücklich seinen Name und seinen Beruf nennt, handelt es sich wohl um die Vorstellung einer neu auftretenden Person”. Non è chiaro quale fosse la natura del legame tra Cimone e Metrobio: la professione di grammateus aveva una certa notorietà ad Atene e questo potrebbe spiegare perché Metrobio ne faccia esplicita menzione, ma non ci sono indizi che l’elezione dei grammateis dipendesse da quella degli strateghi (o che questi potessero in qualche modo influenzarla). Si può immaginare un rapporto specifico tra Cimone e Metrobio, a noi ignoto, che giustificherebbe il tono di rimpianto, oppure che Metrobio, nelle sue funzioni di grammateus, avesse avuto modo di accorgersi della liberalità di Cimone e, in quanto parassita (se si accetta questa possibilità), avesse deciso di approfittarne (e ne fosse poi rimasto deluso). Non sappiamo quale fosse il ruolo di Metrobio nella commedia: potrebbe essere stato un personaggio che entrava accidentalmente a far parte della commedia, oppure poteva avere un ruolo ben più importante, essere una sorta di eroe comico e, forse, avere in qualche modo a che fare con la contesa tra i poeti (per il suo ruolo di grammateus? “Il mediatore dell’agone tra i due poeti?”, Ornaghi 2004, p. 226). Per quanto riguarda la possibile collocazione del frammento, l’utilizzo del trimetro giambico ne garantisce la derivazione da una scena dialogata; secondo Ornaghi (2004, p. 226 e n. 54) “è probabile […] che il fr. 1 appartenesse al prologo (o comunque a una parte introduttiva della commedia) e che, dunque, il rimpianto di Metrobio connotasse sin dall’incipit tutta l’opera”, ma il rimpianto di Metrobio può collocarsi in una qualsiasi scena della commedia e non è necessario postulare che sia legato alla dimensione letteraria della commedia e al ruolo (solo possibile) di Metrobio in relazione all’agone poetico11.

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L’ipotesi citata di Ornaghi è così motivata: “queste sue (i.e. di Metrobio) parole di rimpianto paiono riprodurre aspettative e delusioni che Cratino avrebbe potuto facilmente condividere: il rimpianto, cioè, per un progetto non realizzato, che è dipinto con chiare reminiscenze lessicali di stampo epico […] Credo, anzi, che nell’atteggiamento di Metrobio possa essere riconosciuta la giusta chiave di lettura dell’intera commedia, ossia il senso della rappresentazione drammatica del

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Cratino

Il linguaggio del frammento è alto, come dimostrano singoli elementi del lessico (cfr. i comm. ad locc.): αὑχέω + accusativo e infinito ([1] ηὕχουν … [5] αἰῶνα πάντα συνδιατρίψειν) in genere utilizzato in tragedia; ἀνὴρ θεῖος (2) in genere riservato agli eroi e termine di encomio dei Lacedemoni; il superlativo φιλοξενώτατος (2) noto ancora solo in Eschilo; il nesso πάντ(α) + superlativo (3 παντ᾽ ἀρίστῳ) testimoniato solo in Sofocle; l’uso di Πανέλληνες ‘tutti i Greci’ (3), presente in Esiodo, nella lirica e in tragedia, in un solo caso in Aristofane, in un contesto di dizione elevata; l’utilizzo di αἰών (5), termine tradizionalmente alto; βέβηκε (6) nel senso eufemistico di τέθνηκε, tipico della tragedia; inoltre, il verbo εὐωχέω, di utilizzo frequente in commedia, ma qui singolarmente unito all’omerico λιπαρόν γῆρας. Da rilevare, infine, la dimensione politica dell’elogio di Cimone, v. in part. Schwarze 1971, p. 816s.: “eine überschwengliche Huldigung für den jüngst verstorbenen Kimon […] Kimon war in Gegensatz zu Perikles persönlich beliebt und volkstümlich. Aber hinter dem Überschwang des Ausdrucks steht unverkennbar eine individuelle gefärbte Parteinahme […] Die ganze Huldigung für Kimon trägt also bis in die Wortwahl hinein [il riferimento è al v. 2] einen betonten ,Konservativismus‘ zur Schau, der doch wohl über ein allgemeines Popularitätsklischee hinausgeht” (cfr. anche de Ste-Croix 1972, pp. 355–371 per la possibilità che Cratino e altri commediografi di quinto secolo fossero ‘cimoniani’, un giudizio che appare probabilmente da ridimensionare, v. Telò 2007, p. 105 e n. 454) e cfr. Cronologia, p. 19 s. e n. 9. κἀγὼ γάρ(A inizio di trimetro giambico esprime il punto di vista soggettivo della persona loquens, come in Soph. Ai. 650 (Aiace), OC 520 (coro, lyr.), Eur. Andr. 1235 (Teti), Hec. 284 (Ecuba), Bacch. 190 (Tiresia), Ar. Eq. 777 (Salsicciaio), Vesp. 153 (Bdelicleone), Plut. 954 (Carione). In commedia ancora in Eub. fr. 7,3 K.–A. (Amaltheia). Cfr. anche ἐγὼ γάρ a inizio di trimetro giambico ad es. in Ar. Eq. 1043, Nub. 190, Vesp. 855 etc. Γάρ ricorre di norma in seconda posizione nella frase, ma in commedia si trova spesso in altre posizioni: nell’ἀρχαῖα in 3°, 4° e 5° (in 3° come in questo caso ad es. in Ar. Eq. 32, 777 [cit. sopra, con κἀγώ], 789, Vesp. 653, 814 etc.), nella commedia di mezzo 2 e nuova fino anche alla 9° posizione, v. Denniston 1954 , pp. 96–98. ηὔχουν(Di etimologia incerta (un legame con εὔχοµαι è considerato poco probabile in GEW, DELG s.6v., è sostenuto, invece, in DGE  s.6v.; altre ipotesi di derivazione in Beekes 2010 s.6v.), non attestato prima del V sec. a.6C. (il sostantivo corradicale αὔχη ricorre in Pind. Nem. XI 29, per cui il verbo potrebbe essere un denominativo, v. anche infra). Per il significato, in confronto fra Omero e Archiloco: modelli – entrambi – della poesia e della poetica archilochea”.

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costruzione con accusativo (raramente senza, come ad es. in Aesch. Ag. 5066s.) e infinito presente o futuro (con infinito aoristo solo in Eur. Tr. 770 e Hel. 1619; assoluto in Eur. Hipp. 9526s., v. infra), come è nel caso di Cratino, vale ‘confidare, credere, attendere con fiducia’, “expects confidently, believes confidently, imagines, fancies” (Fraenkel 1950, III p. 7076s. ad Aesch. Ag. 1497 αὐχεῖς εἶναι τόδε τοὔργον ἐµόν)12 e si interpreta come un verbum sentiendi (Fraenkel cit. p. 708, cfr. Biehl 1989, p. 298 ad Eur. Tr. 770), che denota “attitudes of mind and not their verbal expressions” (Collard 1975, p. 244 ad Eur. Suppl. 504), cfr. anche Barrett 1964, p. 343 ad Eur. Hipp. 9526s. ἤδη νυν αὔχει καὶ δι’ ἀψύχου βορᾶς6/6σίτοις† καπήλευ᾽ (unico caso in cui αὐχέω è impiegato in maniera assoluta, ma con significato analogo): “the verb denotes a mental attitude, and means first ‘feel confident’, then sometimes ‘feel a proud confidence, pride oneself’”. Per questo valore v. ad es. Aesch. Ag. 1497 (cit. supra), Pers. 741 διὰ µακροῦ χρόνου τάδ’ ηὔχουν ἐκτελευτήσειν, Eur. Med. 582 γλώσσῃ γὰρ αὐχῶν τἄδικ’ εὖ περιστελεῖν, Andr. 311 σὲ µὲν γὰρ ηὔχεις θεᾶς βρέτας σῴσειν τόδε13. Il verbo αὐχέω non è attestato prima del V sec. a.6C. ed è di impiego 12

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La traduzione proposta da Fraenkel è in riferimento all’occorrenza di Aesch. fr. 99 R. [Kares ē Eurōpē] αὐχεῖν δὲ Τρώων ἄστυ πορθήσειν βίᾳ. Nel testo di questo frammento eschileo, Fraenkel manteneva la lezione αὐχεῖ tràdita dal papiro: “subject, as it seems (the words are known to be very corrupt), ‘the flower of Hellas’. To alter αὐχεῖ into αὐχεῖν with Wilamowitz and make it depend on 17 κλέος (ἐστί) is perhaps unnecessary” (Fraenkel 1950, III p. 707 n. 2). Ulteriori esempi: Aesch. Prom. 3386s. αὐχῶ γάρ, αὐχῶ, τήνδε δωρειὰν ἐµοὶ6/6δώσειν, Eur. Med. 582 γλώσσῃ γὰρ αὐχῶν τἄδικ’ εὖ περιστελεῖν; Heracl. 3336s. σοί τ’ εὖ λέλεκται, καὶ τὰ τῶνδ’ αὐχῶ, γέρον,6/6τοιαῦτ’ ἔσεσθαι, El. 939 ηὔχεις τις εἶναι τοῖσι χρήµασι σθένων, Suppl. 504 ἤ νυν φρονεῖν ἄµεινον ἐξαύχει ∆ιός, Bacch. 310 µὴ τὸ κράτος αὔχει δύναµιν ἀνθρώποις ἔχειν. Come nota Friis Johanssen 1980, II p. 268 ad Aesch. Suppl. 3306s. (v. infra) nei passi fin qui elencati il significato è quello di ‘feel confident’, mentre in altri (che Fraenkel 1950, III p. 7076s. cita per il medesimo valore di αὐχέω e che presentano la medesima costruzione) si deve, invece, intendere un significato attenuato, ‘supporre, immaginare’, presente in domande retoriche come appunto nel passo di Aesch. Suppl. 3306s. (ἐπεὶ τίς ηὔχει τήνδ’ ἀνέλπιστον φυγὴν6/6κέλσειν ἐς Ἄργος κῆδος ἐγγενὲς τὸ πρίν,6/6ἔχθει µεταπτοιοῦσαν εὐναίων γάµων;), v. ancora Eur. Alc. 6756s. ὦ παῖ, τίν’ αὐχεῖς, πότερα Λυδὸν ἢ Φρύγα6/6κακοῖς ἐλαύνειν ἀργυρώνητον σέθεν;, Heracl. 832 πόσον τιν’ αὐχεῖς πάταγον ἀσπίδων βρέµειν; e, in contesti di negazione, Aesch. Ag. 5066s. οὐ γάρ ποτ’ ηὔχουν τῇδ’ ἐν Ἀργείᾳ χθονὶ6/6θανὼν µεθέξειν, Prom. 688 s. οὔποτ’ οὔποτ’ ηὔχουν 〈ὧδε〉 ξένους6/6µολεῖσθαι λόγους ἐς ἀκοὰν ἐµάν, Eur. Heracl. 931 οὐ γάρ ποτ’ ηὔχει χεῖρας ἵξεσθαι σέθεν, Tr. 770 οὐ γάρ ποτ’ αὐχῶ Ζῆνά γ’ ἐκφῦσαί σ’ ἐγώ, Hel. 16196s. οὐκ ἄν ποτ’ ηὔχουν οὔτε σ’ οὔθ’ ἡµᾶς λαθεῖν6/6Μενέλαον. Da rifiutare il comune valore di ‘boast’ dato per es. da LSJ s.6v., messo in dubbio in

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essenzialmente tragico: già Fraenkel 1950, III p. 708 notava che l’utilizzo con l’infinito e il particolare valore che assume ricorre per noi la prima volta in Eschilo (“we cannot say whether he was the first to do so”) ed è sviluppato da Euripide, mentre Sofocle ne limita l’impiego ad alcuni composti (Ant. 390 σχολῇ ποθ’ ἥξειν δεῦρ’ ἂν ἐξηύχουν ἐγὼ, Phil. 869 οὐ γάρ ποτ’, ὦ παῖ, τοῦτ’ ἂν ἐξηύχησ’ ἐγώ, El. 656s. ὣς κἄµ’ ἐπαυχῶ τῆσδε τῆς φήµης ἄπο6/6δεδορκότ’ ἐχθροῖς ἄστρον ὣς λάµψειν ἔτι). Il verbo è escluso dalla commedia con l’unica eccezione di questo passo di Cratino (il composto ἐπαυχέω con dativo e non legato ad infinito in Ar. Av. 629 ἐπαυχήσας δὲ τοῖς σοῖς λόγοις “having been filled with confidence on the basis of x” [Dunbar 1995, p. 410]; la provenienza da commedia del trimetro µίλητος αὐχεῖ κἰταλία δοξάζεται tràdito da Clem. Alex. Paed. II 111,3 che Kock CAF III fr. 1259 registrava tra i comica adespota, è negata da Kassel–Austin PCG VIII, p. 514 [elenco dei frammenti adespoti]); l’attestazione di Cratino si può perciò intendere o come paratragica o, più genericamente, come indizio di stile elevato, cfr. Fraenkel 1950, III p. 708 “undoubtedly paratragic”, Kassel–Austin PCG IV, p. 122: “ηὔχουν elatioris dictionis est” (v. anche Interpretazione). Μητρόβιος(PA 10133, LGPN II s.v. nn. 1 e 3, PAA 650790. Nomi con il primo elemento Μητρο-, come ad es. Μητρώδορος e Μητροφάνης, sono teoforici di probabile origine non greca formati sul nome della Madre degli Dei, v. Bechtel 1917, p. 317; per Μητρόβιος contra Parker 2000, p. 70 e n. 63 “Metrobios […] may (cf. Patrobios) not be theophoric” (ma Πατρόβιος non ricorre prima dell’età cristiana [LGPN II s.6v., PAA 768442, 768445, 768450]) e cfr. anche altri nomi con suffisso in –βιος, nessuno dei quali teoforico, v. F. Dornseiff–B. Hansen, Reverse-Lexicon of Greek Proper-Names. Rückläufiges Wörterbuch der Griechischen Sprache, Chicago 1978 (a c. di Al.N. Oikonomides; orig. Berlin 1957), p. 95. Le prime attestazioni del nome Μητρόβιος sono nel V/ IV sec. a.6C. in tre fonti di provenienza attica (che sono, anche, gli unici esempi di nome proprio formato con Μήτρο- in questo arco di tempo)14: a) Plat. Euthyd. 272 c 2 Κόννῳ τῷ Μητροβίου, τῷ κιθαριστῇ, ὃς ἐµὲ διδάσκει ἔτι καὶ νῦν κιθαρίζειν; b) Plat. Menex. 235e (ΜΕΝ.) Τίς αὕτη; ἢ δῆλον ὅτι Ἀσπασίαν λέγεις. (ΣΩ.) Λέγω γάρ, καὶ Κόννον γε τὸν Μητροβίου· οὗτοι γάρ µοι δύο 3 εἰσὶν διδάσκαλοι, ὁ µὲν µουσικῆς, ἡ δὲ ῥητορικῆς; c) SEG XVI 23  =  IG  I

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alcune occorrenze tragiche già dagli scoli antichi (v. la documentazione addotta da Fraenkel 1950, III p. 708); artificiosa anche la distinzione di valori in ‘boast or declare loudly’ con acc. + inf. e ‘say confidently, be proudly confidently’ con inf. fut. proposta in LSJ s.6v. e DGE III s.6v., smentita dagli esempi citati. Cfr. Wilamowitz 1919, II p. 139, n.1 (id. 1927, p. 16 n.1, id. 1931 II, p. 90 n. 1): “Μητρόβιος heisst nach der Göttermutter, und das ist im alten Athen nicht üblich”.

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1146,26 (probabile: le prime due lettere del nome non sono leggibili e sono state alternativamente proposte le letture [Με]τρόβιος o [Πα]τρόβιος, ma questa seconda appare meno verisimile, poiché Πατρόβιος non occorre prima dell’età cristiana, v. supra). Di conseguenza si può supporre o che Μητρόβιος fosse un nome ateniese (il che sarebbe problematico per l’ipotesi di un’origine microasiatica e sosterebbe, d’altra parte, l’ipotesi di Parker di un’origine non teoforica del nome) oppure che il nome fosse quello di uno straniero residente ad Atene. Posteriori al V/IV sec. a.6C. e non attiche le altre attestazioni del nome Μητρόβιος, v. LGPN II s.6v. nn. 4–14; lo stesso vale per le attestazioni di altri composti con il primo elemento in Μητρο-, ad es. Mητροδώρα LGPN 2 II s.6v. nn. 1–5 (il n. 4 attestato in IG II 12121, 12215, 12216 di metà IV sec. a.6C. è di incerta provenienza ateniese), Μητρόδωρος LGPN II s.6v. nn. 1–103 attestato dalla fine del III sec. a.6C. in poi tranne i nn. 33 (335/4 a.6C.), 82 (V/IV a.6C.), 90 (343/2 a.6C.), Μητροφάνης LGPN II s.6v. nn. 1–15 (dalla fine del III a.6C.). L’identificazione del personaggio menzionato in questo frammento di Cratino con l’omonimo padre di Conno, maestro di musica di Socrate, citato nei due passi di Platone fu proposta da Winckelmann 1833, p. xl n. a, seguito da Bergk 1838, p. 19, Meineke FCG II.1, p. 15 (“fortasse recte”), Kock CAF I, p. 13, e prudentemente dai repertori onomastici (v. supra), rifiutata da Wilamowitz (v. n. 14) e Luppe 1963, p. 46s. e n. 415; tale identificazione (Metrobio padre di Conno in Platone6/6Metrobio γραµµατεύς di Cratino) è fondata unicamente sul dato autoschediastico delle sue uniche tre menzioni letterarie nel V/IV sec. a.6C. e una coincidenza casuale non è esclusa; manca ogni altra informazione su questo personaggio, ma la sua menzione come persona loquens nella commedia di Cratino potrebbe far supporre che fosse noto al pubblico ateniese, probabilmente per la sua funzione di γραµµατεύς (v. infra) e indipendentemente dal fatto che potesse essere il padre di Conno, κωµῳδούµενος caro alla commedia16. γραµµατεύς(‘Scriba, segretario’, funzionario pubblico con carica elettiva che ad Atene svolgeva differenti mansioni e uffici connessi con le attività della boulē; Aristot. Αth. Pol. 54, 3–5 ricorda il γραµµατεὺς κατὰ πρυτανείαν, il più importante in quanto “named as secretary in the prescripts of decrees […] and who is ordered to publish both decrees and laws” (Rhodes 1981, p. 600), 15

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Luppe 1963, p. 46s. ritiene il nome Metrobio ad Atene “nicht ganz selten”, ma le testimonianze epigrafiche che adduce a sostegno della propria tesi sono tutte di un periodo successivo al V/IV sec. a.6C. nel quale, invece, le uniche occorrenze sono le tre letterarie di Cratino e Platone e una epigrafica incerta, v. supra. Su questo personaggio v. in part. Totaro 1998, pp. 149–154 e S. Tsitsiridis, Platons Menexenos. Einleitung, Text und Kommentar, Stuttgart–Leipzig 1998, pp. 165–168.

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Cratino

il γραµµατεὺς ἐπὶ τοὺς νόµους (la cui funzione non è chiara) e il γραµµατεὺς τῆς πόλεως, il cui ruolo era di dare pubblica lettura degli atti nelle sedute; si aggiunge anche il γραµµατεὺς ἐπὶ τὰ ψηφίσµατα, le cui funzioni erano forse simili a quelle del γραµµατεὺς ἐπὶ τοὺς νόµους e numerosi altri, v. in particolare P.J. Rhodes, The Athenian Boule, Oxford 1972, pp. 134–141 (con ulteriore bibliografia), Rhodes 1981, pp. 599–605 ad Aristot. Ath. Pol. 54, 3–5. La figura del γραµµατεύς è richiamata in commedia in relazione a diverse funzioni: in Ar. Nub. 769–772 in quanto deputato a mettere per iscritto i capi di accusa (che portavano, verisimilmente, ad un processo): ὁπότε γράφοιτο τὴν δίκην ὁ γραµµατεύς,6/6ἀπωτέρω στὰς ὧδε πρὸς τὸν ἥλιον /τὰ γράµµατ’ ἐκτήξαιµι τῆς ἐµῆς δίκης; (Strepsiade dice a Socrate che potrebbe bruciare i capi d’accusa che il grammateus aveva scritto); in Ar. Thesm. 4316s. ταῦτ’ ἐγὼ φανερῶς λέγω·6/6τὰ δ’ ἄλλα µετὰ τῆς γραµµατέως συγγράψοµαι, una donna accusa pubblicamente Euripide e asserisce che il resto delle sue idee lo affiderà al γραµµατεύς (qui straordinariamente donna, cfr. Austin–Olson 2004, p. 188), che quindi, probabilmente, doveva registrare le differenti opinioni e proposte nel corso di un’assemblea. Inoltre: in Ar. Thesm. 11036s. Γόργονος πέρι6/6τὸ γραµµατέο σὺ τὴ κεπαλή secondo lo scoliaste ad loc., lo scita equivoca il nome della Gorgone (Γοργών, -όνος) con quello di un tale Γόργος, un barbaro che ricopriva la funzione di γραµµατεύς, e se si presta fede a questa notizia se ne potrebbe dedurre che anche uno straniero potesse ricoprire il ruolo di γραµµατεύς (ma il nome Γόργος è noto in Attica dalla fine del VI sec. a.6C., LGPN II s.6v., PAA s.6v.); si aggiunge anche la curiosa testimonianza di Plut. Quaest. conv. I 625d, che cita Aesch. fr. 358 R. σὺ δέξ᾽ ἄπω[θεν] αὐτόν· οὐ γὰρ ἐγγύθεν6/6[βαλεῖς·] γέρων δὲ γραµµατεὺς γενοῦ σαφής, all’inizio di una discussione sulla presbiopia, che si deve immaginare fosse caratteristica dei grammateis in età avanzata, come conseguenza delle loro funzioni. Non è chiaro dalle fonti se la funzione del grammateus avesse un certo prestigio politico o fosse invece, come pare più probabile, di un’importanza limitata, v. Rhodes 1981, p. 6046s.; in ogni caso i grammateis venivano eletti e per questo erano tenuti in maggiore considerazione degli hypogrammateis (‘sottosegretari’), il cui ruolo era spesso oggetto di attacco in commedia, v. ad es. Ar. Ran. 1083–1086 con Dover 1993, p. 328: “the secretary of the Council and the Assembly, or of any commission or board of officials, was elected, but his assistant was a professional and an employee. It was conventional to look down on this assistant”. Non è possibile determinare quale fosse la funzione specifica di Metrobio in quanto grammateus, né se fosse in qualche modo specificamente legato a Cimone, come potrebbe far supporre l’accorato rimpianto (cfr. Interpretazione); in Isocr. XIX 38 αἱρεθεὶς γὰρ ἄρχειν αὐτοκράτωρ ἐµὲ καὶ γραµµατέα προσείλετο καὶ τῶν χρηµάτων ταµίαν ἁπάντων

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κατέστησεν, il grammateus viene scelto (προσείλετο) da una persona alla quale era stato affidato il pieno potere (αὐτοκράτωρ) ed ha, inoltre, la funzione di tesoriere (tamias); ma non ci sono testimonianze che ad Atene l’elezione del grammateus fosse in qualche modo legata a quella degli strateghi o che questi potessero influenzare o anche scegliere chi avrebbe ricoperto il ruolo di grammateus (la cui importanza è incerta e probabilmente limitata, v. supra; il caso di Isocrate appare differente perchè al grammateus viene esplicitamente affidato anche il ruolo di tamias, il che gli conferisce senz’altro, in questo caso, un certo prestigio). σὺν ἀνδρὶ θείῳ(“Α human is θεῖος, ‘godlike’, ‘divine’, if his achievements are ‘superhuman’, and Homer, in Greek eyes, comes into the category”, Dover 1993, p. 322 ad Ar. Ran. 1034 ὁ δὲ θεῖος Ὅµηρος (cfr. anche Plat. Phaed. 95a Ὁµήρῳ θείῳ ποιητῇ, Ion 530b Ὁµήρῳ τῷ ἀρίστῳ καὶ θειοτάτῳ τῶν ποιητῶν). Θεῖος indica propriamente tutto ciò che è di natura o origine divina (ad es. il sogno in Β 22, la voce in Β 41) ed è impiegato sin dai poemi omerici in riferimento specifico a nomi propri di eroi (soprattutto Odisseo ad es. in Β 335, Λ 806, γ 398, δ 682 etc.; Achille: Τ 279 e 295, Eracle: Ο 25, Υ 145, etc.) o per figure che si possono in qualche modo collegare alla divinità (araldo: ∆ 192, Κ 3146s., cantore: θεῖος ἀοιδός 10x, θεῖον ἀοιδόν 3x, re: θείου βασιλῆος 3x nell’Odissea: δ 621 e 691, π 335. Analogo impiego nel caso di indovini e poeti, cfr. Bieler 1935, in part. pp. 10–13); θεῖος ἀνήρ è normalmente detto fino all’epoca di Platone17 degli eroi del mito, v. ad es. Π 2786s. ἀνδρὸς θείοιο…/ Ἀχιλλῆος (cfr. Ω 258 Ἕκτορα θ᾽, ὃς θεὸς ἔσκε µετ᾽ ἀνδράσιν), Pind. Pyth. VI 38 ὁ θεῖος ἀνήρ (Antiloco, v. Giannini in Gentili 1998, p. 549), Aesch. Ag. 1548

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Da Platone (e poi in Aristotele) l’impiego di θεῖος accanto al generico ἀνήρ (ad es. Leg. II 666d) o a specifiche categorie di persone (Rp. II 383c εἰ µέλλουσιν ἡµῖν οἱ φύλακες θεοσεβεῖς τε καὶ θεῖοι γίγνεσθαι, Men. 99 d τοὺς πολιτικοὺς οὐχ ἥκιστα τούτων φαῖµεν ἂν θείους τε εἶναι καὶ ἐνθουσιάζειν κτλ.) assume un valore centrale e designa colui che ricopre una “Mittelstellung zwischen Göttern und Menschen […] ein Mensch mit menschenmaß überragenden Eigenschäften und Fähigkeiten, Liebling der Götter”, Bieler 1934, p. 16 e p. 20 (di cui v. anche la discussione sulla distinzione o sovrapposizione di θεῖος ἀνήρ/θεὸς ἀνήρ e sull’evoluzione e funzionalizzazione del concetto prima nel mondo ellenistico [pp. 17–20] e poi nella tarda antichità e nel cristianesimo). Ιn Platone, in particolare, questo concetto, che egli sa applicato a diverse categorie di persone (v. Men. 99d ὀρθῶς ἄρ’ ἂν καλοῖµεν θείους τε οὓς νυνδὴ ἐλέγοµεν χρησµῳδοὺς καὶ µάντεις καὶ τοὺς ποιητικοὺς ἅπαντας) viene trasferito su politici e custodi, e con θεῖος egli indica, in generale una ristretta categoria di persone, non facile da trovare e che si contraddistingue per peculiari caratteristiche (ad es. Leg. XII 951b–c4).

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Cratino

ἐπ᾽ ἀνδρὶ θείῳ (Agamennone)18; in commedia ancora solo in Cratin. fr. 151,4 K.–A (Odyssēs) Ὀδυσσέι θείῳ (ripetizione della formula omerica). L’utilizzo di θεῖος ἀνήρ per Cimone si può, quindi, definire “ein außenordentliches Lob für einen verstorbenen Zeitgenossen” (Luppe 1963, p. 5). Secondo Plat. Men. 99c οἱ Λάκωνες ὅταν τινὰ ἐγκωµιάζωσιν ἀγαθὸν ἄνδρα, “σεῖος ἀνήρ19”, φασίν, “οὗτος” (cfr. Aristot. Eth. Nic. VII 1145 a 27: ἐπεὶ δὲ σπάνιον καὶ τὸ θεῖον ἄνδρα εἶναι, καθάπερ οἱ Λάκωνες εἰώθασι προσαγορεύειν, 〈οἳ〉 ὅταν ἀγασθῶσι σφόδρα του, σεῖος ἀνήρ φασιν); questa testimonianza può essere messa in relazione con il noto filolaconismo di Cimone (“apta laudatio viri φιλολάκωνος” Kassel–Austin PCG IV, p. 122), testimoniato ad es. da Plut. Cim. 16,1 ἦν µὲν οὖν ἀπ᾽ ἀρχῆς φιλολάκων (l’intero capitolo sedici si concentra su questo tema, v. in part. Blamire 1989, pp. 162–171 e Piccirilli 1990, pp. 255–259; sul filolaconismo di Cimone e le sue implicazioni, v. Zaccarini 2011) e, quindi, come i Lacedemoni definivano genericamente θεῖος ἀνήρ chi volevano elogiare, in Cratino la persona loquens Metrobio tesse le sue lodi di Cimone, di cui era noto il filolaconismo, e lo definisce, tra l’altro, θεῖος ἀνήρ, un nesso d’elogio tipico dei Lacedemoni. Si può notare che il solo θεῖος ricorre come definizione di Cimone (e di Lucullo) nella pericope conclusiva della σύγκρισις plutarchea delle due vite: ὥστε καὶ τὴν παρὰ τῶν θεῶν ψῆφον αὐτοῖς ὑπάρχειν ὡς ἀγαθοῖς καὶ θείοις τὴν φύσιν ἀµφοτέροις, cfr. Bieler 1935, p. 11 e n. 6 il quale rileva che mentre qui l’aggettivo è impiegato in maniera generica ed elogiativa per definire le virtù dei due uomini, “wenn dagegen Kratinos den Kimon θεῖος nannte, so hat er wohl zunächst nur an seine ungewöhnliche Freigebigkeit gedacht”. φιλοξενωτάτῳ(‘Che ama gli ospiti moltissimo, amantissimo degli ospiti’, “gastfreundlich, wer Fremde freundlich behandelt (aber sich deswegen nicht „als sich zugehörig betrachtet“”, LfgrE IV s.6v. φιλόξεινος [M. Schmidt] con rimando a Μ. Landfester, Das griechische Nomen »philos« und seine Ableitungen, Hildesheim 1966, p. 1126s. e 120). Genericamente riferito ai popoli o alle persone di cui si sta parlando (ζ 121, θ 576, Pind. Nem. I 20, Xen. Hell. VI 1.3; cfr. 18

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Si può richiamare anche Soph. Phil. 726 ὁ χάλκασπις ἀνὴρ θεός (Eracle). Unica eccezione Hes. Op. 731 ἑζόµενος δ’ ὅ γε θεῖος ἀνήρ, πεπνυµένα εἰδώς dove indica l’uomo pio: “here, and only here, in our sense of ‘godly’, θεουδής”, West 1978, p. 336, cfr. Bieler 1935, p. 12. In questo passo di Platone, rispetto a θεῖος dei codici (accolta anche da Burnet e stampata da Kassel e Austin, PCG IV, p. 122 [apparato] nel citare il luogo) la lezione σεῖος (epicorismo dorico) già sostenuta da Casaubon è preferibile perché presente, con ogni verisimiglianza, nei manoscritti visti da Enrico Aristippo e riflessa nella versione latina di questi del dialogo platonico, v. Bluck 1961, p. 4306s.

Ἀρχίλοχοι (fr. 1)

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Pind. Ol. III 1 Τυνδαρίδαις τε φιλοξείνοις con il patronimico). Da intendere in relazione alla philoxenia di Cimone, secondo Plut. Cim. 10,6 superiore a quella degli antichi ateniesi: ἡ δὲ Κίµωνος ἀφθονία καὶ τὴν παλαιὰν τῶν Ἀθηναίων φιλοξενίαν καὶ φιλανθρωπίαν ὑπερέβαλεν; in questo senso si spiega anche l’utilizzo del raro superlativo φιλοξενωτάτῳ, che sottolinea la straordinarietà della philoxenia di Cimone. Il superlativo dell’aggettivo φιλόξενος ha una sola altra occorrenza nel V sec. a.6C., Aesch. fr. 196,2 R. (Promētheus lyomenos) 〈xl〉 ἁπάντων καὶ φιλοξενώτατον (“comoediae aptius quam tragoediae” Radt 1985 ad loc. [p. 314]; potrebbe trattarsi di una delle caratteristiche lessicali comuni tra Cratino e Eschilo, v. Farioli 1996, in part. p. 966s.)20; le altre attestazioni del superlativo sono tutte più tarde, tra cui si segnala Plut. Ex. 603d 9 in un contesto in cui si ripete una sequenza superlativo-nome proprio: καὶ τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν νῆσον οἰκεῖν φησι τὸν θεοφιλέστατον Αἴολον, τὸν σοφώτατον Ὀδυσσέα, τὸν ἀνδρειότατον Αἴαντα, τὸν φιλοξενώτατον Ἀλκίνουν; ulteriori esempi si trovano solo in fonti esegetiche: Eust. in Iliad. III p. 336 van der Valk (ad Λ 8316s.) Ἐπαφρόδιτος δέ, φασί, τὸ δικαιότατος Κενταύρων ἀντὶ τοῦ φιλοξενώτατος νοεῖ, cfr. schol. Hom. Λ 831 δικαιότατος Κενταύρων: φιλοξενώτατος; schol. Pind. Ol. XIII 1 τὸν τρισολυµπιονίκην οἶκον ἐπαινῶν τὸν πρᾷον µὲν πρὸς τοὺς πολίτας, φιλοξενώτατον δὲ πρὸς τοὺς ξένους, εἰς γνῶσιν ἄξω καὶ ὑµνήσω διὰ τούτων; schol. Eur. Med. 847 ἢ φίλων: ἀντὶ τοῦ προσφιλεστάτων καὶ φιλοξενωτάτων21. πάντ᾽ ἀρίστῳ(L’unione di πάντ(α) (avverbiale) + superlativo è attestata nel teatro di V sec. a.6C. solo in Soph. OC 14586s. τὸν πάντ’ ἄριστον δεῦρο Θησέα, pressoché analogo all’occorrenza cratinea. Si possono confrontare due gruppi di attestazioni, entrambi testimoniati nel solo Sofocle (mancano occorrenze sia in Eschilo ed Euripide che nella commedia): a) πάντ(α) è unito al participio del verbo ἀριστεύω: Soph. Trach. 488 ὡς τἄλλ’ ἐκεῖνος πάντ’ ἀριστεύων χεροῖν, Ant. 195 ὄλωλε τῆσδε, πάντ’ ἀριστεύσας δορί; b) πάντ(α) è

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Kock CAF I, p. 591, fr. 901 registrava sotto gli ἀµφισβητήσιµα καὶ ψευδεπίγραφα di Aristofane il trimetro ὁ λῷστος οὗτος καὶ φιλοξενώτατος tràdito in AO II 452,15 che, invece, Kannicht (TrGF V.2, fr. 879, al quale rimandano Kassel–Austin PCG III.2, p. 449 [comparatio numerorum]) annovera tra i frammenti incertarum fabularum di Euripide e nel quale adotta la più probabile lezione φιλοξενέστατος (Kannicht 2004, p. 896). V. ancora Ios. Vita 142,2 τὴν γὰρ πόλιν ταύτην φιλοξενωτάτην οὖσαν ἐπιστάµενος πληθύουσάν τε προθύµως τοσούτων ἀνδρῶν; Porph. Quaest. hom. ad Od. VII, 32 ζητοῦσί τινες, πῶς ἐν τοῖς ἑξῆς φιλοξενωτάτους λέγει τοὺς ἀνθρώπους; Procop. de aedificiis III,7,15 καὶ φιλοξενώτατοι δέ εἰσιν ἀνθρώπων ἁπάντων.

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Cratino

premesso ad un positivo e ne intensifica il valore: Soph. Ai. 911 ἐγὼ δ’ ὁ πάντα κωφός, ὁ πάντ’ ἄϊδρις (v. Finglass 2011, p. 404), 14156s. τῷδ’ ἀνδρὶ πονῶν τῷ πάντ’ ἀγαθῷ6/6κοὐδενὶ 〈δή〉 πω λῴονι θνητῶν (v. Lobeck 1866, p. 3986s.), El. 287 ὁ πάντ’ ἄναλκις οὗτος, ἡ πᾶσα βλάβη (v. Davies 1991, p. 173 [ad Soph. Trach. 647 ὅν ἀπόπτολιν εἴχοµεν πάντα]), OT 11976s. τοξεύσας ἐκράτησε τοῦ6/6πάντ’ εὐδαίµονος ὄλβου. Si tratta, quindi, di un tipo di espressione abbastanza ricercato e presente nel solo Sofocle e in un solo caso con superlativo; in prosa cfr. Hdt. I 134.11 νοµίζοντες ἑωυτοὺς εἶναι ἀνθρώπων µακρῷ τὰ πάντα ἀρίστους (ma si ha τὰ πάντα, non il semplice πάντα), ma l’uso prevalente nella prosa attica ha il genitivo πάντων come rafforzativo di un superlativo, v. ad es. la documentazione di Brandwood 1976, p. 723 per Platone (πάντων + superlativo è di ampio uso anche in tragedia, ad es. Soph. Trach. 177, Eur. Bacch. 1234 etc.; e in commedia, ad es. Ar. Eq. 457, Vesp. 1303 etc.). Per ἄριστος + genitivo, v. ad es. Soph. Trach. 811 πάντων ἄριστον ἄνδρα τῶν ἐπὶ χθονί, Ar. Eq. 457 ὦ γεννικώτατον κρέας ψυχήν τ’ ἄριστε πάντων, Nub. 430 τῶν Ἑλλήνων εἶναί µε λέγειν ἑκατὸν σταδίοισιν ἄριστον. τῶν Πανελλήνων(Analogo ad altri sostantivi formati da un primo elemento παν- seguito da un etnico, v. ad es. Παναχαιοί, Πανίωνες (si possono confrontare anche nomi di feste come ad es. Παναθήναια, Παναιτώλια e Πανιώνια). A partire da Hes. Op. 528 (στρωφᾶται, βράδιον δὲ Πανελλήνεσσι 2 φαείνει) e Arch. fr. 102 W. (Πανελλήνων ὀϊζὺς ἐς Θάσον συνέδραµεν) la voce Πανέλληνες designa i greci in generale, come testimonia Strab. VIII 6.6 (= Hes. fr. 130 M.–W.) che distingue l’uso omerico da quello successivo22: περὶ δὲ τῆς Ἑλλάδος καὶ Ἑλλήνων καὶ Πανελλήνων ἀντιλέγεται. Θουκυδίδης (I 3) µὲν 22

Il valore di Πανέλληνες nei poemi omerici è discusso (cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 122: “quo sensu Πανελλήνων dixerit Homerus Β 530 antiquitus ambigebatur”). Πανέλληνες è attestato una sola volta: B 530 ἐγχείῃ δ’ ἐκέκαστο Πανέλληνας καὶ Ἀχαιούς. Questo verso era espunto da Aristarco, tra gli altri motivi, proprio per l’utilizzo di Πανέλληνες (sch. in Hom. Il. ad B 530, I p. 2996s. Erbse; cfr. Kirk in Iliad I, p. 202 e Th. W. Allen, The Homeric Catalogue of Ships, Oxford 1921, p. 54); anche Ἕλληνες ha una sola attestazione, Β 684 Μυρµιδόνες δὲ καλεῦντο καὶ Ἕλληνες καὶ Ἀχαιοί (di nuovo insieme ad Ἀχαιοί), mentre Ἑλλάς ricorre nell’Iliade 5x (1x gen. Ι 487; 1x dat. Π 595 ; 3x acc. Β 683, Ι 395 e 447) sempre “in the special sense of inhabitants of the region of Hellas close to Phtie” e nell’Odissea si hanno quattro occorrenze in cui si ripete l’espressione Ἑλλάδα καὶ µέσον Ἄργος (α 344, δ 726, δ 816, ο 80) “in which Hellas probably represents central and northern Greece as distinct from the Peloponnese (le due citazioni da Kirk in Iliad I, p. 202. L’unica altra attestazione dell’Odissea, λ 496, ha significato analogo a quello discusso nell’Iliade). Il valore testimoniato in Β 530 sembra essere più ampio e coprire una più ampia parte dei Greci, il che potrebbe essere un uso più tardo, postomerico o meno,

Ἀρχίλοχοι (fr. 1)

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γὰρ τὸν ποιητὴν µηδαµοῦ βαρβάρους εἰπεῖν φησι διὰ τὸ µηδὲ Ἕλληνάς πω τὸ ἀντίπαλον εἰς ἓν ὄνοµα ἀποκεκρίσθαι. καὶ Ἀπολλόδωρος (FGrHist 244 F 200) δὲ µόνους τοὺς ἐν Θετταλίᾳ καλεῖσθαί φησιν Ἕλληνας “Μυρµιδόνες δὲ καλεῦντο καὶ Ἕλληνες.” Ἡσίοδον µέντοι καὶ Ἀρχίλοχον ἤδη εἰδέναι καὶ Ἕλληνας λεγοµένους τοὺς σύµπαντας καὶ Πανέλληνας, τὸν µὲν περὶ τῶν Προιτίδων λέγοντα ὡς ‘Πανέλληνες ἐµνήστευον αὐτάς’ (Hes. fr. 130 M.–W.), 2 τὸν δὲ ‘ὡς Πανελλήνων ὀιζὺς ἐς Θάσον συνέδραµεν’ (Arch. fr. 102 W. )”. Come designazione complessiva di tutti i Greci, Πανέλληνες ricorre ancora 2 in Pind. Isthm. II 38 e IV 29, Paean. VI 62, Ion fr. 26,3 W. , Eur. Suppl. 526, 671, Tr. 413, 721, Iph. Aul. 350, 414 (probabilmente anche nel mutilo trag. adesp. 645,3 Snell–Kannicht) e, in commedia, Ar. Pac. 302. Sul concetto di Πανέλληνες v.  Antonetti 1996. Secondo Bergk 1838, p.  23 nell’utilizzo di Πανέλληνες “Cratinus […] Archilochum secutus videtur; neque enim videtur haec appellatio usu et vitae communis consuetudine trita fuisse”, possibile in una commedia in cui Archiloco aveva un ruolo di primo piano, sebbene l’utilizzo di Aristofane e quello, più frequente, della tragedia mostrino, contrariamente all’ipotesi di Bergk, una certa frequenza nell’impiego; date le attestazioni, Πανέλληνες appare, comunque, una parola di caratura ‘alta’ (un tono elevato è presente anche nell’occorrenza di Ar. Pac. 302 che riprende la precedente apostrofe di Trigeo ὦνδρες Ἕλληνες di v. 292, cfr. Olson 1998, p. 129 e 132). Κίµωνι(APF 8429 [pp. 293-312], LGPN II s.6v. nr. 1, PAA 569795 (v. inoltre la bibliografia su Cimone citata in Piccirilli 1990, p. XLIII6s.), una delle maggiori personalità politiche della prima metà del V sec. a.6C., nato approssimativamente intorno al 510 a.6C. e morto nel 449 a.6C. durante l’assedio di Cizico nella parte sud–orientale di Cipro. Figlio di Milziade IV e di Egesipile I figlia del re tracio Oloro (Hdt. VI 39) e quindi µητρόξενος di condizione, fu autore delle prime manovre della lega navale ateniese, costituita dopo la battaglia di Salamina, alla quale egli aveva verisimilmente preso parte con il preciso intento di liberare le zone della Grecia ancora sotto il controllo dei Persiani; in particolare si ricorda la liberazione di Eione (476 a.6C.) e l’assoggettamento di Sciro (475 a.6C.), mentre incerto è l’asservimento di Nasso (παρὰ τὸ καθεστηκός, Thuc. I 98). L’akmē della sua carriera politica è la battaglia dell’Eurimedonte (470/69 a.6C. o, meno probabilmente, 466/65 a.6C.); uno degli eventi più significativi ai quali è legato il suo nome è l’assedio e conquista di Taso (463 a.6C.), dopo che questa si era ribellata nel 465 a.6C. Nel 462 a.6C. impegnò Atene a fianco degli Spartani nella terza guerra messenica, dopo averne fortemente caldeggiato l’intervento (Thuc. I 100–103, Diod. XI 636s., Plut. Cim. 14–17), ma il contigente v. anche la testimonianza di Eust. in Il. Β 530, p. 277,6 (I p. 425 van der Valk) e Kirk in Iliad I, p. 202 (contra Allen cit. supra 1921, p. 54).

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Cratino

ateniese fu rinviato a casa dagli Spartani che lo sospettavano di collusione con gli insorti; da qui lo smacco a Cimone e il suo conseguente ostracismo l’anno seguente (461 a.6C.), dovuto anche al progressivo affermarsi di Pericle sulla scena politica. Secondo una notizia non univocamente accettata, data ad es. da Thuc. I 112 (per lo status quaestionis v. Gomme 1945, I pp. 325–329, 409–413), Cimone sarebbe stato richiamato dall’ostracismo già cinque anni dopo (456 a.6C.), ma la prima azione che gli si può attribuire con certezza è la stipula di una tregua tra Atene e Sparta nel 451 a.6C. (nel 454/3 a.6C. secondo Diod. XI 86) e la spedizione contro Cipro (450/449 a.6C.) nella quale trovò la morte, secondo le fonti per aver contratto un’epidemia. Cimone è menzionato in commedia ancora in due passi: Eup. fr. 221 K.–A. (Poleis), dove il giudizio è ambivalente, cfr. Cronologia (p. 19 s. e n. 9) e in Alex. fr. 25.12 (Asōtodidaskalos; la commedia è spuria secondo Arnott 1996, pp. 819-822, cfr. Kassel–Austin PCG II [1991], p. 37), associato ai nomi di Pericle e Codro, cfr. Arnott 1996, p. 830: “with this juxtaposition the speaker tries to smear off on to Pericles and Cimon some of the ridicule associated with the name of Codrus”; inoltre, in Cratino fr. 160 K.–A. (Panoptai) sono menzionati i Κιµώνεια ἐρείπια. Certamente positivo in questo caso il giudizio su Cimone; per la dimensione politica dell’elogio, v. Interpretazione. λιπαρὸν γῆρας(Iunctura omerica, presente nella sola Odissea: δ 210 αὐτὸν µὲν λιπαρῶς γηρασκέµεν ἐν µεγάροισιν, λ 136 (= ψ 283) ὅς κέ σε πέφνῃ6/6γήρᾳ ὕπο λιπαρῷ ἀρηµένον, τ 368 γῆράς τε λιπαρὸν θρέψαιο; successivamente in Pind. Nem. VII 99 βίοτον ἁρµόσαις6/6ἥβᾳ λιπαρῷ τε γήραϊ διαπλέκοις. Questa di Cratino è l’unica attestazione in età classica, le altre sono più tarde, v. ad es. hymn. orph. 39,19 Quandt καὶ βίῳ εὐόλβῳ λιπαρὸν γῆρας κατάγοντι, AP VIII 13,4 γῆρας δ’ ἐς λιπαρὸν ἱκόµεθ’ ἀµφότεροι, 132,2 Ἀµφίλοχος λιπαροῦ γήραος ἀντιάσας; raro anche in prosa, v. ad es. Plut. exil. 603b 9, Ios. AI 8, 2,6. Cfr. anche Hsch. ε 2723 ἐν γήρᾳ πίονι· γῆρας λιπαρόν, che utilizza il nesso già omerico per spiegare l’espressione ἐν γηρᾳ πίονι di Ps. 91,15. Per il valore di λιπαρός in Omero Heubeck in Odissea III, p. 273 nota che a partire dal significato di base dell’aggettivo ‘risplendente di grasso’ (v. LSJ s.6v.) si ha in questa iunctura un valore come ‘ricco in beni esteriori, che ha abbondanza di ogni bene’, simile a quello che possiede in alcune occorrenze ὄλβιος “che ha fortuna (ὄλβος), che ha abbondanza di” (v. Gruber 1971, p. 17). εὐωχούµενος(“Deverbatif avec vocalisme long de l’intrans. εὖ ἔχω «je me trouve bien», avec valeur causative” (DELG s.6v.”, cfr. Athen. VIII 363b τὰς δ᾽ εὐωχίας ἐκάλουν οὐκ απὸ τῆς ὀχῆς, ἥ ἐστι τροφή, ἀλλ᾽ ἀπὸ τοῦ κατὰ ταῦτα εὖ ἔχειν). Frequentemente attestato in commedia al medio-passivo (all’attivo in Ar. Vesp. 341, Metag. fr. 15 K.–A. [su cui Orth 2014, p. 472]) in due valori principali: 1) assoluto, con il significato di banchettare (con * le occorrenze

Ἀρχίλοχοι (fr. 1)

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al participio e nella stessa posizione metrica del frammento di Cratino): Ar. *Vesp. 1236 [εὐωχηµένον], *Lys. 1224 [εὐωχηµένοι], Eccl. 664, 716 e6s., Plut. 614, Alex. fr. 50,2 K.–A., 233, Men. fr. 608 K.–A.; 2) con accusativo (come nel caso di λιπαρὸν γῆρας εὐωχούµενος), con il significato di ‘cibarsi con abbondanza di qualcosa, godersi qualcosa’ (LSJ s.6v. “c. acc. cogn., feast upon, enjoy”), sempre in riferimento a qualcosa che si mangia, ad es. Xen. Cyr. I 3.6 ἀλλὰ κρέα γε εὐωχοῦ, Hp. Steril. 220 καὶ εὐωχηµένος σιτία ὀλίγα ξύµφορα, Pol. VIII 24.13 τὰ µὲν ἀποδόµενοι, τὰ δ’ εὐωχούµενοι τῆς λείας. Cfr. anche Xen. Cyr. VI 1.10 εὐωχοῦµαι δὲ τὰ ἐκείνων καὶ πίνω τὰ τῶν πολεµίων). Non ci sono attestazioni di questo valore medio-passivo con accusativo, connesso ad un concetto astratto come è nel caso di λιπαρὸν γῆρας ‘pingue vecchiaia’23; l’unicità di questo costrutto è efficacemente sottolineata anche dall’accostamento di un verbo di uso comune in commedia con la iunctura omerica λιπαρὸν γῆρας. αἰώνα πάντα συνδιατρίψειν(“Nella tradizione letteraria greca, αἰών è una parola poetica per eccellenza prediletta da Pindaro e dai tragici, quasi affatto ignorata dalla commedia e usata di rado dalla prosa come elegante e poetico equivalente di βίος […] come equivalente di βίος, αἰών entrò anche nella prosa […] ma […] in realtà αἰών resta e resterà in tutta la letteratura greca una parola di caratura molto alta. Lo conferma anche lo scarsissimo uso che ne fece la Commedia, la quale conosce esclusivamente il termine βίος: completamente assente in Aristofane, αἰών è infatti attestato solo due volte nella formula αἰῶνα (συνδια-)τρίβειν […] quale variante del normale βίον τρίβειν”, Degani 1961, p. 11 e 566s., con i riferimenti oltre che a Cratino a Diocl. fr. 14, 46s. K.–A. µηδ᾽ ἀγόµφιόν ποτε αἰῶνα τρίψῃ e Men. fr. 420, 5 K.–A. προέλαβεν, ἐξήρειψεν, αἰὼν γίγνεται (quest’ultima è l’unica attestazione della nea). Per βί(οτ)ον τρίβειν in commedia, v. Ar. Pac. 589 (βίον ἐτρίβοµεν, su cui cfr. Olson 1998, p. 194), Plut. 526 (τρίψεις βίοτον), Eupol. fr. 60,1 K.–A. (ἀσεβῆ βίον […] ἔτριβες), v. ancora Headlam 1922, p. 226s. ad Herod. I 22 e Orth 2014, p. 241 (ad Diocl. fr. 14,4 cit. supra) che nota che queste espressioni “haben of eine negative Nuance und drücken ein mühevolles Leben aus” (ibid. più sotto si rileva che, nel caso di Cratino, l’espressione è “mit einer deutlich optimistischeren Vorstellung der Alter”). Per συνδιατρίβω ‘pass or spend time with or together’ l’unica altra occorrenza in commedia è Antiph. fr. 54,6 K.–A. κοινῇ τὸν ἄλλον συνδιατρίψοντες 23

Sembra da escludere che l’accusativo λιπαρὸν γῆρας possa dipendere da συνδιατρίψειν, che va senza dubbio legato ad αἰώνα πάντα (si tratta di una variante dell’espressione βίον τρίβειν, v. ad loc.). Si potrebbe al limite intendere λιπαρὸν γῆρας accusativo di tempo continuato e, quindi, supporre un impiego assoluto di εὐωχέω, ma il senso non ne risulterebbe particolarmente convincente.

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Cratino

χρόνον (si sottintende il dativo τοῖς τεθνηκόσι, cfr. αὐτοῖς al v. 5), e senza accusativo, ma con il dativo della persona, v.  ad es. Plat. Symp. 172c ἐγὼ Σωκράτει συνδιατρίβω. Per αἰών + πᾶς, v. Eur. Hec. 7566s. τοὺς κακοὺς δὲ τιµωρουµένη6/6αἰῶνα τὸν σύµπαντα δουλεύειν θέλω, Xen. Cyr. II 1.19 διὰ παντὸς τοῦ αἰῶνος βιοτεύειν, Paus. VIII 2,6 ἐν δὲ τῷ παντὶ αἰῶνι πολλὰ µὲν πάλαι συµβάντα, Ios. AI 19,79 δι’ αἰῶνος τοῦ ἅπαντος. λιπώνQ/Qβέβηκε πρότερος(Il perfetto βέβηκα corrisponde eufemisticamente a τέθνηκα, un valore ben noto (LSJ s.6v.) che sfrutta l’ambiguità basata sulla sovrapposizione dei concetti ‘essere partito, essere andato via6/6essere morto’, v. ad es. Soph. Trach. 8746s. βέβηκε ∆ῃάνειρα τὴν πανυστάτην6/6ὁδῶν ἁπασῶν ἐξ ἀκινήτου ποδός “carico di ambiguità, perché il valore proprio è appena simulato nella struttura con ὁδός (che è metaforico), mentre si percepisce inevitabilmente l’identità βέβηκε = τέθνηκε” (Longo 1968, p. 308). Tra le altre testimonianze tragiche che sfruttano questo stesso valore v. ad es. Aesch. Pers. 18, 10026s., Soph. OT 959, El. 1151, OC 1678, Eur. Alc. 392, Med. 439, Andr. 1022, Her. 768, Suppl. 1139, Tr. 289, 1145, Or. 971. Non vi sono attestazioni di questo impiego in testi comici; si può forse confrontare Ar. Ran. 84 (Her.) Ἀγάθων δὲ ποῦ ᾽στιν; (Dion.) ἀπολιπὼν µ᾽ ἀποίχεται (Dioniso parla di Agatone di cui si sa che poco prima del 405 a.6C. abbandonò Atene per rifugiarsi alla corte del sovrano macedone Archelao) dove ricorre il participio aoristo di λείπω, nel composto con ἀπό in allitterazione con il successivo ἀποίχεται, verbo questo che come il semplice οἴχοµαι24 e al pari del perfetto βέβηκα, può essere metaforicamente impiegato per ‘morire’ (LSJ6s.vv. risp. 3 [ἀποίχοµαι] e II.1) e gioca sul fatto che “la dipartita del poeta […] può essere ambiguamente intesa come abbandono di Atene o della vita mortale” (Totaro in Mastromarco– Totaro 2006, p. 570), un dato noto già alle fonti antiche v. schol. ad Ar. Ran. 83. Anche l’utilizzo di (ἀπ)οίχοµαι con valore metaforico di ‘morire’ è limitato in commedia a questa sola occorrenza aristofanea e non è forse senza significato che ricorra a proposito della ‘dipartita’del tragico Agatone; in ogni caso la frequente attestazione dell’equivalenza βέβηκα = τέθνηκα in tragedia e, di

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Particolarmente interessante nel caso di οἴχοµαι, Aesch. Pers. 1 τάδε µὲν Περσῶν τῶν οἰχοµένων: questa scelta lessicale di Eschilo è certamente vincolata dal metro, ma getta fin dalla scena di apertura una luce sinistra sul destino dei Persiani, in maniera assai maggiore di Phryn. trag. TrGF I 3 F 8 (Phoinissai) τὰδ᾽ἐστι Περσῶν τῶν πάλαι βεβηκότων che, secondo l’hypothesis ai Persiani, Eschilo avrebbe imitato; nel frammento di Frinico, infatti, πάλαι dimostra quasi certamente la non ambiguità, in questo caso, del perfetto βέβηκα, v. Garvie 2009, p. 50 (anche per status quaestionis e opinioni divergenti).

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contro, la sua assenza in commedia, è quasi senz’altro un ulteriore indizio dello stile elevato di questi versi.

fr. 2 K.–A. (2 K.) οἷον σοφιστῶν σµῆνος ἀνεδιφήσατε Che sciame di sofisti avete ricercato6/6portato alla luce25 Clem. Alex. strom. I 24, 1–2 ὅθεν οἱ Ἕλληνες καὶ αὐτοὶ τοὺς περὶ ὁτιοῦν πολυπράγµονας σοφοὺς ἅµα καὶ σοφιστὰς παρωνύµως κεκλήκασι. Κρατῖνος γοῦν ἐν τοῖς Ἀρχιλόχοις ποιητὰς καταλέξας ἔφη· οἷον — ἀνεδιφήσατε Per questo motivo anche i Greci hanno chiamato quelli che si occupano di qualunque cosa sophoi e insieme sophistai. Cratino certo negli Archilochoi avendo enumerato i poeti disse: che sciame — alla luce Diog. Laert. I 12 οἱ δὲ σοφοὶ καὶ σοφισταὶ ἐκαλοῦντο. καὶ οὐ µόνον (οὖτοι add. Reiske), ἀλλὰ καὶ οἱ ποιηταὶ σοφισταί, καθὰ καὶ Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν οὕτως καλεῖ E i sophoi erano chiamati anche sophistai. E non solo (questi), ma anche i poeti (erano chiamati) sophistai, proprio come anche Cratino negli Archilochoi lodando quelli del seguito di Omero ed Esiodo li chiama in questo modo

Metro(Trimetro giambico

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 66s. (fr. IV), Bergk 1838, p. 6, Meineke FCG II.1 (1839), p. 16 (fr. II), Bothe PCGF (1855), p. 76s. (fr. 2), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 8, Kock CAF I, p. 12, Edmonds FAC I (1957), p. 226s., Luppe 1963, p. 6, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 123, Imperio 1998, p. 49; Conti Bizzarro 1999, pp. 39–45, Bakola 2010, p. 71 e 74, Henderson 2011, p. 1786s., Storey FOC I (2011), p. 2706s. Contesto della citazione(Clemente Alessandrino cita un passo della prima lettera ai Corinzi (I Cor. 3,196s.) in cui si critica la pretesa saggezza, sulla 25

In alternativa si può tradurre: ‘come uno sciame di sofisti avete ricercato6/6portato alla luce’, benchè questa possibilità appaia meno verisimile, cfr. Interpretazione.

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quale prevale la fede del credente, e chiarisce il significato di σοφός qui utilizzato (I 23,3 σοφοὺς δή που τοὺς σοφιστὰς τοὺς περὶ τὰς λέξεις καὶ τὰς τέχνας περιττοὺς καλούσης τῆς γραφῆς); segue la menzione dell’usus dei Greci di definire negativamente i sophoi sophistai (per questo valore v. infra). A conferma di ciò viene citato il frammento di Cratino, introdotto dalle parole ποιητὰς καταλέξας, il che potrebbe essere indizio del fatto che in Cratino σοφιστής (σµῆνος σοφιστῶν) facesse riferimento ai poeti e che il verso seguisse un’elencazione di poeti (poi indicati tutti insieme con σµῆνος, cfr. Interpretazione). Dopo Cratino, per analogo motivo viene citato Iofonte (TrGF 1, 22 F 1 Sn.), anche qui con la specificazione di ciò a cui σοφιστής faceva riferimento: Ἰοφῶν τε ὁµοίως 〈ὡς〉 ὁ κωµικὸς ἐν Αὐλῳδοῖς σατύροις ἐπὶ ῥαψῳδῶν καὶ ἄλλων τινῶν λέγει· 〈xlkl x〉 καὶ γὰρ εἰσελήλυθεν6/6πολλῶν σοφιστῶν ὄχλος ἐξηρτυµένος (di seguito si ribadisce la valenza negativa di tale σοφία e di chi la pratica [σοφός, σοφιστής], con una seconda citazione da I Cor. 1, 19]). La testimonianza di Diogene Laerzio informa che σοφισταί poteva designare anche i poeti e cita come prova di ciò il fatto che Cratino negli Archilochoi chiamava così τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον (v. infra Interpretazione per il participio ἐπαινῶν); qui l’identificazione σοφιστής/ποιητής è esplicita e coerente con la precedente testimonianza. Sebbene non certo, è molto probabile che il passo di Diogene Laerzio sia relativo allo stesso verso citato da Clemente Alessandrino: si dovrebbe, altrimenti, supporre un altro passo degli stessi Archilochoi in cui appariva un’analoga definizione di σοφισταί per i sostenitori di Omero ed Esiodo; inoltre, Clemente Alessandrino nel citare il passo riporta che Cratino aveva elencato i poeti (ποιητὰς καταλέξας) e la pericope di Diogene Laerzio τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν οὕτως καλεῖ può ben adattarsi ad una enumerazione (Clemente Alessandrino testimonia che Cratino elencava i poeti e Diogene Laerzio riferisce come li chiamava). L’espressione τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον indica molto probabilmente ‘Omero ed Esiodo ed i loro sostenitori’: il nesso οἱ περὶ (o ἀµφὶ) τινα (acc. nominis proprii) designa, infatti, “eine Person mit ihren Begleitern, Anhängern, Schülern” (Kühner–Gerth II.1, p.  2696s.), “X mit seiner Umgebung, seinen Angehören, Anhängern usw.” (Radt 1980, p. 48), ossia la persona stessa che viene nominata (qui Omero ed Esiodo) e quelli ad essa in qualche modo collegati. Secondo Dubuisson 1977 si distinguono nell’uso: a) oἱ περὶ X (un solo nome proprio) che indica generalmente ‘X e le persone ad essa collegate’ (più raro ‘X solo’; questo valore è quello familiare in lessicografi e grammatici, dubbio quand’anche possibile altrove, v. Kühner–Gerth II.1, p. 270 che rimandano alla documentazione di Lehrs 1837, p. 28 e n. per οἱ περὶ Ἀπίωνα, Schwyzer– Debrunner 1950, p. 417, Dubuisson 1977, pp. 164–181, Gorman 2001, p. 205) e

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b) οἱ περὶ Χ καὶ Υ (ed eventualmente Z, due o più nomi), dove il valore perifrastico, οἱ περὶ X καὶ Y = X e Y soli, è quello prevalente; nel caso di Diogene Laerzio sono discussi quattro casi (ΙΙ 105 e 134, VII 68, IX 107; manca, però, I 12, relativo a Cratino, v. infra) di οἱ περὶ X καὶ Y in cui si considera l’ipotesi οἱ περὶ X καὶ Y = X e Y e le persone ad esse collegate, ma viene preferita sempre l’interpretazione οἱ περὶ X καὶ Y = X e Y soli (Dubuisson 1977, pp. 146–151 in part. 1476s. [“οἱ περὶ Χ = X seul”] e p. 1486s. [“οἱ περὶ Χ καὶ Υ”]). Contro questa netta distinzione tra a) e b), Radt 1980, in part. pp. 50–52, secondo cui “die Grenze […] lässt sich nicht scharf ziehen” (p. 50), ma appare “evident […] die Periphrase meist in dem besonderen Fall οἱ περὶ Χ καὶ Υ (καὶ Ζ) = Χ καὶ Υ (καὶ Ζ)” (p. 241), con esempi da diversi autori, ma anche “zweifelsfälle” (p. 241 n. 5) come ad es. Aristot. De Caelo 305 a 33 e Strab. I 2.6; più recisamente, Gorman 2003, a proposito del caso specifico di Polibio, rileva che “the claim that οἱ περὶ X καὶ Υ is closely associated with perifrastic usage is unconvincing; no passage has been advanced in which οἱ περὶ Χ καὶ Υ is certainly periphrastic or even where periphrasis is more likely than not” (p. 1426s., v. anche Gorman 2001 per conclusioni simili e parzialmente divergenti da quelle di Radt 1988 a proposito delle occorrenze in Strabone). Nel caso specifico di Diogene Laerzio, proprio l’occorrenza di I 12 τοὺς περὶ Ὅµηρον καὶ Ἡσίοδον, non discussa, come detto, da Dubuisson 1977, potrebbe indicare che qui οἱ περὶ Χ καὶ Υ valga ‘X e Y e le persone ad esse collegate’ e non ‘X e Y soli’; se, infatti, si accetta che la testimonianza di Diogene Laerzio sia relativa al verso di Cratino citato da Clemente Alessandrino (v. supra), la presenza nel frammento di Cratino dell’espressione σµῆνος σοφιστῶν sembra senz’altro più adatta a indicare un gruppo di persone, i colleghi o sostenitori insieme a Omero ed Esiodo, più che i due poeti solamente. Testo(Secondo Kock CAF I, p. 12 “scribendum videtur aut ὅσον aut οἵων” (nel primo caso “quanto grande sciame di sofisti etc.”; nel secondo “uno sciame di quali sofisti etc.”), ma il tràdito οἷον può essere mantenuto, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 123 che richiamano: Ar. Eq. 8526s. ὁρᾷς γὰρ αὐτῷ στῖφος οἷόν ἐστι βυρσοπωλῶν6/6νεανιῶν (con genitivo) e Vesp. 425 ὡς ἂν εὖ εἰδῇ τὸ λοιπὸν σµῆνος οἷον ὤργισεν (accusativo dipendente da ὤργισεν). Interpretazione(Sulla base dei paralleli di Ar. Eq. 852 e Vesp. 425 (v. Testo) il verso si può intendere come un’interrogativa indiretta: il soggetto è un plurale a di 2 persona deducibile dal verbo ἀνεδιφήσατε, il quale regge l’accusativo οἷον … σµῆνος (analogamente al caso delle Vespe) ed era introdotto da un verbo principale (ad es. ὁράω, o simili): “… quale sciame di sofisti etc.”; in alternativa οἷον può introdurre un’esclamazione indiretta (LSJ s.6v. II.2), sempre con sogg. ‘voi’ e οἷον … σµῆνος accusativo dipendente da ἀνεδιφήσατε: “quale sciame di

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sofisti etc.!”, cfr. ad es. Ar. Thesm. 703 οἷον αὖ δέδρακεν ἔργον, οἷον αὖ, φίλαι, τόδε. Per i confronti proposti, l’interpretazione di οἷον come interrogativo o esclamativo appare la più immediata; si potrebbe, però, anche intendere oἶον nel senso di ‘come’ e, quindi, οἶον… σµῆνος ‘(voi) come uno sciame di sofisti etc.’ (cfr. ad es. Conti Bizzarro 1999, p. 39 “come uno sciame di sofisti brancolate, andate nel buio”). La testimonianza di Clemente Alessandrino informa che il verso seguiva un elenco di poeti; quella di Diogene Laerzio che i sophistai qui nominati erano Omero ed Esiodo (che, quindi, dovevano essere probabilmente in qualche modo dramatis personae) e i poeti loro seguaci (cfr. supra). Di conseguenza si può immaginare che ci fosse un’enumerazione di poeti (καταλέξας) alla quale seguiva un verso, quello citato, in cui i poeti precedentemente nominati erano considerati tutti insieme uno sciame di sofisti (σµῆνος σοφιστῶν); dopo l’elencazione dei poeti, quindi, a un gruppo di persone non identificate (‘voi’; chi compiva la catabasi o la nekyomanteia? Cfr. Contenuto) veniva attribuito il fatto di aver portato alla luce o ricercato (ἀνεδιφήσατε; forse stuzzicato?) uno σµῆνος σοφιστῶν. A parlare potrebbero essere gli stessi componenti dello sciame o un altro generico locutore o più di uno, ad es. i coreuti (se, invece, si intende οἷον nel senso di ‘come’ è allo stesso σµῆνος σοφιστῶν che si attribuisce l’azione del verbo ἀνεδιφήσατε, in un ignoto paragone). Sia σµῆνος sia σοφιστής (‘esperto di una determinata arte’ o ‘che si finge saggio, sofista’) possono avere un valore neutro o uno negativo (v. infra ad locc.); nel contesto di Clemente Alessandrino σοφιστής possiede una evidente connotazione negativa, mentre Diogene Laerzio dice esplicitamente che Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις τοῦς περὶ Ὄµηρον καὶ Ἡσίοδον ἐπαινῶν οὔτως (i.e. sofisti) καλεῖ. Se si accetta questa testimonianza, il verso contiene un elogio dei sostenitori di Omero e Archiloco dovuto allo stesso Cratino, ma non si può escludere che ἐπαινῶν fosse, invece, un giudizio dello stesso Diogene (cfr. Conti Bizzarro 1999, p. 386s. e p. 426s. che nega valore a questa testimonianza)26; d’altra parte se la commedia si data intorno al 430 a.6C. (cfr. Cronologia) un valore negativo di σοφιστής sarebbe già possibile, mentre per σµῆνος un uso tendenzialmente negativo è presente in Platone (associato, però, a concetti astratti), ma in commedia si potrebbe richiamare solo il caso di Ar. Lys. 353 (comunque più tardo, v. infra). L’immagine dello σµῆνος (sciame, propriamente di api) σοφιστῶν, “di sofisti (= poeti)”, quale ne fosse il valore, è comunque appropriata ad indicare i poeti per via dell’associazione ben testimoniata tra poeta ed ape, v. ad es. 26

Per l’ipotesi di Kugelmeier 1996, pp. 181–185 che accetta ἐπαινῶν come riferito ad un giudizio di Cratino, v. Contenuto (p. 17).

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Bacch. X 10 Snell–Maehler e in commedia Ar. Av.  748–751, cfr. Taillardat 1965, p.  433 (§ 742) e F. Roscalla, Presenze simboliche dell’ape nella Grecia antica, Firenze 1998, p. 666s.27 Secondo Whittaker 1935, p. 185 il frammento “refers to a chorus or rather a half chorus of poets who supported Homer and Hesiod” (cf. Contenuto); secondo Bergk 1838, p. 6 “haec enim loquitur nescio quis cum chorus Archilochorum primum in scaenam prodit” e a un riferimento alla parodo potrebbe, forse, far pensare anche un confronto con Aristofane: a) Nub. 297 µέγα γὰρ τι θεῶν κινεῖται σµῆνος, dove il riferimento è allo sciame delle Nuvole, che stanno per entrare come coro e l’immagine dello σµῆνος potrebbe alludere ai “movimenti scenici del coro che si dispone sull’orchestra avanzando con lievi passi di danza” (Guidorizzi 1996, p. 233); b) Lys. 353 ἑσµὸς γυναῖκων, detto dal corifeo dei vecchi, che ricorre all’interno della parodo. σοφιστῶν(In Cratino può valere ‘esperto di una determinata arte’ o ‘che si finge saggio, sofista’, con valore negativo. Nomen agentis di σοφίζω (attestato in Hes. Op. 649 οὔτε τι ναυτιλίης σεσοφισµένος οὔτε τι νηῶν), a sua volta denominativo di σοφία (già in ο 412 εὖ εἰδῇ σοφίης ὑποθηµοσύνῃσιν Ἀθήνης), v. GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v.; la prima occorrenza in Pind. Isthm. V 28 µελετᾶν σοφισταῖς προσβάλλειν. Originariamente sinonimo di σοφός, il quale indica, dalle sue prime attestazioni e fino al passaggio tra V/IV secolo, il τεχνίτης, “genericamente il sapiente […] ovvero l’esperto, la persona dotata cioè di una particolare abilità e provvista di competenze tecniche in una determinata arte, in un mestiere o in una scienza” (Imperio 1998, p. 4628); per alcuni esempi di σοφιστής = τεχνίτης v. ad es. Eup. fr. 483 K.–A. (inc. sed.) dove designa il ραψῳδός; Aesch. fr. 314 R. (inc. fab.), Soph. fr. 906 R. (inc. fab.), Eur. Rhes. 924, Plat. com. fr. 149 K.–A. (Sophistai, v. Pirrotta 2009, p. 293), Anaxandr. fr. 16, 6 K.–A. (Heraklēs), tutte occorrenze in cui σοφιστής è in riferimento a varie categorie di musici (un uso caratterizzante, v. Hsch. σ 1371 H. σοφιστήν· πᾶσαν τέχνην σοφίαν ἔλεγον, καὶ σοφιστὰς τοὺς περὶ µουσικὴν διατρίβοντας καὶ τοὺς µετὰ κιθάρας ᾄδοντας; cfr. Plut. Per. 14,2 ἄκρος σοφιστής di 27

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V. anche Conti Bizzarro 1999, p. 43, il quale nota che lo scolio ad Ar. Nub. 297 (µέγα γὰρ τι θεῶν κινεῖται σµῆνος) σµῆνος: κυρίως µὲν τὸ σύστηµα τῶν µελισσῶν. Ὅµηρος δὲ κέχρηται τῇ τροπῇ ἐπὶ εὐγλωττίας ἐπαινῶν τὸν Νέστορα (Ι 249). οῦ καὶ ἀπὸ γλώσσης µέλιτος γλυκίων ῥέεν αὐδή. τουτέστι σµῆνος τῶν Ἀριστοφάνους ᾠδῶν, “fornisce non solo una interpretazione della metafora, ma una chiara nota intertestuale […]: collega la metafora dello sciame di api con la voce di Nestore”. Cfr. Eust. in Il. 15, 412 (1023, 136s.), p. 749 van der Valk: οἱ γὰρ παλαιοὶ σοφοὺς ἐκάλουν ἅπαντας τοὺς τεχνίτας; Phot. σ 426 σοφιστής· πᾶς τεχνίτης. καὶ ὁ τὸ λεκτικὸν ἠσκηκώς. καὶ ὁ ἐπερεάζων ἑκὼν ἐν τοῖς λόγοις.

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Cratino

Damone); Hdt. I 29.1 (Solone come esperto uomo politico), II 49.1 (indovino), IV 95,2 (Pitagora), Hipp. VM 20 (I, p. 620 L.) dove designa i φυσικοί, i filosofi naturalisti (su questo uso di Ippocrate, v. in part. A.–J. Festugière, Hippocrate. L’ancienne médecine. Introduction, traduction et commentaire, Paris 1948, p. 55). Dalla metà del V sec. a.6C., con il sorgere dei maestri a pagamento, σοφιστής assume una connotazione negativa, divenendo sinonimo di chi si avvale delle proprie competenze specifiche per ingannare gli altri e “fingersi saggio” (Miralles 1996, p. 872), cfr. Plat. Prot. 316 d–e per questa evoluzione del significato. Tra le attestazioni tragiche e comiche di un valore negativo del termine σοφιστής, v. (Aesch.) Prom. 62 e 944 detto di Prometeo (cfr. Marzullo 1993, pp. 246s., 227–229, 479–481, 611), Aesch. trag. adesp. fr. 1b Kann.–Snell, Eur. fr. 905 K. = Men. Mon. 457 Jae. µισῶ σοφιστήν, ὅστις οὐχ αὑτῷ σοφός, Eupol. fr. 388 K.–A. (inc. fab.), Phryn. fr. 74, 2 K.–A. (inc. fab., ὑπερσοφιστής, cfr. Stama 2014, p. 3416s.) e i “teachers of undesiderable or superfluous accomplishments” (Dover 1968, p. 144) di Ar. Nub. 3316s. οὐ γὰρ µὰ ∆ί’ οἶσθ’ ὁτιὴ πλείστους αὗται βόσκουσι σοφιστάς,6/6Θουριοµάντεις, ἰατροτέχνας, σφραγιδονυχαργοκοµήτας (cfr. Sud. σ 841 σοφιστής· [….] καταχρηστικῶς δὲ Ἀριστοφάνης ἐπὶ πάσης τέχνης ἔλαβε τὸ τῶν σοφιστῶν ὄνοµα; su questo passo v. Zimmermann 1993, pp. 261–263). Dalla µέση e dalla νέα, σοφιστής è comunemente impiegato per ironizzare su filosofi (in particolare cirenaici e pitagorici), sapienti e 2 maestri in genere. Sulla storia del sostantivo σοφιστής v. Untersteiner 1961 , pp. xvi–xxiii, Guthrie 1969, III, pp. 27–34, Miralles 1996, 849–882, Imperio 1998a, pp. 44–51, Conti–Bizzarro 1999, pp. 41–43. σµῆνος(“Sciame, folla, moltitudine”. Per l’associazione tra il significato proprio di ‘sciame’29 (soprattutto di api: Plat. Pol. 293d, Aristot. HA 626b 19, 627b 15 etc.; ma anche di vespe o calabroni: Ar. Vesp. 425, Aristot. HA 629a 7) e l’immagine di una gran folla, di una moltitudine (Taillardat 1965, p. 3786s. § 662 “una foule grouillante fait naturellement penser à un essaim”), v. ad es. Aesch. Pers. 127–129 πεδοστιβὴς λεὼς6/6σµῆνος ὣς ἐκλέλοιπεν µελισσ-/ᾶν σὺν ὀρχάµῳ στρατοῦ dove l’immagine dello sciame di api in senso proprio è impiegata per designare la moltitudine dell’esercito persiano; Soph. fr. 879 R. (inc. fab.) βοµβεῖ δὲ νεκρῶν σµῆνος ἔρχεταί τ᾽ ἄνω, per designare i morti30. 29

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Questo significato deriva probabilmente dal valore di ‘arnia, alveare’ in cui σµῆνος è attestato nella nostra prima occorrenza, Hes. Theog. 5946s. (cfr. Plat. Rp. 552c, Aristot. HA 623b 7). L’etimologia è ignota; si possono confrontare sostantivi come ἔθνος o κτῆνος per il secondo elemento, -νος (GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v.). Da notare la possibilità segnalata da R. Pfeiffer, Neue Lesungen und Ergänzungen zu Kallimachos-Papyri, «Philologus» 93, 1938, p. 71 (pp. 61–73 = Pfeiffer 1949, I p. 164) che Callimaco abbia coniato il denominativo *ἑσµεύω, se davvero in Iamb. I 28 (fr.

Ἀρχίλοχοι (fr. 2)

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In commedia ricorre ancora solo in Ar. Nub. 297 µέγα γάρ τι θεῶν κινεῖται σµῆνος (dove indica la folla, lo sciame delle Nuvole, che stanno per entrare come coro) e in Vesp. 425 ὡς ἂν εὖ εἰδῇ τὸ λοιπὸν σµῆνος οἷον ὤργισεν (in senso proprio, ‘sciame di vespe’: i coreuti parlano di se stessi). In questo significato σµῆνος può indicare semplicemente la folla o moltitudine, ma potrebbe avere, anche, una sfumatura negativa; ciò è possibile nel passo delle Nuvole, dove queste sono definite θεῶν … σµῆνος (“an eccentric term for a company of deities”, Dover 1968, p. 141, cfr. lxvi-lxx per le Nuvole come coro); v. inoltre ἑσµός (analogo a σµῆνος, LSJ s.6v.) in Ar. Lys. 353 ἑσµὸς γυναικῶν (detto dal corifeo dei vecchi che addita negativamente alcune donne che vede accorrere in aiuto di altre) e poi l’uso di Platone (dove, però, l’associazione è con concetti astratti): Crat. 401e 3 σµῆνος σοφίας (Socrate definisce così un’idea che gli è venuta, un’etimologia di Eraclito, e subito dopo specifica: γελοῖον µὲν πάνυ εἰπεῖν, οἶµαι µέντοι τινὰ πιθανότητα ἔχον); Men. 72a 7 σµῆνος τι […] ἀρετῶν (Socrate chiama così ironicamente il suo interlocutore Menone); Rp. 574d 3 τὸ τῶν ἡδονῶν σµῆνος (chi, dominato dalla ‘folla dei piaceri’ e non avendo più sostanze proprie, cerca di prendere quelle altrui). Cfr. anche Rp. 450b 2 οὐκ ἴστε ὅσον ἑσµὸν λόγων ἐπεγείρετε, detto polemicamente da Socrate a Glaucone e Trasimaco del tema, troppo ampio, di cui chiedono la discussione (procreazione e allevamento dei figli). ἀνεδιφήσατε(Il verbo è un hapax di Cratino, un composto con il secondo elemento legato alla radice διφ- di etimologia ignota (GEW s.6v., DELG s.6v., Beekes 2010 s.6v.), ma presente sin dai poemi omerici (Π 747, cfr. Hes. Op. 374) nel significato di ‘cercare, ricercare, scrutare’ (v. LfgrE I s.6v. [W. Beck]), cfr. ad es. Hsch. δ 2006 διφῶσα· ζητοῦσα, ψηλαφῶσα, ε 3632 ἐξεδίφησεν· ἐξεζήτησεν; il prefisso ἀνά si può interpretare in due modi: a) come intensivo (LSJ s.6v. F 2 e Schwyzer II, p. 440) rispetto al semplice διφᾶν e quindi ‘cercare insistentemente, ricercare’; b) di movimento ‘su, verso l’alto’, da intendere consequenziale all’azione di διφᾶν come intendono LSJ Suppl. s.6v. ‘bring to light by probing’31. In commedia sono attestati alcuni composti simili, uno verbale: Ar. Nub. 192 οὖτοι γ᾽ ἐρεβοδιφῶσιν ὑπὸ τὸν Τάρταρον (i discepoli di Socrate che scru-

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91 Pf.) è da leggere ε̣ἰ̣λ̣η̣δ̣ὸ̣ν [ἑσ]|µεύουσιν ad indicare i litigiosi dotti alessandrini che il redivivo Ipponate convoca (e il verbo avrebbe, tra l’altro una connotazione negativa, v. supra). Questo significato sostituisce nel Revised Supplement il precedente di ‘grope after’ probabilmente dovuto all’influenza dell’occorrenza ἐρεβοδιφῶσιν di Ar. Nub. 192 o Pac. 619, ἐψηλαφῶµεν (‘brancolavamo nel buio’), un significato, questo, accettato anche da Conti Bizzarro 1999, p. 39 che traduce con ‘brancolate nel buio’.

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Cratino

tano l’Erebo fino al Tartaro, cfr. schol. ad Ar. Nub. 192 ἐρεβοδιφῶσιν· τὰ ὑπὸ τὸ ἔρεβος διφῶσι, τὰ ὑπὸ τὴν γῆν ζητοῦσι καὶ καταµανθάνουσιν (cfr. Sud. ε 2921); e due nominali: Ar. Pac. 791 µηχανοδίφης (“searchers after devices”, Olson 1998 p. 227, anche per i possibili riferimenti), Av. 1424 πραγµατοδίφης (“a poker-about after lawsuits”, Dunbar 1995, p. 678, detto del sicofante). Incerto se il secondo elemento –διφ presente nei composti citati debba intendersi: a) di origine ionica: lo fanno supporre le prime attestazioni in Omero ed Esiodo e soprattutto la sua ripresa in Eroda, v. in part. Headlam 1922, p. 353 e Cunningham 1971, p. 185 ad Herod. VII 78 ἐξεδίφησας, occorrenza che il poeta alessandrino ha derivato con ogni probabilità dallo ionico di Hipp. fr. 87, 2 8 (c) Deg. = fr. 85, 8 (c) W. ἐ]ξεδίφησ̣[. (il verbo è glossato in Heysch. ε 3632 L. ἐξεδίφησεν· ἐξεζήτησεν), v. in part. Di Gregorio 2004, p. 191); b) appartenente “to an informal register of Attic”, come sostenuto da Willi 2003, p. 107 e n. 34 che legge nel già citato composto ἐρεβοδιφῶσιν di Nub. 192 uno scarto stilistico tra un termine alto come ἔρεβος e un termine informale dalla radice διφ- (ma, forse, proprio le attestazioni in Omero ed Esiodo e nel doctus Eroda inducono a pensare che anche il componente -διφ sia un termine ricercato, v. van Leeuwen 1898, p. 40 “verbum comice fictum neque alias obvium; est autem ductum a verbo vetusto διφᾶν = ζητεῖν vel ἐρευνᾶν quod ex Homero Π 747 notum est”).

fr. 3 K.–A. (4 K.) εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ πρωκτός δ᾽ αἱρεῖ πρωκτός edd.: δαίρει πρωκτοῖς Phot.: δαίρι πρῶτος Hsch.

A lui che dorme il culo cattura Phot. ε 2140 εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ κύρτος· παροιµία· καθεύδουσι γὰρ καθέντες τοὺς κύρτους. παρὰ τοῦτο ἐποίησε Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις εὕδοντι — πρωκτός A lui che dorme cattura la nassa. Proverbio. Si mettono infatti a dormire dopo aver calato le nasse. Da questo Cratino negli Archilochoi creò: a lui che dorme — cattura Hsch. ε 6767 εὕδοντι δ’ αἱρεῖ πρωκτός· παροιµία ἀπὸ τῆς εὕδοντι κύρτος αἱρεῖ. λέγουσι δὲ ὅτι, ὅταν τοὺς κύρτους καθῶσιν, αὐτοὶ µὲν καθεύδουσιν, ὁ δὲ κύρτος αἱρεῖ τοὺς ἰχθῦς. Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις

Ἀρχίλοχοι (fr. 3)

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A lui che dorme cattura il culo. Proverbio (derivato) da “a lui che dorme la nassa cattura”. E dicono che, quando abbiano gettato le nasse, si mettono a dormire e la nassa cattura i pesci. Cratino negli Archilochi Prov. Bodl. 429 (codd. LVB) εὕδοντι κύρτος αἱρεῖ (αἵρει L, αἴρει VB)· ἐπὶ τῶν ἐργασµένων ἐπιτυχῶς, ἐπεὶ συµβαίνει καὶ κοιµωµένων ἁλιέων εἰσιέναι τοὺς ἰχθύας εἰς τοὺς κύρτους. Κρατῖνος ἐπὶ τὸ γελοιότερον ταύτην (ταῦτα Β) µετέθηκεν. εὕδοντι πρωκτὸς αἱρεῖ (αἵρει LB, αἴρει V) A lui che dorme la rete cattura. Per coloro che fanno qualcosa con successo, perché succede che anche quando i pescatori dormono i pesci entrino nelle nasse. Cratino trasformò questo proverbio in una forma più salace. A lui che dorme il culo cattura.

Metro(Trimetro giambico?

llkl llu

Bibliografia(Runkel 1827, p.  7 (fr. VI), Meineke FCG II.1, p.  226s. (fr. X), Meineke FCG ed. min. I, p. 9, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 10), Kock CAF I, p. 12, Crusius 1889, p. 33, Marzullo 1959, p. 1336s., Edmonds FAC I (1957), p. 24, Luppe 1963, p. 7, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1236s., Ornaghi 2004, p. 221, Lelli 2010, p. 152 n. 9, Storey FOC I (2011), p. 2706s. Contesto della citazione(Attestazione in lessicografi e in una raccolta paremiografica di un proverbio, seguita da una spiegazione del suo significato e del suo impiego e dall’attestazione di una detorsio comica esplicitamente attribuita in tutti e tre i testimoni a Cratino negli Archilochoi (nei soli Proverbia Bodleiana manca l’indicazione della commedia). La forma originaria del proverbio è attestata in due varianti: a) εὕδοντι κύρτος αἱρεῖ (Esichio e Proverbia Bodleiana); b) εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ κύρτος (Fozio); lo stesso vale per il proverbio impiegato da Cratino: a) εὕδοντι δ᾽ αἰρεῖ πρωκτός (Fozio ed Esichio); b) εὕδοντι πρωκτὸς αἱρεῖ (Proverbia Bodleiana; questa forma è accettata da Kock CAF I, p.  12). La glossa di Esichio e Fozio può risalire a Paus. ε 80 (Latte 1966, p. 222, Erbse 1950, p. 181 e Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 123); l’alternanza della versione originaria del proverbio in Esichio e Fozio non è chiara, ma l’accordo di questi due testimoni nel citare il frustolo di Cratino testimonia con ogni probabilità che εὕδοντι δ᾽ αἰρεῖ πρωκτός era la forma impiegata dal comico rispetto a εὕδοντι πρωκτὸς αἱρεῖ (Proverbia Bodleiana), cfr. Crusius 1889, p.  33 il quale nota che un’intera sezione dei Proverbia Bodleiana (nn. 424–435) presenta numerose corruzioni (v. anche Marzullo 1959, p. 133). Testo(Secondo Marzullo 1959, p. 1336s. (seguito anche da Lelli 2010, p. 152 n. 9) la lezione πρωκτός dei testimoni è una banalizzazione per un originario

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Cratino

κυσός32 o, meno probabilmente, κύσθος più conforme a κύρτος del proverbio di partenza e che conterrebbe una più salace “paronomasia escrologica”; ciò non si può escludere, ma l’unico indizio è il richiamo all’uso della paronomasia, a fronte di una tradizione univoca e che può senz’altro essere mantenuta. Interpretazione(La nassa è uno strumento tipico del pescatore, una trappola, una sorta di gabbia di materiale vario (giunco, metallo, vimini), generalmente con una forma a cesto o a barile e con un’apertura ad imbuto che si restringe nella parte finale; sul fondo della nassa è posizionata l’esca: il pesce per recuperarla forza l’entrata, ma non è poi in grado di uscire e rimane intrappolato. Viene posizionata di notte e recuperata la mattina seguente, quando si cambia l’esca e si tolgono i pesci catturati. Il proverbio εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ κύρτος (o εὕδοντι κύρτος αἱρεῖ) è attestato, oltre che nei fontes del frammento di Cratino, ancora in Diogen. IV 65, Greg. Cypr. II 34, Greg. Cypr. M. III 7, Apost. VIII 9 e “indica una persona estremamente fortunata, tanto da essere paragonata ad un pescatore che può starsene tranquillamente a riposare, perché i pesci gli vanno da soli nella rete” (Tosi 1991, p. 396 n. 849); analogamente al fortunato pescatore, il malcapitato κωµῳδοῦµενος di Cratino, con ogni probabilità un invertito, poteva dormire tranquillo e sicuro che il suo obiettivo sarebbe stato comunque raggiunto: non la rete da pesca, in questo caso, ma il sedere avrebbe catturato le sue “prede”, le avrebbe catturate in ogni caso, anche appunto mentre dormiva (forse, come nel caso del pescatore, qualcuno che usava la sua “rete” per professione?). Si tratta, come informano i testimoni del frammento, di una detorsio di un proverbio che doveva in certa misura essere noto e, quindi, comprensibile al pubblico che poteva coglierne la nuova forma, cfr. Kock CAF I, p. 13 “deflexit Cratinus proverbium in hominem inpudicum podice quaestum facientem”. Il motivo della fortuna che dà il successo senza che si faccia niente è testimoniato anche in Men. fr. 395, 46s., K.–Th. (Titthē) αὐτόµατα γὰρ τὰ πράγµατ᾽ ἐπὶ τὸ συµφέρον/ ῥεῖ, κἂν καθεύδῃς, in una notizia di Plutarco di un dipinto ironico di Timoteo di Atene che dormiva mentre la fortuna gli gettava le città nelle reti (Reg. imp. apophth. 187bc, Her. mal. 856b, Sull. 6,5) e, ancora per via paremiografica, in Zen. IV 8 εὑδόντων ἁλιευτικῶν κύρτος (la rete dei pescatori che dormono) dove l’oggetto della fortuna è spostato dal risultato in sé (ottenere qualcosa) all’oggetto che permette di ottenerlo (le reti). Il proverbio è attestato anche in ambito latino (Ter. Ad. 693, Cic. Verr. II, 5,70, 180, cfr. Otto 32

Marzullo 1959, p. 153 e n. 3 adotta, in realtà, la grafia κῦσος richiamando la dottrina antica di Theogn. Can. 72 = AO 72, 17 = Hdn. II 44. L’accentazione ossitona è quella presente nei moderni lessici.

Ἀρχίλοχοι (fr. 4)

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1890, p. 121 dormire n.2) e presente già nell’Antico Testamento (Ps. 126,2); nel mondo medioevale e poi in quello moderno si hanno sia una continuazione di questo modo di dire (ad es. it. Fortuna, e dormi, td. Gott gibt’s dem Seinen im Schlafe), sia il suo opposto, che la fortuna non arriva se si dorme (ad es. it. Chi dorme non piglia pesci, td. Niemandem fliegen die gebratenen Tauben ins Maul), v. Tosi 1991, p. 3966s. n. 849. 2 West 1998 , p. 102 registra come fr. 307 di Archiloco εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ κύρτος con gli stessi testimonia del frammento di Cratino e annota “potest esse ex Archiloco”; il proverbio nella sua forma genuina sarebbe stato utilizzato da Archiloco e da qui Cratino avrebbe preso spunto per la sua detorsio, ma questa ipotesi non ha nessun fondamento (riprese di Archiloco in Cratino sono ben testimoniate, ad es. frr. 1, 102, 138, 211 etc., cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 121, ma non c’è nessun indizio di attribuzione del proverbio, nella sua forma originale, ad Archiloco).

fr. 4 K.–A. (3 K.) ἤδη δέλφακες, χοῖροι δὲ τοῖσιν ἄλλοις Già maiali/scrofe, ma maialini/porcelline per gli altri/per il resto Athen. IX 375a (δέλφαξ) περὶ δὲ τῆς ἡλικίας τοῦ ζῴου Κρατῖνός φησιν ἐν Ἀρχιλόχοις· ἤδη — ἄλλοις (delphax) riguardo all’età dell’animale Cratino dice negli Archilochoi: già — per gli altri/per il resto

Metro(Tetrametro giambico catalettico

〈xlk〉l llkl llkl kll

Bibliografia(Jacobs 1809, p. 201, Runkel 1827, p. 8 (fr. 10), Meineke FCG II.1 (1839), p. 20 (fr. VII), FCG ed. min. I (1847) p. 9, Bothe PCGF (1855), p. 8 (fr. 7), Kock CAF I (1880), p. 12, Nauck 1888, p. 221, Edmonds FAC I (1957), p. 23, Luppe 1963, p. 7, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 124, Henderson 2011, p. 179, Storey 2011, p. 27 Contesto della citazione(Ateneo cita il frammento di Cratino per spiegare l’età dell’animale, perché δέλφαξ è qui opposto a χοῖρος. Questa citazione di Cratino è seguita da una testimonianza di Aristofane di Bisanzio, che spiega l’opposizione δέλφαξ/χοῖρος e che, prosegue Ateneo, chiarisce un passo omerico (ξ 80, cfr. infra a δέλφαξ); l’opera di Aristofane di Bisanzio può verisimil-

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Cratino

mente essere considerata fonte dello stesso Ateneo per la documentazione sull’età dell’animale e si può quindi supporre che il passo omerico citato da Ateneo fosse lo stesso al quale si riferiva anche il grammatico (“In Athen. the definition is applied to ξ 80, which Ar. had in mind”, Slater 1986, p. 58). La citazione di Cratino è relativa all’età del δέλφαξ in un contesto in cui Ateneo, a partire da 374d, parla specificamente del fatto che δέλφαξ è impiegato sia come maschile che come femminile: maschile in Epich. fr. 99, 1 K.–A. e in Anax. fr. 12, 1 K.–A. (nel secondo caso, Anassila, è aggiunta la specificazione che il sostantivo δέλφαξ è utilizzato al maschile, ma per designare l’animale adulto), femminile ad es. in Ar. fr. 520, 66s. K.–A., Ach. 786–788, Eupol. fr. 301, 1 K.–A., Hipp. fr. 136 Degani. Dopo questa ultima citazione Ateneo precisa che in senso proprio (κυρίως) il sostantivo dovrebbe essere impiegato al femminile, perché deriva dal fatto che le donne hanno la δελφύς, ossia l’utero, termine questo che è anche all’origine di ἀδελφός (lett. ‘nato dallo stesso utero’ v. Hsch. α 1061 L. ἀδελφοί· οἱ ἐκ τῆς αὐτῆς δελφύος γεγονότες. ∆ελφὺς γὰρ ἡ µήτρα λέγεται); segue, quindi, il passo di Cratino per l’età del δέλφαξ. Ciò è forse dovuto al fatto che la più estesa delle citazioni che precedono quella di Cratino, Ar. Ach. 786–8 (νέα γάρ ἐστιν· ἀλλὰ δελφακουµένα6/6ἑξεῖ µεγάλαν τε καὶ παχεῖαν κἠρυθράν. ἀλλ᾽ αἰ τράφειν λῇς, ἅδε τοι χοῖρος καλά), non solo contiene un riferimento inequivocabile all’età dell’animale, ma anche una sua opposizione con χοῖρος, elementi questi che possono aver occasionato sia tale citazione (in cui sono presenti sia δέλφαξ che χοῖρος), sia il breve inserto sull’età. Infatti dopo la citazione di Cratino e quella di Aristofane di Bisanzio, Ateneo (375b) torna a parlare del sesso dell’animale, con un ulteriore esempio di uso di δέλφαξ al maschile (Plat. com. fr. 118 K.–A. [Poietēs], v. Pirrotta 2009, p. 252), ultimo concernente la discussione su δέλφαξ iniziata a 374d (segue la citazione di una legge di Androzione [FGrHist 324 F 55] che proibiva di uccidere gli animali piccoli, ed è per questo che si mangiavano quelli adulti; è qui citato, di nuovo, ξ 81 e seguono altri esempi). Testo(Da un punto di vista metrico, si può interpretare il frammento con ogni probabilità come un tetrametro giambico catalettico mancante dei primi tre elementi del primo metron (〈xlk〉). Le integrazioni proposte restituiscono ad inizio verso prima di ἤδη una opposizione al secondo elemento del tetrametro giambico, χοῖροι δὲ τοῖσιν ἄλλοις, particolarmente sottolineata dal sintattico δέ, dalla semantica dei due sostantivi δέλφαξ e χοῖρος e dalla collocazione di χοῖροι δὲ τοῖσιν ἄλλοις dopo la dieresi mediana: καὶ τοῖς µὲν secondo Jacobs 1809, p. 201; ἡµῖν µὲν o ἐµοὶ µὲν secondo Meineke FCG II.1, p. 20 (che aggiungeva anche un significativo “vel simile quid”), ribadito anche in FCG ed. min. I, p. 9; τοῖς µὲν γὰρ secondo Kassel–Austin PCG IV, p. 124 (possibile alternativa all’integrazione proposta da Jacobs). Simile alla seconda delle due proposte di

Ἀρχίλοχοι (fr. 4)

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Meineke, è ἐµοὶ µὲν ἡδὺ di Nauck 1888, p. 221 che altera il tràdito ἤδη in un più soggettivo avverbio ἡδύ: si può pensare senz’altro ad un errore di itacismo in età bizantina (omofonia di pronuncia delle vocali η e υ), ma ἡδύ non è necessario, mentre ἥδη sottolinea meglio l’opposizione di δέλφαξ a χοῖρος33. Interpretazione(Sia δέλφαξ che χοῖρος possono essere utilizzati sia al maschile che al femminile (v. ad locc.) e, di conseguenza, nel frammento l’opposizione può essere maiali/maialini o scrofe/porcelline; la citazione di Ateneo non fornisce nessun indizio in questo senso, perché relativa solamente all’età dell’animale, indipendentemente dal sesso. Sono possibili almeno due interpretazioni: 1) delphax e choiros sono usati in senso proprio e si intende un’opposizione tra carne matura, considerata più pregiata, e carne giovane, meno pregiata, come è in ξ 81 (v. a δέλφαξ) e in ξ 414 e 419 (v. a χοῖρος), ugualmente di maiale (piccolo e adulto) o scrofa (piccola e adulta); 2) in commedia l’uso prevalente di choiros è in senso osceno per indicare l’organo genitale femminile giovane o depilato in caso di etere o altre categorie di donne; delphax al contrario non possiede in sé un valore osceno (diversamente da δελφάκιον, v. infra), ma nella scena del Megarese in Ar. Ach. 764–781 il participio δελφακουµένα è in opposizione a χοῖρος e assume per questo il doppio senso di organo genitale femminile divenuto adulto. Si può assumere che qui δέλφαξ acquisti un valore osceno per la presenza di χοῖρος: in questo caso l’opposizione sarebbe tra l’organo genitale femminile giovane (choiros) e quello adulto (delphax). Le due interpretazioni non si escludono necessariamente nel caso si riferiscano delphax e choiros ad un animale femminile: ci potrebbe essere un’opposizione scrofe/porcelline in senso proprio e in filigrana un double entendre più o meno esplicito di natura sessuale (come è nel caso simile di Ar. Ach. 764–781). Quanto a τοῖσιν ἄλλοις si intende certamente in opposizione ad un termine che precedeva ἤδη δέλφακες, e si può interpretare: a) come maschile ‘(per alcuni) delphakes, ma choiroi per gli altri’; b) come neutro, ‘(in qualcosa, per alcuni aspetti) delphakes, ma choiroi per il resto’ (v. Kühner–Gerth II.1, p. 440 § 425, 12). Né si può escludere un’opposizione tipo ‘per alcuni’ delphakes, ma choiroi per il resto (maschile/neutro) oppure ‘in qualcosa delphakes, ma choiroi per gli altri’ (neutro/maschile); il dativo τοῖσιν ἄλλοις, inoltre, poteva dipendere da un verbo precedente, come ad es.

33

Un’altra possibile integrazione sarebbe 〈ἀλλ᾽ εἰσι〉 ἤδη κτλ., ma in questo caso mancherebbe il µέν antecedente a δέ e si dovrebbe intendere “〈ma sono〉 già delphakes, ma choiroi per gli altri/per il resto”, cfr. Interpretazione per τοῖσιν ἄλλοις maschile o neutro.

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Cratino

in Cratin. fr. 350 K.–A. ταῖς ῥαφανῖσι δοκεῖ, τοῖς δ’ ἄλλοις οὐ λαχάνοισιν o in Ar. Nub. 1118 ὕσοµεν πρώτοισιν ὑµῖν, τοῖσι δ’ ἄλλοις ὕστερον. Possibile che si tratti di un paragone burlesco (e forse osceno) opera di un βωµολόχος, da confrontare, forse, con altri paragoni negli stessi Archilochoi nel fr. 5 e nel fr. 8. δέλφακες(Il suffisso –αξ caratterizza i nomi di animali, come ad es. ancora in κόραξ o σκύλαξ ed è di probabile origine popolare, v. Schwyzer I, p. 497, Chantraine 1933, p. 3776s. Il primo elemento δέλφ- è connesso con δέλφυς o *δέλφος, ‘utero, matrice’ (Athen. IX 375a, v. supra, Aristot. HA 510b 13s., GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v. δέλφαξ)34. Delphax indica un maiale cresciuto rispetto ad uno piccolo, ma non vecchio, “pig neither newborn nor old” (Schaps 1996, p. 171), cfr. Ar. Byz. fr. 170–171 dal Περὶ ἡλικιῶν (tràdita da Eust. 1752,15 [ad ξ 80] e Athen. IX 375b): τῶν δὲ συῶν τὰ µὲν ἤδη συµπεπηγότα δέλφακες, τὰ δ᾽ ἀπαλὰ καὶ ἔνικµα χοῖροι (‘tra i maiali quelli già sodi sono chiamati delphakes, quelli teneri e pieni di umori choiroi’, trad. Cherubina in Ateneo II, p. 938); questa testimonianza è seguita in Ateneo dalla citazione di ξ 80 (al quale si riferiva, probabilmente, anche il grammatico, cfr. Contesto della citazione) ἔσθιε νῦν, ὦ ξεῖνε, τά τε δµώεσσι πάρεστι,6/6χοίρε’· ἀτὰρ σιάλους γε σύας µνηστῆρες ἔδουσιν. V. Slater 1986, p. 58 che richiama anche Hsch. δ 600 δελφακοῦσθαι· τελειοῦσθαι τὰς ὗς e ritiene che questo valore di δέλφαξ rispecchi un uso primitivo, mentre in una fase successiva δέλφαξ diventi sinonimo di χοῖρος come in schol. ad Ar. Ach. 739b τοὺς παρ’ ἡµῖν λεγοµένους δέλφακας, ἤγουν τοὺς µικρούς. Per la distinzione δέλφαξ6/6χοῖρος v. ancora Dalby 2003, p. 269. Come testimonia Ateneo, delphax può essere usato sia per il maschile (maiale) che per il femminile (scrofa); oltre a quelli citati in IX 374d-375a (v. Contesto della citazione), v. XIV 656f–657a: maschile in Plat. com. fr. 119 K.–A., Soph. fr. 679 R., Cratin. fr. 155 K.–A.; femminile in Nicoch. fr. 22 K.–A., Eupol. fr. 301 K.–A. (sono qui citati alcuni versi della commedia Chrysoun Genos omessi nell’analoga menzione di IX 375a), Plat. com. fr. 56 K.–A., Theop. fr. 49 K.–A. Dubbia la distinzione delphax/choiros in riferimento ad una maturità sessuale, come sostiene Henderson 1991, p. 132 § 113: “δέλφαξ, pig, and its diminutive, δελφάκιον, suckling pig, do not indicate the young, hairless cunt but the mature one” (seguono questa ipotesi anche DELG s.6v., GEW s.6v., Shipp 1979, p. 209, contra Schaps 1996, p. 1696s., Olson 2002, p. 271); un valore osceno di δέλφαξ è fondato sulle occorrenze di a) δελφακουµένα in Ar. Ach. 786, b) 34

La radice di δέλφυς o *δέλφος è riconosciuta o nell’antico indiano gárbha- e avestico g∂r∂buš ‘cucciolo di un animale’ (DELG e GEW, s.6v. δελφύς) ο nell’i.e. gwelbh-, gwolbh- la stessa radice del td. Kalb o dell’ing. calf e del latino vulva o galba, v. Walde–Hofmann s.6v. volva, vulva, DGE s.6v., Schaps 1996, p. 169 n. 4.

Ἀρχίλοχοι (fr. 4)

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Lys. 1061 κἄστιν ἔτνος τι· καὶ δελφάκιον ἦν τί µοι, καὶ6/6τοῦτο τέθυχ’ κτλ., c) Thesm. 237 οἴµοι κακοδαίµων, δελφάκιον γενήσοµαι. In b) e c) è usato il diminutivo ed è questa forma ad essere glossata in Hsch. δ 599 L. δελφάκιον· χοιρίδιον, mentre in a) il valore osceno è evidente dal contesto (v. Olson 2002, pp. 270–272). L’unica attestazione di δέλφαξ e non del diminutivo con valore sessuale sarebbe, quindi, questa del frammento di Cratino; ma un valore osceno si può intendere qui ex silentio e solo per la presenza, in opposizione concettuale, di χοῖρος (v. infra), non per un valore in sé del sostantivo che, come visto, manca di testimonianze sicure. Inoltre, il fatto che δέλφαξ possa essere utilizzato sia come maschile che come femminile (v. infra), al contrario di δελφάκιον, è forse ulteriore indizio che una sua connotazione in senso sessuale è possibile solo quando il contesto lo renda chiaro. χοῖροι(Termine generico per indicare un maiale domestico, ma generalmente piccolo e non ingrassato che può servire come cibo non particolarmente pregiato, cfr. ξ 81 cit. sopra a δέλφαξ e ξ 414 βῆ δ’ ἴµεν ἐς συφεούς, ὅθι ἔθνεα ἔρχατο χοίρων (cfr. ξ 419 dove Eumeo, dopo aver ascoltato la falsa storia di Odisseo/Cretese, decide di servire per l’ospite un porco di cinque anni assai grasso, µάλα πίονα πενταέτηρον). Come nel caso di delphax, Athen. IX 375c-d testimonia che anche choiros può essere usato sia al femminile35: Hipp. fr. 105.9 Degani, Soph. fr. 198a R.; sia al maschile: FGrHist 234 F 10 (Tolemeo d’Egitto), Aesch. frr. 309–311 R. (riferiti al Περὶ Ἀισχύλου di Cameleonte, fr. 39 Wehrli). In commedia χοῖρος può essere usato nel senso proprio (piccolo maiale/ piccola scrofa), v. ad es. Mnesimach. fr. 4,47 K.–A. (in un elenco di pietanze), ma spesso (come l’equivalente latino porcus o porcellus, v. Varr. rust. II 4,10) ha il valore osceno di κύσθος; così è nella scena del Megarese in Ar. Ach. in part. 764–781 fondata proprio sul doppio senso di χοῖρος, cfr. in part. 7806s. (Mεγ.) αὔτα ᾽στι χοῖρος; (∆ικ.) νῦν γε χοῖρος φαίνεται.6/6ἀτὰρ ἐκτραφείς γε κύσθος ἔσται, 7866s. νέα γάρ ἐστιν· ἀλλὰ δελφακουµένα6/6ἑξεῖ µεγάλαν τε καὶ παχεῖαν κἠρυθράν, v. Henderson 1991, p. 131 (§ 110) “χοῖρος indicates the pink, hairless cunt of young girls as opposed to that of mature women”. Poiché indica l’organo genitale femminile giovane privo di peli, χοῖρος è usato anche in relazione a etere, flautiste e altre categorie femminili adulte, ma che ottengono questo effetto chiaramente a mezzo della depilazione, v. ad es. Ar. Vesp. 1353, Eccl. 724, Lys. 151 (Henderson 1991, p. 1316s. § 111, cfr. Taillardat 1965, p. 74 § 108). 35

Secondo Ateneo quest’uso è tipico degli Ioni: χοῖρον δ᾽ οἱ Ἴωνες καλοῦσι τὴν θήλειαν, ma la citazione di Sofocle potrebbe far pensare a una forma non tipicamente ionica, cfr. anche Ar. Ach. 764 (ma ancora in Herod. IV 12, VIII 2 e 7 dove potrebbe trattarsi di uno ionismo ipponatteo, v. Di Gregorio 1997, p. 264).

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Cratino

fr. 5 K.–A. (5 K.) ∆ωδωναίῳ † κυνὶ βωλοκόπῳ † τίτθῃ, γεράνῳ προσεοικώς τίθτῃ Gronovius, alii: τίθτη (alterum τ superscr.) S (Coisl. 228)

A un dodoneo † cane che rovescia le zolle † a una nutrice, a una gru assomigliando Steph. Byz. δ 146 (p. 94 Billerbeck-Zubler) (89) τῆς µὲν τοι ∆ωδώνης (τὸ ἐθνικὸν) ∆ωδωναῖος … (94) καὶ Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις· Dωδωναίῳ — προσεοικώς E certo di Dodona (l’etnico) è Dōdōnaios … e Cratino negli Archilochoi: a un Dodoneo — assomigliando

Metro(Tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia(Gronovius 1681, p. 56, Herings 1749, p. 23, Elmsley 1811, p. 388, Runkel 1827, p. 7 (fr. V), Lucas 1828, p. 14, Meineke FCG II.1 (1839), p. 20 (fr. VI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 86s., Bothe PCGF (1855), p. 8 (fr. 6), Nauck 1851, p. 413, Hoffmann 1863, p. 240, Kock CAF I (1880), p. 13, Zieliński 1887, p. 9 (= 1931, p. 77), Crusius 1889, p. 34, Pieters 1946, p. 134, Cervelli 1950, p. 144, Edmonds FAC I (1957), p. 24, Luppe 1963, p. 8, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1246s., Henderson 2011, p. 179, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(Parte della voce ∆ωδώνη; dopo aver discusso delle attestazioni di un nominativo ∆ωδώ, Stefano di Bisanzio informa che da questa forma di nominativo l’etnico non è utilizzato (τὸ ἐθνικὸν ταύτης ἄρρητον), ma se si volesse comunque formare (εἰ δὲ τις σχηµατίσειεν) sarebbe ∆ωδώνιος, a partire da un genitivo ∆ωδῶνος come dal genitivo Πλευρῶνος (da Πλευρών) si ha Πλευρώνιος e dal genitivo Καλυδῶνος (da Καλυδών) si ha Καλυδώνιος. Segue quindi l’informazione che l’etnico di ∆ωδώνη è ∆ωδωναῖος, esemplificata con le citazioni di Ecateo (FGrHist I F 108) Μολοσσῶν πρὸς µεσεµβρίης οἰκέουσι ∆ωδωναῖοι, Omero (Π 233) Ζεῦ ἄνα ∆ωδωναῖε e Cratino (di seguito l’informazione che il femminile di ∆ωδώνη è ∆ωδωνίς, analogamente alla coppia Παλλήνη/Παλληνίς, con esemplificazioni). Testo(Rispetto al testo tràdito, si pone tra cruces † κυνί βωλοκόπῳ † e si accetta una lettura τίτθῃ per il tràdito τίτθη (il cod. S [Coisl. 228] riporta una scrittura τίθη e il secondo τ [τίτθη] è sovrascritto) già proposta da Gronovius e poi da altri (v. infra). Rispetto ai numerosi interventi esegetici, la scelta

Ἀρχίλοχοι (fr. 5)

55

† κυνί βωλοκόπῳ † segnala la difficoltà dell’interpretazione di κυνί riferito a ∆ωδωναίῳ, sia nell’ipotesi che ci sia un riferimento ai cani molossi (qui però singolarmente definiti di Dodona) sia in quella che vede un richiamo al bronzo di Dodona (che comporta, però, una modificazione del testo tràdito non esente da problemi); quanto a βωλοκόπῳ sembra difficile che possa riferirsi a γεράνῳ, soprattutto per un motivo sintattico, la presenza di τίτθῃ tra aggettivo e sostantivo; oltre a ciò, la presenza dell’incisione mediana esattamente dopo βωλοκόπῳ potrebbe essere indizio che questo aggettivo possa riferirsi a quanto precede. Nella seconda parte del verso l’unico intervento necessario è τίτθῃ per τίτθη (un soggetto femminile costringerebbe infatti a modificare in maniera decisa il participio finale maschile προσεοικώς).36 Il testo dato da Stefano di Bisanzio e accettato anche da Kassel–Austin (PCG IV, p. 124) è: ∆ωδωναίῳ κυνί, βωλοκόπῳ τίτθη γεράνῳ προσεοικώς nel quale si nota: a) l’impossibilità di connettere il soggetto femminile τίτθη al participio maschile προσεοικώς; b) una qualche difficoltà nell’intendere la connessione tra i due elementi della comparazione (∆ωδωναίῳ κυνί, βωλοκόπῳ … γεράνῳ); c) l’asperità sintattica di τίτθη (nominativo o vocativo, ma anche un eventuale τίτθῃ dativo) interposto tra βωλοκόπῳ e γεράνῳ. I numerosi tentativi esperiti per sanare tali problemi e offrire una possibile interpretazione del frammento, in sé non chiara, riflettono un’incertezza complessiva del testo (le diverse proposte esegetiche sono qui elencate in ordine cronologico): Gronovius 1681, p. 56

∆ωδωναίῳ κυνὶ βωµοκλόπῳ τίτθῃ,γεράνῳ προσεοικώς

Herings 1749, p. 23

∆ωδωναίῳ νῦν βωµολόχῳ τίτθη, γεραρῷ προσέοικας

Elmsley 1811, p. 388

∆ωδωναίῳ κυνὶ βωµολόχῳ τίτθῃ γεραιᾷ προσεοικώς

Runkel 1827, p. 7

∆ωδωναίῳ κυνὶ βολοκόπῳ τίτθη Γερανώ προσεοικώς

Lucas 1828, p. 14

∆ωδωναίῳ6/6κίονι, βολοκόπῳ, τίτθῃ, γεράνῳ προσεοικώς (cfr. Meineke FCG II,1, p. 20)

Nauck 1851, p. 413

∆ωδωναίῳ τινὶ βωλοκόπῳ τίτθῃ, γεράνῳ προσεοικώς:

Hoffmann 1863, p. 240

∆ωδωναίῳ συὶ βωλοκόπῳ τὶ ποτ᾽ ἢ γεράνῳ προσεοικὼς 〈κράζεις;〉 vel 〈κρώζεις;〉

Kock CAF I , p.13

∆ωδωναίᾳ κυνὶ βωµολόχῳ, τίτθη, γραίᾳ προσέοικας

Zieliński 1887, p. 9

∆ωδωναίῳ κύµβῳ ζακόπῳ τίτθη γεραία προσεοικώς (= 1931, p. 77)

36

Kassel–Austin PCG III.2 (1984), p. 443 riportano la seguente proposta di M. West: “(fr. 5) τ᾽ ἤθη pro τίτθη West”, ma non appare necessario eliminare il riferimento alla nutrice, v. p. 60 s.

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Cratino

Crusius 1889, p. 34

〈ναὶ µὰ〉6/6∆ωδωναῖον κύνα, βωλοκόπῳ, τίτθη, γεράνῳ προσέοικας

Kaibel ms. (apud PCG IV, p. 124)

∆ωδωναίῳ κυνὶ, βωλοκόπῳ τίτθη γεράνῳ προσεοικός

Pieters 1946, p. 134

∆ωδωναίῳ κύµβῳ τ᾽ ἀκόπῳ τίτῃ τε λάλῳ προσεοικώς

Cervelli 1950, p. 144

∆ωδωναίᾳ κυνί, βωλοκόπῳ, τίτθη, γεράνῳ προσέοικας:

Edmonds I (1957), p. 24

∆ωδωναίῳ κυνὶ, βωλοκόπῳ † τίτθη γεράνῳ † προσεοικώς

Luppe 1963, p. 8

∆ωδωναίῳ κύµβῳ ᾽λοκόπῳ τίτθῃ τε λάλῳ προσεοικώς

Si distinguono le diverse parti del verso e le relative proposte esegetiche: 1) ∆ωδωναίῳ κυνί. La modificazione di ∆ωδωναίῳ in ∆ωδωναίᾳ di Kock CAF I, p. 13 (approvata anche da Cervelli 1950, p. 144) ha lo scopo, non necessario, di uniformare i termini della comparazione al genere femminile (Kock e Cervelli accettano il finale προσέοικας, v. infra); l’accusativo ∆ωδωναῖον κύνα di Crusius 1889, p. 34 (sempre con προσέοικας finale) introduce una variatio con i successivi dativi in sé possibile, ma rispetto al quale il mantenimento del dativo rende il testo più piano. Il problema principale è la lettura della seconda parola κυνί; i due riferimenti più probabili possono essere: a) Il cane di Dodona: i cani di Molossia (µολοττικοί) erano rinomati per la ferocia (cfr. Aristot. HA 608a 28–31, El. nat. an. 3,2) ed erano ottimi cani da guardia (Alciphr. ΙΙΙ 11.2), in particolare temuti dagli adulteri come in Ar. Thesm. 4156s. dove sono paragonati a Mormò (genio femminile del male, cfr. Ar. Eq. 118); in commedia sono ricordati anche in ps.-Epich. fr. 247,3 (Gnōmai) e [Ar.] fr. 958 K.–A. (dubia), v. Austin-Olson 2004, p. 185 (ad Ar. Thesm. 415) per ulteriori attestazioni e cfr. Hull 1964, p. 296s. e Lilja 1976, p. 796s. Poiché i Molossi risiedevano nella parte centrale dell’Epiro, in prossimità dell’oracolo di Dodona, si può pensare ad un uso del nome della città di Dodona per indicare questo tipo di cane, propriamente indicato con l’etnico µολοττικός; così intendono, ad es., Billerbeck-Zubler ad Steph. Byz. δ 146, p. 196 “einem Dodonaier Hund [d.h. Molosser]”, ma la presunta equivalenza ∆ωδωναῖος = µολοττικός sarebbe un unicum37. 37

Non è del tutto chiara la notazione di Kassel–Austin PCG IV, p. 124: “de canum molossicorum […] latratu audi Lucretium V 1066”. In Lucr. 5, 1063–1066 si legge: inritata canum cum primum magna Molossum6/6mollia ricta fremunt duros nudantia dentes,6/6longe alio sonitu rabies 〈re〉stricta minatur,6/6et cum iam latrant et vocibus omnia complent “quando dapprima feroci le grandi fauci cascanti dei cani6/6molossi

Ἀρχίλοχοι (fr. 5)

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b) Il bronzo di Dodona. Vanno in questo senso le possibili congetture κίονι (Lucas 1828, p. 14) e κύµβῳ (Zieliński 1931, p. 77, Pieters 1946, p. 134, Luppe 1963, p. 8; per queste ultime cfr. infra a βωλοκόπῳ). Il proverbio ∆ωδωναῖον χαλκεῖον è attestato in Zen. vulg. VI 65 (CPG I 162; cfr. Phot. δ 886 = Sud. δ 1445 [Paus. δ 30]), impiegato, come attesta il paremiografo, ἐπὶ τῶν πoλλὰ λαλούντων καὶ µὴ διαλειπόντων ‘per coloro che parlano molto e senza interruzione’ e derivato da una colonna di bronzo che si trovava a Dodona e che, se percossa, non terminava il suo suono se non dopo molto tempo38. Rispetto a questa possibilità bisogna notare che se κίονι di Lucas 1828, p. 14 riprodurrebbe in Cratino un termine (κίων) che Zenobio attesta per designare il bronzo di Dodona (∆ωδωναῖον χαλκεῖον), lo stesso non vale per κύµβος di Zieliński 1887, p. 9 (= 1931, p. 77), Pieters 1946, p. 134 e Luppe 1963, p. 8, il quale risulterebbe, per altro, termine di impiego assai raro e assente dal lessico di V sec. a.6C. (LSJ s.6v. riportano come uniche attestazioni Nic. Ther. 526 e Al. 129; un eventuale diminutivo κυµβίον attestato in Theop. com. fr. 32 K.–A. [Mēdos] e altrove [LSJ s.6v.] è metricamente impossibile)39.

38

39

ringhiano, scoprendo le dure zanne,6/6con suono di gran lunga diverso la rabbia contenuta minaccia6/6di quando stanno latrando e con le loro voci riempiono tutto” (trad. E. Flores, in Titus Lucretius Carus. De rerum natura, edizione critica con introduzione e versione a c. di E.F., 3 (libri V e VI), Napoli 2009, p. 113); il riferimento è qui ai cani Molossi e Lucrezio asserisce che il ringhio minaccioso ha un suono di gran lunga diverso (longe alio sonitu; cum primum al v. 1064 e cum iam al v. 1066 scandiscono ulteriormente questa distinzione, v. anche M. R. Gale, Lucretius. De rerum natura V, Oxford 2009, pp. 187–189) dal latrato. Il rinvio di Kassel e Austin PCG IV, p. 125 al v. 1066 (latrant et vocibus omnia complent) è privo di ulteriore specificazione, e non è chiaro in che modo il rinvio al latrato dei cani Molossi si possa collegare al verso di Cratino, dove, come visto, è per altro incerto che ∆ωδωναίῳ κυνί contenga un riferimento ai cani Molossi. Questo l’interpretamentum di Zenobio; il testo completo riportato dal paremiografo è: τὸ ∆ωδωναῖον χαλκεῖον· κεῖται παρὰ Μενάνδρῳ ἐν τῷ Ἀῤῥηφόρῳ (fr. 65 K.–A.). εἴρηται δὲ ἐπὶ τῶν πολλὰ λαλούντων καὶ µὴ διαλειπόντων. φασὶ γὰρ ἐν ∆ωδώνῃ χαλκεῖον ἐπὶ κίονος ἐν µετεώρῳ κεῖσθαι. ἐπὶ δὲ ἑτέρου πλησίον κίονος ἑστάναι τὸν παῖδα ἐξηρτηµένον µάστιγα καλχῆν· πνεύµατος δὲ κινηθέντος µεγάλου τὴν µάστιγα πολλάκις εἰς τὸν λέβητα ἐκπίπτειν, καὶ ἠχεῖν οὕτω τὸν λέβητα ἐπὶ χρόνον πολύν. Spiegazioni differenti, riportate da Steph. Byz. δ 146, pp. 94–98 BillerbeckZubler, in Demone FGrHist 327 F 20a e Polemone fr. 30 p. 56 Preller, Aristide FHG IV 326 F 30, Lucilio Tarreo fr. 3, p. 80 Linnenkugel. Secondo Lelli 2010, p. 153 in ∆ωδωναίῳ κυνί è contenuta una detorsio di ∆ωδωναῖον χαλκεῖον, con sostituzione di κύων a χαλκεῖον per sottolineare il confronto negativo ai danni della τίτθη, perché la donna è spesso paragonata al cane. Una simile possibilità si basa, però, sull’accettazione di τίτθη come soggetto e di προσέοικας in

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Cratino

Poco probabili altre modificazioni di κυνί proposte: νῦν di Herings 1749, p. 23 che introduce un termine di riferimento temporale (‘adesso’: verisimilmente a seguire una precedente comparazione)40; τινί di Nauck 1851, p. 413 che per la sua posizione potrebbe riferirsi tanto a ∆ωδωναίῳ quanto a βωλοκόπῳ e lascia indefinito uno dei soggetti della comparazione; συί di Hoffmann 1863, p. 240 perché non ci sono attestazioni di un valore particolare del ‘maiale di Dodona’ e difficilmente si intende in connessione con βωλοκόπος (si dovrebbe assumere un riferimento antomastico al maiale, in genere inteso come simbolo di sporcizia o di stupidità, v. Köhler 1881, pp. 166–169, Tosi 1991, p. 372 n. 798). 2) βωλοκόπῳ. Non è chiaro a quale sostantivo si riferisca βωλοκόπος ‘che rompe le zolle’. L’ipotesi più verisimile è che si riferisca al successivo γεράνῳ, ma da un punto di vista sintattico è strana l’interposizione di τίτθῃ tra l’aggettivo βωλοκόπος e il suo sostantivo γέρανος (per τίτθῃ v. infra; da escludere che βωλοκόπος possa riferirsi a τίτθῃ, privo di senso); per βωλοκόπος ‘che rompe le zolle’, detto della gru, Kassel–Austin PCG IV, p. 125 confrontano: a) Theocr. X 31 ἁ γέρανος τὤροτρον (sc. διώκει, v. 30), ma qui è l’aratro (al quale la gru va dietro per interesse) che rompe le zolle, non la gru stessa (cfr. Gow 1952, II, p. 201 “it [the crane] had, at any rate in later times a reputation for stealing the seed, […] but its interest in ploughing was no doubt, like the seagulls, due to the worms and insects uncovered in the process”)41; b) Philip. epigr. 53,1 G.–P. βωλοτόµοι µύρµηκες, dove il pur simile βωλοτόµοι è però detto di un animale diverso, le formiche. Si potrebbe al limite pensare che βωλοκόπος ‘che rompe le zolle’ sia in qualche modo connesso con il fatto che il suono della voce della gru sia tradizionalmente considerato segno dell’inizio della stagione dell’aratura e dell’inverno (Hes. Op. 448–451, cfr. West 1971, p. 272 ad 450 e i paralleli qui citati), ma questa possibilità non è ulteriormente argomentabile. D’altra parte, la presenza della cesura mediana dopo βωλοκόπῳ potrebbe forse essere indizio che questo aggettivo debba riferirsi a quanto precede; in ogni caso il suo legame con γέρανῳ non appare chiaro (il richiamo alla gru è qui, probabilmente, per la sua voce, cfr. Interpretazione).

40 41

fine verso, su cui v. infra, che Lelli accetta tacitamente e non discute; diversamente, la proposta perde di valore e, oltre a ciò, rimangono inesplicati gli altri problematici elementi del verso. Dello stesso Herings, il generico βωµολόχῳ per il tràdito βωλοκόπῳ appare banalizzante, nonostante i dubbi sull’interpretazione di questo aggettivo (v. supra). Alla gru come animale che ruba dalle zolle si riconnette certamente l’ipotesi di Gronovius βωµοκλόπῳ (un hapax) per βωλοκόπῳ.

Ἀρχίλοχοι (fr. 5)

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Improbabile (e privo di paralleli) che βωλοκόπῳ si riferisca a κυνί; quest’ultimo non è esente da problemi (v. supra) e, da ciò, alcune proposte che modificano la prima parte del testo: ∆ωδωναίῳ κύµβῳ ζακόπῳ (Zieliński 1887, p. 9 [= 1931, p. 77]); ∆ωδωναίῳ κύµβῳ τ᾽ ἀκόπῳ (Pieters 1946, p. 134); ∆ωδωναίῳ κύµβῳ ᾽λοκόπῳ (Luppe 1963, p. 8). Queste tre possibilità trovano fondamento, come nota giustamente Luppe 1963, p. 8, in un possibile fraintendimento paleografico di una pericope in scriptio continua ΚΥΜΒΩΛΟΚΟΠΩΙ, dove la Μ può essere stata erroneamente letta come ΝΙ generando la lezione a noi testimoniata. Per κύµβῳ, v. supra a ∆ωδωναίῳ κυνί; per la parola successiva: a) ζακόπῳ (Zieliński) e b) τ᾽ ἀκόπῳ (Pieters) sono considerate poco convincente sul piano paleografico da Luppe (inoltre ἄκοπος è attestato [LSJ], ζάκοπος sarebbe un hapax), il quale propone, quindi, c) ᾽λοκόπῳ; per ὀλόκοπος Luppe nota che è attestato in Diosc. V 55, ma nel senso di ‘coarsely pounded’, LSJ s.6v. (“grob zerstossen” traduce Luppe), valore che qui non può avere e, per questo, propone un significato di “gänzlich ermüdend”: il confronto addotto è con un valore analogo del verbo κόπτω in Hegesipp. fr. 1, 26s. K.–A. ἢ λέγων φαίνου τι δὴ καινὸν παρὰ τοὺς ἔµπροσθεν ἢ µὴ κόπτε µε, Sosipat. fr. 1, 20 K.–A. ἆρα σύ µε κόπτειν οἷος εἶ γε, φίλτατε42; inoltre, per il fatto che sia un hapax soccorrerebbe il parallelo con il simile ὁλόφωνος, ancora un hapax dello stesso Cratino (fr. 279 K.–A.) e per l’aferesi casi come Cratin. fr. *146 K.–A. οὔπω ᾽πιον, fr. 272 K.–A. ᾽φάσκ᾽ ἀνήρ, fr. 309 K.–A. µὴ ᾽πίβαλλε. Tuttavia in quasi tutti i casi si tratta di hapax (tranne ἄκοπος di Pieters; per ὀλόκοπος, come visto, si ha un’attestazione, ma si deve postulare un valore diverso), il che non è impossibile data anche la presenza di molti hapax in Cratino (cfr. Farioli 1996, p. 746s.)43, ma obbliga a prudenza; d’altra parte κύµβος necessario in queste letture è poco probabile (v. supra). Che ci sia un riferimento al bronzo di Dodona, così ottenuto, rimane dubbio; d’altra parte i problemi discussi mostrano l’incertezza del termine κύων, mentre βωλοκόπος si può mantenere perché se esso è un hapax, lo sono anche le congetture proposte (e, il suo referente rimane comunque non chiaro). Il testo potrebbe nascondere qui una corruzione anche più profonda, da cui la scelta di apporre queste due parole tra cruces (a prescindere da un eventuale riferimento di βωλοκόπῳ a γεράνῳ). 42

43

Oltre a questi passi da commedia, Luppe richiama anche Plut. Phoc 7,4 παρενοχλοῦντος ἐν στρατείᾳ τινὶ τοῦ νεανίσκου καὶ κόπτοντος αὐτὸν ἐρωτήµασιν ἀκαίροις καὶ συµβουλίαις. Così già Zieliński 1887, p. 9 (= 1931, p. 7): “Id enim non curo ζάκοπον vocem, quam cuivis conformare licet, aliunde cognitam non esse, neque quisquam curabit, qui pleraque eiusmodi vocabula ἅπαξ εἰρηµένα esse consideravit”.

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Cratino

3) τίτθη … προσεοικώς. Poiché è impossibile l’accordo sintattico tra τίτθη (femminile) e προσεοικώς (maschile) si può: a) conservare τίτθη come soggetto, ma modificare il participio finale in un indicativo seconda singolare, προσεοικώς > προσέοικας (per questa lettura si potrebbe eventualmente chiamare in causa l’omeoteleuto di ω in βωλοκόπῳ … γεράνῳ che potrebbe aver generato la corruzione); b) intendere τίτθη come dativo (τίτθη > τίτθῃ) e conservare il participio προσεοικώς. Questa seconda soluzione evita un’alterazione, non necessaria, del testo tràdito e, inoltre, può rimandare all’uso omerico del participio ἐοικώς a fine verso (infra a προσεοικώς) posizione metrica questa evidentemente simile a quella finale del tetrametro anapestico; per τίτθῃ si può chiamare in causa, in aggiunta ad una forse mancata comprensione della battuta qui contenuta, un errore paleografico: ΤΙΤΘΗΓΕΡΑΝΩΙ, dove la presenza vicina di ΗΓ può aver indotto l’omissione della Ι. Se si accetta questa lettura il soggetto è un ignoto maschile che viene paragonato a quanto precede, v. anche Interpretazione. Una lettura singolare, ma che comporta in ogni caso una non necessaria alterazione del testo tràdito, è προσεοικός di Kaibel ms. apud Kassel–Austin PCG IV, p. 124: “intellege δεινὸν χρῆµα τίτθη ἐστίν. nutrix videtur garrula et cuppes cani Epiroticae similis et grui glebicrepae, quae quidem κατανέµεται τὴν χώραν ἐσπαρµένην νεωστὶ πυρίνῳ σίτῳ, Babrii fab. 26”. 4) τίτθῃ γεράνῳ. Il testo tràdito, salvo la minima correzione τίτθῃ, dà un senso soddisfacente (si rinuncia all’attribuzione di βωλοκόπῳ, v. supra): si intendono due dativi, uniti per asindeto che rappresentano due ulteriori termini di comparazione: ‘ad una nutrice, ad una gru assomigliando’, cfr. Interpretazione. Pieters 1946, p. 134 (seguito da Luppe 1963, p. 9) ha proposto una lettura τίτθῃ τε λάλῳ ‘e alla nutrice chiaccherona’, ma la figura della nutrice non è molto comune nella commedia antica così come la sua raffigurazione come λάλος, v. infra a τίτθῃ; oltre a ciò questa ipotesi dipende da quella di leggere un riferimento al bronzo di Dodona nella prima parte del verso, di fatto non certa. Interpretazione(Nonostante le incertezze del testo, si può verisimilmente supporre che venga qui istituito un confronto tra un soggetto maschile, indicato dal participio finale προσεοικώς e altri diversi termini; rimangono incerti quelli della prima parte del verso (∆ωδωναίῳ † κυνί βωλοκόπῳ †), mentre nella seconda si individuano una nutrice (τίτθῃ) e una gru (γεράνῳ). Per un soggetto maschile paragonato ad un femminile, v. σ 266s. “ὢ πόποι, ὡς ὁ µολοβρὸς ἐπιτροχάδην ἀγορεύει,6/6γρηῒ καµινοῖ ἶσος (cfr. Luppe 1963, p. 9). La nutrice (τίτθη) è generalmente additata per il cattivo comportamento nei confronti dei bambini e in Ar. Eq. 716–718 (con le osservazioni di Oeri 1948, p. 28), in particolare, il salsicciaio paragona Paflagone ad una nutrice perché

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si comporta come questa: dà un po’ di cibo al popolo (il bambino) e ne tiene per sé la maggior parte; la figura della nutrice nell’archaia è molto limitata (v. sotto ad loc.) e rimane incertο a quale caratteristica della nutrice sia paragonato il soggetto del verso di Cratino (se si suppone un uso analogo a quello di Aristofane, perché rubava qualcosa). Per quanto riguarda la gru, il richiamo più probabile è al caratteristico rumore prodottto da questo animale, v. infra γεράνῳ; in commedia paragoni con la gru sono in Aristophon fr. 10,96s. K.–A. (Pythagoristēs) ἀνυπόδητος ὄρθρου περιπατεῖν6/6γέρανος dove è attaccato un parassita e, forse, inc. fab. *583 K.–A. dove γερανίας è detto di un uomo dal collo particolarmente lungo, cfr. Blümner 1891, p. 2306s. Per il paragone Kassel e Austin PCG IV, p. 125 rimandano ad Ar. Vesp. 1308–1313, dove vi è un botta e risposta di paragoni tra Lisistrato e Filocleone, e ad un altro frammento degli Archilochoi (8 K.–A.) dove però il soggetto del confronto è senz’altro un femminile: ἦ µὲν δὴ πίννῃσι καὶ ὀστρείοσιν ὁµοίη, v.  infra ad loc. “Eine Vermutung, die einiges für sich hat, aber nicht beweisbar ist” (Luppe 1963, p. 8) è quella di Pieters 1946, p. 134 che l’oggetto di questo senz’altro poco edificante paragone sia Omero, in tal modo additato da Archiloco. L’utilizzo del metro (tetrametro anapestico catalettico) rimanda a sezioni recitate o in recitativo di parabasi e agoni (White 1912, p. 121) e all’agone potrebbe rimandare il tono mordace del paragone (ma per l’agone, forse omeoritmico e in esametri, cfr. Contenuto). βωλοκόπῳ(‘Che rompe le zolle’, hapax da βῶλος ‘zolla’ e κόπτω ‘tagliare’. Il verbo analogo, βωλοκοπεῖν è testimoniato in Aristofane (fr. 800 K.–A., tràdito da Poll. VII 141 καὶ βωλοκοπεῖν δὲ Αριστοφάνης λέγει [in Poll. I 226 è riportata solo la forma verbale βωλοκοπεῖν]) e, ancora, in Hp. Ep. 17, Ael. Ep. 19 (cfr. LSJ s.6v.). In commedia è presente anche in Men. Dysc. 5146s. καλῶς γέ µε6/6βεβωλοκόπηκεν, con un valore traslato non del tutto chiaro (“got me under the harrow nicely” traduce Handley 1965, p. 224, cfr. Stoessl 1965, p. 138). Un composto simile è βωλοτόµοι in Philipp. epigr. 53,1 G.–P. (βωλοτόµοι µύρµηκες). τίτθῃ(‘Nutrice’, derivato di θῆσθαι “teter” (DELG s.6v.) come anche τιθήνη, τιτθός etc. Nell’archaia una nutrice è oggetto di un paragone negativo in Ar. Eq. 716–718 κᾆθ’ ὥσπερ αἱ τίτθαι γε σιτίζεις κακῶς·6/6µασώµενος γὰρ τῷ µὲν ὀλίγον ἐντίθης,6/6αὐτὸς δ’ ἐκείνου τριπλάσιον κατέσπακας (“lo nutri male; ti comporti come le balie: a lui metti in bocca un po’ di quello che hai masticato; tu invece inghiotti tre volte più di lui”, trad. Mastromarco 1983, p. 269); altrove è menzionata solamente in Ar. Lys. 958 e Thesm. 609. La figura della nutrice diventa frequente, invece, nella commedia di mezzo e nuova, dove la sua caratteristica precipua è la stessa del citato passo dei Cavalieri, la cattiva condotta nei confronti dei bambini affidati alle loro cure, e si differenzia abbastanza nettamente dalla figura della ‘vecchia’, generalmente additata per

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Cratino

l’essere ciarliera e per l’ubriachezza, v. in part. Oeri 1948, p. 126s. (vecchia ciarliera), p. 276s. (τίτθη nell’ ἀρχαία), pp. 53–60 (τίτθη nella commedia di mezzo e nuova e sue precipue caratteristiche) e cfr. Hunter 1983, p. 209 ad Eubul. Titthai vel Titthē (PCG V, frr. 109–112 K.–A.). γεράνῳ(La gru (Grus grus L.) è nota già ad Omero e legata soprattutto al fatto che la sua migrazione indica l’inizio della stagione dell’aratura (Hes. Op. 448–451, Arat. 10756s.) e la fine del periodo di navigazione (Ar. Av. 7106s.); durante queste migrazioni le gru si muovono in ampi stormi molto rumorosi, da cui l’insistenza delle fonti sul loro grido, presente nei passi cit. di Esiodo e Aristofane (su cui v. in part. i comm. ad loc. di van Leeuwen 1902, p. 113 e Dunbar 1995, p. 451) e, ancora Antip. Thess. epigr. 54,8 G.–P. κλαγερῶν … γεράνων. Particolarmente famose erano la favola delle gru che Ibico indicò come sue vendicatrici prima di essere messo a morte dai pirati e la favola della guerra tra le gru e i pigmei, v. Thompson 1936, pp. 68–75 e Arnott 2007, pp. 52–54. προσεοικώς(Di probabile derivazione omerica: ἐοικώς ricorre nei poemi 27x (18x Il., 9x Od.), sempre collocato in fine verso (ad es. Α 47, Β 20, δ 354, ε 51). In commedia forme di ἐοικ- sono frequenti (in Cratino, cfr. fr. 6,3 K.–A., in Aristofane ad es. Ach. 240, Nub. 1034, Vesp. 945), un solo esempio del composto: προσεικέναι in Ar. Eccl. 1161 (di impiego più frequente, invece, in tragedia: Aesch. Ag. 163, 1131, Coeph. 12, Soph. El. 618, Phil. 903, Eur. El. 559, Hel. 69, Bacch. 1293, [Eur.] Rhes. 696). fr. 6 K.–A. (6 K.) εἶδες τὴν Θασίαν ἅλµην, οἷ’ ἄττα βαΰζει; ὡς εὖ καὶ ταχέως ἀπετείσατο καὶ παραχρῆµα. οὐ µέντοι παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι 1–2 om. Athen. CEƒƒƒ2 ἀπετείσατο van Herwerden: ἀπετίσατο Αƒƒƒ3 µέντοι om. CE. λαλῆσαι Α: λαλεῖν CE

Hai visto la salamoia di Taso, quanto abbaia? Come si è vendicata bene e in fretta e lì per lì. Non sembra certo che il cieco chiacchieri44 vicino a un sordo. 44

Traduco qui seguendo in parte Tosi 1991, p. 208 n. 448 “παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι «sembra che il cieco chiacchieri vicino al sordo»”. Per quanto riguarda l’infinito λαλῆσαι sarebbe possibile anche una traduzione con il passato: “non sembra certo che il cieco abbia chiacchierato vicino ad un sordo”. L’infinito λαλῆσαι

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(1–3) Athen. IV 164d ταῦτα τοῦ Μάγνου ἑξῆς καταδραµόντος ἀποβλέψας ὁ Κύνουλκος εἰς τοὺς παρόντας τῶν φιλοσόφων ἔφη: εἶδες—λαλῆσαι ὡς ὁ Κρατῖνος ἐν τοῖς Ἀρχιλόχοις ἔφη E dopo che Magno snocciolò queste citazioni in ordine, Cinulco diede un occhiata ai filosofi presenti e disse: hai visto—sordo, come disse Cratino negli Archilochoi (1) schol. EΓ Ar. Ach. 671a οἱ δὲ Θάσιόν φασι βάµµα λέγεσθαι ἐκ τῶν ἀπὸ πυρὸς ἰχθύων. ἰδίως Θασίαν ἅλµην ἐκάλουν. Κρατῖνος· εἶδες—ἅλµην E alcuni dicono che la salsa tasia (thasion bamma) prenda il nome dai pesci tolti dal fuoco. Analogamente (la) chiamavano salamoia tasia (thasian halmēn). Cratino: hai visto—Taso

Metro(Esametri

ll lkk l|l l|l lkk ll ll lkk l|kk lkk| lkk lk ll lkk lk|k lkk lkk ll

può indicare un’azione passata, come in genere l’infinito aoristo in dipendenza da un verbo di dire o ritenere (Kühner–Gerth II.1 § 389, p. 193: „nach den Verben des Sagens und Meinens […] bezeichnet der Infinitiv des Aorists in der Regel eine vergangene Handlung”); ciò sarebbe coerente anche con l’utilizzo dell’indicativo aoristo ἀπετείσατο al v. 2, che indica senz’altro un’azione passata (la salsa di Taso si è vendicata e, per questo, non sembra certo ‘aver chiacchierato’ vicino a un sordo). Cfr. Eur. Phoen. 12046s. Κρέων δ᾽ ἔοικε τῶν ἐµῶν νυµφευµάτων6/6τῶν τ᾽ Οἰδίπου δύστηνος ἀπολαῦσαι κακῶν6/6παιδὸς στερηθείς (Creonte, che ha perso il figlio, sembra aver raccolto le sfortune del matrimonio di Giocasta e Edipo); Phoen. 1426 τὰς σὰς δ᾽ ἀρὰς ἔοικεν ἐκπλῆσαι θεός (dopo l’annuncio del messaggero della morte di Eteocle e Polinice, il coro commenta che le maledizioni di Edipo sembrano aver trovato il loro compimento). V. anche Soph. Ai. 12396s. πικροὺς ἔοιγµεν τῶν Ἀχιλλείων ὅπλων6/6ἀγῶνας Ἀργείοισι κηρῦξαι τότε (ma qui l’indicazione temporale è specificata dalla presenza di τότε). Tuttavia, nel contesto del proverbio l’infinito potrebbe avere valore di presente: l’azione descritta nei vv. 1 e 2 viene qui commentata con un’espressione generale, appunto un proverbio, che non ha relazione temporale con l’azione descritta in precedenza. Solo la presenza di un più ampio contesto permetterebbe una maggiore precisione, v. ancora Kühner –Gerth II.1, § 389, p. 1936s.: “vielmehr kommt auch hier nur die Aktionsart zum Ausdruck, während das Zeitverhältnis aus der Situation und aus der Natur der mit einander verbundenen Verbalbegriffe erschlossen wird”. Un eventuale valore di presente potrebbe spiegare anche il perché della lezione λαλεῖν di CE, impossibile metri causa, molto probabilmente una semplice banalizzazione, ma forse anche un possibile riflesso del modo in cui il copista intendeva il verso.

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Cratino

Violazione del ponte di Hermann al v. 3 (τυφλός ἐ-), irrilevante ai fini della determinazione del tipo di resa, v. Pretagostini 1982, p. 46 e n. 11. Per gli esametri in commedia v. Unger 1911 in part. pp. 29–47 per l’ἀρχαία e Cratino e pp. 29–31 per il fr. 6 K.–A., Pretagostini 1995–1996, p. 166–171 e 181–187, Parker 1997, pp. 526s., Quaglia 2007. Bibliografia(Schweighaeuser 1802, p. 572, Runkel 1827, p. 8 (fr. IX), Meineke FCG II.1 (1839), p. 176s. (fr. III), Meineke FCG ed. min. p. 8, Bothe PCGF (1855), p. 8 (fr. 3) Kock CAF I, p. 13, van Herwerden 1886, p. 159; Zieliński 1885, p. 2416s., Unger 1911, pp. 29–31, Whittaker 1935, p. 185, Pieters 1946, p. 326s., Edmonds I (1957), p. 246s., Gelzer 1960, p. 181, Luppe 1963, p. 96s. Pretagostini 1982, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 125, Kugelmeier 1996, p. 182, Quaglia 1998, p. 516s., Rosen 1988, p. 426s., Ornaghi 2004, p. 2206s. Quaglia 2007, p. 2496s., Bakola 2010, p. 71, Rotstein 2010, p. 290, Henderson 2011, p. 179, Storey FOC I, p. 2726s. Contesto della citazione(All’interno del libro IV di Ateneo, complessivamente dedicato ai banchetti e ad aspetti a questi connessi, Cinulco, capofila dei filosofi cinici, descrive il simposio di Parmenisco e parla della sobrietà del cibo (156a-160b); la menzione del κόγχος (pignatta di fave) causa prima un intervento polemico di Larense (160b-d), quindi una tirata di Magno, in particolare contro Cinulco, su filosofi e cibo (160e-164d); a ciò Cinulco stesso risponde polemicamente con la citazione dei tre versi del frammento di Cratino, con i quali paragona il commensale ad Archiloco, la Θασία ἅλµη di v. 1 (v. comm. ad loc.), in chiaro riferimento al tono aspro che questi aveva utilizzato (“An allusion to Archilochus […] known for his bitter, pungent wit, and to whom Magnus is thus compared”, Olson Athenaeus II, p. 290 n. 218; la polemica di Cinulco prosegue subito dopo con i richiami alla ghiottoneria e alla ἡδυλογία di Magno e il paragone con il parassita Cherefonte). Lo scolio ad Ar. Ach. 671 (οἱ δὲ Θασίαν ἀνακυκῶσι λιπαράµπυκα) offre diverse spiegazioni per il valore dell’aggettivo Θάσιος (il vino di Taso; i ravanelli di Taso), tra cui quella che si tratti di una salsa o intingolo e per questo significato cita la pericope del v. 1 εἶδες—ἅλµην (dopo questa possibile spiegazione se ne aggiunge una quarta, che sia un tipo di coppa per bevande calde). Testo(Al v. 2 ἀπετείσατο è correzione di van Herwerden 1886, p. 159 per ἀπετίσατο del cod. A (accettato da Meineke e Kock) che registra una grafia non attestata prima del 400 a.C., cfr. van Herwerden 1880, p. 66 e v. Threatte I, pp. 190–192 e II, p. 536 per τείσω e ἐτείσα e pp. 536–538 per una scrittura con –ει generalizzata in nomi derivanti da questa radice, nei quali una confusione con –ι non è mai attestata prima del I sec. a.6C. Analoghi al caso di Cratino sono

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Soph. Ai. 113, τίσει per τείσει (v. Finglass 2011, p. 170) e El. 115, τίσασθε per τείσασθε (v. Finglass 2007, p. 134). Cfr. anche LSJ s.v. τίνω per ulteriori esempi. Al v. 3 non è necessaria la modificazione del tradito ἔοικε λαλῆσαι in ἔοικ᾽ ἀποπαρδεῖν di Naber 1880, p. 2245, secondo cui “satis est credibile Cynulcum apud Athenaeum, quum Cratini verba suum in usum converteret, pro ἀποπαρδεῖν supposuisse λαλῆσαι”46, ossia ci sarebbe un intenzionale cambiamento dell’originario proverbio παρὰ κωφὸν ἀποπαρδεῖν (v. Diog. VII 43, Plut. 29, Macar. VI 89, Hsch. π 563, Phot. π 251, Sud. π 371), ma cfr. Tosi 1991, nr. 448: “Naber […] corresse in ἔοικ᾽ ἀποπαρδεῖν «sembra che scoreggi», postulando che in questo luogo cratineo si avesse originariamente la variante che sostituisce il parlare con lo scoreggiare47 […]: date le nostre attuali conoscenze l’intervento può essere attraente, ma non certo sicuro” (e, d’altronde, il proverbio ‘parlare ad un sordo’ è ben attestato in epoca classica e chiaro nel suo utilizzo in Cratino [cfr. Interpretazione], mentre solamente in paremiografi e lessicografi è registrata la variante scatologica παρὰ κωφὸν ἀποπαρδεῖν). Interpretazione(Sotto metafora sono indicati Omero e Archiloco (cfr. infra ad locc.); il primo al v. 3 con la definizione antonomastica di ὁ τυφλός; il secondo ai vv. 1–2 con una serie di immagini che ne evocano la personalità e la poesia, cfr. in part. Pretagostini 1982, pp. 47-50: 1) l’etnico Θάσιος (in Θασίαν ἅλµην) che rimanda ai legami di Archiloco con quest’isola; 2) la metafora della Θασία ἅλµη, propriamente un intingolo piccante per i pesci e, quindi, un modo di designare una persona particolarmente aspra e pungente; 3) il verbo βαΰζω, usato per una persona nel senso di ‘brontolare, ringhiare, lamentarsi’ e che richiama la descrizione di Archiloco paragonato ad un cane rabbioso e al pungiglione della vespa in Callimaco (fr. 380 Pf.); 4) il riferimento alla vendetta 45 46

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Questa scelta è approvata anche da Koerte in una nota manoscritta a Kaibel apud PCG IV, p. 125, Ornaghi 2004, p. 220 n. 44 e Bakola 2010, p. 71 n. 180. Tuttavia, poiché il contesto in cui Ateneo fa utilizzare a Cinulco questi versi è di una polemica abbastanza accesa tra Cinulco stesso e Magno (v. Contesto della citazione) una presunta originale forma scatologica del v. 3 (ἀποπαρδεῖν) sarebbe stata qui particolarmente appropriata (rispetto al suo cambiamento in λαλῆσαι); cfr. anche la tendenza all’aiscrologia caratteristica degli esponenti del cinismo, v. D. Krueger, The Bawdy and Society: The Schamelessness of Diogenes in Roman Imperial Culture, in R. B. Branham–M.O. Goulet-Cazé (a c. di), The Cynics, Berkeley 1996, pp. 222–239 e J. Roca Ferrer, Kynikos Tropos: cinismo y subversión literaria en la antiguedad, Barcelona 1974). Cfr. Kock CAF III, p. 408, ἀδέσποτα τῆς ἀρχαίας fr. 50: παρὰ κωφὸν (ἔοικ᾽) ἀποπαρδεῖν, e la notazione “usitatum proverbium παρὰ κωφὸν (ῷ) διαλέγει […] comicus aliquis in obscaenum transtulit”. Kassel e Austin non annoverano, invece, il proverbio tra gli adespota comica.

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Cratino

(ἀπετείσατο) nel v. 2, per cui cfr. formulazioni archilochee come ad es. fr. 126 2 W. ἓν δ’ ἐπίσταµαι µέγα,6/6τὸν κακῶς 〈µ’〉 ἔρδοντα δεινοῖς ἀνταµείβεσθαι 2 κακοῖς, fr. 23 W. , 146s. ἐπ]ίσταµαί τοι τὸν φιλ[έο]ν[τα] µὲν φ[ι]λεῖν[,6/6τὸ]ν? δ’ ἐχθρὸν ἐχθαίρειν τε [κα]ὶ κακο[.48. Sulla base del contenuto e del tono mordace, il frammento è stato assegnato all’agone: epirrema o antepirrema (esametri recitati), da Zieliński 1887, p. 106s.; ode o antode (esametri lirici) da Whittaker 1935, p. 185 e Gelzer 1960, p. 181 (cfr. Bakola 2010, p. 71). Secondo Pieters 1946, p. 326s. e poi Luppe 1963, p. 9, questi tre versi possono rappresentare la chiusa di una contesa49; come sviluppo di questa possibilità, Pretagostini 1982, pp. 45–47 ha indicato un parallelo di formulazione tra il tra il v. 2 e Ar. Eq. 459 (parte della sphragis dell’agone) ὡς εὖ τὸν ἄνδρα ποικίλως τ᾽ ἐπῆλθες ἐν λόγοισιν e proposto, di conseguenza, che i tre esametri costituiscano la sphragis dell’agone tra Omero ed Archiloco, in cui viene sancita la superiorità del poeta di Paro tramite il richiamo ad un elemento tipico della poesia archilochea, lo ψόγος al quale rimandano i diversi, singoli elementi dei vv. 1 e 2 (v. infra)50. Locutore del frammento è in questo caso verosimilmente il corifeo, come avviene nei casi paralleli di Aristofane (v. in part. Eq. 457–460, Vesp. 725–727, Av. 627–638) e si tratterebbe, quindi, di esametri recitati. In ogni caso, l’utilizzo dell’esametro nell’agone della commedia è una singolarità rispetto all’usus di Aristofane e, inoltre, gli esametri in commedia sono limitati a contesti di parodia oracolare o parodia epica e pochi altri (Parker 1997, p. 536s. V. anche sopra Metro); per giustificare 48

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Sulla base di questi elementi il riferimento ad Archiloco appare pressoché sicuro e, di conseguenza, non sembrano convicenti interpretazioni divergenti: 1) secondo Casaubon in Schweighaeuser 1802, p. 572: “Cynulcum […] dictionem τάριχον per circonlocutionem expressit, de Magno hoc versum pronuncians [seq. v. 1], nam Θασία ἅλµη idem valet ac τάριχος”; cfr. Meineke FCG II.1, p. 17: “de homine nequam aut scelesto”, verosimilmente sulla base del valore di τάριχος che poteva indicare metaforicamente una persona dappoco, cfr. Taillardat 1965, p. 242s. e 345s. e Cassio 1977, p. 506s. 2) Secondo Gomme 1945, p. 36 n. 2 la Θασία ἅλµη nasconde un riferimento a Stesimbroto di Taso (FGrHist 107), autore di un pamphlet περὶ Θεµιστοκλέους καὶ Θουκυδίδου καὶ Περικλέους in cui erano attaccati tutti i grandi leader ateniesi, compreso Cimone; per questo motivo Cratino lo avrebbe citato in maniera metaforica e negativa in questo verso, in contraltare con l’elogio di Cimone di Metrobio nel fr. 1 K.–A. Pieters 1946, p. 32: “drie hexameters […], die een debat tusschen twee personen schijnen te besluiten”; Luppe 1963, p. 9: “es handelt sich um eine kommentierende Bemerkung zu einem Streit”. L’ipotesi di Pretagostini è accettata ad es. da Bona 1988, Quaglia 1998, p. 526s., Ornaghi 2004, p. 2206s.

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ciò Zieliński 1887, p. 10 ipotizzava che l’esametro, documentato in Cratino in misura maggiore che negli altri comici, ricoprisse il ruolo che sarebbe poi stato proprio dei tetrametri (cfr. Pretagostini 1982, in part. p. 466s.). Al di là della possibile collocazione, il frammento sancisce sicuramente il riconoscimento della superiorità di Archiloco su Omero, il che è coerente con il legame noto già agli antichi tra Archiloco e Cratino (Plat. diff. char. 1 = test. 17 K.–A. Κρατῖνος … ἅτε δὴ κατὰ τὰς Ἀρχιλόχου ζηλώσεις, αὐστηρὸς µὲν ταῖς λοιδορίαις ἐστίν; tra i moderni in part. Rosen 1988, pp. 40–49, cfr. Pretagostini 1982, pp. 49 e 51, Ornaghi 2004, p. 221) e chiarisce efficacemente il perché della vittoria del giambografo nell’agone poetico. La supremazia di Archiloco è indicata anche dal proverbio del v. 3: qui ὁ τυφλός è soggetto specifico di un’espressione proverbiale generica (‘parlare ad un sordo’) e la presenza dell’articolo distingue, tra l’altro (v. ad loc.), ciò che è proverbiale (παρὰ κωφὸν … λαλῆσαι) da ciò che non lo è (ὁ τυφλός); il senso proprio del proverbio, fare una cosa inutile come parlare ad un sordo, è cambiato di segno per mezzo della negazione οὐ µέντοι e indica, dunque, “la superiorità di Archiloco, che ha inteso bene ciò che Omero aveva detto e ha saputo ben replicare” (Pretagostini 1982, p. 51). Inoltre, κωφός vale sicuramente ‘sordo’ come è nel proverbio, ma ha anche un significato, ben attestato, di ‘muto’: in questo senso, una volta cambiato di segno il proverbio, Archiloco non solo non è sordo – e quindi sente bene quello che il suo avversario dice – ma non è nemmeno muto (non è, per così dire, un sordomuto) ed è per questo che può ben replicare, tra l’altro, anche abbaiando (βαΰζει), un verbo che ha una chiara connotazione vocale, cfr. LSJ s.6v. κωφός n. 2: “οὐ . . παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι, i.e. is not so dumb but that he will answer the blind fool who assails him”. εἶδες–βαΰζει(Cfr. Ar. Ach. 9706s. εἶδες, ὦ πᾶσα πόλι, τὸν φρόνιµον ἄνδρα, τὸν ὑπέρσοφον,6/6οἷ’ ἔχει σπεισάµενος ἐµπορικὰ χρήµατα διεµπολᾶν, su cui Olson 2002, p. 311 e ibid. p. 281 (v. 836 οὐκ ἤκουσας): “the addressee is not precisely defined and might just as well be the individual members of the audience as the other members of the chorus”, con il rimando a Kaimio 1970, pp. 141–143. Sintatticamente si aspetterebbe εἶδες οἷ᾽ ἄττα ἡ Θασία ἅλµη βαΰζει; la prolessi del soggetto logico della subordinata nella principale e la sua trasformazione in complemento oggetto di un verbo transitivo è ben attestata in greco, in commedia ad es. in Ach. 970 cit. supra. Per ulteriori esempi v. Kühner–Gerth 1904, II.2, p. 577–579 che ne rilevano anche il valore stilistico: “durch diese sogen. Prolepsis oder Antizipation wird der Nebensatz mit dem Hauptsatze inniger verbunden und gewissermassen mit demselben zu einer Einheit verschmolzen, zugleich aber auch das Subjekt des Nebensatzes,

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Cratino

welches den Hauptgegenstand der Betrachtung ausmacht und der Vorstellung des Redenden lebhaft vorschwebt, gleichsam mehr vor die Augen stellt”. Θασία ἅλµη(Fonti antiche definiscono la Θασία ἅλµη, detta anche semplicemente Θασία, come una salsa a base di sale e olio, in cui immergere i pesci dopo la loro cottura sulla brace, v. in part. Cratin. fr. 150,3 K.–A., Ar. Vesp. 331 e 1515, schol. ad Ar. Ach. 671a (ii) ἄλλως: Θασίαν, ζωµὸν ἅλµης εἰς ὃν ἀπέβαπτον τὰ ἠνθρακωµένα τῶν ἰχθύων (cfr. 671c); Athen. VII 329b τοὺς γὰρ εἰς τὸ ἀπανθρακίζειν ἐπιτηδείους ἰχθῦς εἰς ἅλµην ἀπέβαπτον, ἣν καὶ Θασίαν ἐκάλουν ἅλµην (con le citt. di Ar. fr. 426 K.–A. e Vesp. 1127); Hsch. θ 119 Θασία ἅλµη· εἰς ἣν ὄψα ὀπτώµενα ἔβαπτον (v. ancora Hsch. α 396, Sud. θ 58, rr. 15–18, Eust. in Il. 749,2 [II, p. 705, 5–8 van der Valk] e cfr. Olson 2002, p. 244 ad Ar. Ach. 671 e Olson–Sens 2003, p. 102 ad Archestr. fr. 23, 56s.). La definizione della salsa come Θασία (dell’isola di Taso) è dovuta verisimilmente soltanto al fatto che con essa è indicato Archiloco (v. infra; nessuna indicazione è infatti a noi nota di un legame particolare di questa salsa con l’isola, come ad es. l’origine o il suo uso precipuo in essa). Dal testo di Cratino è evidente che Θασία ἅλµη si riferisce ad una persona (le si attribuiscono l’atto di ‘abbaiare’ [v. 1 βαΰζει] e quello di vendicarsi [v. 2]); per Θασία ἅλµη = Archiloco, v. già Meineke FCG II.1, p. 1751: “intellegas de homine salso et amarii ingenii, quemadmodum Ἁλµίωνος nomen ad ingenii acerbitatem referebatur” (Ἁλµίων era il soprannome del poeta tragico Filocle, noto per la sua asperità, v. TrGF I, 24 T 2 Snell–Kannicht: ὅσοι δὲ Ἁλµίωνος αὐτόν φασιν ἐπιθετικῶς λέγουσι διὰ τὸ πικρὸν εἶναι· ἅλµη γὰρ ἡ πικρία; cfr. TrGF I, 24 T 1 Snell–Kannicht Φιλοκλῆς […] ἐπεκαλεῖτο δὲ Χολὴ διὰ τὸ πικρόν; TrGF I, 24 T 5b)52. L’identificazione è dovuta al fatto che qui ἅλµη, analogamente al nomignolo Ἀλµίων, indica una persona particolarmente aspra come lo era Archiloco nei suoi versi; inoltre, al particolare legame del giambografo con l’isola di Taso, chiaramente evocata nel nome della salsa, Θασία 2 ἅλµη (per Archiloco e Taso, v. ad es. fr. 102 W. e Pouilloux 1964, pp. 3–36). Oltre a ciò, come rileva Pretagostini 1982, p. 486s. “il rapporto biunivoco tra cottura sui carboni e ἅλµη, primo passo di un processo di identificazione, ha 51

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L’identificazione è unanimemente accolta: Kock CAF I, p. 13, Zieliński 1885, p. 242, Baker 1904, p. 138, Whittaker 1929, p. 185, Pieters 1946, p. 32, Luppe 1963, p. 96s., Pretagostini 1982, pp. 47–49, Rosen 1988, p. 426s., Bakola 2010, p. 71, Rotstein 2010, p. 290, Henderson 2011, p. 179 e n. 4, Storey FOC I, p. 273, Zimmermann 2011, p. 727. Cfr. Eust. in Odyss. τ 163, 1859, 52–54 Dindorf ἀπὸ δρυὸς ἢ πέτρης εἶναι τινὰ, ἔστι παραχρήσασθαι παροιµιακῶς επὶ ἀγριότητι, οὕτω καὶ τῷ ἀπὸ τῆς ἅλµης λόγῳ, καθ᾽ ὃν ἐκ µὲν τῆς πικρᾶς ἀχράχολός τις ἄνθρωπος Ἁλµίων ἐσκώφθη.

Ἀρχίλοχοι (fr. 6)

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quasi sicuramente determinato un’altra stretta connessione, quella fra ἅλµη e sconfitta o mala sorte, di cui sono testimonianza Ar. Vesp. 15146s.: ἀτὰρ καταβατέον γ’ ἐπ’ αὐτούς µοι· σὺ δὲ6/6ἅλµην κύκα τούτοισιν, ἢν ἐγὼ κρατῶ, pronunciati da Filocleone immediatamente prima della gara di danza con i Carciniti che, qualora sconfitti, sono destinati appunto ad essere conditi nella ἅλµη, e Aristoph. Olkades fr. 416 K. [= 426 K.–A.]: ὦ κακοδαίµων, ὅστις ἐν ἅλµῃ πρῶτον τριχίδων ἀπεβάφθη, in cui il rapporto infelicità/ἄλµη è evidenziato al massimo grado. Solo se si tiene conto di questa connotazione specifica del termine ἅλµη si può valutare fino in fondo la metafora della ‘salsa di Taso’: evidentemente Cratino identificava Archiloco con la Θασία ἅλµη perché chi incorreva nell’acredine dei suoi versi, nella ἅλµη Tasia = πικρία archilochea era, diremmo noi, uno ‘bell’ e fritto’, proprio come i pesciolini cotti sulla brace”. οἷ᾽ ἄττα(Ἄττα = τινά ‘something, some’ (LSJ s.6v.), cfr. già τ 218 ὁπποῖ’ ἄσσα ‘what sort’ (LSJ  s.6v.). In commedia v.  Ar. Pac. 704 (con Olson 1998, p. 212), Ran. 173 πόσ᾽ ἄττα; Ran. 936 ποῖ᾽ ἄττα. Cfr. Ran. 55, Pac. 674 πόσος τίς, Av. 1514 πηνίκ᾽ ἄττα (con Dunbar 1995, p. 699). βαΰζει(Dall’onomatopea βαΰ del verso del cane e il suffisso –ζω, v. Debrunner 1917, p. 117 § 234 (suffissi –ύζειν e –ζειν) e Schwyzer I, p. 716: “nach solchen [Schallverba] dient –ζω als Verbalisierung vokalisch auslautender Interjektionen”, con esempi, tra gli altri, di αἰάζω (ad es. Eur. Tro. 145), γρύζω (ad es. Ar. Vesp. 741), µύζω (ad es. Ar. Thesm. 231), οἰµώζω (ad es. Ar. Thesm. 248, 1001, 10816s.), ὀτοτύζω (ad es. Ar. Pac. 1011), v. anche Austin–Olson 2004, p. 115 (ad Ar. Thesm. 173 παύσαι βαΰζων) e Tichy 1983, p. 168 (cfr. p. 246); ancora Schwyzer nota che questi verbi con suffisso –ζω sono composti prevalentemente letterari e ricorrenti per lo più da Eschilo in avanti, cfr. Fraenkel 1950, II, p. 6096s. ad Aesch. Ag. 1316 (δυσοίζω). La prima attestazione di βαΰζω è in Heracl. fr. 97 D.–K. κύνες γὰρ καὶ βαΰζουσιν ὅν ἂν µὴ γινώσκωσι53 (v. ancora, in senso proprio, Theocr. VI 106s., Lyc. 1453, Luc. merc. cond. 34)54; detto di una persona, ha il valore di ‘brontolare, ringhiare, lamentarsi’ (LSJ s.6v. ‘of angry persons, snarl, yelp’), v. ad es. Aesch. Ag. 449 (su cui Fraenkel 1950, ΙI, p. 2316s. che richiama il confronto del latino “gannire […] properly of a dog = latrare, then figuratively = murmurare, obstrepere, maledicere), Ar. Thesm. 173 e 895 (su cui Austin–Olson 2004, p. 115 ad loc.). Cfr. anche Ar. Vesp. 1401–5, dove una donna impudente e ubriaca è

53 54

La lezione dei codici è καὶ βαΰζουσιν; non necessaria la correzione καταβαΰζουσιν, v. Marcovich 1967, p. 86. Incerto il valore del verbo in Aesch. Pers. 13 (su cui cfr. Garvie 2009, p. 536s.).

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Cratino

paragonata ad una cagna che abbaia; v. ancora Taillardat 1965, p. 276 (§ 487) e Schenker 1997, p. 126s.55 ὡς εὖ καὶ ταχέως … καὶ παραχρῆµα(Per l’accostamento di tre avverbi segno di un innalzamento, che “donne au style de l’ampleur et de la majesté” (Ronnet 1951, p. 78, cfr. Spyropoulos 1974, p. 1246s.), v. ad es. in commedia Ar. Ach. 1015–1017 ὡς µαγειρικῶς6/6κοµψῶς τε καὶ δειπνηστικῶς, Eq. 525 εὖ νὴ τοὺς θεοὺς6/6καὶ ποικίλως πως καὶ σοφῶς ᾐνιγµένος; e altri esempi citati da Spyropoulos 1974, p. 188; per l’anafora di due avverbi sinonimi (come qui ταχέως e παραχρῆµα), v. in part. Kühner–Gerth II.2, p. 584 e Wyse 1904, p. 194 ad Isae. I 11,1 (per l’anafora εὐθύς6/6παραχρῆµα). Per ripetizioni tautologiche v. ad es. Ar. Pac. 399 διὰ παντὸς … ἀεί (con Olson 1998, p. 155) e Cratet. fr. 28 K.–A. ἕτερος … λόγος ἄλλος (cfr. Dover 1968, p. 263 ad Ar. Nub. 1458). Due paralleli aristofanei per la costruzione del verso: Eq. 459 ὡς εὖ τὸν ἄνδρα ποικίλως τ’ ἐπῆλθες ἐν λόγοισιν (v. Interpretazione) e Vesp. 1294 ὡς εὖ κατηρέψασθε καὶ νουβυστικῶς (si nota qui la presenza del verbo all’aoristo tra ὡς εὖ iniziale e l’avverbio conclusivo νουβυστικῶς, come in Cratino ὡς εὖ … ἀπετείσατο … παραχρῆµα); cfr. anche Ar. fr. 73 K.–A. (Babylōnioi) ὠς εὖ καλυµµατίοις τὸν οἶκον ἤρεφεν e, in prosa, Plat. Leg. 838a 5 ὡς εὖ τε καὶ ἀκριβῶς εἴργονται τῆς τῶν καλῶν συνουσίας e 855a 4 ὡς εὖ τε καὶ ἀνδρείως εἰς ἀγαθὸν ἐκ κακοῦ διαπεφευγότων. Per ἀπετίσατο … παραχρῆµα cfr. παραχρῆµ᾽ ἀποτίνεται in Ar. Thesm. 686 su cui v. Austin–Olson 2004, p. 242 (παραχρῆµα è normale in commedia [Ar. Vesp. 1048, Av. 625, Plut. 569, 783] e prosa [Thuc. ΙΙ 6.2, Plat. Phaedr. 243b], ma privo di attestazioni in tragedia e in contesti elevati [unica testimonianza in Crit. fr. 4,22 G.–P.]). 2 οὐ µέντοι(Per µέντοι enfatico, v. Denniston 1954 , p. 4016s. In commedia le occorrenze di οὐ µέντοι sono in genere accompagnate da µὰ ∆ία (preposto o posposto): Ar. Vesp. 231 e 665, Av. 1668 (su cui Dunbar 1995, pp. 734 e p. 730 [ad v. 1651]), Hermipp. fr. 68,1 K.–A. (analogamente anche in prosa, soprattutto Platone, ad es. Lach. 195a, Euthyd. 290e etc.). ὁ τυφλός(La presenza dell’articolo indica una designazione per antonomasia (“of outstanding members of a class” LSJ s.6v. ὁ, ἡ, τό, B 3); l’identificazione di ὁ τυφλός con Omero risale a Zieliński 1885, p. 24256 ed è possibile per: a) la presenza di Omero negli Archilochoi testimoniata dal fr. 2 K.–A.; b) la 55

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Singolare e non chiara sia rispetto al valore proprio del verbo sia al suo contesto, l’interpretazione che Schenker 1997, p. 13 n. 28 dà del valore di βαΰζω in Cratino: “for another comic usage, Cratinus 6 K-A, where it seems to refer not to outright ostility, but to an unpleasant sound”. Questa identificazione è unanimemente accolta: Whittaker 1935, p. 185, Pieters 1946, p. 33, Luppe 1963, p. 10, Pretagostini 1982, p. 51, Quaglia 1998, p. 51, Kassel

Ἀρχίλοχοι (fr. 6)

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tradizione che riteneva Omero cieco, risalente ad Hom. h. III (Ap.) 172 τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ57 e citato anche da Thuc. III 104 che identifica esplicitamente il τυφλὸς ἀνήρ con Omero; la cecità di Omero è poi documentata nelle Vitae Homeri, in genere legata all’interpretazione del nome (Certamen 9–12 Σµυρναῖοι […] φασὶ πρότερον Μελεσιγένη, ὕστερον µέντοι τυφλωθέντα Ὅµηρον µετονοµασθῆναι, Vita Herodotea 162–5, Vita Plutarchea 20–24, Vita 4.6). V. anche Luc. Ver. hist. 2.20 che cita la tradizione di Omero cieco per criticarla. Sulla cecità di Omero, v. da ultima Graziosi 2002, pp. 125–163. παρὰ κωφὸν … λαλῆσαι(‘Parlare ad un sordo’ indica proverbialmente compiere un’azione inutile ed è un’espressione attestata in un’ampia gamma di varianti sia nel mondo greco (ad es. Aesch. Sept. 202 ἤκουσας, ἢ οὐκ ἤκουσας; ἢ κωφῇ λέγω;, Coeph. 881 κωφοῖς ἀϋτῶ) che in quello latino (ad es. Verg. ecl. X 8 non canimus surdis, cfr. Ov. Am. III 7,61 e Prop. IV 8,47) e presente in quasi tutte le lingue moderne, cfr. Tosi 1991, p. 208 nr. 448 e Tosi 2011, p. 2776s. Nelle fonti paremiografiche sono attestate due varianti: παρὰ κωφῷ διαλέγῃ in Greg. Cypr. III 32 e παρὰ κωφὸν ὀµιλεῖς in Plut. 43; per questo motivo secondo Luppe 1963, p. 10 “Kratinos hat wohl das Sprichwort dem hier gegebenen Zusammenhang angepasst und den eigentlichen Wortlaut abgeändert”, ma l’esistenza di due varianti a livello di paremiografi (διαλέγειν e ὀµιλεῖς), l’impiego di differenti verba dicendi attestati in relazione all’impiego di questo proverbio (cfr. supra) e infine le molteplici variazioni note su un concetto di base fisso v. Tosi cit. supra, indicano che il verbo potesse mutare di volta in volta per le singole esigenze, lasciando inalterato il concetto espresso, e non che si tratti di una modificazione di una forma base di un proverbio. Cfr. anche Interpretazione.

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e Austin, PCG IV, p. 125, Ornaghi 2004, p. 221, Bakola 2010, p. 71, Storey FOC I, p. 273. Hom. h. III (Ap.) 172 è la più antica testimonianza sulla cecità di Omero; come rileva G. Zanetto (Inni Omerici, Milano 20063, p. 244) “a seconda della datazione che si assegna all’Inno, si può pensare che questi versi abbiano alimentato la tradizione di un Omero cieco e chiota, ovvero si siano iscritti in una tradizione siffatta, già costituita”.

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Cratino

fr. 7 K.–A. (7 K.) ἔνθα ∆ιὸς µεγάλου θᾶκοι πεσσοί τε καλοῦνται θᾶκοι Sud: θάκοι Phot.: θῶκοι Apost.ƒƒƒπεσσοί: ψῆφοι apud Hsch. δ 1925ƒƒƒ καλοῦνται Phot., Sud. AFVM, Apost.: καλεῖται Sud. GI: καλοῖτε Sud. T

Dove sono chiamati seggi e pedine del grande Zeus Phot. δ 659 = Sud. δ 1213 = Apost. VI 20

∆ιὸς ψῆφος· οὕτως καλεῖται ἐν ᾧ Ἀθηνᾶ καὶ Ποσειδῶν ἐκρίθησαν. Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις· ἔνθα — καλοῦνται. ὁ γὰρ τόπος, ἐν ᾧ ἐκρίθησαν, ∆ιὸς ψῆφος καλεῖται. τάττεται δὲ ἡ παροιµία ἐπὶ τῶν ἱερῶν καὶ ἀθίκτων Dios psēphos: si chiama così (il luogo) in cui Atena e Poseidone furono giudicati. Cratino negli Archilochoi: dove — Zeus. Infatti il luogo in cui furono giudicati è chiamato Dios psēphos. E si utilizza il proverbio per i luoghi sacri e intangibili

Metro(Esametro

lkk l|kk l|l ll lkk ll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 6 (fr. III), Meineke FCG II.1 (1839), p. 186s. (fr. IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p.  8, Bothe PCGF (1855), p.  8 (fr. 4), Kock CAF I (1880), p. 136s., Whittaker 1935, p. 186, Page 1938, p. 72, Edmonds FAC I (1957), p. 246s., Gelzer 1960, p. 180, Luppe 1963, p. 106s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 126, Quaglia 1998, p. 516s., Ornaghi 2004, p. 220, Bakola 2010, p. 736s., Henderson 2011, p. 179, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(I tre testimoni del frammento registrano come lemma l’espressione ∆ιὸς ψῆφος e spiegano, anzitutto, che essa deriva dal nome del luogo della contesa tra Atena e Poseidone; il verso di Cratino segue immediatamente questa interpretazione e dovrebbe perciò rappresentare il locus classicus per l’attestazione di ∆ιὸς ψῆφος e del significato proposti (subito dopo il verso, due dei tre testimoni, Fozio e Suda, ribadiscono: ὁ γὰρ τόπος ἐν ᾧ ἐκρίθησαν, ∆ιὸς ψῆφος καλεῖται. Segue una pericope τάττεται—ἀθίκτων, v.  infra). È tuttavia evidente (e univoco nella tradizione di Fozio, Suda e Apostolio) che la citazione di Cratino non contenga la locuzione ∆ιὸς ψῆφος58. 58

Nel testo citato di Cratino né θᾶκοι né πεσσοί possono corrispondere a ψῆφος nel senso di voto, v. infra. In ogni caso appare straniante citare un locus classicus che non contiene il lemma di cui si propone l’esemplificazione o che ad esso alluderebbe in maniera implicita (come sarebbe se θᾶκοι o πεσσοί corrispondessero a ψῆφος).

Ἀρχίλοχοι (fr. 7)

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Ciò si può probabilmente spiegare con il fatto che ψῆφοι potrebbe essere stata una variante del testo di Cratino (v. infra) come sembra testimoniare Hsch. δ 192559 ∆ιὸς θᾶκοι καὶ πεσσοί· τινὲς γράφουσι ψῆφοι. φασὶ δὲ ἐν τῇ τῶν Ἀθηναίων διαψηφίσει, ὅτε ἠµφισβήτει Ἀθηνᾶ καὶ Ποσειδῶν, τὴν Ἀθηνᾶν ∆ιὸς δεηθῆναι ὑπὲρ αὑτῆς τὴν ψῆφον ἐνεγκεῖν καὶ ὑποσχέσθαι ἀντὶ τούτου τὸ τοῦ Πολιέως ἱερεῖον πρῶτον θύεσθαι ἐπὶ βωµοῦ; nella successiva tradizione (Σ e sue fonti [v. Cunningham 2003, p. 136s. e 43–58], da cui Fozio e Suda) l’interpretamentum di Esichio in cui si parla del voto di Zeus (τὴν Ἀθηνᾶν ∆ιὸς δεηθῆναι ὑπὲρ αὑτῆς τὴν ψῆφον ἐνεγκεῖν) che Atena richiede in suo favore è connesso con il proverbio ∆ιὸς ψῆφος; di conseguenza il frammento di Cratino è citato nell’esemplificazione di questo proverbio, anche se l’espressione qui contenuta è ∆ιὸς πεσσοί e l’equivalenza con ψῆφοι, testimoniata da Esichio, rimane implicita. Se così è, si deve supporre che in Σ confluiscano: a) l’informazione di Esichio, la quale spiegherebbe il perché della citazione di Cratino altrimenti immotivata (e, per lo stesso motivo, sarebbe anche indizio che il lemma di Esichio si riferisce a Cratino60); b) un’altra fonte dalla quale derivare una citazione che sia un verso completo e abbia l’indicazione del nome dell’autore (Cratino) e della commedia di provenienza (Archilochoi), dati questi non deducibili da Esichio. La variante ψῆφοι testimoniata da Esichio si deve, con ogni probabilità, ad una sinonimia πεσσοί/ψῆφοι nel significato di ‘pedina da gioco’, testimoniata anche altrove: Hsch. π 2029 πεσσός· οὕτως ἐκάλουν τὰς ψήφους αἷς ἔπαζον, Sud. π 1384 πεσσούς: κύβους. καὶ πεσσοί, ψῆφοι, παρὰ Ἡροδότῳ (I 94.46s.), ἐν οἷς ἔπαιζον61. L’interpretamentum di Esichio che motiva la variante φῆφοι 59 60

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La glossa di Esichio risale probabilmente a Diogeniano: Latte 1953 ad loc., p. 462 e ibid. pp. XLII-XLIV.  Il lemma di Esichio ∆ιὸς θᾶκοι καὶ πεσσοί appare una forma semplificata (senza il gen. µεγάλου e con καὶ πεσσοί = τε πεσσοί) del verso di Cratino; richiamano Cratino per il lemma Meineke FCG II.1, p. 186s., Schmidt 1858, p. 519, Latte 1953 ad loc., p. 462. La somiglianza nell’espressione è tale da rendere molto improbabile una sua indipendenza dal verso cratineo; inoltre, come detto, la citazione di Cratino nei testimonia non si spiegherebbe se non si considera il lemma di Esichio relativo al verso del comico, v. supra. Secondo Meineke FCG II.1, p. 18: “qui ψῆφοι scripsisse dicuntur, ambiguum videri potest utrum id pro θᾶκοι an pro πεσσοί intulisse existimandi sunt. Caussa autem mutationis haud dubio haec fuit, quod ipsum illum locum in arce Athenarum a Cratino significatum esse putabant, in quo Minervae cum Neptuno de Atticae terrae possessione disceptantis caussam Iuppiter suffragio suo adiuvisse credebatur”. Ma se ψῆφοι di Esichio è metricamente equivalente sia a θᾶκοι sia a πεσσοί, una sinonimia ψῆφοι = πεσσοί appare evidente ed è documentata nei lessicografi (cfr. supra);

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Cratino

è di origine autoschediastica secondo Luppe 1963, p. 11 (“scheint …, wie das einleitende φασί zeigt, nur eine (falsche) Ausdeutung zu sein”); ciò potrebbe trovare conferma sia nel fatto che questo racconto non ha altre testimonianze62, sia in quello che πεσσοί e ψῆφοι possono essere sinonimi nel senso di ‘pedina da gioco’, ma non in quello di ‘voto’ (questo secondo significato è esclusivo di ψῆφος, mai attesato per πεσσός) e che, quindi, difficilmente si capisce il riferimento alla contesa tra Atena e Poseidone in cui ψῆφος = voto. La variante ψῆφοι, dunque, potrebbe dipendere semplicemente dalla sua omonimia con πεσσοί e non avere nulla a che fare con la contesa di Atena/ Poseidone, spiegazione creata per giustificare ψῆφοι (cfr. Interpretazione). L’interpretamentum stesso ha probabilmente portato, in un secondo momento, ad una connessione con il proverbio ∆ιὸς ψῆφος, per presumibile analogia d’espressione con il riferimento generico al voto di Zeus presente in Esichio; questo proverbio è testimoniato prima di Esichio in Diogen. ΙV 3663 ἐπὶ τῶν ἱερῶν καὶ ἀθίκτων· ἢ ἐπὶ τῶν πιθανῶν e la spiegazione di Diogeniano

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non è, invece, altrettanto facile comprendere un’equivalenza ψῆφοι ‘sassolino/ voto’ = θᾶκοι ‘seggio, sedia’, ed appare quindi probabile che ψῆφοι fosse effettivamente in luogo di πεσσοί, cfr. Kock CAF I, p. 14 (“antiquitus πεσσοί pro ψῆφοι dicebantur”) e Luppe 1963, p. 11. Il particolare di Atena che chiede e ottiene il voto di Zeus in cambio del privilegio del primo sacrificio, non è testimoniato altrove nelle fonti che possediamo sulla contesa tra le due divinità: Apollod. III 179, Ov. Met. VI 72 (lo notava anche Meineke FCG II.1, p. 19 “de Iovis calculo unus, si recte memini, tradidit Hesychius”). L’unico elemento che potrebbe rimandarvi è la distinzione tra il voto Zeus e quello degli altri dei in Callim. Hecal. fr. 260, 25 Pf. = 70, 10 Hollis τὴν ῥα νέον ψῆφῳ τε ∆ιὸς δυοκαίδεκά τ᾽ ἄλλων, da cui non si può però trarre alcuna fondata conseguenza. Secondo Hollis 20092, p. 236 “Call. may allude to the fact that the place where judgement was given between Athena and Poseidon for the possession of Attica was actually called ∆ιὸς ψῆφος (Suid. s.6v., quoting Cratin. fr. 7 Kock, PCG)”, un dato che appare improbabile perché dedotto in Suda (e Fozio) con ogni probabilità dal lemma stesso di Esichio (v. supra). In Callimaco ψῆφῳ τε ∆ιός ha valore puramente letterale, cfr. Pfeiffer 1949, I, p. 248 (con il rimando a Call. fr. 194, 66 cum schol.). Il corpus di proverbi la cui attribuzione a Diogeniano è incerta risale al III sec. d.6C.; questo Diogeniano potrebbe essere lo stesso la cui opera rappresenta la base del lessico di Esichio (Leutsch–Schneidewin 1839, I, praefatio, pp. XXVII-XXX). Se la glossa di Hsch. δ 1925 ha come fonte Diogeniano e se questo stesso Diogeniano è autore del corpus di proverbi, ne deriva che nel III sec. d.6C. era attestato: 1) un proverbio ∆ιὸς ψῆφος con l’interpretamentum ἐπὶ τῶν ἱερῶν καὶ ἀθίκτων· ἢ ἐπὶ τῶν πιθανῶν; 2) un verso di Cratino con una variante ψῆφοι riferita, verisimilmente in maniera autoschediastica, alla contesa di Atena/Poseidone. In nessun caso è comunque presente l’identificazione ∆ιὸς ψῆφος = luogo della contesa, un’identi-

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ritorna anche nei testimoni del frammento, tranne l’ultima pericope ἢ ἐπὶ τῶν πιθανῶν (così anche nel più tardo Greg. Cypr. Leid. I 93 [CPG II, p. 67]: ∆ιὸς ψῆφος· ἐπὶ τῶν ἱερῶν καὶ ἀθίκτων). Di conseguenza: 1) appare probabile che il proverbio non abbia nulla a che fare con la contesa Atena/Poseidone, al quale è stato riferito a partire dall’interpretamentum di Esichio; il suo corretto interpretamentum è quello che ne dà Diogeniano (così già Luppe 1963, p. 11, cfr. supra); 2) per quanto riguarda il frammento di Cratino: a) il riferimento alla contesa Atena/Poseidone in Esichio (da cui il falso collegamento con il proverbio ∆ιὸς ψῆφος) segue l’attestazione di una variante nel testo di Cratino; quindi il frammento di Cratino finisce per esemplificare ∆ιὸς ψῆφος, per via di questa varia lectio (pur non contenendo, di fatto, il termine ψῆφοι, v. supra); b) con il proverbio stesso il frammento non aveva probabilmente nulla a che fare, come sembra indicare anche il fatto che la variante cratinea πεσσοί/ ψῆφοι vale solo nel senso di ‘pedine da gioco’ (v. supra) e, quindi, il verso di Cratino non potrebbe esemplificare un’espressione, ∆ιὸς ψῆφος, in cui ψῆφος = voto (un valore di ψῆφος che πεσσός non ha). Interpretazione(La sinonimia πεσσοί/ψῆφοι attestata da Hsch. δ 1925 si basa quasi certamente sul valore di ‘pedina per il gioco della κυβεία o πεττεία’ comune a entrambi i sostantivi (cfr. supra e comm. a πεσσοί); θᾶκος è utilizzato accanto a πεσσός in Eur. Iph. Aul. 194–198 κατεῖδον (192) Πρω–/τεσίλαόν τ’ ἐπὶ θάκοις6/6πεσσῶν ἡδοµένους µορ–/φαῖσι πολυπλόκοις Παλαµήδεά θ’, dove πεσσῶν si unisce a µορφαῖσι πολυπλόκοις (non a θᾶκος, v. Stockert 1992, p. 246) e θᾶκος indica il luogo dove ci si sedeva per giocare. Che questi tipi di gioco comportassero lo stare seduti, lo conferma la raffigurazione di Achille e Aiace sul vaso di Exekias (540–530, Musei Vaticani inv. n. 16757, ABV 145,13) e ancora altri casi simili, per cui v. il repertorio di Buchholz 1987, pp. 126–184 e Woodford 1982, in part. pp. 181–184; i θᾶκοι quindi si possono spiegare come elemento costituente di vari tipi di gioco basati su pedine o su dadi e il passo dell’Ifigenia in Aulide mostra la possibilità di una connessione linguistica tra θᾶκος e πεσσός nel comune ambito di riferimento specifico del gioco. Una possibile interpretazione del verso è quella di Luppe 1963, p. 106s.: “es handelt sich um eine feierlich klingende Ortsangabe – man könnte fast an ein Orakel denken – offenbar komischen Inhalts”; più precisamente vi si può leggere un riferimento a due elementi tipici del gioco: ciò su cui ci si sedeva, che

ficazione che risulta solo dopo Esichio e sembra dipendente dall’interpretamentum di questi.

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Cratino

può essere chiamato θᾶκος, e le pedine con cui si giocava, πεσσοί o ψῆφοι. In Eur. Med. 686s. πεσσοὺς προσελθών, ἔνθα δὴ παλαίτατοι6/6θάσσουσι lo scolio ad loc. (II, p. 147 Schwartz) spiega che si tratta di un modo per designare un luogo: πεσσοὺς γὰρ νῦν τοὺς τόπους τῶν κυβευτῶν, ὡς ὄψον καὶ µύρα ἔνθα ταῦτα συνήθως ἐστίν. ὅπου, φησὶν, εἰθισµένοι εἰσὶ πεσσεύειν κτλ.64; questo tipo di designazione metaforica è comune, v. ad es. θᾶκος “Sitz statt Sitzung, Versammlung β 26, ο 468” (nella forma θῶκος nei poemi omerici), ψῆφος “Ort der Abstimmung Εur I.T. 945, 969” (Kühner–Gerth II.1, p. 12, con ulteriori esempi). Secondo Page 1938, p. 72, lo stesso valore di πεσσοί = luogo dove si gioca a dadi è possibile anche nel frammento di Cratino; qui si può intendere, infatti, sia “dove (ci sono quelli che) sono chiamati seggi e pedine del grande Zeus”, sia “dove (ci sono quelli che) sono chiamati seggi e luoghi per giocare del grande Zeus” (l’estensione di significato potrebbe valere nel caso di Cratino anche per θᾶκοι, seggio per giocare = luogo dove ci si siede per giocare). La specificità di questo verso sta propriamente nel denotare con stilemi elevati (il metro, l’esametro; la costruzione brachilogica ἔνθα … καλοῦνται; la presenza di θᾶκος, rarissimo in commedia), due elementi caratterizzanti il gioco dei dadi; non è chiaro, invece, perché i θᾶκοι πεσσοί τε siano definiti dalla specificazione ∆ιὸς µεγάλου. Si può, forse, confrontare per il primo il fatto che ∆ιὸς θᾶκος è definito l’oracolo di Dodona in Aesch. Prom. 829 µαντεῖα θᾶκός τ᾽ ἐστὶ Θεσπρώτου ∆ιὸς (v. Griffith 1983, p. 234), da cui θᾶκος avrebbe un doppio valore, sede oracolare e sedia per il gioco; per il secondo il trimetro sofocleo ἀεὶ γὰρ εὖ πίπτουσιν οἱ ∆ιὸς κύβοι (TrGF 4, inc. fab. 895 R.) di ampia tradizione paremiografica e che si fonda sull’immagine degli dei che lanciano i dadi per decidere il destino umano (v. Tosi 1991, n. 850, p. 397, Liapis 2013 ad [Eur.] Rhes. 183 ψυχὴν προβάλλοντ’ ἐν κύβοισι δαίµονος; sul valore positivo del trimetro sofocleo, v. il comm. ad loc. di Radt in TrGF 4, p. 5746s.). Ogni riferimento specifico è, però, precluso (“wahrscheinlich steckt in rätselhaften Vers eine andere, uns nicht mehr greifbare Anspielung”, Luppe 1963, p. 11) e l’unico elemento di interpretazione che rimane più sicuro appare il riferimento ai due elementi del gioco, sedie e pedine.

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Sul testo dello scolio v. le ottime notazioni di Page 1938, p. 72 in particolare per νῦν = ‘in the present passage’. Al commento di Page rimando anche per l’ipotesi di N. Wecklein, Ausgewählte Tragödien des Euripides, I: Medea, Lipsia 19094, p. 41, che propone una dipendenza tra προσελθών e ἔνθα–θάσσουσι invece che tra προσελθών e πεσσούς e rifiuta perciò l’informazione dello scolio, ma la sintassi che ne deriva non risulta chiara (Page nota che sarebbe necessario intendere “θάσσουσι as if it stood for θάσσοντες παίζουσι”).

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Per quanto riguarda la collocazione, è generalmente accettato65 l’interpretamentum del lemma ∆ιὸς ψῆφος dato dai testimoni e, di conseguenza, che come il ∆ιὸς ψῆφος indicava il luogo della contesa tra Atena e Poseidone così in Cratino con questo richiamo sarebbe stato indicato il luogo in cui si svolgeva il confronto tra Omero e Archiloco (e i rispettivi sostenitori), parte del tema della commedia (cfr. Contenuto); in particolare secondo Whittaker 1935, p. 186 si tratta di un verso dell’ode dell’agone della commedia “which described the circumstances of the coming debate in grandiloquent language” e in cui l’utilizzo dell’esametro è dovuto al fatto che a pronunciarlo dovevano essere i sostenitori di Omero, che utilizzavano naturalmente questo verso, perché Omero apriva l’agone con l’epirrema (come accade sempre nel caso di chi perde l’agone), preceduto dall’ode (v. anche p. 166s.). Questa interpretazione resta valida anche se non si accetta la pertinenza del proverbio ∆ιὸς ψῆφος al frammento di Cratino (cfr. supra Contesto della citazione): il tono magniloquente sarebbe confacente all’ode dell’agone, mentre un’immagine del gioco dei dadi, simile al riferimento in Cratino ad elementi tipici di questo gioco, si trova in una parte dell’ode dell’agone di Ar. Nub. 9556s. νῦν γὰρ ἅπας 2 ἐνθάδε κίν-/δυνος ἀνεῖται σοφίας, su cui v. Taillardat 1965 , p. 487 § 870. Per analoghe immagini dei dadi all’inizio di un agone v. Sonnino 1997 ad Eupol. fr. 209 K.–A. e Sonnino 2010, pp. 258–263. ἔνθα  … καλοῦνται(Costruzione brachilogica in cui vengono uniti i concetti di esserci ed essere chiamato: “qui (ἔνθα) c’è x ed è chiamato così” diventa “qui x è chiamato”66. “Wenn in dem Nebensatze ein Substantiv mit einem Adjektivsatze, dessen Prädikat ein Verb des Nennens ist, stehen sollte, so werden häufig beide Sätze in Einen zusammengezogen”, Kühner–Gerth II.1, p. 438 con l’esempio (tra gli altri) di Λ 757 καὶ Ἀλεισίου ἔνθα κολώνη6/6κέκληται corrispondente logicamente a καὶ ἔνθα κολώνη ἐστίν, ἥ Ἀλεισίου κέκληται; cfr. Schulze 1892, p. 286 e n. 1: “ἔνθα καλεῖται = ubi situm est quod καλεῖται”. Numerosi i casi di questa costruzione: Pind. Nem. IX 41 ἔνθ’ Ἀρείας πόρον ἄνθρωποι καλέοισι, Soph. Trach. 636 ἔνθ’ Ἑλλάνων ἀγοραὶ Πυλάτιδες κλέονται (su cui Longo 1968, p. 2316s., Davies 1991, p. 170), OT 14516s. ἔνθα κλῄζεται οὑµὸς Κιθαιρὼν οὗτος67 e, in prosa, ad es. Xen. Hell. V 1.10 ἔνθα ἡ 65

66 67

Runkel 1827, p. 6, Meineke FCG II.1, p. 186s., Kock CAF I, p. 14, Edmonds I (1957), p. 246s., Gelzer 1960, p. 180, Quaglia 1998, p. 516s., Ornaghi 2004, p. 220, Bakola 2010, p. 736s. Così traduce Storey FOC I, p. 273 in Cratino: “where are what they call the seat and game board of Zeus”. Analogo è anche il caso di Eur. Hipp. 121 Ὠκεάνου τις ὕδωρ στάζουσα πέτρα λέγεται “i.e. πέτρα ἐστιν Ὠκεάνου ὕδωρ (ὡς λέγεται) στάζουσα”, ‘there is a rock

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Cratino

Τριπυργία καλεῖται, Oec. IV 6 αἱ πάντας ἅµα συνάγων πλὴν τοὺς ἐν ταῖς ἀκροπόλεσιν ἔνθα δὴ ὁ σύλλογος καλεῖται, Plat. Phaed. 107c ὑπὲρ τοῦ χρόνου τούτου µόνον ἐν ᾧ καλοῦµεν τὸ ζῆν (Burnet 1911, p. 107). Cfr. anche Unger 1939, pp. 305–307, Maas 1892, p. 1296s., Svennung 1952, in part. pp. 75–78 e Tabachovitz 1960. La struttura del verso può ricalcare passi omerici: in particolare per ἔνθα ad inizio verso v. ad es. Α 22, 376, Β 308, 314 etc.; καλοῦνται a fine verso può corrispondere all’omerico καλέονται 7x sempre a fine verso: Ε 342, Ξ 279, ν 104, 348, ο 433, ρ 423, τ 79. ∆ιὸς µεγάλου(Di derivazione epica e generalmente di registro elevato. Nei poemi omerici nelle forme ∆ιὸς µεγάλου (6x: Β 134, θ 82, ι 411, τ 179, χ 334, 379) e ∆ιὸς µεγάλοιο (8x: Ε 907, Ξ 417, Ρ 409, Φ 198, δ 27, λ 255, 268, π 403), sempre in posizione kGkkJ. Una sola occorrenza in kBkkF (forse da atetizzare, come già in antico, v. Heubeck in Odissea III, p. 307), come in Cratino; per questa stessa posizione v. ancora [Hes.] Scut. 371, fr. 25, 29 M.–W., Lamprocles PMG 735a, 2 Page e Bacch. fr. 5, 79 (da-ep). θᾶκοι(‘Seat, chair’ (LSJ s.6v.), già omerico (θώκος/θόωκος v. anche Tirt. 2 fr. 12,41 W. , Pind. Pyth. XI 6), in attico la forma è sempre θᾶκος < *θαϜακος68 (Schwyzer I, p. 371; cfr. Hsch. θ 3 θάβακον· θᾶκον. ἢ θρόνον), già nel vaso François (ABV p. 76), v. Meisterhans(-Schwyzer), p. 17, Threatte I (1980), p. 235, Björck 1950, pp. 349–352 (v. infra). Probabilmente un termine ‘alto’, confacente in Cratino alla connotazione epica di questo esametro (e all’utilizzo stesso dell’esametro); numerose le attestazioni in tragedia, v. ad es. Aesch. Ag. 519 (su cui v. Fraenkel 1950, II p. 2636s.), Soph. Ant. 999, Eur. Tro. 128 etc.; limitato l’utilizzo in prosa: Plat. Pol. 288e, Rp. 516e, Xen. Hier. VII 7, Symp. IV 31, Cyr. VIII 7, Rp. Lac. IX 5; in commedia solo tre passi di Aristofane: Nub. 993 καὶ τῶν θάκων τοῖς πρεσβυτέροις ὑπανίστασθαι προσιοῦσιν (parla il Discorso Migliore), Ran. 1515–1517 σὺ δὲ τὸν θᾶκον6/6τὸν ἐµὸν παράδος Σοφοκλεῖ τηρεῖν6/6καὶ διασῴζειν e 15226s. µηδέποτ’ εἰς τὸν θᾶκον τὸν ἐµὸν6/6µηδ’ ἄκων ἐγκαθεδεῖται (in entrambi i casi è Eschilo che parla del suo trono di migliore poeta). Come interpreta Björck 1950, p. 349 nei passi di prosa citati l’utilizzo di θᾶκος corrisponde ad una “Höflichkeitsform”, la stessa che risulta chiara dal passo di Ar. Nub. 993; negli altri due passi aristofanei il sostantivo contiene, invece, “eine gewisse Altertümlichkeit oder Feierlichkeit”. Lo stesso

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which drips with water which (they say) comes from the Okeanos’. This is the same idiom as whit καλεῖν and its synonyms” (Barrett 1964, p. 184). Caso particolare è l’occorrenza di θῶκον in Men. Dysc. 176, discusso sia per la forma che per il significato, v. Handley 1965, p. 162; Stoessl 1965, p. 65; Gomme–Sandbach 1973, p. 16.

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vale per i corrispondenti verbi θάσσω e θακέω: il primo ricorre solamente in Ar. Vesp. 1482 (“tragic word, and the whole line is probably a quotation from some unknown tragedy” MacDowell 1971, p. 322) e Thesm. 889 (“tragic and especially Euripidean vocabulary” Austin–Olson 2004, p. 286); il secondo è attestato, invece, in tragedia, v. ad es. Soph. Aj. 325, OT 20, Eur. Heracl. 239, ma, di nuovo, in commedia attica69 solo in Cratin. fr. 257,2 K.–A. (Cheirōnes), dove è possibile uno scarto stilistico tra il suo impiego e quello di sostantivi tipici della commedia quali sono σισύµβριον, ῥόδον e κρῖνον (“ironisch”, Björck 1950, p. 349). πεσσοί(Propriamente piccola pietra ovale o pedina propria di un gioco chiamato κυβεία o πεττεία, simile alla moderna dama o al backgammon (cfr. Hsch. π 2029 H. πεσσός· οὕτως ἐκάλουν τὰς ψῆφος αἷς ἐπαίζον, v. anche Sud. π 1384 Α. πεσσούς: κύβους. καὶ πεσσοί, ψῆφοι, παρὰ Ἡροδότῳ [I 94.4 s.], ἐν οἷς ἔπαιζον): le pedine erano mosse su un piano che presentava un tracciato geometrico; il giocatore aveva la possibilità di scegliere se compiere o meno una certa mossa e come testimonia Plat. Rp. 487b “i più inesperti «si lasciano chiudere» (ἀποκλείονται) e «non sanno che mossa fare» (οὐκ ἔχουσιν ὅ τι φέρωσιν)” (Vetta 1989, p. 253 ad Ar. Eccl. 987). Il gioco è noto già nei poemi omerici (α 107: è il passatempo dei Proci) ed è di origine orientale secondo Plat. Phaedr. 274d; v. in part. RE XIII.2 s.6v. Lusoria tabula in part. coll. 1966–1970 (Lamer) e la bibliografia cit. da Collard 1975, II p. 2196s. ad Eur. Suppl. 4096s. e Stockert 1992, II p. 2466s. ad Eur. Iph. Aul. 1956s., ai quali si aggiunge Kurke 1999, in part. pp. 254–274 (e la figura 9 a p. 274) e Vetta 1989 cit. fr. 8 K.–A. (8 K.) ἦ µὲν δὴ πίννῃσι καὶ ὀστρείοισιν ὁµοίη 1

2

ἦ A: ἡ CEƒƒƒδὴ πίννῃσι ƒƒƒMeineke: σηπίῃσι Athen. : πίννη(ι)σι(ν) Athen. ƒƒƒ 1 1 2 2 ὀστρέοισιν Athen. ƒƒƒὁµοίη Athen. , Athen. CE: ὁµοίῃ Athen. A

(Lei) certo a pinne e ostriche simile 1

Athen. III 86e τῶν δὲ πιννῶν µνηµονεύει Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις· ἦ µὲν — ὁµοίη E delle pinne fa menzione Cratino negli Archilochoi: lei certo — simile 69

Si segnalano tre occorrenze di θωκέω nella commedia dorica: θωκησῶ, Epich. fr. 97,7 K.–A. (Odysseus automolos); θωκεῖτε, Sophr. fr. 4a,6 (Tai gynaikes ai tan theon fanti exelan, e fr. 60 (mimi viriles incerti), cfr. Hordern 2004, p. 131.

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Cratino 2

Athen. III 92e ὄστρεια δὲ µόνως οὕτως ἔλεγον οἱ ἀρχαῖοι. Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις· πίννῃσι — ὁµοίη E gli antichi dicevano ostreia solamente con questa forma. Cratino negli Archilochoi: a pinne — simile

Metro(Esametro

ll ll lk|k ll lkk ll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 8 (fr. VIII), Meineke FCG II,1 (1839), p. 19 (V), Meineke ed. min. I (1847), p. 8, Bothe PCGF (1855), p. 8 (fr. 5), Kock CAF I (1880), p. 14, Edmonds I (1957), p. 24s., Luppe 1963, 116s., Luppe 1969, p. 205, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1266s., Ornaghi 2004, p. 222, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(Le due citazioni di Ateneo si inseriscono all’interno di un elenco di molluschi di cui vengono discussi nomi, varietà e proprietà, da 85c a 94e, introdotto dal ricordo che ad Ateneo e ai suoi convitati vennero serviti molti molluschi e ostriche (85c: ἐπεισενεχθέντων ἡµῖν πολλῶν ὀστρέων καὶ τῶν ἄλλων ὀστρακοδέρµων σχεδὸν κτλ.). 1) Athen. III 86e. In 86d si ricorda che Speusippo (fr. 8 Tarán = 125 Isnardi Parente) enumera κόγχους, κτένας, µῦς, πίννας, σωλῆνας, καὶ ἐν ἄλλῳ µέρει ὄστρεα, λεπάδας (vongole, pettini, mitili, pinne, soleni e in un’altra parte [scil. dell’opera] ostriche e patelle) e sono citati Ararot. fr. 8, 1–3 K.–A. (Kampyliōn) dove sono menzionati κόγχαι τε καὶ σωλῆνες αἵ τε καµπύλαι6/6καρῖδες (v. 26s.) e Sophron. fr. 23 K.–A. dove sono citati κόγχοι e σωλῆνες (v.1); la citazione di Cratino esemplifica l’utilizzo di πίννη, mentre la seguente attribuita a Filillio (fr. 12 K.–A.) o Eunico (PCG V, p. 279 K.–A.) o Aristofane nelle Poleis (PCG III.2, test. 1 r. 61, p. 4 K.–A.) menziona la pinna accanto ad altri tipi numerosi tipi di molluschi. 2) Athen. III 92e. In 92d vengono citati tre elenchi di ὄστρεα (questa la forma utilizzata da Ateneo): Nicandro fr. 83 Schneider, Archestr. SH 187 = fr. 7 Olson–Sens e il v. 2 del frammento delle Poleis di Filillio o altri già citato in III 86e (v. supra); in Nicandro (v. 1) è utilizzato ὄστρεα, in Archestrato (v. 1) ὄστρεια (nella terza citazione il sostantivo non ricorre); l’alternanza delle due forme è, verisimilmente, il motivo per cui viene citato Cratino, il cui verso (privo della parte iniziale ἦ µὲν δή cit. a III 86e) serve per esemplificare una caratteristica linguistica, ossia che la forma utilizzata dagli antichi era ὄστρεια; per questa viene citato ancora Epich. fr. 40,3 K.–A. (Hēbas gamos) ὄστρεια συµµεµυκότα, ma subito dopo Ateneo nota che Platone usa due volte la forma ὄστρεον, come ὄρνεον, in Phaedr. 250c ὀστρέου τρόπον δεδυσµένοι e Timae. 92b τὸ τῶν ὀστρέων γένος συµπάντων, ma in Rp. 611d la forma impiegata è

Ἀρχίλοχοι (fr. 8)

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ὄστρεια: συµπεφυκέναι ὄστρειά τε καὶ φυκία (ma la cit. di Ateneo differisce dai manoscritti di Platone, che riportano προσπεφυκέναι ὄστρεα τε καὶ φυκία [v. Platonis Rempublicam, recogn. S.R. Slings, Oxonii 2003 ad loc.; cfr. Olson Athenaeus I, p. 505 n. 86], un testo che annulla l’alternanza delle forme che Ateneo attesta. Cfr. comm. a ὀστρείοισιν). Testo(In Athen. III 86e CE riportano ἡ µὲν δή, accettato dai primi editori di Ateneo (Dindorf, Kaibel [ἣ µὲν δή], Gulick) e dei frammenti comici (Runkel 1827, p. 8, Meineke FCG II.1, p. 19, Bothe PCFG, p. 8, Kock CAF I, p. 14); ma ἦ µὲν δή è testimoniato da A e può essere confermato dall’usus omerico (v. ad loc.) al quale il frammento pare conformarsi (ὁµοίη in fine verso, forse il dat. πίννῃσι), dato questo addotto per primo da Luppe 1969, p. 205 e poi accettato sia da Kassel e Austin PCG IV, p. 127, sia da Olson Athenaeus I, p. 476. A Meineke (FCG II.1, p. 19) si deve δὴ πίννῃσι già presente nei codici in Athen. III 92e, ma nella forma πίννη(ι)σι(ν) dove il ν finale è impossibile metri causa (σηπίῃσι [seppie] di Athen. III 86e contraddice il motivo per cui il frammento è citato); a fine verso il nominativo ὁµοίη è lezione della maggioranza dei codici (ὁµοίῃ dativo solo in Athen. III 92e cod. A) e rimanda ad un possibile usus omerico (v. ad loc.). Interpretazione(L’accostamento di pinne e ostriche trova riscontro nella somiglianza tra questi due molluschi (v. a πίννῃσι), ma non vi sono loro caratteristiche specifiche che possano fornire elementi per comprendere il paragone; secondo Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 127: “comparatur in gripho mulier aliqua cum pinna, quae praedam exspectat a socia squilla adiuta” sulla base della descrizione di Chrysipp. SVF II fr. 729a Arnim: ἡ πίννη, φησίν, καὶ ὁ πιννοτήρης συνεργὰ ἀλλήλοις, κατ’ ἰδίαν οὐ δυνάµενα συµµένειν. […] καὶ ἡ πίννη διαστήσασα τὸ ὄστρακον ἡσυχάζει τηροῦσα τὰ ἐπεισιόντα ἰχθύδια, ὁ δὲ πιννοτήρης παρεστὼς ὅταν εἰσέλθῃ τι δάκνει αὐτὴν ὥσπερ σηµαίνων, ἣ δὲ δηχθεῖσα συµµύει; e schol. Ar. Vesp. 1510b πῖνα ὄστρεον(όν) ἐστιν. τοῦτο ὑποδέχεται καρκίνος· καὶ ὅταν εἰσέλθῃ µικρὸν ἰχθύδιον, δάκνει τὴν πῖναν· ἡ δὲ συστέλλει τὸ ὄστρακον καὶ ἐναποκλείει τὸ ἰχθύδιον. Ignoto è anche il destinatario, femminile, del paragone; una comparazione simile, ma oscura, è quella del fr. 5 K.–A. dove, però, non vi è necessità di intendere il referente come un femminile (v. p. 60). Pinne e ostriche erano considerate prelibatezze in elenchi di cibi (v. infra ad locc.) e si potrebbe pensare che il destinatario femminile sia paragonato ad esse per questo motivo. Sulla base degli elementi omerici presenti nel verso (ἦ µὲν δή incipitario, ὁµοίη in fine di verso, probabilmente la desinenza del dativo plurale in πίννῃσι) e della possibile presenza di Omero come persona scenica (v. fr. 2 e Contenuto) secondo Luppe 1969, p. 205 “könnte ihm (sc. Homer) dieser Hexameter in den Mund gelegt sein”, ipotesi plausibile, ma non dimostrabile.

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Cratino

ἦ µὲν δή(“In strong asseverations. (Almost confined to speeches. Very 2 occasionaly in narrative)”, Denniston 1954 , p. 389; si tratta di un uso prevalentemente omerico: Α 453, Γ 430, Η 97, Ι 438, Π 362, δ 33, ξ 216, σ 267 (7 occorrenze all’interno del discorso di un personaggio, 1 [Π 362] in una parte della narrazione, cfr. anche Mutzbauer 1886, pp. 12–16). Non ricorre mai in tragedia, né in commedia, salvo questo verso di Cratino dove si può interpretare probabilmente come un omerismo, ma non è escluso che sia un tratto di prosa, v. ad es. in prosa ionica Hdt. I 93.15, 208.4, II 96.18 e in quella attica Thuc. IV 119.3 Xen. Hell. III 1.1, IV 3.16, Plat. Rp. 461e 5, 551b 7. πίννῃσι(In lat. pinna o perna, it. pinna, mollusco appartenente alla specie dei bivalvi o lallemibranchi, simile all’ostrica, v. ad es. Theophr. lapid. 36 ἐν ὀστρείῳ τινὶ παραπλησίῳ ταῖς πίνναις, Chrysipp. SVF II fr. 729a Arnim ἡ µὲν οὖν πίννη ὄστρεόν ἐστιν, ὁ δὲ πιννοτήρης καρκίνος µικρός, Hsch. π 2304 πῖνα· εἶδος ἰχθύος. καὶ ὀστ〈ρ〉εῶδες κογχύλιον, π 2318 πινοτήρης· πινοφύλαξ λεγόµενος. πῖνα δὲ εἶδος ὀστρέου, Phot. π 886 πίννα· εἶδος ὀστρέου. Le sue caratteristiche precipue sono: 1) la secrezione di bisso, un filamento con cui le pinne sono ancorate al fondale marino e ne emergono verticalmente, v. ad es. Aristot. HA V 547b, 15s., fr. 184 Gigon e dalla cui tessitura si ottiene una stoffa simile alla seta; 2) la simbiosi con con alcuni crostacei, Chrysipp. SVF II fr. 729a Arnim (cfr. Interpretazione); 3) la produzione di perle in alcune specie, v. Isid. Car. FGrHist 781f 1, a 93e-94a. Sono note in Grecia due varietà di questo mollusco: la pinna nobilis di circa 60 cm e la pinna rudis, più piccola e più scura, v. Thompson 1947, pp. 200–202 e Dalby 2003, p. 261. In commedia è spesso menzionata all’interno di elenchi di pesci e considerata una prelibatezza: Alex. fr. 281,1 K.–A., Anaxand. fr. 41,61 K.–A., Antiph. fr. 192,15 K.–A., Phlyll. fr. 12,2 K.–A., Posidipp. fr. 15,3 K.–A. (una menzione è forse anche in Alex. fr. 81,1 K.–A. se per il tràdito σπιναι deve leggersi πίνναι o πῖναι, v. Kassel–Austin PCG II, p. 646s. e Arnott 1996, p. 226); in Alex. fr. 281,1 K.–A. (inc. fab.) la pinna è menzionata come afrodisiaco (Athen. II 63e, testimone del frammento, introduce la citazione con le parole Ἄλεξις ἐµφανίζων τὴν τῶν βολβῶν πρὸς τὰ ἀφροδίσια δύναµίν φησι), cfr. Arnott 1996, p. 775 il quale rileva che tale caratteristica non è però altrimenti nota, sebbene si possa richiamare il fatto che molti molluschi funzionino da afrodisiaco, come testimonia Mnesiteo fr. 38 Bertier: τὸ δὲ τῶν µαλακίων γένος […] πρὸς ἀφροδισιαµοὺς ἀρµόττουσιν (per questa caratteristica dei molluschi, v. anche Dohm 1964, p. 157). Inoltre sognare una pinna era di buon presagio per il matrimonio secondo Artemid. II 14: πῖνα δὲ καὶ ὁ λεγόµενος πινοφύλαξ καρκίνος [καὶ] πρὸς γάµον καὶ κοινωνίαν εἰσὶν ἀγαθοὶ διὰ τὴν πρὸς ἀλλήλους κοινωνίαν καὶ εὔνοιαν. Per la sua somiglianza all’ostrica v. Interpretazione].

Ἀρχίλοχοι (fr. 8)

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La grafia πινν- ricorre comunemente nei manoscritti, πιν-, invece, è la sola registrata in papiri e iscrizioni (LSJ s.6v., Arnott 1966, p. 226 ad Alex. fr. 84,1 K.–A.); la prosodia πῑν(ν) non permette di scegliere in Cratino l’una o l’altra forma. La desinenza di dativo plurale in -ῃσι è rara nel V sec. a.6C. (Thumb–Scherer 1959, p. 293, Willi 2003, p. 2416s.) e di uso prevalentemente tragico (ad es. Eur. Med. 479 ζεύγλῃσι, Suppl. 498 πύλῃσιν); in Cratino ricorre ancora nel fr. 105,5 (Malthakoi) οἰνάνθῃσιν, cfr. inoltre in commedia Ar. Ran. 1212 πεύκῃσι su cui Dover 1993, p. 340. Non è escluso che in questo frammento si tratti di un omerismo (Luppe 1963, p. 12). ὀστρείοσιν(Genericamente un mollusco bivalve (Diph. fr. 42, 26s. K.–A. ὀστρέων γένη6/6παντοδαπά, cfr. Aristot. HA 531b 5, 590a 32) o più specificamente l’ostrica (ostrea edulis, L.); in questo secondo senso è menzionata in elenchi di cibi e pietanze, talora come cibo di apertura, in quanto prelibatezza, ad es. in Epich. fr. 40,3 K.–A. o Anaxandr. fr. 42,61 K.–A., cfr. un elenco delle occorrenze in Olson–Sens 1999, p. 87 ad Matr. fr. 1, 16 e Olson–Sens 2000, p. 40 ad Archestr. fr. 7,1. In generale su questo mollusco v. Keller II p. 562–568, Thompson 1947, pp. 190–192, Andrews 1948, Davidson 1981, p. 197, Dalby 2003, pp. 245–247. Secondo quanto testimonia Ateneo in III 92e la forma utilizzata dagli antichi è ὄστρεια non ὄστρεα, per cui vengono citati il verso di Cratino e Epich. fr. 40,3 K.–A. ὄστρεια συµµεµυκότα; si possono aggiungere anche Anaxandr. fr. 42,61 K.–A. πίνναι, λεπάδες, µύες, ὄστρεια (dimetri anapestici) e Alex. fr. 115,1 K.–A. (Krateia ē Pharmakopōlēs) πρῶτον µὲν οὖν ὄστρεια παρὰ Νηρεῖ τινα, tutti esempi che confermano la forma metri causa (probabilmente anche Aesch. TrGF 3 F 32 R. κόγχοι, µύες κὤστρεια, forse un trimetro giambico integrabile in: κόγχοι, µύες κὤστρεια 〈l xlkl〉 ovvero 〈xlkl〉 κόγχοι, µύες κὤστρεια 〈l〉). Secondo Phot. ο 574 ὄστρεια· σὺν τῷ ι µᾶλλον, mentre secondo Moer. ο 32 Hansen, ὄστρια διὰ τοῦ ι µακροῦ Ἀττικοί· ὄστρεα Ἕλληνες (per altre fonti analoghe v. l’apparato di Theodoridis 2013, p. 114 ad Phot. ο 574), ma la forma ὄστρια con ῑ non è attestata nella tradizione manoscritta di alcuno degli autori attici, cfr. Arnott 1996, p. 316 e può essere attribuita a Moeris stesso o alla sua fonte. Athen. III 92e rileva un’oscillazione ὄστρειον/ὄστρεον in Platone, ma in Rp. 611d i manoscritti danno ὄστρεα e non confermano, quindi, l’alternanza proposta da Ateneo (cfr. Contesto della citazione); un’alternanza è presente, invece, in Aristot. HA 490b 10 ὃ καλεῖται ὄστρεον; ibid. 525a 20 ἔτι δ’ ἄλλοι δύο ἐν ὀστρείοις. La forma ὄστρεον è documentata nell’epica di IV secolo (ad es. Matr. fr. 1,16 Olson–Sens) e in papiri, v. LSJ s.6v.; per la desinenza di dativo in –οισι, v. Thumb–Scherer 1959, p. 293: l’alternanza di -οισι/-οις è normale fino alla metà del V sec. a.6C., poi più rara.

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Cratino

ὁµοίη(Alla fine di un esametro è di probabile derivazione omerica, cfr. Luppe 1969a, p. 205 che richiama i casi analoghi al femminile di ζ 16 ἀθανάτῃσι φυὴν καὶ εἶδος ὁµοίη, Hom. h. V (Ven.) 82 παρθένῳ ἀδµήτῃ µέγεθος καὶ εἶδος ὁµοίη, Hom. h. II (Cer.) 178 κροκηΐῳ ἀνθει ὁµοῖαι, ζ 231 = ψ 158 ὑακινθίνῳ ἄνθει ὁµοίας; si possono aggiungere Ε 778 αἳ δὲ βάτην τρήρωσι πελειάσιν ἴθµαθ’ ὁµοῖαι, Ρ 51 αἵµατί οἱ δεύοντο κόµαι Χαρίτεσσιν ὁµοῖαι. Nei passi omerici citati ὁµοι- non ricorre mai con due dativi, come in Cratino (πίννῃσι καὶ ὀστρείοσιν), ma si può confrontare Ν 39 Τρῶες δὲ φλογὶ ἶσοι ἀολλέες ἠὲ θυέλλῃ. Da notare l’occorrenza del femminile in fine verso di Ar. Nub. 346 ἤδη ποτ’ ἀναβλέψας εἶδες νεφέλην κενταύρῳ ὁµοίαν (tetrametro anapestico).

fr. 9 K.–A. (2 Dem.)

〈lkk〉 εἶτ᾽ ἀµφιετηριζοµέναις ὥραις τε καὶ χρόνῳ µακρῷ Poi (nelle feste) che ricorrono annualmente e nelle stagioni e per lungo tempo Phot. (b, z) α 1325= Et. Sym. apud Reitzenstein 1897, p. 267,25 ἀµφιετηρίς· ἡ κατ᾽ ἔτος γινοµένη ἐορτή τε καὶ θυσία. Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις· εἶτ᾽ — µακρῷ amphietēris: la festa e il sacrificio che si svolge ogni anno. Cratino negli Archilochoi: poi — per lungo tempo

Metro(Trimetro coriambico + dimetro giambico

〈lkk〉l lkkl lkkl llkl klkl

Bibliografia(Reitzenstein 1907, p. xvi6s., Wilamowitz 1907, p. 86s., Koerte 1911, p. 258, Demiańczuk 1912, p. 31, Edmonds FAC I (1957), p. 266s., Luppe 1963, p. 146s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 127, Quaglia 1998, p. 626s., Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(L’intera pericope Κρατῖνος — µακρῷ (quindi il frammento di Cratino e l’indicazione del suo autore e della commedia di provenienza) è conservata nel solo cod. b di Fozio; la glossa di Fozio e quella analoga dell’Etymologicum Symeonis possono risalire ad Ael. Dion. α 106, v. Erbse 1950, p. 104. Il lemma è ἀµφιετηρίς, ma nella citazione di Cratino ricorre il verbo al

Ἀρχίλοχοι (fr. 9)

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participio ἀµφιετηριζοµέναις, al quale si deve necessariamente sottintendere un sostantivo; manca quindi qui una corrispondenza precisa tra lemma e locus classicus esemplificativo, fatto di cui si ignora la spiegazione. Il lemma e la prima parte della glossa tornano, simili, in Sud. α 1727 ἀµφιετηρίς· ἑορτὴ κατ᾽ ἔτος γινοµένη, attribuibile a Diogeniano secondo Adler 1928, p. 152. Una glossa analoga è Phot. α 1328 ἀµφιετιζοµένας· τὰς κατ᾽ ἔτος περιερχοµένας ~ Hsch. α 4016 ἀµφιετιζοµένας· τὰς κατ᾽ ἐνιαυτόν περιερχοµένας, ma non c’è motivo di pensare che ἀµφιετιζοµένας fosse la forma di Cratino, cfr. Testo70. Testo(Il testo tràdito si può conservare se si intende ἀµφιετηριζοµέναις con valore temporale, un uso normale nei casi in cui ad essere indicate siano date o feste, v. Humbert 1950, p. 292 § 493 (“ainsi une date en chiffres, une fête qui revient réguliérement portent en elles-mêmes leur détermination”) dipendente da un precedente sostantivo femminile al quale il participio era collegato e distinto dai due dativi successivi, analogamente con valore temporale, che ne specificano la ricorrenza. Da un punto di vista sintattico, infatti, non ci sono esempi in cui τε antecedente a καί unisca una sequenza participio–sostanti2 vo–τε (Denniston 1954 , pp. 500–503 e 516); sembra da escludere, quindi, che ἀµφιετηριζοµέναις possa riferirsi ad ὥραις. Non appare necessario modificare il testo tràdito in ἀµφιετηριζοµένας, come proposto da Austin apud PCG IV, p. 127 (simile ἀµιφιετιζοµένας di Edmonds FAC I, p. 26, ma per questa forma v. infra), analogamente dipendente da un sostantivo precedente. Reitzenstein 1907, p. xvi6s. (su indicazione di E. Schwartz) correggeva il tràdito ἀµφιετηριζοµέναις in ἀµφιετιζοµέναις sulla base della glossa di Phot. α 1328 ἀµφιετιζόµενας· τὰς κατ᾽ ἔτος περιερχόµενας (~ Hsch. α 4016, v. supra), ma solamente metri causa per ottenere un asinarteto del tipo hem+2ia, lo 2 stesso di Arch. fr. 196 W. e, probabilmente, Cratin. fr. 10 K.–A. (v. p. 906s.); in maniera simile Edmonds FAC I, p. 26 (ἀµφιετιζοµένας), che permetterebbe l’interpretazione metrica come asinarteto e in cui la forma in accusativo si dovrebbe alla presenza dell’enclitico τε (v.  supra). Le due glosse possono però essere considerate indipendentemente e la modificazione del testo di Cratino farebbe venir meno il motivo della citazione in Fozio, v. Contesto della citazione e Wilamowitz 1907, p. 8: “Schwartz durfte […] nicht dadurch ein Fundament geben, dass er ἀµφιετηρίζειν, das Wort, für das Kratinos zitiert 70

Se, d’altra parte, si accettasse in Cratino ἀµφιετιζοµένας, nella glossa di Phot. α 1325 il verso del comico non sarebbe in alcun modo relativo al lemma di cui si propone la spiegazione, il participio ἀµφιετηριζοµένας in Cratino per il lemma ἀµφιετηρίς, a meno di non pensare ad un alterazione del testo di Phot. α 1325 dovuta alla trasmissione: ἀµφιετηρίς (lemma) e ἀµφιετηριζοµέναις (Cratino), il che, però, non appare facilmente spiegabile.

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Cratino

wird, aus dem Verse vertrieb”; d’altra parte il fatto che siano testimoniati due aggettivi, ἀµφιέτηρος e ἀµφιετής (v. comm. a ἀµφιετηριζοµέναις) di identico significato, sembra garantire che, in maniera analoga, potessero esistere anche due verbi, simili per forma, ma identici per significato. Per l’interpretazione metrica, lo stesso Wilamowitz (1907, p. 8) proponeva un’integrazione iniziale 〈lkk〉71: si può, infatti, così leggere una sequenza di tre coriambi e due giambi la cui testimonianza più antica è in Anacr. PMG 388/43 e in commedia è nota ad es. da Ar. Ach. 1150 Ἀντίµαχον τὸν Ψακάδος, † τὸν ξυγγραφῆ, τὸν µελέων ποητήν †, v. Olson 2003, p. 347 (con bibliografia). Interpretazione(Il riferimento è ad alcune feste che si celebrano annualmente (ἀµφιετηριζοµέναις) e di cui è sottolineato il probabile svolgimento stagionale (ὥραις, v. infra ad loc.) e la lunghezza (χρόνῳ µακρῷ). Secondo Luppe 1963, p. 15 è qui implicato un richiamo alla rappresentazione delle commedie e le feste chiamate in causa sono le Dionisie perché ἀµφιέτηρος o ἀµφιετής è epiteto specifico di Dioniso (v. comm. a ἀµφιετηριζοµέναις): “ist vielleicht von einer Aufführung des Dichters nach langjähriger Unterbrechung die Rede. Dann gehören die Verse sicherlich zur Parabase”. Analogamente si potrebbe pensare che il riferimento sia, invece, alla rappresentazione di una commedia di un avversario di Cratino e, quindi, con intento polemico. Il metro lirico ne garantisce la provenienza da una sezione cantata (indipendentemente dalla collocazione precisa; ode o antode, se si accetta la collocazione parabatica). ἀµφιετηριζοµέναις(Il verbo è un hapax; i testimoni del frammento lo citano sotto il lemma ἀµφιετηρίς (che ricorre solo in SIG 1109.69 [Atene, II d.6C.]), spiegato con ἡ κατ᾽ ἔτος γινοµένη ἑορτή τε καὶ θυσία, quindi il verbo vale “che ricorre ogni anno”, cfr. LSJ s.6v. ἀµφιετίζοµαι ‘return yearly’. Rientra nella categoria di verbi con suffisso –ίζειν che indicano il celebrare o compiere una festa come πανηγυρίζειν (πανηγυρίς) o παννυχίζειν (παννυχίς), v. Debrunner 1917, p. 1356s. § 269; l’elemento del composto –ετηρ- si può confrontare con ἐτήρ ‘di un anno’ in Soph. fr. 751 R. e con ἀµφιέτηρος ‘celebrato in feste annuali’ in hymn. orph. 52,10 οὐρεσιφοῖτα, κερώς, νεβριδοστόλε, ἀµφιέτηρε. Analogo è ἀµφιετής in Callim. hymn. IV 278 ἀλλά τοι ἀµφιετεῖς δεκατηφόροι αἰὲν ἀπαρχαί6/6πέµπονται e hymn. orph. 53,1 ἀµφιετῆ καλέω Βάκχον e il verbo ἀµφιετίζω in Phot. α 1328 ~ Hsch. α 4016 (v. Contesto della citazione). V. ancora Sud. α 1726 A. ἀµφιέτει· ἐν αὐτῷ τῷ ἔτει e EM p. 90,25 ἀµφιετεῖν· θύειν κατ᾽ ἕκαστον ἔτος, ἢ δι᾽ ὅλου τοῦ ἔτους, ἢ κατ᾽ ἔτος. 71

Questa ipotesi di Wilamowitz risulta univocamente seguita: Koerte 1911, p. 258, Demiańczuk 1912, p. 31, Luppe 1963, p. 14, Kassel–Austin PCG IV, p. 127, Quaglia 1998, p. 626s., Ornaghi 2004, p. 223.

Ἀρχίλοχοι (fr. 10)

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ὥραις τε καὶ χρόνῳ µακρῷ(Ὥρα è impiegato nel senso di stagione, non ulteriormente specificato e, quindi, ugualmente per tutti i diversi periodi dell’anno (LSJ s.6v. 1); meno probabile che valga ‘anno’ (LSJ s.6v. 3) un significato altrettanto possibile, ma che appare ridondante rispetto ad ἀµφιετηρίζοµαι (che ricorre di anno in anno). Da escludere per motivi sintattici un legame ἀµφιετηριζοµέναις6/6ὥραις (v. Testo) e, di conseguenza, i paralleli proposti, περιτελλοµέναις ὥραις ‘con il volgere delle stagioni’ presente in Soph. OT 156 e Ar. Av. 696 di Reitzenstein 1907, p. xvii e Pind. Isthm. III 18 αἰὼν δὲ κυλινδοµέναις ἁµέραις ἄλλ᾽ ἄλλοτε ἐξάλλαξεν (proposto da Luppe 1963, p. 15 e Dunbar 1995, p. 443 ad Ar. Av. 696). L’espressione χρόνῳ µακρῷ come indicazione temporale in questa forma (dativo e senza preposizione) è di uso esclusivamente tragico (“χρόνῳ µακρῷ entspricht dem gehobenen Stil”, Luppe 1963, p. 15): oltre a Soph. El. 42 γήρᾳ τε καὶ χρόνῳ µακρῷ confrontata da Kassel e Austin PCG IV, p. 127 per l’analogia della costruzione sintattica, v. ancora Soph. Trach. 599, OT. 963, El. 1273, Phil. 306 e 360, Eur. Hipp. 1322.

fr. 10 K.–A. (9 K.) ὠµολίνοις κόµη βρύουσ᾽ ἀτιµίας πλέῳς πλέῳς Meineke: πλέως Ath.

La chioma che rigurgita panni di lino grezzo pieni di disonore Athen. IX 410d ὠµολίνου δὲ µέµνηται Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις· ὠµολίνοις — πλέως E del lino grezzo (ōmolinon) fa menzione Cratino negli Archilochoi: la chioma — disonore [Hdn.] Philet. 79 τὸ ὠµόλινον ἐν τοῖς Ἀρχιλόχοις Κρατίνου. οὕτως χρὴ λέγειν To ōmolinon negli Archilochoi di Cratino. Bisogna dire così Poll. X 64 καὶ ὠµόλινον, οὐ Κρατίνου µόνον εἰπόντος τὸ ὠµόλινον, ἀλλὰ καὶ Αἰσχύλου (TrGF III, fr. 205 R.) E ōmolinon, e non solo Cratino ha detto to ōmolinon (panno di lino grezzo), ma anche Eschilo

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Cratino

Metro(lkklklklklklkl Bibliografia(Runkel 1827, p. 8 (fr. XI), Bergk 1838, p. 27, Meineke FCG II.1 (1839), p. 206s. (fr. VIII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 9, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 8), Kock CAF I (1880), p. 14, Rutherford 1897, p. 16, van Herwerden 1903, p. 2 Reitzenstein 1907, p. xvii, Edmonds FAC I (1957), p. 266s., Marzullo 1959, p. 1346s., Luppe 1963, p. 126s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1276s., Quaglia 1998, p. 606s., Bakola 2010, p. 176, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(All’interno di una sezione dedicata alla pratica del lavarsi le mani e al lessico ad essa connesso (da 408b-c), in 410b Ateneo attesta: χειρόµακτρον δὲ καλεῖται ᾧ τὰς χεῖρας ἀπεµάττοντο ὠµολίνῳ. ὅπερ ἐν τοῖς προκειµένοις (IX 409e) Φιλόξενος ὁ Κυθήριος (PMG 836b, 42) ὠνόµασεν ἔκτριµµα (si chiama cheiromaktron [asciugamano] il tessuto di lino grezzo con il quale si asciugano le mani. Ciò che nel passo citato in precedenza Filosseno di Citera ha chiamato ektrimma); segue un’esemplificazione di χειρόµακτρον: Ar. fr. 516 K.–A., Soph. fr. 473 R., Hdt. II 122.1 (citato più avanti a IX 410e), Xen. Cyr. I 3.5. Dopo quest’ultima citazione segue una breve discussione sulla differenza tra κατὰ χειρός e νίψασθαι, dopo la quale Ateneo si ricollega all’inizio del suo ragionamento in cui aveva detto che il cheiromaktron era un tessuto di lino grezzo (ōmolinon) e cita come attestazione di ōmolinon il frammento di Cratino. Di seguito si torna all’esemplificazione di χειρόµακτρον, con le citazioni di Sapph. fr. 101 V. e Hecat. FGrHist I F 358, in cui Ateneo attesta che χειρόµακτρον va inteso non come asciugamano, ma come un ornamento del capo (qui ricorre anche la cit. di Hdt. II 122.1)72.

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Ateneo menziona la prima volta il passo di Erodoto all’interno dell’esemplificazione χειρόµακτρον = asciugamano e, quindi, questo è il valore che il sostantivo dovrebbe avere nello storico; ma la citazione effettiva del passo ricorre dopo la notizia che il χειρόµακτρον era un ornamento per la testa. Nel passo di Erodoto si parla di un χειρόµακτρον d’oro che Demetra (= Iside) avrebbe dato in dono al faraone d’Egitto Rampsinito, quando questi tornò dall’Ade dove aveva giocato a dadi con la dea; la menzione del passo di Erodoto in due contesti differenti, lascia alcuni dubbi sul senso di χειρόµακτρον nello storico, ma si tende ad attribuirgli il significato di ornamento per la testa, in possibile riferimento al copricapo dorato a strisce azzurre che i faraoni egiziani indossavano, v. Erodoto. Le Storie, vol. II: l’Egitto, intr., testo e comm. a cura di Alan B. Lloyd, Milano 19932, p. 342 e Alan B. Lloyd, Herodotus. Book II, vol. III: Commentary 99–182, Leiden–New York 1988, p. 57.

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Il Philetaerus dello pseudo-Erodiano (con la specificazione della commedia) e Polluce73 (che rimanda a Cratino senza specificazione e cita, invece, per lo stesso motivo, Eschilo, cfr. a ὠµόλινον) attestano che Cratino utilizzava una forma τὸ ὠµόλινον, un’informazione che pare riferirisi ad un corretto uso del sostantivo al neutro (τὸ ὠµόλινον … οὕτως χρὴ λέγειν), in polemica con un suo presunto utilizzo in un genere diverso, di cui non si ha però alcuna testimonianza74; è molto probabile che queste due testimonianze si riferiscano precisamente al verso di Cratino citato da Ateneo, ma non si può del tutto escludere che rimandino invece ad una menzione di ὠµόλινον in un altro luogo degli stessi Archilochoi (Philetaerus) o di un’altra commedia (Polluce, la cui citazione è anepigrafa). Testo(Per πλέως con un soggetto femminile (κόµη) nonostante i confronti di Bergk 1838, p. 27 con ἵλεως e composti quali ἀνάπλεως a due uscite (per i quali, tuttavia, lo stesso Bergk notava la ricorrenza di ἀναπλέα in Plat. Phaed. 83c), πλέως è sempre a tre uscite v. ad es. in tragedia, Soph. El. 607 ἀναιδείας πλέαν, Eur. Med. 263 γυνὴ γὰρ τἄλλα µὲν φόβου πλέα, 903 etc., in commedia: Ar. Ach. 545 ἡ πόλις πλέα , Eq. 305 πᾶσα µὲν γῆ πλέα, Eupol. fr. 247,1 K.–A. (Poleis) ἥδε Κύζικος πλέα στατήρων. Di conseguenza l’ipotesi più semplice è quella di Meineke FCG II.1, p. 21 che corregge πλέως in πλέῳς da connettere con ὠµολίνοις “linteis squalore obsitis”; in alternativa sono stati proposti: 1) πλέῳ maschile plurale, Marzullo 1959, p. 1346s., secondo cui il tràdito πλέως può derivare da una geminazione del σ causata dalla parola subito successiva nel testimone Ateneo, Σαπφῶ; e, inoltre, nella sezione precedente si può leggere κόµην βρύουσ᾽(ι) cfr. Eubul. fr. 56,6 K.–A. (Kybeutai) κισσῷ κάρα βρύουσαν e Bacch. VI 9 Sn.–Maeh. στεφάνοις ἐθείρας νεανίαι βρύοντες. Per l’elisione βρύουσ᾽(ι) cfr. Cratin. fr. 175,1 (Ploutoi) ὡς λεγούσ᾽, ἐκεῖ, Ar. Nub. 334 βόσκουσ᾽ ἀργούς. In questo caso si può tradurre ‘(loro) pieni di disonore,

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La citazione di Polluce è in un contesto in cui si parla degli strumenti della palestra (τῶν δὲ γυµνασίοις προσηκόντων σκευῶν) e, quindi, il significato potrebbe essere quello di χειρόµακτρον di cui parla Ateneo e presente in Plut. garr. 509a, v. a ὠµόλινον. Ma, nonostante i dubbi, non è quasi certamente questo il senso che si intende nel passo di Eschilo che Polluce cita né nel verso di Cratino, dove il valore appare quello di ‘lino grezzo o tessuto di lino grezzo’, v. ancora a ὠµόλινον. Un’analoga informazione relativa al genere del sostantivo sembra quella di Eust. in Il. p. 624, 60 (II p. 244 van der Valk; comm. a Ζ 55 πέπον): τὸ τε πέπον καὶ τὸ ὠµόν, δίχα γε τοῦ ὠµολίνου οὗ µνησθείς τις τῶν παλαιῶν φησιν, ὅτι οὐκ οἶδα εἴ τις τοῦτο εἴρηκε τῶν ἀκριβῶν, il cui senso non è del tutto chiaro, cfr. van der Valk cit.

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Cratino

rigurgitano nella chioma di lino grezzo’, ma, nonostante i confronti citati per la costruzione, non appare facile giustificare la correzione di κόµη in κόµην. 2) πλέα secondo Austin apud PCG IV, p. 127 per il confronto con Soph. El. 607 ἀναιδείας πλέαν; questa ipotesi offre un ottimo parallelo per il nesso in fine verso, ma non una possibile spiegazione per la corruzione di un’originario femminile πλέα. Metrica(Il testo tràdito presenta una sequenza non chiara; non si può escludere che nell’originario contesto di appartenza, probabilmente lirico, la sequenza di questo verso apparisse ritmicamente motivata, ma prevale l’ipotesi di correggere il testo in un punto e ottenere così una sequenza metrica nota. L’ipotesi più semplice è quella di Meineke FCG II.1, p. 21 (approvata da Marzullo 1959, p. 155 e Luppe 1963, p. 12) di inserire una sillaba breve dopo ὠµολίνοις; in questo senso, la soluzione più economica è la restituzione di un dativo lungo ὠµολίνοισ〈ι〉, con il quale si ottiene un asinarteto hem. + 2ia, analogo ad Arch. 2 fr. 196 W. . Per la banalizzazione di –οισι nella sua forma consueta in attico (-οις), nello stesso Cratino cfr. frr. 32 (τούτοις per τούτοισιν) 116,1 (σίτιος per σίτιοισιν), 209 (λύχνοις per λύχνοισιν), 326 (λόγοις per λόγοισιν), 350 K.–A. (λαχάνοις per λαχάνοισιν); per la metrica, un asinarteto tipico di Archiloco, ma non del tutto identico ricorre in Cratino nel fr. 11 K.–A. (v. p. 946s.) e non è improbabile che in una commedia dedicata al giambografo potessero trovarsi alcune strutture metriche sue caratteristiche75. Meno convincente l’ipotesi di ottenere un cratineo con l’integrazione di una sillaba all’interno della pericope precedente ἀτιµίας. Questa ipotesi risale a Bergk 1838, p. 27 che proponeva alternativamente ὠµολίνοις κόµη βρύουσ᾽ 〈οὖσ᾽〉 ἀτιµίας πλέως oppure ὠµολίνοις κόµη βρύει, 〈οὖσ᾽〉 ἀτιµίας πλέως. Altri tentativi in questa direzione sono: a) Meineke FCG II.1, p. 21: ὠµολίνοις κόµη (o κόρη) βρυ〈άζ〉ουσ᾽ ἀτιµίας πλέῳς; b) Kock CAF I, p. 14 (περιβεβληµένη) ὠµολίνοις, κόµῃ βρυ〈άζ〉ουσ᾽ ἀτιµίας πλέως oppure (περιβεβληµένη) ὠµολίνοις, κόµῃ τε βρίθουσ᾽, ἀτιµίας πλέως; c) Rutherford 1897, p. 16 e van Herwerden 1903, p. 2 ὠµολίνοις κόµη ἁβρυνούσ᾽ ἀτιµίας πλέως; d) Edmonds FAC I, p. 26 n. 2 ὠµολίνοις κόµην βεβριθυῖ᾽ ἀτιµίας πλέως.

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Una proposta isolata, ma analoga a questa di Meineke, è quella di Reitzenstein 1906, p. xvii di correggere il testo in ὠµολίνοις ἐκόµα βρύουσ᾽ ἀτιµίας πλέως e ottenere così lo stesso tipo di asinarteto; rimane, però il problema della sintassi βρυουσ᾽(α) femminile con πλέως maschile e inoltre l’inserzione della forma verbale ἐκόµα è di difficile spiegazione e non rende del tutto perspicuo il senso di questo verso.

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Il nome stesso del verso (cratineo) dovrebbe essere indizio del suo utilizzo nel commediografo, nonostante i pochi esempi disponibili76, ma ognuna delle soluzioni proposte altera in maniera evidente e solo metri causa il testo77. Interpretazione(Con πλέῳς proposto da Meineke (v. Testo), il soggetto è κόµη, il cui referente non è chiaro: si tratta di una capigliatura, maschile o femminile, additata per la sporcizia come indica chiaramente il fatto che rigurgita, è piena (βρύουσ᾽) di panni di lino grezzo, ὠµόλινα (la lavorazione è 2 indizio di pregio e di qualità di un prodotto, v. Blümner I, 1912 pp. 90–100) esplicitamente definiti ‘pieni di disonore’ (ἀτιµίας πλεῳς). Il riferimento è ad un certo malcostume relativo alla capigliatura (κόµη), non ulteriormente e più precisamente specificabile. Secondo Bergk 1838, p. 28 si tratta di una donna additata per la sporcizia (“videtur enim poeta de muliere loqui, quae comam sordibus satis et illuvie inquinatam satis obvolverat”), ma κόµη può riferirsi, nel medesimo significato, anche alla capigliatura di un uomo. Non v’è ragione di modificare κόµη in κόρη, come proposto da Meineke FCG II.1, p. 21 che così interpretava: “suspicor squalidam illam puellam figurate de aemuli poetae fabula, quae Cratino primum fortasse praemium praeripuerat, intelligendam esse”; si potrebbe al limite accettare l’ipotesi di Kock CAF I, p. 14 che con κόµη sia indicata la “comoedia antiquissima vestitu paupere et inculto, horridis capillis, dedecoris plena”, ma non ci sono prove per questa identificazione. Una polemica contro degli effeminati è proposta da Marzullo a 1959, p. 135 (con la lettura πλέῳ e la 3 plurale βρύουσ᾽(ι), v. Testo): “giovani, senza dubbio effeminati: tali li denunciano gli ὠµόλινα di cui fanno pompa, e l’esplicito biasimo che esprime l’ἀτιµία”. Per quanto riguarda una possibile collocazione, l’ipotesi di un’interpretazione del verso come cratineo (v. Metrica) ha fatto pensare ad una parabasi (Sifakis 1971, pp. 33–35, Quaglia 1998, p. 60, Ornaghi 2004, p. 2236s.); un legame cratineo/parabasi si basa sul fatto che Efestione (XVI 6, p. 58,5 Consbr.) parlando del cratineo sostiene che in questo metro era ἡ παράβασις ἡ ἐν τοῖς Ἀστρατεύτοις Εὐπόλιδος πᾶσα (fr. 42 K.–A.), ma l’estensione di una simile

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L’unico sicuro è il fr. 362 K.–A.; il fr. 361 K.–A. è attribuito a Cratino ex silentio: Heph. ench. XV 21, testimone del frammento, parla del cratineo e cita dei versi composti in questo metro, ma senza indicazione dell’autore; il fr. 48 (cfr. p. 292) e il fr. 219 K.–A. (v. Kassel–Austin ad loc.) sono probabilmente in questo metro, ma offrono anche altre possibili interpretazioni. Si segnala anche la proposta isolata di Blaydes 1890, p. 4 secondo cui si tratta di un tetrametro giambico catalettico, così da restituire: 〈x〉 ὠµολίνοις κόµη βρύουσ᾽ ἀτιµίας ἀνάπλεως; ma anche qui ἀνάπλεως per πλέως si giustifica solo metri causa.

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Cratino

possibilità in Cratino è solo ex silentio78 e nel caso del fr. 10 non ci sono spie particolari che indichino un tema letterario (tipico della parabasi); inoltre, l’interpretazione metrica come cratineo appare poco convincente per via delle alterazioni testuali che comporta. Una collocazione parabatica rimane comunque possibile anche se si accetta la più semplice interpretazione metrica come hem + 2ia; potrebbe trattarsi di una sezione lirica della parabasi che contiene, come detto, una generica critica contro un malcostume. ὠµολίνοις(Lino grezzo (per il possibile significato di ὠµός, v. Blümner 2 I, 1912 , p. 197 n. 4) o tessuto fatto di lino grezzo, cfr. Hsch. ω 210 ὠµόλι(ν)α· τὰ ἄγρια ὀθόνια (per Cratino v. Olson Athenaeus 4, p. 419 “strips of rough linen” e Storey 2011, p. 273 “coarse linen”); nel linguaggio medico con il valore di ‘filaccia, garza’, cfr. ad es. Hipp. Morb. 2,60, Int. 23 etc. Tranne le attestazioni di Cratino e Ippocrate, il sostantivo ricorre ancora solo in Aesch. fr. 205 R. (Promētheus Pyrkaeus) λῖνα δέ, πίσσα κὠµολίνου µακροὶ τόνοι, v. Radt ad loc. (TrGF III, p. 327: si parla, verisimilmente, delle invenzioni di Prometeo, ma il riferimento preciso è ignoto)79. Secondo Athen. IX 410b il χειρόµακτρον (asciugamano) è fatto di un tessuto di lino grezzo (ὠµόλινον) e in questo significato ὠµόλινον ricorre in Plut. garr. 509a dove indica l’asciugamano di un barbiere; più avanti lo stesso Ateneo (410d-e) attesta che χειρόµακτρον è un ornamento del capo e dato questo valore e il fatto che il χειρόµακτρον era fatto di lino grezzo, ὠµόλινον, quest’ultimo sostantivo potrebbe indicare un ornamento del capo. Questa identificazione spiegherebbe bene il richiamo in Cratino alla κόµη. Secondo Meineke FCG II.1 ὠµόλινον vale “corporis velamentum” tanto in Cratino quanto anche in Saffo e Ecateo, sulla base di un valore presente in Septuaginta II 40,4 στέφανον καὶ ἕως περιβαλλοµένου ὠµόλινον θυµός, ma si tratta di un significato più tardo (v. Wagner 1999, p. 327) e non c’è motivo di rifiutare la testimonianza di Ateneo. βρύουσ᾽(L’etimologia è ignota (GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v.); per il valore v. Friis Johanssen–Whittle 1980, III p. 265 ad Aesch. Suppl. 966 ἀλλ’ ἀντ’ ἀγαθῶν ἀγαθοῖσι βρύοις: “the dativ or genitiv with βρύειν most frequently 78

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Cfr. Quaglia 1998, p. 60: “è lecito pensare che a maggior ragione avesse fatto ricorso a quel verso in sede parabatica anche Cratino, dato che la tradizione attribuiva ad esso il nome del poeta. È verosimile, anzi, supporre che l’uso del cratineo riveli di per sé, l’appartenenza di un passo alla parabasi” (corsivo dell’autore). Che ὠµόλινος sia un tratto linguistico che accomuna Eschilo e Cratino è sostenuto da Bakola 2010, p. 176 nell’ambito di una discussione degli elementi che possono accomunare questi due poeti. Altri tratti linguistici comuni ai due sono discussi da Farioli 1996, in part. p. 966s.

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denoting something of which an object is full and/or which bursts from it”, riferibile ad un ampio spettro di soggetti (cfr. LSJ s.6v.; in connessione ai capelli, v. in part. Alciphr. ΙΙΙ 31 βρύειν θριξί e Luc. Am. 12 ταῖς κόµαις εὐθαλέσιν ἄχρι πόρρω βρύοντα). Attestato già in Ρ 56 (unica occorrenza), poi in Bacch. III 15, VI 9 (στεφάνοις ἐθείρας νεανίαι βρύοντες), XIII 179; nell’attico di V/IV sec. a.6C. è comune in tragedia, v. ad es. Aesch. Ag. 169, Suppl. 966 (cit. supra), fr. 350,6 R., Eur. Bacch. 1076s.; in prosa ricorre solo in Xen. Cyn. V 12, [Plat.] Axioch. 371c, Aristot. Mund. 392b 15. Raro in commedia: Ar. Nub. 45 βρύων µελίτταις καὶ προβάτοις καὶ στεµφύλοις, Ran. 3296s. περὶ κρατὶ σῷ βρύοντα / στέφανον µύρτων e nel IV sec. a.6C. Eubul. fr. 56,6 K.–A. (Kybeutai) κισσῷ κάρα βρύουσαν, Alex. fr. 89 K.–A. (Hēsione) κόσµου βροούσαν; nel verso di Alessi secondo Arnott 1996, p. 237, βρύω si può intendere come una “comic incursion into the diction of high poetry […]” (cfr. Hope 1906, p. 17), perché a) βρύω è di uso quasi esclusivamente poetico e tragico (v. supra), b) la sua costruzione in Alessi con il genitivo, più rara che con il dativo80, sottolinea ulteriormente questo valore. Si può notare inoltre che il passo delle Rane di Aristofane è in un contesto lirico (parodo) ed elevato (l’inno a Iacco dei coreuti), il che potrebbe confermare questa ipotesi; nulla sembra, però, d’altra parte indicare un valore ‘alto’ del verbo né nelle Nuvole di Aristofane, né nel frammento di Eubulo. Una definizione di βρύω come verbo stilisticamente elevato non è quindi sicura in mancanza del contesto nel caso di Cratino (la peculiarità dell’occorrenza di Alessi potrebbe essere proprio nel suo impiego, più limitato, con il genitivo, quella delle Rane di Aristofane dalla sua ricorrenza in un inno). ἀτιµίας πλέῳς(Ἀτιµία indica generalmente una condizione di perdita della τιµή e, quindi, di disonore e disgrazia; è un termine tecnico del linguaggio giuridico per indicare la perdita dei privilegi e dei diritti civici (RE II.2 s.6v. ἀτιµία [Thalheim]). In Cratino secondo la lettura più probabile si riferisce agli ὠµόλινα (v. Testo), cfr. Aesch. Pers. 8476s. ἀτιµίαν γε παιδὸς ἀµφὶ σώµατι6/6ἐσθηµάτων κλύουσαν (si tratta degli unici due casi noti in cui ἀτιµία è detto di un oggetto). Il sostantivo ἀτιµία è utilizzato in tragedia (ad es. Aesch. Eum. 394, 796, Eur. Heracl. 72 etc.) e frequente nella prosa attica (Lys. ΧΧΧΙ 26.8, Xen. Hell. ΙΙΙ 4.9, Dem. Phil. ΙΙΙ 44, Plat. Phaed. 82c 6 etc.), ma del tutto assente dal linguaggio della commedia con l’unica eccezione di questo verso e di Men. Perik. 168.

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Le uniche due occorrenze con il genitivo sono in tragedia: Aesch. Choeph. 69s. νόσου βρύειν e Soph. OC 16s. βρύων6/6δάφνης, ἐλαίας, ἀµπέλου; inoltre in [Plat.] Axioch. 371c ἄφθονοι µὲν ὧραι παγκάρπου γονῆς βρύουσιν, su cui v. il comm. di Arnott 1996, p. 237.

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Cratino

Per alcune occorrenze di un nesso genitivo + πλέ- a fine verso (sempre in un trimetro giambico), v. ad es. Ar. Eq. 1000 κιβωτὸς πλέα, 1174 ζώµου πλέαν Ar. Pac. 703 οἴνου πλέων, Ran. 1372 ἀτοπίας πλέων, Pher. fr. 113,3 K.–A. (Metallēs) µέλανος ζωµοῦ πλέῳ, Phryn. fr. 66 K.–A. (inc. fab.) φλέγµατος γὰρ εἶ πλέως; si segnalano anche per la somiglianza dell’espressione Soph. El. 607 ἀναιδείας πλέαν (v. Testo) e Eur. Alc. 727 ἀναιδείας πλέων. fr. 11 K.–A. (10 K.) Ἐρασµονίδη Βάθιππε τῶν ἀωρολείων Erasmonide Batippo dei lisci fuori tempo Heph. ench. XV 7 (περὶ ἀσυναρτήτων) p. 49,20 Consbr. Κρατῖνος δὲ ὅταν λέγῃ ἐν τοῖς Ἀρχιλόχοις Ἐρασµονίδη — ἀωρολείων, τοῦτο τὸ µέτρον ἀγνοεῖ ὄτι οὐκ ἄντικρυς µιµεῖται τοῦ Ἀρχιλόχου τὸν Ἐρασµονίδην (fr. 168 W.) Cratino quando dice negli Archilochoi Erasmonide — tempo, non riconosce che questo metro non imita direttamente l’Erasmonide di Archiloco

Metro(klkklklk

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 5 (fr. I), Bergk 1838, p. 8, Meineke FCG II.1 (1839), p. 22 (IX), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 9, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 9), Kock CAF I (1880), p. 15, Tanner 1920, p. 1826s. , Marzullo 1962, p. 549, Luppe 1963, p. 136s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 128, Rosen 1988, p. 436s., Ornaghi 2009, p. 351, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2726s. Contesto della citazione(Il capitolo quindici dell’Encheiridion è dedicato agli asinarteti, di cui Efestione attesta (XV 2, p. 47 Consbr.) che il primo a farne uso fu Archiloco; l’esempio iniziale è quello del cosiddetto archilocheo, per il 2 cui utilizzo è riportato il fr. 168 W. (v. infra). Di seguito vengono elencate ed esemplificate con citazioni le differenze tra l’utilizzo di questo asinarteto in Archiloco e nei poeti successivi che lo hanno ripreso, fino alla citazione del fr. 11 K.–A. di Cratino (che chiude la sezione su questo asinarteto) di cui viene evidenziata la ripresa non diretta (ἄντικρυς) del modello archilocheo. Metrica(L’asinarteto detto archilocheo (il nome è dato dallo scolio al passo di Efestione, v. infra) è composto da un enoplio di otto o nove sillabe e un itifallico (ἔκ τε ἀναπαιστισκοῦ ἑφθηµιµεροῦς καὶ τροχαϊκοῦ ἡµιολίου τοῦ καλουµένου ἰθυφαλλικοῦ secondo la terminologia di Efestione, per cui v. van Ophuijsen 1987, p. 142); il suo schema è xltlkklx|lklkll. In commedia ricorre

Ἀρχίλοχοι (fr. 11)

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in Ar. Vesp. 1518–1537, Cratin. frr. 360 K.–A., Eupol. frr. 148,1 e 4, 250, 317 K.–A., Pherecr. fr. 77 K.–A., Diphil. fr. 12 K.–A., v. Parker 1997, p. 261 e per le interpretazioni ritmiche del verso Dale 1968, p. 176, Snell 1982, p. 25 n. 2, West 1982, p. 97, Gentili-Lomiento 2003, p. 125. Rispetto ad esso la differenza presente solo in Cratin. fr. 11 K.–A. è nella sostituzione della seconda doppia breve con una singola breve; ossia, rispetto 2 ad Arch. 168 W. con il quale è messo in esplicita relazione nella testimonianza di Efestione: 2

Arch. 168 W. Ἐρασµονίδη Χαρίλαε, χρῆµά τοι γελοῖον

klkklkklk |lklkll

Crat. 11 K.–A. Ἐρασµονίδη Βάθιππε τῶν ἀωρολείων

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Lo scolio al passo di Efestione (schol. A, p. 156,21 Consbr.) spiega così: τρίτον γὰρ πεποίηκεν ἴαµβον ὁ Κρατῖνος καὶ οὐκέτι συµφωνεῖ αὐτῷ τὸ προσοδιακόν, ὄπερ ἐστὶν ἐν τῷ Ἀρχιλοχείῳ. δοκῶν οὖν τοῦτο µιµεῖσθαι ἔλαθε µὴ µιµησάµενος. La differenza presente in Cratino si deve senz’altro solo alla necessità di inserire nel verso il nome proprio Βάθιππος e a null’altro (così già Bergk 1838, p. 8 e cfr. Parker 1997, p. 261)81; lo schema metrico, anche se non del tutto analogo, e l’attacco con il patronimico Ἐρασµονίδη indicavano quasi senza dubbio un’ascendenza da Archiloco, v. Interpretazione e cfr. anche Kugelmeier 1996, p. 185–187. Interpretazione(Sulla base del valore di ἀωρόλειος (v. ad loc.) si intende un riferimento ad un uomo anziano del quale è stigmatizzato il rendersi liscio, nel senso o di una rasatura o di una depilazione, caratteristiche che lo additano verisimilmente come effeminato e omosessuale passivo; chi sia il personaggio qui menzionato, Batippo Erasmonide, non è noto. L’accostamento di un nome proprio e del suo patronimico riflette un uso tipico della lingua epica, ad es. 81

Solo per completezza si riporta l’ipotesi di Tanner 1920, p. 1826s. (nell’ambito di un tentativo di datazione alta della commedia, cfr. Cronologia): “Bergk’s explanation that the poet was hindered from following the metre accurately by the proper name Βάθιππε, does not form a valide excuse, because it was very easy to make the verse metrically correct by the insertion of a particle like δέ or γε after Ἐρασµονίδη. […] It is possible that our poet in the Ἀρχίλοχοι, which is probably the earliest of his plays of which any fragments have come down to us, is just beginning to be interested in this meter and has inadvertently omitted one mora”.

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Cratino

Ἀτρεΐδης Ἀγαµέµνων in Α 146, Ξ 29 e 360 o al vocativo Λαερτιάδη … Ὀδυσσεῦ in Β 173, ∆ 358, ε 203 etc. e quindi uno stile alto; di effetto comico, d’altra parte, che il patronimico in Cratino, come già in Archiloco, sia il nomen fictum Ἐρασµονίδη, ossia ‘figlio dell’amore’ (v. infra ad loc.), il che crea un evidente scarto stilistico. Per l’accostamento del vocativo Ἐρασµονίδη Βάθιππε al genitivo plurale τῶν ἀωρολείων, sono state proposte diverse spiegazioni: la più semplice appare quella di Meineke FCG II.1, p. 22 di intendere τῶν ἀωρολείων non come dipendente da un verbo precedente o successivo, ma come assoluto per il confronto con Anaxipp. fr. 3,16s. K.–A. ὁρῶ γὰρ ἐκ παλαίστρας τῶν φίλων6/6προσιόντα µοι ∆άµιππον ovvero anche Thuc. VI 3,2 Ἀρχίας τῶν Ἡρακλείδων e Xen. Hell. I 6,16 τῶν δέκα στρατηγῶν Λέων καὶ Ἐρασινίδης (Kock CAF I, p. 15) e Hdt. I 67.5 Λίχης τῶν ἀγαθοεργῶν καλεοµένων Σπαρτιητέων (Kassel e Austin, PCG IV, p. 128); si tratta in questi casi di una forma particolare di genitivo partitivo, cosiddetto “Adnominaler Partitiv”, v. Schwyzer–Debrunner 1950, II, p. 1156s. e la relativa documentazione.82 Secondo Marzullo 1962, p. 549 si intende come genitivo esclamativo, per il confronto con Ar. Ach. 575 ὦ Λάµαχ’, ἥρως τῶν λόφων καὶ τῶν λόχων, dove però la dipendenza non è direttamente dal nome proprio, ma dal sostantivo ἥρως. Per la collocazione, l’utilizzo di un asinarteto sembra indicare un contesto lirico; non si può escludere che si tratti di una parodia di Archiloco ottenuta con una storpiatura voluta del metro originario. Se si immagina un contesto simile a quello delle Rane di Aristofane con il confronto tra Eschilo ed Euripide (dal v.  907), questo verso potrebbe essere opera di uno degli avversari di Archiloco nell’agone (cfr. Contenuto) che cita e deforma volutamente un verso di Archiloco e si può, quindi, supporre non un contesto lirico, ma recitato al cui interno si inserivano alcune citazioni, tra cui quelle liriche (come i canti citati in Ar. Ran. 1264 ss., che seguono il confronto sui prologhi). Secondo Ornaghi 2009, p. 351 “è lecito domandarsi […] se anche negli Archilochoi l’apostrofe a Bathippos avrebbe avuto una prosecuzione narrativa”, ossia se in Cratino tramite l’allusione si proseguisse poi come nel frammento archilocheo (168 W. Ἐρασµονίδη Χαρίλαε, χρῆµά τοι γελοῖον6/6ἐρέω, πολὺ φίλταθ᾽ ἑταίρων, τέρψεαι δ᾽ ἀκούων).

82

“Der adnominale Partitiv bezeichnet nach der üblichen Definiton das Ganze, von dem das regierende Substantiv (auch substantivisches Pronomen oder substantiviertes Adjektiv) oder Orts- und Zeitadverbien einen Teil ausdrückt, oder einen Kollektiv- oder Pluralbegriff, aus dem ein Individuum oder eine Untergruppe herausgehoben wird”.

Ἀρχίλοχοι (fr. 11)

97

Ἐρασµονίδη(Il suffisso –ίδης è tipico dei patronimici, come ad es. gli epici Ἀτρείδης ο Πηλεΐδης; il nome proprio *Ἐρασµών non ha attestazioni ed è con 2 ogni probabilità fittizio, inventato da Archiloco fr. 168 W. e da qui senz’altro ripreso da Cratino. Composto da una radice ἐρα- collegata con ἐράω, amare, e dal patronimico –ίδης, approssimativamente ‘Fils de l’Amour’ (Lasserre2 Bonnard 1958, p. 48 ad Arch. fr. 168 W. ) o, come interpretava Meineke FCG II.1, p. 22 “ἐπιθετικῶς […] quasi dicas venustulum”. Che qui si tratti di un patronimico (come anche in Archiloco) e non di un nome proprio lo dimostra la sua ricorrenza accanto a Βάθιππε; in commedia, infatti, il suffisso –ίδης è “eine scherzafte Übetragung von den Patronymika her” (Debrunner 1917, p. 1926s. § 384) che forma nomi propri, v. Kanavou 2011, p. 71–74 per Φειδιππίδης nelle Nuvole (che Strepsiade, il padre, voleva chiamare Φειδονίδης connesso con φείδεσθαι ‘risparmiare’, quindi ‘figlio del risparmio’, v. Nub. 63–67); pp. 107–109 per Εὐελπίδης, ‘figlio della buona speranza’ negli Uccelli (cfr. anche Dunbar 1995, p. 416); pp. 466s. per σπουδαρχίδης, στρατωνίδης e µισθαρχίδης in Ar. Ach. 595–7, sostantivi parlanti, ma che potrebbero essere anche nomi propri o alludervi (cfr. anche Olson 2003, p. 227). Un’ampia documentazione su com3 posti in –ίδης e il loro impiego è in Lobeck 1866 , pp. 389–393 ad Soph. Ai. 880 ἀλιαδᾶν; ulteriori esempi sono addotti da Meineke FCG II.1, p. 22. Βάθιππε(Composto di βαθύς + ἵππος, cfr. in Attica per il primo elemento i simili Βαθυκλῆς (LGPN IIIA s.6v.) e Βαθύδικος (PAA 260285), per ἵππος come secondo membro del composto ad es. Ἄρχιππος, Γνώσιππος, Εὐρύσιππος, Ἔφιππος, etc. v. Fick–Bechtel 1894, p. 1536s.; come nota Kaibel apud Kassel– Austin PCG IV, p. 128: “Bathippus verum hominis qui notatur nomen idque atticum”, con il rimando a Dem. XX 144 dove è presente un personaggio con questo nome, padre di Apsefione, v. PA 2814, LGPN II s.v., PAA 260275. Secondo Fick–Bechtel 1894, p. 77 si intende come Kurzname di *Βαθυτρίχιππος, come l’aggettivo ἱπποδάσεια sarebbe una abbreviazione di *ἵππορουδάσεια, ma né l’una né l’altra possibilità possono essere provate. Si tratta di un personaggio non altrimenti noto e non si può escludere che, nonostante il nome sia attestato, il composto con –ιππος abbia una nuance comica (qui associata con βαθύς ‘profondo’) come nel caso di Fidippide (cfr. supra)83. ἀωρολείων(V.  schol. A ad Heph. ench. XV 7, p.  156,21 Consbr. τῶν ἀωρολέιων· ἀωρόλειοι οἱ ἔξω ἤδη ὥρας λειούµενοι, οἷον ἐν γήρᾳ καλλωb πιζόµενοι; analoga spiegazione in Σ α 2640 = Phot. α 3497 = Sud. α 2855 = 83

Non c’è motivo di correggere questo nome in Νόθιππε (poeta tragico [TrGF I 26 T 1] menzionato in Hermipp. fr. 46 K.–A. e Telecl. fr. 17 K.–A., su cui v. Bagordo 2013, p. 176s.) come proposto da Geissler 1925, p. 19 che non offre, d’altra parte, una motivazione.

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Cratino

ἀωρόλειος· ὁ παρὰ τὴν ὥραν καὶ ἡλικίαν λειαινόµενος (καὶ φαλακριῶν Sud.). Indica, quindi, chi si rende liscio, ossia si rade o si depila (non è esplicito, né determinabile se si tratti del radersi il viso o di una depilazione corporea), quando il suo corpo è già maturo, come chi si abbellisce in vecchiaia (ἐν γήρᾳ καλλωπιζόµενοι) o comunque quando non è più giovane. Questo è probabilmente il senso da intendere in Cratino; l’unica altra attestazione di questo aggettivo in Ael. nat. an. XIII 27: µειρακίου γε µὴν δεοµένου ἐπὶ µήκιστον τριχῶν ἀπορίας τῶν ἐπὶ τοῦ γενείου, αἷµα ἐπιχρισθὲν θύννου ἀωρόλειον τὸ µειράκιον ἀπεργάζεται, è in riferimento specifico alla barba di un giovane ed ha il valore di ‘beardless’ (LSJ s.6v.). b Per analoghi composti con ἀωρο- ‘prematuro, prima del tempo’ (cfr. Σ α 2638 = Phot. α 3493 Th. ἀωρί, ἀωρία· τὸ παρὰ τὸν προσήκοντα καιρὸν καὶ τὴν ὥραν), v. Aesch. Coeph. 34 ἀωρόνυκτος, Ar. fr. 668 K.–A. (inc. sed.) 2 ἀωροθάνατος, IG I (8).444 (Taso) ἀωρόµορος. L’aggettivo λεῖος nel composto stigmatizza quasi certamente un comportamento effeminato, probabilmente quello di un omosessuale passivo, cfr. Kock CAF I, p. 15. “ἀωρόλειοι videntur dici qui pathici sunt”; un composto simile ὑπόλειον ricorre in Men. Sic. 91 e 201 (cfr. Belardinelli 1994, p. 171) e l’aggettivo λεῖος è impiegato per indicare un corpo liscio come quello di un’anguilla in Ar. fr. 229 K.–A. (Daitalēs) καὶ λεῖος, ὥσπερ ἔγχελυς χρυσοῦς ἔχων κικίννους (probabilmente con valore negativo, v. Cassio 1977, p. 69) e in Eupol. fr. 368 K.–A. τὸ σῶµ’ ἔχουσι λεῖον ὥσπερ ἐγχέλεις (cfr. Olson 2014, p. 95: “the parallel at Ar. fr. 229 […] suggests that this too is a reference to pretty - i.e. overly pretty- young men, who if not still naturally lacking in body-hair have contrived to make themselves seem to be so […] The adjective does not seem to be used of women”); cfr. Plat. com. fr. 60 K.–A. con Pirrotta 2009, p. 150 e Ar. fr. 422 K.–A. παῖδες ἀγένειοι, Στράτων il cui testimone (schol. Ar. Ach. 122) attesta esplicitamente che οὖτος (Stratone) κωµῳδεῖται ὡς λωβώµενος τὸ γένειον καὶ λειαίνων τὸ σῶµα κτλ. Per la depilazione soprattutto della barba come segno di effeminatezza negli uomini, v. Austin–Olson 2004, p. 119 ad Ar. Thesm. 191 ἐξυρήµενος detto dell’effeminato Agatone e ibid. vv. 232–235 e 574 dove le guance ben rasate stigmatizzano l’effeminato Clistene.

Ἀρχίλοχοι (fr. 12)

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fr. 12 K.–A. (11 K.) Schol. (V∆) Luc. Iov. trag. 48, p. 83,16–20 R. ὁ µὲν Κ α λ λ ί α ς οὗτος, ὡς Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις φησίν, Ἱππονίκου υἱὸς ἦν, τὸν δῆµον Μελιτεύς, ὡς Ἀριστοφάνης Ὥραις (fr. 583 K.–A.), πλούσιος καὶ πασχητιῶν καὶ ὑπὸ πορνιδίων διαφορούµενος καὶ κόλακας τρέφων Questo C a l l i a, come dice Cratino negli Archilochoi, era figlio di Ipponico, del demo Meliteo, come (dice) Aristofane nelle Hōrai (fr. 583 K.–A.) ricco e omosessuale passivo e saccheggiato da puttanelle e allevatore di adulatori

Bibliografia(Runkel 1827, p. 8 (fr. XII), Bergk 1838, p. 22, Meineke FCG II.1 (1839), p. 24 (fr. XIII) e 2206s. (fr. CXL), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 10, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 13), Kock CAF I (1880), p. 15, Tanner 1920, Edmonds FAC I (1957), p. 266s. Luppe 1963, pp. 18–22, Luppe 1966a, p. 1366s., Luppe 1973, p. 1266s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 128, Rosen 1988, pp. 45–47, Delneri 2006, pp. 110–112, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2746s. Interpretazione(Nel passo di Luc. Iov. trag. 48, cui è relativo lo scolio, si parla di alcuni personaggi oltremodo dissoluti e che dilapidarono i loro beni: ἐν ὅσοις δὲ ἀγαθοῖς Καλλίας καὶ Μειδίας καὶ Σαρδανάπαλλος ὑπερτρυφῶντες καὶ τῶν ὑφ᾽ αὑτοῖς καταπτύοντες. Il Callia qui menzionato, per il quale lo scolio richiama l’autorità di Cratino e Aristofane, si identifica con ogni probabilità con Callia III figlio di Ipponico II, nato intorno al 450 a.6C. e morto dopo il 367 a.6C., appartenente al γένος dei Κήρυκες, detentore di un prestigioso privilegio sacerdotale quale la dadouchia eleusina (v. Parker 1996, pp. 300–302), kōmōdoumenos caro alla commedia per avere dilapidato l’immenso patrimonio di famiglia (oltre duecento talenti, il più consistente di tutta la Grecia secondo le fonti) “a poco a poco […] a causa delle sue insane abitudini di vita e delle sue cattive frequentazioni” (Napolitano 2012, p. 14); per questo personaggio v. PA 7826, Welzel 1888 in part. pp. xx-xxiv, Holden 1902, s.6v. Καλλίας (pp. 845–847), RE X.2 s.6v. Καλλίας n. 2 coll. 1615–1618 [Swoboda], Molitor 1969, p. 646s., APF 7826 (pp. 254–270), LGPN II s.6v. Καλλίας (84), PAA 554500 e Napolitano 2012, p. 14 n. 6 per ulteriore bibliografia. Come Καλλίας Ἱππονίκου possono essere, in realtà, identificati due personaggi omonimi e con omonimo padre: 1) Callia II figlio di Ipponico I talora soprannominato ὁ λακκόπλουτος (PA 7825, RE X.2 s.6v. Καλλίας n. 2 coll. 1615–1618 [Swoboda], APF 7825, LGPN II s.6v. Καλλίας [82], PAA 554480 e Delneri 2006, p. 111 n. 111 per ulteriore bibliografia) e 2) Callia III figlio di Ipponico II (v. supra), rispettivamente nonno e nipote (Ipponico II, padre di Callia III, era figlio di Callia II); da ciò il dubbio più volte espresso sulla effettiva

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Cratino

identità del kōmōdoumenos additato da Cratino. Il passo intero dello scolio a Luciano riporta: ὁ µὲν Καλλίας οὗτος, ὡς Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις φησίν, Ἱππονίκου υἱὸς ἦν τὸν δῆµον Μελιτεύς, ὡς Ἀριστοφάνης Ὥραις πλούσιος καὶ πασχητιῶν καὶ ὑπὸ πορνιδίων διαφορούµενος καὶ κόλακας τρέφων. εἰς δὲ στιγµατίαν αὐτὸν Κρατῖνος κωµῳδεῖ ὡς ἕνα τῶν κατάχρεων Θρᾴτταις (fr. 81 K.–A.)84· […] κωµῳδεῖ δὲ αὐτὸν Κρατῖνος καὶ ὡς Φώκου γυναῖκα µοιχεύσαντα καὶ τρία τάλαντα δόντα εἰς τὸ µὴ κριθῆναι. In totale si hanno quattro menzioni di passi comici che lo scoliaste a Luciano usa come autorità per l’identificazione di Callia: Cratino Archilochoi, Aristofane Hōrai, Cratino Thraittai, Cratino (Thraittai?). La descrizione del personaggio additato in questi passi è coerente con ciò che sappiamo dalle fonti di Callia III figlio di Ipponico II; l’unico motivo di rifiutare questa identificazione è che questi, nato intorno al 450 a.6C., non poteva essere oggetto di attacchi negli Archilochoi, se si data questa commedia subito dopo il 449 a.6C. (cfr. Datazione). Per questo sono state proposte due spiegazioni: 1) l’intero gruppo di citazioni comiche su questo personaggio dello scolio si riferisce a Callia II (ὁ λακκόπλουτος), come proposto da Bergk 1838, p. 22 e argomentato da Tanner 1920; questi, però, vissuto all’incirca tra il 520 a.6C. e il 446 a.6C., è ricordato nelle fonti per l’enorme ricchezza, per la parentela con Cimone, per la triplice vittoria nei giochi olimpici e, talora, anche come maratonomaco, il che “giustificherebbe la collocazione più tra i probi viri, tra i rappresentanti del tempo che fu, che tra gli scapestrati che si rovinano con donne e parassiti, oggetto – secondo il nostro scolio – dello scherno dei comici” (Delneri 2006, p. 111). Appaiono, quindi, incoerenti le notizie sui debiti e sulla connotazione di στιγµατίας nelle Thraittai (su cui v. Delneri 2006, p. 1826s.); oltre a ciò la cronologia di Callia II si concilia difficilmente con la datazione probabile delle stesse Thraittai (435–430 a.6C.) e delle Hōrai di Aristofane (421–411 a.6C. forse ulteriormente

84

Si deve a Luppe 1966b, p. 1366s. aver restituito dopo la pericope εἰς δὲ στιγµατίαν — ἕνα τῶν κατάχρεων il dativo Θρᾴτταις sulla base di un corrotto θρᾶττες, facilmente interpretabile come errore di pronuncia, presente nel solo cod. ∆ (Vat. Gr. 1322), segnalato nell’apparato ad loc. da Rabe, ma non identificato come il titolo della commedia di Cratino (cfr. Delneri 2006, p. 181); di conseguenza ὁ µὲν Καλλίας οὗτος—κόλακας τρέφων è stampato da Kassel e Austin PCG IV, p. 128 come frammento degli Archilochoi e delle Hōrai di Aristofane, il resto come frammento delle Thraittai (81 K.–A.) benchè l’ultima parte (κωµῳδεῖ δὲ αὐτὸν — εἰς τὸ µὴ κριθῆναι) non sia esplicitamente attribuita, ma provenga forse da questa stessa commedia, v. Delneri 2006, p. 110 e 183.

Ἀρχίλοχοι (fr. 12)

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delimitabile dopo il 415 a.6C.), v. Delneri 2006, p. 77 (Hōrai) e p. 149 (Thraittai)85. 2) Callia II era menzionato da Cratino negli Archilochoi, Callia III negli altri passi comici, come proposto da Meineke FCG II.1, p. 2206s.: si risolvono così i problemi già esposti e si mantiene la datazione alta degli Archilochoi, ma si è anche obbligati a postulare una confusione dello scoliaste tra i due Callia; ciò non è certo impossibile, ma il successivo errore della provenienza dal demo di Melite, indipendentemente dall’appartenenza della pericope a Cratino o ad Aristofane (v. infra), sembra provare che lo scoliaste aveva in mente Callia III, il che è, d’altronde, coerente con il voler spiegare chi era il personaggio che nel testo di Luciano era annoverato tra gli ὑπερτρυφῶντες. Di conseguenza, l’ipotesi più semplice è quella di leggere un riferimento a Callia III in ciascuno dei quattro passi comici ed escludere la menzione di Callia II ὁ λακκόπλουτος, dovuta solamente alla presunta cronologia alta degli Archilochoi (cfr. Datazione). Non vincolante la possibile obiezione che Cratino non potè vedere la rovina finanzaria di Callia III (Bergk 1838, p. 21, Tanner 1920, p. 180), che le fonti sembrano indicare come prevalente nei primi decenni del IV secolo (ad es. Ar. Eccl. 810, And. Ι 131, Lys. XIX 48, Aristot. Rhet. 1405a 196s.); il riferimento ai debiti e alla connotazione di στιγµατίας appartenevano, infatti, senz’altro alla porzione dello scolio che si riferisce alle Thraittai (v. supra), la cui cronologia è coerente con il ritratto di Callia nei Kolakes di Eupoli del 421 a.6C., dove questi, erede novello delle sostanze paterne (morto poco prima della rappresentazione di questa commedia, Eup. Kol. test. ii 4–6 K.–A.), era rappresentato, probabilmente in maniera iperbolica, come rovinato dai debiti, indizio che il suo comportamento dissennato doveva essere già essenzialmente noto e, inoltre, del “fatto, pur innegabile, che l’impoverimento di Callia dovette essere nella realtà delle cose lento e progressivo, frutto non di pochi mesi […] ma di anni di spese dissennate e di altre circostanze negative” (Napolitano 2012, p. 16 n. 9, con documentazione).

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“Willkürliche Spielerei” è definita da Luppe 1963, p. 22 l’ipotesi di Tanner 1920, p. 185; secondo questi la pericope finale dello scolio τάλαντα γε µὴν δόντα εἰς τὸ µὴ κριθῆναι può attribursi agli Archilochoi di Cratino in quanto possibilmente riconducibile ad un asinarteto archilocheo; tale interpretazione metrica è di per sé assai improbabile, ma, anche se fosse, non sarebbe indizio di una provenienza obbligata del frammento dagli Archilochoi, specie a fronte delle altre considerazioni discusse. Analogamente improbabile l’ipotesi dello stesso Tanner dell’errore nel fr. 11 K.–A., dove il comico per sua imperizia giovanile (il che motiverebbe la datazione alta degli Archilochoi, sic!) non avrebbe saputo imitare l’originale asinarteto di Archiloco, v. p. 95 n. 81.

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Cratino

Per quel che riguarda l’informazione che si attribuisce a Cratino esistono due possibilità: 1) secondo Luppe 1963, p. 18 = Luppe 1973, p. 1266s. si distinguono chiaramente due sezioni: a) Cratino: ὡς Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις—τὸν δῆµον Μελιτεύς, b) Aristofane ὡς Ἀριστοφάνης Ὥραις—κόλακας τρέφων, analogamente introdotte da ὡς + nome del commediografo + titolo della commedia; 2) secondo Dittenberger 1885, p. 5 n. 2 e Davies 1971, p. 260 si riferisce ad Aristofane nelle Hōrai τὸν δῆµον Μελιτεύς86 e, di conseguenza a Cratino appartiene solamente la notizia Ἱππονίκου υἱὸς ἦν. Questa seconda possibilità è sostenuta anche da Kassel e Austin ad Ar. fr. 583 (Hōrai) che richiamano la presunta costruzione analoga presente nello stesso passo dello scolio a Luciano (p. 83,27 R.) ὁ δὲ Μειδίας ὀρτυγοκόπος ἦν, ὡς Πλάτων Περιάλγει (fr. 116 K.– A.) e propongono di attribuire πλούσιος καὶ πασχητιῶν—κόλακας τρέφων ai Kolakes di Eupoli nell’eventualità che le informazioni, in questo caso anonime, derivino da un unico luogo comico. Si ha, in questo caso, una sequenza nome del kōmōdoumenos + sua caratteristica + fonte (commediografo + commedia), ma si nota che proprio la parte iniziale dello scolio a Luciano (ὁ µὲν Καλλίας — υἱὸς ἦν) contiene una sequenza diversa: nome del kōmōdoumenos + fonte + sua caratteristica, il che rende l’esempio di Kassel e Austin non particolarmente cogente; da escludere l’ipotesi di Delneri 2006, p. 112 che ritiene parte della citazione di Aristofane non solo τὸν δῆµον Μελιτεύς, ma anche Ἱππονίκου υἱὸς ἦν perché sarebbe così priva di senso la menzione di Cratino al quale non si attribuirebbe alcuna delle informazioni su Callia. Tutti i dati forniti su Callia sono, in ogni caso, costanti nella caratterizzazione di questo personaggio e non è facile distinguere singole notizie in singoli commediografi; rimane probabilmente più convincente la distinzione proposta da Luppe, sebbene una simile precisione appaia più un’esigenza moderna che una prassi degli scoli, che confondono talora le informazioni e non sempre le offrono in un ordine costante. A Cratino si attribuisce senza dubbio almeno la pericope Ἱππονίκου υἱὸν ἦν, mentre τὸν δῆµον Μελιτεύς potrebbe essere o di Cratino o di Aristofane. 86

L’informazione τὸν δῆµον Μελιτεύς contiene un errore, facilmente spiegabile: Callia non era del demo di Melite, ma di Alopece (APF 7826, p. 256) e questa notizia deriva dal fatto che Callia aveva una casa nel demo di Melite, v. schol. Ar. Ran. 501 Καλλίας γὰρ ὁ Ἱππονίκου ἐν Μελίτη ᾤκει, da cui una confusione tra abitazione e origine (Dittenberger 1885, p. 5 n. 2, Luppe 1973, p. 1266s.). Nella casa che Callia possedeva a Melite sono ambientati i Kolakes di Eupoli e il Protagora di Platone; Callia possedeva anche un’altra casa, al Pireo (Xen. Symp. I 2, Plin. Nat. Hist. 34,79) dove è ambientato il Simposio di Platone, v. Huß 1999, p. 74 e Napolitano 2012, p. 13 n. 3.

Ἀρχίλοχοι (fr. 13)

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fr. 13 K.–A. (12 K.) Schol. (BC, Vφ, Ω) Luc. Alex. 4 (p. 180 R.) ὑπὲρ τοὺς Κέρκωπας: οὗτοι ἐν Βοιωτίᾳ διέτριβον Οἰχαλιεῖς ὄντες γένος Σίλλος καὶ Τριβαλὸς ὀνοµαζόµενοι, ἐ π ί ο ρ κ ο ι κ α ὶ ἀ ρ γ ο ί, ὡς Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις καὶ ∆ιότιµος (SH 394,3) Oltre i Cercopi: costoro vivevano in Beozia, erano di stirpe Ecalia e si chiamavano Sillo e Tribalo, s p e r g i u r i e p i g r i, come Cratino negli Archilochoi e Diotimo (SH 394,3)

Metro(Ignoto (kklllll) Bibliografia(Bergk 1838, p. 256s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 246s. (fr. XIV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 10, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 14), Kock CAF I (1880), p. 166s., Edmonds FAC I (1957), p. 266s., Marzullo 1959, p. 1356s., Luppe 1963, p. 15, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 129, Bakola 2010, p. 78, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 2746s. Contesto della citazione(Nella sezione iniziale dell’Alessandro (§4) Luciano descrive le caratteristiche del personaggio omonimo cui è dedicato il dialogo, le cui virtù fisiche erano eccelse, ma che per malvagità superò quanti erano considerati i più malvagi: αὐτίκα µάλα τῶν ἐπὶ κακίᾳ διαβοήτων ἀκρότατος ἀπετελέσθη, ὑπὲρ τοὺς Κέρκωπας, ὑπὲρ τὸν Εὐρύβατον87 ἢ Φρυνώνδαν ἢ Ἀριστόδηµον ἢ Σώστρατον; lo scolio ad loc. (p. 1806s. R.) spiega chi fossero i diversi personaggi che Luciano utilizza come termine di paragone, compresi i Cercopi. Interpretazione(Del testo dello scolio appartiene senz’altro a Cratino la definizione dei Cercopi come ἐπίορκοι καὶ ἀργοί; la caratterizzazione dei Cercopi a noi nota chiama in genere in causa la loro scelleratezza (v. infra), mentre non vi è menzione di una presunta pigrizia (ἀργοί). Di conseguenza è stata proposta per questo secondo aggettivo una correzione: ἄγριοι (Marzullo 1959, p. 1356s.) ovvero κακοεργοί, secondo Luppe 1963, p. 16 per il quale si possono così intendere gli ipsissima verba di Cratino, ἐπίορκοι κακοεργοί che

87

Il personaggio di nome Euribato qui nominato è un κωµῳδούµενος noto in commedia anche in Ar. fr. 198 K.–A. (Daidalos) e in Dem. XVIII 24. Non ha nulla a che fare, nonostante l’omonimia, con Euribato, uno dei Cercopi il cui nome testimonia un verso di Diotimo (SH 394,3, v. supra), anche se in Luciano la menzione immediatamente precedente dei Cercopi, uno dei quali di nome Euribato, potrebbe aver favorito il richiamo a questo personaggio.

104

Cratino

rappresenterebbero la seconda parte di un esametro dopo cesura maschile; tuttavia, poiché lo scolio sembra chiamare in causa Cratino proprio per come aveva definito i Cercopi, non si può escludere che il comico usasse qui una loro caratterizzazione peculiare differente da quella a noi nota. Più problematica, invece, la questione relativa all’onomastica dei due personaggi citati, che potrebbe essere stata specifica di Cratino. Lo scolio a Luciano attribuisce ai Cercopi i nomi Sillo e Triballo sia nelle pericope iniziale sia nella successiva citazione da Diotimo, SH 394,3: Σίλλος τε Τριβαλός τε δύω βαρυδαίµονες ἄνδρες; questo frammento, però, è citato anche in Sud. ε 3718 (II p. 470,26) in forma più estesa, 3 versi in tutto di cui l’ultimo è lo stesso citato nello scolio lucianeo, ma con una differenza nei nomi: Ὦλος τ᾽ Ἐυρύβατός τε, δύω βαρυδαίµονες ἄνδρες. L’ipotesi generalmente accolta è che nel citare il verso di Diotimo lo scoliaste a Luciano abbia commesso un errore influenzato dalla precedente menzione dei due nomi come Sillo e Triballo (Lloyd-Jones– Parsons 1983, p. 182). Per quanto riguarda, invece, la prima menzione dei nomi Sillo e Triballo, antecedente il richiamo al poeta comico, secondo Bergk 1838, p. 256s. (ripreso da Kock CAF I, p. 156s. e Adler in RE XI.1, s.6v. Kerkopen, col. 312) Sillo e Triballo erano nomi intenzionalmente usati da Cratino, al posto di quelli presenti in Diotimo, in quanto parlanti: “ut Σίλλος est derisor, ita Τρίβαλλος quoque quasi sycophanta et improbus calumniator audit”; questa ipotesi è, in un primo momento, accolta anche da Meineke FCG II.1, p. 25 (“haud male suspicatus est Bergkius Cercopas, quorum alia ab aliis nomina traduntur […] a Cratino vocatos fuisse Sillum et Triballum”); v. anche Marzullo 1959, p. 135 secondo cui poiché a) nessuna delle etimologie proposte per questi due nomi è priva di dubbio (un prospetto delle diverse ipotesi in Kassel–Austin PCG IV, p. 129) e b) le fonti in nostro possesso attestano diversi nomi (Roscher II.1 s.6v. in part. col. 11726s. [Seeliger], RE XI.1, in part. col. 3106s. [Adler]) è possibile che anche Sillo e Triballo fossero altri nomi dei Cercopi e che in questa forma apparissero in Cratino, pur senza essere necessariamente nomi parlanti. Al contrario, ancora Meineke in un secondo momento (FCG ed. min. I, p. 10) pensa di restituire anche in Cratino i nomi Olo ed Euribato, da cui per corruzione Sillo e Triballo (ma un simile errore non è di facile spiegazione; le varianti nel testo dello scolio che Meineke registra [Ἕλλος καὶ Τριβαλός, Σῶλος καὶ Τριβαλός], non risultano dall’apparato di Rabe e, in ogni caso, se possono giustificare una corruzione per il primo nome, non spiegano il passaggio da Euribato a Triballo). Se si accetta l’ipotesi di Meineke di correggere entrambe le menzioni di Sillo e Triballo in Oro ed Euribato, ne consegue che lo scolio cita senz’altro Cratino solo per la definizione ἐπίορκοι καὶ ἀργοί, perché viene meno ogni differente specificità onomastica; ma anche se si mantiene la lettura Sillo e

Ἀρχίλοχοι (fr. 13)

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Triballo, secondo Luppe 1963, p. 15 la menzione di Cratino si riferisce solo alla pericope ἐπίορκοι καὶ ἀργοί e non ha, quindi, nulla a che fare con i due nomi. Secondo la tradizione mitologica, i Cercopi sono due fratelli, i cui nomi cambiano nelle diverse fonti, strettamente connessi con la saga di Eracle. La loro madre li aveva avvisati di guardarsi da un tale Melampygos ([uomo] dalle natiche nere); intenti nelle loro scorrerie, un giorno tentano di rubare le armi di Eracle mentre questi dormiva. Vengono però sorpresi, catturati e legati a testa in giù ad un palo che Eracle si mette sulle spalle; in questa posizione i due fratelli vedono il sedere peloso (nero) dell’eroe, ricordano la profezia della madre e cominciano a schernire e deridere Eracle proprio per questa sua caratteristica. Sulla storia dei Cercopi v. Sud. κ 1405 e µ 449 (= Phot. µ 229, Apost. 11.19); Tzetz. Chil. 5.74, Zen. vulg. V 10, Zen. Ath. II 85, (Ps.-)Nonn. narr. ad Greg. invect. 1,39 p. 140 (= Mythogr. 375); sui Cercopi in generale v. RE XI.1, s.6v. coll. 309–313 (Adler), Roscher II.1 coll. 1166–1173 (Seeliger), LIMC V.1 s.6v. 32–35, Bühler 1999, p. 4366s. (ad Zenob. II 85) e, anche in relazione alla loro presenza nella commedia, Seeliger cit. 11726s., Hunter 1983, p. 139 (Eubulo, Kerkōpes), Pirrotta 2009, pp. 205–209 (Plat. com. Xantai ē Kerkōpes). Per una possibile interpretazione della menzione dei Cercopi in Cratino, secondo Luppe 1963, p.  16 si potrebbe trattare di un’allusione al poema Kerkōpes attribuito ad Omero (v. Allen 1912, V p. 1596s.); ciò è senz’altro possibile, ma poiché i Cercopi sono tradizionalmente associati alla scelleratezza e alla malvagità (ad es. Diotimo SH 394, Sud. κ 1406, Zenob. I 5 e IV 50; RE XI,1, s.6v. in part. col. 310, Seeliger cit. 11726s.), è anche possibile che il riferimento in Cratino fosse funzionale ad additare qualche personaggio per cav ratteristiche analoghe a quelle dei Cercopi, cfr. Lex. Bekk. p. 271,13 Κέρκωψ· ὁ ἐπὶ πονηρίᾳ κωµῳδούµενος (v. inoltre Zen. IV 50, Diog. V 51 κερκωπίζειν· ἐπὶ τῶν πανούργων. ἀπὸ τινων ἀνδρῶν Κερκώπων λεγοµένων, ὡς προείρηται).

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Cratino

fr. 14 K.–A. (13 K.) Phot. σ 59 Σ α µ ι α κ ὸ ν τ ρ ό π ο ν· Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις εἰς ὑηνίαν ἐπισκώπτων †Μιννύωνα†· ὑσὶ γὰρ ἐµφερεῖς εἶχε τὰς πρόρας τὰ τῶν Σαµίων πλοῖα, ὡς Χοιρίλος ὁ Σάµιος (FGrHist h 696 F 34 ). M a n i e r a s a m i a: Cratino negli Archilochoi deridendo per la rozzezza †Minnyōna†. Infatti le navi dei Sami avevano le prore simili ai maiali, come dice Cherilo di Samo Schol. V Ar. Pac. 143a ~ Sud. ν 28 ναξιουργὴς κάνθαρος […] πλοῖα ἦν οὕτω λεγόµενα κάνθαροι ἐν Νάξῳ νήσῳ (νήσῳ om. Sud.) γινόµενα, ὡς νῦν σίλφας τινὰ λέγουσιν ἀκατίων εἴδη, ἀλλὰ καὶ †συνµικὸν τρόπος τρόπῶν† φησὶν ὁ (ἀλλὰ — ὁ om. Sud.) Κρατῖνος †συνµικὸν τρόπος τρόπῶν† codd.: Σαµιακόν τρόπον Kassel–Austin PCG IV, p. 129 kantharos fatto a Nasso […] i kantharoi erano un tipo di navi dell’isola di Nasso definite così […] come ora definiscono alcuni tipi di battello blatte (silphas), ma anche †…† dice Cratino

Metro(Trimetro giambico?

kkklku

Secondo Luppe 1963, p. 18 Σαµιακόν τρόπον “könnte der Schluß eines iambischen Trimeters (nach der Zäsur) sein” (〈xlk〉kk klkl); è possibile anche 〈x〉kkkl kk: con l’integrazione del solo primo anceps (ad es. è possibile l’articolo τόν) si può ottenere il primo metron e il secondo fino alla cesura mediana se si intende τρόπον come kl (sillaba chiusa e parola successiva iniziante per consonante)88. Ma la sequenza può essere ugualmente interpretata anche come trocaica (lklx) o anapestica (yt) o altro ancora (un metro lirico). Bibliografia(Runkel 1827, p. 76s. (fr. VII), Bergk 1838, p. 29 Meineke FCG II,1 (1839), p. 236s. (fr. XI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 96s., Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 11), Kock CAF I (1880), p. 16, Edmonds FAC I (1957) p. 266s. Luppe 1963,

88

In alternativa, si può suppore τρόπον = kk e, in questo caso si ha 〈x〉kkkl kk, ossia il primo metron, e l’inizio del secondo con kk per cui si hanno due interpretazioni: x = kk oppure x = k e la seconda breve rappresenta la prima sillaba del longum soluto. A livello teorico, esistono anche altre possibilità: 〈xlkk〉k kklkl 〈xlkl〉; 〈xlkk〉kk klkl 〈xlkl〉 (in queste due si considera τρόπον = kl, in sillaba chiusa e parola successiva iniziante per consonante); 〈xlkl xlkk〉k kklkk; 〈xlkl xlkk〉 kk klkk.

Ἀρχίλοχοι (fr. 14)

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p. 176s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 129, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011) p. 146s. Interpretazione(Il lemma Σαµιακὸν τρόπον di Fozio rappresenta con ogni probabilità gli ipsissima verba di Cratino, come può dimostrare: la sua morfologia in accusativo; il fatto che l’aggettivo Σαµιακός non sia altrimenti attestato e si possa quindi intendere come un presunto conio del comico in luogo dell’usuale Σάµιος; la possibilità di intendere metricamente la sequenza Σαµιακὸν τρόπον (v. supra). Secondo l’interpretamentum di Fozio stesso, Cratino impiegava l’espressione Σαµιακὸν τρόπον per additare un personaggio (per il cui nome v. infra) εἱς ὑηνίαν (rozzezza, cfr. LSJ  s.6v. ‘swinishness, swinish stupidity’; il vocabolo è di uso esclusivamente comico: Epich. fr. 148, 3s. K.–A., Ar. Pac. 928 con Olson 1998, p. 246, Pherecr. fr. 271 K.–A.89), ossia per il suo comportamento stupido e rozzo; le navi di Samo, anche dette Σάµαιναι, avevano una caratteristica forma che ricordava le fattezze suine (v. ancora Phot. σ 55, Hsch. σ 147, Plut. Per. 26,4 con Stadter 1989, p. 2506s., Bühler 1999, p. 5456s., a Zenob. II 98, Torr 1894, p. 65, Casson 1971, p. 63 e n. 104) e da qui, probabilmente, in senso translato la ‘maniera samia’ richiamava la forma delle navi e istituiva un paragone con il porco (sul maiale nell’immaginario antico v. Keller I, p. 4046s. [in gen. 388–405])90. L’espressione Σαµιακὸν τρόπον e il 89 90

Analogo a questo sostantivo è il verbo ὑηνέω in Plat. Theaet. 166c e l’aggettivo ὑηνός in Plat. Leg. 819 d. V. anche ὑοµουσία in Ar. Eq. 986. Non c’è motivo di rifiutare l’informazione presente nella glossa di Fozio; secondo Luppe 1963, p. 176s. la spiegazione del patriarca non riguarda Cratino, al quale è stata accostata per errore “durch Verderbnis des Textes oder bereits durch Photios selbst” e si riferisce solamente alla testimonianza di Cherilo; prova ne sarebbe Hsch. σ 147: Σαµιακὸς τρόπος· δύο δηλοῖ ἡ λέξις· ἓν µὲν τὸ ἐπὶ διαβολῇ τῶν Σαµίων θρυλλούµενων ὡς κατεαγότων· ἕτερον δέ, ὅτι αἱ λεγόµεναι Σάµαιναι ναῦς κατέστρωντο δι’ ὅλου. ∆ίδυµος δὲ (λέξ. κωµ. fr. 9 p. 35 Schm.) τὰς Σαµαίνας ἰδιαιτέραν παρὰ τὰς ἄλλας ναῦς τὴν κατασκευὴν ἔχειν· εὐρύτεραι µὲν γάρ εἰσι τὰς γαστέρας. τοὺς δὲ ἐµβόλους σεσίµωνται, ὡς δοκεῖν ῥύγχεσιν ὑῶν ὁµοίως κατεσκευάσθαι, οἷον ὑοπρώρους εἶναι. διὸ καὶ ἐπὶ ταύτης λέγεται· ναῦς δέ τις ὠκυπόρος Σαµία ὑὸς εἶδος ἔχουσα (Choeril. SH 322). La seconda spiegazione (da ἕτερον δέ, ὅτι fino alla fine della glossa) che comprende il richiamo alle Σάµαιναι e alla loro forma caratteristica è relativa a Cherilo; a Cratino, apparterrebbe, invece, la prima spiegazione: τὸ ἐπὶ διαβολῇ τῶν Σαµίων θρυλλούµενων ὡς κατεαγότων, che si può riferire alla mollezza talora attribuita ai Sami, v. ad es. Athen. XII 540e e Plut. CPG I 61, p. 330 Leutsch–Schneidewin (per κατεαγώς detto della mollezza v. LSJ s.6v. κατάγνυµι). Fozio avrebbe quindi sovrapposto le informazioni di Esichio e attribuito a Cratino un’informazione che invece era presente nel solo Cherilo; tuttavia la menzione in Esichio di Didimo come autorità per le Σάµαιναι

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Cratino

conseguente richiamo a Cratino dovevano essere presenti anche nel corrotto passo dello scolio alla Pace di Aristofane: dietro il testo dei codici †συνµικὸν τρόπος τρόπῶν†, Σαµιακόν τρόπον è stato proposto da Kassel–Austin PCG IV, p. 129 e appare molto probabile grazie al lemma di Fozio; se così è, la menzione di Cratino ricorreva qui all’interno della spiegazione dell’espressione ναξιουργὴς κάνθαρος e come ulteriore termine di confronto rispetto alle navi definite σίλφαι (blatte)91. Crux desperationis è il nome del kōmōdoumenos di Cratino †Μιννύωνα†. Edmonds FAC I, p. 26 indicava l’esistenza di un nome Μίννυων, ma questo nome non è in realtà attestato; si può, però, accettare l’ipotesi di Luppe 1963, p. 18 di leggere Μυννίων con uno scambio possibile di υ e ι in Fozio, dovuto ad itacismo. Un nome Μυννίων è attestato in Attica (PAA 661957–661975) ed è indicato come possibile nel passo di Fozio da Osborne e Byrne in LGPN II s.6v. n. 2 e in PAA 661955; il fatto che non si abbia alcuna informazione su questo Μυννίων non esclude una sua menzione in Cratino e restituire questo nome appare la via più semplice. Suggestiva è, però, la possibilità di leggere Μέµνονα proposta da Dobree Adversaria IV, p. 50: si tratta di un personaggio non meglio identificato, ma nominato in Phot. σ 845 σῦς· ὗς τοῦς Ἱπποκράτους υἱοὺς ἔλεγον καὶ τοὺς Παναιτίου καὶ Μέµνονος εἰς ὑηνίαν κωµῳδοῦντες (il Μέµνων qui menzionato è preso in giro per la la ὑηνία, lo stesso motivo al

91

e la loro caratteristica forma, quindi per la seconda spiegazione, lascia supporre che Didimo si riferisca ad un’occorrenza comica (a meno di non rifiutare la provenienza di questa informazione dalla sua λέξις κωµική); inoltre, se si rimuove il riferimento alle Σάµαιναι e si accetta quello di Esichio relativo alla mollezza non si capisce perché Fozio specifichi che Cratino additava †Μιννύωνα† εἱς ὑηνίαν (vocabolo comico, v. supra), a meno di non voler intendere anche εἱς ὑηνίαν come un’indebita inserzione di Fozio o della sua fonte. È quindi probabile che il richiamo alle Σάµαιναι e alla loro forma riguardi effettivamente il frammento di Cratino e spieghi l’impiego dell’espressione Σαµιακὸν τρόπον e la successiva citazione di Cherilo serva come conferma di questo uso; l’altra spiegazione di Esichio rimanda ad un uso per noi ignoto. La glossa di Sud. ν 28 presenta le stesse informazioni date dallo scolio ad Ar. Pac. 143, ma con alcune mancanze e fraintendimenti. Così lo scolio dopo la menzione di Cratino: καὶ ὅτι θαλασσοκρατοῦντές ποτε Νάξιοι ἐχρῶντο αὐτοῖς τοῖς κανθάροις ἐπὶ πλέον; in Sud. ν 28, invece, viene omessa la pericope ἀλλὰ — ὁ e subito dopo ἀκατίων εἴδη, il testo prosegue Κρατῖνος δὲ λέγει, ὅτι θαλασσοκρατοῦντές ποτε Νάξιοι ἐχρῶντο αὐτοῖς τοῖς κανθάροις. Dopo l’omissione della pericope relativa proprio a Cratino (v. supra), viene riferita l’informazione sui kantharoi utilizzati dagli abitanti di Nasso che viene attribuita proprio a Cratino, con il quale non aveva senz’altro a che fare (il comico, infatti, doveva essere verisimilmente richiamato per l’espressione Samiakon tropon).

Ἀρχίλοχοι (fr. 15)

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quale fa riferimento l’espressione Σαµιακὸν τρόπον in Phot. σ 59); questa ipotesi di Dobree è approvata da Nauck 1851, p. 413 e Koerte 1922, col. 1651,15, Meineke FCG II.1, p. 22 = FCG ed. min. I, p. 10. Non convincenti, invece, altri tentativi di correggere il nome e restituire così un personaggio noto: dello stesso Dobree (ibid.) Ἀµυνίαν (PA 732d, APF 737, LGPN II s.6v., PAA 124575), Ἀµύνονα (LGPN II s.6v., v. Ar. Eccl. 365); secondo Bergk 1838, p. 29 Μένωνα o Μένιππον (nomi entrambi frequenti in Attica, v. PAA6s.vv.); secondo Meineke FCG II.1, p. 22 = FCG ed. min. I, p. 10 (in alternativa a Μέµνονα, v. supra) Σίµωνα (PA 12686, LGPN II s.6v., PAA 822065); secondo Kock CAF I, p. 16 Σµικυθίωνα (PAA 826180 in Pherecr. fr. 37 K.–A. [Graēs], PAA 826200 in Ar. Vesp. 401).

fr. 15 K.–A. (1 Dem.) Hsch. α 2475 ἄ κ ο µ ψ ο ν · ἀπάνουργον, ἀπλοῦν. Ἀρχιλόχοις. a k o m p s o n : privo di malizia, semplice. Negli Archilochoi.

Metro(Ignoto (klu) Bibliografia(Reitzenstein 1907, p. xil, Demiańczuk 1912, p. 306s., Goossens 1940, pp. 157–159, Edmonds FAC I (1957), p. 266s., Luppe 1963, p. 166s., Kassel– Austin PCG IV (1983), p. 130, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 275 Contesto della citazione(Esichio lemmatizza l’aggettivo ἄκοµψον, ne propone due spiegazioni e ne testimonia l’utilizzo: Ἀρχιλόχοις. Tràdita è, in realtà, una lezione Ἀρχίλοχος; poiché però il lemma glossato, ἄκοµψον, non risulta attestato prima del V sec. a.6C. e anche dopo molto raramente, difficilmente si può giustificare la menzione del giambografo di Paro. La semplice correzione Ἀρχιλόχο〈ι〉ς e il conseguente riferimento a Cratino si deve a Schmidt 1858, p. 10192; non necessaria appare, invece, un’ulteriore integrazione del nome del

92

M. Schmidt nella sua edizione di Esichio (vol. I, Ienae 1858, p. 101) ad α 2475 mantiene a testo la lezione tràdita e nota in apparato “? Ἀρχιλόχοις.”; negli Addenda (vol. V., Ienae 1868, p. 9) specifica “Ἀρχιλόχοις (sc. Cratinus)”.

110

Cratino

comico 〈Κρατῖνος〉, sia perché il riferimento è ovvio sia perché rispetta l’usus di Esichio di citare talora solo il titolo della commedia93. Interpretazione(La glossa di Esichio attesta l’impiego in Cratino di ἄκοµψος; si tratta di un aggettivo raro, non attestato prima del V sec. a.6C. e qui solamente in Eur. Hipp. 986 e Eur. fr. 473,1 K. (v. infra; le altre attestazioni dell’aggettivo sono più tarde, v. LSJ s.6v.)94. Per quanto riguarda l’interpretamentum e, quindi, il valore dell’aggettivo in Cratino, è dubbio che entrambi gli aggettivi spieghi93

94

Che l’integrazione 〈Κρατῖνος〉 non sia necessaria è sostenuto da Kassel e Austin PCG IV, p. 130 che rimandano al caso analogo di Ar. fr. 121 K.–A. [Georgoi] dove è discussa ulteriore documentazione e si rimanda all’importante studio sulle citazioni anonime in Esichio di Latte 1968, pp. 672–679; per Cratino si segnala il caso del fr. 103 K.–A. da Hsch. β 1273 L. βρυτίνη. ἐν Μαλθακοῖς. D’altra parte si rileva che nel caso specifico di Cratin. fr. 15 K.–A. con la sola lettura Ἀρχιλόχο〈ι〉ς l’attribuzione è inequivoca, in quanto Cratino è l’unico commediografo di cui si conosca una commedia con tale titolo. Inoltre, come si vede dalle citazioni della nota precedente, in Schmidt non è proposta esplicitamente l’integrazione del nome del commediografo, la quale, invece, gli viene attribuita in Reitzenstein 1907, p. xil, Demiańczuk 1912, p. 30, Goossens 1940, p. 159 e in Kassel e Austin PCG IV, p. 130 (“qui [sc. Schmidt] et Cratini nomen premisit), non, più correttamente, in Latte ad Hsch. α 2475 (apparato) che riporta nel testo Ἀρχιλόχοις (già corretto) e nota in apparato che tale lettura e solo questa si deve a Schmidt: “Αρχιλοχος H: Schm.” e, subito dopo scrive “cf. Reitzenstein Lex. d. Ph. XIL; scl. Cratini”; né in Luppe 1963, p. 16: “Reitzenstein hat […] an Hand der Konjektur Schmidts Ἀρχιλόχο〈ι〉ς eine Redewendung des Kratinos gewonnen”. A Schmidt si attribuisce quindi più esattamente solo la lettura Ἀρχιλόχοις, mentre l’integrazione del nome 〈Κρατῖνος〉 risulta, invece, da Reitzenstein in avanti (e a questi si può attribuire ex silentio). Luppe 1963, p. 17 sembra prospettare che si debba attribuire a Cratino non l’utilizzo del lemma esichiano ἄκοµψον, ma quello dei due interpretamenta ἀπάνουργον e ἁπλοῦν, metricamente interpretabili come dattili o come anapesti (“das Versmaß des Fragments ist anapästisch oder daktylisch, falls die Worte so hintereinander standen”). In altre parole Esichio avrebbe posto come lemma ἄκοµψον e ne avrebbe fornito la spiegazione citando due aggettivi di Cratino. Tuttavia ciò appare confutato sia dalla rarità di ἄκοµψος per cui si poteva dare un’attestazione di V sec. a.6C., sia dalla possibile ricostruzione delle fonti di Esichio stesso (v. supra), sia, inoltre, dalla prassi lessicografica di attestare una parola, fornire il significato e dare menzione del suo utilizzo, v. ad es. Cratin. fr. 83 K.–A. da Hsch. α 6101 ἀπέφρησαν· ἀφῆκαν. Κρατῖνος Θρᾴσσαις, dove a Cratino apparteneva certo il più raro ἀπέφρησαν, non il più comune ἀφῆκαν. Cfr. anche Cratin. fr. 318 K.–A. (inc. fab.) tràdito da Hsch. η 577 ἠνδρωµένη· ἀνδρὸς πεπειραµένη· “ἡ παῖς γὰρ ἔµπαις ἐστίν, ὡς ἠνδρωµένη” ἀντὶ τοῦ συνελθοῦσα ἀνδρί; la citazione è adespota, ma grazie a Poll. III 14 παρὰ Κρατίνῳ ἔµπαις se ne deduce l’attribuzione ed è evidente che a Cratino apparteneva il lemma ἠνδρωµένη, non la spiegazione ἀνδρός πεπειραµένη.

Ἀρχίλοχοι (fr. 15)

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no ἄκοµψον; secondo Reitzenstein 1907, p. xil ci sono due distinte fonti della glossa di Esichio: 1) lemma e primo interpretamentum (ἀπάνουργον) risalgono ad un lessico atticista non identificato; 2) ἀπλοῦν risale a Phryn. praep. soph. p. 7,13 De Borries ἄκοµψον καὶ φαῦλον (= Eur. fr. 473, 1 K.)· οἷον κοµψίας καὶ πανουργίας ἀπηλλαγµένον καὶ ἀπλοῦν. κοµψὸν γὰρ τὸν πανοῦργον, οἷον κόπτοντά τινα καὶ ὀχληρόν, φαῦλον δὲ τὸν ἁπλοῦν. Qui ἄκοµψον è glossato da οἷον κοµψίας — ἀπηλλαγµένον e κοµψὸν — ὀχληρόν, mentre ἀπλοῦν è spiegato con φαῦλον; la stessa distinzione ricorre anche in altre fonti: v a) Phot. α 791 (prima parte) ἄκοµψον· ἀπάνουργον = Lex. Bekk. p. 213,27 b e Σ α 704, cfr. Sud. α 921 si ha ἄκοµψον· εὐτελὲς, ἀπάνουργον; b) Phot. α 791 (seconda parte) ἄκοµψον καὶ φαῦλον· οἷον κοµψείας καὶ πανουργίας ἀπηλλαγµένον. οὕτω Φρύνιχος = Phryn. praep. soph. p. 7, 22. b 13-16 e 25-30 e Σ α 751. Di conseguenza si intende ἄκοµψος = ἀπάνουργος (privo di malizia, semplice) e specificato da quanto riporta Frinico, in particolare οἷον κοµψίας καὶ πανουργίας ἀπηλλαγµένον, da cui si può dedurre un riferimento ad un comportamento schietto e non ambiguo, forse con nuance negativa secondo Barrett 1964 p. 348 ad Eur. Hipp. 986 (ma v. Plut. Quaest. Conv. 716b 1 οὐκ ἄφρονας οὐδ’ ἠλιθίους ἀλλ’ ἁπλοῦς ποιεῖ [i.e. ὁ οἷνος] καὶ ἀπανούργους); ἀπλοῦν (semplice), invece, che Frinico glossava con φαῦλος sembra indebitamente riferito a ἄκοµψος in Hsch. α 2475. Cfr. anche l’ambigua semantica di κοµψός, v. ad es. Dover 1993, p. 314 ad Ar. Ran. 967: “κοµψός can mean ‘attractive’ […] or ‘elegant’, but sometimes also ‘clever’, ‘subtle’ in a derogatory sense” e Napolitano 2013, p. 1416s. ad Eupol. fr. 172, 26s. K.–A. (Kolakes) con ulteriore bibliografia. Chi o cosa Cratino definisse ἄκοµψον non è possibile determinare: la forma in cui è tràdito il lemma in Esichio rende ugualmente possibile che si tratti di un accusativo maschile dedotto dal testo senza essere normalizzato, sia che si tratti di un neutro (lo stesso vale per i due interpretamenta ἀπάνουργον e ἀπλοῦν). L’aggettivo ricorre nel V sec. a.6C. solo in Cratino (secondo la glossa di Esichio) e in Euripide (v. supra); in particolare Eur. fr. 473 K. (il cui v. 1 è a monte della glossa di Frinico) φαῦλον, ἄκοµψον, τὰ µέγιστ’ ἀγαθόν,6/6πᾶσαν ἐν ἔργῳ περιτεµνόµενον6/6σοφίαν, λέσχης ἀτρίβωνα, è stato messo più volte in rapporto con Cratino. Come attesta Diog. Laert. III 63 (testimone di tutti e tre i versi), il frammento proviene dal Likymnios ed è riferito ad Eracle; non si può escludere l’ipotesi di Reitzenstein 1907, p. ixl (seguito da Demiańczuk 1930, p. 31) che quella di Cratino fosse una parodia di questo verso e di questa rappresentazione di Eracle (in questo caso, la tragedia euripidea precederebbe la rappresentazione degli Archilochoi, cfr. Kannicht 2004, p. 520), ma cfr. Luppe

112

Cratino

1963, p. 16 “ob das Fragment die Heraklescharakterisierung aus Euripides’ Likymnios […] parodiert, muss bei der Kürze des Kratinosfragments und dem fehlenden Zusammenhang dahingestellt bleiben” (e, per la datazione della tragedia di Euripide, non ci sono altre indicazioni oltre al presunto rapporto con il frammento cratineo). Poco probabile è, invece, l’ipotesi di Goossens 1940, pp.  157–159 che, data per certa la parodia di Euripide in Cratino, sosteneva che l’utilizzo di ἄκοµψος in Cratino nascondesse un elogio di Cimone: infatti Plut. Cim. 4,6 riferisce il primo verso del frammento euripideo a Cimone e questo si connetterebbe alla successiva citazione del fr. 1 K.–A. degli Archilochoi che lo stesso Plutarco riporta più avanti (cap. 10), ma cfr. Luppe 1963, p. 17 “dagegen spricht, dass Plutarch ausdrücklich eine derartige Übertragung durch Stesimbrotos erwähnt, aber von einer solchen bei Kratinos nicht verlauten ist”; oltre a ciò, come detto, la dipendenza tra i due testi non può essere dimostrata. L’unico dato reale che si deduce dalla glossa di Esichio è un’attestazione di ἄκοµψον in Cratino, ossia un’ulteriore attestazione di questo aggettivo, la terza nel V sec. a.6C. e anche l’unica in commedia.

fr. 16 K.–A. (14 K.) Harp. p. 160,5 Dind. (= Ι 10 Keaney) ἐλέγετο δὲ κυρίως ἰ θ ύ φ α λ λ ο ς τὸ ἐντεταµένον αἰδοῖον, ὡς Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις. E si diceva propriamente i t h y p h a l l o s il pene eretto, come Cratino negli Archilochoi.

Metro(Ignoto (lklu) Bibliografia(Runkel 1827, p. 9 (fr. XIII), Meineke FCG II.1 (1839), p. 24 (fr. XII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 10, Bothe PCGF (1855), p. 9 (fr. 12), Kock CAF I (1880), p. 16, Edmonds FAC I (1957), p. 266s., Luppe 1963, p. 18, Kassel – Austin PCG IV (1983), p. 130, Bakola 2010, p. 79 n. 208, Henderson 2011, p. 180, Storey FOC I (2011), p. 275 Contesto della citazione(La glossa di Arpocrazione si inserisce all’interno della spiegazione del sostantivo ἰθύφαλλοι in Hyp. fr. 50 J.: οἱ τοὺς ἰθυφάλλους ἐν τῇ ὀρχήστρᾳ ὀρχούµενοι. Dopo aver chiarito ed esemplificato che in questo caso si intendono i canti in onore del fallo (ποιήµατα τινα οὕτως ἐλέγετο τὰ ἐπὶ τῷ φαλλῷ ᾀδόµενα), Arpocrazione attesta che il significato proprio di ἰθύφαλλος è ‘fallo eretto’ e cita come autorità Cratino; dall’epitome ad

Ἀρχίλοχοι (fr. 16)

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Arpocrazione derivano Phot. ι 84 ~ Et. gen. AB = Et. magn. p. 470,5, nelle quali le informazioni fornite sono analoghe, ma manca il riferimento al comico (è omessa l’intera pericope ὡς Κρατῖνος ἐν Ἀρχιλόχοις). Interpretazione(Il sostantivo ἰθύφαλλος non è mai attestato prima del IV sec. a.6C., è in generale raro e vale usualmente canto o festa in onore di alcune divinità che implica un legame con il fallo, v. oltre alle fonti cit. supra, Phot. ι 83 ἰθύφαλλοι· οἱ †ἐπίορκοι† καὶ ἀκολουθοῦντες τῷ φαλλῷ γυναικείαν στολὴν ἔχοντες· λέγεται δὲ φαλλὸς ὁτὲ µὲν καὶ τὸ αἰδοῖον· καὶ ποιήµατα δὲ καλεῖσθαι. ἃ ἐπὶ τῷ ἱσταµένῳ φαλλῷ ᾅδεται (cfr. Hsch. ι 424, Sud. ι 250; Hsch. ε 802, Phot. ε 188). Dalla glossa di Arpocrazione discende, quindi, 1) che quella di Cratino è l’unica attestazione di ἰθύφαλλος prima del V sec. a.6C. e 2) che nel comico ἰθύφαλλος era usato nel senso proprio di ‘fallo eretto’. Per questo significato, v. ancora Hsch. ε 802 (da Ael. Dion. ε 12 Erbse)95 εἰθύφαλλον· τὸ ἐντεταµένον αἰδοῖον. Secondo Luppe 1963, p.18 “wahrscheinlich handelt es sich um den Phallos, der zur Prozession zu Ehren des Dionysos gehört”, cfr. Et. magn. p. 470, 9–11 ἐν τῇ ἑορτῇ τοῦ ∆ιονύσου φαλλοὺς δερµατίνους σχηµατιζοµένους εἰς αἰδοῖα ἀνδρεῖα περιετίθεσαν οἱ Ἕλληνες ἑαυτοῖς e Herter in RE XIX.2 (1938), 1682; in questo senso in commedia ricorrono i sostantivi φαλλός in Hdt. II 48.49, Ar. Ach. 243 (v. Olson 2002, p. 142) e Φαλῆς (Ar. Lys. 771, adesp. com. fr. 154 K.–A.; inoltre Ar. Ach. 263 e Soph. fr. 314,151 [Ichneutai, dramma satiresco]. Non è escluso che il riferimento di Cratino possa essere al fallo di cuoio caratteristico del costume degli attori comici (cfr. Stone 1977, pp. 78–135); sulla base della testimonianza di Arpocrazione (ἰθύφαλλος usato in Cratino nel senso proprio, κυρίως, di ‘fallo eretto’) il riferimento sembra essere all’organo genitale di qualche personaggio, in una battuta o in un contesto osceni.

95

Ael. Dion. ε 12 attesta una scrittura iniziale εἰθ-: Αἴλιος δὲ ∆ιονύσιος καὶ τοῦ ἰθύφαλλος τὴν ἀρχὴν διὰ διφθόγγου γράφει· ὅ δηλοῖ, φησίν, αἰδοῖον ἐντεταµένον, καὶ ᾆσµα ∆ιονυσιακὸν Ἀθήνῃσι, καὶ ἐταιρικὸν [δέ], τουτέστι φίλον ταῖς ἐταιρίσιν, αἳ καὶ ἀνασεισίφαλλοι φερωνύµως λέγονται ἐν τῇ κωµῳδίᾳ ὡς ἀνασείουσαι [φησὶ] τὸν φάλητα. Cfr. Paus. ε 13 Erbse. Nelle poche testimonianze che abbiamo di questo sostantivo si ha sempre una scrittura ἰθ-, il che non conferma, ma neanche smentisce l’informazione dei due atticisti.

Βουκόλοι (Boukoloi) (‘Bovari’)

Datazione(Ignota Bibliografia(Runkel 1827, p. 96s., Bergk 1838, pp. 30–34, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 26–30, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 106s., Bothe PCGF (1855), p. 10, Kock CAF I (1880), pp. 16–18, Pieters 1946, p. 1466s., Edmonds FAC I (1957), pp. 26–29, Kassel–Austin PCG IV (1983), pp. 130–133, Quaglia 1998, p. 296s., Delneri 2006, pp. 43–67, Bakola 2010, pp. 42–9, 57–9 e passim, Henderson 2011, p. 181, Storey FOC I (2011), pp. 274–277, Zimmermann 2011, p. 722 Titolo(Il plurale indica, come nella maggioranza dei casi dell’ἀρχαία, i componenti del coro. Due le possibili interpretazioni proposte del significato di Boukoloi ‘bovari’: 1) secondo Crusius 1889, p. 35 si tratta degli adepti di Sabazio, una divinità straniera di origine Frigia, sulla base di Ar. Vesp. 10 τὸν αὐτὸν ἄρ᾽ ἐµοὶ βουκολεῖς Σαβάζιον; secondo lo scolio ad loc. βουκολέω (pascolare) vale ‘onorare’ (e, quindi, boukoloi sarebbero coloro che onorano, ossia gli adepti) e Sabazio è il nome con cui i Traci96 chiamano Dioniso (per l’identificazione Dioniso/ Sabazio, v. Delneri 2006, p. 326s., in gen. su Sabazio pp. 17–38). In Luc. Salt. 79 all’interno di una βακχιχὴ ὄρχησις sono nominati τιτᾶνας καὶ κορύβαντας καὶ σατύρους καὶ βουκόλους e numerose altre testimonianze indicano i βουκόλοι come seguaci di culti dedicati a Dioniso, v. in part. Reitzenstein 1893, in part. pp. 204–212 e, da ultima, Delneri 2006, p. 436s. con bibl. (cfr. anche LSJ s.6v. βουκόλος). 2) Secondo Goossens 1937, p. 184 indica i cattivi condottieri del popolo ateniese; questa interpretazione si basa su Ar. Eccl. 81 εἴπερ τις ἄλλος βουκολεῖν τὸ δήµιον, dove il verbo di uso già epico, ma qui in senso letterale (pascolare), è utilizzato per indicare Lamia che potrà guidare il popolo se dotato della pelle di Argo, una battuta che conferisce al verbo un valore negativo, cfr. Vetta 1989, p. 151 e Delneri 2006, p. 44 e n. 14. D’altra parte βουκολέω può valere esplicitamente ‘ingannare’, cfr. Men. Sam. 530 e 596, com. adesp. 1007,35 K.–A. e LSJ s.6v. n. II (che registra anche il verso aristofaneo sotto questo significato). Il riferimento agli adepti del culto di Sabazio è stato di recente sostenuto di nuovo da Delneri 2006, p. 45 che, sulla scorta di Crusius 1889, p. 35, inserisce i Boukoloi nel novero delle commedie di Cratino dedicate alla critica dei culti stranieri (con Thraittai, Idaioi, Dēliades); ma nel caso dei Boukoloi la scarsezza 96

‘Traci’ è qui, secondo MacDowell 1971, p. 128 una confusione delle scoliaste per ‘Frigi’, che onoravano appunto il Sabazio di cui si parla.

Βουκόλοι

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di materiale a disposizione non permette di decidere con sicurezza in questo senso, nemmeno considerando gli indizi a sostegno addotti da Delneri (il ditirambo in onore di Dioniso nel fr. 20 K.–A.; il sostantivo ἀνεσία nel 22 K.–A.; il riferimento ad un’usanza barbara di lanciare frecce contro il cielo nel fr. 19 K.–A., cfr. p. 1306s.), troppo limitati e generici per essere chiamati in causa. Non vi è in sostanza nessun elemento decisivo per intendere con certezza il titolo in uno dei due significati proposti; e non si può nemmeno escludere che Βουκόλοι indicasse i ‘bovari’ in senso proprio, come componenti di un coro la cui funzione non ci è possibile spiegare. Contenuto(“De argumento non constat” (Kock CAF I, p. 16): i pochi frammenti superstiti ammettono solo considerazioni isolate. Il fr. 17 contiene una rampogna contro un arconte che non aveva concesso il coro a Sofocle, ma lo aveva dato, invece, all’oscuro Gnesippo, spregiato dalla persona loquens; un arconte è chiamato in causa anche nel corrotto fr. 20 per non aver concesso il coro a Cratino, il quale per questo gli rivolgeva contro un ditirambo, ma non c’è nessun argomento per l’identificazione dei due arconti. Nemmeno è certo sulla base dello stesso fr. 20 che la commedia si aprisse, anziché con un prologo, direttamente con il ditirambo (v. infra ad loc.). Solo ipotetico che il medesimo riferimento al mancatο ottenimento del coro debba leggersi nel fr. 18 dietro l’utilizzo del proverbio ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον; il fr. 19 contiene probabilmente il riferimento ad una pratica barbara, quella del lanciare frecce contro il cielo, forse un gesto empio; ciò non è indizio sufficiente per interpretare il titolo in riferimento ai seguaci di Dioniso (v. supra), così come non lo è l’isolato riferimento alla ἀνεσία, del tutto incontestualizzabile, del fr. 22. 2

Cronologia(Nessun indizio certo. Sulla base della testimonianza di IG II 3091,3 (test. ii K.–A., PCG IV, p. 130, cfr. Bianchi [FrC 3.1] ad loc.) si può pensare verisimilmente ad una rappresentazione alle Grandi Dionisie, mentre l’iscrizione non limita la cronologia al decennio 430–420 a.6C., perché è quasi certamente più tarda e si riferisce ad eventi passati. Se si accetta il riferimento del titolo agli adepti di Sabazio, si potrebbe indicare una datazione all’incirca all’inizio della guerra del Peloponneso, quando il culto cominciò a diffondersi ad Atene (E.R. Dodds, Maenadism in the Bacchae, «HThR» 33 (3), 1940, pp. 155–176, in part. 171–175). Nel fr. 17,2 si parla del figlio di Cleomaco, forse da identificare con Gnesippo; questi è menzionato anche in altre commedie ricordate da Athen. XIV 638 d-f (v. fr. 17 Contesto della citazione), ma la cronologia di nessuna di esse è nota, forse con l’unica eccezione delle Hōrai di Cratino, probabilmente 426–428 a.6C. (Geissler 1925, p. 306s.). Secondo Geissler 1925, p. 24 la commedia si data prima del 430 a.6C., perché a) da questo decennio in poi la notorietà di Sofocle avrebbe reso difficile rifiutargli il coro (fr. 17

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Cratino

K.–A.), un dato soggettivo; b) Gnesippo menzionato nel fr. 17 K.–A. si identifica con il Notippo di Telecl. fr. 17 K.–A. (Hēsiodoi), commedia questa sicuramente anteriore al 429 a.6C. per la menzione di Pericle (fr. 18 K.–A.; ma per questa identificazione non c’è alcun indizio e, inoltre, è probabile che gli Hēsiodoi, nonostante la menzione di Pericle, si datino all’arco di tempo 429–423 a.6C., v. Bagordo 2013, p. 117). Per le testimonianze i-ii K.–A., cfr. Bianchi (FrC 3.1) ad loc. (test. 7d [= ii], 7f [= i] K.–A.)

fr. 17 K.–A. (15 K.) ὃς οὐκ ἔδωκ᾽ αἰτοῦντι Σοφοκλέει χορόν, τῷ Κλεοµάχου δ᾽, ὃν οὐκ ἂν ἠξίουν ἐγὼ ἐµοὶ διδάσκειν οὐδ᾽ ἂν εἰς Ἀδώνια 1 Σοφοκλέει Meineke: Σοφοκλεῖ Αƒƒƒ2 Κλεοµάχου Dobree: Κλεοµάχῳ Αƒƒƒ Ἀδώνια Musurus: αδωνεια Α

Che non diede il coro a Sofocle che lo chiedeva, ma al figlio di Cleomaco, che io non avrei ritenuto degno di istruirmi un coro neppure alle Adonie Athen. XIV 638d-f ὁ δὲ τοὺς εἰς Χιωνίδην ἀναφεροµένους ποιήσας Πτωχοὺς Γνησίππου τινὸς µνηµονεύει παιγνιαγράφου τῆς ἱλαρᾶς µούσης, λέγων οὕτως (fr. 4 K.–A.) […] καὶ ὁ τοὺς Εἵλωτας δὲ πεποιηκώς φησιν (Eupol. fr. 148 K.–A.) […] Κρατῖνος ἐν Μαλθακοῖς (fr. 104 K.–A.) […] σκώπτει δ᾽ ἀυτὸν εἰς τὰ ποιήµατα καὶ ἐν Βουκόλοις· ὃς — Ἀδώνια Colui che compose gli Ptōchoi attribuiti a Chionide menziona un tale Gnesippo scrittore di poesiole di carattere allegro, dicendo così (fr. 4 K.–A.) […] e quello che ha scritto gli Heilōtes dice (Eupol. fr. 148 K.–A.) […] Cratino nei Malthakoi (fr. 104 K.–A.) […] e (Cratino) lo prende in giro per le sue composizioni anche nei Boukoloi: che — Adonie

Metro(Trimetri giambici

klkl llk|kk klkl lkkkl klkl klkl klkl l|lkl klkk

Bibliografia(Runkel 1827, p. 9 (fr. II), Bergk 1838, pp. 32–34, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 27–29 (fr. II), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 106s., Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. 2), Kock CAF I (1880), p. 17, Edmonds FAC I (1957), p. 286s.,

Βουκόλοι (fr. 17)

117

Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 131, Delneri 2006, pp. 47–53, Olson 2007, p. 155, 1766s., 438, Bakola 2010, p. 57, Henderson 2011, p. 181, Storey FOC I (2011), p. 2766s. Contesto della citazione(In XIV 638b Ateneo introduce un riferimento ad alcuni poeti che composero canti depravati (µοχθηρῶν ᾀσµάτων […] ποιηταί) e nomina Telenico di Bisanzio (non altrimenti noto) e Arga (Stephanis 1988, 292), di cui sono ricordate due menzioni in commedia: Alex. fr. 19 K.–A. (Apobatēs) e Anaxand. fr. 16 K.–A. (Hēraklēs). A seguire, si ricorda il richiamo negli Ptōchoi attribuiti a Chionide (simile dubbio di ascrizione subito dopo per gli Heilōtes; cfr. anche Athen. XI 502a = Pher. fr. 134 K.–A. [Persai]) a un tale Gnesippo ‘παιγνιαγράφου τῆς ἱλαρᾶς µούσης’97, kōmōdoumenos additato anche negli Heilōtes e nei Malthakoi di Cratino; dopo quest’ultima citazione, seguono il frammento dei Boukoloi e un altro di Cratino (276 K.–A., Hōrai) in cui non è presente il nome di Gnesippo, ma un patronimico (fr. 17 K.–A. τῷ Κλεοµάχου; fr. 276,2 ὁ Κλεοµάχου). Il modo in cui Ateneo introduce la prima citazione, (σκώπτει [scil. Κρατῖνος] δ᾽ ἀυτὸν εἰς τὰ ποιήµατα καὶ ἐν Βουκόλοις κτλ.) sembra indicare chiaramente che si tratti dello stesso personaggio, ossia che Ateneo identifichi Γνήσιππος come ὁ Κλεοµάχου, figlio di Cleomaco (“Cratinus refers to the ‘son of Cleomachus’ […] and Athenaeus or his source apparently had reason to believe that the individual in question was named Gnesippus”, Olson 2007, p. 177); dopo il frammento delle Hōrai Ateneo prosegue Τηλεκλείδης δὲ ἐν τοῖς Στερροῖς (fr. 36 K.–A.) καὶ περὶ µοιχείας ἀναστρέφεσθαί φησιν αὐτόν e il personaggio qui menzionato con il pronome αὐτόν è quasi sicuramente Gnesippo perché un riferimento alla µοιχεία è presente anche nel frammento degli Heilōtes, citato in precedenza, dove Gnesippo è nominato esplicitamente, cfr. Bagordo 2013, pp. 174–177 e v. infra τῷ Κλεοµάχου. Testo(Al v. 1 Σοφοκλέει di Meineke 1814, p. 70 per il tràdito Σοφοκλεῖ è necessario metri causa, cfr. il simile ametrico Σοφοκλῆς, di parte della tradizione manoscritta, per Σοφοκλέης in Ar. Av. 100 e v. Dunbar 1995, p. 100 per casi analoghi (tra cui si segnala il dativo tràdito Ἡρακλεῖ per Ἡρακλέει in Ar. Av. 567; per forme in –έης in commedia, v. Ar. Av. 1295 Φιλοκλέει e Cratin. fr. 73,2 K.–A. [Thraittai] Περικλέης con Kassel–Austin PCG IV, p. 160 e Delneri 2006, p. 1536s. con bibl.); Σοφοκλέης è la forma presente anche in Phryn. fr. 32 K.–A. (Mousai), cfr. Stama 2014, p. 201 s. Soggettiva l’ipotesi di Bothe PCGF, p. 10 di mantenere la forma tràdita e inserire subito prima l’arti97

Non è escluso che questa pericope del testo di Ateneo possa conservare parte di un originario dettato poetico, cfr. Bagordo 2014, p. 52 (Chionid. fr. 4 K.–A).

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Cratino

colo, τῷ Σοφοκλεῖ “nomine illustris Tragici in sede praecipua versus collocato” per il confronto con Α 11 (οὕνεκα τὸν Χρύσην ἡτίµασεν ἀρητῆρα), rispetto alla quale la correzione di Meineke appare senz’altro preferibile. Metri causa è anche Ἀδώνια di Musuro98 per αδωνεια di A al v. 3, impossibile per la lunga b in sede pari e imputabile a errore di itacismo, cfr. anche la testimonianza di Σ α 385 Ἀδώνια· βραχεῖαν ἔχει τὴν παραλήγουσαν, ὡς Ἀριστοφάνης (Pac. 420) καὶ Φερεκράτης (fr. 181 K.–A., inc. fab.) διὰ τῶν µέτρων µαρτυρεῖ. Al v. 2 τῷ Κλεοµάχου è correzione di Dobree 1820, p. 125 per τῷ Κλεοµάχῳ di A; se si accetta, infatti, il nome al dativo, si rifiuta l’identificazione Γνήσιππος = ὁ Κλεοµάχου, non sicura, ma probabile in Ateneo (v. Contesto della citazione e infra τῷ Κλεοµάχου). Non convincente l’ipotesi di Casaubon 1600, p. 572 in favore del testo tràdito: Ateneo parlerebbe prima di Gnesippo (fino alla terza citazione, Cratin. fr. 104 K.–A., Malthakoi), quindi di Cleomaco nelle altre due citazioni e nella pericope relativa a Teleclide, e il passaggio avverebbe in una presunta lacuna tra la citazione del fr. 104 K.–A. e la pericope σκώπτει δ᾽ αὐτὸν κτλ.: “deesse autem haec aut similia his verba, τῷ δὲ Γνήσιππος ὅµοιος τῷ καὶ Κλεόµαχος”; ma ciò obbliga a 1) postulare una lacuna non facilmente spiegabile e 2) correggere ὁ Κλεοµάχου tràdito univocamente in Cratin. fr. 276,2 K.–A. nel corrispondente nominativo. Al v. 3 è discusso il valore del dativo ἐµοὶ connesso a διδάσκειν ‘mettere in scena’, in senso tecnico (v. ad loc.), all’interno della pericope ὅν –διδάσκειν (v. 26s.) “che io non avrei ritenuto degno6/6… di mettere in scena”. L’ipotesi più probabile è di intendere ἐµοί come una forma di dativus commodi (v. Humbert 3 1960 , p. 287 § 477) rispetto alla persona loquens, con ogni probabilità un poeta, v. Interpretazione; questa esprime un giudizio negativo su Gnesippo e sostiene che non lo avrebbe ritenuto degno, se la decisione fosse stata sua (ossia, implicitamente, se egli fosse stato chi sceglieva), di istruire il coro per una sua opera neppure alle Adonie (la facoltà di disporre a chi affidare l’allestimento del dramma era infatti del poeta, v. Blume 1978, p. 38). Per questa ipotesi v. Schweighaeuser 1805, p. 491 “διδάσκειν τὸν ἐµὸν χορόν”, Bergk 1838, p. 34 “ἐµοὶ χοροδιδάσκαλον εἶναι”, Kassel–Austin PCG IV, p. 131 “potest poeta intellegi” (con il rinvio a Hoffmann 1951, p. 111), Delneri 2006, p. 51 “di istruire un coro per una mia opera”, Olson 2007, p. 177 “to serve as my διδάσκαλος, my trainer”. Altre possibilità sono: a) ‘me chorago’ con ἐµοί  = ἐµοῦ χορηγοῦντος, ‘essendo io il corego, con la mia coregia’, secondo Casaubon 1600, p. 573 e 98

La correzione di Musuro nell’editio princeps, aldina, di Ateneo (Athenaei Deipnosophistarum libri XV Graece, recensuit M. Musurus, Venetiis [apud Aldum et Andream socerum] 1514), ad loc.

Βουκόλοι (fr. 17)

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Kock CAF I, p. 17; b) ‘me archonte’, ‘essendo io l’arconte’, ‘se io fossi stato l’arconte’, secondo Fritzsche 1845, p. 57 e data come possibile da Hoffmann 1951, pp. 109–111 e Kassel–Austin PCG IV, p. 131. Per il particolare valore del dativo ἐµοί in entrambe v. Fritzsche 1845, p. 21 (ad Ar. Ran. 48 ἐπεβάτευον Κλεισθένει); l’ipotesi a) riprende l’interpretazione del v. 1 di Casaubon che ritiene soggetto sottinteso il corego e non l’arconte, fatto in sé poco probabile, v. Interpretazione, mentre più probabile appare l’ipotesi b) nonostante l’evidente pleonasmo tra ἐγώ di v. 2 e ἐµοί di v. 3 eventualmente interpretabile, però, con funzione enfatica (cfr. Delneri 2006, p. 51). Interpretazione(“An attack on an archon (doubtless named in the preceeding lines) who failed to favour Sophocles in the selection of poets for one of the city’s dramatic festivals” (Olson 2007, p. 176). Soggetto del relativo iniziale ὅς è senz’altro l’arconte, come mostra la coppia verbale αἰτέω/δίδωµι che con valore tecnico indica la richiesta del coro da parte del drammaturgo e la sua successiva concessione o meno da parte dell’arconte99; questi era stato nominato in precedenza con il nome proprio, con la menzione della sua carica o con entrambi. L’agone tragico al quale si fa implicito riferimento per la concessione del coro è molto probabilmente quello delle Grandi Dionisie e, di conseguenza, ad essere additato è l’arconte eponimo; ma poiché rappresentazioni tragiche erano presenti sebbene con importanza minore anche alle Lenee 2 (Pickard-Cambridge 1968 , pp. 40–42, 1086s.) non si può escludere che questa sia la festa implicata e che, di conseguenza, si tratti dell’arconte re. L’arconte qui chiamato in causa è preso di mira per non aver concesso il coro a Sofocle, il grande tragico, e averlo concesso, invece, al ‘figlio di Cleomaco’ (v. ad loc.). La persona loquens del frammento sostiene che, se la decisione fosse stata sua, non avrebbe ritenuto degno questi di istruire il coro per una sua opera (ἐµοὶ διδάσκειν) neppure alle Adonie, le feste in onore di Adone; le fonti in nostro possesso su questa festa non attestano alcuna forma di rappresentazione teatrale nel corso del loro svolgimento, ma ne indicano, al contrario, il carattere lascivo e poco decente e, quindi, il ‘figlio di Cleomaco’ a) non è ritenuto degno di διδάσκειν neppure in una festa in cui non erano previsti spettacoli teatrali e b) i suoi componimenti sono “better suited for crude, lascivious occasions of that sort – and perhaps not even for them” (Olson 2007, p. 177), cfr. Bergk 1838, p. 33 (“qui ne in Adonidis quidem solemnitatibus admit-

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Il valore tecnico di αἰτέω/δίδωµι esclude l’ipotesi di Casaubon 1600, p. 573, secondo cui ὅς si riferisce ad un ricco “qui, Athenis choragus cum esset, et instruendum chorum haberet […] cum Cleomacho ignobili et inepto poeta pacisci maluerat” e δοῦναι χορόν vale “alicuius poetae opera uti in choro instruendo et docenda fabula”.

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tendus sit, satis aperte significat carmina eius fuisse parum decentia”) e Meineke FCG II.1, p. 29 (“Cleomachi autem filio, lyricorum poeta futilissimo, quem ne Adonis quidem, contemptissimo festo, chorodidascalum mihi esse velim”)100. Si rileva, però, che del ‘figlio di Cleomaco’ non si ha alcun frammento e che il giudizio denigratorio che ne dà Cratino non può essere verificato, cfr. Olson 2007, p. 177: “no fragments attributed to anyone known to have been the son of Cleomachus (or to have been named Gnesippus), have been preserved, and it is impossibile to say how fair the attack mounted here; perhaps Sophocles offered weak material and was quite appropriately refused a chorus”. Anche se non dimostrabile, è infine tuttavia possibile l’ipotesi di Delneri 2006, p. 526s. secondo cui gli strali contro “chi [Gnesippo] era accusato di essere un mollis e di comporre […] canti così lascivi da non meritare attenzione neppure nell’ambito di una festa considerata tanto indecente come quella in onore di Adone, sembra costituire una forte presa di posizione contro certe moderne ‘manie’ poetico-musicali e non, a cui qualcuno aveva l’ardire di riservare un riconoscimento pubblico” (con rinvio a Prauscello 2006, p. 626s.). Non dimostrabile che l’arconte qui chiamato in causa sia lo stesso di cui si parla nel corrotto fr. 20 K.–A., v. ad loc. ὃς οὐκ ἔδωκ᾽(Analoga costruzione ὅς + negazione + aoristo ad inizio di trimetro giambico in Ar. Plut. 85 ὃς οὐκ ἐλούσατ’, cfr. anche Men. fr. 88 K.–A. (Daktylios) ὅς οὐκ ἂν ἐκδοίη. ἔδωκ᾽ αἰτοῦντι χορόν(I due verbi sono impiegati con valore tecnico, 2 v. Pickard-Cambridge 1968 , p. 84: a) διδόναι indica la concessione del coro da parte dell’arconte: Ar. fr. 590, 27–29 K.–A. (inc. fab.) χορὸν6/6δι]δόντας τὸν ἐπὶ Ληναί-/ῳ e Aristot. Poet. 1449b 5 χορὸν κωµῳδῶν ὀψέ ποτε ὁ ἄρχων ἔδωκεν, cfr. Plat. Rp. II 383c, Leg. 817d; b) αἰτέω indica la richiesta che il poeta faceva all’arconte per il coro, v. Ar. Eq. 513 καὶ βασανίζειν πῶς οὐχὶ πάλαι χορὸν αἰτοίη καθ’ ἑαυτόν. Si aggiunge ἔχειν o λαβεῖν χορόν che indicano l’ottenimento del coro, v. Ar. Pac. 802, 808 e Ran. 94. Σοφοκλέει(Per la presenza di Sofocle in commedia, generalmente positiva, v. Olson 2007, p. 176 e Stama 2014, pp. 192–196.

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Per il richiamo alle Adonie v. inoltre Hordern 2003, p. 612 “such public spectacle [le Adonie] may well have suggested to Cratinus a comparison with the theatre, especially since the festivities involved dancing”; non condivisibile, invece, l’ipotesi di Simms 1985, p. 211 che cerca di immaginare quale potesse essere il ruolo concreto di un coro alle Adonie e pensa alla funzione di cantare il lamento funebre di Adone.

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τῷ Κλεοµάχου(Cfr. Cratin. Hōrai fr. 276, 16s. τραγῳδίας6/6ὁ Κλεοµάχου διδάσκαλος κτλ., anche qui additato come un poeta tragico depravato101. Come tragediografo è identificato in TrGF I 27 T 1 Snell, Sommerstein 1996, p. 348, Wilson 2000, p. 334 n. 57, Storey 2003, 1786s., Prauscello 2006, p. 62, Bakola 2010, p. 57 e n. 134 e a ciò rimanda anche l’impiego lessicale di διδάσκειν/ διδάσκαλος (v. a διδάσκειν); non ad un poeta tragico, ma ad un διδάσκαλος, pensano Hoffmann 1951, p. 108 e Kassel–Austin PCG IV, p. 131 (che citano a sostegno Dem. Mid. [21] 58 Σαννίων ἐστὶ δήπου ὁ τοὺς τραγικοὺς χοροὺς διδάσκων), ma “anche se qui [sc. in Cratin. fr. 18 K.–A.] si ipotizza che il suo ufficio fosse quello di διδάσκειν, ovviamente nulla vieta di pensare che fosse anche autore dei testi di cui curava l’allestimento” (Delneri 2006, p. 50). Sulla base della testimonianza di Ateneo si può verisimilmente identificare il figlio di Cleomaco, tragediografo attaccato da Cratino, con Gnesippo, kōmōdoumenos in altri passi comici (v. Contesto della citazione), cfr. Bergk 1838, p.  33, Wilamowitz 1870, 256s., Conti Bizzarro 1999, 856s., Olson 2007, p. 177, Olson Athenaeus VII p. 232 n. 228 (due distinti personaggi sono, invece, ipotizzati da Maas 1912, col. 14796s., Hoffmann 1951, pp. 107–113, Luppe 1963, p. 716s. e 1969a, p. 217, Davidson 2000, p. 49 e Henderson 2001). Gnesippo è un nome raro (LGPN II s.6v., tre soli esempi, di cui due si riferiscono al personaggio di cui parla Ateneo; PAA 279680 “musician (kithara player) & author of lascivious songs” e 279690 “didaskalos tragic?”, Stephanis nr. 556), le uniche informazioni che abbiamo su questo personaggio sono quelle che si deducono dai passi comici citati da Ateneo e nulla è conservato della sua produzione tragica (del tutto ignota) né di quella lirica. La definizione di Ateneo παιγνιαγράφος τῆς ἱλαρᾶς µούσης (‘writer of playful poetry’ LSJ s.6v.) è stata interpretata da Davidson 2000 nel senso di “writer of paignia […] a recognisable literary and social phenomen from the classical period onwards” (p. 42), ipotesi fondata su alcune, discusse testimonianze (Suet. Aug. 99; Plut. quaest. conv. 712a–f, Ael. nat. anim. 15,19, Euphr. fr. 1,35 [Adelphoi] K.–A. ἐκεῖνο δρᾶµα, τοῦτο δ’

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Il nome del padre, Cleomaco, è relativamente frequente in Attica, LGPN II s.6v. 1–13 (n. 9 come padre di Gnesippo), PAA 576940–577000 (576963 come padre di Gnesippo). Delneri 2006, p. 496s. e p. 58 ricorda che Strab. XIV 1.41 cita un Cleomaco pugile (ἀπεµιµήσατο τὴν ἀγωγὴν τῶν παρὰ τοῖς κιναίδοις διαλέκτων καὶ τῆς ἠθοποιίας) e richiama Meineke FCG II.1, p. 30 per il fatto che l’identificazione di questo Cleomaco con quello menzionato in Cratino è dubbia (p. 50 n. 16); più avanti (p. 58), però, avanza l’ipotesi che il Cleomaco pugile di Strabone potesse forse essere il padre di Gnesippo e che ciò avesse forse in qualche modo a che fare con l’immagine del fr. 19 (v. infra ad loc.). Un Cleomene, probabilmente poeta lirico, è citato assieme a Gnesippo in Chion. fr. 4 K.–A. (Ptōchoi), v. Bagordo 2014, p. 556s.

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ἐστὶ παίγνιον); contra Prauscello 2006 e Miles 2009, p. 26 riconoscono, correttamente, la genericità della definizione di Ateneo (v. Olson 2011, p. 233 ‘who wrote witty little pieces of humorous poetry’), che non si può intendere come un termine tecnico per uno specifico genere letterario. Gli strumenti a nove corde citati nel frammento di Chionide (4 K.–A.) connettono Gnesippo con il nuovo ditirambo e il suo carattere esotico ed erotico (West 1992, pp. 356–372 e, da ultimo, Power 2007, pp. 195–197), mentre nel fr. 148 K.–A. di Eupoli l’opposizione ai grandi lirici Stesicoro, Alcmane e Simonide (su cui v. Kugelmeier 1996, p. 77 n. 131 e Cameron 1995, p. 72 n. 6) stigmatizza le sue composizioni “canti notturni escogitati per richiamare le donne, paragonabili agli ἀκόλαστ᾽ ᾄσµατα che il probulo proibisce loro in Ar. Lys. 398” (Delneri 2006, p. 486s., secondo la quale la menzione di strumenti musicali quali la ἰαµβύκη e il τρίγωνον e l’utilizzo dell’aggettivo νυκτερινός possono suggerire nel frammento di Eupoli un contesto misterico, assimilabile alla menzione delle Adonie in Cratino, v. infra). Su Gnesippo v. in part. Davidson 2000, Cummings 2001, Hordern 2003, p. 612 e Bagordo 2013, pp. 174–177 a Telecl. fr. 36 K.–A. (Sterroi) e 2014, p. 546s. a Chion. fr. 4 K.–A. (Ptōchoi). οὐκ ἂν ἠξίουν … οὐδ᾽ ἂν(La ripetizione di ἄν è caratteristica del parlato, presente nella lingua di tragedia e commedia, e superflua dal punto di vista del senso perché non incide sul significato generale della frase in cui ricorre, v. Slings 1992, pp. 102–104, Olson 2007, p. 177. διδάσκειν(Genericamente ‘istruire’ (qualcuno) o ‘insegnare’ (qualcosa), v. LSJ s.6v. I “instruct a person, or teach a thing), “o comunicando una conoscenza (sia pratica che teorica) attraverso la ripetizione di atti e/o di nozioni che mirano a farla assimilare in modo graduale e, proprio per questo, più profondo, oppure portando all’acquisto di una determinata abilità” (Stama 2014, p. 63). Qui propriamente ‘istruire un coro’, ‘essere διδάσκαλος di un coro’, riferito a τῷ Κλεοµάχου (v. Testo), ma in genere detto del poeta stesso, “wheter he trained the chorus himself or not” (Olson 2007, p. 177), cfr. Ar. Ach. 628 ἐξ οὗ γε χοροῖσιν ἐφέστηκεν τρυγικοῖς ὁ διδάσκαλος ἡµῶν, Pac. 638 ἄξιος εἶναί φησ’ εὐλογίας µεγάλης ὁ διδάσκαλος ἡµῶν. In senso tecnico per la rappresentazione scenica di un ditirambo o di un’opera teatrale almeno da Hdt. I 23 (Arione) διθύραµβον πρῶτον ἀνθρώπων τῶν ἡµεῖς ἴδµεν ποιήσαντά τε καὶ ὀνοµάσαντα καὶ διδάξαντα ἐν Κορίνθῳ e VI 21 ποιήσαντι Φρυνίχῳ δρᾶµα Μιλήτου ἅλωσιν καὶ διδάξαντι ἐς δάκρυά τε ἔπεσε τὸ θέητρον καὶ ἐζηµίωσάν µιν; in commedia, v. Ar. Ran. 1026 εἶτα διδάξας Πέρσας µετὰ τοῦτ’ ἐπιθυµεῖν ἐξεδίδαξα (Eschilo parla della rappresentazione dei suoi Persiani), ibid. 1054 µὴ παράγειν µηδὲ διδάσκειν. V. ancora Plat. Prot. 327d Φερεκράτης ὁ ποιητὴς ἐδίδαξεν ἐπὶ Ληναίῳ e AP VI 213,3 (ascritto a Simonide) διδαξάµε-

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νος χορὸν. Cfr. per questo significato Schwyzer–Debrunner 1950, II, p. 82 e 2 Pickard-Cambridge 1968 , p. 55 e 71. εἰς Ἀδώνια(Le Adonie erano feste che si svolgevano ad Atene in onore di Adone, nelle quali non vi è notizia di alcuna rappresentazione teatrale, ma il cui carattere lascivo poteva essere appropriato per la poesia del ‘figlio di Cleomaco’, v. Interpretazione. Adone è in origine una divinità semitica, il cui arrivo in Grecia avviene probabilmente per il tramite di Cipro e Citera; Apollod. III 14.4 attesta due genealogie di Adone: una, attribuita ad Esiodo (fr. 139 M.–W., la testimonianza più antica su Adone; le prime menzioni letterarie a noi note sono Sapph. frr. 140 e 168 V.), da Fenice e Alfesibea, l’altra, attribuita a Paniassi (fr. 27 Bernabè), dall’unione incestuosa di Teia e Smirna, in cui quest’ultima venne trasformata dagli dei nell’albero della mirra che dopo nove mesi si aprì e diede alla luce Adone. Afrodite si innamorò di Adone neonato e lo affidò a Persefone; questa se ne innamorò a sua volta e non volle restituire il bambino; per decisione di Zeus, una volta cresciuto, Adone doveva passare un terzo dell’anno con Afrodite, un terzo con Persefone e un terzo per proprio conto, ma il giovane decise di spendere con Afrodite anche il proprio terzo, fino alla morte avvenuta a causa di un cinghiale durante una battuta di caccia (secondo alcune fonti mandato da Ares per gelosia, secondo altre Ares stesso trasformatosi). Per il mito di Adone (e le sue diverse varianti), v. da ultimo Reinhardt 2011, p. 76 n. 338 (con bibl.) e 2012, p. 470 n. 2109 (con bibl.), in generale Atallah 1966. In onore di Adone è testimoniato dal V sec. a.6C. un culto ad Atene (Paus. II 20.6, Plut. Nic. 13, Alc. 18) di cui sono attestate anche menzioni in commedia: Ar. Pac. 420 (con Olson 1998 p. 1616s.), Lys. 389–396 (con Henderson 1987, p. 119), Pher. frr. 181 e 213 K.–A. (inc. fab.), Diphil. fr. 42, 396s. K.–A. (Zōgraphos), cfr. anche fr. 49 K.–A. (Thēsauros), Men. Sam. 39–46 (con Gomme–Sandbach 1973, p. 5496s.); su questo culto v. Atallah 1966, pp. 177–192 e 98–104 (per i passi co2 mici), Deubner 1966 , pp. 220–222, , Furley 1988. Il nucleo della festa consisteva nel piantare in alcuni vasi semi di vario tipo che germogliavano velocemente e che poi morivano relativamente presto, come Adone; vasi e contenitori vari per questo scopo erano definiti Ἀδώνιδος κῆποι, v. Plat. Phaedr. 276b, Theophr. Hist. Plant. VI 7.3, Theocr. XV 111–113 con Gow 1952, p. 295. Questi stessi recipienti erano portati sui tetti delle case, dove la festa si svolgeva (Ar. Lys. 389) e prevedeva danzare, bere e ricordare la morte di Adone ripetendo il lamento rituale (Ar. Lys. 393 αἰαῖ Ἄδωνιν, ibid. 396 κόπτεσθ᾽ Ἄδωνιν) per tutta la notte (Men. Sam. 436s.) e poi, infine, gettare i recipienti in sorgenti o nel mare (Zenob. I 49, Eust. in Od. λ 590, p. 1701, 46–50). Le Adonie sembrano essere essenzialmente feste femminili a cui partecipavano anche le etere e, per questo, considerate in parte scabrose, v. Diphil. frr. 42 e 49 (v. supra), Alciphr.

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IV 14,8, Versnel 1990, p. 103 n. 26; ma lo stesso Diph. fr. 42, 38–40 e Men. Sam. 42–9 sembrano alludere anche ad una presenza maschile. Ignota la data di svolgimento della festa e anche l’identificazione della stagione è oggetto di discussione: è stata collocata ora in autunno, ora in primavera, ora in estate; queste ultime due appaiono le più probabili dall’analisi delle differenti fonti, al punto da aver indotto alcuni a postulare una doppia celebrazione, taciuta, però, dalle fonti stesse, v. in part. le discussioni di Nock 1934, pp. 290–292 e Atallah 1966, p. 229–258 e cfr. Gomme-Sandbach 1973, p. 549 (ad Men. Sam. 549).

fr. 18 K.–A. (16 K.) ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον. ἐν ἐµοὶ δὴ δοκεῖ πρώτῳ ποιεῖσθαι πεῖραν πρώτῳ Bekker: πρῶτα cod.ƒƒƒποιεῖσθαι πεῖραν Cobet: πειρᾶσθαι cod.

In un Cario il pericolo. Ma sembra che in me per primo sia fatta la prova 1

2

Schol. (T) Plat. Lach. 187b (p. 117 Gr. = 11, p. 1766s. Cufalo) = Schol. (T) Plat. Euthyd. 285c (p. 122 Gr. = 15, p. 1886s. Cufalo) 2 παροιµία (ἐν Καρὶ ὁ κίνδυνος add. schol.) ἐπὶ τῶν ἀσφαλέστερον (ἐπισφαλέστερον 1 2 schol.) καὶ ἐν ἀλλοτρίοις (om. schol.) κινδυνευόντων· Κᾶρες γὰρ δοκοῦσι πρῶτοι µισθοφορῆσαι, ὅθεν καὶ εἰς πόλεµον αὐτοὺς προέταττον […] µέµνηται δὲ αὐτῆς […] καὶ Κρατῖνος ἐν Βουκόλοις· ἐν Καρὶ — κίνδυνον Proverbio per coloro che corrono un rischio con molta sicurezza e tramite altri. I Cari infatti sembra che siano stati i primi a fare i mercenari, per la qual cosa anche in guerra li schieravano in prima fila […] E si ricorda del proverbio […] e Cratino nei Boukoloi: in un Cario—prova

Metro(Trimetri giambici

llkl llk|kk llkl llkl l|lk

Al v. 2 per la prosodia di ποῐεῖσθαι, cfr. i casi analoghi di consonantizzazione di ι sempre in ποιέω ad es. in Ar. Vesp. 263, 1130, Lys. 1006, Eccl. 563. Sul fenomeno v. Radermacher 1929, Threatte 1980, vol. I p. 413, Kapsomenos 1990, Willi 2003 pp. 2366s. Bibliografia(Runkel 1827, p. 10 (fr. IV), Meineke FCG II.1 (1839), p. 3 (fr. IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. 4), van

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Herwerden 1855, p. 36s., Cobet 1878, p. 291, Kock CAF I (1880), p. 17, Edmonds FAC I (1957), p. 156s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 132, Kassel–Austin PCG III.2 (1984), p. 443, Delneri 2006, pp. 54–56, Storey FOC I (2011), p. 2766s. Contesto della citazione(Il frammento di Cratino è tràdito senza alcuna variante nei due scoli a Platone, il cui testo è analogo salvo minime differenze che non ne inficiano il significato; ignote le fonti, ma nel caso del Lachete è possibile che lo scolio latore del frammento di Cratino sia una versione ampliata con altre fonti dello scolio vetus al medesimo passo, risalente probabilmente a Σ e Zenobio, v. Cufalo 2007, p. 1766s. (apparato: “11 sch. vetus (n. 10) ditasse videtur aliis fontibus usus”) e le fonti qui elencate. Dopo la pericope Κάρες – προέττατον, i due scoli spiegano ancora: ἐντεῦθεν γὰρ καὶ τοὺς µικροὺς στρατιώτας τινὲς Καρίωνας προσηγόρευον· καὶ τὸ πὰρ᾽ Ὁµήρῳ δὲ ‘ἐν Καρὸς αἴσῃ’ (Ι 378) ἐν τῷ τυχόντι τινὲς ἀκούουσιν; di seguito si hanno citazioni esemplificative dell’utilizzo del proverbio, Archiloco, Eforo, Filemone, Euripide (v. infra a ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον), cui segue la citazione dei Boukoloi di 1 Cratino e, quindi, la specificazione καὶ Πλάτων ἐνταῦθα ( schol.), καὶ Πλάτων 2 ὁ φιλόσοφος Λάχητι ( schol.) Testo(Al v. 1 Bothe PCGF, p. 10 distingueva due interlocutori: (A) ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον. (Β) ἐν ἐµοὶ δ᾽, εἰ δοκεῖ (per δ᾽, εἰ δοκεῖ in luogo di δὴ δοκεῖ il confronto era con Ar. Nub. 11 ἀλλ᾽ εἰ δοκεῖ ῥέγκωµεν ἐγκεκαλυµµένοι, ma v. infra ἐν ἐµοὶ δή), contra Kassel–Austin PCG IV, p. 132: “parum apte”; un caso simile, è quello di Philemon. fr. 17 K.–A. (Gamos) ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον· οἶδα, δέσποτα, dove si può verisimilmente intendere che uno schiavo si rivolga al suo padrone e riferisca a se stesso l’uso del proverbio ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον, v. anche infra Interpretazione (meno probabile, ma non certo escluso, che un padrone usi ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον come una sorta di minaccia e lo schiavo risponda οἶδα, δέσποτα [analogamente in Cratino, qualcuno risponderebbe alla minaccia ἐν ἐµοὶ δὴ δοκεῖ κτλ.]). Al v. 2 il testo tràdito πρῶτα πειρᾶσθαι è impossibile metri causa; πρώτῳ concordato con ἐµοὶ di v.  1 è correzione di Bekker 1823, II p.  322 (in Lach. 268,14). Per πειρᾶσθαι, Cobet 1878, p. 291 propose ποιεῖσθαι πεῖραν, un’espressione che ricorre nell’interpretamentum del proverbio ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον in Zen. III 59, v. infra (ed è testimoniata ad es. in Thuc. I 53.1 e II 20.3); in questo caso, si può pensare sia a fattori di itacismo, sia di somiglianza fonetica tra ποιεῖσθαι πεῖραν/πειρᾶσθαι che possono aver generato un verbo di uso frequente come πειρᾶσθαι, ovvero che πειρᾶσθαι fosse glossa introdottasi poi nel testo (Delneri 2006, p. 55). Meineke FCG II.1, p. 30 (seguito da van Herwerden 1855, p. 36s.) propose, invece, di leggere πρωτῷ πεπειρᾶσθαι, di eliminare l’interpunzione dopo

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κίνδυνον e intendere l’intero periodo “in me, tanquam in vili capite, omnium primum periculum factum esse videtur”; tuttavia: 1) risulta così stravolto il senso del proverbio e, inoltre, “per esprimere “tamquam in vili capite”, il greco avrebbe piuttosto ὡς ἐν Καρί” (Delneri 2006, p. 56 e n. 39 che rimanda a Plat. Eutyhd. 285c); 2) come rilevano Kassel–Austin 1983, p. 132 “nec videmus quomodo πεπειρᾶσθαι, sive medium sive passivum est, cum κίνδυνον apte coniungi possit” (con il rimando anche al frammento di Filemone, v. supra). Non è, forse, da escludere l’ipotesi di Bothe PCFG, p. 10 (che segue l’emendamento del v. 1, v. supra) di leggere πειρᾶσθε πρώτῳ, con cui chi parla inviterebbe a fare la prova sul proprio corpo, come se fosse quello di un cario; la correzione del tràdito πειρᾶσθαι nell’imperativo πειρᾶσθε è possibile anche per ragioni di pronuncia (esempi di confusione tra αι e ε datano con frequenza a partire dal 125 d.6C., v. Threatte 1980, I, pp. 294–298), meno facile è, invece, giustificare l’inversione dell’ordo verborum necessaria per ragioni metriche. Infine, secondo una proposta riportata da Kassel e Austin in PCG III.2, p. 443 (Addenda) e attribuita a M. West, si potrebbe conservare il testo tràdito πρῶτα πειρᾶσθαι e intendervi l’andamento di un tetrametro trocaico; non è però spiegato il perché di un repentino cambio tra un trimetro giambico (v. 1) e un tetrametro trocaico (v. 2). Interpretazione(Chi parla utilizza il proverbio ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον, in un Cario il pericolo, con cui si indicava qualcuno cui si faceva correre un pericolo al proprio posto; ma, al contrario, afferma il locutore, non è un Cario a correre il pericolo, ma sembra che sia egli stesso (ἐµοί δή, con δή in funzione ironica o sdegnosa, v. infra) a subire in questo caso la prova. L’affermazione è generica e, in mancanza di contesto, non è possibile determinare l’identità del parlante. Secondo van Herwerden 1855, p. 36s. il frammento si riferisce ancora all’arconte che negò il coro a Cratino (fr. 20), nel qual caso sarebbe il poeta stesso ad aver corso il pericolo, invece del Cario del proverbio; secondo Delneri 2006, p. 556s. potrebbe trattarsi di un servo che precede il proprio padrone e debba provare una qualche situazione evidentemente di pericolo prima di questi, come avviene in Eur. Cycl. 654 dove è impiegato il medesimo proverbio (v. Contesto della citazione) e in maniera simile a Xantia nelle Rane di Aristofane: “la citazione proverbiale tra l’ironico e il rassegnato si attaglia perfettamente alla figura dello schiavo. È quindi probabile che il personaggio citi icasticamente il proverbio e poi si riconosca nel Cario, come mostra la puntuale ripresa di ἐν Καρί con ἐν ἐµοὶ δή [… 56] Forse il personaggio del nostro frammento veniva mandato ‘in avanscoperta’, ad affrontare – come nel passo euripideo – qualche individuo potenzialmente pericoloso”. ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον(L’interpretamentum del proverbio ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον è offerto dagli scoli a Platone, testimoni del frammento (v. Contesto

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della citazione): i Cari sarebbero stati i primi a svolgere il ruolo di soldati mercenari e, per questo motivo, venivano anche schierati in guerra nelle prime file; si utilizza quindi questo modo di dire per “chi riesce a far correre un pericolo agli altri e a starsene al sicuro” (Delneri 2006, p. 54). Il proverbio è registrato da Zen. III 59 con analoga spiegazione: ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον· ἐπὶ τῶν ἐν εὐτελέσι τὰς πείρας ποιουµένων. Κᾶρες γὰρ ἐµισθοφόρησαν πρῶτοι. Ἄλλοι τὴν παροιµίαν τιθέασι ἐπὶ τῶν εὐκαταφρονήτων. φασὶ γὰρ τοὺς Κᾶρας πρώτους ἀνθρώπων µισθοῦ στρατεύεσθαι. τοὺς οὖν τὸ ἀργύριον διδόντας προτάττειν τοὺς Κᾶρας ἑαυτῶν, ὡς µέλλοντας ἀποθνήσκειν ὑπὲρ τῶν µισθουµένων. Εἶρηται οὖν διὰ τοῦτο ἡ παροιµία (si aggiunge una spiegazione solo in parte diversa che lo riferisce a persone disprezzabili, ἐπὶ τῶν εὐκαταφρονήτων). I loci classici nel mondo greco in cui è attestato il proverbio sono quelli citati dagli scoli a Platone (cfr. Contesto della citazione) che riportano 2 in ordine: 1) Arch. fr. 216 W. καὶ δὴ ᾽πίκουρος ὥστε Κὰρ κεκλήσοµαι, 2) Ephor. FGrHist 40 F 12 (ἐν α´ Ἱστορίας precisano gli scoli, ma non citano una porzione di testo), 3) Philemon. fr. 17 K.–A. (Gamos) ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον· οἶσθα, δέσποτα, 4) Eur. Cycl. 654 δράσω τάδε· ἐν Καρὶ κινδυνευτέον e i due passi di Platone stessi; in questi ultimi a) in Plat. Lach. 187b σκοπεῖν χρὴ µὴ οὐκ ἐν τῷ Καρὶ ὑµὶν ὁ κίνδυνος κινδυνεύεται, chi parla è Socrate ed esorta chi vuole educare i propri figli a non delegare il compito ad altri e a prestare particolare attenzione nello svolgere questo ufficio; b) in Euthyd. 285c εἰ δὲ ὑµεῖς οἱ νέοι φοβεῖσθε, ὥσπερ ἐν Καρὶ ἐν ἐµοὶ ἔστω ὁ κίνδυνος, è ancora Socrate che parla e si dice disposto a fare da cavia. Difficile determinare contesto e locutore sia 2 di Arch. fr. 216 W. che di Philem. fr. 18 K.–A., mentre in Eur. Cycl. 654 sono parole del coro nel momento in cui si accinge a dare il proprio sostegno ad Ulisse per accecare il Ciclope. Il proverbio è utilizzato anche nel mondo latino, v. Cic. Flacc. 27,65 quid? de tot Caria nonne hoc vestra voce vulgatum est, si quid cum periculo experiri velis, in Care id potissimum esse faciendum?, e Sen. nat. quaest. IV 5.3 si volueris verum exquirere, nivem in Care experiaris, v. Otto 1890, p. 756s. (s.6v. Car). Il corrispettivo nel mondo moderno è faciamus experimentum in corpore vili, impiegato “quando un’operazione viene fatta senza le dovute precauzioni perché, comunque, chi rischia è un’altra persona o persona di poco conto” (Tosi 1991, p. 714, nr. 1599). ἐν ἐµοὶ δή(Con δή unito ad un pronome personale “the emphasis is often ironical, contemptuous, or indignant in tone” (Denniston 1954, p. 207 e v. p. 208 per esempi con forme di ἐγώ).

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fr. 19 K.–A. (17 K.) καὶ πρὸς τὸν οὐρανὸν σκιαµαχῶν ἀποκτίννυσι ταῖς ἀπειλαῖς E combattendo con l’ombra contro il cielo uccide con le minacce b

Σ α 1872 = Sud. α 3372 ἀποκτίννυσι λέγουσι µᾶλλον ἢ ἀποκτιννύειν. Κρατῖνος Βουκόλοις· καὶ — ἀπειλαῖς Dicono apoktinnysi più che apoktinnyein. Cratino nei Boukoloi: e combattendo — con le minacce

Metro(Dimetri giambici (v. 3 catalettico; cfr. infra Metrica)

llklklkl klkl llklkll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 10 (fr. III), Meineke FCG II.1 (1839), p. 296s. (fr. III), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. 3), Kock CAF I (1880), p. 176s., Edmonds FAC I (1957), p. 286s., PCG IV (1983), p. 132, Bertan 2003, Delneri 2006, pp. 57–60, Storey FOC I (2011), p. 196s. Contesto della citazione(Le due fonti lessicografiche attestano che la forma atematica del verbo (ἀποκτίννυσι) è più frequente di quella tematica (ἀποκτιννύειν), cfr. Moer. 188,29 ἀποκτεινύναι Ἀττικοί, ἀποκτείνειν Ἕλληνες (v. infra a ἀποκτίννυσι); a sostegno di ciò è citato il frammento di Cratino102. b La glossa è registrata in Σ α 1872 e può essere fatta risalire in questo caso a materiale atticista e in particolare a Or. Β 35, v. Alpers 1981, pp. 56–69; da Σ deriva il lemma analogo di Sud. α 3372 e Phot. α 2534. In quest’ultimo, però, ricorre la pericope iniziale (ἀποκτίννυσι–ἀποκτιννύειν), ma è omessa la citazione esemplificativa di Cratino immediatamente successiva; la sua integrazione ad opera di Theodoridis si deve al fatto che l’editore riconosce che il copista in questa sezione ha volontariamente selezionato (Thedoridis 1982, p. 234 e cfr. LXVII), un procedimento sui cui limiti v. in part. Tosi 1984, p. 1936s. (sull’esempio proprio di α 2534 e della citazione di Cratino) e Tosi 2003, p. 153.

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Dopo il frammento cratineo, la glossa testimonia l’utilizzo di un’altra forma: καὶ ἀπεκτόνασιν, οὐκ ἀπεκτάγκασιν. Μισουµένῳ (Men. Mis. fr. 9)· µισοῦσι µὲν ὦ πάτερ Θράσωνα, ἀπεκτάγκασι δ᾽ οὔ.

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Di conseguenza non appare opportuno come fanno Kassel e Austin registrare Fozio tra i testimoni del frammento di Cratino, v. Delneri 2006, p. 57 e n. 40. b In Σ α 2534 per dittografia è reiterato il verbo iniziale: ἀποκτίννυσιν· ἀποκτίννυσι. La forma senza il ν efelcistico (ἀποκτίννυσι) è data da Fozio e Suda e se si ammette che questa forma alla terza singolare del lemma (ἀποκτίννυσι λέγουσιν) provenga direttamente dalla successiva citazione di Cratino, essa è senza dubbio quella corretta (nel frammento del comico segue ταῖς ἀπειλαῖς); la seconda forma verbale, ἀποκτιννύειν, si trova all’infinito nelle maggior parte della tradizione, ma solo in Sud. F si ha una lezione ἀποκτιννύει alla terza singolare, forse preferibile per simmetria con l’iniziale ἀποκτίννυσι(ν), b v. Cunningham 2003 ad Σ α 1872, p. 648 “recte Su. (F)”. Metrica(La colometria generalmente accettata è quella che Meineke propose in FCG II.1, p. 30 e poi stampò in FCG ed. min. I, p. 11103: una disposizione in brevi cola giambici che si può confrontare con Ar. Eq. 454–456 (come già rilevava Kock CAF I, p. 18) e ancora Eq. 379–381, 938–40, Nub. 1102–1104, 1449–1451; nei casi aristofanei si tratta sempre dello pnigos di un epirrema o di un antepirrema di agone, quindi una sezione non lirica. Rispetto a questa possibilità, per la quale si dovrebbe presupporre un contesto recitato o in recitativo, Bertan 2003 ha rilevato che “i veri πνίγη hanno fine di parola generalizzata alla fine di ciasun colon, mentre qui [sc. nella ricostruzione di Meineke] abbiamo sinafia verbale non solo tra i cola, ma persino tra i singoli metra giambici: la fine di ogni metron, infatti, non coincide mai con fine di parola” (p. 251); e, di conseguenza, viene proposta una differente colometria: 〈xlkl〉 καὶ πρὸς τὸν οὐρανὸν σκιαµαχῶν ἀποκτίννυσι ταῖς ἀπειλαῖς Si ha in questo caso una sequenza di tre dimetri giambici di cui l’ultimo catalettico e il primo mancante del primo metron da integrare, per la quale si può confrontare la coppia strofica di Ar. Ran. 384–388 ~ 389–393; questa interpretazione mette in risalto una caratteristica, quella della fine di parola alla fine di ciascun colon, che crea un’evidente difficoltà per la sistemazione di Meineke e i suoi confronti con Aristofane. Se si accetta questa colometria

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Precedentemente Hermann 1830, p. xxiv, aveva proposto καὶ πρὸς τὸν οὐρανὸν 〈γε〉6/6σκιαµαχῶν 〈θεοῖς〉 ἀποκτίννυσι ταῖς ἀπειλαῖς, “ex tetrametris iambicis sumptum”, ma come rileva Meineke FCG II.1, p. 3 non vi è necessità di integrazioni per l’interpretazione metrica (“sententia quidem ita comparata est ut nihil excidisse videatur”).

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e il confronto con Aristofane si presuppone per il frammento di Cratino un originario contesto lirico. Interpretazione(Chi compie l’azione, un maschile (σκιαµαχῶν), simula contro il cielo i movimenti di un pugile quando si allena, in segno di aperta ostilità, forse blasfema (ἀπειλή), per annientarlo (ἀποκτίννυσι). Sulla base del valore di σκιαµαχέω ‘combattere a vuoto, fare un’inutile schermaglia’, Kock CAF I, p. 18 interpretava “contra caelum pugnantem facit, quod neque vulneretur neque plagam regerat. Nos ‘den Mond anbellen’”104; secondo Delneri 2006, p. 58 “non è […] escluso che nel nostro caso, l’espressione avesse invece valore proprio, e rendesse icasticamente l’idea di un combattimento in cui il cielo, e dunque gli dei suoi abitanti, sono gli avversari dell’individuo di cui si parla”. I due significati possono coesistere: chi compie l’azione invia inutili minacce, evidentemente solo verbali (come indica chiaramente anche ἀποκτίννυσι ταῖς ἀπειλαῖς) e non destinate ad avere effetto concreto e, nel farlo, riproduce i movimenti del pugile. Significativo il confronto proposto da Delneri (ibid.) con Hdt. IV 94.4: οὗτοι οἱ αὐτοὶ Θρῄκες καὶ πρὸς βροντήν τε καὶ ἀστραπὴν τοξεύοντες ἄνω πρὸς τὸν οὐρανὸν ἀπειλέουσι τῷ θεῷ, οὐδένα ἄλλον θεὸν νοµίζοντες εἶναι εἰ µὴ τὸν σφέτερον; qui i Traci, che venerano Zalmoxis, manifestano la loro ostilità nei confronti di Zeus scagliando frecce contro il cielo105 e si può notare la ricorrenza dell’espressione πρὸς τὸν οὐρανὸν ἀπειλέουσι, simile al testo di Cratino. Scagliarsi contro il cielo come segno di opposizione a un dio è, inoltre, una pratica ben nota, v. Rohde 2006, p. 2976s. (in Hdt. I 172.2 è testimoniata ancora a proposito dei Cauni, i quali τύπτοντες δόρασι τὸν ἠέρα manifestano la loro ostilità contro i nuovi dei, precedentemente accolti e che vogliono ora scacciare per tornare a quelli patrii); se si accetta questo parallelo, è possibile supporre come soggetto un adepto del culto di Sabazio, il quale ha un comportamento barbaro come quello dei Traci nel rivolgere minacce al cielo, ma “attua i suoi propositi ‘alla greca’, scegliendo non di utilizzare l’arco (caratteristico dei Traci), ma di eseguire le mosse del pugilato, specialità agonistica

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Cfr. Tosi 1991, p. 200 nr. 433 secondo cui σκιαµαχέω corrisponde a ἀέρα δέρειν ‘scorticare l’aria’ (equivalente al lat. adversus aerem certare in Ag. Agon. christ. 5,5) e indica “una lotta inutile contro un avversario inesistente, un atteggiamento di tipo velleitario, un’azione priva di risultati concreti”. Per questo passo di Erodoto, il suo valore in relazione alla figura di Zalmoxis e il legame con Cratino, rimando a Taufer 2013 (in part. p. 836s. sul frammento di Cratino), con bibliografia. V. anche le osservazioni in Delneri 2006, p. 58 e nn. 45–48.

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del mondo ‘civilizzato’”, Delneri 2006, p. 596s.106, la quale rileva anche che un atteggiamento particolarmente aggressivo da parte di chi compie questo gesto è, d’altronde, ravvisabile sia nell’utilizzo del prefisso intensivo in ἀποκτίννυσι (“una precisa volontà di annientamento […] non una semplice esternazione d’ira”), sia in quello di ἀπειλή, che potrebbe dare anche una connotazione blasfema (v. infra ad loc.). Il riferimento ad uno degli adepti del culto di Sabazio dipende dall’esegesi del titolo Boukoloi, talora riferito ad essi, ma senza conferme in ciò che della commedia possediamo (v. supra Titolo); ma, anche se si esclude il riferimento ai seguaci di Sabazio, rimane comunque possibile che il soggetto del frammento, ignoto, rivolga ‘realmente’ le sue minacce contro il cielo, che la sua non sia una vuota minaccia, ma un reale atto di insolenza nei confronti del cielo, della cui motivazione non rimane traccia. Se si accetta, inoltre, la colometria proposta da Bertan 2003 il frammento proviene da un originario contesto lirico come in analoghi passi in cui questa sequenza ricorre (v. supra Metrica). σκιαµαχῶν(Letteralmente ‘combattere con un’ombra’, detto di un’operazione impossibile, v. Sud. σ 598 (forse da fonte paremiografica, Adler ad loc.) σκιαµαχῶ· ἐπὶ τῶν ἀδυνάτων. τῇ σκιᾷ µάχοµαι. Il verbo è di impiego molto raro e questa di Cratino è la sua prima attestazione; in epoca classica ricorre ancora in Plat. Apol. 18d, Rp. 520c 7, Leg. 830c dove indica un combattimento a vuoto, una vana schermaglia, e nell’attico di Luc. Pisc. 35, al passivo, significa perdere tempo in dispute di parole. Si distinguono, generalmente, due valori (LSJ s.6v., Tosi 1991, p. 200 nr. 433): 1) proprio, ‘combattere con un’ombra’ in Cratino e altrove, connesso con il significato tecnico sportivo, e 2) metaforico ‘combattere a vuoto, fare schermaglia’ ad es. nei passi citati di Platone e Luciano. Propriamente, infatti, σκιαµαχέω (così come il sostantivo σκιαµαχία; attestato anche l’aggettivo σκιαµάχος nel solo Phil. Al. Det. 41) appare un verbo tecnico con il significato di ‘fight against a shadow, i.e. an imaginary opponent, and so, spar’ (LSJ s.6v.), ossia compiere alcuni gesti contro un inesistente avversario, al fine di allenarsi, come parte integrante 106

Secondo la stessa Delneri 2006, p. 58 tra questi seguaci del culto di Sabazio, potrebbe esserci anche “lo Gnesippo del fr. 17, il figlio di Cleomaco; quest’ultimo – se se ne deve postulare l’identità con il Cleomaco citato da Strabone – era stato proprio un pugile, prima di convertirsi (a quanto pare con risultati discutibili) all’arte poetica”. Ma il Cleomaco citato da Strabone è probabilmente un personaggio più tardo e appare, comunque, poco prudente stabilire una connessione tra la professione di pugile di questi e l’atto di pugilato presente nel fr. 19; tanto più che pugile sarebbe, al limite, Cleomaco, non Gnesippo (se, pure, questi è il ‘figlio di Cleomaco’ del fr. 17), al quale dovrebbe essere attribuita ex silentio una qualità del padre.

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degli esercizi della πυγµή, il pugilato, cfr. Poll. III 150 (discussione sul lessico relativo proprio a questa disciplina). Attestazioni antiche di questo significato ad es. in Plut. Quaest. conv. 735c 5, Paus. VI 10,3 etc. e v. Krause 1841, p. 510, RE suppl. IV (1962), s.6v. Pygme, coll. 1306–1352 [Jüthner-Mehl], in part. 1336, Harris 1972, p. 24; con questo valore il verbo è analogo a χειρονοµέω “shadow 2 boxing, sparring” (Poliakoff 1986 , p. 916s.). La costruzione σκιαµαχέω πρὸς + acc. ricorre, normalmente, nel significato 2), v. in part. Ach. Tat. II 22.6 ὁ λέων ἐκεκµήκει σκιαµαχῶν πρὸς τὸν ἀέρα (simile al passo di Cratino) τοῖς ὀδοῦσι καὶ εἱστήκει παρειµένος ὀργῇ, Plut. quaest. conv. 735c 4 σκιαµαχεῖν πρὸς τὰ εἴδωλα107, ma i due valori in Cratino possono anche coesistere: fare un combattimento a vuoto, una vana schermaglia (contro il cielo), ma simulando icasticamente i movimenti del pugile che si allena (cfr. Interpretazione). ἀποκτίννυσι(Per la formazione con il suffisso –νυ v. Schwyzer I, p. 697 (γ); l’utilizzo di ἀπο- come preverbo ha funzione intensificativa, v. Schwyzer– Debrunner 1950, p. 445 (“manche [sc. Verben] sind hypercharakterisierend, ausmalend”) cfr. Interpretazione. I testimonia del frammento sostengono la maggior ricorrenza della forma atematica (ἀποκτίννυσι) rispetto a quella tematica (ἀποκτιννύειν); ciò è vero nel caso della prosa attica classica (17x ἀποκτίννυµι108, 34x ἀποκτείνυµι109; 5x ἀποκτιννύω110), ma in tragedia e commedia l’unica attestazione di una forma ἀποκτιννυ- è quella qui presente in Cratino, mentre normale è l’impiego del verbo tematico ἀποκτείνω (in commedia ad es. in Ar. Eq. 898, Vesp. 166, Av. 1073 e 1075 etc.). Nella forma atematica il verbo è attestato come ἀποκτείνυµι o ἀποκτίννυµι; “the former is the more correct spelling” (LSJ s.6v.) perché presente come lezione nei codici migliori in passi quali Plat. Gorg. 469a, Polib. II 56.15 etc. e presente in Moeris 188,29 ἀποκτεινύναι Ἀττικοί, ἀποκτείνειν Ἕλληνες; per questo Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 132 corresse in Cratino il tràdito

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Cfr. anche Plat. Rp. 520c 7 ὡς νῦν αἱ πολλαὶ ὑπὸ σκιαµαχούντων τε πρὸς ἀλλήλους, Leg. 830c 3 οὐκ ἐτολµήσαµεν ἂν αὐτοὶ πρὸς ἡµᾶς αὐτοὺς σκιαµαχεῖν ὄντως, Plut. Sill. 13,1 πρὸς τὴν πάλαι σκιαµαχοῦντα τῆς πόλεως δόξαν Ἀποκτίννυµι (17x): Lys. Eratosth. VII 2, XXXVI 9; [Lys.] pro Polystr. IX 2; Xen. Hell. V 3.2.3, V 4.32,8; An. VI 3.5.3, VI 5.28.2; Demosth. de falsa leg. 259,10; Lept. 158,7; Mid. 43,7; Aristocr. 36,1, 56,8, 60,12, 75,1, 142,4, 163,5, 169,6. Ἀποκτείνυµι (34x): Xen. Hell. VI 5.7.9; Plat. Ap. 30d 5; Crit. 48a 11, c5; Phaed. 58b 6, 611c 6, 62c 2 e c 7, Pol. 293d 4, 298b 2, 301d 3; Gorg. 456d 5, 457 c3, 466b 11 e c 9, 468b 4 (x2), 469a 9 (x2), b 5 e c 6, 470b 2; Rp. 360c 2, 488c 3, 517a 6, 566a 1 e b 3, 586b 2, 610d 1 ed e 1; Crit. 119c 4; [Plat.] Alc. I 112a 8; [Plat.] Alc. II 145b 8 ed e 6. Ἀποκτιννύω (5x): Xen. Hell. IV 4.2.8, V 2.43.6, VII 3.8.9, VII 4.26.6; Demosth. Aristocr. 38,9.

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ἀποκτίννυσι in ἀποκτείνυσι. La forma ἀποκτείνυµι è quella maggiormente ricorrente e l’unica usata in Platone, mentre in altri autori quali Lisia, Senofonte e Demostene prevale la forma ἀποκτινν- (v. supra), per cui la correzione di Kaibel è sì possibile, ma non necessaria (cfr. Delneri 2006, p. 59). Inoltre, Phryn. praep. soph. p. 51,126s. ἀποκτινύναι· δι᾽ ἑνὸς ν. οἱ δὲ διὰ δυοῖν γράφοντες ἀµαρτάνουσι attesta la forma ἀποκτιν- (con ι e un ν) in esplicita opposizione ai testimoni di Cratino (v. Alpers 1981, p. 208); se si accettasse questa testimonianza si dovrebbe scrivere ἀποκτίνυµι e non ἀποκτίννυµι (in opposizione a ἀποκτείνυµι), ma si rileva che questa forma (ι e un ν) non è testimoniata altrove, mentre sia nei lessicografi che nella documentazione che possediamo l’opposizione è ἀποκτείνυµι (ει e un ν)6/ ἀποκτίννυµι (ι e due ν; per questo motivo Schanz 1881, p. vi corresse il lemma di Frinico ἀποκτεινύναι). ταῖς ἀπειλαῖς(L’etimologia è ignota e discusso è anche se ἀπειλή sia un deverbativo di ἀπειλέω o sia questo, invece, un verbo denominativo, v. GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v. Sia ἀπειλή che ἀπειλέω sono attestati fin da Omero e possono indicare sia iattanza, vanteria minacciosa contro qualcuno (ad es. N 219, Y 83), sia ‘minaccia’ in senso proprio, come quella che gli sfidanti si rivolgono nell’occasione di un duello (ad es. Aiace contro Ettore in Η 225 o Menelao a Eleno in Ν 582), v. in part. LfgrE I s.6v. (Ebner). In commedia v. ad es. Ar. Eq. 696, Pac. 753, Lys. 249 etc. Come rileva Delneri 2006, p. 59 il fatto che il verbo ἀπειλέω a) sia impiegato in λ 3136s. per indicare la scalata contro l’Olimpo di Oto ed Efialte (οἱ ῥα καὶ ἀθανάτοισιν ἀπειλήτην ἐν Ὀλύµπῳ6/6φυλόπιδα στήσειεν πολυάϊκος πολέµοιο; b) ricorra anche ad indicare le minacce al cielo dei Traci in Hdt. IV 94.4, potrebbe conferire a colui che è l’autore delle minacce indicate nel frammento anche un certo atteggiamento blasfemo, cfr. Interpretazione.

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Cratino

fr. 20 K.–A. (18 K.) Hsch. π 4455 † π υ ρ π ε ρ έ γ χ ε ι † · Κρατῖνος ἀπὸ 〈δι〉θυράµβου ἐν Βουκόλοις ἀρξάµενος, ἐπειδὴ χορὸν οὐκ ἔλαβεν 〈·〉 περὶ τοῦ ἄρχοντος ἔστιν 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει † p u r p e r e n c h e i † Cratino nei Boukoloi cominciando dal ditirambo, poiché non ottenne il coro〈;〉 è relativo all’arconte, 〈al quale〉 (lo, scil. il coro) aveva chiesto ὲ

ἔλαβεν 〈·〉 Müller: ἔλαβεν π codd.ƒƒƒἔστιν 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει Casaubon: ἐστιν, ὅν ᾐτήκει Müller: ἔστιν οὗ ἠτήρει codd.

Metro(Ignoto (†lkll†) Bibliografia(Casaubon 1600, p.  573, Runkel 1827, p.  9 (fr. I), Bergk 1838, p. 306s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 26 (fr. I), Fritzsche 1845, p. 17, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 10, Müller 1847, I p. 456, Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. I), Kock CAF I, p. 18, Crusius 1889, p. 34, Reitzenstein 1893, p. 207, Blaydes 1896, p. 20, Rutherford 1897, p. 16, Edmonds FAC I (1957), p. 286s., Luppe 1987, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1336s., Quaglia 1998, p. 296s., Delneri 2006, pp. 61–65, Bakola 2010, pp. 42–49 e 576s., Henderson 2011, p. 181, Storey FOC I (2011), p. 2766s. Interpretazione(Il lemma della glossa esichiana è corrotto (“la corruzione sarebbe stata favorita dal poliptoto o dall’assonanza che caratterizzano l’espressione, nei vari modi in cui viene ricostruita”, Delneri 2006, p. 61 e n. 57); corrotta è anche la porzione finale dell’interpretamentum, tràdita nei codici ὲ come ἔστιν οὗ † ἠτήρει, e discusso è lo scioglimento dell’abbreviazione π dopo ἔλαβεν. Il testo stampato differisce da quello dato dall’ultimo editore di Esichio, P.A. Hansen (πῦρ πυρὶ ἔγχει· Κρατῖνος ἀπὸ 〈δι〉θυράµβου ἐν Βουκόλοις ἀρξάµενος, ἐπειδὴ χορὸν οὐκ ἔλαβεν παρὰ τοῦ ἄρχοντος, παρ᾽ οὗ ᾐτήκει): il lemma, che rimane sostanzialmente oscuro, è lasciato tra cruces, come scelgono Kassel–Austin PCG IV, p. 1326s., sebbene πῦρ πυρὶ ἔγχει appaia una delle ipotesi più convincenti; nell’interpretamentum sono accettati ὲ π  = περί e l’interpunzione di Müller e per la parte finale 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει di Casaubon (ma ἐστιν, ὅν ᾐτήκει di Müller sarebbe anche possibile). Di seguito, in ordine cronologico, i tentativi esperiti di sanare lemma e interpretamentum111. 111

Nella prima parte della glossa ἀπὸ 〈δι〉θυράµβου ἐν Βουκόλοις ἀρξάµενος, superflua e non necessaria appare la correzione del participio in ἀρπαξάµενος proposta da Rutherford 1897, p. 16.

Βουκόλοι (fr. 20)

135

Lemma

Interpretamentum

πυρπερέγχει

(ἔλαβεν) π τοῦ ἄρχοντος ἔστιν οὗ † ἠτήρει



Casaubon 1600, p. 573 (segui- πῦρ πῦρ ἔγχει to da Meineke FCG II.1, p. 26, FCG ed. min. I, p. 10; Bothe PCFG, p. 10).

παρὰ τοῦ ἄρχοντος παρ᾽ οὗ ᾐτήκει

Bergk 1838, p. 306s.

πῦρ πυρὶ ἔγχει

παρὰ τοῦ ἄρχοντος παρ᾽ οὗ ᾐτήκει

Fritzsche 1845, p. 57

πῦρ πρὸς ἔγχει

παρὰ τοῦ ἄρχοντος. ἔστιν οὖν τήρει

Müller 1847, I p. 456

πῦρ πυρὶ ἔγχει

περὶ τοῦ ἄρχοντός ἐστιν, ὃν ᾐτήκει

Kock CAF I, p. 18

πυρὶ πῦρ ἐπέγχει

παρὰ τοῦ ἄρχοντος παρ᾽ οὗ ᾐτήκει

Crusius 1889, p. 34

πῦρ παρέγχει

ἐπὶ τοῦ ἄρχοντος ἔστιν (= κεῖται, ut sescenties), ὅν ᾐτήκει”

Blaydes 1896, p. 20

πῦρ ἐπὶ πῦρ ἄγεις

Rutherford 1897, p. 16

πῦρ πῦρ ἔγχει

περὶ τοῦ ἄρχοντος ἔστιν εἴς τιν᾽ ᾧ ἡταίρει

Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 133

πῦρ παρέγχει

ἔστιν οὖν πῦρ ἔγ〈χει εἰς τὸν ἡµέτερον οἷνον ἀντὶ ὕδατος〉

Luppe 1987

πυρεγχει

ἔλαβεν 〈·〉 περὶ τοῦ ἄρχοντος ἔστιν 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει ὲ

Per quanto riguarda l’interpretamentum: a) l’abbreviazione π è usuale per περί, anche se talora esistono casi di confusione con παρά, cfr. Lehmann 1880, p. 906s. Lo scioglimento in περί e la necessaria interpunzione che segue si devono per primo a Müller (così anche Luppe 1987 e Bakola 2010, p. 44); ὲ Casaubon, per lo più seguito, scioglieva, invece π   = παρά112; b) il tràdito 112

Da ultimi anche Kassel e Austin PCG IV, p. 133 sostengono lo scioglimento in παρά; isolato il tentativo πὲ = ἐπὶ di Crusius 1889, p. 34, difficilmente giustificabile per la tachigrafia (e anche l’interpretazione di Crusius è poco convincente, v. Delneri 2006, p. 63).

136

Cratino

ἠτήρει che chiude la glossa è lectio nihili: la lettura ᾐτήκει già di Casaubon restituisce un verbo tecnico per la richiesta del coro, presente in questo significato ad es. nel fr. 17,1 K.–A. degli stessi Boukoloi (v. ad loc.) e, inoltre, si tratta di una correzione molto semplice (“Änderung nur eines Buchstabens”, Luppe 1987, p. 203). Per ἔστιν οὖ antecedente ᾐτήκει, le ipotesi migliori sono 1) quella ancora di Müller περὶ τοῦ ἄρχοντός ἐστιν, ὃν ᾐτήκει (per αἰτέω con l’acc. di persona, v. LSJ s.6v. 2), che prevede la semplice correzione di οὗ tràdito in ὅν, paleograficamente plausibile; quella di Luppe 1987 (περὶ τοῦ ἄρχοντος) ἔστιν 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει, che riprende l’integrazione 〈παρ᾽〉 di Casaubon, da intendere ε come omissione per aplografia dipendente dalla precedente abbreviazione π , probabilmente anche mal compresa, ovvero anche come omissione causata ὲ da un’abbreviazione saltata nella trascrizione (Casaubon, però, scioglieva π  = παρά e motivava l’integrazione per un errore di aplografia, ma eliminava – e senza darne motivazione – il tràdito ἔστιν). Entrambe le possibilità sono ritenute possibili da Bakola 2010, p. 44 e n. 79; l’intera pericope ἐπειδὴ χορὸν οὐκ ἔλαβεν〈·〉 περὶ τοῦ ἄρχοντος ἔστιν 〈παρ᾽〉 οὗ ᾐτήκει (o ἐστιν, ὅν ᾐτήκει) è tradotta: “de archonte dictum est, a quo chorum petierat” (Μüller), “es handelt sich um/bezieht sich auf den Archon, von dem er (ihn) erbeten hatte” (Luppe), “the song is about the archon to whom he had applied” (Bakola)113. Più complessa la questione del lemma. L’ipotesi prevalente è che ci sia un riferimento ad un proverbio noto da Hsch. π 4415 πῦρ ἐπὶ πῦρ· παροιµία, ἧς µέµνηται Πλάτων (Leg. II 666a) καὶ κακὸν ἐπὶ κακῷ e da altre fonti, letterarie (Sen. De Ira II 20.2, Plut. con. praec. 143f, cons. ad uxorem 610c, tuenda san. 123 113

Una proposta differente è quella di Delneri 2006, p. 64. Per mantenere il tràdito ἔστιν, ma uno scioglimento dell’abbreviazione in παρὰ, è immaginato un testo da integrare in questo modo: παρὰ τοῦ ἄρχοντος 〈οὔτως εἴπε βλασφηµῶν επὶ τοῦ ἄρχοντος, ὅς〉 ἔστιν 〈ὁ αὐτός〉 παρ᾽ οὗ ᾐτήκει, una soluzione che appare, però, artificiosa e non di facile comprensione per le diverse integrazioni. Per quanto riguarda le altre possibili soluzioni proposte: a) all’ipotesi di Fritzsche di interrompere il periodo dopo τοῦ ἄρχοντος e far iniziare la spiegazione da ἔστιν, con una pericope ἔστιν οὖν τήρει, seguita da una lacuna dal senso all’incirca “cave hominem vehementem atque iracundum”, già Kock CAF I, p. 18 adduceva contro l’argomentazione dell’uso improprio di τηρέω: “cave graece est εὐλαβοῦ, φυλάττου, non τήρει”; b) l’ipotesi di Rutherford (εἴς τιν᾽ ᾧ ἡταίρει) chiama in causa una presunta relazione illecita dell’arconte con un uomo e non sembra molto probabile; c) non è da escludere la proposta di Crusius di intendere ἔστιν = κεῖται e leggere in seguito ὅν ᾐτήκει, ma le soluzioni di Luppe (Casaubon) e Müller appaiono più semplici; la lunga integrazione proposta da Kaibel che richiama in causa il lemma anche nella parte finale, non trova alcun fondamento.

Βουκόλοι (fr. 20)

137

e), paremiografiche (Zenob. V 69, Macar. VII 48, Apost. XV 15) e lessicografiche (Phot. π 1562, Sud. π 3211), v. Tosi 2010, p. 5966s. nr. 776 (ignis in igne) e cfr. Otto 1890, p. 1706s. (ignis 3). Questo proverbio corrisponde all’incirca all’italiano ‘gettare benzina sul fuoco’ e indica peggiorare una situazione, accrescerla in maniera negativa, come ad es. nel citato passo delle Leggi di Platone dove è impiegato per dire che non bisogna dare da bere del vino ai bambini per non rinforzare ulteriormente l’indole focosa già insita nella loro età; da qui il proverbio è accostato nei paremiografi e lessicografi all’espressione κακὸν ἐπὶ κακῷ, esplicitamente ‘male su male’. Se si accetta un riferimento a questo proverbio, la soluzione migliore appare quella di Bergk e Müller (accettata dall’ultimo editore di Esichio, P.A. Hansen) di leggere πῦρ πυρὶ ἔγχει, sulla scorta della forma πῦρ ἐπὶ πυρὶ in cui il proverbio è dato in Phot. π 1562 e Sud. π 3211; è infatti possibile che le due glosse di Esichio π 4415 (πῦρ ἐπὶ πῦρ) e π 4455 (testimone del frammento di Cratino, con il lemma corrotto) fossero originariamente “parte di un’unica glossa […] Senza escludere che il testo di Cratino fosse in qualche misura diverso rispetto al lemma di π 4415, esso doveva comunque costituire un’esemplificazione concorde a quest’ultimo; successivamente scorporato, è andato poi a formare una glossa autonoma, appunto la nostra π 4455” (Delneri 2006, p. 63)114. Poiché quella di Cratino risulterebbe la più antica attestazione di questa espressione, il comico potrebbe aver utilizzato la forma πῦρ πυρὶ ἔγχει (ovvero qualcosa di simile) la quale o costituiva una modificazione di un proverbio già noto πῦρ ἐπὶ πῦρ (πυρί) ovvero era essa stessa l’origine di quello che sarebbe divenuto un proverbio. Se si accettasse la pertinenza del lemma corrotto al proverbio πῦρ ἐπὶ πῦρ (πυρί) e del corrispettivo κακὸν ἐπὶ κακῷ, si potrebbe mettere in connessione questa espressione con una dichiarazione 2 di poetica tipica di Archiloco, quella del fr. 126 W. ἓν δ’ ἐπίσταµαι µέγα,6/6τὸν κακῶς 〈µ’〉 ἔρδοντα δεινοῖς ἀνταµείβεσθαι κακοῖς (per i rapporti Cratino/ Archiloco, v. p. 15). Meno convincenti, pur sulla stessa linea, le ipotesi di a) Casaubon, Runkel 1827, p. 9 e Rutherford che leggono πῦρ πῦρ ἔγχει ‘versa fuoco sul fuoco’, perché ἐγχέω non possiede mai una costruzione simile con due accusativi 114

Cfr. Luppe 1987, p. 203 n. 1 sull’ordine alfabetico dei lemmi in Esichio: “die letzte mit πυρπ- beginnende Glosse. Zuvor stehen πυρπαλάµης, πυρπολεῖ, πυρπολέοντας, πυρπολούµενος, es folgt Πυρραία. In ganz korrekter Anordnung müßte sie zwischen πυρπαλάµης und πυρπολεῖ stehen”; ciò potrebbe essere indizio di uno scorporamento di un’unica glossa a seguito del quale si è generata una corruzione. Sull’ordine alfabetico in Esichio, v. Latte 1953, p. XXXI n. 1 e gli aggiornamenti di Hansen 2005, p. XXI.

138

Cratino

(v. LSJ s.6v.); né maggior senso risulterebbe da un eventuale πῦρ πῦρ ἐγχεῖ, ‘fuoco versa fuoco’, difficilmente equiparabile per senso all’espressione ‘fuoco su fuoco’ dove soggetto non è il fuoco stesso, ma un’indefinita persona che compie tale azione; b) πυρὶ πῦρ ἐπέγχει di Kock perché ἐπεγχέω non si costruisce con accusativo e dativo semplice, ma con accusativo e ἐπὶ + dat. come anche nell’esempio di Eur. Cycl. 423 citato dallo stesso Kock; c) πῦρ ἐπὶ πῦρ ἄγεις di Blaydes perché meno facilmente giustificabile su base paleografica, nonostante il possibile confronto con Ar. fr. 469,2 K.–A. ἐπὶ πῦρ δὲ πῦρ ἔοιχ᾽ ἥκειν ἄγων. Delle altre ipotesi, si osserva che: 1) πῦρ πρὸς ἔγχει di Fritzsche si basa sul detto πῦρ µαχαίρᾳ µὴ σκαλεύειν, di ascendenza pitagorica (Diog. Laert. VIII 18) che “sfrutta un’operazione banale per dire che non bisogna eccitare chi è irato né attizzare il fuoco in situazioni esplosive” (Tosi 1991, p. 5396s., nr. 1190); ma la ricostruzione complessiva, ossia che la commedia venne rappresentata anche senza il coro e che proprio per questo si apriva con un ditirambo, di cui quelle riportate sarebbero le parole iniziali, è in sé molto debole (la mancata assegnazione del coro precludeva la possibilità di rappresentazione), cfr. Delneri 2006, p. 62 e nn. 616s.; 2) secondo Luppe 1987 (l’ipotesi è accettata da Bakola 2010, p. 446s.) dietro la corruttela è nascosto un aggettivo πυρεγχής, da πῦρ + ἔγχος: all’origine della forma tràdita è un originario errato περεγχει, corretto successivamente mediante sovrascrittura di πυρ alle prime tre lettere e che, in seguito, non compreso avrebbe generato πυρπερεγχει; l’aggettivo πυρεγχής è un hapax legomenon, ma si potrebbe confrontare con κεραυνεγχής in Bacch. VIII 26 Snell–Maehler, ancora però un hapax, e sarebbe epiteto di Zeus come lo è, appunto, κεραυνεγχής (πῦρ è talora associato al fulmine, v. LSJ s.6v. n. 5)115. Per quanto riguarda la presenza di un ditirambo nei Boukoloi non è possibile dire con certezza quale ruolo esso avesse nella commedia, né come si inserisse nella sua drammaturgia; a prescindere dai problemi testuali, dalla testimonianza di Esichio emerge comunque con chiarezza il fatto che il ditirambo era direttamente collegato al mancato ottenimento di Cratino del coro (ἐπειδὴ χόρον οὐκ ἔλαβεν κτλ.). Secondo Meineke FCG II.1, p. 26 (seguito da Kock CAF I, p. 18 e Bothe PCGF, p. 10) “dithyrambum autem illud carmen vocavit Hesychius, quoniam et sententiarum fervore ardebat et numeris ferebatur concitatissimis”; ‘ditirambo’ non indica quindi lo specifico genere 115

Non convincenti i tentativi di intendere πῦρ come modo per designare il vino (ad es. Kock CAF I, p. 18, Bothe PCGF, p. 10) privo di paralleli; lo stesso vale per l’ipotesi di Crusius πῦρ παρέγχει ‘versa in aggiunta fuoco’, possibile solo se si intende πῦρ nel senso di ‘vino,’ e, in ogni caso, ἐπεγχέω è verbo di impiego molto raro e testimoniato da Aristotele in avanti, quindi solo ex silentio attribuibile a Cratino.

Βουκόλοι (fr. 20)

139

letterario così denominato, ma è un uso proprio di Esichio per indicare un canto particolarmente fervente e concitato (su queste caratteristiche del di2 tirambo v. Pickard-Cambridge 1962 , p. 316s., Lonsdale 1993, p. 896s., Delneri 2006, p. 64) chiaramente rivolto contro l’arconte reo della mancata concessione del coro. Secondo Bakola 2010, pp. 44–49 si tratta, invece, di un ditirambo in senso proprio: i confronti proposti sono con la “dithyrambic or quasi dithyrambic poetry” (p. 45) quale ad es. la parodia dei ditirambo di Cinesia in Ar. Av. 1372–1400 o la parodo delle Baccanti euripidee; al ditirambo rimanderebbe, inoltre, il composto πυρεγχής, congettura di Luppe per il corrotto † πυρπερεγχει † accettato da Bakola come plausibile lettura. Data l’identità dei coreuti come seguaci di Dioniso (ma cfr. p. 1146s.), il coro, intonando un ditirambo, difenderebbe Cratino “not merely as his ‘comic chorus’ but in their dramatic identity, as ‘Dionysiac worshippers” (p. 47), in quanto Cratino era rappresentante di una poetica ‘dionisiaca’ (tale aspetto è discusso da Bakola 2010, in part. pp. 16–49, 56–72, 275–285); inoltre, si stabilirebbe così un collegamento con un aspetto della poetica archilochea, quello appunto del sapere 2 intonare il ditirambo, espresso chiaramente nel fr. 120 W. e che nello stesso Cratino potrebbe ritornare nel fr. 199,4 (Pytinē), v. Biles 2002, p. 176. Si tratta di un’ipotesi possibile, ma legata a due elementi non certi, la correzione di Luppe del tràdito † πυρπερεγχει † e l’interpretazione del titolo Boukoloi; inoltre nessun elemento a nostra disposizione ne può dare conferma. Lo stesso vale per l’interpretazione di Luppe 1987: data la lettura πυρεγχής, un possibile collegamento con il ditirambo è dato dal presunto legame di tale parola (congetturata) con il bacchilideo κ[ε]ραυνεγχής e la pericope ἀπὸ διθυράµβου ἀρξάµενος potrebbe indicare che Cratino utilizzava un’espressione dedotta da un ditirambo noto e rifunzionalizzata contro l’arconte. Un riferimento ai coreuti, i βουκόλοι come seguaci di Dioniso (cfr. Titolo), spiega il perché del ditirambo secondo Reitzenstein 1893, p. 207: il confronto con βοηλάτᾳ … διθυράµβου in Pind. Ol. XIII 18 indicherebbe (ma ex silentio) “dass Pindar den Dithyrambos selbst βούκολος nennt, weil er das Lied der βουκόλοι ist”, cfr. Burkert 1966, p. 98. Nessuna delle spiegazioni proposte è pienamente convincente; inoltre, non è facile chiarire la presenza del ditirambo all’interno della commedia, per il quale non abbiamo alcun confronto, a meno di non voler accettare l’ipotesi di Meineke che fosse solo un modo per indicare un canto particolarmente veemente (l’idea di Fritzsche che fosse un ditirambo non di tipo tradizionale, ma recitato da singoli attori e simile a una monodia tragica non sembra probabile). Dalla testimonianza di Esichio si ricaverà con certezza solo che il ditirambo era rivolto contro l’arconte. Suggestiva, ma non dimostrabile, l’ipotesi che l’arconte contro cui era rivolto il ditirambo fosse lo stesso menzionato nel fr. 17, attaccato quindi

140

Cratino

da Cratino perché non gli aveva concesso il coro per rappresentare una sua commedia e in un’altra occasione aveva negato il coro anche a Sofocle, il grande tragico, per concederlo a Gnesippo116. Infine la pericope ἀπὸ διθυράµβου ἐν Βουκόλοις ἀρξάµενος è stata comunemente intesa come indizio del fatto che il ditirambo aprisse la commedia e, quindi, come prova del fatto che alcune commedie di Cratino mancassero del prologo, un dato questo che si fonda principalmente su Heph. ench. VIII 4, p. 26,3 Consbr. testimone del fr. 143 K.–A. (Odyssēs) dello stesso Cratino, v. in part. Bakola 2010, pp. 42–49, 57–59, Zimmermann 2011, p. 722, Luppi 2012 (per i Boukoloi; inoltre, per gli Odyssēs, Casolari 2003, p. 626s., Bakola 2010, pp. 236–238, Zimmermann 2011, p. 725 con bibl. prec.; altri possibili esempi di commedie che iniziavano senza il prologo sono discussi da Quaglia 1998, pp. 34–45); tuttavia, limitatamente al caso dei Boukoloi, il testo di Esichio alla lettera non implica necessariamente una tale conseguenza, cfr. Wilamowitz 1927, p. 18 n. 2: “wenn es von den Βουκόλοι heisst, dass Kratinos einige Worte sprach ἀπὸ διθυράµβου ἀρξάµενος, so liegt darin nicht, daß er mit diesem für uns nicht vorstellbaren Dithyrambus die Komödie begann”. Per la possibilità che il ditirambo qui menzionato possa identificarsi con il θρίαµβος del fr. 38 K.–A. di Cratino (Didaskaliai), v. p. 196.

fr. 21 K.–A. (19 K.) b

Σ α 1228 = Phot. α 1748 = Sud. α 2153 ἀ ν δ ρ α κ ά ς · τὸ κατ᾽ ἄνδρα, χωρίς Κρατῖνος ἐν Βουκόλοις a n d r a k a s: uomo per uomo, separatamente Cratino nei Boukoloi

Metro(Ignoto (lku) Bibliografia(Runkel 1827, p. 10 (fr. V), Meineke FCG II.1 (1839), p. 30 (fr. V), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. 5), Edmonds FAC I (1957), p. 286s., Kock CAF I (1880), p. 18, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 133, Delneri 2006, p. 66, Storey FOC I (2011), p. 277 116

Forse eccessiva appare, invece, l’ipotesi di Delneri 2006, p. 646s. che, postulata l’identità dei due arconti, ritiene che “per deridere un autore [i.e. Gnesippo] di canti tanto lascivi […] quale scelta più appropriata di quella di un canto in onore di Dioniso, nel contesto di una commedia contro i cultori di riti similari? […] Tale soluzione permetteva a Cratino tanto di sfogare la propria ira contro l’arconte […] quanto di deridere l’ ‘arte’ del tragico, quella del nuovo ditirambo”.

Βουκόλοι (fr. 21)

141

Interpretazione(La corretta lezione χωρίς è data in Sud. α 2153, mentre gli b altri testimoni riportano χωρῆσαι (Σ ) e χωρίσαι (Phot.); la menzione della commedia (ἐν Βουκόλοις) è omessa da Phot. (z). L’avverbio ἀνδρακάς (per la sua formazione, simile a ἑκάς, v. Schwyzer I, p. 630) ha solo due ulteriori attestazioni di nostra conoscenza: 14 1) ν 14: ἀλλ’ ἄγε οἱ δῶµεν τρίποδα µέγαν ἠδὲ λέβητα6/6 ἀνδρακάς. Parla Alcinoo e invita i Feaci a fare dono ad Odisseo e ai suoi compagni di un tripode e di un lebete ἀνδρακάς; nessun dubbio che il senso da intendere sia in questo caso quello di ‘ad ogni uomo, a testa’ (lt. viritim), dato anche da tutta l’esegesi omerica antica, v. ad es. Hsch. α 4721 ἀνδρακάς· κατ᾽ ἄνδρα ἕνα ἕκαστον. ἐπιῤῥηµατικῶς ὡς εἰπεῖν καθ᾽ ἕνα, ἢ κατ᾽ ἄνδρα. οἱ δὲ µερίδες, µοῖραι117 e la testimonianza evidente di Plut. Sept. sap. 151e ἄξιόν γε τοιαύτας ἀπαρχὰς τῷ βασιλεῖ συνεισενεγκεῖν ἅπαντας ῾ἀνδρακάς᾽, ὥσπερ ἔφησεν Ὅµηρος. 2) Aesch. Ag. 1595 ἔθρυπτ’ ἄνωθεν ἀνδρακὰς καθηµένοις6/6ἄσηµ’ . Qui il senso è discusso e non chiaro, a partire dalla notazione dello scolio tricliniano (vol. I, p. 204 Smith) secondo cui ἀνδρακὰς· ἀντὶ τοῦ καθ᾽ ἑαυτόν; sulla questione v. Fraenkel 1950, III p. 7526s. secondo cui il significato dell’avverbio potrebbe essere lo stesso omerico, ma anche differente, cfr. Judet de La Combe 2001, p. 733 (secondo cui Eschilo ha dato un nuovo significato all’avverbio, con una etimologia da ἑκάς). Per quanto attiene a Cratino, di cui non viene citata alcuna porzione di testo, i testimonia del frammento attestano un significato analogo a quello del passo dell’Odissea, κατ᾽ ἄνδρα; è aggiunta, però, anche un’altra spiegazione, χωρίς ‘separatamente, a parte’, un valore che risulta solo nei tre testimoni di Cratino e rende dunque probabile che il commediografo “pur adottando un termine raro della tradizione epica e poetica, gli conferisse tale nuovo significato” (Delneri 2006, p. 66). Nella loro struttura, i tre testimoni potrebbero, infatti, riportare il significato omerico e poi aggiungere quello specifico di Cratino (al comico sarebbe dunque da riferire specificamente solo χωρίς κτλ.), che, quindi, utilizzava ἀνδρακάς nel senso di ‘separatamente’; secondo Fraenkel 1950, III p. 572 n. 3 è possibile che χωρίς dei testimonia di Cratino possa corrispondere a καθ᾽ ἑαυτόν dello scolio tricliniano a Eschilo e, in questo caso, si tratterebbe di 117

V. ancora Apoll. Soph. 33,8; Method. apud Epim. Hom. I 82,7 da cui derivano: Et. Gen. α 821, Et. Gud. 136,10, EM 102,17; Eust. ad ν 14, 1731,336s. Un esegesi di Frinico, attestata nel citato passo di Eustazio, intendeva, invece, ἀνδρακάς, τὴν τῶν ἀνδρῶν δεκάδα, che tradisce evidentemente il fatto che il senso dell’avverbio era non chiaro e deve essere rifiutata, cfr. Fraenkel 1950, III p. 752 n. 2. Lo scolio V al passo omerico attesta τινὲς γράφουσι ἄνδρα κάτα, da intendersi come una variante poetica secondo Schwyzer I (1939), p. 630).

142

Cratino

uno dei tratti lessicali che accomunano Eschilo, v. Farioli 1996, in part. p. 966s. Se, invece, Cratino utilizzava ἀνδρακάς nel significato omerico, ‘uomo per uomo, a testa’, il suo impiego rimanda alle note caratteristiche omeriche del linguaggio del comico (cfr. Amado Rodriguez 1994).

fr. 22 K.–A. (20 K.) b

Σ α 1255 = Sud. α 2320 ἀ ν ε σ ί α ν· τὴν ἄνεσιν καὶ τὴν ἄδειαν. Κρατῖνος Βουκόλοις a n e s i an: la anesin e la adeian. Cratino nei Boukoloi Phot. α 1874 ἀνεσία· ἀντὶ τοῦ ἄνεσις. εἴρηται ἀπὸ τοῦ ἀνεῖσθαι. Κρατῖνος Βουκόλοις a n e s i a: invece di anesis. È detto da aneisthai. Cratino nei Boukoloi b

Σ α 1361 ἀ ν ε σ ί α ν· τὴν ἄνεσιν. Κρατῖνος a n e s i a n: la anesin. Cratino.

Metro(Ignoto (kkkl) Bibliografia(Runkel 1827, p. 10 (fr. VI), Meineke FCG II.1 (1839), p. 30 (fr. VI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10 (fr. 6), Kock CAF I (1880), p. 18, Edmonds FAC I (1957), p. 286s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 133, Delneri 2005, p. 67, Storey FOC I (2011), p. 277 Contesto della citazione(Nella maggioranza dei testimoni il lemma è tràdito all’accusativo (e all’accusativo sono le relative glosse); è possibile che questa fosse la forma originariamente impiegata da Cratino, mentre in Phot. α 1784, che ne propone anche una derivazione, il lemma potrebbe essere stato normalizzato. Interpretazione(Ἀνεσία è per noi un hapax e corrisponde, come documentano i testimoni, ad ἄνεσις e ἄδεια. Secondo LSJ s.6v., ἄνεσις vale sia ‘rilassamento’ in senso proprio, sia con valore metaforico ‘remissione’ e ‘indulgenza, licenza’, significato questo presente ad es. in Plat. Rp. VII 561a, Leg. I 637c etc.; ἄδεια è propriamente “freedom from fear” (LSJ s.6v.), ma può denotare un atteggiamento dalle conseguenze negative come ad es. in Plat. Leg. III 701a 8 ἡ δὲ ἄδεια ἀναισχυντίαν ἐνέτεκεν. Di conseguenza si può pensare che ἀνεσία avesse in Cratino una nuance negativa, come potrebbe indicare il valore dei due sostantivi con cui è glossato: si poteva riferire a un personaggio accusato

Βουκόλοι (fr. 22)

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di una qualche licenza che ostentava un atteggiamento non timoroso come dovuto e quindi sfrontato. Un’ulteriore specificazione del suo valore non è possibile; non condivisibile pare quindi l’ipotesi di Delneri 2006, p. 67 che legge nell’utilizzo del sostantivo l’espressione da parte di un personaggio di “un giudizio negativo, di cui forse erano oggetto proprio le donne, spesso protagoniste di culti dal carattere destabilizzante” (il riferimento al culto è legato all’interpretazione del titolo Boukoloi, v. p. 1146s.; quello alle donne si basa sull’utilizzo negativo di ἄνεσις in riferimento alle donne in Plat. Leg. I 637c, Aristot. Pol. 1269b 13 e 1270a 1; ma la specificazione del referente è, come detto, impossibile). La coppia ἀνεσία (hapax)6/6ἄνεσις (di comune impiego) presenta una doppia forma, una con suffisso –σία e una con –σις; un caso analogo è quello di σύνεσις6/6ἀσυνεσία (cit. da Blaydes 1896, p.  2) e cfr. ὑπόσχεσις/ ὑποσχεσίη, v. Fraenkel 1913, p. 163: “während ὑπόσχεσις, ἄνεσις usw. von einheitlich gefassten ὑπισχνεῖσθαι ἀνιέναι etc. ausgegangen sind, stellen die Parallelbildungen ὑποσχεσίη N 369, ἀνεσία Kratin. […] Kompositionen der Verbalastrakta von ἔχειν und ἱέναι mit der Präpositionen ὑπό und ἀνά dar”. Il suffisso –σία è presente fin dai poemi omerici, come dimostra il già citato caso di ὑποσχεσίη in Ν 369 e affianca quello in –σις soprattutto per denotare concetti astratti, fino a diventare molto frequente nella lingua tarda e poi tipico del greco moderno, v. Hatzidakis 1892, p. 287. Per ulteriori esempi di coppie –σις/-σία, v. Fraenkel 1913 (in part. pp. 163–166 per casi in unione con preposizione), Kühner–Blass II p. 270, Chantraine 1933, pp. 83–86; la coesistenza delle due forme aveva anche lo scopo, verisimilmente, di ovviare ad esigenze metriche del poeta (Delneri 2006, p. 67).

Βούσιρις (Bousiris) (‘Busiride’)

Datazione( Ignota Bibliografia(Runkel 1827, p. 106s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 31, Meineke FCG ed. min. (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10, Kock CAF I (1880), p. 19, Edmonds FAC I (1957), p. 286s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1336s., Storey FOC I (2011), p. 2786s. Titolo(Busiride è il nome del mitico re dell’Egitto, alla cui storia la commedia doveva essere relativa (v. infra Contenuto). Diverse le attestazioni del mito di Busiride nel teatro attico: un dramma satiresco di Euripide, il Bousiris Satyrikos (test. i-iii, frr. 312–315 Kann.) e diverse commedie intitolate Bousiris: Epicarmo (fr. 24 K.–A.), Antifane (frr. 66–68 K.–A.), Efippo (fr. 2 K.–A.) e Mnesimaco (fr. 2 K.–A.). A parte Epicarmo, le altre commedie che trattavano questo mito sono di IV sec. a.6C. e, per questo, Meineke (FCG I, p. 57, ibid. p. 413; FCG II.1, p. 31) sospettò che, anche in questo caso, il Bousiris fosse più tardo, opera di Cratino il giovane; contra Koerte 1922, col. 1648 secondo cui, nonostante l’unica citazione, il fatto che già Epicarmo avesse composto una commedia con questo titolo rende possibile l’attribuzione al comico dell’ἀρχαῖα. Si potrebbe al limite pensare con Welcker 1844, p. 333 e 338 ad un’attribuzione a Cratete (per lo scambio dei nomi dei due comici v. Kassel–Austin PCG IV, p. 121 e Luppe 1963, p. 214 n. 18), ma la presenza del tema mitologico nelle commedie di Cratino suggerisce di non alterare tale paternità. Contenuto(Sulla base del titolo si può supporre che la commedia fosse incentrata sul mito di Busiride, re d’Egitto, e del suo incontro con Eracle. Secondo il racconto dello pseudo-Apollodoro (II 1166s.), nel tragitto che lo conduce da Atlante, Eracle, dopo aver incatenato Nereo e aver ucciso in Libia Anteo, incontra Busiride, re d’Egitto figlio di Poseidone e di Lisianassa, il quale aveva l’abitudine di sacrificare gli stranieri su un altare di Zeus. Dopo una carestia di nove anni che aveva stremato l’Egitto, Frasio, indovino cipriota, aveva infatti indicato a Busiride di sacrificare ogni anno uno straniero a Zeus per placare la carestia; il primo a essere sacrificato fu Frasio stesso, poi ogni straniero che passava per l’Egitto, ma quando fu Eracle ad essere catturato e portato sull’altare, questi ruppe i legami e uccise sia il re Busiride, sia suo figlio Anfidamante. Alcune differenze o specificazioni sono note da altre fonti che tramandano questo racconto: Diod. Sic. IV 18,1 inserisce l’episodio nel corso della ricerca di Eracle delle vacche di Gerione, mentre in IV 27, 2–4 fa di Busiride un predone che aveva rapito le figlie di Atlante che vengono liberate dall’eroe greco; la durata della carestia in Egitto è nove anni anche in Callim. fr. 44 Pf. = 51

Βούσιρις (fr. 23)

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Massimilla, Ov. Ars I 647–652, Hygin. fab. 56, ma otto in Serv. in Verg. Georg. III 5; il nome dell’indovino è Frasio in Apollodoro, ma Thrasius in Ov. Ars I 649, Thasius in Hygin. fab. 56; l’uccisione di Busiride avviene sullo stesso altare su cui egli sacrificava gli stranieri in Ferecide di Siro (FGrHist 3 F 17) secondo cui, oltre al re e al figlio Anfidamante, vennero uccisi anche l’araldo Calbe e la sua scorta. Erodoto (II 45) espone l’avventura di Eracle, ma la giudica εὐηθής e non menziona Busiride; lo stesso racconto dello pseudo-Apollodoro è presente in Ferecide FGrHist 3 F 17 e Hygin. fab. 31, mentre la semplice uccisione di Busiride è menzionata nel già citato Diodoro Siculo e in [Plut.] Mor. 315 b (Parall. min. 38 A), Serv. ad Verg. Georg. III 5 e VIII 300, Lactant. Plac. schol. ad Stat. Theb. XII 155. Alcuni singoli dettagli del racconto sono presenti nelle fonti già citate e al mito di Busiride era dedicata una sezione degli Aitia di Callimaco (frr. 44–46 Pf. = 51–53 Massimilla, su cui v. Massimilla 1996, pp. 361–365) in cui è associato al racconto del toro di bronzo del tiranno Falaride di Agrigento, come avverrà in Ov. Ars I 647–652. Sul mito di Busiride e le sue fonti v. RE III,1, s.6v. coll. 1074–1077 (von Gaertringen), Roscher I, coll. 834–837 (Stoll), LIMC 3 s.6v. (Laurens), DNP 2 s.6v. (Grieshammer), Robert 1920–1926, pp. 517–520, Gantz 1993, p. 472, Rheinardt 2011, p. 125 (Anm. 512 con ulteriore bibliografia). Ad una delle commedie dedicate a Busiride (a quale nello specifico è impossibile dire data l’esiguità delle testimonianze in tutti i singoli casi) spetta probabilmente l’informazione di Dio Chrys. Or. 8,32 τὸν δὲ Βούσιριν εὑρὼν (sc. Ἡρακλῆς) πάνυ ἐπιµελῶς ἀθλοῦντα καὶ δι’ ὅλης ἡµέρας ἐσθίοντα καὶ φρονοῦντα µέγιστον ἐπὶ πάλῃ, διέρρηξεν ἐπὶ τὴν γῆν καταβαλὼν ὥσπερ τοὺς θυλάκους τοὺς σφόδρα γέµοντας (cfr. Kannicht 2004, p. 369). fr. 23 K.–A. (21 K.) ὁ βοῦς ἐκεῖνος χἠ µαγὶς καὶ τἄλφιτα Il bue quello e la madia e la farina Poll. X 81.82 καὶ µὴν τὰ ἐπιτιθέµενα τοῖς τρίποσι τράπεζαι καλοῦνται, καὶ µαγίδες, ὅστις χρῆσθαι βούλοιτο τῷ ὀνόµατι κυρίως ῥηθέντι ἐπὶ τῆς µάκτρας ἢ ἐπὶ τῆς τὰ ἱερὰ δεῖπνα ἢ τὰ πρὸς θυσίαν φερούσης, ὡς παρὰ Σοφοκλεῖ εἴρηται (fr. 734 R.). Κρατῖνος δ᾽ ἐν Βουσίριδι εἴρηκεν· ὁ βοῦς—τἄλφιτα E certamente ciò che si pone sui tripodi è detto trapezai (tavole), e magides, chi voglia usare il sostantivo detto in senso proprio per la madia o per quella che porta i pasti sacri o quelli per il sacrificio, come è detto in Sofocle (fr. 734 R.). E Cratino nel Bousiris ha detto: il bue—farina

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Cratino

Metro(Trimetro giambico

klkl l|lkl llkk

Bibliografia(Runkel 1827, p. 11 (fr. 1), Meineke FCG II.1 (1839), p. 31, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 11, Bothe PCGF (1855), p. 10, Kock CAF I (1880), p. 19, Pieters 1946, p. 165, Edmonds FAC I (1957), p. 286s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 134, Storey FOC I (2011), p. 2786s. Contesto della citazione(Il frammento è citato all’interno di una discussione su tavole (τράπεζαι) e tripodi (τρίποδες), che inizia a X 80 ed è parte della generale discussione sugli σκεύη tema del libro 10 (cfr. X 2). Polluce afferma dapprima (X 80) che τράπεζα o τρίπους si chiama la tavola che si pone sotto le vivande (ἡ δὲ ὑποκειµένη τοῖς ὄψοις τράπεζα καὶ τρίπους ἂν καλοῖτο), ossia su cui si pongono le vivande, e cita per questo Ar. fr. 545 K.–A.118, Eccl. 744, Xen. An. VII 3.21, Men. fr. 194 K.–A. (diminutivo τριπόδια), quindi che ciò che si mette sui tripodi viene chiamato κύκλος o ὅλµος (X 81) e anche τράπεζαι e µαγίδες; subito dopo sostiene, però, che il significato proprio di µαγίς è quello di µάκτρα (τῷ ὀνόµατι κυρίως ῥηθέντι ἐπὶ τῆς µάκτρας) ‘madia’ destinata a usi sacri (v. infra a µαγίδες) e come testimonianza di ciò cita un frammento anepigrafo di Sofocle (fr. 734 R.) τὰς Ἑκαταίας µαγίδας δόρπων (“The trays that contain Hecate’s suppers”119) e quello di Cratino. Di seguito, infine, Polluce riporta l’informazione che Epicarmo (fr. 117 K.–A.) utilizzò il termine µαγίς, in questo stesso senso (µάκτρα) non in riferimento all’ambito sacro ma a quello profano: παρὰ µέντοι Ἐπιχάρµῳ ἐν Πύρρᾳ ἢ Προµηθεῖ καὶ κατὰ τὴν ἀνθρωπίνην χρῆσιν εἴρηται, ‘κύλικα, µαγίδα, λύχνον.’ Interpretazione(La testimonianza di Polluce e il lessico utilizzato in questo trimetro giambico motivano l’interpretazione di Meineke (FCG II.1, p. 31): “apertum est describi sacrificii apparatum” (cfr. Meuli 1975, vol. II p. 923 n. 5); non è possibile al contrario verificare l’ipotesi di Pieters 1946, p. 165 secondo cui βοῦς indicherebbe Eracle. ἐκεῖνος(Ἐκεῖνος indica un oggetto distante nello spazio o nel tempo rispetto al locutore o uno meno importante di un altro (al contrario di ὅδε e οὗτος che ne indicano uno vicino o più importante), oppure può indicare un oggetto o una persona nota (“wie das lateinische ille […] von bekannten 118

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Polluce cita solamente il v. 3. del fr. 545 K.–A. di Aristofane (Telemēssēs; tutti e tre i versi del frammento sono tràditi da Athen. II 49c ed Eust. in Od. p. 1398, 18-20, cfr. Kassel–Austin PCG III.2, p. 281): (Α.) τράπεζαν ἡµῖν 〈ἔκ〉φερε6/6τρεῖς πόδας ἔχουσαν, τέτταρας δὲ µὴ ’χέτω.6/6(Β.) καὶ πόθεν ἐγὼ τρίπουν τράπεζαν λήψοµαι; Trad. di H. Lloyd-Jones in Sophocles. Fragments, edited and translated by H. L.-J., Cambridge Mass.–London 1996, p. 345.

Βούσιρις (fr. 23)

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Gegenstände, berühmten oder berüchtigten Personen gebraucht”, Kühner– Gerth II.1, § 467.13, p. 650). La posizione dopo il sostantivo non appare determinante e il suo valore non è ulteriormente specificabile (cfr. supra per l’ipotesi di Pieters). µαγίδες(Etimologicamente collegato al verbo µάσσω ‘impastare’ (GEW, DELG, Beekes 2010 s.6v.) già in epoca antica, v. ad es. Ar. Byz. fr. 24 AB ἡ µαγὶς ἀπὸ τῆς µάζης ἢ τοῦ µαστεύειν (µάττειν Nauck) κτλ. (con Slater 1986 p. 186s.) e, ancora, schol. ad Ar. Nub. 669, Athen. IV 172f, XIV 663a-c, Hsch. µ 17 µαγίδες· αἷς ἀποµάττουσι καὶ καθαίρουσι. κτλ. (v. infra), Poll. VI 64, VII 22. Per il significato, Polluce cita i tre casi di Sofocle, Cratino ed Epicarmo per attestare che il valore proprio di µαγίς è quello di µάκτρα ‘madia’ (‘kneadingtrough’ LSJ s.6v.; questo sostantivo ricorre in commedia in Ar. Ran. 1159, Plut. 545, Hermipp. fr. 56 K.–A.; v. anche Xen. Oec. IX 7), una tavola che serviva per impastare e conservare l’impasto e che lo stesso Polluce X 82 definisce destinata ad un utilizzo sacro, per portare i pasti sacri o quelli destinati al sacrificio (τὰ ἱερὰ δεῖπνα ἢ τὰ πρὸς θυσίαν); analoga equivalenza Polluce stabilisce in VI 64 ἡ δὲ µάκτρα καὶ µαγὶς ἐκαλεῖτο καὶ σκάφη e in VII 22 ὁ δὲ µάττων τὰ ἄλφιτα µαγεύς, καὶ τὸ ἀγγεῖον µαγὶς καὶ µάκτρα καὶ σκάφη (cfr. anche X 102). Μαγίς = µάκτρα ‘madia’ è il significato che si intende in Cratino e, probabilmente, anche in Sofocle ed Epicarmo, sebbene, nonostante l’esplicita testimonianza di Polluce, per questi ultimi sia possibile anche il valore di µαγίς = τράπεζα (‘table, esp. dining-table, eating-table’ LSJ s.6v.)120; 120

Poll. VI 83: αἱ δ’ ἐπιτιθέµεναι καὶ αἰρόµεναι τράπεζαι, ἃς νῦν µαγίδας καλοῦσιν. ἔστι µέντοι καὶ τὸ τῆς µαγίδος ὄνοµα παρὰ Σοφοκλεῖ ἐν χρήσει, seguita dalla citazione del fr. 734 R. di Sofocle; in questo contesto il frammento sembra citato per l’equivalenza τράπεζαι/µαγίδες (“cuius significationis exemplum adfert Soph. [sc. Pollux], Kock CAF I, p. 19), ma si può anche supporre che Polluce richiami il verso di Sofocle solo perché attesta un utilizzo di epoca classica del sostantivo µαγίς indipendentemente dal suo significato (dopo la pericope τράπεζαι, ἃς νῦν µαγίδας καλοῦσιν, Polluce attesta che il sostantivo era utilizzato in Sofocle [ἔστι µέντοι καὶ τὸ τῆς µαγίδος ὄνοµα παρὰ Σοφοκλεῖ ἐν χρήσει] e ciò non implica necessariamente che in questa occorrenza fosse presente l’equivalenza τράπεζαι/ µαγίδες). Per Epicarmo (e ancora Sofocle), v. Hellad. in Phot. Bibl. 279 p. 533b 10 (8, 180 Henry) καὶ ἡ µαγὶς δὲ ἀντὶ τῆς τραπέζης Αἰγύπτιον δόξει καὶ παντέλως ἔκθεσµον. Ἐπίχαρµος δὲ ὁ ∆ωριεὺς (fr. 117 K.–A.) καὶ Κερκίδας ὁ µελοποιός (CA fr. 12 Powell = 64 Lomiento) ἐπὶ τῆς αυτῆς διανοίας ἐχρήσαντο τῇ λέξει καὶ µὴν καὶ ὁ ἀττικὸς Σοφοκλῆς (fr. 734 R.). ‘Small table’ è la traduzione proposta in LSJ s.6v. per le occorrenze di Epicarmo e Cercida (‘kneading-throug or dresser’ per quella di Cratino). Su queste testimonianze v. in gen. (e per ulteriore documentazione) le discussioni di Radt in TrGF 4 ad Soph. fr. 734 (p. 519), L. Lomiento,

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Cratino

oltre a quelle citate, µαγίς è presente in epoca classica ancora solo in Ar. fr. 851 K.–A., una testimonianza di Phot. µ 9 (attribuito a Paus. µ 3 da Erbse ad loc.) µαγίδες· µᾶζαι· καὶ τὰ τῇ Ἑκάτῃ συντελούµενα δεῖπνα. οὕτως Ἀριστοφάνης e in Hippocr. Mul. 2,133 e Steril. 235 dove indica una focaccia salata (v. ancora Athen. XIV 663b secondo cui la µαγίς può essere dolce o salata); v. inoltre Hsch. µ 17 µαγίδες· αἷς ἀποµάττουσι καὶ καθαίρουσι. καὶ µᾶζαι, ἃς καταφέρουσιν οἱ εἰς Τροφωνίου κατιόντες (focacce offerte a Trofonio in cambio di un responso oracolare, cfr. Paus. IX 39. 1–5, 11). τἄλφιτα(‘Farina d’orzo’, opposto a farina di frumento (ἄλευρα), v. Pl. Rp. 372b ἐκ µὲν τῶν κριθῶν ἄλφιτα σκευαζόµενοι, ἐκ δὲ τῶν πυρῶν ἄλευρα, cf. Epin. 975b, Hdt. VII 119, Xen. An. I 5.6, Aristot. Prob. 863b2, Gal. XIX 76, 4–7, Moritz 1949 e 1958, pp. 145–150, Olson–Sens 2000, p. 29 (ad Archestr. fr. 5.7): “ἄλφιτα was a basic household commodity (Ar. V. 300–1; Th. 418–20; Men. fr. 250. 1–4 Kö. [218 K.–A.]) and was taken home from the marketplace in a sack (θύλακος) one supplied oneself (esp. Ar. Ec. 819–20; cfr. Hdt. iii 46.2; Ar. V. 314; Av. 503; Thphr. Char. 16.6”). Utilizzato per lo più al plurale, al sing. (con valore collettivo come già nelle occorrenze omeriche: Λ 631, β 355, ξ 429) solamente in Ar. Thesm. 420 (Austin–Olson 2004, p. 185), fr. 52 K.–A., Sotad. fr. 1, 24 K.–A., Aristot. Prob. 927a 11, Theoc. 14.7.

Cercidas. Testimonia et fragmenta, Roma 1993, pp. 316–318 ad Cerc. fr. 12 Powell = 64 Lomiento, Slater 1986 ad Ar. Byz. fr. 24 AB (p. 186s.).

∆ηλιάδες (Dēliades) (‘Fanciulle di Delo’)

Datazione(Commedia tarda. Possibile dopo il 426/5 a.6C. (forse Dionisie 424 a.6C.). Bibliografia(Runkel 1827, pp. 11–13, Bergk 1838, pp. 38–45, Meineke FCG II.1 (1839), pp.  31–36, Meineke FCG ed. min. I (1847), pp.  11–13, Bothe PCGF (1855), p. 116s., Kock CAF I (1880), pp. 19–22, Pieters 1946, p. 1686s., Edmonds FAC I (1957), pp. 30–33, Luppe 1963, pp. 23–34, Kassel–Austin PCG IV (1983), pp. 134–139, Neri 1994–1995, Storey FOC I (2011), pp. 279–283 Titolo(∆ηλιάς è un etnico femminile con suffisso -ιάς, cfr. Debrunner 1917, p. 191 § 381, Chantraine 1933, pp. 354–356 § 2886s.; il plurale Dēliades indica senz’altro, come prassi nell’archaia, i componenti del coro, cfr. per analoghi titoli al plurale e al femminile in Cratino Drapetides (v. p. 3096s.), Eumenides, Thraittai, Kleoboulinai, Hōrai. Due le identificazioni possibili: 1) ∆ηλιάδες = ‘le fanciulle di Delo’ come ancelle del culto di Apollo (e delle altre divinità delie), cfr. Hom. h. III (Ap.) 157 κοῦραι ∆ηλιάδες Ἑκατηβελέταο θεράπναι (le Deliadi danzano in onore di Apollo, poi di Latona ed Artemide), Eur. Her. 6876s. παιᾶνα µὲν ∆ηλιάδες6/6ὑµνοῦσ’ (su cui Wilamowitz 1895, p. 158, Bond 1981, p. 244; in questo passo si parla del solo Apollo), Hec. 4636s. σὺν ∆ηλιάσιν τε κούραισιν Ἀρτέµιδος θεᾶς (Deliadi legate a Latona). 2) ∆ηλιάδες = ‘le divinità di Delo’, come in Ar. Thesm. 334 dove indica le divinità femminili di Delo accanto a quelle maschili, in un elenco in cui ricorrono accostati dei e dee (vv. 331–334): εὔχεσθε τοῖς θεοῖσι τοῖς Ὀλυµπίοις6/6καὶ ταῖς Ὀλυµπίαισι, καὶ τοῖς Πυθίοις6/6καὶ ταῖσι Πυθίαισι, καὶ τοῖς ∆ηλίοις6/6καὶ ταῖσι ∆ηλίαισι, τοῖς τ’ ἄλλοις θεοῖς. Entrambe le ipotesi sono possibili, forse più probabile la 1) perché questo valore è quello maggiormente attestato e nel passo di Aristofane dove indica le divinità il significato è chiaro dal contesto; cfr. Luppe 1963, p. 23 “Μädchen […], die zu Ehren der delischen Gottheiten an deren Fest Reigen aufführen” (in generale Luppe ibid. pensa ad una commedia che abbia a che fare con un mito delio o apollineo) e da ultimo Storey FOC I, p. 278 che traduce “Delian maidens”. Bergk 1838, p. 34 identifica, invece, le Dēliades con un “virginum chorum, qui ab Atheniensibus in insulam Delum mittebatur”, in occasione della purificazione di Delo del 426/5 a.6C., evento questo che avrebbe costituito il tema della commedia (v. infra); contra Kock CAF66I, p. 19 che rileva la mancanza di indizi nei frammenti tràditi: “cum solo comoediae nomine nitatur, parum firma est” (cfr. anche Luppe 1963, p. 23 che rifiuta l’attribuzione di Bergk del

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Cratino

fr. 30 al coro di queste fanciulle e lo assegna, invece, agli anziani partecipanti alle Panatenee nominati nel fr. 33, v. infra ad locc.)121. Contenuto(“Quid potissimum spectaverit poeta ex paucis reliquiis non potest perspici, maxime tamen probabile est, comoediam res divinas comprehendisse”: così Bergk 1838, p. 38 che interpretava il titolo Dēliades come relativo ad coro di ragazze ateniesi inviate a Delo (v. supra) e pensava che la commedia potesse riferirsi all’evento della purificazione di Delo e della restaurazione delle feste in onore di Apollo (con la fissazione di feste quinquennali e la costruzione di un tempio in onore di Apollo; grande parte in questo evento ebbe Nicia secondo Plut. Nic. 3) narrato da Thuc. III 104, v. RE IV.2 s.6v. Delia, coll. 2433–35 (Stengel) e Bond 1981, p. 2406s.; se si accetta l’ipotesi di Bergk, si può pensare che le Dēliades riflettessero in qualche modo questo evento attuale analogamente a quanto “l’altra commedia di Cratino recante un titolo connesso con il culto, le Tracie, fu con ogni probabilità rappresentata in un’Atene ormai invasa dai riti per Bendis: un tema quindi non meramente mitico, ma di stretta attualità” (Neri 1994–1995, p. 271, cfr. anche Cronologia). Ciò è possibile, ma non confermato dai frammenti; secondo Luppe 1963, p. 23 il titolo plurale Dēliades può contenere un riferimento generico al culto o alle divinità di Delo (cfr. Titolo). Nel fr. 24 sono citati gli Iperborei, popolo tradizionalmente legato ad Apollo e di cui è testimoniata l’usanza di mandare a Delo offerte votive avvolte nella paglia; cenni di polemica letteraria potrebbero essere quelli dei frr. 25 e 26; forse all’agone, per il tono mordace, apparteneva il fr. 27; il fr. 28 contiene un riferimento alla vecchiaia e alcuni vecchi sono chiamati in causa nel fr. 33, forse una parodia delle Panatenee (alla vecchiaia potrebbe essere relativo anche il fr. 34, in cui si parla dell’inutilità); il fr. 29 contiene un cenno culinario non ulteriormente specificabile; i frr. 30 e 31 sembrano indicare una gara di bellezza, senz’altro con un soggetto femminile (παροῦσα) il fr. 31, mentre incerto rimane quello del fr. 30; sicuramente presente almeno un richiamo politico, nel fr. 32, dove è attaccato Licurgo per la sua omossessualità (gli è, infatti, attribuito l’ufficio di difrofora, tradizionalmente femminile) e forse per i presunti legami con l’Egitto.

121

Si esclude l’ipotesi di Edmonds FAC I, p. 31 che pensa alle “Hyperborean maidens called Perphereës (or Bearers of Offerings) worshipped at Delos” di cui si parla in Hdt. IV 33; Περφερέες in Erodoto non sono le fanciulle degli Iperborei, i cui nomi erano Iperoche e Laodice, ma i cinque concittadini loro accompagnatori, v. infra a fr. 24 K.–A. (Ὑπερβορείους).

∆ηλιάδες

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Cronologia(L’unico indizio interno è la menzione nel fr. 32,1 K.-A. di Licurgo, di incerta identificazione, ma kōmōdoumenos, oltre che qui, in Pherecr. fr. 11 K.–A. (Agrioi; Lenee del 420 a.6C., v. Athen. V 218d = Pherecr. Agrioi test. i K.–A. [PCG VII, p. 106]) e Ar. Av. 1294 (414 a.6C.), come testimonia lo scolio al citato verso di Aristofane, latore dei due frammenti comici; di conseguenza le Dēliades si considerano senz’altro “ein späteres Stück des Dichters” (Luppe 1963, p. 23)122. Generalmente è stato proposto il 424 a.C. (Dionisie; le commedie lenaiche del 424 a.C. sono note, v. arg. II Ar. Eq. = Cratin. test. 7b K.–A., PCG IV, p. 113), data immediatamente successiva alla restaurazione delle feste Delie (426/5), evento al quale la commedia avrebbe fatto riferimento, in maniera analoga al caso delle Thraittai e del culto di Bendis (cfr. Contenuto), v. Bergk 1838, p. 38 (“Cratinum […] credo hac opportunitate usum esse eo fere tempore, quo primum sacra legatio in Delum missa est”), Geissler 1925, p. 35 e 82, Schmid 1946, p. 79, Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 134, Pieters 1946, p. 119, Neri 19941995, Imperio 2004, p. 186 e n. 22. Una possibile rappresentazione alle Dionisie potrebbe inoltre giustificare il fatto che le feste Delie avevano un carattere “wesentlich panionisch” (Wilamowitz 1895, p. 142), particolarmente adatto quindi a questa occasione in cui poteva così, inoltre, essere celebrato davanti ad un pubblico non solo di Atene il ruolo della città nella restaurazione del culto. Contrariamente al caso delle Thraittai, nelle Dēliades non c’è però alcun indizio a parte il titolo che indichi un riferimento a questo evento storico e la sua pertinenza alla commedia di Cratino appare soggettiva; nulla esclude, come sostenuto da Luppe, che la commedia potesse avere a che fare con il culto delle divinità delie o un mito delio in generale (cfr. Contenuto). È, inoltre, ipotesi di Neri 1994–1995 che le Dēliades di Cratino ottenessero nell’agone dionisiaco del 424 a.6C. il secondo posto, dietro i Geōrgoi di Aristofane e davanti al Chrysoun Genos di Eupoli, una ricostruzione che si basa sul riesame di un insieme di testimonianze che riguardano la cronologia di tutte e tre le commedie; in particolare per le Dēliades, oltre all’evento storico della purificazione di Delo, viene rilevato che: 1) In Thuc. III 104.1 si dice che gli Ateniesi si mossero a restaurare il culto delio κατὰ χρησµὸν δή τινα, una notazione ironica (per l’uso in questa espressione di δή τις, v. la discussione di Neri 1994–1995, p. 2716s.); inoltre 122

Che sia una commedia tarda potrebbero mostrarlo anche i riferimenti alla vecchiaia, uno dei temi della Pytinē, nei frr. 28 e 33 e, forse, 30 e 34, come propone Neri 1994–1995, p. 2726s. n. 43 che li considera, però, “non […] necessariamente un indizio”.

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Cratino

nella purificazione di Delo ebbe un ruolo importante Nicia (Plut. Nic. 3, 5–8), bersaglio nei Geōrgoi di Aristofane dello stesso anno (fr. 102 K.–A.); quindi, il non proprio nobile motivo che spinse gli Ateniesi (e al limite anche lo stesso Nicia) poteva essere bersaglio nella commedia di Cratino (per la datazione dei Geōrgoi al 424 a.6C., v. la discussione in Neri 1994–1995 p. 2636s.); 2) è possibile che il fr. 25 K.–A. di Cratino sia un’eco di Ar. Eq. 518 (cfr. infra p. 1606s.), rappresentata alle Lenee del 424 a.6C., il che indicherebbe anche la destinazione dionisiaca della pièce cratinea; 3) la classificazione al secondo posto si motiverebbe, tra l’altro, con il fatto che se Cratino avesse vinto nel 424 a.6C., “le motivazioni, la struttura tematica e la Stimmung della Bottiglia […] sarebbero poco comprensibili […]: tutto lascia anzi pensare che la vittoria del 423 giungesse dopo un periodo di sconfitte” (p. 283)123. A ciò si può aggiungere la menzione delle ∆ηλιάδες in Eur. Her. 687, un riferimento che Wilamowitz 1895, p. 142 considerava inutile per la cronologia sia della tragedia di Euripide (“da es Deliaden während seines ganzen Leben gegeben hat”) sia della commedia di Cratino; l’Eracle è però oggi datato con buona approssimazione al 416–414 (Bond 1981, XXX-XXXII), quindi dopo la restaurazione delle feste Delie alla quale quello del v. 687 potrebbe effettivamente essere un riferimento124. Come Neri stesso (p. 285) sostiene, “le ipotesi qui avanzate non offrono che soluzioni inevitabilmente provvisorie”; tuttavia, se si accetta la pertinenza all’evento storico della restaurazione delle 123

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Obiezioni ad una datazione nel 424 a.6C. sono quelle di a) Mastromarco 1978, p. 33 secondo cui se nel 424 a.6C. Cratino avesse messo in scena una commedia, avrebbe potuto rispondere già allora agli attacchi di Aristofane nei Cavalieri e non ci sarebbe stato bisogno della Pytinē; b) Schmidt 1946, p. 79 n. 9, per la presunta lentezza di Cratino, testimoniata nel fr. 255 K.–A. (Cheirōnes) ταῦτα δυοῖν ἐτέοιν ἡµῖν µόλις ἐξεπονήθη, per cui “an den Lenäen 424 sind Krat. Σάτυροι aufgeführt; als langsamer Arbeiter […] wird er nicht in einem Jahr zwei Komödien gebracht haben”. Neri 1994–1995 p. 2696s. rileva rispetto ad a) che nelle Dēliades potevano esserci primi accenni di risposta, testimoniati forse nei frr. 25 e 26 K.–A., in previsione “poi di dedicarvi un’intera commedia, alle Dionisie dell’anno successivo”; rispetto a b) che quello espresso nel fr. 255 K.–A. “non prova nulla: non è chiaro da quale personaggio ed in che contesto fosse pronunciata la battuta, che è semmai una traccia di labor limae piuttosto che di Langsamkeit” (p. 270). Così Neri 1994–1995, p. 270 che cita anche il caso analogo di Eur. Hec. 462–465 (σὺν ∆ηλιάσιν τε κούραισιν Ἀρτέµιδος θεᾶς6/6χρυσέαν ἄµπυκα τόξα τ᾽ εὐλογήσω), generalmente considerato terminus post quem per la datazione (v. la documentazione a n. 31); secondo Bond 1981, p. xxii nell’Eracle “the reference at 687 ff. to the Delian maidens dancing well reflect an interest in Delos engendered by the purification of the island in 426/5 BC. But there is no reason why the events of that year should be fresh in the mind of Euripides or his audience”.

∆ηλιάδες (fr. 24)

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feste Delie, il 424 a.6C. è una data molto probabile (se non l’unica possibile) per la commedia di Cratino. Per la test. i K.–A., v. p. 116.

fr. 24 K.–A. (22 K.) ‘Υπερβορείους αἴθρια τιµῶντας στέφη Ὑπερβορείους Musurus: Ὑπερµορίους codd.ƒƒƒαἴθρια edd. vett.: αἴθριαι codd.

Gli Iperborei che tengono in onore corone custodite all’aria aperta Hsch. α 1869 αἴθρια· Κρατῖνος ∆ηλιάσιν. Ὑπερβορέους — στέφη· τὰ γὰρ Ὑπερβορέων ἱερὰ κατά τινα πάτριον ἁγιστείαν οὐχ ὑπὸ στέγην, ἀλλ᾽ ὑπαίθρια διαφυλάττεται aithria: Cratino nelle Dēliades. Gli Iperborei — aria aperta. Infatti gli oggetti sacri degli Iperborei secondo un culto tradizionale sono custoditi non sotto un tetto, ma all’aria aperta

Metro(Trimetro giambico

klkl l|lrl llkl

Bibliografia(Runkel 1827, p. 11 (fr. I), Bergk 1838, p. 436s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 346s. (fr. V), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (fr. 5), Kock CAF I (1880), p. 196s., Edmonds FAC I (1957), p. 30, Luppe 1963, pp. 30–33, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 134, Storey FOC I (2011), p. 2806s. Contesto della citazione(Il frammento di Cratino è tràdito dal solo Esichio, come attestazione dell’aggettivo aithria, di cui viene fornita una possibile spiegazione; all’origine della glossa vi è presumibilmente la necessità di definire il valore di aithria in relazione a stephē, cfr. Luppe 1963, p. 31: “Schwierigkeit bereitet vom Sinn her das Adjektiv αἴθρια. Dies hat auch zu der Glossierung geführt” (cfr. infra ad αἴθρια). La glossa risale verisimilmente a Diogeniano (Latte 1953 ad loc.) e si trova dislocata rispetto all’arrangiamento alfabetico, all’interno di una serie di lemmi che riguardano l’Etiopia (precedono Aithiopia, Aithiopiēs, Aithiopikon, Aithiopis [α 1865–1867], segue Aithiops [α 1870]; lemmi con aithr- da α 1883 in avanti. Per i problemi dell’ordine alfabetico in Esichio, v. Latte 1953, p. xxix-xxiii e le aggiunte di Hansen 2005, p. 21). b Una glossa in parte analoga è in Σ α 519 = Phot. α 579 = Sud. αι 149 (II p. 166) αἴθρια στέφη· τὰ αἰθέρια. ἢ µεγάλα. οἱ δὲ τὰ ἀπὸ τῶν δένδρων. | ἢ

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Cratino

τὰ ἐξ Ὑπερβορέων κοµιζόµενα, ὡς ἀεὶ ἐν ὑπαίθρῳ τιθέµενα (in Fozio manca la pericope κοµιζόµενα — ὑπαίθρῳ; in Suda la prima parte, τὰ αἰθέρια — δέδνρων. ἢ); la pericope τὰ ἐξ Ὑπερβορέων κοµιζόµενα, ὡς ἀεὶ ἐν ὑπαίθρῳ τιθέµενα (Σ, Sud.), ripete la spiegazione di aithria di Esichio, che potrebbe quindi essere fonte di questa parte. Il lemma αἴθρια στέφη è molto probabile che rappresenti gli ipsissima verba di Cratino: quella del commediografo è, infatti, l’unica attestazione che conosciamo dell’uso di questo aggettivo in relazione a στέφος (l’attribuzione a Cratino è esplicita in Theodoridis 1982, p. 66; non risulta, invece, in Adler 1931, p. 166 e Cunningham 2003, p. 565). Testo(Le due lezioni dei codici, Ὑπερµορίους e αἴθριαι, sono senz’altro da scartare: la prima perché lectio nihili, la seconda perché αἴθρια, aggettivo concordato con στέφη, è confermato dal lemma di Esichio (e αἴθρια στέφη è b il lemma di Σ α 519 e degli altri testimoni, verisimilmente dal testo stesso di Cratino, v. Contesto della citazione). Per la scelta della grafia del sostantivo Ὑπερβορε(ί)ους, la forma con il dittongo è testimoniata da Steph. Byz. p. 650,11 che la riporta a fonte antica: Ἑλλανίκος (FGrHist 4 F 187, V sec. a.6C.) Ὑπερβόρειοι γράφει διὰ διφθόγγου (cfr. Lobeck 1837, p. 220) e venne restituita in Cratino già da Musuro125; ma Ὑπερβορε- è attestata in poesia (Hom. h. VII 29, Pind. Pyth. X 30, Aesch. Coeph. 373) e secondo LSJ s.6v. “ὑπερβόρειος is a constant v.l. in codd.; but in the poetic passages ὑπερβόρεος is either necessary or at least admissible, as in Cratin. 22 [24 K.–A.]”, con la specificazione ulteriore della sua documenta2 zione epigrafica (IG II 1636,8, metà IV sec. a.6C.; Ὑπεροβορε- ricorre anche in Platone, v. infra a Ὑπερβορείους). Nel passo di Cratino, però, Ὑπερβορείους è senz’altro preferibile metri causa ad Ὑπερβορέους126; Ὑπερβορέους αἴθρια τιµῶντας στέφη (klkkl lrlllkl) obbliga per la prosodia di αἴθρῐα e quella di τῑµῶντας, che dà un’impossibile lunga in sede pari, a modificazioni non giustificate del testo (“aut Ὑπερβορείους aut αἴθρεια”, Kock CAF I, p. 19 che proponeva Ὑπερβορέους αἰθέρια τηροῦντας στέφη; analogamente già Bergk 1838, p. 44: Ὑπερβορέους τιµῶντας αἴθρια στέφη, Meineke FCG II.1, p. 34: Ὑπερβορέους αἴθρεια τιµῶντας στέφη127). Per la forma metrica di questo 125

126 127

La lezione di Musuro nell’editio princeps, aldina, di Ateneo (Athenaei Deipnosophistarum libri  XV Graece, recensuit M. Musurus, Venetiis [apud  Aldum et Andream socerum] 1514), ad loc. Ad una forma Ὑπερβορει- potrebbe far pensare anche il tràdito Ὑπερµορίους, lectio nihili (v. supra), probabilmente anche un errore di itacismo. Secondo Meineke ibid. “in Cratini versu utrum Ὑπερβορείους an Ὑπερβορέους scribendum sit dubitari potest”; per la prima forma Meineke rimandava alla testimonianza di Ellanico e alla documentazione di Lobeck (v. supra), ma preferiva la

∆ηλιάδες (fr. 24)

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trimetro giambico, con anapesto in quarta sede (il terzo in ordine di frequenza in Aristofane, Descroix 1931, p. 201) e fine di parola tra le due brevi e la lunga (kk|l), v. Ar. Ach. 107, 1078, Av. 1226, Thesm. 637 (cfr. Descroix 1931, p. 2206s.). Luppe 1963, p. 33 rifiuta le modificazioni del testo tràdito, ma accetta la forma Ὑπερβορε- e rinuncia ad un tentativo di interpretazione metrica: “Am besten läßt man das Fragment in der in Text vorgeschlagen Form, die sich bis auf Verbesserungen eindeutiger Schreibfehler and die Überlieferung hält, und verzichtet auf eine metrische Herstellung. In dem Fragment könnte ja auch etwas fehlen, was in Zusammenhang der Glossierung belanglos war, oder das Fragment könnte aus einem Lied stammen”. Interpretazione(Il sostantivo Ὑπερβορείους e il suo participio τιµῶντας, in accusativo, dipendono certamente da un verbo che precedeva o seguiva nell’originario contesto. La traduzione proposta si basa sull’interpretamentum di Esichio, con αἴθρια = ‘custodite all’aria aperta’, ma il senso di questo aggettivo rimane incerto (v. infra ad loc.); non del tutto chiaro è anche il senso dell’espressione ‘tenere in onore corone aithria’: perché custodire corone all’aria aperta significa tenerle in onore? Si può trattare di un’usanza degli Iperborei non altrimenti nota e che non si può spiegare, ma il testo potrebbe essere anche corrotto o nascondere un significato che sfugge. Senza dubbio il riferimento agli Iperborei è dovuto al legame tra questi e il culto di Delo (v. a Ὑπερβορείους), al quale doveva far riferimento la commedia (v. Contenuto); secondo Meineke FCG II.1, p. 34 con αἴθρια στέφη sono indicate le primizie avvolte nella paglia mandate dagli Iperborei a Delo (Hdt. IV 33, Paus. I 31.2), un’identificazione però non provabile; analogamente Kock CAF I, p. 30 che però, dato l’incerto significato di αἴθρια e dell’espressione αἴθρια τιµῶντας στέφη, riteneva che queste primizie “antiquitus fortasse […] de caelo vel aethere delapsa esse credebantur”, un’ipotesi che non trova però alcuna conferma. Luppe 1963, p. 32 rifiuta i significati di αἴθριος dei testimonia (v. infra ad loc.) e rinuncia ad interpretare il frammento: “was dann freilich αἴθρια στέφη sein sollen, bleibt rätselhaft. Vielleicht steht darin irgendein Witz oder gar eine Verhöhnung absurder Wortstellungen oder sprachlicher Ausdruckweise”. Ὑπερβορείους(Gli Iperborei sono un popolo mitico dell’antichità; per una documentazione su di essi v.  RE IX.1 (1914),  s.6v.  Hyperboreer, coll. 258–279 (Daebritz), Bolton 1962, pp.  101, 195–197 e n. 32, RAC XVI seconda per un motivo metrico “dactylus in medio versu nonnihil offensionis habet”, da cui la sua proposta di correzione; la proposta di Bergk (conservare Ὑπερβορέους e invertire l’ordo verborum di αἴθρια τιµῶντας in τιµῶντας αἴθρια), per analogo motivo, era ritenuta altrettanto valida e, anzi, forse preferibile (“praestat fortasse Bergkii ratio”), dopo una breve discussione metrica. Per la forma metrica, v. supra.

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Cratino

(1994), s.6v. Hyperboreer, coll. 967–986 (Werhahn), LIMC VIII,1 (1997), pp. 641– 643 (Zaphiropoulou). In commedia sono citati solo in questo frammento di Cratino; in tragedia in Aesch. Coeph. 373, nella prosa attica di IV/IV solamente in Plat. Charm. 158b 8, [Plat.] Axioch. 371a 5 (cfr. Testo per Ellanico). L’etimologia del nome è discussa (rassegna delle ipotesi con documentazione e bibliografia in Daebritz in RE cit. supra coll. 259–261 e Windekens 1957): in antico prevale l’interpretazione ‘che vivono al di là (ὑπέρ) di Borea (il vento del nord)’, presente già in Pind. Ol. III 31, Hdt. IV 36 (che la contesta), poi in Callim. hymn. IV 281, Ap. Rh. IV 286, Paus. V 7.7 etc.128; le etimologie dei moderni si riconducono, invece, a due ipotesi principali, con diverse interpretazioni: l’una (1) che risale ad Ahrens 1862, pp. 340–342 e che lo collega con il nome Περφερέες di Hdt. IV 33 (v. infra) e un radicale *bher- ‘portare’129; l’altra (2), proposta per primo da Pedersen 1900, p. 319, che istituisce un collegamento con βορέας originariamente ‘vento di montagna’ (imparentato con un presunto *βορις ‘montagna’, di origine tracia) e interpreta quindi Ὑπερβόρε(ι)οι

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In parte simile, ma con una successiva spiegazione non nota altrove, Fest. sign. verb. s.6v. Hyperborei, p. 91 Lindsay: supra aquilonis flatum habitantes dicti, quod humanae vitae modum excedant vivendo ultra centesimum annum, id est ὑπερβαίνοντες ὅρον saeculi humani; infine schol. Pind. Ol. III 31 (notizia attribuita a Filostefano, FHG III 33 Müller) lo riconduce ad un eponimo fittizio, quello del tessalo Ὑπερβόρε(ι)ος (da questo scolio Farnell 1907, p. 217 deduce un particolare legame tra Iperborei e Tessali, altrimenti non attestato). Ahrens 1862, pp. 340–342 collega Ὑπερβόρε(ι)οι con Περφερέες di Hdt. IV 33 e con il nome del mese macedone Ὑπερβερεταῖος: all’origine vi sono il radicale *bher- (cfr. φέρω ‘portare’, in macedone rappresentato dalla labiale sonora) e un preverbo ὑπέρ nel nome del mese, che compare come περ in Περφερέες e, quindi, il nome nel complesso indicherebbe il trasporto delle offerte “das Tragen ὑπὲρ γῆν καὶ θάλατταν” (p. 341; in maniera simile anche Guthrie 1987, p. 996s.). Con gli stessi presupposti di Ahrens, ma con interpretazioni divergenti: a) Hoffmann 1906, p. 108, secondo cui il nome Ὑπερβερεταῖος rimanda a delle feste ὑπερβερεταῖα, in onore di Ζεὺς *Ὑπερβερέτας, un epiteto questo che si collegherebbe a quello di Zeus, Ὑπερφερέτης in Dion. Hal. ant. rom. II 34 (dove significa ‘superiore’) e Ὑπερβορε(ι)οι significa dunque ‘coloro che sono superiori, che sorpassano’; b) Windekens 1957 propone per Περφερέες un parallelo con l’epiteto di Hermes Περφεραῖος in Callim. Iamb. VII 1 (fr. 197 Pf.) che la διήγησις ad loc. (I p. 193 Pf.) spiega: Περφεραῖος Ἑρµῆς ἐν Αἴνῳ τῇ πόλει τῆς Θρᾴκης τιµᾶται ἐντεῦθεν; sulla base della notizia del suicidio volontario degli Iperborei in età avanzata (ad es. Plin. nat. hist. 89–90) pensa, quindi, che “Ὑπερβόρεοι (macédonien ou thraco-phrygien) ou Περφερέες (grec) signifiant „ceux qui portent, qui conduisent (les hommes, les ames, à l’au-delà“” (p. 168).

∆ηλιάδες (fr. 24)

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come coloro dei quali “über den Bergen, im Himmel, liegt das Land”130. La localizzazione geografica degli Iperborei è variamente attestata, ma per lo più collocata nel nord della terra, cfr. Dion 1977, p. 263. Pindaro (Pyth. X 28–30) enuncia l’impossibilità di raggiungere la terra degli Iperborei ναυσὶ δ᾽ οὔτε πεζός, mentre in Isthm. VI 23 colloca gli Iperborei genericamente a nord (all’estremità opposta delle sorgenti del Nilo) e in Ol. III 14–16 con maggior precisione alle sorgenti dell’Istro; questo fiume nasce a Pirene (odierna Port Vendres, all’estremità orientale dei Pirenei, v. Dion 1968, pp. 7–9) nel territorio dei Celti secondo Hdt. II 33.3, ma secondo altre fonti (Aesch. fr. 197 R., Hellan. FGrHist 4 F 187, Ap. Rh. IV 287, cfr. anche Callim. fr. 186,9 Pf. = 97 Massimilla) dai monti Ripei che si trovano nel settentrione estremo (v. Massimilla 1996, p. 422). Altre collocazioni geografiche, moderne, si ricollegano alla possibile etimologia del nome ‘al di là/al di sopra dei monti’, v. supra. Particolarmente noto è il legame con Apollo, con il quale gli Iperborei sembrano aver avuto un rapporto privilegiato. Già in Alc. fr. 307 V. si narra che Apollo non rispettò un ordine di Zeus e si rifugiò presso gli Iperborei, dove arrivò su un carro trainato da cigni (v. Page 1959, pp. 249–252); presso di loro Apollo risiedeva poi annualmente o secondo altre fonti ogni diciannove anni (Daebritz in RE cit. supra, in part. col. 264); in Bacch. III 58 ss. Apollo salva Creso dalla morte e lo conduce presso gli Iperborei, immaginati qui e altrove come un popolo felice e beato (cfr. Aesch. Choeph. 3736s. µεγάλης δὲ τύχης καὶ ὑπερβορεόυ6/6µείζονα φωνεῖς, con Garvie 1986 ad loc.; v. anche Pompon. Mel. III 5 e la notizia sul suicidio volontario degli Iperborei, con cui terminavano volontariamente una vita più lunga di quella di qualsiasi mortale, v. Daebritz cit. col. 2746s.); v. ancora Pind. Ol. III 16 (δᾶµον Ὑπερβορέων … Ἀπόλλωνος θεράποντα), Pae. VIII 63–5, fr. 270 (si parli di Abari, un Iperboreo sacerdote di Apollo mandato ad Atene in occasione di una pestilenza), Bacch. III 58–60, Soph. fr. 956 R. Celebre il resoconto di Hdt. IV 33–36 (cfr. Paus. I 31.2) secondo cui gli Iperborei inviavano offerte votive avvolte in paglia a Delo, dove arrivavano tramite un complesso percorso che partiva dagli Sciti e arrivava per ultimi agli abitanti di Teno; tuttavia, la prima volta gli Sciti mandarono i doni tramite 130

Ὑπερβόρε(ι)οι = ‘al di là/al di sopra dei monti’ è proposto anche da O. Schroeder, Hyperboreer, «Archiv für Religionswissenschaft» 8, 1905, pp. 69–84, che pensa ad una localizzazione del monte in Tracia; analogamente anche L. Weber, «RhM» 82, 1933, pp. 165–229; J. Wiesner, Die Thraker, Stuttgart 1963, pp. 59–61; H. Kothe, Apollons Ethnokulturelle Herkunft, «Klio» 52, 1970, pp. 205–230, mentre secondo J. Harmatta, Sur l’origine du mythe des Hyperboreans, «AAntHung» 3, 1955, pp. 57–66, si tratta dei Balcani nord-occidentali.

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Cratino

due fanciulle, Iperoche e Laodice, accompagnate da cinque concittadini, detti Περφερέες (sul racconto di Erodoto, da ultima Moscati Castelnuovo 2005). Le offerte degli Iperborei sono effettivamente attestate nel IV sec. a.6C. da due resoconti anfizionici: il primo del 372/1 a.6C., v. Durbach 1911, pp. 5–11 2 e Coupry 1930 (informazione alla l. 50), il secondo in IG II 1636, A (metà IV a.6C.), l. 8, cfr. Treheux 1953 in part. p. 7626s.; è però discusso se si tratti di una finzione rituale o di reali doni provenienti da comunità greche dei Balcani, cfr. la documentazione in Corcella 1993, p. 258. Agli Iperborei era probabilmente dedicata una sezione degli Arimaspea di Aristea di Proconneso (VII sec. a.6C.), cfr. PEG I, frr. 1–15 Bernabè e Bolton 1962, pp. 207–210. αἴθρια(L’aggettivo αἴθριος significa generalmente ‘sereno, chiaro’ detto del tempo (ad es. Hdt. II 25), può essere epiteto di Zeus (ad es. Heracl. B 120, Theocr. IV 43) e può essere detto di un vento che porta buon tempo (ad es. Hom. h. III [Ap.] 433, Aristot. meteor. 364b 29), v. LSJ s.6v.; quest’ultimo significato può essere relativo specialmente al vento del nord (Aristot. meteor. 358b 1) e si potrebbe pensare ad una connessione tra ciò e la localizzazione a nord degli Iperborei (v. supra), ma questo non spiega, comunque, l’utilizzo di αἴθριος come qualificativo di στέφος ‘corona’. Il fatto che nessuno dei valori noti appaia possibile in questo caso, giustifica probabilmente l’origine della glossa, v. Contesto della citazione e i testimonia qui riportati che offrono in tutto quattro possibili significati (di seguito divisi in due gruppi): b 1) Hsch./Σ + Sud.: ‘all’aria aperta’ (οὐκ ὑπὸ στέγη, ἀλλ᾽ ὑπαίθρια διαφυλάττεται6/6τὰ ἐξ Ὑπερβορέων κοµιζόµενα, ὡς ἀεὶ ἐν ὑπαίθρῳ τιθέµενα). È la spiegazione più verisimile, ma non esente da problemi: αἴθριος si riferisce al fatto che gli oggetti sacri degli Iperborei, tra cui si possono verisimilmente intendere anche le corone, sono custoditi all’aria aperta. Tuttavia, l’usanza degli Iperborei di conservare corone ‘all’aria aperta’ non ha nessuna ulteriore testimonianza e l’interpretamentum potrebbe essere autoschediastico; inoltre, αἴθριος è qui spiegato con un aggettivo ad esso vicino, ὑπαίθριος, ma che non ne ha lo stesso significato, cfr. Luppe 1963, p. 32: “αἴθριος ist im klassischen Griechisch nicht gleichbeteund mit ὑπαίθριος” e v. anche Kock CAF I, p. 30 “quomodo τὰ ἀεὶ ἐν ὑπαίθρῳ τιθέµενα dici possint αἴθρια στέφη et quid sit τιµᾶν αἴθρια στέφη non intellego” (cfr. Interpretazione). Di conseguenza si può o accettare la spiegazione di Esichio e intendere ex silentio αἴθριος nel senso di ὑπαίθριος (così anche LSJ s.6v. II “kept in the open air”) oppure rifiutare questa spiegazione e, come propone ancora Luppe 1963, p. 32, attenersi al significato di αἴθριος che possediamo (‘sereno’, ‘chiaro’ etc.), che rimane qui, però, sfuggente e nasconde probabilmente una più recondita e per noi ignota allusione, cfr. Interpretazione.

∆ηλιάδες (fr. 24)

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b

2) Σ + Phot. + Sud.: a) eteree, alte nell’aria (αἰθέρια), b) grandi (µεγάλα), c) dagli alberi (ἀπὸ τῶν δένδρων). Queste tre spiegazioni appaiono tutte poco convincenti, quasi certamente un tentativo poco probabile di dare un senso a un’espressione non chiara quale αἴθρια στέφη, e senz’altro aggiunte all’interpretamentum dato da Esichio, v. Luppe 1963, p. 32: a) αἰθέρια “ist nicht verständlicher als das Wort, das erklärt werden soll”; b) µεγάλα sembra autoschediastico: le corone vengono onorate e risultano quindi al glossatore ‘grandi’, ossia ‘importanti’131; d) τὰ ἀπὸ τῶν δένδρων “meint vielleicht Kränze, die aus Laub verfertigt sind, also aus etwas, das oben auf dem Baum, also gleichsam “im Aether” wuchs – eine sehr naive Deutung”132. τιµῶντας(“Hold in honour or esteem, value, prize” (LSJ s.6v.), v. ad es. Hom. h. XXV 6 (canto), Eur. Tro. 1221 (leggi), Pind. Ol. VI 72 (virtù), Eur. Phoen. 550 (tirannide). Questo di Cratino l’unico esempio di τιµάω riferito a στέφος/ στέφανος. στέφη(Forma poetica per στέφανος (l’unica testimoniata nei poemi omerici, in Esiodo e nei poeti lirici; στέφος in Emped. B 112.6), di impiego limitato e caratteristico della tragedia, sia nelle parti dialogate (ad es. Aesch. Ag. 1265, Coeph. 95, 1035, Eur. Heracl. 71 etc.), sia in quelle liriche (ad es. Aesch. Sept. 101, Ag. 1265, Eur. IA 1477, 1512), escluso dalla lingua della commedia (dove ricorre normalmente la forma στέφαν- e correlati) con l’unica eccezione di questo passo di Cratino e presente solo nella prosa tarda (ad es. Gal. 18 [1], 786, v. LSJ s.6v.); data la sua ricorrenza in tragedia, si può forse intendere in Cratino come un sostantivo di matrice tragica. Etimologicamente deverbativo di στέφω probabilmente con il significato di ‘circondare, cingere’ (GEW s.6v., DELG s.6v.); στέφος (e στέφανος) indicano generalmente ‘corona’, ‘ghirlanda’ (Emped. B 112.6, Eur. IA. 1512), talora nel senso di ‘offerta’ (Aesch. Choeph. 95), ma possono anche essere attributo di un sacerdote ad indicarne la sacralità

131

132

Luppe ibid. “Μεγάλα στέφη meint wohl nicht “dem Umfang nach große Kränze, sondern “bedeutsamen Kränze””. Anche se µεγάλα στέφη significasse ‘grandi’ per dimensione, appare comunque chiaro capire come si arrivi dal valore noto di αἴθριος a quello di µέγας, il che rende probabile che questa possa essere effettivamente una spiegazione autoschediastica. Non probabile appare la correzione ἀθέρια (da ἀθήρ) per αἴθρια di Edmonds 1957, p. 30, cfr. Luppe 1963, p. 32: “ein erfundenes Wort. Außerdem heißt ἀθήρ, zu dem ἀθέριος Adjektiv sein soll, “Hachel”. Was sollen aber “Hachelkränze” sein?” (Edmonds pensa alle offerte avvolte nella paglia degli Iperborei, ma l’identificazione delle corone qui citate con queste offerte non ha alcuna prova, cfr. Interpretazione e, in ogni caso, l’ipotesi di Edmonds inserisce, come rileva Luppe, una parola non altrimenti attestata).

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Cratino

(Aesch. Ag. 1265, Sept. 101, Soph. OT 913). Sulla corona e il suo utilizzo presso i Greci, v. Blech 1982.

fr. 25 K.–A. (23 K.) ἐτήσιοι γὰρ πρόσιτ᾽ ἀεὶ πρὸς τὴν τέχνην πρόσιτ᾽ ἀεί Porson 1822, I p. 26: προσιτα εἰ g, πρόσιτα εἰ z

Volubili infatti vi avvicinate sempre all’arte Phot. ε 2098 ἐτήσιοι· πρόσκαιροι. ἐτήσιοι — τέχνην. Κρατῖνος ∆ηλίασιν etēsioi: proskairoi (occasionali). Volubili — arte. Cratino nelle Dēliades

Metro(Trimetro giambico

klkl lrkl llkl

Bibliografia(Runkel 1827, p. 11 (fr. II), Bergk 1838, p. 45, Meineke FCG II,1 (1839), p. 35 (fr. VI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (fr. 6), Kock CAF I (1880), p. 20, Goebel 1915, p. 176s., Edmonds FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 236s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 135, Neri 1994/1995, p. 272, Storey FOC I (2011), p. 281 Contesto della citazione(Glossa presente nel solo Fozio (da qui in Et. gen. i A B s.6v. ἐτήσιοι e, da questo, in Et. magn. p. 386,50 solo per la spiegazione πρόσκαιροι e senza alcun cenno all’occorrenza comica; la possibile fonte di Fozio non è individuata) che attesta un valore particolare dell’aggettivo ἐτήσιος, ossia πρόσκαιρος, per noi non altrimenti noto (v. infra), e richiama per esso come testimonianza il verso delle Dēliades di Cratino. Interpretazione(Il soggetto è una seconda plurale, maschile o femminile (ἐτήσιος, ον, a tre uscite solo in Ippocrate, v. LSJ s.6v.) o anche entrambi considerati insieme, ad es. il pubblico (v. infra), al quale chi parla si rivolge; ἐτήσιοι si intende nel senso di ‘volubili’, secondo l’interpretamentum di Fozio, mentre il significato consueto di ‘annuale’, contro la testimonianza lessicografica, non appare probabile perché ἐτήσιος in questo senso non è impiegato per le persone (v. infra ad loc.); τέχνη si può generalmente riferire alla perizia, all’abilità in un determinato campo. Chi parla, quindi, si rivolge a qualcuno accusandolo di accostarsi sempre (πρόσιτ᾽ αέί) in maniera volubile, incostante ad una data

∆ηλιάδες (fr. 25)

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arte; poiché però a) il valore di ἐτήσιος ‘volubile’ si motiva con il confronto con Ar. Eq. 518 (ἐπέτειος) in un contesto parabatico e di critica letteraria e b) τέχνη può indicare l’arte drammatica (v. ad loc.), “tra le tante ipotesi possibili, vi è senz’altro quella che Cratino (benché in un verso certamente non parabatico) si lamentasse della volubilità del pubblico, mutando dai Cavalieri le parole che il giovane rivale avevo speso per lui” (Neri 1994–1995, p. 272; ma il legame con i Cavalieri e la conseguente polemica, dipendono dalla datazione delle Dēliades, Dionisie del 424 secondo Neri e, quindi, dopo i Cavalieri di Aristofane, Lenee 424, cfr. Datazione; il valore letterario del riferimento presente nel frammento cratineo è così certamente meglio specificato, ma rimane comunque possibile anche senza postulare una dipendenza tra questi due testi). Il fatto che il verso tràdito sia un trimetro giambico motiva l’affermazione dello stesso Neri (ibid.) che si tratti di “un verso certamente non parabatico” e il riferimento letterario potrebbe anche essere effettivamente indipendente dalla parabasi; non è però escluso che il verso potesse essere un tetrametro trocaico catalettico, di ampio impiego questo nelle parabasi (v. White 1912, p. 99 § 245) e che si possa quindi assegnare il frammento a questa sezione della commedia. Si potrebbe integrare all’inizio 〈lkl〉 e supporre che la parte mancante sia stato omessa da Fozio, interessato solo all’esemplificazione di ἐτήσιος; γάρ immediatamente seguente ἐτήσιοι potrebbe indicare che una parte del discorso precedente era conclusa, un motivo in più perché solo la pericope ἐτήσιοι — τέχνην, autosufficiente da un punto di vista concettuale, fosse usata come esempio. ἐτήσιοι(Fozio glossa l’occorrenza di Cratino con πρόσκαιρος; questo aggettivo è privo di attestazioni nel V/IV sec. a.6C. e in quelle di epoca successiva può significare ‘occasionale, straordinario’, ‘opportuno’, ‘passeggero’, ‘temporaneo’ (LSJ s.6v.). Goebel 1915, p. 176s. difende la spiegazione di Fozio per il confronto con Ar. Eq. 518 ὑµᾶς τε πάλαι διαγιγνώσκων ἐπετείους τὴν φύσιν ὄντας: qui l’aggettivo ἐπέτειος, ‘annuale’ o ‘che dura un anno’, è impiegato in senso metaforico con il valore di ‘mutevole di anno in anno’ (v. schol. ad loc., LSJ s.6v. ‘changeful as the seasons, or like birds of passage’, Sommerstein 1981, p. 170, Imperio 2004, p. 1866s.) con cui Aristofane addita gli spettatori ateniesi che parimenti concedono e negano il loro favore ai commediografi; secondo Goebel quindi “ἐτήσιος idem significare atque ἐπέτειος multis locis probatur; ἐπετήσιος denique idem est atque ἐπετείος […] significat enim πρόσκαιροι non secus atque ἐτήσιοι et ἐπέτειοι mobiles et non constantes” (per la sinonimia di questi aggettivi v. LSJ6s.vv.). L’interpretamentum πρόσκαιροι di Fozio si può quindi intendere nel senso di ‘temporaneo’ e assegna ad ἐτήσιος un valore di ‘mutevole, volubile, incostante’, che si può metaforicamente dedurre da quello di base di ‘annuale, che dura un anno’, allo stesso modo di ἐπετείους in Ar. Eq. 518, chiaramente glossato così dallo scolio ad loc.

162

Cratino

Le uniche altre occorrenze di ἐτήσιος nel V sec. a.6C. sono: Eur. Alc. 336 οἴσω δὲ πένθος οὐκ ἐτήσιον τὸ σόν, dove vale ‘che dura un anno’ (Admeto parla del tempo di lutto per la morte di Alcesti, v. Parker 2007, p. 121); Thuc. V 11 οἱ Ἀµφιπολῖται … ἐντέµνουσι καὶ τιµὰς δεδώκασιν ἀγῶνας καὶ ἐτησίους θυσίας, dove vale ‘annuale’, ossia che si ripete ogni anno, v. Gomme 1965b, p. 6546s. Per questo motivo la spiegazione di Fozio era rifiutata sia da Bergk 1838, p. 45 che interpretava “quotannis acceditis ad artem”, sia da Kock CAF I, p. 20 secondo cui “quoniam Lenaeis tantum modo et Dionysiis fabulae agebantur, post annua demum intervalla Athenienses fruebantur” (così anche Luppe 1963, p. 23: “Das Wort kann nur “jährlich” heissen”); ma ἐτήσιος nel senso di annuale non è mai riferito a persone e le interpretazioni proposte non risultano, quindi, convincenti (e l’informazione di Fozio ha una sua giustificazione, v. supra). τέχνην(Generalmente nel senso di ‘abilità, perizia tecnica o manuale’, riferito ad un’ampia gamma di significati, dalle lavorazioni artigianali (ad es. Γ 61 [legno], γ 433, ζ 234, λ 614 [oreficeria] etc.), alle capacità dei cantori (∆ 447) e degli indovini (Soph. OT 389), alla produzione artistica (Pind. Ol. VII 50, Nem. I 25, Ar. Ran. 811), v. in part. Löbl 1997, 2003 e 2008. In Cratino un valore generico di τέχνη era sostenuto da Goebel 1915, p. 18: “quaelibet ars, sicut nos dicimus: ,du verstehst dein Handwerk῾” (cfr. Meineke FCG II.1, p 35: “quamnam autem artem dicat ignoro cum Th. Bergkio […], qui dubitanter ad artem canendi refert”); al contrario, secondo Kock CAF I, p. 20 “significat […] artem scaenicam”, un valore questo documentato in commedia ad es. nella parabasi della Pace, v. 749 (ἐπόησε τέχνην µεγάλην ἡµῖν κἀπύργωσ’ οἰκοδοµήσας6/6ἔπεσιν µεγάλοις κτλ.), cfr. anche Ran. 811 ὁτιὴ τῆς τέχνης ἔµπειρος ἦν (Dioniso esperto di arte drammatica).

fr. 26 K.–A. (25 K.) ἵνα σιωπῇ τῆς τέχνης ῥάζωσι τὸν λοιπὸν χρόνον ῥάζωσι Phot.: ῥαζῶσι Sud., ῥυζῶσι Sud. A

Affinché con il silenzio dell’arte ringhino per il resto del tempo Phot. ρ 22 = Sud. ρ 21 ῥάζειν καὶ ῥύζειν· τὸ ὑλακτεῖν. Ἕρµιππος Εὐρώπῃ· … (fr. 23 K.–A.)· ἀπὸ τούτου δὲ ἐπὶ τοὺς πικραινοµένους καὶ σκαιολογοῦντας µετηνέχθη. Κρατῖνος ∆ηλιάσιν· ἵνα — χρόνον

∆ηλιάδες (fr. 26)

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rhazein e rhuzein: ringhiare. Ermippo nell’Eurōpē. E da questo (significato) è usato metaforicamente per coloro che sono adirati e parlano in modo sciocco. Cratino nelle Dēliades: affinchè — tempo

Metro(Tetrametro trocaico catalettico

rkll lkl|l lkll lkl

Bibliografia(Runkel 1827, p. 116s. (fr. III), Meineke FCG II.1 (1839), p. 33 (III. IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (frr. 3. 4), Kock CAF I (1880), p. 206s., van Herwerden 1903, p. 2, Zieliński 1931, p. 796s., Edmons FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 256s., Sifakis 1971, p. 51, Kassel– Austin PCG IV (1983), p. 135, Quaglia 1998, p. 64, Storey FOC I (2011), p. 2806s. Contesto della citazione(Sono glossati due verbi, ῥάζειν e ῥύζειν di cui è attestato il valore di ὑλακτεῖν (‘latrare, ringhiare’); segue l’esemplificazione con una citazione di Ermippo, in cui è attestata la forma ῥύζειν impiegata in questo senso. Di seguito viene testimoniato che dal valore proprio di ὑλακτεῖν ne deriva uno traslato, impiegato per le persone; per questo secondo valore sono citati due frammenti di Cratino (oltre al fr. 26 K.–A., anche il successivo 27 K.–A., v. infra) in cui è attestata la forma ῥάζειν. La glossa, identica nei due testimonia, è attribuita da Theodoridis 2013, p. 312 ad Ael. Dion. ρ 3, citato da Eust. in Od. p. 1792, 23. Luppe 1963, p. 26 propone di uniformare le due grafie ῥάζειν/ῥύζειν in ῥύζειν (cfr. Testo) e scrivere, quindi, nel testo di Cratino, ῥύζουσι per ῥάζωσι sulla base della glossa di Hsch. ρ 476 ῥύζουσι· διαµωκῶνται. µισοῦσι. γογγύζουσιν; la forma del lemma all’indicativo in Esichio sarebbe quella originaria del testo del comico, mentre ῥαζώσι di Phot. e Sud. (a parte la grafia) sarebbe dovuto ad un copista che ha inteso ἵνα come congiunzione e non avverbio e ha per questo ‘corretto’ il testo: “ἵνα könnte auch relativisch “wo” verwendet sein. Dann wäre ῥάζωσι durch falsche (finale) Auslegung dieses Wortes entstanden”. La pertinenza di questa glossa di Esichio a Cratino è, però, dubbia (“cf. Cratin. fr. 26 K.–A.?”, Hansen 2005, p. 247) e inoltre, se è vero che la forma al congiuntivo (ῥάζωσι) in Cratino potrebbe essere stata una volontaria alterazione, lo è anche che ῥύζουσι di Esichio, potrebbe essere stato ‘normalizzato’ all’indicativo e così lemmatizzato; il testo del frammento è comprensibile con la forma al congiuntivo e non richiede alcuna correzione. Testo(Secondo Luppe 1963, p. 26 si può rifiutare la forma ῥάζειν e uniformare nella grafia ῥυζ- sulla base di Poll. V 86 che riporta nella sezione φωναὶ ζώων, ἀρράζειν καὶ ἀρράζοντας, καὶ ῥύζειν καὶ ῥύζοντας e di Hsch. ρ 476 che conterrebbe l’originaria lezione del testo di Cratino (ῥύζουσι indicativo, cfr.

164

Cratino

Contesto della citazione), ma la forma ῥάζ- è testimoniata anche in Hsch. ρ 33 e non c’è motivo di alterare il testo, cfr. infra a ῥάζωσι. Le forme verbali presuppongono una forma contratta generalizzata nel testo di Sud. ρ 21 (< ῥαζέω/ῥυζέω): ῥαζεῖν e ῥυζεῖν nel lemma, ῥυζῶν in Ermippo133 e ῥαζῶσι in Cratino; nelle altre fonti sono invece documentate quasi esclusivamente le forme non contratte Poll. V 86 (ῥύζειν καὶ ῥύζοντας), Hsch. ρ 33 (ῥάζειν), ρ 475 (ῥύζειν) e 476 (ῥύζουσι), solo in ρ 477 ῥυζῶν. Tuttavia l’oscillazione riguarda sempre la forma ῥύζειν/ῥυζεῖν, mai quella ῥάζειν; di conseguenza ῥαζῶσι di Sud. ρ 21 nel testo di Cratino potrebbe considerarsi influenzato dall’accento circonflesso delle precedenti due forme, generalizzato e forse deteriore rispetto a ῥάζωσι (LSJ6s.vv. registrano ῥάζω, ma ῥύζεω e ῤύζω). La iunctura σιωπῇ τῆς τέχνης è considerata fin da Meineke FCG II.1, p. 33 “vix sana”, perché non attestata è la sequenza dell’avverbiale σιωπῇ + genitivo; si potrebbero citare alcuni casi più tardi, quali Plut. Cim. 10,3 (οἱ δ’ αὐτοὶ καὶ νόµισµα κοµίζοντες ἄφθονον, παριστάµενοι τοῖς κοµψοῖς τῶν πενήτων ἐν ἀγορᾷ σιωπῇ τῶν κερµατίων ἐνέβαλλον εἰς τὰς χεῖρας) e Plut. Cic. 22,5 (ἤδη δ’ ἦν ἑσπέρα, καὶ δι’ ἀγορὰς ἀνέβαινεν εἰς τὴν οἰκίαν, οὐκέτι σιωπῇ τῶν πολιτῶν οὐδὲ τάξει προπεµπόντων αὐτόν), ma manca una documentazione e per la lingua della commedia e per l’età classica in generale. D’altra parte non si può intendere τῆς τέχνης in dipendenza da ῥάζωσι, perché per questo verbo ci si aspetterebbe una costruzione con l’accusativo, ‘abbaiare contro qcs./qcn’ come nel caso del verbo ὑλακτέω (LSJ s.6v. n. II); Erbse 1950, p. 139 stampa † ἵνα σιωπῇ † τῆς τέχνης ῥάζωσι τὸν λοιπὸν χρόνον (ma ῥάζωσι sembra così legato al gen. τῆς τέχνης), mentre Edmonds FAC I, p. 30 e n. 4 ἴνα σιωπῇ τῆς τέχνης † κτλ. e proponeva come lettura “perhaps τὴν τέχνην”, ma l’intero periodo che ne deriva non risulterebbe comunque chiaro (“affinchè in silenzio abbaino contro l’arte per il resto del tempo”). Se il testo è davvero corrotto134, nessuno dei tentativi esperiti lo sana però in maniera convincente: a) Kock CAF I, p. 21: “σιωπῶντες τέχνην […] ‘ut de arte taceant posthac cum nugantur’, i.e. ut cum nugantur ne glorientur artem se exercere”; 133

134

Come si evince dall’apparato di Theodoridis 2013, p. 312 a Phot. ρ 22 nel testo di Ermippo citato da Fozio ῥύζων è correzione di Naber 1865, p. 127: i codd. g e zac hanno ῥυζόν, ma zpc ha ῥυζῶν dovuta ad una correzione chiaramente influenzata dalla lezione di Sud. ρ 21. Kassel–Austin PCG IV, p. 135 definiscono ἵνα σιωπῇ τῆς τέχνης “suspectum” e analogamente secondo Storey 2011, p. 281 “the first part of the line is suspect”; quest’ultimo traduce “so that with silenced art they may snarl in the future”, seguendo esemplificativamente la proposta σιωπώσης τέχνης di Luppe (v. supra).

∆ηλιάδες (fr. 26)

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b) Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 135: ἴνα ἐπὶ λῶβῃ τῆς τέχνης κτλ. c) van Herwerden 1903, p. 2: ἵνα6/6ἀθιάσωτοι τῆς τέχνης κτλ. “i.e. ἀτέλεστοι τῆς τέχνης?”; d) Zieliński 1931, p. 80: 〈τὴν τρυγῳδικὴν〉6/6ἵνα ἀσιωπητὶ τέχνην κτλ; e) Luppe 1963, p. 256s. σιωπώσης τῆς τέχνης. Interpretazione(“Ex epirrhemate trochaico desumptus” (Kock CAF I, p. 21), con ogni verosimiglianza un epirrema della parabasi, come già proposto da Sifakis 1971, p. 51, cfr. Quaglia 1998, p. 64: ne sono indizio l’utilizzo del metro (tetrametro trocaico catalettico, cfr. ad es. in Ar. Ach. 679–691 =703–718, Eq. 565–580 = 595–610 etc., v. White 1912, p. 99 § 246) e il contenuto se si intende τέχνην nel significato di ‘arte poetica’; si tratta in questo caso di una polemica di tipo letterario contro alcuni tacciati di ῥάζειν, forse “rival poets of Cratinus?” (Storey 2011, p. 281; sul motivo della polemica letteraria nelle parabasi in Cratino, v. Quaglia 1998, pp. 63–67 e Bakola 2010, in part. pp.  39–42) che ‘ringhiano’ (v.  infra a ῥάζωσι) o come pensa Luppe 1963, p. 26: “vielleicht Dichter bzw. Schauspieler, die im täglichen Umgang ganz anders redeten als in ihrer Dichtung bzw. auf der Bühne, oder Sophisten, die ihre “kunstvolle” Redeweise nur bei Ausübung ihrer τέχνη verwendet”. In alternativa, τέχνη potrebbe avere anche un valore più generico di ‘abilità, perizia tecnica o manuale’ e, in questo caso, gli ignoti soggetti di ῥάζωσι si scagliano contro una qualche arte non meglio identificata. Come mostra l’iniziale ἵνα, il verso conservato contiene una subordinata di cui è ignota la reggente, dove una persona loquens (o più di una) parla di alcuni che fanno qualcosa o si comportano in un certo modo poi specificato dal contenuto di questa proposizione. τῆς τέχνης(V. comm. a fr. 25 ad loc. ῥάζωσι(Formazione onomatopeica con suffisso –ζω (“nach solchen [Schallverba] dient –ζω als Verbalisierung vokalisch auslautender Interjektionen”, Schwyzer I, p. 716) come in κράζω o βάζω, v. Debrunner 1917, p. 120 § 241, Tichy 1983, p. 1526s. (cfr. p. 113), Beta 2004, p. 88. I testimoni del frammento danno al verbo un valore proprio di ὑλακτεῖν ‘latrare, ringhiare’ e uno traslato, riferito specificamente alle due occorrenze di Cratino citate, impiegato in particolare per persone adirate e che parlano in modo sciocco; ῥάζειν in questo senso vale, quindi, parlare scioccamente, ma con tono arrabbiato, in maniera paragonabile all’utilizzo di βαΰζω, abbaiare detto dei maldicenti, su cui v. comm. a Cratin. fr. 6,1 K.–A. (βαΰζει). Le uniche occorrenze letterarie del verbo sono quelle citate nei testimonia; poiché ῥύζειν è solo in Ermippo e in senso proprio e ῥάζειν solo in Cratino e in senso traslato, si potrebbe pensare ad un differente uso dei due verbi (ῥύζειν proprio e ῥάζειν traslato), ma il fatto che il lemma di Fozio e Suda sia

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Cratino

ῥάζειν καὶ ῥύζειν sembra escludere questa possibilità e lo stesso si potrebbe dedurre dalle altre occorrenze (solo lessicografiche) del verbo: Hsch. ρ 33 ῥάζειν· τρώγειν. κυρίως ἐπὶ τῶν κυνῶν· µιµητικῶς ἐπὶ τοῦ ἤχου; ρ 475 * ῥύζειν· ὑλακτεῖν; ρ 476 ῥύζουσι· διαµωκῶνται. µισοῦσι. γογγύζουσιν (è attestato il valore traslato; la glossa potrebbe essere relativa all’occorenza di Cratino, cfr. Contesto della citazione); ρ 477 ῥύζων· πενθῶν· διὰ τὸ τοὺς πενθοῦντας ἄναυδόν τινα ἦχον προφέρειν (cfr. anche Poll. V 86 che riporta nella sezione φωναὶ ζώων, ἀρράζειν καὶ ἀρράζοντας, καὶ ῥύζειν καὶ ῥύζοντας). In Hsch. ρ 33 è indicata una spiegazione del verbo differente di Fozio e Suda: non l’atto di latrare o ringhiare, ma quello di ‘rodere, sgranocchiare’ (τρώγειν); secondo Hansen 2005, p. 225, la prima parte di questa glossa di Esichio (κυρίως ἐπὶ τῶν κυνῶν) si può riferire all’occorrenza di Hermipp. fr. 23 K.–A., la seconda (µιµητικῶς ἐπὶ τοῦ ἤχου) al fr. di Cratino (tuttavia in Ermippo ricorre la forma ῥύζω e non ῥάζω come nel lemma di Esichio). τὸν λοιπὸν χρόνον(“‘For the time that remains’, i.e. ‘for ever’. An occasional metri gratia variant of the far more common τὸ λοιπόν”, Austin–Olson 2005, p. 337 ad Ar. Thesm. 1160 (3ia), cfr. in commedia Ar. Vesp. 1006, Men. Dysk. 66, in tragedia Soph. Phil. 84, Eur. Alc. 295 (sempre in un trimetro giambico e nella stessa posizione metrica, a fine di verso). Questa di Cratino è l’unica attestazione non in un trimetro giambico; prima dell’epoca classica in Pind. fr. 133,5 M.; frequente nella prosa di V e IV sec. a.6C.: Lys. II 78, XIV 4, XVI 3, XIX 30, XXX 34, XXXII 3, Plat. Apol. 41c 6, Phaed. 81a 9, Leg. 840d 8, (Plat.?) Ep. 358b 4, Isocr. Paneg. 43.7, 124.6, Ev. 80,5, Aeropag. 46.2. fr. 27 K.–A. (26 K.) ἔρραζε πρὸς τὴν γῆν, ὁ δ᾽ ἠσκάριζε κἀπεπόρδει δ᾽ ἠσκάριζε Pierson: δὲ σκαρίζει Phot., Sud.ƒƒƒκἀπεπόρδει Porson: καὶ πέπορδε Sud. pc pc ac GFM : καὶ πέπαρδε Phot. z , Sud. ΑV: κατέπαρδε Phot. g z

Abbaiava alla terra, e quello si agitava e scoreggiava Phot. ρ 23 = Sud. ρ 21 ῥάζειν καὶ ῥύζειν· τὸ ὑλακτεῖν. Ἕρµιππος Εὐρώπῃ· … (fr. 23 K.–A.)· ἀπὸ τούτου δὲ ἐπὶ τοὺς πικραινοµένους καὶ σκαιολογοῦντας µετηνέχθη. Κρατῖνος ∆ηλιάσιν· … (fr. 26 K.–A.). καὶ ἐξῆς· ἔρραζε — κἀπεπόρδει rhazein e rhuzein: ringhiare. Ermippo nell’Eurōpē. E da questo (significato) è usato metaforicamente per coloro che sono adirati e parlano in modo sciocco. Cratino nelle Dēliades: (fr. 26 K.–A.). E dopo: abbaiava — scoreggiava

∆ηλιάδες (fr. 27)

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Metro(Tetrametro giambico catalettico

llkl llkl klkl kll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 12 (fr. IV), Bergk 1838, p. 45, Meineke FCG II.1 (1839), p. 336s. (III.IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (frr. 3.4), Kock CAF I (1880), p. 206s., Zieliński 1887, p. 12, Kaibel 1890, p. 98 , Edmonds FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 27, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 135, Storey FOC I (2011), p. 2806s. Contesto della citazione(Cfr. fr. 26. In aggiunta, secondo Thedoridis 1998, p. 277, Phot. η 279 ἠσκάριζεν· ἀντὶ τοῦ ἤσπαιρεν, potrebbe essere relativo a questo frammento di Cratino, cfr. a ἠσκάριζε. Testo(Contro, senza ragione, il motivo per cui il frammento è citato dai testimoni ἔρραξε per ἔρραζε di Headlam 1895, p. 295 (che traduce “felled him to the earth, and he lay writhing”). Probabilmente corretto appare, invece, il sospetto di Kaibel 1890, p. 98 verso la pericope πρὸς τὴν γῆν, perché non del tutto chiaro appare il significato dell’espressione ‘abbaiare alla terra’; la spiegazione proposta era che πρὸς τὴν γῆν fosse originariamente glossa dell’avverbio ἔραζε ‘a terra’ (confuso per pronuncia), poi penetrata nel testo. Di conseguenza Kaibel proponeva una sistemazione del testo ἣ µὲν k l ἔρραζ᾽, ὃ δ᾽ ἠσκάριζε κἀπεπόρδει; analogamente si può immaginare un’alternanza ὁ µέν (iniziale) … ὁ δέ, ovvero anche una differente sistemazione del testo: ἔρραζε 〈u〉6/6ὃ δ᾽ ἠσκάριζε κἀπεπόρδει 〈lkl〉 (Kock CAF I, p. 21 esprimeva un dubbio sulla lezione e proponeva di sottintendere un verbo: “quid sit ἔρραζε πρὸς τὴν γῆν nescio. sed fortasse dixerat (βλέπων δὲ) ἔρρ. πρ. τ. γ.”). Contra Zieliński 1887, p. 12 che motivava così la difesa di πρὸς τὴν γῆν: “equidem haud ita raro canem vidi talpam, sive is fuit mus campestris, insequentem; qui ubi feliciter µυστήρια sua recuperaverat, pedibus ille rictuque humum fodiens latrabat” (l’interpretazione non è ripetuta in Zieliński 1931, dove non si discute di questo frammento [per il fr. 26 K.–A., cfr. supra]), ma cfr. la giusta osservazione di Luppe 1963, p. 27: “dem widerspricht, dass das Fragment ausdrücklich für die übertragene Verwendung von ῥάζειν zitiert ist”). Il tràdito δὲ σκαρίζει di Fozio e Suda è ametrico e, inoltre, la forma presente contrasta sia con ἔρραζε che con κἀπεπόρδει; “longe rectius meo quidem iudicio legetur: ὁ δ᾽ ἠσκάριζε καὶ πέπορδε. Sic certe tempora convenient et metrum erit salvum. Potest tamen et ἐσκάριζε reponi” (Pierson 1830, p. 36). Tuttavia ἠσκάριζε appare preferibile, perché Moer. α 77 attesta che ἀσκαρίζειν era la forma attica e questa è, comunque, la forma di più comune impiego v. comm. ad ἠσκάριζε. Per quanto riguarda l’ultima forma verbale, il pf. πέπορδα ha valore di presente, il ppf. ἐπεπόρδειν di imperfetto (LSJ s.6v.) e, per analogia con i tempi delle altre forme verbali, questa ultima è senza dubbio preferibile

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Cratino

a quelle tràdite (“imperfecto enim, non aoristo opus est” Kock CAF I, p. 20): κἀπεπόρδει si deve a Porson in Dobree 1820, p. 50 (v. anche Cobet 1859, p. 48) e si può confrontare con la serie di verbi in Ar. Vesp. 1305 ἀνήλατ’, ἐσκίρτα, ’πεπόρδει, κατεγέλα135. Interpretazione(La pericope ὁ δ᾽ ἠσκάριζε κἀπεπόρδει ne presuppone una corrispondente e relativa al verbo ἔρραζε; si può trattare di: 1) una correlazione con δέ o altro elemento (Denniston 1954, pp. 163–165): in questo caso le azioni si possono riferire a due persone diverse, ma non sono in opposizione (una persona abbaiava, un’altra si dimenava e scoreggiava); 2) una correlazione µέν … δέ, cfr. Luppe 1963, p. 27; così era nella constitutio textus ἣ µὲν k l ἔρραζ᾽, ὃ δ᾽ di Kaibel (v. Testo), ma se anche si mantiene nel testo πρὸς τὴν γῆν, il µέν antecedente poteva essere contenuto nella parte precedente perduta e il soggetto essere ugualmente femminile (Kaibel) o maschile. Poiché “normally preparatory µέν introduces the first limb of a grammatically coordinated antithesis” (Denniston 1954, p. 369), si deve supporre che un dato personaggio compiva l’atto di ῥάζειν, abbaiare e, quindi, parlare in modo adirato e sciocco, e un altro (ὁ δ᾽) reagiva a ciò agitandosi, dimenandosi (ἠσκάριζε) e scoreggiando (ἐπεπόρδει), un gesto quest’ultimo probabilmente di scherno e di spregio (v. comm. ad loc.). Per questa seconda possibilità si potrebbe richiamare come confronto l’epirrema dell’agone delle Rane di Aristofane (vv. 907–970), dove Euripide è intento a criticare l’opera di Eschilo e questi mostra chiaramente segni di insofferenza, v. in part. vv. 922 (Dioniso a Eschilo) τί σκορδινᾷ καὶ δυσφορεῖς;, 927 (idem) µὴ πρῖε τοὺς ὀδόντας. L’utilizzo della terza persona indica che si tratta del resoconto di qualcuno (Luppe 1963, p. 27: “der 3. Person zufolge handelt es sich bei dem Fragment wohl um einen Bericht”); quello del metro, un tetrametro giambico catalettico, e il tono mordace (ἔρραζε, ἐπεπόρδει) possono essere indizio di una provenienza di questo verso da uno degli epirremi di un agone (per l’utilizzo del tetrametro giambico catalettico in questa sezione v. ad es. Ar. Eq. 843–910, Nub. 1036–1108, Ran. 907–970, cfr. White 1912, p. 63 § 168).

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Lo stesso Porson proponeva anche κἀπέπαρδε, una forma molto vicina a quella tràdita in Phot. zpc e Sud. AV.; questa forma tuttavia si deve ricondurre ad un presente *ἐπιπέρδοµαι non attestato e appare meno convincente per l’utilizzo dell’aoristo accanto ai due imperfetti. Simile anche la proposta di Bergk 1838, p. 45 κἆτ᾽ ἔπαρδε rispetto alla quale si deve, però, rilevare che le forme dell’aoristo ἔπαρδον sono attestate solamente in composti (LSJ s.6v.), il che rende la forma semplice ἔπαρδε poco probabile.

∆ηλιάδες (fr. 27)

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ἔρραζε(V. comm. a fr. 26, ῥάζωσι. ἠσκάριζε(Derivato di σκαίρω, ‘saltare, danzare’ distinto da ἅλλοµαι e πηδάω e di etimologia ignota; ἀσκαρίζω con α protetica si deve, forse, all’influenza di ἀσπαίρω, (GEW s.6v., DELG s.6v., cfr. infra). Il verbo è glossato in Phot. η 279 ἠσκάριζεν· ἀντὶ τοῦ ἤσπαιρεν, secondo Thedoridis 1998, p. 277 relativa proprio a questa occorrenza di Cratino; ἀσπαίρω significa ‘palpitare, ansimare, dibattersi’, detto del guerriero morente (ad es. Ν 443, 571, Aesch. Pers. 477), ma anche del bambino che si agita (Hdt. I 111) o del pesce tirato fuori dall’acqua (Hdt. IX 120); cfr. Hsch. σ 865 σκαρίζεται· ταράττεται. Quindi, ‘saltare, agitarsi, dimenarsi’, cfr. anche i passi in cui σκαρίζω è utilizzato come interpretamentum: schol. D ad N 571 = Hsch. η 903 ἤσπαιρεν· ἐσκάριζεν, cfr. α 7757 ἀσπαρίζειν· σκαρίζειν, ἐπὶ ἰχθύων, καὶ ἀσπαίρειν τὸ αὐτό; α 7742 ἀσπαίροντας· σκαρίζοντας, Sud. α 4209 ἀσπαίροντες· σκαρίζοντες, κινοῦντες, σ 914 σπαίρει· ἅλλεται, σκαρίζει, ἐκπνεῖ τὴν ψυχήν, σ 552 σκαίροντες· χορεύοντες, σκαρίζοντες. In Zonar. p. 282 il composto ἀπασκαρίζω è glossato con διακεχυµένως γελᾶν, da riferirsi probabilmente all’occorrenza di Men. fr. 881 K.–A. ἀπασκαριῶ δ᾽ ἐγὼ γέλωτι τήµερον (cfr. Kassel–Austin PCG VI, p. 417)136. Le uniche attestazioni in attico (a parte questa di Cratino) sono in un composto: Ar. fr. 510 K.–A. ἀπασκαρίζειν ὡσπερεὶ πέρκην χαµαί e Men. fr. 881 K.–A. cit. supra. La forma ἀσκαριζ- è quella considerata attica, v. Moer. α 77 ἀσκαρίζειν Ἀττικοί· σκαρίζειν Ἕλληνες, Phryn. Praep. soph. 42,7 ἀσκαρίζειν· σκαίρω τὸ συνεχῶς κινοῦµαι. ἐξ οὗ παράγωγον σκαρίζω, ὡς στένω στενάζω. καὶ ὡς σκαλίζω ἀσκαλίζω κατὰ πρόσθεσιν τοῦ α, οὕτω σκαρίζω ἀσκαρίζω; Erotian. α 37 ἀσκαρίζει· ἀντὶ τοῦ σκαρίζει. ὡς ἀσταφίς καὶ σταφίς, ἄσταχυς καὶ στάχυς); di fatto la forma σκαρίζω è attestata solo in testimonianze lessicografiche (v. supra) e in Gp. XX 7,4, ἀσκαρίζω in prosa e poesia ionica: 2 2 Hippon. fr. 19,2 W. ἔψησε κἀπέλουσεν ἀσκαρίζοντα e fr. 104,12 W. ] . ων δ̣᾽ αὐτὸν ἀσκαρίζοντα, Hp. Nat. Puer. 30.43, 51, 76 e nelle rare occorrenze di commedia (v. supra) e si può quindi probabilmente preferire nel frammento di Cratino (v. Testo). κἀπεπόρδει(Da *perd- “radical sonore expressif” che indica lo scoreggiare, confrontabile ad es. con il skr. párdate, DELG s.6v., GEW s.6v., Beekes 2010, s.6v. L’atto di scoreggiare caratterizza in Aristofane un’ampia gamma di circostanze, “it is one of the author’s device for expressing a character’s attitude to a situation” (MacDowell 1971, p. 185 ad Ar. Vesp. 394), in generale in

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Altrimenti ignoti due verbi presenti ancora in Esichio ai quali σκαρίζω fa da interpretamentum: β 292 βασκαρίζειν· σκαρίζειν; ε 6228 ἐσκατάµιζεν· ἐσκάριζεν.

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Cratino

situazioni in cui un personaggio non mantiene il controllo su se stesso e mostra totale noncuranza degli altri: dalla paura (Vesp. 1177) al piacere (Vesp. 1305, Pac. 335), al malcontento (Ach. 30 con Olson 2002, p. 76), al disprezzo per qualcuno (Pac. 547, Plut. 618), fino a designare l’atteggiamento tipico dell’ἀγροικός opposto a quello del cittadino (Plut. 705). V. in gen. MacDowell 1971 cit. con bibl. (in part. il rimando a Hošek 1962), Henderson 1991, pp. 195–199 (§§ 422–434), Olson 2002 cit. Associato all’atto di ἀσκαρίζειν ‘agitarsi, dimenarsi’, sembra indicare qui una situazione di agitazione, di turbamento del soggetto (ὁ δ᾽), cfr. Interpretazione.

fr. 28 K.–A. (24 K.) ἦν ἄρ᾽ ἀληθὴς ὁ λόγος δὶς παῖς ὡς ἔσθ᾽ ὁ γέρων ἦν abscissum in Paris. 1808ƒƒƒἄρα codd.ƒƒƒδὶς παῖς ὡς ἔσθ᾽ Bergk: δὶς παῖς ὡς ἔστιν codd. (false ὡς δὶς παῖς ἔστιν legit Bast in Paris. 1809)ƒƒƒὁ γέρων abscissum in Paris. 1808

Era dunque vero il detto che due volte bambino è il vecchio v

schol. cod. Paris. gr. 1808 fol. 354 (legit Astruc) = Paris. gr. 1809 fol. 309 (ed. Bast) ad [Plat.] Axioch. 367b δὶς παῖδες οἱ γέροντες· ἐπὶ τῶν πρὸς τῷ γήρᾳ εὐηθεστέρων εἶναι δοκούντων. µέµνηται δὲ αὐτῆς Κρατῖνος ἐν ∆ηλιάσι λέγων· ἦν — γέρων Due volte bambini i vecchi: per coloro che nella vecchiaia appaiono essere alquanto sciocchi. Se ne ricorda Cratino nelle Dēliades quando dice: era — vecchio

Metro(lkkllkklllllkkl Bibliografia(Bast apud Böttiger 1838, III, p. 1976s. n., Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Meineke FCG V.1 (1857), p. 16, Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 14), Bergk 1878, p. 103, Kock CAF I (1880), p. 20, Edmonds FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 24, Luppe 1968, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 136, Storey FOC I (2011), p. 2506s. Contesto della citazione(Il frammento di Cratino è citato in due codici di uno scolio ad un passo del dialogo pseudo-platonico Axiochus, 367b 66s. ἄλλοι πολυγήρως ἀκµάζουσιν, καὶ τῷ νῷ δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται. Cfr. Testo.

∆ηλιάδες (fr. 28)

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Testo(Lo scolio a [Plat.] Axioch. 367b è assente dalla raccolta di Greene 1938137; il suo testo è noto da due codici: v 1) Parisin. gr. 1808 fol. 354 (XIII sec.). La lettura di questo codice è documentata in Luppe 1968, al quale è stata comunicata da “Charles Astruc, Conservateur au Cabinet des Mss de la Bibliothèque Nationale, Paris” (Luppe 1968, p. 51 n. 2)138. 2) Parisin. gr. 1809 (XV sec.), il cui testo fu pubblicato per primo da Bast ed è documentato in una nota dei Kleine Schriften di Böttiger del 1838139. La corretta lettura di entrambi i codici si deve ad Astruc (v. supra); ambedue riportano il frammento di Cratino in questa forma: ἦν ἄρα ἀληθὴς ὁ λόγος, δὶς παῖς ὡς ἔστιν ὁ γέρων140. Rispetto a questo testo, concorde nei due testimoni, Luppe 1968, p. 52 ha proposto “statt der «scriptio plena» - die sich ja häufig in der Überlieferung von Versen findet – die elidierten Formen”, ossia ἄρ᾽ e ἔσθ᾽, oltre alla forma in dieresi πάϊς, così da ottenere una sequenza coriambica (v. infra Metrica); un testo analogo era già stato proposto da Bergk 1878, p. 103 (prima della rilettura del Parisin. Gr. 1809 e di quella del Parisin. 1808), salvo mantenere παῖς e intendere una sequenza anapestica (v. infra Metrica).

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Secondo la documentazione di Luppe 1968, p. 51 il cod. A (Parisin. 1807, IX sec.) degli scoli a Platone, contiene solamente la pericope δὶς παῖδες οἱ γέροντες· ἐπὶ τῶν πρὸς τῷ γήρᾳ εὐηθεστέρων εἶναι δοκούντων (manca, quindi, la citazione di Cratino) “und so fehlte der zweite Teil auch in der massgeblichen PlatonscholienAusgabe von Greene”, ma in realtà tutto lo scolio, non solo la seconda parte (µέµνηται δὲ αὐτῆς κτλ.), è omesso da Greene. Il Parisin. Gr. 1808 rappresenta “der einzige massgebliche Zeuge, da jener des 15. Jahrhunderts nur von ihm abgeschrieben ist” (Luppe 1968 p. 516s.). Böttiger 1838, vol. III, pp. 196–216 (XVI: Der Saturnalienschmaus), p. 1976s. nota. Come documenta ancora Luppe 1968, p. 52 “im Paris. 1808 durch späteres Verschneiden des Randes Anfang und Ende des Kratinoszitats verstümmelt sind – es fehlen ἦν und ὁ γέρων”. Prima della rilettura di Astruc del Parisin. Gr. 1809, la lettura che ne diede Bast, per quanto attiene al frammento di Cratino, era: ἦν ἄρα ἀληθὴς ὁ λόγος, ὡς δὶς παῖς ἐστὶν ὁ γέρων; lo stesso Bast proponeva poi ἆρ᾽ per ἄρα e l’espunzione di ἐστὶν ὁ, in modo da ottenere un trimetro giambico: ἦν ἆρ᾽ ἀληθὴς ὁ λόγος, ὡς δὶς παῖς γέρων. In questa forma il frammento è presente in tutte le edizioni dei poeti comici, da Meineke come addendum in FCG V.1, p. 16 fino ad Edmonds (1957) e alla dissertazione di Luppe 1963. Su questa constitutio textus, a parte la cattiva lettura del codice, Luppe 1968, p. 51 rileva: “Dieser Herstellungsversuch ist aber nicht unbedingt überzeugend; denn vor allem die Tilgung der Wörter ἐστὶν ὁ, aber wohl auch die Umwandlung des Schlussfolgenden ἄρα von der üblichen Form mit kurzem α in die seltenere ἆρα sind an sich keine Selbstverständlichkeit”.

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Cratino

Al di là dell’interpretazione metrica, un effettivo problema è rappresentato dall’ordo verborum, con ὡς dichiarativo che non segue immediatamente ὁ λόγος come ci si aspetterebbe (cfr. Eur. Her. 27, Xen. Hell. VI 5.36, Plat. Phaed. 62b 3, Dem. 2XX 112 etc.), ma appare, invece, dopo δὶς παῖς; secondo Luppe 1968, p. 52 “der überlieferte Wortlaut ist syntaktisch und metrisch ohne Anstoss. δὶς παῖς ist als betonter Teil aus dem ὡς-Satz vorgezogen”, ma non si ha alcun altro esempio da confrontare (documentazione sull’uso di ὡς in Kühner–Gerth II § 5496s., in part. pp. 354–356); se il testo tràdito è effettivamente da rifiutare, si possono porre le cruces († ὡς †). Metrica(Due le possibilità di interpretazione metrica: 1) Tetrametro anapestico catalettico: a) 〈yl〉 ἦν ἄρ’ ἀληθὴς ὁ λόγος, δὶς παῖς ὡς ἔσθ᾽ ὁ γέρων (cesura dopo λόγος); b) ἦν ἄρ’ ἀληθὴς ὁ λόγος, δὶς παῖς ὡς ἔσθ᾽ ὁ γέρων 〈kkll〉 (cesura dopo παῖς); c) ἦν ἄρ’ ἀληθὴς6/6ὁ λόγος, δὶς παῖς ὡς ἔσθ᾽ ὁ γέρων (finale di un tetrametro anapestico e inizio del successivo, primi due metra fino alla cesura, ipotizzabile dopo γέρων). Questa proposta risale a Bergk 1878, p. 103, cfr. Testo. 2) Tetrametro coriambico, secondo Luppe 1968, p. 52; questa possibilità si ha con una lettura πάϊς, da cui il verse instance risulta: lkkllkkllkkllkkl. Data la prosodia bisillabica πάϊς, frequente in epica e lirica ma non nel teatro (LSJ s.6v.), Luppe proponeva una collocazione del frammento “in einer lyrischen Partie der Komödie”; e, per l’utilizzo dei coriambi, proponeva un confronto con il fr. 184 K.–A. (Pylaia) dello stesso Cratino, su cui v. ora Kassel–Austin PCG IV, p. 216. Si potrebbe, inoltre, richiamare Ar. Ach. 1150 e 1155 dove ricorre due volte una sequenza di 4 coriambi, chiusi da un baccheo (v. Parker 1998, pp. 148–151, Olson 2002, p. 3476s. con bibliografia) e lo stesso si potrebbe immaginare accadesse in Cratino, in ciò che seguiva. Interpretazione(“Mit dem Vers zieht der Sprecher offenbar aus unmittelbarer Erfahrung verächtlich die besagte Schlussfolgerung” (Luppe 1963, p. 24). Come mostra l’utilizzo di ἀληθὴς λόγος in connessione con l’uso di proverbi, chi parla (una persona oppure il coro) commenta con il detto δὶς παῖς ὁ γέρων il comportamento di un anziano, evidentemente sciocco e non differente da quello di bambino. Si può pensare ad un contrasto padre-figlio come nel caso delle Nuvole di Aristofane, nell’ambito di una polemica generazionale (v. Zimmermann 2007), ovvero alla semplice stigmatizzazione di un vecchio per un motivo a noi ignoto (ugualmente possibile che il vecchio fosse presente in scena ovvero fosse semplicemente richiamato). ἦν ἄρ᾽(Nella stessa posizione iniziale in Ar. Eq. 382 (lyr.), generalmente frequente sia in tragedia (ad es. Soph. Trach. 1172, Eur. Andr. 1088, Hec. 1119

∆ηλιάδες (fr. 28)

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etc.) che in commedia (ad es. Ar. Eq. 138, Nub. 351 etc.); “ἄρα expressing the surprise attendant upon disillusionement […] with the imperfect, especially of εἰµί, denoting that something which has been, and still is, has only just been realized” (Denniston 1954, p. 356s.). ἀληθὴς ὁ λόγος(Questa e simili espressioni ricorrono immediatamente prima dell’utilizzo di un proverbio, in Eur. fr. 75, 1 s. K. ὦ παῖ Κρέοντος, ὡς ἀληθὴς ἦν ἄρα6/6ἐσθλῶν ἀπ᾽ ἀνδρῶν ἐσθλὰ γίγνεσθαι τεκνά (cfr. Kannicht ad loc), Soph. Ai. 6646s. ἀλλ’ ἔστ’ ἀληθὴς ἡ βροτῶν παροιµία·6/6〈ἐχθρῶν ἄδωρα δῶρα〉 κοὐκ ὀνήσιµα, Callim. fr. 178,15 Pf. = 89,15 Massimilla ἦ µάλ’ ἔπος τόδ’ ἀληθές, ὅ τ’ οὐ µόνον ὕδατος αἶσαν, /ἀλλ’ ἔτι καὶ λέσχης οἶνος ἔχειν ἐθέλει, su cui Massimilla 1996, p. 410 per ulteriori esempi in Callimaco. Simile anche Theop. fr. 70 K.–A. (inc. sed.) δὶς παῖδες οἱ γέροντες ὀρθῷ τῷ λόγῳ, in connessione con il medesimo proverbio. Per λόγος ‘detto, proverbio, massima’ v. già Pind. Nem. IX 6 ἔστι δέ τις λόγος ἀνθρώπων, τετελεσµένον ἐσλόν6/6µὴ χαµαὶ σιγᾷ καλύψαι, Alc. fr. 360, 26s. V. ὠς γὰρ δήποτ’ Ἀριστόδαµον φαῖσ’ οὐκ ἀπάλαµνον ἐν Σπάρται λόγον6/6εἴπην, χρήµατ’ ἄνηρ etc. (cfr. LSJ s.6v. VII.2 anche per esempi con ὡς). δὶς παῖς … ὁ γέρων(Si tratta di un proverbio noto e diffusamente impiegato nel V sec. a.6C. e in epoca successiva (non è escluso che quella di Cratino possa essere la testimonianza letteraria più antica), attestato sia in questa forma che in quella plurale δὶς παῖδες οἱ γέροντες, entrambe con possibili varianti. Per la forma plurale in commedia l’esempio più celebre è Ar. Nub. 1417 ἐγὼ δέ γ’ ἀντείποιµ’ ἂν ὡς δὶς παῖδες οἱ γέροντες (Fidippide che usa gli insegnamenti di Socrate contro il padre Strepsiade e lo picchia come un bambino), e v. anche Theop. fr. 70 K.–A. cit. supra; in tragedia in Soph. fr. 487,3 R. si ha πάλιν γὰρ αὖθις παῖς ὁ γηράσκων ἀνήρ; in prosa v. Plat. Leg. 646a ὁ γέρων δὶς παῖς γιγνοιτ᾽ ἄν, [Plat.] Axioch. 367b δὶς παῖδες οἱ γέροντες (cfr. anche Antiph. 87 B 66 D.–K. γηροτροφία γὰρ προσέοικε παιδοτροφίᾳ). Il proverbio ricorre ancora in Luc. Sat. 9 οἱ ἄνθρωποι ἐπικεκυφότες ὥσπερ οἱ πάνυ γεγηρακότες e nelle raccolte paremiografiche: Diogen. IV 18, Diogen. Vind. II 31, Macar. III 31, Apost. VI 27, cfr. anche Sud. δ 1267 (in queste fonti sempre al plurale). La spiegazione offerta dai paremiografi è analoga a quella dello scolio testimone del frammento di Cratino, v. ad es. Diogen. IV 18 ∆ὶς παῖδες οἱ γέροντες· ἐπὶ τῶν πρὸς τὸ γῆρας εὐηθεστέρων. Il proverbio si impiega per chi in vecchiaia si comporta in modo alquanto sciocco e rientra nei modi di dire che caratterizzano negativamente la vecchiaia; è un topos di ampia diffusione presente anche sia nel mondo latino (Plaut. Merc. 296, Trinumm. 43, Iuv. XIII 33) che nelle varie lingue moderne, v. in part. Tosi 1991, nr. 651 (p. 3086s.; 2010 nr. 1096, p. 8066s.).

174

Cratino

fr. 29 K.–A. (27 K.) τῷ δ᾽ ὑποτρίψας τι µέρος πνῖξον καθαρύλλως Con quello/perciò avendo triturato una parte stufa141 in modo raffinato Athen. IX 396a-b ἐπεί τις ἔφη ‘τῶν πνικτῶν κρεᾳδίων δός’, ὁ τῶν ὀνοµάτων ∆αίδαλος Οὐλπιανὸς ‘αὐτὸς ἐγώ’ φησίν, ‘ἀποπνιγήσοµαι, εἰ µὴ εἴπῃς ὅπου καὶ σὺ εὗρες τὰ τοιαῦτα κρεᾴδια. οὐ µὴ γὰρ ὀνοµάσω πρὶν µαθεῖν.’ ὁ δὲ (…) Kρατῖνος ἐν ∆ηλιάσι· τῷ — καθαρύλλως Dopo che uno disse: “dammi dei bocconcini di carne stufata”, Ulpiano, il Dedalo delle parole, dice: “mi stuferò io, se non mi dici dove anche tu hai trovato tali bocconcini di carne. E non userò la parola, prima di averlo saputo”. E quello (…) Cratino nelle Dēliades: perciò/con quello — raffinato

Metro(Tetrametro anapestico catalettico

lkkll kklll kkll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 12 (fr. VI), Meineke FCG II.1 (1839), p. 35 (fr. VII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (fr. 7), van Herwerden 1872, p. 76, Kock CAF I (1880), p. 21, Edmonds FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 276s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 136, Storey FOC I (2011), p. 2806s. Contesto della citazione(Il frammento è citato da Ateneo nel libro nono, dedicato a vari tipi di cibi, tra la sezione dedicata alle anatre (νήτται, 395c-d) e quella dedicata ai porcellini da latte (γαλαθηνοὶ χοῖροι). Nel corso della discussione vengono portate in tavola delle carni affumicate (συγκεκνισωµένων δέ τινων κρεῶν ζωµῷ παραφεροµένων), da cui l’affermazione di uno dei commensali, la cui identità rimane non specificata, di volere di bocconcini di carne stufata (τῶν πνικτῶν κρεᾳδίων δός); a questi Ulpiano risponde dei voler sapere dove mai siano citati tali bocconcini e il suo interlocutore elenca una serie di attestazioni letterarie: precedono la citazione di Cratino Strattis fr. 30 K.–A. (Makedones ē Pausanias) ed Eubul. fr. 46 K.–A. (Katakollōmenos), dove è usato l’aggettivo πνικτός, Ar. Vesp. 511 (πεπνιγµένον); segue quella di Antiph. fr. 1 K.–A. (Agroikos; πνικτός, v. 3). 141

Secondo Luppe 1963, p. 276s. “τι (als allgemeiner Ausdruck für irgendein Gewürz) ist also Akkusativobjekt zu ὑποτρίψας und gehört nicht etwa zu µέρος […] µέρος ist ein Fleischanteil” e si dovrebbe quindi intendere in questo caso µέρος come dipendente da πνῖξον (“avendo fatto una tritatura, stufa una parte [di carne]).

∆ηλιάδες (fr. 29)

175

Testo(Il tràdito τῷ iniziale non ha bisogno di essere alterato né in “τοῦ, suspensum a τι µέρος. τυροῦ opinor vel alius condimenti” (Kock CAF I, p. 21)142, né in τῶν (Kaibel apud PCG IV, p. 136), da interpretare verisimilmente in maniera analoga; si può intendere o come pronome dimostrativo (Olson in Athenaeus IV, p. 341: “grind up a bit up and smother it daintly with this”)143 o come avverbio (LSJ s.6v. A.VIII.2 ‘therefore, on this account’). Metrica(Il verso è verisimilmente un tetrametro anapestico catalettico al quale manca un metron. Le ipotesi più semplici sono di integrare un metron all’inizio (〈kklkkl〉 lkkll kklll kkll) ovvero di integrare la parte finale (lkkll kklll kkll〈l kkll〉; a quest’ultima sembra pensare Luppe 1963, p. 28: “nach τι liegt der Verseinschnitt. Es ist die Zäsur nach dem ersten breve des dritten Metrums”); il frammento ha, infatti, un’unità sintattica e di significato perfettamente funzionante e non è necessario pensare ad integrazioni all’interno del verso (lkkll kkl 〈kkl kkl〉 llkkll: van Herwerden 1872, p. 76144; altre possibilità:

〈kklkkl〉 kklll kkll b) lkkll kklll 〈kklkkl〉 kkll). a) lkkll

Interpretazione(La persona loquens tramite l’imperativo πνῖξον rivolge un comando o un’esortazione al suo interlocutore a preparare uno stufato in maniera raffinata (καθαρύλλως), dopo aver fatto una tritatura (ὑποτρίψας); la scena rappresenta verisimilmente qualcuno che si appresta a mangiare una qualche prelibatezza, cfr. Luppe 1963, p. 28: “jemandem soll ein leckerer Bissen bereitet werden”. Il frammento è stato attribuito da Gelzer 1960, p. 182 ad uno πνῖγος anapestico “mit seiner übertreibenden Grobheit” (nel qual caso si potrebbe supporre l’esistenza di un epirrema anapestico, per l’analogia della struttura metrica, Gelzer 1960, pp. 115–120).

142

143 144

Segue la congettura di Kock, Edmonds FAC I, p. 30 (“come, rub you down a piece of it ad make a dainty stew”, mentre Storey FOC I (2011), p. 281 mantiene a testo τῷ, ma traduce implicitamente seguendo il medesimo emendamento: “rub down a portion of it and make a nice casserole”. Mantiene il testo tràdito, ma interpreta come locativo Gulick in Athenaeus IV, p. 293: “rub a little portion in it and smother it tidily”. Lo stesso van Herwerden, subito prima, avanza un’altra proposta: “si nihil excidit, hi numeri distinguendi: lkkl /lkkll /lkkl /l. Attamen, quia nusquam in comoedia hanc metrorum copulationem repperi, ut Glyconeus excipiat meros choriambos, neque loci videatur eiusmodi, ut e melicis desumtus esse videatur, fortasse statuendum est aliquid excidisse et anapaestorum tetrametrorum esse reliquias”.

176

Cratino

ὑποτρίψας(‘Tritare, triturare’, verbo di impiego molto raro, attestato in questo significato solo qui e in Damox. fr. 2, 386s. K.–A. (Syntrophoi) καὶ σήσαµ’ ὑποτρίβοντας εἰς ταύτην, λαβὼν6/6ἕκαστον αὐτῶν κατὰ µέρος προσπαρδ’ (nelle altre attestazioni ὑποτρίβω è un verbo tecnico del linguaggio medico, con diversi valori, v. LSJ s.6v.). Come risultato dell’operazione di ὑποτρίβειν si otteneva un intingolo chiamato ὑπότριµµα, a base di aglio e aceto, ma anche di altri ingredienti, cfr. Taillardat 1965 § 385 p. 216, Alvoni 1990, p. 147–9; l’ὑπότριµµα è citato in Hipp. Vict. II 56, III 80 con valore terapeutico, in commedia ad es. in Ar. Eccl. 292 βλέπων ὑπότριµµα che dimostra che il suo sapore doveva essere deciso, piccante o agro (il riferimento è allo sguardo minaccioso dell’arconte, cfr. Ussher 1973, p. 116), ibid. 1170 (in un lungo composto dove la sequenza –δριµυποτοτριµµα– richiama ancora l’aspetto piccante), fr. 182,2 K.–A. (Gēras), Telecl. fr. 1,9 K.–A. (Amphiktyones, cfr. Bagordo 2013, p. 666s.), Nicostr. fr. 1,3 (Habra). πνῖξον(Come ἔψω e πέττω ‘cuocere’ e ὀπτάω ‘arrostire, infornare’, πνίγω è uno dei verbi che si impiegano per la preparazione di cibi caldi, cfr. Ar. Vesp. 511, Ephipp. fr. 3,7 = Eubul. fr. dub. 148,4 K.–A., Metagen. fr. 6,9 K.–A., Hdt. II 92.5; analogo è l’utilizzo dell’aggettivo πνικτός, cfr. Strattis fr. 30 K.–A. (con Orth 2009, p. 1586s.), Eubul. fr. 46 K.–A., Pherecr. fr. 190,2 K.–A. Letteralmente πνίγω vale ‘soffocare’ e quindi ‘cuocere in un recipiente chiuso, soffocato’ (‘cook in a close-covered vessel’ LSJ s.6v.); il significato del verbo è spiegato in Theophr. de igne 43 ἔνια δὲ τοιαύτης δεῖται θερµότητος, ἣ ἐν λεπτοτέρῳ γίνεται τοῦ ὕδατος, ὥσπερ τὰ λίνα καὶ οἱ στήµονες οἱ ἑψόµενοι. τῷ γὰρ ἀτµῷ ταῦτα διαθερµαινόµενα λαµβάνει τὴν ἕψησιν ἐγκαταµιγνυµένης ἅµα τῆς ἰκµάδος, ὃ καὶ χρήσιµον πρὸς ἰσχύν. ἔνια δὲ καὶ τῶν βρωτῶν οὕτως ἕψεται διαφεύγειν βουλοµένων τὸ ὑγρόν, ὅθεν οὐ κακῶς κεῖται τοὔνοµα τὸ πνίγειν. καθαρύλλως(L’avverbio è un hapax, così come l’aggettivo καθάρυλλος in Plat. com. fr. 92 K.–A. (Nyx makra) κᾆθ᾽ ἧκεν ἄρτους πριάµενος6/6µὴ τῶν καθαρύλλων, ἀλλὰ µεγάλους Κιλικίους, che indica l’ἄρτος καθαρός, il pane bianco e raffinato opposto al Κιλίκιος, pane nero e con macinatura grossolana (v. Pirrotta 2009, p. 203). Derivato di καθαρός, con suffisso –ulo – (originariamente dalla combinazione di un suffisso -lo- con i temi in u; questo suffisso è caratteristico dei diminutivi) che “peut se présenter avec un redoublement expressif: καθάρυλλος «bien propre»” (Chantraine 1933, p. 250, § 196), quindi καθαρύλλως ‘in modo raffinato’, cfr. Luppe 1963, p. 28 “das Adverb καθαρύλλως muss soviel heißen wie “fein säuberlich”145. 145

Secondo LSJ s.6v. si tratta di un diminutivo, ma la traduzione proposta è “dainty”; Pirrotta 2009, p. 203 per il passo di Platone comico (v. supra) richiama Schwyzer I, p. 485 per il valore diminutivo e traduce “von den delikaten Weißbrötchen”. Il

∆ηλιάδες (fr. 30)

177

fr. 30 K.–A. (28 K.) εἴ τις δ᾽ ὑµῶν κάλλει προκριθῇ Se uno/una di voi venga giudicato migliore per bellezza III

Lex. Bekk. (περὶ συντάξεως) AG I, p. 129, 9s. (ἄν) λείπει δὲ καὶ ἐν ὑποτακτικοῖς· εἴ — προκριθῇ (an) e manca anche nei congiuntivi: se uno/una—per bellezza

Metro(Dimetro anapestico (o tetrametro anapestico catalettico fino alla cesura mediana)

llll llkkl

Bibliografia(Runkel 1827, p. 12 (VII), Bergk 1838, p. 39, Meineke FCG II.1 (1839), p. 35 (frr. VIII. IX), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 126s., Bothe PCGF (1855), p. 11 (frr. 8. 9) Kock CAF I (1880), p. 21, Pieters 1946, p. 1686s., Edmonds FAC I (1957), p. 306s., Luppe 1963, p. 28, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 136, Storey FOC I (2011), p. 2806s. Contesto della citazione(Il frammento è citato nell’anonimo trattato περὶ συντάξεως, il terzo dei cosiddetti lexica segueriana, contenuto nel cod. Coisl. 345 (su cui v. de Leeuw 2000) ed edito nel primo volume degli Anecdota Graeca (1814) da I. Bekker. Si tratta di una lunga sezione concernente la particella ἄν, pp. 126,11–129,14: da p. 129 inizia un paragrafo dedicato prima ad esempi in cui ἄν manca in presenza di ottativo (δεῖ δὲ γινώσκειν ὅτι ἐν τοῖς εὐκτικοῖς τοῖς τοιούτοις πολλάκις ἐλλείπει ὁ ἄν; sono citati quattro passi del de corona di Demostene: 26.7, 36.4, 45.2, 67.5), quindi esempi in cui ἄν manca con il congiuntivo, per cui sono citati questo frammento di Cratino e il successivo 31 K.–A. (v. infra). Quest’ultimo è preceduto dalle parole καὶ πάλιν e solo dopo la sua citazione si trova la menzione esplicita: Κρατῖνος ∆ηλιάσιν; l’appartenenza anche del fr. 30 K.–A. a questa stessa commedia è communis opinio e può forse essere avvalorata dall’usus delle citazioni nel περὶ συντάξεως. Kassel e Austin (PCG IV, p. 137, fr. 31) citano casi paralleli in cui καὶ πάλιν fa riferimento alla medesima opera (p. 126, 29 e 31, 129,5) e solo uno in cui, al contrario, introduce due citazioni differenti (p. 161, 23: Dem. V 25; p. 161,25: Dem. XXI 28); si rileva che in tutti questi casi la menzione dell’opera di provenienza precede sempre suffisso -ulo- caratterizza in maniera specifica molti diminutivi, ma serve anche a formazioni che non hanno questo valore, v. in gen. Chantraine 1933 § 1966s., pp. 249–251.

178

Cratino

la citazione (ad es. p. 129,2: ∆εµοσθένης ἐν τῷ περὶ στεφάνου […] p. 129,5: καὶ πάλιν), mentre nel caso di Cratino l’esplicitazione Κρατῖνος ∆ηλιάσιν segue le due citazioni. Si può però notare che nei casi in cui c’è un cambio di argomento (come nel caso specifico da esempi con l’ottativo a quelli con il congiuntivo) la citazione dell’opera si trova dopo: ad es. p. 128, 16: µετοχῇ, ἐνεστῶτι καὶ παρατατικῷ ∆εµοσθένης κτλ. [… 128,206s.] παρακειµένου καὶ ὑπερσυντελικοῦ παράδειγµα οὐκ εὗρον. ἀορίστου δέ· “ἐγὼ δὲ τίνων εἰµί; κτλ. […]”, Πλάτων Γοργίᾳ (458a). Quindi anche nel caso di Cratino si ha uno schema simile: cambio di argomento (λείπει δὲ καὶ ἐν ὑποτακτικοῖς), due citazioni, la seconda delle quali introdotta da καὶ πάλιν in genere riferito alla stessa opera, esplicitazione dell’opera di riferimento; ciò sembra indicare in maniera abbastanza certa l’appartenza delle due citazioni alle Dēliades di Cratino. Interpretazione(Il frammento contiene la protasi di un periodo ipotetico, di cui è ignota l’apodosi, la conseguenza del fatto che ‘τις ὑµῶν’ risulti vincente in quello che appare essere un giudizio di bellezza. Il referente di τις può essere ugualmente un maschile o un femminile; nel fr. 33 K.–A. si parla di “θαλλοφόρους … γέροντας” partecipanti alla processione delle Panatenee (v. ad loc.) e si potrebbe supporre che il riferimento sia ad uno di questi anziani, cfr. Luppe 1963, p. 28: “da in diesem Stück von der Thallophorie der Greise beim Panathenäenzug die Rede ist, sind mit diesem Vers sicherlich […] alte Männer angeredet” e Kassel–Austin PCG IV, p. 136; non è escluso un significato scoptico, forse vecchi effeminati che gareggiavano per bellezza. Sulla base del successivo fr. 31 K.–A. dove il soggetto è senza dubbio femminile (παροῦσα) Kaibel apud PCG IV, p. 136 pensava ad un “virginum ad pompam delectum”, cfr. Bergk 1838, p. 39: “videtur ita nuncupavisse virginum chorum, qui ab Atheniensibus in insulam Delum mittebatur”) e Pieters 1946, p. 1686s. che pensa alle giovani fanciulle canefore presenti alle feste Panatenee; un riferimento ad un femminile non è da escludere, ma non è provato dal confronto con il fr. 31 K.–A., perché i due frammenti non provengono necessariamente dalla stessa sezione (v. infra fr. 31, Contesto della citazione). εἴ τις δ᾽ ὑµῶν(Cfr. Ar. Vesp. 1071 εἴ τις ὑµῶν, Pac. 20 ὑµῶν δέ γ’ εἴ τις, 277 ἀλλ’ εἴ τις ὑµῶν. εἰ προκριθῇ(L’uso di εἰ senza ἄν in protasi di periodo ipotetico al congiuntivo è documentato in Omero (ad es. Α 340, Ε 258 etc.), nei lirici (Theogn. 121, Pind. Ol. VI 11, Pyth. IV 265 etc.), in tragedia (Aesch. Suppl. 916s. [con Friis-Johansen–Whittle 1980, II p. 86]), Ag. 1328 [con Fraenkel 1950, III p. 621] Eum. 234, OR 198, Eur. Or. 15336s. etc.) ed è ben attestato anche in commedia: Ar. Eq. 698 εἰ µὴ σ᾽ ἐκφάγω e 700 εἰ µὴ ᾽κφάγῃς; ἐγὼ δέ γ᾽, εἰ µή σ᾽ ἐκπίω con Neil 1901, p. 102, ibid. 805 εἰ δέ … διατρίψῃ, Pac. 450 κεἰ τις … µὴ ξυλλάβῃ con Olson 1998, p. 168, Lys. 580 κεἴ τις ξένος ᾖ φίλος, Cratet. fr. 5 K.–A. (Geitones)

∆ηλιάδες (fr. 31)

179

εἰ σοφὸς ᾖ (“non escluderei che si tratti di un uso paratragico”, Bonanno 1971, p. 69 [cfr. Neri 1994–1995, p. 273 n. 43] che confronta Soph. Ant. 710 κεἴ τις ᾖ σοφός; come unico altro esempio di εἰ + cong. in commedia è richiamato questo frammento di Cratino, ma le attestazioni anche in Aristofane, v. supra, non sembrano indicare che si tratti di un uso proprio della tragedia). Raro in prosa: Thuc. VI 21 (cfr. V 79 in un contesto in cui è utilizzato il dialetto dorico), Plat. Leg. 761. V. ancora Kühner–Gerth II.2 § 575, p. 474, Goodwin 1890 § 471, p. 173, Bers 1984, pp. 142–161. κάλλει προκριθῇ(Per l’utilizzo del dativo con verbi che indicano un giudizio (ossia in relazione a che cosa avviene il giudizio), v. Kühner–Gerth II.1 § 425,9, p. 4376s.

fr. 31 K.–A. (29 K.) πρὶν παροῦσα διδάσκῃ Prima che lei essendo presente insegni/spieghi Prima che tu (femm.) essendo presente insegni/impari III

Lex. Bekk. (περὶ συντάξεως) AG I, p. 129, 9s., 12 (ἄν) λείπει δὲ καὶ ἐν ὑποτακτικοῖς· (Cratin. fr. 30 K.–A.). καὶ πάλιν· πρὶν — διδάσκῃ. Κρατῖνος ∆ηλιάσιν (an) e manca anche nei congiuntivi: (Cratin. fr. 30 K.–A.). E di nuovo: prima che — insegni/spieghi. Cratino nelle Dēliades

Metro(lklkkll Bibliografia(Runkel 1827, p. 12 (fr. VII), Bergk 1838, p. 39, Meineke FCG II.1 (1839), p. 35 (frr. VIII. IX), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 126s., Bothe PCGF (1855), p. 11 (frr. 8. 9), Kock CAF I (1880), p. 21, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 286s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 137, Storey FOC I (2011), p. 2826s. Contesto della citazione(V. fr. 30 K.–A. Il fatto che καὶ πάλιν indichi abbastanza certamente la provenienza dalla medesima commedia, non è in alcun modo indizio della originaria provenienza dei due frammenti da una medesima sezione o un medesimo contesto della commedia e, quindi, che dal soggetto femminile di questo frammento si possa dedurre quello del fr. 30 K.-A, di cui v. supra Interpretazione.

180

Cratino

Metrica(Per come è tràdito può essere un ferecrateo (Kassel–Austin PCG IV, p. 137), per il cui uso in commedia v. Parker 1997, p. 736s. Secondo Luppe 1963, p. 28 “der Schluss […] lässt vermuten, daß es sich auch hier – entsprechend dem vorher zitierten Vers – um Anapäste handelt”, ma questa interpretazione presenta un’ovvia difficoltà con il verse instance. Si potrebbe pensare, inoltre, ugualmente a: 1) trimetro giambico: 〈xlk〉l klkkl l〈lkx〉 (Descroix a 1931, p. 201 e 2196s. per l’anapesto ‘strappato’ in 4 posizione); 2) tetrametro trocaico catalettico: 〈lk〉 lk lkkll 〈lklx lkx〉 (White 1912, p. 1006s. § 250 per la presenza del dattilo). Interpretazione(Secondo Luppe 1963, p. 29 “διδάσκῃ ist sicherlich 3. Person Aktiv; denn bei der 2. Person Passiv wäre der Modus nicht zu erkennen”; ma in realtà il motivo per cui il frammento è citato (attestazione di casi in cui ἄν manca in presenza di congiuntivi), esclude esplicitamente una possibile ambiguità con l’indicativo, mentre lascia aperta la possibilità che διδάσκῃ sia: a 1) cong. pres. att. 3 sing.: ‘insegnare, spiegare’, utilizzato in modo assoluto, oppure seguito da accusativo della persona, doppio accusativo della persona a e della cosa, accusativo e infinito, semplice infinito; 2) cong. pres. 2 sing.: a) medio: ‘imparare da sé’ oppure ‘insegnare, istruire’ con valore analogo all’attivo; b) passivo: ‘ricevere un insegnamento’, ‘imparare’. Il soggetto femminile di παροῦσα rimane ignoto; possibili identificazioni sono le stesse che Bergk e Kaibel proponevano per il fr. 30 K.–A. (dove, però, il soggetto non è esplicitamente femminile, v. supra), alle quali si potrebbe aggiungere l’ipotesi di una personificazione della commedia (per cui v. il caso della Pytinē, test. ii K.–A.). a Non escluso, ma difficile da spiegare, che διδάσκω, in questo caso alla 3 sing., possa avere il valore tecnico di ‘mettere in scena’ (Hdt. I 23, Ar. Ran. 1026 etc.), riferito al soggetto femminile di παροῦσα. “Πρίν […] wird mit dem Konjunktive verbunden zur Bezeichnung einer erst erwarteten, zukünftigen, oder einer in Gegenwart oder Zukunft wiederholten Handlung” (Kühner–Gerth II.2 § 568 b), p. 4546s.); in particolare la documentazione dell’usus linguistico lascia supporre una principale negativa (eventualmente una domanda negativa), con un tempo principale e l’uso del cong. pres. διδάσκῃ invece del più normale aoristo sembra indicare una contemporaneità di azione tra protasi e apodosi, cfr. Luppe 1963, p. 29. πρὶν … διδασκῇ(Il nesso πρὶν ἄν (mai in Omero ed Esiodo) + cong. è regolare in prosa attica (Kühner–Gerth II.2 § 568 b), p. 4546s. e ricorre talora in tragedia, ad es. in Soph. Ant. 1766s., Eur. Her. 181 etc. (solo πρίν ad es. in Soph. Ant. 619, Trach. 608, 946 etc.); in commedia πρὶν ἄν + congiuntivo ha una frequenza maggiore (16x in Aristofane, ad es. Ach. 230, 296, Eq. 961), ma sono attesati anche casi in cui ἄν manca, ad es. Ar. Ran. 1281 µή, πρίν

∆ηλιάδες (fr. 32)

181

γ’ ἀκούσῃς χἀτέραν στάσιν µελῶν, Eccl. 6296s. πρὶν τοῖς αἰσχροῖς καὶ τοῖς µικροῖς6/6χαρίσωνται, 752 πρὶν ἐκπύθωµαι πᾶν τὸ πρᾶγµ’ ὅπως ἔχει. διδάσκῃ(Cfr. Interpretazione e v. anche fr. 17,3. fr. 32 K.–A. (30 K.) τούτοισι δ᾽ ὄπισθεν ἴτω δίφρον φέρων Λυκοῦργος, ἔχων καλάσιριν τούτοισι Hermann: τούτοις codd.ƒƒƒδίφρον φέρων V: φέρων δίφρον E

E dietro a questi vada Licurgo, portando uno sgabello, avendo una kalasiris Schol. (VE) Ar. Av. 1296a Σύµµαχος· φαίνονται τὸν Λυκοῦργον Αἰγύπτιον εἶναι νοµίζοντες ἢ τὸ γένος, ἢ τοὺς τρόπους. Φερεκράτης Ἀγρίοις· … (fr. 11 K.–A.). µήποτε οὖν εἰς τὸ αὐτὸ καὶ Κρατῖνος ∆ηλιάσι· τούτοισι — καλάσιριν Simmaco: sembrano ritenere che Licurgo fosse egizio o per stirpe o per costumi. Ferecrate negli Agrioi: … (fr. 11 K.–A.). Forse dunque per lo stesso motivo anche Cratino nelle Dēliades: e dietro a questi—kalasiris

Metro(llkklkklk

klkklu

lklkll

Bibliografia(Runkel 1827, p. 126s. (fr. VIII), Bergk 1838, p. 406s., Meineke FCG II.1 (1838), p. 296s. (fr. I), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 116s. Bothe PCGF (1855), p. 11 (fr. 1), Kock CAF I (1880), p. 216s., Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 296s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 137, Quaglia 1998, p. 69, Storey FOC I (2011), p. 2826s. Contesto della citazione(In Ar. Av. 1292–1299 vengono elencati una serie di personaggi che portano soprannomi di uccelli, tra cui Licurgo (v. 1296), denominato Ibis, uccello sacro per gli Egiziani (Hdt. II 76, Plat. Phaedr. 274c). La notizia presente nello scolio a 1296a è esplicitamente attribuita al grammatico Simmaco, ca. II sec. d.6C., autore di un commento ad Aristofane (RE IV A 1 s.6v. nr. 10 coll. 1136–1140 [Gudeman]): secondo questi il soprannome Ibis deriva dal fatto che Licurgo era ritenuto egizio di stirpe (γένος) o di costumi (τρόποι). Rimane implicito nella testimonianza di Simmaco il soggetto di φαίνονται … νοµίζοντες, ma si riferisce probabilmente ai poeti comici, ossia al passo di Aristofane glossato e alle successive citazioni; come conferma del

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Cratino

riferimento ai rapporti di Licurgo con l’Egitto, Simmaco riporta, infatti, un frammento degli Agrioi di Ferecrate (11 K.–A.): οἶµαι δ’ αὐτὸν κινδυνεύειν εἰς τὴν Αἴγυπτον6/6οἴκους λέξεις, ἵνα µὴ ξυνέχῃ τοῖσι Λυκούργου πατριώταις, cfr. infra a Λυκοῦργος. Di seguito ricorre l’informazione che probabilmente (µήποτε, per questo significato LSJ s.6v. nr. 3) sempre per questo motivo, Licurgo era menzionato nelle Dēliades, perché qui si parla della kalasiris; dopo la citazione di Cratino, infatti, lo scolio prosegue: ὁ δὲ καλάσιρις χιτὼν πλατύσηµος. φησὶ δὲ Κηφισόδηµος ὅτι Αἰγυπτίων ἡ λέξις (v. infra καλάσιριν). In ogni caso tanto φαίνονται … νοµίζοντες che µήποτε introduttivo della citazione di Cratino, indicano che i rapporti tra Licurgo e l’Egitto erano oggetto di dubbio già per gli scoliasti; inoltre, in Cratino Licurgo è certamente attaccato perché svolge il ruolo di difrofora (v. infra Interpretazione), un dato questo non presente nello scolio, che restituisce quindi un’informazione dubbiosa e solo parziale, cfr. Luppe 1963, p. 30: “dem Scholiasten war der Grund der Verspottung offenbar nicht klar”. La pericope finale dello scolio riporta che Licurgo era attaccato perché straniero o perché malvagio: διαβάλλει δὲ αὐτὸν ἢ ὡς ξένον, ἢ ὡς πονηρόν; ciò può essere riferito: a) all’occorrenza di Aristofane, cui lo scolio è relativo; b) a Cratino, l’ultimo ad essere citato. Questa seconda ipotesi sembra essere preferita da Kassel–Austin PCG IV, p. 137 che confrontano il fr. 406 K.–A. (inc. sed.) dello stesso Cratino, cfr. infra a Λυκοῦργος; in realtà è anche possibile che il motivo dell’attacco ὡς ξένον ἢ ὡς πονηρόν possa valere in egual modo per entrambi (e lo stesso valere anche per il frammento di Ferecrate), proprio sulla base del valore scoptico di αἰγυπτιάζειν testimoniato dal fr. 406 K.–A. di Cratino, ma ovviamente generalizzabile. Testo(Metri causa τούτοισι per il tràdito τούτοις di Hermann 1833 (1834), p. 2956s.; la corruzione di un originario dativo lungo nella forma più comune è un fenomeno frequente in sede di trasmissione, v. comm. a fr. 10 K.–A., p. 90. Metricamente equivalenti δίφρον φέρων (V) e φέρων δίφρον (E), ma la prima forma è preferibile per il confronto con analoghi quali διφροφορέω e διφροφόρος, v. comm. ad loc. Metrica(Il primo verso è un archilocheo (xltlkklx|lklklk) con i due cola marcati dall’indifferens in δίφρον (si intende ῐ secondo la prosodia usuale in commedia); il secondo verso può essere l’inizio di una sequenza x D (da-ep), analogamente a quanto avviene nell’esodo delle Vespe di Aristofane, vv. 1518–1537, v. in part. 1518–20 e 1524–26. Cfr. Parker 1997, pp. 256–261 e v. comm. a frr. 11 e 62 K–A. Interpretazione(Il frammento contiene un attacco a Licurgo: l’ufficio di difrofora era esclusivamente femminile e forse anche molto modesto (infra ad loc.)

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e quindi Licurgo era deriso per la sua omosessualità o effeminatezza e forse anche perché svolgeva un compito molto umile, cfr. Bergk 1838, p. 41, Meineke 1847, p. 12 “videtur pompa describi in qua Lycurgus virginis διφροφόρου partes subire iubetur”; questo motivo di scomma si unisce forse a quello identificato dallo scolio testimone del frammento, ossia i presunti legami con l’Egitto, cui qui rimanda l’uso della καλάσιρις. “Lykurg wird also bei Kratinos verspottet: a) als Ägypterfreund, b) als Weichling und c) in Hinblick auf seine gesellschaftliche Stellung – falls das δίφρος-Tragen eine niedere Dienstleistung ist” (Luppe 1963, p. 30). L’iniziale τούτοισι si riferisce verisimilmente alle canefore (portatrici del κανοῦν, il cesto usato per portare gli oggetti necessari al sacrificio, figure legate soprattutto alle Panatenee, ma non solo, v. Olson 2002, p. 1416s. ad Ar. Ach. 242 e 244) che erano accompagnate dalle difrofore menzionate subito dopo (v. comm. a δίφρον φέρων); le canefore erano figure femminili, così come le difrofore e qui il maschile (τούτοισι) indica probabilmente un attacco a degli effeminati che svolgevano questo ruolo femminile, in maniera analoga a come femminile era il ruolo di difrofora qui svolto da Licurgo. Non probabile, invece, che τούτοισι si riferisca ai coreuti, perché il titolo Dēliades indica esplicitamente un coro femminile (cfr. supra Titolo). Il metro testimonia una provenienza da una sezione lirica; secondo Quaglia 1998, p. 69 si può intendere l’esodo della commedia per 1) il fatto che lo stesso metro è utilizzato nell’esodo delle Vespe di Aristofane (v. Metrica) e 2) il contenuto dove “un ignoto personaggio, forse lo stesso Corifeo, esorta un certo Licurgo a seguire un gruppo di persone (evidentemente i Coreuti)” (ma τούτοισι, come detto, difficilmente indica i coreuti, più probabilmente le canefore; se τούτοισι fossero i coreuti, si potrebbe al limite pensare ad un coro di effeminati, come proposto nel caso delle Drapetides [dove, però, questa ipotesi non appare necessaria, cfr. p. 309 s.], ma di ciò non vi è alcuna evidenza); si aggiunge inoltre, secondo Di Bari 2013, p. 4506s., 3) l’utilizzo di ὄπισθεν ἰέναι “locuzione sostanzialmente sinonimica di ἕπεσθαι, che è verbo frequentemente impiegato in commedia come tipico segnale di esodo” (con il rimando a Eq. 1406 e il comm. a p. 182), 4) “il motivo del διφροφορεῖν […] anche nel finale dei Cavalieri (vv. 1384–1386), ove al ringiovanito Demo il Salsicciaio offre in dono uno sgabello con annesso παῖς – eccezionalmente non effeminato, ma ben dotato sessualmente - che glielo porti”. τούτοισι(“Deutet auf einen Gegenstand, der sich zwar auch noch in dem Bereiche und in der Nähe des Redenden befindet” (Kühner–Gerth II.1, p. 641 § 467). Per le possibili identificazioni, v. Interpretazione. τούτοισι δ᾽ ὄπισθεν(Normalmente ὄπισθεν come preposizione con il valore di ‘dietro’ si costruisce con il genitivo e può precedere o seguire

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Cratino

il termine a cui è legato (v. Kühner–Gerth II.1, p. 3406s. § 416 e 3846s. § 19, Schwyzer II, p. 5406s.); LSJ s.6v. citano come unici casi di ὄπισθεν + dativo questo di Cratino e Pind. Ol. III 31 πνοιαῖς ὄπιθεν Βορέα (LSJ ibid. avvisano che il testo di Pindaro è incerto; la più recente edizione critica [Gentili 2013, p. 95] mantiene il dativo πνοιαῖς che, come si evince dall’apparato, è lezione di ac pc L ed E, mentre πνοιᾶς si legge in L ed è emendamento dovuto a Callierges [nell’edizione di Pindaro stampata a Roma nel 1515], chiaramente una lectio facilior dovuta alla maggiore frequenza di ὄπισθεν con genitivo). δίφρον φέρων(Il nesso δίφρον φέρων corrisponde al verbo διφροφορέω e all’aggettivo διφροφόρος; in tutti i casi il riferimento è alla figura della difrofora, lett. ‘portatrice di sgabello’ (per δίφρος in questo significato, v. LSJ s.6v. nr. II), “l’assistente che forniva alla canefora la sedia per riposarsi nei momenti di pausa della processione e durante i lunghi riti sacrificali” (Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 278 n. 317). V. in part. Hsch. δ 2001 διφροφόροι· αἳ τὰς κανηφόροις εἵποντο, δίφρους ἐπιφερόµεναι, schol. ad Ar. Av. 1551a δοκῶ κανηφόρῳ· ταῖς γὰρ κανηφόροις σκιάδειον καὶ δίφρον ἀκολουθεῖ τίς ἔχουσα. Sia il verbo che l’aggettivo in relazione alla figura della difrofora sono ben attestati in commedia: Ar. Av. 15516s. ἀκολουθεῖν δοκῶ κανηφόρῳ.6/6(ΠΙ.) Καὶ τὸν δίφρον γε διφροφόρει τονδὶ λαβών, su cui Dunbar 1995, p. 7106s.; Eccl. 730–737 (732 ὅπως ἂν ἐντετριµµένη κανηφορῇς … 734 ποῦ ’σθ’ ἡ διφροφόρος), su cui Ussher 1973, p. 178, Vetta 1989, p. 2166s.; Hermipp. fr. 25 K.–A. (Theoi) ὥσπερ αἱ κανηφόροι6/6λευκοῖσιν ἀλφίτοισιν ἐντετριµµένος.6/6(Β.) ἐγὼ δ’ ἐνέκαψα λανθάνων τὴν διφροφόρον; Strattis fr. 7 K.–A. (Atalantos), su cui Orth 2009, p. 746s.; Nikophon fr. 7 K.–A. (Encheirogastores) †γέννα ὁ αὐτὸς† ὀλίγον ἀνάγαγε6/6ἀπὸ τῆς διφροφόρου· χρηστὸς εἶ καὶ κόσµιος, su cui Pellegrino 2013, p. 44. A stare ad una testimonianza di Eliano (VH 6,1 τὰς γοῦν παρθένους τῶν µετοίκων σκιαδηφορεῖν ἐν ταῖς ποµπαῖς ἠνάγκαζον ταῖς ἑαυτῶν) le difrofore appartenevano alla classe dei meteci, mentre gli oggetti da esse portati nel corso delle processioni (oltre allo sgabello anche un parasole, σκιάδειον, cfr. ad es. Ar. Av. 1549–1552 e v. Miller 1992, pp. 91–105, id. 1997, pp. 193–198, Neils 2007, pp. 64–67, Nicosia 2011, pp. 348–350) non avevano alcuna funzione rituale, ma erano solo di servizio, di utilità alle canefore e indicano quindi come modesto il ruolo delle difrofore stesse, v. Deubner 1966, p. 316s. e n. 14, Ziehen RE XVIII,3 (1949) coll. 4656s., Sommerstein 1998 p. 204 ad Ar. Eccl. 734 e Boardman 1985, p. 248 per una raffigurazione. Sulla figura delle difrofore v. ancora Dillon 2002, p. 38, Lefkowitz 2007, p. 966s. Λυκοῦργος(PA 9249, APF 9251 (p. 3496s.), LGPN II s.6v. nr. 3, PAA 611320 e 611325, figlio di Licomede, del demo di Butade, appartenente alla nobile famiglia degli Eteobutadi, nonno dell’omonimo oratore del IV sec. a.6C., condannato

∆ηλιάδες (fr. 32)

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a morte nel 404/3 dai Trenta tiranni dopo essere stato denunciato da un tale Aristodemo di Bate ([Plut.] mor. 841a), onorato dal popolo con un monumento funebre pubblico nel Ceramico (Plut. mor. 843e, 852a). Kōmōdoumenos oltre che qui in Cratino, in Ar. Av. 1296 (su cui v. Dunbar 1995, p. 6416s.), Pherecr. fr. 11 K.–A. (Agrioi) su cui v. Quaglia 2005, pp. 143–145 (cfr. Contesto della citazione), e forse anche in com. adesp. fr. *362 K.–A. (da Hsch. κ 2265) κεραµεὺς ὁ Λυκοῦργος su cui v. Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 256 n. 277. Le due testimonianze citate di Plutarco non sono esenti da problemi né univocamente riferite al già menzionato Licurgo (status quaestionis in Davies 1971, p. 350); in PAA sono trattati distintamente il kōmōdoumenos (611320: Ar. Av. 1296, Pherecr. fr. 11 K.–A. e Cratino) e il personaggio storico (611325), ma viene data per verisimile una loro identificazione (“possibly the same”). Non sono ulteriormente documentati i legami di Licurgo con l’Egitto e questi potrebbero essere un’invenzione comica, poiché anche lo scolio ad loc. di Simmaco esprime dei dubbi in merito (cfr. Contesto della citazione); si ritiene 2 generalmente che ad essi possa, però, alludere IG II 337,436s. (a. 333/2) dove Licurgo, l’oratore del IV sec. a.6C. ricorda un tempio al Pireo dedicato ad Iside, il cui culto si suppone essere stato introdotto in Attica proprio dal suo avo, v. in part. Köhler 1871, p. 52, Wilamowitz 1931, II p. 176 n. 1, Davies 1971, p. 350. Si aggiunge che la pericope finale dello scolio testimone del frammento, διαβάλλει δὲ αὐτὸν ἢ ὡς ξένον, ἢ ὡς πονηρόν, si può confrontare con il fr. 406 K.–A. (inc. sed.) di Cratino, tràdito da Eust. in Od. p. 1484,28: αἰγυπτιάζειν … τὸ πανουργεῖν καὶ κακοτροπεύεσθαι, ὡς ὁ κωµικός φασι Κρατῖνος δηλοῖ (per quest’ultima pericope, chiaramente non intellegibile, Kock CAF I, p. 119 [fr. 378] proponeva un possibile “φησὶ Κρατῖνος ∆ηλιάσιν”); per questo uso di αἰγυπτιάζειν cfr. Kassel–Austin ad loc. che rilevano che si tratta di un utilizzo generico e non riferibile al solo Cratino e Austin – Olson 2004, p. 292 ad Ar. Thesm. 922 (ᾐγυπτιάζετ᾽(ε)). καλάσιρις(Le fonti descrivono la kalasiris come un chitone, una tunica, di origine egiziana dagli ampi orli, talora di lino e che poteva giungere fino ai piedi: a) Hdt. II 81.1 (Αἰγύπτιοι) ἐνδεδύκασι δὲ κιθῶνας λινέους περὶ τὰ σκέλεα θυσανωτούς, τοὺς καλέουσι καλασίρις; b) schol. Ar. Av.  1296 a ὁ δὲ καλάσιρις χιτὼν πλατύσηµος, φησὶ δὲ Κηφισόδηµος146 ὅτι Αἰγυπτίων ἡ λέξις; c) Hsch. κ 415 καλάσιρις· χιτὼν πλατύσηµος, ἢ ἡνιοχικὸς καὶ ἱππικὸς χιτών (cfr. Hsch. ι 806). ἔνιοι δὲ λινοῦν καὶ ποδήρη χιτώνιον ἰσχνόν.

146

Si tratta di un grammatico non altrimenti noto, cfr. White 1914, p. xiv n. 3.

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Cratino

Ἀριστοφάνης Θεσµοφοριαζούσαις (fr. 332,6 K.–A., τρυφοκαλάσιριν, cfr. Hsch. τ 1577 τρυφοκαλάσιρις· ἔνδυµα γυναικεῖον); d) Poll. VII 71 ἐκ δὲ λίνου λινοῦς χιτών, ὃν Ἀθηναῖοι πρότερον ἐφόρουν ποδηρή, καὶ αὖθις Ἴωνες. καλάσιρις χιτὼν θυσανωτὸς Αἰγύπτιος; e) Sud. κ 202 καλάσιρις· χιτὼν πλατύς. οὕτως Αἰγύπτιοι. καὶ ὄνοµα κύριον. ~ Phot. κ 108 καλάσιρις· χιτὼν πλατύς· δῆµος πολεµικός. οὕτως Αἰγύπτιοι. Sulla kalasiris v.  in part. Cleland–Davies–Llewellyn-Jones 2007, p. 101 s.6v. kalasiris, kalasēris). L’etimologia del termine è generalmente rapportata alla classe di guerrieri egizi detta Καλασίριες (Lloyd 1976 II p. 342 ad Hdt. II, 81.1, GEW, DELG s.6v.). Καλάσιρις è il titolo di una commedia di Alessi (fr. 104 K.–A.) dove può essere un nome proprio oppure indicare la veste (Arnott 1996, p. 283). Democr. Eph. FGrHist 267 F 1 chiama in questo modo alcune vesti prodotte a Corinto e in Persia e attesta quindi questi due come luoghi di produzione, accanto all’Egitto, v. A.B. Büchenschütz, Die Hauptstätten des Gewerbfleisses im klassischen Altertume, Leipzig 1869, p. 72); in IG V.1, 1390,18 (92/91 a.6C.) sono così definite le vesti dei celebranti di Andania. fr. 33 K.–A. (31 K.) Schol. VΓ Ar. Vesp. 544b θ α λ λ ο φ ό ρ ο υ ς γὰρ ἔφη βουλόµενος τοὺς γέροντας δηλῶσαι, ἐπειδὴ ἐν τοῖς Παναθηναίοις οἱ γέροντες θαλλοὺς ἔχοντες ἐπόµπευον […] µνηµονεύει τοῦ ἔθους Κρατῖνος µὲν ἐν ∆ηλιάσιν, Φερεκράτης δὲ ἐν Ἐπιλήσµονι (fr. 63 K.–A.) Disse infatti t h a l l o p h o r o u s (che portano ramoscelli) volendo indicare gli anziani, poiché alla Panatenee gli anziani sfilavano in processioni avendo dei ramoscelli […] fa menzione dell’usanza Cratino nelle Dēliades e Ferecrate nell’Epilēsmōn (fr. 63 K.–A.)

Metro(Ignoto (lkkl) Bibliografia(Runkel 1827, p. 13 (fr. IX), Bergk 1838, p. 41, Meineke FCG II.1 (1839), p. 33 (fr. II), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 12, Bothe PCGF (1855), p. 11 (fr. 2), Kock CAF I (1880), p. 22, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 33, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 138, Storey FOC I (2011), p. 283 Contesto della citazione(Sia Cratino sia Ferecrate sono richiamati perché avrebbero menzionato, nelle commedie citate, l’usanza dei vecchi di portare ramoscelli in occasione delle feste Panatenee (µνηµονεύει τοῦ ἔθους κτλ.); lo scoliaste non cita versi dei due commediografi, ma si limita a richiamarli come testimoni di questa usanza. È possibile, ma non certo, che entrambi avessero usato il sostantivo θαλλοφόροι, come Aristofane (così sembrano pensare Kassel–Austin PCG IV, p. 138 che evidenziano la parola con lo spaziato).

∆ηλιάδες (fr. 33)

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Lo scolio ad Ar. Vesp. 542/3–544/5 σκωπτόµενοι δ’ ἐν ταῖς ὁδοῖς θαλλοφόροι6/6καλούµεθ’, ἀντωµοσιῶν κελύφη spiega perché i vecchi, che qui parlano, dicano di essere chiamati in maniera canzonatoria θαλλοφόροι (σκωπτόµενοι … θαλλοφόροι6/6καλούµεθ’). Subito dopo aver richiamato il fatto che gli anziani portavano ramoscelli alle feste Panatenee, lo scolio spiega, infatti: ὡς οὖν εἰς οὐδὲν ἕτερον ὄντων χρησίµων αὐτῶν ἔξω τοῦ θαλλοφορεῖν, οὕτως αὐτοὺς ἐπέσκωψεν, cfr. MacDowell 1971, p. 205: “selection would be meant as an honour; but our phrase implies that, because only the very old were selected, calling an old man ‘olive-bearer’ was a regular sarcastic joke implying that he was no longer fit to do anything else”. Di seguito lo scolio riporta una notizia di Dicearco (fr. 86 Wehrli) secondo cui un tempo anche le donne avevano la funzione di tallofore alle Panatenee, ma la critica: ὁ µέντοι ∆ικαίαρχος ἐν τῷ Παναθηναϊκῷ φησιν –οὐκ οἶδα ἐξ ὅτου– “ποτὲ καὶ τὰς γραῦς ἐν τοῖς Παναθηναίοις ὑπειλῆφθαι θαλλοφορεῖν” πολλῶν ἀλλήλοις ὁµολογούντων ὑπὲρ τοῦ µόνους τοὺς πρεσβύτας θαλλοφορεῖν. Ξενοφῶντος µὲν ἐν Συµποσίῳ (Symp. IV 17 θαλλοφόρους γὰρ τῇ Ἀθηνᾷ τοὺς καλοὺς γέροντας ἐκλέγονται; il passo non è citato dallo scoliaste), Φιλοχόρου δὲ ἐν τῇ δευτέρᾳ (FGrHist 328,9) ὅς γε καὶ τὸν κατάδοντα τὸ ἔθος Ἐριχθόνιον συνίστησιν. Segue il richiamo a Cratino a Ferecrate, che avrebbero menzionato l’usanza (v. supra). Interpretazione(Il costume di portare ramoscelli è testimoniatο in Grecia in occasione di diverse feste, v. RE VA,1 s.6v. Thallophoria, coll. 1215–1225 (Tresp); alle feste Panatenee, dove questo compito era riservato agli anziani (v. supra), si trattava probabilmente di ramoscelli d’olivo (θάλλος indica il ramoscello in generale, ma spesso di olivo con ἐλαίας sottointeso, v. LSJ s.6v.), “probably of Athena’s olive trees”, Parke 1977, p. 44, cfr. Hsch. θ 55, RE VA, 1 cit. col. 12186s., Deubner 1966, p. 286s., Crowther 1985, p. 286, Huss 1999, p. 237 ad Xen. Symp. 4,17. Cratino e Ferecrate sono richiamati dallo scoliaste per avere menzionato l’usanza (µνηµονεύει τοῦ ἔθους κτλ.) che i vecchi portavano ramoscelli alle feste Panatenee; non vi è indizio che i due commediografi avessero utilizzato l’aggettivo θαλλοφόρος (v. supra), né che essi deridessero i vecchi come in Ar. Vesp. 542/3–544/5, cui è relativo lo scolio, l’unica altra attestazione in commedia di θαλλοφόρος. Ad una parodia delle Panatenee pensa Luppe 1963, p. 33 ss. per il confronto con la parodia di Ar. Eccl. 730–745, dove sono menzionate anche le difrofore (cfr. supra fr. 32); ma si può trattare di una semplice menzione della festa, non di una parodia. Possibile, invece, che gli anziani thallophoroi qui menzionati fossero gli stessi che competevano per bellezza nel fr. 30 K.–A. (v. ad loc.). Nessun motivo, infine, di rifiutare la notizia dello scoliaste e di intendere i thallophoroi non in relazione alle Panatenee, ma alle feste Delie, come vuole Bergk 1838, p. 41: “verum Cratinus

188

Cratino

non de Panathenaeorum festo haec dixisse videtur, sed de Deliis sacris”, cfr. già Meineke FCG II.1, p. 33. Cfr. anche infra fr. 34.

fr. 34 K.–A. (32 K.) Hsch. β 969 β ο ῦ ς ἐ ν α ὐ λ ί ῳ· παροιµία ἐπὶ τῶν ἀχρήστων. Κρατῖνος ∆ηλιάσιν U n b u e n e l l a s t a l l a: proverbio per chi è inutile. Cratino nelle Dēliades

Metro(Ignoto (lklkl; giambico?) Bibliografia(Runkel 1827, p. 12 (fr. V), Meineke FCG II.1 (1839), p. 356s. (fr. X), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 10), Kock CAF I (1880), p. 32, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 246s., Luppe 1967, p. 406, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 138, Neri 1994–1995, p. 273 n. 43, Storey FOC I (2011), p. 2826s. Interpretazione(Il proverbio ricorre in forma analoga anche in Prov. Ath. V p. 384 Miller = Coisl. 56 = Sud. β 459 βοῦς ἐν αὐλίῳ κάθῃ· παροιµία ἐπὶ τῶν ἀχρήστων; cfr. Eust. in Il. p. 962,19, III p. 560 van der Valk (ad Ξ 284) παροιµιάζεται δὲ ὁ βοῦς […] κατὰ Παυσανίαν (β 18) καὶ ἐπὶ ἀχρηστίας ἐν τῷ «βοῦς ἐν αὐλείῳ κάθῃ». In queste occorrenze è presente anche una forma verbale, κάθῃ147; discusso, su base linguistica, se essa debba riferirsi anche all’occorrenza del proverbio in Cratino, testimoniata da Esichio. Nega l’appartenenza Meineke FCG II.1, p. 36 secondo cui “ea enim forma Hyperides demum usus est”, cfr. l’impiego della forma καθήσαι e non κάθῃ ad es. in Hdt. III, 134.1, Xen. Cyr. III, 1.6; al contrario la riferisce a Cratino Luppe 1963, p. 246s. = Luppe 1967b, p. 406 secondo cui a) l’intera pericope βοῦς ἐν αὐλίῳ κάθῃ si può intendere come la parte conclusiva di un trimetro giambico dopo la cesura (lk lklkl) e, di conseguenza, b) si possono confrontare analoghe Kurzformen verbali a fine verso in Cratino quali ἀµάρτοιν fr. 60 K.–A. (cfr. p. 353) e ἀµύναιν fr. 183,2 K.–A. (Pylaia), ma anche la ricorrenza della forma κάθῃ in adesp. com. fr. *745,1 K.–A. τί κάθῃ † καὶ πίωµεν (si potrebbe inoltre citare Ar. fr. 631 K.–A. [inc. fab.] dove ricorre κάθου per il più frequente κάθησο, v. Kassel e Austin ad loc.). A sostegno di ciò Luppe (ibid.) porta anche la testimonianza di Antiatt. p. 100, 32 κάθῃ 147

Similmente in Epittet. or. II16,4 ἐν βοὸς αὐλίᾳ καθήµενος. In forma differente il proverbio ricorre in Long. IV18,3 εἰ µέλλω βοῦς, φασίν, ἐν αὐλίῳ καταλείπεσθαι.

∆ηλιάδες (fr. 35)

189

ἀντὶ τοῦ κάθησαι Ὑπερείδης ὑπὲρ Κρατίνου; secondo Luppe qui e in Antiatt. p. 77,27 ἀκµὴν ἀντὶ τοῦ ἔτι, Ὑπερείδης ὑπὲρ Κρατίνου, il tràdito ὑπέρ è una corruzione dovuta al precedente nome proprio Ὑπερείδης e si deve leggere pertanto Ὑπερείδης καῖ Κρατῖνος; ciò testimonierebbe l’impiego di una forma κάθῃ anche in Cratino. Contra Kassel–Austin PCG IV, p. 138 che richiamano la documentazione di Alpers 1981, p. 108 n. 38 il quale rileva che “zum anderen findet sich die Verbindung zweier zitierter Autoren durch καί nirgends bei Antiatt., sondern stets die Nebeneinanderstellung ohne καί […] Daher bleiben Luppes Änderungen doch zweifelhaft”. A parte i dubbi sull’effettiva occorrenza, prima di Iperide, della forma verbale κάθῃ, altrove il proverbio ricorre, seppure in forma differente, anche senza il verbo: Prov. cod. Par. Suppl. 676 = Macar. II 87 = Sud. β 458 βοῦς ἐναύλιος· ἐπὶ τῶν εἰς µηδὲν χρησιµευόντων; Diogen. III 70 (con interpretamentum differente): βοῦς ἐν αὐλίῳ γέρων· ἐπὶ τῶν δι᾽ ἀσθένειαν ἡσυχάζοντων. L’attribuzione di κάθῃ a Cratino proposta da Luppe non è quindi necessaria. Il valore del proverbio in Cratino è quello dell’interpretamentum di Esichio, ἐπὶ τῶν ἀχρήστων ‘per chi è inutile’, come appunto un bue che sta nella stalla, cfr. Luppe 1963, p. 25 “als Ochse sitzt du [accettando κάθῃ] im Stall, d.h. ‘frißt und arbeitest nicht’”; nessun indizio per riferire, invece, a Cratino l’interpretamentum del proverbio in Diogen. III 70 βοῦς ἐν αὐλίῳ γέρων· ἐπὶ τῶν δι᾽ ἀσθένειαν ἡσυχάζοντων (il che sarebbe contro l’esplicita testimonianza di Esichio). Impossibile determinare il referente e il contesto dell’impiego di questa espressione; secondo Neri 1994–1995, p. 272Us. n. 43 questo frammento, così come il 28 e il 33 K.–A. (e forse anche il 30) si inserisce in una serie di riferimenti alla vecchiaia, presenti in questa commedia e che ritornano nella Pytinē (ad es. fr. 193,4 K.–A.), il che potrebbe essere un indizio di una datazione della commedia nell’ultima fase di produzione di Cratino (cfr. Datazione).

fr. 35 K.–A. (33 K.) a

Schol. cod. Par. 1854 (An. Par. I p. 182, 24) ad Aristot. eth. Nic. I 6 p. 1098 18 (µ ί α γ ὰ ρ χ ε λ ι δ ὼ ν ἔ α ρ ο ὐ π ο ι ε ῖ) κέχρηται δὲ τῇ παροιµίᾳ Κρατῖνος ἐν ∆ηλιάσι (u n a r o n d i n e n o n f a p r i m a v e r a) si è servito del proverbio Cratino nelle Dēliades

Metro!Ignoto (kkkkllkllll; giambico?)

190

Cratino

Bibliografia(Meineke FCG V.1 add. et corr. (1844) p. 16, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 13), Kock CAF I (1880), p. 22, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 33, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 138, Storey FOC I (2011), p. 2826s. a

Interpretazione(In Aristot. eth. Nic. I 6 p. 1098 18 all’interno di una discussione sulla felicità viene detto che per raggiungerla è necessario il tempo intero di una vita e questa affermazione è specificata con l’utilizzo del proverbio: µία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ, οὐδὲ µία ἡµέρα; lo scolio ad loc. attesta che di questo proverbio si era servito Cratino, che potrebbe esserne la testimonianza più antica. Il proverbio è quasi sicuramente µία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ (attestato così anche in molte lingue moderne, v. infra), mentre οὐδὲ µία ἡµέρα è probabilmente un’aggiunta di Aristotele e non fa parte del corpo originale del proverbio; ne potrebbero essere indizio testimonianze sia paremiografiche sia lessicografiche che limitano il lemma all’espressione µία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ e nell’interpretamentum, ma solo qui, fanno riferimento al µία ἡµέρα aristotelico, talora con richiamo esplicito al passo del filosofo: 1) Zenob. V 21 (~ Apost. XI 63): µία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. παροµιῶδες τοῦτο ὅτι µία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. βούλεται δὲ εἰπεῖν ὅτι µία ἡµέρα οὐκ ἐᾷ εἰς γνῶσιν ἐµβαλεῖν ἢ εἰς ἀµαθίαν; 2) Hsch. µ 1318 ~ Phot. µ 438 (la glossa è attribuita a Paus. µ 38 Erbse da Theodoridis 1998, p. 570; a fonte paremiografica da Erbse 1950, p. 196) = Sud. µ 1030 µία χελιδὼν· παροιµιῶδες τοῦτο, ὅτι µία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. βούλεται δὲ τι εἰπεῖν. µία ἡµέρα οὐκ ἐᾷ τὸν σοφὸν εἰς τελείωσιν ἐµβαλεῖν καὶ δυσηµερία µία τὸν σοφὸν εἰς ἀµαθίαν. µέµνηται δὲ αὐτῆς Ἀριστοτέλης ὁ φιλόσοφος ἐν Ἡθικοῖς. V. anche Greg. Cypr. II 71 µία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ, οὐδὲ µία µέλισσα µέλι (οὐδὲ—µέλι potrebbe essere un altro proverbio, cfr. Tosi 2011, p. 59) e Sud. µ 11 ἔαρος χρῄζει· ἐπειδὴ παλαιὸν χιτῶνα ἔχει. καὶ Ἀριστοφάνης. δεῖσθαι δ’ ἔοικεν οὐκ ὀλίγων χελιδόνων (Av. 1417, v. infra). µία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. Già Kock CAF 6I, p. 22 e da ultimi da Kassel – Austin PCG IV, p. 138 considerano, quindi, µία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ il proverbio impiegato da Cratino; secondo Luppe 1963, p. 33, invece, poiché lo scoliaste fa esplicito riferimento al passo di Aristotele (e analogamente avviene nelle altre fonti citate), “der genaue Wortlaut des Sprichwortes bei Kratinos sowie seine Beziehung können nicht erschlossen werden”. “Il proverbio ricorda che prima di esprimere un giudizio bisogna usare cautela e che non si deve mai trarre conclusioni affrettate da un solo indizio, né lasciarsi andare a facili entusiasmi per un solo elemento positivo, e si collega all’immagine – già diffusa nel mondo classico (cf. ad es. ThL 6,2829) – della rondine come annunziatrice di primavera” (Tosi 1991, p. 7096s. nr. 1589, cfr.

∆ηλιάδες (fr. 36)

191

Tosi 2010, p. 5496s. nr. 705, Tosi 2011, pp. 58–60). Quella di Cratino è, per noi, l’attestazione più antica del proverbio; è possibile, però, che esso fosse alluso anche in Ar. Av. 14166s. εἰς θοἰµάτιον τὸ σκόλιον ᾄδειν µοι δοκεῖ,6/6δεῖσθαι δ᾽ ἔοικεν οὐκ ὀλίγων χελιδόνων, come testimonia il relativo scolio (1417b) da cui Sud. ε 11 (v. supra), cfr. Dunbar 1995, p. 677 e un’ulteriore attestazione in commedia potrebbe essere in Ar. Eq. 418 ὥρα νέα, χελιδών. Altre menzioni in ambito greco ad es. in Greg. Naz. Or. 39,14 (PG 36,352a), Carm. Mor. VIII 242s (PG 37,666,4s.), Liban. ep. 834,5 (X 752,19 F.) etc., oltre che nelle fonti paremiografiche e lessicografiche citate. Infine, vi è una favola di tradizione esopica (179 Hausrath–Hunger, Babr. 131 Luzzatto–La Penna, Tetr. Iamb. 2,4 Müller), sicuramente dedotta dal preesistente proverbio (Thiel 1971, p. 108), in cui si narra di un giovane spendaccione rimasto solo con il mantello che vende questo suo ultimo bene all’apparire di una rondine, salvo poi non aver nulla con cui coprirsi non appena, subito dopo, il clima si rivela nuovamente freddo (invece della primavera di cui si supponeva presaga la rondine). In italiano il proverbio è ‘una rondine non fa primavera’ e, in forma analoga, ricorre in tutte le principali lingue moderne, v. Tosi 1991, p. 7096s. nr. 1589, cfr. Tosi 2010, p. 5496s. nr. 705.

fr. 36 K.–A. (35 K.) Antiatt. p. 96,14 = Phot. ε 978 = Sud. ε 137 ἐ γ κ υ ρ ῆ σ α ι· ἀντὶ τοῦ ἐντυχεῖν Κρατῖνος ∆ηλιάσιν e n c h y r ē s a i (incontrare, imbattersi): invece di enthychein Cratino nelle Dēliades

Metro(Ignoto (lkll) Bibliografia(Runkel 1827, p. 13 (fr. X), Meineke FCG II.1 (1839), p. 36 (fr. XII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 12), Kock CAF I (1880), p. 22, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 34, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 138, Storey FOC I (2011), p. 283 Contesto della citazione(La glossa dell’ Ἀντιαττικιστής risale verisimilmente a Phryn. praep. soph. fr. 304 (cfr. de Borries 1911 ad loc.) ed è l’unica che conserva il titolo della commedia di Cratino, da cui proviene l’occorrenza; Phot. ε 978 = Sud. ε 137 dopo ἐντυχεῖν riportano, invece, solamente oὕτως Κρατῖνος. Una glossa del tutto analoga, ma adespota e anepigrafa, si trova in Phot. ε 70 ἐγκυροῦντα· ἐντυγχάνοντα.

192

Cratino

Interpretazione(Il verbo nelle due forme ἐγκύρω (con ῡ, più frequente) ed ἐγκυρέω (con ῠ) è presente ad es. in N 145, Hes. Op. 216, Archil. fr. 132 2 W. , Pind. Pyth. IV 282, Hdt. IV 125, VII 128 etc., ma non è mai testimoniato nell’attico di V secolo, né in prosa, né in commedia, dove è invece normale ἐντυγχάνω (Ar. Ach. 847, Nub. 689, Xen. Mem. IV 3.14, Plat. Rp. 531e, Gorg. 509a etc.); lo stesso vale anche per la tragedia (ἐντυγχάνω ad es. in Soph. Ai. 433, Phil. 1329, Eur. Alc. 1032), con l’unica eccezione di Soph. El. 863 (lyr.) τµητοῖς ὁλκοῖς ἐγκῦρσαι. Si nota che nell’unica altra testimonianza di V secolo, quella di Sofocle, è impiegata la forma ἐγκύρω, mentre in Cratino ricorre ἐγκυρέω; ragionevole pensare che si tratti di un verbo stilisticamente ‘alto’, forse impiegato in un contesto lirico, mentre non è possibile determinare se il suo utilizzo fosse serio o parodico (né si può stabilire un qualsiasi legame tra l’uso di Cratino e l’occorrenza sofoclea).

fr. 37 K.–A. (34 K.) Antiatt. p. 94,7 = Phot. ε 1124 ἐ ξ α υ τ ῆ ς· ἀντὶ τοῦ παραχρῆµα. Κρατῖνος ∆ηλιάσιν (∆ηλ. om. Phot.) e x a u t ē s (subito, immediatamente): invece di parachrēma. Cratino nelle Dēliades

Metro(Ignoto (lll) Bibliografia(Runkel 1827, p. 13 (fr. XI), Meineke FCG II.1 (1839), p. 36 (fr. XI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 11), Kock CAF I (1880), p. 22, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Luppe 1963, p. 34, Kassel –Austin PCG IV (1983), p. 139, Storey FOC I (2011), p. 283 Interpretazione(Testimonianze analoghe dell’impiego di questo avverbio α in Hsch. ε 3619 = Σ ε 492 = Phot. ε 1123 ἐξαυτῆς· παραυτίκα, εὐθέως; cfr. inoltre Phil. mut. nom. 142 (III p. 180 Wendl.) οἱ δὲ τὸ παραυτίκα τάχος· ἴσον γὰρ εἶναι τὸ ἐξ αὐτῆς τῷ παραχρῆµα, εὐθύς, ἀνυπερθέτως, ἄνευ µελλήσεως. Un solo esempio di ἐξαυτῆς avverbiale nel senso di παραχρῆµα precedente a Cratino: Theogn. 231 ἄτη δ’ ἐξ αὐτῆς ἀναφαίνεται, ἣν ὁπότε Ζεύς6/6πέµψηι τειροµένοισ’, ἄλλοτε ἄλλος ἔχει; ricorre poi in epoca successiva, ma in maniera limitata: Aen. Tact. 22.29, Arat. 641, Polyb. 2, 7.7, Oppian. 1, 782, 5, 418, Diod. Sic. 15, 43.1, Strab. 15, 2.6.

∆ιδασκαλίαι (Didaskaliai) (‘Prove6/6Rappresentazioni’)

Datazione(Ignota Bibliografia(Runkel 1927, p. 136s., Bergk 1838, p. 131, Meineke FCG I (1839), p. 58, Meineke FCG II.1 (1839), p. 366s., Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13, Bothe PCGF (1855), p. 12, Kock CAF I (1880), p. 23, Schmid 1946, p. 79 n. 2, Norwood 1931, p. 139 e n. 2, Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Pickard-Cambridge 1 1962, p. 8 n. 1 e p. 161 (~ 1927 , p. 15 n. 1, p. 19 e n. 4), Luppe 1967b, p. 405, Kassel–Austin PCG IV, p.  139, Bakola 2010, p.  486s., Storey FOC I (2011), pp. 283–285 Titolo(“Didascaliis vel tituli insolentia corruptelae suspicionem movet gravissimam” (Meineke FCG I, p. 58); analogamente Luppe 1967b, p. 405 che pensa ad una corruttela nei due testimoni dell’unico frammento per Κρατῖνος 〈ὡς ἐν ταῖς〉 ∆ιδασκαλίαις, con un riferimento all’analoga opera di Aristotele (di conseguenza la citazione di Cratino sarebbe anepigrafa). Difendono, invece, il titolo Kock CAF I, p. 23 che proponeva un confronto con analoghi come Κωµῳδοτραγῳδία (Alceo com. PCG II frr. 19–21 K.–A., cfr. Orth 2013, p. 866s. per il titolo e 86–107 e Anassandride PCG II, fr. 26 K.–A.), Ποίησις (Aristofane PCG III.2, frr. 466–467 K.–A. e Antifane, PCG II, fr. 189 K.–A.), Χορός (Epicrate, PCG V, fr. 8 K.–A.) e Schmid 1946, p. 79 n. 2 che confronta ancora Πεῖραι (Ecfantide, solo il titolo, v.  Bagordo 2014, p.  85) e Προαγών (Aristofane o Filonide, PCG III.2, frr. 477–486 K.–A.)148. La presenza di questi titoli lascia supporre che ci fossero commedie con temi verisimilmente metateatrali, che riflettevano uno specifico interesse per il mondo del teatro e i suoi aspetti istituzionali, cfr. Zimmermann 2011, p. 7176s.; le Didaskaliai di Cratino potevano rientrare in questa categoria e non c’è, quindi, alcun motivo reale di rifiutare la bontà di questo titolo. Per il possibile significato, si intende verisimilmente διδασκαλίαι = esercitazioni, prove di un coro (“Dramatic Rehearsals (?)” Storey FOC I, p. 283), come in Plat. Gorg. 501e τί δὲ ἡ τῶν χορῶν διδασκαλία καὶ ἡ τῶν διθυράµβων ποίησις, cfr. Pickard-Cambridge 1968, p. 71: “the poet was said διδάσκειν τραγῳδίαν or κωµῳδίαν, his function as teacher of his chorus and actors was termed διδασκαλία”; il sostantivo διδασκαλία, a differenza di altri (ad es. πεῖρα 148

È nota anche una γραµµατικὴ τραγῳδία, attribuita ad un ateniese di nome Callia, ma è incerto se si tratti di una commedia (e il Callia in questione sia quindi il poeta comico), cfr. Kassel–Austin PCG Call. test. *7 , Orth 2009, pp. 37–39, Bagordo 2014a, pp. 129–132.

194

Cratino

del titolo di Ecfantide, in Ar. Av. 583 e altrove, cfr. Bagordo 2014, p. 85) non è mai presente in commedia, ma ricorre spesso il verbo διδάσκειν, v. comm. a fr. 17,3 (Boukoloi) διδάσκειν. Secondo Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 139, invece, “poterat poeta singularum quas antea docuerat fabularum chorum in scaenam producere”, con διδασκαλία = rappresentazione drammatica, come in Plut. Cim. 8,8, Per. 5,3, un valore dato come possibile anche da Edmonds FAC I, p. 33 (“dramatic performances”) e Storey FOC I, p. 283 (“dramatic productions”, in alternativa al precedente, v. supra, giudicato preferibile in quanto “would afford the opportunity for good comedy”), contra Bagordo 2014a, p. 85 n. 22 “wenig überzeugend”. Non necessaria l’ipotesi di Bergk 1838, p. 131 che sulla base del fatto che i θρίαµβοι menzionati nel fr. 38 K.–A. sono canti in onore di Dioniso, assegnava questo frammento ai Boukoloi e intendeva Didaskaliai come titolo alternativo per questa commedia (contra Kock CAF I, p. 23: “adsentire non possum”; v. infra fr. 38 Interpretazione). Contenuto(Ignoto. L’unico frammento sembra indicare una polemica letteraria di qualche tipo, forse il poeta stesso che parla di se stesso e della propria poesia nella parabasi; ciò, assieme al possibile significato di Didaskaliai e a confronti con analoghi titoli che sembrano implicare riferimenti metateatrali (v. supra), potrebbe indicare una commedia di contenuto letterario, cfr. Bakola 2010, p. 48: “Didaskaliai […] a play whose title strongly suggests that it had a metapoetic content”.

fr. 38 K.–A. (36 K.) ὅτε σὺ τοὺς καλοὺς θριάµβους ἀναρύτουσ᾽ ἀπηχθάνου Quando tu per attingere i begli inni a Dioniso eri odiata Phot. α 1650 = Sud. α 2059 ἀναρύτειν· ἀναντλεῖν, ἀπὸ τοῦ ἀρύτεσθαι. Κρατῖνος ∆ιδασκαλίαις· — anarytein: anantlein (attingere), da arytesthai. Cratino nelle Didaskaliai: quando—eri odiata

Metro(Tetrametro trocaico catalettico

rklk lkll | rklk lkl

Bibliografia(Runkel 1927, p. 136s., Bergk 1838, p. 131, Meineke FCG I (1839), p. 58, Meineke FCG II.1 (1839), p. 366s., Bothe PCGF (1855), p. 12, Meineke FCG

∆ιδασκαλίαι (fr. 38)

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ed. min. I (1847), p. 13, Kock CAF I (1880), p. 23, Norwood 1931, p. 139 e n. 2, 1 Edmonds FAC I (1957), p. 326s., Pickard-Cambridge 1927 , p. 15 n. 1, Kassel– Austin PCG IV, p. 139, Bakola 2010, p. 486s., Storey FOC I (2011), pp. 2846s. Contesto della citazione(Il frammento è tràdito nelle due fonti lessicografiche per attestare l’utilizzo di anarytein, un hapax di cui viene indicato il valore (v. infra ad loc.); la glossa non risulta in Σ, alla quale è attribuita da Adler 1928, p. 185 e da Theodoridis 1982, p. 167149. In Phot. z sono omessi il titolo della commedia e la citazione di Cratino e il nome del commediografo risulta scritto sul margine; in Phot. b il titolo è abbreviato in διδασκαλ. Interpretazione(Il verso contiene una subordinata temporale (ὅτε) in cui chi parla si rivolge in apostrofe diretta (σύ) ad un soggetto femminile (ἀναρύτουσ᾽(α)) e parla dell’odio che questa si era attirata (ἀπηχθάνου) con bei canti in onore di Dioniso (καλοὺς θριάµβους). Il valore metaforico di ἀναρύτειν ‘attingere’ detto dei canti, è privo di paralleli; Meineke FCG II.1, p. 36 confrontava Soph. Ai. 302 λόγους ἀνέσπα (ἀνασπάω può significare in senso proprio ‘attingere’, acqua o simili), utilizzato con valenza negativa (“ἀνασπάω suggests grandiloquent but indisciplinated utterance”, Finglass 2011, p. 228; tra i confronti proposti, Ar. Ran. 9026s. ἀνασπῶντ᾽ αὐτοπρέµνοις6/6τοῖς λογοίσιν, fr. 727 K.–A. ἀνασπᾶν βούλεµα, ἀνασπᾶν γνωµίδιον) e, di conseguenza, pensava ad un analogo contesto anche in Cratino: “Ridet nescio quam mulierculam quae hymnos cantando corruperit. ἀναρύτειν magna cum aerumna vocem promere dixisse videtur”. Diversamente, invece, è stato immaginato un riferimento metaletterario in cui Cratino parlava in qualche modo di sé e della propria poesia e si scagliava contro qualcuno: secondo Kock CAF I, p. 23 “ἀναρύτειν θριάµβους rectissime poeta dicitur qui carmina ex imo pectore haurit. itaque Musam Cratini ipsam adpellari existimo” e per la possibile identificazione del soggetto, v. Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 139 “verba facta videntur ad unam ex Didascaliis, qua quidem poeta adversariorum odium sibi conciliaverat”, Bakola 2010, p. 49 “the addressee could have been Cratinus’ poetry, his Muse or one of his productions which did not fare well in a contest”, Storey FOC I, p. 285: “it is a metatheatrical context where “you” could be Comedy or the Muse of Cratinus, and the concept that 149

Alcune varianti minori nei due testi. Il verbo glossato appare come ἀναρυτεῖν in Fozio (b,z) e fu corretto da Reitzenstein 1907, p. 121 (ἀναρύτειν è confermato dall’ uso nel verso di Cratino). Nell’interpretamentum, in Fozio è tràdito ἀναρύτεσθαι, che ripete evidentemente il lemma, corretto dallo stesso Reitzenstein in ἀρύτεσθαι, la forma del verbo normalmente attestata in attico (LSJ s.6v.; in Sud. si ha, invece, la forma ἀρύεσθαι accolta a testo da Adler 1928 ad loc.).

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Cratino

of poetry as a flowing stream?”. Per la collocazione, il tono di polemica e l’utilizzo del metro (tetrametro trocaico catalettico) possono far pensare ad una provenienza dalla parabasi (v. White 1912, p. 99 § 245); secondo Whittaker 1935, p. 188 da un epirrema in cui il poeta parla a titolo personale150. Sulla base dell’equivalenza proposta θρίαµβος = διθύραµβος (v. infra a 1 θριάµβους) Pickard–Cambridge 1927 , p. 15 n. 1 ritiene che “the reference is probably to Cratinus’ introduction of a dithyramb at the beginning of his Βουκόλοι, and the words were probably addressed to the poet’s Muse”, cfr. Bakola 2010, p. 49: “ἀπηχθάνου may have even evoked the rejection by the archon in the dithyrambic parodos of Boukoloi” (similmente anche Bergk 1838, p. 131 secondo cui, però, Didaskaliai sarebbe stato titolo alternativo per Boukoloi, v. supra Titolo). θριάµβους(‘Inno in onore di Dioniso’, v. Hsch. θ 746 θρίαµβος· ποµπή. ἐπίδεξις νίκη (“hell. u. spät. Übersetzung von lat. triumphus” GEW s.6v.)151. ἢ ∆ιονυσιακὸς ὕµνος, Ἴαµβος, Phot. θ 222 θριάµβους· τοὺς ἰάµβους ἔνιοι ἔλεγον (per ἴαµβος riferito a diversi tipi di composizione, v. RE IX.1 s.6v. Iambographen, col. 654 [Gerhard]). Cfr. Sud. θ 494 θρίαµβος· ὠνοµάσθη δὲ ἀπὸ τῶν ἐπῶν τῶν πρώτων εἰς ∆ιόνυσον γεγραµµένων ἐξ Ἰνδίας ἐπὶ ἅρµατος τίγρεων ἐπανερχόµενον. λέγουσι γὰρ θρίασιν τὴν τῶν ποιητῶν µανίαν κτλ.; qui sono proposte anche altre possibili spiegazioni del sostantivo, alcune riprese dai moderni, ma l’etimologia rimane sostanzialmente ignota (tra le ipotesi più verisimili per la prima parte vi è un collegamento con il numerale ‘tre’) ed è probabile un’origine non greca di questo e analoghi sostantivi quali ἴαµβος o διθύραµβος (che si confrontano per la seconda parte), v. GEW s.6v. (con discussione delle differenti ipotesi), DELG s.6v., Beekes 2010 s.6v. Sulla base di un possibile collegamento con il numerale tre, Pickard–Cambridge 1962, p. 8 e n. 1 propone un’identificazione thriamboi = dithyramboi, in quanto θρίαµβος significherebbe “the three-step’ dance (cf. tripudium)” e “διθύραµβος may be a modified form of δι-θρίαµβος, the δι- denoting connexion with god”.

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Similmente anche Bakola 2010, p. 486s. secondo cui “altough the trochaic metre precludes the possibility that this verse comes from a parabasis proper, it is particulary the ‘bitter’ sentiment implicit in the contrast καλοὺς—ἀπηχθάνου which reinforces the possibility that this was an authorial, quasi-parabatic claim […] The speaker could have been either the chorus or a character”. Il lat. triumphus è possibile che derivi da θρίαµβος per il tramite della mediazione etrusca, v. A. Walde–J.B. Hoffmann, Lateinisches Etymologysches Wörterbuch, 3 Bde., Heidelberg 1982; dall’epoca ellenistica in avanti, il greco θρίαµβος è usato, in ogni caso, per tradurre il lat. triumphus (v. supra e DELG s.6v.).

∆ιδασκαλίαι (fr. 38)

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Questa di Cratino è l’unica attestazione del sostantivo nel senso di ‘inno in onore di Dioniso’ ed è possibile che la già citata glossa di Fozio sia relativa proprio a questa occorrenza (Thedoridis 1998, p. 306; il lemma è, infatti, all’accusativo come nel verso del commediografo). Nelle altre attestazioni, θρίαµβος è usato come epiteto di Dioniso: Pratin. TrGF I F 3, 16 θριαµβοδιθύραµβε, κισσόχαιτ᾽ ἄναξ, PMG adesp. 109d (1027) Page Ἴακχε θρίαµβε, σὺ τῶνδε χοραγέ, Diod. IV 5, Arrian. VI 28,2, Plut. Marc. 22, Athen. I 30b (in tutte le altre occorrenze θρίαµβος equivale a triumphus, v. supra). Secondo Kruse (RE VI A 1 s.6v. Thriambos) “die Epiklesis ist vom Dionysischen Liede auf den Gott übertragen”, ma l’attestazione di Pratina, con ogni verisimiglianza precedente Cratino, potrebbe indicare il contrario (ignota la cronologia di PMG adesp. 109d [1027] Page). ἀναρύτουσ ᾽(‘Attingere’ ma con valore metaforico, accezione documentata solamente qui (cfr. Interpretazione); in senso proprio nell’unica altra occorrenza di questo verbo, Plut. mor. 61.249f τὰ ζέοντα τῶν ὑδάτων ἀναρύτοντε. I testimonia del frammento glossano con ἀναντλέω (cfr. anche Hsch. α 5090 ἀνήρυσαν· ἀνήντλησαν), raro, ma attestato nel significato di ‘estrarre, pompare’ in Strab. III 2.9 ποταµοὺς πολλάκις τοῖς Αἰγυπτίοις ἀναντλούντων κοχλίαις; analogo il significato di ἀρύτω (o ἀρύω, la prima è forma attica, LSJ s.6v.), da cui è proposta la derivazione (“draw water”, LSJ s.6v.), già ad es. in Hes. Op. 550 ἀρυσσάµενος ποταµῶν ἄπο (metaforico in Plat. Phaedr. 253a κἂν ἐκ ∆ιὸς ἀρύτωσιν, l’ispirazione tratta da Zeus). Il semplice ἀρύτω ricorre in prosa (ad es. Xen. Cyr. I 3.9, Plat. Phaedr. 253a cit., etc.), ma è raro sia in tragedia (Eur. Hipp. 209, lirico) sia in commedia (Ar. Nub. 272, Pherecr. frr. 137,5 e 147 K.–A. [Persai]); se non si intende un semplice utilizzo metri causa, rispetto ad ἀρύτω il composto con ἀνά potrebbe indicare l’atto di tirare su, come si fa con l’acqua, oppure intensificare il valore del verbo (LSJ s.6v. ἀνά, F 1–2), cfr. la trad. di Kock CAF I, p. 23 “ἀναρύτειν θριάµβους rectissime poeta dicitur qui carmina ex imo pectore haurit” . ἀπηχθάνου( Con participio (ἀναρύτουσ᾽) ‘farsi odiare/essere odiato’ per qualcosa che si fa, come in Andoc. 4.10 ἅµα δὲ καὶ πολλοῖς ἀπεχθοίµην τῶν πολιτῶν, φανερὰς τὰς συµφορὰς ποιῶν αὐτῶν. Raro in commedia: Ar. Lys. 699, Plut. 910 (lo stesso in tragedia: Eur. Alc. 71, Med. 290), frequente in prosa, ad es. Thuc. I 75, Plat. Phileb. 28d, Xen. VII 6.34, VII 7.10 (ἀπηχθανόµην, impf. come in Cratino).

∆ιονυσαλέξανδρος (Dionysalexandros) (‘Dionisalessandro’)

Datazione(430 (più probabilmente) o 429 a.6C. Bibliografia(Runkel 1827, pp.  14–17, Meineke FCG II.1 (1839), pp.  37–42, Meineke FCG ed. min. I (1847), pp. 13–15, Bothe PCGF (1855), p. 12–14 Kock CAF I (1880), pp. 23–26, Grenfell–Hunt 1904, Croiset 1904, Koerte 1904, Rutherford 1904, Wilamowitz 1904, p. 6656s., Perdrizet 1905, Blass 1906, p. 4856s., Thieme 1908, pp. 7–21, 26–29, Flickinger 1910, Koerte 1911, pp. 254–258, Demiańczuk 1912, pp. 31–33, Robert 1918, pp. 164–168, Platnauer 1933, pp. 158–161, Méautis 1934, Flickinger 1936, pp. 330–337, Pieters 1946, pp. 121–131, 169–172, Cervelli 1950, Pieters 1951, pp.  161–163 Papathomopoulos 1964, p.  42 n. 1, Coles– Barns 1965, p. 55, Edmonds FAC I (1957), pp. 32–37, Luppe 1966, Luppe 1967, Schmalzriedt 1970, p. 31 n. 20, Übel 1971, p. 171 e p. 189 (nr. 1173; aggiunta in Übel 1974, p.  363) , Austin CFGP (1973), pp.  35–37 (fr. 70), Luppe 1975, pp. 187–190, Luppe 1977, p. 966s., Ebert 1978, Luppe 1980, Handley 1982, Lerza 1982, Tatti 1986, Schwarze 1971, pp. 6–24, 1896s., Kassel–Austin PCG IV (1983), pp. 140–147, Bona 1988, pp. 187–194, Luppe 1988, Rosen 1988, pp. 49–55, Heath 1990, pp. 144–146, Bastianini 1995, p. 28, Farioli 1994, Capasso 1996, p. 147 n. 38, Revermann 1997, Capasso 1998, p. 71 n. 79, Quaglia 1998, pp. 47–50, Rosen 1988, pp. 50–55, van Rossum-Steenbeek 1998, pp. 37–39, 2366s. (fr. 22), Austin 1999, Otranto 2000, p. 42 n. 5, Sommerstein 2002, p. 8 e n. 27, Casolari 2003, pp. 98–112, Storey 2003, p. 1286s., Bakola 2005, Storey 2005, pp. 209–216, Revermann 2006, pp. 299-302, Storey 2006, Caroli 2007, pp. 52–60, 247–257, Olson 2007, pp. 71–73 e 88–92 (B13–B20), Wright 2007, Bakola 2010 passim (v. General Index, p. 3726s.), Ornaghi 2010, Henderson 2011, pp. 181–184, Storey FOC I (2011), pp. 284–295, Zimmermann 2011, pp. 720–723, Bierl 2013 Titolo(La forma del titolo con giustapposizione di due nomi propri si può confrontare con analoghi quali ad es. Aiolosikōn (Aristofane), Dēmotyndareōs (Polizelo), Thouriopersai (Metagene), Orestautokleidēs (Timocle), v. altri esempi in Meyer 1923, p. 1766s. e Caroli 2007, p. 2476s. n. 836; in simili casi si può verificare sia che il primo nome indichi chi viene imitato e il secondo chi imita (ad es. nell’Aiolosikōn il cuoco Sicone faceva la parte di Eolo), sia il caso opposto, come ad es. nei Thouriopersai, “Thurii Persarum more luxuriae dediti” (Kock CAF I, p. 706) o nel caso del Dionysalexandros che, alla luce del contenuto della hypothesis, si interpreta come la rappresentazione di Dioniso nelle vesti di Alessandro152, 152

Come è noto, fin dai poemi omerici Alessandro e Paride sono i due nomi alternativi che identificano questo personaggio e non hanno alcuna distinzione seman-

∆ιονυσαλέξανδρος

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ovvero Dioniso che prende il posto di Alessandro nel ruolo di giudice della contesa di bellezza di Era, Atena e Afrodite153. Per la presenza di Dioniso in commedia, v. infra a Dionysoi. Il titolo della commedia è presente anche nella hypothesis, sopra la seconda colonna del testo, ca. 4,5 cm dal bordo superiore del papiro, disposto su tre linee, mutilo sulla parte destra, con alcuni segni decorativi in corrispondenza delle lettere iniziali, sopra e sotto alla ∆ e alla Κ, solo sopra alla Η della riga centrale, cfr. Bakola 2010, p. 96 n. 50; questa posizione insolita (ci si aspetterebbe una sua collocazione prima del riassunto, quindi sopra la prima colonna), già stigmatizzata da Grenfell–Hunt 1904, p. 69 (“the title […] occurs, not where it would be expected at the end, but at the top of the last column, and is written in much larger uncials”), si deve verisimilmente al fatto che l’originario rotolo di papiro conteneva un’edizione della commedia di Cratino normalmente aperta dall’indicazione del titolo e il testo della hypothesis venne scritto in un secondo momento nell’ἄγραφον antecedente la prima colonna con cui iniziava il testo della commedia (Luppe 1966, p. 192, van Rossum–Steenbeek 1998, pp. 37-39 [la quale non esclude però come possibilità alternativa che l’hypothesis al Dionysalexandros “once formed part of a collection of hypp.”,

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tica (poco convincenti i tentativi di differenziare l’uso dell’uno e dell’altro, v. in part. M. Lloyd, Paris/Alexandros in Homer and Euripides, «Mnemosyne» 42, 1989, pp. 76–79, A. Suter, Language of Gods and Language of Men: the case of Paris/ Alexandros, «Lexis» 7, 1991, pp. 13–25 e id., ∆ύσπαρι, εἶδος ἄριστε…, «QUCC» n.s. 39, 1991, pp. 7–30. Cfr. anche LfgrE I s.6v. Ἀλέξανδρος [van der Valk] e III s.6v. Πάρις [Führer]). Il titolo della commedia e le due citazioni nell’hypothesis (r. 29 e r. 34) indicano che Alessandro era il nome con cui veniva verisimilmente chiamato il figlio di Priamo nella commedia (anche se non si può escludere che, in qualche luogo, venisse utilizzato l’altro nome Paride); pertanto, Alessandro è l’unico nome che, da qui in avanti, si utilizzerà per identificare questo personaggio. Prima del rinvenimento della hypothesis Meineke FCG I, p. 57 (cfr. 413) e FCG II.1, p. 37 aveva proposto un’attribuzione a Cratino iunior (IV sec. a.6C.) e deduceva dal titolo e da quanto si poteva ricavare dai frammenti che la commedia dovesse riferirsi alla spedizione di Alessandro Magno “Dionysiacae pompae adsimulatam” (così già Casaubon cit. da Schweighaeuser 1802, p. 333: “videtur scripta fabula in tyrannum Alexandrum qui pro Baccho voluit coli”), ma stampava i frammenti nella sezione di Cratino il comico del V sec. a.6C. “quum dubia res sit et incerta” (Meineke FCG II.1, p. 37). Il primo a rivendicare la paternità della commedia a Cratino il comico dell’ἀρχαῖα e il suo contenuto al mito del giudizio di Alessandro sembra essere stato Grauert 1828, p. 62: “Ego ad Paridem eam spectare suspicor, cuius sub specie fortasse iudicium de dea rum pulchritudine et quae sequebantur ridicule exsecutus est Dionysus”, la cui intuizione fu poi ripresa da Kock CAF I, p. 23: “non ad Alexandrum Magnum, sed ad Paridem Troianum referenda esse”.

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Cratino

ibid. p. 38], Caroli 2007, p. 249). Nonostante la mutilazione che interessa il lato destro della seconda colonna e che inficia soprattutto il titolo, la prima e la terza riga di questo sono facilmente integrabili e rispettano una consuetudine delle epigrafi drammatiche in cui il titolo dell’opera precede la specificazione del nome dell’autore (v. Caroli 2007, p. 66): alla prima riga, ad una sequenza iniziale di lettere ∆ΙΟNYΣ[ possono corrispondere solamente due commedie di Cratino, Dionysalexandros o Dionysoi, ma i Dionysoi sono una commedia poco nota (e il cui titolo è stato talora anche sospettato, v. infra p. 302) e il riferimento è quindi pressoché con certezza al Dionysalexandros; d’altra parte, alla terza riga il nome proprio con cui completare il tràdito ΚΡΑΤ non può che essere quello di Cratino, perché non è nota nessuna commedia di Cratete (il cui nome potrebbe essere integrato in alternativa) il cui titolo inizi con le lettere ∆ΙΟΝΥΣ. Discusso è, invece, il valore della Η presente nella seconda riga; due le interpretazioni possibili: 1) H = numerale 8, a sua volta da intendere: a) κατὰ στοιχεῖον, così Grenfell–Hunt 1904, p. 70, Koerte 1904, pp. 4846s., Koerte 1921 col. 1648, Marzullo 1962, p. 549, Geissler 1925, p. 25 n. 5, Otranto 2000, p. 42 n. 5; b) κατὰ χρόνον, così Darquenne 1941, pp. 166s. e 956s., Flickinger 1910, pp. 7–10, Flickinger 1936, pp. 3356s. 2) H = ἤ (particella disgiuntiva), ipotesi per primo di Edmonds FAC I, p. 32 n. 3, poi seguito da Luppe 1966, pp. 188–191, Austin 1970, p. 37, Caroli 2007, pp. 255–257, Bakola 2010, p. 85, che rimanderebbe ad un titolo alternativo a Dionysalexandros. Rispetto a 1a) (κατὰ στοιχεῖον), il Dionysalexandros nell’arrangiamento alfabetico delle commedie di Cratino occupa non l’ottavo, ma il sesto posto (Archilochoi, Boukoloi, Bousiris, Dēliades, Didaskaliai, Dionysalexandros, Dionysoi, Drapetides) e, perciò, si deve o intendere una corruzione nell’indicazione del numerale (van Leeuwen 1908, p. 268), oppure più verisimilmente supporre che l’ordine alfabetico consideri solo la lettera iniziale (Otranto 2000, p. 42 n. 5: “dall’analisi dei papiri con elenchi di libri […] emerge che l’ordinamento alfabetico, quando è presente, di solito non va oltre la prima lettera”, cfr. anche Koerte 1922, col. 1648 [“Zulassung der bekannten Freiheit in der alphabetischen Ordnung”], Luppe 1966, p. 189, Caroli 2007, p. 253). Rispetto a 1b) (κατὰ χρόνον), se si considera che l’attività di Cratino si svolge tra il 456/5–453/2 a.6C. (possibile data della prima vittoria nota) e il 423/2 a.6C. (comunque non oltre la fine degli anni venti, v. da ultimo Zimmermann 2011, p. 7186s.) e che la data probabile del Dionysalexandros è il 430 o il 429 (cfr. Datazione), bisognerebbe datare nel torno di tempo 430/429 – 420 ca. più di 2/3

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delle commedie che ci sono testimoniate, il che non appare molto probabile; oltre a ciò, la quasi totale incertezza di cronologia che caratterizza la carriera di Cratino rende metodologicamente poco prudente una simile possibilità. Prevale l’ipotesi 2), H = ἤ disgiuntivo che introduce la “variante alternativa al titolo d’autore” (Caroli 2007, p. 255); la presenza di un doppio titolo si può ricondurre all’ambiente alessandrino e alla circolazione libraria dei drammi e, poiché sono assai minoritari (13 su 43) i casi in cui due titoli siano citati in maniera pressoché equivalente, si potrà intendere che quello che ricorre maggiormente era di comune impiego, mentre il secondo una variante occasionale, v. Sommerstein 2002, in part. pp. 56s. e Caroli 2007, pp. 73–76 (ad es. la commedia Hellas ē nēsoi di Platone comico è citata nei testimonia sempre con il solo titolo Ἑλλάς, mentre, Νῆσοι è presente soltanto in Sud. π 1708 e Phot. τ 49 [= fr. 25 K.–A.], cfr. Pirrotta 2009, p. 866s.). Titoli alternativi sono testimoniati in più di un caso, v. ad es. Astrateutoi ē Androgynoi (Eupoli) Lakōnes ē Poiētai, Xantai ē Kerkōpes (Platone comico), Makedones ē Pausanias (Strattis, cfr. Orth 2009, p. 144), Epilēsmōn ē Thalatta (Ferecrate), ma sembrano caratteristici per la generazione di Aristofane e dei suoi contemporanei, mentre vi è un solo esempio precedente, Persai ē Assyrioi di Chionide (Bagordo 2014a, p. 50), per cui la presenza di un eventuale doppio titolo collocherebbe il Dionysalexandros allo snodo temporale, lo scoppio della guerra del Peloponneso, dopo il quale compaiono le prime attestazioni (Sommerstein 2002 in part. p. 8 e n. 27, del quale v. anche pp. 13–15 [Appendix 1] per una lista di doppi titoli). Come possibili titoli alternativi per il Dionysalexandros sono stati proposti154: 1) Idaioi secondo Luppe 1966, pp. 184–191 (cfr. Austin CGFP, pp. 35–37, PCG IV, p. 141 [in alternativa con il valore alfabetico], Sommerstein 2002, p. 8 n. 27, Bakola 2005, p. 55, Bakola 2010, p. 96 [che non esclude l’ordine 154

Edmonds FAC I, p. 32 n. 3, al quale per primo si deve la possibilità di intendere il disgiuntivo ἤ, propose come titolo alternativo Ἀπαίτησις (sc. di Elena), motivato sulla base del confronto con un ditirambo di Bacchilide, il cui titolo Ἀντηνορίδαι ἢ Ἑλένης ἀπαίτησις egli stesso aveva restituito come palinsesto dal Pap. Oxy. 1091 (nel papiro il titolo Ἀντηνορίδαι ἢ Ἑλένης ἀπαίτησις era stato cancellato e, al suo posto, era stata posta la titolatura Βακχυλίδου ∆ιθύραµβοι, v. J.M. Edmonds, Mr. Lobel and Lyra Graeca. A Rejoinder, «Cl. Rev.» 36, 1922, pp. 159–161, p. 160). Contra Marzullo 1962, p. 549 e Luppe 1966, pp. 1906s. che rilevano e l’inopportunità di trasferire ad una commedia un titolo attestato da un diverso genere letterario e il fatto che il solo Ἀπαίτησις proposto da Edmonds, senza la specificazione Ἑλένης, non sarebbe comprensibile: “abgesehen davon, dass Ἑλένης ἀπαίτησις verständlich ist, blosses ἀπαίτησις dagegen unverständlich wäre, darf man einen Titel einer Komödie nicht erfinden oder von einer anderen literarischen Gattung übernehmen”.

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Cratino

alfabetico], Caroli 2007, pp. 2566s.); questo titolo farebbe riferimento ai pastori del monte Ida, compagni di Alessandro. Secondo Luppe in particolare il fr. 91 K.–A. di Cratino (ἀπανθήσαντα) τὸ ἄνθος, καὶ ὁ Κρατῖνος ἐν τοῖς ἰδίοις (ἐν τοῖς Ἰδαῖοις: Bergk 1838, p. 111) τὰς θείας µορφὰς ἐν ἀρχῇ φανείσας si può emendare, nella parte finale, in τὰς θείας µορφὰς ἐναργεῖς φανείσας155, che alluderebbe all’apparizione in scena delle dee, latrici dei doni a Dioniso/ Alessandro (φαίνεσθαι ἐναργεῖς è formulare in Omero per le epifanie divine, ad es. Υ 131: χαλεποὶ δὲ θεοὶ φαῖνεσθαι ἐναργεῖς). Il testo dello scolio potrebbe essere corrotto, ma Idaioi, a prescindere da ciò, può essere anche il titolo di una commedia a sé, riferibile ai Dattili Idei officianti del culto della grande Madre, come proposto da Bergk 1838, pp. 109–111, e la commedia potrebbe aver contenuto una satira dei culti stranieri (sul tema in commedia v. Delneri 2006; Kassel–Austin PCG IV, p. 167 stampano il fr. 91 come appartenente alla commedia Idaioi, ma registrano anche la possibilità avanzata da Luppe e definiscono il testo del frammento “obscura”); 2) Dionysoi secondo Heath 1990, p. 1466s. (“Dionysus and his companions”); si potrebbe anche immaginare che Dionysoi indichi ‘i due Dionisi’ il vero, protagonista della commedia che arriva in scena all’inizio e alla fine viene consegnato agli Achei, e quello che finge di essere Alessandro (il Dionis-Alessandro), ma l’unico frammento noto di questa commedia non permette alcuna considerazione fondata (da rilevare, inoltre, che secondo Kock 1893, p. 239 nel Lexicon Messanense, testimone dell’unico frammento dei Dionysoi di Cratino, il titolo Dionysoi era in realtà una corruzione per Dionysalexandros, cfr. infra p. 302); 3) Satyroi secondo Storey FOC I, p. 377, ma ciò significherebbe abbassare la cronologia del Dionysalexandros al 424 (data sicura dei Satyroi, secondo posto alle Lenee del 424 a. C., dopo i Cavalieri di Aristofane [terzo Aristomene con gli Hylophoroi, cfr. Orth 2014, p. 85], v. Cratin. test. 7b K.–A., PCG IV, p. 113), il che appare poco probabile (cfr. Cronologia). In sintesi, la Η della seconda linea del titolo si interpreta come disgiuntivo verisimilmente meglio che come numerale e rimanda alla possibile presenza di 155

Secondo Luppe 1966, p. 1866s. ἐν ἀρχῇ interposto tra τὰς θείας µορφάς e φανείσας è fuori posto e non può considerarsi equivalente a ἐν ἀρχῇ τοῦ δράµατος: “in den Scholien und auch sonst, wo aus grammatischen Gründen wie hier etwas zitiert (oder in Paraphrase wiedergegeben) wird, beschränkt sich gewöhnlich die Stellenangabe auf Dichter und Stück”. Negli scoli ad Aristofane quando c’è un generico riferimento alla sezione iniziale del dramma, il sintagma ἐν ἀρχῇ è sempre accompagnato dal genitivo epesegetico τοῦ δράµατος, v. ad es. sch. Ar. Ach. 866, Eq. 497a (τοῦ ποιήµατος), Pac. 619 (τοῦ ποιήµατος), ma cfr. sch. Ach. 18a dove si trova il solo ἐν ἀρχῇ.

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un titolo alternativo, la cui identificazione è però questione insoluta: nessuna delle proposte avanzate è infatti esente da problemi. Se si accetta l’ipotesi di un doppio titolo, sembra comunque da escludere che essa implichi la presenza di una διχορία, come è stato argomentato soprattutto a proposito dell’eventuale Idaioi, una possibilità questa che non appare verisimile né necessaria, v. infra. Contenuto(Lo svolgimento della commedia è quello che si deduce dalla hypothesis. Si tratta di una versione comica del mito del giudizio di Alessandro, qui sostituito da Dioniso; la scena doveva svolgersi sul monte Ida (cfr. r. 226s.) e il coro essere composto dai satiri (cfr. r. 42 e v. infra). Le prime fasi della commedia (prologo, parodo, agone) erano contenute nella sezione oggi perduta, la trama si segue abbastanza bene dal momento in cui gli attori escono e si svolge la parabasi (rr. 6–9), quindi Dioniso rientra, ridicolmente acconciato da Alessandro, e i satiri lo deridono (rr. 10–12); seguono il giudizio di bellezza delle dee, l’assegnazione della vittoria ad Afrodite, il rapimento di Elena (rr. 12–23). Quando gli Achei in rivalsa al rapimento di Elena cominciano a devastare il territorio del monte Ida e a cercare Alessandro, Dioniso per paura si trasforma in un ariete e nasconde Elena; sopraggiunge il vero Alessandro che smaschera i due fuggitivi e vuole consegnarli agli Achei, ma cede alle preghiere di Elena e la tiene con sé, mentre consegna il solo Dioniso; nell’esodo (rr. 41–44) Dioniso viene consegnato e i satiri lo accompagnano fuori dalla scena, ribadendo la loro fedeltà. Le ultime righe (44–48) informano che la commedia aveva un contenuto politico e veniva attaccato Pericle. Il coro della commedia doveva essere costituito dai satiri, come si evince dall’informazione inequivoca di hypothesis rr. 426s. (συνακολουθ(οῦσι) δ’ οἱ σάτυ(ροι) παρακαλοῦντές τε κ(αὶ) οὐκ ἂν προδώσειν αὐτὸν φάσκοντες), dove viene descritto l’esodo della commedia; i satiri qui menzionati non possono che essere i coreuti, come proposto già da Grenfell–Hunt 1904, pp. 70 e 72, Koerte 1904, p. 483 e v. da ultimi Olson 2007, p. 87 e Bakola 2010, pp. 82-88 (cfr. Zimmermann 2011, p. 720, Bierl 2013). Non necessario ipotizzare l’esistenza di un doppio coro (fatto in sé scarsamente testimoniato156), uno di satiri e uno di pastori del monte Ida, come proposto per primo da Schmid 1946, p. 77 n. 8 e

156

Due soli casi sicuri, il doppio coro di donne e di anziani nella Lisistrata di Aristofane e quello del Marikas di Eupoli, v. frr. 192–193 K.–A., cfr. Taplin 1993, p. 576s., Olson 2007, p. 215, mentre altrove, come nel caso degli Archilochoi di Cratino, è ipotizzabile, ma non sicuro, v. p. 15–17 e cfr. Carrière 1977 e Taplin 1993, in part. p. 58 e n. 5 per ulteriori possibili esempi.

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poi argomentato da Luppe 1966, pp. 184–92157; questa ipotesi si basa in particolare su due elementi: 1) la possibilità di un doppio titolo Ἰδαῖοι (v. supra), che è però incerta e, come Bakola 2010, p. 88 rileva, se accettata, può essere interpretata come Ἰδαῖοι σάτυροι (cfr. Zimmermann 2011, p. 721) e non implicare di conseguenza un doppio coro; 2) il fatto che il pronome οὗτοι a r. 6, con cui ci si riferisce ai coreuti evidentemente nominati prima, indichi “wahrscheinlich Hirten um Paris, nicht Satyrn, die erst nachher mit Dionysos gekommen sein werden” (Schmid 1946, p. 77 n. 8), perché ciò che è implicato dall’endiadi ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) χλευάζου(σιν) è più di un semplice attacco e ciò non sarebbe appropriato ai satiri, seguaci di Dioniso; si tratterebbe secondo Rosen 1988, p. 546s. di verbi che rimandano ad un contesto di aischrologia rituale legata a Dioniso, un fatto, questo “unbeweisbar, zumal gerade unverschämte Frechtheit ein Wesensmerkmal der Satyrn ist” (Zimmermann 2011, p. 721 n. 215, cfr. Bakola 2010, p. 87, la quale rileva che la circostanza che i satiri alla fine della commedia ribadiscano la loro fedeltà a Dioniso potrebbe essere indizio di un loro precedente allontanamento che può giustificare l’attacco. Per una possibile connotazione rituale dei due verbi, v. anche Bakola 2010, p. 2686s.)158. I satiri potevano d’altronde essere verisimilmente coreuti in commedie dall’omonimo titolo, una di Ecfantide (PCG V, frr. 1–2 K.–A, cfr. Bagordo 2014a, pp. 86–88), una di Callia (PCG IV, p. 49, solo il titolo; forse Lenee del 437 se IGUR 216. 1–6 [IG XIV 1097, 1–6] si riferisce alla carriera di Callia, v. da ultimo 157

158

Questa ipotesi si trova espressa anche in Austin 1973, p. 37, Lerza 1982, pp. 1936s., Rosen 1988, p. 55 n. 59, id. 2003, p. 384 e n. 30, Casolari 2003, p. 1006s. V. anche Ornaghi 2010, p. 90 n. 5. Status quaestionis sul presunto doppio coro e sua confutazione in Bakola 2010, pp. 82–88, che lo definisce “argument […] purely conjectural and […] based on a highly tendentious interpretation of some pieces of evidence” (p. 85). A parte quelli discussi, altri argomenti addotti a favore del doppio coro sono: 1) il fatto che l’ordine di Alessandro in hypothesis rr. 33–37 (Ἀλέξανδρος […] φωράσας ἑκάτερον ἄγειν ἐπὶ τὰς ναῦς προστάττει ὡς παραδώσων τοῖς Ἀχαίοις, cfr. anche 406s. τὸν δὲ ∆ιόνυσον ὡς παραδοθησόµενον ἀποστέλλει [sc. Ἀλέξανδορος]), non può che essere dato ai suoi seguaci (“wem gibt Paris diesen Auftrag? Offenbar doch Leuten aus seinem Gefolge”, Luppe 1966, p. 184), da identificare certamente con dei coreuti; in realtà, come Luppe stesso riconosce, questi seguaci potrebbero essere dei κωφὰ πρόσωπα (“könnten im Stück Statisten sein”, Luppe 1966, p. 184) e anzi ciò appare preferibile perché un contatto fisico tra coreuti e attori è in genere escluso dalle convenzioni sceniche, cfr. Arnott 1962, pp. 35–41 e Kaimio 1988; 2) la possibile identificazione dei pastori, compagni di Alessandro, con il soggetto del fr. 39 K.–A., ma v. comm ad loc. p. 2436s.

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Bagordo 2014a, p. 1266s.), una di Frinico (PCG VII, frr. 46–51 K.–A., cfr. Stama 2014, pp. 247–269) e una di Cratino stesso (v. supra)159; secondo Bakola 2010, pp. 89–96 e 101–117 il Dionysalexandros si può intendere come una “Satyrcomedy” (già di “cross-generic play” parlava Taplin 1993, p. 249), per la forte presenza in essa di elementi tipici del dramma satiresco (tra di essi, il tema mitico e il suo trattamento burlesco, il coro dei satiri, l’allontanamento di questi dal loro padrone e il successivo ritorno [che sarebbe testimoniato nelle rr. 42–44 della hypothesis]; per i rapporti tra commedia e dramma satiresco, v. anche Guggisberg 1947, pp. 36–44 e Hall 2006, pp. 3406s., 3506s.), ma come rileva Zimmermann 2011, p. 721, a parte il fatto che l’interazione tra commedia e dramma satiresco non è priva di paralleli (ad es. il motivo della ricerca di qualcuno è tipico del dramma satiresco e si ritrova nella parodo degli Acarnesi; i “satyr-play motifs of slavery, bondage, and escape” [Bakola 2010, p. 104] ricorrono in realtà anche in commedia, v. Guggisberg 1947, pp. 60–74, Fischer 1958, Sutton 1980, pp. 145–159, Paganelli 1989, pp. 228–274 [in part. 2386s.], Cipolla 2003, p. 46s.), “der Dionysalexandros ist aber trotzdem eine Komödie, nicht ein Satyrspiel oder eine Satyrspielkomödie, da sich auf dem Vehikel der Satyrspielmotive und der sich an das Satyrspiel anlehnenden σύστασις τῶν πραγµάτων ein komisches Spiel mit sicherlich zahlreichen komischen Episoden entfalten konnte. Ohnehin ist die Gattungsfrage ein modernes Problem: für den Zuschauer des 5. Jh. v. Chr. stellte sich die Frage nach der Gattungszugehörigkeit nicht”160 (v. anche Stama 2014, pp. 248–250 per la discussione di un’analoga possibilità a proposito dei Satyroi di Frinico). 159

160

Secondo Sud. ω 272 anche Ofelione (IV sec. a. C.) avrebbe composto una commedia dal titolo Σάτυροι (PCG VII, p. 97 test. i K.–A.), ma la notizia è dubbia, v. Meineke FCG I, p. 415, FCG III, p. 380, Brinkmann 1902, p. 488 n. 1, Wagner 1905, p. 44, Caroli 2013, p. 218. Un altro titolo Σάτυροι si legge in POxy XV 1801 (CGFP 343.17 = com. adesp. 1040 K.–A.) dove è riportato l’utilizzo del verbo βδύλλω in questa commedia; si è pensato per la possibile paternità a Cratino (Koerte 1924, p. 246 [nr. 246] e Weinrich 1942, p. 125) o in alternativa a Ecfantide o a Frinico (Kurz 1947, p. 138, Luppe 1967c, p. 94). Per la presenza dei satiri in commedia, v. anche Cipolla 2011, pp. 142–144. Contro il fatto che i satiri rappresentassero il coro in queste commedie, Meineke FCG I, p.36 s. riteneva che in ciascuno dei quattro casi citati ‘satiri’ potesse indicare “exagitatos […] homines foede libidinosi-” e v. anche Taplin 1993, p. 104: “not all these choruses need have been literally satyrs”. Sulla base di queste considerazioni e anche del dato di fatto che quattro titoli di commedie rimandano ai satiri (v. supra) non appare probabile un’ipotesi come quella di Dobrov 2007, p. 253 secondo cui “comedy appears, as a rule, to ignore the very existence of satyrs and satyrs-play” (con l’unica eccezione di Ar. Pac. 426–526 su cui cfr. Hall 2006, pp. 3406s. e 3516s.); la presenza dei satiri non va, però, neanche

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Per quanto riguarda la presenza di elementi politici nella commedia non è deducibile né dal testo della hypothesis né dai frammenti noti in che modo si realizzasse l’attacco a Pericle che le righe finali dichiarano avvenire µάλα πιθανῶς δι᾽ ἐµφάσεως (“versteckte Anspielung”, Koerte 1904, p. 490), ossia “ob die Anspielung optischer Signale bedurften – etwa der Kopfform des Perikles, wie Revermann (1997) annimmt – oder ob sie allein durch die Bühnenhandlung und den Text deutlich wurden” (Zimmermann 2011, p. 722); è stato riconosciuto fin da Grenfell–Hunt 1904, p. 71, Koerte 1904, p. 4906s. e Croiset 1904, pp. 308–310, che Pericle fosse in qualche modo rappresentato dietro la maschera del protagonista Dioniso6/6Alessandro; che, come Alessandro era responsabile dello scoppio della guerra di Troia, così Pericle lo era di quella del Peloponneso, fatto questo testimoniato ad es. da Thuc. II 21.3, Plut. Per. 33; che, analogamente a come nel mito il rapimento di Elena causava la guerra di Troia, così ora esso portava allo scoppio della guerra del Peloponneso (indicata nella sezione finale della hypothesis); che, infine, dietro Elena fosse rappresentata in qualche modo Aspasia, secondo un cliché comico che attribuiva alla concubina di Pericle la responsabilità della guerra, v. Ar. Ach. 526–537, cfr. Eupol. fr. 267 (Prospaltioi) per l’identificazione Elena6/6Aspasia (v. anche Henry 1995, p. 22). Bakola 2010, pp. 183–206 ha rimarcato il fatto che, se il messaggio politico della commedia è certamente innegabile, il Dionysalexandros “works coherently as myth-burlesque” (p. 188), ossia si tratta una commedia incentrata anzitutto sulla riproposizione e detorsio comica di un episodio mitico e nella quale “whilst Pericles is a satirical subject […] at some level, the concluding statement of the hypothesis does not demand that we read Pericles as the main focus of the play” (p. 192); in questo senso si devono senz’altro ridimensionare le letture del Dionysalexandros che, a partire da un’identificazione Pericle/ Dioniso, ne riducono il carattere di commedia mitologica e ne enfatizzano, invece, quello di commedia politica, v. soprattutto Schwarze 1971, pp. 6–21 (cfr. anche p. 240 per l’ipotesi di Bakola sul funzionamento della emphasis)161.

161

eccessivamente enfatizzata, v. ad es. Storey 2005. Sul ruolo dei satiri v. in part. Di Marco 2003. Sono state, di volta in volta, trovate precise corrispondenze tra le diverse scene descritte nella hypothesis ed eventi della contemporanea situazione politica (per una discussione dei diversi elementi qui indicati, cfr. i commenti ad locc.): 1) Dioniso che decide di farsi giudice della contesa all’insaputa di Pericle, indicherebbe la scelta di Pericle di avocare a sé la decisione della guerra ed escludere da essa il popolo (che sarebbe rappresentato dall’escluso Alessandro), v. Pieters 1946, p. 1286s.; 2) i doni delle dee: a) la τυραννὶς ἀκίνητος di Era, rimanderebbe alla rappresentazione di Pericle come tiranno, b) la εὐψυχία κατὰ πόλεµον di Atena sarebbe un riferimento alla vigliaccheria di Pericle, c) il dono di Afrodite indicherebbe sia la relazione tra

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Per quanto riguarda i frammenti di tradizione indiretta, uno solo si lascia collocare con relativa certezza grazie alla hypothesis, il 45 che si può ben riferire alla scena in cui Dioniso, intimorito, si trasforma per nascondersi; per quanto riguarda gli altri: il 40 è possibile provenga dalla scena in cui Alessandro cerca Dioniso; il 41 mostra un personaggio spaventato, forse Dioniso stesso, atterrito o dagli Achei o da Alessandro che lo cercano, oppure addita lo stesso Dioniso che riesce a stento a contenersi di fronte alle offerte delle dee; il fr. 42 (al quale il 43 potrebbe essere una scurrile risposta) si riferisce a qualcuno che vuole vivere nel lusso e potrebbe forse riferirsi a una delle offerte delle dee (allo stesso contesto potrebbe essere relativo anche il fr. 50); i frr. 44, 46 e 47 potrebbero essere parte dell’esodo, se qui veniva descritto un banchetto (per le nozze di Elena e Alessandro?); il fr. 48 potrebbe far riferimento allo smascheramento di Dioniso. Cronologia(La pericope finale della hypothesis (col. II r. 476s.) ὡς ἐπαγηοχὼς (sc. Περικλῆς) τοῖς Ἀθηναίοις τὸν πόλεµον è stata quasi universalmente intesa Pericle e Aspasia (quest’ultima additata dietro Elena), sia forse potrebbe contenere un riferimento alla scinocefalia di Pericle; 3) la scelta di Afrodite stigmatizzerebbe Pericle che rifiuta i doni delle altre due dee, utili per la guerra, e sceglie qualcosa di personale; 4) dietro Elena, si può forse verisimilmente leggere Aspasia e, quindi, un riferimento al fatto che come la guerra di Troia scoppiò a causa di Elena, così quella attuale si deve alla concubina di Pericle, v. supra; inoltre il fatto che Elena fosse di Sparta potrebbe indicare la provenienza della guerra da Sparta e quello che Dioniso nasconde Elena in un cesto (hypothesis col. ii r. 30 s.), potrebbe essere un riferimento alla criticata politica di contenimento di Pericle (Luppe 1966, p. 183); 5) la devastazione del territorio del monte Ida indicherebbe le devastazioni spartane sul territorio ateniese; 6) la consegna di Dioniso alluderebbe alla rimozione di Pericle dal suo incarico o potrebbe richiamare la richiesta degli Spartani di allontanare Pericle, ma il fatto che Elena rimanga con Alessandro, indicherebbe il proseguire della guerra. Non tutti sono stati accettati e alcuni di essi potevano effettivamente contenere le allusioni proposte, ma, come detto, il fatto che la nostra unica testimonianza sulla valenza politica del Dionysalexandros sia l’affermazione finale della hypothesis, che non deve per altro essere sopravvalutata (v. in part. Bakola 2010, pp. 193–196 per la discussione di simili riferimenti politici in hypotheseis aristofanee), comporta che non si consideri questo elemento preponderante. Ciò era già stato ben detto da Norwood 1931, p. 122: “in the present state of our knowledge is the best […] to believe that Cratinus is primarly concerned with a riotous travesty of the legend, and works contemporary satire into the fabric purely as an undertone”. D’altro canto, se il messaggio politico era a tal punto evidente, può essere sì fortuito, ma almeno singolare che Plutarco, quando riporta i diversi attacchi dei poeti comici a Pericle (Per. 33), taccia completamente il caso del Dionysalexandros.

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come relativa allo scoppio della guerra del Peloponneso (v. infra); eccezioni sono Flickinger 1910, pp. 7–10 che pensava agli eventi bellici del 447–445 a.6C. e datava di conseguenza la commedia alla primavera del 445 (ma questa ipotesi è vincolata all’interpretazione della Η della seconda riga del titolo della hypothesis come numerale, = 8, cfr. p. 2006s. e v. Luppe 1966, p. 182 e n. 1 e p. 189) e Mattingly 1977, p. 2436s. (cfr. Olson 2007, p. 87 [che non esclude il 430 a.6C.] e Storey 2011, p. 286162) che pensa al 440/39 a.6C., la guerra contro Samo, che secondo Plut. Per. 24.2 e 25.1 fu voluta da Pericle per compiacere Aspasia (come Elena nel mito la guerra di Troia, Aspasia avrebbe causato la guerra contro Samo, ma Aspasia/Elena era tradizionalmente considerata più che altro responsabile della guerra del Peloponneso, v. Contenuto della commedia, p. 206). Tuttavia, il fatto che nella hypothesis si dica genericamente ‘τὸν πόλεµον’ lascia supporre che all’epoca della redazione del testo (età ellenistica), si indicasse così il conflitto più celebre del V secolo, la guerra del Peloponneso, al quale ci si poteva riferire senza ulteriori specificazioni (e senza rischio di fraintendimento), cfr. Schwarze 1971, p. 7: “jedes andere, weniger bekannte militärische Ereignis hätte nicht einfach als der „der Krieg“ bezeichnet werden können”, e Eupol. fr. 156,2 K.–A. (Kolakes) πρὸ τοῦ πολέµου (riferito alla guerra del Peloponneso, v. Napolitano 2012, p. 66). Se quella indicata è la guerra del Peloponneso, si ha come terminus post quem lo scoppio della guerra stessa, il 6 o 7 Marzo del 431 a.6C.163 e come terminus ante quem la morte di Pericle, inizio dell’inverno del 429 a.6C.164; di 162

163

164

V. anche Storey 2006, pp. 113–116, il quale, assunta la guerra contro Samo come terminus post quem, ipotizza come data per il Dionysalexandros il 437 o 436 sulla base del confronto con la commedia Satyroi di Callia del 437 a.6C. (per la datazione v. Kassel–Austin PCG IV, Callias test. *4 r. 4 e Bagordo 2014a, p. 1266s.), secondo Storey una “comedy’s response to Euripides’ Alcestis”; e, analogamente, anche il Dionysalexandros “could be a similar response by Cratinus to Alcestis”. Tuttavia della commedia di Callia non rimane che il titolo e il fatto che possa essere una risposta alla tragedia di Euripide è solo una ipotesi, senza alcuna conferma, basata solo sulla datazione, cfr. Bagordo 2014a, p. 189; lo stesso vale per il Dionysalexandros, che non solo non contiene alcun indizio che possa far pensare ad un rapporto con la commedia di Euripide, ma la cui datazione è anche, in questo caso, incerta e rende una simile ipotesi molto improbabile. Thuc. II 2.1 con Gomme 1956a, pp. 1–3 e id. 1956b, p. 716; probabilmente dopo le Grandi Dionisie, cfr. Thuc. V 20 e Luppe 1974a, p. 57, Rhodes 1981, p. 335, Pickard– Cambridge 19682, pp. 63–66. Thuc. II 65.6: ἐπεβίω δὲ δύο ἔτη καὶ ἓξ µῆνας, calcolando dall’inizio della guerra del Peloponneso, cfr. Gomme 1956a, p. 190 e id. 1956b, p. 717; Rhodes 1981, p. 242, Stadter 1989, p. 342. Come mostra il caso di Ar. Ach. 530–534 un attacco a Pericle

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conseguenza, si hanno quattro date possibili per la rappresentazione della commedia: 1) 430 a.6C. (Lenee o Grandi Dionisie): Croiset 1904, p. 3096s., Wilamowitz 1904, p. 6656s., Koerte 1911, p. 2566s., Geissler 1925, p. 246s., Norwood 1931, p. 124 (Lenee), Méautis 1934, p. 4566s., Luppe 1966, pp. 182–184, Schwarze 1971, pp. 21–24, Austin 1973, p. 35, Handley 1982, p. 115, Kassel–Austin PCG IV, p. 141, Tatti 1986, p. 330; 2) 429 a.6C. (Lenee o Grandi Dionisie): Thieme 1910, pp. 26–29 (Lenee), Coppola 1936, pp. 89 ss., Pieters 1946, p. 1296s., Bakola 2010, pp. 302–304. Chi sostiene la datazione al 430 a.6C. (1) rileva che in questo caso l’attacco a Pericle coinciderebbe con il momento di maggior popolarità dello statista (in cui, tra l’altro, si colloca il celebre epitafio dell’inverno 431/30), mentre nella tarda estate del 430 a.6C. Pericle subì un processo e venne destituito (Thuc. II 59. 2–3; II 65. 3–4; Plut. Per. 35, 3–5, 37, 1–2. Cfr. Stadter 1989, p. 323), motivo per cui un attacco nei suoi confronti l’anno successivo (429) non avrebbe senso. D’altra parte, però, non siamo informati sul reintegro in carica di Pericle, che il solo Thuc. II 65.3 dichiara essere avvenuto ὕστερον δ᾽ αὖθις οὐ πολλῷ; questa affermazione si può intendere in due modi: a) tra la destituzione di Pericle e la sua rielezione passò solo un breve lasso di tempo, cfr. Gomme 1956a, p. 183 “only a few weeks after his dismissal” (si intende un’elezione speciale: al posto di Pericle non venne eletto nessuno e, poco dopo, egli venne reintrodotto nella carica); b) Pericle fu reintrodotto nella carica secondo la normale prassi elettiva ateniese, quindi fu rieletto in primavera, dopo la fine degli agoni drammatici e rientrò effettivamente in carica con l’inizio del nuovo anno ateniese (Ecatombeone, luglio/agosto), dopo l’elezione dell’arconte eponimo, v. Stadter 1989, p. 332 (cfr. Aristot. Ath. Pol. 44,4 e Rhodes 1981, p. 5366s. per l’elezione degli strateghi). Chi sostiene la data del 429 a.6C. (2) nota che nel caso di una rielezione immediata di Pericle (a) un suo attacco in una commedia del 429 a.6C. sarebbe perfettamente possibile, ma anche nel caso di una rielezione ufficiale in primavera (b), la popolarità di Pericle doveva aver avuto senza dubbio un rialzo prima in commedia era possibile anche dopo la sua morte; tuttavia il fatto che la pericope finale della hypothesis attesti che Pericle era attaccato µάλα πιθανῶς δι᾽ ἐµφάσεως sembra rendere poco probabile una datazione dopo il 429 (negli Acarnesi si tratta di un riferimento nel corso della commedia, mentre nel Dionysalexandros Pericle doveva essere il bersaglio principale e l’attacco svilupparsi in vario modo nel corso dell’intera pièce [v. comm. a ἔµφασις], il che appare poco probabile se lo statista era già morto).

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della rielezione, ossia che già forse alle Lenee del 429 a.6C., senza dubbio alle Dionisie (che precedevano immediatamente l’elezione degli strateghi) Pericle era di nuovo in auge e poteva essere bersaglio di scherni comici, anche senza essere ufficialmente in carica, ma solo per la sua notorietà. A favore del 429 a.6C. viene richiamata, inoltre, la possibilità di sciogliere il compendio di hyp. col. I r. 8 in modo da ottenere un riferimento ai figli adottivi (π(ερὶ) ὑῶν ποιη(τῶν) di Bakola, meglio di π(ερὶ) ὑῶν ποιή(σεως) di Rutherford, v. pp. 221–223) e riferirlo alla richiesta di Pericle di legittimare Pericle il giovane, il figlio avuto da Aspasia, che, in quanto µητρόξενος (Aspasia non era, infatti, di Atene, ma di Mileto) non poteva avere la cittadinanza; avendo perso i due figli del primo matrimonio, Santippo e Paralo, durante la peste, Pericle si trovava senza eredi e per questo chiese una deroga alla legge che egli stesso aveva fatto approvare nel 451/450 a.6C. (cfr. Aristot. Ath. Pol. 26, 4. ἐπὶ Ἀντιδότου διὰ τὸ πλῆθος τῶν πολιτῶν Περικλέους εἰπόντος ἔγνωσαν µὴ µετέχειν τῆς πόλεως, ὃς ἂν µὴ ἐξ ἀµφοῖν ἀστοῖν ᾖ γεγονώς. V. il comm. ad loc. di Rhodes 1981, pp. 331–335 e Stadter 1898, pp. 333–336) e che era stata molto impopolare (infatti molti erano stati privati della possibilità di legittimare i propri figli, cfr. Stadter 1989, p. 3346s.), perché, come attesta Plut. Per. 37,2, µὴ παντάπασιν ἐρηµίᾳ διαδοχῆς [τὸν οἶκον] ἐκλίποι τοὔνοµα καὶ τὸ γένος. Di recente ha ribadito questa possibilità Bakola 2010, pp. 297–304, secondo cui “popularity and influence [… ] were surely with Pericles before the spring of 429 and it is entirely possible that it was at this time that he requested the exemption from the citizenship law” (p. 303); tuttavia, a prescindere dalla effettiva rielezione di Pericle (v. supra), data la testimoniata grande impopolarità della legge sull’adozione, che Pericle avanzasse una simile proposta prima di essere rieletto e quando la sua popolarità era appena risalita dopo un periodo assai travagliato, sarebbe stata senza dubbio una mossa poca accorta (e Plut. Per. 37.2 attesta, tra l’altro, che gli Ateniesi non concessero subito a Pericle la deroga, ma acconsentirono solo tardi, mossi a compassione). Meglio sembrerebbe ipotizzare che Pericle chiedesse questa deroga dopo essere stato rieletto in Aprile (e prima di entrare in carica a Luglio) e avesse avuto modo di vederla accettata prima di morire (ottobre 429 a.6C.); d’altronde, lo stato incerto dell’integrazione di l. 8 non rende prudente legare le due questioni, cronologia e integrazione, che possono diventare un circolo vizioso (l’integrazione si giustifica in base al riferimento alla legge sull’adozione e quindi la commedia si data al 429 a.6C.; d’altra parte è proprio il riferimento a questa legge e la cronologia al 429 a.6C. a giustificare una simile integrazione, altrimenti difficilmente comprensibile)165. 165

A nulla vale, per la cronologia, il confronto istituito con Hermipp. fr. 47 K.–A. βασιλεῦ σατύρων, interpretato come un richiamo alla rappresentazione di Pericle

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Test. i. POxy 663 col. i (1–25) et ii (26–48)

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col. i

col. ii

]. . . . . . . . . . .]ζητ( ) . . . . . . . . . .]παν . . . . . . .]α̣υτον µη . . . . . κ]ρ̣ίσιν ὁ Ἑρµ(ῆς) ἀπέρχ]εται κ(αὶ) οὗτοι µ(ὲν) πρ(ὸς) τοὺς θεατάς τινα π [(ερὶ)] ὑῶν ποιη(τῶν) διαλέγονται κ(αὶ) παραφανέντα τὸν ∆ιόνυσον ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) χλευάζου(σιν)· ὁ δ(ὲ) παραγενοµένων 〈 〉 αὐτῷ παρὰ µ(ὲν) Ἥ̣6ρ̣α[̣ ς] τυραννίδο(ς) ἀκινήτου, πα[ρ]ὰ δ’ Ἀθηνᾶς εὐψυχί(ας) κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν), τῆς δ Ἀφροδί(της) κάλλιστό(ν) τε κ(αὶ) ἐπέραστον αὐτὸν ὑπάρχειν, κρίνει ταύτην νικᾶν. µ(ε)τ(ὰ) δ(ὲ) ταῦ(τα) πλεύσας εἰς Λακεδαίµο(να) (καὶ) τὴν Ἑλένην ἐξαγαγὼν ἐπανέρχετ(αι) εἰς τὴν Ἴδην. ἀκού(ει) δ(ὲ) µετ’ ὀλίγον τοὺς Ἀχαιοὺς πυρπολ]εῖν τὴν χώ(ραν) (καὶ) [

∆IOΝΥΣ̣[ΑΛΕΞΑΝ∆ΡΟΣ Η[ ΚΡΑΤ[ΕΙΝΟΥ τὸν Ἀλέξαν[δ(ρον). τὴν µ(ὲν) οὖν Ἑλένη(ν) εἰς τάλαρον ὡς τ̣ά[̣ χιστα κρύψας, ἑαυτὸν δ᾽ εἰς κριὸ[ν µ(ε)τ(α)σκευάσας ὑποµένει τὸ µέλλον. παραγενόµενος δ’ Ἀλέξανδ(ρος) κ(αὶ) φωράσας ἑκάτερο(ν) ἄγειν ἐπὶ τὰς ναῦς πρ(οσ)τάττει ὡς παραδώσων τοῖς Ἀχαιοῖ(ς). ὀκνούσης δ(ὲ) τῆς Ἑλένη(ς) ταύτην µ(ὲν) οἰκτείρας ὡς γυναῖχ’ ἕξων ἐπικατέχ(ει), τὸν δ(ὲ) ∆ιόνυ(σον) ὡς παραδοθησόµενο(ν) ἀποστέλλει, συνακολουθ(οῦσι) δ’ οἱ σάτυ(ροι) παρακαλοῦντές τε κ(αὶ) οὐκ ἂν προδώσειν αὐτὸν φάσκοντες. κωµῳδεῖται δ’ ἐν τῶι δράµατι Περικλῆς µάλα πιθανῶς δι’ ἐµφάσεως ὡς ἐπαγηοχὼς τοῖς Ἀθηναίοις τὸν πόλεµον

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nel Dionysalexandros e accompagnato dal coro dei satiri (Croiset 1904, p.  309, Wilamowitz 1904, p.  6656s.); non solo, infatti, la cronologia della commedia di Ermippo è ignota (generalmente si pensa al 430, ma senza reali motivazioni, Geissler 1925, p. 25), ma anche il richiamo a Pericle come βασιλεῦ σατύρων potrebbe essere un attacco generico, indipendente dalla commedia di Cratino (“mit βασιλεῦ σατύρων könnte ebensogut Perikles wegen Lüsternheit verspottet werden”, Luppe 1966, p. 182) e, infine, anche se si accetta una relazione tra i due testi, è possibile tanto che Ermippo riecheggi Cratino, quanto il contrario oppure ancora che i due commediografi facessero indipendentemente riferimento ad un Leitmotiv comico di quegli anni, cfr. Bakola 2010, p. 303 n. 40.

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Cratino

5 κ]ρ̣ίσιν suppl. Koerte 1904, 483ƒƒƒ6 ἀπέρχ]εται suppl. Koerte apud Grenfell– Hunt 1904ƒƒƒ8 πυωνποιη pap.: π  = π´ i.e. π[(ερί)] Rutherford 1904, 440: ὑπέρ Βlass apud Grenfell–Hunt 1904; π(ερὶ) τ(ῶν) ποιη(τῶν) Koerte apud Grenfell–Hunt 1904: π(ερὶ) ὑ(ῶν) ποιή(σεως) ‘de filiorum adoptione’ Rutherford 1904, 440 alii, ‘de filiorum generatione’ Handley 1982, 110: π(ερὶ) ὑ(ῶν) ποιη(τῶν) ‘de filiis adoptivis’ 12 13 Bakola 2010, 297–304, ‘de poetarum filiis’ Ornaghi 2010ƒƒƒ13  ὁ δ(ὲ) πα | 12 13 ραγενοµένων αὐτῷ pap.: ὁ δ(ὲ) πα | ραγενοµένων 〈 〉 αὐτῷ stat. Blass 1906, 486: textum integrum interpret. Ebert 1978 et Bakola 2010, 291–294ƒƒƒ16 εὐφυχί(ας) pap.: εὐψυχί(ας) Austin 1970, 37: εὐτυχί(ας) edd. pr.ƒƒƒ25 Ϟ = (καὶ) Luppe 1966, 180ƒƒƒ δ 29  Ἀλέξαν[δ(ρον), cf. lin. 34 Ἀλέξαν ; κ(αὶ) τὴν µ(ὲν) Ἑλένη(ν) Grenfell–Hunt 1904, 71: τὴν µ(ὲν) οὖν Ἑλένη(ν) Austin 1973, 36ƒƒƒ30 post ως: τ van Rossum-Steenbeek 1998, 237: ὡς τ̣ά̣[χιστα Austin 1973, 37: ὡς τ̣[άχιστα Luppe 1966, 181ƒƒƒ47 ἐπαγειοχώς pap.: ἐπαγηοχώς van Leeuwen 1904, 446

Cerc… (tutto?) … lui non … giudizio Hermes esce e questi parlano con gli spettatori riguardo i figli adottivi/i figli dei poeti e quando appare Dioniso lo deridono e lo sbeffeggiano. E lui entrando in scena 〈 … 〉 a lui da Era una tirannide inamovibile, da Atena coraggio in guerra e di Afrodite di essere bellissimo e amabile, decreta la vittoria di questa. Dopo queste cose naviga alla volta di Sparta, rapisce Elena e torna sull’Ida. Poco dopo viene a sapere che gli Achei stanno mettendo a ferro e fuoco la regione e  … Alessandro; nasconde (Elena) al volo in una cesta e trasformatosi in ariete, aspetta l’evolversi dei fatti. Entra in scena Alessandro, smaschera i due fuggitivi e ordina di portarli alle navi per consegnarli agli Achei. Elena fa resistenza, (Alessandro) ne ha pietà e la tiene con sé per prenderla in moglie, ma caccia via Dioniso perché sia consegnato. I satiri allora lo seguono gridando a gran voce che non lo abbandoneranno. Bersaglio della commedia è Pericle, attaccato in maniera assai suggestiva per mezzo della emphasis per aver condotto alla guerra gli Ateniesi. Bibliografia(Grenfell–Hunt 1904, pp.  69–72 (POxy IV, nr. 663); Edmonds 2 3 FAC I (1957), pp. 32–34; Luppe 1966; CGFP fr. 70; Pack 252; Mertens–Pack 252; LDAB 577; van Rossum–Steenbek 1998, pp. 37–39 e 2366s.; Bakola 2010, pp. 3226s. Struttura e tradizione(Hypothesis papiracea (12,3 x 19,8 cm.) scoperta nel 1904 da Grenfell e Hunt e pubblicata lo stesso anno (POxy IV, 663), contenente un riassunto del dramma (fino a r. 44) ed una annotazione finale (rr. 44–48) che ne dichiara il carattere politico. Il testo è disposto su due colonne, di 25 righe la prima (19 complete) e 20 la seconda (18 complete e ad esclusione delle tre righe del titolo, posto al di sopra della seconda colonna): la prima

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colonna è mutila della parte iniziale (lato superiore del papiro), caratterizzata da un elevato numero di abbreviazioni e compendi (ad es. rr. 5, 7–8, 11) e con un’estensione di scrittura delle righe oscillante tra i 9 e i 21 caratteri; la seconda ha una mutilazione che interessa la parte iniziale sul lato destro (titolo e prime due righe della hypothesis) e presenta un numero ridotto di abbreviazioni, due spazi bianchi molto evidenti (rr. 33 e 44) e un’estensione delle righe di scrittura più elevata, compresa tra 19 e 23 caratteri. Il papiro apparteneva con ogni verisimiglianza ad un rotolo librario originariamente contenente il testo dell’intera commedia di Cratino, come dimostra la presenza insolita del titolo al di sopra della seconda colonna, indizio che esso preesisteva alla redazione della hypothesis stessa (Bona 1988, p. 1876s.; Caroli 2007, pp. 248–250. Cfr. p. 1906s.): il copista, non sapendo bene quanto fosse lo spazio a sua disposizione, in un primo momento ha trascritto il testo abbreviandolo fortemente e riducendo il più possibile lo spazio delle righe di scrittura; quando poi ha realizzato che lo spazio a sua disposizione era sufficiente ha adottato una scrittura più sicura, con meno abbreviazioni, righe più lunghe e due spazi bianchi. Per la datazione è indicato su base paleografica il periodo tra la fine del II e l’inizio del III sec. d.6C. (Grenfell–Hunt 1904, p. 69); la fonte della hypothesis è senz’altro alessandrina (Schwarze 1971, p. 8 e Nesselrath 1990, p. 123 n. 51) e per le sue caratteristiche appartiene alla tipologia cosiddetta “descrittiva” (van Rossum–Steenbek 1998, pp. 37–39), in cui prevale l’attenzione per la performance del dramma in questione, rispetto alla sua trama. Questa particolarità caratterizza alcuni degli argumenta ad Aristofane (Ach. 1, Eq. A1, Nub. A5, Vesp. 2, Pac. A3, Av. A2, Lys. A1, Ran. 1, cfr. van Rossum–Steenbek 1998, p. 37 e n. 88) assegnati da Koerte 1904, pp. 496 (~ Koerte 1922, col. 1649, rr. 21–37, cfr. Bakola 2005, p. 55 n. 44 = 2010, p. 97 e n. 53; p. 193 e n. 128) a Simmaco, grammatico attivo intorno al 100 d.6C. autore di un commento ad Aristofane (cfr. RE IV A.1, coll. 1136–1140, Symmachos nr. 10 [Gudeman]). Koerte proponeva di assegnare a questi anche l’hypothesis al Dionysalexandros (di recente ripropone questa ipotesi Bakola 2010, p. 97 n. 53 e p. 193 n. 128) e adduceva a sostegno della proposta il fatto che due testimonianze antiche (testt. 41-42 K.–A., PCG IV, p. 120) potrebbero riferire di un’attività filologica dello stesso Simmaco su Cratino (per le due assegnazioni di Koerte, v. id. 1922, col. 1649, 25-32); ma, in realtà, queste informazioni non sono esenti da dubbi (per la test. 41 K.–A. il riferimento più probabile è a Didimo Calcentero; per la test. 42 K.–A. si potrebbe anche trattare di un’opera di Simmaco su Aristofane che conteneva un richiamo a Cratino, su entrambe v. Kassel–Austin PCG IV, p. 120) e per quanto riguarda l’ascrizione a Simmaco della hypothesis, cfr. Radermacher 1921, p. 79: “es müssten denn entsprechenden Einleitungen zu anderen Komödien, die schon Symmachus standen, verloren gegangen sein”.

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Sezione perduta(La prima colonna del papiro è mutila della sua parte iniziale: tracce di lettere si leggono in corrispondenza delle righe 2 e 3, quindi più chiaramente a partire dalla riga 4, ma il primo periodo di senso compiuto è a r. 56s. Le righe 6–9 riassumono il contenuto della parabasi (v. p. 218) e, poiché dalla prassi che osserviamo in Aristofane, prima della parabasi si svolgono sempre il prologo e la parodo e, di norma, anche l’agone166, ne consegue che queste tre sezioni erano verisimilmente riassunte nella parte oggi perduta. Per quel che riguarda l’estensione della sezione mancante, la ricostruzione più recente si deve a Bakola 2005, pp. 55–57 ~ 2010, pp. 97–101: “on examination of the original papyrus, I noticed that there is clearly ink visible on twisted fibres, about one centimetre below the top of the papyrus sheet. Because the fibres are twisted, the ink is visible on the verso and not on the recto or on the photographic reproduction of it, but if they are properly straightened, it is clear that the ink belongs to the writing of the recto. Certainly, then, the left column of the hypothesis text was at least as long as the point indicated by the ink”167; la porzione di testo mancante è, dunque, individuata da Bakola, sulla base del confronto con analoghe hypotheseis aristofanee (v. supra), in “at least around 22–3 lines or 80 words long, approximately one-third of the whole hypothesis, which would therefore be at least 230 words in lenght […] the lost part of the Dionysalexandros hypothesis contained the summary of the prologue, the parodos and the agon” (Bakola ibid.)168. In precedenza l’ipotesi di 166

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Nelle commedie di Aristofane l’agone si situa prima della parabasi nelle Vespe (526–724), negli Uccelli (451–638) e nella Lisistrata (476–613); dopo la parabasi nei Cavalieri (756–940), nelle Nuvole (950–1104) e nelle Rane (858–1098). Nei Cavalieri si ha un agone anche nella prima parte, prima della parabasi (303–460), ma su scala minore rispetto al secondo. L’agone manca in Acarnesi, Pace e Tesmoforiazuse; se ne ha testimonianza nelle Ecclesiazuse (571–709) e nel Pluto (487–726), ma la nota mancanza della parabasi in queste commedie le esclude da un termine di confronto. L’agone sembra collocarsi di norma prima della parabasi, mentre la sua trasposizione dopo questa scena sembra giustificata da precise esigenze drammaturgiche, v. Pickard–Cambridge 19622, p. 200, Gelzer 1971, in part. pp. 11–37, Dover 1972, p. 66. La citazione da Bakola 2005, p. 556s. = 2010, p. 976s. Bakola 2010, p. 3226s. offre una nuova edizione della hypothesis e in essa propone una numerazione delle righe del testo del papiro che tiene conto della lacuna iniziale ricostruita; dopo la lacuna, si ha così il numero 25 in corrispondenza di dove nel papiro si legge ]παν, r. 3 nelle altre edizioni. La ricostruzione che Bakola (v. supra) offre della parte iniziale perduta del papiro appare convincente, ma nell’incertezza di fatto della reale estensione di questa sezione ho preferito mantenere la numerazione tradizionale, che rispecchia le righe effettivamente presenti nel papiro.

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due colonne era già stata avanzata da Luppe 1966, p. 192 sulla base dell’osservazione che le prime righe della col. i sono più alte delle corrispondenti di col. ii e potevano, quindi, raggiungere o anche superare l’altezza del titolo di col. ii, ed essere in totale ca. 10 (una ipotetica ricostruzione grafica dell’originale forma del papiro, fondata su queste ricostruzioni, in Caroli 2007, p. 250 fig. 15); secondo Grenfell–Hunt 1904, p. 70 e Koerte 1904, p. 483, invece, la porzione di testo oggi perduta era contenuta nella parte superiore della prima colonna e in una ipotizzabile terza colonna a sinistra della prima169. Lo svolgimento delle tre scene iniziali, prologo, parodo e agone, può essere solo immaginato: nel prologo si narrava probabilmente l’arrivo di Hermes sul monte Ida (dove si svolgeva la scena del dramma, cfr. l’inequivoca indicazione di hyp. col. I r. 23), mandato da Zeus a cercare Alessandro e assumerlo come giudice della contesa di bellezza tra Era, Atena e Afrodite. Hermes tuttavia non trova Alessandro (su questo punto v. infra), ma incontra Dioniso, il quale deve ad un dato momento dell’azione essere entrato in scena (suggestivamente, come lo definisce Luppe 1966, p. 188, “als ungebetener Gast”) accompaganto o preceduto dal corteo dei satiri che compongono il coro e assumono il loro ruolo nel corso della parodo170. Dioniso, venuto a sapere perché Hermes sia giunto lì, dichiara di volersi sostituire a Alessandro in qualità di giudice e un tentativo di resistenza di Hermes a questo progetto può essere considerato un valido tema per l’agone; è questa l’ipotesi di Bakola 2010, p. 100, che confronta l’agone di Av. 451–638 dove Pisetero cerca di convincere l’incredulo Euelpide del suo piano (anche se non agonale, si potrebbe, inoltre, forse confrontare la scena di Ar. Pac. 361–427 in cui Trigeo cerca di convincere Hermes a non rivelare il suo piano di liberare la Pace). Alla fine, Hermes acconsente allo 169

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Koerte 1904, p. 4836s., in particolare, notava quanto segue: “Sicher scheint mir […], dass die Hypothesis nicht erst in Col. I begann, sondern mindestens eine vorangehende Columne einnahm, denn in Z. 6 wird schon von der Parabase gesprochen und die Exposition erfordert bei Inhaltsangaben in der Regel mehr Worte als die spätere Handlung. In V. 6 wird der Chor der Satyrn einfach als οὗτοι eingeführt, es musste im Vorangeheden also gesagt werden, dass sie den Chor bilden, weiter musste Dionysos’ Ankunft auf dem Ida und sein Entschluss, die Rolle des schäferlichen Königssohn zu übernehmen, irgendwie begründet werden. Bei der nicht übermässig knappen Darstellung war mit solchen Angaben eine Columne schnell gefüllt”. Questa ricostruzione mi pare preferibile rispetto a quella di Luppe 1966, p. 188 secondo cui Dioniso poteva già trovarsi sul monte Ida al momento dell’arrivo di Hermes: ciò presuppone infatti che ci siano due cori (ipotesi, a mio avviso, poco convincente, cfr. p. 2036s.), il primo dei quali (quello dei pastori compagni di Dioniso) sarebbe stato protagonista della parodo.

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scambio di ruoli, probabilmente anche perché senza Alessandro non aveva più un giudice per la contesa (osserva Luppe 1966, p. 176: “zwischen ihm [i.e. Hermes] und Dionysos wurde vielleicht eine Vereinbarung getroffen”), Dioniso risulta pertanto vincitore nell’agone e la sua sostituzione a Alessandro ha come conseguenza i motteggi dei satiri dopo la parabasi e, naturalmente, il giudizio delle dee e le sue conseguenze171. Per quanto riguarda la sostituzione di Dioniso ad Alessandro, si deve immaginare che lo scambio avvenisse all’insaputa di Alessandro stesso, che non si trovava sul monte Ida per un motivo del tutto ignoto, perché quando questi entra in scena (r. 336s.) si mostra adirato con Dioniso e con Elena, evidentemente perché gli eventi precedentemente narrati erano avvenuti alle sue spalle; inoltre, secondo Heath 1990, p. 144 e n. 5, si potrebbe supporre che Dioniso si sostituisca a Alessandro per vedere le dee nude, cfr. Luc. XXV

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Un’ipotesi più volte ripresa, ma da rifiutare alla luce della ricostruzione proposta, è quella, per primo di Croiset 1904, p. 3056s. che l’agone del Dionysalexandros coincidesse con la scena del giudizio delle tre dee contendenti dinanzi a Dioniso/ Alessandro (stessa ipotesi in Lerza 1982, p. 1876s. e Casolari 2003, p. 101). L’obiezione più ovvia è rappresentata dal problema di tre contendenti, Era, Atena e Afrodite, senz’altro contrario allo spirito dell’agone sempre incentrato sullo scontro tra due personaggi; secondo Croiset (ibid.) un termine di confronto può essere offerto da Thesm. 383–519 dove si susseguono i discorsi di due donne e del parente di Euripide, ma va rilevato che questa delle Tesmoforiazuse è una normale scena episodica (l’agone manca del tutto in questa commedia) che non può, dunque, essere considerata come parallelo. Secondo Lerza 1982, p. 187 le tre dee pronunciano ognuna un breve agone a turno dinanzi a Dioniso (secondo attore) e con Hermes terzo attore; Lerza confronta Ar. Ran. 895–1098 (agone) in cui si sovrappongono le battute di Eschilo ed Euripide e anche Dioniso (il giudice) interviene nel contenzioso. Anche questo caso è però differente: nelle Rane, infatti, abbiamo tre attori in tutto, ma solo due sono i contendenti dell’agone (per l’ipotesi di Lerza, cfr. anche p. 234). La presenza di un agone nel Dionysalexandros era negata da Whittaker 1935, p. 187: “the only possible subject for an Agon seems to be the beauty competition between Hera, Athena and Aphrodite, but such a triple contest is completely alien to the spirit of epirrhematic composition. It follows that there can have been no Agon in the strict sense of the word, tough possibly a triple debate after the style of that in the Thesmophoriazuse” (cfr. anche, con argomentazioni analoghe, Cervelli 1950, pp. 121–124). V. anche Quaglia 1998, pp. 48–50. Per l’ipotesi di Gelzer 1960, p. 182 (agone non risolutivo nella prima parte della commedia e suo scioglimento nella scena del giudizio), v. p. 232.

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8–10 (Alessandro si chiede come dovrà giudicare la bellezza delle dee e decide, infine, di farle spogliare)172. Poco probabili risultano di conseguenza le ricostruzioni in particolare di Croiset 1904, pp. 299–301173 e Perdrizet 1905 (seguito da Thieme 1908, pp. 10–12, Demiańczuk 1912, p. 32, Koerte 1911, p. 254, Wüst in RE XVIII,2 col. 1498; contra Robert 1918, p. 166, Meautis 1934, p. 4636s., Luppe 1966, p. 1746s.)174, secondo cui Alessandro sarebbe fuggito per horror sacri alla vista delle dee, come si trova descritto ad es. in Ov. Epist. XV 676s. o Colluth. 124175, un tema questo deformato in chiave comica perché, laddove nella tradizione Hermes tratteneva nonostante tutto Alessandro, in ambito comico avrebbe, invece, mancato nel riuscirvi e dunque a Dioniso sarebbe rimasto il campo libero per lo scambio (ovvero, a seguito della scambio, Hermes e le dee sarebbero stati costretti ad assumere Dioniso nel ruolo). r. 2 ζητ(Con ogni verisimiglianza una forma verbale come ζητήσας (Koerte 1904, p. 483) o ζητεῖ (Luppe 1966, p. 176); poiché ci si trova nella sezione immediatamente precedente la parabasi e le poche parole qui intellegibili potrebbero essere il riassunto dell’agone (cfr. supra), ζητέω potrebbe intendersi in costruzione con un infinito nelle righe successive (LSJ s.6v. II.2) e fare riferimento ad un’azione di cui Hermes è soggetto e Dioniso destinatario.

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In alternativa si potrebbe pensare che Dioniso sia indotto alla sostituzione da Hermes che si trovava, senza il figlio di Priamo, sprovvisto di un giudice e, quindi, non in condizione di adempiere il proprio compito; ciò, tuttavia, sarebbe in contraddizione con il tema dell’agone proposto da Bakola, v. supra. Questa la ricostruzione di Croiset: le dee, in scena con Hermes dall’inizio, sono disgustate dalla sporcizia della capanna di Alessandro (fr. 43 K.–A. che Croiset immagina conseguenza del fatto che Alessandro fosse rappresentato nella commedia come un “berger grossier et malpropre”), il quale è assente per un motivo ignoto e ripiegano su Dioniso: questi però fugge o per vigliaccheria o perché, informato della contesa, non vuole esserne giudice. Hermes lo cerca (indizio ne sarebbe ζητ di l. 2, che però, come visto si colloca probabilmente in una fase successiva del riassunto della commedia), lo trova e lo costringe ad assumere il ruolo. Anche in queste ipotesi si implica la presenza delle dee all’inizio della commedia. Se queste entrino effettivamente in scena e come ciò avvenga a rr. 13 ss. è discusso (v. infra ad loc.); in ogni caso appare poco probabile che siano in scena dall’inizio anche solo come κωφὰ πρόσωπα e che di esse non si faccia alcuna menzione, neanche quando, prima del riassunto della parabasi (parte tradizionalmente senza attori, v. p. 218), a rr. 6–9 è esplicitamente dichiarata (r. 56s.) l’uscita di Hermes e, al termine di essa, è indicata l’entrata di Dioniso (r. 10). Ulteriori fonti letterarie e rappresentazioni vascolari di questo tema in RE XVIII.2 col. 1518–1528 s.6v. Paris [Wüst], Clairmont 1951.

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Cratino

r. 3 π̣αν(παµ]παν o ε]παν (Luppe 1966, p. 176). r. 4 α̣υτον µη(È possibile che il pronome αὐτόν si riferisca a Dioniso oggetto del tentativo (ζητ r. 2) di Hermes di dissuaderlo dal suo proposito. In questo senso andrebbe bene anche la congiunzione µή ad introdurre una completiva negativa con il verbo nella riga successiva. r. 5 κ]ρ̣ισιν ὁ Ἑρµ(ῆς)(Κρίσιν in accusativo è senz’altro oggetto di un verbo precedentemente espresso e il cui soggetto è ὁ Ἑρµῆς. Ricostruzioni exempli causa di questa sezione sono quelle di: 1) Koerte 1904, p. 483 κ(αὶ) κελεύ(σας)] αὐτὸν µὴ [ποιεῖν τὴν κρ]ίσιν; 2) Thieme 1908, pp.  10–13 (approvato da Koerte 1911, p.  254) κ(αὶ) κελεύ(σας)] αὐτὸν µὴ [φοβεῖσθαι] τ(ὴν) κ]ρίσιν (questa ricostruzione è fondata sull’ipotesi di una fuga per horror sacri di Alessandro, come visto poco probabile. Inoltre per la ricostruzione di Bakola che seguo, una menzione qui di questo evento sarebbe senz’altro fuori luogo); Edmonds 1957, vol. I, p. 32 [ὡς δὲ] ζητεῖ [ἀναπειθέω (sic! corr. ἀναπειθεῖν Luppe 1966, p. 176) πάν[τα ποιῶν] αὐτὸν µη [χανᾶ(σθαι) ἄθ]ρ[ο]ισιν (sc. τῶν θεῶν); 4) Luppe 1966, p. 176 τοῦ δ(ὲ) ∆ιονύ(σου) ἐ[παν [εἰπόντ(ος) ἑ]αυτὸν µη [χανᾶ(σθαι) τ(ὴν) κ]ρίσιν. rr. 6–9 (Parabasi)(Le rr. 6–9 descrivono senz’altro il contenuto della parabasi della commedia176, come proposto fin dall’editio princeps (Grenfell–Hunt 1904, p. 70): lo dimostrano a) il fatto che questa sezione sia inclusa tra l’uscita 6 di scena di Hermes (rr. 56s. ὁ Ἑρµ(ῆς) | ἀπέρχ]εται) e l’entrata di Dioniso (rr. 106s. τὸν ∆ιόνυσον παραφανέντα), un dato questo che rispetta la prassi nota per cui la parabasi non presenta attori in scena (cfr. Bakola 2010, p. 86); b) il confronto con la descrizione della parabasi in alcuni argumenta aristofanei, come ad es. arg. I Ar. Ach.: ὁ χορὸς ἀπολύει τὸν ∆ικαιόπολιν καὶ πρὸς τοὺς θεατὰς διαλέγεται περὶ τοῦ τῆς τοῦ ποιητοῦ ἀρετῆς καὶ ἄλλων τινῶν (v. anche arg. A 5 Ar. Nub.: εἰσέρχονται Νεφέλαι ἐν σχήµατι χοροῦ· […] πρὸς τοὺς θεατὰς περὶ πλειόνων διαλέγονται; arg. I Ar. Ran.: ὁ µὲν τῶν µυστῶν χορὸς περὶ τοῦ τὴν πολιτείαν ἐξισῶσαι […] πρὸς τὴν Ἀθηναίων πόλιν διαλέγεται. Cfr. p. 220). 176

È ipotesi di Wilamowitz 1904, p. 665 che questa sia la seconda parabasi; una tale possibilità è tuttavia poco credibile, in quanto questa eventuale seconda parabasi si troverebbe troppo verso l’inizio del dramma, cfr. Koerte 1904, p. 495, Blass 1905, p. 485, Thieme 1908, p. 10, Demiańczuk 1912, p. 32, Koerte 1922 col. 1652, Schmid 1946, p. 77, Robert 1918, p. 1646s., Méautis 1934, p. 464, Schwarze 1971, p. 9 e n. 7. Diversamente, Storey 2003, pp. 128, 207 e 352, id. 2005, pp. 2126s., id. 2006, p. 179 n. 25, id. 2011, p. 286 pensa ad una parodo di tono parabatico, cfr. Bakola 2010, p. 297. Per l’ipotesi di una possibile seconda parabasi dopo la scena di giudizio delle dee (Croiset 1904, p. 301), v. p. 234.

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L’argomento della parabasi, di cui i componenti del coro (οὖτοι r. 6) discutono con gli spettatori (r. 7 πρ(ὸς) τοὺς θεατάς… r. 9 διαλέγονται), è celato dietro la compendiosa dicitura ΠΥΩΝΠΟΙΗ (r. 8). Per quanto riguarda la Π iniziale di questa sequenza di lettere, essa è stata unanimemente intesa fin dall’editio princeps come un’abbreviazione, π´ = περί, con l’unica eccezione di Blass (apud Grenfell–Hunt 1904, p. 72 ad l. 8) che intese ὑπέρ, definito dagli editori “rather drastic change”, v. anche Koerte 1904, p. 484; il confronto con la dizione degli argumenta aristofanei citati (v. supra), che Koerte confrontò per primo, non lascia margini di dubbio su questo scioglimento e questa forma di abbreviazione è, d’altronde, molto frequente (cfr. Kenyon apud Oikonomides 1974, p. 129) e deve considerarsi solo priva della notazione di compendio in apice (π´), motivo questo per cui mi sembra che abbia ragione Bakola 2010, p. 298 n. 9 a seguire Rutherford 1904, p. 440 e Luppe 1988, p. 38 nell’indicare lo scioglimento del compendio come π[(ερί)] di contro al comune π(ερί). Per quanto riguarda l’intera sequenza, le ipotesi di interpretazione proposte si possono così riassumere: 1) Conservare il testo del papiro: ΠΥΩΝΠΟΙΗ, da interpretare come: a) περὶ ὑῶν ποιήσεως nel senso: a1) “on the question how men may get themselves sons”, Rutherford 1904 (trad. p. 440), condiviso da Thieme 1908, p. 19, Bona 1988, pp. 1936s., in riferimento al tentativo di legittimazione di Pericle il giovane (cfr. infra a b1); a2) “about the getting of sons” Handley 1982 (trad. p. 110), che propone di assegnare alla parabasi del Dionysalexandros i versi di POxy 2806 (= CGFP 76 = PCG VIII, com. ad. 1109 K.–A.; si parla di una nascita miracolosa, in cui la gestazione e la crescita sono ridotte ad un tempo di 15 giorni) che potrebbero essere interpretati come “part of a “Peace and Plenty” theme, a reaction against the crowded condition which Pericles’ defensive strategy of abandonig countryside had brought, and an inclination towards the visions of rustic bliss” (Handley 1982, p. 115). Kassel–Austin PCG IV, p. 140 adottano π[(ερὶ)] ὑῶν ποιή(σεως) e propongono come traduzioni “filiorum adoptio” (a1) e “filiorum generatio” (a2)177; b) περὶ ὑῶν ποιητῶν, dove

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Per quest’ultima, Kassel e Austin rimandano ad Handley, cfr. PCG IV, p. 147: “ad Dionysalexandrum sunt qui referant etiam […] CGFP 76”. Il frammento papiraceo è edito da Kassel e Austin in PCG VIII (1995), p. 435, dove sono richiamate sia l’ipotesi di Handley, sia le obiezioni ad essa mosse da Luppe 1988. Cfr. anche Bakola 2010, p. 298: “this reading [sc. Handley’s] (albeit not necessarily this literary interpretation) was adopted by Kassel and Austin”.

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Cratino

b1) ποιητῶν = gen. plur. ποιητός, → περὶ ὑῶν ποιητῶν = ‘riguardo ai figli adottivi’, Bakola 2010, pp. 297–304 (Appendix 1); b2) ποιητῶν = gen. plur. ποιητής, → περὶ ὑῶν ποιητῶν = “su/ riguardo ai figli dei poeti”, Ornaghi 2010. 2) Correggere il testo del papiro in: ΠΤΩΝΠΟΙΗ, da interpretare come περὶ τῶν ποιητῶν = riguardo ai poeti. Questa proposta è registrata in Grenfell– Hunt 1904, p. 72 ad l. 8 che ne attribuiscono la paternità a Koerte (cfr. Kassel 1988, p. 956s.), il quale la discusse poi in Koerte 1904, pp. 482 e 484 (con riprese e precisazioni in Koerte 1905, p. 439 n. 2 e Koerte 1911, pp. 254–257). L’ipotesi è condivisa da: Croiset 1904, p. 301, Norwood 1931, p. 118, Edmonds I, p. 32, Luppe 1966, p. 170, Austin CGFP ad l., Luppe 1988, Heath 1990, p. 146, Revermann 1997, Austin 1999, p. 40, p. 189 n. 9, Casolari 2002, p. 100 n. 112, Storey 2005 p. 212 (ma cfr. Storey 2006, p. 179 n. 25 e Storey 2011, p. 288 e 289 n. 1), Olson 2007, p. 88, Wright 2007, pp. 417 e 424 n. 62. Simile la proposta ὑπὲρ τοῦ ποιητοῦ di Blass apud Grenfell–Hunt 1904, p. 72 ad l. 8 ~ Blass 1906, p. 486 (singolare e senza fondamento π(ερὶ) τῶν πολι(τικῶν) di Cervelli 1950, p. 111–113). L’ipotesi che ha ottenuto maggiore consenso dalla critica è stata quella di Koerte (2), a sostegno della quale si possono addurre alcuni parelli di simili argumenta ad Aristofane: oltre al già citato arg. Ι Ar. Ach. (cfr. supra), v. anche arg. A1 Ar. Eq.: οἱ ἱππεῖς περί τε τοῦ ποιητοῦ τινα καὶ τῶν προγόνων […] πρὸς τοὺς πολίτας ἁδροτέρως διαλέγονται e arg. A3 Ar. Pac.: καὶ ὁ µὲν χορὸς περὶ τῆς τοῦ ποιητοῦ τέχνης χἀτέρων τινῶν πρὸς τοὺς θεατὰς διαλέγεται; in tutti questi casi si parla sempre di ‘poeta’ al singolare e in riferimento alle polemiche letterarie di Aristofane (περὶ τοῦ τῆς τοῦ ποιητοῦ ἀρετῆς, περὶ τῆς τοῦ ποιητοῦ τέχνης), in Cratino, invece, si avrebbe un plurale (τ(ῶν) ποιη(τῶν)), da intendere però senz’altro in modo simile, una discussione/polemica critico-letteraria indirizzata ai propri rivali: “Cratinus’ rivals [not yet including Aristophanes and Eupolis], who were doubtless criticized for the failings of originality, poetic grace, imagination and the like” (Olson 2007, pp. 886s. Cfr. Wright 2007, p. 424, Ornaghi 2010, p. 93). Prevalgono, però, di recente le ipotesi di conservazione del testo tràdito, in part. b1) e b2). Se, infatti, a favore della correzione del tràdito ΥΩΝ in ΤΩΝ si può richiamare un motivo paleografico (“Υ und Τ konnten sehr leicht verwechselt werden, zumal wenn in der Vorlage, wie sonst oftmals, die ‘Waagerechte’ des Τ etwas ‘geschwungen’ geschrieben war”, Luppe 1988, p. 38), un eventuale ΤΩΝ nell’antigrafo, pur considerando una possibile ‘ambigua’ scrittura della prima lettera, è comunque lectio facilior rispetto a ΥΩΝ; considerando paleografia e significato, si spiegherebbe un passaggio ΥΩΝ difficilior > ΤΩΝ, mentre è difficile chiarire il percorso inverso, ΤΩΝ facilior > ΥΩΝ. Se si accetta il tràdito

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ΥΩΝ, si intende ὑῶν = dei figli, gen. plur. del sostantivo υἱός, figlio, nella sua forma senza la iota, ὑός; l’unico altro possibile significato di questa parola, ‘dei maiali’ genitivo plurale del sostantivo ὗς, si esclude perché privo di senso178. Secondo Luppe 1988, p. 38 (punto 5), la documentazione dei papiri presenta solamente casi in cui è sempre testimoniata la forma υἱός (così ad es. in POxy 2455, 2457, 3650 etc.); tuttavia, sono registrati casi in cui “υι […] interchanges frequently with simple υ or is expanded to υει or υιει” (Gignac 1976, p. 202, elenco 4.a.1) e, come documentato da Bakola 2010, p. 2996s., un’alternanza tra υἱός e ὑός è testimoniata ad es. in POxy 1235 (= PCG VI.2 p. 137 [Men. Hiereia, test. i K.–A.], II sec. d.6C., coevo quindi dell’hypothesis al Dionysalexandros, cfr. supra p. 213): r. 51 τὸν υἱόν, r. 62 ὑόν, r. 68 υἱούς, r. 75 ὑό[ν], r. 86 υἱός, r. 90 υἱός. Inoltre, “the probability that the hypothesis was composed earlier […] does not pose a problem. Nor even does the possibility that it was a revision of an earlier version which could have dated as far back as the Alexandrian period […]. The epigraphic evidence suggests that by far the most regular type in the early Hellenistic years until the first century BC was ὑός [con rinvio a Threatte 1980, pp. 340–342 e 1996, p. 221, Meisterhans(-Schwyzer), p. 60]. One could even argue that the spelling ὑῶν might derive from Cratinus’ fifth-century text itself” [su questo v. infra] […] Therefore, the source of the reading ὑῶν could well have been equally either the actual text of Dionysalexandros or an early version of the summary” (Bakola 2010, p. 2996s.). Per lo scioglimento di ΠΟΙΗ, si intende con ogni verisimiglianza ποιη(τῶν) più probabilmente di ποιή(σεως), v. infra; per quanto riguarda il suo possibile valore: – l’ipotesi b1) di Bakola, ποιη(τῶν) < ποιητός i.e.  = ‘dei figli adottivi’, si riconnette al problema della cronologia della commedia (v. Cronologia) e chiama in causa l’evento della morte di Santippo e Paralo durante la peste e il conseguente tentativo di Pericle di far ottenere la cittadinanza a Pericle il giovane; il plurale ὑῶν, sebbene in riferimento ad un episodio specifico e a un singolo (Pericle), si intenderebbe come discussione generale sulla tematica delle “alternative ways of earning oneself a son” (Bakola 2010, p. 304), culminante in una climax nel caso di Pericle. Tuttavia, come rileva Ornaghi 2010, pp. 95–98, “l’unico punto debole di questa interpretazione potrebbe risiedere […] nella apparente distanza tra lo statuto letterario della hypothesis cratinea – e, conseguemente, del testo letterario da essa presupposto, una pièce comica – e gli 178

V.  Luppe 1988, p.  38 (punto 5): “ὑῶν – ohne iota – […] ist […] ohne näheren Zusammenhang missverständlich; ebensogut wäre sie nämlich als Genitiv Plural von ὗς zu verstehen, ‘von Schweinen’”; cfr. Olson 2007, p. 886s.: “K.–A. print π(ερὶ) ὑῶν ποιή(σεως), which ought to mean ‘about the production of pigs’”.

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àmbiti consueti di impiego del nesso ὑός/υἱός ποιητός, prosastici e giuridici” (p. 95); infatti, l’aggettivo ποιητός (così come il verbo ποιέω da cui deriva, e altri analoghi derivati), unito a υἱός o παῖς, ricorre in testi prosastici e giuridici (ad es. Is. VI 6, Ps.–Dem. in Leoch. XX 2–4; XXXIX 3–40,1 etc., Plat. Leg. 923a), mai in testi poetici prima di Men. Sam. 346 e, soprattutto, nei passi citati è sempre specificato da un aggettivo polare, ad es. γνήσιος in Lys. fr. 128,7ss. Carey; inoltre, la lingua della commedia privilegia altri termini, in primis νόθος, ad es. Ar. Av. 16506s., 1661, Eup. fr. 110 K.–A. (Dêmoi), cfr. Telò 2007, pp. 2136s. Infine il vocabolario delle hypotheseis è composto o da termini standardizzati di ambito critico–letterario o da espressioni desunte dalle commedie stesse che nel caso della hypothesis al Dionysalexandros potrebbero essere ad es. col. I rr. 14s. τυραννίδος ἀκινήτου, col. I r. 16, εὐτυχίας vel εὐψυχίας, col. I r. 18 ἐπέραστον e altre (documentazione in Ornaghi 2007, pp. 97s.). In sostanza, il problema non è la grafia di ὑός, come visto possibile (v. supra), ma il fatto che l’intero nesso ὑὸς ποιητός, sia che derivi dal testo stesso di Cratino sia che faccia parte del lessico proprio della hypothesis, risulti, in ciascuno dei due casi, “apparentemente disorganico” (Ornaghi 2010, p. 98); oltre a ciò, si potrebbe rilevare che intendere π(ερὶ) ὑῶν ποιη(τῶν) come ‘riguardo ai figli adottivi’ è a favore di una datazione della commedia al 429 (che Bakola propone, cfr. Cronologia), ma, se si accetta un’altra datazione, l’integrazione stessa risulta non certo priva di senso, ma senz’altro più difficilmente giustificabile. – L’ipotesi b2) di Ornaghi, ποιη(τῶν) < ποιητής i.e. = ‘dei poeti’ per cui π(ερὶ) ὑῶν ποιητῶν = su/riguardo ai figli dei poeti, chiama in causa una critica in sede parabatica alle nuove generazioni di poeti, un tema, questo, presente in Aristofane e parte della più generale tematica di conflitto generazionale, v. ad es. Ar. Ran. 71–97, Pac. 729–764 (cfr. la documentazione in Ornaghi 2010, pp. 101–106 e in gen. Zimmermann 2007). A favore della propria tesi Ornaghi (pp. 99–107) nota che si ha: a) un costrutto sintattico, περὶ + genitivo (ὑῶν) da cui dipende un ulteriore sostantivo al genitivo (ποιητῶν), attestato in papiri e testi letterari di età cristiana; b) un tipo di formulazione “figli di poeti” impiegata generalmente per indicare “successori, continuatori (dell’opera) di poeti (antichi)”, ad es. Luc. Im. VIII 7–9.2, Max. Tyr. 33, 8b 1–3 etc., ma in cui “l’impiego del termine di ὑιός (e non παῖς), del resto, avrebbe conservato al nesso della hypothesis il necessario orientamento semantico, ossia la pura valenza genealogica” (p. 100 con il rimando ad es. a Sud. ε 3402, ψ 176); c) il già citato parallelo tematico con le commedie di Aristofane per la critica alle nuove generazioni di poeti e la conseguente possibilità di riferire anche a Cratino il motivo della polemica generazionale (Ornaghi 2010, pp. 107–109).

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Riguardo a questa possibilità si può pensare esemplificativamente che un tragediografo come Iofonte, figlio di Sofocle (Sud. ι 451), che le fonti attestano vincitore nelle Dionisie del 435 e secondo nel 428 (TrGF I, p. 132, test. 2a-b Snell–Kannicht), potesse essere preso di mira per un livello artistico nettamente inferiore a quello del più grande padre già da Cratino. Poco probabile appare, infine, lo sciolgimento ποιή(σεως) e le conseguenti ipotesi che ne derivano, a1) (Rutherford) e a2) (Handley)179. La forma della H in questa abbreviazione è simile a quella che assume in ΕΛΕΝΗ (r. 38) = Ἑλένης, il che può suggerire anche a r. 8 un’abbreviazione per ΗΣ, da sciogliere evidentemente in ποιήσεως (cfr. Austin 1999, p. 40 e n. 13), tuttavia: 1) nel caso di r. 38 lo scioglimento è sicuro per la presenza dell’articolo τῆς alla r. 37, mentre a r. 8 manca un elemento simile (dopo ΥΩΝ ci si aspetta una desinenza analoga nella parola successiva e, nel caso di un cambiamento, esso sarebbe stato marcato dalla presenza dell’articolo: π(ερὶ) τῆς ὑῶν ποιήσεως, v. Luppe 1988, p. 38, punti 2 e 3); 2) se anche la forma di abbreviazione è analoga, il contesto suggerisce l’integrazione, cfr. Ornaghi 2010, p. 95 n. 21 che nota che a r. 12 XΛΕΥΑΖΟΥ´e a r. 23 ΑΚΟΥ´ pur abbreviati nello stesso modo diventano rispettivamente χλευάζουσι e ἀκούει, come suggerisce il contesto (e, inoltre, che una sistematicità tachigrafica per cui Η = HΣ non può considerarsi determinante all’interno della nostra sola hypothesis). In conclusione, l’interpretazione della sequenza di lettere ΠΥΩΝΠΟΙΗ e, quindi, del contenuto della parabasi rimangono un punto interrogativo ed escludono soluzioni definitive; si potrà dire, forse, che è preferibile conservare il tràdito ΥΩΝ = ὑῶν ‘dei figli’ e che per ποιη(τῶν) entrambe le soluzioni prospettate da Bakola e Ornaghi sembrano ugualmente possibili. Nel contributo più recente su questo punto, Ornaghi 2010, p. 109 termina, prudentemente, con “alcune (caute) conclusioni”; e, già nel 1999, C. Austin dopo aver riassunto le 179

V. supra. A parte l’obiezione allo scioglimento ποιή(σεως), per l’argomentazione di Rutherford valgono le stesse obiezioni discusse a proposito dell’ipotesi di Bakola, ossia che il riferimento all’adozione del giovane Pericle è strettamente connesso con la datazione della commedia e i due argomenti formano un evidente circolo vizioso (v. anche Koerte 1922 (RE), col. 1653 e Luppe 1988, p. 37 [entrambi a favore della correzione τῶν]). Per l’ipotesi di Handley, v. le puntuali argomentazioni di Luppe 1988 (alcune condivise anche da Bakola 2010, p. 298) e in part.: a) ποίησις nel senso di ‘generare’, ‘procreare’ non è mai attestato, v. LSJ s.6v. tranne l’unico caso di Plat. Symp. 197; b) il testo di POxy 2806 col. I rr. 6–8 parla di una generazione di figli maschi e femmine πᾶσι γὰρ τέξουσιν ὑµῖν αἱ γυναῖκες πα[ι]δία6/6πεντέµηνα κα[ὶ] τρίµηνα καὶ τριακο[ν]θήµερα,6/6[ὁ]πόσ’ ἂν ἐπιθυµῶσι πλῆθος, ἄρ[ρ]ενά τε καὶ θήλεα, mentre il sostantivo υἱός si riferisce solo al maschile (LSJ s.6v. e Luppe 1988, p. 38).

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sue scelte testuali (π[(ερὶ)] τῶν ποιη(τῶν) in CFGP [1973], pp. 35–37 e π[(ερὶ)] ὑῶν ποιή(σεως) in PCG IV [1983, insieme a R. Kassel], pp. 1406s.), concludeva: “but now, what am I to do, if they ask me to bring out a third edition? Am I to say that Cratinus is breeding pigs in the Parabasis? There is always an alternative: not to do anything except plant daggers round the text” (Austin 1999, p. 40): una soluzione senz’altro estrema, ma che riflette le difficoltà insite nell’interpretazione di questo passo. r. 10Qs. παραφανέντα τὸν | ∆ιόνυσον(Questa espressione marca senz’altro la fine della parabasi: a differenza, infatti, di quanto ipotizzato da Schwarze 1971, p. 11 (“Dionysos wird während des ersten (anapästischen) Teils der Parabase […] in die Gestalt des Paris geschlüpft sein und dann im Laufe des zweiten (lyrischen) Teils in Erwartung der Göttinnen auf der Bühne erschienen”), Dioniso non si trovava in scena mentre era in corso la parabasi, ma compariva dopo l’immediata conclusione della sezione parabatica, in cui si era travestito da Alessandro, cfr. Bakola 2010, pp. 85–87. Ne sono indizio: a) il participio παραφανέντα, un verbo tecnico per indicare l’entrata in scena di un attore, cfr. ad es. schol. Eur. Med. 1320; arg. Ar. Eq. A1 r. 7; b) il fatto che la parabasi è il momento della commedia in cui gli attori sono fuori scena e non è probabile, dunque, che i motteggi dei coreuti (r. 116s.) avvenissero nel corso del suo svolgimento, cfr. Bakola 2010, p. 86: “when the lyric parts of the parabatic epirrhematic syzigies are satirical, they are not directed against characters present on stage, but usually against individuals known to the public or against the audience as a whole”. I motteggi dei satiri contro Dioniso possono essere motivati dal fatto che questi, forse, appariva in scena ridicolmente acconciato, con un travestimento da Alessandro sopra ai suoi caratteristici abiti (come all’inizio delle Rane di Aristofane, dove Dioniso ha una λεοντῆ sopra il proprio abito; un riflesso di questo travestimento è forse nel fr. 40 K.–A., v. infra ad loc.). 11Qs. ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) | χλευάζου(σιν)(I due verbi ricorrono accostati in Ar. Ran. 374–376 ἐγκρούων6/6κἀπισκώπτων6/6καὶ παίζων καὶ χλευάζων, cfr. anche Aristot. Rhet. 1379a 31 καταγελῶσι καὶ χλευάζουσιν καὶ σκώπτουσιν (ὑβρίζουσι γάρ). È possibile che quella di Aristofane fosse una citazione diretta del testo di Cratino, come proposto da Farioli 1994, pp. 131– 134, la quale rileva a) il fatto che quella delle Rane è l’unica attestazione di un uso congiunto dei verbi ἐπισκώπτω e χλευάζω in Aristofane (p. 1316s.) e b) la circostanza che, poco prima, il coro degli iniziati aveva ricordato esplicitamente Cratino (v. 357), con un “modo di procedere (nominare Cratino per poi citarlo) […] utilizzato da Aristofane anche in altre occasioni” (p. 134 n. 26). Inoltre, come argomentato da Vahlen 1908, pp. 301–309 (cfr. Austin 1973, p. 37), la presenza di coppie sinonimiche nei testi dei grammatici si deve spesso

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proprio al fatto che la medesima coppia era presente nel testo originale dell’autore citato; probabile, dunque, che questa endiadi della hypothesis rispecchi parte del dettato originario del testo di Cratino. Secondo Rosen 1988, p. 546s. e Bakola 2010, p. 87 e p. 268 l’utilizzo di questi due verbi può rimandare ad una dimensione rituale di aischrologia, perché essi appaiono utilizzati in analoghi contesti, quali ad es. in Hom. h. II (Cer.) 2026s. e il già cit. Ar. Ran. 374–377 e perché χλευάζω in part. “implies that a degree of malice lies behind an insult or a joke […] more than innocuous joking about Dionysus’ costume” (Rosen cit.). Da rifiutare l’espunzione di ἐπισκώ(πτουσι) come glossa di χλευάζου(σιν), indebitamente insinuatasi nel testo della hypothesis, proposta da Luppe 1966, p. 1706s.180, e motivata per: a) l’insolita presenza di due verbi sinonimi, una “feinere Nuancierung” in un testo che, per natura, dovrebbe essere sintetico; b) la rarità del verbo χλευάζω, che i lessicografi tendono a parafrasare con un composto, cfr. Hsch. χ 506 χλευάζει· ἐµπαίζει, γελᾷ181; c) l’anomala abbreviazione che tocca la desinenza del verbo: “nirgends geht nämlich die Abkürzung eines Verbs über die Personalendung hinaus, hier dagegen wäre auch die Wortstamm verkürzt”. Tuttavia, come già visto, la presenza di questa coppia di verbi si può motivare con una sua possibile derivazione dagli ipsissima verba di Cratino e, oltre a ciò, la glossa di Hsch. χ 506, addotta da Luppe a conferma della rarità del verbo χλευάζω, è uno dei pochissimi esempi in cui questo verbo venga glossato (accanto a Hsch. χ 507 χλευάζει· ἐµπαίζει, γελᾷ; cfr. χ 508 χλευασµός· ἐµπαιγµός), mentre prevalgono i casi in cui è proprio χλευάζω a servire da interpretamentum per altri verbi: in Esichio si registrano 41 occorrenze di tale utilizzo182, tra cui è particolarmente notevole il caso di θ 1026 θωτάζει· ἐµπαίζει, χλευάζει, dove χλευάζω è interpretamentum e ricorre in coppia con il medesimo verbo composto (ἐµπαίζει) che serve a glossarlo in χ 506 addotto da Luppe 1966, p. 171 a sostegno dell’espunzione (cfr. ancora µ 1841 µυκτηρίζει· χλευάζει, καταγελᾷ e σ 1100 σκοπεῖ· χλευάζει, διαπαίζει,

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Riassumo qui quanto ho discusso in Bianchi 2012, cui rimando per ulteriori specificazioni. Luppe 1966, p. 171 del quale è anche la raffinata la notazione linguistica relativa al fatto che nella glossa di Esichio un verbo composto (ἐµπαίζει) ne glossi uno semplice (χλευάζει), come avverrebbe nel caso della hypothesis (ma, accanto al composto ἐµπαίζει, si nota anche la presenza del semplice γελᾷ). Hsch. α 4898; d 1171, 1355, 1356, 1655; ε 437, 1310, 1994, 2433, 3580, 3951, 4822, 4914, 5345, 5372, 5736, 7379; η 664; θ 1026; κ 1158, 2046, 2362, 2480, 2933, 4368; λ 353, 359, 1492; µ 1841, 2002, 2027, 2029; π 799, 1026; σ 1100, 1733; τ 1734; υ 738; φ 55, 857; χ 338.

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καταπαίζει, µέµφεται). Αnalogamente in Sud. κ 1023 κατεχλεύαζεν· ὕβριζε διὰ λόγων, κατεγέλα e in χ 388 χλευασία: ὕβρις τις, εἶδος οὖσα τῆς ὕβρεως, ma, a fronte di questi due soli casi in cui forme di χλευάζω vengono glossate, si hanno 26 occorrenze in cui χλευάζω è usato come spiegazione183, tra cui si segnala ε 2936 ἐρεσχηλοῦντα· σκώπτοντα, καὶ χλευάζοντα, καὶ οἷον ἐρίζοντα, in cui l’interpretamentum σκώπτοντα, καὶ χλευάζοντα è molto simile a quello della hypothesis al Dionysalexandros184. Per quanto riguarda l’argomento della abbreviazione anomala di ἐπισκώπτουσι, che tocca la radice stessa del verbo, si può rilevare che ἐπισκω- non si presta ad errori di completamento perchè rimanda chiaramente al verbo ἐπισκώπτω e non lascia, quindi, spazio a un possibile errore di integrazione mentale automatica di quanto mancava del verbo (cfr. su questo Bianchi 2012, p. 92 e n. 13); e, d’altronde, se il verbo non facesse parte del testo, difficilmente si spiegherebbe la presenza del segno ϟ = (καί) al quale mancherebbe un termine antecedente a χλευάζου(σιν). col. I rr. 12–19(Le promesse che Era, Atena e Afrodite offrono a Dioniso/ Alessandro per ottenerne il favore185. r. 12Qs. πα-|ραγενοµένων αὐτῷ(Il confronto con r. 336s. παραγενόµενος δ᾽ Ἀλέξανδ(ρος) e con argumenta aristofanei (I Ach. rr. 16 ss. Μεγαρικός τις … παραγίγνεται, I Vesp. r. 56s. οἱ δὲ συνδικασταὶ … παρεγένοντο, I Lys. r. 17 Κινησίας τις … παραγίνεται, I Plut. r. 66s ἡ Πενία παραγίνεται), suggerisce che παραγίγνεσθαι abbia anche qui il significato tecnico di ‘entrare in scena’ e indichi più specificamente, come nei paralleli citati, la prima entrata in scena di un dato personaggio. Tuttavia, in questo significato παραγίγνεσθαι: a) non è mai costruito con il dativo, come avverrebbe qui con il successivo αὐτῷ (cfr. Luppe 1980, pp. 155 e 157 e v. infra); b) difficilmente può essere il verbo reggente dei successivi τυραννίδο(ς) ἀκινήτου e εὐψυχίας κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν), con i quali dovrebbe formare un

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Sud. γ 212; ε 2035, 2050, 2135, 2364, 2718, 2936, 2986, 3331; ι 206, 208; κ 574, 840, 945, 1409, 1423, 1424, 1925; λ 179; µ 1319, 1401, 1494; σ 606; τ 855; φ 139, 196. Si confrontano ancora (ma con σκώπτω nella forma semplice e non nel composto) Sud. 3331 ἐτώθαζον· ἔσκωπτον, ἐχλεύαζον, ἐλοιδόρουν e κ 1424 κερτοµῶν· χλευάζων, ἐρεθίζων, σκώπτων. V. inoltre i casi sia in in cui sostantivi o aggettivi connessi con il verbo χλευάζω vengono impiegati come interpretamenta: Hsch. ε 1531, 7708; κ 904, 2296; λ 357, 1483; µ 2028; o 865; σ 649, 1103; φ 286; Sud. ι 310; ν 100; ο 592; σ 415; τ 856; φ 197; e quelli in cui il verbo χλευάζω e/o sostantivi ad esso connessi ricorrono all’interno di glosse più ampie: Hsch. γ 685, ι 406; Sud. π 2792, σ 427, 630, 1663, τ 204, χ 586. Per il contenuto delle rr. 12-19 e l’interpretazione generale della scena del giudizio delle dee, v. anche quanto ho discusso in Bianchi 2015.

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genitivo assoluto. Di conseguenza, se si accetta παραγίγνεσθαι = ‘entrare in scena’, si può supporre nel testo della hypothesis una lacuna dovuta a un saut du même au même tra la desinenza del participio παραγενοµένων e quella di un altro participio al genitivo plurale, come proposto per primo da Blass 1906, p. 486 che integrava esemplificativamente 〈τῶν ἐριζουσῶν θεῶν καὶ προτεινοµένων〉, cfr. Thieme 1908, p. 146s., Koerte 1911, p. 255, Demiańczuk 1912, p. 32, Italie 1932, p. 29, Edmonds FAC I, p. 32 (〈τῶν θεῶν καὶ διδοµένων〉), Luppe 1966, p. 174 (〈τῶν θεῶν µεθ᾽ Ἐρµ(οῦ) κ(αὶ) διδοµένων〉. Hermes esce di scena a r. 56s., ma diverse fonti lo danno sempre presente al momento del giudizio, v. ad es. arg. Cypr. rr. 5–7, p. 386s. Bernabè, Eur. Andr. 274–279, Iph. Aul. 13006s., Apollod. Epit. III.2, motivo per cui la sua presenza è forse da includere, cfr. p. 233). Poco probabile l’idea di modificare il tràdito παραγενοµένων in προτεινοµένων (Grenfell–Hunt 1904, p. 72 ad loc.) o παραγγελλοµένων (Koerte 1904, p. 484). Ipotesi differente è quella di Wilamowitz 1904, p. 6656s. e Pieters 1946, p. 126 n. 418 e p. 170 n. 58: si intende παραγενοµένων non come ‘entrare in scena’, ma come ‘capitare, toccare in sorte’, ‘come to’ (v. infra), cfr. ad es. Theogn. 139 οὐδέ τῳ ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέλῃσιν, in genitivo assoluto con i due successivi τυραννίδο(ς) ἀκινήτου e εὐψυχί(ας) κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν). Secondo Wilamowitz le dee non apparivano in scena di persona, ma i loro doni erano stati posti in un contenitore, portato in scena prima della parabasi e poi rinvenuto da Dioniso/Alessandro che vi trovava le offerte e giudicava in absentia la vincitrice, una ricostruzione giudicata da Luppe 1966, p. 171 “Abänderung der bekannten Geschichte an sich schon wenig glaubhaft”; infatti la presenza scenica delle dee appare necessaria, perché nel racconto mitico la contesa tra di esse scoppia quando Eris lancia una mela come premio per la più bella e Zeus ordina a Hermes di condurle sul monte Ida perché Alessandro decreti chi è la più bella (cfr. Artemid. Epit. III 2. e v. Kirk 1993, Scarpi 1998, p. 327 n. a 6–18 e Reinhardt 2011, pp. 1616s. nota 655). Poiché si tratta di una contesa περὶ κάλλους le dee devono presentarsi di persona a Alessandro per essere giudicate e cercare di ottenere il suo favore con i diversi doni (cfr. anche Luc. XXXV 9–11). Una possibilità differente è quella proposta da Ebert 1978 e Bakola 2010, pp. 289-294. Si intende παραγίγνεσθαι = ‘entrare in scena’, ma non si postula una lacuna e si intendono invece come soggetto del genitivo παραγενοµένων le personificazioni dei doni di Era ed Atena, rispettivamente Τυραννίδο(ς) Ἀκινήτου e Εὐψυχίας (Εὐτυχίας secondo Ebert) κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν); la traduzione dell’intero passo proposta da Bakola è: “And he, when Unshakable Dominion, sent by Hera, and Bravery in War, sent by Athena, appeared before him” (p. 291). Rispetto a questa possibilità si nota però anzitutto che

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παραγενοµένων αὐτῷ difficilmente si può rendere con ‘appeared before him’ (corsivo mio), perché παραγίγνεσθαι τινί vale ‘come to one’s side’ o ‘come to’ (LSJ s.v. 2 e II) e quindi l’espressione più che significare ‘entrare in scena davanti a lui’, significherebbe ‘gli arrivano accanto’ o ‘gli capitano’, cfr. Luppe 1980, p. 155 (sull’ipotesi di Ebert): “der griechische Leser […] hätte wohl den von Ebert akzeptierten Wortlaut […] schwerlich anders als ,nachdem ihm von Seiten Heras unerschütterliche Tyrannis, von Seiten Athenas Glück im Kriege zuteil geworden war‘. Si può accettare, in sostanza, che παραγενοµένων αὐτῷ significhi che ‘le personificazioni arrivano accanto a lui’, ovvero che ‘toccano, capitano in sorte a lui’, ossia a Dioniso, ma più difficilmente che le personificazioni ‘entrano in scena’ davanti a Dioniso. A ciò si aggiunge: a) il fatto che due delle tre dee contendenti non si presentino di persona dinanzi a Alessandro toglie credibilità ad un giudizio sulla bellezza, motivo della nascita della discordia; b) che una tale rappresentazione del giudizio di Alessandro sarebbe un unicum. Quanto alla possibilità delle personificazioni (sulla cui presenza in commedia v. ad es. Καταπυγοσύνη in Cratin. fr. 259 K.–A. e Πόλεµος, Ἐιρήνη, Ὀπώρα e Θεωρία nella Pace, [vv. 204–206, 523, su cui Olson 1998 ad locc.]. Cfr. Deubner 1908, in part. 2105–2107, Stößl 1937, in part. 1050, Newiger 1957, Reinardt 1960, Zimmermann 2012), Ebert confronta per Εὐτυχία una rappresentazione da un vaso apulo (nr. 259 Winnefeld apud Roscher III.1, coll. 16196s.) non molto sicura186 e questo oltre al fatto che nella hypothesis si legge più probabilmente εὐψυχία, v. infra; solo su Τυραννίς si concentra, invece, Βakola 2010 in part. p. 2916s. che confronta le occorrenze in cui si parla di Tirannide in maniera personificata, come una donna desiderabile (ad es. Hdt. III 53.4: Eur. Ion. 521) o come una divinità (Eur. Phoen. 506, v. Mastronarde 1994, pp. 2926s., fr. 250 K.)187. Tuttavia, in questi passi il contesto di riferimento chiarisce l’accezione personificata (in Eur. Phoen. si dice τὴν θεῶν µεγίστην… Τυραννίδα), mentre in una ipotetica ricostruzione della scena del Dionysalexandros così

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Su questo vaso è rappresentato il giudizio di Alessandro e compare una figura femminile contrassegnata dal nome Εὐτυχία, ma qui le tre dee sono raffigurate di persona intorno a Alessandro, vi è un amorino vicino ad Alessandro che potrebbe rappresentare il dono di Afrodite e non vi è nessuna indicazione che Εὐτυχία sia in relazione a Era, che si trova dalla parte opposta della rappresentazione, accanto ad Atena, cfr. Luppe 1980, p. 155 e n. 5. Gratuito il confronto che Bakola 2010, p. 291 istituisce con la commedia Tyrannis di Ferecrate (PCG VII, frr. 250–254 K.–A.): “the title… also suggests that this comedy might have had a major female character with that name”. Non si ha, infatti, alcuna evidenza di questa possibilità, cfr. Urios-Aparisi 1992, p. 4216s.

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resa, si hanno due possibilità: 1) erano gli spettatori a dover dedurre dalle figure in scena quali fossero i doni di Era e Atena, cosa in sé poco probabile, cfr. Luppe 1980, p. 155; 2) le personificazioni erano κωφὰ πρόσωπα e la loro funzione era spiegata da Hermes, come propone Bakola (p. 293) che assegna qui il fr. inc. sed. 327 K.–A. riferito Τυραννὶς Ἀκίνητος (cfr. p. 233)188. r. 14Qs. τυραννίδο(ς) | ἀκινήτου(Il dono di Era per Alessandro nella tradizione è il dominio sull’Asia, v. ad es. Isocr. X 416s., Luc. XXXV 11 (un dominio su tutte le terre in Apollod. XXXII, Hygin. fab. 92). L’offerta di una τυραννίς si deve qui probabilmente intendere come un riferimento al potere politico di Pericle in Atene, definito τύραννος da Cratino stesso nel fr. 258,3 K.–A. (Cheirōnes) e come tale spesso attaccato dai commediografi (cfr. ad es. Cratin. fr. 73 K.–A. [Thrattai], fr. 118 K.–A. [Nemesis], Hermipp. fr. 42 K.–A. [Moirai], Telecl. fr. 18 K.–A. [Hēsiodoi], cfr. Farioli 2000, pp. 415–419, Noussia 2003, Di Marco 2005, Telò 2007, p. 176 e Bagordo 2013, pp. 128–130 e pp. 219–226 ad Telecl. frr. 18 e 45 K.–A); l’aggettivo ἀκίνητος (non necessaria la correzione ἀνίκητος di Wilamowitz 1904, p. 665) si può riferire a) alla permanenza e inamovibilità della tyrannis offerta, in un momento in cui il potere politico di Pericle, dopo lo scoppio della guerra del Peloponneso, vacillava anche a causa delle impopolari scelte strategiche di difesa (cfr. Thuc. II 21.4–5, Plut. Per. 356s. con Stadter 1989, pp. 323–331), o anche b) come propone Bakola 2010, p. 205 n. 52 alla indolenza di Pericle, testimoniata ad es. in Cratin. fr. 326 K.–A. (inc. sed.) πάλαι γὰρ αὐτὸ6/6λόγοισι προάγει Περικλεής, ἔργοισι δ᾽οὐδὲ κινεῖ e altrove, cfr. Telò 2007, p. 177 e n. 7 (i due valori non si escludono a vicenda e possono coesistere). r. 16 εὐψυχίας κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν)(La sequenza di lettere del papiro è ευφυχι, correttamente decifrata da Hoffmann189 e che si può interpretare, con una minima correzione, come εὐψυχί(ας), stampato per la prima volta da Kassel–Austin PCG IV, p. 140 e senz’altro preferibile rispetto ad εὐτυχία, universalmente accettato a partire dall’editio princeps. Il dono di εὐψυχία, ‘ardi-

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Rileva ancora Luppe 1980, p. 156 che ἀκίνητος sarebbe un “Beiwort zumal, das zwar zu dem abstrakten Begriff τυραννίς paßt, einer leibhaftigen Person jedoch schlecht ansteht”. Per una presunta motivazione dell’assenza di Era e di Atena dalla scena comica, v. Bakola 2010, pp. 285–289 e quanto discuto in Bianchi 2015 § 2.2.3b. Questa lettura è stata comunicata da Hoffmann stesso per lettera privata a C. Austin, il quale, dopo aver stampato un cauto εὐτ̣υχία (Austin 1973, p. 36), ha poi proposto la lettura εὐψυχία (che compare la prima volta in Kassel–Austin PCG IV, p. 140) più conforme al testo del papiro, v. Luppe 1975, p. 190: “Das Φ hat zuerst H. Hoffmann (Bielefeld) entdeckt und durch briefliche Mitteilung seiner Entdeckung neue Anregung gegeben. A.(ustin) hat nun εὐψυχί(ας) vorgeschlagen”).

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mento, coraggio’, si può quasi certamente rapportare all’accusa di vigliaccheria che gli Ateniesi muovevano a Pericle per la sua strategia di contenimento, che lasciava devastare il suolo attico e non affrontava apertamente il nemico, cfr. Thuc. II 22.3: ἐκάκιζον ὅτι στρατηγὸς ὢν οὐκ ἐπεξάγοι, Hermipp.fr. 47, 1–3 K.–A. (Moirai): βασιλεῦ σατύρων, τί ποτ’ οὐκ ἐθέλεις6/6δόρυ βαστάζειν, ἀλλὰ λόγους µὲν6/6περὶ τοῦ πολέµου δεινοὺς παρέχεις, / ψυχὴ δὲ Τέλητος ὕπεστιν. Su questo tema Schwarze 1971, pp. 101–109, Telò 2007, p. 177 n. 7, Stadter 1989, pp. 312–314 a Plut. Per. 33.8190. rr. 16–19 τῆς δ᾽ Ἀφροδί(της)  … ὑπάρχειν(La costruzione sintattica cambia in queste righe: rispetto alla doppia ripetizione di παρά + genitivo (r. 14 παρὰ µ(ὲν) Ἥρα[ς]; r. 15 πα[ρ]ὰ δ᾽ Ἀθηνᾶς) seguiti da due genitivi semplici (r. 14 s. τυραννίδο(ς) ἀκινήτου, r. 15 εὐψυχίας κ(α)τ(ὰ) πόλεµο(ν)), si ha un genitivo semplice (r. 16 s.) τῆς δ᾽ Ἀφροδί(της) seguito da accusativo e infinito (rr. 17-19 κάλλιστο(ν) τε κ(αὶ) ἐπέραστον αὐτὸν ὑπάρχειν). Poiché τῆς δ᾽ Ἀφροδί(της) non si spiega da un punto di vista sintattico, si hanno due possibilità: a) secondo Blass 1906, p. 486 integrare 〈παρά〉 prima di τῆς, la cui caduta potrebbe essere imputata alla ripetizione anaforica della preposizione, e intendere che 〈παρὰ〉 τῆς δ᾽ Ἀφροδί(της) dipenda da un verbum dandi che si può supporre nella precedente lacuna dopo il participio παραγενοµένων di r. 13 (cfr. supra); da questo verbo dipenderebbe, inoltre, anche il successivo accusativo più infinito. Blass proponeva, in realtà, παρά in luogo di τῆς per simmetria con i due casi precedenti, ma l’articolo può essere conservato (la sequenza preposizione, articolo, particella, sostantivo è raro, ma testimoniato ad es. in Ar. Lys. 593, Hdt. II.159, Plat. Gorg. 490c, v. Denniston 1954, p. 186); b) secondo Bakola 2010, p. 294 integrare un participio, e.c. 〈διδούσης〉, verisimilmente dopo Ἀφροδί(της) (la presenza di τῆς δ᾽ esclude infatti per la posizione di δέ che l’eventuale integrazione preceda o segua τῆς, v. Denniston 1954, pp. 185–189), la cui caduta può essere dovuta all’omeoteleuto della desinenza finale –ης e dipendere in qualche modo anche dal fatto che il nome stesso della dea è abbreviato (mancano le tre lettere finali)191. 190

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La precedente lettura εὐτυχία, come detto da escludere, era stata riferita alla crisi di credibilità di Pericle dopo lo scoppio della guerra del Peloponneso; dubbi in Luppe 1975, p. 190; si potrebbe al limite pensare alla sfortunata campagna contro Epidauro, v. Thuc. II 56.4–6. In questa ipotesi, τῆς δ᾽ Ἀφροδί(της) deve anche collegarsi al precedente παραγενοµένων, altrimenti la sua entrata in scena sarebbe taciuta (ciò risulta abbastanza chiaramente in Ebert 1978, in part. p. 178 e p. 180, meno in Bakola 2010, in part. p. 2936s. che su questo punto non è esplicita).

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Quanto all’accusativo + infinito αὐτὸν ὑπάρχειν, sia nel caso a) (in cui dipenderebbe dal verbo ipotizzato nella presunta lacuna di r. 13) che nel caso b), è stato notato (in part. Luppe 1966, p. 177 e 1975, pp. 188–190) sia il fatto che i verbi che indicano ‘dare’ sono costruiti di norma con il dativo della persona e l’accusativo della cosa (o con il dativo della persona e l’infinito), non con l’accusativo e infinito (δίδωµι ad es. presenta questa costruzione, ma all’imperativo e in invocazioni alle divinità, in formule tipo ‘concedi che io etc.’, v. LSJ s.6v. III); sia che ὑπάρχειν equivale ad ‘essere’ (su questo valore, cfr. Bakola 2010, p. 294 n. 175), mentre più precisamente ci si aspetterebbe ‘diventare’ o un valore di futuro “Afrodite (promette) che lui diventerà/sarà bellissimo e desiderabile” (Grenfell–Hunt 1904, p. 72 avevano tradotto con “the prospect of becoming etc.”). Tuttavia quello della hypothesis è un “late and clumsy Greek” (Olson 2007, p. 89), dal quale non bisogna aspettarsi precisione assoluta in un dettato che risulta comunque comprensibile, nonostante alcuni legittimi dubbi anche grammaticali (la mancanza esplicita del verbo reggente obbliga a prudenza). Non sembra perciò necessario alterare il testo tràdito, come fanno Flickinger 1910, p. 9 n. 1 (〈τὸ〉 καλλίστο(ν) τε κ(αὶ) ἐπέραστον αὑτῷ) e, in maniera più decisa, Luppe 1966, pp. 177–179 (τῆς δ᾽ Ἀφροδίτης 〈ὑπισχουµένης αὐτῷ τὴν Ἑλένην τὴν Λάκαιναν καλλίστην οὖσαν πασῶν τῶν γυναικῶν διὰ τὸ〉 καλλίστον τε καὶ ἐπεραστ〈ότατ〉ον αὐτὸν ὑπάρχειν) e Luppe 1975, pp. 188–190 (τῆς δ᾽ Ἀφροδίτης 〈τὴν〉 καλλίστην τε καὶ ἐπεραστο〈τατη〉ν αὐτῷ ὑπάρχειν). Nella tradizione mitica (ad es. Isocr. X 41, Luc. XXXV 14, Apollod. III.2 etc.) il dono di Afrodite è generalmente il matrimonio con Elena (era questo uno dei motivi delle integrazioni di Luppe, v. supra), mentre qui è “di essere bellissimo e desiderabile”; questo cambiamento si spiega probabilmente (Lerza 1982, pp. 1896s., Casolari 2003, pp. 1036s.) con il fatto che chi era in scena, faceva da giudice alla contesa ed era quindi destinatario dei doni, non era il vero Alessandro (tradizionalmente θεοειδής nei poemi omerici, ad es. Γ 16, 30, Ζ 290, 332 etc.), ma Dioniso, il quale doveva risultare ridicolmente acconciato (come risulta dagli scommi dei coreuti, rr. 10–12, cfr. anche fr. 39) e, inoltre, in qualche modo ricordare Pericle, frequente oggetto di attacco per la deformità della sua testa (cfr. in part. Revermann 1997) e che poteva certo aver bisogno di un simile dono (v. anche p. 2346s. per le possibili implicazioni della scelta del dono di Afrodite); d’altro canto, il dato tradizionale è rispettato, perché poco dopo (rr. 20–22) viene detto esplicitamente che Dioniso va a Sparta e rapisce Elena. Il dono di Afrodite era quindi funzionale a dare al brutto Dioniso/Pericle (in confronto al tradizionalmente bellissimo Alessandro) la possibilità di essere bello e desiderabile e con essa quella di ottenere Elena.

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r. 18 ἐπέραστον(“Sexually desiderable” (Olson 2007, p. 87), cfr. ad es. Diod. sic. 4.7, Phil. Jud. 1.671 (v. LSJ s.6v.). Austin 1973, p. 37 ha confrontato Luc. ΧXXV 15 ἱµερτὸν τε θήσει καὶ ἐράσµιον, in cui Afrodite parla a Alessandro di Himeros che riversandosi su di lui lo renderà desiderabile e amabile. r. 19 κρίνει ταύτην νικᾶν(Cfr. arg. I Ar. Ran. r. 316s.: κρίνας παρὰ προσδοκίαν ὁ ∆ιόνυσος τὸν Αἰσχύλον νικᾶν. Nel rispetto della tradizione mitica Dioniso-Alessandro dà il pomo della vittoria ad Afrodite e questa scelta ha come conseguenza lo scoppio della guerra (cfr. hyp. col. I, rr. 20–25, col. II r. 29). La scelta di Afrodite è stata interpretata, da un punto di vista politico, come un attacco a Pericle, che per vanità rifiuta i doni delle altre due dee, che senza dubbio sarebbero stati più utili in guerra, v. in part. Croiset 1904, p. 3086s. Svolgimento della scena del giudizio delle dee(La scena del giudizio era con ogni verisimiglianza una scena episodica, mentre poco probabile appare una sua identificazione con l’agone della commedia, cfr. p. 216 e n. 171. Secondo Gelzer 1960, p. 182 l’agone si svolgeva nella prima parte della commedia, ma non portava ad una risoluzione e, per questo, nella seconda parte della commedia (dopo la parabasi, rr. 6–9) si svolgeva la scena della contesa delle tre dee che offrivano i loro doni: “es steht […] fest, daß drei Göttinen sich im zweiten Teil des Stücks durch Geschenke auszustechen versuchen, und es ist wahrscheinlich, daß Dionysalexandros-Perikles im ersten Teil ein Urteil hätte sprechen sollen, dem er sich aber entzieht. Der wirkliche Agon hat also wahrscheinlich im ersten Teil des Stücks als epirrhematischer Agon in der Diallage stattgefunden, hat aber, wie in den Rittern und Fröschen und aus dem gleichen Grund, nicht zur Entscheidung geführt, so daß der Streit erst im zweiten Teil nach wirksamen Geschenken der Göttinnen abgeschlossen werden konnte”. Sulla scena era presente senz’altro Dioniso nella sua funzione di giudice; se le dee comparissero tutte e tre contemporaneamente, si arriverebbe a quattro attori. Secondo Koerte 1904, p. 489 e id. 1911, p. 255, la cosiddetta regola dei tre attori non deve essere considerata eccessivamente vincolante e quindi di ostacolo; casi di utilizzo di un quarto attore sono documentati (v. Blume 1991, p. 84 e in part. Ach. 1–203 con Olson 2002, pp. lxiii–lxv [con ulteriore bibliografia]) e Cratin. test. 19 K.–A. (Proleg. de com. V, rr. 12–21, p. 136s. Koster) documenta da un lato che il commediografo fissò a tre il numero degli attori, dall’altro che partecipò però anche in certa misura al disordine delle prime fasi della commedia (ἐπιγενόµενος δὲ ὁ Κρατῖνος κατέστησε µὲν πρῶτον τὰ ἐν τῇ κωµῳδίᾳ πρόσωπα µέχρι τριῶν στήσας τῆν ἀταξίαν […] καὶ οὖτος τῆς ἀρχαιότητος µετεῖχε καὶ ἠρέµα τῆς ἀταξίας). Questa testimonianza antica e il fatto che, in ogni caso, quattro attori fossero utilizzati anche in una fase successiva della commedia, in Aristofane, non rappresentano quindi, come

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rilevato da Koerte (v. supra), necessariamente un problema al fatto che la scena del giudizio delle dee potesse forse realizzarsi con quattro attori: Dioniso e le tre dee. Secondo Norwood 1931, p. 123, Pieters 1946, p. 1266s. e 1951, p. 168 e, più diffusamente, Luppe 1966, p. 173 (v. anche Heath 1990, p. 1456s.) le tre dee sarebbero κωφὰ πρόσωπα e ci sarebbero due attori che impersonano Dioniso ed Hermes (d’altronde la presenza di questi al momento del giudizio è testimoniata nelle fonti, v. arg. Cypr. rr. 5–7, p. 38 Bernabè, Eur. Andr. 274–279, Apollod. III 2) e quest’ultimo sarebbe interprete delle volontà delle dee (“eine reizvolle Idee”, Zimmermann 2011, p. 720); in particolare viene proposto di attribuire al Dionysalexandros il fr. 327 K.–A. (incertae sedis): γλῶττάν τε σοι6/6δίδωσιν ἐν δήµῳ φορεῖν6/6καλῶν λόγων ἀείνων6/6ᾗ πάντα κινήσεις λέγων, che conterrebbe il dono di una delle divinità, probabilmente quello di Era, la τυραννὶς ἀκίνητος, che potrebbe essere allusa nell’ultimo verso. Simile anche Bakola 2010, pp. 291–294 (v. supra), secondo cui: a) erano presenti in scena le personificazioni di Τυραννὶς Ἀκίνητος ed Ἐυψυχία κατὰ πόλεµον ma come κωφὰ πρόσωπα, b) tre attori impersonavano Dioniso, Hermes e Afrodite, c) nel fr. 327 K.–A. “the divinity on behalf of whom Hermes is speaking is probably Τυραννὶς Ἀκίνητος”. Il ruolo probabilmente preminente di Afrodite, destinata a vincere, rende in effetti possibile che solo questa prendesse parte attiva alla scena, mentre le altre due dee rimanessero mute e i loro doni fossero mediati da Hermes. Una proposta analoga (tre attori per i ruoli di Dioniso, Hermes e Afrodite; Era e Atena κωφὰ πρόσωπα) anche in Olson 2007, p. 89, che riferisce però il contenuto del fr. 327 K.–A. non al dono di Era, ma a quello di Atena (“a third party’s description of Athena’s offer”; v. anche Gelzer 1960, p. 182 e n. 7 che assegna il frammento all’agone della prima parte [cfr. supra] e pensa al dono di Atena: “zum epirrhematischen Agon der erste Teil könnte eventuell F. 20 Demiańczuk [= fr. 327 K.–A.] gehören, ein iambischen Pnigos, in dem einem Mann Beredsamkeit versprochen wird [n. 7] Dieses P. gehört wohl zur Rede der Athene [Verliererin], die im E. [dem Politiker] vergeblich Glück im Krieg [Hera: unerschütterliche Tyrannis] versprach”). In alternativa, si potrebbe pensare ad un confronto con Luc. XXXV (Theōn krisis) 11–15192. In questo dialogo, dopo che le tre dee si sono presentate ad 192

I rapporti tra Luciano e la commedia sono stati più volte indagati: oltre ad alcune considerazioni in Helm 1906, pp. 370–386 (in particolare sul tipo del filosofo in commedia) e Bompaire 1958, pp. 320–332, in maniera sistematica v. Rabastè 1865, Schulze 1883, Kock 1888, Lederberger 1905, Legrand 1907 e 1908. V. ora anche Tomassi 2011, pp. 66–71 (in merito ai rapporti con il Timone), e ibid. pp. 392–395. Suggestiva, benché non dimostrabile per la scarsità di testimonianze, l’ipotesi

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Alessandro e in accordo con Hermes è stato deciso di giudicarle nude (cfr. p. 2166s.), questi, per non essere offuscato dalla loro contemporanea visione, sceglie di esaminarle meglio singolarmente (11: εἰ δοκεῖ δέ, καὶ ἰδίᾳ καθ’ ἑκάστην ἐπιδεῖν βούλοµαι, ὡς νῦν γε ἀµφίβολός εἰµι καὶ οὐκ οἶδα πρὸς ὅ τι ἀποβλέψω, πάντῃ τὰς ὄψεις περισπώµενος); invita quindi Atena e Afrodite ad allontanarsi ed Era a rimanere (ἄπιτε οὖν αἱ δύο· σὺ δέ, ὦ Ἥρα, περίµενε), il che poi si ripete con le altre due dee, fino alla vittoria di Afrodite. Alla luce di questa scena si può immaginare anche lo sviluppo di quella del Dionysalexandros: sono presenti come attori Dioniso e Hermes, le dee arrivano ma sono κωφὰ πρόσωπα e può esserci un accordo come nel dialogo di Luciano per cui i due decidono di far spogliare le dee, ma non è necessario; una ad una Dioniso convoca le tre dee e ascolta le loro promesse e al termine decide la vincitrice. Per l’ipotesi che potessero esserci tre discorsi a turno delle dee, cfr. in parte già Lerza 1982, p. 187, che pensava però ad un’identificazione della scena del giudizio con l’agone (cfr. p. 2166n. 171), e, di recente, Zimmermann 2011, p. 720 (in alternativa all’ipotesi di Hermes come interprete, ritenuta forse da preferire): “Erscheinen die drei Göttinnen – wie in den nachparabatischen episodischen Szenen üblich – einzeln und werden von Dionysos der Reihe nach ‘abfertigt’, wobei die einzelnen Szenen durch kleine Chorika getrennt sind?”. Col. i, rr. 20–25, col. ii rr. 29–33(Le conseguenze della scelta di Afrodite come vincitrice: Dioniso/Alessandro va a Sparta, rapisce Elena e torna sul monte Ida (indizio evidente che qui si svolgeva la scena del dramma); ipotesi interessante, ma non verificabile, è quella di Croiset 1904, p. 301, secondo il quale a questo punto dell’azione drammatica potrebbe essersi collocata una eventuale seconda parabasi, che assolveva il ruolo di intermezzo durante il tempo in cui Dioniso andava a Sparta e rapiva Elena (hyp. col. I rr. 20–23); è chiaro che questa parte dell’azione drammatica non poteva svolgersi in scena, ma era, invece, narrata o in un intermezzo lirico o in tale eventuale seconda parabasi (cfr. Harsh 1934 e Bowie 1982 per collocazione e funzioni della parabasi in Aristofane). In ripercussione al rapimento di Elena, gli Achei cominciano a devastare il territorio (v. infra a πυρ[πολ]εῖν) in cerca del responsabile; Dioniso, appresa la notizia e perciò spaventato, nasconde Elena, si tramuta in ariete e sotto queste mentite spoglie attende lo sviluppo degli eventi. Dietro la figura di Elena si può verisimilmente leggere Aspasia e, quindi, un riferimento al fatto che come la guerra di Troia scoppiò a causa di Elena, così quella attuale si deve alla concubina di Pericle; per questo motivo in commedia v. Ar. Ach. 526–537 di Cervelli 1950, pp. 118–121 che Luciano possa aver avuto presente proprio il Dionysalexandros per la composizione del suo dialogo Θεῶν κρίσις (n. 35 Macleod).

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e Eupol. fr. 267 K.–A. (Prospaltioi) per l’identificazione Elena/Aspasia. Si tratta, comunque, del tema tradizionale delle guerre scoppiate διὰ γυναῖκας, v. Hdt. I 1–4 e Athen. XIII 570a (che cita i vv. 524–529 degli Acarnesi e li introduce riportando esplicitamente che Περικλῆς διὰ τὸν Ἀσπασίας ἔρωτα καὶ τὰς ἁρπασθείσας ἀπ’ αὐτῆς θεραπαίνας ὑπὸ Μεγαρέων ἀνερρίπισεν τὸ δεινόν κτλ.; il famigerato decreto contro Megara [Thuc. I 139.1: µὴ χρῆσθαι τοῖς λιµέσι τοῖς ἐν τῇ Ἀθηναίων ἀρχῇ µηδὲ τῇ Ἀττικῇ ἀγορᾷ, cfr. Stadter 1989, pp. 274–276] nell’ottica comica sarebbe stato voluto da Pericle per vendicare un’offesa ad Aspasia). r. 23 ἀκού(ει)(L’abbreviazione ακου presente nel papiro venne sciolta in ἀκού(σας) da Grenfell–Hunt 1904, p. 72, univocamente seguiti fino alla proposta di Luppe 1966, pp. 1806s. di una lettura ἀκού(ει). Questa seconda appare preferibile per il confronto con analoghe forme di indicativo presente nel testo (r. 6 ἀπέρχ]εται, r. 9 διαλέγονται, r. 10 ἐπισκώ(πτουσι), r. 11 χλευάζου(σιν), r. 19 κρίνει, r. 22 ἐπανέρχετ(αι), r. 32 ὑποµένει, r. 36 πρ(οσ)τάττει, r. 39 ἐπικατέχ(ει), r. 41 ἀποστέλλει) e perché l’uso di verbi al presente è tipico della “descriptive hypothesis” (van Rossum–Steenbeek 1998, p. 36). Tra le forme verbali citate, r. 22 ἐπανέρχετ(αι) e r. 39 ἐπικατέχ(ει) mostrano la possibilità di un’abbreviazione della desinenza finale della terza persona singolare, mentre nessuno dei participi che si trovano nel testo presenta una simile abbreviazione, cfr. r. 20 πλεύσας, r. 32 µ(ε)τ(α)σκευάσας, rr. 336s. παραγενό|µενος, rr. 346s. φωρά|σας, r. 38 οἰκτείρας. r. 24Qs. πυρ[πολ]εῖν(Il verbo πυρπολέω è frequentemente usato in commedia: Ar. Nub. 1497, Vesp. 1079, Av. 1580, Thesm. 243 e 727 e di possibile origine colloquiale, cfr. Austin–Olson 2004 p.  251 che richiamano ancora Anax. frr. 22, 9 e 243 K.–A. e Men. Monotropos 278; è dunque possibile che il verbo derivi dal dettato originale del testo di Cratino (Schwarze 1971, p. 16, Ornaghi 2010, p. 98). Inoltre, πυρ[πολ]εῖν potrebbe contenere un riferimento all’invasione dell’Attica da parte di Archidamo nell’estate del 431 a.6C. e alle sue conseguenze: ciò soprattutto perché non abbiamo nessuna notizia di devastazioni da parte degli Achei prima dell’arrivo a Troia (Schwarze 1971, p. 16: “die Achaier hatten vor Troja nichts zu brandschatzen”). r. 25 (καὶ) [ζητεῖν(Le ultime lettere leggibili dell’ultima riga sono χω, integrabili in χώ(ραν); è visibile, poi, un tratto di inchiostro di forma irregolare che può far pensare al segno presente alle rr. 11, 21 e 25 come abbreviazione per (καί) (cfr. anche i simili κ alle rr. 17, 34, 43) più che ad un tratto orizzontale, inteso da Grenfell–Hunt 1904, p. 72 come ciò che rimaneva di una φ, cfr. Luppe 1966, p. 180, Austin 1973, p. 37. Da escludere, per questo, letture come φ[εύγει πρὸς] di Grenfell–Hunt 1904, p. 72 (non si capisce, d’altronde, perché Dioniso dovrebbe rifugiarsi da Alessandro, il quale avrà avuto senz’altro dei

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motivi di rammarico contro il dio, come mostra il successivo racconto della hypothesis), φ[οβεῖται] di Wilamowitz 1904, p. 665, [φεύγει] di Schmid 1946, p. 78 n. 1. Dopo il possibile = (καί) è stata suggerita da Luppe 1966, p. 180 una possibile integrazione δ[ιώκειν] per il confronto con arg. Ar. Ach. = schol. Ar. I 1b, p. 1, r. 56s. Wilson Ἀχαρνικοὶ γέροντες πεπυσµένοι τὸ πρᾶγµα προσέρχονται διώκοντες e sulla base della supposta presenza di un tratto obliquo leggibile nel papiro dopo e interpretabile come ciò che rimane di una A, ∆, Λ, Υ o Χ; ma questro tratto è quasi del tutto invisibile, cfr. Austin 1973, p. 37 e le integrazioni possono essere solo exempli causa, come [ζητεῖν dello stesso Austin (su questo punto v. la dossografia in Schwarze 1971, p. 9 n. 9). col. II r. 29 τὸν Ἀλέξαν[δ(ρον). τὴν µ(ὲν) οὖν Ἑλένη(ν)(Lo strappo presente sulla porzione superiore del lato destro del papiro ha inficiato, oltre al titolo, gran parte delle prime delle prime due righe del riassunto. Tutto ciò che si legge alla r. 29 è l’inizio del nome di Alessandro (τὸν Ἀλεξαν[); si ∆ può integrare Ἀλέξαν[δ(ρον) e analogamente a r. 34 (ΑΛΕΞΑΝ ), come nota Luppe 1966, p. 180 e n. 2, la posizione sopralevata della N rispetto alla linea ν di scrittura può far pensare ad una abbreviazione come ad es. Ἀλέξα . La successiva perduta porzione di testo è quella proposta fin da Grenfell–Hunt 1904, p. 71 in maniera esemplificativa, ma che si può ricostruire con relativa sicurezza sulla base di ciò che si legge di seguito: poiché i participi κρύψας (r. 31) e µ(ε)τ(α)σκευάσας di col. r. 32 hanno come soggetto un maschile e ἑαυτόν (r. 31) è riferito senz’altro a Dioniso, soggetto implicito da κρίνει di col. I r. 19, nella parte mancante di r. 29 deve esserci un accusativo dipendente da κρύψας; inoltre, poiché nelle rr. 31–33 si parla del travestimento di Dioniso, ne deriva che chi viene nascosta in precedenza non può che essere Elena, il cui nome si può integrare a r. 29 insieme a µέν correlato con δ’ di r. 31. Come connettivo tra i due periodi sintattici si può a) inserire καί dopo Ἀλεξαν[, come fanno Grenfell–Hunt 1904, p. 71 generalmente seguiti, oppure b) porre una pausa (punto fermo o punto in alto) dopo Ἀλέξαν[ e inserire οὖν dopo τὴν µ(έν), come proposto da Austin 1973, p. 37. r. 30 ὡς τ̣ ̣(Così la lettura di van Rossum–Steenbeek 1998, p. 237 preferibile sia rispetto a ὡς τ[άχιστα di Luppe 1966, p. 181 che dà per sicura la prima lettera, in realtà incerta, e rinuncia a segnalare le tracce della seconda, sia rispetto a ὡς τά[χιστα di Austin 1973, p. 36 (seguito da Kassel e Austin, PCG IV, p. 140, Bakola 2010, p. 322) che integra una α per la minima traccia del papiro. Infatti, la prima delle due lettere successive a ὡς è stata correttamente identificata da Luppe 1966, p.  181 con una τ invece che come π (“in dem Papyrus ist beim Π der obere Querstrich nirgends über die linke Senkrechte hinausgezogen”), mentre la seconda è praticamente illeggibile a parte una piccola traccia in una delle fibre strappate. Probabile, comunque, un’integrazione

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ὡς τ[άχιστα, che soddisfa il senso (e la paleografia nel caso di τ) e si intende in riferimento alla velocità con cui il pavido Dioniso tenta maldestramente di nascondere se stesso ed Elena per paura degli Achei (si rifiutano le precedenti letture ὡσπ[ερ e τύρον, τάριχον o γάρον (Grenfell–Hunt 1904, p. 72) οvvero ὄρνιν o χῆνα (Koerte apud Grenfell–Hunt 1904, p. 72 e 1904, p. 484). rr. 33–44(Entra in scena (παραγενόµενος) il vero Alessandro, scopre l’inganno di Dioniso che si era sostituito a lui evidentemente di nascosto, smaschera i due fuggitivi Dioniso e Elena e ordina di consegnarli agli Achei. Davanti alle preghiere di Elena di non consegnarla, Alessandro accetta e decide di prenderla come moglie; consegna quindi agli Achei il solo Dioniso. I satiri vanno insieme a Dioniso e ribadiscono la loro fedeltà al dio. La consegna dei due colpevoli, ma, in realtà, del solo Dioniso, può indicare un tentativo di riconciliazione con cui evitare ulteriori conseguenze belliche (come il duello tra Alessandro e Menelao in Iliade III) e, sotto metafora politica, può riflettere la speranza di una facile o veloce soluzione del conflitto, legittima proprio agli inizi. Ad essere consegnato agli Achei è il solo Dioniso (sotto le cui spoglie è raffigurato Pericle), mentre Elena rimane con il vero Alessandro; Wilamowitz 1904, p. 665 (poi seguito da Thieme 1908, pp. 276s., Koerte 1911, p. 255, Koerte 1922 col. 1653, Meautis 1934, p. 466, Pieters 1946, p. 129) aveva connesso questa sezione della hypothesis con Thuc. I, 126,2–127,1 (cfr. Plut. Per. 33 su cui Stadter 1989, pp. 307–309) che riporta la notizia della richiesta degli Spartani agli Ateniesi di cacciare Pericle dalla città per eliminare il Κυλώνειον ἄγος; oppure si può pensare con Schwarze 1971, p. 19 ad un riferimento alla temporanea rimozione di Pericle dal suo incarico di stratego per il malcontento popolare (cfr. Thuc. I 128,1, Plut. Per. 356s. su cui Stadter 1989, pp. 323–330). In entrambi i casi, l’espulsione di Pericle dalla città come volevano gli Spartani o la sua rimozione dall’incarico avrebbero potuto portare ad una soluzione del conflitto (e non vanno dimenticate le responsabilità personali di Pericle nello scoppio della guerra, cfr. Thuc. I 139–144, Plut. Per. 29–32); nello sviluppo della commedia l’allontanamento di Pericle potrebbe essere stato rappresentato dalla sua consegna agli Achei in quanto responsabile dell’evento che aveva portato alla loro ira e allo scoppio della guerra, il rapimento di Elena, cfr. Schwarze 1971, p. 19: “Der Unterschied zwischen Verbannung und der von Kratinos geforderten Auslieferung an den Feind fällt dabei gewiss nicht schwer ins Gewicht gegenüber dem gemeinsam Effekt, dass der leitende Staatsman aus der athenischen Politik ausgeschaltet werden soll”. Il fatto, però, che Elena rimanga comunque con Alessandro indica il proseguire della guerra, anche senza Pericle, e indica anche in Alessandro un personaggio negativo, che agisce per interesse personale e non per il bene pubblico, cfr. Zimmermann 2011, p. 723: “Auch der richtige Paris […] erliegt seinen Emotionen […] er ist also

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in keiner Weise besser als sein göttlicher Doppelgänger […] Die politische Botschaft, die hinter der burlesken Handlung aufscheint, ist durchaus pessimistisch: Selbst wenn man einen Kriegstrieber, der aus egoistischen Gründen den Krieg vom Zaune brach, ausliefern sollte […] wird sich nicht ändern, da auch die anderen Demagogen sich allein von ihren persönlichen Interessen und Emotionen leiten lassen”. r. 33Qs. παραγενό-|µενος(Cfr. r. 126s. r. 34Qs. φωρά-|σας(Tecnicismo giuridico, ‘cercare, scoprire o sorprendere un ladro”, cfr. Dover 1968, p. 163 ad Ar. Nub. 499. r. 37 ὀκνούσης(Priva di giustificazione l’alterazione del testo tràdito in ἱκετευούσης proposta da Croiset 1904, p. 303 n. 1; ὀκνέω, ‘esitare’, ‘temere o avere paura’ esprime bene lo stato d’animo di timore di Elena e costituisce un valido antecedente del fatto che Alessandro si muova a compassione (r. 38 οἰκτείρας). r. 41–44. συν-|ακολουθ(οῦσι) κτλ.(“A description of the exodos. Cf. the end of Euripides’ Cyclops, where the chorus of satyrs exit proclaiming their continuing allegiance to Dionysus (708–9)”, Olson 2007, p. 90. Col. ii rr. 44–48(L’hypothesis si conclude con un giudizio critico sulla commedia di Cratino, simile a quello ad es. di arg. I Ar. Ach. τὸ δὲ δρᾶµα τῶν εὖ σφόδρα πεποιηµένων, καὶ ἐκ παντὸς τρόπου τὴν εἰρήνην προκαλούµενον, cfr. van Rossum–Steenbeek 1998, p. 40 e Bakola 2010, p. 198 n. 34. Si dice che nella commedia viene attaccato Pericle (evidentemente sotto la maschera di Dioniso/Alessandro, il protagonista) ed è questa l’unica informazione che consente di determinare lo statuto politico del dramma; l’attacco comico è condotto da Cratino con grande abilità (µάλα πιθανῶς) per mezzo della emphasis (δι᾽ἐµφάσεως) e determinato, in questo caso specifico, dal fatto che Pericle aveva condotto gli Ateniesi alla guerra. Secondo Koerte 1904, pp. 496–498 (seguito da Bona 1998, p. 188) questo giudizio finale potrebbe essere di epoca posteriore a quella alessandrina (in cui si deve collocare l’origine della hypothesis), ma di ciò non si ha alcuna prova. µάλα πιθανῶς(Per πιθανός e l’avverbio πιθανῶς v. Koerte 1904, p. 496 (cfr. Revermann 1997, p.  198 e Bakola 2010, pp.  1976s.): “Das Adjectivum πιθανός und sein Adverbium haben in der späteren Gräcität viel von ihrer ursprünglichen Kraft verloren, aus ‘überzeugend, glaubwürdig’ ist allmählich ‘geschickt’ geworden”; si confrontano ad es. Plut. Mor. 747b ὠρχήσατο γὰρ πιθανῶς τὴν πυρρίχην, arg. I Ar. Ran., rr. 22–24 καὶ τέλος πάντα ἔλεγχον καὶ πᾶσαν βάσανον οὐκ ἀπιθάνως ἑκατέρου κατὰ τῆς θατέρου ποιήσεως προσάγοντος, κρίνας παρὰ προσδοκίαν ὁ ∆ιόνυσος τὸν Αἰσχύλον νικᾶν, arg. A5 Ar. Nub. r. 17 καὶ φυσιολογήσαντος οὐκ ἀπιθανῶς τοῦ Σωκράτους.

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δι᾽ ἐµφάσεως(Certamente da rifiutare l’emendamento δι᾽ Ἀσπασίαν proposto da van Leeuwen 1904, p. 446, perché privo di motivazione (cfr. Thieme 1908, p. 20 e Koerte 1911, p. 255): ἔµφασις è termine tecnico del linguaggio della critica letteraria e quindi certamente da conservare. Per una discussione sul suo valore v. in particolare Schenkeveld 1964, pp. 129–131 e Rutherford 1988; con particolare riferimento al Dionysalexandros, Nesselrath 1995, pp. 122–125, Janko 1984, p. 2026s., Wright 2007, p. 4196s., Sonnino 2003 in part. pp. 294–297 e Bakola 2010, pp. 198–206 (e p. 199 n. 35 per ulteriore bibliografia). Per una definizione di emphasis v. in part. Tib. rhet. III 65 Spengel: ἔµφασις δέ ἐστιν ὅταν µὴ αὐτὸ τις λέγῃ τὸ πράγµα, ἀλλὰ δι᾽ ἐτέρων ἐµφαίνῃ (l’emphasis si ha quando non si indichi una cosa esplicitamente, ma la si esprima attraverso altre parole) e Quint. VIII 3, 83–86: Vicina praedictae, sed amplior uirtus est emphasis, altiorem praebens intellectum quam quem uerba per se ipsa (virtù simile a quella appena discussa [i.e. la brachilogia], ma di più ampia portata, è la emphasis, che offre un significato più profondo di quello che mostrino le parole di per sé); cfr. anche Ps.–Dem. de elocut. 288193 e Tryph. p.  199, 15–20 Spengel194. La emphasis si definisce quindi come una figura retorica con cui si esprime un concetto non direttamente, ma per mezzo di altre parole; è un’espressione sintetica, per questo simile alla brachilogia, che crea nella mente un’immagine ben più ampia di ciò che la parola o espressione stessa implica. Inoltre, nel già citato passo dello pseudo-Demetrio è presente un’opposizione tra ἐµφαίνειν e λοιδορεῖν, la stessa che si trova in proleg. de 193

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Ps.–Dem. de elocut. 288: πάντα γὰρ τὰ προειρηµένα ἐµφαίνεται τῷ ἐν Αἰγίνῃ ἦσαν· καὶ πολὺ δεινότερος ὁ λόγος δοκεῖ τοῦ πράγµατος αὐτοῦ ἐµφαίνοντος τὸ δεινόν, οὐχὶ τοῦ λέγοντος. τοὺς µὲν οὖν ἀµφὶ τὸν Ἀρίστιππον καὶ λοιδορῆσαι ἴσως ἀκινδύνου ὄντος ἐν σχήµατι ὁ Πλάτων ἐλοιδόρησεν (“tutto quanto è stato detto prima traspare dalle parole: “erano a Egina” e il discorso appare molto più potente poiché è il contenuto stesso, e non colui che parla, a far trasparire la potenza. Non c’era nessun rischio a rimproverare Aristippo e i suoi compagni, ma Platone ha espresso il suo rimprovero in maniera figurata”, trad. N. Marini, Demetrio. Lo stile, Roma 2007, p. 145). Tryph. p. 199, 15–20 Spengel: ἔµφασίς ἐστι λέξις δι’ ὑπονοίας αὐξάνουσα τὸ δηλούµενον, οἷον αὐτὰρ ὅτ’ εἰς ἵππον κατεβαίνοµεν (λ 523)· ἐν γὰρ τῷ κ α τ ε β α ί ν ο µ ε ν δηλοῦται τὸ µέγεθος τοῦ ἵππου· καὶ πάλιν ἱ π π ό θ ε ν ἐ κ χ υ µ έ ν ο ι ( θ 5 1 5 ) · τὴν γὰρ ἀθρόαν ὁρµὴν τοῦ πλήθους διὰ µιᾶς ἐσήµανε λέξεως (la emphasis è un’espressione che intensifica ciò che viene indicato per mezzo di un senso traslato, come ad esempio “ci calammo nel cavallo”. Infatti in katebainomen si mostra la grandezza del cavallo. E di nuovo “riversandosi giù dal cavallo”. Infatti (il poeta) indica l’assalto compatto di una gran mole di uomini attraverso una sola espressione).

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com. XV, p. 65 Koster: διαφέρει ἡ κωµῳδία τῆς λοιδορίας∙ ἐπεὶ ἡ µὲν λοιδορία ἀπαρακαλύπτως τὰ προσόντα κακὰ διέξεισιν, ἡ δὲ δεῖται τῆς καλουµένης ἐµφάσεως (“la commedia è cosa differente dall’insulto esplicito [λοιδορία]. Ιnfatti l’insulto esplicito mette a nudo senza veli i mali che ci si parano innanzi, mentre in una commedia occorre quella che si chiama normalmente ἔµφασις [= insulto velato]”. Trad. Sonnino 2003, p. 296. Cfr. ancora proleg. de com. XI a1, p. 26 e proleg. de com. XΙb, p. 40 Koster). Come già interpretato da Koerte 1904, p. 490 emphasis si può tradurre, quindi, con “versteckte Anspielung” ed indica un attacco a Pericle non diretto, ma velato sotto la maschera di Dioniso, ovvero in altre parole Dioniso, il protagonista della commedia, che finge di essere Alessandro e ne prende il posto e dietro al quale è chiaramente intellegibile la figura di Pericle. Da ciò che possediamo della commedia non è chiaro, invece, in quale forma potesse attuarsi nel Dionysalexandros quel processo di αὐξάνειν testimoniato da Trifone, ma si può forse immaginare che Dioniso–Alessandro avesse caratteristiche che rimandavano a Pericle, come ad esempio la testa a cipolla, frequente oggetto di attacco, cfr. ad es. Revermann 1997, pp. 1996s. “the author of the hypothesis, I believe, gathered the connection with Pericles from textual allusions to the stange shape of Dionysus’ head and his familiarity with this feature as a stock-characteristic of the comic presentation of this politician”)195. V. ancora Bakola 2010, in part. pp. 198–203 che distingue la ἔµφασις dall’allegoria perché “[p. 199] in allegory, tenor and vehicle have a continuous relationship, given that the vehicle corresponds element by element to the tenor and stands for it. In emphasis, on the other hand […] the relationship of tenor and vehicle is intermittent and interactive [… p. 200] the vehicle of emphasis does not stand for the tenor in a simple substitutive way, but hints at it and thereby causes it to emerge” e propone con ciò una possibile interpretazione del modo in cui funzionava in pratica la ἔµφασις (sebbene ciò non emerga dalle già citate fonti antiche che possediamo), funzionale a ridimensionare letture della commedia che davano eccessivo spazio al valore politico della commedia e sminuivano il primario motivo mitologico, cfr. Contenuto (p. 206).

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Secondo Katz 1976, p. 369 e n. 51 l’utilizzo di ἔµφασις implica che l’allusione a Pericle, pur sotto la maschera di Dioniso-Alessandro, fosse “an elaborate political allegory apparently running throughout the entire play” (e, per questo, è criticata la traduzione di δι᾽ ἐµφάσεως proposta da Platnauer 1933, p. 60: “Pericles is satirized in the play […] in the guise of one of the characters”), ma v. anche Bakola 2010, pp. 198-203 per un possibile funzionamento della ἔµφασις e un ridimensionamento del valore politico della commedia a favore del suo contenuto mitologico, cfr. supra.

∆ιονυσαλέξανδρος (Test. *ii.)

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ἐπαγηοχώς(Il papiro riporta ἐπαγειοχώς, stampato da Grenfell–Hunt 1904, p. 70 e da Koerte 1904, p. 483 (v. ancora Schwarze 1971, p. 7); la correzione si deve a van Leeuwen 1904, p. 446 perché questa seconda forma è quella di più comune impiego nei primi secoli dopo Cristo, cfr. LSJ s.6v. e DGE s.6v. 

2

Test. *ii. IG II/III 2363, 4–7 π]ερὶ Αἰσχύ〈λ〉ου ]ξ̣ανδρον ∆ὶς [ἐ-] ξαπατῶν () Κιθ]αριστὴς ∆ακτ[ύ-] λιος. . . . . . .

Kassel–Austin (PCG IV, p. 141) registrano come testimonianza incerta (come mostra l’impiego dell’asterisco) questa iscrizione (ca. 100 a.6C.), proveniente dal Pireo e composta di due colonne, che contiene un elenco miscellaneo di titoli di opere (v. in part. Platthy 1968, p. 133 nr. 90, Snell TrGF I, p. 56, Luppe 1987b); il riferimento al Dionysalexandros potrebbe essere quello della r. 5 ]ξ̣ανδρον a proposito del quale gli stessi Kassel e Austin (ibid.) riportano il giudizio, dubbioso, di Snell TrGF I, p. 56: “∆ιονυσαλέ]ξανδρο〈ς〉 Cratini? exspectes Μενάνδρου, cuius erant ∆ίς ἐξαπατῶν, Κιθαριστής, ∆ακτύλιος”. Il riferimento al Dionysalexandros alla r. 5 è invero assai dubbio: perché, appunto, ci si aspetterebbe il nome di Menandro prima dei titoli di tre sue commedie (cfr. Kassel–Austin PCG VI.2, p. 91, Men. ∆ακτύλιος) e perché la stessa lettura ]ξ̣ανδρον è incerta. Luppe 1987b, p. 2 e n. 4 propone infatti, a differenza di tutte le precedenti edizioni, per l’inizio della sequenza ]σ̣ (“eher ]σ als ]ξ, da keine mittlere Waagerechte eingemeißelt zu sein scheint”) e che tra la r. 4 e la r. 5 possa essersi verificato “ein Überspringen einer Zeile der Vorlage durch eine Art Haplographie” (da cui la proposta esemplificativa | [?Λυσίου πρὸς Ἀρέ]σ· | 〈ανδρον – – – Μεν-〉 | άνδρου). In ogni caso, il fatto che la stessa lettura ]ξ̣ανδρον, l’unico elemento che avrebbe potuto rimandare alla commedia di Cratino, sia revocata in dubbio e paleograficamente poco probabile, esclude pressoché con certezza un richiamo al Dionysalexandros in questo elenco epigrafico.

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Cratino

fr. 39 K.–A. (37 K.) ἔνεισι δ᾽ ἐνταυθοῖ µάχαιραι κουρίδες αἷς κείροµεν τὰ πρόβατα καὶ τοὺς ποιµένας 1 ἔνεισι CL: ἐνεῖεν AB

E qui ci sono forbici tosatrici con cui rasiamo le pecore e i pastori Poll. X 140 (ABCL) τὰ δὲ κουρέως σκεύη κτένες, κουρίδες, µαχαιρίδες. ἐν µὲν γὰρ Κρατίνου ∆ιονυσαλεξάνδρῳ εἴρηται∙ ἔνεισι—ποιµένας E gli strumenti del barbiere sono pettini, rasoi, forbici. Infatti nel Dionysalexandros di Cratino è stato detto: e qui—pastori

Metro(Trimetri giambici

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 166s. (fr. IX), Runkel 1829, p. 188, Meineke FCG II.1 (1839), p. 38 (fr. II), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 136s. , Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 2), Kock CAF I (1880), p. 236s., Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 141, Koerte 1904, p. 493, Thieme 1908, p. 17, Meautis 1934, p. 464, Zieliński 1931, p. 81, Pieters 1946, p. 128 n. 434, 171, Edmonds FAC I (1957), p. 346s., Luppe 1966, p. 1846s., Nicolson 1981, p. 56, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 141, Bakola 2010, p. 846s., 86–88, 258, Henderson 2011, p. 183, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(All’interno del decimo libro dell’Onomasticon, dedicato ai nomi dei vari strumenti di lavoro e al loro utilizzo (X 1–2), Polluce, dopo aver rimarcato di aver elencato la maggior parte degli strumenti di uso quotidiano (X 124 τὰ µὲν ἐπὶ πλεῖστον ἀναγκαῖα τῇ καθ᾽ ἡµέραν χρήσει σκεύη προείρηται), ne aggiunge alcuni altri (in X 128–133 sono elencati gli strumenti del lavoro nei campi [128], quelli del pescatore [132], quelli nautici [133]), tra cui quelli del barbiere (τὰ δὲ κουρέως σκεύη), del quale menziona κτένες, κουρίδες e µαχαιρίδες; la citazione di Cratino esemplifica l’attestazione di κουρίδες, una successiva di Eupoli (fr. 300 K.–A., Chrysoun genos) quella di µαχαιρίδες (non sono esemplificati gli κτένες, dopo la cit. di Eupoli vengono ricordati la psalis, lo xyron e altri). Un elenco analogo in Poll. II 32 dove si parla della professione del barbiere e sono citati come suoi strumenti (ἐργαλεῖα),

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 39)

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κτένες καὶ ξυρὸν […] καὶ µαχαιρίδας, ἃς καὶ κουρίδας ὠνόµαζον (v. infra µάχαιραι κουρίδες). Testo(La lezione ἐνεῖεν δ᾽ dei soli AB è ametrica per la sillaba lunga in sede pari e da imputare, verisimilmente, a cattiva lettura dell’antigrafo. Sia in commedia (ad es. Ar. Ran. 273, Lys. 568), sia in prosa (ad es. Plat. Apol. 18d, 33d) i codici testimoniano un’alternanza tra le forme ἐνταυθοῖ/ἐνταυθί, ma ἐνταυθοῖ è presente anche nella documentazione delle iscrizioni attiche (cfr. Meisterhans(-Schwyzer), p. 147 “nicht in ἐνταυθί zu ändern”, Threatte 1996, p. 371); ingiustificato Elmsley 1830, p. 23: “ἐνταυθοῖ ionica forma […] atticum est ἐνταυθί”, da cui la sua scelta di ἐνταυθί in Ar. Ach. 152 (“unnecessary”, Olson 2002, p. 119), sulla quale si basa ἐνταυθί di Runkel 1829, p. 188 nel frammento di Cratino, ugualmente non necessario. Un problema a parte è rappresentato dall’espressione µάχαιραι κουρίδες. I due sostantivi µάχαιραι e κουρίδες sono sinonimi (v. ad locc.); come notava Dindorf 1824 (vol. V,2), p. 1731, ci sono due possibili interpretazioni: a) costituiscono una giustapposizione in asindeto, nel qual caso, presumibilmente, “cum commate interposito”, ossia µάχαιραι, κουρίδες; b) “µάχαιραι κουρίδες, ut vulgo est, defendi posse, quasi µάχαιραι κουρικαί”, ‘for cutting the hair’ (LSJ  s.6v.), cfr. Plut. Dion. 93 ὥστε µηδὲ τῆς κεφαλῆς τὰς τρίχας ἀφελεῖν κουρικαῖς µαχαίραις, Clem. Alex. Paed. III 11, 61,6 οὐ ξυρῷ – ἀγεννὲς γάρ – , ἀλλὰ ταῖς δυοῖν µαχαίραις ταῖς κουρικαῖς. Per la glossa di Phryn. praep. soph. p. 80,22 κουρίδες µάχαιραι· αἷς κείρουσι τὰ πρόβατα e la possibile pertinenza del suo lemma al frammento di Cratino, v. infra a κουρίδες. Interpretazione(Chi parla identifica gli strumenti con cui si tagliavano i capelli ai pastori e il vello alle pecore; infatti, µάχαιραι certamente e, forse, anche κουρίδες indicano sia gli strumenti del barbiere sia quelli con cui si tosavano le pecore (v. ad locc.). L’utilizzo di questi strumenti con tale duplice funzione può, forse, nascondere una pointe ad una certa impudicizia, come sostenuto da Kock CAF I, p. 24 “non nimiam fuisse antiquissimis illis temporibus regiorum puerorum elegantiam significat: nam eisdem cultris oves tonderi et pastores, qui saepissime erant regulorum filii”. Il plurale κείροµεν al v. 2 denota quasi senz’altro un soggetto plurale che si può identificare, verisimilmente, con i componenti del coro, i satiri (v. pp. 203–205); in questo caso è possibile che i satiri si riferiscano al fatto di fare le veci dei pastori in assenza di Alessandro e alludano a se stessi nel ruolo di factotum, come ad es. in Eur. Cycl. 23–32 e 55–81 (Méautis 1934, p. 464). Simile anche Bakola 2010, pp. 85–88, secondo cui l’accusativo ποιµένας distinto dal soggetto di κείροµεν indica che a pronunciare i versi non siano i pastori “as it (sc. the fragment) refers to them as a third party” (p. 88), ma i satiri/coreuti che hanno assunto il ruolo di pastori

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Cratino

in assenza di Alessandro e che, quindi, “are and are not sheperds at the same time”. Un’interpretazione diversa è proposta da Koerte 1904, p. 493, il quale attribuisce il fr. 40 alla parte iniziale della commedia e, in particolare, pensa alla presenza in scena di un pastore dal quale Dioniso prende in prestito l’abito (v. infra fr. 40 Interpretazione); di conseguenza, il fr. 39 sarebbe parte di un dialogo tra questo pastore stesso e il dio: “In ein Gespräch des Gottes mit diesem Hirten würde fr. 37 [39 K.–A.] gut passen […] ”. Der Pluralis κείροµεν nöthigt wohl nicht unbedingt mehrere Hirten anzunehmen”. Se si pensa, analogamente a Koerte, che a parlare non siano più persone, ma una sola, si potrebbe anche immaginare che il frammento si inserisse in un contesto in cui veniva ricercato Dioniso: a parlare potrebbe essere Alessandro e la situazione quella in cui questi arriva in scena e cerca Dioniso e, poiché questi è trasformato in ariete (hypothesis r. 31), minaccia di tosarlo e fa dunque riferimento agli strumenti del caso. Da rifiutare la posizione di chi, come Luppe 1966, p. 1846s., trova in questo frammento una conferma all’ipotesi di un doppio coro (su cui v. p. 2036s.): l’identificazione del soggetto parlante con i pastori (“sprechen offenbar mehrere Hirten”, Luppe 1966, p. 184) non è, infatti, obbligata, perché come si è visto, si può senz’altro pensare anche che a parlare siano i satiri. Singolare, infine, l’esegesi proposta da Kaibel (apud PCG IV, p. 14): “fortasse populum dicit populique duces”, cfr. Zieliński 1931, p. 81, probabilmente basata sul significato di ποιµήν ‘capo, guida’ (LSJ s.6v. II), che non trova, però, alcuna conferma. ἔνεισι δ᾽(Cfr. (Soph.?) TrGF IV fr. **1130,12s. R. ἔνεισι δ᾽ ᾠδαί µουσικῆς, ἔνεστι δὲ6/6µαντεῖα κτλ., nella stessa posizione ad inizio trimetro, all’interno di un’elencazione di oggetti (l’elenco inizia a v. 9 con ἔστι µέν e prosegue ai versi successivi, 13–16, con una triplice anafora di ἔστι). Cfr. Ar. Nub. 211 ἐνταῦθ᾽ ἔνεισιν, Eq. 127 ἐνταῦθ᾽ ἔνεστιν (v. anche ἔνεστ’ ἐνταῦθα in Nub. 980, 989). ἐνταυθοῖ(Sia avverbio di movimento (ad es. σ 105, Ar. Lys. 568) che, come in questo caso, avverbio di posizione, cfr. Ar. Ach. 152 (cfr. Olson 2002, p. 119), Nub. 814 (cfr. van Leeuwen 1898, p. 133 e Dover 1968, p. 199), Thesm. 225 (cfr. Austin–Olson 2004, p. 129), Ran. 273 (cfr. Dover 1993, p. 228). Cfr. anche Schwyzer 1950, vol. II, p. 158. µάχαιραι(Μάχαιρα e µαχαιρίς (l’etimologia è incerta, v.  GEW  s.6v., DELG s.6v.) indicano un tipo di forbici usate dai barbieri, da considerare distinte dal rasoio (ξυρόν), cfr. Nicolson 1891, pp. 53–56, ma analoghe alle κουρίδες (v. infra). Poll. ΙΙ 32 (τὴν δὲ µάχαιραν ταύτην καὶ ψαλίδα κεκλήκασιν) e Χ 140 (καὶ ψαλὶς δὲ τῶν κουρέως σκευῶν, ἣν καὶ µίαν µάχαιραν καλοῦσιν) attesta che la ψαλίς (su cui v. Nicolson 1891, p. 546s.) è una µάχαιρα e che, dunque, quest’ultima fa parte degli strumenti del barbiere; sembra perciò artificiosa la distinzione presente ad es. in Moer. µ 10 µαχαιρίδες αἱ µάχαιραι τῶν κου-

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 39)

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ρέων Ἀττικοί· µάχαιραι κοινόν, Amm. 306 µάχαιρα καὶ µαχαιρὶς διαφέρει. µάχαιραν µὲν γὰρ ὁµοίως ἡµῖν λέγουσιν Ἀττικοί, µαχαιρίδας δὲ τὰς τῶν κουρέων (v. ancora Philet. 108, Antiatt. 107,28, Phot. µ 151). Secondo Hsch. µ 421 µάχαιρα∙ ξίφος. καὶ παραζώνιον. καὶ οἷς ἀποκείρεται τὰ πρόβατα κτλ., le µάχαιραι potevano essere usate anche per radere le pecore; cfr. anche Luc. XXVIII (Pisc.), 46,11 ὁ τριβώνιον περισπάσας ἀποκειράτω τὸν πώγωνα ἐν χρῷ πάνυ τραγοκουρικῇ µαχαίρᾳ, con l’hapax τραγοκουρικός (‘for shearing he-goats’ LSJ s.6v.). Cfr. Interpretazione. κουρίδες(Da κείρω ‘tagliare’, al plurale è testimoniato solo in questo frammento di Cratino e negli elenchi di Polluce (v. Contesto della citazione), che in II 32 attesta esplicitamente la sua equivalenza a µαχαιρίς, forbice da barbiere (v. supra): καὶ µαχαιρίδες, ἃς καὶ κουρίδας ὠνόµαζον (i due sostantivi si intendono, pertanto, come sinonimi). Problematica è la testimonianza di Phryn. praep. soph. p. 80,22: κουρίδες µάχαιραι∙ αἷς κείρουσι τὰ πρόβατα. I codici di Frinico riportano κουρίδες: µάχαιραι αἷς κτλ. e in forma analoga è testimoniata una glossa in Et. gen. AB = Et. magn. p. 534,8 κουρίδας: µαχαίρας; il fatto che κουρίς sia, come detto, testimoniato solamente in Cratino (e in Polluce) può spiegare una sua glossa con un sostantivo più noto, come µάχαιραι (delle quali, per altro, Hsch. µ 21 attesta l’impiego nella tosatura delle pecore, v. supra a µάχαιραι). Se si accetta questo testo di Frinico, si ha una definizione delle κουρίδες specificamente come forbici per la tosatura delle pecore, che si accompagna a quello di Polluce come sinonimo di µαχαιρίδες (forbici da barbiere). De Borries 1911 ad loc. stampa come lemma κουρίδες µάχαιραι (cui segue la spiegazione αἷς κτλ.) e sembra pensare ad una sua derivazione o a un suo legame con il testo di Cratino (dopo il lemma è aggiunto, tra parentesi tonde, “(Cratin. fr. 37)”) e richiama, per questa scelta, il confronto con Polluce (“coniunxi verba coll. Poll. X 140”); tuttavia: a) nel testo di Cratino i due sostantivi sono invertiti (µάχαιραι κουρίδες, non κουρίδες µάχαιραι) e se il lemma di Frinico deriva o è legato al verso di Cratino, questa scambio non troverebbe spiegazione; b) negli elenchi di Polluce sono accostati κουρίδες e µαχαιρίδες, non µάχαιραι. Un legame di qualche tipo tra il frammento di Cratino e la glossa di Frinico non si può escludere, ma non è dimostrabile; d’altra parte la giustapposizione µάχαιραι κουρίδες non è priva di problemi (v. Testo) e ciò renderebbe poco comprensibile anche il lemma di Frinico, mentre il testo tràdito dai codici è certamente più chiaro e offre la spiegazione di un termine raro come κουρίδες. πρόβατα(Etimologicamente derivato da προβαίνειν (già in Et. magn. p. 688, 21–28), lett. “die Vorwärtsgehenden” (GEW s.6v., cfr. DELG s.6v.), sostantivo già omerico (ad es. Ξ 124, Ψ 550) che indica generalmente il bestiame a quattro zampe, ma si specifica poi nel significato di ‘pecora’ e in questo senso

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Cratino

è impiegato quasi esclusivamente in prosa attica (ad es. Thuc. II 51.4, VII 27.5, Xen. An. VII 3.48, VIII 16.2 ecc.) e in commedia (ad es. Ar. Nub. 45, Vesp. 32, 34 ecc.), mai in tragedia (unica occorrenza nel composto προβατογνώµων di Aesch. Ag. 795, v. Fraenkel 1950, II p. 3616s.), e quasi solamente al plurale (per occorrenze al singolare, v. infra p. 277, fr. 45 K.–A.). ποιµένας(Da una radice collegata al significato di sorvegliare, proteggere (GEW, DELG s.6v.), nei poemi omerici ‘mandriano’, riferito sia a greggi di buoi che di pecore (κ 82–85), successivamente solo nel significato di ‘pastore di pecore’. Attestato in tragedia (ad es. Soph. Phil. 214, Eur. Hipp. 75, Bacch. 714) e in prosa (ad es. Plat. Rp. 345c 4, Leg. 735b 1), in commedia di V sec. a.6C. è presente solo in Cratino, qui e nel fr. 313 K.–A. (inc. sed.; “fortasse ad Dionysalexandrum pertinet”, Kock CAF I, p. 95, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 275 [che riportano, in alternativa, l’attribuzione ai Boukoloi di Bergk 1838, p. 34]) ποιµὴν καθέστηκ’· αἰπολῶ καὶ βουκολῶ (cfr. ποιµαίνει in Cratet. fr. 37 K.–A. [Tolmai] e, poi, in Menandro ad es. in Epitrep. 299, Heros 29, 73 etc.).

fr. 40 K.–A. (38 K.) (A.) στολὴν δὲ δὴ τίν᾽ εἶχε; τοῦτό µοι φράσον. (B.) θύρσον, κροκωτόν, ποικίλον, καρχήσιον 1 ∆Ε ∆Η P: ∆Η ∆Ε Νƒƒƒτίν᾽: Macrobii edd.: ΤΙΝΑ ΝPƒƒƒεἶχε; τοῦτο Porson (εἶχε iam Gronovius, τοῦτο Larcher): ΕΙΧΕΝ ΤΟΥ∆Ο ΝPƒƒƒ2 ΠΟΙΚΙΛΟΝΚΑΡΧΗΣΙΟΝ P: ΠΟΙΚΥΛΟΝΚΑΡΣΕΣΙΟΝ Ν

E che che veste aveva? Dimmelo. Tirso, crocota, veste ricamata, carchesio Macrob. Sat. V 21.6 (α codd. NP) (V 21.3 carchesium) nec solus Asclepiades meminit huius poculi, sed et alii illustres poetae… Κρατεῖνος ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ στολὴν—καρχήσιον (Carchesio) e di questa coppa non si ricorda solo Asclepiade, ma anche anche altri famosi poeti… Cratino nel Dionysalexandros: e che che veste — carchesio

Metro(Trimetri giambici

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∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 40)

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Bibliografia(Porson 1824, p. 57 (v. 782), Runkel 1827, p. 17 (fr. XI), Meineke FCG I (1839), p. 57, Meineke FCG II.1 (1839), p. 376s. (fr. I), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 13 (I), Bothe PCGF (1855), p. 12 (fr. 1), Kock CAF I (1880), p. 24, Croiset 1904, p. 3026s., Koerte 1904, p. 493, Thieme 1908, p. 166s., Robert 1918, p. 167, Pieters 1946, p. 126 n. 417, 128 n. 433, 171, Cervelli 1950, p. 132, Edmonds FAC I (1957), p. 346s., Luppe 1966, p. 176, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 142, Casolari 2003, p. 105, 117, Olson 2007, p. 91, Bakola 2010, p. 257 e n. 67, Henderson 2011, p. 183, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(In Sat. V 21 Macrobio elenca i nomi di alcuni tipi di coppe che Virgilio chiama con il loro nome greco in diversi passi: carchesio (Georg. IV 380, Aen. V 77), cimbio (Aen. III 66), cantaro (Ecl. VI 17), scifo (Aen. VIII 278). In V 21.2 distingue, poi, tra i nomi scifo e cantaro noti ai più (consueta vulgi nomina) e carchesio e cimbio di raro impiego sia in ambito latino (apud Latinos haud scio an umquam reperias) che greco (apud Graecos autem sunt rarissima); in V 21.3 riferisce che il carchesio è noto solo ai Greci (est autem carchesium poculum Graecia tantum modo notum)196: per questo menziona Ferecide di Siro (FGrHist 3 F 13a), secondo il quale un carchesio sarebbe stato la coppa che Zeus donò ad Alcmena dopo aver giaciuto con lei e aggiunge la notizia che Plaut. Amph. 534 invece del raro sostantivo charchesium (insuetum nomen reliquit) chiamò questa coppa patera, cfr. infra Interpretazione197. Dopo una parentesi (21.4) sulla patera, giustificata dal richiamo al passo di Plauto, Macrobio ritorna al carchesio menzionando l’ipotesi di Asclepiade di Mirlea (in Athen. XI 474f–475a) che il nome ‘carchesio’ derivi dall’attrezzatura della nave, quindi (21.6) cita tre testimoni greci sul carchesio, Sapph. fr. 141 V., Cratino e Soph. TrGF IV 660 (dalla Tyrō), per poi ribadire (21.7): haec de carchesiis ignoratis Latinitati et a sola Graecia celebratis. Testo(Il testo di Macrobio è traduzione di Athen. XI 474f–475b (cfr. Casaubon in Schweighaeuser 1804, p. 125: “vertit ad verbum Macrobius”) per quel che attiene alla menzione del carchesio come dono di Zeus ad Alcmena, all’ipotesi di Asclepiade di Mirlea sull’origine del nome dall’attrezzatura della nave, alle citazioni di Saffo e Sofocle. Assente da tutta la tradizione di Ateneo la citazione

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Diversamente da quanto testimonia Macrobio, il carchesium come tipo di coppa, ricorre in ambito latino, al di fuori dei succitati passi di Virgilio, almeno in Andr. trag. 30 Ribb.3, Ov. Met. VII 246, Val. Fl. I 193, Mart. VIII 55,15, Stat. Ach. I 680, e v. OLD s.6v.  Che la coppa data da Zeus ad Alcmena sia un carchesio testimoniano ancora Erodoro di Eraclea FGrHist 31 f 16 e Carone di Lampsaco FGrHist 262 F 2, mentre Anassimandro FGrHist 9 F 1 e Paus. V 18.3 parlano di skyphos, cfr. Boardman 1979.

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Cratino

di Cratino; Kaibel 1890, p. 44 (seguito anche da Gulick 1933, p. 98) la restituì anche ad Ateneo, poiché da qui Macrobio la aveva senz’altro dedotta, contra Olson Athaeneus V (2009), p. 305 “misguidedly added”. Al v. 1 i codici NP di Macrobio riportano la lezione τίνα non elisa: benchè metricamente possibile la soluzione con un anapesto in 3° sede è la meno ricorrente, cfr. White 1912, p. 44 e Descroix 1931, pp. 194–205 (in Cratino ricorre ancora nel fr. 246,2) e il confronto con l’usus comico a noi noto privilegia la forma elisa, cfr. ad es. Ar. Eq. 1306 τιν’ εἰπεῖν, Pac. 1141 τιν’ εἶδες etc. Per la successiva pericope εἶχε τοῦτο la tradizione attesta ΕΙΧΕΝ ΤΟΥ∆Ο, privo di senso e con una sillaba lunga in sede pari: la correzione fu di Porson 1824, p. 57 (ad v. 782) che si rifaceva in parte ad un intervento di Gronovius198: στολὴν δὲ δὴ τίν’ εἶχε τοῦδ’ ὁµόχροον, ma di cui rifiutava correttamente l’indebita alterazione del conclusivo τοῦτο µοι φράσον in τοῦδ᾽ ὁµόχροον. La corretta lettura τοῦτο per τοῦδ᾽ di Porson era, d’altra parte, stata anticipata da Larcher, la cui nota è conservata in Sturz 1820, p. 207 (cfr. Kassel–Austin IV, p. 142). Al v. 2 la lezione ΠOIKYΛONKARΣEΣION di N è senz’altro da imputare a motivi di itacismo e di errore di lettura dell’antigrafo. Interpretazione(Al v. 2 κροκωτός e ποικίλος possono essere sia sostantivi sia aggettivi; l’ipotesi più probabile è di interpretare entrambi come sostantivi (v. comm. ad locc.), parte di una serie di quattro nomi in asindeto (Kassel– Austin PCG IV, p. 142 e da ultimo Storey 2011, p. 292), piuttosto che intendere κροκωτόν aggettivo di ποικίλον (Croiset 1904, p. 302: θύρσον, κροκωτὸν ποικίλον, καρχήσιον “un thyrse, une robe couleur de safran brodée, une coupe à deux anses”), ovvero ποικίλον aggettivo di κροκωτόν o, ancora, ποικίλον aggettivo di καρχήσιον (“inepto carchesii epiteto”, Meineke FCG II.1, p. 37, cfr. Meineke FCG I, p. 57: “secundo versu sua sensui constabit ratio, si ποικίλον a sequente vocabulo commate separaveris”). I due versi sono un botta e risposta tra due personaggi: il primo (A) cerca informazioni su di una terza persona e ne riceve dal secondo (B), che la ha evidentemente vista. Il ricercato è verisimilmente Dioniso: lo possono indicare i quattro sostantivi del v. 2, tutti riferibili, a vario titolo, al dio del teatro. Di conseguenza è probabile che il personaggio A, che pone la domanda, sia Alessandro in cerca di Dioniso il quale, dopo aver rapito Elena e aver così scatenato la rappresaglia degli Achei, per paura si era trasformato in ariete; 198

L’interevento di Gronovius è testimoniato dallo stesso Porson 1824, p.  57: “in Cratini Dionysalexandro ex Macrob. Sat. V. 21. versum addit ex MS. Thuaneo Jacobus Gronovius. Sic ille dedit ex patris conjectura, margini adscripta scilicet, non edita, cum MS. haberet ΤΟΥ∆ΟΜΟΙΦΡΑΣΟΝ. Tantulum mendulum hujus loci veram lectionem abolevit. Lege, τοῦτο µοι φράσον».

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 40)

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interlocutore di Alessandro potrebbe essere uno dei satiri (il corifeo?) che compongono il coro. A favore di questa possibilità potrebbe essere anche la menzione del carchesio, associato a Dioniso (v. ad loc.), ma che, in alcune fonti, è la coppa con cui Zeus, travestito da Anfitrione, sedusse Alcmena (Pherec. FGrHist 3 F 13, Charon FGrHist 262 F 2, Herodor. FGrHist 31 F 16) e che Dioniso potrebbe aver usato come strumento per concupire Elena (“perhaps Dionysus put his cup to use as a love-gift for Helen”, Olson 2007, p.  91); in questo caso il frammento si collocherebbe nella seconda metà della commedia, al momento dell’arrivo in scena del vero Alessandro, come sostenuto ad es. da Croiset 1904, p. 302 s., Luppe 1966, p. 176, Casolari 2003, p. 105, Olson 2007, p. 91. V. anche Bakola 2010, p. 257 e n. 67 che propone anche come possibile alternativa una collocazione del frammento all’inizio della commedia, prima che Dioniso si travesta da Alessandro: quello che viene descritto al v. 2 sarebbe l’abito genuino del dio “before he put on any disguises” e, a cercare Dioniso, potrebbero essere in questo caso i coreuti, come proposto già da Koerte 1904, p. 493: “sicher ist ferner, dass fr. 38 [= 40 K.–A.] […] in den Anfang des Stückes gehört. Voraussichtlich trifft der Chor auf der Suche nach Dionysos jemand, der ihn gesehen hat; das könnte Hermes sein, der im Beginn der Hypothesis erwähnt wird, oder, was mir glaublicher erscheint, ein Hirt, von dem der Gott Hirtenkleider für die Durchführung seiner Rolle als Alexandros entlehnen musste”. Poco probabile, invece, l’ipotesi di Kock CAF I, p. 23 “fortasse Paris extrema fabula ad Helenam proficiscens, a Venere in Bacchi similitudinem magnifice instructus significatur”. στολήν(Derivato di στέλλω, στολή si usa in modo specifico nel significato di ‘indumento, veste’, a differenza del più generico στόλος, ‘equipaggiamento’ (ma anche ‘spedizione’) in vari significati (GEW s.6v., DELG s.6v.). Ιndica genericamente una veste sia maschile che femminile ed è perciò spesso accompagnato da una specificazione (Eur. Bacch. 980 ἐν γυναικοµίµῳ στολᾷ, Ar. Thesm. 92 στολὴν γυναικός, ibid. 851 γυναικεία στολή, v. anche Diod. Sic. XVII, 69,8 ὁ δὲ Ἀλέξανδρος συγκαταθέµενος τοῖς δεδογµένοις τρισχιλίας µὲν ἑκάστῳ δραχµὰς καὶ στολὰς ἀνδρείας πέντε καὶ γυναικείας ἴσας). Assente nei poemi omerici, è attestato la prima volta in Sapph. fr. 57,2 V. (ἀγροΐωτιν ἐπεµµένα στόλαν); di ampio impiego nel V e IV secolo, v. Austin–Olson 2004, p. 82 ad Ar. Thesm. 92 (cit. supra) e i passi qui citati esemplificativamente (poesia: Ar. Thesm. 136, fr. 61 K.–A., Eur. Hel. 1382, Timoth. PMG 791, 167; prosa: Hdt. IV 116.2, Lys. VI 51, Plat. Crit. 120b). δὲ δή(La combinazione di queste due particelle sottolinea, anche in combinazione con il successivo µοι φράσον (v. infra), la concitazione con cui viene richiesta l’informazione, v. Denniston 1954, p. 259: “this combination in Euripides and Aristophanes, often in surprised, or emphatic and crucial

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questions”; cfr., tra gli altri, Ar. Av. 155 (οὗτος δὲ δὴ τίς ἐσθ’ ὁ µετ’ ὀρνίθων βίος;) dove introduce la domanda di Evelpide a Upupa su che tipo di vita si conduca tra gli uccelli, che porta alla risoluzione (presa nei versi successivi) di andare a vivere tra di loro. “δὲ δή […] Always with the postponed interrogative […] In general the use of postponed interrogative in animated dialogue was probably characteristic of the spoken language”, Stevens 1976, p. 46 (con il rimando a G. Thomson, Postponement of Interrogatives in Attica Drama, «CQ» 33, 1939, pp. 147–152). τοῦτό µοι φράσον(Il nesso τοῦτό µοι φράσον ricorre in Cleanth. fr. 7,1 (CA p. 230 Powell): τί ποτ’ ἔσθ’ ὃ βούλει, θυµέ; τοῦτό µοι φράσον, mentre il semplice µοι φράσον è attestato in tragedia e in commedia come finale di trimetro giambico: Aesch. Supp. 320; Soph. Ai. 94; Eur. Hel. 471; Ar. Nub. 1088; Ran. 755 e 1454; fr. 962 K.–A.; Men. Perik. 799 (κἀµοὶ φράσον); ricorre ancora, ma non in fine di verso, in Aesch., Coeph. 552, Eur., Bacch. 1041, Ar., Nub. 1048, Pl. 62. Nella maggioranza delle sue occorrenze µοι φράσον si trova in un contesto in cui la situazione sottolinea o l’urgenza della domanda che viene posta o il generale senso di agitazione: così ad es. in Soph. Ai. 94 (ἀλλ’ ἐκεῖνό µοι φράσον,6/6ἔβαψας ἔγχος εὖ πρὸς Ἀργείων στρατῷ;) inaugura la serie di domande con cui Atena interroga Aiace sul folle gesto da lui compiuto nella notte appena conclusa; e in Ar. Ran. 1454 (τὴν πόλιν νῦν µοι φράσον6/6πρῶτον τίσι χρῆται· πότερα τοῖς χρηστοῖς;) introduce lo scambio di battute tra Eschilo e Dioniso, che porterà il tragediografo a dare il consiglio migliore per la salvezza della città e a tornare sulla terra con il dio. θύρσον(Simbolo per eccellenza dei partecipanti ai riti bacchici, “wand wreathed in ivy and vine-leaves with a pine-cone at the top, carried by the devotees of Dionysus” (LSJ s.6v.), agitato con violenza durante le processioni, 2 come dimostra ad es. Eur. Bacch. 80 (su cui Dodds 1960 , p. 77); cfr. anche ibid. 5536s. e trag. adesp. F 406 Kannicht–Snell. V. anche l’epiteto θυρσοτινάκτα, riferito a Dioniso stesso, in Hymn. Orph. 52, 3. κροκωτόν(Come aggettivo in Pind. Nem. Ι 38 (Ἥραν κροκωτὸν σπάργανον ἐγκατέβα), ma, nel suo utilizzo prevalente, ha sottointeso χιτών (LSJ s.6v.) e ha valore di sostantivo. Indica una veste dal colore giallo zafferano, la ϲui peculiare tonalità, nota già dai poemi omerici (κροκόπεπλος in Θ 1, Τ 1, Ψ 227, Ω 695) si otteneva tramite un processo di tintura naturale (Blümner I, pp. 225–259); questo colore è associato spesso ad un’idea di lussuria e ricchezza, cfr. Aesch. Pers. 660 κροκόβαπτον ποδὸς εὔµαριν ἀείρων (su cui v. Garvie 2009, p. 269 ϲhe richiama le analoghe κρόκου βαφάς di Ifigenia in Aesϲh. Ag. 239 e, ancora, i paralleli di Eur. Phoen. 1491 [su cui Mastronarde 1994, p. 565] e Pind. Nem. I 38, v. supra). Il κροκωτός era tipico dell’ornamento femminile, v. Ar. Nub. 51, Lys. 44–51, 6646s., Eϲϲl. 138, 253, 332, 879, 939–945, Aesϲh. Ag.

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239 (ma cfr. Fraenkel 1950, II p. 1376s.), Eur. Hec. 468, Phoen. 1491, cfr. anϲhe 2 2 IG II 1514. 58–62 (simile IG II 1527.44) dove un κροκωτός è menzionato ϲome oggetto di dedica femminile presso il tempio di Brauron; era la veste tipica che le donne indossavano per le cerimonie pubbliche, v. Stone 1977, p. 1746s. e che, per questo, indossa il parente di Euripide nelle Tesmoforiazuse (v. 253, ϲfr. 939–945) per infiltrarsi alla festa delle Tesmoforie. Talora è associato a scene di seduzione, cfr. Lys. vv. 44–51 e 219 e Eccl. 879 (dove una vecchia lo indossa nella speranza di accalappiare giovani passanti) e può essere indossato anche da uomini effeminati, cfr. Arar. fr. 4 K.–A. παρθένος δ’ εἶναι δοκεῖ6/6φορῶν κροκωτούς καὶ γυαικείαν στολήν (cfr. infra schol. ad Ar. Ran. 45). Il κροκωτός era, inoltre, tipico dell’abbigliamento di Dioniso come testimonia Ar. Ran. 45 λεοντῆν ἐπὶ κροκωτῷ κειµένην con lo schol. ad loc.: κατὰ µίµησιν Ἡρακλέους ἐνδύεται µὲν λεοντήν, λαµβάνει καὶ ῥόπαλον, φορεῖ δὲ καὶ στολὴν τὴν διονυσιακὴν τὴν θηλυπρεπῆ τε καὶ ἔκλυτον, κροκωτόν, ποικίλον ἱµάτιον, οὐ στρατιώταις οἰκεῖον, ἀργοῖς δὲ καὶ τρυφῶσι καὶ πλέον γυναιξίν, ἀνειµένον; v. anche Sud. ο 991 (διονυσιακὸν φόρηµα ὁ κροκωτός), Callix. FGrHist 627 F 2 (v. infra a ποικίλον) e le raffigurazioni in LIMC III.1, figg. 84, 87, 111. Sul κροκωτός cfr. ancora Dover 1993, p. 40 e Mastromarϲo–Totaro 2006 p. 564 n. 6 e cfr. p. 312, n. 9 e 452 n. 23. Il fatto che una veste tipicamente femminile o propria di uomini effeminati fosse attributo di Dioniso, si interpreta verisimilmente in riferimento alla ἀρσενόθηλυς del dio, cfr. Segal 1982, p. 40. ποικίλον(Come aggettivo sostantivato ποικίλον designa, in diverse fonti, un capo tipico dell’abbigliamento di Dioniso: un chitone secondo Poll. VII 47 τὸ δὲ ποικίλον ∆ιονύσου χιτὼν βακχικός, un himation secondo Hsch. π 2717 L.: ποικίλον⋅ ἱµάτιον ζωγραφητόν, Phot. π 1005 ποικίλον· τὸ ∆ιονυσιακὸν ἱµάτιον οὕτως ἐλέγετο; An. Graeca I, p.  289,22 Bekker (che unisce le due definizioni di mantello dipinto e mantello di Dioniso) ποικίλον⋅ δαιδάλεον, πανοῦργον. λέγεται δὲ καὶ τὸ ∆ιονυσιακὸν ἱµάτιον. La notizia di Polluce non si può rifiutare, ma la definizione del ποικίλον come ἱµάτιον (mantello), appare preferibile in questo frammento di Cratino “since the god’s inner garment has already been mentioned” (Olson 2007, p. 91). In riferimento a Dioniso, il poikilon è menzionato in Eup. fr. 280 K.–A. (Taxiarchoi) ἀντὶ ποικίλου6/6πιναρὸν ἔχοντ᾽ ἀλουτίᾳ6/6κάρα τε καὶ τρίβωνα (si parla quasi sicuramente di Dioniso, v. Storey 2003, pp. 247 e 255). Il fatto che in schol. in Ar. Ran. 45 (cit. supra), il κροκωτός sia definito ποικίλον ἱµάτιον (mantello variopinto), non inficia il valore sostantivato di ποικίλον, presente nelle fonti discusse e senz’altro da preferire (cfr. Interpretazione). Per ποικίλος cfr. infra fr. 42 K.–A. καρχήσιον(Athen. XI 474f e Macrob. V 21 riportano la spiegazione di Asclepiade di Mirlea che carchesio, come nome di un tipo di coppa, derivi

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Cratino

da una parte dell’attezzatura della nave199; la possibilità opposta è sostenuta dall’etimologia moderna (GEW s.6v., DELG s.6v.) e potrebbe essere confermata dal fatto che la più antica attestazione è nel significato di coppa (Sapph. fr. 141 V. καρχάσι’ ἦχον) e la prima, invece, come “mast-head of a ship, through which the halyards worked” (LSJ s.6v.) in Pind. Nem. V 506s. (ἀνὰ δ’ ἱστία τεῖνον6/6πρὸς ζυγὸν καρχασίου). Una descrizione del carchesio è in Athen. XI 474d-475c. Secondo Callissino di Rodi FGrHist 627 F 3, qui citato, ποτήριόν ἐστιν ἐπίµηκες, συνηγµένον εἰς µέσον ἐπιεικῶς, ὦτα ἔχον µέχρι τοῦ πυθµένος καθήκοντα (“una coppa di forma allungata, che si restringe leggermente nella parte centrale, con le anse che si estendono fino alla base”, trad. R. Cherubina in Ateneo III, p. 1172), motivo per cui Boardman 1979 identifica il carchesio con un tipo di kantharos; Athen. XI 488f (che si fonda su Asclepiade di Mirlea, v. 488a) cataloga, invece, il carchesio sotto la tipologia dei vasi a base doppia (insieme a ooskyphia, kantharia e Seleukides). Per questo Love 1964, pp. 209–10 e 216 ipotizza una evoluzione di questa coppa da una base piatta ad una a stelo, il che “consentirebbe di conciliare la descrizione di Callissino con l’affermazione di Asclepiade di Mirlea che inserisce il καρχήσιον tra i vasi a doppia base, quella naturale e una applicata, lo stelo appunto” (Cherubina in Ateneo III, p. 1172 n. 2). Sporadiche le attestazioni del termine nel V e IV sec. a.6C.: nel senso di vela ad es. Eur. Hec. 1261, in quello di coppa Aesch. fr. 61a R. (cfr. Radt ad loc. [TrGF 3, p. 183.]), Soph. fr. 660 R., Antiph. fr. 223,4 K.–A. (Chrysis); un gioco sul doppio significato in Epicr. fr. 10 K.–A. (inc. fab.). Il carchesio è menzionato in riferimento a Dioniso (insieme al κροκωτός) in Callix. FGrHist 627 F 2 (descrizione di una processione in onore di Tolemeo Filadelfo): ἄγαλµα ∆ιονύσου δεκάπηχυ σπένδον ἐκ καρχησίου χρυσοῦ, χιτῶνα πορφυροῦν ἔχον διάπεζον καὶ ἐπ’ αὐτοῦ κροκωτὸν διαφανῆ· περιεβέβλητο δὲ ἱµάτιον πορφυροῦν χρυσοποίκιλον. V. anche Interpretazione (carchesio come dono di Zeus ad Alcmena).

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Athen. XI 474 f Ἀσκληπιάδης δ’ ὁ Μυρλεανὸς κεκλῆσθαί φησιν αὐτὸ ἀπό τινος τῶν ἐν τῇ νηὶ κατασκευασµάτων. ‘τοῦ γὰρ ἱστοῦ τὸ µὲν κατωτάτω πτέρνα καλεῖται, ᾗ ἐµπίπτει εἰς τὴν ληνόν, τὸ δ᾽ οἷον εἰς µέσον τράχηλος, τὸ δὲ πρὸς τῷ τέλει καρχήσιον. ἔχει δὲ τοῦτο κεραίας ἄνωθεν νευούσας ἐφ᾽ ἑκάτερα τὰ µέρη, καὶ ἐπίκειται τὸ λεγόµενον αὐτῷ θωράκιον, τετράγωνον πάντῃ πλὴν τῆς βάσεως καὶ τῆς κορυφῆς· αὗται δὲ προὔχουσι µικρὸν ἐπ’ εὐθείας ἐξωτέρω. ἐπὶ δὲ τοῦ θωρακίου εἰϲ ὕψος ἀνήκουσα καὶ ὀξεῖα γιγνοµένη ἐστὶν ἡ λεγοµένη ἠλακάτη. Macrob. V 21.5 Asclepiades autem, vir inter Graecos adprime doctus ac diligens, carchesia a navali re existimat dicta. ait enim navalis veli partem inferiorem πτέρναν vocari, mediam ferme partem τράχηλον dici, summam vero partem carchesium nominari et inde diffundi in utrumque veli latus ea quae cornua vocantur.

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fr. 41 K.–A. (3 Dem.) εὐθὺς γὰρ ᾑµώδεις ἀκούων τῶν ἐπῶν τοὺς προσθίους ὀδόντας Subito infatti sentendo queste parole avevi un prurito ai denti davanti Phot. (b, z) α 629 αἱµωδεῖν∙ καὶ τούτῳ προσεκτέον τὸν νοῦν. οἱ γὰρ πολλοὶ αἱµωδιᾶν λέγουσιν ὥσπερ κυλοιδιᾶν, τοῦ Κρατίνου ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ ἀπὸ τοῦ αἱµωδῶ κλίνοντος∙ εὐθὺς— ὀδόντας. αἰµωδεῖν δὲ οἱ Ἀττικοὶ τὸ τοῦς ὀδόντας µετὰ κνησµοῦ τινος ἀλγεῖν aimōdein: e bisogna prestare attenzione anche a questo. Molti infatti dicono aimōdian come kuloidian, sebbene Cratino nel Dionysalexandros lo declini da aimōdō: subito— davanti. Gli Attici infatti (dicono) aimōdein il provare dolore ai denti per una qualche irritazione

Metro(Trimetri giambici

llkl ll|kl llkl llkl klk

Bibliografia(Crönert 1907, p. 480, Reitztenstein 1907, p. 53, Thieme 1908, p. 186s., Solmsen 1909, p. 26 e n. 1, Koerte 1911, p. 257, Demiańczuk 1912, p. 33, Pieters 1946, p. 170, 182, 189, Pieters apud Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 142, Edmonds FAC I (1957), p. 346s. (37A), Kassel–Austin PCG (1983), p. 142, Casolari 2003, p. 105, Olson 2007, p. 91, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(Il frammento di Cratino è citato come esemplificazione dell’impiego della forma verbale αἱµωδεῖν, contro quella αἰµοδιᾶν di uso più comune (la correzione di ἀπὸ τοῦ αἱµωδῶ di Fozio in ἀπὸ τοῦ αἱµωδεῖν, proposta da Reitzenstein 1907200, non appare necessaria: il testo di Fozio è infatti chiaro in ciò che vuole dimostrare e dalla citazione di Cratino e dalla 200

Questa proposta di Reitzenstein si trova nei Nachträge und Berichtigungen dell’edizione di Fozio (Reitzenstein 1907) che precedono la prima pagina dell’edizione del testo. Questa pagina è indicata da Kassel e Austin in PCG IV, p. 142 ad loc. come “Reitz. p. liv”. Non sono, in realtà, certo di questa numerazione poiché la pagina corrispondente alla sei brevi note dei Nachträge und Berichtigungen (che si riferiscono al testo e non alla prefazione) è priva dell’indicazione del numero, collocata tra la fine della prefazione (numerata da V a LIII in numeri romani) e il testo greco di Fozio il cui inizio di numerazione araba coincide con la prima pagina del testo greco stesso.

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Cratino

spiegazione che la segue). Secondo Reitzenstein ci sono due possibili fonti per il testo della glossa di Fozio: a) per la pericope tra il lemma e la citazione del frammento di Cratino compresa (αἱµωδεῖν—ὀδόντας), Phryn. praep. soph. p. 14,3 αἱµωδεῖν ἀττικώτερον. λέγεται δὲ καὶ αἱµωδιᾶν, non però nella forma compendiata che leggiamo oggi, ma in quella estesa in 37 libri verisimilmente nota a Fozio (cfr. de Borries 1911, p. IV) che da qui potrebbe aver dedotto la citazione di Cratino, oggi non più presente (Reitzenstein 1907, p. 53); b) per la pericope successiva, αἱµωδεῖν—ἀλγεῖν, Metodio, conservato in Et. Gen. B s.6v. (Reitzenstein 1897, p. 43), da cui dipendono anche le altre fonti lessicografiche, testimoni della medesima informazione: Et. Magn. 35,16, Lex. Αἰµ. 617,30, Hsch. α 1970, Sud. αι 208 (II p. 171), Greg. Corinth. schol. ad Hermog. 7,1136,17 Walz, Phot. η 77 (†ἡθµωδεῖν†). Le testimonianze lessicografiche di Phot. α 629 e Phryn. praep. soph. p. 14,3 informano che ἀττικώτερον è il verbo coniugato secondo la forma αἱµωδέω, invece di αἱµωδιάω, impiegato da molti. Per le due forme αἱµωδεῖν e αἱµωδιᾶν, si rileva che: a) αἱµωδεῖν nell’attico di V sec. a.6C. non ha altre attestazioni al di fuori di questa di Cratino, b) αἱµωδιάω non occorre mai nell’attico di V sec. a.6C., ma è di comune impiego nella prosa ionica del Corpus Hippocraticum (ad es. Int. 6, 12 τοὺς ὀδόντας αἱµωδιᾷ, cfr. Morb. II 55.5, 73,6; ma in Hum. V 490.1 µύλης µὲν τριφθείσης πρὸς ἑωυτὴν, ὀδόντες ᾑµώδησαν e Mul. 128,4 καὶ τοὺς ὀδόντας αἱµωδέειν ποιέει) e da qui, verisimilmente, si trova nella prosa attica di IV sec. a.6C., ad es. in Aristot. Probl. 886b 12 αἱµωδιῶµέν τε γὰρ τοὺς ὀξὺ ὁρῶντες ἐσθίοντας (cfr. αἱµωδία: Probl. 863b 11 διὰ τί τὴν αἱµωδίαν παύει ἡ ἀνδράχνη καὶ ἅλες), cfr. Solmsen 1909, pp. 25–27 e n. 2. La forma αἱµωδιάω ricorre anche in Timocl. (IV sec. a.6C., cfr. PCG VII, p. 754) fr. 11, 7 K.–A. (Epichairekakos) ᾑµωδία. Testo(Per la grafia del verbo glossato è incerto se si debba scrivere αἱµωδεῖν o αἱµῳδεῖν e, di conseguenza, ᾑµῴδεις (Demiańczuk 1912, p. 33, Edmonds FAC I, p. 34) o ᾑµώδεις (da Kassel–Austin PCG IV, p. 142 in poi) in Cratino. La forma αἱµῳδεῖν è accettata da Reitzenstein 1907, p. 53 rr. 16–20 e de Borries 1911; αἱµωδεῖν da Theodoridis 1982, p. 71 (α 629), secondo cui la scelta editoriale di Reitzenstein “incertum est an e cod. b” e Solmsen 1909, p. 26 e n. 1, che propone come possibile origine della forma con ι sottoscritto un’influenza dell’altro verbo κυλοιδιᾶν nel medesimo manoscritto b. Se l’etimologia del termine non è di aiuto (cfr. Solmsen 1909, p. 26 n. 1), la testimonianza del cod. z di Fozio, edito da Theodoridis, e una tradizione manoscritta di diversi testimonia essenzialmente univoca nel riportare la forma verbale (e così sostantivi e aggettivi connessi) senza ι sottoscritto (v. i passi discussi a ᾑµώδεις), rendono assai verisimile l’ipotesi di Solmsen di una influenza di κυλοιδιᾶν e la maggior bontà di αἱµωδεῖν rispetto a αἱµῳδεῖν.

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Interpretazione(Tre gli elementi da considerare: a) il valore del verbo ᾑµώδεις (v. infra ad loc.); b) il soggetto a cui si riferiscono sia ᾑµώδεις che il nesso ἀκούων τῶν ἐπῶν; c) la persona loquens del frammento. Si può intendere: 1) αἱµωδέω = ‘avere l’acquolina in bocca’. Accetta questa interpretazione Pieters ms. apud Kassel-Austin PCG IV, p. 142 ad loc. secondo cui è descritto Dioniso “qui aegre se contineat quin condicionem sibi blandissimam accipiat”, cfr. Olson 2007, p. 91: “Dionysus’ reaction when one of the goddesses attempted to bribe him to judge her the most beautiful and he had trouble containing himself”; nel medesimo senso si potrebbe intendere anche un riferimento alla possibilità di Dioniso di sostituirsi a Alessandro ed eventualmente vedere le dee nude (cfr. p. 2166s.) e quindi collocare il frammento o già al momento della sostituzione dopo l’agone ovvero, più probabilmente, nella scena del giudizio delle dee (hyp. col. I, rr. 12–19). Il nesso ἀκούων τῶν ἐπῶν può riferirsi indifferentemente ad entrambe le possibilità; a parlare potrebbe essere o Hermes o uno dei coreuti o una delle dee (se queste non erano κωφὰ πρόσωπα, cfr. p. 2336s.), che commentano il comportamento di Dioniso. 2) αἱµωδέω = ‘avere paura’. In questo caso, soggetto di ᾑµώδεις dovrebbe essere Dioniso e il contesto quello in cui il dio è trasformato in ariete e il vero Alessandro lo cerca e lo smaschera: così Crönert 1907, p. 480, Thieme 1908, p. 19, Koerte 1911, p. 257, Demiańczuk 1912, p. 33. In alternativa si può pensare alla scena conclusiva del dramma in cui Dioniso viene consegnato agli Achei (hyp. col. II, rr. 40–44). In entrambi i casi ἀκούων τῶν ἐπῶν potrebbe riferirsi ad una minaccia verbale di Alessandro: nel primo caso, forse, una minaccia di tosatura a cui possono rimandare i frr. 39 e 48 K.–A., nel secondo all’affermazione stessa della consegna agli Achei. A parlare potrebbero essere, in questo caso, o Alessandro o uno dei coreuti. Senz’altro da escludere l’ipotesi di un riferimento ad Alessandro spaventato alla vista delle dee, cfr. Thieme 1908, p. 19: la presenza scenica di questi all’inizio della commedia e la sua fuga per horror sacri è, infatti, poco probabile, cfr. p. 2176s. εὐθὺς γάρ(Ιndica le prime conseguenze di un determinato evento, come ad es. in Ar. Ran. 126 dove è utilizzato per le parti bassi del corpo che si gelano per prime in seguito all’assunzione della cicuta (cfr. la descrizione della morte di Socrate in Plat. Phaed. 117e–118a dove si dice chiaramente che l’intorpidimento delle membra comincia dal basso, dai piedi). Kassel–Austin PCG IV, p. 142 richiamano Ar. Ach. 638 εὐθὺς διὰ τοὺς στεφάνους ἐπ’ ἄκρων τῶν πυγιδίων ἐκάθησθε e Lys. 201 ταύτην µὲν ἄν τις εὐθὺς ἡσθείη λαβών, “similiter usurpatum” per εὐθύς che indica un rapporto di immediata causa/ effetto di una data azione; ad inizio di trimetro giambico εὐθὺς γάρ (limitata-

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Cratino

mente alla commedia) in Ar. Eq. 625, Vesp. 1304, Ran. 126, 137, 1135, Pherecr. fr. 40 K.–A. (cfr. v. inoltre Ar. Nub. 1047, Eupol. fr. 392,2 K.–A., Men. Dysk. 525). ᾑµώδεις(L’etimologia del verbo non è chiara; possibile che “le mot est un composé dont le second terme serait apparenté a ὀδών” (GEW, DELG s.6v.); secondo Solmsen 1909, pp. 25–36 il primo elemento può essere *αἱ-µος, da rapportare ad analoghi con il significato di ‘dolore’ (cfr. GEW s.6v. “germ. *saira, in got. sair, ahd. sēr ‘Schmerz’”). Una derivazione da αἷµα in Et. Magn. 35, 16 (da Metodio): αἱµωδιᾶν∙ τὸ τοὺς ὀδόντας ὀδυνᾶσθαι µετὰ κνήσµου ὡς αἱµάσσεσθαι παρὰ τὸ αἶµα. αἱµωδία γὰρ λέγεται ἡ τῶν ὀδόντων νάρκη. οὕτως Μεθόδιος. Il significato base di αἱµωδέω è ‘avere una irritazione ai denti’ (LSJ s.6v. ‘have the teeth set on edge’); le attestazioni prevalenti del verbo sono, infatti, in ambito medico, a partire dal Corpus Hippocraticum (Int. 5,12, Hum. 5, 490.1, Morb. 2,55, ibid. 73,6, Mul. 128.4) e poi Aristotele (Probl. 886b 12, 863b 11 etc.), v. anche [Gal.] Aff. vol. 8, p. 86,12 Kühn, ibid. 91,6 etc. e Ael. Her. Part. p. 32,6 Boissonade: αἱµωδιὰ, ἡ νάρκη τῶν ὀδόντων· αἱµωδιῶ, τὸ ναρκῶ (cfr. Fozio testimone del frammento e Hsch. α 1970 infra). Per l’utilizzo del verbo con l’accusativo, v. ad es. i già citati Hipp. Int. 5,12 τοὺς ὀδόντας αἱµωδιᾷ = Morb. 2,55, 73,6 etc. In commedia l’unica altra attestazione di questo verbo è Timocl. fr. 11, 5–7 K.–A. (Epichairekakos) ἦν δὲ τὸ πάθος γελοῖον, οἴµοι, τέτταρας6/6χαλκοῦς ἔχων ἅνθρωπος, ἐγχέλεις ὁρῶν,6/6θύννεια, νάρκας, καράβους ᾑµωδία, dove è usato metaforicamente e vale ‘‘avere l’acquolina in bocca’ cfr. LSJ s.6v. ‘metaph. of one whose mouth waters’ (Corido, nominato in precedenza al v. 3, disgraziato parassita, non invitato a un banchetto vuole comprare del pesce per proprio conto; al mercato osserva tutte le primizie e “aveva l’acquolina in bocca” [ᾑµωδία], ma quando ne sente il prezzo si rivolge di corsa a comprare lo spratto [v. 9], pesce di poco valore [cfr. Athen. VII 287 b–f]). Questo stesso potrebbe essere il valore anche in Cratino. In alternativa, è stato proposto il significato di ‘avere paura’ (per primi Thieme 1908, p. 18 e Demiańczuk 1912, p. 33), per il confronto con Plaut. Amph. 2956s. perii, dentes pruriunt; certe aduenientem hic me hospitio pugneo accepturus est; l’espressione dentes pruriunt è usata spesso in Plauto per indicare timore (Poen. 13156s., Mil. 397; eccitamento in Bac. 1193, cfr. Christenson 2000, p. 200) e Thieme confronta Ar. Ran. 547 πὺξ πατάξας µοὐξέκοψε τοῦ χοροῦ τοὺς προσθίους e Phryn. fr. 73 K.–A. (inc. fab.) τοὺς δὲ γοµφίους6/6ἅπαντας ἐξέκοψεν, dove, però, si parla solo del ‘far saltare’ (ἐκκόπτειν) i denti, non del prurito (cfr. Stama 2014, pp. 333–336)201. Ad una sensazione di paura fa riferimento 201

Secondo lo stesso Thieme (ibid.) “probatur sane haec sententia eo, quod Photius [α 629] addit ‘µετὰ κνησµοῦ’; ma κνησµός vale ‘prurito, irritazione’ (LSJ s.6v.) e

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 41)

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l’unica altra attestazione del nesso ἀκούων τῶν ἐπῶν (Luc. XX [Iupp. conf.] 4,15, v. infra), ma appare molto dubbio poter usare questo passo per sostenere l’ipotesi αἰµωδέω = ‘avere paura’. Si richiama, infine, Hsch. α 1970 αἱµωδιᾶν· τὸ τοὺς ὀδόντας ναρκᾶν ἀπὸ ὀράσεως ἢ ἀκούσµατος, che fa quasi certamente riferimento ad un valore metaforico del verbo; secondo Kassel–Austin PCG IV, p. 142 ἀπὸ ὀράσεως rimanda all’occorrenza di Timocle e, similmente, si potrebbe supporre che ἀκούσµατος rimandi all’uso di Cratino, ma ciò non è dimostrabile e questa testimonianza non fornisce, in ogni caso, informazioni sul significato. Sia in Cratino che in Timocle si ha, comunque, al di là del valore specifico, un uso traslato del verbo (v. supra) che si può intendere come uno dei tecnicismi del lessico medico passati in commedia come “indice del crescente interesse per la scienza ippocratica che si andava diffondendo nel V sec. a.6C.” (Sonnino 2007, p. 29; per il linguaggio medico in commedia, v. Miller 1945, Rodrìguez Alfageme 1981, Zimmermann 1992 [~ 2005], Rodrìguez Alfageme 1995, Jouanna 2000); ἀκούων τῶν ἐπῶν(Questo nesso ricorre identico in Luc. XX (Iupp. conf.) 4,15 τότε µὲν οὖν θαυµάσιος ἐδόκεις µοι τὴν βίαν καὶ ὑπέφριττον µεταξὺ ἀκούων τῶν ἐπῶν, dove è impiegato dal locutore Cinisco per indicare la sensazione di paura che provò nel leggere i versi (ἔπος è qui da intendere nel suo senso tecnico) di Omero in cui Zeus minaccia gli altri dei e ribadisce la propria superiore forza; per occorrenze con composti di ἀκούω (in contesti differenti), v. Ar. Av. 966 εἰσακοῦσαι τῶν ἐπῶν (e già anche Theogn. II 1321 τῶνδ’ ἐπάκουσον ἐπῶν καὶ ἐµὴν χάριν ἔνθεο θυµῶι e II 1366 στῆθ’ αὐτοῦ καί µου παῦρ’ ἐπάκουσον ἔπη). προσθίους(Πρόσθιος (derivato dall’avverbio πρόσθεν, DELG s.6v.) indica propriamente tutto ciò che sta davanti, in senso generico e in opposizione a ὀπίσθιος, cfr. Aristot. HA II 493a καὶ τούτου (sc. θώρακος) τὸ µὲν πρόσθιον µέρος λάρυγξ τὸ δ᾽ ὀπίσθιον στόµαχος. Può essere impiegato per diverse parti del corpo, ad es. le zampe anteriori del cane in Xen. Cyn. IX 19 (v.l. con ἐµπρόσθιος, ma con analogo significato, in Hdt. II 69.2 e Plat. Tim. 91e) ma, in particolare per i denti, ad indicare gli incisivi, detti anche ἐµπρόσθιοι ὀδόντες, cfr. Ar. Ran. 5476s. (v. supra) in opposizione anzitutto ai molari, γόµφιοι o µύλοι ὀδόντες (Ar. Pac. 34 con Olson 1998, p. 73, Ran. 5726s., Stama 2014, p. 335 ad Phryn. fr. 73,1 K.–A. [inc. fab.], etc.) ma anche ai canini, κυνόδοντες, cfr. Hp. Aph. IV, 498, Aristot. HA II 501b 16–19, Epich. fr. 18, 3 K.–A. (Bousiris).

rimanda al valore del verbo in senso tecnico medico (v. supra), ma non conferma l’argomento dell’irritazione ai denti dovuta alla paura.

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Cratino

fr. 42 K.–A. (42 K.) παραστάδας καὶ πρόθυρα βούλει ποικίλα 1

2

1

1

2

βούλει A, CL: βουλη FS: βουλῇ C: βούλοι FS

Vuoi stipiti e portici variopinti 1

Poll. VII 122 (codd. FS, A, C) τὰ δὲ τὴς θύρας ξύλα τέτταρα ὠνόµαζον, καὶ τὸ ἐντὸς τῶν θυρῶν γενέσθαι ἐντὸς τῶν τεττάρων. τὰ δὲ ὑπέρθυρα ὑπερτόναια. Κρατῖνος δ᾽ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ παραστάδας—ποικίλα E chiamavano le (parti) della porta tettara xyla (quattro legni) e ciò che sta all’interno delle porte è incluso in questi quattro. e (chiamavano) gli yperthyra (architravi) upertonaia. Cratino nel Dionysalexandros: vuoi—variopinti 2

Poll. X 25 (codd. FS, CL) (X 22) τῶν δὲ σκευῶν εἰ πρῶτα τὰ περὶ τὰς θύρας ῥητέον […] ἐν δὲ Κρατίνου ∆ιονυσαλεξάνδρῳ εἴρηται∙ παραστάδας—ποικίλα E bisogna parlare anche delle porte, se in precedenza queste (sono state discusse) […] e nel Dionysalexandros di Cratino è stato detto: vuoi—variopinti

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 166s. (fr. VII), Meineke FCG II.1 (1839), p. 42 (fr. IX), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 9) Kock CAF I (1880), p. 25, Koerte 1904, p. 493, Thieme 1908, p. 17, Robert 1918, p. 166, Pieters 1946, p. 127 e n. 423, 165, 170, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Marzullo 1962, p. 550 n. 1, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 143, Casolari 2003, p. 102, Olson 2007, p. 90, Bakola 2010, p. 258, Henderson 2011, p. 183, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(Poll. VII 122 è all’interno di una sezione in cui si discute dei componenti degli edifici, µέρη οἰκοδοµηµάτων (VII 121), a sua volta parte del τὸ τῆς οἰκοδοµικῆς ἔργον (VII 119), sottosezione del tema generale del libro settimo che concerne artigiani e mestieri. All’inizio di VII 122 sono ricordate le κιγκλίδες, εἴδη θυρῶν (un portone del δικαστήριον o del βουλευτήριον, Ar. Eq. 641, Vesp. 124, LSJ s.6v.); si menzionano poi i componenti della porta che venivano chiamati ξύλα τέτταρα (cfr. Hsch. τ 668 τέτταρα ξύλα· ἐπὶ τῆς θύρας οὕτω λέγουσιν Ἀττικοί); di seguito, le architravi e si registra un’equivalenza linguistica tra due sostantivi (ὑπέρθυρον è utilizzato sin da

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 42)

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Omero, nella forma ὑπερθύριον, ὑπέρθυρον è regolare in prosa; ὑπερτόναιον è attestato solo per via epigrafica e in Polluce [su entrambi cfr. LSJ s.6v.]). Si inserisce qui, senza ulteriori specificazioni, la citazione di Cratino che contiene due sostantivi, παραστάς e πρόθυρον; entrambi sono riferibili a parti degli edifici (µέρη οἰκοδοµηµάτων) e non è dunque possibile specificare se Polluce citi il frammento per attestare l’uno o l’altro dei due sostantivi, o anche entrambi. Inoltre, in Cratino παραστάς vale senz’altro ‘stipite’, come è chiaro dalla seconda citazione di Polluce (v. infra) e dalla sua ricorrenza insieme a πρόθυρα, ma, poiché παραστάς vale sia ‘stipite’ sia ‘vestibolo’ (cfr. comm. a παραστάδες) ed entrambi i significati possono essere riferiti a parti dell’edificio, rimane incerto se Polluce intenda in VII 122 παραστάς nel significato di ‘stipite’ o in quello di ‘vestibolo’, come potrebbe indicare anche il fatto che subito dopo sia citato Xen. Mem. ΙΙΙ 8.9 per παστάς di cui è attestata l’equivalenza a ἐξέδρα202. Poll. Χ 25 è in una sezione che riguarda gli σκεύη della porta (Χ 22), parte della generale discussione sugli σκεύη tema del libro (cfr. Χ 2). Precedono il fr. 81 K.–A. di Platone comico (Metoikoi) ricordato per l’attestazione di κλειδίον (su cui cfr. Pirrotta 2009, p. 187), e la menzione di alcuni nomi con cui venivano chiamate le porte e alcune loro specifiche tipologie; il frammento di Cratino contiene il riferimento a una parte specifica della porta, le παραστάδες ‘stipiti’ e, dato il contesto in cui si inserisce (gli σκεύη della porta), si intende verisimilmente citato proprio per questo sostantivo nel suo significato di ‘stipite’ (altrimenti non si comprenderebbe il perché della citazione del frammento tra gli σκεύη della porta), e non per πρόθυρον, che indica lo spazio antistante la porta (v. ad loc.). Testo(La diversità delle forme in cui è tradita la voce verbale βούλει si imputa senz’altro a ragioni di itacismo. Tra βούλει e βούλῃ, le uniche da prendere in considerazione, la prima è forma attica ed è dunque da preferire, v. Kühner– Gerth I, p. 536, Schwyzer I, p. 668, Threatte 1980, p. 380. Interpretazione(“Someone (the disguised Dionysus? Helen?) is accused of wantig live like a king (or queen), sc. rather than a cowherd” (Olson 2007, 202

Il fatto che il contesto sia quello dei µέρη οἰκοδοµηµάτων può indurre a preferire il significato di ‘vestibolo’, più che di ‘stipite’, sebbene anche questo possa essere inteso come una parte dell’edificio. LSJ s.6v. παραστάς traducono con ‘doorposts’ l’occorrenza cratinea, ma registrano il passo di Polluce VII 122, che ne è fonte, sotto il significato di ‘space enclosed between the παραστάδες, vestibule or entrance of a temple or house’ e sembrano, quindi, implicare una distinzione di significati tra testimone e frammento citato (dove, come detto, il significato non è dubbio, per l’occorrenza di X 25, cfr. comm. a παραστάδες).

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Cratino

p. 90). Secondo Koerte 1904, p. 493 destinatario della seconda persona singolare βούλει è Dioniso e si può immaginare “dass Dionysos verirrt von einem Hirten aufgenommen in seiner üppigen Weichlichkeit den Schmutz und die Einfachheit der Behausung des Hirten übel aufnahm und mit den Fragmenten 42 […] und 39 (= 43) […] zurechtgewiesen wurde” (oppure Dioniso, sul monte Ida, osserva la dimora di Alessandro e dei pastori, la commenta così e ne ottiene in cambio questa risposta); chi sia la persona loquens rimane non specificato, ma potrebbe trattarsi di uno dei satiri componenti del coro (su questa possibilità, v. Bakola 2010, p. 2586s.) o un altro personaggio non identificabile presente in scena (Hermes?). Il contesto potrebbe essere o il momento in cui Dioniso arriva in scena e decide di prendere il posto di Alessandro oppure dopo il suo travestimento da Alessandro. In alternativa si può pensare che a parlare sia Dioniso e il destinatario sia Elena; questa, rapita dal suo lussuoso palazzo di Sparta e portata sul monte Ida nella semplice dimora di Alessandro, si lamenta della sua condizione e Dioniso/Alessandro le risponderebbe “tu vuoi stipiti e atri variopinti” (ovvero, se si accettano l’integrazione di un punto di domanda e il fr. 43 come risposta proposti da Pieters [v. infra], “vuoi stipiti e atri variopinti?” “No, ma (nemmeno) calpestare etc.”, cfr. infra fr. 43). In questo secondo caso il frammento si collocherebbe nella seconda parte della commedia, dopo il rapimento di Elena. Secondo Robert 1918, p. 166 il locutore del frammento si può identificare con Era, il destinatario con Dioniso e il contesto sarebbe quello in cui Era fa la sua offerta a Dioniso/Alessandro per cercare di ottenere la vittoria nell’agone di bellezza: stipiti e atri variopinti sarebbero parte di una generica ricchezza derivante della τυραννίς ἀκίνητος (hyp. col. I r. 146s.) che la dea offre. Analogamente Pieters 1946, p. 127 e n. 423 (cfr. p. 170) il quale propone, inoltre, di inserire un punto interrogativo dopo ποικίλα per ottenere in questo frammento una domanda alla quale risponderebbe il successivo fr. 43. V. anche infra p. 298, fr. 50, interpretato da Marzullo 1962, p. 550 n. 1 come continuazione dell’elenco di oggetti qui presenti. παραστάδας(“Prop. anything that stands beside” (LSJ s.6v.), derivato di παρίσταµαι. Poll. X 25 cita il frammento di Cratino all’interno degli σκεύη della porta e ciò garantisce che qui la citazione sia dovuta proprio al sostantivo παραστάς, da intendere quindi nel commediografo senz’altro nel significato di ‘stipite’ (come mostra anche il fatto che ricorra insieme a πρόθυρα, v. infra), testimoniato ancora in Poll. I 76 σταθµοὶ δὲ τὰ ἑκατέρωθεν ξύλα κατὰ πλευρὰν τῶν θυρῶν, ἃ καὶ παραστάδας φασίν, Hsch. π 676 παραστάδες· οἱ πρὸς τοῖς τοίχοις τετ[ρ]αµένοι κίονες, Sud. σ 996 σταθµῶν· τῶν παραστάδων τῆς θύρας. Rimane, invece, incerta l’occorrenza di Poll. VII 122, dove non si può escludere che παραστάς valga vestibolo (v. infra). Παραστάς = stipite è

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 42)

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presente (a parte le occorrenze lessicografiche citate) solamente in Cratino e, 2 a per via epigrafica, in IG II 1668,32 (IV ); nelle occorrenze letterarie di V sec. a.6C. παραστάς vale in senso esteso πρόδοµος, vestibolo o tempio della casa, v. Eur. Andr. 1121, Phoen. 415 (e il comm. di Valckenaer 1824, p. 214), Iph. Taur. 2 a 1159, Xen. Hier. ΧΙ 2 (v.l. con παστάς), v. anche IG II 1672, 131 e 186 (IV ) e cfr. Ap. Soph. p. 135, 27 προδόµῳ· τῇ πρὸ τοῦ οἴκου παραστάδι. πρόθυρα(“Means sometimes ‘entrance’ generally, or the space in the front of an entrance door, whether of the door from the outer world into the αὐλή or forecourt, or the door from the αὐλή itself into the µέγαρον”, PickardCambridge 1946, p. 75 in riferimento alle attestazioni in Omero (ad es. Ω 323, α 103, δ 493), cfr. Pesando 1987, pp. 35–41, Rougier–Blanc 2005, pp. 112–131; per un generico valore di spazio antistante la porta, cfr. ancora Pind. Pyth. III 78, Hdt. III 35, Thuc. VI 27 e nel teatro di V sec. a.6C. ad es. Aesch. Coeph. 966, Ar. Vesp. 802 (su cui MacDowell 1971, p. 280). Più specificamente può significare ‘portico’, cfr. LSJ s.6v. n. 2 ‘porch, portico’ che assegna questo valore a Cratino, nel quale è verisimilmente preferibile a quello generico di ‘atrio’, perché si sta parlando di qualcuno che pretenderebbe un ambiente lussuoso (v. infra a ποικίλα e cfr. Interpretazione), “‘doorposts and painted porticoes’, such as would be found in a palace” (Olson 2007, p. 90). ποικίλα(Da un ipotetico *ποῖκος, ricollegabile ad es. al skr. pésa- ‘ornamento’ (si suppone una radice i.e. *peik-/*pik-/*peig-, di incerto valore), con un suffisso –ίλος come in ναυτίλος ο ὀργίλος. Propriamente “de toutes couleurs” (metaforicamente “changeant, compliquè, subtil, astucieux), DELG s.6v., cfr. GEW s.6v. “bunt (farbig), bunt gearbeitet (gestickt, gewirkt, gewebt), mannigfaltig, gewandt, listig”, ma secondo Rinaudo 2009 originariamente non riferito all’ambito dei colori e da intendere nel senso di punteggiato, v. ad es. Hsch. β 496 βελονοποικίλτης· ὁ τῇ ῥαφίδι ὕφη ποιῶν καὶ ζωγραφῶν, Hsch. σ 1851 ~ Σ 228 ~ Phot. σ 555 ~ Sud. σ 1104 στίγµατα· πληγαί. ποικίλµατα, Phot. κ 237 = Sud. κ 513 κατάγραπτος· ποικίλος e, in commedia, ad es. le attestazioni di Ar. Av. 777 πτῆξε δὲ φῦλά τε ποικίλα θηρῶν (nel significato di molteplice, “s’acquattano tremanti le molteplici stirpi delle fiere”, trad. G. Mastromarco in Mastromarco–Totaro 2006, p. 199) e Hermipp. fr. 63.23 K.–A. Καρχηδὼν δάπιδας καὶ ποικίλα προσκεφάλαια (“Cartagine tappeti e cuscini variopinti”, trad. Pellegrino 2000, p. 196 di cui v. anche il comm. a p. 225). V. ancora Headlam 67 1922, p. 257 ad Herod. V 67 µιῇ δεῖ σε / ὁδῷ γενέσθαι ποικίλον e v. supra fr. 40,2 K.–A. Qui nel senso di ‘dipinto con vari colori’, riferito ai πρόθυρα, la cui pittura (e, in generale, quella di parti della casa) era un simbolo di lussuria (“quod tum temporis luxoriosum erat, in hac praesertim domus parte”, Kassel–Austin PCG IV, p. 143), v. Hermann 1834 e Robinson–Graham 1938, pp. 154–156 (cfr.

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Cratino

anche la notizia di [Andoc.] IV 17 che Alcibiade costrinse il pittore Agatarco a dipingere la sua casa).

fr. 43 K.–A. (39 K.) οὔκ, ἀλλὰ βόλιτα χλωρὰ καὶ οἰσπώτην πατεῖν οὐκ ἀλλὰ R: οὐ καλὰ Γƒƒƒβόλιτα Porson: βόλβιτα RΓ

No, ma calpestare cacca di bue (di asino) fresca e cacca di pecora Schol. (RΓ) Ar. Lys. 575 τὴν οἰσπωτήν· τοῦ ἐρίου ὁ ῥύπος οἰσπώτη λέγεται. καὶ Κρατῖνος ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ οὐκ—πατεῖν tēn oispōtēn: lo sporco della lana è chiamato oispōtē. E Cratino nel Dionysalexandros: no—lana

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 17 (fr. X), Meineke FCG II.1 (1839), p. 41 (fr. VI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 6) Kock CAF I (1880), p. 24, Koerte 1904, p. 493, Thieme 1908, p. 17, Pieters 1946, p. 127 n. 423, 170, Edmonds FAC I (1957), p. 346s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 143, Casolari 2003, p. 102, Olson 2007, p. 90, Bakola 2010, p. 259, Henderson 2011, p. 183, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(Il verso di Cratino è citato dallo scolio al v. 575 della Lisistrata di Aristofane (ἐκπλύναντας τὴν οἰσπώτην ἐκ τῆς πόλεως, ἐπὶ κλίνης), come spiegazione del raro termine οἰσπώτη, interpretato come τοῦ ἐρίου ὁ ῥύπος (lo sporco della lana); ma Oro B 118 e altre fonti danno per οἰσπώτη il valore di ‘sterco della pecora’ e questo appare preferibile nel frammento di Cratino per la sua ricorrenza accanto a βόλιτα ‘sterco di bue’ (e, verisimilmente, anche nel passo glossato di Aristofane), cfr. infra a οἰσπώτη. Testo(Tràdito è βόλβιτα (RΓ); Phryn. ecl. 334: βόλβιτον⋅ ὀλίγοι τινὲς λέγουσιν τῶν Ἀττικῶν, ἀλλὰ τούτου δοκιµώτερον ἄνευ τοῦ δευτέρου β (cfr. Hdn. Orthogr. II,1, p. 482,32, Philet. 41,1, schol. Ar. Ach. 1026a, Sud. β 366), attesta che βόλιτον è forma preferibile e questa è, di fatto, l’unica che si trova in attico ed è confermata dalla metrica (v. infra.); v. anche Philet. 41,1 βόλιτα οἱ Ἀττικοί·

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βόλβιτα οἱ ∆ωριεῖς e Hipp. fr. 144 W.2 tràdito da Et. gen. β 178 [= Sym. β 151, p. 956s.] a proposito del fatto che βόλβιτον sarebbe forma ionica: βόλιτον⋅ βόλβιτον δὲ Ἴωνες, οἵ τε ἄλλοι καὶ Ἱππῶναξ, οἷον ‘βολβίτου κασιγνήτην’ (cfr. Hipp. fr. 92,9 W.2 [PSI 1089]: παραψιδάζων βολβίτῳ). La lezione βόλιτα in Cratino è correzione già di Porson 1812, p. 284 e Lobeck 1820, p. 357 (con ampia documentazione); il sostantivo è raro, ma occorre, sempre nella grafia βολιτ-, in Ar. Ach. 1026 ἐν πᾶσι βολίτοις. (∆Ι.) εἶτα νυνὶ τοῦ δέει, Eq. 658 κἄγωγ’ ὅτε δὴ ᾽γνων τοῖς βολίτοις ἡττηµένος (cfr. Ran. 295 νὴ τὸν Ποσειδῶ, καὶ βολίτινον θἄτερον), tutti casi in cui la metrica conferma con certezza l’impiego di questa forma. Nel frammento di Cratino è, in realtà, possibile anche βόλβιτον, con conseguente anapesto in 3° sede (v. Descroix 1931, in part. p. 2206s. per l’anapesto di tipo kk|l e per βόλβιτᾰ dinanzi a χλωρά, con cosiddetta correptio attica tra due parole distinte, cfr. i casi sicuri di Ar.Vesp. 1132 τηνδὶ δὲ χλαῖναν ἀναβαλοῦ τριβωνικῶς e Ran. 1459 ᾗ µήτε χλαῖνα µήτε σισύρα ξυµφέρει e v. Kopp 1886 in part. pp. 249–252). Bόλιτα si può fondare, dunque, solamente sulla testimonianza di Frinico e sull’usus di Aristofane, ma βόλβιτα potrebbe essere conservato anche perché Frinico stesso non nega del tutto l’utilizzo di questa forma in attico, ma ne attesta un impiego minoritario (ὀλίγοι τινὲς λέγουσι τῶν Ἀττικῶν). Per καὶ οἰσπώτην di RΓ presenta un’obiettiva difficoltà il fatto che l’anapesto in quarta sede: a) sia un cosiddetto anapesto ‘strappato’, b) risulti ottenuto mediante l’abbreviamento di καί dinanzi a οἰσπώτην. Per quanto riguarda l’anapesto ‘strappato’, la forma k|kl non è rara specialmente in questa sede, cfr. Descroix 1931, pp. 213–221 (in part. per la commedia), Arnott 1957, p. 189; diversamente sembra difficile spiegare l’abbreviamento di καί: nel trimetro giambico, casi di abbreviamento di vocali lunghe occorrono all’interno di parola, come ad es. in ποιέω e simili (per consonantizzazione di ι, cfr. Radermacher 1929, Threatte 1980, vol. I p. 413, Kapsomenos 1990, Willi 2003, pp. 2366s.) o altrove, come ad es. in ἡµῖν (cfr. Sachtschal 1908, p. 12) ma nessun caso si ha di un abbreviamento di dittongo conclusivo di parola dinanzi a parola con inizio vocalico. Sembra preferibile, pertanto, l’adozione di una forma in crasi: κᾠσπώτην di Porson 1812, p. 284 per il confronto con Ar. Ran. 511: ἔφρυγε, κᾦνον ἀνεκεράννυ γλυκύτατον, o, forse meglio, κοἰσπώτην di Blaydes 1890, p. 5, cfr. ad es. Ar. Thesm. 349 κακῶς ἀπολέσθαι τοῦτον αὐτὸν κοἰκίαν (κοἰκίαν si preferisce a κᾠκίαν di Brunck, v. Austin–Olson 2004, p. 167); il tràdito καὶ οἰσπώτην può derivare da un originario κ᾽ οἰσπώτην dei codici per indicare la forma in crasi, cfr. Austin–Olson 2004, p. xciv per questo tipo di scrittura, una notazione che può aver dato luogo ad una confusione con un’abbreviazione di καί, ovvero semplicemente essere stata sciolta per motivi di chiarezza, e quindi essersi infiltrata nel testo.

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Cratino

Ingiustificata, infine, la proposta ancora di Blaydes 1890, p. 5 di alterare πατεῖν in φαγεῖν: si può, infatti, confrontare con Kassel–Austin PCG IV, p. 143 il simile Ar. Vesp. 259: ἀλλ’ οὑτοσί µοι βόρβορος φαίνεται πατοῦντι. Interpretazione(La persona loquens del frammento risponde negativamente (οὐκ ἀλλὰ) ad una domanda postagli evidentemente in precedenza e dice di non voler camminare (si può sottintendere un verbo tipo βούλοµαι o simili, reggente di πατεῖν) su cacca di bue o asino (βόλιτα) fresca e su cacca di pecora (οἰσπώτη), un doppio riferimento scatologico che stigmatizza verisimilmente le precarie condizioni igieniche di un dato luogo. Il frammento in sé non è contestualizzabile, data la genericità del suo contenuto; solo se si accetta una sua connessione con il precedente fr. 42, valgono le interpretazioni proposte per quest’ultimo, il quale dovrà, allora, necessariamente essere inteso come una domanda (così Pieters 1946, p. 127 e n. 423) per via di οὐκ ἀλλά presente nel fr. 43 K.–A. Secondo Pieters 1946, p. 170 (che riprende Robert 1918, p. 166) si tratterebbe di una laconica e scurrile risposta di Dioniso ad un’offerta di Era, di cui è parte il fr. 42; in alternativa si può pensare a Elena che si riferisce alla semplicità e rozzezza della dimora di Alessandro sul monte Ida, in opposizione al suo lussuoso palazzo di Sparta dal quale era stata rapita; ovvero, seguendo l’ipotesi di Koerte 1904, p. 493 (similmente anche Bakola 2010, p. 2596s.), sarebbe una risposta scurrile di Dioniso a un pastore (o ad altri) che lo accusava di volere una dimora lussuosa. οὔκ, ἀλλά(Risponde negativamente ad una domanda e propone l’alternativa del locutore, “negantis hoc est [sc. οὔκ, ἀλλά], quod alii potius scribunt οὐκ ἀλλά; obloquentis vero (et saepe simul augentis) est µὴ ἀλλά”, van Leeuwen 1902, p. 19 ad Ar. Av. 71 (il servo di Upupa si definisce ὄρνις δοῦλος [v. 70], Evelpide chiede se sia stato sconfitto da un gallo [v. 706s.; nei combattimenti tra galli, lo sconfitto si definiva δοῦλος, cfr. Dunbar 1995, p. 158 ad loc. e Mastromarco–Totaro 2006, p.  121 n. 14], il servo risponde negativamente con οὔκ ἀλλ᾽ [v. 71] che nega la domanda di Upupa e introduce la propria spiegazione). Cfr. anche Ar. Ach. 4246s. (ΕΥ.) Ἀλλ’ ἦ Φιλοκτήτου τὰ τοῦ πτωχοῦ λέγεις; (∆Ι.) Οὔκ, ἀλλὰ τούτου πολὺ πολὺ πτωχιστέρου. Ampiamente attestato in tragedia e commedia ad inizio verso, cfr. ad es. Eur. Alc. 50, Suppl. 107, Ar. Eq. 176, Nub. 204 etc. βόλιτα(Da βόλος, βολεών o da una dissimilazione di βόλβιτον, se questa è la forma originaria e si nega la testimonianza di Frinico (cfr. Testo), DELG s.6v., cfr. GEW, Beekes 2010 s.6v. ‘Sterco di bue’, in un elenco di denominazioni scatologiche in Poll. V 91 καὶ ἵππου κόπρον φασίν, βοὸς βόλιτον, ὄνου ὀνίδα καὶ ὄνθον (Ὄµηροϲ (Ψ 775) δὲ ὄνθον βοῶν ἔφη), χοίρων ὑσπέλεθον, προβάτων οἰσπώτην, αἰγῶν σφυράδα καὶ σφυραθίαν καὶ σπύρδαρα, ὡς καὶ µυῶν µυσκέλενδρα e v. infra; ‘sterco degli asini’ in schol. Ar. Ran. 294, 6 βολίτινον

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δὲ, ὄνειον. βόλιτος γὰρ κυρίως τὸ τῶν ὄνων ἀποπάτηµα (cfr. ibid. 295, infra) e Sud. ε 1049, 9 βόλιτος γὰρ κυρίως τῶν ὄνων τὸ ἀποπάτηµα. Considerato di genere maschile in schol. Ar. Ran. 295 βόλιτος γὰρ κυρίως τὸ τῶν ὄνων ἀποπάτηµα, cfr. schol. Ar. Eq. 658a 2 βόλιτοι γὰρ οἱ σπέλεθοι τῶν βοῶν, 658a 4 ἡ γὰρ τοῦ βοὸς κοιλία βολίτους ἔχει, mentre alcune fonti grammaticali a proposito dell’alternanza βόλιτον/βόλβιτον (v. Testo) lemmatizzano la forma sempre come neutro, cfr. Phryn. ecl. 334, Herod. Orthogr. II.1, p. 482,32, Philet. 41,1 (ma al maschile in Sud. β 366). Tra le attestazioni letterarie quella di Cratino e Diog. Laert. ΙΧ 4.11 (Νεάνθης δ’ ὁ Κυζικηνός [FGrHist 84 F 25] φησι µὴ δυνηθέντα αὐτὸν ἀποσπάσαι τὰ βόλιτα) sono le uniche che documentano inequivocamente la forma al neutro, mentre nella maggioranza delle altre la desinenza non permette di determinare il genere (v. ad es. Hippocr. mul. aff. 59,12 βολίτῳ, Ar. Ach. 1026 βολίτοις, Eq. 658 βολίτοις, Aristot. hist. an. 552a 16 βολίτοις, Theophr. Hist. Plant. II, 4,2 βολίτῳ, Lap. 69,4 βόλιτον etc.). χλωρά(Generalmente verde-giallo in relazione ai colori, cfr. ad es. π 47, ma qui nel senso di ‘fresco’, accezione comune in opposizione a secco, come ad es. in ι 320, 379 o in Ar. Ran. 559, detto del formaggio, cfr. Dover 1993, p. 265. οἰσπώτην(Secondo lo scolio ad Ar. Lys. 575, latore del frammento, οἰσπώτη = τοῦ ἐρίου ὁ ῥύπος (lo sporco della lana). Oro B 118 (probabilmente risalente alla κωµικὴ λέξις di Didimo, v. Alpers 1981, p. 242 ad loc.) attesta invece: οἰσυπηρά· οἶον· οἰσυπηρά ἔρια (Ar. Ach. 177), τὰ ῥυπαρά. καὶ οἴσυπον λέγοµεν. ἀλλ᾽ Ἀριστοφάνης ἐν Λυσιστράτη οἰσπώτην εἴρηκεν (vv. 574–576) […] οὐκ εὖ δὲ τὸ µαρτύριόν τινες παρατίθενται. ἔστι γὰρ οἰσπώτη τὸ τοῦ προβάτου διαχώρηµα. ἐν δὲ Ὀλκάσι (fr. 415 K.–A., cfr. PCG III.2, p. 227) κτλ. Oro distingue οἰσυπηρόν = οἰσυπηρὰ ἔρια (grasso della lana) e οἰσπώτη = προβάτου διαχώρηµα (sterco della pecora) e polemizza con chi cita il passo dalla Lisistrata di Aristofane in relazione a οἰσυπηρόν, perché οἰσπώτη non ha questo significato, ma quello di τὸ τοῦ προβάτου διαχώρηµα. Una distinzione tra i due sostantivi nei loro significati ancora in Phryn. praep. soph. 96,21 οἰσυπηρά· δεῖ λέγειν τὰ ῥυπαρὰ καὶ ἄπλυτα ἔρια. παρὰ τὸν οἴσυπον οἰσυπηρά κτλ. e p. 98,7: οἰσπώτη· τὸ τῶν προβάτων ἀποπάτηµα. τὸ δὲ τῶν αἰγῶν σφυράδες κτλ.; attestano, invece, uno scambio tra i significati ad es. Hsch. ο 409 οἰσπώτη· τῆς οἰὸς ὁ ῥύπος. ὁ δὲ ∆ίδυµος τὸν τῶν προβάτων 〈 〉 (cfr. Latte 1966 ad loc.)203; Phot. ο 154 οἰσπώτη· οἰῶν ῥύπος· οἴσυπος. Ἀριστοφάνης Λυσιστράτη; schol. Ar. Ach. 1177a ῥύπου πεπληρωµένα. οἰσύπη

203

Nonostante il testo sia corrotto, la citazione di Didimo sembra essere la conferma che la glossa di Oro risalga proprio a Didimo e che questi intendesse οἰσπώτη nel senso di ‘sterco di pecora’, cfr. Alpers cit. supra.

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Cratino

δέ ἐστι τὸ διαχώρηµα τῶν προβάτων, Erot. 68,1. Cfr. Alpers 1981, p. 2426s. per ulteriore documentazione lessicografica. Se si accettano le testimonianze di Oro (Didimo) e Frinico, si intende οἰσπώτη = προβάτου διαχώρηµα (sterco della pecora); e questo è il valore che il sostantivo ha nelle altre occorrenze che possediamo: Dion. Cass. XLVI 5.1 εἶτα τοιοῦτος αὐτὸς ὤν, καὶ γυµνὸς ἐν γυµνοῖς αὐξηθείς, καὶ οἰσπώτας καὶ ὑσπελέθους καὶ σπατίλας συλλέγων, ἐτόλµησας, ὦ µιαρώτατε e Poll. V 91, v. a βόλιτα. Contro l’informazione dello scolio, si può assegnare questo valore sia ad Ar. Lys. 575 (‘sheep dung’ [seguendo, dunque, Oro e non lo scolio] traducono Sommerstein 1990, p. 77 e Henderson 2000, p. 349, che aveva già sostenuto questo valore in Henderson 1987, p. 142) sia a Cratino, dove si intende senz’altro meglio in connessione con βόλιτον ‘sterco di bue (di asino)’ v. supra (intendere οἰσπώτη ‘sporco della lana’ conserverebbe il senso complessivo della battuta, ma apparirebbe meno pregnante). D’altronde, lo scambio o sovrapposizione di significati testimoniato dallo scolio (e da altre fonti) può forse trovare una spiegazione nel fatto che la parte sporca della lana dipendeva, come è ovvio immaginare, anche dallo sterco della pecora; e il processo di lavorazione della lana consisteva proprio nel nettarla dai suoi 2 elementi di sporcizia, uno dei quali era appunto lo sterco, cfr. Blümner 1912 , in part. pp. 106–110. Per quanto riguarda l’accentazione, si ha οἰσπώτη in R, οἰσπωτή in Γ. La forma ossitona è sostenuta da Hdn. Ι 343,28: τὰ εἰς τη ὑπερδισύλλαβα τῷ ω παραληγόµενα βαρύνεται […] τὸ µέντοι µηλωτή, κηρωτή ὀξύνεται καὶ τὸ οἰσπωτή ὁ ῥύπος (~ Theognost. AO II 117,31 e Anon. Orthogr. AO II 327,28); cfr. Lobeck 1843, p. 393: “οἰσπωτή quod gravari solet ed debet si a πάτος compositum cum trope vocalis ut EM censet [Et. magn. 619,10 G. οἰσπώτη· ὀπλὴ προβάτου. ἐκ τοῦ ὄϊς καὶ τοῦ πατῶ, οϊσπάτη. καὶ τροπῇ τοῦ Α εἰς Ω] […] sin ab οἴσπη derivatum est ut µηλωτή, acui oportuit”. L’etimologia non è certa: si tende a pensare ad una formazione da ὀ(F)ι nella prima parte e nella seconda da un termine ignoto derivato da una radice *σπωτη (GEW, DELG s.6v., cfr. anche Beekes 2010 s.6v.). fr. 44 K.–A. (40 Κ.) ἐν σαργάνοισιν ἄξω ταρίχους Ποντικούς σαργάνοισιν A: -οίσιν CE (an σαργάνῃσιν?)

Porterò nei cesti pesci salati del Pontico

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 44)

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Athen. ΙΙΙ 119b λέγε οὖν ἡµῖν καὶ σὺ εἰ καὶ ἀρσενικῶς ὁ τάριχος λέγεται παρ᾽ Ἀττικοῖς· παρὰ γὰρ Ἐπιχάρµῳ οἴδαµεν (fr. 159 K.–A.). ὃν ζητοῦντα προφθάσας ὁ Μυρτίλοϲ ἔφη· Κρατῖνος µὲν ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ (µὲν ἐν ∆. om. CE)∙ ἐν — Ποντικούς Dicci dunque anche tu se o tarichos si dice anche al maschile presso gli Attici. Sappiamo, infatti, che c’è in Epicarmo. Mentre lui rifletteva, Mirtilo anticipandolo disse: Cratino nel Dionysalexandros: porterò — Pontico Poll. VI 48 (codd. FS, A, BC) καὶ οὐδετέρως µὲν τὸ τάριχος οἱ Ἀττικοί, Ἴωνες δὲ καὶ ∆ωριεῖς ἀρσενικῶς καὶ τῶν Ἀττικῶν ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ Κρατῖνος∙ ὁ δὲ (Κρατῖνος οἶδε Meineke) ταρίχους Ποντικούς E gli attici dicono to tarichos al neutro, gli Ioni al contrario e i Dori al maschile e tra gli attici Cratino nel Dionysalexandros: e quello pesci Pontici

Metro(Tetrametri giambici catalettici

〈xlkl xlkl〉 llkl u 〈l u〉 llkl llkl 〈x lkl xlu〉

Bibliografia(Schweighaeuser 1802, p. 333, Porson 1814, p. 59, Dindorf 1827, p. 272, Runkel 1827, p. 15 (fr. III), Meineke FCG II.1 (1839), p. 41 (fr. VII), Bergk apud Meineke FCG II.2 (1840), p. 1181, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 7) Kock CAF I (1880), p. 24, Koerte 1904, p. 494 e n. 2, Thieme 1908, p. 176s., Kuiper apud Pieters 1946, p. 171, Pieters 1946, p. 128 n. 431, 171, Edmonds FAC I (1957), p. 346s., Cervelli 1950, p. 127, Luppe 1966, p. 193, Luppe 1986, p. 141, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 144, Casolari 2003, p. 1086s., Henderson 2011, p. 183, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(Νel terzo libro di Ateneo vi è una lunga sezione (116d-125f) περὶ ταρίχων, originata dal fatto che un τάριχος era stato servito come pietanza del banchetto e in cui è discusso anche il ruolo di rilievo che gli Ateniesi davano ai tarichopōlai, conseguenza dell’importanza del τάριχος; la discussione inizia con una citazione dell’opera Περὶ ταρίχων di Eutidemo di Atene (SH 455) il quale, come riporta Ateneo, Ἥσίοδόν φησι (in realtà un frammento pseudo-esiodeo, 372 M.–W.) περὶ πάντων τῶν ταριχευοµένων τὰδ᾽ εἰρηκέναι. All’interno di questa sezione, tra 119b e 119f, è introdotta una discussione sulle attestazioni del sostantivo τάριχος al maschile per il quale vengono addotti numerosi esempi, di cui quello di Cratino è il primo, seguito da Plat. com. fr. 49 K–A. (Zeus kakoumenos, v. Pirrotta 2009, p. 133), Ar. fr. 207 K.–A. (Daitalēs), Cratet. fr. 19 K.–A. (Thēria), Hermipp. fr. 10 K.–A. (Artopōleis, caso particolare perché l’aggettivo al maschile concorda con il sostantivo neutro, v. Gkaras 2008, p. 386s.), Soph. fr. 712 R. (Phineus); seguono tre citazioni,

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Cratino

irrilevanti per la questione del genere, dell’impiego del diminutivo ταρίχιον (Ar. Pac. 563, Cephisod. fr. 8 K.–A. [Ys], Pherecr. fr. 26 K.–A. [Automoloi]). Si torna, quindi, alle attestazioni al maschile con un richiamo ad Epicarmo: καὶ Ἐπίχαρµος δ᾽ ἀρσενικῶς εἴρηκεν ὁ τάριχος (fr. 159 K.–A. inc. fab.) e, quindi, per lo stesso motivo, Hdt. IX 120.1 e tre proverbi (nrr. 3–5 Strömberg, p. 95); di seguito è riportato che Ἀττικοὶ δὲ οὐδετέρως λέγουσι καὶ γίνεται ἡ γενικὴ τοῦ ταρίχους, con esemplificazioni di Chion. fr. 5 K.–A. (Ptōchoi) per il genitivo ταρίχους, Chion. fr. *6 K.–A. (Ptōchoi) per il dativo ταρίχει (sui due frammenti di Chionide, v. Bagordo 2014a, pp. 58–64), Men. Epitrepontes fr. 5 Kö–Th. = Arnott) per l’accusativo τὸ τάριχος. Conclude questa discussione, un’ulteriore notazione notazione linguistica: ὅτε δὲ ἀρσενικὸν ἐστιν (sc. τάριχος), ἡ γενικὴ οὐκέτι ἕξει το σ (i.e. ταρίχου, per questa forma cfr. LSJ s.6v.). La citazione di Poll. VI 48 è all’interno di un elenco di diverse tipologie di dati cibi, preceduto da un elenco di vari tipi di ταρίχη (cfr. infra a ταρίχους), da uno di ὡραῖα τεµάχη e da uno di nomi di pesci, dall’attestazione del diminutivo ταρίχιον in Ar. Pac. 563, cui segue la menzione della questione del genere del sostantivo τάριχος: maschile in ionico e dorico, neutro in attico, ma maschile in Cratino citato proprio per questo. Nei codici di Polluce, BC omettono la citazione di Cratino e presentano un testo decurtato: Ἵωνες δὲ καὶ ∆ωριεῖς ἀρσενικῶς, καὶ τινες τῶν Ἀττικῶν; i codd. A, FS citano, invece, il testo di Cratino in una forma (ὁ δὲ ταρίχους Ποντικούς) che ha in ὁ δέ un elemento estraneo al verso citato in Ateneo; è ipotesi di Meineke FCG II.1, p. 41 che possa leggersi Κρατῖνος οἶδε ταριχοὺς Ποντικούς, cfr. ad es. Poll. X 150 Μένανδρος δὲ ἐν Μισογύνῃ καὶ σανδαλοθήκας οἶδε (fr. 244 K.–A., v. Kassel–Austin PCG VI.2 ad loc.)204. Un’analoga discussione sul genere di τάριχος è testimoniata in Eust. in Il. p. 73, 42 (p. 117 van der Valk) ad A 117 (che la attribuisce esplicitamente a Erodiano): κατὰ δὲ Ἡρωδιανὸν (Hdn. Π. προσ. καθ. I [GrGr III.1] p. 226,13 Lentz) καὶ τάριχος ἑκατέρως λέγεται. τὸ τάριχος γὰρ καὶ ὁ τάριχος. φέρει δ’ ἐκεῖνος καὶ χρήσεις ἀµφοῖν, con le citazioni di Men. Epitr. fr. 5 Arnott (v. supra), Philippid. fr. 34 K.–A. (inc. fab.) τυροῦς καὶ ταρίχους, Ar. fr. 207 (Daitalēs) dοve è attestato il maschile τὸν ταρίχον (v. 1), Ar. fr . 639 (inc. fab.) ἐπὶ τῷ ταρίχει τὸν γέλωτα κατέδοµαι (cfr. anche Ael. Dion. τ 3 Erbse). Alcune 204

Luppe 1966, p. 193 propone in Polluce (A, FS): “ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ Κρατῖνος, 〈ὁ µὲν „…“,〉 ὁ δὲ „ταρίχους Ποντικούς“. Vermutlich hat ein Epitomator versehentlich ὁ δὲ stehen lassen. Daß in der Kurzfassung τινες mehrere Zeugen vertritt, läßt auch Athenaios vermuten, der weitere Belegstellen anführt (Platon, Aristophanes, Krates, Sophokles). Eine von diesen hat vermutlich in den Lücken der ausführlichen Fassung gestanden”.

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fonti (Moer. τ 20 Hansen, Philem. att. p. 396,12 Reitz., Λέξ. ῥητ. p. 309,14, Sext. Emp. Adv. math. I 187) attestano, analogamente ad Ateneo e Polluce (v. supra), che attica è la forma neutra τὸ τάριχος (cfr. anche Hellad. apud Phot. Bibl. 279 p. 533a 38 Bk . ὅτι τὸ τάριχος ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ µὲν λέγουσιν οὐδετέρως οἱ Ἀττικοί, ἐπ’ ἔλαττον δὲ καὶ ἀρσενικῶς· οἱ δὲ γραµµατικοὶ τεχνολογοῦντες ἀναλογώτερόν φασι τὸν τάριχον λέγεσθαι) e ionica quella maschile e dorica; secondo Chantraine (DELG s.6v.) originaria sarebbe la forma maschile, mentre il neutro τὸ τάριχος una formazione secondaria influenzata dall’esistenza del sostantivo κρέας (cfr. anche infra a ταρίχους). A parte le occorrenze per il maschile in attico citate da Ateneo accanto al frammento di Cratino (e la citazione ad hoc del solo Cratino di Polluce, v. supra), per quanto riguarda la questione del genere si nota ancora: 1) in Erodoto, ci sono quattro occorrenze tutte al maschile: IX 120.2 (ταρίχους), 120.3 (τάριχοι), 120.6 (ταρίχους), 120.9 (τάριχος); 2) in Ippocrate ricorre verisimilmente al maschile in Morb. II 50 (τάριχον acc. sing., ma è testimoniata una varia lectio τάριχος), al neutro in De aff. int. 25 (τάριχος Γαδειρικόν); 3) in commedia di V sec. a.6C. le altre occorrenze sono al neutro: Αr. Ach. 967 (ταρίχει), 1101 (ταρίχους gen.), Eq. 1247 (τό τάριχος), Vesp. 491 (τοῦ ταρίχους), Ran. 558 (τὸ πολὺ τάριχος), fr. 639 K.–A. (inc. fab. τῷ ταρίχει); nel IV sec. a.6C. in Anaxandr. fr. 51,2 K.–A. (Pharmakomantis) τὸ τάριχος (per τὸ τάριχον tràdito da Athen. epit. II 68b [CE], v. Kassel–Austin PCG II, p. 268: “Eust. in Od. p. 1390,58 (cf. Ael. Dion. τ 3) ὁ τάριχος καὶ τὸ τάριχον, sed haec forma non credibilis in comico attico (delenda apud LSJ exempla ex Philippide [fr. 9,4 K.–A.] et Axionichus [fr. 4,16 K.–A.] allata”); 4) in prosa di V/IV sec. a.6C. le uniche tre occorrenze sono al neutro, in Dem. XXXV (“probably around 350”, comunque nell’arco di tempo 355– 348, v. MacDowell 2009, p. 262 e p. 2656s. per l’attribuzione dell’orazione a Demostene) 31.25 (τάριχoς, nt.), 32.7 (τὸ τάριχος), 34.8 (ταρίχους, gen.). Testo(Tràdito è σαργάνοισιν (A) o σαργανοίσιν (CE); l’accento della seconda è errato, ci si aspetterebbe, infatti, σαργανοῖσιν da un ipotetico *σαργανός, come θεός > θεοῖσιν. Al maschile il sostantivo non presenta altre attestazioni, ma si può richiamare Hsch. σ 198 σάργανος· ὁ ἀγροῖκος; il testo è incompleto, integrabile secondo Luppe 1986, p. 141 con “sc. τάλαρος oder dergleichen”, sulla base del significato di σαργάνη (‘cesto’). In alternativa si potrebbe pensare ad un’origine del tràdito σαργάνοισιν/σαργανοίσιν < σαργάνῃσιν, dativo lungo di σαργάνη, sostantivo attestato, ma abbastanza raro: nel V sec. a.6C. cfr. Aesch. Suppl. 788 (con Friis Johansen 1980, III, pp. 136–139) e, come at3 testazione non letteraria IG I 422,150 (414 a.6C.); nel IV sec. a.6C. in Timocl. frr. 16,4 e 23,7 K.–A., poi ritorna in età imperiale ad es. in Luc. Lexiph. 6,10

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Cratino

(e testi cristani ad es. NT Cor. 2, 11,33); la lezione dei codici si può spiegare con un errore di itacismo tra [οι] e [ῃ]. Per la presenza di dativi lunghi, v. in part. Ar. Ran. 1212 πεύκῃσι (con Dover 1993, p. 340) e cfr. anche Eur. Med. 479 ζεύγλῃσι (con Page 1938, p. 108), Eur. Hipp. 101 πύλαισι (con Barrett 1964, p. 178), Eur. Suppl. 498 πύλῃσιν (con Collard 1975, II, p. 242) e v. anche Willi 2003, p. 2416s. Sia σαργάνοισιν/σαργανοίσιν tràditi, sia un ipotetico σαργάνῃσιν sono senza dubbio difficiliores e, quindi, da preferire; la prima forma, in più, attesterebbe un uso del sostantivo al maschile, ignoto tranne per la già citata glossa di Esichio. Secondo Dindorf 1827, p. 272 si può leggere σαργανίσιν < *σαργανίς (che potrebbe spiegare l’accento di CE, ma non quello di A); questa lezione giustificherebbe il testo dei codici per itacismo tra [οι] e [ι], ma si tratta di un sostantivo non altrimenti attestato, da intendere quindi necessariamente come hapax, “vox inaudita” Kassel–Austin PCG IV, p. 144 ad loc. (LSJ e DELG s.6v. registrano σαργανίς come unica attestazione in Cratino205). Sulla scorta di questa lettura, Bergk apud Meineke FCG II.2, p. 1181 propose σαργανίσι νάξω, che potrebbe essere recuperata, anche solo parzialmente: si potrebbe infatti, al posto dell’hapax σαργανίσι, mantenere il tràdito σαργάνοισιν/σαργανοίσιν (o il possibile σαργάνῃσιν), ma accettare la Worttrennung suggerita, quindi non ἄξω, ma νάξω < νάσσω ‘press, squeeze close, stamp down’, cfr. Interpretazione. Non convincenti i tentativi di correzione del testo tràdito che hanno in comune l’idea, non necessaria, di interpretare il verso come un trimetro giambico (dove, chiaramente, la lezione dei codici σαργάνοισιν/σαργανοίσιν o il possibile σαργάνῃσιν sarebbero impossibili). In particolare: 1) σαργάναις di Schweighaeuser 1802, p. 333 accolto da Kassel–Austin PCG IV, p. 144: secondo Schweighaeuser, un originario σαργάνῃσι già errato per metrica, dà per itacismo σαργάνοισιν6/6σαργανοίσιν, necessariamente da corregere perché non attestata. Ma σαργάναις è senza dubbio facilior rispetto a σαργάνῃσι e difficilmente questa forma avrebbe generato una corruzione meno comune (per confronto, ad es. in Ar. Ran. 1212 la lezione πεύκῃσι è tràdita da alcuni codici e da altri banalizzato in πεύκαις, v. Dover 1993, p. 340, cfr. anche Collard 1975, II, p. 242 su πύλῃσιν in Eur. Suppl. 498; per casi di cor-

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Questa lezione (σαργανίς) è generalmente accolta nelle edizioni dei comici e nella letteratura critica, con l’eccezione di Luppe 1966, p. 193, fino all’edizione di Kassel– Austin PCG IV, p. 144 che stampano σαργάναις, v. supra; dopo questa edizione, Luppe 1986, p. 141 ha riproposto la lettura σαργανοίσιν, mentre è comunemente accettato σαργάναις, fino a Storey 2011, p. 292 che stampa σαργανίσιν di Dindorf, ma senza darne motivazione.

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ruzione di dativi lunghi nelle forme più comuni, in part. in Cratino v. comm. a fr. 10 K.–A., p. 90); 2) σαργάνοις di Porson 1814, p. 59206, mantiene la forma maschile (difficilior), ma banalizza la desinenza –οισι, una scelta dettata dall’impossibilità di mantenere questa forma nel trimetro giambico; 3) l’ipotesi di Kuiper apud Pieters 1946, p. 171 n. 63 σαργάνῃ σ᾽ potrebbe essere giusta per itacismo di [η] e [οι] e manterrebbe il femminile σαργάνη. Il testo tràdito rimane, però, difficilior e questa ipotesi non spiega, inoltre, l’origine della parte finale di σαργανοίσιν, semplicemente omessa, e per la quale mi sembra non si possano chiamare in causa motivi meccanici di trascrizione. Metrica(Se si mantiene il testo tràdito, si può interpretare il frammento come una sequenza di due tetrametri giambici catalettici, come proposto da Luppe 1966, p. 193 e 1986, p. 141 (v. Testo), entrambi con cesura mediana: il primo verso sarebbe la parte finale dopo la cesura e il secondo la parte iniziale fino ad essa. Nel primo verso mancherebbero anche i due elementi finali; Luppe 1986, p. 141 proponeva un possibile 〈ὑµῖν〉 “nur exempli gratia” (Luppe 1966, p. 193 non specificava, invece, alcuna integrazione), la cui omissione si potrebbe spiegare con il fatto che l’interesse di Ateneo (l’unico testimone del verso per esteso) era per la menzione al maschile di τάριχος (e, inoltre, la frase, così come viene citata, ha comunque un senso compiuto). Interpretazione(Un tentativo di collocazione del frammento all’interno della commedia non è possibile: così già Koerte 1904, p. 494 e n. 2 che riportava un’interpretazione di Kaibel, che egli stesso rifiutava: “Kaibel dachte an einem Hochzeitsmal, zu dem Poseidon die Fische zu bringen verspricht, wie Epich. fr. 54 [= 48 K.–A., Hēbas gamos], aber eine solche ausführliche Schilderung hat kaum in unserem Stücke Platz”. Thieme 1908, p. 17 confrontava la scena finale degli Acarnesi (1190–1227) e proponeva una collocazione nell’esodo della commedia, in cui si celebravano le nozze di Elena e Alessandro “et ceteras voluptates et cenam quasi depictas esse, ut eo molestior et gravior videretur poena futuri Dionysi, qui tradebatur Achivis”; questo frammento, come anche i successivi frr. 46–47 K.–A., sarebbe parte della descrizione del banchetto nuziale al quale faceva da contraltare il destino disgraziato di Dioniso, come negli Acarnesi alla festa finale di Diceopoli si oppone l’immagine di Lamaco dolente. All’esodo e ad un contesto di festeggiamento per la scampata guerra potrebbe indirizzare anche l’utilizzo del metro, il tetrametro giambico catalettico, ancora come negli Acarnesi (1226–1231), v. anche Lys. 1316–1321 e cfr. Perusino 206

Così si legge in Porson 1814, p. 59 e non σαργανίσιν (lezione, invece, di Dindorf) come sostiene Meineke FCG II.1, p. 41 (analogamente Luppe 1966, p. 193).

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Cratino

1968, p. 546s. (Acarnesi) e pp. 57–60 (Lisistrata) per la funzione dei tetrametri giambici in questi due passi. Il locutore del frammento rimane, però, privo di identificazione; si può pensare che il τάριχος qui menzionato sia una pietanza del δεῖπνον menzionato nei frr. 46 e 47 (cfr. p. 2816s.) e che il futuro ἄξω faccia riferimento a qualcuno (un parassita?) che vuole partecipare al banchetto e si offra di portare cibo, ma di poco valore (quale era il τάριχος, v. ad loc.), per imperizia o per tirchieria. Se, inoltre, si accetta ἐν σαργάνοισι νάξω di Bergk (v. Testo), ossia ‘accumulerò nelle ceste pesci salati del pontico’, si potrebbe pensare alla battuta di un parassita che, partecipando a un banchetto (come ospite non voluto, frr. 46 – 47?) si propone di riempire il suo cesto di pesci, ma non avendo perizia del pesce si getta su quello a lui più noto e di minor qualità. σαργάνoισιν(L’etimologia di questo termine è ignota (per la forma femminile σαργάνη si confrontano analoghi sostantivi con suffisso –ανη, come ὁρκάνη, πλεκτάνη, βοτάνη, v. DELG e GEW s.6v.). Il significato ricavabile dalle attestazioni di Timocle frr. 16,4 (Ikarioi Satyroi) e 23,7 (Lēthē) K.–A e quelle più tarde, come ad es. Luc. XLVI (Lexiph.) 6,10 (cfr. Testo) è quello di cesto, rete per portare i pesci (cfr. LSJ s.6v.), lo stesso che si può intendere, verisimilmente, anche in Cratino. Secondo schol. ad Aesch. Sept. 346 il significato è quello di ‘rete da caccia’: ὁρκάνη τὸ θηρατικὸν δικτύον, ὃ καὶ σαργάνη καλεῖται (su ὁρκάνη cfr. Lupaş–Petre 1981, p. 113); il plurale σαργάναι vale ‘legami, catene’ (così probabilmente in Aesch. Suppl. 788, cfr. Friis Johansen 1980, III, pp. 136–139) secondo Hsch. σ 197 σαργάναι· δεσµοί, καὶ πλέγµατα γυργαθώδη σχοινίων ἀγχυράγωγα e τ 188 ταργάναι· πλοκαί, συνδέσεις, πέδαι (per τάργαναι come presunta forma iper-attica di σαργάναι, v. Schwyzer I, p. 319). Su σαργάνη v. ancora Amyx–Pritchett 1958, in part. 273–274. ταρίχους(Corrispondente al lat. salsamentum, τάριχος è termine di etimo incerto, ma di possibile origine armena (GEW s.6v., DELG s.6v., Keller 1913, vol. II p. 337) che indica cibo, carne o pesce, conservato per mezzo di salatura, salamoia, essicazione o affumicatura (cfr. Andrè 1961, pp. 111–114; τάριχος può indicare anche un cadavere imbalsamato, una mummia, cfr. Hdt. IX 120.9 [τεθνεὼς καὶ τάριχος] e Soph. fr. 712 R. [νεκρὸς τάριχος εἰσορᾶν Αἰγύπτιος]) e quindi, in senso specifico, pesce salato, un tipo di cibo ampiamente diffuso nell’antichità; caratteristico ne era il prezzo particolarmente economico, come testimoniano ad es. Ar. Ach. 1101 (cfr. Pellegrino 1993, p. 516s., Olson 2002, p. 339), Plat. com. fr. 211 K.–A. (inc. fab.), Nicostr. fr. 5,3–5 K.–A. (Antyllos), Alex. fr. 191,5 K.–A. (Ponēra, su cui Arnott 1996, p. 561) e soprattutto Ar. Vesp. 490–492 dove Schifacleone definisce la tirannide più a buon mercato del tarichos, per indicare le crescenti accuse di cospirazione in città (cfr. MacDowell 1971, p. 1996s.). Proprio per il suo basso prezzo era cibo caratteristico dei poveri e dei soldati, cfr. Höppner 1931, p. 75 e ricorre spesso in commedia in

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elenchi di pietanze in opposizione a cibi più raffinati, v. ad es. Cratet. fr. 19,2 K.–A., Hermipp. fr. 63,5 K.–A., Pherecr. fr. 190,2 K.–A., Antiph. fr. 140,4 K.–A., Anaxandr. fr. 51, 2 K.–A. Diverse fonti attestano che il τάριχος era abbondantemente risciacquato per togliere la salatura, finchè l’acqua utilizzata non fosse inodore e insapore, v. Ar. fr. 708 K.–A. e la testimonianza attribuita a Difilo Sifnio in Athen. ΙΙΙ 121c; da questa prassi deriva l’espressione metaforica τὸν τάριχον …6/6πλύνων in Ar. fr. 207,16s. K.–A. (Daitalēs) dove significa “fare una lavata di capo a un mascalzone” (Cassio 1977, p. 50), sfruttando un valore di τάριχος che da pesce a buon mercato poteva indicare metaforicamente una persona dappoco, cfr. Taillardat 1965, p. 242s. e 345s. e Cassio 1977, p. 506s. (cfr. anche Alex. fr. 43,2 K.–A. [Galateia] ὁ ζωµοτάριχος, detto di un attore e il comm. ad loc. di Αrnott 1996, p. 153). Sul τάριχος in generale Daremberg– Saglio IV.2 s.6v. Salsamentum, Curtis 1991, pp. 6–26, Olson–Sens 2000, p. 1646s. ad Archestr. fr. 39, 2 (anche in riferimento alla presenza del τάριχος in elenchi di cibi in commedia). Ποντικούς(Ιndica la provenienza del τάριχος dal mar Nero, al pari di altre varietà provenienti da altre zone, cfr. Eup. fr. 199 K.–A. (Marikas) πότερ’ ἦν τὸ τάριχος Φρύγιον ἢ Γαδειρικόν e l’elenco di Polluce VI 48 ταρίχη Ποντικά, ταρίχη Φρύγια, ταρίχη Αἰγύπτια, ταρίχη Σαρδῷα, ταρίχη Γαδειρικά. V. in part. Keller 1913, p. 336, Orth RE XI (1921), s.6v. Kochkunst col. 951, Höppener 1931, pp. 39–41 e 54s., Ehrenberg 1957, p. 197, Alvoni 1999, p. 168.

fr. 45 K.–A. (43 K.) ὁ δ᾽ ἠλίθιος ὥσπερ πρόβατον βῆ βῆ λέγων βαδίζει ὁ δ᾽ Phot., Et. gen.: ὅδ᾽ Eust: ὁ δὴ Sud.ƒƒƒἠλίθιος Phot., Et. gen. A, Eust.: ἠλίθριος Et. gen. B: λόιϲθιος Sud.ƒƒƒβῆ βῆ Phot., Et. gen.: βὴ βὴ Sud., Eust.ƒƒƒβῆ βῆ (vel βὴ βὴ) λέγων Sud., Phot., Eust., Et. gen. A: λέγων βῆ βῆ Et. gen. B

E lo sciocco cammina come una pecora facendo bee bee Phot. β 130 = Et. Gen. β 105 Berg. (AB; Et. magn. p. 196, 7) = Sud. β 250 βῆ (βή)∙ τὸ µιµητικὸν τῆς τῶν προβάτων φωνῆς, οὐχὶ βαὶ λέγουσιν Ἀττικοί (λέγεται Ἀττικῶς Et.). Κρατῖνος ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ ὁ δ᾽—βαδίζει. (ῥητορικὴ δέ ἐστιν ἡ λέξις add. Et. gen. A, Et. magn.) Bē: ciò che imita il verso delle pecore, gli Attici non dicono (si dice in attico) bai. Cratino nel Dionysalexandros: e lo sciocco—bee

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Cratino

Eust. in Od. p. 1721,26 τὸ βή φωνῆς προβάτων ἐστὶ σηµαντικόν. καὶ φέρεται παρὰ Αἰλίῳ ∆ιονυσίῳ (β 12) καὶ χρῆσις Κρατίνου τοιαύτη∙ ὅδ—βαδίζει Bē è l’indicazione del verso delle pecore. Ed è tramandato in Elio Dioniso anche questo utilizzo in Cratino: questo— bee Eust. in Il. p. 768,14 οἱ δ᾽αὐτοί φασιν ὀµοίως µιµητικῶς καὶ βή, οὐ µὴν βαί, µίµησιν προβάτων φωνῆς. Κρατῖνος ὅδ᾽— βαδίζει E questi (gli antichi) dicono allo stesso modo in maniera mimetica anche bē, non bai, imitazione del verso delle pecore. Cratino: questo—bee

Metro(Tetrametro giambico catalettico

klkr llkkl | llkl kll

Bibliografia(Reisig 1816, p. 99, Porson 1824, p. xlv, Runkel 1827, p. 156s. (fr. V), Meineke FCG II.1 (1839), p. 40 (fr. V), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 14, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 5) Kock CAF I (1880), p. 25, Koerte 1904, p. 493, Koerte apud Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 144, Thieme 1908, p. 16, Meautis 1934, p. 300, Coppola 1936, p. 95, Pieters 1946, p. 128 n. 434, 171, 190, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 144, Casolari 2003, p. 104, Olson 2007, p. 916s., Henderson 2011, p. 184, Storey FOC I (2011), p. 2926s. Contesto della citazione(Le citazioni dei lessicografi e di Eustazio (in Il. p. 768,14 nel commento a ι 503, dove ricorre παραβλῶπες. Nella spiegazione Eustazio chiama in causa un monosillabo βλόψ, “ὁ τῆς κλεψύδρας ἦχος µιµητικῶς”, non altrimenti attestato; da questa indicazione segue quella di un altro monosillabo κύξ ἐπὶ τῆς ψήφου κατὰ µίµησιν, altrettanto privo di attestazioni [su questi v. vad der Valk 1976, II ad loc., p. 774], quindi quella di βῆ [βή] opposto a βαί, con la citazione di Cratino) servono per indicare che la riproduzione scritta mimetica del verso delle pecore era presso gli scrittori attici βῆ (βή) e non βαί; questa informazione riflette una opposizione di pronuncia tra queste due forme, simile o analoga a quella balare/baelare di Varr. rust. II 1,7, ma senz’altro anteriore al passaggio fonetico di βη a [vi], motivo per cui questo frammento venne usato per la sua onomatopea dai sostenitori della pronuncia cosiddetta “etacista” contro quelli della “itacista”, v. in part. 3 Allen 1968, pp. 2–6 e Allen 1987 , pp. 69–75 e 140–161 (Appendix A). La seconda citazione del verso in Eustazio (in Od. p. 1721,26) è esplicitamente attribuita al grammatico atticista Elio Dioniso (β 12) e riporta un’informazione analoga, che il verso della pecora si indica con βῆ (βή), senza però

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ricordare l’opposizione alla forma βαί. L’informazione ricorre nel commento a µ 2656s. µυκηθµοῦ τ’ ἤκουσα βοῶν αὐλιζοµενάων6/6οἰῶν τε βληχήν; nella pericope immediatamente precedente la citazione, Eustazio introduce una distinzione tra il verso delle capre e quello delle pecore (εἰ δέ που ἐν Ἰλιάδι ἐπὶ προβάτου καὶ αἰγῶν κεῖται κοινῶς ὁµοῦ τὸ µηκᾶσθαι, συλληπτικὸς ὁ τρόπος ἐκεῖ. αἶγες γὰρ κυρίως µηκῶνται, προβάτων δὲ οὐκ ἔστι τοῦτο, ἀλλ᾽ ἡ βληχή) e a conferma di ciò menziona il fatto che il suono mimetico del verso delle pecore è βῆ, da cui βληχή è, verosimilmente, derivato (v. DELG s.6v.). Testo(Le differenze nella tradizione dei testimonia hanno tutte una loro spiegazione. All’inizio è senza dubbio corretto ὁ δ᾽ (Phot., Et. gen.): il pronome ὅδ᾽(ε) testimoniato da Eustazio è metricamente possibile e interpretabile come deittico del destinatario del paragone animale, ma ἠλίθιος in quanto aggettivo richiede la presenza dell’articolo perché sia chiaro il suo valore sostantivato, cfr. Schwyzer II, p. 1746s. La lezione ὁ δὴ λοίσθιος (Sud.) si imputa ad un’errata Worttrennung e si rifiuta perché presenta una sillaba lunga in sede pari di metro giambico; lectio nihili è ἠλίθριος (Et. gen. A) priva di attestazioni e ingiustificata su base linguistica ed etimologica (cfr. a ἠλίθιος); impossibile metri causa (lunga in sede pari) λέγων βῆ βῆ (Et. gen. B). Nessun motivo vi è di alterare ὥσπερ πρόβατον per evitare l’anapesto in 4a sede, cfr. Meineke FCG II.1, p. 40 (per l’anapesto nel tetrametro giambico v. White 1912, p. 646s. e Perusino 1968, pp. 75–80): né, quindi, ὥσπερ πρόβατα di Reisig 1816, p. 99, né il più deciso ὡς προβάτιον di Porson 1824, p. xlv, dove “displicet etiam ὡς, quod pro ὥσπερ perraro dicitur ab Atticis” (Meineke FCG II.1, p. 40). Per quanto riguarda l’accentazione dell’onomatopea, ancora Meineke (ibid.) sosteneva: “ceterum βῆ an βὴ balaverint atticae oves mihi incompertum est”, sebbene forse la forma βῆ sia preferibile, cfr. Et. gen. (AB) s.6v. ἀµαρτῇ (α 593 Lass.–Liv.) εἰσι δέ τινα εἰς η λήγοντα (ἐπιρρήµατα) µὴ ἔχοντα τὸ ι προσγεγραµµένον … τὸ βῆ, ὅπερ περισπᾶται, τῶν ἄλλων τῶν µὴ ἐχόντων τὸ ι µὴ περισπωµένων. ἔστι δὲ µίµηµα φωνῆς προβάτων, ἔστι δὲ παρὰ Κρατίνῳ ἡ λέξις … οὔτως ὁ Χοιροβοσκὸς εἰς τὴν ποσότητα (l’accentazione di βῆ sarebbe un caso particolare e l’informazione è attribuita a Cherobosco, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 144). Interpretazione(Per la formulazione del verso cfr. Ar. Vesp. 107 ὥσπερ µέλιττ’ ἢ βοµβυλιὸς εἰσέρχεται; l’interpretazione proposta da Koerte (apud Kaibel in PCG IV, p. 144) “loquitur Paris de Dionyso arietis speciem gerente” e univocamente accettata (sola eccezione, Mèautis 1934, p. 300 secondo cui l’ἠλίθιος del frammento sarebbe Alessandro, così rozzo da belare come le sue pecore) si fonda sull’informazione di hyp. col. II r. 316s. che Dioniso, per timore di Alessandro, nasconde Elena e si trasforma in ariete; il figlio di Priamo lo scopre

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Cratino

in un qualche modo che a noi sfugge e lo addita con questo poco gratificante paragone (per il paragone v. infra a πρόβατον)207. Questa interpretazione è senz’altro molto probabile, benché non si possa escludere a) che a pronunciare la battuta siano ad es. i coreuti, b) che si tratti di un diverso e più generico riferimento all’interno della commedia e inoltre c) si dia considerazione al fatto che il verso è un tetrametro giambico catalettico, un metro non facilmente interpretabile in una sezione dialogata (la sua ricorrenza è in prevalenza nella parodo, nell’agone e nell’esodo, v. Perusino 1968, in part. pp. 64–66 [prospetto riassuntivo] e 97–121 [frammenti dell’ἀρχαῖα]). ἠλίθιος(Da ἠλεός ‘folle, insensato’. Vale ‘sciocco, stolto’, un significato attestato per primo in Sim. fr. 37, v. 37 (PMG 542 τῶν γὰρ ἠλιθίων6/6ἀπείρων γενέθλα), ma assente dalla poesia ‘alta’ (v. infra) e comune, invece, in commedia (ad es. Ar. Ach. 443, Nub. 872, Av. 523, Thesm. 590, Eupol. fr. 172,9 K.–A. [Kolakes], Plat. com. fr. 65,3 K.–A. [Laios], Alc. fr. 1 K.–A. [Adelphai moicheuomenai] etc.), nel dramma satiresco (Eur. Cyc. 537) e in numerose attestazioni prosastiche (ad es. Hdt. I 60, Lys. I 10, X 16, Plat. Charm. 162b, Xen. Mem. III 9.8 etc.). Per questo, nonostante la prima attestazione nella lirica di Simonide, si intende probabilmente come un sostantivo di estrazione colloquiale, cfr. Austin–Olson 2004, p. 148 su Ar. Thesm. 290 πλουτοῦντος, δ᾽ ἄλλως δ᾽ ἠλιθίου κἀβελτέρου, dove ricorre in coppia con ἀβέλτερος, presente quest’ultimo solo in commedia (Ar. Nub. 1201, Ran. 989 etc.; cfr. anche il possibile Plat. com. fr. 65,3 K.–A. [Laios], 〈ἀβελτερο〉κόκκυξ ἠλίθιος cfr. Pirrotta 2009, p. 1576s.) e prosa (Plat. Rp. 409c, Phlb. 48c). Dopo Simonide, ἠλίθιος ricorre in Pind. Pyth. III 11 (χόλος δ’ οὐκ ἀλίθιος γίνεται παίδων ∆ιός) e Aesch. Ag. 365 (βέλος ἠλίθιον) nel senso, però, di ‘vano, inutile’ e questo è il significato presente nell’occorrenza tragica del verbo, ἠλιθιώσῃ (Aesch. Prom. 1061); secondo Wilamowitz 1913, p. 176 n. 1 i due significati corrispondono a due diversi impieghi, il primo tipico del dialetto attico, il secondo di quello dorico (ciò spiegherebbe l’attestazione 207

Naturalmente, se Dioniso simboleggia Pericle (ed eventualmente qualcosa del suo costume lo richiamava, cfr. p. 206) la battuta assume in relazione allo statista un significato particolarmente acre: questi era, infatti, paragonato a una pecora, tradizionalmente stupida, e poteva essere visto dagli spettatori camminare a carponi. Ma non si può condividere l’ipotesi di Coppola 1936, p. 95 che Pericle/Dioniso trasformato in ariete fosse un’allusione a Lisicle, amico di Pericle, commerciante di montoni e guerrafondaio: si tratta, infatti, di un riferimento troppo sottile per poter esser compreso, considerando anche che questo Lisicle è menzionato due sole volte in commedia, Ar. Eq. 132 (in perifrasi) e 765 e, in genere associato al fatto che succedette spiritualmente a Pericle e fu marito di Aspasia, v. RE XIII,2 coll. 25506s., Lysikles 2 [Kahrstedt].

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eschilea in lyricis e quella ulteriore in Theocr. XVI 9 πολλά µε τωθάζοισαι, ὅτ’ ἀλιθίην ὁδὸν ἦλθον, su cui Gow 1952, p. 308 [e rimando a p. 204 su ἀλιθίως in X, 40]); cfr. però Fraenkel 1950, I p. 192 il quale nota che il valore eschileo 2 (‘vano’, ‘inutile’) è testimoniato in un’iscrizione attica, IG I 975 (fine VI sec. a.6C.) Γνάθονος τόδε σε̅µα θέτο δ᾽ αὐτὸν ἀδελφὲ hελίθιον νοσε̅λεύσασα (se, in questo significato, ἠλίθιος sia parola poetica o no, v. ancora Fraenkel ibid.: “whether the writer took the word ἡλίθιος from the language of poetry or of everyday speech one cannot tell”, con l’ulteriore considerazione che νοσηλεύω è parola in genere prosastica, ma che si restituisce in Soph. TrGF fr. 264 R., cfr. e Phil. 39 νοσηλείας. V. anche LSJ s.6v.). ὥσπερ πρόβατον(Paragoni animaleschi sono frequenti in commedia, cfr. ad es. Ar. Eq. 415 e Lys. 298 ὥσπερ κύων, Vesp. 107 ὥσπερ µέλιττ’ e in gen. Monaco 1963 (con l’elenco dei paragoni con animali a p. 1666s.). Per πρόβατον, cfr. fr. 39.2 p. 2456s.; in genere è impiegato al plurale, al singolare in pochi casi, v. ancora Ar. Pac. 937, 948, 1022, Xen. Oec. 3, 11,3, Plat. Euthyd. 302a 1 (e in Menandro: Dysk. 393, 438, 776, Sam. 399, Th. 1,3). Per la pecora come simbolo di stoltezza, v. Ar. Nub. 1200–1203 (Στ.) εὖ γ’. ὦ κακοδαίµονες, τί κάθησθ’ ἀβέλτεροι6/6ἡµέτερα κέρδη τῶν σοφῶν, ὄντες λίθοι,6/6ἀριθµός, πρόβατ’ ἄλλως, ἀµφορῆς νενησµένοι, cfr. anche Vesp. 32 e 955 (v.  inoltre Eq. 264), Macar. VI 8 (CPG II, p. 198 Leutsch–Schneidewin) µωρότερος προβάτου· ἐπὶ τῶν εὐηθῶν καὶ ἀλογίστων e le diverse, numerose attestazioni in ambito latino, cfr. Wortmann 1883, p. 296s., Otto 1890 s.6v. ovis 1, Fedeli 2005 a Prop. II, 16,8 et stolidum pleno vellere carpe pecus. Sulla pecora nel mondo e nell’immaginario antichi v. Keller 1909, I, pp. 309–329. βῆ βῆ(Voce onomatopeica per il verso delle pecore (GEW, DELG s.6v.), cfr. Antiatt. p. 86,3 βῆ· προβάτων βληχή. Ἀριστοφανής (fr. 648 K.–A.) e le glosse di Hsch. β 545n βηβήν· πρόβατον, 546 βήζει· φωνεῖ, 552 βήκη· χίµαιρα, 554 A. βὴ λέγει· βληχᾶται. ἢ θύει (Ar. fr. 648 K.–A.). Ricorre ancora in Ar. fr. 648 K.–A. (inc. fab.) θύειν µε µέλλει καὶ κελεύει βῆ λέγειν e si confronta con analoghe onomatopee animali, come ad es. αὗ αὗ per il cane in Ar. Vesp. 903, τιοτιοτιοτιοτιοτιοτιοτιο per gli uccelli in Av. 237 (cfr. 740), βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ per le rane in Ran. 2096s. (su quest’ultimo in part. v. Dover 1993, p. 219). βαδίζει(Etimologicamente legato con βαίνω, di cui rappresenta uno degli esempi della categoria di suoi derivati caratterizzati dalla dentale sonora (DELG, GEW s.6v.); può connettersi più specificamente con l’avverbio βάδην ‘a piedi’ presente già in Omero (ν 516, cfr. ἐµβαδόν ο 505) e cfr. Av. 42 (in figura etimologica): βαδὸν βαδίζει (con Dunbar 1995, p. 150). Si tratta di un verbo di uso colloquiale, cfr. Mastronarde 1994, p. 304 (v. infra), Olson 2002, p. 176 ad Ar. Ach. 394 e Olson 2007, p. 92: lo dimostrano l’ampio uso in commedia (tra i possibili esempi, Ar. Ach. 394, 838, 1086, 1140, 1165, Eq. 724, etc., Pherecr.

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Cratino

fr. 57,2 K–A., Eub. fr. 14,2 K.–A. etc.), in prosa (ad es. Plat. Prot. 310e, Xen. Mem. II, 1,11, Dem. 19, 24) e ancora in Hermipp. Iamb. fr. 4,1 K–A., PMG 851a,4 (carmina popularia). Uniche attestazioni nella poesia alta sono Hom. h. IV (Merc.) 210 e 320, Soph. El. 1502, Eur. Phoen. 544, Chaerem. TrGF 71 F 20, TrGF adesp. 177,1; Mastronarde 1994, p. 304 (ad Eur. Phoen. 544 ἴσον βαδίζει τὸν ἐνιαύσιον κύκλον), in particolare, rileva che nelle uniche due attestazioni tragiche contestualizzabili si tratta a) in Soph. El. 1502 di un brusco comando di Oreste a Egisto e b) in Eur. Phoen. 544 di un utilizzo “perhaps chosen to ‘humanize’ the celestial phenomena which are being offered as an example”. fr. 46 K.–A. (44 K.) τῶν βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων αὐτῶν φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον βδελλολαρύγγων ITM: βδελολαρ- F: βδελλαρ- G: βδελλοιαρ- A: βδελλοφαρ- S ƒƒƒ τῶν: del. Luppeƒƒƒαὐτῶν codd.: αὖ Luppe (an αὐτὸς?)

Essendo i ghiottoni non invitati/tra i ghiottoni non invitati stessi io/ tu/lui andando a banchetto Sud. α 2285 ἀνεπάγγελτος∙ ἄκλητος. Κρατῖνος ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ τῶν — δεῖπνον anepaggeltos: aklētos. Cratino nel Dionysalexandros: essendo — a banchetto

Metro(Tetrametri anapestici catalettici

〈ylyl ylyl yl〉 ll kkll kklll llll lrlu 〈(k) kkll〉

Bibliografia(Runkel 1827, p. 15 (fr. I), Meineke FCG II.1 (1839), p. 396s. (fr. IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 14, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 4), Kock CAF I (1880), p. 256s., Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 145, Koerte 1904, p. 494, Thieme 1908, p. 176s., Zieliński 1931, p. 80, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Luppe 1966, p. 188 e n. 1, Luppe 1986, p. 1416s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 145, Luppe 1986, p. 142, Casolari 2003, p. 1086s., Olson 2007, p. 92, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(La glossa di Sud. α 2285 risale alla Synagōgē; stamb pata nell’edizione Cunningham (2003) come Σ 1304 e notato con Σ´, in questo b caso una delle 72 glosse presenti solo in Σ e Suda (cfr. Cunningham 2003, p. 50

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e n. 96). Il codice B della Synagōgē omette, però, l’intera pericope Κρατῖνος — ἐπὶ δεῖπνον (Sud. α 2285 è quindi l’unico testimone effettivo del verso) e presenta la glossa solo nella forma ἀνεπάγγελτος· ἄκλητος. A questo stesso verso di Cratino (non ci sono, infatti, allo stato attuale altre attestazioni di ἀνεπάγγελτος in Cratino e l’aggettivo in sé è di uso assai limitato, v. ad loc.), fa probabilmente riferimento anche Poll. VI 12 ἄκλητοι, οὓς ἀνεπαγγέλτους Κρατῖνος καλεῖ; altre, analoghe testimonianze lessicografiche sono Hsch. α 4909 ἀνεπάγγελτοι∙ οἷς οὐ παρηγγέλη ἐπὶ δεῖπνον ἐλθεῖν. ἄκλητοι e Phryn. praep. soph. p. 7,4 de Borries ἀνεπάγγελτος δειπνεῖ· ὧ οὐδεὶς µὲν ἐπήγγειλεν, ὁ δὲ ἀφικόµενος δειπνεῖ. Testo(L’alternanza di forme testimoniata dai codici si imputa sia al fatto che βδελλολάρυγξ è un hapax, sia presumibilmente a fattori meccanici di errore di trascrizione (ad es. per βδελολαρ- di F la pronuncia scempiata del gruppo –λλ). Notevole è βδελλοφαρύγγων (S) possibile anche per lo scambio testimoniato tra λάρυγξ e φάρυγξ (v. a βδελλολαρύγγων); Meineke FCG II.1 p. 39 suggeriva un confronto con il simile ποντοφάρυγξ (PCG VIII, fr. *645 K.–A. in Phryn. praep. soph. p. 101,13 De Borries), ma notava anche che l’usus attico prevede sempre per questo sostantivo la forma φαρύγ- non φαρύγγ- (cfr. ad es. nello stesso Cratino frr. 198,3 e 277 K.–A., Ar. fr. 625 K.–A., Pherecr. fr. 75 K.–A., Telecl. fr. 1,12 K.–A.; al contrario per λαρυγγ- sempre con -γγ, Ar. Eq. 1363, Ran. 575, Crobyl. fr. 8,3 K.–A., Pherecr. fr. 37,3 e fr. 113,7 K.–A., Eub. fr. 137,2 K.–A.). Per la constitutio textus, fanno difficoltà sia la presenza dell’articolo iniziale τῶν, sia quella del pronome αὐτῶν dopo ἀνεπαγγέλτων. A meno di pensare ad un difficile iperbato, non sembra probabile che τῶν e αὐτῶν possano intendersi insieme, cfr. Kühner–Gerth II.1 § 465, p. 6276s. e Schwyzer II, p. 211; altrettanto improbabile sembra l’ipotesi della dipendenza di un genitivo dall’altro, uno dei quali da intendere come partitivo. Su un possibile genitivo assoluto, v. infra. Interessante la proposta di Luppe 1986, p. 142 e n. 2, secondo il quale “Anstoß erregt […] das Wort αὐτῶν. Unnötig erscheint der Artikel (τῶν)” e, quindi, si può leggere βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων αὖ φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον “Der/da/nachdem du (er) wiederum zum Mahle von unangemeldeten ‘Saugigelschlünden’ gekommen bist (ist)”; questa ipotesi è così motivata: “αὐτῶν […] ist fälschlich nach ἀνεπαγγέλτων aus αὖ entstanden [n. 2] Der Artikel τῶν geht vielleicht auf eine Korrekturbemerkung am Rand zurück. d.h., es könnte angenommen werden, dass die innerhalb des Verses (nach αυ) zu tilgende Silbe τῶν mit Tilgungszeichen an den Rand neben den Vers gesetzt war. So liesse sich zumindest zweimaliges fälschliches Auftauchen von των in dem Zitat erklären” (cfr. anche a fr. 47 K.–A. Possibile, ma meno verisimile anche un testo solo in parte diverso da quello di Luppe: espungere solo il

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Cratino

primo τῶν, disporre su due versi [v. infra] e avere, quindi: βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων αὐτῶν φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον). Una possibile, differente soluzione potrebbe essere mantenere l’articolo iniziale, ma modificare αὐτῶν in αὐτός e intendere la forma tràdita come un errore dovuto alll’omeoteleuto delle tre precedenti parole (similmente all’ipotesi di Luppe, v. supra); τῶν βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων potrebbe essere, in questo caso, o un genitivo assoluto il cui verbo era espresso in precedenza e omesso nella citazione dei testimonia (per l’obbligo di espressione del verbo nel genitivo assoluto v. Kühner–Gerth II.2, § 486, p. 816s., Humbert 1954, p. 130), ovvero un genitivo partitivo dipendente da αὐτός. Questa soluzione permetterebbe, inoltre, di avere nel verso un soggetto (αὐτός) chiaramente espresso, da connettere con il participio φοιτήσας. Le altre soluzioni prospettate non convincono perché alterano pesantemente il testo tràdito, senza offrirne una spiegazione: 1) Meineke FCG II,1 p. 39: βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων φοιτησάντων ἐπὶ δεῖπνον (così anche Edmonds FAC I, p. 36 e Luppe 1966, p. 188 e n. 1); 2) Kock CAF I, p. 25 βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων µέτα φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον; 3) Kaibel (apud PCG IV, p. 145) 〈πολλῶν ἀνδρῶν〉 βδελλιοφαρύγων ἀνεπαγγέλτων φοιτησάντων ἐπὶ δεῖπνον; 4) Zieliński 1931, p. 80 τῶν βδελλολαρύγγων6/6ἀνεπαγγέλτων 〈µάλα τ᾽〉 αὐτ〈οµάτ〉ων φοιτησάντων ἐπὶ δεῖπνον208. Per quanto riguarda la metrica, è possibile intendere un singolo verso solo se si corregge il testo e, in questo senso, l’ipotesi migliore rimane quella di Luppe (v. supra): βδελλολαρύγγων ἀνεπαγγέλτων αὖ φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον. Ιn alternativa si può seguire l’ipotesi di Zieliński (v. supra, ma senza le modificazioni testuali), distinguere su due versi e intendere: 1) τῶν βδελλολαρύγγων come la parte finale di un tetrametro anapestico (llkkll); 2) il successivo ἀνεπαγγέλτων αὐτῶν (o anche αὐτός, v. supra) φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον come l’inizio del successivo tetrametro, interrotto al terzo metron (ciò che seguiva δεῖπνον poteva realizzare il secondo anapesto del terzo metron o in spondeo o in dattilo per soluzione della lunga). Una distinzione su due versi è possibile anche se si accetta il testo di Luppe βδελλολαρύγγων6/6ἀνεπαγγέλτων αὖ φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον.

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Singolare il tentativo di Runkel 1827, p. 15: τῶν ἀνεπαγγέλτων 〈τις〉 βδελολαρύγγων6/6αὐτῷ φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον, così motivato: “illud τις inserui, cum hexametros (sic!) hic latere credam”.

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Interpretazione(Il lessico impiegato (βδελλολάρυγξ, ἀνεπάγγελτος, φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον) individua chiaramente gli atteggiamenti tipici di un parassita, come descritto in Luc. Par. 13 ὥσπερ τινὰς ἐκ τῶν διδασκάλων ὁρῶµεν, τίς δ’ ἐπὶ δεῖπνον ἀπιὼν ὤφθη σκυθρωπός, ὥσπερ οἱ εἰς διδασκαλεῖα φοιτῶντες; καὶ µὴν ὁ µὲν παράσιτος ἑκὼν αὐτὸς ἐπὶ δεῖπνον ἔρχεται µάλα ἐπιθυµῶν τῆς τέχνης (su cui Nesselrath 1985, pp. 325–330; per i parassiti non invitati a banchetto, v. anche Olson 2007, p. 55 con bibl. e p. 113–115 a Eupol. fr. 172 K.–A., su cui anche Napolitano 2012, pp. 136–150). La persona di cui si parla, soggetto del participio φοιτήσας, è quindi un parassita che si introduce senza invito a un banchetto; come già aveva inteso Luppe 1986, p. 142 e n. 2 (“der/da/ nachdem du (er) … gekommen bist (ist)”), il referente di φοιτήσας, senz’altro un maschile, potrebbe essere una seconda singolare alla quale chi parla si rivolge direttamente (e, in questo caso, si potrebbe senz’altro pensare ad una connessione con il fr. 47, dove il soggetto, σύ, è esplicito, v. infra ad loc.), oppure una terza singolare (non è esclusa nemmeno una prima singolare ‘io’ e, in questo caso, persona loquens e destinatario si identificano, v. infra; queste tre alternative sono possibili anche se per il tràdito αὐτῶν si accettasse αὐτός [v. Testo], chiaramente in questo caso il soggetto esplicito da connettere con φοιτήσας). Ignoto il resto: a) identità della persona loquens (e del destinatario), b) a cosa possa riferirsi δεῖπνον, c) presunto legame o vicinanza nell’originale dei frr. 46 e 47. Secondo l’ipotesi di Koerte 1904, p. 494 il riferimento è generico e avulso dallo svolgimento dell’azione scenica: “Die Fragmente 44. 45 gehören wohl beide Chorpartien an und haben mit der Handlung nichts zu thun”; tuttavia se nel caso del fr. 46 il soggetto di φοιτήσας (che si legga o no αὐτός) può essere del tutto generico ed estraneo alle dramatis personae (e il frammento stesso potrebbe contenere un riferimento avulso dal contesto dell’azione drammatica: un qualsiasi personaggio potrebbe riferirsi all’ignoto soggetto di φοιτήσας e ricordare la sua abitudine di andare ai banchetti non invitato, magari qualcuno noto per la sua ghiottoneria o simili), lo stesso non si può dire per il fr. 47, in cui l’esplicito σύ γε πρῶτος ἄκλητος implica verisimilmente un riferimento ad uno dei personaggi presenti in scena (v. a fr. 47 K.–A.). Secondo Luppe 1966, p. 188 il banchetto in questione è quello che i pastori stavano celebrando sul monte Ida all’inizio della commedia (per la parte iniziale della commedia, v. pp. 215–217), quando l’arrivo di Hermes in cerca di Alessandro e poi quello di Dioniso potrebbero aver suscitato la reazione alterata dei pastori che così si rivolgevano alle due divinità; se la presenza di un doppio coro, uno dei quali di pastori, è però dubbia (cfr. p. 2036s.), non si può, invece, escludere che fossero i satiri coreuti a celebrare un banchetto all’inizio della commedia, al quale Hermes o Dioniso cercavano di partecipare non invitati e suscitavano, quindi, questa reazione (qualche difficoltà a questa ipotesi è rappresentata dal

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Cratino

metro, in Aristofane testimoniato soprattutto in parabasi e agone, cfr. White 1912 p. 122). Secondo Olson 2007, p. 92 si può pensare ad una collocazione agonale, metri causa (il confronto è con Cratet. fr. 16 K.–A., Telecl. fr. 1 K.–A. etc., cfr. Olson 2007, p. 99); l’agone era verisimilmente riassunto nella sezione perduta della hypothesis e secondo Bakola conteneva un confronto tra Hermes e Dioniso (v. p. 2156s.) e non si può escludere che il riferimento ne facesse in qualche modo parte (anche se la presenza di ghiottoni e di un atteggiamento parassitico non si spiegano con facilità). Infine si può pensare all’esodo della commedia (Thieme 1908, p. 17), alla luce del confronto con Ar. Eq. 1316–1334, una sezione in tetrametri anapestici catalettici (come nel nostro caso), cui ne segue una in trimetri giambici (1335–1408) che porta alla conclusione della commedia; se nell’esodo era presente un banchetto per le nozze di Elena e Alessandro, cui faceva riscontro la figura sconsolata di Dioniso consegnato agli Achei, potrebbe essere proprio questi ad aver cercato di introdursi nel banchetto (cfr. fr. 44 Interpretazione)209. βδελλολαρύγγων(Un hapax, composto nominale da βδέλλα ‘sanguisuga’ e λάρυγξ ‘gola’ (v. infra), quindi ‘gola di sanguisuga’, cfr. DELG s.6v. βδάλλω, βδέλλα “larynx de sangsue” (βδάλλω, βδέλλα è un “groupe expressif ” [DELG s.6v.], di etimologia ignota, le cui attestazioni presentano diversi significati: βδάλλω ‘mungere’ [Plat. Theaet. 174d, Arist. HA 522b 17] o ‘succhiare’ [Aristot. GA 746a 20], βδάλσις in Gal. VII 137 ‘succhiamento o mungitura’; βδέλλα ‘sanguisuga’ [Herod. II 68, Theoc. II 56], βδελλίζω ‘applicare sanguisughe’ [Gal. XI,317]). Il secondo elemento λαρυγγ- significa specificamente ‘laringe’, ossia la parte superiore della trachea, v. ad es. Aristot. HA 493a 6, ma in commedia e nel dramma satiresco (il sostantivo non compare mai in tragedia) è impiegato spesso nel senso di φάρυγξ ‘gola’ (LSJ, DELG, GEW s.6v., Blaydes 1896, p. 22; lo scambio opposto φάρυγξ per λάρυγξ in Aristot. Part. an. 664a 16), v. Eur. Cycl. 158, Ar. Eq. 358, 1363, Ran. 575 (v. Dover 1993, p. 267 “both λάρυγξ and φάρυγξ appear in comedy as terms for the channel which the food goes down, and it would be unrealistic to postulate a difference here”), Pherecr. fr. 37,3 K.–A. (Graēs, v. Urios–Aparisi 1992, p. 1676s.), fr. 113,7 K.–A. (Metallēs, v. Rehrenböck 1985, p. 152), Eupol. fr. 463 K.–A., Crobyl. fr. 8,3 K.–A., Eubul. fr. 137,2 K.–A., Sopat. fr. 15,2 K.–A., Mach. fr. 10,88 Gow (v. Gow 209

L’assegnazione del fr. 44 e dei frr. 46 e 47 all’esodo non ha in alcun caso argomenti probanti (v. comm. ad locc.); l’attribuzione di tutti e tre a questa sezione offre qualche difficoltà per il metro, se si accetta per il fr. 44 un’interpretazione come tetrametro giambico catalettico, che si accompagnerebbe ai tetrametri anapestici catalettici dei frr. 46 e 47. Per entrambi si possono confrontare analoghi utilizzi aristofanei (v. comm. ad locc. ai frammenti), ma non si spiega bene la loro contemporanea presenza.

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1965, p. 80). L’unico altro composto con λαρυγ- a noi noto è λαρυγγόφωνος in Sopat. fr. 15,2 K.–A.; per l’utilizzo dei composti in commedia v. Meyer 1923 in part. pp. 106–111 e 119–132 (commedia antica, 119–123: Cratino). Se, come sembra, il riferimento è a un ghiottone (v. Interpretazione), si può confrontare dello stesso Cratino γαστροχάρυβδις (fr. 428 K.–A.), ancora detto di un ghiottone e probabilmente modellato su ποντοχάρυβδις di Hipp. fr. 128,1 W. = 126,1 Degani, v. Kassel–Austin PCG IV, p. 316. ἀνεπαγγέλτων(‘Non invitato’, in specifico riferimento a chi partecipa senza invito ad un banchetto: così Sud. α 2285, testimone del frammento e altre fonti (v. supra e Contesto della citazione) che spiegano con ἄκλητος (v. infra fr. 47 ad loc.) e così in Luc. XX (Iov. trag.) 28,12 ἔθος γοῦν αὐτοῖς συνεχῶς ἰέναι παρ᾽ αὐτοὺς µετὰ δαῖτα καὶ ἀνεπαγγέλτοις ἐνίοτε (Damide risponde a Timocle sul fatto che gli dei non hanno tempo di occuparsi di lui, gravati dai loro impegni, tanto più che spesso si recano anche dagli Etiopi a banchetto, talvolta non invitati). Unica altra attestazione letteraria, Pol. IV 6.14 Αἰτωλοὶ […] πολέµους ἀνεπαγγέλτους φέροντες πολλοῖς dove il significato è differente, ‘non annunciato’, “begun without formal declaration” (LSJ s.6v., cfr. Mauersberger 1956, s.6v. ‘unangekündigt’). φοιτήσας ἐπὶ δεῖπνον(Φοιτάω vale genericamente ‘go to and from, backwards and forwards, and generally, with notion of repeated motion’ (LSJ s.6v.). L’espressione φοιτᾶν ἐπὶ δεῖπνον indica un atteggiamento tipico del parassita, che si presenta a un banchetto per lo più senza invito (spesso, infatti, con ἄκλητος, v. infra); cfr. Eup. fr. 175 K.–A. (Kolakes): οὐ πῦρ οὐδὲ σίδηρος6/6οὐδὲ χαλκὸς ἀπείργει6/6µὴ φοιτᾶν ἐπὶ δεῖπνον “parassiti–adulatori dovevano celebrare (…) il proprio indomito e impavido coraggio di mangioni” (Napolitano 2012, p. 126 e n. 315, anche in riferimento a Cratino); Ar. fr. 284 K.–A. (Dramata ē Kentauros) χωρεῖ ἄκλητος ἀεὶ δειπνήσων e (in prosa) Plut. Cat. 37,5 αἰσθόµενος οὖν αὐτὸς οὔτ’ ἐπὶ δεῖπνον ἔτι φοιτᾶν. Un’ulteriore attestazione, probabilmente, in POxy XXV 2742 (CGFP *74 Austin = PCG VIII 1104 = CLGP II.4, 4 Perrone) fr. 1 rr. 30–32 ἀλλὰ χορευτὴς | … φ]οιτᾶν ὕστ̣ατος αἰεὶ πλὴν | ἐπὶ δεῖ]π̣νον (parte del testo originario; l’interpretamentum inizia dal successivo ἐπειδή, v. Perrone 2009, p. 49), dove, se si segue l’integrazione τὰς µελ]έτας ‘prove teatrali’ di Sandbach a inizio r. 33, si ottiene un plausibile riferimento al fatto che i coreuti erano digiuni alle prove teatrali che si svolgevano di prima mattina (cfr. [Aristot.] Pr. 901b e Wilson 2000, p. 846s.) e si attribuisce al coreuta un atteggiamento tipico della figura del parassita (sulla questione v. Perrone 2009, p. 496s.). V. anche fr. 47 K.–A., ἄκλητος.

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Cratino

fr. 47 K.–A. (45 K.) οὐ γάρ τοι σύ γε πρῶτος ἄκλητος φοιτᾷς ἐπὶ δεῖπνον ἄνηστις οὐ Athen.: ἰοὺ aliiƒƒƒτοι Athen.: om. aliiƒƒƒπρῶτος Athen., Sud., Lex. Bachm.: πρῶτον Phot. ἄκλητος om. Athen.

Non infatti certamente tu per primo non invitato vai a un banchetto digiuno b

Σ α 1383 = Phot. (b, usque ad νῆστις z) α 1940 = Sud. α 2443 ἄνηστις ἡ (ὁ Meineke: del. Kaibel) νῆστις παρὰ Κρατίνῳ ἐν (νῆστις Κρατῖνος Phot.) ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ ἰοὺ γὰρ—ἄνηστις anēstis: ē nēstis in Cratino nel Dionysalexandros: ahi infatti—digiuno Athen. epit. II 47a τὸ ἄνηστις ἡ (ὁ B: del. Kaibel) νῆστις πλεονασµῷ τοῦ α, ὡς στάχυς ἄσταχυς, παρὰ Κρατίνῳ κεῖται∙ οὐ γὰρ—ἄνηστις to anēstis ē nēstis con il pleonasmo di a, come stachys astachys, si trova in Cratino: non infatti—digiuno Eust. in Il. p. 947,17 (III, p. 514 van der Valk) (15) οὕτω δὲ πλεονασµὸς τοῦ α ἐστὶ καὶ ἐν τῷ ἄσταχυς, στάχυς γὰρ τὸ κοινὸν […] (17) καὶ τὸ ἄνηστις ἐκ τοῦ νῆστις, ὡς παρὰ Κρατίνῳ, καθὰ γράφει Ἀθήναιος, “οὐ γὰρ—ἄνηστις” (15) e così il pleonasmo di α è anche in astachys, stachyus infatti è la forma comune […] (17) e anēstis da nēstis come in Cratino, come scrive Ateneo “non infatti—digiuno” Et. gen. AB s.v. ἄνηστις ἄνηστις∙ ὁ ἄσιτος. Κρατῖνος ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ∙ φοιτᾷς—ἄνηστις κτλ. (οὔτως Ἡρωδιανὸς περὶ παθῶν add. A) anēstis: o asitos. Cratino nel Dionysalexandros: vai—digiuno b

Σ α 2259 ἄσταχυς καὶ ἀσταφίς, καὶ ὅλως τὸ πλεονάζειν τῷ α ἐν ἀρχῇ τῶν τοιούτων ὀνοµάτων Ἀττικόν ἐστιν. Ὅµηρος∙ (Β 148). Κρατῖνος∙ φοιτᾷς—ἄνηστις astachys e astaphis e in generale il pleonasmo di a all’inizio di queste parole è attico. Omero: (β 148). Cratino: vai—digiuno

Metro(Tetrametro anapestico catalettico

lllr lrll| llkkl kkll

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 47)

285

Bibliografia(Runkel 1827, p. 15 (fr. II), Meineke FCG II.1 (1839), p. 386s. (fr. III), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 146s., Bothe PCGF (1855), p. 126s. (fr. 3), Kock CAF I (1880), p. 266s., Koerte 1904, p. 494, Thieme 1908, p. 176s., Zieliński 1931, p. 80, Pieters 1946, p. 170, 189, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 145, Luppe 1986, p. 142, Casolari 2003, p. 1086s., Olson 2007, p. 92, Henderson 2011, p. 184, Storey FOC I (2011), p. 2946s. b

Contesto della citazione(Fonti lessicografiche (Σ α 1383, Fozio, Suda) citano il verso per testimoniare il fatto che ἄνηστις ha in Cratino lo stesso valore di νῆστις. Il verso è citato, inoltre, da Ateneo nel l. II all’interno di un elenco di termini (da 47a a 47e) relativi all’ambito del mangiare aperto da anēstis, poi seguito ad es. da oxypeinos (vorace), monositōn (participio, ‘che mangia da solo’) e altri (segue questa sezione una in cui si discute dell’acqua, delle sorgenti, dei suoi benefici [da II 40f] della sua funzione di nutrimento [46f] da cui una breve discussione su altri liquidi usati come fonte di sostentamento; il cambio di tema avviene senza soluzione di continuità e non è chiaro quale possa essere il possibile collegamento). In Ateneo è presente l’informazione che la forma ἄνηστις presenta il pleonasmo di α, come nella coppia στάχυς/ ἄσταχυς. Tramite Ateneo, come esplicitamente detto (καθὰ γράφει Ἀθήναιος), il verso è presente in Eustazio, all’interno del commento a Ν 571, dove ricorre la forma verbale ἤσπαιρ᾽(ε), di cui Eustazio nota: τὸ σπαίρειν καὶ τὸ σπαρίζειν οὐκ ἀνάγκην ἔχει ἐφέλκεσθαι τὸ ἄλφα φύσει […] οὐκοῦν τὸ ἀσπαίρειν ἢ ἐπίτασιν δηλοῦν ἢ καὶ ἄλλως πλεονάζον προσῆλθε τὸ α; a ciò seguono gli b esempi di pleonasmo di α in astachys e in astaphis (gli stessi di Σ α 2259), quindi quello di anēstis/nēstis. b Una pericοpe di testo (φοιτᾷς—ἄνηστις) è presente in Σ α 2259 con a) l’informazione del pleonasmo di α, b) gli esempi simili di astachys e astaphis, c) la specificazione che si tratta di un uso attico. La stessa pericope di testo è presente in Et. gen. AB, che specifica, però, il significato di ἄνηστις, qui glossato con ἄσιτος. b Da Σ α 2259 dipendono le glosse, analoghe, di Phot. α 2992 ἄσταχυς καὶ ἀσταφίς· καὶ ὅλως τὸ πλεονάζειν τῷ α ἐν ἀρχῇ τῶν τοιούτων ὀνοµάτων Ἀττικόν e Sud. α 4224 ἄσταχυς καὶ ἀσταφίς, καὶ ὅλως τὸ πλεονάζειν τῷ α ἐν ἀρχῇ τῶν τοιούτων ὀνοµάτων Ἀττικόν. ἐπὶ τ᾽ ἠµύει ἀσταχύεσσιν. Altre testimonianze sono Hsch. α 5098 ἄνηστις· ἀντὶ τοῦ νῆστις, προσκειµένου τοῦ α, ὡς ἀσταφίς, Phryn. praep. soph. fr. *265, Moeris α 76 ἀσταφίς Ἀττικοί, σταφίς Ἕλληνες. Testo(Il verso completo di Cratino si ricostruisce dai due testimoni principali, b le fonti lessicografiche (Σ α 1383, Fozio, Suda) e Ateneo. Nelle prime il verso è aperto da ἰού, ametrico (ῐ, cfr. ad es. Ar. Thesm. 245 etc.) ed è omesso τοι;

286

Cratino

Ateneo riporta, invece, all’inizio la negazione οὐ e conserva τοι, ma omette l’aggettivo ἄκλητος. Zieliński 1931, p. 80 propose οὐ γὰρ σύ γε πρῶτος ἄκλητος 〈ἀεί〉 κτλ. per il confronto con Ar. fr. 284 K.–A. (Dramata ē Kentauros) χωρεῖ δ᾽ ἄκλητος ἀεὶ δειπνήσων· 〈οὐ γὰρ ἄκανθαι〉, una correzione certamente non necessaria e motivata dal solo voler uniformare il testo di Cratino al simile dettato di quello di Aristofane (cfr. anche infra ad loc. per l’utilizzo di γάρ τοι)210. Del solo Fozio è πρῶτον in luogo di πρῶτος, una lezione difesa da Luppe 1986, p. 142 (“nicht … zum ersten Mal kommst du ungerufen”) per tre motivi: a) per il presunto legame con il fr. 46 (dove Luppe stesso leggeva αὖ dopo ἀνεπαγγέλτων, v. p. 2796s.); b) per evitare i tre predicativi πρῶτος ἄκλητος ἄνηστις (“wäre ein dreifaches Praedicativum πρῶτος – ἄκλητος – ἄνηστις ungewöhnlich)”; c) perché è difficile con il maschile πρῶτος spiegare la glossa ἄνηστις ἡ νῆστις nei testimonia. Di conseguenza, Luppe concludeva: “πρῶτος geht dort also wohl auf mechanische Angleichung durch einen Schreiber der gemeinsame Vorlage zurück”211. Non è escluso che ciò possa essere corretto, tuttavia: per quanto riguarda a), nonostante i frammenti 46 e 47 possano intendersi con ogni verisimiglianza originariamente vicini, poichè tale vicinanza non è ulteriormente definibile non pare opportuno alterare per questo il testo tràdito; per b) cfr. ad es. Ar. Thesm. 1916s. σὺ δ’ εὐπρόσωπος, λευκός, ἐξυρηµένος,6/6γυναικόφωνος, ἁπαλός, εὐπρεπὴς ἰδεῖν, l’esempio più simile tra quelli elencati da Spyropoulos 1974, p. 174–176 (nr. 269–298); infine, per c) le testimonianze lessicografiche e Ateneo glossano l’aggettivo con un femminile212, ma Et. gen. AB con ὁ 210

211 212

L’espunzione di τοι fu proposta inizialmente anche da Meineke FCG II.1, p. 39 che pensava ad una divisione del verso “οὐ γὰρ σύγε πρῶτος ἄκλητος6/6φοιτᾷς ἐπὶ δεῖπνον ἄνηστις. Eodem metri genere quo Cratinus usus est Ulix. Fragm. XIV [Meineke intende qui probabilmente il moderno fr. 151 K.–A. in paremiaci, corrispondente al suo fr. XV, non XIV, corrispondente al fr. 156 K.–A., una testimonianza sull’utilizzo di µονόφθαλµον e ἐτερόφθαλµον, v. Kassel–Austin PCG IV, p. 199]”. Ma lo stesso Meineke aggiungeva, subito dopo, “sed commode retineri potest τοι, ut sit versus anapaesticus tetrameter, ex eadem fabulae parte, ex qua sequens fragmentum, petitus [i.e. fr. 46 K.–A.]”. Nel testo di Ateneo la lezione πρῶτος è intesa da Luppe ibid. come conseguenza dell’omissione di ἄκλητος, ossia πρῶτος deriverebbe da πρῶ 〈τον ἄκλη〉τος. Nessun motivo reale di alterare in questi casi il testo tràdito. In Σb α 1383 (e, di conseguenza, in Suda e Fozio) per il tràdito ἄνηστις ἡ νῆστις, Meineke (FCG II.1, p. 38) propose ὁ νῆστις, senza fornire una motivazione, mentre Kaibel apud Kassel– Austin PCG IV, p. 145 espunse l’articolo, ma senza una valida ragione. Lo stesso,

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 47)

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ἄσιτος, quindi, al contrario, con un maschile; inoltre, l’unica altra occorrenza di ἄνηστις è in Aesch. fr. *258a R. 〈x l〉 ἄνηστις δ᾽ οὐκ ἀποστατεῖ γόος, dove è riferito al maschile γόος (cfr. infra ad loc.). Νon appare quindi esserci un reale motivo per accettare πρῶτον di Fozio in luogo del maschile πρῶτος attestato dagli altri testimonia (v. anche Interpretazione). Interpretazione(Valgono le stesse possibilità discusse per il fr. 46 K.–A. (v. supra), a prescindere da un presunto legame tra i due frammenti, certamente possibile sia per il metro che per il contenuto, ma non ulteriormente specificabile. Se, inoltre, nel caso del fr. 46 non si può escludere un riferimento generico e avulso dal contesto dell’azione drammatica (v. supra ad loc.), qui la presenza di σύ indica verisimilmente il riferimento ad una persona presente in scena; se si mantiene il tràdito πρῶτος, senz’altro un maschile, quindi Hermes, Dioniso o Alessandro. Non si può però escludere che il verso del fr. 47 sia una battuta riportata in maniera indiretta all’interno di un discorso; in questo caso non sarebbe escluso un riferimento generico e non dipendente dall’azione scenica. Se, invece, si accettasse la lezione πρῶτον e il riferimento ad un femminile (v. Testo) e ad una persona presente in scena, il verso dovrebbe essere relativo ad uno dei personaggi femminili della commedia, ossia una delle tre dee (se, però, comparivano tutte e tre in scena, cfr. pp. 226–229) o Elena, ma in ognuno di questi casi non è chiaro perché ci si rivolga così ad uno di questi personaggi (se, invece, si pensa che la battuta fosse riportata in un discorso e il destinatario fosse femminile, il riferimento è ancora meno definibile; forse al banchetto di nozze di Peleo e Teti e ad Eris non invitata che lanciava la mela e generava la discordia tra le tre dee?). οὐ γάρ τοι(“Xenophon, like Euripides and Aristophanes […] sometimes uses γάρ τοι in assentient answers” (Denniston 1954, p. 550), un uso, questo, probabilmente colloquiale e che ricorre, però, per lo più in connessione con un pronome dimostrativo (Denniston ibid. p. 886s.). Rimane perciò incerto se qui γάρ τοι possa introdurre effettivamente una risposta affermativa (cfr. Olson 2007, p. 92: “Probably an assentient answer (‘(Yes), because you’re not, in fact, the first …’)”) ovvero se τοι abbia semplice valore ancillare rispetto a 2 γάρ (v. ancora Denniston 1954 , in part. p. 5496s.). ἄκλητος(‘Non chiamato, non invitato’ in senso generico e per lo più associato a verbi di movimento, v. ad es. Ar. Pac. 953 ὡς ἢν Χαῖρις ὑµᾶς ἴδῃ, πρόσεισιν αὐλήσων ἄκλητος (il citarodo Cheride che, anche non invitato,

Kaibel (ibid.) fece nell’epitome di Ateneo, dove i codici riportano il femminile (e il solo B un maschile ὁ, la cui validità è però dubbia per lo statuto di questo codice, v. Arnott 2000b, p. 456s.).

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Cratino

si presenta per suonare il flauto); cfr. ancora Apollod. Car. fr. 29, 16s. K.–A. (Iereia) καινόν γέ φασι Χαιρεφῶντ’ ἐν τοῖς γάµοις6/6ὡς τὸν Ὀφέλαν ἄκλητον εἰσδεδυκέναι; fr. 31,26s. K.–A. (Sphattomenē) καλῶ δὲ Χαιρεφῶντα· κἂν γὰρ µὴ καλῶ,6/6ἄκλητος ἥξει. Con specifico riferimento a chi partecipa non invitato a un banchetto, ἄκλητος è attestato la prima volta in Asius fr. 14,3 2 W. χωλός, στιγµατίης, πολυγήραος, ἶσος ἀλήτῃ6/6ἦλθε κνισοκόλαξ, εὖτε Μέλης ἐγάµει,6/6ἄκλητος, ζωµοῦ κεχρηµένος213, poi nel V sec. a.6C. in tragedia ad es. in Aesch. Prom. 1024 ἄκλητος ἕρπων δαιταλεὺς πανήµερος (l’aquila che si nutre ogni giorno del fegato di Prometeo, come un convitato, ma a un banchetto non invitato) e in numerose attestazioni comiche, v. ad es. Ar. fr. 284 K.–A. (Dramata ē Kentauros) χωρεῖ ἄκλητος ἀεὶ δειπνήσων, Timocl. fr. 11,36s. K.–A. (Epichairekakos) ὁ γοῦν Κόρυδος ἄκλητος, ὡς ἐµοὶ δοκεῖ,6/6γενόµενος ὠψώνει, Alex. fr. 210, 16s. (Synapothnēskontes) ἐπὶ δεῖπνον εἰς Κόρινθον ἐλθὼν Χαιρεφῶν6/6ἄκλητος, Antiph. 193,7 (Progonoi) δειπνεῖν ἄκλητος µυῖα, µὴ ’ξελθεῖν φρέαρ, Antiph. 227, 1–3 (inc. fab.) οὗτοι δὲ 〈πρὸς〉 τὰ δεῖπνα τῶν ἐν τῇ πόλει6/6ἀφορῶσι l a καὶ πέτονται δεξιῶς6/6ἐπὶ ταῦτ’ ἄκλητοι […] 6–76 Ὀλυµπίασί φασι ταῖς µυίαις ποιεῖν6/6βοῦν τοῖς ἀκλήτοις προκατακόπτειν πανταχοῦ. Cfr. anche Ar. Av. 9836s. αὐτὰρ ἐπὴν ἄκλητος ἰὼν ἄνθρωπος ἀλαζὼν6/6λυπῇ θύοντας καὶ σπλαγχνεύειν ἐπιθυµῇ. Tra le numerose occorrenze di prosa Kassel–Austin (PCG IV, p. 145) richiamano Xen. Symp. I 13 ἥκω δὲ προθύµως νοµίσας γελοιότερον εἶναι τὸ ἄκλητον ἢ τὸ κεκληµένον ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον (a parlare è Filippo, definito γελοποιός [I 11; caratterizzato come κόλαξ secondo Ribbeck 1883, p. 15], che spezza il silenzio con cui era cominciato il banchetto in casa di Callia, arrivando all’improvviso e suscitando il riso con questa battuta in cui vengono chiaramente opposti l’essere e il non essere invitati ad un banchetto, v. in part. sul passo di Senofonte Woldinga 1939, p. 2276s.). φοιτᾷς ἐπὶ δεῖπνον(V. p. 283. ἄνηστις(Νῆστις ‘digiuno’ è composto di un prefisso negativo νη- e del radicale del verbo ἔδω ‘mangiare’ (LSJ e GEW s.6v.); ἄνηστις presenta un ulteriore prefisso α, come ad es. ancora in νήκεστος/ἀνήκεστος (‘incurabile) e altri analoghi (v. Moorhouse 1959, p. 53 e n. 3), che non ne modifica il significato (si tratta, verisimilmente, di una vocale protetica, v. Schwyzer I, p. 4116s.) ed è, per questo, definito come pleonasmo da alcuni dei testimoni (v. supra)214. 213 214

Non attesta l’aggettivo, ma esprime il medesimo concetto Arch. fr. 124 W.2 πολλὸν δὲ πίνων καὶ χαλίκρητον µέθυ /3 οὐδὲ µὲν κληθεὶς 〈kl〉 ἦλθες οἷα δὴ φίλος. Σb α 2259 definisce il fenomeno come attico: τὸ πλεονάζειν τῷ α ἐν ἀρχή τῶν τοιούτων ὀνοµάτων Ἀττικόν ἐστιν. Che il fenomeno sia specificamente attico è possibile, ma le testimonianze in nostro possesso mostrano una situazione più

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 48)

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Secondo Olson 2007, p. 92 “ἄνηστις ‘fasting’, i.e. ‘intensely hungry’. The initial α is an intensifier rather than a privative, and the adjective is equivalent in the sense to the more common νῆστις”. La forma ἄνηστις è attestata solamente qui e in Aesch. fr. *258a R. 〈x l〉 ἄνηστις δ᾽ οὐκ ἀποστατεῖ γόος; normale è νῆστις, già omerico (Τ 156, 207, ϲ 370, cfr. LfgrE s.6v. [R. Führer]) e presente in tragedia, v. ad es. Aesch. Ag. 193, Choeph. 250, Prom. 573, 599, e in commedia. In quest’ultima νῆστις è termine che caratterizza specificamente le persone affamate e talora, in modo particolare, i parassiti: Ar. fr. 159 Κ.–A. ἇρ’ ἔνδον ἀνδρῶν κεστρέων ἀποικία;6/6ὡς µὲν γὰρ εἰσι νήστιδες, γιγνώσκετε, Eub. fr. 68 Κ.–A. ὃς νῦν τετάρτην ἡµέραν βαπτίζεται6/6νῆστιν πονηροῦ κεστρέως τρίβων βίον, Anaxandr. fr. 35,8 Κ.–A. (riferito ad un parassita) τὰ πόλλ’ ἆδειπνος περιπατεῖ, κεστρῖνός ἐστι νῆστις, Antiph. fr. 136 Κ.–A. κεστρεῖς ἔχων, ἀλλ’ οὐ στρατιώτας, τυγχάνεις6/6νήστεις, Alex. fr. 258 Κ.–A. ἐγὼ δὲ κεστρεὺς νῆστις οἴκαδ’ ἀποτρέχω, Diph. fr. 53 Κ.–A. οὗτοι δεδειπνήκασιν· ὁ δὲ τάλας ἐγὼ6/6κεστρεὺς ἂν εἴην ἕνεκα νηστείας ἄκρας, Euphro fr. 2 Κ.–A. Μίδας δὲ κεστρεύς ἐστι· νῆστις περιπατεῖ), cfr. anche Ribbeck 1883, p. 71 (per altre occorenze di νῆστις in commedia, v. ancora Ar. frr. 7, 156, 324, 506 K.–A., Theop. fr. 13.1 K.–A., Amips. fr. 1.3 K.–A. [con Orth 2013, p. 1916s.).

fr. 48 K.–A. (41 K.) νακότιλτος ὡσπερεὶ κῳδάριον ἐφαινόµην νακότιλτος FS: ἀκότιλτος Aƒƒƒκῳδάριον Kassel–Austin (iam Edmonds): κωδάριον Α: κοδάριον F: καδάριον S

Apparivo con il vello strappato come una pelliccetta complessa. Accanto ad ἄνηστις, Σb α 2259 cita ἄσταχυς (già presente in Athen. ep. II 47 A) e ἀσταφίς; cfr. Moeris α 76 ἀσταφίς Ἀττικοί· σταφίς Ἕλληνες e v. anche Moer. α 77 Hansen ἀσκαρίζειν Ἀττικοί· σκαρίζειν Ἕλληνες. Si osserva che: 1) νῆστις e non ἄνηστις è forma di largo impiego in commedia e in tragedia (v. supra); 2) per ἄσταχυς già Σb α 2259 attesta un impiego non attico, ma omerico (B 148 ἐπὶ τ᾽ ἠµύει ἀσταχυέσσιν) e στάχυς è normalmente impiegato in tragedia (Aesch. Pers. 84, Eur. Hec. 593), commedia (ad es. Ar. Eq. 393 etc.), dramma satiresco (Cycl. 121), mentre mancano attestazioni di ἄσταχυς; 3) σταφίς non è mai impiegato in attico, mentre ἀσταφίς si trova in Alex. fr. 127,4, Hermipp. fr. 163,16, Antiph. fr. 142, Xen., An. 4,4,9, Plat. Leg. 845 b6; 4) σκαρίζω è verbo rarissimo (cfr. LSJ s.6v.), mentre ἀσκαρίζω è testimoniato in Ar. fr. 495 K. (ἀπασκαρίζειν) e ancora in Crat. fr. 27 K.–A. (ἠσκάριζε).

290

Cratino

Poll. VII 28 (codd. FS, A) καὶ Ἄρχιππος µὲν ἐν Ἰχθύσιν εἴρηκε νακοτιλτοῦντα (fr. 33 K.–A.)∙ τὸ δ᾽ ὄνοµα ὁ νακοτίλτης, εἰ καὶ Φιλήµων αὐτῷ κέχρηται ἐν Ἁρπαζοµένῃ (fr. 13 K.–A.), ἀλλ᾽ οὐκ ἀνεκτόν, εἰ µὴ τὸ ῥῆµα ἦν ἐν χρήσει παλαιοτέρᾳ (-ότερον FA). καίτοι ὅ γε Κρατῖνος ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ φησί∙ νακότιλτος—ἐφαίνοµην Archippo disse nakotilotounta (“che strappa il vello”). E il sostantivo (è) nakotiltēs (“chi strappa il vello”), se anche Filemone lo ha utilizzato nell’Ηarpazomenē, ma non è sostenibile, se la parola non aveva anche un utilizzo più antico. E certamente Cratino nel Dionysalexandros dice: apparivo—pelliccetta

Metro(Cratineo?

kkl klkl lkkkk lkl

Bibliografia(Toup apud Warton 1770, p. 332, Porson 1812, p. 284, Runkel 1827, p. 16 (fr. VI), Bergk 1838, p. 27, Meineke FCG II.1 (1839), p. 41 (fr. VIII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 8) Kock CAF I (1880), p. 25, Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 146, Koerte 1904, p. 494 e n. 1, Thieme 1908, p. 17, Pieters 1946, p. 128 n. 434, 171, 183, 193, Edmonds FAC I (1957), p. 346s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 146, Kassel–Austin PCG VII (1989), p. 812 (Addenda et corrigenda), Casolari 2003, p. 1046s., Bakola 2010, p. 263, 269, Henderson 2011, p. 184, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(Il frammento è citato per l’utilizzo di νακότιλτος, in un capitolo (VII 28) in cui è discusso il lessico inerente i venditori di lana (ἐριοπῶλαι) e il commercio di questa (ἐριοπωλεῖν), una parte del tema generale del settimo libro, le diverse τέχναι. Dopo le espressioni ἔρια οἰσυπηρά (Ar. Ach. 1177) e ἐρίων πιναρῶν πόκον (Cratin. fr. 388 K.–A., inc. sed.), Polluce attesta tre forme di un composto νακοτιλτ- (si tratta delle uniche tre attestazioni note): il participio νακοτιλτοῦντα in Archipp. fr. 33 K.–A. (Ichtyes), il sostantivo derivato da questo, νακοτίλτης, impiegato da Philemon. fr. 13 K.–A. (Harpazomenos vel –menē-215) e l’aggettivo νακότιλτος in Cratino; solo in quest’ultimo caso Polluce cita il verso contenente la parola, mentre nei due precedenti attesta solamente la forma e riferisce chi la ha utilizzata e dove. La citazione di Cratino è al termine di una precisazione che Polluce fa sull’utilizzo di Filemone (ἀλλ᾽ οὐκ ἀνεκτόν, εἰ µὴ τὸ ῥῆµα ἦν ἐν χρήσει παλαιοτέρᾳ) ed è introdotta da καίτοι (“logical”, conclude il ragionamento, v. Denniston 1954, pp. 561–564); l’attestazione dell’uso di νακότιλτος in Cratino serve quindi,

215

Per la doppia forma di questo titolo v. Bruzzese 2011, p. 193 n. 33.

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 48)

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verisimilmente, a giustificare ulteriormente l’uso di Filemone216, tanto più che in questo caso si tratta di una forma nominale e non verbale, come in Archippo (νακοτιλτοῦντα). Cfr. anche Farioli 1994, p. 30 per la possibilità che le occorrenze di Archippo e Filemone dipendano proprio da quella di Cratino, la più antica. Testo(Nessun motivo di alterare il tràdito νακότιλτος in νακότιλτον (Porson 1812, p. 284, Meineke FCG II.1 p. 41: “neutrum opus videtur”): il maschile si intende riferito all’anonimo soggetto del paragone, assimilato ad una ‘pelliccetta’ e il paragone appare più vivo rispetto ad un neutro che qualifica la ‘pelliccetta’ stessa. Probabile una scrittura κῳδάριον e non κωδάριον. La forma κωδάριον è tràdita nei testimoni del frammento di Cratino (Polluce) e di Anaxand. fr. 35,11 K.–A. (Ateneo ed Eustazio); κῳδάριον è presente nei codici di Ar. Ran. 1203. Kassel e Austin stampano κωδάριον in Cratino (PCG IV, p. 146), ma in seguito in PCG VII (1989), p. 242 a Philem. fr. 26,1, nel dare conto di una scelta κῴδιον per il tràdito κώδιον riportano, tra l’altro, la seguente notazione: “etiam Cratin. fr. 48 formam κῳδάριον restituendum esse monet V. Schmidt”. Di conseguenza, negli Addenda e corrigenda di PCG VII, p. 812 per il fr. 48 di Cratino rimandano a questa stessa notazione e accettano, quindi, κῳδάριον217; questa forma è, infatti, quella stampata in Anaxand. fr. 35, 11 in PCG II (1991), p. 255 dove ad loc. si rimanda, di nuovo, alla notazione a Philem. fr. 26,1. Κωδάριον è diminutivo derivato da κῴδιον, a sua volta diminutivo di κωᾶς (GEW, DELG s.6v.); la forma κῴδιον è garantita da documentazione papiracea 2 ed epigrafica (Men., Sam. 400, Kolax 31 Pernerstorfer); Mayser–Schmoll I 1 a 218 1970, p. 110,22 citano una sola occorrenza di κώδιον in Rein. II 109,12 (131 ) , 3 mentre già in IG I 7,17 [metà V sec. a.6C.] è presente una forma κοιδιον che 2 torna poi anche nei papiri [Mayser–Schmoll I 1 1970, p. 114s.]), compare nei codici ad es. in Ar. Eq. 400, Pac. 1122 e ha una sua giustificazione etimologica 216

217 218

Da notare che generalmente Polluce tende a non screditare le forme dei poeti di IV/III sec. a.6C., che giudica “inferiori agli autori dell’ἀρχαῖα, ma comunque validi” (Tosi 2007, p. 6; v. ad es. le citt. in 3,56 e 7,29) e che, anzi, altrove ritiene poco convincenti esempi di V/IV, cfr. οὐ πάνυ ἀνεκτόν in VI 168 per γυναικοφιλής in Polyzel. fr. 11 K.–A. e in VI 174 per ἱσοθάνατον in Soph. fr. 359 R. (per l’atticismo di Polluce e le sue differenze con il rivale e più rigido Frinico, v. Tosi 2007, in part. pp. 6–8). Una scrittura κῳδάριον nel frammento di Cratino risulta, in realtà, già in Edmonds FAC I, p. 34, che non ne fornisce, però, una motivazione. La forma senza ι si legge in Et. magn. 597, 14 κώδια καὶ κώδιον. Cfr. anche Hsch. κ 4779 κώδιον· σκύλον, ἢ δέρµα προβάτου.

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Cratino

(da un suffisso diminutivo –ίδ-ιον, con ι iniziale del suffisso che si unisce alla radice [Debrunner 1917 § 293, p. 148]); di conseguenza κῳδάριον appare preferibile e potrebbe essere confermato anche dall’unica attestazione nella tradizione diretta, κῳδάριον in Ar. Ran. 1203. Metrica(L’interpretazione è incerta. Meineke FCG II.1, p. 41 riporta un’ipotesi di G. Hermann: “metrum esse cratineum monuit Hermannus” e quella, analoga, di Bergk 1838, p. 27, il quale proponeva l’inserzione di καί prima di νακότιλτος; in alternativa, si può pensare nella stessa posizione a ὅς di Kaibel ms. apud PCG IV, p. 146 o ad analoghi (rispetto allo schema del cratineo, lkklxlxl|lxlxlku, nel frammento manca infatti la sillaba lunga iniziale). Diversa la proposta di Toup apud Warton 1770, p. 332, un trimetro giambico così ottenuto: νακότιλτος ὥσπερ κωδάριον ἐφαίνοµην (ma l’alterazione del testo tràdito non si giustifica se non per far tornare il metro). V. anche Interpretazione. Interpretazione(In hyp. col. II rr. 316s., 346s. è descritto il travestimento o la trasformazione di Dioniso (εἰς κριὸ[ν | µ(ε)τ(α)σκευάσας) e il suo successivo smascheramento (φωρά-|σας) ad opera di Alessandro; il locutore del fr. 48 parla in prima persona (ἐφαινόµην) e si deve trattare, quindi, di una delle dramatis personae. Per questo Koerte 1904, p. 494 e n. 1 propose un riferimento (ma dubbioso) a questa scena: “für 41 (= 48 K.–A.) weiss ich keine recht geeignete Stelle vorzuschlagen […] Sprach vielleicht Dionysos den Vers, nachdem er seine Rolle als Widder aufgegeben hatte?”; Dioniso descriverebbe qui la propria condizione dopo essere stato smascherato da Alessandro e sottoposto ad uno strappo dei peli (procedimento tipico con cui si ricavava la lana dalle pecore, v. a νακότιλτος), v. ancora Thieme 1908, p. 17, Casolari 2003, p. 104s. e Bakola 2010, p. 269 (quest’ultima, in alternativa ad una descrizione di Dioniso dopo essere stato scoperto, propone di pensare ad una “earlier prophetic dream or vision” del dio stesso, con rimando a LSJ s.6v. φαίνω B.II.2 per l’impiego di questo verbo in contesti di sogni o visioni; ma la funzione e collocazione scenica di tale sogno non si lasciano facilmente immaginare). Questa attribuzione è probabile, anche perché non è facile immaginare da chi altri, in prima persona, potessero essere pronunciate queste parole; ma 1) di questo atto di strappare i peli a Dioniso, tramutato in ariete, non si ha nessuna testimonianza, né nell’hypothesis né altrove e lo si può immaginare, quindi, solo ex silentio (forse un riferimento alla depilazione, di cui νακότιλτος è visibile conseguenza, come punizione caratteristica dei rei di adulterio? V. Ar. Nub. 543 τέφρᾳ τιλθῆναι, Ar. Thesm. 538 [su cui Austin–Olson 2004, p. 212], Plut. 168, Philonid. fr. 7 K.–A. [inc. fab.] e cfr. Dover 1978, p. 105 s.); 2) se il metro è davvero un cratineo (v. supra), non si inserisce facilmente in un contesto dialogico (descrizione di

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 48)

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sé di Dioniso), benché le scarse testimonianze dell’impiego del cratineo in commedia (White 1912, p. 238) non permettano più precise considerazioni. νακότιλτος(‘Che ha il vello strappato’, detto delle pecore (cfr. infra), un hapax composto di νάκος ‘vello, pelliccia’219, cfr. Hsch. ν 44 νάκος· κῴδιον, detto della capra, v. Theoc. 5,2 (con Gow 1952, p. 96) e della pecora, v. Sud. ν 21 νάκος· ἔντριχον δέρµα, ἤτοι δορὰ προβάτου. κυρίως δὲ τῆς αἰγὸς δέρµα. καὶ κῴδιον λαὶ κῶος. κῶας δὲ τὸ τοῦ προβάτου, ma anche del montone, v. Hdt. II 42.4, e detto perciò anche del vello d’oro, v. Pind. Pyth. IV 68, (cfr. Sim. PMG fr. 39 [544], tràdito in Et. magn. p. 597,14 che critica quest’uso: νάκη· τὸ αἴγειον δέρµα. κωδία καὶ κώδιον. τὸ προβάτειον. οὔκ ἄρα τὸ ἐν Κόλχοις νάκος ῥητέον. κακῶς οὖν Σιµωνίδης νάκος φησί; cfr. però i passi citati di Pindaro per il vello d’oro e di Erodoto per νάκος detto del montone); e di τίλλω ‘strappare’ (per analoghi composti con τίλλω in commedia v. Cratin. fr. 276,3 K.–A. † µετὰ τῶν † παρατιλτριῶν [su cui Kassel–Austin PCG IV, p. 261] e ἀπαράτιλτος in Ar. Lys. 279 [su cui Henderson 1987, p. 103]), detto in genere delle penne di un uccello (Hom. Ο 527, Hdt. III 76.11, Ephipp. fr. 3,8 Κ.–A, Arist. Hist. An. 618a 29; cfr. Ar. Av. 352 e 365 gli [Uccelli in riferimento all’attacco che stanno per muovere a Pisetero ed Evelpide]), ma anche dei capelli degli uomini specialmente in segno di lutto (Hom. Χ 406, Aesch. Pers. 209, Ar. Nub. 1083 [su cui Dover 1968, p. 227], Pac. 546 [su cui Olson 1998, p. 189], Men. Epitr. 488, Dysc. 674) e delle piante (Theoc. V 121, Theoph. Hist. pl. VIII 2.5)220. Anche se non esplicitamente detto delle pecore, τίλλω ‘strappare’ si può riferire al processo per cui i peli della pecora venivano strappati, cfr. Blümner 1903, p. 102 e n. 5, una pratica questa che le fonti testimoniano come più antica di quella della tosatura (Varr. rust. II 11,9 Plin. Nat. Hist. VIII 191, 2 v. ancora Blümner 1912 , p. 102 nn. 1 e 3) e soprattutto più efficace perché il 219

220

Accanto a νάκος è testimoniata una forma νάκη, impiegata solamente in 3 casi: Hom. ξ 530 ἂν δὲ νάκην ἕλετ’ αἰγός, Lycophr. 1310 ταγῷ µονοκρήπιδι κλέψοντας νάκην e Paus. IV 11,3 αἰγῶν νάκας καὶ προβάτων. Per νάκος/νάκη, cfr. Eust. in ξ 530 (II, p. 88,17 Stallbaum) ἡ δὲ νάκη καὶ νάκος λέγεται ὁµοίως τῷ νάπη νάπος καὶ βλάβη βλάβος, ὡς τὸ, σὺ δ᾽ἐπιτήρει τὸ βλάβος (Ar. Ran. 1511), καὶ δίψα δίψος, καὶ νείκη νεῖκος ἡ φιλονεικία. Una forma maschile ὁ νάκος è testimoniata in Sud. ν 21 e Et. magn. p. 597,20, ma mai in testi letterari; si tratta probabilmente di una forma erroneamente dedotta da νάκην testimoniato in Ηοm. ξ 530, che potrebbe derivare tanto dal femminile νάκη che dal maschile *νάκης, cfr. Hdn. Epimer. 1,20 = Et. Gen. A 814 = Et. Magn. p. 101,35. Il verbo τίλλω compare anche in Ar. fr. 218 ἀπόλωλα· τίλλων τὸν λαγὼν ὀφθήσοµαι, dove non è chiaro se λαγών indichi la lepre o un tipo di pesce, la lepre marina, v. Kassel–Austin PCG III.2, p. 132 e τιλτός sia in riferimento allo squamare i pesci come in Pl. Com. fr. 211,2 K.–A. e Nicostr. fr. 5,5 K.–A.

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Cratino

vello ricresciuto fosse più morbido, cfr. Arist. Probl. 893a 18. V. anche DNP 12.2 s.6v. Wolle (Pekridou-Gorecki) per la lavorazione della lana. Che nell’aggettivo νακότιλτος sia contenuto un riferimento alle pecore è chiaro anche da alcune glosse lessicografiche relative a νακοτίλτης (in Philem. fr. 13 K.–A., v. Contesto della citazione): Hsch. ν 45 νακοτίλται· αἱ κείροντες τὰ πρόβατα, Σ ν 8 νακοτίλται· οἱ τῶν προβάτων κουρεῖς (da Cirillo secondo Cunningham 2003, p. 247) = Phot. ν 13 = Sud. ν 22 = [Zon.] ν 1384,9; v. anche Eust. in Od. ξ 530 p. 1171, 48–49 ἐκ δὲ τοῦ νάκος καὶ νακοτίλλαι οἱ τίλλοντες τὰ κώδια, ὥς φασιν οἱ παλαιοί) e cfr. Gobara 1986, p. 245 (ad Philem. fr. 13 K.–A.). κῳδάριον(“Piccola pelle, pelliccetta”, diminutivo di κῴδιον (“«toison» de brebis ou de chèvre qui sert de couche ou de couverture” DELG s.6v.; in commedia ad es. Ar. Eq. 400, Pac. 1122), a sua volta diminutivo di κῶας, vello, detto prevalentemente della pecora (Sud. ν 22 cit. supra a νάκος, Hsch. κ 4779 κώδιον· σκύλον, ἢ δέρµα προβάτου), ma riferibile per antonomasia anche al vello d’oro e, quindi, alla pelle del montone (ad es. Pind. Pyth. IV 231, Hdt. VII 193.2, cfr. infra). Due sole altre attestazioni di κῳδάριον: Ar. Ran. 1203 καὶ κῳδάριον καὶ ληκύθιον καὶ θυλάκιον e Anaxand. fr. 35,11 K.–A. ἐὰν δὲ κριόν, Φρίξος· ἂν δὲ κῳδάριον, Ἰάσων. Nel passo di Anassandride il significato è chiaro, ‘piccola pelle’, con richiamo al vello d’oro come mostra inequivocabilmente il riferimento a Giasone; in Aristofane, dove Eschilo parla negativamente della poesia di Euripide (i tre diminutivi, “una pelliccetta, una boccetta, una borsetta”, servono qui a stigmatizzare la poesia di Euripide221), secondo Penella 1973 κῳδάριον varrebbe ‘foreskin’ e l’intero passo avrebbe un doppio senso di natura sessuale, ma un valore osceno di κῳδάριον non è dimostrabile, cfr. Henderson 1974 (con prec. bibliografia) e v. anche Dover 1994, p. 3386s., secondo cui “it is hard for an audience of Old Comedy to hear ‘fleece [κωδάριον], flask [ληκύθιον] and bag [θυλάκιον]’ without thinking of pubic hair, penis and scrotum”, ma è cauto nel leggere in questi versi un’allusione sessuale, eventualmente limitata a λήκυθος (collegabile ληκᾶν su cui v. Austin–Olson 2004, p. 202 ad Ar. Thesm. 493). Secondo Bakola 2010 in part. pp. 2636s. e 2696s., l’utilizzo di κῳδάριον in Cratino, può rispondere ad una funzione rituale: ciò sulla base delle testimonianze di Dioniso come dio della purificazione (ad es. Soph. Ant. 1140–1145 o l’epiteto di Λύσιος) e su un possibile valore ancora rituale dell’endiadi ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) | χλευάζου(σιν) in hyp. col. I rr. 116s. (cfr. p. 225). Di 221

Trad. di Del Corno 1985, p. 122. Cfr. ibid. p. 229: “[v. 1200] il diminutivo ha valore espressivo: basterà un piccolo oggetto per distruggere i prologhi di Euripide [… v. 1203] La serie di tre oggetti di comunissimo uso, per di più al diminutivo, è realistico simbolo di questa valutazione, naturalmente tendenziosa”.

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 49)

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conseguenza, κῳδάριον può interpretarsi alla luce dei ∆ιὸς κῴδια, la lana di montone utilizzata nei rituali di ἀποδιοπόµπευσις: in questo senso Dioniso assumerebbe la funzione di un φαρµακός e “at the end of the play […] is caught and is led as a captive, followed by the chorus of satyrs, to the greek ships for expulsion from Troy” (Bakola 2010, p. 263); ma questa interpretazione è basata su un’evidenza esterna al testo di Cratino e attribuisce a κῳδάριον un valore noto per κῴδιον, ma non testimοniato per κῳδάριον stesso (ammette il dubbio la stessa Bakola, p. 269: “it is probable, therefore, that fr. 48 contains part of the play’s nexus of ritual imagery, although the evidence is unfortunately not clear enough to allow a conclusive interpretation of the line”).

fr. 49 K.–A. (46 K.) χηνοβοσκοί, βουκόλοι Pastori di oche, bovari Athen. ΙΧ 384b (384 χῆν) ὅτι γὰρ χηνοβοσκoὺς οἴδασι µάρτυς Κρατῖνος ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ λέγων∙ — Che infatti conoscono i chēnoboskous è testimone Cratino nel Dionysalexandros: —

Metro(Ignoto (parte finale di un trimetro giambico dopo la cesura pentemimere?): lkl llkl Bibliografia(Runkel 1827, p. 15 (fr. IV), Meineke FCG II.1 (1839), p. 42 (fr. XII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 14 (fr. 12), Kock CAF I (1880), p. 26, Croiset 1904, p. 302, Koerte 1904, p. 494, Thieme 1908, p. 16, Pieters 1946, p. 128 n. 431, Cervelli 1950, p. 1306s., Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 146, Bakola 2010, p. 258, Henderson 2011, p. 184, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(Parte di una sezione dedicata alle oche nel nono libro, sottocategoria di un elenco di volatili iniziata a 368e-f e avviata dal fatto che un’oca (assieme ad altro) venne servita in quel momento come pasto del banchetto; uno dei convitati, non specificato, afferma “οἱ χῆνες σιτευτοί” (le oche sono ingrassate), da cui una domanda di Ulpiano su chi abbia usato l’espressione σιτευτός χῆν. Risponde con esempi Plutarco, il quale alla fine della propria rassegna chiede a sua volta ad Ulpiano se conosca chi degli antichi scrittori menzioni i τῶν χηνῶν ἥπατα e afferma che egli stesso sa che in Cratino sono menzionati i χηνοβοσκοί, da cui la citazione (seguono

296

Cratino

attestazioni del termine χῆν per dimostrare la familiarità con il termine; subito di seguito viene ripresa la discussione sui χήνεια ἥπατα [384c]). Interpretazione(La virgola tra i due sostantivi fu inserita da Meineke FCG II.1 p. 42 e crea una sequenza in asindeto (‘pastori di oche, bovari’); in alternativa si può pensare ad una traduzione ‘pastori di oche (come) bovari” o “(come) pastori di oche bovari” (in questo secondo caso si potrebbe pensare, forse meglio, anche ad un possibile ὡς prima di χηνοβοσκοί). Poco probabile l’ipotesi di Thieme 1908, p. 16 che rifiuta l’interpunzione di Meineke e pensa a χηνοβοσκός come aggettivo (‘bovari che pascolano le oche’)222, ma v. a χηνοβοσκοί. Secondo Kock CAF I, p. 26 si tratta dei “Paridis conlegae”; da rifiutare l’ipotesi che in χῆνα ci sia un riferimento alla trasformazione di Elena in oca (in hyp. col. II r. 30 l’integrazione χῆνα è da escludere, cfr. p. 2366s.) che avrebbe causato un nuovo tipo di impiego dei bovari come pastori di oche, come proposto da Thieme 1908, p. 16 (cfr. supra), Croiset 1904, p. 302, Cervelli 1950, p. 1306s. Koerte 1904, p. 494 suggeriva un’attribuzione “dem Milieu der Anfangsscene”, indipendente, quindi, dalla scena dell’occultamento di Elena e trasformazione di Dioniso (hyp. col. II rr. 29–32). Il riferimento non è specificabile; si può pensare, come Kock, ai colleghi di Alessandro, oppure ai coreuti, i satiri, per l’uso del plurale, ma non si può escludere che il riferimento fosse, invece, avulso e indipendente dal contesto dell’azione scenica. βουκόλοι(‘Bovari’, da βοῦς + πέλοµαι, formazione analoga a αἰπόλος ‘capraio (GEW, DELG, Beekes 20106s.vv.), attestato fin da Omero (Ν 571, λ 292 etc.) e utilizzato in tragedia (Aesch. Suppl. 557, Soph. Ai. 54, Trach. 1092, Eur. Phoen. 25, IT 254, 305 etc.) e in prosa (Xen. Mem. I 2.32, Cyr. I 1.2, Plat. Theaet. 174d 5, Pol. 268a 6 etc.); assente in Aristofane (dove compare 3 volte il verbo βουκολέω: Vesp. 10, Pac. 153, Eccl. 81; in Cratino il verbo nel fr. 313 Κ.–A. [inc. sed.] ποιµὴν καθέστηκ᾽· αἰπολῶ καὶ βουκολῶ) e dalla lingua della commedia, con la sola eccezione di questo e di un altro frammento di Cratino, 317 K.–A. (inc. sed.) καὶ µὴ πρόσισχε βαρβάροισι βουκόλοις (del Dionysalexandros secondo Kock CAF I, p. 96; dei Boukoloi secondo Bergk 1838, p. 34 e Meineke FCG II.1, p. 206) e cfr. anche il titolo della commedia Boukoloi (v. p. 1146s.). χηνοβοσκοί(Composto di χήν ‘oca’ e βοσκός ‘pastore’, con valore attivo ‘che pascola le oche’, come in analoghi composti con il secondo elemento dalla 222

Thieme 1908, p. 16 “Athenaeus […] non loquitur de variis generibus pastorum, sed de anserum apud veteres scriptores commemorationibus. Ergo χηνοβοσκοί hic adiectivum esse concludere licet atque quadrare censeo in Alexandri socios, boum et caprarum pastores, quorum quis, postquam vidit Helenam in anserem quasi conversam, fortasse dixit ἐσµὲν δὲ νυνὶ χηνοβοσκοὶ βουκόλοι, nisi ipsius Alexandri domum reversi verba sunt, qui miratur conspectum solius anseris, cum adhuc βουκόλοι fuerint”.

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 50)

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radice βοσκ- in commedia, ad es. πορνοβοσκός, lett. “che nutre le prostitute” (Diph. fr. 87,2 K.–A., Nicostr. fr. 26,1, Men. Epitr. 136 etc., cfr. Ar. Pac. 849 πορνοβοσκοῦσ’) e γηροβοσκεία (Alex. fr. 313,1) ‘assistenza per i vecchi’ (cfr. Ar. Ach. 678 cfr. γηροβοσκούµεσθ᾽); diversamente κραιπαλοβόσκου in Sop. fr. 25,3 con valore passivo ‘nutrito dall’ebbrezza’ e v. anche χιονόβοσκον ‘nutrito dalla neve’ in Aesch. Suppl. 559 (con Friis Johansen 1980, vol. II, pp. 440–442). A parte quelle di Ateneo (χηνοβοσκούς) e Cratino, una sola altra attestazione letteraria, Diod. Sic. I 74.4 οἵ τε ὀρνιθοτρόφοι καὶ οἱ χηνοβοσκοί (Diodoro parla dei νοµεῖς egizi e delle loro peculiari abitudini); v. inoltre Ael. Her. pros. cath. I, p. 231,8 Lentz τὰ παρὰ τὸ βόσκω ὀξύνονται, πορνοβοσκός, ὑοβοσκός, χηνοβοσκός e le occorrenze papiracee citate in LSJ s.6v.  Si tratta di un sostantivo più verisimilmente che di un aggettivo: Ateneo impiega χηνοβοσκούς senza articolo, ma qui come aggettivo non avrebbe senso; inoltre, in PTebt 701.290 (III a.6C.), Σοκόνῳ χηνοβόσκῳ indica un mestiere, in PPetr.2 p.25 (iii a.6C.) ricorre con un aggettivo (βασιλικοί χηνοβοσκοί) e, anche in Diodoro, si pensa più ad un sostantivo che ad un aggettivo sostantivato per la ricorrenza accanto ad ὀρνιθοτρόφος (sostantivo, v. LSJ s.6v.). Affini sono i sostantivi χηνοβόσκιον in Geop. 14, 22,1 e in Varr. rust. III 10,1 piscinas […] in quibus ubi anseres aluntur, graeco nomine chenoboscion appellatis e χηνοβοσία in Moer. φ 10 χηνοβοσία Ἀττικοί· χηνοβοσκία Ἕλληνες (~ Hsch. χ 401), Poll. IX 16; l’aggettivo χηνοβοσκικός in PMil. C. XVII,21, l’etnico Χηνοβοσκία in Steph. Byz. p. 692,19 Meineke.

fr. 50 K.–A. (47 K.) κλίνην τε παράπυξον e un letto impiallacciato di bosso Poll. Χ 34 εἴδη δὲ κλίνης … παράπυξος, ὡς ἐν τῷ ∆ιονυσαλεξάνδρῳ Κρατίνου∙ — E tipi di letto … impiallacciato di bosso, come nel Dionysalexandros di Cratino: e un letto — bosso.

Metro(llkkklk Probabile l’inizio di un trimetro giambico llkkk possibile anche 〈xlkl〉 llkkk lu〈(k)ku〉.

lu 〈(k)kl xlku〉;

298

Cratino

Bibliografia(Runkel 1827, p. 16 (fr. VIII), Meineke FCG II.1 (1839), p. 42 (fr. XI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 11), Kock CAF I (1880), p. 26, Thieme 1908, p. 18, Pieters 1946, p. 127 n. 423, 175, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Marzullo 1962, p. 5496s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 146, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(Polluce cita il frammento cratineo nel decimo libro, dedicato agli σκέυη τὰ κατ᾽ οἰκίαν χρήσιµα ἢ κατ᾽ ἀγροὺς ἢ τέχνας, in una sezione dedicata agli εἴδη κλίνης dove vengono citati l’ἀργυρόπους, il παράπυξος (con il verso di Cratino) e l’ἀµφίκολλος (con un verso di Plat. com., fr. 33 K.–A. cfr. Pirrotta 2009, p. 111), cui seguono altre tipologie. Il riferimento a Cratino è presente anche in VII 159 κλίνην δὲ παράπυξον Κρατῖνος εἶπεν ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ; qui Polluce discute di varie tipologie di artigiani e arti e, nella sezione relativa alla costruzione dei letti (κλινοποιική [sc. τέχνη]) e al fabbricante di letti (κλινοποιός), vi è un elenco di nomi legati al sostantivo κλίνη che dà occasione per inserire anche la κλίνη παράπυξον e richiamare l’utilizzo di Cratino (si potrebbe immaginare, anche qui, una citazione diretta di Cratino, modificando δέ in τέ, ‘κλίνην τε παράπυξον’ Κρατῖνος εἶπεν κτλ., ma v. Bossi–Tosi 1979–1980, p. 116s. per l’usus di Polluce). Testo(Nessun motivo di alterare il testo tràdito; né in κλίνην τὴν παράπυξον secondo Meineke FCG II.1, p. 42 (“tacite” Kassel e Austin, PCG IV, p. 146) né con il poco chiaro κλίνην τε 〈καὶ〉 τ. (sic! Senz’altro π[αράπυξον]) di Marzullo 1962, p. 550 n.1, che separa sostantivo e aggettivo (contro l’esplicita testimonianza di Polluce). Interpretazione(La menzione di una κλίνη παράπυξος è assolutamente generica e priva di ogni possibile indizio di collocazione; secondo Marzullo 1962, p. 550 si può unire questo frammento al 42: in questo caso il ‘letto impiallacciato di bosso’ sarebbe parte del generico arredamento ricco che viene rinfacciato come preteso al locutore del fr. 42 (cfr. p. 259 s.). In alternativa, si potrebbe pensare ad un letto, lussuoso, su cui Dionis-Alessandro immagina di poter giacere con Elena. Il legno di bosso era utilizzato nella fabbricazione dei letti per alcune guarnizioni in particolare, mentre per la parte maggiore si utilizzava legno meno pregiato (v. Ziebarth cit. infra a κλίνην col. 848), per cui la κλίνη παράπυξος citata potrebbe effettivamente essere un oggetto di lusso. κλίνην(‘That on which one lies’ (LSJ s.6v., < κλίνω); sostantivo ignoto ad Omero (che impiega λέχος), la sua prima attestazione in Alcm. PMG fr. 19,1 (l’unica tra VII e VI sec. a.6C., generalmente impiegato λέχος), nel V secolo in tragedia solo in Eur. Hec. 1150 (normale l’uso di λέχος), comune in commedia (Ar. Ach. 1090, Vesp. 617, Thesm. 796, Plat. com. frr. 33 e 230,1 K.–A., Telecl. fr. 1,8 K.–A. etc.) e in prosa (Thuc. II 34.3, III 28.3, Xen. Mem. II 1.30, Cyr. VIII 2.5

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 51)

299

etc.). “Das Bett spielt im antiken Hausrat eine ungleich größere Rolle als bei uns, da es nicht nur zum Schlafen, sondern auch zum Speisen, gelegentlich auch zum Lesen und Schreiben und sonstigem Aufenthalt dient und somit zum Teil die Funktionen unserer Stühle übernimmt”, Ziebarth in RE XI.1 (1921), col. 847 (in gen. coll. 846–861), cfr. anche per l’importanza del letto presso i Greci e le sue diverse funzioni, Richter 1966, pp. 52–63, Kyrieleis 1969, pp. 116–131 e v. anche Olson 2002, p. 334 ad Ar. Ach. 1090. παράπυξον(Hapax cratineo, ma l’utilizzo di legno di bosso (πύξος) come materiale è attestata in relazione a diversi oggetti: ancora un letto in Plat. com. fr. 33 K.–A. (κλίνην ἀµφικέφαλον πυξίνην, v. Pirrotta 2009, p. 111), una saliera in Archipp. fr. 13 K.–A. (ἁλία πυξίνη), una φόρµιγξ in Theoc. XXIV 110 (πυξίνᾳ ἐν φόρµιγγι), un pettine in AP VI 211 (Leonida, πύξινον κτένα); v. anche πυξίον ‘tavoletta di legno di bosso’ impiegata per scrivere (Ar. fr. 879 K.–A.) o dipingere (Anaxand. fr. 14 K.–A.). Il legno di bosso era particolarmente abbondante in alcune regioni come ad es. la Paflagonia e veniva utilizzato, come mostrano anche gli esempi già citati, per diversi oggetti grazie alla sua notevole resistenza che lo rendeva idoneo soprattutto “bei kleineren Theilen des innern Ausbaues, bei denen besondere Festigkeit erforderlich war”, Blümner 1897, II, p. 253, di cui v. in gen. pp. 252–254 e inoltre RE III.1 s.6v. Buchsbaum, col. 9856s. (Schmidt).

fr. 51 K.–A. (48 K.) Poll. VII 198 γελγοπῶλαι, γελγόπωλις∙ εἴρηται γὰρ ἡ γ ε λ γ ό π ω λ ι ς ἐν ∆ιονυσαλεξάνδρῳ Κρατίνου, ὥσπερ ἐν Ἀρτοπώλοισιν Ἑρµίππου τὸ γελγοπωλεῖν (fr. 11 K.–A.) Rigattieri, rigattiera: è stato impiegato infatti ē g e l g o p ō l i s nel Dionysalexandros di Cratino, come negli Artopōleis di Ermippo to gelgopōlein (fr. 11 K.–A., Artopōlides)

Metro(Ignoto (lkll) Bibliografia(Runkel 1827, p. 17 (fr. XII), Meineke FCG II.1 (1839), p. 42 (fr. X), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 15, Bothe PCGF (1855), p. 13 (fr. 10), Kock CAF I (1880), p. 26, Thieme 1908, p. 18, Pieters 1946, p. 158, Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 146, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(Elenco di nomi di venditori al dettaglio (composti dalla radice πωλ-) in alcuni casi con citazioni letterarie che ne attestano l’impiego; Polluce distingue talora in questo elenco una forma maschile e una femminile, v. ancora VII 197 βελονοπῶλαι βελονοπώλιδες, 198 µελιτοπῶλαι

300

Cratino

µελιτοπώλιδες, 199 στεφανοπώλης στεφανοπώλιδες. Nel caso specifico di Cratino solo per la seconda (femminile) riporta la testimonianza letteraria da Cratino, seguita da quella del verbo in Ermippo (su cui v. Gkaras 2008, p. 39). Interpretazione(Γελγόπωλις appartiene all’ampia serie di composti dalla radice –πώλης (su cui v. Drexhage 2002, Karvonis 2007, p. 456s., Ruffing 2002, cfr. Pellegrino 2010, p. 1336s.) che caratterizzano la commedia e individuano l’ampia categoria dei venditori al dettaglio, la cui “grande varietà […] dà l’idea di una attività commerciale spicciola, talora pittoresca: nel settore alimentare, per es., che interessa la maggior parte dei termini, si può vedere una grande diversificazione. […] Difficile dire però se in tutti questi casi si può parlare di un vero e proprio commercio organizzato con bottega […]; l’impressione generale che si trae è che in gran parte doveva trattarsi di un mercato alla giornata di ambulanti o di venditori in bancarelle, come ancor oggi in certi mercati di pesce (Casarico 1983, p. 24). Per alcuni di questi composti v. Ar. Eq. 129 στυππειοπώλης (venditore di corde, detto di Eucrate), 132 προβατοπώλης (venditore di pecore, detto di Lisicle), 136 βυρσοπώλης (venditore di cuoio, detto di Cleone), 143, 144 ἀλλαντοπώλης (venditore di salsicce), 739 λυχνοπώλης (venditore di lucerne), 852 βυρσοπώλης ‘venditore di cuoio’, 853 µελιτοπώλης ‘venditore di miele’, 854 (cfr. Ran. 1369) τυροπώλης ‘venditore di formaggio’, e ancora: ἀνθρακοπώλης ‘venditore di carbone’ (Philill. fr. 13 K.–A.), ἀρτόπωλις ‘venditrice di pane’ (Ar. Vesp. 1388–1414, Ran. 858), βιβλιοπώλης ‘venditore di materiale librario’, (Aristom. fr. 9 K.–A., Theop. fr. 70 K.–A.), ἐριοπώλης ‘venditore di lana’ (cfr. Ar. Ran. 1386 [ἐριοπωλικῶς]), ἰσχαδοπώλης ‘venditore di fichi secchi’ (Pherecr. fr. 4 K.–A.), ἰχθυοπώλης ‘venditore di pesci’ (Ar. fr. 402,10 K.–A., Antiph. fr. 159,5 K.–A., Alex. fr. 16,5 K.–A.), λεκιθόπωλις ‘venditrice di polenta di legumi’ (Ar. Plut. 427), µυρόπωλις (Ar. Eccl. 841, cfr. Pherecr. fr. 70,1 K.–A.), ταινιόπωλις ‘venditore di fasce o nastri’ (Eup. fr 262 K.–A.), φαρµακοπώλης ‘venditore di farmaci’ (Ar. Nub. 766, Theop. fr. 2 K.–A., cfr. Totaro 1998, p. 1886s.). Da notare, ancora, “la lunga teoria di mestieri, secondo il motivo, topico in commedia, dell’accumulazione verbale” (Pellegrino 2013, p. 47) di Nicoph. fr. 10 K.–A. Μεµβραδοπώλαις, ἀχραδοπώλαις,6/6ἰσχαδοπώλαις, διφθεροπώλαις,6/6ἀλφιτοπώλαις, µυστριοπώλαις,6/6βιβλιοπώλαις, κοσκινοπώλαις,6/6ἐγκριδοπώλαις, σπερµατοπώλαις ‘a venditori di spratti, di carbone, di fichi secchi, di pelli, di farina, di cucchiaini, di materiale librario, di setacci, di frittelle, di semi”, trad. di Pellegrino 2013, p. 47, di cui v. anche il comm. al fr., pp. 47–54 e, in particolare, la notazione che in questo passo si tratta probabilmente di un’esagerazione, “chè non dovevano esservi tanti mestieri specialistici quanti sono citati nel passo; parrebbe dunque evidente che l’archaia esasperava iperbolicamente i momenti della vita economica della polis” (p. 48 e il rinvio anche alla posizione, opposta, di Olson 2007, p. 359). Si

∆ιονυσαλέξανδρος (fr. 51)

301

possono richiamare, infine, anche Ar. Av. 1038 ψηφισµατοπώλης ‘mercante di decreti’ e παντοπῶλαι ‘venditori di tutto’ in Poll. VII 16. I venditori al dettaglio sono uno degli oggetti prediletti degli scommi comici, cfr. in part. Ehrenberg 1957, cap. V, in part. pp. 171–194. Il primo elemento del composto γελγόπωλις è il sostantivo τὰ γέλγη, έων, attestato in epoca classica ancora solo in Eup. fr. 327, 4 K.–A. (inc. fab.) καὶ περὶ τὰ γέλγη e in Hermipp. fr. 11 K.–A. (Artopōlides) γελγοπωλεῖν (testimoniato da Polluce, come l’occorrenza di Cratino) e poi presente in Luc. Lex. 3 καίτοι προηγόρευτο αὐτῷ ἐπὶ τὰ γέλγη ἀπαντᾶν. Secondo Moer. γ 19 si tratta di una forma attica corrispondente ad una comune ῥῶπος (γέλγη καὶ γελγοπώλης Ἀττικοί· ῥῶπος καὶ ῥωποπώλης Ἕλληνες) e il significato è quello di mercanzia varia e minuta, v. Ael. Dion. ρ 14 Erbse ῥῶπος καὶ γέλγη· ὁ ποικίλος καὶ λεπτὸς φόρτος, ὅθεν ῥωποπώλης καὶ γελγοπώλης e, ancora, Hsch. γ 292 γέλγη· ὁ ῥῶπος καὶ βάµµατα. ἄτρακτοι καὶ κτένες; Hsch. γ 923 γελγοπωλεῖν· ῥωποπωλεῖν. παντοπωλεῖν (le due occorrenze esichiane da Diogeniano secondo Latte 1953 ad loc.); Phot. γ 55 γέλγη· τὸν ῥῶπον καλοῦσιν. ἔστι δὲ καὶ ὁ ῥῶπος Ἑλληνικόν. καὶ ∆εµοσθένης χρῆται (or. 34,9) καὶ ἄλλοι (Aesch. fr. 263,2 R., Diph. fr. 55,5 K.–A.). L’etimologia è dubbia, secondo Chantraine DELG 6s.6v., non è escluso che questo sostantivo possa avere un legame con γέλγις, -ιθος ‘testa d’aglio’ (cfr. Phot. γ 56 γέλγιθες· σκορόδων κεφαλαί), ma senz’altro da escludere la traduzione γελγόπωλις = ‘dealer in garlic’ proposta in LSJ e giustamente rettificata in LSJ rev. Suppl. con ‘dealer in fancy goods’.

∆ιόνυσοι (Dionysoi) (‘Dionisi’)

Datazione(Ignota Bibliografia(Rabe 1892, p. 406, Kock 1893, p. 239, Rabe 1895, p. 149, van Herwerden 1903, p. 3, Holzinger 1903, p. 294, Koerte 1904, p. 485, Koerte 1922, col. 1648, Demiańczuk 1912, p. 336s., Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel– Austin PCG IV (1983), p. 147, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Titolo(La forma plurale del titolo rimanda con ogni probabilità ai componenti del coro, come in casi analoghi in cui si forma un plurale a partire da un nome proprio, ad es. Archilochoi da Archiloco, cfr. p. 13 s. e nn. 1–2 per altri esempi (v. anche Koerte 1922, col. 1648); e, come in questi stessi casi, Dionysoi potrebbe significare ‘compagni o seguaci di Dioniso’. Ignoto quale fosse il ruolo dei coreuti e quale fosse la loro identità (forse i satiri, definiti compagni o seguaci di Dioniso?). Poco probabile l’ipotesi che il plurale Dionysoi indicasse, nonostante il plurale, ‘la commedia di Dioniso’ (Wilamowitz 1895, I p. 56 n. 14), cfr. p. 15. Il fatto che questa commedia sia citata nel solo Lexicon Messanense ha fatto sospettare della bontà del titolo: in particolare Kock 1893, p. 239 pensò ad una sua corruzione per Dionysalexandros e a questa commedia il frammento venne prudentemente attribuito anche da van Herwerden 1903, p. 3 (“ad Dionysalexandrum fortasse pertinet”) e, di recente, da Storey 2011, p. 295, secondo cui “we may suspect that Orus, citing F 52, has garbled the title of Dionysalexander. The metre belongs to choral songs in Aristophanes, and if the satyrs in Dionysalexander did address the spectators “about the poets”, the point about the best advice winning could well refer to the comic poet who best advises the city”. In alternativa ad una corruzione, si potrebbe pensare che Dionysoi fosse il titolo alternativo di Dionysalexandros (sulla questione v. p. 2016s.) e indicasse i due Dionisi, quello vero e quello che si traveste e finge di essere Alessandro; l’ipotesi più verisimile rimane, però, che Dionysoi indicasse i componenti del coro, v. supra. Dionysoi è il titolo anche di una commedia di Epicarmo (PCG I p. 28), di cui sopravvive solo un frammento (30 K.–A.); altri titoli che fanno riferimento al nome del dio del teatro sono: ∆ιόνυσοι (Epicarmo), ∆ιόνυσος α, β (Magnete, v. Bagordo 2014b, p. 90), ∆ιόνυσος (Timocle, Alessandro), ∆ιόνυσος ἀσκητής (Aristomene, v. Orth 2014, p. 71), ∆ιόνυσος ναυαγός (Aristofane, v. Kassel–Austin PCG III.2, p. 157), ∆ιονύσου γοναί (Polizelo, Anassandride), ∆ιονύσου 〈γοναί?〉 (Demetrio I), Σεµέλη ἢ ∆ιόνυσος (Eubulo), ∆ιονυσαλέξανδρος (v. supra); altri titoli che richiamano il nome del dio del teatro sono ∆ιονυσιάζουσαι (Timocle) e Βάκχαι (Lisippo, Diocle, Antifane).

∆ιόνυσοι

303

Per quanto riguarda la figura di Dioniso in commedia, oltre ai titoli citati e al ruolo che il dio ricopre nel Dionysalexandros di Cratino (v. pp. 203-205) e nelle Rane di Aristofane (come dio del teatro), si richiamano ancora: 1) i Babylōnioi di Aristofane, cfr. frr. 68, 74 e 75, v. Kassel–Austin PCG III.2, p. 64 e p. 68; 2) i Taxiarchoi di Eupoli, in part. fr. 274 K.–A., cfr. Kassel–Austin PCG V, p. 4616s.; nel fr. 269 K.–A. ([ΦΟ.] οὔκουν περιγράψεις ὅσον ἐναριστᾶν κύκλον; [∆Ι.] τί δ’ ἔστιν; εἰς ὤµιλλαν ἀριστήσοµεν; ἢ κόψοµεν τὴν µᾶζαν ὥσπερ ὄρτυγα;) Dioniso potrebbe essere l’interlocutore di Formione (che pronuncia il primo verso secondo la testimonianza esplicita di Poll. IX 102 latore del frammento) se si accetta l’ipotesi di Kaibel apud Kassel–Austin PCG V, p. 459: “Phormion per orbem disponi iubet pransuros taxiarchos (chorum); respondet Bacchus ioculariter”; 3) gli Apokottabizontes di Amipsia, v. fr. 4 K.–A. † ἐγώ δὲ ∆ιόνυσος †6/6〈a〉 πᾶσιν ὑµῖν εἰµί, πέντε καὶ δύο, su cui Orth 2013, p. 2036s. (cfr. ibidem p. 187); 4) le Phoinissai di Strattis, v. fr. 46 K.–A. ∆ιόνυσος ὃς θύρσοισιν † αὐληταὶ δει·λ6/6κω[…] ἐνέχοµαι, δι’ ἑτέρων µοχθ[ηρ]ίαν6/6ἥκω κρεµάµενος ὥσπερ ἰσχὰς ἐπὶ κράδης, su cui v. Orth 2009, pp. 209–212; 5) Hermipp. fr. 77 K.–A. (inc. fab.), citato da Athen. epit. I 29e che lo introduce con le parole Ἔρµιππος δέ που ποιεῖ τὸν ∆ιόνυσον πλειόνων (i.e. οἴνων) µεµνήµενον (cfr. anche fr. 63 K.–A. [Phormophoroi] ἔσπετε νῦν µοι, Μοῦσαι Ὀλύµπια δώµατ’ ἔχουσαι,6/6ἐξ οὗ ναυκληρεῖ ∆ιόνυσος ἐπ’ οἴνοπα πόντον κτλ., su cui Pellegrino 2000, pp. 195–225 e in particolare per la presenza di Dioniso, pp. 201–203. Ai Phormophoroi, per l’analogia del contenuto, è stato talora attribuito anche il già citato fr. 77 K.–A., v. Kassel–Austin PCG V, p. 601). Su Dioniso in commedia v. ancora Pascal 1911, pp. 25–27, Dover 1993, pp. 38–41, Totaro 1998, p. 146, Casolari 2003, pp. 112–126, Pellegrino 2000, p. 2016s. (con ulteriore, ampia bibliografia), Bakola 2010, p. 113, Orth 2013, p. 2036s. (ad Amips. fr. 4 K.–A. cit. supra), Bagordo 2014b, p. 90 (ad Magn. Dionysos a b). Contenuto(Ignoto. La commedia poteva fare riferimento ad un episodio della mitologia del dio detorto in comicum o a un ruolo specifico di Dioniso accompagnato dai satiri (se questi sono i Dionysoi del titolo), v. supra anche per la presenza di Dioniso in commedia.

304

Cratino

fr. 52 K.–A. (4 Dem.) νικῷ µὲν ὁ τῇδε πόλει λέγων τὸ λῷστον νικῷ Kock: νικῶ cod.ƒƒƒπόλει λέγων τὸ Kock: ποδὶ λέγω τὸν cod.

Vinca colui che per questa città dice la cosa migliore r

Lex. Mess. fol. 281 , 16–20 Rabe νικῴη· σὺν τῷ ι. Νικόµαχος Οἰδίποδι· “ὅτι µὲν λῷστον, τόδε νικῴη”. καὶ νικῶ〈ι〉 δὲ χωρὶς τοῦ η τὸ εὐκτικὸν ἔχει τὸ ι. Κρατῖνος ∆ιονύσοις· νικῷ— λῷστον nikōiē: con lo i. Nicomaco nell’Edipo: “ciò che è meglio, questo vinca”. E l’ottativo nikō〈i〉 senza la ē ha la i. Cratino nei Dionysoi: vinca—migliore

Metro(Dattilo-epitriti

l lkklkkl k lkl l (lDkel)

Bibliografia(Rabe 1892, p. 406, Kock 1893, p. 239, Rabe 1895, p. 149, van Herwerden 1903, p. 3, Holzinger 1903, p. 294, Koerte 1904, p. 485, Koerte 1922, col. 1648, Demiańczuk 1912, p. 336s., Edmonds FAC I (1957), p. 366s., Kassel– Austin PCG IV (1983), p. 147, Storey FOC I (2011), p. 2946s. Contesto della citazione(Il frammento è tràdito nel cosiddetto Lexicon Messanense de iota adscripto, edito per primo da Rabe 1892 (Nachtrag in Rabe 1895) e così descritto: “in Regiae Bibliothecae Messanenis codice S. Salv. 118 (olim Monasterii San Salvatoris; est membranac. saec. XIII) […] scriptum est parvum lexicon, a littera µ ad ω […]. congesta sunt verba, in quibus dubitari posse videbatur, essetne ponendum ι προσγεγραµµένον necne” (Rabe 1892, p. 404); alla sua origine è, verisimilmente, il Περὶ ὀρθογραφίας di Oro, v. Reitzenstein 1897, pp. 287–299 e cfr. Alpers 1981, p. 7: “Den seltsamen Gegensatz zwischen den kostbaren Zitaten und den primitiven orthographischen Regeln, zu deren Erläuterung jene beigebracht werden, hat Reitzenstein [1897, p. 2986s.] schlagend folgendermaßen erklärt: ‘Von Oros ist uns bekanntlich eine Schrift κατὰ Φρυνίχου κατὰ στοιχεῖον bezeugt. Daß das Lexikon Messanense aus seiner Orthographie stammt, scheint mir danach sicher. Wir dürfen dieselbe mit einiger Wahrscheinlichkeit nach der Schrift gegen Phrynichos ansetzen; Oros benutzte in dem späteren Werk die Schätze atticistischer Gelehrsamkeit, die er früher gesammelt hatte’“. Il lemma in cui ricorre la citazione è νικῴη, di cui si specifica σὺν τῷ ι e di cui l’autore del lessico riporta un’attestazione nell’Edipo di Nicomaco

∆ιόνυσοι (fr. 52)

305

(incerta l’identificazione: Nicomaco Alessandrino secondo Nauck223 e Snell, TrGF 127 F 7; Nicomaco Ateniese secondo Alpers 1981, p. 238 ad Or. fr. B 107; Nicomaco comico secondo Koerte RE XVII, 1936, col. 462,6 [s.6v. Nikomachos 15]); cfr. Luppe 1967, p. 390: “um zu zeigen, daß die 3. Person des Optativs eines Verbum contractum auf –άω (-άοι = -ῳ) mit iota adscriptum zu schreiben ist, wird unter dem Buchstaben Ν ein Kratinoszitat […] mit der Form νικῷ angeführt; ursprünglich diente das Zitat vermutlich als Beweis für die seltenere Optativform statt der gebräulicheren auf -ῴη” e Alpers 1981, p. 238 che stampa come fr. B 107 νικῴη, νικῷ e ritiene che “Orus, qui utramque formam 3. pers. optativi τῆς δευτέρας συζυγίας τῶν περισπωµένων probavisse videtur, fortasse scripserat νικῴη καὶ νικῷ· ἑκατέρως λέγεται. Νικόµαχος … καὶ Κρατῖνος” (un’informazione analoga è presente, infatti, in Et. gen. AB [cfr. Et. magn. p. 606,17] s.6v. νικῴην· νικῶ, νικᾶς, ἡ µετοχὴ νικῶν νικῶντος, τὸ εὐκτικὸν νικῷµι, τὸ τρίτον νικῶ καὶ πλεονασµῷ τοῦ η Ἀττικῶς νικῴη καὶ ἐκ αὐτοῦ νικῴην καὶ νικῴης, glossa attribuita a Oro da Reitzeinstein 1907, p. 58 [nell’ambito di una discussione sulle fonti di Et. gen. AB; v. ancora Alpers ad Or. frr. B 108 e 109]). Subito dopo la citazione di Nicomaco, il testo stampato da Kassel e Austin (PCG IV, p. 147) καὶ νικῶ〈ι〉 δὲ χωρὶς τοῦ η κτλ. (1) è quello proposto da Rabe 1895, p. 149, che ne offriva anche una traduzione di Ludwich: “aber auch der Optativ νικῷ ohne η hat das ι”. Il codice riporta καὶ νικῶ δὲ χωρὶς τοῦ η (νικῶ, senza ι e senza η) e nell’editio princeps Rabe (1892, p. 406) aveva corretto in (2) καὶ νικῶ δὲ χωρὶς τοῦ ι (attestazione di una forma νικῶ senza ι); l’intera pericope risulta, in questo caso: καὶ νικῶ δὲ χωρὶς τοῦ ι. τὸ εὐκτικὸν ἔχει τὸ ι, ‘e nikō senza la i. l’ottativo ha la i’, esemplificato dalla successiva citazione di Cratino (questo testo è accettato da Alpers 1981, p. 238). L’ipotesi (2) è possibile e può essere spiegata con un semplice errore di itacismo (η per ι), ma la (1) appare preferibile perché richiama la forma del lemma (νικῴη) per la quale è citato Nicomaco e attesta che questa (νικῴη) senza la η finale νικῷ, ha comunque la ι, e per questo è citato Cratino; l’omissione della ι in νικῳ, può essere imputato a un fattore meccanico di trascrizione o alla non comprensione del contesto del ragionamento. Testo(In Cratino, νικῶ dei codici senza ι, stampato da Rabe (1892, p. 406) fu corretto da Kock 1839, p. 239 (e stampato da Rabe 1895, p. 149) in νικῳ〈ι〉, coerentemente con l’informazione del Lexicon. Allo stesso Kock (ibid.) si deve

223

L’ipotesi di attribuzione di Nauck in A. Nauck, Tragicae dictionis index spectans ad Tragicorum Graecorum Fragmenta, Petropoli 1892, p. XXVI.

306

Cratino

la correzione in πόλει λέγων τὸ del tràdito ποδὶ λέγω τὸν, privo di senso e che si può imputare a motivi di itacismo e di cattiva lettura dell’antigrafo. Metrica(Probabilmente una sequenza in da-ep: lDkel. Identica combinazione è presente anche in Aristofane (Nub. 464, 468; Vesp. 277~286; Pac. 776~799), dove l’elemento libero interposto tra le cellule D ed e risulta sempre lungo (in Nub. 468 l’elemento libero è realizzato dalla α di ἀεί, sia lunga che breve, v. LSJ s.6v., ed è perciò di ambigua interpretazione); la sequenza lDxex non è mai presente in Pindaro, ma appare otto volte in Bacchilide, v. Appendice B nr. 33 (p. 160) in Rossi 2008 (un richiamo a Bacchilide tramite l’utilizzo di questa cellula metrica non è, però, determinabile in nessuno dei casi citati). In Aristofane l’impiego dei dattilo-epitriti avviene “rarely, but to interesting effect” (Parker 1997, p. 89) e, nello specifico, alcune sezioni redatte in questo metro contengono citazioni esplicite di Pindaro (Pind. fr. 89a Maehler in apertura di Eq. 1264–1273 = 1290–1299) e di Stesicoro (PMG fr. 210 [33] in Pac. 775–777 ~ 799–801, cfr. Olson 1998, p. 225). Dattilo-epitriti appaiono in Cratino, probabilmente, ancora nel fr. 32,2 (cfr. p. 182) e nei frr. 258 e 259 K.–A. (Cheirōnes), corali, che presentano una parodica e scoptica genealogia di Pericle e Aspasia. Interpretazione(Verso lirico e dal tono elevato, come mostra la presenza di τὸ λῷστον, (v. infra ad loc.); la presenza di µέν dopo l’iniziale νικῷ, potrebbe intendersi correlato ad un successivo δέ, probabilmente in antitesi (Denniston 1954, pp. 369–374) che designa l’opposto di “colui che per questa città dica la cosa migliore” (ad es. “chi dica la cosa peggiore”, “si comporti nel modo peggiore” etc.). Per la formulazione, si può richiamare l’esempio di Nicomaco (sulla sua identità v. supra Contesto della citazione) citato dallo stesso Lexicon Messanense: ὅτι µὲν λῷστον, τόδε νικῴη (il soggetto qui è il neutro λῷστον di cui si augura la vittoria, mentre Cratino ha un soggetto maschile al quale si augura la vittoria, ὁ … λέγων, di cui λῷστον è complemento oggetto); τῇδε πόλει indica probabilmente Atene e implica quindi un riferimento politico (a meno di non pensare a un’allusione a una generica città, di cui si parlava nella commedia). Kassel–Austin (PCG IV, p. 147) richiamano come confronto Ar. Ran. 6866s. τὸν ἱερὸν χορὸν δίκαιόν ἐστι χρηστὰ τῇ πόλει6/6ξυµπαραινεῖν καὶ διδάσκειν (parabasi) e 14206s. ὁπότερος οὖν ἂν τῇ πόλει παραινέσειν6/6µέλλῃ τι χρηστόν, τοῦτον ἄξειν µοι δοκῶ (Dioniso che rivolge ad Eschilo ed Euripide “two crucial questions about the political and strategic predicament of Athens in early 405, in order to discover […] which poet […] will be the more useful to Athens”, Dover 1993, p. 369); si può supporre che si tratti di un canto corale: 1) di una parabasi dedicata a temi o politici o letterari (in questo caso si augura la vittoria del poeta che dica la cosa migliore, che sia

∆ιόνυσοι (fr. 52)

307

più utile per la città), o 2) di un agone (a tema politico, del tutto o in parte) tra due personaggi, nel quale ci si augura che a vincere sia chi darà il consiglio migliore per la città. νικῷ(La medesima forma di ottativo in Plat. Leg. 658c 3 (ed. Burnet) τὶς ἂν νικῷ δικαίως. In attico i verbi contratti in –άω presentano all’ottativo una forma -ῴ-ην, -ῴ-ης, -ῴ-η etc. < -α-οί-ην, -α-οί-ης, -α-οί-η etc. come in νικῴη di Nicomaco citato dal Lexicon Messanense (v. supra) e v. ancora Xen. Hell. VI 5.6 καὶ ὅ τι νικῴη ἐν τῷ κοινῷ, τοῦτο κύριον εἶναι καὶ τῶν πόλεων e cfr. ad es. τιµῴη in Xen. Mem. IV 3.16, IV 6.4, Isocr. Paneg. X 3. V. Kühner–Blass I, p. 596. τῇδε πόλει(Cfr. Ar. Av. 1725 ὦ µακαριστὸν σὺ γάµον τῇδε πόλει γήµας, in contesto lirico, 3cho, sp, v. Parker 1997, p. 350. τὸ λῷστον(Sia λωΐων ‘more desirable, more agreeable, better’ (LSJ s.6v.) sia λῷστος (superlativo con analogo significato, “das vorteilhafteste” Wilamowitz 1895, p. 53) risalgono probabilmente al verbo λῆν ‘volere’ o ad una radice *-lau (cfr. in gr. ἀπολαύω) con il significato di ‘buono, migliore’, v. GEW s.6v., DELG s.6v., Seiler 1950, pp. 88–91, Beekes 2010 s.6v. La prima attestazione di λῷστος è in Theogn. 255 (κάλλιστον τὸ δικαιότατον· λῷστον δ᾽ ὑγιαίνειν) ed è, poi, impiegato in tragedia, per lo più con articolo e al neutro (con * le forme senza articolo): τὸ λῷστον: Soph. fr. *178,1 R., *356 R., Eur. Heracl. 169, Hipp. 901, HF 196, fr. 100 K.; τὰ λῴστα: Aesch. Suppl. 962, 974, PV 204, 308, 1053, fr. 100 R., Soph. OT 1066 e 1067, Eur. Med. *127, 572, *935, Heracl. 1021, Andr. *691. V. inoltre ὁ λῷστος in Eur. frr. 832 e 879 K.224 e λῷστε in Soph. Phil. 1171. Nel dramma satiresco ricorre in Eur. Cycl. 1866s. ἀνθρώπιον6/6λῷστον, dove l’accostamento tra il diminutivo ἀνθρώπιον e il registro altro di λῷστον crea un effetto di contrasto in un contesto parodico, cfr. Napolitano 2003, p. 112. In prosa attica è attestato quasi unicamente il vocativo ὦ λῷστε (Xen. Hell. IV 1.38, Symp. IV 1, Plat. Gorg. 467b 11, Leg. 638a 9, 789a 10, 968b 3, [Plat.] Amat. 134a 5; λῷστος solamente in Plat. Phaed. 116d 6) equivalente di ὦ βέλτιστε, cfr. Dickey 2003, p. 137 e 143. In commedia λῷστος è impiegato solamente qui e in Telecl. fr. 2,1 K.–A. (Amphiktyones) ἀλλ’ ὦ πάντων ἀστῶν λῷστοι σεῖσαι καὶ προσκαλέσασθαι, tetrametri anapestici catalettici, probabilmente di derivazione parabatica, v. Bagordo 2013, pp. 75–82 (in part. p. 80 per λῷστος); in un trimetro giambico λῷστος è dato dalla paradosis in Ar. Av. 823, καὶ λῷστον, spiegato da Denniston 1954, p. 479 con “No, best of all”, ma si tende ad accettare la correzione καὶ λῷον di Bentley, v. Dunbar 1995, p. 93 e p. 4936s. (da ultimo Wilson 224

Questo frammento (ὁ λῷστος οὗτος καὶ φιλοξενέστατος) era attribuito ad Aristofane da Kock CAF I, p. 591, fr. 901 inc. fab., ma assegnato oggi con certezza ad Euripide da Kannicht 2004, II p. 896.

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Cratino

2007 stampa †καὶ λῷστον† e v. dello stesso la nota in Wilson 2007b, p. 1236s.). Secondo Wilamowitz 1895, p. 54 (ad Eur. ΗF 196) “die Komödie kennt weder λῷον noch λῷστος”, ma se il passo di Aristofane è dubbio (“bis zur unverständlichkeit verderbt”), non vi è motivo di alterare in ῥᾷστοι l’occorrenza di Teleclide (cfr. Bagordo 2013, p. 80 e n. 72) e, d’altronde, l’occorrenza di Cratino conferma la possibilità dell’uso in commedia. Λῷστος è, comunque, termine di utilizzo ‘alto’ (v. supra) e, in quanto tale, ben spiegabile nel frammento di Cratino (lirico) e in Teleclide (“in versibus anapaesticis et adsurgente quodammodo oratione”, Haupt 1876, p. 307; “Das eher gehobene Niveau von λῷστος verleiht der Anrede zunächst einen feierlichen Tonfall, wozu die nachfolgenden Ausdrücke sodann in einem pointierten Kontrast stünden”, Bagordo 2013, p. 80), mentre qualche dubbio può rimanere sulla legittimità dell’occorrenza nel trimetro giambico di Aristofane.

∆ραπέτιδες (Drapetides) (‘Fuggitive’)

Datazione(Ignota Bibliografia(Runkel 1827, pp. 17–21, Bergk 1838, pp. 46–67, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 46–67, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. vi e pp. 16–18, Bothe PCGF (1855), pp. 14–16, Leo 1878, Kock CAF I (1880), pp. 26–32, Blaydes 1890, p. 5, Blaydes 1896, p. 36s., van Herwerden 1903, p. 3, Tanner 1916, Pieters 1942, pp. 72–81, Edmonds FAC I (1957), pp. 39–42, Luppe 1963, pp. 35–50, Geissler 1965, p. 19 (addenda p. x), Schwarze 1971, pp. 71–79, Kassel–Austin PCG IV (1983), pp. 147–155, Bakola 2010, pp. 141–158, Henderson 2011, pp. 184–186, Storey FOC I (2011), pp. 296–301. Titolo(Da δραπέτις, -ιδος femminile di δραπέτης ‘fuggitivo, fuggiasco, disertore’ (connesso con il verbo διδράσκω ‘correre via’, ‘fuggire’; il valore può essere generico, ma anche particolare per indicare lo schiavo fuggitivo, v. LSJ s.6v.), quindi ‘fuggiasche, fuggitive’. Per il maschile δραπέτης v. ad es. Hdt. III 137 e in commedia Ar. Ach. 1187 e Av. 760 (come aggettivo LSJ s.6v. registrano, ad es. le occorrenze di Soph. Ai. 1285, Eur. Or. 1498) e il titolo alternativo di Alessi Λευκαδία ἢ ∆ραπέται, dato da Athen. III 95 (cfr. Arnott 1996, p. 3946s.); il femminile δραπέτις è raro e, a parte il titolo di Cratino, nel V sec. a.6C. ricorre solo in Soph. fr. 174 R. (Dolopes) come aggettivo (εὐναῖος ἄν που δραπέτιν στέγην ἔχων), più tardi ancora come come aggettivo in Mel. AP XXII 80 (ψυχή), Ael. ep. 5, (µέλισσαι), ma come sostantivo in Luc. XXXIX (Asin.) 25 τί ποιοῦµεν, ἔφη τις αὐτῶν, τὴν δραπέτιν. In un elenco di titoli di Cratino (POxy 2739 = Cratin. test. 7 f K.–A. v. supra Boukoloi, p. 116) è leggibile ∆ραπέτι[δες; in Sud. δ 1504 δραπέτης κλῆρος, alla fine del lemma si trova scritto ∆ράπετισι θηλυκῶς παρὰ Κρατίνῳ (codd. AGITM, om. FV), certamente un’interpolazione (non vi è alcun legame tra questa voce e Cratino), per la quale Adler 1931, p. 139 richiama i lemmi relativi a Cratino in α 1499 e α 3468. Come nella maggior parte dei casi di titoli dell’archaia, il plurale rimanda ai componenti del coro; un parallelo può essere rappresentato dalla commedia Στρατιῶται vel Στρατιώτιδες di Ermippo (frr. 51–60 K.–A.), dove l’utilizzo della forma Στρατιώτιδες presente in alcuni dei testimonia rimanda probabilmente a degli effeminati, più interessati alla loro apparenza fisica che agli uffici bellici, v. in part. fr. 57 K.–A. e Kaibel apud Kassel–Austin PCG V, p. 585, Gkaras 2008, p. 104, Bakola 2010, p. 156 e n. 125225. Per quanto riguarda le Drapetides, 225

Στρατιώτιδες è anche il titolo di una commedia di Teopompo (frr. 55–59 K.–A.), che Kaibel apud PCG VII, p. 733 interpreta però come “simile […] Lysistratae et

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Cratino

per communis opinio fin da Bergk 1838, p. 62 (da ultimi Bakola 2010, p. 1426s. e 1566s. e Storey 2011, p. 296) i coreuti, designati come ‘Fuggitive’, sono stati identificati con degli effeminati o invertiti; questa ipotesi si basa su: a) il valore di µεῖραξ, sostantivo con cui i coreuti sono quasi senz’altro invocati nel fr. 60 K.–A. (ὦ µείρακες); tuttavia nelle fonti che possediamo questo sostantivo indica generalmente delle giovani ragazze, talora può designare degli invertiti, ma questo secondo valore in commedia è dubbio, v. infra ad loc; b) il parallelo, proposto per primo da Leo 1878, p.  409, con due passi omerici, Β 235 e Η 96 Ἀχαιΐδες οὐκέτ᾽ Ἀχαιοί: il primo dei due sostantivi (Ἀχαιΐδες) è usato chiaramente in senso deteriore e ciò può far immaginare che, analogamente, anche in Cratino Drapetides si possa intendere come l’omerico Ἀχαιΐδες e, quindi, in senso peggiorativo e con valore scoptico. Eccezioni a questa communis opinio sono rappresentate da Luppe 1963, p. 42 e Schwarze 1971, p. 74: poiché µεῖραξ indica senz’altro ‘giovani ragazze’, mentre il senso di ‘invertiti’ è dubbio, nulla si oppone alla possibilità che il coro potesse essere effettivamente costituito da giovani ragazze che fuggivano da qualcosa o qualcuno (Luppe 1963, p. 42: “warum sollen nicht wirkliche Frauen den Chor bilden?”; Schwarze 1971, p. 74: “µείρακες sind im komischen Sprachgebrauch Mädchen, nicht Knaben. Bergks Vermutung, durch die feminine Form könnte die Verweichlichung der männlichen Jugend charakterisiert sein, hat demgegenüber keine Stütze”). Inoltre: a) se è vero che alcuni titoli di commedie a noi noti implicano cori composti da effeminati (oltre ai già citati Stratiōtai vel Stratiōtides di Ermippo, gli Astrateutoi vel Androgynoi [frr. 35–47 K.–A.] e i Baptai [frr. 76–98 K.–A.] di Eupoli [su quest’ultima commedia, cfr. Delneri 2006, pp. 269–272], i Malthakoi [frr. 103–113] di Cratino), è altrettanto vero che sono documentati titoli che rimandano a componenti del coro di genere effettivamente femminile, cfr. comm. a Dēliades, p. 1496s.; b) il parallelo omerico proposto da Leo è senz’altro suggestivo, ma non vi è nessun segnale (che non sia il già detto e dubbio valore di µεῖραξ) che indichi che Drapetides debba essere inteso in senso negativo; ovvero, ‘fuggitive, fuggiasche’ può avere un valore negativo in sé (nel caso, ad es., si riferisca a delle schiave), ma non necessariamente perché si oppone ad un’espressione positiva come nel caso dell’omerico Ἀχαιΐδες οὐκέτ᾽ Ἀχαιοί. Chi siano queste ‘fuggitive’ e da cosa e perché fuggano è impossibile dire. Ipotesi avanzate (“neutra coniectura certa est” Kock CAF I, p. 27) sono quella di Bergk 1838, p. 61 (cfr. p. 46) che siano i coloni ateniesi diretti a Turi (secondo Ecclesiazusis, diversum vero ab Hermippi fabula: salvam fore rem publicam, mulieres si militarent”.

∆ραπέτιδες

311

Bergk ibid. la commedia si data subito dopo la decisione di fondare questa colonia): “Thurii enim cum magna frugum ubertate et omni voluptatum copia abundaret, novi quoque coloni mox deliciis et libidinibus diffluebant”); e quella di Meineke FCG II.1, p. 43: “fugitivas illas mulieres, […] de Sybaritis intelligendas credam, qui quum patria profugi frustra Spartanorum opem implorassent, tandem intercedente Pericle ab Atheniensibus impetrarunt, ut et ipsi in patriam restituerentur et nova colonia in Italiam deducerentur” (sull’evento v. Diod. XII 10, Beloch 1916, II.2, p. 2146s.). Sulla base dell’identificazione Drapetides = µείρακες = effeminati e del confronto con le commedie di Eupoli ed Ermippo (v. supra), Bakola 2010, p. 156 pensa a un “group of Athenians who did not want to go to battle” e che, quindi, la commedia presentasse una critica dell’imperialismo ateniese, v. Contenuto. Contenuto(Nel fr. 61 viene invocato Teseo e questi è molto verisimilmente anche la persona loquens del fr. 53 (a meno di non pensare che si tratti qui di qualcuno che finge di essere il re); che sia Teseo a parlare nel fr. 57 in una scena presso gli inferi (Tsantanoglou) o come personaggio ritornato dagli inferi (Storey) non è possibile dire, v. ad loc. (da entrambi è anche ammesso che chi parla potrebbe essere un non meglio identificato defunto); kōmōdoumenoi sono Senofonte nel fr. 58,2 (di difficile identificazione) e Lampone nei frr. 62 e 66; un riferimento ad alcuni ignoti che creano discordie civili è nel fr. 59; un ruolo di certo rilievo di Eleusi è stato supposto da Storey 2011, p. 297 (“the comedy may have had more than a little to do with Eleusis”) sulla base del fr. 65, dello svolgimento ad Eleusi dell’avventura di Teseo e Cercione (fr. 53) e del legame di Lampone con il decreto eleusino sulle offerte (v. p. 369), ma gli indizi sono molto limitati; lo stesso vale per un ipotetico “divine theme” (Storey ibid.) motivato sul controverso fr. 58 (dove molto dipende dall’interpretazione del futuro ἀστράψω) e su un troppo generico riferimento ai mortali (βροτοί) nel fr. 62,1. A parte i già citati riferimenti ai kōmōdoumenoi, che potrebbero però essere incidentali, non vi è alcun altro indizio evidente che la commedia avesse un contenuto politico; la sua trama è difficilmente immaginabile. Secondo la ricostruzione di Bakola 2010, pp. 141–158 (già anticipata da Pieters 1946, p. 256), le Drapetides contengono più di un indizio di parodia tragica e la loro trama doveva svilupparsi sulla falsariga del “Suppliant-play”: 1) il modello diretto sarebbero le Supplici di Eschilo (le Danaidi fuggono il matrimonio con i figli di Egitto e arrivano ad Argo in cerca di asilo), parodiate fin dal titolo (le ‘Fuggitive’ di Cratino “parodically mimics the title of Aeschylus Hiketides”, p. 144) e alluse in vario modo (linguisticamente: Aesch. Suppl. 234–6 e Drapetides fr. 60; metricamente: uso dei dimetri anapestici nei

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Cratino

frr. 60 e 61; stilisticamente: presenza di registri elevati, epici e tragici, in questi stessi due frammenti); 2) la presenza di Teseo, ignota al resto della produzione comica contemporanea (“as far as our evidence goes, he did not appear in any other contemporary comedy”, Bakola 2010, p. 148 e n. 98 e per commedie di IV sec. a.6C. intitolate Teseo [Aristonimo, Teopompo, Anassandride, Difilo], v. ora Orth 2014, p. 98–101), ma presente nel suo ruolo di mitico e giusto re in tragedia (Euripide Eracle, Sofocle Edipo a Colono) è indizio immediato di richiamo tragico; 3) diversi elementi richiamerebbero il modello tragico del “Suppliant-play”, in cui un gruppo di persone in fuga viene accolto e difeso dai suoi inseguitori da una città o da un re: casi citati sono Supplici e Eumenidi di Eschilo, Eraclidi e Supplici di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle, e almeno una consonanza linguistica viene proposta tra Aesch. Eum. 124 e 141 e il fr. 55 K.–A. (ma v. infra ad loc.). Si tratterebbe di un caso di detorsio dei modelli tragici (come negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse di Aristofane) e, inoltre, potrebbe esserci anche una dipendenza tra le Drapetides e le Danaides di Aristofane (frr. 256–276 K.–A.), una commedia, questa, che presenta indizi di paratragedia (fr. 256 K.–A., cfr. Rau 1967, p. 210: anche in questo caso si tratta di una scena di supplica) e potrebbe essere connessa all’omonima tragedia eschilea (frr. 43–46 R.) come le Drapetides alle Supplici226; in questo caso la commedia di Cratino avrebbe la funzione di rappresentare comicamente un eroe nazionale ateniese come Teseo e criticare, tramite l’ironia sul tema della supplica, l’imperialismo della città: “mocking Theseus at the time when the Athenian cultural media generally presented him in a guise which was most satisfying and reassuring for Athenian ideology is an impressively bold stroke […] Cratinus ironizes the suppliant play in Drapetides, and thereby ironizes Athenian collective selfrepresentation and the sanitization of Athenian imperialism” (Bakola 2010, p. 155 e p. 157). Cronologia(Terminus ante quem è l’ultima produzione nota di Cratino (Pytinē 423 a.6C., forse Seriphioi nello stesso torno di tempo e, inoltre, Lakōnes)227; 226

227

Bakola 2010, p. 152: “this play [Danaides], like Drapetides, drew upon a tragedy, perhaps the Aeschylean trilogy on that theme. Danaides, in that case, could be an indication of the reception and the afterlife of Cratinus’ own play” (e n. 112 per il fatto che la commedia di Aristofane è quasi certamente più tarda di quella di Cratino). Per la Pytinē, v. arg. A 6 Ar. Nub. = schol. in Ar. Nub. I. 3,1, p. 4,13 (Kassel–Austin PCG IV Cratin. test. 7c K.–A.); per i Seriphioi Kaibel 1895b, p. 445 “quoniam Amynias (fr. 228 K.–A.) nec ante Nubes nec post Vespas ab Aristophane umquam memoratus

∆ραπέτιδες

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terminus post quem la menzione di Lampone (fr. 62 e 66 K.–A.), oggetto di attacchi in commedia ben oltre la morte di Cratino (ad es. Ar. Av. 525), ma la cui notorietà e il cui legame con Pericle si datano posteriormente al 444/3 a.6C., anno in cui prese parte alla fondazione della colonia panellenica di Turi (v. a fr. 62,1, Λάµπωνα). Il terminus ante quem potrebbe alzarsi al 429 a.6C. se si identifica il Senofonte menzionato nel fr. 58,2 K.–A. con l’omonimo stratego, figlio di Euripide, generale a Samo nel 441/0 a.6C. e morto proprio nel 429 a.6C. (ma l’identificazione è incerta, v. ad loc.); nulla indica una presenza di Pericle nelle Drapetides: alcuni propongono una sua identificazione con Teseo nel fr. 61,1 (v. ad loc.) e il vocativo βασιλεῦ qui utilizzato farebbe riferimento al suo potere assoluto dopo l’ostracismo di Tucidide di Melesia nel 444/3 a.6C. (a questa data rimanda, come già detto, la presenza di Lampone; se anche Pericle fosse implicato, la sua morte nel 429 a.6C. non rappresenterebbe necessariamente un terminus ante quem per la rappresentazione, come mostra l’attacco nei suoi confronti in Ar. Ach. 530–534, cfr. Olson 2002, p. 2116s.)228.

228

prebreve temporis spatim in re publica versatus videtur, Cratini fabula circa eadem tempora scriptam existimo” e Kassel–Austin PCG IV, p. 233, Bakola 2010, p. Per una possibile datazione dei Lakōnes alle Dionisie del 422, v. Mastromarco 2002. “Können unerörtert bleiben” definisce Geissler 1925, p. 19 n. 4 le tesi espresse da Tanner 1916, un tentativo poco convincente di datazione delle Drapetides precisamente alla primavera del 442. Le motivazioni addotte assumono come sicuri dati in realtà molto incerti: Pericle definito βασιλεῦ nel fr. 61,1 e Senofonte nel fr. 58,2 come l’omonimo generale morto nel 429. Inoltre, buona parte del ragionamento si fonda su una difesa della lezione ἰεροκόλακος del cod. A di Polluce nel fr. 61,2, lezione senz’altro deteriore rispetto ad ἐριβώλακος (Tanner 1916, in part. pp. 68–70; per il testo del fr. v. infra ad loc.); oltre a ciò, vi è un complesso discorso circa la datazione del decreto riguardante l’offerta delle primizie alle divinità eleusine, cui Lampone prese parte (v. infra a fr. 62,1 Λάµπωνα), la cui datazione è controversa, ma che Tanner ricostruisce con argomentazioni proprie e poi utilizza per datare la commedia di Cratino. Infine, non vi è alcun indizio che chiami in causa un legame tra Lampone, questo decreto e le Drapetides (secondo Tanner 1916, p. 17 solo a questo, che fu l’evento principale della vita di Lampone o uno dei più importanti, possono riferirsi scommi come quello di agersikybēlis nel fr. 66 K.–A. e le allusioni contenute nel fr. 61, dove, come detto, le argomentazioni di Tanner si fondano sulla difesa della poco probabile lezione ἱεροκόλακος).

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Cratino

fr. 53 K.–A. (49 K.) τὸν Κερκύονά θ᾽ ἕωθεν ἀποπατοῦντ᾽ 〈ἐγὼ〉 ἐπὶ τοῖς λαχάνοις εὑρὼν ἀπέπνιξα b

θ᾽ ἕωθεν Meineke: τε ἕωθεν (ἑῶθεν Et. gen.) codd.ƒƒƒἀποπατοῦντ᾽ Σ , Phot., Et. gen: ἀποπατοῦντες Sud. TFƒƒƒ〈ἐγώ〉6/6ἐπὶ τοῖς Duebner: ἐπὶ6/6τοῖσι Kaibel

E 〈io〉 avendo trovato Cercione che di buon mattino defecava sugli ortaggi, lo strozzai b

Σ α 1932 = Phot. (z) α 2602 = Sud. α 3468 = Et. gen. A s.6v. ἀπόπατος (Et. magn. p. 132,12) ἀποπάτηµα· αὐτὸ τὸ σκύβαλον. Εὔπολις Χρυσογένει· … (fr. 306 K.–A.). Κρατῖνος ∆ραπέτισι· — apopatēma: lo stesso to skybalon (escremento). Eupoli nel Chrysoun genos […] Cratino nelle Drapetides: e — strozzai

Metro(Trimetri giambici

llkkk klkkk kl 〈kl〉 kklkkl llkkl u 〈lku〉

Bibliografia Runkel 1827, p. 186s. (fr. IV), Duebner apud Runkel 1829, p. 188, Meineke FCG II,1 (1839), p. 486s. (VIII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 17, Bothe PCGF (1855), p. 15 (fr. 8) Edmonds FAC I (1957), p. 386s., Luppe 1963, p. 386s., Luppe 1969, p. 206, Schwarze 1971, p. 72, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 148, Bakola 2010, p. 1476s., 1536s., Storey FOC I (2011), p. 536s. Contesto della citazione(Il frammento è tràdito in fonti lessicografiche come esemplificazione del sostantivo ἀποπάτηµα (nei soli Et. gen. e Et. magn. ricorre s.6v. ἀπόπατος), glossato con il sinonimo σκύβαλον. Quest’ultimo è il sostantivo comunemente impiegato dai lessicografi come spiegazione di termini scatologici, v. ad es. Hsch. κ 3571 κόπριον· θάκων σκύβαλον ο κ 3819 κότυνα· σκύβαλα (come lemma in Hsch. σ 1137 σκύβαλα· κόπρος); anche ἀποπάτηµα che in questo caso è lemma, si trova, invece, spesso come interpretamentum, v. ad es. Sud. σ 690 σκῶρ· κόπρος, ἀποπάτηµα, σ 1672 σφυράδες· τῶν αἰγῶν καὶ προβάτων τὰ ἀποπατήµατα. Dei due esempi addotti come esemplificazione di ἀποπάτηµα, è solo il primo. Eupol. fr. 306 K.–A. (Α. τί γάρ ἐστ᾽ ἐκεῖνος; Β. ἀποπάτηµ᾽ ἀλώπεκος) che utilizza questo sostantivo, mentre in Cratino si ha l’utilizzo del verbo corrispondente. Testo(Il lemma di Fozio è gravemente decurtato: privo delle due citazioni comiche e con la sola dicitura οὕτως Εὔπολις e un’aggiunta marginale καὶ

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Κρατῖνος; la forma estesa è presente negli altri testimonia. I codici tramandano pressoché univocamente al v. 1 τε ἕωθεν (il solo Et. gen. omette τε e presenta una grafia dell’avverbio ἑῶθεν): la lettura θ᾽ ἕωθεν risale a Duebner apud Runkel 1829, p. 188 e successivamente a Meineke FCG II.1, p. 48 e offre un testo senza dubbio migliore sia perché l’elisione di τε davanti a vocale per evitare lo iato è prassi comune nel trimetro giambico, sia perché, pur senza considerare un’integrazione necessaria per completare il primo verso (v. infra), si evita una forma sostanzialmente inusuale di un trimetro giambico con una sequenza tribraco + anapesto (Descroix 1931, p. 132) e un anapesto ‘strappato’229. Per la metrica, si danno due possibilità: 1) ἀποπατοῦντ᾽ 〈k l〉6/6ἐπὶ τοῖς κτλ. In questo caso è possibile l’integrazione 〈ἐγώ〉 proposta da Deubner apud Runkel 1829, p. 188 e Meineke FCG II.1, p. 48; 2) αποπατοῦντ᾽ ἐπὶ6/6τοῖσι κτλ. (Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 148): qui ἐπί è in enjambement con il successivo dativo in cui è necessaria metri causa la minima correzione τοῖσι λαχάνοις (per casi di dativi lunghi tràditi erroneamente, v.  comm. a fr. 10 K.–A., p.  90); questa seconda ipotesi può essere preferibile perché non comporta alcuna integrazione del testo tràdito, ma l’enjambement tra ἐπί e il suo sostantivo non ha paralleli nel trimetro giambico, mentre è comune in lyricis: Ar. Lys. 1285, fr. 573 K.–A. (Phoinissai, probabilmente paratragico, “ex cantico ad monodias Euripidis inridendas ex variis centonibus exposito”, Kock CAF I, p. 534, cfr. Kassel–Austin PCG III.2, p. 295), Eur. Her. 919, 1192, Ion 706 etc. (si potrebbe al limite considerare Eur. El. 6 ἀφίκετ’ ἐς τόδ’ Ἄργος, ὑψηλῶν δ’ ἐπὶ6/6ναῶν, ma il caso è in parte diverso per la presenza dell’aggettivo ὑψηλός antecedente ἐπί). Ιl secondo verso, dopo l’aoristo απέπνιξα manca della parte finale: εὐρὼν ἀπέπνιξα si intende llkkl u con ἀπέπνιξα kklu in sillabazione attica come in Ar. Vesp. 1039 (ἀπέπνιγον ultimo metron di un 4an^; nel trimetro giambico forme ἀπŏπνι- in Ar. Nub. 1504, Pac. 10, Vesp. 1134. Per l’anapesto in

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Conservano, invece, la scriptio plena τε Bekker AG I (1814), p. 433,10 e Bachmann AG I (1828), p. 130,23 che propongono: τὸν Κερκύονα τε6/6ἕωθεν ἀποπατοῦντ᾽ ἐπὶ τοῖς λαχάνοις 〈k l〉6/6εὑρὼν ἀπέπνιξα. Dopo λαχάνοις si deve intendere mancante l’ultimo giambo; tale necessità è giustamente segnalata nella sua edizione da Bekker, che dopo il sostantivo scrive tre puntini di sospensione ad indicare la porzione mancante (manca, invece, in Bachmann, che pur propone un’identica distinzione dei versi, la stessa o un’analoga soluzione). Questa possibilità appare, però, ostacolata sia dalla costanza dell’elisione di τε antevocalico nel trimetro giambico, sia dal fatto che, come rileva probabilmente a ragione Luppe 1963, p. 38, in questo modo si hanno “nur Versbrocken”.

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Cratino

4 sede, Descroix 1931, p. 201) e, quindi, la parte finale si integra 〈lku〉; per l’inizio di questo secondo trimetro con due anapesti, Kassel e Austin PCG IV, p. 148 confrontano l’analoga struttura di Ar. Plut. 815 ὁ δ’ ἰπνὸς γέγον’ ἡµῖν ἐξαπίνης ἐλεφάντινος su cui v. Holzinger 1940, p. 245 e Wilson 2007b, p. 210 e Descroix 1931, pp. 202–205 (in gen. 194–205). Non convincente l’ipotesi di Luppe 1963, p. 38 ~ 1969, p. 206 di intendere un tetrametro giambico catalettico con una sistemazione stichica e testuale ἀποπατοῦντ〈α〉6/6ἐπὶ κτλ., v. Perusino 1968, p. 107 n. 15: “non si trova […] in nessun poeta comico un tetrametro giambico con tre soluzioni anapestiche”; i possibili esempi addotti da Luppe non sono esenti da problemi230 e, in ogni caso, l’interpretazione come trimetro giambico appare la più immediata231. Per il tràdito λαχάνοις ‘ortaggi’, Meineke propose λασάνοις ‘vaso da notte’ (lt. lasanum; per l’utilizzo al plurale, v. Pherecr. fr. 93 K.–A., Eupol. fr. 224 K.–A., Ar. fr. 462 K.–A. e gli esempi in Poll. X 44.45), correzione approvata da Luppe 1963, p. 39: “Die Tötung des Kerkyon bringt Kratinos in eine witzige Situation, indem er jemanden berichten lässt, er habe jenen umgebracht, während dieser morgens gerade ‘sein Geschäft verrichtete’”; ma, probabilmente a ragione, Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 148 difende il tràdito λαχάνοις e intende che Cercione, nell’atto di fermare i viandanti e sfidarli a pugilato “tamquam κέρκωψ non λασάνοις sed λαχάνοις insidens ridicule fingitur” (λάχανον può anche essere un aprosdokēton per λάσανον con un’ulteriore nuance negativa, cfr. infra). a

Interpretazione(Si tratta del resoconto di un’azione che non si era svolta sulla scena; poiché secondo il racconto del mito ad uccidere Cercione fu Teseo, l’ipotesi più probabile è che la persona loquens di questo frammento (ἀπέπνιξα) 230

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Per l’inizio doppiamente anapestico Luppe confronta: a) Cratin. fr. 208, 16s. K.–A. (Pytinē) ληρεῖς ἔχων: γράφ᾽ αὐτὸν6/6ἐν ἐπεισοδίῳ, dove, però ἐν ἐπεισοδίῳ è stato talora considerato sospetto ed espunto, v. ad es. Marzullo 1959, p. 145 “γράφ(εται) ταῦτ(α) ἐν ἐπεισοδίῳ, quale è lecito desumere dai codici, potrebbe considerarsi annotazione marginale, poi intrusa nel frammento di Cratino. Dell’originario compendio fanno fede le diverse lezioni: offrono anzi il maggio indizio” (ma contra Meineke FCG II.1, p. 126 sulla base del confronto con Metag. fr. 15 K.–A. [Philothytēs], su cui v. Pellegrino 1998, p. 3276s. e Orth 2014, pp. 468–471 per ἐπεισόδιον come parte del lessico della commedia); b) Cratin. fr. 249,2 K.–A. οἷς ἦν µέγιστος ὅρκος6/6 † ἅπαντι λόγῳ † κυὼν, ἔπειτα χῆν· θεοὺς δ᾽ ἐσίγων, dove Luppe stesso propone per il tràdito ἅπαντι λόγῳ una correzione ἐν ἅπαντι λόγῳ, ma proprio il fatto che il testo non sia sicuro sconsiglia l’utilizzo di questo frammento come confronto. Poco probabile anche l’ipotesi di Kock CAF I, p. 27 che interpreta il v. 2 come “dactylicus cum anacrusi”.

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sia proprio Teseo, il quale doveva quindi comparire nella commedia come dramatis persona, ciò che pare confermato anche dal fr. 61 K.–A. (v. p. 3576s.), sebbene il suo ruolo non sia del tutto chiaro; è possibile che il frammento facesse parte di una narrazione delle imprese di Teseo, come può forse indicare la presenza del τε (v. infra ad loc.), narrazione in parte ridicolizzata, cfr. Bakola 2010, p. 154 “his [sc. di Teseo] labours were stripped of heroism”, la quale da ultima ripropone anche l’assegnazione alle Drapetides e a questo medesimo contesto del fr. inc. sed. 328 K.–A. ὅς τὴν πίτυν ἔκαµπτεν / ἑστὼς χαµᾶθεν ἄκρας / τὴν κόµης καθέλκων, che contiene un riferimento ad un’altra delle imprese di Teseo, l’uccisione di Sinis (v. ancora fr. 65 K.–A. che menziona la ἱερὰ ὁδός e Contenuto). In questo caso il racconto del mito è piegato ad una detorsio in comicum: l’uccisione di Cercione avviene infatti dopo che questi è stato sorpreso nell’atto di defecare, una evidente invenzione comica (a questo può essere connesso anche l’impiego di ἕωθεν, v. infra ad loc.); inoltre, λάχανον può essere un aprosdokēton per λασάνοις (v. supra) e il fatto che indichi generalmente gli ortaggi coltivati (quando in Ar. Thesm. 456 indica gli ortaggi selvaggi, è accompagnato dal qualificativo ἄγριος, v. infra a λαχάνοις), può contenere un’ulteriore pointe al comportamento di Cercione, il quale è sorpreso a fare i propri bisogni, non su un terreno incolto, ma, esattamente al contrario, proprio laddove gli ortaggi erano lavorati e coltivati. Non è escluso, però, che il locutore del frammento potesse essere anche qualcuno che si arrogava pretenziosamente il merito dell’impresa compiuta da Teseo, v. Luppe 1963, p. 39; in questo caso, è possibile che anche il nome di Cercione fosse utilizzato non in senso proprio, cfr. Meineke FCG II.1, p. 49: “sed Cercyoni, cuius nota est historia, quid faciam nescio. Nisi forte figurate hoc nomine usus est ad significandum hominem Cercyonis ingenio similem”. τὸν Κερκύονα(Cercione è un personaggio della mitologia legato a Teseo: figlio di Branco e della ninfa Argiope, re di Eleusi, nei pressi di questa città fermava i passanti, li obbligava a gareggiare a pugilato e li uccideva, finché non si imbatté in Teseo, che lo sfidò e lo sconfisse. La fonte letteraria più antica per la narrazione di questa (e altre) imprese di Teseo è il ditirambo XVIII di Bacchilide; riferimenti specifici all’episodio di Cercione nel teatro di V sec. a.6C. erano probabilmente il Kerkyōn Satyrikos di Eschilo (frr. 102–107 R.) e, forse, i Παλαισταὶ σατύροις di Pratina (TrGF 1, 4 T 2), se questo titolo faceva riferimento al luogo dove Cercione sfidava i passanti, la παλαίστρα Κερκύονος (v. infra) e quindi παλαισταί erano detti i satiri, cfr. Radt 1985, p. 223232. Per 232

In commedia sono documentati titoli di commedie che fanno riferimento anche ad altri dei nemici che Teseo sconfisse nel suo cammino verso Atene: Epich. Skirōn fr. 123–124 K.–A., Alexis Skeirōn fr. 210 (cfr. Arnott 1996, pp. 602–4); inoltre, altre com-

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l’uccisione di Cercione, Bacch. XVIII 26 riporta la notizia che Teseo τάν τε Κερκυόνος παλαίστραν ἔσχεν (questo luogo, la ‘palestra di Cercione’ era noto ancora a Paus. I 39.3, secondo cui si trova non lontano dalla tomba di Alope, figlia dello stesso Cercione, cfr. Beschi–Musti 1982, p. 416). Secondo lo stesso Pausania (ibid.), Teseo sconfisse Cercione grazie a una nuova τέχνη di lotta (παλαιστικὴν γὰρ τέχνην εὗρε Θησεὺς πρῶτος καὶ πάλης κατέστη ὕστερον ἀπ’ ἐκείνου διδασκαλία· πρότερον 〈δὲ〉 ἐχρῶντο µεγέθει µόνον καὶ ῥώµῃ πρὸς τὰς πάλας. Su questo punto v. C. Calame, Thésée et l’imaginaire athénien, Lausanne 1990, p. 188); Apollodoro, invece, non nomina la ‘palestra’, ma dice che Teseo uccise Cercione dopo averlo sollevato in aria e, quindi, precipitato al suolo, v. epit. I 3: Θησεὺς δὲ αὐτὸν µετέωρον ἀράµενος ἤρραξεν εἰς γῆν. Altre fonti letterarie sull’uccisione di Cercione (senza le specificazioni di Pausania o Apollodoro) sono: Plut. Thes. 11.1, Diod. Sic. IV 59. 4, Hygin. fab. 38,5, Ov.  Met. VIII 439, schol. Luc. Iupp. trag. 21, p. 65 Rabe; nell’iconografia talora appare la scena descritta da Apollodoro (LIMC 7 nn. 34,39) altrove è rappresentata una scena di lotta (LIMC 7, pp. 926–929, nn. 33, 36–38, 40–41, 44, 46, 52, 54, 55, 58 (tutti casi di vasi a figure rosse, in cui l’impresa di Cercione è all’interno di una raffigurazione complessiva del ciclo di imprese di Teseo; v. anche ibid. p. 932, nn. 123–125 per possibili rappresentazioni della sola uccisione di Cercione). In un altro racconto del mito, Cercione è il padre di Alope, violentata da Poseidone e costretta ad esporre il figlio nato da quell’unione (Hygin. fab. 187); un pastore trova il bambino e lo affida a un secondo pastore, ma una disputa nata tra i due per il possesso degli eleganti vestiti dell’infante e portata davanti a Cercione per essere risolta, fa scoprire a quest’ultimo la verità. Di conseguenza il re ordina di seppellire viva la figlia e di esporre di nuovo il bambino, il quale è però ancora una volta salvato da alcuni pastori; nel frattempo Cercione è ucciso da Teseo e il bambino, ormai adulto, di nome Ippotoo, chiede e ottiene da Teseo il regno un tempo del padre. Per il mito di Cercione, v. in part. RE XI.1 (1921) s.6v. Kerkyon col. 3146s. (Latte), RE suppl. XIII (1973), s.6v. Theseus (coll. 1046–1238), col. 10756s., (Herter), Brommer 1982, pp. 19–21, Gantz 1994, p. 2526s., LIMC 7 (1994) s.6v. Thesesus (p.922–951), p. 9326s. (J. Neils), Reinhardt 2011, p. 130 n. 545 (con ulteriore bibl.).

medie dal titolo Thēseus (Aristonimo, Teopompo, Anassandride, Difilo) potevano contenere la narrazione di queste imprese. Al medesimo tema apparteneva anche il dramma satiresco Skirōn di Euripide (fr. 674a-681 K.). Per la presenza di Teseo in commedia v. Skempis 2010, pp. 297–301 e Orth 2014, pp. 98–101 (Aristonimo, Thēseus).

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θ᾽(“Das τε bezeugt einen längeren Tatenbericht: Theseus gibt die Heldenstücke zum besten, die er der Sage nach auf seiner abenteuerliche Reise nach Athen vollbracht hat” (Schwarze 1971, p.  72). Cfr. Interpretazione per la possibilità che il frammento rientrasse in un resoconto in parte detorto in comicum delle avventure di Teseo e che il τε qui presente ne indicasse una, quella di Cercione. ἕωθεν(All’alba per i Greci iniziava la giornata lavorativa (v. ad es. Ar. Av. 488–492, Plut. 1120–1222) con tutte le relative occupazioni, ad es. le assem3 blee (v. ad es. Ar. Thesm. 375, Eccl. 206s., 846s., 739–741, IG I , 68.30) o le attività dei tribunali (v. ad es. Ar. Vesp. 100–104, 215–217), cfr. Olson 2002, p. 72 ad Ar. Ach. 20 (ἑωθινῆς). Possibile in Cratino un valore comico: prima di cominciare a fermare i passanti e sfidarli a pugilato, la giornata di Cercione iniziava all’alba con l’espletamento dei bisogni corporali e, in questa condizione, viene trovato e ucciso. ἀποπατοῦντ᾽(Per l’utilizzo del verbo cfr. Ar. Eccl. 351 ἀλλὰ σὺ µὲν ἱµονιάν τιν’ ἀποπατεῖς, 354 κἄγωγ’, ἐπειδὰν ἀποπατήσω, Plut. 1184 ἀποπατησόµενοί; v. inoltre Ar. Pac. 1128 ἐναποπατεῖν e Eccl. 326 ὅµως δ’ οὖν ἐστιν ἀποπατητέον. “ Ἀποπατέω in origin a euphemism, ‘step aside’ (cfr. ἀφοδεύω), is colloquial vocab. but less crude then χέζω” (Olson 1998, p. 301 ad Ar. Pac. 1228); cfr. il corrispondente sostantivo ἀπόπατος in Ar. Ach. 81 ἀλλ’ εἰς ἀπόπατον ᾤχετο, su cui v. Olson 2002, p. 97 “originally a euphemism, ‘a stepping away’ […] like ἄφοδος (lit. ‘a departure’) at Ec. 1059–60 εἰς ἄφοδον …6/6ἐλθόντα (‘going to take a shit’); Antiph. fr. 42.5 εἰς ἄφοδον ἐλθών (‘going to take a shit’)”. Quindi ‘allontanarsi’ (ἀπό + πατέω) con sottointeso ‘per necessità corporali’ e quindi ‘defecare’. Lo stesso nell’italiano cesso dal lat. recessum, derivato di recedere ‘ritirarsi’. λαχάνοις(Propriamente gli ortaggi coltivati, opposti a quelli selvaggi (LSJ s.6v. “garden-herbs, opp. wild plants, vegetables”), come ad es. in commedia in Cratin. fr. 350 K.–A. (inc. sed.) ταῖς ῥαφανῖσι δοκεῖ, τοῖς δ’ ἄλλοις οὐ λαχάνοισιν, Epicr. fr. 10,15 K.–A. (inc. sed.) διεχώριζον ζῴων τε βίον6/6δένδρων τε φύσιν λαχάνων τε γένη, Plat. Rp. 372c καὶ βολβοὺς καὶ λάχανά γε, οἷα δὴ ἐν ἀγροῖς ἑψήµατα, ἑψήσονται, v. anche Hipp. Vict. 2,54, Aff. 56; quando indica gli ortaggi selvaggi è seguito dall’aggettivo qualificativo, come in Ar. Thesm. 456 ἐν ἀγρίοισι τοῖς λαχάνοις, Plut. 298. I λάχανα sono considerati un cibo povero, proprio dei mendicanti (Ar. Pl. 298), ma anche degli asceti (Aristophon frr. 12–13 K.–A.). Il sostantivo è generalmente impiegato al plurale, da cui anche il senso di mercato, “part of the market where vegetables were on sale”, Arnott 1996 ad Alex. fr. 47,8 K.–A. [Dēmetrios], cfr. ad es. Ar. Lys. 557, Thesm. 456 e Olson–Sens 2000, p. 60 e p. 113; al singolare ad es. in Cratin. fr. 204 K.–A.

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Cratino

(Pytinē) ἀλλ᾽ οὐδὲ λάχανον οὐδὲν οὐδ᾽ ὀστοῦν ἔτι6/6ὁρῶ, su cui v. Fritzsche 1835, p. 267. ἀπέπνιξα(‘Strozzare, soffocare’, con specifico riferimento all’atto di uccidere qualcuno ad es. in Hdt. II 169.3, Xen. Hell. III 1.14 etc. fr. 54 K.–A. (50 K.) δέχεσθε φιάλας τάσδε βαλανειοµφάλους Prendete queste phialai balaneiomphaloi Athen. XI 501d Κρατίνου δ’ εἰπόντος ἐν ∆ραπέτισιν· ‘δέχεσθε—βαλανειοµφάλους’, Ἐρατοσθένης ἐν τῷ ἑνδεκάτῳ περὶ Κωµῳδίας (fr. 25 Strecker) τὴν λέξιν ἀγνοεῖν φησι Λυκόφρονα· τῶν γὰρ φιαλῶν οἱ ὀµφαλοὶ καὶ τῶν βαλανείων οἱ θόλοι παρόµοιοι· εἰς δὲ τὸ εἶδος οὐκ ἀρρύθµως παίζονται. Ἀπίων (FGrHist 616 F 49) δὲ καὶ ∆ιόδωρός (cfr. Athen. 14, 642e) φησι· ‘φιάλαι ποιαί, ὧν ὁ ὀµφαλὸς παραπλήσιος ἠθµῷ.’ ὁ δὲ Μυρλεανὸς Ἀσκληπιάδης ἐν τοῖς περὶ Κρατίνου (Cratin. test. *40 K.–A., PCG IV, p. 120) ‘βαλανειόµφαλοι’, φησίν, ‘λέγονται, ὅτι οἱ ὀµφαλοὶ αὐτῶν καὶ τῶν βαλανείων οἱ θόλοι ὅµοιοί εἰσιν.’ καὶ ∆ίδυµος (fr. 24, p. 42 Schmidt) δὲ τὰ αὐτὰ εἰπὼν παρατίθεται 〈τὰ〉 Λυκόφρονος οὕτως ἔχοντα (fr. 25 Strecker)· ‘ἀπὸ τῶν ὀµφαλῶν τῶν ἐν ταῖς γυναικείαις πυέλοις, ὅθεν τοῖς σκαφίοις ἀρύουσιν.’ Τίµαρχος (Τιµάχιδας Susemihl 1891–1892, I p. 428 n. 93, II p. 1896s. e n. 237; Timach. fr. 17 Blinkenberg) δ’ ἐν τετάρτῳ περὶ τοῦ Ἐρατοσθένους Ἑρµοῦ (p. 59 Powell) ‘πεπαῖχθαί τις ἂν οἰηθείη’, φησί, ‘τὴν λέξιν, διότι τὰ πλεῖστα τῶν Ἀθήνησι βαλανείων κυκλοειδῆ ταῖς κατασκευαῖς ὄντα τοὺς ἐξαγωγοὺς ἔχει κατὰ µέσον, ἐφ’ οὗ χαλκοῦς ὀµφαλὸς ἔπεστιν.’ Ἴων δ’ ἐν Ὀµφάλῃ (TrGF 19 F 20)· ‘ἴτ’ ἐκφορεῖτε, παρθένοι, κύπελλα καὶ µεσοµφάλους’. οὕτω δ’ εἴρηκε τὰς βαλανειοµφάλους, ὧν Κρατῖνος µνηµονεύει· δέχεσθε—βαλανειοµφάλους. Riguardo a quanto Cratino dice nelle Drapetides: prendete—balaneiomphaloi, Eratostene nell’undicesimo libro dell’opera Sulla commedia sostiene che Licofrone ignora il significato della parola: infatti gli omphaloi delle phialai e le tholoi (sale a volta) dei bagni sono molto simili. E per l’aspetto sono accostate scherzosamente non senza grazia. Apione e Diodoro dicono: “tipi di phialai il cui omphalos è simile a un colino (ēthmos)”. Asclepiade di Mirlea negli scritti su Cratino dice: “(le phialai) sono definite balaneiomphaloi, perché i loro omphaloi e le tholoi (sale a volta) dei bagni sono simili”. E anche Didimo dopo aver detto la stessa cosa, aggiunge il parere di Licofrone: “(sono dette così) dagli omphaloi delle vasche da bagno femminili, da dove si svuotano per mezzo di bacili”. Timarco (Timachida?) nel quarto libro dello scritto L’Hermes di Eratostene dice: “Si potrebbe pensare che la parola sia formata per scherzo, perché la maggior parte dei bagni di Atene hanno forma circolare e hanno al centro un condotto di scarico e sopra c’è un omphalos di bronzo”. Ione nell’Omfale: “Tirate fuori su, fanciulle, coppe e mesomphaloi”. E chiama così le balaneiomphaloi, di cui si ricorda Cratino: prendete—balaneiomphaloi.

∆ραπέτιδες (fr. 54)

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v

Hsch. β 147 (cfr. Lex. Bekk. p. 225,6) βαλανοµφάλους (βαλανιοµφ-: H)· οὕτω Κρατῖνος ὠνόµασε 〈τὰς φιάλας〉 τὰς ἐχούσας ὀµφαλοὺς ἄνευ προσώπων, ὁποῖοι οἱ θόλοι 〈ἐν τοῖς βαλανείοις· οἱ δὲ〉 ἀπὸ τὼν ὀµφάλῶν τῶν ἐν ταῖς πυέλοις [ἐν τοῖς βαλανείοις] Balanomphalous: Cratino chiamò così le phialai che hanno gli omphaloi senza volti233, come le sale a volta 〈nei bagni; e altri〉 dalle cavità nelle vasche [nei bagni].

Metro(Trimetro giambico

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 19 (fr. V), Bergk 1838, p. 64–66, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 49–51 (fr. IX), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 17, Bothe PCGF (1855), p. 15 (fr. 9), Kock CAF I (1880), p. 27, Edmonds FAC I (1957), p. 386s., Luppe 1963, p. 356s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1486s., Henderson 2011, p. 1846s., Storey FOC I (2011), p. 2966s. Contesto della citazione(Il frammento di Cratino è citato da Ateneo due volte (senza differenze) all’interno di una discussione sulla φιάλη nell’undicesimo libro dei Deipnosofisti. La parte maggiore di questo libro, 782d (parte epitomata contenuta in C ed E)-503f è occupata da una lunga “raccolta di lemmi erudita, ma eterogenea sia per la cronologia, sia per i materiali e l’uso dei vasi citati” (Cherubina in Ateneo II, p. 1147 n. 1), esposta dal commensale Plutarco, che si apre con la ἀγκύλη e si chiude con lo ᾠόν; da 500f inizia la sezione dedicata alla trattazione della φιάλη che si estende fino a 502b: a partire da due luoghi omerici (Ψ 270 e 243) in cui compare il sostantivo sono riportate e discusse differenti opinioni sulla sua forma e la sua tipologia, quindi una discussione sull’origine del nome con una paretimologia da πιεῖν (cfr. infra a φιάλη) e ulteriori considerazioni sul suo utilizzo. Segue la prima citazione del verso di Cratino, dove le phialai sono definite balaneiomphaloi; di questo aggettivo Ateneo riporta diverse spiegazioni erudite degli antichi, la cui diversità è probabilmente segno di una incertezza sul suo significato (v. infra a βαλανειοµφάλους). Al termine di questa sezione, viene citato un verso di Ione di Chio (TrGF 19 F 20) dove compare l’aggettivo mesomphalos; questo, secondo Ateneo, è sinonimo di balaneiomphalos utilizzato da Cratino, di cui, per questo, viene citato per la seconda volta il medesimo verso. Segue una citazione di Teopompo 233

Per l’espressione ἄνευ προσώπων, la spiegazione più probabile appare quella data già da Meineke FCG II.1, p. 51: “suspicor autem haec πρόσωπα de leonum luporum aliorumve animalium oribus intelligenda esse, quibus aliarum phialarum orae ornabantur. Pollux II 48 […] Hoc ornatu igitur illarum quas Cratinus commemorat phialarum orae carebant” (cfr. Bothe PCGF, p. 15 e Edmonds FAC I, p. 386s. nota c).

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comico (fr. 4 K.–A. [Althaia]) λαβοῦσα πλήρη χρυσέαν µεσόµφαλον6/6φιάλην· Τελέστης δ’ ἄκατον ὠνόµαζέ νιν, in cui compare ancora l’aggettivo mesomphalos (quindi, una di Ferecrate, v. infra a βαλανειοµφάλους). Per quanto riguarda Hsch. β 147 sono recepite due delle spiegazioni riportate da Ateneo, quella che connette il significato di balaneiomphalos con la forma delle tholoi dei bagni e quella che lo connette invece con gli omphaloi delle vasche da bagno. Un’ulteriore testimonianza è Phot. β 38 = Sud. 64 βαλανειοµφάλους· τὰς φιάλας οἱ κωµικοὶ καλοῦσι, dove si ha la sola attestazione che l’aggettivo balaneiomphalos è una lexis comica, ma mancano sia le ipotesi sul significato, sia la menzione di Cratino (è verisimile che la glossa si riferisca proprio all’occorrenza di Cratino, l’unico commediografo in cui questo aggettivo sia testimoniato; il plurale οἱ κωµικοί potrebbe far pensare o all’esistenza anche di altri passi a noi non noti in cui era presente questo aggettivo o rimandare all’utilizzo di aggettivi analoghi quali mesomphalos o omphalōtos, v. a βαλανειοµφάλους). Testo(Secondo Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 149 al tràdito βαλανειοdeve preferirsi una scrittura βαλανιο- (l’errore sarebbe facilmente ascrivibile ad un itacismo) da intendere come “phialas umbonibus munitis (βαλανίοις)”, sulla base della cosiddetta phialē βαλανωτή ‘adorna di ghiande’ testimoniata da Athen. XI 502b (parte epitomata). Sebbene il testo di Ateneo sia nel caso specifico lacunoso e si supplisca qui con l’epitome, da ciò che è lecito dedurre dal testo stesso sembra che la phialē balanōtē sia da distinguersi dalla precedente, perché la sua descrizione inizia con le parole ἐκαλεῖτο δέ τις καὶ βαλανωτὴ φιάλη; oltre a ciò il diminutivo βαλανίον ipotizzato da Kaibel non è mai attestato nel significato di ‘umbones’ (v. LSJ s.6v.), il che obbligherebbe a postularne un valore non altrove noto. Si potrebbe invece al limite ritenere giusta l’idea di Gulick (v. infra ad loc.) che balaneiomphalos potesse contenere un equivoco volutamente cercato tra βαλανεῖον ‘bagno’ (il che rimanda alle spiegazioni antiche) e βάλανος ‘ghianda’, ma che l’omphalos della phialē avesse forma di ghianda non è attestato (a meno di non chiamare in causa, di nuovo, la phialē balanōtē, la quale però, come detto, sembra essere, alla lettera del testo di Ateneo, una tipologia differente, cfr. Luppe 1963, p. 36). Interpretazione(La persona loquens del frammento rivolge ad almeno due persone (δέχεσθε) un invito o un ordine (la valenza dell’imperativo non è specificabile) ad accettare, a prendere alcune phialas baleneiomphalous; l’interpretazione come imperativo appare la più immediata, ma non si può escludere che nell’originario contesto δέχεσθε fosse una seconda plurale dell’indicativo, riferita ad un’azione che non ci è possibile specificare. L’uso di τάσδε indica probabilmente che le coppe erano già state menzionate o erano note, non che

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fossero effettivamente presenti alla vista, cfr. Taplin 1977, p. 151 per questo uso del deittico ὅδε (un senso propriamente deittico, ad indicare che le coppe erano presenti in scena, sarebbe stato indicato da τασδί come ad es. in Ar. Ach. 191 σὺ δ’ ἀλλὰ τασδὶ τὰς δεκέτεις γεῦσαι λαβών con Olson 2002, p. 131). Il valore dell’aggettivo balaneiomphalos, un hapax, non è chiaro e discusso già in antico, come mostra Ateneo, e non si può escludere che contenesse un Witz comico il cui valore ci è ignoto (infra a βαλανειοµφάλους, 2b); φιάλη in commedia indica soprattutto una coppa destinata alle libagioni (infra a φιάλη) ed è forse possibile che un analogo contesto di libagione fosse implicato anche nel frammento di Cratino, v. ad es. Bergk 1838, p. 64: “verba fortasse sunt Lamponis, qui quo ritu sacra essent perficienda, chorum monebat”; ma non si può escludere che il riferimento al βαλανεῖον implicasse un diverso uso della φιάλη in questo contesto (un contenitore di profumi come in Senoph. fr. 1.3 2 W. ?), o ancora che potesse trattarsi semplicemente di una coppa per bere. φιάλας(Coppa non particolarmente profonda, priva di anse e di piede, ma con al centro un rilievo cavo detto ὀµφαλός che permetteva di portarlo sulla punta delle dita (Poll. VI 95; cfr. Luschey 1939, p. 19: l’omphalos è parte caratterizzante della phialē, ma non viene quasi mai esplicitamente menzionato, a meno che ciò non accada per un motivo particolare quale, ad esempio, la qualità del suo materiale). Sulla phialē v. in part. RE XIX,2 (1938), coll. 2059–2062 (Miltner), Luschey 1939, RE Suppl. VII (1940) coll. 1026–1029 (Luschey), Richter-Milne 1935, p. 296s., Sparkes-Talcott 1970, p. 1056s. e p. 2716s. nnr. 518–526 (e fig. 6, tavv. 23 e 52), cfr. anche Radici Colace–Gulletta 1995, p. 31, Stern 1995, p. 25. Il sostantivo è attestato già in miceneo (Dmic. II 118) nella forma pi-a2–ra, pi-ja-ra, e derivato probabilmente da una forma *φισαλᾱ o *πισαλᾱ (GEW s.6v., DELG s.6v., LfgrE 4 s.6v. [Beck]), mentre senz’altro paretimologica è la spiegazione che Ateneo XI 501b attribuisce ad Asclepiade di Mirlea, secondo cui “φιάλη […] κατ᾽ ἀντιστοχίαν ἐστὶ πιάλη, ἡ τὸ πιεῖν ἅλις παρέχουσα· µείζων γὰρ τοῦ ποτήριου” (per la grafia, una scrittura φιέλη è nota solamente in fonti che la considerano deteriore rispetto a quella attica φιάλη, ad es. Moer. 15: φιάλη Ἀττικοί διὰ τοῦ α· διὰ τοῦ ε Ἕλληνες, cfr. Hansen 1998 ad loc.); tale spiegazione contrasta, infatti, anzitutto con il fatto che l’uso più antico e probabilmente originario della phialē non era legato all’atto del bere. Nei poemi omerici phialē indica: 1) l’urna cineraria in cui vengono temporaneamente deposte le ossa di Patroclo (Ψ 243 e 253) e 2) uno dei premi messi disposti nei giochi funebri in onore di Patroclo (Ψ 270 e 616); successivamente viene così definita una coppa utilizzata sia per le libagioni (Pind. Pyth. IV 193, Hdt. II 147, 151, VII 54, Ar. Pac. 423–432, Alex. fr. 111 K.–A. [Koniatēs] con Arnott 1996, p. 297) che per bere (Pind. Isthm. VI 40, Nem. IX 51, X 43, Eur. Ion 1182, Xen.

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Cyr. I 3, V 2–3, Symp. 2.23, Pl. Symp. 223c 5) o anche per contenere profumi 2 (Xenoph. fr. 1.3 W. ). Generalmente la phialē è fatta di oro (Pind. Ol. VII 1, Pyth. IV 193, Isthm. 2 VI 40, Eur. Ion 1182, Hdt. II 151, 4.5–10, VII 54, IX 80, Crit. fr. 2 W. , Ar. Pac. 431, Lys. 19.25, Pl. Crit. 120a-b), ma anche di argento (Pind. Nem. IX 51, X 43, Thuc. VI 46, Xen. An. IV 7, VII 3, Lys. XII 11), di bronzo solo in Hdt. II 147; Athen. XI 502a-b testimonia che, a seconda che il suo materiale costitutivo fosse l’argento o l’oro, la phialē poteva essere chiamata anche ἀργυρίς (Ateneo cita Pherecr. fr. 135 K.–A.) o χρυσίς (Cratin. fr. 132 K.–A., Hermipp. fr. 38 K.–A.; si possono aggiungere anche Ar. Ach. 74 e Pac. 425). Sono noti, inoltre, alcuni qualificativi che ne denotano particolari caratteristiche, come ad es. le φιάλαι λεῖαι, ossia lisce, o quelle ῥαβδωταί, ossia munite di strisce, o ancora le λογχωταί, con ornamenti di ferro ai lati, o le ἀµφίθετοι (probabilmente a due manici, secondo l’interpretazione più probabile tra quelle riportate da Athen. XI 501a, v. Richardson in Iliad 6, p. 2046s. [ad Ψ 270]). La phialē è spesso citata 2 in contesti simposiaci (Pind. Ol. VII 1, Nem. IX 51, Xenoph. fr. 1 W. , Eur. Ion 1182, Xen. Symp. II 23, Cyr. I 3, Pl. Symp. 223c5); inoltre è comune come dono (Ar. Vesp. 677, Av. 975, Xen. An. IV 7, VII 3), come offerta votiva (Hdt. I 5, IX 116, Thuc. VI 46, Ar. Vesp. 1447) e, come già nei giochi funebri per Patroclo (v. supra), può essere premio di una gara (Pind. Isthm. I 20, Nem. X 43). Può essere un termine alto, come mostra il suo impiego nei poemi omerici, in Esiodo (fr. 197 M.–W.), in Pindaro (v. supra), nel ditirambo (Timoth. PMG 797 [21]) e in tragedia, dove compare solamente in Eur. Ion. 1182 e in Astyd. TrGF I 60 F 3 (IV sec. a.6C.; si tratta qui, però, forse di un dramma satiresco, cfr. Snell–Kannicht 1986, p. 205), ma il suo utilizzo è ben attestato anche in commedia: Ar. Vesp. 677, 1447, Pac. 431, Av. 975, Theop. fr. 4,2 K.–A. [Admētos] (il cui tono è forse paratragico, sicuramente alto, cfr. Kassel–Austin PCG VII, p. 710), poi in Alex. fr. 60,4 K.–A., Anax. fr. 82 e 41,26 K.–A., Antiph. fr. 110,1 e 223,4 K.–A., Ephipp. fr. 10,1 K.–A., Eubul. fr. 47 K.–A., Philipp. fr. 9,8 K.–A., Xen. fr. 2,3 K.–A. βαλανειοµφάλους(L’aggettivo è un hapax; composto di βαλανεῖον ‘bagno’ + ὀµφαλός da intendere probabilmente nel senso di ‘protuberanza’, come quella caratteristica di alcuni scudi da combattimento (LSJ s.6v. II.1). Quasi certamente un gioco di parole, come è detto ancora dalle fonti antiche, in particolare da Eratostene, che nel riferire l’esegesi dell’aggettivo (v. infra) giudicava poi che εἰς δὲ τὸ εἶδος οὐκ ἀρύθµως παίζονται (cfr., poco dopo, l’inizio della citazione di Timachida πεπαῖχθαί [“h.e. comice fictum esse”, Meineke FCG II.1, p. 49 n.*] τις ἂν οἰηθείη […] τὴν λέξιν); potrebbe trattarsi di un conio di Cratino, contenente un Witz non più chiaro (già verisimilmente agli antichi, i quali discutevano del suo effettivo significato), cfr. Luppe 1963,

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p. 35 “offenbar handelt es sich um einen einmaligen Ausdruck, den Kratinos in witziger Art geprägt hat”. Il significato non è chiaro ed esistono differenti possibili spiegazioni sia antiche (1, a-c; riportate da Ateneo, testimone del frammento), sia moderne (2, a-b): 1a) Secondo Eratostene (fr. 25, p.  31 Strecker, cfr. ibid. anche p.  66s.) il nome deriva dalla somiglianza tra le omphaloi delle phialai e le tholoi (‘vaulted vapour-bath’ LSJ s.6v. II), il che dimostra che l’omphalos aveva una forma rotonda; tale spiegazione ritorna anche nelle altre fonti riportate da Ateneo, quali Asclepiade di Mirlea (v. Cratin. test. *40 K.–A., PCG IV, p. 120), Didimo (fr. 24 p. 42 Schmidt) e soprattutto Timachida234, il quale nell’opera l’Hermes di Eratostene (Eratost. fr. 59 Powell) precisa che il gioco di parole potrebbe derivare dalla forma circolare della maggioranza dei bagni di Atene e dal fatto che in essi si trova un condotto di scarico al centro e in alto un omphalos (“specie di ‘scudo’ rotondo […] appeso per mezzo di catene alla volta a cupola del sudatorio, in corrispondenza di un’apertura centrale, e che poteva essere alzato o abbassato per regolare la temperatura”, Cherubina in Ateneo II, p. 1242 n. 4). Se si accetta, dunque, questa spiegazione, il significato di balaneiomphalos si deve alla somiglianza tra la protuberanza (omphalos) della phialē e la volta rotonda (tholos) dei bagni ateniesi e anche, secondo la precisazione di Timachida, all’omphalos (in questo caso ‘scudo’ rotondo) che nei bagni serviva come regolatore della temperatura; 1b) secondo Licofrone (fr. 25 Strecker) balaneiomphalos si spiega con la somiglianza con le cavità (omphaloi) che si trovano nelle vasche da bagno femminili e che servivano al loro svuotamento; 1c) secondo Apione (FGrHist 616 F 49) e Diodoro, l’omphalos della phialē assomigliava molto ad un colino, ἡθµός (su questo v. il comm. di Kassel–Austin a Pherecr. fr. 45), la cui forma è però poco nota e non aiuta a chiarire il significato dell’aggettivo cratineo; 2a) secondo Ginouvès 1962, p. 49, 57 n. 5, 197 n. 4 e tav. VI e XXX, un tipo di vasca da bagno, non però solamente femminile (come in Licofrone, 1b), era quello in cui l’acqua veniva versata sul bagnante e raccolta in una cavità (omphalos) posta ad una delle estremità, da dove poi tramite appositi bacili ve234

Ateneo riporta il nome Timarco, ma è probabile che debba qui leggersi effettivamente leggersi Timachida, come proposto da Susemihl 1891–1892, I p. 428 n. 93 e II p. 1896s. e n. 237 e recepito da Blinkenberg (C. Blinkenberg, La chronique du temple lindien, Copenhague [Bulletin de l’académie royale des sciences et des lettres de Danemark, n. 5], 1912, editore di Timachida (fr. 17). Su Timachida v. anche H. G. Broeckers, De Timachida scriptore rhodio, diss., Berlino 1920 e RE XIX.1, coll. 1052–1060 (Ziegler).

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niva svuotata. Quindi la phialē balaneiomphalos sarebbe quella che ricorda in qualche modo la cavità (omphalos) di raccolta dell’acqua, in una delle estremità della vasca da bagno, chiaramente situata nella stanza da bagno (balaneion); 2b) secondo Gulick Athenaeus V, p. 2426s. n. b, baleneiomphalos vale “with acorn-bosses” e ciò deriverebbe da un gioco di parole tra βαλανεῖον ‘bagno’ e βάλανος ‘ghianda’; ciò si può collegare all’ipotesi di Kaibel di una lettura βαλανιο-, per la quale v. Testo. Ancora secondo la testimonianza di Ateneo, sinonimo di βαλανειόµφαλος è µεσόµφαλος attestato in Ione (TrGF 19 F 20) e Teopompo (fr. 4 K.–A.); mesomphalos, vale generalmente ‘posto al centro’ come in Aesch. Ag. 1056 e detto della phialē significa con ogni probabilità ‘con una protuberanza centrale’ e non aiuta, quindi, per la comprensione di balaneiomphalos o meglio del suo primo elemento balaneio-. Dopo la citazione di Teopompo, Ateneo ne riporta una di Ferecrate (fr. 134 K.–A. [Persai])235 στεφάνους τε πᾶσι κὠµφαλωτὰς χρυσίδας; è ignoto se omphalōtai sia da intedere come sinonimo di balaneiomphaloi analogamente a mesomphalos, ma, anche se così fosse, il valore di omphalōtos, propriamente ‘munito di una protuberanza’, non chiarisce comunque, anche in questo caso, il significato di baleneiomphalos (sia mesomphalos che omphalōtos hanno, infatti, omphalos come elemento caratterizzante).

fr. 55 K.–A. (51 K.) οὗτος, καθεύδεις; οὐκ ἀναστήσει † βοτων; οὗτος Bekker 1813, p. 25: ουτως cod.ƒƒƒἀναστήσει Hermann apud Runkel, Bergk: αναστησεις cod. (frustra def. Bothe)ƒƒƒβοτων codd.: βοτόν Kassel–Austin: Bότων Luppe (alii alia)

Ehi tu, dormi? Non ti sveglierai † ? Apoll. Dysc. pron., GrGr II 1.1 p. 21,12 Schn. καὶ τούτου πίστις τὸ τὴν µὲν οὗτος καὶ ἐπὶ κλήσεως τάσσεσθαι, καθὸ πλησιάζει. … (Sophr. fr. 57 K. – A.). Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν· — E prova di ciò è che houtos è impiegato anche al vocativo, a seconda che (il referente) sia nelle vicinanze. […] (Sophr. fr. 57 K.–A.). Cratino nelle Drapetides: ehi tu — sveglierai †

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Ateneo esprime un dubbio sulla paternità della commedia: Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τοὺς εἰς αὐτὸν ἀναφεροµένους Πέρσας.

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 20 (fr. IX), Bergk 1838, p. 67, Meineke FCG II.1 (1839), p. 51 (fr. X), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 17, Bothe PCGF (1855), p. 156s. (fr. 10), Kock CAF I (1880), p. 276s., Edmonds FAC I (1957), p.  386s., Luppe 1963, p. 366s., Luppe 1969a, p. 2056s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 149, Bakola 2010, p. 151, Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Il frammento è tràdito nel περὶ ἀντωνυµίας di Apollonio Discolo, nella sezione de personis secondo la divisione di Schneider e, in particolare, all’interno di una discussione sulla morfologia dei pronomi al caso vocativo. Secondo la spiegazione di Apollonio, quando il vocativo contiene un’allocuzione ad una persona che si trova nelle vicinanze, la sua forma coincide con quella del nominativo; e sono proprio gli esempi da οὗτος, con la specificazione καθὸ πλησιάζει, a confermare la regola espressa: prima Sophron. fr. 57 K.–A., poi Cratino e Ar. Vesp. 1. Testo(Il tràdito βοτων può essere solamente il genitivo plurale del sostantivo βοτόν ‘capo di bestiame, pecora’; il futuro ἀναστήσεις, attivo e quindi con a valore transitivo, è stato corretto in ἀναστήσει, 2 singolare ‘non ti sveglierai’, per primi da Hermann apud Runkel 1829, p. 189 e Bergk 1838, p. 67, poi quasi univocamente seguiti (cfr. ad ἀναστήσει per possibili paralleli; per ἀναστήσεις difeso da Bothe, v. infra). Se si accetta questa correzione, βοτων si può intendere almeno in tre modi: 1) βοτόν = vocativo, da intendere come Schimpfwort, sulla scorta di quanto propongono Kassel e Austin PCG IV, p. 149: “expectes convicium […] an recte βότων, a βοτὸν ductum?”. Per ‘pecora’ come insulto, cfr. le associazioni di questo animale ad una condizione di stupidità, ad es. Cratin. fr. 45 K.–A. (v.  p.  227), Ar. Nub. 1203, Vesp. 32 e 955, (cfr. ancora Macar. VI 8, CPG II, p. 198 L.–S.: µωρότερος προβάτου· ἐπὶ τῶν εὐηθῶν καὶ ἀλογίστων; inoltre le diverse, numerose attestazioni in ambito latino, cfr. Wortmann 1883, p. 296s., Otto 1890 s.6v. ovis 1, Fedeli 2005 a Prop. II 16,8 et stolidum pleno vellere carpe pecus), che ne possono eventualmente spiegare un utilizzo in questo senso. In favore di un errore βοτων < βοτόν è il fatto che ad inizio verso in maniera del tutto analoga οὗτος, cui fa fede il testimone Apollonio Discolo, è tràdito erroneamente come ουτως, il che mostra la poca affidabilità della lettura dei codici (sia ουτως che βοτων sono, inoltre, nei codici privi di accento, ulteriore indizio di corruttela). Una ipotesi simile era quella di Kaibel apud Kassel–Austin PCG IV, p. 149, στίγων lett. ‘marchiato’, per la quale gli stessi Kassel e Austin (PCG III.2 p. ad Ar. fr. 99) confrontano analoghi quali κέντρων in Ar. Nub. 450, µαστιγίαι,

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κέντρωνες in Soph. fr. 329 R.), ma questa soluzione appare troppo lontana dal testo tràdito per poter essere giustificata. 2) Un nome proprio, ossia il nome del personaggio cui si rivolge la persona loquens del frammento. In questo senso l’ipotesi più semplice appare a) Βότων di Luppe 1969, p. 205, nome attestato ad Atene nel VI sec. a.6C. (PA 2901, PAA 267945, LGPN II s.6v.), secondo Diog. Laert. IX 18 uno dei maestri di Senofane di Colofone; il nome ritorna anche in IG IX 2 nr. 162 A (Delo), v. Bechtel 1917, p. 97; altri tentativi sono: b) Βάτων secondo Bergk 1838, p. 67, nome attestato nel V sec. a.6C. a Taso (IG XII, 8 nr. 277); ad Atene il nome è attestato nel III sec. a.6C. per un poeta comico (PCG IV, pp. 28–35, PAA 264200) e poi nel II sec. d.6C. (PAA 264205, 264210. Cfr. LGPN II s.6v.); c) Στράτων secondo Maas 1973 (1903), p. 124, deducibile da un tràdito σβοτων (per errata Worttrennung), un nome di ampia attestazione ad Atene (LGPN II s.6v., PAA 839180–841830), ma probabilmente troppo distante dal testo tràdito. 3) Un participio, βοῶν ‘gridando’. Tale soluzione venne proposta per primo da Koen apud Greg. Cor. p. 117 Schaefer, ripreso da Runkel 1827, p. 20 (che non escludeva però, la possibilità di leggere un nome proprio) e poi da Meineke FCG II.1, p. 51 e FCG ed. min. I, p. 17; quest’ultimo proponeva una antilabē οὗτος καθεύδεις; :: οὐκ ἀναστήσεις βοῶν, dove si intendono quindi due differenti locutori, ciascuno dei quali pronuncia una delle battute rivolte ad una terza persona che sta dormendo (ma non è chiaro il senso del verso per la conservazione del tràdito ἀναστήσεις). Sulla stessa linea, ma con una diversa sistemazione, Cobet 1858, p. 18 e p. 146 propose “οὖτος, καθεύδεις; οὐκ ἀναστήσει;” βοῶν, ‘ “ehi tu, dormi? Non ti alzerai?” gridando’, dove il participio βοῶν si riferisce alla persona loquens del trimetro e di essa caratterizzebbe il tono dell’allocuzione; tuttavia una tale specificazione che segue le parole di chi parla appare artificiosa e, oltre a ciò, sebbene il testo dei codici sia di per sé poco affidabile (v. anche supra), non è facile spiegare la genesi del tràdito βοτων (“wie sollte das τ in das Wort eingedrungen sein?” Luppe 1969, p. 205). Come participio, simile al testo tràdito potrebbe essere κοτῶν (errore di scrittura nella prima lettera), ma, a parte i problemi già discussi, si tratta di un verbo di uso esclusivamente tragico e, quindi, non facilmente giustificabile (in commedia ricorre solamente il sostantivo κότῳ in Ar. Ran. 844 “highly poetic word”, Dover 1993, p. 298). Oltre a quelle proposte, si potrebbe anche immaginare una constitutio textus οὗτος, καθεύδεις; οὐκ ἀναστήσει; βοτῶν6/6κτλ., dove il genitivo plurale βοτῶν potrebbe dipendere da un verbo quale ad es. µέλω o simili e indicare che chi viene interloquito è un pastore (o un domestico o analoghi) che dorme invece di svolgere il suo ufficio.

∆ραπέτιδες (fr. 55)

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Una possibilità differente è quella di Bothe PCGF, p. 16 ἀναστήσεις (attivo) βοτόν (accusativo): “nescio quis mane servum dormientem iubet expergisci et pecus domesticum suscitare”; ‘sveglierai la/una pecora’ potrebbe di per sé avere senso ed essere riferito ad es. al fatto di dover portarla al pascolo o simili, un’espressione singolare e di non di facile spiegazione, ma che non si può escludere che avesse un senso nell’originario contesto (contra Kassel e Austin PCG IV, p. 149 “frustra (sc. ἀναστήσεις) def. Bothe”)236. Interpretazione(Una battuta generica, introdotta da οὗτος al vocativo come apostrofe con tono di ripicca verso un dato personaggio, cfr. soprattutto Ar. Nub. 732 (Σω.) οὗτος, καθεύδεις; (Στ.) µὰ τὸν Ἀπόλλω ’γὼ µὲν οὔ (“Strepsiades, whose toughts have been far away, jumps guiltly”, Dover 1968, p. 191). Chi parla (A) si rivolge a qualcuno (B) che sta dormendo (οὗτος, καθεύδεις;) e lo esorta probabilmente a svegliarsi (se si accetta, come probabile, οὐκ ἀναστήσει;); tale esortazione potrebbe essere seguita da un insulto, se si accetta βοτόν ‘pecora’, ovvero dal nome proprio del destinatario e non si esclude una ripartizione del verso tra due distinti personaggi, con un’antilabē all’altezza della cesura del trimetro: οὗτος, καθεύδεις; :: κτλ. (cfr. Testo anche per altre ipotesi). Secondo Bakola 2010, p.  151 si può confrontare Aesch. Eum. 124 ὤζεις, ὑπνώσσεις· οὐκ ἀναστήσῃ τάχος; e 141 εὕδεις; ἀνίστω, κἀπολακτίσασ’ ὕπνον e, quindi, il frammento di Cratino sarebbe “reminiscent of the scene of the Eumenides where the chorus rouse themselves to action”, un possibile richiamo interpretato come un’ulteriore conferma del legame tra le Drapetides e il dramma di Eschilo (cfr. p. 3116s.); la somiglianza appare tuttavia legata solo all’espressione οὐκ ἀναστήσῃ, mentre la totale decontestualizzazione del frammento e i pochi indizi reali di un legame tra la commedia di Cratino e la tragedia di Eschilo, rendono poco prudente suppore un’allusione a Eschilo. Singolare l’interpretazione di Edmonds FAC I, p. 39 n. f secondo cui il verso “describes the apparition of Theseus in a dream”, fondata sull’attribuzione alle 236

Singolare l’esegesi di Luppe 1963, p. 37 (non ripetuta, d’altronde, in Luppe 1969, p. 205 dove si propone il nome Βότων, v. supra): “οὐκ ἀναστήσει ᾽ς βοτῶν “wirst du dich nicht zu den Schafen fortscheren” – im Sinne von “wirst du dich nicht zum Teufel scheren?”, che rappresenta la brusca risposta di un personaggio B ad uno A che lo ha apostrofato con il precedente οὗτος, καθεύδεις e svegliato (il verso è quindi in antilabē, marcata dalla cesura che cade proprio dopo καθεύδεις): se i confronti proposti, per l’aferesi di εἰς (Ar. Lys. 605), per analoghe espressioni in ellissi (ad es. εἰς Ἅιδης) e per ἀνίστηµι come verbo di moto (ad es. Plat. Phaed. 116a) giustificano una tale constitutio textus, si rileva, però, che ‘andare alle pecore’ come equivalente di ‘andare al diavolo’ è priva di paralleli e altrimenti difficilmente giustificabile.

330

Cratino

Drapetides del frammento incertae sedis 331 K.–A., tutt’altro che certa (dubbia e tendenziosa la ricostruzione di Edmonds del testo dello scolio latore del frammento, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 283). οὗτος(“Used as a vocative, sometimes to attract the attention of somebody at a distance, more often to call attention to a surprised or indignant question or an impatient command ”, Stevens 1976, p. 37, che confronta, tra gli altri in commedia, Ar. Ach. 564 οὖτος σὺ ποἶ θεῖς, Nub. 723 οὗτος τί ποιεῖς; οὐχὶ φροντίζεις;, Vesp. 1 οὗτος, τί πάσχεις; ὦ κακόδαιµον Ξανθία, 395 οὗτος ἐγείρου, 1364 ὦ οὗτος οὗτος, τυφεδανὲ καὶ χοιρόθλιψ, inoltre Sophron. fr. 57 K.–A. ὦ οὗτος, ἦ οἰῇ, στρατείαν ἐσσείσθαι (citato assieme a Cratino e Aristofane come esemplificazione di quest’uso, v. Contesto della citazione); il pronome può essere impiegato assoluto o preceduto dalla particella cletica ὦ e, quando è assoluto (in genere seguito da un nome proprio o da un pronome personale) il tono è “somewhat more brusque or urgent” (Stevens 1976, p. 37). ἀναστήσει(Per l’utilizzo del medio (in luogo del tràdito ἀναστήσεις), v. Ar. Ran. 480 οὔκουν ἀναστήσει ταχύ; e cfr. Aesch. Eum. 124, 141 (v. Interpretazione). Al medio, tra gli altri valori, ‘alzarsi dal letto’ e, quindi, ‘svegliarsi’, v. ad es. υ 144, Hes. Op. 577, Ar. Vesp. 136, Xen. Cyr. V 3.44 e cfr. Olson 2014, p. 206s. (a proposito dell’attivo ἀνέστησ(ε) in Eupol. fr. 329,2 K.–A. [inc. fab.]): “the verb means simply “cause to stand up” and thus “get up out of the bed” (Ar. Ec. 70; cf. the use of the middle in the sense “get oneself up out of bed [con i rimandi ai passi già citati supra per il medio]), although the idea that one gets up because one has woken up is often implicit in it”. fr. 56 K.–A. (52 K.) οἱ δὲ πυππάζουσι περιτρέχοντες, ὁ δ᾽ ὄνος ὕεται E quelli correndo intorno gridano pyppax, e quello l’asino alla pioggia Phot. ο 358 = Sud. ο 394 ὄνος ὕεται· ἐπὶ τῶν µὴ ἐπιστρεφοµένων. Κηφισόδωρος Ἀµάζοσι·  … (fr. 1 K.–A.). Κρατῖνος ∆ραπετίσιν· — Asino alla pioggia: per coloro che non prestano attenzione. Cefisodoro nelle Amazones (fr. 1 K.–A.). Cratino nelle Drapetides: e quelli—alla pioggia

Metro(Tetrametro trocaico catalettico

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∆ραπέτιδες (fr. 56)

331

Bibliografia(Runkel 1827, p. 18 (fr. I), Meineke FCG II.1 (1839), p. 48 (fr. VII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 17, Bothe PCGF (1855), p. 15 (fr. 7), Kock CAF 6I (1880), p. 28, Edmonds FAC I (1957), p. 386s., Luppe 1963, p. 40, Kassel– Austin PCG IV, p. 151, Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Il frammento è citato in fonti lessicografiche (la glossa deriva probabilmente da Paus. ο 20, cfr. Theodoridis 2013, p. 88), accanto ad un verso di Cefisodoro (fr. 1 K.–A., cfr. Interpretazione) per esemplificare l’attestazione del proverbio ὄνος ὕεται, riportato come lemma e di cui viene fornito l’interpretamentum; in entrambi i testimoni ὄνος ὕεται si inserisce all’interno di una serie, in parte divergente (più numerosi i lemmi in Sud.), di espressioni che hanno come soggetto l’asino, generalmente inteso come simbolo di sciocchezza (v. infra). Interpretazione(L’utilizzo del metro (tetrametro trocaico catalettico) rende possibile una collocazione nella parabasi, dove questo metro prevale (White 1912, p. 99 § 2456s.), ma anche in alcune sizigie epirrematiche dal carattere particolarmente movimentato (Eq. 314–321 ~ 391–396, Vesp. 430–460 ~ 488–525, Av. 336–342 ~ 352–358); la mancanza della cesura mediana e la presenza, invece, di fine parola dopo il decimo elemento (fatto non inconsueto, v. White 1912, p. 101 § 254; nel caso specifico la sillaba finale di περιτρέχοντες), marca distintamente, in questo caso, i due i due soggetti οἱ δέ/ὁ δέ. Almeno due le interpretazioni possibili: 1) un’opposizione tra alcuni (οἱ δέ) che mentre corrono intorno lanciano un grido (πυππάζουσι) e un soggetto maschile (ὁ δέ) che a tale grido non presta alcuna attenzione e che per questo è paragonato all’asino che rimane sotto la pioggia e di essa non si dà cura, cfr. Kock CAF I, p. 28: “significant autem verba ὁ δ᾽ ὄνος ὕεται idem atque ὁ δ᾽ ὅµοιός ἐστιν ὄνῳ ὑοµένῳ […] i.e. τῶν πυππαζόντων οὐδὲν µᾶλλον φροντίζει ἢ ὄνος ὑόµενος τοῦ ὑετοῦ”. In questo caso si può trattare di un’espressione di disprezzo, come in Cephisod. fr. 1 K.–A. σκώπτεις µ᾽· ἐγὼ δὲ τοῖς λόγοις ὄνος ὕοµαι; oppure di un gesto di indifferenza, se πυππάζω indica ammirazione (come ὑπερπυππάζω in Ar. Eq. 680 e πύππαξ in Plat. Euthyd. 303a. Cfr. comm. a πυππάζουσι) e, quindi, alcuni esaltano e ammirano un ignoto personaggio, il quale a tali lodi e complimenti si mostra del tutto indifferente; 2) alcuni (οἱ δέ) corrono intorno e lanciano un grido (πυππάζουσι), mentre uno solo (ὁ δέ) come l’asino alla pioggia, rimane insensibile a questo fatto e non fa nulla, non prende parte all’azione237. 237

Si potrebbe, inoltre, forse anche intendere un significato generico del proverbio ὄνος ὕεται, ossia che qualcosa succede senza conseguenze, come il fatto che la

332

Cratino

Sia il soggetto di πυππάζω che la persona paragonata all’asino rimangono prive di identità; secondo una ipotesi di Kock CAF I, p.  28 “aptissime dici poterat de homine potenti vel de Demo Atheniensium ipso adulatorum et demagogorum turbam despiciente”, il che renderebbe plausibile una collocazione del frammento nella parabasi; in alternativa si potrebbe trattare di una polemica letteraria, da intendere alla luce delle possibili interpretazioni di πυππάζω (un poeta elogiato, ma che non coglie; un poeta preso di mira, che disprezza i suoi detrattori etc.). πυππάζουσι(Un hapax nella letteratura conservata. Formazione con suffisso –αζ, da un avverbio in -αξ, nello specifico πυππάξ (Tichy 1983, p. 1696s.); l’unica attestazione lessicografica del verbo in Hsch. π 4378 πυππάζουσι· φωνῇ ποιᾷ χρῶνται (quasi certamente relativa all’impiego del verbo in questo frammento di Cratino, cfr. Meineke FCG II.1, p. 48 e Hansen 2005, p. 215), che ne indica un valore generico. Si tratta di un grido che esprime uno stato emozionale e non ha un contenuto lessicale/semantico preciso, cfr. Tichy 1983, p. 261 (a ποππύζ-, equivalente secondo schol. Ar. Eq. 680 ὑπερεπύππαζον: πύππαξ ἐπεφώνουν, ὃ ἡµεῖς ποππύζειν λέγοµεν): “dient […] zur Wiedergabe einer Folge zärtlicher Laute, die mit den gerundet vorgestreckten Lippen artikuliert werden”; il suo valore potrebbe essere positivo (grido di ammirazione), come nelle uniche due ricorrenze letterarie di πυππάξ e come per un altro hapax, il verbo ὑπερπυππάζω (ma, in questi casi, è il contesto di riferimento ad essere dirimente), ovvero anche di lamento, di encomio o di derisione, come risulta da altre fonti antiche: 1) Plat. Euthyd. 303a ἐγὼ µὲν οὖν, ὦ Κρίτων, ὥσπερ πληγεὶς ὑπὸ τοῦ λόγου, ἐκείµην ἄφωνος· ὁ δὲ Κτήσιππός µοι ἰὼν ὡς βοηθήσων, Πυππὰξ ὦ Ἡράκλεις, ἔφη, καλοῦ λόγου. { – } Καὶ ὁ ∆ιονυσόδωρος, Πότερον οὖν, ἔφη, ὁ Ἡρακλῆς πυππάξ ἐστιν ἢ ὁ πυππὰξ Ἡρακλῆ; cfr.: 1a) schol. ad loc. (p. 125 Green = p. 193, 36a-b Cufalo) ~ Hsch. π 4379 (di origine comica? adesp. com. 417 K.–A.) πύππαξ· τὸ νῦν βόµβαξ λεγόµενον πύππαξ ἔλεγον, ὡς Λυκόφρων ᾠήθη (fr. 115 Strecker). οὐκ ἔστι δέ. τὸ µὲν γὰρ πύππαξ (βόµβαξ Hsch.) τίθεται καὶ ἐπὶ σχετλιασµοῦ καὶ ἐγκωµίου (καὶ ἐπὶ γέλωτος Hsch.), τὸ δὲ βόµβαξ (πύππαξ Hsch.) οὐχί (per l’associazione pyppax/ bombax v. anche Hsch. π 1019 φύππαξ· ὅπερ ἡµεῖς βόµβαξ [per la scrittura φύππαξ v. Hansen–Cunningham 2009 p. 185]; βοµβάξ in Ar. Thesm. 45 sembra indicare semplicemente e generalmente un rumore, v. Austin–Olson 2004,

pioggia cade e l’asino non se ne accorge; quindi, tutti corrono intorno e lanciano un grido e questo di fatto non dà alcuna conseguenza.

∆ραπέτιδες (fr. 56)

333

p. 68, Labiano Ilundain 2000, p. 123–125; secondo lo scolio al passo aristofaneo: βοµβάξ· ἐπίρρηµα ἐπὶ θαυµασµοῦ λαµβανόµενον). 2) Ar. Eq. 680 οἱ δ’ ὑπερεπῄνουν ὑπερεπύππαζόν τέ µε, lanciare un grido di approvazione (si parla dell’approvazione straordinaria, sottilineata dalla ripetizione di ὑπερ-, che la Boulē dà ad una proposta del Salsicciaio contro uno di Paflagone). 3) Phryn. praep. soph. p. 120, 3–5 De Borries: ὑπερπυππάζειν· ὑπερθαύµαζειν, ἐκπλήττεσθαι. παρὰ τὸ πύππαξ, ὅ ἐστιν ἐπίρρηµα θαυµασµοῦ. 4) Phot. π 1543 πύππαξ· ἐπίφθεγµα σχετλιασµοῦ· ὡς πένθους ἀµετάφραστον· ὡς τὸ τρισκαιδέκατον. ὄνος ὕεται(Oltre che in Fozio e Suda, testimoni del frammento, il proverbio è registrato da Apost. ΧII 85 privo però dei due unici loci classici (Cefisodoro e Cratino) che ne attestano l’impiego. L’interpretamentum fornito è ἐπὶ τῶν µὴ ἐπιστρεφοµένων, ‘per coloro che non prestano attenzione’; sulla base di Cephisod. fr. 1 K.–A. (Amazones) σκώπτεις µ᾽· ἐγὼ δὲ τοῖς λόγοις ὄνος ὕοµαι, il primo dei due testi citati, l’interpretazione di Erasmo da Rotterdam (Adagia 2159, vol. III, 2.59, p. 1575 ed. Saladin) riprodotta anche da Leutsch (CPG II ad Apost. XII 85, p. 564 n.) era: “dictum apparet in eos, qui maledictis nihil omnino commoverentur. Quemadmodum asinus ob cutis duritiem adeo pluvia nihil offenditur, ut vix etiam fustem sentiat”. Più generico Kock CAF I, p. 28: “proverbium est de eis qui quidquid alter facit non commoventur” (cfr. anche Kassel 1973, p. 110: “kümmert sich so weing darum wie der Esel um den Regen”), che aggiungeva poi la sola pericope quemadmodum – offenditur di Erasmo, la quale in effetti dà ragione del paragone tra chi non presta attenzione (ἐπὶ τῶν µὴ ἐπιστρεφοµένων) e l’asino al quale la durezza della pelle non fa sentire la pioggia. Può essere indicata anche una condizione di stoltezza, il rimanere sotto l’acqua senza accorgersene, come nella maggior parte dei proverbi che hanno l’asino come soggetto, v. Tosi 2011, p. 270 n. 44; ma a differenza di altri casi (Tosi 1991, nnr. 481–489, Tosi 2011, pp. 268–270) non appare qui esserci un riferimento esplicito alla stoltezza, ma solo ad una insensibilità, l’unica cosa certa che testimonia l’interpretamentum. Per altri proverbi in commedia che hanno come soggetto l’asino, v. ad es. ancora in Cratino fr. 247 K.–A. (Cheirōnes) ὄνοι δ᾽ ἀποτέρω κάθηνται λυρας, fr. 367 K.–A. (inc. fab.) ὄνου πόκαι (su questo v. anche Marzullo 1989); inoltre, ΨΕΥ∆ΕΠΙΧΑΡΕΜΙΑ ex Alcimo fr. 279,5 K.–A. ὄνος δ᾽ ὄνῳ κάλλιστον, Ar. Ran. 159 νὴ τὸν ∆ί᾽ ἐγὼ γοῦν ὄνος ἄγω µυστήρια, fr. 199,2 K.–A. (Daidalos) περὶ ὄνου σκιᾶς, Cratet. fr. 38 K.–A. (Tolmai) ὄνος ἐν µελίτταις, Eupol. fr. 279 K.–A. (Taxiarchoi), ὄνος ἀκροᾷ σάλπιγγος, fr. 416 K.–A. (inc. fab.) ὄνου γνάθος (cfr. Olson 2014, p. 1816s. e v. ancora di Eupoli il simile fr. 379 K.–A. [inc. fab.] con Olson 2014, p. 1106s.), Pherecr. fr. 16 K.–A. (Agrioi) Ἀντρώνειος ὄνος, Philem. fr. 158 K.–A. (inc. fab.)

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Cratino

ὄνος βαδίζεις εἰς ἄχυρα τραγηµάτων, Men. fr. 460 K.–A. (Psophodeēs) e Mis. 295 ὄνος λύρας e cfr. ancora, la commedia Ὄνου σκιά di Archippo, frr. 35–36 K.–A. (PCG II, p. 5496s.) e, per ulteriore documentazione, oltre a Tosi cit. supra, Padgett 2000, Griffith 2006, Gregory 2007, Kitchell 2014 s.6v. Donkey. Il proverbio ὄνος ὕεται rientra nei casi in cui si ha una completa identificazione tra il soggetto e la sua apposizione, tra colui al quale il paragone è riferito e l’oggetto stesso del paragone, qui nello specifico l’anonimo soggetto e l’asino, e non è presente il comparativo ὡς/ὥσπερ; nelle fonti antiche è annotato λείπει τὸ ὡς (v. Kassel 1973, p. 110 e nn. 42–43), ma v. Arnott 1996, p. 165 ad Alex. fr. 47, 56s. K.–A. (Dēmētrios ē Philētairos) ἐπὰν γὰρ ἐκνεφίας καταιγίσας τύχῃ6/6ἐς τὴν ἀγοράν).: “It would be wrong, in a discussion of this idiom, to talk about any ‘omission of ὥσπερ’: in fact the thing compared is identified with the object of comparison, and we have an example of what Fraenkel terms (on A. Ag. 1178ff., 3.542) the ‘mutual penetration’ of things and their objects of comparison which is a special feature of dramatic language”. Esempi ne sono in Cratino: fr. 96 K.–A. (Kleoboulinai) Μύλλος πάντα ἀκούεις, fr. 135 K.–A. (Nomoi) ὑµῶν εἷς µὲν ἕκαστος ἀλώπηξ δωροδοκεῖται (cfr. anche frr. 247 e 262 K.–A.); inoltre: Telecl. fr. 48 K.–A. (inc. fab., cfr. Bagordo 2013, p. 2406s.) ἀ]σπιδοφεγγὴς στρατ[ὸς ἐκνεφί]ας ἐγ χειρὶ κεραυνο[kll, Ceph. fr. 1 K.–A. v. supra, Ar. Ach. 230–231 κοὐκ ἀνήσω πρὶν ἂν σχοῖνος αὐτοῖσιν ἀντεµπαγῶ6/6〈καὶ σκόλοψ〉 ὀξύς, Vesp. 144 καπνὸς ἔγωγ ἐξέρχοµαι, Lys. 231 oὐ στήσοµαι λέαιν’ ἐπὶ τυροκνήστιδος, Plat. com. fr. 207, 1–2 K.–A. (inc. fab.) σὺ γάρ,6/6ὥς φασι, Χείρων ἐξέθρεψας Περικλέα, Alex. fr. 183 K.–A. (Parasitos) δειπνεῖ δ’ ἆφωνος Τήλεφος, fr. 258 K.–A. (Phryx) ἐγὼ δὲ κεστρεὺς νῆστις οἴκαδ’ ἀποτρέχω, Men. Mis. 168 ἀγαθὸν ἆκουσµ᾽ ἦκεις πρὸς ἡµᾶς, Philem. fr. 158 K.–A. (inc. fab.) ὄνος βαδίζεις εἰς ἆχυρα τραγηµάτων, Herod. VI 13–4 κἠγὼ ἐπιβρύχουσα ἠµέρην τε καὶ νύκτα6/6κύων ὑλακτέω τῇς ἀνωνύµοις ταύτῃς, Theocr. XIV 51 µῦς, φαντί, Θυώνιχε, γεύµεθα πίσσας, Callim. Aitia fr. 75,9 Pf. ὡς ἐτεὸν παῖς ὅδε µαῦλιν ἔχει). V. in generale, Kock CAF I, p. 28, III, p. 711, Shorey 1909, Kassel 1973, pp. 109–112 e anche Fraenkel 1960, pp. 47–51 (sulla base dell’analisi dei passi citati della commedia): “Tutti questi casi hanno un elemento in comune: l’identificazione non è svolta, come in Plauto, col solo aiuto del verbum substantivum (o tutt’al più di γίγνεσθαι), bensì è accompagnata da un verbo di valore pieno (στήσοµαι, ἀντεµπαγῶ, ἐξέρχοµαι, δειπνεῖ, ἀποτρέχω, βαδίζεις, γεύµεθα, ἔχει, ὑλακτέω). Ciò attenua considerevolmente l’arditezza dell’immagine, perché l’identità con un altro essere è sì affermata, ma solo in relazione ad una funzione specifica, e l’idea di un completo ‘essere diverso’, o addirittura d’una trasformazione, è esclusa” (p. 48).

∆ραπέτιδες (fr. 57)

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fr. 57 K.–A. (112 Tsants.) ἦν γὰρ ἐξελεύθερός µοι πατρικός, ἡνίκ᾽ αὐτὸς ἦν Avevo infatti (era infatti per me) un liberto (figlio di un liberto) paterno, quando lui era vivo Phot. ε 1152 ἐξελεύθερους· Νίκανδρος τοὺς τῶν ἠλευθερωµένων υἱούς, ἴσως ἀπατηθεὶς ἐκ τοῦ στίχου ἐν ∆ραπέτισι Κρατίνου· ἦν — ἦν Exeleutherous (liberti): Nicandro i figli di coloro che sono stati affrancati, forse ingannato dal verso nelle Drapetides di Cratino: avevo infatti (era infatti) — vivo

Metro(Tetrametro trocaico catalettico

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Bibliografia(Tsantsanoglou 1984, p. 1066s. (fr. 112), Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 150 Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Il verso di Cratino è citato per l’occorrenza di ἐξελεύθερος, all’interno di una polemica sul significato di questo aggettivo. La z glossa di Fozio è trasmessa in z dal lemma fino a υἱούς, da S per la pericope successiva comprensiva del verso di Cratino; il testo ἐκ τοῦ στίχου stampato da Theodoridis, si fonda sul verisimile scioglimento del compendio ἐκ τοῦ ς del codice proposto da Tsantsanoglou 1984, p. 106 (Kassel–Austin PCG IV, p. 150 stampavano, invece, ἐκ τοῦ e proponevano, come alternativa a quella di Tsantsanoglou, una lettura “† ς ἕξ = ἐξ?”, verisimilmente su base paleografica e dove forse la falsa lettura ς/ἕξ potrebbe derivare da una originaria confusione con il preverbo ἐξ di ἐξελεύθερος; la pericope significherebbe ‘forse ingannato da ex [ἐκ τοῦ ἐξ] nelle Drapetides di Cratino’). Fozio (la cui fonte è probabilmente Diogeniano, v.  Theodoridis 1998, p. 115) riporta che Nicandro (il grammatico di Tiatira, autore di un’opera dal titolo Ἐξηγητικὰ Ἀττικῆς διαλέκτου [RE XVII,1 s.6v. n. 15, W. Kroll], più probabilmente dell’omonimo e più noto poeta e grammatico alessandrino, v. Tsantsanoglou 1984, p. 107) definiva exeleutheroi i figli di coloro che erano stati affrancati (tōn ēleutherōmenōn); lo stesso significato ricorre anche in Hsch. ε 3692 ἐξελεύθεροι· οἱ τῶν ἐλευθερουµένων υἱοί. Secondo Fozio (la sua fonte) si tratta di un significato erroneo, che Nicandro avrebbe dedotto, forse ingannato (ἵσως ἀπατηθείς) dal verso di Cratino; se si accetta questa spiegazione, “if Nicander had really been deceived, it must have been πατρικός that misled him. Perhaps our lexicographer thinks that he had interpreted:

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Cratino

‘for I had a freedman who had this status from his father’” (Tsanstanoglou 1984, p. 107). È verisimile l’esistenza di una discussione filologica antica sul significato dell’aggettivo, per il quale si richiamavano loci classici; Nicandro proponeva un suo significato dell’aggettivo, ‘figlio di un liberto’ e lo fondava su alcuni passi, tra cui forse quello di Cratino; altri contestavano questo significato, ne cercavano l’origine e la trovavano, forse (ἵσως) nell’interpretazione, da loro considerata erronea, del verso di Cratino. Ἐξελεύθερος vale ‘liberto’ nella maggior parte delle sue occorrenze, ma nelle uniche due di V/IV, Cratino ed Iperide, il suo valore non è specificabile dal contesto (v. infra ἐξελεύθερος); non si può escludere, perciò, che il significato di Nicandro fosse corretto e, quindi, eventualmente differente da quello più tardo. È possibile: 1) accettare la testimonianza di Nicandro e, quindi: ἐξελεύθερος = figlio di liberto; mancano altre testimonianze letterarie, ma lo stesso significato è proposto anche da Esichio (ε 3692, v. supra); 2) accettare, invece, la testimonianza di Fozio (contro Nicandro) e quindi ἐξελεύθερος = liberto, significato ampiamente attestato. Interpretazione(La pericope ἦν … πατρικός ammette due possibili interpretazioni: 1) la persona loquens afferma che possedeva (ἦν … µοι) un liberto (figlio di liberto) (exeleutheros) ereditato dal padre (πατρικός); per questa interpretazione cfr. Ar. Av. 142 ὤν ἐµοὶ πατρικὸς φίλος, Plat. Lach. 180 d-e πατρικὸς ἡµῖν φίλος; 2) la persona loquens afferma che una data persona, eventualmente nominata nel verso precedente, era per se stesso, in relazione a se stesso, un liberto (figlio di liberto) patrikos, ‘(x) era per me un exeleutheros patrikos’; cfr. Hdt. V 92.30 Ἀρταφέρνης ὑµῖν Ὑστάσπεός ἐστι παῖς (v. infra a ἦν … µοι per questa seconda possibilità). In ciascuno dei due casi, ciò avveniva quando il liberto di cui si parla nel frammento era vivo (ἡνίκ᾽ αὐτὸς ἦν), certamente quindi in una condizione passata; un liberto, anche nella sua nuova condizione, manteneva sempre un certo numero di obblighi e di vincoli nei confronti del suo ex padrone, v. A. Calderini, La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Milano 1908, RE VII 1 (1910), s.6v. Freigelassene, coll. 95–100, in part. 966s. (Thalheim) e ciò spiega il senso dell’aggettivo patrikos. La totale mancanza di contestualizzazione non permette di specificare ulteriormente nessuno degli elementi chiamati in causa; né l’utilizzo del metro (tetrametro trocaico catalettico) aiuta nella comprensione della possibile originaria collocazione (per questo metro v.  comm. a fr. 56 K.–A., p.  331). È ipotesi di Tsantsanoglou 1984, p. 107, però non dimostrabile, che sulla base della presenza di Teseo nei frr. 53 (ma v. p. 317) e 61 K.–A., “if Cratinus follows the tradition according to which Theseus was permanently detained in Hades (Hom. Od. xi.631, Verg. Aen. vi.617), it is possible that the scene takes the place

∆ραπέτιδες (fr. 57)

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there. The speaker may be either Theseus or any other inhabitant of the underworld” (in maniera simile anche Storey 2011, p. 296 pensa che possa esserci stata “either a scene in the Underworld or a figure returned from the dead”). ἦν … µοι(“Der Dativ steht bei ἐστί(ν) und εἰσί(ν), um die Person oder persönlich gedachte Sache zu bezeichnen, die etwas hat” (Kühner–Gerth II.1, p.  416 § 423,15); ma il pronome personale di 1 o di 2 persona può essere impiegato anche “um die gemütliche Teilnahme des Redenden oder Angeredeten an der Handlung anzudeuten”, Kühner–Gerth II.1, p. 423 § 423, a 18d cfr. Interpretazione. Per ἦν 3 sing., v. infra ἡνικ᾽… ἦν. ἐξελεύθερος(‘Liberto’, ampiamente utilizzato in questo significato, ma in epoca tarda (dal I sec. d.6C.) ad es. in Ios. AI. 17,322, 19,362 etc., App. IV 3.13, V 9.81, XI 105, Charit. V 4.6, Dione Cassio 39,38, 47,16.4, 52,25.5, 56,23.3 etc.; l’unica occorrenza di V sec. a.6C. è questa di Cratino; nel IV sec. a.6C. il termine ricorre in Hyp. fr. 197 Kenyon: τῷ µὲν τοίνυν ∆ιὶ ὦ ἄνδρες δικασταὶ ἡ ἐπωνυµία γέγονε τοῦ ἐλευθέριον προσαγορεύεσθαι διὰ τὸ τοὺς ἐξελευθέρους τὴν στοὰν οἰκοδοµῆσαι τὴν πλησίον αὐτοῦ. In entrambe queste occorrenze il significato non è specificabile e non si può escludere il valore suggerito da Nicandro (ed Esichio) ‘figlio di un liberto’, differente da quello più tardo (v. Contesto della citazione). Se si accetta il significato di ‘liberto’, appare artificiosa la distinzione, propria di alcune fonti antiche tra, a) ἐξελεύθερος chi è nato libero, è divenuto schiavo per un dato motivo e ha poi riacquistato la sua sua libertà, e b) ἀπελεύθερος, chi è nato schiavo ed è poi divenuto libero, perché i due aggettivi possono essere in realtà utilizzati come sinonimi. La differenza di significato exeleutheros/apeleutheros sembra essere nota in Athen. III 115b, in cui Ulpiano prima chiede delle attestazioni letterarie di apeleutheros, poi della differenza tra questo aggettivo ed exeleutheros, una domanda quest’ultima che viene, però, procrastinata (ταῦτα µὲν οὖν ἔδοξε κατὰ τὸ παρὸν ἀναβαλέσθαι) e poi di fatto non più ripresa; su exeleutheros/apeleutheros: 1) Eust. in Od. p. 1751,2 οἱ δὲ ταῦτα σηµειωσάµενοι καὶ τὴν ἐλευθερίαν διασκεπτόµενοι ἐξελεύθερον µὲν εἶπον τὸν διὰ χρέος ὑπὸ τῷ δανειστῇ γενόµενον δούλου δίκην, εἶτα ἀπολυθέντα· ἀπελεύθερον δὲ τὸν ἐν τῇ κοινῇ συνηθείᾳ; 2) Harpocr. p.  7 Dindorf (cfr. Keaney 1967, p.  209 n. 14) ἀπελεύθερος· Ὁ δοῦλος ὤν, εἶτα ἀπολυθεὶς τῆς δουλεῖας ὡς καὶ παρ᾽ Αἰσχίνῃ (III 41 [in Ctesiph.]). ἐξελεύθερος δὲ ὁ διὰ τινα αἰτίαν δοῦλος γεγονώς, εἶτα ἀπολυθείς. ἔστι δ᾽ ὅτε καὶ οὐ διαφέρουσιν; 3) Ammon. adf. voc. diff. 65 Nickau ἀπελεύθερος καὶ ἐξελεύθερος διαφέρει. ἀπελεύθερος µὲν γάρ ἐστιν ὁ ἐκ δούλου ἠλευθερωµένος. ἐξελεύθερος δὲ ὁ γενόµενος διὰ χρέα προσ†ήλυ†τος ἢ κατὰ ἄλλην τινὰ αἰτίαν δουλεύσας, εἶτα ἐλευθερωθείς. ἤδη µέντοι καὶ ἀδιαφόρως χρῶνται τοῖς ὀνόµασιν.

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Cratino

Come, tuttavia, già alcune delle citate fonti notano, i due aggettivi possono essere usati indifferentemente e la distinzione nel significato potrebbe essere un artificio, come mostra l’impiego di apeleutheros/exeleutheros in altre fonti: 4) Dione Cassio 39,38, dove un personaggio, Demetrio, è definito a distanza di poche righe prima apeleutheros e poi exeleutheros-238; 5) Poll. III 83 ὁ δὲ τὴς δουλείας ἀφειµένος τῶν δούλων ἀπελεύθερος καὶ ἐξελεύθερος; 6) alcuni glossari atticisti che consigliano l’utilizzo di uno dei due aggettivi e condannano l’altro e mostrano, quindi, la loro equivalenza; 6a) Antiatt. p.  95,12 ἐξελεύθερον· ἀντὶ τοῦ ἀπελεύθερον (sul cui tono ‘polemico’ v. in part. Latte 1915, p. 3926s.); 6b) Lex. att. apud Reitzenstein 1892/3, p. 4 nr. 2 ἀπελεύθερον Ὑπερείδης λέγει, Ἀττικοί ἐξελεύθερον λέγουσι, καὶ ∆εµοσθένης ἀπελευθέρωσιν (su questa glossa e la presumibile inversione dell’utilizzo di apeleutheron/exeleutheron in Iperide e nell’usus attico, v. Reitzenstein ad loc.). Infine, non siamo in grado di dire se l’espressione ἐξελευθερικοὺς νόµους καὶ ἀπελευθερικοὺς νόµους utilizzata da Demostene secondo Poll. III 83 (= fr. 54 Tur.) implicasse una distinzione di significato, così come cosa indicasse l’utilizzo di ἐξελεύθερος in Hyp. fr. 197 Kenyon, v. supra239. πατρικός(‘Derived from one’s fathers, hereditary’, come nelle altre poche occorrenze comiche: Ar. Av. 142 ὤν ἐµοὶ πατρικὸς φίλος (“friendhip were inherited and imposed no less obligation on the next generation than on the original contractors”, Dunbar 1995, p. 179); Call. fr. 19 K.–A. (Pedētai) τῆς πατρικῆς ἀρίδος (“vom Vater ererbt […] es heißt wohl, dass der Bohrer […] eine familiäre Tradition aufweist”, Bagordo 2014, p. 181); probabilmente anche

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Dione Cassio 39,38: ἤκουσα µὲν δὴ ταῦτα, ἤκουσα δὲ καὶ ἐκεῖνο, ὅτι τὸ θέατρον τοῦτο οὐχ ὁ Ποµπήιος ἐποίησεν, ἀλλὰ καὶ ∆ηµήτριός τις ἀπελεύθερος αὐτοῦ, ἐκ τῶν χρηµάτων ὧν συστρατευόµενός οἱ ἐπεπόριστο. ὅθενπερ καὶ τὴν ἐπωνυµίαν τοῦ ἔργου δικαιότατα αὐτῷ ἀνέθηκεν, ἵνα µὴ µάτην κακῶς ἀκούῃ ὅτι ἐξελεύθερος αὐτοῦ ἠργυρολόγησεν, ὥστε καὶ ἐς τηλικοῦτον ἀνάλωµα ἐξικέσθαι. Per la presunta distinzione exeleutheros/apeleutheros, in questo passo di Iperide Tsantsanoglou 1984, p. 1066s. rileva: “the report that the ἐξελεύθεροι of Athens had built this stoa does not seems very plausible. It is far likelier that the slaves who had been employed by the state in the building of the stoa had been later granted freedom as a reward for their labour. They must have been δοῦλοι δηµόσιοι, public slaves, and it was the state’s right to provide for the enfranchisement”. Si tratta, però, di una considerazione soggettiva e nulla vieta di pensare che persone divenute schiave per un dato motivo, ottenessero poi la loro libertà proprio grazie al loro contributo a quest’opera.

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Cratin. fr. 306 K.–A. (inc. sed.) πατρικὸς ὢν ξένος6/6τάδε πύνθανοµαί σου (cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 272), mentre incerta è l’occorrenza di Cratin. fr. 124 K.–A., il cui testo è corrotto (cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 184). L’aggettivo non appare mai in tragedia (un’occorrenza, molto discussa, forse in Eur. Ion 1304, accettata da Biehl 1979 ad loc. e cfr. Owen 1939, p. 159); nel dramma satiresco in Soph. Ichn. fr. 314,71 R. (ma in un significato differente, “= πάτριος, of or belonging to one’s father” LSJ s.6v. II); in prosa in Thuc. I 13.1, VII 69.2, VIII 6.3, Lys. XIV 40, Plat. Lach. 18d-e etc. Aristot. Pol. 1285b 19 etc. Di uso esclusivamente attico e di conio più recente rispetto ai sinonimi πάτριος e πατρῷος, equivalente al genitivo πατρός; formato con il suffisso – ικός, che indica l’appartenenza o la relazione di qualcosa a qualcuno a una data persona (Debrunner 1917, pp. 197–200 §§ 392–396, Chantraine 1933, p. 391, Wackernagel 1953, p. 4806s.), particolarmente frequente nella commedia di V sec. a.6C. in quanto oggetto di parodia per il suo proliferare a partire dalla sofistica, cfr. gli otto aggettivi così terminanti in Ar. Eq. 1378–1380 su cui v. in part. Peppler 1910, Willi 2003, pp. 139–145. ἡνίκ᾽ … ἦν(Cfr. Ar. Pac. 314 ἡνίκ᾽ ἐνθάδ’ ἦν (cfr. schol. ad loc. ὅτε ἔζη καὶ σὺν ἡµῖν ἦν, “when he was alive on earth”, Olson 1998, p. 134) e v. anche Ar. Ach. 708 ἐκεῖνος ἡνίκ’ ἦν Θουκυδίδης (“‘when he was the Thucydides a we knew’, i.e ‘in his prime’”, Olson 2002, p. 254). La forma ἦν è impf. di 3 a singolare; nell’attico di V sec. a.6C. normale per la 1 sing. è ἦ: “1st-pers. ἦν was unwelcome in the 5th cent. even when metrically convenient, so that we may safely deny in indifferent positions, viz. before a consonant and at line-end. Probably A. und S. never used it as all, nor Ar. before the 4th cent. (his three necessary instances are all in the late Pl. [v. 29, 685, 822], all incidentally with a pause following)”, Barrett 1964, p. 293 (2926s. per documentazione, v. anche Dunbar 1995, p. 1636s. ad Ar. Av. 97; J. Jackson, Marginalia Scenica. II, «CQ» 35, 1941, pp. 163–187 [p. 170 s.], Harrison 1942, Kühner–Blass I p. 666, Schwyzer 1953, I p. 677).

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Cratino

fr. 58 K.–A. (53 K.) φέρε νῦν σοι ἐξ αἰθρίας καταπυγοσύνην µυὸς ἀστράψω Ξενοφῶντος Orsù a te (per te) come un fulmine a ciel sereno mostrerò240 la rottinculaggine di Senofonte topo Ael. nat. an. XII 10 λέγουσι δὲ τοὺς µύας λαγνιστάτους εἶναι, καὶ µάρτυρά γε Κρατῖνον ἐπάγονται εἰπόντα ἐν ταῖς ∆ραπέτισι· φέρε νῦν — Ξενοφῶντος E dicono che i topi siano assolutamente dissoluti e adducono come testimone Cratino che dice nelle Drapetides: orsù — Senofonte Zenob. Ath. I 56 µῦς λευκός. ἐπὶ τῶν ἀκράτων περὶ τὰ ἀφροδίσια ἡ παροιµία εἴρηται. ἐπειδὴ οἱ κατοικίδιοι µύες καὶ µάλιστα οἱ λευκοὶ περὶ τὰς ὀχείας κεκίνηνται. ταύτης µέµνηται Φιλήµων ἐν Παροίνῳ (fr. 65 K.–A.) καὶ Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν Topo bianco. Il proverbio si adopera per chi è eccessivo nei piaceri sessuali. Perché i topi domestici e soprattutto quelli bianchi sono particolarmente attivi nella monta. Se ne ricorda Filemone nel Paroinos e Cratino nelle Drapetides

Metro(Tetrametri anapestici catalettici

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 20 (fr. VIII), Bergk 1838, p. 626s., Meineke 1823, p. 580, Meineke FCG II.1 (1839), p. 46 (fr. IV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 16, Bothe PCGF (1855), p. 14 (fr. 4), Leo 1878, p. 412, Kock CAF I (1880), p. 286s., Crusius 1910, p. 906s., Edmonds FAC I (1957), p. 386s., Luppe 1963, p. 41, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 150, Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Nel capitolo dieci Eliano cita due proverbi, uno sui topi (κατὰ µυὸς ὄλεθρον) di cui ricorda l’attestazione in Menandro (fr. 166 K.–A. [Thais]) e uno sulla tortora (τρυγόνος λαλίστερος) di cui ricorda l’attestazione ancora in Menandro (fr. 309 K.–A. [Plokion]) e in Demetr. I (fr. 4 K.–A. [Sikelia], v. Orth 2014, p. 1826s.). Subito di seguito, senza apparente connessio240

Il valore di ἀστράπτω è dubbio; traduco in maniera simile a Luppe 1963, p. 41, v. Interpretazione.

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ne con quanto precede, viene riportato che alcuni, non specificati (λέγουσι) attribuiscono ai topi maschi la caratteristica di una particolare dissolutezza (λέγουσι τοὺς µύας λαγνιστάτους εἶναι) e la motivano sulla base del frammento di Cratino, che viene per questo citato; quindi, che questi stessi ritengono che il topo femmina abbia un desiderio sessuale ancora più forte di quello del maschio (καὶ ἔτι µᾶλλον τὸν θῆλυν ἔλεγον ἐς τὰ ἀφροδίσια εἶναι λυττητικόν), dato per cui vengono citati Epicr. fr. 8 K.–A. (Choros), dove ricorre il termine µυωνία (un hapax probabilmente corrispondente a µυωξία, LSJ s.6v., cfr. Sud. µ 1427 µυωξία· ὑβριστικὸς λόγος. σηµαίνει δὲ τοὺς τῶν µυῶν χηραµούς, e così spiegato dallo stesso Eliano: ἐς ὑπερβολὴν δὲ λαγνιστάτην αὐτὴν [i.e. il sogg. femm. del fr.] εἰπεῖν ἠθέλησε ‘µυωνίαν ὅλην᾽ ὀνόµασας; “mouse-hole/nest, = cunt at Epicr. […] means ‘all cunt’”, Henderson 1991, p. 147) e Philemon. fr. 65 K.–A. (Paroinos; l’indicazione della commedia manca in Eliano, cfr. infra), dove ricorre l’espressione µῦς λευκός. La prima sezione e la seconda, relativa alla dissolutezza dei topi, apparentemente indipendenti, potrebbero essere connesse dall’utilizzo di citazioni da commedie in cui sono usate espressioni proverbiali relative ai topi; l’inserimento anche di una sezione sulla tortora si può spiegare forse come un’associazione di idee, la presenza di proverbi con gli animali in Menandro (la citazione di Menandro per il proverbio κατὰ µυὸς ὄλεθρον precede, infatti, immediatamente l’inizio della sezione sulla tortora; la citazione di Demetrio segue quella del Plokion ed è ugualmente relativa alla tortora). L’espressione µῦς λευκός presente nel frammento di Filemone è il lemma di Zenob. Ath. I 56, cui segue l’interpretamentum che questo proverbio si adopera per chi è eccessivo nei piaceri sessuali perché tali sono i topi, specialmente quelli bianchi; come loci classici per l’utilizzo del proverbio sono menzionati Filemone nel Paroinos (il nome della commedia è dato qui dal paremiografo) e Cratino nelle Drapetides. In entrambi i casi in Zenobio non sono presenti i corrispettivi versi noti da Eliano; si può trattare di un’omissione di Zenobio stesso oppure di una epitomazione più tarda (nelle altre fonti per l’espressione µῦς λευκός [Diogen. VI 45, Phot. µ 619, Sud. µ 1475, Hsch. µ 1953; cfr. anche Leutsch–Schneidewin CPG I p. 276 ad Diogen. cit] l’intera voce si presenta decurtata e soprattutto priva anche del solo richiamo ai loci classici). I passi citati da Eliano e menzionati da Zenobio sono senz’altro gli stessi241 e, quindi, è possibile che anche in Cratino ricorresse l’aggettivo λευκός, oggi perduto, cfr. Interpretazione; ciò potrebbe spiegare perché Zenobio, per esemplificare il lemma µῦς λευκός utilizzi il frammento di Filemone dove µῦς 241

Per il dubbio, oggi sostanzialmente superato, che nel caso di Filemone ci possano essere due distinte citazioni, cfr. Bruzzese 2011, p. 94.

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Cratino

λευκός è sicuro e quello di Cratino, dove è postulabile, ma non faccia menzione del frammento di Epicrate, l’unico dei tre presenti in Eliano dove sicuramente non ricorrono né µῦς né λευκός. Non è però escluso che leukos in Filemone fosse detto perché il soggetto era femminile (v. Interpretazione); in questo caso Zenobio non avrebbe compreso la reale ragione dell’utilizzo di leukos e di conseguenza avrebbe proposto una spiegazione autoschediastica per il suo lemma, di cui potrebbe essere indizio la necessità di sottolineare che specialmente i topi bianchi (καὶ µάλιστα οἱ λευκοί) avevano questa caratteristica. Interpretazione(Il frammento contiene un attacco a Senofonte, additato perché omosessuale; l’utilizzo di ἀστράπτω può far pensare che a parlare sia o Zeus, oppure una versione comica di Zeus stesso (così Leo 1878, p. 412) o ancora un personaggio che pretendeva di essere Zeus (v. infra ad loc. per l’utilizzo in commedia di ἀστράπτω). Per la collocazione, l’utilizzo del tetrametro anapestico catalettico e il tono mordace potrebbero indicare o un contesto agonale o una sezione politica della parabasi, se si accoglie l’identificazione del Senofonte qui menzionato con l’omonimo generale figlio di Euripide (infra a Ξενοφῶντος; per l’utilizzo del tetrametro anapestico catalettico, White 1912, p. 1216s. § 305). Il kōmōdoumenos Senofonte è stigmatizzato per la sua sfrenatezza sessuale, come denota la sua definizione di mys (infra ad loc.), evidentemente di natura omosessuale, come mostra l’impiego del sostantivo katapygosynē. Secondo Kock CAF I, p. 28 sulla base di Zenob. Ath. I 56 “facile conligas ante φέρε addendum esse λευκοῦ vel καὶ λευκοῦ”, chiaramente connesso al successivo genitivo µυός e riferito quindi a Senofonte; nell’unica altra occorrenza a noi nota di µῦς λευκὸς (Philemon. fr. 65 K.–A.) è così additata certamente una donna (cfr. Bruzzese 2011, p. 926s.), λευκοί sono detti specialmente i topi femmina (Phot. µ 619 = Apost. XI 37: οὗτοι δ᾽ εἰσὶ θήλεις) e l’aggettivo λευκός è detto eminemente della donna e in commedia “is a standard epithet of pathics” (Henderson 1991, p. 211), perché “il biancore della pelle, peculiare delle donne, diviene in relazione a uomini segno di effimenatezza e di subalternità sessuale nell’ambito di rapporti omoerotici” (Totaro 1999, p. 42 n. 24 per Arignoto in Ar. Eq. 1276–1281 con il rimando ad es. ad Ar. Thesm. 191 [su cui v. anche Austin– Olson 2004, p. 119] e ulteriore bibliografia; analoghi usi di λευκός ad es. in Ar. Eccl. 385–7, 428 Ran. 1092, Plat. Phaedr. 239c, Rp. 556d etc.). Se si suppone che leukos non fosse lectio singularis di Filemone proprio perché il soggetto era femminile, ma ricorresse anche in Cratino (cfr. Contesto della citazione), in questi l’omosessualità passiva sfrenata di Senofonte, chiaramente espressa da katapygosynē, veniva ulteriormente sottolineata, proprio grazie all’impiego di questo aggettivo. Contra Luppe 1963, p. 41: “µῦς […] ist Beiwort zu Ξενοφῶν. Dabei darf das Adjektiv λευκός, das nur bei Zenobios (µῦς λευκός) auftaucht,

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nicht mit Kock in den Kratinostext gesetzt werden”; secondo Crusius 1910, p. 906s. Ξενοφῶντος di Cratino potrebbe essere un aprosdokēton per λευκοῦ, ma a) non è certo che questo aggettivo appartenesse anche a Cratino e b) è attestato l’uso di attribuire ai kōmōdoumenoi il nome di un animale, v. infra a µυός. Se il contenuto del frammento (attacco a Senofonte perché invertito) è chiaro, non altrettanto ne è la sintassi e, in particolare, il valore e la costruzione di ἀστράπτω (“de sententia incertus haereo”, Meineke FCG II.1, p. 46; “sententia neque Meinekius neque quisquam alius explicare potuit”, Kock CAF I, p. 29); nella documentazione nota, ἀστράπτω con l’accusativo si riferisce, in genere, ad una caratteristica del soggetto (infra ad loc.), mentre qui il suo complemento oggetto, katapygosynē, è certamente detto di Senofonte e non del soggetto stesso di ἀστράπτω. Si può ritenere il verso in certa misura corrotto e porre quindi il verbo tra cruces, oppure accogliere una delle seguenti possibilità: a) intendere ἀστράπτω come transitivo, nel senso di ‘consume with lightning’ (LSJ s.6v.), ovvero di ‘abbattere’ (Edmonds FAC I, p. 39 e n. g, Storey 2011, p. 299) con katapygosynē come suo complemento oggetto, un senso questo da attestato solo in questo passo; b) secondo Luppe 1963, p. 41 καταπυγοσύνην ἀστράπτειν non può valere “Geilheit ausstrahlen”, di difficile comprensione, ma non si può nemmeno intendere il senso di ‘abbattere’; la pericope si può interpretare a partire dall’immagine di immediatezza dell’azione offerta da ἐξ αἰθρίας (“Ausdruck des plötzlichen, Unerwarteten”) connesso con ἀστράπτω, ossia qualcosa come ‘un fulmine a ciel sereno’, e si può quindi intendere “ich werde dir aus heiterem Himmel blitzend die Hinterngeilheit der Lustmaus Xenophon zeigen” (a questo Luppe aggiungeva una possibile ricostruzione della scena: “Vielleicht lüftet der Sprecher dabei sein Gewand und stellt ein glattrasiertes leuchtendes Hinterteil zur Schau [wie es dem Xenophon nachgesagt wird]”). In un caso come nell’altro, si postula comunque un senso non altrimenti attestato, il che lascia qualche dubbio sull’effettiva bontà del testo; a ciò si aggiunge anche il problema di come interpretare il dativo σοι, perché se si accetta il valore b) allora si ha un semplice complemento di termine, mentre se si accetta quello a) può assumere il valore di un dativus commodi (per te, a tuo vantaggio) o anche incommodi, (‘a tuo svantaggio, a tuo detrimento’). Da un punto di vista lessicale, Kassel–Austin PCG IV, p. 150 confrontano Xen. Hell. VII 1.31 τούτων δὲ ῥηθέντων ἐξ αἰθρίας ἀστραπάς τε καὶ βροντὰς λέγουσιν αἰσίους αὐτῷ φανῆναι; Bergk 1838, p. 63, invece, richiamava Cic. div. I 11 e Aen. VIII 528, dove vengono descritti i segni infausti di cui è latore un fulmine a ciel sereno, una descrizone che Cratino “praeter exspectationem transtulit […] ad foedam libidinem Xenophontis” (per l’immagine del fulmine a ciel sereno,

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Cratino 2

cfr. anche, tra gli altri, Enn. ann. 527 Vahl.  = 541 Skutsch [apud Cic. div. II 82] tum tonuit laevom bene tempestate serena, parodiato da Varro Men. 233 Ast. [Lex Maenia] nos admirantes quod sereno lumine-/-tonuisset, oculis caeli rimari plagas). φέρε νῦν(L’espressione è di uso comune, v. in commedia ad es. Ar. Ach. 584, Eq. 113, Nub. 731 etc. In Aristofane e in commedia attica è sempre attestata una prosodia νῡν e si generalizza un’accentazione perispomena νῦν, senza distinguere tra νῦν avverbio temporale e νυν particella enfatica spesso in connessione con imperativi (LSJ s.6v.), come in questo caso, secondo alcune fonti da intendere come enclitico (νυν), v. Ruijgh 1957, pp. 64–67, Austin– Olson 2004, pp. xcviii242; una distinzione νῦν/νυν risiede, eventualmente, nella quantità vocalica, νῡν=νῦν/νῠν=νυν, non nel significato, dove la prosodia νῡν/ νῠν è attestata sia come avverbio che come particella, cfr. Fiorentini 2012, p. 1806s. (in relazione alla prassi editoriale, ritenuta convincente, di Kassel e Austin): “dove è necessaria una lunga o la quantità non è verificabile sul piano metrico, si stampi νῦν, nei casi di breve si stampi νυν, senza implicazioni (a priori ovviamente) per il significato, però da verificarsi, se possibile, di volta in volta”. ἐξ αἰθρίας(‘Cielo sereno, bel tempo’, cfr. Hsch. α 1884 αἰθρία· εὐδία (Xen. Hell. VII 1.30 ), α 1885 αἴθρη· αἰθρία. αὐγή. εὐδία. ἀὴρ καθαρός (ζ 44). Si ricollega al verbo αἴθω ed è parte di un gruppo di formazioni a questo risalenti e caratterizzate da un suffisso in r, di cui il più noto è αἰθήρ, v. GEW s.6v., DELG s.6v., LfgrE I s.6v. αἴθρη (Mette); Omero conosce oltre ad αἰθήρ, il sostantivo αἴθρη (Γ 144, Ρ 646, ζ 44, µ 75), mentre αἰθρίη è attestato 2 la prima volta in Sol. fr. 13,22 W. ed è poi utilizzato in prosa ionica (Hdt. III 86, VII 37, 188) e nella forma αἰθρία in commedia (v. infra) e in Senofonte (Hell. VII 1.30). Prosodicamente si ha αἰθρια nel trimetro giambico, v. Ar. Plut. 1129 Ἀσκωλίαζ’ ἐνταῦθα πρὸς τὴν αἰθρίαν, ma αἰθρια nel pentametro di Sol. fr. 2 13,22 W. οὐρανόν, αἰθρίην δ᾽ αὖθις ἔθηκεν ἰδεῖν e negli anapesti, oltre che qui, in Ar. Nub. 371 καίτοι χρῆν αἰθρίας ὕειν αὐτόν, ταύτας δ’ ἀποδηµεῖν, cfr. Schulze 1892, p. 296 (e v. addenda p. 527) secondo cui “dubitare possis utrum

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La quantità νῠν si trova attestata in tragedia in entrambi i valori (Ruijgh 1957, pp. 656s.), mentre nessun esempio di νῠν è sicuro in commedia: 1) Ar. Nub. 141 λέγε νυν ad inizio di un trimetro giambico non deve essere necessariamente inteso come tribraco, ma è possibile una scansione come anapesto, per cui cfr. Eq. 1028 (v. Parker 1997, p. 404); 2) Ar. Thesm. 104/5 è d’interpretazione incerta ed è probabile che la lettura corretta sia νιν: Austin–Olson 2004, pp. xcvii–xcviii stampano νιν e questa è la lezione accettata, in precedenza, anche Parker 1997, p. 404.

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comici αἰθριας voluerint ex auctoritate Solonis an fortasse ε ex analogia adiectivi αἰθέριος inserto novaverint αἰθερίας”. καταπυγοσύνη(Attestato ancora in Cratin. fr. 259 K.–A., ma come personificazione (Kαταπυγοσύνη), e in Ar. Nub. 1023 e fr. 128 K.–A. (Ghēras), v. anche Luc. XXII (Gall.) 32 e, per il femminile καταπυγαίνα da un graffito, v. LSJ rev. suppl. s.6v. e le note di Fraenkel 1955, pp. 42–45; in commedia è frequente καταπύγων v. ad es. Ar. Ach. 79 (con Olson 2002, p. 96), cfr. 664 λακαταπύγων (con suffisso intensivo λα-), Eq. 639, Nub. 529, 909 etc. Etimologicamente è formato con il suffisso astratto –σύνη (Debrunner 1917, p. 162, cfr. DELG s.6v. πυγή, p. 251) e un primo elemento καταπυγ- (con prefisso κατά e radice πυγ-) che si riferisce propriamente alla sfera della omosessualità 2 passiva, cfr. Henderson 1991 , pp. 129, 213 e 215, ma che può anche diventare poi un insulto generico, v. Dover 1968, p. 167 ad Ar. Nub. 529 (katapygōn) “the word, as is clear from its etymology (~ πυγή) originally meant a man who practises anal coitus, but […] came to be a general term of abuse or contempt”, con il rimando ad Ar. Lys. 137 (ὦ παγκατάπυγον θἠµέτερον ἅπαν γένος), v. anche Stadter 1989, p. 241 e Dover 2002, p. 94. µυός(Utilizzato in riferimento al fatto che il topo sarebbe un animale di costumi dissoluti, come informa Eliano, testimone del frammento, cfr. Contesto della citazione. Come apposizione di un nome proprio (Ξενοφῶντος) ha probabilmente la funzione di soprannome, che stigmatizza il comportamento sessuale, come ad es. in Ar. Av. 1292–1299 a nomi propri di personaggi viene associato il nome di un uccello che ne denota caratteristiche o abitudini: Πέρδιξ µὲν εἷς κάπηλος ὠνοµάζετο6/6χωλός, Μενίππῳ δ’ ἦν Χελιδὼν τοὔνοµα,6/6Ὀπουντίῳ δ’ ὀφθαλµὸν οὐκ ἔχων Κόραξ,6/6Κορυδὸς Φιλοκλέει, Χηναλώπηξ Θεογένει,6/6Ἶβις Λυκούργῳ, Χαιρεφῶντι Νυκτερίς,6/6Συρακοσίῳ δὲ Κίττα· Μειδίας δέ τοι6/6Ὄρτυξ ἐκαλεῖτο. καὶ γὰρ ᾔκειν ὄρτυγι6/6ὑπὸ στυφοκόπου τὴν κεφαλὴν πεπληγµένῳ, cfr. Dunbar 1995, pp. 640–643; in Aristofane il fatto che si tratti di un soprannome è detto esplicitamente, ma ciò poteva avvenire anche in Cratino, con un’espressione analoga a quelle di Aristofane, dopo il genitivo Ξενοφῶντος. Per µῦς “a generic term for small rodents” (Olson 2002, p. 266 ad Ar. Ach. 761–763), cfr. Keller 1909, pp. 193–203, RE XIV.2 (1930), s.6v. Maus, coll. 23962408 (A. Steier), DNP 7 (1999), s.6v. Maus, coll. 1054–1059 (C. Hünermörder); per alcune menzioni in commedia v. ad es. Epich. fr. 41,1 K.–A. (Hēbas gamos), Ar. Ach. 762, Vesp. 204 s., 1182-1185, Alc. com. fr. 22 K.–A. (Palaistra, cfr. Orth 2013, p. 113 s.). ἀστράψω(Connesso con ἀστήρ, forse un denominativo da ἀστεροπή (già omerico)/ἀστραπή (da Hdt. III 86), cfr. GEW s.6v. ἀστραπή “Neben ἀστραπή steht, mit dem Aussehen eines Denominativs, ἀστράπτω” (v. anche

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Cratino

DELG s.6v. ἀστεροπή, ἀστράπτω, LfgrE s.6v. ἀστράπτω [Nordheider]); il verbo è attestato già nei poemi omerici e si riferisce usualmente ai presagi mandati da Zeus (B 353, I 237, K 5 etc.). Generalmente impiegato in senso assoluto o come impersonale, nel senso di ‘lampeggiare’, ovvero di ‘brillare come un fulmine’ (LSJ s.6v.); con l’accusativo, ‘lampeggiare’ nel senso di ‘emanare, irradiare’, si trova in casi quali Aesch. Prom. 358 ἐξ ὀµµάτων δ’ ἤστραπτε (Tifone) γοργωπὸν σέλας, AP XII 161 (Asclepiade) ἵµερον ἀστράπτουσα κατ’ ὄµµατος, dove è sempre attribuito ad una caratteristica del soggetto. In commedia è utilizzato, con altri verbi come ad es. βροντάω, a proposito di Pericle, nella ben nota assimilazione comica a Zeus (ad es. Ach. 5306s. con Olson 2002, p. 5306s.; Telò 2007, p. 1756s., Bagordo 2013, pp. 128–130 e 220–222 a Telecl. frr. 18 [Hēsiodoi] e 45 [inc. fab.] K.–A., con ulteriore bibliografia) e, in generale, a proposito di demagoghi e altri kōmōdoumenoi (ad es. Filocleone in Ar. Vesp. 6246s. οἶον βροντᾷ τὸ δικαστήριον,6/6ὦ Ζεῦ βασιλεῦ6/6κἄν ἀστράψω κτλ.), cfr. in generale su questa immagine Taillardat 1965, p. 4076s. § 6986s. Per l’occorrenza di Cratino, v. Interpretazione. Ξενοφῶντος(Ignota l’identità di questo personaggio additato per la lussuria, considerato kōmōdoumenos del solo Cratino in LGPN II s.6v. n. 35, PAA 734360; nel V sec. a.6C. ad Atene sono note almeno sei persone con questo nome (più due nei demi: LGPN s.6v. 1–5, 22 [Erchia], 35 [Melite], v. anche n. 53 incerto). A partire da un’ipotesi di Bergk 1838, p. 63 (“Xenophon ille quis fuerit, ignoro, nisi forte est Euripidis filius, imperator in bello Samio”) è invalsa l’ipotesi di identificarlo con Senofonte Meliteo figlio di Euripide (PA 11313, APF 5951 [s.6v. Euripidēs Meliteus], LGPN II s.6v. n. 35, PAA 734360), ipparco, generale a Samo nel 441/40 (con questa carica giurò il trattato di pace del 439/8), poi di nuovo a Potidea nel 430/29 e ucciso a Spartolo all’inizio dell’estate del 429 (Thuc. II 70.1, Diod. XII 47.3), personaggio menzionato anche da Lys. XIX 14. Manca, però, ogni prova per questa identificazione, né vale chiamare in causa la cronologia della commedia, incerta (v. p. 3126s).

∆ραπέτιδες (fr. 59)

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fr. 59 K.–A. (54 K.) τοὺς ὧδε µόνον στασιάζοντας καὶ βουλοµένους τινὰς εἶναι Quelli che qui solamente formano fazioni e che vogliono essere qualcuno Phot. p. 658,14 = Sud. ω 14 (III, p. 605) ὧδε· οὐ µόνον τὸ οὕτως, ἀλλὰ καὶ τὸ ἐνθάδε (qui), ὡς ἡµεῖς. Κρατῖνος ∆ραπέτισι· τοὺς—εἶναι hōde: non (significa) soltanto houtōs (così), ma anche enthade, come noi. Cratino nelle Drapetides: quelli che—essere qualcuno

Metro(Tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 18 (fr. II), Bergk 1838, p. 626s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 466s. (fr. V), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 16, Bothe PCGF (1855), p. 15 (fr. 5), Kock CAF I (1880), p. 29, Blaydes 1896, p. 3, Edmonds FAC I (1957), p. 406s., Luppe 1963, p. 42, Schwarze 1971, p. 73, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 151, Henderson 2011, p. 185, Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Il frammento è citato in Fozio e Suda per attestare un valore di ὧδε = ἐνθάδε; il fatto che sia detto ὡς ἡµεῖς ‘come noi’ si deve al fatto che questo è il valore tardo, prevalente nei vangeli e quindi comune in età bizantina (cfr. sotto a ὧδε), v. anche schol. Γ 297a ὅτι τὸ ὧδε οὐδέποτε τοπικῶς, καθάπερ ἡµεῖς, λέγει, ἀλλ᾽ ἀντὶ τοῦ οὕτως τοῦτο παραλαµβάνει (cfr. Erbse ad loc.). Per analogo motivo, a Cratino seguono il richiamo ad Ar. fr. 362 K.–A. e al fatto che Platone si sarebbe talora servito di questo significato (καὶ Πλάτων που κέχρηται ἀντὶ τοῦ δεῦρο καὶ ἐνθάδε), v. infra a ὦδε; subito di seguito è detto che, però, il valore che si trova più di frequente è quello di οὕτως (τὸ δὲ οὕτως ἐν τοῖς πλείστοις δηλοῖ), motivo per cui viene citato a titolo esemplificativo un frammento dei Taxiarchoi di Eupoli (fr. 276 K.–A.). Interpretazione(Il contenuto del frammento può essere politico: il riferimento potrebbe essere ad alcuni che sono causa di discordia civile e cercano di darsi una qualche importanza. In Ar. Eq. 590, nell’antode della parabasi, un semicoro chiede ad Atena di essergli alleata e di condurre Nike, amica del poeta, che prende parte, lotta (στασίαζει) contro i suoi rivali (cfr. Imperio 2004, p. 251); in maniera simile τοὺς στασιάζοντας qui potrebbero essere i rivali del poeta che ‘fanno gruppo, lottano’ solamente (µόνον; non necessaria e soggettiva la proposta µάτην in luogo di µόνον di Blaydes 1896, p. 3) contro di lui e cercano di avere una qualche importanza (scil. senza riuscirci). L’utilizzo del metro ren-

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Cratino

de possibile una collocazione parabatica (cfr. Luppe 1963, p. 42), una sezione recitata (in tetrametri anapestici catalettici) o lirica, se si intende una sequenza dimetro anapestico6/6dimetro anapestico catalettico con la catalessi del secondo dimetro a marcare, forse, la fine di una sezione; se si accetta un riferimento politico, si potrebbe eventualmente pensare anche ad una connessione con il precedente fr. 58 K.–A., con l’attacco a Senofonte (se questi era l’omonimo generale, v. supra ad loc.), mentre Bergk 1838, p. 626s. pensava ad un legame con il fr. 60 (v. infra) e con il fr. inc. sed. 334 K.–A. (γαυριῶσαι δ᾽ ἀναµένουσιν ὧδ᾽ ἐπηγλαϊσµέναι6/6µείρακες φαιδραὶ τράπεζαι τρισκελεῖς σφενδάµνιναι) e, sulla base del contenuto dei tre, ne deduceva un attacco “in effeminatos illos, sed turbulentos et ambitiosos homines”. L’espressione βουλοµένους τινὰς εἶναι è particolarmente utilizzata in tragedia (v. ad loc.) e ciò può far pensare ad un innalzamento del tono o, ipoteticamente, a paratragedia. ὧδε(Secondo i testimonia ὧδε = ἐνθάδε. In epoca classica si ha: a) ὧδε = οὕτως ‘così’ b) ὧδε = δεῦρο ‘qui’, con verbi di movimento (LSJ s.6v. II)243. In Cratino, di conseguenza, come rileva Luppe 1963, p.  42: “Ob in der angeführten Zitaten ὧδε wirklich in der für das klassische Griechisch ungewöhnlichen Bedeutung “hier” verwendet wurde, könnte nur das nähere Zusammenhang entscheiden. So könnte durchaus die übliche Bedeutung “in dieser Weise” vorliegen, oder es heisst: “so drauf los””. Ci sono due possibilità: 1) ὧδε = ἐνθάδε come intendono i testimonia, v. ad es. Edmonds FAC I, p. 41 (“at home”), Storey 2011, p. 299 (“here”); 243

Per ὧδε = δεῦρο (Kock CAF I, p. 29: “nusquam apud Atticos ὧδε pro ἐνθάδε, interdum pro δεῦρο ponitur”, cfr. Kock 1894, p. 86 ad Ar. Av. 229), v. i passi richiamati dagli stessi testimonia: 1) Ar. fr. 362 K.–A. (Kōkalos) ἐκδότω δέ τις6/6καὶ ψηφολόγιον ὧδε καὶ δίφρω δύο (Kassel–Austin PCG III.2, p. 203 confrontano ad es. Ar. Plut. 1194 ἀλλ᾽ ἐκδότω τις δεῦρο, Av. 1693 δότω τις δεῦρο e altri), 2) alcune occorrenze di Platone, come ad es. Prot. 328d ὦ παῖ Ἀπολλοδώρου, ὡς χάριν σοι ἔχω ὅτι προύτρεψάς µε ὧδε ἀφικέσθαι (su cui v. il comm. di Denyer 2008, p.121); inoltre, in commedia, Ar. Av. 229 (in lyricis) ἴτω τις ὧδε τῶν ἐµῶν ὁµοπτέρων (v. Dunbar 1995, p. 215: “= δεῦρο, a usage found only here in Ar., and virtually confined to Soph. (LSJ), who uses it often”) e Strattis fr. 58 K.–A. πῶς ἂν κοµίσειέ µοι τις 〈lxlkl /x〉 θυµαλώπων ὧδε µεστὴν ἐσχάραν (v. Orth 2009, p. 241). Si tratta di un uso prevalente in Sofocle, in lyricis e non, v. ad es. OT 144, 298, OC 182, 841, 1206, 1547; si trova poi in passi più tardi come ad es. Herod. I 49, IV 42, V 48. Come semplice locativo non dipendente da verbi di movimento (= ἐνθάδε), ὧδε ricorre, per quanto concerne la nostra documentazione, con sicurezza a partire dall’età ellenistica (Herod. II 98, Theocr. I 106, 120s.) ed è poi comune nei vangeli (Marc. 6,3, 13,21 etc.).

∆ραπέτιδες (fr. 60)

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2) ὧδε = οὕτως contro l’informazione dei testimonia, v. ad es. Meineke FCG II.1, p. 466s. (“sic temere”), Kock CAF I, p. 29 (“sic incassum, sine causa et ratione”); ad un errore dei testimonia pensano anche Kassel–Austin PCG IV, p. 151 che richiamano un altro probabile frammento dello stesso Cratino, inc. sed. 334 (cfr. Interpretazione). Il valore resta dubbio, ma l’unicità dell’occorrenza cratinea, anche rispetto ai passi subito dopo citati dai testimonia, può forse essere effettivo indizio di un errore nel richiamo a questo verso delle Drapetides. τοὺς  … στασιάζοντας(Denominativo di στάσις, nel suo significato politico di ‘fazione, sedizione, discordia civile’ (LSJ s.6v. B.III.2, Bolling 1961, p. 1626s., Luiselli 1990, p. 87 n. 7), quindi ‘essere in contrasto’, ‘formare una fazione’ con l’intento di prendere il potere, v. Aristot. et. Nich. 1167a 34 ὅταν δ’ ἑκάτερος ἑαυτὸν βούληται, ὥσπερ οἱ ἐν ταῖς Φοινίσσαις (Eur. Phoen. 5906ss.), στασιάζουσιν; il verbo è attestato a partire da Erodoto (I 59, VII 2), ma frequente anche nella prosa attica (Lys. II 61, Xen. mem. II 6.17, Plat. Rp. 464e etc.), escluso dalla lingua della tragedia e presente in commedia in sole tre altre occorrenze: Ar. Eq. 590 (cfr. Interpretazione), Av. 1014 (indica le guerre civili), Lys. 768 (Lisistrata che esorta le compagne a non litigare tra di loro). Più tardi ricorre anche in Men. Epitrep. 1075. βουλοµένους τινὰς εἶναι(L’espressione si confronta con analoghe presenti in tragedia, v. ad es. Eur. Ion 596 ζητῶ τις εἶναι, τῶν µὲν ἀδυνάτων ὕπο6/6µισησόµεσθα (cfr. Owen 1939, p. 112 “τις = of some account”), Heracl. 973 ἔγωγε· καίτοι φηµὶ κἄµ’ εἶναί τινα, El. 939 ηὔχεις τις εἶναι τοῖσι χρήµασι σθένων; tranne questa occorrenza, non ricorre altrove nell’archaia e, in generale, la sua unica altra attestazione in commedia è il più tardo Men. fr. 121,2 K.–A. τὸ δοκεῖν τινες εἶναι (analogo a Dem. XXI 213, cfr. anche X 71). Per ulteriori attestazioni di questo impiego, v. Headlam 1922, p. 303 ad Herod. VI 54 ἦν µέν κοτ᾽, ἦν τις, ἀλλὰ νῦν γεγήρακε. fr. 60 K.–A. (55 K.) ποδαπὰς ὑµᾶς εἶναι φάσκων, ὦ µείρακες, οὐκ ἂν ἁµάρτοιν; ἁµάρτοιν Porson: ἁµαρτοῖν AGFM, S (post corr.): ἁµαρτεῖν IT, S (ante corr.)

Di quale paese dicendo che voi siete, o giovinette, non sbaglierei? Sud. α 1499 ἁµαρτοῖν εἴρηκε τὸ ἀµάρτοιµι Κρατῖνος ∆ραπετίσι· ποδαπὰς—ἁµάρτοιν. καὶ ὅλως συνήθες αὐτοῖς τὸ τοιοῦτον

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Cratino

Cratino nelle Drapetides ha detto hamartoin to hamartoimi: di quale paese—sbaglierei. E ciò è a loro del tutto comune.

Metro(Tetrametro anapestico catalettico (Dimetro anapestico, Dimetro anapestico catalettico)

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Bibliografia(Runkel 1827, p. 18 (fr. III), Bergk 1838, p. 62, Meineke FCG II.1 (1839), p. 47 (fr. VI), Meineke FCG ed. min. (1847), p. 166s., Bothe PCGF (1855), p. 15 (fr. 6), Leo 1878, p. 4096s., Kock CAF I (1880), p. 29, Edmonds FAC I (1957), p. 406s., Luppe 1963, p. 42, Schwarze 1971, p. 746s., Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 151, Quaglia 1998, p. 376s., Bakola 2010, pp. 142–148, Henderson 2011, p. 185, Storey FOC I (2011), p. 2986s. Contesto della citazione(Il frammento è tràdito in Sud. α 1499 per la para ticolarità morfologica di ἁµάρτοιν 1 sing. corrispondente ad ἁµάρτοιµι. L’accentazione ἀµάρτοιν è di Porson 1820, p. 143 e si confronta con l’analogo τρέφοιν in Eur. fr. 903 K., mentre la forma perispomena ἁµαρτοῖν (così i codd. AGFM e S [post corr.]; la forma è stampata da Adler 1928, p. 134. IT e S [ante corr.] hanno un banalizzante infinito aoristo ἁµαρτεῖν; priva di valore è, inoltre, δυϊκὸν GIT, smentito dal motivo stesso per cui il frammento viene citato), difficilmente si giustifica anche da un punto di vista lingusitico (v. infra ad ἁµάρτοιν, anche per l’aggiunta che questa forma sarebbe usuale). Interpretazione(Il vocativo plurale ὦ µείρακες è con ogni probabilità rivolto da chi parla ai componenti del coro, le Drapetides; per communis opinio fin da Bergk 1838, p. 62 è assunto che µείρακες debba essere inteso nel suo valore scoptico di ‘invertito’, testimoniato da alcune fonti antiche e, quindi, che a costituire il coro non fossero delle donne, ma appunto degli invertiti; contra Luppe 1963, p. 42 e Schwarze 1971, p. 74: “µείρακες sind im komischen Sprachgebrauch Mädchen, nicht Knaben. Bergks Vermutung, durch die feminine Form könnte die Verweichlichung der männlichen Jugend charakterisiert sein, hat demgegenüber keine Stütze” e, in effetti, nessun elemento in particolare indica che µείρακες in questo frammento debba intendersi come ‘invertito’ e non, invece, propriamente come ‘giovani donne’ (cfr. µείρακες e Titolo, anche per considerazioni su cori di effeminati e di donne). Da un punto di vista metrico risale a Leo 1878, p. 410 l’ipotesi di interpretare il testo non come un tetrametro anapestico catalettico ma come una sequenza dimetro anapestico6/6dimetro anapestico catalettico, e di considerare questo frammento insieme al fr. 61: la domanda sulla provenienza posta nel fr. 60, otterrebbe risposta nel successivo frammento; secondo Bakola 2010, pp. 142–145, l’uso del dimetro anapestico si può confrontare con quello, analogo, della parodo

∆ραπέτιδες (fr. 60)

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dei Plutoi (fr. 171 K.–A.) e, quindi, si potrebbe immaginare una collocazione in questa sezione di entrambi i frammenti 60 e 61; inoltre, sarebbe possibile identificare chiaramente il locutore del fr. 60 nella stessa persona a cui è rivolto il vocativo Πανδιονίδα πόλεως βασιλεῦ del fr. 61 (probabilmente Teseo, v. fr. 61,1 Πανδιονίδα)244. Alcuni elementi paratragici sono stati riconosciuti da Bakola 2010, pp. 142–148: in particolare, l’intero verso si potrebbe confrontare con Aesch. Suppl. 234 ποδαπὸν ὅµιλον τόνδ’ ἀνελληνόστολον6/6πέπλοισι βαρβάροισι κἀµπυκώµασι6/6χλίοντα προσφωνοῦµεν; (per i possibili rapporti Drapetides/ Supplici v. Contenuto), la parte conclusiva (οὐκ ἂν ἀµάρτοιν) con Eur. Med. 1906s. σκαιοὺς δὲ λέγων κοὐδέν τι σοφοὺς6/6τοὺς πρόσθε βροτοὺς οὐκ ἂν ἁµάρτοις e, inoltre, paratragico sarebbe l’utilizzo di ἀµάρτοιν; ma quest’ultima forma sembra essere più propriamente comica (v. ad loc.) e normale è sia in commedia che in tragedia l’utilizzo di ποδαπ- + εἶναι. Se, quindi, il confronto con le Supplici può rimanere valido, il tono del frammento non appare necessariamente elevato ed è, anzi, coerente con il linguaggio della commedia. ποδαπὰς … εἶναι(Ποδαπός è un pronome o aggettivo interrogativo, ‘di quale paese’ e poi generalmente ‘di dove’ (LSJ s.6v. from what country?: hence, generally, whence? where born?), da πο-, “radical d’interrogatif (accentué) et u d’indéfini (atone)” (DELG s.6v.) e da un “Vorderglied aus idg. *q ̯od = lat. quod […] wenn nicht analogisch nach ἡµεδ-απός u.a. (GEW s.6v. con il rimando a Schwyzer I, p. 604 n. 1). Il nesso ποδαπ- + εἰµί ha diversi paralleli in commedia, v. ad es. Ar. Ach. 818 ὦνθρωπε, ποδαπός (con Olson 2002, p. 277), Ar. Pac. 186 ποδαπὸς τὸ γένος δ’ εἶ; (con Olson 1998, p. 104), Av. 108 ποδαπὼ τὸ γένος, Lys. 85 ἡδὶ δὲ ποδαπὴ ’σθ’ ἡ νεᾶνις ἁτέρα;, Alex. fr. 94 K.–A. (Thēbaioi) ἔστιν δὲ ποδαπὸς τὸ γένος οὗτος; (con Arnott 1996, p. 247, cfr. anche p. 658, fr. 232,3 K.–A.). V. ancora Ar. Ach. 7676s., 808, Nub. 184, Vesp. 185, Amphis fr. 36,1 K.–A. (inc. fab.). Paratragico è Ar. Thesm. 136 ποδαπὸς ὁ γύννις, derivato, come avverte lo scolio ad loc., dagli Ēdōnoi di Eschilo (fr. 61 R., cfr. Austin–Olson 2004, p. 1006s.) e anche in tragedia si hanno esempi di nessi analoghi, v. ad es. Aesch. Coeph. 575, Suppl. 234, Soph. OC 1160, Eur. Hel. 1206, ma il suo utilizzo 244

Poco probabile l’interpretazione proposta da Quaglia 1998, p. 366s.: secondo questi è “parere unanime della critica” (p. 36) l’identificazione Πανδιονίδης = Pericle (ma v. fr. 61,1 ad loc.); inoltre il coro delle Drapetides sarebbe “un gruppo di omosessuali in fuga dall’Attica” (p. 35), in relazione al fatto che la commedia farebbe riferimento alla fondazione di Turii (v. Contenuto) e, poiché la spedizione per Turii partì da Atene “è curioso […] che Pericle non individui almeno qualche volto noto. Ciò poteva avvenire solo se il coro indossava abbigliamento stravagante e tale è proprio il nostro caso, dato che esso era qui costituito da omosessuali”.

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Cratino

nei già citati passi comici e in prosa (ad es. Plat. Apol. 20b, Soph. 216a) ne fanno un’espressione di impiego comune, non necessariamente un indizio di stile paratragico, cfr. Interpretazione. µείρακες(L’etimologia non è certa (DELG, GEW s.6v.: è supposto un legame con il scrs. márya- ‘giovane uomo’), ma il sostantivo appartiene al nutrito gruppo di formazioni con suffisso in –αξ, di origine popolare, v. Schwyzer I, p. 497, Chantraine 1933, p. 3776s. ed appartiene al registro colloquiale dell’attico di V/IV sec. a.6C.: frequente in commedia (Ar. Thesm. 410, Eccl. 611, 696, 1138, Plut. 1071, 1079, fr. 746 K.–A., Cratin. fr. 343 K.–A.) e prosa (ad es. Lys. 3,4, Plat. Apol. 17c), è assente in tragedia e poesia alta, v. in part. Austin–Olson 2004, p. 183 ad Ar. Thesm. 410. Vale ‘giovinetta’, ‘giovane ragazza’ e numerose fonti antiche attestano il suo impiego esclusivamente per indicare una persona di sesso femminile (a differenza dei suoi diminutivi µειράκιον, µειρακίσκος e µειρακύλλιον che possono indicare bambini di ambo i sessi) ovvero come termine scoptico per designare un invertito: 1) Phryn. ecl. 183 µείρακες καὶ µεῖραξ· ἡ µὲν κωµῳδία παίζει τὰ τοιαῦτα, τὸ γὰρ µεῖραξ καὶ µείρακες ἐπὶ θηλειῶν λέγουσιν, τὸ δὲ µειράκιον ἐπὶ ἀρρένων; 2) Hdn. π. διχρ. (II, p. 8,10 L.) τὸ µεῖραξ ἐπὶ θηλυκοῦ τιθέµενον εὗ ἂν ἔχοι; οὐκ ἀγνοῶ δὲ ὡς ἔσθ᾽ ὅτε οἱ κωµικοὶ καὶ ἀρσενικῷ γένει τὴν σύνταξιν ποιοῦνται· ἀλλ᾽ εἰκὸς αὐτοὺς θηλυκῇ προσηγορίᾳ σκώπτειν τοῦς πασχητιῶντας; 3) [Hdn.] Philet. 107 µειράκιον καὶ µεῖραξ διαφέρει· µειράκιον µὲν ὁ ἅρρην […] µεῖραξ δὲ ἡ θήλεια. ἢν δέ ποτε λεχθῇ ἐπὶ τοῦ ἄρρενος ἐν τῇ κωµῳδία τὸ τῆς µείρακος ὄνοµα, δῆλον ὡς κωµῳδεῖται εἰς κιναιδίαν ὁ ἄρρην. Cfr. ancora Poll. V 18 (µεῖραξ all’interno di una serie di termini che definiscono le diverse fasi della vita femminile), Ammon. 317, Ael. Dion. µ 12, Or. fr. A 64 e le note ad loc. di Alpers 1981, p. 1826s. Tutte le attestazioni che possediamo di µεῖραξ in Aristofane e altrove (v. LSJ s.6v.) designano sempre una persona di sesso femminile; le uniche eccezioni, annotate da LSJ s.6v., in cui sarebbe presente il valore scommatico di invertito sono questo verso di Cratino e Luc. XVIII (soloec.) 5,20 ἐτέρου δὲ εἰπόντος ῾πρόσεισιν ὁ µεῖραξ οὑµὸς φίλος᾽, ῾ἔπειτα, ἔφη, λοιδορεῖς φίλον ὄντα᾽. Se, però, in Luciano questo valore appare chiaro, in Cratino non vi è alcun indizio che µείρακες indichi degli invertiti anziché propriamente delle ‘giovinette’; l’assegnazione proposta del significato di ‘invertito’ a questo frammento di Cratino ha, verosimilmente, le seguenti spiegazioni: a) dare una paternità all’informazione dei testimoni sull’uso di meirax = invertito in commedia, cfr. ad es. Rutherford 1881, p. 291 “the παίζει refers to places like that in Cratinus”; ciò, però, poteva risultare in altri testi per

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noi perduti e non necessariamente nel verso di Cratino che per noi sarebbe l’unica attestazione; b) il possibile parallelo con Ar. Thesm. 136 da Aesch. fr. 61 R. ποδαπὸς ὁ γύννις, ma nel tragediografo gynnis è inequivoco e, in ogni caso, il parallelo non si può invocare per il significato di meirax. Di conseguenza non è necessario assumere che meirakes e, quindi, le Drapetides non fossero realmente delle donne, ma, invece, degli invertiti, perché ciò non è ricavabile da alcun indizio certo (v. Interpretazione). ἀµάρτοιν(Ottativo a desinenza tematica, < ἀµαρτοι-m̥   = ἀµάρτοιµι, forma comune con desinenza atematica; dopo il dittongo οι, si attenderebbe m̥ 〉 α, forma presente nell’arcadico εξελαυνοια, ma sostituita in queste forme (v. infra) da –οιν, Chantraine 1961, p. 291 con il rimando a Schwyzer I, p. 665 c, 30 e v. ibid. p. 660 (e n. 4): “ die 1. Sg. att. gewöhnlich φέροιµι, selten –οιν (gesichert τρέφοιν Eur., ἁµάρτοιν Kratin) […] alle nach –οις –οι usw. umgebildet aus *-οα, idg. *-ojm̥ […] und zwar –οιν nach εἴην εἴης, -οιµι nach φέρωµι”, cfr. Kühner–Blass I.2, p. 526s., Lautensasch 1916, p. 1106s. (e bibl. p. 110 n. 1). Le uniche due attestazioni sicure di questa forma di ottativo sono questa di Cratino ed Eur. fr. 903 K. (inc. fab.) ἄφρων ἂν εἴην, εἰ τρέφοιν τὰ τῶν πέλας, riportato dal testimone Cherobosco (in Theodos. canon. verb. p. 260,30 Hilg., GrGr 4,2 ~ Et. Gen. AB s.6v. τρέφοιν [brevius Et. magn. p. 764,52) proprio come attestazione di questa rara forma, qui spiegata come derivata da quella con pleonasmo di η, τρεφοίη e τρεφοίην e, da questa seconda, τρέφοιν per sincope di η. Impossibile definire con certezza il registro stilistico; si potrebbe trattare di una forma caratteristica della commedia, se si intende la pericope finale di Sud. α 1499 καὶ ὅλως συνήθες αὐτοῖς τὸ τοιοῦτον, come riferita ai commediografi (viene riportato un verso comico e la specificazione seguente farebbe riferimento ad un loro usus), v. Diggle 1997, p. 103 ad Eur. fr. 903 (“If τρέφοιν is right […], the line is probably by a comic poet”, riportato anche da Kannicht 2004, p. 913) e Sonnino 2010, p. 256 (ad Eur. 360, 6 K. v. infra). Secondo Bakola 2010, p. 146, invece, “Suda α 1499 suggests that this form was common in the dramatists” (simile Dindorf 1836, p. 299: “Cratinus apud Suidam, qui hanc optativi terminationem omnino usitatam fuisse Atticis perhibet […] καὶ ὅλως σύνηθες αὐτοῖς [i.e. τοῖς Ἀττικοῖς] τὸ τοιοῦτον”) e, quindi, la forma “may be reminiscent of tragedy” (così anche Luppe 1963, p. 42); altri possibili esempi di forme analoghe sono presenti in tragedia (i diversi casi sono elencati in Lautensach 1910, p. 1106s.), ma nessuno è sicuro e si tratta sempre di congetture rispetto al testo tràdito (generalmente rifiutate nelle moderne edizioni), v. ad es.:

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Cratino

1) Soph. Ai. 383 ἴδοιµι 〈δή〉 νιν Finglass 2011: ἴδοιµι νιν codd.: “servato pronomine corrigi potest ἴδοιν ἴδοιν νιν”, Dindorf 1836, p. 299 (che stampava però ἴδοιµ᾽ ἴδοιµι; in Dindorf 1885, p. 17 il testo è ἴδοιµι µήν νιν); 2) Eur. Tr. 225 τάν τ᾽ ἀγχιστεύουσαν γᾶν6/6Ἰονίῳ ναύται πόντῳ: così i codici e Biehl 1970, p. 15 e 1989, p. 154 (cfr. p. 546s.; tra cruces Diggle 1981, p. 191): ναίοιν πόντῳ Dindorf 1839 col. 1127; 3) Eur. fr. 360,6 K. (Erechtheus) οὐκ ἄν τιν᾽ ἄλλην τῆσδε βελτίω λαβεῖν, dove per l’infinito λαβεῖν dei codici di Licurgo (in Leocr. 100–101), testimone del frammento, è stato proposto λάβοιν (Dindorf 1839, col. 1127) per una presunta asperità sintattica nell’uso di λαβεῖν, v. Bakola 2010, p. 147: “the form ἂν λάβοιν could resolve the anomaly which the infinite ἂν λαβεῖν causes”, ma contra già Diggle 1997, p. 103 (citato dalla stessa Bakola) che riteneva “this form of optative […] hardly ammisible in tragedy” (al contrario Bakola ritiene paratragica l’attestazione in Cratino) e ribadiva la dipendenza dell’infinito λαβεῖν dal precedente λογίζοµαι, senz’altro preferibile, v. la discussione in Sonnino 2010, p. 256 (che mantiene l’infinito).

fr. 61 K.–A. (56 K.) Πανδιονίδα πόλεως βασιλεῦ τῆς ἐριβώλακος, οἶσθ᾽ ἣν λέγοµεν, καὶ κύνα καὶ πόλιν ἣν παίζουσιν πόλεως F, CL: πόλιν Aƒƒƒβασιλεῦ Bentley: βασιλέως codd.ƒƒƒἐριβώλακος CL: περὶ βόλακος F: ἱεροκόλακος A

O Pandionide re della regione molto fertile, sai quella che diciamo, e il cane e la città a cui giocano Poll. IX 98.99 ἡ δὲ διὰ πολλῶν ψήφων παιδιὰ πλινθίον ἐστί, χώρας ἐν γραµµαῖς ἔχον διακειµένας. καὶ τὸ µὲν πλινθίον καλεῖται πόλις, τῶν δὲ ψήφων ἐκάστη κύων· διῃρηµένων δὲ εἰς δύο τῶν ψήφων κατὰ τὰς χρόας, ἡ τέχνη τῆς παιδιᾶς ἐστὶ περιλήψει δύο ψήφων ὁµοχρόων τὴν ἐτερόχρων ἀνελεῖν. ὅθεν καὶ Κρατίνῳ πέπαικται· Πανδιονίδα—παίζουσιν E il gioco con molte pedine è il plinthion, che ha le caselle delimitatate con linee. E il plinthion è chiamato città (polis) e ciascuna delle pedine cane (kyōn). E dopo che le pedine sono state divise in due secondo i colori, la tecnica del gioco è catturare la (pedina) di colore diverso circondandola con due dello stesso colore. Da cui anche è stato detto per scherzo da Cratino: O Pandionide—giocano

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Zenob. Ath. III 16 = Zenob. vulg. V 67 πόλεις παίζοµεν· µέµνηται ταύτης Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν. ἡ δὲ πόλις εἶδος ἐστι παιδιᾶς πεττευτικῆς κτλ. Giochiamo alle città. Se ne ricorda Cratino nelle Drapetides. E polis è un tipo di gioco dei dadi ecc.

Metro(Dimetri anapestici

llkkl kklkkl lkklkk llkkl lkklkk llll

Bibliografia(Bentley epist. (1705) in Wordsworth 1842, p. 2226s.245, Runkel 1827, p. 196s. (fr. VII), Bergk 1838, p. 64, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 44–46 (fr. III), Meineke ed. min. I (1847), p. 16, Bothe PCGF (1855), p. 14 (fr. 3), Leo 1878, p. 4086s. e p. 410, Kock CAF I (1880), p. 296s., van Herwerden 1903, p. 3, Tanner 1916, pp. 68–70, Edmonds FAC I (1957), p. 406s., Luppe 1963, pp. 42–44, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 152, Quaglia 1998, pp. 36–38, Bakola 2010, pp. 142–147, Henderson 2011, p. 185, Storey FOC I (2011), p. 3006s. Contesto della citazione(Il frammento è citato da Polluce all’interno del libro nono, dedicato alla città e a ciò che la riguarda (§ 9.6) e in cui dal § 94 al §129 si trova un lungo elenco di giochi caratteristici del simposio e la loro illustrazione che non ha diretta attinenza con ciò che precede (il simposio è trattato nel l. 6, ma non i giochi, tranne una breve sezione, § 11066s., sul cottabo); la descrizione del plinthion segue quella del gioco cosiddetto ε ́γραµµαί e da questo si differenzia principalmente perché ha non cinque pedine, ma molte, come Polluce stesso spiega. Zenobio ricorda che Cratino aveva menzionato il gioco chiamato poleis nelle Drapetides; la coincidenza con la testimonianza di Polluce rende quasi certo che il riferimento sia proprio a questi stessi versi (a meno di non pensare ad un richiamo al medesimo gioco ma in un altro passo della stessa commedia). Per la testimonianza di Zenobio, v. a κύνα καὶ πόλιν. Testo(Al v. 1 πόλιν è lectio singularis di A che presenta un testo deteriore anche per ἐριβώλακος di v. 2 (v. infra); il vocativo βασιλεῦ, confermato dall’uso della seconda singolare οἶσθ᾽(α) al v. 2, è correzione di Bentley 1705 per il

245

La lettera di Bentley è priva di data, ma rappresenta una risposta dell’autore ad una lettera di Th. Hemsterhuis datata 4 Luglio 1705, cfr. l’elenco cronologico della corrispondenza di Bentley redatto da Wordsworth, p. xxvii.

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genitivo βασιλέως comune alla tradizione manoscritta e che si può imputare all’influenza della terminazione del precedente πόλεως, cfr. Luppe 1963, p. 42 (che, in alternativa, propone una falsa connessione con Πανδιονίδα, inteso come gen. dorico, ma v. a Πανδιονίδα). L’incipitario Πανδιονίδα con desinenza dorica è lectio difficilior da mantenere; l’uso della forma dorica risponde, probabilmente, ad una funzione stilistica, “to emphasize the loftiness of the invocation” (Bakola 2010, p. 146; cfr. Willi 2003, p. 233 per ᾱ in Aristofane), in contrasto con il netto e repentino abbassamento di tono del v. 3 (v. Interpretazione). Secondo Kock CAF I, p. 30 “formam doricam Πανδιονίδα in anapaestis sine dubio non cantatis ferri posse nego”, da cui la proposta Πανδιονίδος; Kassel– Austin PCG IV, p. 152 mantengono il testo tràdito, ma sembrano propendere in apparato per la congettura di Kock (“valde arridet Kockii coniectura”), alla quale propongono come alternativa un possibile Πανδιονίδη motivato dal confronto con Ar. Eq. 1055 Κεκροπίδη e Vesp. 438 ∆ρακοντίδη. V. anche Interpretazione. Al v. 2 l’aggettivo ἐριβώλακος riferito a πόλεως, senz’altro Atene per la menzione di un re Πανδιονίδης (indipendentemente dalla sua identificazione, infra ad loc.), è stato più volte sospettato: a) per la notizia di Thuc. I 2.5 che definisce l’Attica una terra non fertile (τὴν γοῦν Ἀττικὴν ἐκ τοῦ ἐπὶ πλεῖστον διὰ τὸ λεπτόγεων ἀστασίαστον οὖσαν ἄνθρωποι ᾤκουν οἱ αὐτοὶ αἰεί); b) perché “auffallend ist es, dass einem Könige, und einem Pandioniden gegenüber die eigne Stadt durch eine dunkle Andeutung bezeichnet wird” (Leo 1878, p. 410). Tuttavia, come notano Kassel–Austin PCG IV, p. 153, un’analoga definizione dell’Attica è presente in Ar. fr. 112 K.–A. (Geōrgoi): ὦ πόλι φίλη Κέκροπος, αὐτοφυὲς Ἀττική,6/6χαίρε λιπαρὸν δάπεδον, οὖθαρ ἀγαθῆς χθονός (dove è presente anche un analogo valore di πόλις = χώρα, γῆ, v. infra ad loc.), per il quale Kassel–Austin PCG III.2 p. 83 richiamano, inoltre, tra gli altri, Ar. Nub. 300 λιπαρὰν χθόνα Παλλάδος, εὔανδρον γᾶν Κεκρόπος e v. infra-246.

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Non appare quindi necessaria la proposta di Leo 1878, p. 410, riportata da Kassel– Austin PCG IV, p. 152 in apparato, di una integrazione tra il v. 1 e il v. 3 tràditi da cui ottenere un testo così costituito: Πανδιονίδα, πόλεως βασιλεῦ6/6[τῆς Κεκροπιδῶν, ἤλθοµεν ἐκ γῆς]6/6τῆς ἐριβώλακος κτλ.; con questa soluzione l’aggettivo ἐριβῶλαξ non è più riferito a πόλις di v. 1, ma all’ipotetico γῆς; contra Luppe 1963, p. 43: “ein gewaltsamer Eingriff in den Text”. Altri tentativi di modificare il tràdito ἐριβώλακος: 1) Bentley epist. 1705 (= Wordsworth 1842, p. 222): “pro ἐριβώλακος […] lego ἐρικώλακος, et propter versum et parodia ab ἐριβώλακος, quod non urbi, sed regioni convenit. Ἐρικώλακος itaque πέπαικεν hic Cratinus”; questa soluzione è adottata anche da Runkel 1827, p. 196s.; 2) Bergk 1838, p. 64 pensava ad un’allu-

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Interpretazione(Il v.  1 contiene, verisimilmente, un riferimento a Teseo (possibile dramatis persona, v. Contenuto della commedia): l’interpretazione più immediata è intendere Πανδιονίδα = Teseo (come ‘papponimico’, infra ad loc.) e, quindi, come vocativo connesso con βασιλεῦ; secondo Luppe 1963, p. 42 Πανδιονίδα si intende come genitivo (-ᾱ < -ᾱο), “König der Stadt des Pandioniden” (analogo Πανδιονίδος di Kock CAF I, p. 30, cfr. Testo) e, in questo caso, si dovrebbe riferire a Egeo: ‘o re della città del Pandionide (= di Egeo)’, un’apostrofe con la quale ci si rivolgerebbe sempre probabilmente a Teseo247. Nessun indizio per l’ipotesi che Πανδιονίδης indichi in qualche modo Pericle (Runkel 1827, p. 20, poi seguito da Meineke FCG II.1, p. 45 [che rimandavano ad Apollod. III 206], Leo 1878, p. 409, Kock CAF I, p. 30, Tanner 1916, p. 65, Pieters 1946, p. 74), cfr. Luppe 1963, 43: “ob etwa mit dem Angeredeten auf Perikles angespielt wird […] lässt sich nicht entscheiden”; contra anche Schwarze 1971, p. 73 che aggiunge una suggestiva (ma non dimostrabile) ipotesi secondo cui

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sione a Turi, non ad Atene, il che lo portava necessariamente a spiegare gli altri riferimenti in un modo che egli stesso confessava incerto: “Est autem aptissimum, Thurios propter soli ubertatem affluentiamque rerum omnium dici ἐριβώλακα πόλιν: Pandionides autem, qui rex urbis vocatur, aut ipse est populus Atheniensis, aut unus aliquis ex conditoribus urbis, qui Pandionidis tribus fuit. Sed haec fateor incerta: prorsus autem obscurum, quorsum spectet commemoratio ludi latrunculorum”; 3) Bothe PCGF, p. 14: “Jocatus est, puto, Cr. novo fortasse vocabulo, sed aptissimo, Athenarum urbem dicens ἐριβούλακα, i.e. ἐρίβουλον, consiliorum plenam […] Quidni ἐριβούλακας, quemadmodum et ἐριβῶλαξ et ἐρίβωλος dicitur illisque praesidens dea laude ornatur τῆς πολυβουλίας”; 4) van Herwerden 1903, p. 3: “Permirum est epitheton (ἐριβώλακος) […] Si igitur sana est lectio, ironice ita poeta, sed frigidius, dixerit necesse est. Cogitavi de corrigendo ἐριώλακος, turbulentae, ut poeta comice finxerit ἐριῶλαξ ab ἐριώλη ad similitudinem vocis ἐριβῶλαξ». 5) Tanner 1916, pp. 68–70 accetta la lettura ἱεροκόλακος del cod. A di Polluce, un conio di Cratino per l’occasione e rivolto contro Lampone, “who is probably also covertly referred to in the word κύνα, for like the κύων in the game” (p. 70 e n. 3. Per il riferimento a Lampone, indimostrabile, v. Geissler 1925, p. 19 n. 4). Per l’ipotesi poco probabile di un’allusione all’ostracismo di Tucidide di Melesia, proposta da Edmonds FAC I, p. 41 nn. c/d, v. Luppe 1963, p. 43 (una tale allusione sarebbe in ἐριβῶλαξ per via di βῶλαξ = βῶλος, che non ha, però, attestazioni nel senso di ὄστρακον); dello stesso Luppe 1963, p. 436s. è l’ipotesi di una lettura ὄχθην per οἰσθ᾽ ἣν: “dann lautete der Text nach der Anrede γῆς ἐριβώλακος ὄχθην λέγοµεν (“Die Küste eines Landes aus fruchtbarem Boden meinen wir”)”, con i rimandi ad es. a ι 132 e ν 234 K.–A. Se si intende Πανδιονίδα come genitivo, si esclude l’identificazione Πανδιονίδης = Teseo, perché re della città del Pandionide (= di Teseo), implica un’apostrofe ad un altro re ancora, né Teseo né Egeo, fatto poco probabile.

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“Der Theseus der „Drapetides“ ist die genaue Gegenfigur zu Perikles” (cfr. Telò p. 625 n. 888). Come mostra la forma plurale λέγοµεν di v. 2, a pronunciare questi versi – almeno, con certezza, i primi due – è una pluralità di persone e, quindi, con ogni probabilità il coro composto dalle Drapetides (in alternativa, si potrebbe pensare a un singolo che parla usando un pluralis maiestatis, ma ciò non è dimostrabile). Secondo Leo 1878, p. 410 questi versi rappresentano parte della risposta del coro alla domanda del precedente fr. 60; analogamente Quaglia 1998, p. 376s. che propone l’ascrizione “ad una sezione dialogata della Parodo” (p. 38), dove il fr. 60 era “parte di un epirrema, mentre i dimetri dovevano essere cantati e rappresentare l’ᾠδή legata alla sezione precedente in sizigia epirrematica” (ibid. con il cfr. con Ar. Nub. 291–297, 314–363 per la struttura e anche n. 42 con il rinvio a Pretagostini 1976, pp. 183–212 per i dimetri anapestici cantati). Alla sezione iniziale della commedia riferisce il frammento anche Bakola 2010, p. 144 s. che pensa ad una scena “where the chorus explain their case to the king” e, quindi, ad una connessione tra le Drapetides e le Supplici di Eschilo, sulla falsariga della cui trama Cratino potrebbe aver costruito parte della sua commedia (v. in part. Bakola 2010, pp. 141–152). Al v. 2 l’aggettivo ἐριβώλακος, detto di Atene (πόλεως), può essere inteso in tre modi: 1) ironico, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 153: “vocis Homericae usui ironia inesse videtur”; 2) come un voluto equivoco che rimanda al successivo riferimento al gioco di v. 3, v. Kühn apud Lederlinus–Hemsterhuis 1706, p. 1084: “videtur Poeta lusisse in eo quod tribum Pandionidem assignat ludo, qui Urbs dicitur, & calculum Regis nomine signatum habet: ἐριβώλακα vocat eundem propter multos calculos vel χώρας distinctas lineis” e (dubbiosamente) Meineke FCG II.1, p. 45: “Lapides lusorios etiam βώλους dictos fuisse intelligitur ex Diogeniani, Prov. vii. 95 […]. eo igitur fortasse referendum est illud ἐριβῶλαξ”; 3) come utilizzato dalle Drapetides, che giungevano in terra straniera, per attirare a sé la benevolenza del loro interlocutore, definendo ‘fertile’ il nuovo territorio (o, in alternativa, utilizzato a sproposito perché ignoravano la natura della territorio in cui arrivavano). I tre valori potevano anche coesistere ed essere di grande efficacia per il pubblico, che poteva cogliere alternativamente l’uno o l’altro, oppure più di uno (o tutti) contemporaneamente. La peculiarità del frammento sta nello scarto tra il tono ‘alto’ dei primi versi (patronimico in -ίδης di ascendenza epica, valore di πόλις = regione abitata di uso solo poetico, uso del raro e omerico ἐριβῶλαξ) e il repentino abbassamento del v. 3: la menzione di πόλις al v. 1 avvia un equivoco sul

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significato di questo sostantivo, che al v. 3 viene inteso in riferimento ad un particolare tipo di gioco, detto appunto polis e i cui pezzi erano detti kynes. Tra il v. 2 e il v. 3, rispetto alla constitutio textus adottata da Kassel–Austin PCG IV, p. 152 è possibile anche un’altra soluzione: interpungere dopo λέγοµεν e intendere i primi due versi come una domanda (ipotesi che risale a Kock CAF I, p. 30: “post λέγοµεν interrogandi signum ponendum est”) e di conseguenza: 1) il v. 3 si può intendere o in continuazione con i due precedenti, come proponeva lo stesso Kock; 2) secondo Edmonds (FAC I, p. 40 e n. c) il coro pronuncia i vv. 1–2 e Teseo (chiaramente dedotto dal v. 1) risponde alla domanda posta nel v. 3 con un’espressione faceta e comicamente equivoca (v. infra). A sostegno della propria ipotesi Edmonds rimandava a Kühner–Gerth 1904, II.2 § 591 (Anmerk. 2) per l’utilizzo di καί all’inizio di risposte248, come ad es. in Eur. Phoen. 4226s. (Ιο.) ἐνταῦθα Ταλαοῦ παῖς συνῆκε θέσφατα;6/6(Πο.) κἄδωκέ γ’ ἡµῖν δύο δυοῖν νεάνιδας, o Eur. Hec. 250. La possibilità di interpungere al v. 2 e di leggere il v. 3 come la battuta di un personaggio b (che sia Teseo o altri è impossibile definire) appare molto suggestiva e si può richiamare infatti con Bakola 2010, p. 144 e n. 85 anche il caso simile di Cratin. fr. 222 K.–A. (Seriphioi) ἐς Συρίαν δ᾽ ἐνθένδ᾽ ἀφικνῇ µετέωρος ὑπ᾽ αὔρας6/6(Πε?) ἱµατίον µοχθηρόν, ὅταν βορρᾶς καταπνεύσῃ; non una domanda qui, ma un dialogo tra due personaggi, dove il secondo risponde in maniera equivoca all’indicazione geografica del primo, in modo, però, del tutto analogo a come nel fr. 62 è presente un equivoco (affermato anche dal testimone Polluce) sul significato di πόλις, ‘regione’ nella sua prima occorrenza, ma in riferimento al gioco πόλεις al v. 3. Πανδιονίδα(Pandione è il nome di due re noti dalla lista (di origine tarda) dei re di Atene: 1) Pandione I, figlio di Erittonio I, quinto re; 2) Pandione II, figlio di Cecrope II, ottavo re (su entrambi, v. RE XVIII.2, coll. 512–517 [Hanslik] e Roscher III.1 coll. 1516–1520 [Höfer]); ad essere indicato è, con ogni probabilità, Pandione II: Strab. IX 1.6 (la fonte è una Atthis, FGrHist 329 F 2) definisce, infatti, Πανδιονίδαι i quattro discendenti di Pandione II: Egeo, Lico, Pallas e Niso249.

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249

“Zuweilen beginnt die Antwort mit καὶ, so dass die Erwiderung eine Fortsetzung der Rede des anderen ist, und aus derselben die Bejahung oder Verneinung der Frage erkannt werden muss”. Strab. IX 1.6 οἵ τε δὴ τὴν Ἀτθίδα συγγράψαντες πολλὰ διαφωνοῦντες τοῦτό γε ὁµολογοῦσιν οἵ γε λόγου ἄξιοι, διότι τῶν Πανδιονιδῶν τεττάρων ὄντων, Αἰγέως τε καὶ Λύκου καὶ Πάλλαντος καὶ τετάρτου Νίσου, καὶ τῆς Ἀττικῆς εἰς τέτταρα µέρη διαιρεθείσης, ὁ Νῖσος τὴν Μεγαρίδα λάχοι καὶ κτίσαι τὴν Νίσαιαν.

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Cratino

Come Πανδιονίδης è indicato verisimilmente Teseo (che poteva essere un prosōpon della commedia, v. Contenuto), decimo re di Atene, figlio e successore di Egeo e, quindi, nipote di Pandione, così definito con un utilizzo del suffisso –ίδης come papponimico (v. infra); meno probabilmente Πανδιονίδης = figlio di Pandione e quindi Egeo (Kassel–Austin PCG IV, p. 152 richiamano Dion. perieg. 1024 γόνῳ Πανδιονίδαο, dove Πανδιονίδης è detto Egeo e quindi con γόνῳ Πανδιονίδαο è indicato chiaramente Teseo [ma qui la presenza di γόνῳ rende questo caso parzialmente diverso]). I nomi propri con il suffisso –ίδης sono generalmente patronimici, ma poiché tale suffisso designa originariamente la Sippenzugehörigkeit (Schwzyer I, p. 509), si hanno sia casi in cui tramite il plurale ad essere indicati sono i discendenti in generale (Hes. fr. 77 M.–W. Αἰακίδας, πολέµῳ κεχαρηότας ἠΰτε δαιτί, cfr. fr. 205,1 M.–W.), sia casi in cui il singolare non indica il figlio, ma il 2 nipote (παππονυµικῶς indica questa categoria in sch. Ge ad Ι 191), come ad es. già nell’Iliade Αἰακίδης indica 3 volte Peleo (Π 15, Σ 433, Φ 189), ma assai più di frequente Achille (Π 584; cfr. Π 140 e Β 860 = 874 etc.), dato questo noto anche alla scoliastica antica, v. LfgrE I s.6v. (Sieveking); altri esempi possono essere Priamo definito ∆αρδανίδης (Γ 303, Ε 159 etc.), dal mitico progenitore (v. LfgrE II s.6v. [Steiner]) e cfr. anche la documentazione di Meineke 1843, p. 706s. ad Euphor. fr. 40.2 Powell (δεδουπότος Αἰακίδαο), Stockert 1992, II, p. 252 ad Eur. Iph. Aul. 217 Εὔµηλος Φερητιάδας e Bakola 2010, p. 146. Per il suffisso –ίδης di ascendenza epica e il suo utilizzo in commedia, v. comm. a fr. 11 K.–A. (p. 97). βασιλεῦ(Nell’archaia βασιλεύς ha sostanzialmente una valenza positiva, cfr. l’epiclesi ὦ βασιλεῦ τῶν Ἐλλήνων del coro al ringiovanito Dēmos in Ar. Eq. 1333 e gli utilizzi positivi del correlato βασίλεια nelle Vespe (546 e 549: Filocleone e il coro in relazione al proprio potere) e negli Uccelli, dove è così chiamato il potere ‘positivo’ degli uccelli, v. ad es. v. 467, 478, 486 etc. In senso negativo è utilizzato in commedia per designare il re di Persia (ad es. Ar. Ach. 61, 65 etc.), così come altrove (v. Hdt. VII 174, Thuc. VIII 48, Aesch. Pers. 5, 144), o in un caso come quello di Hermipp. fr. 47,1 K.–A. βασιλεῦ σατύρων rivolto contro Pericle e, quindi, chiaramente denigratorio. Per la possibile interscambiabilità semantica tra βασιλεύς e τύραννος (questo secondo non è necessariamente negativo, v. Parker 1998, pp. 155–172; i due sostantivi sono considerati opposti da Aristot. Eth. Nich. 1160b 3 ὁ µὲν γὰρ τύραννος τὸ αὑτῷ συµφέρον σκοπεῖ, ὁ δὲ βασιλεὺς τὸ τῶν ἀρχοµένων. οὐ γάρ ἐστι βασιλεὺς ὁ µὴ αὐτάρκης καὶ πᾶσι τοῖς ἀγαθοῖς ὑπερέχων) sostenuta da schol. ad Ar. Ach. 61a e Ammon. adf. voc. diff. 480, testimoni di Eupol. fr. 137 K.–A., v. Telò 2007, p. 625 e n. 888.

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πόλεως(“In this mythic context it does not mean literally ‘city’ but ‘inhabited region’”, Bakola 2010, p. 146 (cfr. Interpretazione), “Inhabited region or ‘territory’, as often in poetry”, Olson 1998, p. 120 ad Ar. Pac. 251 oἵα πόλις 2 τάλαινα διακναισθήσεται, con il richiamo tra gli altri a Ξ 230, Arch. fr. 230 W. , Pind. Nem. VII 96s., Soph. fr. 411 R., Eur. Ion 294 etc.; in commedia ancora in Ar. fr. 112 K.–A. (v. Testo) su cui Kassel–Austin PCG III.2, p. 83 (questo significato è raro in prosa, ma v. ad es. Lys. VI 6, Strab. VIII 3.31). ἐριβώλακος(Dal prefisso intensivo ἐρι- (cfr. formazioni simili quali ἐριβρεµέτης, ἐρίβροµος) e βῶλαξ ‘zolla’, formazione secondaria, ma attestata già in Omero, da βῶλος, v. Chantraine 1933, p. 379, GEW s.6v., DELG s.6v., LfgrE 2 s.6v. (Nordheider). Attestato soltanto nei poemi omerici e, in questi, essenzialmente solo nell’Iliade (15x, 5 in ciascuno dei casi gen., dat., acc.), una sola volta nell’Odissea (µ 235 al gen.) e sempre in posizione metrica kkGkk; nella poesia successiva ritorna solo in età ellenistica (Ap. Rhod. I 94) e posteriore (Orph. Lith. 655). Quella di Cratino è l’unica attestazione in età classica e si può quindi verisimilmente intendere come un omerismo, cfr. Amado-Rodriguez 1994, p. 112. a οἶσθ᾽(La des. –σθα della 2 sing. del perfetto attivo rimane solamente nelle forme οἶσθα e ἦσθα (altrove è generalmente rimpiazzata da –ας) e οἶσθα è normalmente impiegato in attico, v. ad es. Aesch. Suppl. 1056, Pers. 341, Soph. Ant. 316, Trach. 76, Eur. Alc. 677, Hipp. 300, Ar. Eq. 315, Nub. 1024, Xen. Hell. VI 1.5, VI 1.12, Plat. Phaed. 68d 5, 73 d5; οἶδας è forma ionica (Theogn. 491, 957 [ma 357: οἶσθα], Hdt. III 72 etc.) e talora ricorre in attico (Xen. Mem. IV 6.6; ibid. poco prima οἶσθα), οἶσθας è forma più tarda, ad es. in Men. Epitr. 481, Alex. fr. 15,11 K.–A. (Apeglaukōmenos), Herod. II 55, ma probabilmente attestata anche nello stesso Cratin. fr. 112 K.–A. (cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 178) e forse risultato di una “confusion of the co-existing forms οἶσθα and οἶδας” (Stevens 1976, p. 60). V. Kühner–Blass II, p. 44, Schwyzer I, p. 662, Groeneboom 1973, p. 846s. ad Herod. II 55, Arnott 1996, p. 94 ad Alex. fr. 15,11 K.–A. κύνα καὶ πόλιν(Con questi termini, secondo Polluce testimone del frammento, erano definiti gli elementi caratteristici di un particolare gioco da tavola, detto πόλις: la tavola su cui si giocava (plinthion) era detta polis ‘città’ e ogni pedina (psēphos) era detta kyōn ‘cane’; dallo stesso Polluce si ricava ancora il funzionamento del gioco: catturare una pedina di un dato colore con due di un diverso colore. Secondo Austin 1940, p. 264: “the tactics consisted in preventing the enemy from maintaining his massed formation, and by breaking through it to manoeuvre until his force was gradually scattered and so taken. An isolated man brought danger to himself and to his side”; è possibile che questo gioco avesse un simbolismo civico, v. Kurke 1999b,

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p. 258: “somehow the board is like the city whose framing structure endows its citizens with identity and equal status”. Una notizia di Phot. π 1017 (attribuita a Paus. π 26 da Erbse 1950, p. 204; il contenuto rispecchia in parte quanto detto in Zenobio) πόλεις παίζειν· τὰς νῦν χῶρας καλουµένας ἐν ταῖς ξ´ ψῆφοι offre l’informazione che il numero dei pezzi con cui si giocava era di 60; questo numero è giudicato “auffällig gross” da Lamer 1927, col. 1974, ma, in ogni caso, serve come indizio di una distinzione certa tra questo gioco e il cosidetto ε´ γραµµαί, perché le pedine in quest’ultimo erano solamente cinque, mentre nell’altro, anche a non voler considerare l’informazione di Fozio, è Polluce a specificare che si giocava διὰ πολλῶν ψήφων (per la distinzione tra i due giochi, v. anche Kurke 1999, pp. 255–257). Eustazio (in Od. p. 1397, 446s. ad α 107) offre una descrizione del tutto analoga a quella di Polluce e aggiunge una spiegazione sulla definizione delle pedine: αἱ δὲ ἀντεπιβουλεύουσαι ἀλλήλαις ψῆφοι, κύνες (sc. ἐκαλοῦντο) διὰ τὸ δῆθεν ἀναιδές; diversamente Zenob. Ath. III 16 = vulg. V 67 (la pericope segue immediatamente la menzione di Cratino, v. Contesto della citazione): ἡ δὲ πόλις εἶδος ἐστι παιδιᾶς πεττευτικῆς. καὶ δοκεῖ µετενηνέχθαι ἀπὸ τῶν ταῖς ψῆφοις παιζόντων ταῖς λεγοµέναις νῦν χώραις, τότε δὲ πόλεσιν. Secondo il paremiografo, il nome del gioco non era plinthion, ma poleis e le pedine (psēphoi) erano chiamate un tempo poleis, poi chōrai (la stessa spiegazione ricorre in Hsch. π 2757): come rileva Lamer 1927, col. 1974 il νῦν di Zenobio, che distingue i due diversi nomi, può rifersi egualmente all’epoca di Zenobio o a quella della sua fonte e questa notizia potrebbe essere di per sé plausibile (“an sich wäre das nicht undenkbar”), sebbene le altre fonti in nostro possesso definiscano chiaramente e in maniera diversa i singoli elementi del gioco e Zenobio (la sua fonte) potrebbe aver confuso i diversi elementi, cfr. Luppe 1963, p. 44 n. 29: “bei Zenob. beruht sicherlich auf unklarer Vorstellung von dem Spiel, das Pollux richtig erklärt”. Un’ulteriore menzione di questo gioco in epoca classica è in Plat. Rp. 422e.; per le altre fonti antiche su di esso, v. l’apparato di Thedoridis 2013, p. 246 a Phot. π 1017 e ancora Lamer 1927, Austin 1940, Kurke 1999b, in part. p. 2556s. ἣν παίζουσιν(Per παίζω con l’acc. v. Ar. Plut. 10556s. (Νε.) βούλει διὰ χρόνου πρός µε παῖσαι; (Γρ.) ποῖ, τάλαν;-/6(Νε.) αὐτοῦ, λαβοῦσα κάρυα. (Γρ.) παιδιὰν τινά;, cfr. anche Plat. Alc. I 110b καὶ ὁπότε ἀστραγαλίζοις ἢ ἄλλην τινὰ παιδιὰν παίζοις, Plut. Alex. 73, Alc. In genere usato con il dativo, già in ζ 100 (σφαίρῃ), cfr. ad es. Pherecr. fr. 48 K.–A. (Doulodidaskalos) ἀντ᾽ ἀστραγάλων κονδύλοισι παίζεται, o con πρός + acc. ad es. in Plat. com. fr. 46,1 K.–A. (Zeus kakoumenos) πρὸς κότταβον παίζειν.

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fr. 62 K.–A. (57.58 K.) Λάµπωνα, τὸν οὐ βροτῶν ψῆφος δύναται φλεγυρὰ δείπνου φίλων ἀπείργειν νῦν δ᾽ αὖτις ἐρυγγάνει· βρύχει γὰρ ἅπαν τὸ παρόν, τρίγλῃ δὲ κἂν µάχοιτο Lampone, che un voto di uomini oltraggioso non può tenere lontano da un pranzo di amici e ora di nuovo rutta; divora infatti tutto ciò che c’è, e potrebbe misurarsi con una triglia Athen. VIII 344e (340f ὀψόφαγοι) καὶ Λάµπωνα δὲ τὸν µάντιν ἐπὶ τοῖς ὁµοίοις κωµῳδοῦσι Καλλίας Πεδήταις (fr. 20 K.–A.) καὶ Λύσιππος Βάκχαις (fr. 6 K.–A.). Κρατῖνος δ᾽ ἐν ∆ραπέτισιν εἰπὼν περὶ αὐτοῦ Λάµπωνα — ἀπείργειν ἐπιφέρει· νῦν — µάχοιτο (ghiottoni) e deridono Lampone l’indovino per simili motivi Callia nei Pedētai e Lisippo nelle Bakchai. E Cratino nelle Drapetides dopo aver detto di lui Lampone — di amici, aggiunge: e ora — una triglia

Metro(llkklkl

llkklkkl llklkll llkklkl llkklkkl llklklk

telesilleo archilocheo telesilleo archilocheo

Bibliografia(Runkel 1827, p. 19 (VI), Bergk 1838, p. 466s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 436s. (frr. I. II), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 16, Bothe PCGF (1855), p. 14 (frr. 1. 2), Kock CAF I (1880), p. 30, van Herwerden 1882, p. 68, Zieliński 1885, p. 3196s. n. 2, Blaydes 1890, p. 5, Rutherford 1897, p. 17, van Herwerden 1903, p. 3, Pieters 1946, p. 766s., Edmonds FAC I (1957), p. 406s., Luppe 1963, pp. 45–47, Schwarze 1971, pp. 76–78, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1526s., Quaglia 1998, p. 556s., Henderson 2011, p. 1856s., Storey FOC I (2011), p. 3006s. Contesto della citazione(Lampone è annoverato tra gli opsophagoi (ghiottoni) e per questo bersaglio di scherno presso i comici, nei Pedētai di Callia e nelle Bakchai di Lisippo (su queste due citazioni, v. rispettivamente Bagordo 2014, p.  1826s. e Bagordo 2014b, pp.  60–63), dei quali non sono riportati i relativi versi, e in Cratino, del quale Ateneo distingue due citazioni: la prima è introdotta con le parole Κρατῖνος δ᾽ ἐν ∆ραπέτισιν εἰπὼν περὶ αὐτοῦ (sc. Lampone), cui segue la pericope Λάµπωνα—ἀπείργειν; la seconda, invece, con il verbo ἐπιφέρει cui segue la pericope νῦν—µάχοιτο.

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Cratino

I due gruppi di versi sono, con ogni probabilità, in immediata continuità come proposto da Luppe 1963, p. 46250 per il confronto con l’uso di ἐπιφέρει in Hephaest. ench. XIII 1, p. 40,5 Consbr. testimone di Cratin. fr. 237 K.–A.: καλεῖται δὲ καὶ ὑπ’ αὐτῶν τῶν ποιητῶν κρητικόν, ὥσπερ ὑπὸ Κρατίνου ἐν Τροφωνίῳ (fr. 237 K.–A.)· ἔγειρε δὴ νῦν, Μοῦσα, κρητικὸν µέλος, εἶτα ἐπιφέρει· χαῖρε δή, µοῦσα· χρονία µὲν ἥκεις, ὅµως δ’6/6ἦλθες οὐ † πρίν ἐλθεῖν † ἴσθι σαφές· ἀλλ’ ὅπως; si rileva però che, a parte la diversità del testimone stesso, il caso sembra differente e la diretta consequenzialità delle due citazioni appare qui maggiormente motivata: il trimetro giambico riportato per primo prova l’attestazione in un locus classicus di κρητικός, il secondo verso esemplifica direttamente l’utilizzo del cretico, ossia Cratino invitava la Musa ad intonare un canto cretico e subito dopo iniziava un canto in cretici, cfr. Kassel–Austin PCG IV, p. 242). Si può confrontare, inoltre, Athen. VII 287a, testimone di Pherecr. fr. 117 K.–A. (Myrmēkanthrōpoi): (Α.) τί ληρεῖς; ἀλλὰ φωνὴν οὐκ ἔχειν6/6ἰχθύν γέ φασι τὸ παράπαν. (Β.) νὴ τὼ θεώ,6/6κοὐκ ἔστιν ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ βόαξ; il frammento è trasmesso per intero da Et. gen. β 308 (che non lascia dubbi che i versi fossero in immediata continuità), mentre Ateneo lo distingue in due parti: Φερεκράτης δ᾽ ἐν Μυρµηκανθρώποις εἰπὼν ἄλλον φωνήν — παράπαν, ἐπιφέρει νὴ — βόαξ (v. anche Interpretazione) La sezione sugli opsophagoi (ghiottoni, buongustai, specialmente caratterizzati come mangiatori di pesce, perché il pesce era considerato una delle maggiori prelibatezze della cucina greca, v. in part. Marchiori 2000) in Ateneo si estende da 340b (con la dicitura iniziale γεγόνασι δὲ καὶ οἵδε ὀψοφάγοι) a 347b (dove si conclude con la descrizione del gigante Gerione, straordinario ghiottone, nell’omonima commedia di Efippo [fr. 5 K.–A.]); fonte potrebbe esserne Egesandro di Delfi (Düring 1936a, p. 9): questi è, infatti, fonte anche delle Quaestiones conviviales di Plutarco, che presentano notevoli analogie con questa porzione del testo di Ateneo. L’elenco di ghiottoni inizia, però, propriamente già a 337b-c con la menzione di Dorione, personaggio di identità controversa (v. in part. RE V.1, 1905, coll. 15636s., Dorion n. 4 [von Jan] e García Lázaro 1982, pp. 1226s.), che Democrito (persona loquens in Ateneo da 331c) definisce φίλιχθυς ed è successivamente detto ὀψόφαγος (ad es. nella cit. da Egesandr. fr. 14, FHG IV,416 Müller); la sezione su Dorione si conclude a 250

Questa proposta sembra accettata, implicitamente, da Kassel–Austin PCG IV, p. 153 che la richiamano e stampano i quattro versi come un unico frammento (62), a differenza di Meineke FCG II.1, p. 43, che numerava I.II, e Kock CAF I, p. 30 che numerava 57.58; gli stessi Kassel e Austin riportano, però, anche l’ipotesi di intendere i versi come derivati da due distinte sezioni di un medesimo corale, cfr. Interpretazione.

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338b e, dopo un breve inserto su giochi di parole sui pesci (con citt. di Laso di Ermione, test. 9 Brussich e Epich. fr. 76 K.–A.), si ritorna ai philichtyes (amanti del pesce) e ai ghiottoni (opsophagoi) fino a 340f, dove inizia l’elencazione di altri opsophagoi. Testo(Al v. 1 per il tràdito τόν Blaydes 1890, p. 5 propose θ᾽ ὅν251: l’articolo in funzione di pronome relativo appartiene all’uso omerico e si trova nella lingua dei tragici, soprattutto nelle parti corali e particolarmente in Sofocle, mai nella lingua della commedia, cfr. Kühner–Gerth 1898, II.1, p. 587 e Colvin 1999, p. 225 (l’occorrenza di Ar. Ach. 870 è in dialettico beotico e, quindi, differente, v. Olson 2002, p. 290), ma si potrebbe pensare, in questo caso, ad un voluto innalzamento di tono di un canto corale (per θ᾽ ὃν cfr. Interpretazione). Al v. 3 per il tràdito αὖτις è forse possibile αὖθις (Dindorf 1827, vol. II, p. 755): αὖτις è epico e tragico (LSJ s.6v.) e si trova nel dramma satiresco di Sofocle (fr. 314 R., v. 235, forse anche ibid. v. 233, secondo una possibile lettura) e tre volte in Menandro (Epitr. 362, Sam. 281, 292), ma mai nella commedia di V secolo (il testo di Ar. Thesm. 1198, dove potrebbe ricorrere, è dubbio, v. Austin–Olson 2004, p. 345), dove è normale αὖθις; questa forma è accettata nelle prime edizioni dei comici, in Edmonds FAC I, p. 40 e in Luppe 1963, p. 46, ma αὗτις potrebbe creare un voluto scarto di tono con il volgare ἐρυγγάνει immediatamente successivo. Al v. 4 per τρίγλης invece del tràdito τρίγλῃ (van Herwerden 1882, p. 68 ~ 1903, p. 3), v. Interpretazione. Metrica(“Telesillea excipiunt numeri archilochei”, Kassel–Austin PCG IV, p. 153 che confrontano l’analogo utilizzo di metri archilochei in com. adesp. 1105 K.–A., vv. 98–103 (i metri archilochei iniziano dal v. 70) dove ricorre un attacco a Lampone (infra a Λάµπων); si deve a Porson apud Gaisford 1832, p. 341 (374) e Bergk 1838, p. 46 il confronto con Ar. Vesp. 1518–20 per l’associazione di un archilocheo con altri metri (interpretazione metrica dei versi delle Vespe secondo Parker 1997, p. 2566s., in gen. pp. 256–261): klkklkklk|lklklk|| (archil.) ἄγ’, ὦ µεγαλώνυµα τέκνα τοῦ θαλασσίοιο, llkklkkl (l D) πηδᾶτε παρὰ ψάµαθον 251

Seguono Blaydes Rutherford 1897, p. 17, Luppe 1963, p. 456s. e Kassel–Austin PCG IV, p. 153 (che stampano τόν tràdito dai codici di Ateneo, riportano la proposta di Blaydes in apparato, ma appaiono condividerla quando nelle tre righe finali dell’apparato esplicativo indicano in un verbum puniendi la reggenza dell’accusativo Λάµπωνα “cum aliis quibusdam nominibus ab Athenaeo non allatis (τε, v. app. crit.”).

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Cratino

L’archilocheo è un metro ben testimoniato nell’opera di Cratino, cfr. comm. a frr. 11 (p. 946s.) e 32 (p. 182) K.–A.; il telesilleo, al contrario, non è testimoniato altrove in Cratino e in Aristofane ricorre prevalentemente in canti di matrimonio (Pac. 1329–66, Av. 1731–1734 = 1737–1740 ss.) e canti processionali (Eccl. 289–99 = 300–310), cfr. Parker 1997, p. 73. Kassel–Austin PCG IV, p. 153. All’esodo delle Vespe rimandava anche Zieliński 1885, p. 319 che, a partire dalla versificazione qui presente, intendeva il testo di Cratino come una “Erweiterung dieses Verses”, da intendersi completa con le integrazioni agli inizi di v. 1 (〈ἀλλ᾽ εἶα τί φήσοµεν〉) e di v. 3 (〈ἔκαπτε µὲν ἀρτίως〉), ingiustificate e non necessarie (“willkürlich” Luppe 1963, p. 46; le due strutture metriche si possono confrontare senza alcuna necessità di integrazione); un’altra interpretazione metrica è quella di Dindorf 1827 (vol. II), p. 755 che distingueva così i due testi: Λάµπωνα, τὸν οὐ βροτῶν6/6ψῆφος δύναται φλεγυρὰ6/6δείπνου φίλων ἀπείργειν e νῦν δ᾽ αὖτις ἐρυγγάνει·6/6βρύχει γὰρ ἅπαν τὸ παρόν,6/6τρίγλῃ δὲ κἄν µάχοιτο (analogamente Wilamowitz 1921, p. 392 [prosodiaci] e v. anche Luppe 1963, p. 46 che rivela il caso parzialmente differente delle Vespe; ma il confronto con queste rimane preferibile per la presenza di metri archilochei in Cratino) . Interpretazione(Il frammento contiene un’invettiva contro l’indovino Lampone, stigmatizzato per la sua voracità, similmente a come per analogo motivo sono attaccati in Aristofane i chrēsmologoi Ierocle (Pac. 1043–1126) e un anonimo (Av. 959–990); su questa tematica e in particolare sul fatto che “non sugli oracoli e sulla mantica in quanto tali si abbatte il disprezzo […], bensì sull’uso strumentale e profittatorio fattone in particolare dai chresmologoi” (Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 220), v. in part. Smith 1989, Muecke 1998, Suárez de la Torre 1998. Il metro del frammento (telesilleo + archilocheo), indica una provenienza da una sezione cantata (v. Metrica); per il tono mordace si può pensare a ode o antode dell’agone, oppure ad un canto corale contro Lampone, analogo ad es. ad Ar. Ach. 1150–1172 contro Antimaco. Il confronto con la citazione di Pherecr. fr. 117 K.–A. in Athen. VII 287a può essere indizio che i quattro versi erano continuativi; nel caso di Ferecrate, inoltre, Ateneo separa le due citazioni nel punto esatto in cui nel frammento è presente un’antilabē, v. Contesto della citazione. Analogamente, in Cratino, nel caso di un corale contro Lampone, se i versi erano continuativi si potrebbe pensare che la distinzione di Ateneo rimandi, ad es. al passaggio tra strofe ed antistrofe, ossia che i primi due versi fossero la parte finale della strofe e gli altri due l’inizio dell’antistrofe. Ad un canto corale pensava anche Kock CAF I, p. 30 (non, però, necessariamente ad una continuità tra i versi): “cum Athenaeus eandem partem et strophae et antistrophae servaverit, integro carmine chorico Lamponem a Cratino traductum esse apparet” (analogamente

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Wilamowitz 1921, p. 392: “Kratinos ∆ραπέτισιν, Athen. 334a, wo Strophe und Antistrophe erhalten sind”); a due distinte sezioni, pensava invece Kaibel apud Kassel-Austin PCG IV, p. 153: “ex oda et antoda petita” e v. anche Quaglia 1998, p. 56: “poiché Lampone era l’indovino di fiducia di Pericle, è probabile che egli sostenesse nell’Agone le posizioni dello statista tanto inviso a Cratino. Il fr. 62 può provenire, allora, da una coppia di ὠδαί dell’agone, soprattutto alla luce del carattere mordace del duplice brano”. Al v. 1 l’accusativo Λάµπωνα presuppone un verbo reggente non conservato; secondo Luppe 1963, p. 46 (ripreso da Kassel-Austin PCG IV, p. 153) si aveva in origine un’elencazione di personaggi attaccati in Cratino per la medesima caratteristica, la ghiottoneria, aperta da un verbum puniendi: Lampone era solo uno di questi personaggi e, in questo senso, si potrebbe recuperare la correzione θ᾽ ὃν di Blaydes 1890, p. 5 (per τόν tràdito, v. Testo), che indicherebbe, appunto, un’elencazione. Il genitivo βροτῶν è connesso con ψῆφος … φλεγυρά; Rutherford 1897, p. 17 intendeva “θ᾽ ὃν οὐ βροτῶν ‘quem non mortalium’”, ma cfr. Luppe 1963, p. 45 “gegen Rutherfords Vermutung […] spricht die Wortstellung”, cfr. anche Kühner–Gerth II.1, p. 3386s. (§ 414, 5 b, dipendenza del partitivo da pronomi). Incerto il valore dell’espressione βροτῶν ψῆφος … φλεγυρά (voto ingiurioso, v. a φλεγυρά) “a mysterious reference”, Storey 2011, p. 301, che rinvia solamente per ψῆφος ai due valori di pietra da gioco o pietra per votare e, quindi, voto (LSJ s.6v.; Storey traduce “stone [vote?]” e, nonostante il riferimento poco chiaro, voto potrebbe essere il senso qui inteso, v. infra); l’ipotesi più convincente è quella già di Töppel 1846, p. 22 di un confronto con Eupol. fr. 175 K.–A. (Kolakes) οὐ πῦρ οὐδὲ σίδηρος6/6οὐδὲ χαλκὸς ἀπείργει6/6µὴ φοιτᾶν ἐπὶ δεῖπνον, dove la similarità tra il v. 2 di Cratino (δείπνου φίλων ἀπείργειν) e i vv. 2s. di Eupoli appare evidente e, probabilmente, “anche la pur misteriosa ψῆφος φλεγυρά di Cratin. 62,2 K.–A. […] rimanda al πῦρ evocato nel primo verso del frammento di Eupoli” (Napolitano 2012, p. 128 n. 319, ibid. in gen. pp. 124–135); con un’immagine del tutto simile (nulla può trattenere i soggetti in questione dall’abbuffarsi), quindi, nei Kolakes i componenti del coro si autocelebravano come mangioni probabilmente nella parabasi252 e in Cratino Lampone veniva attaccato per la sua voracità, forse nell’agone (v. su-

252

V. Napolitano 2012, p. 126: “Mi sembra che l’ipotesi più verisimile sia quella di considerare i tre ferecratei del fr. 175 K.–A. come appartenenti ad una delle due sezioni liriche (ode o antode) della parte epirrematica della parabasi (o almeno, di una delle due parabasi, nel caso che i Kolakes prevedessero una parabasi secondaria) […] I parassiti-adulatori dovevano celebrare qui il proprio indomito e impavido coraggio di mangioni”.

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Cratino

pra). Rimane comunque ignoto il referimento preciso contenuto in βροτῶν ψῆφος φλεγυρά; diverse le possibilità: 1) Meineke FCG II.1 p.  44: “itaque ne ludibriis quidem et contumeliis Lamponem a conviviis prohiberi dicit”; 2) Pieters 1946, p. 76: un riferimento all’aiuto che Lampone avrebbe fornito a Pericle per l’ostracismo di Tucidide di Melesia: Cratino definisce ingiurioso il voto con chiara allusione antipericlea e sostiene, in maniera assai mordace, che nemmeno un voto di tale importanza avrebbe distolto Lampone dal banchettare; 3) Edmonds FAC I, p. 41 n. “he (sc. Lampon) seems to have been deprived, by a vote of the people, of the right to dine in the Prytaneum; but his friends saw to it that he did not lose by it, says Cratinus, and the right has been restored to him”; 4) Luppe 1963, p.  45: “War βροτῶν ψῆφος (“eine Entscheidung von Menschen”) vielleicht einen Tun der Götter gegenüberstellt, von den im folgendem (verlorenen) Teil die Rede war? Oder ist nur Ausdruck einer gewissen Wortfülle?”. Al v. 4 è detto che Lampone, per la sua voracità, τρίγλῃ δὲ κἄν µάχοιτο (v. 4): la triglia è nota per l’insaziabile appetito (v. ad loc.) e, quindi, si dice che Lampone, altrettanto insaziabile, potrebbe competere con questa, cfr. Zieliński 1885, p. 320: “wird es klar, dass Lampon vielmehr mit einer Barbe verglichen wird, weil er so gefrässig und so weing wählerisch sei” (v. anche Luppe 1963, p. 47 e infra ad loc. per il valore di µάχοιτο)253. A livello di contenuto, per la forma con cui è condotto l’attacco a Lampone e per alcune consonanze linguistiche, Zieliński 1882, p. 320 n. paragonava Ar. Ran 416–421 σκώψωµεν Ἀρχέδηµον,6/6ὃς ἑπτέτης ὢν οὐκ ἔφυσε φράτερας; –6/6νυνὶ δὲ δηµαγωγεῖ6/6ἐν τοῖς ἄνω νεκροῖσι,6/6κἄστιν τὰ πρῶτα τῆς ἐκεῖ µοχθηρίας. Λάµπωνα(Lampone (PA 8996, LGPN II s.6v. n. 2, PAA 601655, Kett 1966, pp. 54–57) era un indovino molto celebre ai tempi di Pericle, particolarmente legato allo statista e uno dei membri più influenti del suo milieu (Podlecki 1998, pp. 88–91. Sul legame particolare con Pericle esprime dubbi Stadter 1989, p. 83 con il richiamo, tra gli altri, ad Aristot. Rhet. III 1419a che testimonia un contrasto tra l’indovino e Pericle). Secondo Plut. Per. 6.2 (con Stadter 1989, pp. 82–85) Lampone spiegò che l’ariete unicorno nato nei possedimenti di Pericle indicava la futura eliminazione dell’opposizione politica da parte dello statista (il riferimento è, soprattutto, all’ostracismo di Tucidide di Melesia, probabilmente nel 443 a.C) e il suo potere assoluto; ancora Plutarco (praec. 253

Zieliński 1885, p. 320 n. rifiuta l’ipotesi di Meineke FCG II.1, p. 44 che τρίγλῃ δὲ κἂν µάχοιτο significhi “ne mullo quidem, vilissimo pisce, abstineat”.

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ger. reip. 15 [812d]) e altre fonti (Diod. Sic. XII 10,3–4, Hsch. θ 666, Sud. θ 418, Phot. θ 2036s.vv. θουριοµάντεις, cfr. Leschhorn 1984, 131–7) ricordano il ruolo di Lampone come ecista della colonia panellenica di Turi nel 444/3 3 2 a.6C.; in IG I 78 (ca. 422 a.6C., cfr. Meiggs–Lewis 1988 , pp. 217–223) Lampone è menzionato per avere contributo ad emanare un decreto che prevedeva di offrire le primizie alle divinità eleusine; Thuc.V 19,2 e V 24,1 lo menziona come il primo di parte ateniese a giurare in occasione della pace di Nicia del 421; infine egli godeva del privilegio di mangiare a spese pubbliche nel Prytaneion con la qualifica di µάντις o di ἐξηγητής (schol. Ar. Pac. 1084α–β), il che può aver influito sulla sua immagine di kōmōdoumenos ghiottone (in ogni caso un cliché sugli indovini, v. Contesto della citazione). In commedia Lampone è menzionato diverse volte: 1) Call. fr. 20 K.–A. e Lysipp. fr. 6 K.–A. come ghiottone (v. Contesto della citazione; per il passo di Callia anche Imperio 1998b, pp. 233–236); 2) Cratin. fr. 66 K.–A. e ancora Lysipp. fr. 6 K.–A., tràditi da Hsch. α 461, per due epiteti ingiuriosi, rispettivamente ἀγερσικύβηλις e ἀγύρτης (v. infra a fr. 66); 3) Cratin. fr. 125 K.–A. (Nemesis): il testimone (schol. Ar. Av. 521) riporta la notizia della menzione di Lampone, ma non fornisce alcun indizio sul suo perchè; 4) Ar. Av. 521 Λάµπων δ᾽ ὄµνυσ᾽ ἔτι καὶ νυνὶ τὸν χῆν᾽, ὅταν ἐξαπατᾶ τι, v. Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 174 n. 114: “Al cretese Radamanti, figlio di Zeus e di Europa e proverbiale modello di giustizia, si faceva risalire la norma di giurare non in nome degli dei, bensì in nome dell’oca, del cane, del montone e simili […] nelle fraudolente intenzioni di Lampone la formula «per l’oca» vale, evidentemente, come spergiuro, funzionale a non incorrere nell’ira degli dei ogniqualvolta egli dica falsità” (cfr. anche Dunbar 1995, p. 3576s.); 5) Ar. Av. 988, associato a Diopite, personaggio noto per il suo fanatismo religioso e per questo motivo oggetto di attacchi comici (PA 4309, LGPN II s.6v. n. 3, PAA 363105, Kett 1966, p. 33–35, Bagordo 2013, pp. 96–98 a Telecl. fr. 7 K.–A. [Amphiktyones]. Cfr. anche Froehde 1898, pp. 108–110); 6) Eupol. fr. 319 K.–A. (Chrysoun genos) Λάµπων οὑξηγητής, in relazione a chi possedeva l’incarico ufficiale di interpretare le leggi (ἐξηγητής); la brevità del frammento non consente di definire se questo richiamo sia letterale o scoptico, cfr. Imperio 1998b, p. 2356s. e n. 51 (con bibliografia); 7) adesp. com. 1105, 98–103 K.–A. (= CGFP 220; POxy 2743, fr. 8, col. ii, 5–10) Λάµπωνα δὲ τὸν κόρακος θεῶ π[..]….κ?[6/6τίς οὐκ ἂν ὁρῶν παρατίλαιτ’ ἐν κακοῖσιν .[6/6παίδων τ’ ἔραται µετὰ τυµπάνων τ?ε?π?α?.[6/6πόλεις δὲ βαρὺ στενάχουσι χρήµαθ’ ἃ[6/6µισθοὺς ξυνελέξατο πολλῶν ῥήσεω[ν6/6ὥστ’ οἰκοδοµεῖν πάρα καὶ παίδων .[ , dove Lampone è attaccato perché pederasta e

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Cratino

perché possessore di immense ricchezze; questo frammento è attribuito ora alle Drapetides (Austin CGFP fr. 220, p. 208, Perusino 1979, p. 1356s.), ora alle Thraittai (Tammaro 1975–1977, pp. 1016s.), ma anche non a Cratino (v. la dossografia in Kassel–Austin PCG VIII, p. 432). Un’ulteriore menzione di Lampone in commedia potrebbe essere in Ar. Nub. 332 Θουριοµάντεις, che alluderebbe al ruolo preminente che egli ebbe nella fondazione di questa colonia (v. supra), cfr. schol. ad loc. e Sommerstein 1996, p. 344 n. 123: „Θουριοµάντεις clearly points to Lampon, the µάντις who had been the oikist of the Thourioi colony […]. As he had been prominent since the 440s some of the comic references to him may date from before our period“); infine nel IV sec. a.6C. è testimoniata una commedia di Antifane intitolata Λάµπων (PCG II, fr. 1366s., p. 358 s.) dove appare chiaro che il nome proprio Lampone era “evidentemente ormai assurto a paradigma della maschera dell’indovino” (Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 175 n. 114). φλεγυρά(Deverbativo di φλέγω ‘incendiare, bruciare, ardere’ con il suffisso eteroclito *-u (φλεγ-υ, DELG s.6v., GEW s.6v.). Hsch. φ 590 (v. Hansen– Cunningham 2009 ad loc.) φλεγυρά· ὑβριστική, λαµπρά, offre due interpretamenta dell’aggettivo: il primo, ‘ingiuriosa, oltraggiosa’ è, con ogni verisimiglianza, quello di Cratino; il secondo, ‘ardente’, è senz’altro quello di Ar. Ach. 665 δεῦρο Μοῦσ᾽ ἐλθὲ φλεγυρὰ πυρὸς ἔ-/χουσα µένος ἔντονος Ἀχαρνική (il valore di Aristofane è confermato dalle due espressioni che seguono [πυρὸς ἔχουσα µένος e ἔντονος] e dall’immagine culinaria immediatamente successiva [vv. 667–669] che ne specificano il valore [Olson 2002, p. 244]; cfr. schol. ad loc. [665b ~ Sud. φ 530] φλεγυρά· λαµπρά, φέγγουσα, λάµπουσα, ἢ θερµὴ διὰ τοὺς ἄνθρακας· ἀντὶ τοῦ ἰσχυρά), v. Hansen–Cunningham 2009, p. 166 (il fatto che lemma e interpretamenta siano al femminile è coerente con il fatto che la glossa di Esichio possa essere effettivamente relativa alle due occorrenze comiche dove l’aggettivo è associato a sostantivi di genere femminile, ψῆφος in Cratino e Μοῦσα in Aristofane). Le due citate sono le uniche occorrenze in commedia; l’unica altra attestazione che possediamo dell’aggettivo era in Ippocrate, in senso tecnico medico, secondo la testimonianza di Galen. ΧΙΧ 152 (Linguarum seu dictionum exoletarum Hippocratis explicatio), che glossa l’aggettivo con ‘infiammato’: φλεγυρόν: πυρῶδες, τὸ οἷον φλέγον. Non è escluso che possa trattarsi di uno dei termini comuni al linguaggio della medicina e della commedia, cfr. comm. a fr. 41,1 (Dionysalexandros) ᾑµώδεις. ἐρυγγάνει(‘Ruttare’ (“issu d’un élément radical exprimant un bruit rauque et reposant en dernière analyse sur l’imitation expressive d’un son” DELG s.6v., cfr. GEW s.6v.), utilizzato in modo assoluto (come qui), v. Hippocr. vict. 3,76 καὶ τὸ µὲν ἄνω ἐρυγγάνεται, τὸ δὲ κάτω ὑποχωρέει, o, più frequentemente, con acc., v. Eur. Cycl. 523 ἐρυγγάνω γοῦν αὐτὸν (i.e. Βάκχιον, v. 521)

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ἡδέως ἐγώ, Eupol. fr. 204 K.–A. (Marikas) ἔχοντα τὴν σφραγῖδα καὶ ψάγδαν ἐρυγγάνοντα, cfr. anche Ar. Vesp. 913, 1151. La forma ἐρυγγαν- è quella di comune impiego in attico (poesia e prosa, v. gli esempi già citati) e corrisponde ad ἐρεύγοµαι, già omerico (ι 374 ψωµοί τ’ ἀνδρόµεοι· ὁ δ’ ἐρεύγετο οἰνοβαρείων). βρύχει(L’etimologia è incerta (GEW s.6v., DELG s.6v.); vale qui ‘divorare’, come anche in Ar. Pac. 1317 πρὸς ταῦτα βρύκετ’ (“‘start biting’ (inchoative)”, Olson 1998, p. 313, un valore che si potrebbe intendere anche nel passo di Cratino, cfr. Interpretazione), Strattis fr. 12 K.–A. (Kallippidēs) αὐτίκα δ᾽ ἥρπασε τεµάχη6/6θερµάς τε κάπρου φλογίδας ἔβρυχέ τε πανθ᾽ ἅµα (su cui v. Orth 2009, p. 98), Eur. Cycl. 373, 372, 374 ἑφθά τε δαινύµενος, µυσαροῖσί τ’ ὀδοῦσι6/6κόπτων βρύκων6/6θέρµ’ ἀπ’ ἀνθράκων κρέα (cfr. 358) e forse Archipp. fr. 37,2 K.–A. (Ploutos) (A.) ἔδακεν; κατὰ µὲν οὖν ἔφαγε κἀπέβρυξε. 〈(B.) τίς;〉 e Hermipp. fr. *47,6 K.–A. (Moirai) παραθηγοµένης βρύχεις κοπίδος. Secondo Philemon. attic. apud Cohn 1898, p. 356 e Moeris β 24, attico è βρύκω, non βρύχω (βρύχ- è presente nello ionico di Ippocrate [mul. affect. 7,22, 36,13 etc.] e nella poesia di epoca ellenistica in Lycophr. 678 e Callim. fr. 649 Pf. [su cui Pfeiffer 1949, p. 433], ma v. infra) e secondo [Ammon.] diff. adf. vocab. 112 le due forme si differenziano anche per significato: βρύκειν καὶ βρύχειν διαφέρει. βρύκειν µὲν γὰρ διὰ τοῦ κ τὸ πρίειν τοῖς ὀδοῦσι, βρύχειν δὲ διὰ τοῦ χ ἐπὶ τοῦ λέοντος τὸ βρύχεσθαι, ma la distinzione di significato e di forma non è provabile e sembra essere un artificio grammaticale (“does not hold good” LSJ s.6v.). Per la grafia, βρύχει in Cratino si può conservare nonostante l’oscillazione delle testimonianze: in commedia la forma βρύχ-, a livello di tradizione manoscritta, è presente nei già citati passi comici di Strattis (cod. A di Ateneo) ed Ermippo (cod. Y di Plutarco) e in entrambi è conservato da Kassel–Austin ad locc. (PCG VII, p. 630, cfr. Orth cit. supra; PCG V, p. 582); βρυκ-, considerato attico, è presente invece in Ar. Pac. 1315 e Av. 26, mentre in Eur. Cycl. 358 e 372 e Soph. Phil. 745 i codici hanno βρύχ-, ma è generalmente accettata la correzione in βρύκ- (cfr. risp. Seaford 1984, p. 76 e Schein 2013, p. 89). La testimonianza che βρύκω sarebbe forma attica, può rientrare nella generale tendenza dei grammatici antichi a definire attico “ciò che è disusato, ciò che è aulico, ciò che è arcaico” (Rosenkranz 1964, p. 267, cfr. Degani 1967, p. 26 n. 20 e 1968, p. 385; βρύχω è la forma normalmente impiegata dall’epoca ellenistica in avanti, v. LSJ s.6v.). τρίγλῃ(It. triglia, corrispondente a due varietà ittiologiche, Mullus surmuletus (L.), triglia di scoglio, e Mullus barbatus (L.), triglia di fango, v. Thompson 1947, pp. 264–268, Lythgoe 1971, p. 1116s., Davidson 1981, pp. 92–95, Olson– Sens 2000, p. 173, Dalby 2003, p. 280 (Red Mullet). In commedia la triglia è spesso menzionata in elenchi di cibi: Epich. fr. 124,5 K.–A., Sophr. fr. 49 K.–A., Cratin. fr. 236,2 K.–A., fr. 358 K.–A., Plat. com. fr. 189, 20 K.–A., Phylill. fr. 12,3

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Cratino

K.–A., Nausicr. fr. 1, 6–11 K.–A., Ephipp. fr. 12,3 K.–A., Antiph. frr. 27,10 e 130, 8 K.–A., Mnesim. fr. 4,38 K.–A., Sotad. com. fr. 1,11 K.–A., Matro SH 534, 27 e 31, Archestr. fr. 42 Olson–Sens (di cui v. comm. p. 173) e v. anche Athen. VII 324c-325f che ne elenca le caratteristiche con la citazione ad hoc di frammenti di vari autori. Una particolarità della triglia, i barbigli sotto la mascella inferiore, dà luogo alla frequente denominazione γενειῆτις o γενειᾶτις, cfr. Sophr. fr. 49 K.–A., Eratost. fr. 12 Powell, Cic. Att. II, 1,7, Plin. Nat. Hist. IX 64; caratteristico ne è anche il colore rosso o rosa o carminio, per cui v. Cratin. fr. 236,2 K.–A. (Αἰξωνίδ᾽ ἐρυθρόχρων … τρίγλην) e cfr. Nausicr. fr. 1, v. 7 K.–A., Oppian. I 130, Artemid. II 14, p. 129,11 P.; Ov. Hal. 123, Plin. Nat. Hist. IX, 65–66; per la sua voracità, v. Ael. nat. an. II 41 ἔστι δὲ θαλαττίων ζῴων τρίγλη λιχνότατον, καὶ ἐς τὸ ἀπογεύσασθαι παντὸς τοῦ παρατυχόντος ἀναµφιλόγως ἀφειδέστατον […] φάγοι δ’ ἂν τρίγλη καὶ ἀνθρώπου νεκροῦ καὶ ἰχθύος. µάχοιτο(‘Gareggiare, competere’ con qualcuno (τινι), come in Α 2716s. κείνοισι δ’ ἂν οὔ τις6/6τῶν οἳ νῦν βροτοί εἰσιν ἐπιχθόνιοι µαχέοιτο e σ 31 πῶς δ’ ἂν σὺ νεωτέρῳ ἀνδρὶ µάχοιο; (“sich messen mit […] nur ist bei Homer die ursprüngliche Bedeutung (“kämpfen”) noch spürbarer als an der Kratinosstelle”, Luppe 1963, p. 47), v. anche Ar. Vesp. 11906s. (ἐµάχετο …6/6Ἐφουδίων παγκρατίον Ἀσκώνδᾳ, anche qui con il significato originario di combattere, riferito al pancrazio, più evidente che in Cratino), cfr. ibid. 1195.

fr. 63 K.–A. (59 K.) Schol. (T) Plat. Phileb. 14a3–4 (p. 50 Green = 2, p. 88 Cufalo) παροιµία ὁ µ ῦ θ ο ς ἀ π ώ λ ε τ ο · τούτῳ χρῶνται τῷ λόγῳ οἱ λέγοντές τι πρὸς τοὺς µὴ προσέχοντας. µέµνηται δὲ αὐτῆς καὶ Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισι καὶ Κράτης Λαµείᾳ (fr. 25 K.–A.) Proverbio ‘i l r a c c o n t o è a n d a t o p e r s o ’. Utilizzano questa espressione coloro che dicono qualcosa a chi che non presta attenzione. Se ne ricorda anche Cratino nelle Drapetides e Cratete nella Lamia

Metro(Ignoto ([k]lkklkk) Bibliografia(Runkel 1827, p. 206s. (fr. XI), Meineke FCG II.1 (1839), p. 52 (fr. XII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 18, Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 12), Kock CAF I (1880), p. 306s., Edmonds FAC I (1957), p. 426s., Luppe 1963, p. 49, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 153, Storey FOC I (2011), p. 3006s. Contesto della citazione(In Plat. Phileb. 14a3–4 Socrate utilizza l’espressione οὗτος ὁ λόγος ὥσπερ µῦθος ἀπολόµενος οἴχοιτο, nell’ambito della confu-

∆ραπέτιδες (fr. 63)

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tazione delle tesi del suo interlocutore Protarco; ad essa è relativo lo scolio, che attesta che il nesso µῦθος ἀπολόµενος qui impiegato è un proverbio, lemmatizzato come ὁ µῦθος ἀπώλετο (ma l’articolo non ricorre né in questo caso, né nell’altro del Teeteto né in quello, di segno opposto, della Repubblica, v. infra) e di cui viene dato un interpretamentum. Di seguito viene detto che di questo proverbio facevano uso Cratino e Cratete, forse nel medesimo significato offerto dallo scoliaste (v. infra). Interpretazione(Oltre che in Phileb. 14a3–4, il proverbio (ὁ) µῦθος ἀπώλετο è utilizzato da Platone anche in Theaet. 164d8–9 καὶ οὕτω δὴ µῦθος ἀπώλετο ὁ Πρωταγόρειος, dove lo scolio ad loc. (p. 26 Greene = 78, p. 56 Cufalo) offre una spiegazione differente: ἐπὶ τῶν τὴν διήγησιν µὴ ἐπὶ πέρας ἀγαγόντων; entrambi gli interpretamenta si ritrovano, identici, in Greg. Cypr. Leid. II 90–91 (CPG II, p. 83 Leustch–Schneidewin), “fort. ex schol.” (Cufalo 2007, p. 88). Una spiegazione ancora differente nello scolio ad Plat. Rp. X, 621b (p. 276 Greene; in questo passo di Platone è utilizzata una versione di segno opposto del proverbio: µῦθος ἐσώθη καὶ οὐκ ἀπώλετο): τοῖς µὲν οὖν πολλοῖς προστιθέναι τοῖς µύθοις ἔθος ἦν ὅτι µῦθος ἀπώλετο, δεικνύναι βουλοµένοις ὡς ἄρα οἱ µῦθοι λέγουσι µή ὄντα, καὶ ἅµα ἐρρέθησαν καὶ οὔκ εἰσι. Πλάτων δὲ τοὐναντίον πανταχοῦ σῴζεσθαί τε καὶ σῴζειν φησὶ τοὺς µύθους τοὺς παρ᾽ αὐτῷ, µάλα γε εἰκότως κτλ., cfr. Phot. µ 579 µῦθος ἐσώθη· ἐπίρρηµά ἐστι λεγόµενον ἐπ᾽ ἐσχάτῳ τοῖς λεγοµένοις µύθοις τοῖς παιδίοις (“gl. aliunde non nota”, Theodoridis 1998, p. 583). Non si hanno altri esempi dell’utilizzo del proverbio e non è possibile determinare quale delle spiegazioni proposte sia preferibile (e, di fatto, esse potevano anche coesistere); a proposito delle due presenti negli scoli a Filebo e Teeteto, si può, forse, notare che nella prima l’interpretamentum appare indipendente dall’utilizzo dell’espressione nel testo del filosofo e potrebbe perciò essere preferibile, mentre, al contrario, nella seconda appare direttamente legata al contesto del passo platonico al quale è relativo e potrebbe perciò essere autoschediastica. Lo scoliaste al Filebo attesta che Cratino e Cratete avevano utilizzato (ὁ) µῦθος ἀπώλετο, subito dopo averne riportato l’interpretamentum πρὸς τοὺς µὴ προσέχοντας ‘a chi non presta attenzione’, ed è possibile che questo fosse il senso in cui i due commediografi utilizzavano il proverbio; ma non si può escludere che lo scoliaste citasse Cratino e Cratete come loci paralleli, perché qui trovava attestato (ὁ) µῦθος ἀπώλετο, ma che in essi il suo valore fosse differente da quello che lo scoliaste stesso riporta. Come mostrano i due casi di Platone, il proverbio (ὁ) µῦθος ἀπώλετο è generico e utilizzabile per diversi referenti: impossibile, quindi, determinare il contesto del suo utilizzo nei due commediografi (per Cratete, v. Bonanno 1972, p. 113 che respinge, giustamen-

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Cratino

te, l’ipotesi “che con quest’espressione Cratete potesse alludere all᾽ ἀπιστία che, nei confronti dei miti tradizionali, si era diffusa per opera del movimento sofistico […] Ma il significato di µῦθος è quello di «racconto», non di «mito», come si evince peraltro chiaramente dal testimone”).

fr. 64 K.–A. (60 K.) Zenob. Ath. III 33 = Zenob. vulg. VI 24 = Prov. Bodl. 925 = Diogen. Vind. III 85 ὕ δ ω ρ π α ρ α ρ ρ έ ε ι · αὕτη τάττεται ἐπὶ τῶν ἐκ παντὸς ἔργου ἐπαγγελλοµένων καταπράξασθαι τὸ προκείµενον. µετενήνεκται δὲ ἀπὸ τῶν ὑπὸ σπουδῆς καὶ εἰς ῥέοντα πλοῖα εἰσβαινόντων καὶ παραβαλλοµένων τῷ κινδύνῳ. µέµνηται δὲ αὐτῆς Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν L ’ a c q u a s c o r r e : questo (proverbio) si impiega per chi ad ogni opera annuncia di aver compiuto ciò che si è proposto. È usato metaforicamente da coloro che per la fretta si imbarcano anche su una nave che fa acqua e si espongono al pericolo. Se ne ricorda Cratino nelle Drapetides

Metro(klklkl Bibliografia(Runkel 1827, p. 20 (fr. X), Meineke FCG II.1 (1839), p. 526s. (fr. XIV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. vi e p. 18, Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 14), Kock CAF I (1880), p. 31, Crusius 1889, p. 35, Crusius 1910, p. 90, Edmonds FAC I (1957), p. 426s., Luppe 1963, p. 38, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 154, Storey FOC I (2011), p. 3006s., Testo(La forma verbale παραρρέει che ricorre nel lemma di tutti i testimoni è di uso tardo (Kühner–Blass II p. 138, Helbing 1907, p. 1106s.) e, quindi, certamente estranea a Cratino (“a Cratino utique aliena”, Kassel–Austin PCG IV, p. 154). Lo stesso proverbio ricorre anche in Phot. υ 28 (cfr. Interpretazione) che ha come lemma ὕδωρ παραρρέῃ; nei codici di Fozio, g ha παραρέη254 e da questa lezione (stampata da Porson 1822, II, 615,20) Meineke (FCG ed. min. I, p. vi) proponeva possibilmente in Cratino παραρρεῖ (“scribendum dicerem ὕδωρ παραρρεῖ, nisi alio duceret Photius”); nel codice z di Fozio ricorre παραρρέῃ ρ “sine ι subscripto et alt. litt. ρ supra lin. addita” (παραρ έη, Thedoridis 2013, p. 517; la corretta grafia del verbo in Fozio è παραρρέη〈ι〉, perché in nessuno dei 254

Meineke legge la forma in Fozio come παραρέῃ, probabilmente correggendo automaticamente, ma il testo del cod. g stampato da Porson 1822, 2, p. 615,20 riporta παραρέη, senza ι sottoscritto e, d’altronde, questa caratteristica è comune a tutti i manoscritti di Fozio, v. supra.

∆ραπέτιδες (fr. 64)

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codici è presente la ι sottoscritta finale della desinenza verbale, Theodoridis 2013 ibid.) e questa forma, in quanto difficilior, appare preferibile. La presenza di παραρρέῃ in Fozio potrebbe essere indizio che il lemma ὕδωρ παραρρέῃ rappresenti gli ipsissima verba di Cratino (Thedoridis 2013, p. 517) e che il testo sia stato poi ‘normalizzato’ con una forma tarda (παραρρέει) in sede di trasmissione. Ancora Meineke (FCG ed. min. I, p. vi) proponeva exempli causa dal lemma dello stesso Fozio che “Cratinum tale quid scripsisse, πράξω δὲ ταῦτα κἂν ὕδωρ παραρρέῃ”; questa ipotesi potrebbe essere effettivamente valida per la pericope finale κἂν ὕδωρ παραρρέῃ (lklklkl: potrebbe essere la parte finale di un trimetro giambico dopo la cesura pentemimere, cfr. Luppe 1963, p. 38), per la quale Crusius 1910, p. 90 richiamava il parallelo di Liban. epist. 109,2 (10, p. 108,11 F.) κἂν ὕδωρ, φασί, παραρρέῃ, il caso simile di Ar. Ran. 685 ὡς ἀπολεῖται κἂν ἴσαι γένωνται, lemmatizzato da Hsch. κ 70 come κἂν ἴσαι e in prov. Bodl. 532 κἂν ἴσαι ψῆφοι γένωνται, e per Cratino notava che “der Eingang des Halbverses 〈κἂν〉 ist von dem Lemmatisten verstümmelt, der das Stichwort ὕδωρ voranschieben wollte”. Interpretazione(Accanto ai testimoni di Cratino il proverbio ricorre con spiegazione simile anche in Phot. υ 28 ὕδωρ παραρρέῃ· ἐπὶ τῶν ἐπαγγελλοµένων παντὶ σθένει σπουδάσειν, ὡς κἂν εἰς ῥέοντα πλοῖα ἐµβῆναι οὐκ ὀκνησάντων. Il valore di ῥέοντα πλοῖα è ‘navi che fanno acqua’ v. Crusius 1889, p. 35 e il confronto con Zenob. Ath. III 58 = Diogen. VIII 31: τὸ Μηλιακὸν πλοῖον· επὶ τῶν ἄγαν ῥεόντων πλοίων. κατηράσαντο γὰρ Λακεδαιµόνιοι µηδέποτε στεγνὰ τὰ πλοῖα Μηλίων γενέσθαι. παραβάται γάρ (fr. anche Zenob. vulg. I 75); questo significato è accettato anche da Kassel–Austin PCG IV, p. 154: “idem (i.e. Crusius) intellexit πλοῖα ῥέοντα navigia esse laxatis compagibus aquam trahentia” (v. anche LSJ s.6v. 7). Ne risulta, di conseguenza, il valore del proverbio: viene paragonato chi annuncia di portare a termine il proprio obiettivo con ogni mezzo e si trova, quindi, talora in pericolo, a chi per la fretta si imbarca su una nave che fa acqua e si mette quindi in pericolo, cfr. Luppe 1963, p. 38: “Der Erklärung zufolge wird die Redewendung auf Leute bezogen, die selbst unter grossen Gefahren etwas tun wollen”255. Così anche già la spiegazione di Erasm. Adagia 2164 (chil. III cent. 22) Ὕδωρ παραρέει, id est 255

A Crusius 1889, p. 35 si deve anche la confutazione di una diversa interpretazione del proverbio, quella di Kock CAF I, p. 38: “sententia quam Zenobius exposuit vehementer dubito an proverbio subesse non possit. neque enim Athenienses tam timidi erant ut navigia fluvione agitata (ῥέοντα?) conscendere vererentur. semper in mentem venit Horatii Epist. I,2,42 exspectat dum defluant amnis: at ille labitur et labetur in omne volubilis aevum. Nam dictum videtur proverbium de eis qui aliquid omni

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Cratino

‘perfluit aqua’, sive ‘praeterfluit’. Zenodotus et Suidas admonent dici solitum de eo, qui nihil negotii recusaret et quidlibet, quod mandatum esset, effecturum sese polliceretur, quippe usque adeo promptus ad quidvis suscipiendum, ut nec navim perfluentem ingredi gravaretur, contempto aquae influxu, cuius est affluere ac defluere”, cfr. Heinimann–Kienzle 1981, p. 141 che per ‘navim perfluentem’ di Erasmo richiamano Ter. Eun. 105 plenus rimarum sum, hac atque illac perfluo (“Er. versteht also ῥέοντα richtig als „leck“”). Ignota rimane la possibilità di identificare referente e contesto dell’utilizzo di questo proverbio. Secondo Lelli 2006, p. 471 si può confrontare Diogen. II 61 (ἄλλως ἀναλίσκεις ὕδωρ· ἐπὶ τῶν µαταιολογούντων. ἀπὸ τῶν ἐν τοῖς δικαστηρίοις πρὸς ὕδωρ λεγόντων) e pensare all’utilizzo della clessidra nei tribunali ateniesi (il proverbio indicherebbe quindi, perdere tempo, contro l’interpretamentum di Zenobio); inoltre il riferimento potrebbe essere o alla spedizione di Turi o alla nota inconcludenza di Pericle, cfr. fr. 326 K.–A. (inc. sed.) πάλαι γὰρ αὐτὸ6/6λόγοισι προάγει Περικλέης, ἔργοισι δ᾽ οὐδὲ κινεῖ (sull’inconcludenza di Pericle, come tratto della sua rappresentazione come tiranno, v. Telò 2007, p. 95 e p. 177 e n. 6).

fr. 65 K.–A. (61 K.) Harpocr. p. 158,15 Dind. (Ι 4 Keaney) Ἱ ε ρ ὰ ὁ δ ὸ ς ἐστιν ἣν οἱ µύσται πορεύονται ἀπὸ τοῦ ἄστεος ἐπ᾽ Ἐλευσῖνα. βιβλίον οὖν ὅλον Πολέµωνι γέγραπται περὶ τῆς ἱερᾶς ὁδοῦ (p. 44 Pr.). µνηµονεύει δ᾽ αὐτῆς Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν H i e r a h o d o s (strada sacra) è (quella) che percorrono gli iniziati dalla città fino ad Eleusi. Un intero libro è stato scritto da Polemone riguardo la via sacra. E di questa si ricorda Cratino nelle Drapetides

Metro(Ignoto (kklku) Bibliografia(Runkel 1827, p. 21 (fr. XIV), Meineke FCG II.1 (1839), p. 53 (fr. XV), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 18, Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 15), Kock CAF I (1880), p. 31, Leo 1878, p. 409, Zieliński 1885, p. 320 n., Pieters 1946, p. 69, Edmonds FAC I (1957), p. 426s., Luppe 1963, p. 50, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 154, Bakola 2010, p. 154 n. 117, Storey FOC I (2011), p. 301

studio se perfecturos esse pollicentur, occasionem autem rei gerendae praetermittunt”. Ma il valore di ῥέοντα “che fa acqua” proposto da Crusius è senz’altro preferibile.

∆ραπέτιδες (fr. 65)

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Interpretazione(Il lemma di Arpocrazione è relativo alla menzione della ἰερὰ ὁδός in una perduta orazione di Iseo: Ἱσαῖος ἐν τῇ πρὸς ∆ιοφάνην ἀπολογία (v. Isaei orationes cum deperditarum fragmentis. Ed. Th. Thaleim, Lipsiae 1903, p. 190). La ἱερὰ ὁδός (strada sacra) era una delle strade che partivano dall’ἄστυ di Atene e, in particolare, quella che dalla porta adiacente al fiume Eridano 3 2 conduceva fino alla città di Eleusi256. In IG I 1906 e II 2624 appare denominata come ἡ ὁδὸς ἡ Ἐλευσινάδε (v. anche Phot. ι 44 ἱερὰ συκῆ· οὔτω λέγεται ἡ παρὰ τὴν Ἐλευσῖνάδε ὁδόν, cfr. Theodoridis 1998, p. 318), verosimilmente un “amtlicher Name” che si accostava a quello popolare di ἱερὰ ὁδὸς (Judeich 1931, p.  186s.); quest’ultimo è senza dubbio il nome con cui la via è nota nella maggioranza delle fonti (oltre ad Arpocrazione e alla monografia con questo nome di Polemone, v. ad es. Dicaearch. fr. 21 W. ἐπὶ τὴν Ἀθηναίων πόλιν ἀφικνούµενος κατὰ τὴν ἀπ᾽ Ἐλευσῖνος τὴν ἱερὰν ὁδὸν καλουµένην, Paus. I 36.3 ἰοῦσι δὲ ἐπ᾽ Ἐλευσῖνα ἐξ Ἀθηνῶν ἥν Ἀθηναῖοι καλοῦσιν ὁδὸν ἱερὰν κτλ., Phot. ι 45 ἱερὰ ὁδὸς· ἥν οἱ µύσται πορεύονται ἀπὸ τοῦ ἄστεος ἐπὶ Ἐλευσῖνα) ed è dovuto al fatto che attraverso questa strada avveniva il passaggio della processione dei grandi misteri (Plut. Sull. 14, Pfuhl 1900, pp. 36–41), il 19 del mese attico di Boedromione (ca. metà settembre–metà ottobre). La lunghezza dell’intero tracciato di tale strada, tra Atene ed Eleusi, era di circa venti chilometri, la larghezza di circa cinque e tutto lungo i suoi fianchi si trovavano tombe e santuari che rappresentavano talora punti di sosta della processione, molti dei quali presenti nella dettagliata discussione di Paus. I 36.3–38.5; nell’antichità una monografia su questa strada era stata scritta dal periegeta Polemone di Ilio, probabile fonte della citata descrizione di Pausania (Beschi–Musti 1982, p. 403), cfr. (con riferimenti anche agli scavi archelogici) RE VIII.2 (1913) s.6v. ἱερὰ ὁδός, col. 1400 (Bölte), Judeich 1931, p. 1866s., I. Travlos Bildlexikon zur Topographie des antiken Attika, Tübingen 1988, p. 2996s., 3026s. Ipotesi più volta avanzata è che il riferimento alla ἱερὰ ὁδός fosse in qualche misura connesso con Teseo (per la cui presenza scenica, v.  p.  3166s. e Contenuto): secondo quanto narra Plut. Thes. 116s., l’eroe uccise Cercione ad Eleusi e poco dopo, superata qualche altra avventura, arrivò ad Atene: quindi “nach dem Kampfe mit Kerkyon wandelte Theseus die heilige Strasse nach Athen”, Leo 1878, p. 409, cfr. Edmonds FAC I, p. 43 n. b, Luppe 1963, p. 50 e Bakola 2010, p. 154 n. 117 (più genericamente Kaibel apud Kassel–Austin PCG 256

La testimonianza di Arpocrazione indica inequivocamente che si parla di questa strada. Come ἱερὰ ὁδός erano note, però, altre due strade: una che portava a Delfi (Hdt. VI 34) e una da Elide a Olimpia (Paus. V 25,7).

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Cratino

IV, p. 154: “hac via Theseus Trozene profectus Athenas rediit”). Secondo Zieliński 1885, p. 320 n. la menzione della ἱερὰ ὁδὸς si unisce all’attacco a Lampone presente nel fr. 62 K.–A. (ma di questo supposto legame non viene data una spiegazione).

fr. 66 K.–A. (62 K.) Hsch. α 461 ἀ γ ε ρ σ ι κ ύ β η λ ι ς· Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν ἐπὶ Λάµπωνος. τὸν αὐτὸν ἀ γ ύ ρτ η ν κ α ὶ κ υ β η λ ι σ τ ὴ ν εἶπεν, οἱονεὶ θύτην καὶ µάντιν. κύβηλιν γὰρ ἔλεγον τὸν πέλεκυν. ὅθεν καὶ Λύσιππος ἐν Βάκχαις (fr. 6 K.–A.) τὸν αὐτὸν 〈ὡς sive εἰς add. Bergk〉257 ἀγύρτην κωµῳδεῖ a g e r s i k y b ē l i s: Cratino nelle Drapetides in riferimento a Lampone. Definì lo stesso a g y r t ē n e k y b ē l i s t ē n , ossia sacrificatore e indovino. Chiamano infatti kybēlis l’ascia. Da cui anche Lisippo nelle Baccanti prende in giro lo stesso (i.e. Lampone) 〈in quanto〉 agyrtēn Sud. κ 2595 κυβηλίσαι· πελεκῆσαι. κύβηλις γὰρ ὁ πέλεκυς (hucusque = Phot. κ 1148  = Hsch. κ 4377) καὶ ἀγερσικύβηλις, ὁ θύτης. Κρατῖνος ∆ραπετίσιν ἐπὶ Λάµπωνος εἶπε τὸν ἀ γ ύ ρ τ η ν καὶ κ υ β η λ ι σ τ ή ν kybēlisai: pelekēsai (tagliare con la scure). kybēlis infatti (è) la scure e agersikybēlis il sacrificatore. Cratino nelle Drapetides in riferimento a Lampone lo definì a g y r t ē n e kybēlistēn b

Σ α 261 = Phot. α 146 ἀ γ ε ρ σ ι κ ύ β η λ ι ν· Κρατῖνος Λάµπωνα τὸν µάντιν, ὡς ἀγύρτην καὶ θύτην· κύβηλις γὰρ ὁ πέλεκυς. οἱ δὲ ἐγερσικύβηλιν ἐν τῷ δράµατι γράφουσι, τὸν ἐφ᾽ ἑαυτὸν ἐγείροντα τὸν πέλεκυν a g e r s i k y b ē l i n: Cratino Lampone l’indovino, in quanto a g y r t ē n e sacrificatore. Kybēlis infatti è l’ascia. E alcuni nella commedia scrivono egersikybēlin, chi solleva l’ascia per se stesso Εt. gen. α 22 (Et. magn. p. 8,9, Et. Sym. α 49) ἀ γ ε ρ σ ι κ ύ β η λ ι ν· κύβηλις λέγεται ὁ πέλεκυς ὁ µαντικὸς. οἰ δὲ τὸν ἐφ᾽ ἑαυτὸν ἐγείροντα τὸν πέλεκυν. ἢ θύτην. ἄγερσιν γὰρ ἀγερµὸν ἢ ἀθροισµόν. Κρατῖνος ἐν ∆ραπέτισιν

257

L’integrazione in Bergk 1838, p. 46. Cfr. Bagordo 2014, p. 61 con il rimando a Kassel–Austin PCG V, p. 328 ad Eupol. fr. 61 (Autolykos a b).

∆ραπέτιδες (fr. 66)

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a g e r s i k y b ē l i n: kybēlis è detta l’ascia dell’indovino. E alcuni chi solleva l’ascia per se stesso. O sacrificatore. agersin infatti (è) la colletta (agermon) o la raccolta (athroismon). Cratino nelle Drapetides

Metro(Ignoto (agersikybēlis: klkklu; agyrtēn: kll; kybēlistēn: klll) Bibliografia(Runkel 1827, p. 21 (fr. XII), Bergk 1838, p. 466s., Meineke FCG II.1 (1839), p. 516s. (fr. XI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 176s., Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 11), Kock CAF I (1880), p. 31, Meyer 1923, p. 1196s., Pieters 1946, p. 776s., Edmonds FAC I (1957), p. 426s. Luppe 1963, pp. 47–49, Schwarze 1971, p. 76 e n. 182, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 1546s., Storey FOC I (2011), p. 301 Contesto della citazione(Cratino è certamente indicato nei diversi testimonia come autore del composto agersikybēlis, un hapax che egli utilizzava nelle Drapetides per l’indovino Lampone. Per quanto riguarda la pericope di Esichio τὸν αὐτὸν ἀγύρτην καὶ κυβηλιστὴν εἶπε, i due sostantivi sono, con ogni probabilità, ipsissima verba di Cratino, impiegati ancora nelle Drapetides, come mostra la pericope finale di Sud. κ 2595 Κρατῖνος ∆ραπετῖσιν ἐπὶ Λάµπωνος εἶπε τὸν ἀγύρτην καὶ κυβηλίστην; questa appare l’interpretazione più immediata dei due testimonia, convincentemente argomentata da Luppe 1963, p. 476s., che traduce la pericope di Esichio “ebendiesen Mann (der gerade erwähnten Lampon) nannte er (Kratinos) ἀγύρτης und κυβηλιστής” e nota: 1) che la stessa costruzione è presente in Esichio anche nella successiva pericope ὄθεν — κωµῳδεῖ, che chiama in causa il commediografo Lisippo: τὸν αὐτόν indica senz’altro Lampone, e ἀγύρτην l’epiteto di questi (Luppe 1963, p. 48 n. 43 traduce: “auf Grund der Kratinosstelle (ὄθεν) verspottete denselben auch Lysipp als ἀγύρτης” e immagina, quindi, una dipendenza di Lisippo da Cratino); 2) che i due sostantivi agyrtēs e kybēlistēs sono rari, presenti come glosse nello stesso Esichio (α 886 ἀγύρτης· ὀχλαγωγός; κ 4373 κυβηλικὸν τρόπον· 〈τῷ πελέκει κακουργῆσαι〉 [adesp. com. *373 K.–A.]; κ 4375 κυβηλιστάς· καὶ κοβάλους. τοὺς κακούργους λέγει; κ 4376 κύβηλις· µάχαιρα. ἄµεινον δὲ πέλεκυν, ᾧ τὰς βοῦς καταβάλλουσι, cfr. Phot. κ 1149) e difficilmente potevano spiegare la neoformazione agersikybēlis, esserne cioè interpretamenta; 3) che se agyrtēs e kybēlistēs fossero interpretamenta e non verba Cratini, non si spiegherebbe perché dopo viene aggiunta un’ulteriore spiegazione: οἱονεὶ θύτην καὶ µάντιν (probabilmente chiastica: θύτης si riferisce a κυβηλιστής e µάντις ad ἀγύρτης, v. Interpretazione). Condividono questa interpretazione anche Kassel–Austin PCG IV, p. 155 i quali per agyrtēs e kybēlistēs notano: “incertum tamen utrum in eadem fabula an in alia his verbis usus sit poeta” (analogamente Luppe 1963, p. 48: “ob Sie zu diesem Stück gehörten, ist aus

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Cratino

der Hesychglosse nicht zu entnehmen”), ma, se si accetta che in Esichio queste due parole appartenessero a Cratino, la testimonianza di Sud. κ 2595 (v. supra) indica chiaramente una provenienza dalle stesse Drapetides (a meno di non pensare ad un utilizzo delle stesse parole in due commedie differenti, nelle Drapetides come testimonia Sud. κ 2595 e in un’altra commedia non nota cui si riferisce Esichio). Non appare, invece, probabile l’interpretazione di Bergk 1838, p. 46 secondo cui agyrtēs e kybēlistēs sarebbero parte dell’interpretamentum di Esichio e, quindi, in Sud. κ 2595 “extrema verba [i.e. Κρατῖνος ∆ραπετίσιν ἐπὶ Λάµπωνος εἶπε τὸν ἀγύρτην καὶ κυβηλιστήν] addita sunt ad explicandam vocem ἀγερσικύβηλις, eodem modo quo Hesychius dixit: τὸν αὐτὸν ἀγύρτην καὶ κυβηλιστήν, quae quidam258 male sic interpretatus est, ac si his ipsis vocibus Cratinus esset usus”; v. anche Meineke FCG II.1, p. 51: “quae [i.e. Hsch. α 461] sic intelligenda videtur ut Cratinus nomine ἀγερσικύβηλις eundem hominem tanquam ἀγύρτην sive µάντιν et tanquam κυβηλιστήν sive θύτην significaverit”. Non probante il fatto che in Σb α 261 = Phot. α 146 ὡς ἀγύρτην καὶ θύτην spieghi il lemma ἀγερσικύβηλιν: questa glossa è, infatti, “verkürzt und nimmt nur zwei Worte (ἀγύρτης und θύτης) als Erklärung auf und kann deshalb ohne weiteres nicht als Gegenargument dienen” (Luppe 1963, p. 48; si nota inoltre che ἀγύρτην καὶ κυβηλιστήν di Hsch. e Sud. è qui banalizzato in ἀγύρτην καὶ θύτην). Interpretazione(L’hapax ἀγερσικύβηλις è formato dal verbo ἀγείρω ‘raccogliere’, ma anche ‘mendicare, questuare’ (Fraenkel 1910–12, I, p.  556s., Chantraine 1933, p. 1116s.) e da κύβηλις qui nel senso di ‘scure, accetta’, come spiegano i testimoni del frammento (oltre a quelli citati sopra, v. anche Phot. κ 1149 κύβηλις· µάχαιρα, ἥ τοὺς βοῦς τραχηλοκοπεῖ; nella commedia di V sec. a.6C. κύβηλις è presente solamente ancora in Cratin. fr. 352 K.–A. [inc. sed.] καλχίδα κικλήσκουσι θεοί, ἄνδρες δὲ κύβηλιν, ma in un senso sicuramente diverso, τυρόκνηστις ‘grattugia’ come attesta Hsch. κ 4380 [cfr. Phot. κ 1151] e in un verso che è una detorsio di ξ 291 χαλκίδα κικλήσκουσι θεοί, ἄνδρες δὲ κύµινδιν, v. da ultimo Bianchi 2013, p. 1956s.)259; letteralmente ‘chi va in giro a mendicare con la sua ascia’ , si può rendere con ‘questuascia’, ‘mendiscure’ o 258

259

Come si evince da Meineke FCG II.1, p. 51, il referente della polemica di Bergk è J.G. Schneider; il riferimento è al Griechisch-Deutsches Handwörterbuch beym Lesen der griechischen profanen Scribenten zu gebrauchen, ausgearb. von. J.G. Schneider, Erster Band (Α–Κ), Ζüllichau und Leipzig 1797, s.6v. κυβηλίζω. Più tardi κύβηλις è documentato in Anaxipp. fr. 6,6 K.–A. (Kitharōdos) καὶ τὴν κύβηλιν τὴν ἀγωνιστηρίαν (di interpretazione dubbia, v. Kassel–Austin PCG II, p. 305) e in Philem. fr. 12 K.–A. (Harpazomenos vel –menē) ὁρῶ µαγείρου καὶ κύβηλιν καὶ σκάφην, dove indica senz’altro lo strumento di un cuoco, v. in part. Bruzzese 2011,

∆ραπέτιδες (fr. 66)

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simili. La prima parte del composto denota Lampone come un questuante, un senso presente anche in ἀγύρτης (v. infra), la seconda si riferisce senz’altro ad uno degli attributi di chi compie il sacrificio, cfr. Sud. κ 2595 dove agersikybēlis è glossato con thytēs; Meyer 1923, p. 119 traduce con “Sammelbeil” e spiega “Lampon “sammelt” gleichsam mit dem Beile, natürlich in eigensüchtiger und für einen Seher unwürdiger Weise”. b Secondo Σ α 261 = Phot. α 146 (da cui anche la relativa pericope in Et. gen. e annessi testimoni) οἱ δὲ ἐγερσικύβηλιν ἐν τῷ δράµατι γράφουσιν, τὸν ἐφ᾽ ἑαυτὸν ἐγείροντα τὸν πέλεκυν, “antiqua v.l., quam grammaticus in exemplari dramatis Cratini invenit” (Theodoridis 1982, p. 22); in questo caso il primo elemento si deve rapportare ad ἐγείρω, ma non è chiaro in che senso il verbo debba qui intendersi: nessuno dei valori proposti in LSJ s.6v. sembra possibile con un complemento oggetto come πέλεκυν, ma si potrebbe forse richiamare il valore di ‘elevar, alzar’ proposto in DGE VI s.6v. (III.2) e l’esempio di Ach. Tat. III 8.3 τὸν µῆρον ἐγείρει καθ᾽ αὐτοῦ (che risulta, comunque, parzialmente diverso). Edmonds FAC I, p. 43 traduce “axe-wielder” […] as one who wields the axe on his own account”, ma non fornisce una spiegazione; secondo Luppe 1963, p. 49 “die Ableitung von ἐγείρειν und die entsprechende Schreibung ἐγερσικύβηλις sind wohl falsche Ausdeutung” e risulta effettivamente improbabile una forma ἐγερσι- rispetto ad ἀγερσι- che ha il confronto con l’altro sostantivo ἀγύρτης (a meno, certo, di non immaginare un valore specifico di ἐγείρω, presente solo in questo composto e a noi ignoto)260. Per quanto riguarda gli altri due sostantivi, κυβηλιστής è di nuovo un hapax, ma si può intendere a partire ancora da κύβηλις = πέλεκυς e rimanda quindi ad una possibile funzione di officiante di pratiche di sacrificio; se si accettano agyrtēn e kybēlistēn come ipsissima verba di Cratino in Hsch. α 461 (v. Contesto della citazione) allora qui κυβηλιστής è probabilmente glossato con θύτην, quindi ‘sacrificatore’, perché µάντιν glossa ἀγύρτην (sostantivo questo spesso riferito a indovini o analoghi, v. infra). Il secondo, ἀγύρτης è meglio documentato: etimologicamente legato al verbo ἀγείρω (v. supra), “the word may be used of itinerant beggars, fortunetellers, or mountebanks, although originally it seems to have denoted a person attached to a god’s cult (such as a priest or a prophet) who wandered about

260

p. 193. In Lyc. Alex. 11696s. ταυροκτόνος στερρά κύβηλις, lo scolio ad loc. (p. 339 Scheer) glossa κύβηλις con ἰσχυρὸς πέλεκυς. Kassel–Austin PCG IV, p. 154 nella testimonianza di Fozio stampano ἐ γ ε ρ σ ικ ύ β η λ ι ς con lo spaziato, come sempre quando intendono indicare una parola che apparteneva originariamente ad un commediografo, ma non offrono ulteriore documentazione a proposito di questa presunta variante.

382

Cratino

collecting donations for the god – and no doubt for himself too” (Liapis 2012, p. 209 ad Eur. Rhes. 503, cfr. ibid. v. 715 ἀγύρτης τις λάτρις, detto di Odisseo “evidently the ‘servant’ of some god, on behalf of whom he begged for gifts as an ἀγύρτης” [Liapis ibid.]); nel senso di ‘prete mendicante’, ad es. in riferimento ai seguaci di Cibele in Anth. Pal. VI 218,1 (Alceo, Μητρὸς ἀγύρτης), cfr. Babr. 141,1 Γάλλοις ἀγύρτη e detto di un indovino, v. Soph. OT 388 δόλιος ἀγύρτης (Tiresia) e il femminile in Aesch. Ag. 12736s. κακουµένη δέ, φοιτὰς ὡς ἀγύρτρια,6/6πτωχὸς τάλαινα, riferito a Cassandra (su questo v. anche Fraenkel 1950, III p. 5906s.); per un senso negativo del termine v. inoltre, Hipp. Morb. 1.4 µάγοι τε καὶ καθάρται καὶ ἀγύρται καὶ ἀλαζόνες (cfr. Jouanna 2003, pp. 38–40 e n. 1) e Plat. Rp. 364b ἀγύρται καὶ µάντεις (qui detto di personaggi che per denaro promettono di purificare da alcune colpe personaggi abbienti). Per l’occorenza di ἀγύρτης in Lysipp. fr. 6 K.–A. v. Bagordo 2014, pp. 60–63, il quale suggerisce anche (p. 626s.) in ἀγύρτης e in ἀγερσικύβηλις di Cratino la possibilità di un possibile double entendre: in Eubul. fr. 57,5 K.–A. (Kybeutai), infatti ἀγύρτης è il nome di un colpo del gioco di dadi (stessa spiegazione anche in Hsch. α 866, Sud. α 388 e altrove, v. Hunter 1983, p. 145) e nello stesso frammento al v. 6 il nome di un altro colpo è λάµπων o Λάµπων261; non è escluso (ma è impossibile da dimostrare) che in Cratino il nome dell’indovino, Λάµπων, e il suo epiteto, ἀγύρτης rimandassero in qualche modo ai nomi dei colpi del gioco dei dadi e/o che così venissero magari intesi da qualcuno del pubblico. Per Lampone, v. comm. a fr. 62,1 K.–A. (pp. 368–370), al cui medesimo contesto (un canto corale), potrebbero appartenere anche i tre sostantivi agersikybēlis, agyrtēn e kybēlistēn (Luppe 1963, p. 48); ad un riferimento di ἀγερσικύβηλις al culto di Cibele, sulla base dell’interpretazione del primo elemento ἀγερσι- alla luce di uno dei valori del simile ἀγύρτης, detto anche dei sacerdoti di Cibele (v. supra), pensano Meineke 1823, p. 111, Runkel 1827, p. 21, Pieters 1946, p. 76, ma l’ipotesi non è dimostrabile e quello proposto è solo uno dei possibili valori di ἀγύρτης. V. anche Schwarze 1971, p. 76 n. 182.

261

La prima forma (λάµπων) è preferita da Kassel–Austin PCG V, p. 222 per il cfr. con Cratin. fr. 405 K.–A. dove un altro nome è αἴγλη; la seconda (Λάµπων) era stampata da Meineke FCG III, p. 2326s. (cfr. Headlam 1922 ad Herod. III 246s., p. 133) per il cfr. con altri colpi derivati da nomi propri, ad es. Σόλων o Σίµων nello stesso Eubul. fr. 57,6 K.–A. Sui nomi dei colpi in gen. v. Lamer RE XIII,2 s.6v. Lusoria tabula coll. 1946–1956.

∆ραπέτιδες (fr. 67)

383

fr. 67 K.–A. (63 K.) b

Σ α 1272 = Phot. (b, z) α 1803 = Sud. α 2369 ἀ ν ε ι κ ά σ α σ θ ε · ἀνασκώψατε. Κρατῖνος ∆ραπέτισι a n e i k a s a s t h e : anaskōpsate (schernire, sbeffeggiare). Cratino nelle Drapetides

Metro(Ignoto (klklu) Bibliografia(Runkel 1827, p. 21 (fr. XIII), Meineke FCG II.1 (1839), p. 52 (fr. XIII), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 18, Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 13), Kock CAF I (1880), p. 316s., Edmonds FAC I (1957), p. 426s., Luppe 1963, p. 50, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 155, Storey FOC I (2011), p. 301 Interpretazione(Il lemma si legge, in forma simile (infinito in luogo di imperativo) anche in Hsch. α 4821 ἀνεικάσασθαι· ἀποσκῶψαι; l’interpretamentum di Esichio, ἀποσκῶψαι, offre un verbo raro, ma attestato (‘banter, rally’ LSJ s.6v., v. e.c. Plat. Theaet. 174a Θαλῆν ἀστρονοµοῦντα … θεραπαινὶς ἀποσκῶψαι λέγεται), mentre privo di testimonianze è ἀνασκώψατε (< ἀνασκώπτω) dei tre testimoni cratinei (che offre un certo parallelismo con il verbo di Cratino, ἀνεικάσασθε· ἀνασκώψατε). Poiché in questi e in Esichio il lemma è sostanzialmente analogo, si può intendere ἀνεικάσασθε/ἀνεικάσασθαι (Hsch.) nel valore di ἀποσκώψαι ’schernire, beffeggiare’ dato da Esichio e intendere in questo stesso significato anche l’interpretamentum (altrimenti ignoto) ἀναb σκώψατε di Σ , Phot., Sud., (*ἀνασκώπτω analogo a ἀποσκώπτω). Non si può escludere, inoltre, che anche la glossa di Esichio fosse relativa allo stesso b passo di Cratino: Σ (e gli altri) conservano un lemma all’imperativo e indicano che questa precisa forma era verisimilmente quella usata da Cratino, di cui si esplicita l’attestazione; in Esichio, al contrario, ἀνεικάσασθε potrebbe essere ‘normalizzato’ all’infinito (e così glossato) e non è riportata alcuna notizia sul suo utilizzo. Se si accettano le testimonianze lessicografiche, in Cratino, ἀνεικάσασθε vale ‘avete schernito, preso in giro’. Secondo Kock CAF I, p. 31 “neque ἀνεικάζειν neque ἀνασκώπτειν Atticis usitatum fuisse credo. Ubique scribendum videtur ἀντεικάσασθε· ἀντισκώψατε”; analogamente Luppe 1963, p. 50 che propone, inoltre, “an Stelle der für den Aorist ungewöhnlichen Medialform – entsprechend Plato, Meno 80c (ἀλλ’ οὐκ ἀντεικάσοµαί σε) mit geringer Änderung das Futurum ἀντεικάσεσθε”. Il verbo ἀντεικάζω è attestato in Ar. Vesp. 1311 ὁ δ’ ἀνακραγὼν ἀντῄκασ’ αὐτὸν πάρνοπι e Plat. Men. 80c ἀλλ’ οὐκ ἀντεικάσοµαί σε, mentre in Hsch. ε 807 si ha la glossa εἰκάζειν· σκώπτειν, ἐοικάζειν. τὸ λέγειν· ὅµοιος εἶ τῷδε (sull’εἰκάζειν v. Radermacher 1921, pp. 272–274 e Dover 1993, p. 306 ad Ar. Ran. 906, Kassel 1956, Schäfer

384

Cratino

1965, p. 6206s.); segue questa proposta Edmonds FAC I, p. 426s. (che richiama a n. 4 Kock) “you made a comparison about (him); That is, you held him up to ridicule” (con l’aggiunta a n. c: “this making of comparisons was probably an after-dinner game, cf. also Plat. Symp. 215a, Men. 80a ff., Xen. Symp. VI 8, Hsch. εἰκάζειν”) e, recentemente, anche Storey 2011, p. 301: “you people made a comparison”. Tuttavia, non appare necessario rifiutare l’informazione dei testimonia: *ἀνεικάζω può essere inteso alla luce della glossa ἀποσκώψαι di Hsch. α 4821 e proprio il fatto che questo verbo venga registrato e spiegato in fonti lessicografiche ne indica il suo presunto utilizzo (e, la glossa di Hsch. ε 807 indica per εἰκάζω un significato di σκώπτειν e *ἀνεικάζω può essere un composto [di origine comica?] del semplice εἰκάζω). fr. 68 K.–A. (64 K.) Schol. Basil. Greg. Naz. or. 38,5 (εἰς τοῦ Χριστοῦ γέννησιν), ed. Puntoni 1882, p. 174 σ τ ι β ά ς· στρώµνη, χαµαικοίτιον 〈ἐν στρατείαις〉, ὡς ὁ Εἰρηναῖος ὁ ἀττικιστής (fr. 11 Haupt), καὶ Ἀριστοφάνης {ἐν στρατείαις} ὁ κωµικός (Pac. 347), καὶ ἐν ∆ραπέτισι Κρατῖνος, καὶ τῶν ῥητόρων οἱ πλεῖστοι S t i b a s (branda): giaciglio, lettuccio da terra nelle operazioni militari, come (dice) Ireneo l’atticista, e Aristofane il comico e nelle Drapetides Cratino e la maggior parte degli oratori

Bibliografia(Runkel 1827, p. 21 (fr. XV), Meineke FCG II.1 (1839), p. 53 (fr. XVI), Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 18, Bothe PCGF (1855), p. 16 (fr. 16), Kock CAF I (1880), p. 32, Luppe 1963, p. 16, Kassel–Austin PCG IV (1983), p. 155, Bakola 2010, p. 1566s., Storey FOC I (2011), p. 301 Contesto della citazione(Lo scoliaste a Gregorio di Nazianzo riporta il significato comune di stibas (v. infra), per cui richiama sia l’autorità dell’atticista Ireneo sia alcuni loci classici (nessuno dei quali viene citato) per dire che, contrariamente a quest’uso, Gregorio ha invece definito stibas il letto: ἀλλὰ τὴν κλίνην οὗτος (i.e. Gregorio) στιβάδα καλεῖ κτλ. (questo significato anche in Theop. FGrHist 115 F 171,7, cfr. LSJ s.6v.). Interpretazione(Nel testo degli scoli a Gregorio di Nazianzo ἐν στρατείαις ricorre dopo il nome proprio di Aristofane, chiaramente fuori posto e fu trasposto più propriamente dopo χαµαικοίτιον da Lucas 1833, p. 8262. 262

Nel testo di Puntoni si legge ἐν στρατείαις dopo il nome di Aristofane e la notizia sul suo erroneo collocamento si trova in nota; un evidente refuso di stampa deve

∆ραπέτιδες (fr. 68)

385

Il sostantivo stibas significa giaciglio, letto da campo fatto con rami, foglie e altri materiali di fortuna, cfr. Hsch. σ 1843 στιβάς· ἀπὸ ῥάβδων καὶ χλωρῶν χόρτων στρῶσις καὶ φύλλων. ἤ καµαικοίτη, Sud. σ 1097 Στιβάδες Φορµίωνος (cfr. infra)· ἐπὶ τῶν εὐτελῶν. στρατηγὸς δὲ ἦν ὁ Φορµίων. στιβάδες δέ, ἐπεὶ οἱ στρατιῶται χαµευνοῦσι· λιτὸς δὲ ἦν καὶ πολεµικός. καὶ στιβάς, χαµαικοίτιον, ἀκούβιτον ἀπὸ ῥάβδων (e, in aggiunta subito dopo, καὶ οἱ τῶν δένδρων ἀκρεµόνες. ὡς δὲ παρῆλθον ἐπὶ τὸ δεῖπνον, κατεκλίνοντο µὲν ἐπὶ στιβάσιν, ἐπὶ ταπίδων βαρβαρικῶν). In commedia στιβάς è attestato in Ar. Pac. 347 (il passo cui si riferisce lo scoliaste a Gregorio di Nazianzo) πράγµατα τε καὶ στιβάδας ἅς ἔλαχε Φορµίων, cfr. schol. ad loc. (348e = Sud. φ 604 [4, p. 751,21]) στιβάδας εἶπε Φορµίωνος. οἰ γὰρ τὰ πολεµικὰ ἐξασκησάµενοι ὑπὸ γυµνασίων καὶ πόνων εἰώθασι χαµαικοιτεῖν (lo stesso scolio è testimone di un controverso fr. di Eupoli, 274 K.–A. [Taxiarchoi], su cui v. Kassel–Austin PCG V, p. 461) e Olson 1998, p. 142: “στιβάδας: rough beds, properly of trampled (cognated with στείβω) grass, leaves, leafy branches, and the like, perhaps covered with a robe of sheepksin […] a basic feature of military life”. Per altre attestazioni di στιβάς v. ad es. Ar. Plut. 541, 663, Eur. Hel. 7986s., Tr. 507, Xen. Hell. VII 1.16, Plat. Rp. 372b, etc. Secondo Bakola 2010, p. 1566s. il riferimento al letto da campo, può essere un indizio del fatto che i coreuti, le Fuggitive (per la loro identità, v. p. 3096s.) fuggono dai loro uffici militari e sono per questo inseguite da un comandante militare e chiedono, dunque, asilo a Teseo (v. Contenuto); ma il richiamo allo stibas potrebbe essere del tutto incidentale e non avere nulla a che fare con la trama della commedia.

essere ἐν στρατείας di Kassel–Austin PCG IV, p. 155, ripetuto due volte (〈ἐν στρατείας〉 dopo χαµαικοίτιον e {ἐν στρατείας} dopo Ἀριστοφάνης), i quali tra l’altro stampano correttamente ἐν στρατείαις nel riportare la trasposizione operata da Lucas.

Ἐµπιπράµενοι (Empipramenoi) (‘Bruciati’)

Bibliografia(Runkel 1827, p. 21, Dindorf 1829 p. 94 n. a (= 1835, p. 574 n. a), Bergk 1838, pp. 109–111, Meineke FCG II.1 (1839), pp. 53–56, Meineke FCG ed. min. I (1847), p. 186s., Bothe PCGF (1855), p. 16, Kock CAF I (1880), p. 32, Edmonds FAC I (1957), p. 426s., Luppe 1966, p. 187, Kassel – Austin PCG IV (1983), p. 156 e 167, Storey FOC I (2011), p. 3126s. L’unica testimonianza su questa commedia è in Clem. Alex. Strom. VI 26.4 all’interno di una sezione (da VI 25.1) in cui si discute di furti e plagi fatti da scrittori greci: Ἀριστοφάνης δὲ ὁ κωµικὸς ἐν ταῖς πρώταις Θεσµοφοριαζούσαις τὰ ἐκ τῶν Κρατίνου Ἐµπιπραµένων µετήνεγκεν ἔπη. Rimane del tutto ignoto a quale passo della commedia di Aristofane sia relativa l’informazione e, quindi, cosa e quanto Aristofane avesse dedotto da Cratino; inoltre, questa notizia può essere relativa ad un effettivo plagio di Aristofane (casi analoghi sono ben documentati in commedia, cfr. Sonnino 1998), ma non è nemmeno escluso che derivi, invece, da una più tarda riflessione filologica, cfr. Sonnino 1998, p. 386s.: “Cratino […] era morto intorno al 422, e le Tesmoforiazuse vennero messe in scena nel 411. È impossibile dunque che fosse stato Cratino a denunciare un plagio compiuto, ai suoi danni, da Aristofane. Resta certo la possibilità che qualche altro comico denunciasse la dipendenza di Aristofane da Cratino, ma in realtà appare più plausibile che all’origine della notizia […] vi fosse non una polemica tra i poeti comici, ma l’osservazione di qualche filologo antico, che aveva notato la somiglianza tra una scena delle Tesmoforiazuse e quella di un dramma di Cratino” (cfr. anche p. 376s. a proposito della analoga testimonianza di Clemente Alessandrino, immediatamente seguente, sulla commedia Daidalos che Aristofane e Platone comico avrebbero plagiato a vicenda; cfr. anche Pirrotta 2009, p. 85). Il titolo Ἐµπιπράµενοι si confronta con analoghi formati da un participio al plurale263: dello stesso Cratino Χειµαζόµενοι, di Aristofane Θεσµοφοριάζουσαι α´e β´, Σκηνὰς καταλαµβάνουσαι, Ἐκκλησιάζουσαι, di Amipsia Ἀποκοτταβίζοντες (cfr. Orth 2013, p. 183); più tardi sono altri: ∆ιαδικαζόµενοι

263

Titoli formati da un participio al singolare sono rari nella commedia antica (più frequenti nella mesē e nella nea) e, di solito, accompagnati ad un nome proprio: Platone comico Ζεὺς κακούµενος, Archippo e Nicocare Ἡρακλῆς γαµῶν, Strattis Ζώπυρος περικαιόµενος; v. però Amipsia Κατεσθίων, con Orth 2013, p. 207

Ἐµπιπράµενοι

387

(Dioxippo), Θητεύοντες (Alessi), ∆ιονυσιάζουσαι (Timocle), Ἐλαιωνηφρουροῦντες, Ἐλλεβοριζόµενοι e Κληρούµενοι (Difilo), Ἐπιτρέποντες (Menandro). Lo stesso Menandro scrisse una commedia dal titolo Ἐµπιµπραµένη (PCG VI.2, frr. VI.2, frr. 119–123 K.–A.), i cui pochi frammenti non permettono di capirne il contenuto (secondo Meineke FCG II.2, p. 52 “Menander scripsit Ἐµπιπραµένην, sensu haud dubie multum diverso”, ma, di fatto, non è possibile alcun parallelo con la commedia di Cratino, del tutto ignota). Il verbo ἐµπίµπρηµι significa ‘bruciare, incendiare’, al passivo ‘essere bruciato, essere incendiato’ (‘to be set on fire’ LSJ s.6v.); Ἐµπιπράµενοι sono, quindi, alla lettera i ‘bruciati’ o gli ‘incendiati’ (così traduce Sonnino 1998, p. 386s.). Il verbo è di uso raro in commedia, ma attestato ad es. in Ar. Nub. 1484 (ἐµπιµπράναι οἰκίαν, Strepsiade che decide di bruciare il pensatoio) e Thesm. 749 (ἐµπρήσοµεν, le donne che minacciano di dare fuoco al parente). Ignoto a cosa si riferisse il titolo della commedia. Secondo un’ipotesi di Dindorf 1829 p. 94 n. a) = 1835, p. 574 n. a) la testimonianza sugli Empipramenoi di Clemente Alessandrino (v. supra) si può leggere insieme a schol. (R) ad Ar. Thesm. 215, p. 28 ([ΚΗ.] ἀτὰρ τι µέλλεις δρᾶν µ ̓; [ΕΥ.] ἀποξυρεῖν ταδὶ6/6τὰ κάτω δ ̓ἀφευειν): τὰ γένεια· ταῦτα δὲ ἔλαβεν ἐκ τῶν Ἰδαίων Κρατίνου, dove è testimoniata di nuovo una ripresa di Aristofane ancora nelle Tesmoforiazuse di un passo di Cratino, questa volta dalla commedia Idaioi264; e, di conseguenza, si possono identificare Ἐµπιπράµενοι e Ἰδαῖοι come titoli alternativi di una stessa commedia. Sulla base di questa identificazione Bergk 1838, p. 111 (in generale 109–111) interpretò il presunto doppio titolo Ἐµπιπράµενοι ἢ Ἰδαῖοι in riferimento ad un “chorum hominum perditissimorum, qui deae sacris initiati atque penitus effeminati corpus levigarent et crines omnes igni amburerent” (per il primo sostantivo) e ai Dattili Idei officianti del culto della Grande Madre (per il secondo sostantivo); contra Luppe 1966, p. 187 (secondo cui Idaioi sarebbe titolo alternativo per Dionysalexandros, cfr. p. 2016s.): “Daß Aristophanes in seinen Thesmophoriazusen (von 1231 Versen) aus zwei Kratinosstelle ver-

264

Su questo passo delle Tesmoforiazuse v. van Leeuwen 1904, p. 36 (n. al v. 215): “recte igitur vox ταδί explicatur τὰ γένεια, dein additur ducta esse haec ex Cratini fabula. Non ad certa autem verba quaedam comici referendum est ταῦτα, sed totus hic locus, ubi Euripides socium radit ed adstulat, e Cratino dicitur sumptus. Quamquam tutius fuerit statuere simile quod habuisse quandam Cratini fabulam”; Butrica 2001, p. 52: “in fact the only safe course is to admit that we simply do not know to which play Clement referred”; Austin–Olson 2004, p. 125: “wheter he (sc. Cratinus) borrowed whole lines or parts of lines of (more likely) simply took over the idea of a scene in which a male character is shaved, depilated and dressed like a woman, is impossibile to say”.

388

Cratino

schiedener Stücke irgend etwas entlehnt hat (so die Überlieferung), ist doch nicht im geringsten unwahrscheinlich”. L’ipotesi di Bergk potrebbe, comunque, essere corretta anche senza implicare una connessione con l’altra commedia Idaioi: Empipramenoi riferito agli iniziati al culto della Grande Madre potrebbe contenere un riferimento ad una satira dei culti stranieri, tema ben documentato nell’archaia (ad es. in Cratino nelle Thraittai, incerto il caso dei Boukoloi, v. p. 1146s.; sul tema in generale v. Delneri 2006).

Bibliografia Edizioni di riferimento dei testimoni dei frammenti Ael. nat. an. = Claudius Aelianus, De Natura Animalium, edd. M. García Valdés–L. A. Llera Fueyo–L. Rodríguez Noriega Guillén, Berolini et Novi Eboraci 2009 Antiatt. = ΑΝΤΙΑΤΤΙΚΙΣΤΗΣ, in Anecdota Graeca I. Edidit I. Bekker, Berolini 1814, pp. 75–116 (annot. crit. vol. III, Berol. 1821, pp. 1074–1077) Apoll. Dysc. = Apollonii Dyscoli quae supersunt. Recenserunt, apparatum criticum commentarium indices adiecerunt R. Schneider–G. Uhlig, GrGr I.1: Apollonii Scripta minora a Richardo Schneidero edita, Lipsiae 1878 Apost. = CPG II, pp. 233–744 Athen. = Athenaei Naucratitae Deipnosophistarum libri XV. Edidit G. Kaibel, Lipsiae, voll. I-II: 1887, vol. III: 1890 Epitomen librorum III–XV edidit S.P. Peppink, Lugduni Batavorum 1937–1939; librorum I–II (sola epitome traditorum) post Kaibelium edidit A. M. Desrousseaux, Parisii 1956 Olson 2007 Clem. Alex. strom. = Clemens Alexandrinus, Stromata. Hrsg. von O . Stählin. Bd . 2 (Buch I–VI). In 3. Aufl. neu hrsg. v. L. Früchtel. 4. Aufl. mit Nachträgen von U. Treu, Berlin 1985 Diog. Laert. = Diogenis Laertii vitae philosophorum. Edidit H. S. Long, Oxford 1964 (= 1966) Diogenis Laertii Vitae philosophorum Vol. I (libri I–X) . Edidit M. Marcovich, Stuttgart–Leipzig 1999 Diogen. = CPG I, pp. 177–320 Diogen. Vind. = CPG II, pp. 1–52 Et. Gen. AB = Etymologici genuini codicum A et B lectiones suppeditatae apud aliorum lexicorum editiones, praesertim apud C. Theodoridis Photii editionem Etymologicum Magnum Genuinum. Symeonis Etymologicum. Etymologicum Magnum auctum. Synoptice edd. F. Lassere–N. Livaradas, vol. I (α–ἀµωσγέπως) Roma 1976, vol. II (ἀνά–βώτορες), Ἀθῆναι 1992 Et. magn. = Etymologicum Magnum rec. Th. Gaisford, Oxonii 1848 (cfr. Et. Gen. AB) Et. Sym. = H. Sell, Das Etymologicum Symeonis. α-ἀίω, Meisenheim 1968 G. Berger, Etymologicum Symeonis β, Meisenheim 1972 Cfr. Et. Gen. AB. Eust. in Il. = H. Erbse, Scholia graeca in Homeri Iliadem (Scholia vetera), I (Α–∆), Berolini 1969; II (Ε–Ι), Berolini 1971; III (Κ–Ξ), Berolini 1973; IV (Ο–Τ), Berolini 1975; V (Υ–Ω), Berolini 1977; VI (Indices I–IV), Berolini 1983; VII (Indices V, Addenda), Berolini 1988 Eust. in Od. = Eustathii Commentarii ad Homeri Odysseam ad fidem exempli Romani editi, vol. I-II, Lipsiae 1825–1826 Harp. = Harpocration, Lexeis of the Ten Orators. Edited by J. J. Keaney, Amsterdam 1991 Harpocrationis lexicon in decem oratores atticos, ed. W. Dindorf, Oxonii 1853 Hephaest. ench. = Hephaestionis Enchiridion. Cum commentariis veteribus. Edidit M. Consbruch. Accedunt variae metricorum Graecorum reliquiae, Lipsiae 1906 (= Stutgardiae 1971)

390

Cratino

Hsch. = Hesychii Alexandrini Lexicon, ed. K. Latte, Hauniae, vol. I (Α-∆) 1953, vol. II (Ε-Ο) 1966; vol. III (Π-Σ): editionem post K. Latte continuans recensuit et emendavit P. A. Hansen, Berolini–Novi Eboraci 2005; Vol. IV (Τ–Ω): editionem post K. Latte continuantes recensuerunt et emendaverunt P.A. Hansen–I.C. Cunningham, Berolini–Novi Eboraci 2009 Lex. Bekk.III (περὶ συντάξεως) = Immanuelis Bekkeri Anecdota Graeca I (Lexica Segueriana), 3: περὶ συντάξεως, pp. 117–180 Lex. Mess. = Rabe 1892 e 1895 Macrob. Sat. = Macrobii Ambrosii Theodosii Saturnalia, rec. R. A. Kaster, Oxonii 2011 Ambrosii Theodosii Macrobii Saturnalia, ed. J. Willis, Lipsiae 1963 Phot. = Photii Patriarchae lexicon, ed. Chr. Theodoridis, vol. I: Α-∆, Berolini–Novi Eboraci 1982; vol. II: Ε-Μ, Berolini–Novi Eboraci 1998; vol. III: Ν-Φ, Berolini–Novi Eboraci 2012 Porson 1822 Photii Patriarchae Lexicon. Recensuit, adnotationibus instruxit et prolegomena addidit S. A. Naber, vol. II (ο–ω), Lugduni Batavorum 1865 Tsanstanoglou 1984 Phryn. Praep. soph. = Phrynichi Sophistae Praeparatio Sophistica. Edidit J. A. de Borries, Lipsiae 1911 Plut. Cim. = Plutarchi vitae parallelae I.1. Recogn. Cl. Lindskog et K. Ziegler. Iterum recensuit K. Ziegler, Lipsiae 1957 (pp. 332–359). Testo critico di L. Piccirilli in Carena–Manfredini–Piccirilli 1990 Poll. = Pollucis Onomasticon ed. E. Bethe, vol. I: I-V, Lipsiae 1900; vol. II: VI-X, Lipsiae 1931; vol. III: Indices, Lipsiae 1937 POxy 2739 = Editio princeps in Lobel 1968, p. 48 nr. 2739 (v. a Boukoloi test. i) POxy 663 = Editio princeps in Grenfell–Hunt 1904, pp. 69–72 (POxy IV, nr. 663) Luppe 1966. Austin 1973 (CFGP 70) Van Rossum–Steenbek 1998, pp. 37–39 e 236 s. (V. inoltre a Dionysalex. test. i K.–A.) Prov. Bodl. = Proverbia Bodleiana, ed. Th. Gaisford, Paroemiographi Graeci, Oxonii 1836, pp. 1–120 Σ = Συναγωγὴ λέξεων χρησίµων. Texts of the Original Version and of MS. B. Edited by I. C. Cunningham, Berlin / New York 2003 Schol. Aristot. eth. Nic. = Scholia in Aristotelis Ethica Nichomachea (scholia vetera et recensiora) (e cod. Paris. gr. 1854) ed. J.A. Cramer, Anecdota Graeca e codd. manuscriptis bibliothecae regiae Parisiensis, vol I, Oxford 1839, pp. 180–244 Schol. Basil. Greg. Naz. = Puntoni 1882 Schol. Ar. = Scholia in Aristophanem Pars I: Prolegomena de comoedia, scholia in Acharnenses, Equites, Nubes; fasc. Ia: Prolegomena de comoedia ed. W.J.W. Koster, Groningen 1975; fasc. Ib: scholia in Acharnenses ed. N.G. Wilson, Groningen 1975; fasc. II: scholia vetera in Aristophanis Equites ed. D. Mervyn Jones et Scholia Tricliniana in Aristophanis Equites ed. N. Wilson, Groningen–Amsterdam 1969; fasc. III.1: scholia vetera in Nubes ed. D. Holwerda, Groningen 1977; fasc. III.2: scholia recentiora in Nubes ed. W.J.W. Koster, Groningen 1974. Pars II: scholia in

Bibliografia

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Vespas, Pacem, Aves et Lysistratam; fasc. I: scholia vetera et recentiora in Aristophanis Vespas ed. W.J.W. Koster, Groningen 1978; fasc. II: scholia vetera et recentiora in Pacem ed. D. Holwerda, Groningen 1991; fasc. III: scholia vetera et recentiora in Aves ed. D. Holwerda, Groningen 1991; fasc. IV: scholia in Lysistratam ed J. Hangard, Groningen 1996. Pars III: scholia in Thesmophoriazusas, Ranas, Ecclesiazusas et Plutum; fasc. Ia: scholia vetera in Ranas ed. M. Chantry, Groningen 1999; fasc. Ib: scholia recentiora in Ranas ed M. Chantry, Groningen 2001; fasc. II: scholia in Aristostophanis Thesmophoriazusas et Ecclesiazusas ed. R.F. Regtuit, Groningen 2007; fasc. IVa: scholia vetera in Plutum ed. M. Chantry, Groningen 1994 Schol. Luc. = Scholia in Lucianum, ed. H. Rabe, Lipsiae 1906 Schol. Plat. = Scholia Platonica, contulerunt atque investigaverunt F. de Forest Allen, I. Burnet, C.P. Parker, omnia recognita praefatione indicibusque instructa edidit G.C. Greene, Haverfordiae 1937. Scholia Graeca in Platonem, edidit D. Cufalo, I: scholia ad dialogos tetralogiarum I-VII continens, Roma 2007 (= Cufalo 2007) Schol. cod. Par. 1808 Plat. Axioch. = Luppe 1968 Steph. Byz. = Stephani Byzantii Ethnica ed. M. Billerbeck, vol. I: α-γ, Berolini et Novi Eboraci 2006; vol. II: δ-ι, Berolini et Novi Eboraci 2011, vol. III: κ-ο, Berolini et Bostoniae 2014 Stephani Byzantii Ethnicorum quae supersunt ed. A. Meineke, Berolini 1849 Sud.= Suidae Lexicon, ed. A. Adler, Stutgardiae, vol. I: Α-Γ, 1928; vol. II: ∆-Ι (αι cont.), 1931; vol. III: Κ-Ο, 1933; vol. IV: Π-Ω, 1935; vol. V: Praefationem indices dissertationem contines, Stutgardiae 1938 Zenob. = W. Bühler, Zenobii Athoii Proverbia, vol. I: Prolegomena, Gottingae 1987; vol IV: Proverbia II 1–40, Gottingae 1982; vol. V: Proverbia II 41–108, Gottingae 1999 Zenob. vulg. = Zenobius vulgatus vel potius Zenobii epitome proverbiorum Lucilli Tharraei et Dydimi recensio vulgata, in Corpus Paroemiographorum Graecorum, I-II edd. E.L. Leutsch–F.G. Schneidewin (II solus Leutsch), Gottingae 1839–1851 (Supplementum, Hildesheim 1961)

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Cratino

Edizioni, commenti e studi La presente bibliografia comprende le monografie e gli articoli citati nel corso del lavoro e le sigle relative alle raccolte di testi (ad es. FGrHist), ai documenti epigrafici (ad es. IG) e iconografici (ad es. ABV), ai lessici moderni (ad es. DGE) e alle enciclopedie (ad es. RE). Non sono incluse, invece, le edizioni dei singoli autori. Le abbreviazioni dei titoli delle riviste seguono le sigle de L’Année philologique. Bibliographie critique et analytique de l’Antiquité gréco-latine, Paris 1927–, e di S. Lambrino, Bibliographie de l’Antiquité classique 1986–1914, I: Auteurs et textes, Paris 1951; nei casi di riviste non comprese in questi repertori, i titoli vengono citati per esteso. Alcune voci di questa bibliografia, come ad es. ‘Kaibel 1887b-1890 = Athen.’ rinviano alle edizioni dei testimonia. Segnalo, infine, che ho tenuto conto dei lavori apparsi a stampa, almeno a mia scienza, non oltre il mese di settembre 2015. ABV: J.D. Beazley, Attic Black-figure Vase painters, London 1956 Adler 1928–1938: = Sud. Ahrens 1862: L. Ahrens, Zur griechischen Monatstunde, «RhM» 17, 1862, pp. 329–367 Allen 1889: Th.W. Allen, Notes on abbreviations in Greek manuscripts, Oxford 1889 Allen 1912: Homeri opera recognovit brevique adnotatione critica instruxit Th. W. Allen, Tomus V: hymnos, cyclum, fragmenta, Margiten, Batrachomyomachiam vitas continens, Oxonii 1912 (1946 with corrections) Allen 1968: W.S. Allen, Vox graeca: a guide to the pronunciation of classical Greek, Cambridge 1968 (19873) Alpers 1981: K. Alpers, Das attizistische Lexikon des Oros. Untersuchung und kritische Ausgabe der Fragmente, Berlin–New York 1981 Alpers 2001: K. Alpers, Lexikographie (Griechische antike, Byzanz, Lateinische antike), in Historisches Wörterbuch der Rhetorik 5 (L-Musi), 2001, coll. 193–210 Alvoni 1990: G. Alvoni, Aristoph. frr. 128 e 129 K.–A., «Eikasmos» 1, 1990, pp. 147–156 Alvoni 1999: G. Alvoni, Note in margine al IV libro dei Deipnosofisti di Ateneo, «Eikasmos» X, 1999, pp. 167–170 Amado-Rodriguez 1993: M.T. Amado-Rodriguez, Lexico de los fragmentos de Cratino, Diss. Santiago de Compostela 1993 Amado-Rodriguez 1994: M.T. Amado–Rodriguez, Ὁµηροκρατινίζειν, «Minerva» 8, 1994, pp. 99–114 Amado-Rodriguez 1995: M.T. Amado-Rodriguez, Verbos denominativos derivados de gentilicios y topónimos, «Myrtia» 10, 1995, pp. 125–148 Ameling 1981: W. Ameling, Komödie und Politik zwischen Kratinos und Aristophanes: das Beispiel Perikles, «Quaderni catanesi di studi classici e medievali» 3, 1981, pp. 383–424 Amyx–Pritchett 1958: D.A. Amyx–W. Kendrick Pritchett, The Attic Stelai: Part III. Vases and Other Containers, «Hesperia» 27,4, 1958, pp. 255–310

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Il titolo del volume degli Atti non è ancora noto nel momento in cui licenzio per la stampa il presente volume. Il titolo del volume FrC 3.1, contenente l’introduzione generale e i testimonia su Cratino, è ancora provvisorio nel momento in cui licenzio per la stampa il presente volume.

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Cratino

Blümner 1891: H. Blümner, Studien zur Geschichte der Metapher im Griechischen. 1: Ueber Gleichniss und Metapher in der attischen Komödie, Leipzig 1891 Boardman 1979: J. Boardman, The karchesion of Herakles, «JHS» 99, 1979, pp. 149–151 Boardman 1985: J. Boardman, The Parthenon and its Sculptures, London 1985 Bolling 1961: G. B. Bolling, Textual Notes on the Lesbian Poets, «AJPh» 82, 1961, pp. 151–163 Bolton 1962: J.D.P. Bolton, Aristeas of Proconnesus, Oxford 1962 Bompaire 1958: J. Bompaire, Lucien écrivain. Imitation et creation, Paris 1958 Bona 1988: G. Bona, Per un’interpretazione di Cratino, in E. Corsini (a c. di), La polis e il suo teatro, vol. II, Padova 1988, pp. 181–211 Bona 1992: G. Bona, Sulle tracce di uno strano viaggio (Cratin. fr. 223 K.–A.), «Eikasmos» 3, 1992, pp. 137–148 Bonanno 1972: M.G. Bonanno, Studi su Cratete comico, Padova 1972 Bond 1981: G.W. Bond, Euripides. Heracles, Oxford 1981 Bossi–Tosi 1979–1980: F.Bossi–R.Tosi, Strutture lessicografiche greche, «BIFG» 5, 1979– 1980, pp. 7–20 Bothe 1844: Die griechischen Komiker. Eine Beurtheilung der neuesten Ausgaben ihrer Fragmente, Leipzig 1844 Bothe PCGF: F.H. Bothe, Poetarum Comicorum Graecorum Fragmenta. Post A. Meineke recogn. et lat. transt. F.H.B. Accessit Index nominum et rerum quem construxit I. Hunzicker, Parisiis 1855 Böttiger 1838: C.A. Böttiger, Kleine Schriften archäologischen und antiquarischen Inhalts, gesammelt und hrsg. von Julius Sillig, Leipzig 1837 (vol. 1)-1838 (18502 [1–3]) Bowie 1982: A.M. Bowie, The parabasis in Aristophanes. Prolegomena. Acharnians, «CQ» n.s. 32, 1982, pp. 27–40 Bowie 1993: A.M. Bowie, Aristophanes: Myth, Ritual and Comedy, Cambridge 1993 Bowie 2000: A.M. Bowie, Myth and Ritual in the Rivals of Aristophanes, in Harvey– Wilkins 2000, pp. 317–339 Bowie 2010: A.M. Bowie, Myth and Ritual in Comedy, in Dobrov 2010, pp. 143–176 Brandwood 1976: L. Brandwood, A Word Index to Plato, Leeds 1976 Braund–Wilkins 2000: D. Braund–J. Wilkins, Athenaeus and His World. Reading Greek Culture in the Roman Empire, Exeter 2000 Bremer–Handley 1993: J.M. Bremer–E.W. Handley (edd.), Aristophane. Sept exposés suivis de discussions par E. Degani, T. Gelzer, E.W. Handley, J.M. Bremer, K.J. Dover, N. Loreaux, B. Zimmermann, «Entretiens Hardt» 38 (Vandoeuvres–Genève, 19–24 Août 1991), Genève 1993 Brinkmann 1902: A. Brinkmann, Ein Schreibgebrauch und seine Bedeutung für die Textkritik, «RhM» 57, 1902, pp. 481–497 Brommer 1982: F. Brommer, Theseus. Die Taten des griechischen Helden in der antiken Kunst und Literatur, Darmstadt 1982 Bruzzese 2011: L. Bruzzese, Studi su Filemone comico, Lecce 2011 Buchholz 1987: H.-G. Buchholz, Brettenspielenden Helden, S. Laser (hrsg.), Sport und Spiel, Göttingen 1987, pp. 126–184 Bühler 1999: = Zenob.

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Indici 1. Indice dei testimoni dei frammenti Ael. nat. an. ΧΙΙ 10: fr. 58 Antiatt. p. 94,7: fr. 37 Antiatt. p. 96,14: fr. 36 Apoll. Dysc. pron. (GrGr II 1.1 p. 21,12 Schn.): fr. 55 Apost. VI 20: fr. 7 Athen. epit. II 47a: fr. 47 Athen. III 86e: fr. 8 Athen. III 92e: fr. 8 Athen. III 119b: fr. 44 Athen. IV 164d–e: fr. 6 Athen. VIII 344e: fr. 62 Athen. IX 375a: fr. 4 Athen. IX 384b: fr. 49 Athen. IX 396a–b: fr. 29 Athen. IX 410d: fr. 10 Athen. XI 501d: fr. 54 Athen. XIV 638d–f: fr. 17 Clem. Alex. strom. 1 24, 1––2: fr. 2 Clem. Alex. strom. VI 26.4: Empipramenoi Diog. Laert. I 12: fr. 2 Diogen. Vind. III 85: fr. 64 Et. gen. A s.v. ἀπόπατος (Et. magn. p. 132,12): fr. 53 Et. gen. AB s.v. ἄνηστις: fr. 47 Et. gen. α 22 Lass.–Liv. (Et. magn. p. 8,9): fr. 66 Et. gen. β 105 Berg. (Et. magn. p. 196,7): fr. 45 Et. Sym. α 49: fr. 66 Et. Sym. s.v. ἀµφιετηρίς (Reitzenstein 1897, p. 267,25): fr. 9 Eust. in Il. p. 768,14: fr. 45 Eust. in Il. p. 947,17: fr. 47 Eust. in Od. p. 1721,26: fr. 45 Harp. p. 158,15 Dind. (= I 4 Keaney): fr. 65 Harp. p. 160,5 Dind. (= I 10 Keaney): fr. 16

[Hdn.] Philet. 79: fr. 10 Heph. ench. XV 7 (p. 49,20 Consbr.): fr. 11 Hsch. α 461: fr. 66 Hsch. α 1869: fr. 24 Hsch. α 2475: fr. 15 Hsch. β 147: fr. 54 Hsch. β 969: fr. 34 (Hsch. δ 1925): fr. 7 Hsch. ε 6767: fr. 3 Hsch. π 4455: fr. 20 Lex. Bekk.III (περὶ συντάξεως) AG I p. 129, 9 s: fr. 30 Lex. Bekk.III (περὶ συντάξεως) AG I p. 129, 12: fr. 31 Lex. Mess. fol. 281r 17: fr. 52 Macrob. Sat. V 21.6: fr. 40 Phot. α 146: fr. 66 Phot. α 629: fr. 41 Phot. α 1325: fr. 7 Phot. α 1650: fr. 38 Phot. α 1748: fr. 21 Phot. α 1803: fr. 67 Phot. α 1874 fr. 22 Phot. α 1940: fr. 47 Phot. α 2602: fr. 53 Phot. β 130: fr. 45 Phot. δ 659: fr. 7 Phot. ε 1124: fr. 37 Phot. ε 1152: fr. 57 Phot. ε 2098: fr. 25 Phot. ε 2140: fr. 3 Phot. ο 358: fr. 56 Phot. ρ 22: fr. 26; fr. 27 Phot. σ 59: fr. 14 Phot. p. 658,14: fr. 59 Plut. Cim. X 4: fr. 1 Poll. VI 12: fr. 46 Poll. VI 48: fr. 44 Poll. VII 28: fr. 48

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Indice dei testimoni dei frammenti

Poll. VII 122: fr. 42 Poll. VII 159: fr. 50 Poll. VII 198: fr. 51 Poll. IX 98–99: fr. 61 Poll. X 25: fr. 42 Poll. X 34: fr. 50 Poll. X 64: fr. 10 Poll. X 81.82: fr. 23 Poll. X 140 fr. 39 POxy 663: Dionysalexandros test. i Prov. Bodl. 429: fr. 3 Prov. Bodl. 925: fr. 64 b Σ α 261: fr. 66 b Σ α 1228: fr. 21 b Σ α 1255: fr. 22 b Σ α 1272: fr. 67 b Σ α 1361: fr. 22 b Σ α 1383: fr. 47 b Σ α 1872 fr. 19 b Σ α 1932: fr. 53 b Σ α 2259: fr. 47 Schol. (ΕΓ) Ar. Ach. 671a: fr. 6.1 Schol. (VE) Ar. Av. 1296a: fr. 32 Schol. (RΓ) Ar. Lys. 575: fr. 43 Schol. (V) Ar. Pac. 143a fr. 14 Schol. (VΓ) Ar. Vesp. 544b: fr. 33 Schol. Basil. Greg. Naz. or. 38,5: fr. 68 Schol. cod. Par. 1854 (An. Par. I p. 182, 24) ad Aristot. eth. Nic. I 6 p. 1098a 18: fr. 35 Schol. (BC, Vφ, Ω) Luc. Alex. 4 (p. 180 R.): fr. 13 Schol. (V∆) Luc. Iov. trag. 48 (p. 83,16 R.): fr. 12

Schol. (T) Plat. Euthyd. 285c (p. 122 Greene = p. 188 s., 15 Cufalo): fr. 18 Schol. (T) Plat. Lach. 187b (p. 117 Greene = p. 1766s., 11 Cufalo): fr. 18 Schol. (T) Plat. Phileb. 14a (p. 50 Greene = p. 88, 2 Cufalo): fr. 63 Schol. cod. Paris. gr. 1808 fol. 354v = Paris. gr. 1809 fol. 309 (ed. Bast) ad [Plat.] Axioch. 367b (apud Luppe 1968): fr. 28 Steph. Byz. δ 146: fr. 5 Sud. α 1499: fr. 60 Sud. α 2059: fr. 38 Sud. α 2153: fr. 21 Sud. α 2285: fr. 46 Sud. α 2320: fr. 22 Sud. α 2369: fr. 67 Sud. α 2443: fr. 47 Sud. α 3372: fr. 19 Sud. α 3468: fr. 53 Sud. β 250: fr. 45 Sud. δ 1213: fr. 7 Sud. ε 137: fr. 36 Sud. κ 2595: fr. 66 Sud. ν 28 fr. 14 Sud. ο 394: fr. 56 Sud. ρ 21: fr. 26; fr. 27 Sud. ω 14 (III p. 605): fr. 59 Zenob. Ath. I 56: fr. 58 Zenob. Ath. III 16: fr. 61 Zenob. Ath. III 33: fr. 64 Zenob. vulg. V 67: fr. 61 Zenob. vulg. VI 24: fr. 64

2. Indice delle parole greche discusse ἀγερσικύβηλις: 3806s. ἀγός: 23 ἀγύρτης: 3816s. Ἀδώνια: 1236s. αἰθρία: 3446s. αἴθριος: 1586s.

αἱµωδεῖν / αἱµῳδεῖν: 254 αἱµωδεῖν / αἱµωδιᾶν: 254 αἱµωδέω: 256 αἱµωδέω = avere l’acquolina in bocca / = avere paura: 255; 2566s. αἰτέω = chiedere il coro: 120

Indice delle parole greche discusse αἰών: 37 αἰών + πᾶς: 38 αἰῶνα (συνδια)τρίβειν: 37 ἄκλητος: 2876s. ἄκοµψος: 1106s. ἀκούων τῶν ἐπῶν: 257 ἄλευρα, farina di frumento: 148 ἀληθής, precede l’impiego di un proverbio: 173 ἄλφιτα, farina d’orzo: 148 ἄλφιτον, singolare collettivo: 148 ἀµάρτοιν, ottativo: 3536s. ἀµφιετηρίζοµαι, : 86 ἄν omesso con un congiuntivo: 177 in anafora come caratteristica del parlato: 122 ἀνά prefisso intensivo: 456s. prefisso con idea di movimento: 456s. ἀναδιφάω: 456s. ἀναρύτω: 197 ἀναρύτω, valore metaforico: 195 ἀνασπάω, valore metaforico: 195 ἀνδρακάς: 1416s. ἀνεικάζοµαι: 3836s. ἀνεπάγγελτος: 2786s.; 283 ἀνεσία: 1426s. ἀνὴρ θεῖος: 316s. ἄνηστις: 2886s. ἄνηστις / νῆστις: 2886s. ἀνίσταµαι = alzarsi, svegliarsi): 330 -αξ, in nomi di animali: 52 ἀπειλή: 133 ἀπελεύθερος: 3376s. ἀπεχθάνοµαι, con participio: 197 ἀπο-, preverbo con funzione intensificativa: 132 (ἀπ)οίχοµαι = morire: 38 ἀποκτιννύω /ἀποκτίννυµι: 128; 132 ἀποπατέω: 319 ἀποπνίγω: 320 ἄριστος + genitivo: 34 ἀσκαρίζω: 169 ἀστράπτω: 343; 346

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ἀτιµία: 93 αὖθις / αὖτις: 365 αὐχέω: 266s. αὐχέω, in domande retoriche: 276n. 13 ἀφοδεύω (e ἄφοδος): 319 Ἀχαιΐδες οὐκέτ᾽ Ἀχαιοί, in B 235, H 96: 310 ἀωρο-, primo elemento di composti: 98 ἀωρόλειος: 976s. βαδίζω: 2776s. βαλανειόµφαλος: 3246s. βασιλεύς: 360 βαΰζω: 696s. βδελλολάρυγξ: 2826s. βέβηκα = τέθνηκα : 38 βῆ : 277 βῆ / βή: 275 βόλιτον: 2646s. βόλιτον / βόλβιτον: 2626s. βόµβαξ: 3326s. -βοσκ-, secondo elemento di composti: 297 βοτόν, come Schimpfwort: 327 βούκολος: 1146s.; 296 βροτός: 23 βρύχω: 371 βρύω: 926s. βωλοκόπος: 586s.; 61 γὰρ, posizione nella frase: 26 γάρ τοι: 287 γελγόπωλις: 299 γέρανος: 62 γραµµατεύς: 29–31 δὲ δή : 2496s. δελφάκιον: 53 δελφακόοµαι: 526s. δέλφαξ, età : 496s.; 52 δέλφαξ, maschile e femminile: 50; 51 δέλφαξ, possibile significato osceno: 526s. δή, unito ad un pronome personale: 127 ∆ηλιάς: 149 ∆ιδασκαλίαι esercitazioni, prove di un coro: 1936s.

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Indice delle parole greche discusse

opera di Aristotele: 193 rappresentazioni drammatiche: 194 διδάσκω: 1226s.; 180 δίδωµι, con dativo e accusativo (o dativo e infinito): 231 δίδωµι = concedere il coro: 120 ∆ιὸς µεγάλου: 78 δίφρον φέρων/διφροφορέω/ διφρόφορος: 184 δραπέτης: 309 δραπέτις: 309 ∆ωδωναῖος, presunta equivalenza con µολοττικός: 56 ἐγκυρέω/ἐγκύρω: 192 -έης: 117 εἰ, senza ἄν in protasi di periodo ipotetico al congiuntivo: 1786s. εἴ τις ὑµῶν: 178 ἐκεῖνος: 1466s. ἐµοὶ διδάσκειν: 1186s. ἐµπίµπρηµι: 387 ἔµφασις, (δι᾽ ἐµφάσεως in hyp. Cratin. Dionysalex. col. ii r. 466s.): 2396s. ἔνεστι/ἔνεισι, ad inizio verso in elencazioni di oggetti: 244 ἔνθα, ad inizio verso nei poemi omerici: 78 ἔνθα καλεῖται, costruzione brachilogica: 776s. ἐνταυθοῖ: 244 ἐνταυθοῖ/ἐνταυθί: 243 ἐξαυτῆς: 192 ἐξελεύθερος: 3376s. ἐοικ-, in commedia: 62 ἐοικώς, a fine verso nei poemi omerici: 62 ἐπέραστος: 232 ἐπέτειος: 161 ἐπί, in enjambement: 315 ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) χλευάζου(σιν), in hyp. Cratin. Dionysalex. col. i r. 116s.: 224–226 Ἐρασµονίδης: 97 ἐρεβοδιφάω: 456s. ἐρι-, prefisso intensivo: 361

ἐριβῶλαξ: 313 e n. 228; 3566s.e n. 246; 358; 361 ἐρυγγάνω: 3706s. ἐτήρ: 86 ἐτήσιος: 161 εὐθὺς γάρ indica le prime conseguenze di un dato evento: 2556s. all’inizio di un trimetro giambico in commedia: 2556s. εὐψυχία κατὰ πόλεµον, in hyp. Cratin. Dionysalex. col. i r. 166s.: 2296s. εὐωχέω: 366s. ἔχειν χόρον = ottenere il coro: 120 ἕωθεν: 319 -ζω, in Schallverba: 69; 165 ζωµοτάριχος: 273 ἦ, impf. 1a sing. nell’attico di V sec. a.C.: 339 ἧ µὲν δή: 82 ἡλίθιος: 2766s. ἦν ἄρα , in posizione iniziale: 1726s. ἡνίκ᾽… ἦν: 339 -ῃσι, dativo plurale: 83; 270 θᾶκος: 786s. θᾶκος = luogo dove si gioca: 76 θᾶκος = seggio da gioco: 756s. θαλλοφόροι: 1866s. Θασία ἅλµη: 686s. θεῖος: 31 θεοειδής, detto di Alessandro nei poemi omerici: 231 Θουριοµάντεις : 370 θρίαµβος: 196 θύρσος: 250 -ιάς: 149 -ίδης: 97 indica la Sippenzugehörigkeit: 360 ἱερὰ ὁδός: 377 -ίζω, nei verbi che indicano la celebrazione di una festa: 86 ἰθύφαλλος: 113 -ικός: 339 κἀγὼ γάρ, iniziale: 24; 26 καθάρυλλος/καθαρύλλως: 176

Indice delle parole greche discusse καί, all’inizio di risposte: 359 καὶ πάλιν, nelle citazioni del περὶ συντάξεως si può riferire alla stessa opera o a due differenti: 1776s.; 179 καλάσιρις: 1856s. καλέονται, a fine verso nei poemi omerici: 78 καρχήσιον: 2516s. καταπυγοσύνη: 345 κλίνη: 2986s. κουρίς: 245 κρίνειν … νικᾶν, in argumenta: 232 κροκωτός: 2506s. κυβηλιστής: 381 κύρτος: 48 κῳδάριον: 2946s. κῳδάριον , presunto valore osceno: 294 κῳδάριον / κωδάριον: 2916s. κωφός: 67 λαβεῖν χόρον = ottenere il coro: 120 λάσανον: 316 λάχανον: 319 λάχανον, possibile aprosdokēton per λάσανον: 316; 317 λεῖος: 98 λιπαρὸν γῆρας: 36 λόγος, detto, proverbio, massima: 173 λῷστος: 3076s. µαγίς = µάκτρα e = τράπεζα: 147 µακρῷ, alla fine di un trimetro giambico: 22 µάλα πιθανῶς, in hyp. Cratin. Dionysalex. col. ii r. 46: 238 µάχαιρα: 2446s. µάχαιραι κουρίδες: 243; 245 µάχοµαί τινι, gareggiare, competere con qualcuno: 372 µεῖραξ: 310; 3526s. µέντοι, enfatico: 70 µεσόµφαλος: 326 µηχανοδίφης: 46 µοι φράσον, alla fine di un trimetro giambico: 250 µῦς: 345 µυωνία: 341

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νακοτίλτης: 290 νακότιλτος: 2906s.; 2926s. νακοτιλτοῦντα : 290 νῆστις: 289 νικῷ , ottativo: 307 νῦν / νυν: 344 ὁ πόλεµος = guerra del Peloponneso: 208 ὁ τυφλός = Omero: 706s. ὅδε / ὁδί: 3226s. οἷ᾽ ἄττα: 69 οἱ περὶ (ἀµφὶ) τινα: 406s. οἷον: 416s. οἶσθα: 361 -οισι, dativo plurale: 90; 182 οἰσπώτη / οἰσπωτή: 266 οἰσπώτη = sporco della lana / = sterco di pecora: 2656s. οµοι- , a fine verso nei poemi omerici: 84 ὄπισθεν + dativo: 1836s. ὄστρειον: 83 οὐ µέντοι, con µὰ ∆ία preposto o posposto: 70 οὐκ, ἀλλά: 264 οὖτος, indica vicinanza al locutore: 183 οὖτος, al vocativo (assoluto o preceduto da ὦ) per indicare un’apostrofe con tono di ripicca: 3296s. παίζω, con l’accusativo: 362 Πανέλληνες: 346s. Πανέλληνες, nei poemi omerici: 346n. 22 πάντ᾽ + superlativo: 336s. πάντ(α), intensifica il valore di un aggettivo: 336s. παραγίγνεσθαι, capitare, toccare in sorte: 227 παραγίγνεσθαι, entrare in scena: 226 παράπυξος: 299 παραρρέει / παραρρέῃ: 3746s. παραστάς = stipite e vestibolo: 259; 2606s. παραφαίνω, indica l’entrata in scena di un attore: 224 πατρικός: 3386s.

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Indice delle parole greche discusse

πέρδοµαι: 1696s. πεσσός = ψῆφος = pedina da gioco: 73; 75: 79 πεσσός, per designare un luogo: 76 πίννη: 82 πλέως, a tre uscite: 89 πνίγω: 176 ποδαπ- + εἰµί: 351 ποικίλον: 251 ποικίλος: 2616s. ποιµήν: 246 πόλις, gioco da tavolo: 3616s. πόλις = territorio abitato: 361 ποντικός: 273 πραγµατοδίφης: 46 πρὶν (ἄν) + congiuntivo: 1806s. πρὸ τοῦ alla fine di un trimetro giambico: 23 tra articolo e sostantivo: 226s. πρόβατον: 2456s.; 277 πρόθυρον: 261 πρόµος: 22 προσέοικα: 62 πρόσθιοι (ἐµπρόσθιοι) ὀδόντες : 257 πρόσθιος: 257 πρόσκαιρος: 161 πυππάζω (e πύππαξ): 3326s. πυρπολέω: 235 -πωλ-, come secondo elemento di composti: 300 ῥάζειν/ῥύζειν : 163; 1656s. ῥάζειν/ῥύζειν - ῥαζεῖν/ῥυζεῖν: 164 σαµιακὸν τρόπον: 1076s. σαργάνη: 2696s. *σαργανίς: 270 σάργανος: 269; 272 -σθα, desinenza 2a sing. perfetto: 361 -σία: 143 -σις: 143 σµῆνος: 446s. σοφιστής: 436s. στασιάζω: 349 στέφος: 159 στιβάς: 385 στίγων, come Schimpfwort: 3276s.

στολή: 249 Στρατιώτιδες, titolo di una commedia di Ermippo: 309 συνδιατρίβω: 376s. σκιαµαχέω: 1316s. σκιαµαχέω, con πρὸς + acc.: 132 τάριχος: 2726s. genere: 267–269 τέχνη: 162 τέχνη = arte drammatica: 162 τῇδε πόλει: 307 τιµάω: 159 τις εἶναι: 349 τίτθη: 616s. τὸν λοιπὸν χρόνον: 166 τοῦτό µοι φράσον: 250 τραγοκουρικός: 245 τράπεζα: 146 τρίγλη: 3716s. τρίπους: 146 τυραννὶς ἀκίνητος, in hyp. Cratin. Dionysalex. col. i r. 146s.: 229 ὑός/υἱός, nei papiri: 221 ὑός/υἱός ποιητός = figlio adottivo: 222 ὑπάρχειν = essere: 231 Ὑπερβόρε(ι)οι: 154; 155–158 ὑπερσοφιστής: 44 ὐποτρίβω, tritare, triturare: 176 ὑπότριµµα: 176 φαίνεσθαι ἐναργεῖς, nei poemi omerici indica le epifanie divine: 202 φέρε νῦν: 344 φιάλη: 3236s. φιλοξενώτατος: 33 φλεγυρός: 370 φοιτᾶν ἐπὶ δεῖπνον: 283 φωράω: 238 χειρόµακτρον: 88 e n. 72; 92 χηνοβοσκός: 2966s. χλευάζω: 2256s. χλωρός: 265 χοῖρος maiale piccolo: 53 maschile e femminile: 53 valore osceno: 53

Indice dei passi discussi χρόνῳ µακρῷ: 87 ψῆφος, pedina da gioco: 73; 75; 79 ὧδε: 3486s. ὠµόλινον : 89; 92

ὥρα: 87 ὡς / ὥσπερ, assenza in comparazioni: 334

3. Indice dei passi discussi Ach. Tat. II 22.6: 132 Ael. nat. an. XIII 27: 98 Aesch. Ag. 795: 246 Ag. 1497: 27 e n. 19 Ag. 1595: 141 Choeph. 3736s.: 157 Eum. 124: 329 Pers. 1: 386n. 24 Pers. 127–129: 44 Pers. 660: 250 Prom. 358: 346 Prom. 829: 76 Suppl. 234: 351 Suppl. 559: 297 Suppl. 788: 269 fr. 196.2 (Promētheus lyomenos): 33 fr. 205 (Promētheus Pyrkaeus): 92 fr. 258a (Phineus): 287; 289 Aesop. 179 Hausrath–Hunger: 191 Alc. fr. 307 V.: 157 Alex. fr. 25.12 K.–A. (Asōtodidaskalos): 36 fr. 43.2 K.–A. (Galateia): 273 fr. 89 K.–A. (Hēsione): 93 Amips. fr. 4 K.–A. (Apokottabizontes): 303 Anacr. PMG 388/43: 86 Anaxand. fr. 35.11 K.–A. (Odysseus): 294 Anaxipp. fr. 3.16s. K.–A. (Keraunos vel Keraunoumenos): 96 Apione FGrHist 616 F 49: 325 Apollod. epit. I 3: 318 Ar. Ach. arg. I r. 146s.: 218; 220 Ach. 191: 323

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Ach. 526–537: 206; 2346s. Ach. 564: 330 Ach. 575: 96 Ach. 665: 370 Ach. 764–781: 51 Ach. 786: 50; 52 Ach. 9706s. : 67 Ach. 1026: 263 Ach. 1150: 86; 172; 366 Ach. 1190–1227: 271 Av. 71: 264 Av. 142: 336; 338 Av. 155: 250 Av. 521: 369 Av. 629: 28 Av. 696: 87 Av. 777: 261 Av. 823: 307 Av. 988: 369 Av. 1292–1299: 1816s.; 345 Av. 1416: 191 Av. 1424: 46 Eq. arg. A1 rr. 9–11: 220 Eq. 418: 191 Eq. 459: 66 Eq. 518: 152; 161 Eq. 5736s.: 23 Eq. 590: 347 Eq. 658: 263 Eq. 680: 333 Eq. 716–718: 606s. Eq. 852: 416 Eq. 1276–1281: 342 Eq. 1316–1334: 282 Eq. 1333: 360 Lys. 353: 43; 45

448 Lys. 574–576: 2656s. Lys. 1061: 53 Lys. 1215: 315 Nub. arg. A5 r. 176s. : 218 Nub. 11: 125 Nub. 192: 456s. Nub. 297: 436n. 27; 45 Nub. 300: 3566s. Nub. 332: 370 Nub. 334: 89 Nub. 346: 84 Nub. 723: 330 Nub. 732: 329 Nub. 769–772: 30 Nub. 9556s.: 77 Nub. 993: 78 Nub. 1417: 173 Pac. arg. A3 r. 206s.: 220 Pac. 791: 46 Plut. 85: 120 Plut. 815: 316 Ran. arg. I rr. 14–16: 218 Ran. 45: 251 Ran. 84: 38 Ran. 295: 263 Ran. 374–376: 224 Ran. 384–388 ~ 389–393: 129 Ran. 547: 256 Ran. 575: 282 Ran. 6866s.: 306 Ran. 811: 162 Ran. 9026s.: 195 Ran. 907–970: 168 Ran. 1083–1086: 30 Ran. 1203: 294 Ran. 14206s.: 306 Ran. 1454: 250 Ran. 1515–1517: 78 Ran. 1522: 78 Thesm. 45: 3326s. Thesm. 50: 22 Thesm. 136: 351; 353 Thesm. 1916s.: 286; 342 Thesm. 215: 387 Thesm. 237: 53

Indice dei passi discussi Thesm. 331–334: 149 Thesm. 410: 23 Thesm. 4316s.: 30 Thesm. 686: 70 Thesm. 703: 42 Thesm. 889: 79 Thesm. 11036s.: 30 Vesp. 1: 330 Vesp. 107: 275 Vesp. 395: 330 Vesp. 425: 416s.; 45 Vesp. 1294: 70 Vesp. 1364: 330 Vesp. 1482: 79 Vesp. 15146s.: 69 Vesp. 1518–20: 3656s. fr. 73 K.–A. (Babylōnioi): 70 fr. 99 K.–A. (Babylōnioi): 3276s. fr. 112 K.–A. (Geōrgoi): 356 fr. 156 K.–A. (Gērytadēs): 17 fr. 207.1 K.–A. (Daitalēs): 273 fr. 229 K.–A. (Daitalēs): 98 fr. 256 K.–A. (Danaides): 312 fr. 284 K.–A. (Dramata ē Kentauros): 283; 286; 288 fr. 426 K.–A. (Olkades): 69 fr. 573 K.–A. (Phoinissai): 315 fr. 611 K.–A. (inc. fab.): 23 fr. 727 K.–A. (inc. fab.): 195 Arar. fr. 4 K.–A. (Kaineus): 251 Archil. 2 fr. 23.146s. W. : 66 2 fr. 126 W. : 66 2 fr. 168 W. : 96 2 fr. 216 W. : 127 2 fr. 307 W. : 49 Archipp. fr. 33 K.–A. (Ichtyes): 290 Aristophon. fr. 10.9 K.–A. (Pythagoristēs): 61 Aristot. Ath. Pol. 26.4: 210 eth. Nic. 1145a 27: 32 eth. Nic. 1160b 3: 360 eth. Nic. 1167a 34: 349 Asclep. AP XII 161: 346

Indice dei passi discussi Athen. VII 287a: 364 XI 474f–475b: 2476s.; 2516s. e n. 199 XIII 570a : 235 Bacch. III 58 ss.: 157 VI 9: 89 XVIII 26: 318 Call. fr. 19 K.–A. (Pedētai): 338 fr. 20 K.–A. (Pedētai): 369 Callim. Iamb. I 28 (fr. 91 Pf.): 446s. n. 30 Callix. FGrHist 627 F 2/F 3: 252 Cephisod. fr. 1 K.–A. (Amazones): 331 Cerc. fr. 12 Powell = 60 Lomiento: 1476n. 120 Chrysipp. SVF II fr. 79a Arnim: 81 Cleanth. fr. 7.1 (CA p. 230 Powell): 250 Clem. Alex. paed. II 111.3 (= Kock CAF III fr. 1259): 28 strom. VI 26.4: 386 com. adesp. 1105 K.–A., 98–103: 365; 3696s. Cratin. fr. 83 K.–A. (Thraittai): 1106n. 94 fr. 91 K.–A.(Idaioi): 202 fr. 125 K.–A. (Nemesis): 369 fr. 151.4 K.–A. (Odyssēs): 32 fr. 160 K.–A. (Panoptai): 36 fr. 175.1 K.–A. (Ploutoi): 89 fr. 184 K.–A. (Pylaia): 172 fr. 204 K.–A. (Pytinē): 3196s. fr. 237 K.–A. (Trophōnios): 364 fr. 255 K.–A. (Cheirōnes): 1526n. 123 fr. 256.1 K.–A. (Cheirōnes): 23 fr. 257.2 K.–A. (Cheirōnes): 79 fr. 306 K.–A. (inc. fab.): 339 fr. 313 K.–A. (inc. fab.): 246 fr. 317 K.–A. (inc. fab.): 296 fr. 318 K.–A. (inc. fab.): 1106n. 94 fr. 326 K.–A. (inc. fab.): 229; 376 fr. 327 K.–A. (inc. fab.): 233 fr. 328 K.–A. (inc. fab.): 317 fr. 334 K.–A. (inc. fab.): 348 fr. 352 K.–A. (inc. fab.): 380 fr. 406 K.–A. (inc. fab.): 182; 185

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fr. 428 K.–A. (inc. fab.): 283 test. 19 K.–A.: 232 test. *40 K.–A.: 325 Criti. fr. 88 B 8 D.–K. = 6 Gent.–Prato = 2 8 W. : 21 Damox. fr. 2.38 K.–A. (Syntrophoi): 176 Dicaearch. fr. 21 W.: 377 fr. 86 W.: 187 Didimo fr. 24 p. 42 Schmidt: 325 Diocl. fr. 14.4 K.–A. (inc. fab.): 37 Diogen. II 61: 376 III 70: 189 IV 36: 746s. Dione Cassio 39.38: 338 Dione Crisostomo Or. 8,32: 145 Diotimo SH 394.3: 104 Ephor. FGrHist 40 F 12: 127 Epich. fr. 117 K.–A. (Pyrra kai Promatheus): 146; 147 e n. 120 Epicrate fr. 8 K.–A. (Choros): 341 Eratost. fr. 25, p. 31 Strecker: 325 fr. 59 Powell: 325 Eubul. fr. 56.6 K.–A. (Kybeutai): 89 fr. 57.5 K.–A. (Kybeutai): 382 Eupol. fr. 175 K.–A. (Kolakes): 283; 367 fr. 219.1 K.–A. (Poleis): 23 fr. 221 K.–A. (Poleis): 19 e n. 9; 36 fr. 267 K.–A. (Prospaltioi): 235 fr. 274 K.–A. (Taxiarchoi): 303 fr. 280 K.–A. (Taxiarchoi): 251 fr. 319 K.–A. (Chrysoun genos): 369 fr. 327.4 K.–A. (inc. fab.): 301 fr. 368 K.–A. (inc. fab.): 98 Eur. Alc. 336: 162 Cycl. 654: 126; 127 El. 6: 315 Hec. 462–465: 1526n. 124 Hec. 4636s.: 149 Her. 6876s.: 149; 152

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Indice dei passi discussi

Ion 596: 349 Iph. Aul. 194–198: 75 Med. 1906s.: 351 Phoen. 4226s.: 359 Phoen. 544: 278 Phoen. 12046s. : 636n. 44 Phoen. 14266s.: 636n. 44 Tr. 225: 354 fr. 360.6 K. (Erechtheus): 3536s. fr. 473 K. (Likymnios): 111 fr. 903 K. (inc. fab.): 353 [Eur.] Rhes. 183: 76 Eust. in Il. p. 73,42 (p. 117 van der Valk): 268 Gorg. fr. 82 B 20 D.–K.: 21 Hdt. I 1–4: 235 I 23: 122 I 67.5: 96 II 122.1: 88 e n. 72 IV 33–36: 1566n. 129; 1576s. IV 94.4: 130 V 92.30: 336 Hellad. in Phot. bibl. 279 p. 533 b (8, 180 Henry): 1476n. 120 Heph. ench. XIII 1 (p. 40, 5 Consbr.): 364 Hermipp. fr. 11 K.–A. (Artopōlides): 301 fr. 47.1–3 K.–A. (Moirai): 2106n. 165; 230 fr. 63 K.–A. (Phormophoroi): 303 fr. 63.23 K.–A. (Phormophoroi): 261 fr. 77 K.–A. (inc. fab.): 303 Herod. VII 78: 46 Hipp. fr. 87.8 (c) Deg. = fr. 85.8 (c) W.2: 46 Hom. Β 235: 310 Η 96: 310 Ν 39: 84 ν 14: 141 σ 266s.: 60 Hom. h. III (Ap.) 157: 149 III (Ap.) 172: 71

Hsch. α 1970: 257 α 4016: 85 α 4821: 383 δ 1925: 73–75 δ 2006: 45 ε 3632: 45 ε 3692: 335 η 577: 1106n. 94 θ 1026: 225 κ 3571: 314 µ 421: 245 π 1384: 73 π 2029: 73 π 4415: 137 π 4455: 137 ρ 33: 166 ρ 476: 163; 166 σ 1137: 314 φ 590: 370 χ 506: 225 Hygin. fab. 187: 318 Hyp. fr. 197 Kenyon: 337; 338 e n. 239 IG II/III2 2363, 4–7 (Dionysalex test. *ii K.–A.): 241 Ion Chius TrGF 19 F 20: 321; 326 Isocr. XIX 38: 306s Luc. XXXV 11–15: 2336s. XX (Iupp. Conf.) 4,15: 257 XXI (Iov. Trag.) 38,12: 283 XXXIX (Asin.) 25: 309 XXXIII (Par.) 13: 281 Lycophr. fr. 25 Strecker: 325 Lysipp. fr. 6 K.–A. (Bakchai): 369 Men. fr. 88 K.–A. (Daktylios): 120 fr. 420.5 K.–A. (inc. fab.): 37 fr. 881 K.–A. (inc. fab.): 169 Moer. ο 32 Hansen: 83 Nicoph. fr. 10 K.–A. (Encheirogastores): 300 Oro B 118: 265 Paus. I 39.3: 318 Pherecr.

Indice dei passi discussi fr. 11 K.–A. (Agrioi): 182 fr. 117 K.–A. (Myrmēkanthropoi): 364 fr. 134 K.–A. (Persai): 326 Philemon. fr. 13 K.–A. (Harpazomenos vel -menē): 290 fr. 17 K.–A. (Gamos) : 125; 127 Philem. fr. 65 K.–A. (Paroinos): 3416s. Philipp. epigr. 53.1 G.–P.: 58 Phot. α 579: 1536s.; 1586s. α 1328: 85 β 38: 322 η 279: 167 θ 222: 196 ο 574: 83 π 1017: 362 σ 845: 108 υ 28: 375 Phryn. com. fr. 73 K.–A. (inc. fab.): 256 fr. 74.2 K.–A. (inc. fab.): 44 Phryn. gramm. praep. soph. p. 14,3: 254 praep. soph. p. 80,22: 245 praep. soph. p. 96,21: 265 Phryn. trag. TrGF I F 38 (Phoinissai): 386n. 24 Pind. Isthm. III 18: 87 Isthm. VI 23: 157 Nem. I 38: 250 Ol. III 14–16: 157 Ol. III 31: 184 Pyth. X 28–30: 157 Plat. Crat. 401e 3: 45 Euthyd. 272c 2: 28; 29 Euthyd. 285c: 127 Euthyd. 303a: 332 Lach. 180 d–e: 336 Lach. 187b: 127 Leg. 658c 3: 307 Men. 72a 7: 45 Men. 99c: 32

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Menex. 235e: 28; 29 Phileb. 14a 3–4: 3726s. Rp. 450b 2: 45 Rp. 574d 3: 45 Rp. 611d: 806s. Plat. com. fr. 60 K.–A. (Kleophōn): 98 fr. 92 K.–A. (Nyx makra): 176 Platon. diff. char., Proleg. de com. II, 1 p. 6 Koster (= Cratin. test. 17 K.–A.): 15 Plaut. Amph. 2956s.: 256 Plut. Cic. 22.6: 164 Cim. 10.3: 164 Cim. 10.6: 33 Cim. 15.3: 196n. 9 Cim. 16.1: 32 Cimone e Lucullo (σύγκρισις): 32 Ex. 603d 9: 33 Nic. 3, 5–8: 152 Per. 37.2: 210 Quaest. Conv. I 625d: 30 Poll. II 32: 2426s.; 244 III 14: 1106n. 94 III 83: 338 V 91: 264 VI 83: 1476n. 120 VII 159: 298 VII 197, 198, 199: 299 Pompon. Mel. III 5: 157 POxy 2742 (CGFP *74 Austin = PCG VIII 1104 = CLGP II.4,4 Perrone): 283 POxy 2806 (CGFP 76 Austin = PCG VIII 1109 K.–A.): 219 proleg. de com. V, rr. 12–21, p. 136s. Koster = Cratin. test. 19 K.–A.: 232 XV, p. 65 Koster: 240 Quint. VIII 3, 83–86: 239 b Σ α 519: 1536s.; 1586s. schol. Ar. Nub. 192: 46 schol. Ar. Thesm. 215: 387 schol. Ar. Vesp. 1510b: 81

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Indice delle parole e cose notevoli

schol. Ar. Vesp. 542/3–544/5: 187 schol. A Heph. ench. p. 156,21 Consbr.: 95 schol. Luc. Iov. trag. 48, p. 83, 16–20 R.: 100 Soph. Ai. 94: 250 Ai. 302: 195 Ai. 383: 354 Ai. 12396s.: 636n. 44 El. 42: 87 El. 607: 90 El. 863: 192 El. 1502: 278 OC 14586s.: 33 OT 156: 87 Trach. 8746s.: 38 fr. 174 R. (Dolopes): 309 fr. 734 R. (inc. fab.): 146; 147 e n. 120 fr. 879 R. (inc. fab.): 44 fr. 895 R. (inc. fab.) : 76 Sophron. fr. 57 K.–A. (mimi viriles incerti): 330 Strab. VIII 6.6: 346s. Strattis fr. 46 K.–A. (Phoinissai): 303 Sud. α 1499: 350; 353 α 1727: 85 αι 149 (II p. 166): 1536s.: 1586s. β 64: 322

δ 1504: 309 ε 2936: 226 µ 1427: 341 Telecl. fr. 2.1 K.–A. (Ampiktyones): 307 fr. 36 K.–A. (Sterrhoi): 117 Theocr. X 31 : 58 Theop. com. fr. 4 K.–A. (Althaia): 3216s.; 326 fr. 70 K.–A. (inc. sed.) : 173 Theop. hist. fr. 115 F 89: 21 Theophr. de igne 43: 176 Thuc. I 2.5: 356 I 139.1: 235 II 22.3: 230 II 65.3: 209 III 104: 1516s. V 11: 162 VI 3.2: 96 Tib. rhet. III 65 Spengel: 239 Timocl. fr. 11. 5–7 Κ.–A. (Epichairekakos): 256 TrGF I 24 T 2: 68 Xen. Hell. I 6.16: 96 Hell. VII 1.31: 343 Symp. I 13: 288 Zenob. Vulg. VI 56: 57

4. Indice delle parole e cose notevoli abbreviazione di ἀκού(ει) (in hyp. Dionysalex. col. i r. 23: di π= π[(ερί)] (in hyp. Dionysalex. col. i r. 8) : 219 di ΠΟΙΗ (in hyp. Dionysalex. col. i r. 8): 221; 223 accumulazione di tre avverbi: 70 Adnominaler Partitiv: 96

Adone: 123 Adonie: 123 Agatone: 98 agone: 166s., 61, 666s., 96 168, 2156s., 216 e n. 171, 2256s., 282, 367 agone dopo la parabasi: 2146n. 166 epirrema: 168 omeoritmico: 166s. ode: 77

Indice delle parole e cose notevoli precede la parabasi: 2146n. 166 sphragis: 66 tono mordace: 61; 66; 342 alba (come inizio delle attività lavorative): 319 Alessandro epiteto θεοειδής: 231 Paride come nome alternativo senza distinzione: 1986n. 152 possibile persona loquens nel fr. 43 K.–A. (Dionysalexandros): 2486s. anafora di ἄν (caratteristica del parlato): 122 di avverbi sinonimi: 70 Archiloco, dramatis persona negli Archilochoi: 156s.; 656s.; 67–69 Aristofane Danaides (frr. 256–276 K.–A.): 312 Gērytadēs (fr. 156 K.–A.): 17 Aristofane di Bisanzio fonte di Ateneo: 496s. articolo designazione antonomastica: 70 assenza di accento nei manoscritti indizio di corruzione: 327 di ἄν in un periodo ipotetico al congiuntivo: 1786s. di ὡς / ὥσπερ nelle comparazioni: 334 Ateneo fonte di Macrobio: 2476s. Atticismi αἰµωδέω: 254 ἀσκαρίζω: 169 βόλιτον: 2626s. βρύκω: 371 γέλγη: 301 τάριχος (neutro): 267–269 banalizzazione della desinenza -οισι in -οις: 90; 182; 315 Bathippos: 97 bronzo di Dodona: 57 Busiride: 1446s. Callia II ὁ, λακκόπλουτος: 19; 996s. Callia III, figlio di Ipponico II: 19; 99; 101

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cane di Dodona: 56 canefore: 183 carchesio donato da Zeus ad Alcmena: 247; 249 etimologia : 247; 2516s. Cercione: 3176s. Cercopi: 105 Cercopi (nomi): 104 Choros titolo di una commedia di Epicrate: 193 Cimone: 196s.; 216s.; 356s.; 112 ἀνὴρ θεῖος: 24; 32 lacedaemonophilia: 19 e n. 9; 24; 32 liberalità: 21; 24; 33 menzioni in commedia: 36 morte : 18; 35 rapporti con Metrobio: 25 citazioni, introdotte da καὶ πάλιν nel περὶ συντάξεως: 1776s.; 179 Clistene: 98 colloquialismi: 276; 287 commedie con i satiri come coreuti: 2046s. con titolo Bousiris: 144 di argomento letterario: 176s. incentrate sui culti: 150; 388 commediografi ‘cimoniani’: 26 composti con ἀωρo- come primo elemento: 98 con βοσκ- come secondo elemento: 297 con λαρυγ-: 283 in -διφ: 456s. in -πωλ-: 3006s. πάν- + etnico: 34 confusioni di Μ/NI: 59 di παρά e περί dovuta all’abbreviazione πέ: 135 di Y/Τ in ΥΩΝ di hyp. Dionysalex. col. i r. 8: 220 omissione di I nella sequenza ΗΓ: 60 Conno: 29 consonantizzazione di -ι in ποιέω: 124; 263

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Indice delle parole e cose notevoli

correlazione, µέν … δέ: 168 coro al femminile: 149; 310 casi di διχορία: 203 e n. 156 di effeminati: 183; 310 di satiri: 203–205 negli Archilochoi: 13–15; 16; 43 negli Empipramenoi: 2866s. nei Boukoloi: 1146s. nei Dionysoi: 3026s. nel Dionsyalexandros: 203–205 nelle Dēliades: 1496s. nelle Drapetides: 309–311 costruzioni sintattiche αἰῶνα (συνδια)τρίβειν: 37 ἀπεχθάνοµαι + participio: 197 ἄριστος + genitivo: 34 αὐχέω + acc. e inf. pres. o fut.: 266s. ἐµοὶ διδάσκειν: 118 ἔνθα καλεῖται: 77 µάχοµαί τινι: 372 οἱ περὶ (ἀµφὶ) τινα: 16; 406s. ὄπισθεν ἰέναι: 183 ὄπισθεν + dativo: 1836s. ὅς + negazione + aoristo (all’inizio di un trimetro giambico): 120 παίζω + accusativo: 362 πάντ(α) + ἀριστεύω al part. : 336s. πάντ(α) + superlativo: 33 πρὶν ἄν + congiuntivo: 1806s. gen. + πλε- a fine verso: 94 crasi: 263 Cratino Archilochoi: agone (contendenti): 166s.; agone in esametri: 666s.; agone omeoritmico: 166s.; agone (sphragis): 66; coro: 13–15; 16; 43; parabasi: 916s.; paragoni con un femminile: 606s.; 81; presenza di Archiloco: 156s.; 656s.; 67–69; presenza di Esiodo: 156s.; 42; presenza di Omero: 156s.; 42; 70; riferimenti politici: 18; 26; Unterweltszene o nekyomanteia: 176s.; 42

Boukoloi: attacchi contro culti stranieri: 1146s.; 1306s.; attacco contro un arconte: 1196s.; 1396s.; mancato ottenimento del coro: 1386s.; presunta mancanza del prologo: 140; presenza di un ditirambo: 1386s. Dēliades: agone: 168; esodo: 183; parabasi: 161; 165; possibile pnigos anapestico: 175; possibili polemiche letterarie: 152; 161; 165; rapporto con le feste Delie (426/5): 1516s. Didaskaliai: parabasi: 196; presunto titolo alternativo per Boukoloi: 194; 196 Dionysalexandros: agone: 2156s.; 282; agone coincidente con scena del giudizio delle dee: 216 e n. 171; attribuzione a Cratino il giovane: 1996n. 153; commedia mitologica: 206; contenuto della commedia: 203; coro: 203–205; dimensione rituale: 225; 2946s.; esodo: 2716s.; 282; giudizio di bellezza delle dee: 226–234; elementi politici: 206 e n. 161; 2296s.; 2346s.; hypothesis: vedi6s.v.; parabasi: 218–224; presunta διχορία: 2036s.; 244; 281; “Satyrcomedy” e elementi del dramma satiresco: 205; possibile contenuto di prologo, parodo e agone: 215; possibile ruolo dei satiri come pastori: 2436s.; possibile seconda parabasi: 234; scena sul monte Ida: 215; sostituzione di Dioniso ad Alessandro: 215–217; titolo: 198–203; trasformazione di Dioniso in ariete: 236; 244; 2756s.; 292; travestimento ridicolo di Dioniso: 224; 231; 249; valore di ἔµφασις (hyp. col. ii r. 466s.): 2396s. Dionysoi, titolo alternativo per Dionysalexandros: 301 Drapetides: agone: 367; parodia tragica : 3116s.; 351; parodo: 3506s.;

Indice delle parole e cose notevoli possibile presenza di Zeus: 342; possibili riferimenti politici: 311; 347; presenza di Teseo: 311; 312; 317; 329; 3366s.; 357; 377; presunto coro di effeminati: 3096s.; 3506s.; rapporto con le Supplici di Eschilo: 3116s. e Eschilo: lessico in comune: 336s.; 92 e n. 79; 1416s.; parodia: 3116s.; 324; 351 Empipramenoi: 386–388 omerismi: 36; 62; 78; 82; 84; 96; 142; 361 possibile confusione con Cratino il giovane: 144 rapporti con Archiloco: 15; 35; 67; 956s. rapporti con la tragedia: 3116s.; 351 dadi (immagine dei): 76; 77 dativo plurale in -ῃσι: 83; 270 dattilo, nel tetrametro trocaico catalettico: 180 depilazione come segno di effeminatezza: 98 dei genitali femminili: 51; 53 desinenze di dativo plurale in -ῃσι : 83 di dativo plurale in -οισι: 83; 90 difrofora: 184 Dioniso arsenothēlys: 251 krokōtos come abbigliamento tipico: 251 poikilon come abbigliamento tipico: 251 possibile destinatario del fr. 42 K.–A. (Dionysalexandros: 260 presenza in commedia: 303 sostituzione ad Alessandro nel Dionysalexandros: 215–217 ricercato nel fr. 43 K.–A. del Dionysalexandros: 248 trasformazione in ariete nel Dionysalexandros: 236; 2756s.; 292

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vestito ridicolmente nel Dionysalexandros (hyp. col. i r. 106s.): 224; 231; 249 ditirambo nei Boukoloi: 1386s. Dodona (oracolo di Zeus a): 76 effeminati/effeminatezza: 95; 98; 178; 251; 3096s.; 348 Egesandro di Delfi, fonte di Ateneo e di Plutarco: 364 elisione, di α in τιν(α): 248 elisione, di ι nella desinenza -ουσ(ι): 89 emphasis in hyp. Dionysalex. col. ii r. 466s.: 2396s. Erasmonidēs: 97 Eratostene di Cirene: 325 Ermippo, Στρατιῶται vel Στρατιώτιδες (frr. 51–60 K.–A.): titolo : 309 Eschilo Kerkyōn Satyrikos (frr. 102–107 R.): 317 Supplici come possibile modello delle Drapetides: 3116s. esodo: 183, 2716s., 282 Eupoli, Dēmoi (Unterweltszene): 18 farina d’orzo / farina di frumento: 148 figure retoriche accumulazione: 70 aferesi: 59 allitterazione: 24 anafora: 70; 122 aprosdokēton: 317 brachilogia: 77 elisione: 89; 248 eufemismo: 38; 319 metafora: 656s. onomatopea: 696s.; 165; 2746s.; 277 polisindeto: 24 genitivo + πλε- a fine verso: 94 gioco della κυβεία o πεττεία: 756s.; 79 Gnesippo: 1216s. designato come ὁ Κλεοµάχου: 117 grafie αἱµωδεῖν/αἱµῳδεῖν: 254 αἱµωδεῖν/αἱµωδιᾶν: 254

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Indice delle parole e cose notevoli

ἀποκτείνυµι/ἀποκτίννυµι: 1326s. βῆ/βή: 275 βόλιτον/βόλβιτον: 2626s. βούλει/βούλῃ: 259 βρύκω/βρύχω: 371 ἐγκυρέω/ἐγκύρω: 192 ἐνταυθοῖ/ἐνταυθί: 243 κῳδάριον / κωδάριον: 2916s. νῦν/νυν: 344 οἰσπώτη/οἰσπωτή: 266 ὄστρειον/ὄστρεον: 80; 83 παραρρέει/παραρρέῃ: 3746s. πινν-/πιν-: 83 ῥάζειν/ῥύζειν : 163; 1656s. ῥάζειν/ῥύζειν - ῥαζεῖν/ῥυζεῖν: 164 σκαρίζω/ἀσκαρίζω: 169 τίνω/τείνω: 646s. ὑός/ὑιός (nei papiri): 221 Ὑπερβόρεος/Ὑπερβόρειος: 154 grammateis: 29–31 guerra contro Samo: 208 del Peloponneso: 208 Halmiōn, soprannome del tragediografo Filocle: 68 hapax legomena ἀγερσικύβηλις (fr. 66 K.–A.): 3806s. ἀµφιετηρίζοµαι (fr. 9 K.–A.): 86 ἀναδιφάω (fr. 2 K.–A.): 456s. ἀναρύτω (fr. 38 K.–A.): 197 ἀνεσία (fr. 22 K.–A.): 1426s. βαλανειόµφαλος (fr. 54 K.–A.): 3246s. βδελλολάρυγξ (fr. 46 K.–A.): 2826s. *ζάκοπος (congettura nel fr. 5 K.–A.): 59 καθαρύλλως (fr. 29 K.–A.): 176 κυβηλιστής (fr. 66 K.–A.): 381 πυππάζω (fr. 56 K.–A.): 3326s. *πυρεγχής (congettura nel fr. 19 K.–A.): 138 *σαργανίς (congettura nel fr. 44 K.–A.): 270 hiera hodos: 377

hypothesis al Dionysalexandros di Cratino cambio di costruzione sintattica in col. i rr. 16–19: 2306s. datazione: 213 disposizione su due colonne: 2146s. espunzione di ἐπισκώ(πτουσι) in col. i r. 10 : 2256s. hypothesis descrittiva: 213 interpretazione di Η nel titolo: 2006s. ipotetica ricostruzione grafica: 215 possibile contenuto di prologo, parodo e agone: 2156s. possibile presenza di personificazioni in col. i rr. 12–16: 227–229 possibile riferimento al tentativo di adozione di Pericle il giovane nella parabasi: 2216s. possibile significato politico dei doni delle dee (col. i rr. 12–19): 2296s.; 2326s. possibili parole ed espressioni derivate dal testo della commedia di Cratino: 222; 235 premessa ad un’edizione della commedia: 1996s.; 213 ricostruzioni exempli causa delle rr. 2–5: 218 riferimento alla guerra del Peloponneso (‘τὸν πόλεµον’ in col. ii r. 48): 2076s. rr. 6–9 (riassunto della parabasi): 218–224 r. 106s. (entrata in scena di Dioniso): 224 r. 116s. (ἐπισκώ(πτουσι) (καὶ) χλευάζου(σιν)): 224–226 rr. 12–19 (giudizio di bellezza delle dee): 226–234 r. 29 (possibili integrazioni exempli causa): 236 r. 30 (ὡς τ̣̣.): 2366s. rr. 33–44: 2376s. rr. 41–44 (descrizione dell’esodo): 238 rr. 44–48 (giudizio conclusivo): 238–240

Indice delle parole e cose notevoli r. 466s. (δι᾽ ἐµφάσεως): 2396s. scoperta e pubblicazione: 212 sezione iniziale perduta: 2146s. struttura: 2126s. svolgimento della scena del giudizio delle dee (col. i rr. 12–19): 232–234 titolo della commedia: 199–203 titolo sopra la seconda colonna: 1996s.; 213 hypotheseis descrittive: 213 indovini, attaccati in commedia: 366 infinito aoristo, dipendente da verbi che indicano dire o ritenere: 626s. n. 44 Iperborei: 155–158 possibili etimologie: 1566s. legame con Apollo: 157 kalasiris, tunica di origine egiziana: 1856s. Kōmōdotragōdia, titolo di una commedia di Alceo comico e Anassandride: 193 Kōmōdoumenoi Callia III figlio di Ipponico II: 99; 101 Euribato : 103 e n. 87 Gnesippo: 117; 1216s. Lampone: 313; 323; 363; 368–370; 382 Licurgo: 183; 1846s. †Minnyōn†: 1086s. Senofonte: 313; 342; 346 krokōtos: 2506s. tipico dell’abbigliamento di Dioniso: 251 Kurzformen di verbi: 1886s.; 350; 353 Lampone: 313; 323; 363; 368–370; 382 legno di bosso: 299 lessico ‘alto’: 22; 26; 28; 35; 76; 78; 87; 93; 96; 159; 192; 308; 324; 348; 351; 3536s.; 357 del pugilato: 1316s. medico: 257; 370 osceno: 51; 526s.; 113; 294 letto (nell’antichità): 2986s. lexica segueriana: 177 lexicon messanense: 304

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liberti: 3376s. Licofrone: 325 Licurgo, kōmōdoumenos nel fr. 32 K.–A.: 183; 1846s. Luciano, rapporti con la commedia: 2336s. e n. 192 metrica archilocheo: 946s.; 182; 365 archilocheo (sua forma in Cratin. fr. 11 K.–A.): 95 cola giambici nello pnigos: 129 cratineo: 906s. e n. 76; 292 dattilo-epitriti: 182; 306; 365 dimetri anapestici: 348; 350 dimetri giambici in sequenza con catalessi finale: 1296s. esametri in commedia: 64; 666s. esametri nell’agone: 666s.; 77 ferecrateo: 180 hemiepes + dimetro giambico: 85; 90 telesilleo: 365 tetrametro anapestico catalettico: 172; 175 tetrametro anapestico catalettico (nell’agone): 61; 342 tetrametro coriambico: 172 tetrametro giambico catalettico con tre anapesti: 316 tetrametro giambico catalettico (nell’agone): 168 tetrametro giambico catalettico (nell’esodo): 2716s. tetrametro giambico catalettico (presenza dell’anapesto): 275 tetrametro trocaico catalettico (nella parabasi): 165; 196; 331 tetrametro trocaico catalettico (presenza del dattilo): 180 tetrametro trocaico catalettico (senza cesura mediana): 331 trimetro coriambico + dimetro giambico: 86 trimetro giambico con anapesto in terza sede: 248; 263

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trimetro giambico con anapesto in quarta sede: 1546s.; 275; 3156s. trimetro giambico con anapesto ‘strappato’: 180; 263 trimetro giambico con due anapesti iniziali: 316 violazione del ponte di Hermann nell’esametro: 64 Metrobio: 246s.; 286s. grammateus: 24 padre di Conno : 29 parassita: 24 rapporti con Cimone: 25, molluschi: 80 †Minnyōn†: 1086s. navi di Samo: 1076s. Nicomaco, in Lex. Mess. Fol. 281r, rr. 16–20 (identificazione incerta): 3046s. Nomi con βαθυ- come primo elemento: 97 con ἵππος come secondo elemento: 97 di animali in -αξ: 52 in -έης: 117 teoforici: 286s. nutrice: 616s. omerismi: v. Cratino, omerismi Omero dramatis persona negli Archilochoi: 156s.; 42; 70 forse additato nel fr. 5 K.–A. (Archilochoi): 61 Omero = ὁ τυφλός: 706s. omosessuali/omosessualità: 95; 98; 345 Panatenee: 178; 187 Pandione: 3596s. papponimici: 360 parabasi: 91, 161, 165, 196, 218–224 negli argumenta ad Aristofane: 218; 220 non presenta attori in scena: 218; 224 (seconda): 234 paragoni: 516s. con animali: 277 parodo: 2156s., 350

parassita: 281; 283; 288 s. pecora come simbolo di stoltezza: 277 come Schimpfwort: 327 Peirai, titolo di una commedia di Ecfantide: 193 Pericle: 2086s. assimilazione comica a Zeus: 346 attaccato in commedia dopo la sua morte: 2086n. 164 destituzione e rielezione: 209 legge sui figli adottivi: 210 tentativo di adozione di Pericle il giovane: 221 periodo ipotetico, al congiuntivo senza ἄν: 1786s. personificazioni in commedia: 228 possibile presenza in hyp. Dionysalex. col. i rr. 12–16: 227–229 phialē: 3236s. pinna: 82 pinne e ostriche (accostamento): 81 pinne e ostriche in elenchi di cibi: 81; 82; 83 pleonasmo di α: 288 e n. 214 Plutarco, citazioni dei poeti comici: 216s. pnigos anapestico: 175 poikilon: 251 Poiēsis, titolo di una commedia di Aristofane e Antifane: 193 polemiche letterarie: 152; 161; 165; 220; 2226s. polis, gioco da tavolo: 3616s. Pratina, Palaistai satyrois (TrGF I, 4 T 2): 317 Proagōn, titolo di una commedia di Aristofane o Filonide: 193 prolessi del soggetto di una subordinata: 676s. prologo: 25, 2156s. mancanza in alcune commedie di Cratino: 140 pronome deittico: 323

Indice delle parole e cose notevoli proverbi con soggetto l’asino: 3336s. βοῦς ἐν αὐλίῳ: 1886s. ∆ιὸς ψῆφος: 72–75 δὶς παῖς ὁ γέρων/ δὶς παῖδες οἱ γέροντες: 173 ∆ωδωναῖον χαλκεῖον: 57 ἐν Καρὶ τὸν κίνδυνον: 1266s. εὔδοντι δ᾽ αἱρεῖ πρωκτός: 46; 486s. εὕδοντι δ᾽ αἱρεῖ κύρτος: 46; 486s. µία γὰρ χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ: 1906s. µῦς λευκός: 340–342 µωρότερος προβάτου: 277; 327 ὁ µῦθος ἀπώλετο: 373 ὄνος ὕεται: 3336s. παρὰ κωφὸν ἀποπαρδεῖν: 65 παρὰ κωφῷ διαλέγῃ / παρὰ κωφὸν ὀµιλεῖς: 71 πῦρ ἐπὶ πῦρ: 136 πῦρ µαχαίρα µὴ σχαλεύειν: 138 ὕδωρ παραρρέει: 375 ripetizioni tautologiche: 70 satiri in commedia: 2046s. possibile ruolo di pastori nel Dionysalexandros: 2436s. possibili interlocutori di Alessandro nel fr. 43 K.–A. (Dionysalexandros): 249 Schallverba in -ζω: 69 scoreggiare: 1696s. Senofonte, kōmōdoumenos nelle Drapetides di Cratino (fr. 58 K.–A.): 313; 342; 346 Simmaco (grammatico): 181; 213 Sofocle: 120 sophistai: 436s. suffissi in -αξ: 52; 332 in -ζω: 69; 165 in -ιάς: 149 in -ίδης: 97 in -ίδης (indica la Sippenzugehörigkeit): 360

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in - ίζω (nei verbi che indicano la celebrazione di una festa): 86 in -ικός: 339 in -σία/σις: 143 „Suppliant-play“: 3116s. tarichos: 2726s. tarichos, genere: 267–269 Teleclide, Hēsiodoi (frr. 15–24 K.–A.): 17 Teseo in commedia: 312 nelle Drapetides di Cratino: 311; 317; 329; 3366s.; 357; 377 thallophoria: 187 Timachida: 325 titoli Aiolosikōn (Aristofane): 198 al plurale con un nome proprio: 13 e n. 1; 15; 302 al plurale e al femminile: 149 al plurale indicano i componenti del coro: 14 e n. 2; 149; 309 alternativi: 2016s. Archilochoi (Cratino): 13–15 Baptai (Eupoli): 310 Boukoloi (Cratino): 1146s. Bousiris (Cratino): 144 Choros (Epicrate): 193 con giustapposizione di due nomi propri: 193 con un participio al plurale: 3866s. con un participio al singolare: 3866n. 263 Dēliades (Cratino): 1496s. Dēmotyndareōs (Polizelo): 198 Didaskaliai (Cratino): 1936s. Dionysalexandros (Cratino): 198–203 Dionysoi (Cratino): 202; 302 Drapetides (Cratino): 3096s. Empipramenoi (Cratino): 3866s. Idaioi (Cratino): 2016s. Kōmōdotragōdia (Alceo comico, Anassandride): 193 Malthakoi (Cratino): 310 Orestautokleidēs (Timocle): 198 Poiēsis (Aristofane, Antifane): 193

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Peirai (Ecfantide): 193 Proagōn (Aristofane o Filonide): 193 riferimento a Dioniso: 302 riferimento a degli effeminati: 309; 310 riferimento ai culti stranieri: 1146s.; 150; 388 riferimento ai satiri: 2046s. Satyroi (Ecfantide, Callia, Cratino, Frinico): 202

Stratiōtai vel Stratiōtides (Ermippo): 309 Thouriopersai (Metagene): 198 triglia: 3716s. Unterweltszene: 176s. vaso di Exekias (ABV 145, 13): 75 Zeus assimilazione a Pericle: 346 possibile ruolo nelle Drapetides: 342