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Italian Pages 472 Year 1986
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PROSCENIO QUADERNI DEL TEATRO MunICIPALE «RoMmoLo VALLI» DI
REGGIO EMILIA 3.
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Comitato scientifico: Giuseppe Armani, Lorenzo Bianconi, Fabrizio Cruciani, Guido Davico Bonino, Alberto Gallo, Elvira Garbero Zorzi, Ezio
Raimondi, Sergio Romagnoli Segreteria: Susi Davoli
Civiltà teatrale e Settecento emiliano
a cura di Susi Davoli con una premessa di Sergio Romagnoli
SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO
CIVILTÀ teatrale e Settecento emiliano / a cura di Susi Davoli; con
una premessa di Sergio Romagnoli. Bologna: Il Mulino, 1986 460 p. ill.; 21 cm. (Proscenio. Quaderni del Teatro Municipale «Romolo Valli» di Reggio Emilia; 3). ISBN 88-15-00957-4 1. Teatro - Emilia-Romagna - Sec. XVIII - Congressi - 1985
Congressi - Reggio Emilia - 1985 Sergio.
I. Davoli, Susi
2. II. Romagnoli,
792.094 54
Copyright © 1986 by Teatro Municipale «Romolo Valli» di Reggio Emilia. E vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Presentazione
Il volume raccoglie i risultati del convegno di studi su «Settecento e civiltà teatrale in Emilia», che si è tenuto a Reggio Emilia il 21, 22, 23 marzo 1985, per iniziativa del Teatro Municipale «Romolo Valli», nell’ambito del programma di ricerche su «Cultura e vita civile nel Settecento emiliano» promosso dalla Regione Emilia Romagna. Il convegno, il cui programma scientifico era stato elaborato da un comitato costituito da Luigi Allegri, Lorenzo Bianconi, Fabrizio Cruciani, Alberto Gallo, Elvira Garbero Zorzi, Ezio Raimondi, Sergio Romagnoli, ha verificato la confluenza di competenze diverse, di punti di vista molteplici rivolti a esaminare quel fenomeno complesso che è il teatro in una specificità geografica e storica, l'Emilia, e a coglierne le relazioni con l’insieme della vita sociale e culturale dell’epoca, proseguendo quel filone di ricerca già avviato dal Teatro Municipale nell’80 con i due volumi editi da Sansoni sul Teatro a Reggio Emilia, a cura di Elvira Garbero Zorzi e Sergio Romagnoli, e continuato con la collana di studi teatrali pubblicata dal Mulino, di cui questo stesso volume fa parte. Dopo il saggio introduttivo di Fabrizio Cruciani, in cui vengono presi in considerazione i problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco in Emilia e messe a punto alcune prospettive storiografiche, si confrontano competenze e specializzazioni diverse — letterarie, storicoarchitettoniche, musicali — per documentare la specificità del caso reggiano ed emiliano nel più ampio contesto della civiltà teatrale italiana ed europea del Settecento. Nella prima sezione del volume (la cultura degli uomini di teatro), attraverso le figure di Alfonso Vincenzo Fontanelli, Antonio Zaniboni, Giovanni Bianchi, rappresentanti
dell'impegno e della pratica teatrale dei dilettanti aristocra5
Presentazione
tici, l’attenzione si concentra su Agostino Paradisi, letterato attento e sensibile alle idee di «riforma», pieno di interessi per la pratica del teatro, che, attraverso viaggi e corrispondenze con intellettuali di mezza Europa, porta «nelle tradizioni cittadine prospettive di straordinaria apertura europea»; il reggiano Pietro Pariati, al contrario, esporterà in Europa le sue esperienze teatrali, non lasciando in terra modenese alcuna traccia consistente della sua intensa attività di librettista. Questa circolazione di esperienze, questo intreccio di
idee generali e di dati particolari emerge anche dai «capitoli» della seconda sezione del volume (l’architettura e la scenografia), che riguardano: il luogo teatrale e, in particolare,
l’uso, la gestione e l’organizzazione di spazi spettacolari in alcune realtà «minori» prese come campione; l’esperienza costruttiva dell’architetto Antonio Cugini che, dopo aver messo a punto le sue idee sull’architettura teatrale nella fabbrica di un teatro settecentesco esemplare, come quello di Cittadella, trasferirà l’esperienza reggiana in altre città, Brescia e Padova; la trasformazione delle concezioni sceno-
grafiche e il loro concretizzarsi sulle scene reggiane e parmensi ad opera dei Bibiena e di Pietro Righini. Nella terza sezione (il teatro d’opera) si documenta la specificità del caso reggiano all’interno del sistema teatrale italiano e se ne valuta la funzione attraverso tre temi portanti: la costituzione e la circolazione del repertorio (prendendo un caso generale su scala nazionale, quello dell’opera buffa, e poi, da vicino, il caso di Reggio nei suoi rapporti con il sistema italiano); il ruolo e la storia degli individui che «fanno» il teatro d’opera (la condizione sociale dei can-
tanti, la figura di Antonio Bononcini e l’analisi di una sua opera reggiana, La conquista del vello d’oro del 1717, nella | quale confluiscono esperienze modenesi, romane, viennesi del musicista); le forme di produzione del teatro d’opera, infine, con contributi che vanno dalla geografia politica dell’impresariato padano, alle differenti concezioni organizzative e di conduzione politico-culturale attraverso il caso particolare della gestione teatrale parmense, alle molteplici funzioni legate alla figura dell’impresario. 6
Presentazione
Resta da segnalare che dalle ricerche preparatorie del convegno è nata l’idea di completare e pubblicare l’intero repertorio delle opere in musica rappresentate a Reggio dal 1645 al 1857, dall'apertura cioè, all’opera in musica della
prima sala di spettacolo reggiana fino alle soglie dell’inaugurazione dell’attuale edificio teatrale. Il volume uscirà nel corso dell’86 per le cure di Paolo Fabbri e Roberto Verti. SD:
Indice
Premessa, di Sergio Romagnoli
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco in Emilia. Introduzione, di Fabrizio Cruciani PARTE PRIMA: TRO
LA CULTURA
DEGLI UOMINI
19
DI TEA-
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche, di Eugenia Casini-Ropa, Marina Calore, Gerardo 35
Guccini, Cristina Valenti
L’esperienza teatrale di Agostino Paradisi: fra traduzione e invenzione, di Marco Cerruti
19,
Amici per il teatro: Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi, di Roberta Turchi
97
. Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati, di Giovanna Gronda
HO
PARTE SECONDA: GRAFIA
L'ARCHITETTURA
E LA
SCENO-
Il palchetto del Teatro di Reggio. Qualche nota sull’attività di Antonio Cugini, di Elvira Garbero Zorzi Luoghi teatrali in Romagna: uso, gestione e organizzazione, di Dario Borzacchini, Daniele Seragnoli
139
Indice
Antonio Cugini e i suoi collaboratori a Brescia: il «Novo Teatro» del 1742-45, di Carlo Zani p:175
Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova, di Ruggero Maschio
181
I Bibiena a Reggio: dalla scenotecnica alla scenografia. Prassi, teoria, traduzione,
di Marinella
Pigozzi
207
Il «Medo» di Pietro Righini: lo spettacolo fra tradizione bibienesca e scena-quadro, di Giovanna Botti
PARTE
223
TERZA:
IL TEATRO
D'OPERA
La diffusione del repertorio operistico nell’Italia del Settecento: il caso dell’opera buffa, di Piero Weiss
Struttura
241
del repertorio operistico reggiano nel
Settecento. I. Dalla fine del Seicento al 1760, di
Paolo Fabbri
231
Struttura del repertorio operistico reggiano nel Settecento. II. Dal 1760 all’età repubblicana, di Roberto Verti
277
Cantanti per Reggio (1696-1717): note sul rapporto di dipendenza, di Sergio Durante
301
- Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro» (Reggio Emilia 1717), di Lowell Lindgren
309
Geografia politica del teatro d’opera nell'Emilia Romagna del tardo Settecento, di John Rosselli
355
10
Indice
Impresariato collettivo e strategie teatrali. Sul sistema produttivo dello spettacolo operistico settecentesco, di Franco Piperno
p.345
L’organizzazione teatrale parmense all’epoca del Du Tillot: i rapporti fra la corte e gli impresari, di Giuliana Ferrari, Paola Mecarelli, Paola Mel-
loni
:
357
Conclusioni, di Ezio Raimondi
381
Illustrazioni
393
Indice ii nomi
449
11
Premessa
Corre il gradito obbligo di ringraziare, perché se il Convegno su Settecento e civiltà teatrale in Emilia ha avuto luogo
lo dobbiamo alla solerzia dell'Assessorato alla cultura del Comune di Reggio Emilia, cui è preposto Lorenzo Capitani; ma è anche vero che senza l’assistenza continua di un
uomo concreto e discreto, Guido Zannoni, il direttore del Teatro Municipale, avremmo incontrato, nella preparazione e nell’attuazione del Convegno, difficoltà che ci sono state, invece, risparmiate. Tutti, d'altronde, sanno che all’interno del tanto prestigioso Teatro Municipale lavora Susi Davoli, una persona gentile e colta, precisa e costante, alla quale ci si può sempre rivolgere con la sicurezza d’ottenere consiglio e aiuto. Chi poi è addentro alla vita reggiana sa che vi operano alcuni uomini da decenni assidui nel fornire a questa città una sua particolare linea d’impegno culturale e di alta serietà scientifica: l’assessore alla cultura della Provincia,
Giorgio Cagnolati, che ha dato, nei suoi lunghi anni di responsabilità, un impronta determinante al complesso rap porto tra una comunità provinciale e la più ampia compagine culturale della nazione; Giuseppe Armani, che non ha alcun incarico pubblico sempreché non sia pubblica la pronta disponibilità dell'ingegno e dell’erudizione alle sorti della propria città; Maurizio Festanti, direttore della Biblioteca Civica, che unisce alla saggezza l’energia di una giovane maturità. Abbiamo voluto fare questi nomi, ai quali altri potremmo aggiungere di collaboratori validi e validissimi, perché crediamo che siano proprio gli uomini a contare e a far si che le cose nascano e crescano nei progetti e infine si attuino. Istituzioni e amministrazioni possono sulla carta apparire efficaci strumenti del fare, ma esse sono vuoti recipienti se non trovano gli uomini adatti ad impreziosirne i contenuti; non c’è assessorato o centro di studi o accademia
iS)
Premessa
o gruppo di lavoro che tenga se non c’è intelligenza, volontà e spirito di sacrificio da parte di alcuni e questi alcuni, con il loro fare, attraggono altri e la macchina alla fine s’avvia e procede e produce. Questo, da quando ci siamo rivolti allo studio della civiltà reggiana, abbiamo potuto constatare con ammirazione. Riandiamo ai tempi in cui, nel 1977, organizzammo con Marino Berengo (ed era assessore
alla cultura in Comune Giuseppe Gherpelli, mentre già, in Provincia, agiva Giorgio Cagnolati) il convegno su Reggio e î Territori Estensi dall’Antico Regime all’Età Napoleonica, i
cui atti apparvero, presso Pratiche Editrice di Parma nel 1979; ricordiamo i laboriosi anni in cui, insieme con Elvira
Garbero Zorzi, procurammo la tessitura e la fattura dei volumi su Teatro a Reggio Emilia, usciti presso la Casa Editrice Sansoni di Firenze nel 1980, e arriviamo all’oggi, che vede nascere con prudente ritmo le opere della collana «Proscenio», edita da Il Mulino di Bologna e voluta da questo nostro Teatro Municipale. Quel Teatro a Reggio Emilia del 1980 fu, da noi che l’approntammo, giudicato non soltanto un risultato soddisfacente per l’organizzato studio della lunga e continua civiltà teatrale cittadina, ma fu considerato subito dai lettori
e dagli specialisti come un modello in questo tipo d’indagini. Noi stessi, la Garbero Zorzi ed io, con presunzione e
con ingenuo autocompiacimento alleviati soltanto dal conforto della cospicua presenza nell’impresa di autori illustri, di giovani e giovanissimi studiosi che seppero dare il miglior frutto del loro ingegno, ci rendemmo conto, ad opera conclusa, che se in Italia o altrove si fosse voluto ricostruire
la vicenda dell’attività teatrale in una città o in un territorio, si sarebbe dovuto pur sempre assumere quei due volumi come punto di riferimento o perlomeno non si sarebbe più potuto prescindere dall’impostazione e dalle articolazioni che vi erano offerte. Anche Teatro a Reggio Emilia non è, tuttavia, per fortuna, un’opera esaustiva, ma è, piuttosto, un’opera che inten-
de presentarsi nel tempo anche come suggerimento e proposta. Essa mira, soprattutto, ad essere, oltre che un punto
d'arrivo, un punto di partenza e un repertorio di future oc-
14
Premessa
casioni: e che lo sia stato proprio là dove era meno ampia, nella parte, cioè, dedicata alla musica e al balletto, nono-
stante gli ottimi saggi di Adriano Cavicchi, di Marcello Conati e di Paolo Fabbri, lo dimostra I/ sogno del coreodramma. Salvatore Viganò, poeta muto, un volume a più mani, ideato e curato da Ezio Raimondi e uscito in «Proscenio» nel 1984. L’esito di questa indagine, che coglie un momento dell’attività teatrale tanto difficile da ricostruire per la natura tanto effimera della sua espressione, è stato lusinghiero: i riconoscimenti internazionali, vasti e unanimi, sa-
rebbero stati contrassegnati da una grata sorpresa se l’autorità di Ezio Raimondi non avesse garantito fin dal principio che quegli studi non erano nati dall’audacia entusiasta di una équipe provinciale, ma da un centro culturale di alto prestigio quale è l’Università di Bologna ed erano stati favoriti da un ormai consolidato e concorde sodalizio quale è venuto configurandosi il Comitato scientifico della collana. Cosî la nuova edizione di Scene e figure del teatro italiano (a cura di E. Garbero Zorzi e S. Romagnoli, Editrice Il Mulino, Bologna 1985, «Proscenio», n. 2), che fu in origine la
raccolta di alcune conferenze organizzate qui a Reggio Emilia nel 1979, riconferma la durata del progetto d’incremento degli studi teatrali; nella sua prima edizione (Teatro Municipale, Reggio Emilia 1981), d’altronde, il sindaco della città, Ugo Benassi, già aveva impostato un piano di lavoro o, meglio, alcune linee di ricerca quando aveva scritto nella
Presentazione che «basta pensare a figure come Carlo Ritorni, Salvatore Viganò, Pietro Pariati, Agostino Paradisi, Pietro Metastasio (per la sua presenza sulle scene reggiane) per
avere un’idea di alcuni possibili ambiti di ricerca)» e si era riferito specificamente a quanto rimaneva da approfondire al di là dei risultati raggiunti nelle indagini contenute nei volumi di Teatro a Reggio Emilia.
Ebbene, quei nomi citati dal sindaco Benassi nel 1981 e ritrovabili sia nelle conferenze del 1979 sia nell’opera complessiva del 1980 sia nel volume sul Viganò ricompaiono in questo Convegno del 1985. Esso, dunque, viene da lontano nell’intento di studiare e però anche di ricreare un rapporto fattivo tra storia locale e storia generale, tra storia teatrale 15
Premessa
di una città e storia teatrale di una regione interpretata nel grande quadro di una civiltà nazionale. Reggio Emilia regge benissimo questo ambizioso progetto perché, lo sappiamo tutti, a questo riguardo la città ha davvero un suo dato di eccezionalità. Gli studi, per esempio, sul reggiano Agostino Paradisi dovrebbero vedere un nuovo loro impulso dopo la ricca relazione di Marco Cerruti e dopo che Roberta Turchi ha illustrato l’intensità intellettuale del fitto carteggio tra il Paradisi e il bolognese Francesco Albergati Capacelli, cioè il frutto di un'amicizia nata tra questi due protagonisti, ognuno nella sua città, ‘dell’attività teatrale e della discussione intorno ad essa nella nostra regione. Cosf, per produrre un altro esempio, è risalita dal buio del tempo la vivace figura del maestro di cappella estense Antonio Bononcini ravvivata con grande competenza da Lowell Lindgren e ci s’avvede presto come anche nell’Emilia settecentesca si verificassero fedeltà fermissime alla propria piccola patria e altresf rientri dopo lungo esodo o partenze per lontani lidi che non ebbero più ritorno, come accadde a Pietro Pariati: il Pariati, ap-
punto, anche lui recuperato dal silenzio dei secoli da Giovanna Gronda che, oltre ad aver fatto il punto sugli studi intorno a questo nostro librettista approdato alla corte di Vienna, ha indicato quanto ancora rimanga da fare — al di là delle ricerche addirittura ottocentesche (1889) di Nabor-
re Campanini — per ricostruire la complessità e per valutare appieno la qualità della sua opera. Sia il Paradisi che l’Albergati, sia il Bononcini che il Pariati si mossero entro una fitta rete di rapporti travalicanti l'ambito regionale e con loro tutti gli altri uomini del teatro settecentesco, fossero scenografi o architetti, musici o drammaturghi, s’inserirono in quel grande progetto di riforma che caratterizzò la civiltà del secolo: di questa peculiarità ha dato le coordinate, nella sua illuminante relazione introduttiva, Fabrizio Cruciani dimostrando che quel progetto fu «il segno di un diverso esistere del teatro nella società» subordinato sempre pit alla cultura e fattosi strumento e valore di educazione, da cui deriverebbe che il teatro,
appunto, diventasse nel secolo, per certi aspetti, un luogo 16
Premessa
privilegiato dell’utopia di un diverso valore civile. E però esso fu anche luogo di confluenza di diversi mestieri e di diverse attitudini — dalla scenotecnica all’impresariato — che in esso conversero per la,prima volta a definire il tragitto verso la civiltà teatrale futura. Il primo merito della relazione di Fabrizio Cruciani sta nell’aver posto preliminarmente l’accento su la fatuità di una formula che definisca maggiori gli studi sul quadro generale e minori quelli attesi ad una loro specificità: «per dirla in termini aggiornati — asserisce, invece, il Cruciani — il rapporto tra la civiltà teatrale nella sua totalità e il teatro in un luogo specifico può aprirci a riconoscere e studiare il teatro del Settecento nei suoi diversi ‘programmi di verità’». Questo criterio è stato seguito da tutte le sezioni in cui
s'è articolato il convegno: per rendersene conto basti sostare sui contributi dati dalla parte musicale, la più nuova rispetto a tutte le passate nostre ricerche, dove subito è apparsa evidente l’esigenza di documentare la specificità del caso reggiano dentro il reticolo di rapporti di scambio — a raggio di volta in volta stretto o largo, come ha avvertito Lorenzo Bianconi — che, nel Settecento, lega ciascun singolo teatro, ciascuna città ad una circolazione ampia e dinamica. Perciò le relazioni dedicate al teatro d’opera hanno adottato prospettive assai diverse, ora ravvicinate, come è il caso di quelle tenute da Lowell Lindgren sul Bononcini, da Paolo Fabbri e Roberto Verti sulle strutture del repertorio operistico reggiano, ora panoramiche come è accaduto a Piero Weiss a proposito dell’opera buffa e a John Rosselli che ha tracciato la geografia politica dell’opera in musica, ora analogiche come hanno fatto Giuliana Ferrari, Paola Mecarelli, Paola Melloni e Franco Piperno, sicché pare di dover ribadire, secondo le indicazioni del Bianconi, che an-
che la storia dell’opera italiana nel Settecento si deve condurre non per somma di storie municipali né, per converso, prescindendo dalla dimensione regionale e cittadina, bensf collocando ogni fenomeno locale, ogni teatro, ogni centro culturale teatrale dentro la mappa complessiva del sistema. Possiamo essere contenti: abbiamo tratto da questo convegno delle conclusioni che ci appaiono importanti e abbia17
Premessa
mo intravisto, attraverso esso, nuove iniziative e ci sentia-
mo stimolati a nuovi fattibili progetti: come diceva Guido Zannoni: «questo convegno è già fatto, io debbo pensare all’87». Il teatro, d’altronde, non si può fermare; se si ferma, invecchia. Sergio Romagnoli
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FABRIZIO
CRUCIANI
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco in Emilia.
Introduzione
In questo sguardo introduttivo mi propongo di porre l’attenzione sulle molte storie di cui è intessuta la storia del teatro, sulla tensione unitaria della cultura teatrale del Set-
tecento italiano, sul punto di vista egemonico che la giustifica (lo spettacolo nel suo essere funzione degli spettatori, che sono poi lo spettatore astratto della cultura), sulle tensioni e realtà a questo divergenti; e su quanto significato abbia il fatto che nel Settecento italiano le culture ristrette e locali siano significative. Ad un occhio non specialistico, ma interessato e curioso, il Settecento appare il secolo della Norma dell’istituzione teatrale, in cui cioè le «riforme» definiscono quell’insieme di valori, di modi produttivi e situazioni, e di prassi che sono la moderna communis opinio e forma mentis per il teatro e la categoria del teatrale. E se la sostanza del conoscere non è tanto nell’appropriazione e nel riconoscere quel che c'è di eguale, quanto piuttosto nello stupore e nella differenza! allora l'accostamento della civiltà teatrale nel Settecento e il teatro in una specificità geografica (l'Emilia) ci può consentire suggestioni metodologiche per straniare il nostro studio di teatro. In fondo si ha la possibilità di porsi i problemi già noti con strumenti nuovi e con una sensibilità aperta a dislocare le aggregazioni significanti e i punti di vista. Ed è ovvio ricordarci l’inadeguatezza della magia dei numeri in un discorso di conoscenza storica, precisare cioè che il teatro del Settecento è in effetti la cultura teatrale della metà e del secondo Settecento fino al primo decennio dell'Ottocento. 1 Vedi le risultanze di tale atteggiamento per lo studio del teatro del Medioevo di J. Drumbl, Fremzde Texte, Milano, Unicopli, 1984, dove l’esistere del teatro è cercato nell’eccezione, nello scarto dalle abitudini; non dove ci sono forme simili al teatro ma dove si inventa il senso di un teatrale.
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F. Cruciani
Il Settecento appare come il secolo delle strutture di civiltà europee ed universali. In Italia la cultura si misura nella dimensione nazionale, nella polemica intorno alla cultura spagnola e francese e inglese; viaggiatori francesi, inglesi e tedeschi vengono in Italia e raccontano ciò che sono in grado di vedere; gli intellettuali italiani ricevono sanzione di prestigio a Parigi, a Londra, nei salotti sovranazionali della cultura, a Vienna, come risulta in modo netto dalle vicende
di un intellettuale disorganico come l’abate Conti?; l Arcadia e l’illuminismo vivono nei luoghi particolari in cui esistono ma si riconoscono e si organizzano in una patria universale delle lettere e delle scienze. Il generale è complesso e lo si conosce per astrazione; e sembra che il particolare (ad esempio il teatro a Reggio) sia semplice, misurabile, il luogo in cui, documenti permettendo, si può conoscere tutto, per astrarne quel poco che c’è di generale. In realtà lo studio del particolare non dà solo il generale: si presenta anche all’interno di altre aggregazioni e di altre logiche, si relaziona anche ad altri valori e realtà, è in sé un luogo di complessità e intersezioni. Non si può studiare il teatro in una specifica situazione culturale solo come si studiano le opere giovanili di un autore, nell’attesa paziente di cogliervi sprazzi di maturità; è significativo che il teatro in un luogo specifico, nel Settecento, non sia tutto i/ teatro e sia significato in sé. Il teatro di Cittadella, il teatro «Vecchio» o delle Commedie, del Seminario e gli altri luoghi per lo spettacolo in Reggio si relazionano all’ordine generale del teatro, ma vivono della civiltà della città, si rapportano ai suoi sistemi economici sociali e culturali; vi si acquisisce il senso di po2 Su di lui, dopo le indicazioni di Fubini, Binni, Ulivi, Badaloni e Gronda, vedi M. Ariani, Drammaturgia e mitopoiesi. Antonio Conti scrittore, Roma, Bulzoni, 1977. E, più in generale, anche gli studi di A. Quondam sul Gravina e
sull’ Arcadia. Per i viaggi degli intellettuali italiani vedi F. Venturi, L'Italia fuori d’Italia, in AA.VV., Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1973, vol. III. 3 I due volumi del Teatro a Reggio Emilia, Firenze, Sansoni, 1980, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero Zorzi, offrono un panorama molto ben organizzato sul teatro della città. Per il nostro secolo vedi il primo volume nei saggi che lo com-
pongono e che offrono molteplici approcci, e nelle appendici sulla cronologia delle feste e degli spettacoli dalle cronache cittadine (1515-1851) e sul regesto dei documenti d’archivio (1610-1802).
20
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
ter vedere il teatro del Settecento nel suo organizzarsi per ambiti ristretti (il che è una dimensione specifica, che tende poi a sparire nel teatro più grigio del secolo seguente). Non si ha uno studio «maggiore» è uno studio «minore». Per dirla in termini aggiornati, il rapporto tra la civiltà teatrale nella sua totalità e il teatro in un luogo specifico può aprirci a riconoscere e studiare il teatro del Settecento nei suoi diversi «programmi di verità». L’ordine culturale del Settecento unifica il fascio di problemi e realtà (valori e mestieri e prassi) diversi collocando il punto di analisi nello spettatore «speciale» che vede lo spettacolo, in un dover essere del teatro; ma resta l’insieme delle operazioni e degli operatori che non è omogeneo e segue logiche diverse. Il fascio è composto dall’idea di teatro, dall’autore e dal testo, dagli attori, dagli edifici teatrali, dagli scenografi e dai macchinisti, dalla gestione e da quella figura imprecisa che è l'appaltatore, l’impresario; e anche dalla storiografia e dai modi dell’intrattenimento e dai gruppi sociali e culturali che nel teatro proiettano la propria autorappresentazione e sublimazione (e che non sempre accettano di delegarla a professionisti esterni). Con diverse «verità», a seconda di dove ci si colloca per guardare e che cosa si vuole vedere: un modello di teatro e la sua istituzione, la
cultura materiale e le sue logiche separate, una cultura che si rappresenta nella teatralità dei comportamenti e dei rituali e dell'immaginario, una civiltà che la città esprime come intrattenimento e nobilitazione. La civiltà teatrale del Settecento si riconosce soprattutto nella Riforma del teatro, che si esplicita in modo evidente nella proliferante produzione di trattati e pareri sull’arte teatrale (e negli epistolari, in cui risalta l’accorto presenzialismo di Voltaire). E il segno di un diverso esistere del teatro nella società: il teatro non si presenta più come la pericolosa escrescenza dei rz0res combattuta dalla controriforma e dalla cultura barocca; è vivo nell’antinomia abuso-
razionalità, un fenomeno cioè segnato dagli eccessi che l’uomo di cultura può e deve riformare e che, una volta corretto e purgato, è prezioso valore di civiltà. L’immoralità nasce dall’ignoranza, e il teatro può invece essere cattedra di 21
F. Cruciani
lezioni morali. Già agli inizi del secolo il Muratori chiedeva di instaurare, al di là della polemica contro i drammi musicali, «il fin politico del vero Teatro, cioè nel giovare al popolo»‘. (E va sottolineato il termine «vero teatro», con tut-
te le implicazioni teorico-ideologiche che comporta). Il «fine politico», l’utile pedagogico, sarà la costante nelle riforme del teatro per tutto il secolo, fino alle tensioni radicali dell’illuminismo. L’uomo di cultura vede il teatro come strumento e valore di educazione e si pone in modo pedagogico nei suoi confronti: la Norma del teatro si viene definendo attraverso l'ordine della cultura e il suo razionalizza-
re il teatro materiale che non è ma può essere elemento d’ordine nell’ordine della città?5. Già nella Didascalia del Bartolommei,
del 1658, (che del resto riprende un’idea
espressa l’anno precedente dal D’Aubignac) si parla di istituire un «Presidente delle commedie» che curi per la città l’ordine delle rappresentazioni; e il discorso dell’ordine del teatro (e del teatro come elemento d’ordine) si prolunga con varie accezioni nelle opere di Luigi Riccoboni e del Milizia. E quest’ultimo che esplicita come l’opposizione non sia più Chiesa-Mondo ma Mondo Serio-Bel Mondo. Nei primi sessanta anni del secolo si arriva a vedere la concretezza di un diverso esistere del teatro nella civiltà, come si può vedere da quanto scrive nel «Caffè» del 1765-66 Pietro Secchi in
due competenti saggi sulla situazione di mediocrità del teatro italiano (e sui rimedi) e come
affermerà con vigore e
continuità operativa l’Alfieri. Il Secchi arriva a chiedere —
sottolinea Romagnoli che ha messo in luce l’apporto degli intellettuali del «Caffè» alla riforma del teatro — che gli autori si facciano anche attori e che si eliminino gli ostacoli posti dagli edifici teatrali, costruiti più per gli spettacoli in musica che per la prosa. Non pi inquietudini e ombre cor4 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, Modena, Soliani, 1706, t. II, pp. 73-74. ? Per quanto segue cfr. F. Taviani, La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni,
1969. Sua è la felice riscoperta del Bartolommei; ma si veda nel suo insieme e nelle sue acquisizioni tutta la parte III del saggio introduttivo. 6 S. Romagnoli, I/ teatro e il «Caffè», in «Quaderni di teatro», n. 11, febbraio 1981.
22
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
rusche di organismi separati e indisciplinabili all'ordine loro estraneo, ma un riconoscimento del valore civile del teatro
una volta che fosse ridotto e avesse assunto le norme e i canoni della cultura. Il teatro lo si vuole non dr subordinato alla musica o ai comici, ma alla cultura — e il poeta prende in mano anche gli attori e il pubblico. Luigi Riccoboni, l’attore che non voleva essere attore”, è esemplare: la visione degli intellettuali è accettata dai comici, e questo non è oppressione ma ribellione al teatro e alla «razza comica». E si impone allo studioso la vasta e complessa problematica dei dilettanti, nella loro specificità locale e nei rapporti con la riforma, al di fuori dei valori generali dell’arte teatrale pur essendovi in relazione: non si giudica il dilettante-attore quanto il suo modo di recitare. La norma del teatro si estende a comprendere tutte le modalità espressive e le situazioni di teatro; ma vede lo specifico come strumento del generale più che nella sua stessa logica: l'attore come studio dell’uomo, l’azione drammatica e i caratteri come analisi delle passioni e della vita sociale, la scena (nell’accezione bibienesca) come luogo che si ritaglia dall'esterno cui rinvia e non più come luogo assoluto, l’edificio teatrale come monumento civile. E questo anche quando la riforma è compiuta dall’autore che si pone dalla parte dei comici (come la riforma, per tanti aspetti però più complessa, del Goldoni, di cui il Carli propose la versione teorica per la tragedia). Il valore d’arte attribuito al mestiere comico (dal Martello, al Manfredi, al Milizia) si concreta
in forme più organiche e attive nell’Alfieri, che scrive per un pubblico che non c’è ancora e si impegna a formare teatro e attori come strumenti al servizio dell’opera drammatica. Il teatro di dilettanti che nei progetti invera il teatro utile e sociale del futuro non si oppone alla professionalità che è al fondo del nuovo teatro dell’Alfieri: entrambi si oppongono invece al mondo dei professionisti che un conser7 È quanto scrive, con lucida sensibilità, F. Taviani in F. Taviani e M. Schino, Il segreto della commedia dell’arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, Firenze, Casa Usher, 1982.
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F. Cruciani
vatore intelligente come Carlo Gozzi descrive nei suoi valori immediati e in difesa di realtà esistenti ma minacciate di degradazione e distruzione da incapacità interne di rinnovamento e da scelte di fissarsi nelle forme di successo ottenuto (oltre che dall'evoluzione dei tempi); il teatro come Arte emargina non solo un modo di far teatro ma uomini concreti. La cultura conferisce dignità soltanto al nuovo progetto istituzionale del Teatro: cosi il trattato del Salfi si apre collocando la declamazione nella prospettiva «scientifica» delle arti; e la moderata riflessione di Albergati Capacelli proietta il teatro nell’uso ragionevole e salutare di una forma espressiva artistica che è strutturalmente sociale; e la riforma del teatro del Bicchierai si legge come proposta di buon senso e di comprensione. Ma ancora a Francesco Riccoboni viene rimproverato di aver intitolato Dell’arte teatrale il suo trattato sulla recitazione; e Riccoboni figlio dovette spiegare che alla composizione drammatica conviene il titolo di «Poetica teatrale» e che l’arte del teatro riguarda i modi dell’esecuzione della creazione drammaturgica. Sono esempi tra i molti che la cultura teatrale italiana del Settecento offre; e forse è proprio il grande numero ad avere senso. La profonda tensione unitaria della cultura sostanzia la riforma del teatro e ne fa un luogo, per certi aspetti privilegiato, dell’utopia di un diverso valore civile — una sorta di laboratorio. Questo è vero anche per il più piccolo intellettuale della più oscura provincia, che proietta anch'egli il suo produrre nell’universo comune dei valori della civiltà teatrale. Il «locale» sembra presentarsi qui come un semplice contesto; e opere e personaggi si valutano
nella loro graduatoria culturale: il minore lo si vede come minore e studiarlo riempie il grande quadro dei valori riconosciuti.
Ma si può invertire lo sguardo e vedere cosa accade del teatro in una realtà specifica, non solo per conoscere il teatro quanto i modi del suo essere parte di quella realtà. Nel caso estremo del teatro giacobino la riforma del teatro vede i propri valori di fondo realizzabili nella società che cambia e l'istanza pedagogica e politica si espone nella sua nudità progettuale, priva delle complessità di negazione verso zone 24
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
del teatro e della società. Le feste rivoluzionarie sono la punta estrema del valore pedagogico e propagandistico attribuito al teatro; ma nel fare i conti con le feste aristocratiche e religiose che volevano fiegare (e anche — nota Meldo-
lesi portando l'esempio di Talma* — con la cultura attorica e la concezione di spettacolo dei suoi spettatori) conservano gli apparati del teatro riducendone le valenze teatrali, ripropongono azioni coreografiche, semplificano la drammaturgia: per la riforma teatrale e per la dirigenza rivoluzionaria si rivelano un fallimento. La festa della Libertà a Reggio nel 1797 o quella della Pace nel 1801? hanno in sé detriti del passato e retoriche inattive, non sono teatralmente rilevan-
ti. Ma il teatro e la festa come pretesto per manifestazioni politiche sono a Reggio una realtà — della società più che del teatro (ma quale senso preciso ha tale contrapposizione?). E la tradizione spettacolare ha una sua continuità, in sensi diversi, come ad esempio il catalogo delle raccolte di stampe dei musei reggiani dimostra con, tra l’altro, la serie dei «carri trasparenti» del 1842 (n. 124-154)! con una continuità dello spettacolo e delle sue forme che supera le diverse valenze culturali. E uno dei casi in cui troviamo eventi in sé non eversivi per la storia del teatro ma di grande rilievo per l’esistere dei teatri nella storia. E ancora: le tensioni di riforma del teatro si esaltano nei progetti giacobini. L’ordine cui si intende sottoporre il fare teatro (e il senso delia sua responsabilità sociale) è un 8 La notazione di Claudio Meldolesi è nel suo La wmicrosocietà degli attori. Una storia di tre secoli e pit, in «Inchiesta», n. 63-64 (1984). Meldolesi muove
dall’assenza di Talma nel quadro delle feste della rivoluzione francese offerto da Mona Ozouf e ne rileva le conseguenze critiche e metodologiche, in un saggio che rivendica la necessità della storia del teatro negli studi moderni di storia. 9 Per quanto segue vedi il saggio di A. D’Orrico nel citato primo volume del Teatro a Reggio Emilia, e la bibliografia ivi citata; e per il Consiglio della Repubblica Cisalpina rimando ai numeri del «Termometro politico» di quegli anni. Per comodità mi sono servito dei materiali documentari raccolti in «L'Istituzione del teatro. Materiali per lo studio del teatro nel ’700», dispense dell’anno accad.
1977-78 del corso di laurea DAMS dell’Università di Bologna. Cito poi il romanDi del Rovani nell’edizione Garzanti (1975); la descrizione è all’inizio del primo
ibro. 10 Cfr. Zeno Davoli, Raccolte di stampe dei Civici Musei. Stampe di autore e di interesse reggiano, catalogo a cura del Comune di Reggio Emilia, 1983.
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pensare il teatro come cellula sperimentale e quindi pedagogica in cui applicare l’ordine della società, quale si può leggere nel «Progetto per l’aprimento di un teatro repubblicano di dilettanti» di Reggio nel 1797 che lega, come Salfi, il teatro alla pubblica istruzione. È la logica della Riforma del ‘teatro. Ma nelle sedute del Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina (28-29 novembre 1797) per la riforma dei tea-
tri, come nei progetti che le precedono e nel Rapporto che le segue, il problema centrale dell’abolizione dei privilegi si scontra con i diritti della proprietà del suolo, dei proprietari dei palchi, dell'appaltatore per gli spettacoli. E viene ricondotto alle possibilità del quotidiano, in cui si costruisce l’ordine della nuova istituzione, che qui si verifica e si diversifica. C’è un modo semplice per chiarire questa prospettiva dialettica: ed è leggere quel momento rivoluzionario teatrale che fu I/ ballo del papa di F.S. Salfi nella versione romanzata ma non infedele che ne fa Giuseppe Rovani nel suo romanzo Cento anni, in cui esso è calato nella prassi vissuta e quotidiana dell’accadere, delle circostanze, delle abitudini,
del momento contestualizzato della fruizione. Se guardiamo alla grande Riforma del teatro vediamo gli intellettuali arrivare ad essere anche attori (nel mito di Molière) o comunque entrare operativamente nella produzione
dello
spettacolo
(come
Goldoni)
o farsi maestri
dell’allestimento scenico e degli attori (Alfieri, o Paradisi); e vediamo definirsi quella figura nuova del teatro che è il suggeritore. Questi è spesso l’intellettuale; e vediamo cosf procedere, anche dal fare, una culturalizzazione dell’arte teatrale strisciante € silenziosa ma efficace e innovativa. Non alla cultura del teatro ma alla sua civiltà materiale appartiene poi quella figura ancora poco presente nell’articolazione degli studi che è l’impresario: ci si trova di fronte ad un tipo di professionismo impreciso, che si muove a diversi livelli di realtà e che offre riflessioni sull’ambiguo esistere del teatro tra valori generali e realtà particolari. In uno studio recente questa realtà («tra il plusvalore e il prin26
Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
cipio della bancarotta») !! è stata studiata nel concreto del suo operare nella città di Roma (insieme ad altri aspetti, vi-
sti sempre però nel loro determinarsi nella materialità di quella specifica società); l’operare di una figura quale Giuseppe Polvini detto Faliconti, il suo rapporto con la proprietà del teatro e con gli artisti, le modalità e i vincoli del suo impresariato (tra gli altri) diventano una dimensione
specifica del teatro in cui sembrano sfocare in lontananze indefinite i problemi della riforma del teatro (e pure vi consistono). Se guardiamo le concessioni del teatro nel regesto dei documenti d’archivio di Reggio!?, troviamo negli anni 1714 e ’15 una «Nota degli impresari» i e poi una sequenza di concessioni a capocomici o a persone in nome di compagnie, a privati, ad accademie e giovani dilettanti, e perfino,
nel 1766, a «giovani operai» di Reggio; ma vediamo che se il teatro è concesso nel 1757 ad Agostino Zurlini capocomico, di Parma, allo stesso è concesso nel 1759 per feste da
ballo in platea per il carnevale; e negli anni seguenti registriamo i nomi di impresari d’opera, delle opere buffe, e anche quello di Antonio Zardon detto Trevisani «impresario del dramma» (1772); ci sono nomi che ritornano come quello di Francesco Bonori; e ci sono anche nomi più noti. Qual è il movimento culturale ed economico che a loro si lega? e quale il teatro che mediano, e che senso ha per la città tale mediazione? Altre relazioni preciseranno, con studi di prima mano, alcuni aspetti della gestione di teatro in Emilia Romagna; noto solo che per lo spettatore, e per la cultura che vede lo spettacolo, l’impresario non sembra essere oggetto culturale di analisi. E lo spettacolo sembra esistere solo nelle sue funzioni: testo, scena, attore, pubblico. Ma la
civiltà teatrale è più complessa e conosce funzioni eguali di insiemi non omogenei. La tensione all’unità della riforma 11 Mi riferisco a R. Guarino, I/ teatro dell’indifferenza. Questioni storiche e storiografiche sullo spettacolo inaugurale del teatro Argentina, relazione al convegno
Roma e il teatro del *700, novembre 1982, in corso di pubblicazione in «Fonti per lo studio del teatro romano del ’700» per le edizioni dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana; relazione che ho potuto studiare sul dattiloscritto. 12 Il regesto, a cura di M. Zarotti, è nel citato primo volume del Teatro a Reggio Emilia, cit.
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teatrale non deve farci perdere di vista le differenze che combatteva e per le quali dobbiamo trovare le relazioni pertinenti. Nel problema del recitare si confondono attori dilettanti e professionisti; nella concretezza del «locale» no. E nemmeno nell’indagine storica. Meldolesi ha fatto un’avvincente e convincente analisi della microsocietà degli attori professionisti, dell’«insieme sociale delle compagnie di tutti i paesi in cui attecchî il seme della Commedia dell’arte», una società difforme ma unita dalla forza di coesione
della finalità del recitare, non integrata in nessuno stato ma con proprie logiche. Meldolesi ricorda che durante la rivoluzione francese si diceva che l’attore è prima attore e poi cittadino; e che la migrazione da un paese all’altro portò, caso limite, attori ad offrirsi come spie all’uno o all’altro governo. E spiega la conciliabilità delle frammentazioni delle compagnie con una effettiva coesione sociale, in consonanza con le perspicue prospettive offerte da Taviani nella sua storia della Commedia dell’arte. Nel parlare della recitazione e del problema delle passioni in rapporto al corpo che le esprime (cosf come nel rappresentare le opere) c'è omogeneità (anche se difficile e diseguale, come ha chiarito Ruffini)! tra «gens de lettres» e «gens de théatre»; e la definizione della recitazione come linguaggio autonomo è una sfida di progresso, uno dei risultati tesi al futuro del moderno teatro. Ma gli attori professionisti erano ospiti nei teatri delle diverse città. Era per loro che si costruivano, nel Settecento italiano, i teatri? E un problema che abbiamo visto già porre dal Secchi nel «Caffè». Gli edifici teatrali erano espressione della città, per i diversi bisogni della sua cultura, e potevano funzionare (e funzionarono) anche nel rifiuto 13 Il saggio di Meldolesi è quello citato sulla microsocietà degli attori; quello di Taviani è nel citato I/ segreto della commedia dell’arte. 14 Cfr. F. Ruffini, «Gens de lettres» e «gens de théétre»: dell’attore nel 700, in Scritti in onore di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1983, vol. II. Ma per il
tema delle passioni e l’analisi dell’attore come laboratorio per lo studio dell’uomo cfr. anche i suoi L'attore invisibile, in Attore di M. Buscarino, catalogo della mo-
stra a cura del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, Pontedera, 1980; e Spessore alla storia: problemi degli attori e problematica sull’attore nel °700, in «Quaderni di teatro», n. 11, febbraio 1981.
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Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
o nell’assenza degli attori professionisti: non è legato a loro l’esistere dei molti teatri nelle diverse città. Chiunque abbia guardato da vicino le intricate relazioni che portano alla costruzione dei teatri conosce le implicazioni della cultura e degli interessi locali e la polivalenza prevista e richiesta. La somma di queste storie particolari dà una civiltà teatrale; in questa civiltà gli attori professionisti non sono necessari: ‘vengono da un’altra storia, e vi entrano in relazione. La situazione dell’organizzazione teatrale in Italia, più equilibrata per il melodramma, è netta per il teatro di prosa: la compagnia degli attori professionisti è nomade, estranea, sovranazionale; i teatri e le infrastrutture (fino agli attori dilettanti) sono della città, vi hanno radici e consisten-
za — e possono ospitare le recite dei professionisti, ma non sono fatti per loro. (E allora si potrebbe vedere più da vicino a quali esigenze, a quali richieste, deve soddisfare la costruzione delle sale teatrali? Valutandone anche le conseguenze tecniche e materiali). Gli attori professionisti trovano spazi fisici e cultura e magazzini (fisici e dell’immaginario) a cui rispondere. E rispondono ad una cultura che li sovrasta e che esiste anche senza di loro. Rispondono ad un teatrale di cui sono soltanto una parte, che si orienta su altre logiche sia nel basso del quotidiano che nell’alto della cultura. È importante, evidentemente, conoscere gli attori professionisti; ma è utile anche conoscere nel concreto i dilettanti nella loro pienezza di realtà e nella loro individualità, senza le teleologie selettive consacrate dalla storiografia. La dialettica tra cultura teatrale e civiltà di teatro locali apre spiragli sulla manipolazione della storia del teatro, di cui la cultura del Settecento è la prima operatrice; e consen-
te allargamenti di conoscenza e legittima allargamenti di prospettiva. Il «locale» e i dilettanti non sono oggetto di erudizione, ma investimento ideologico per guardare con più significato la civiltà teatrale del Settecento italiano. Nel «sistema figurato delle conoscenze umane» dell’ Excyclopédie, nella stessa rubrica sotto la voce «immaginazione» troviamo teatro e romanzo: e questo ci indica sia la connessione tra le due forme narrative (e in molti saggi sul 29
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romanzo del Settecento Macchia ha messo in luce la «teatralità») sia la profonda tensione all’unità del sapere nella cultura settecentesca.
La sistematizzazione
si muove
tra
unità originaria del sapere e onnicomprensività, ed in questo contesto nasce una esplicita storiografia teatrale. Il caso limite del modo in cui il Quadrio (Storia e ragione di ogni poesia, 7 volumi dal 1739 al 1752) e il Napoli Signorelli (Storia critica dei Teatri antichi e moderni, 1777) trattano dei teatri cinese e americano ce ne dà conferma, nel loro con-
frontare quelle rappresentazioni ai modelli della poesia drammatica europea, a trovarvi fondamenta e prove per la loro sistemazione teorica. L’opera del Quadrio 5, tra diacronia e precettistica, si sviluppa in spirali onnivore verso tutto lo scibile pertinente alla rappresentazione (fino a quel capitolo, degno di maggior attenzione, sulla pratica teatrale, «Libro della tragedia», Distinzione VI). La sistemazione classificatoria si fonda sull’ordine del sapere (l’unità della Natura e della Ragione) che rende ogni specialismo una parte dell’insieme; e costruisce una sorta di grande griglia in cui ci sono i riquadri dell’esistente e di quello che dovrebbe esistere, come nelle tavole degli elementi di Mendeleev; e cosî la cultura teatrale italiana scopre i tasselli vuoti — ir primis, l’arte tragica — e si scatena l'ambizione a riempirli 6. Le radici unitarie del sapere e l’eclettismo delle opere sono aspetti diversi della stessa realtà; le riforme del teatro
15 Una sistemazione organica dei discorsi attinenti lo spettacolo, dispersi nell’immensa opera del Quadrio, è nella tesi di laurea di S. Cabrini, I/ teatro in F.S. Quadrio, anno acc. 1978-79, corso di laurea DAMS, Università di Bologna.
16 Il Muratori nel Della perfetta poesia italiana, cit., del 1706, chiede, visto che tanto si spende per i drammi musicali cosî poco utili alla città, «perché non potrebbe usarsi qualche liberalità per aver nobili, e purgate Tragedie, e Commedie, le quali ogni anno potrebbonsi le stesse rappresentar sul teatro con sf onesta, e profittevole ricreazione de’ cittadini? E ciò basti intorno alla Poesia Teatrale, a cui più che ad ogni altra è necessaria una gran purga, e Riforma, non tanto per bene del pubblico, quanto per gloria della Poesia, la quale in Italia non ha peranche avuto Professore, a cui si debba il Principato, e la lode di Poeta perfetto, nel compor Tragedie, e Commedie. Questa Corona è tuttavia pendente, e gli amatori dell’italica Poesia dovrebbono studiarsi a gara per occuparla. Muovansi adunque ad una tale impresa gl’Ingegni valorosi, sudino, s’affrettino, ed empiano finalmente una Sedia, che promette sicuramente un nome eterno a chi saprà conqui-
starla». E da ogni parte d’Italia in molti si gettarono avventatamente all’impresa.
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Problemi per lo studio dello spettacolo settecentesco
appaiono come restaurazione dell’ordine nel caos multiforme del barocco e della vita materiale, e si lavora per prototipi, per modelli che si vogliono esemplari, con gelosa attenzione a conquistare e a mantenere le posizioni, a costruire e
preservare il proprio monumento. Il caso del Maffei è in questo esemplare, come è sintomatico il titolo del volume che nel 1730 pubblica come proposta di modello: I/ Teatro del sig. Marchese Scipione Maffei, cioè la tragedia, la commedia e il dramma. Ma è esemplare anche perché indica i diversi livelli a cui agisce: la cultura universale, la repubblica italiana delle lettere, la società locale in cui si fonda.
Prendiamo atto che il teatro della cultura si autoriproduce nella sua interezza a livello locale; e guardiamo, con la dovuta sensibilità, all’autosufficienza e all’autogestione dei diversi luoghi della civiltà teatrale. Sappiamo tutti della eccezionale diffusione del teatro dei dilettanti, del loro attivismo e dei condizionamenti che hanno posto alla cultura teatrale, della loro qualità organizzativa e del loro peso nella civiltà del teatro in questo secolo; e poi però studiamo i professionisti e li guardiamo in rapporto alla grande Cultura cui arrivano e non nel contesto specifico, di per sé organismo significante e omogeneo, cui ineriscono. Perdiamo cosf
una dialettica profonda che segna il teatro italiano del Settecento. Il passaggio da istituzione globale a funzione di una società istituzionalizzata contraddistingue il teatro borghese nel suo costituirsi; qui il teatro è parola che non designa più un edificio o un genere letterario o un mestiere e passa, invece, a indicare una categoria e una organizzazione della cultura. Se dalla rottura bibienesca dello spazio totale della scena arriviamo alle teorizzazioni del Milizia che, nel 1773,
vede l’edificio teatrale e quello dei giochi ginnastici «raccolti tutti in uno ed in sito cospicuo della città» o al progetto di Giovanni Antolini per il Foro Bonaparte (1800) che pone il teatro all’interno di una città di servizi accanto alle Scuole al Museo e alla Borsa, ci troviamo di fronte all’esito,
utopico, della riforma del teatro nel Settecento. Ma, per l'appunto, ad un esito; e sappiamo come non sia corretto
costruire una storia in vista dei suoi esiti, né sottoporre gli di
F. Cruciani
eventi ad una selezione teleologica. L'attenzione alla storia materiale e locale può aiutarci a restituire complessità e problematicità alle vicende del teatro come vicende di uomini. Estrapolandola dal suo contesto specifico, si può assumere a metafora della civiltà teatrale della Riforma settecentesca l’immagine dell’ Algarotti nel Saggio sopra l’opera in musica, del 1763: «gli spettatori debbono far parte anch'essi dello spettacolo, ed essere in vista essi medesimi, come i libri ne-
gli scaffali di una biblioteca». Come i libri: la cultura manipola e colloca le culture di teatro, e decide l'organismo delle diverse componenti dello spettacolo. Ma è l’unità fittizia del teatro visto nel suo essere spettacolo guardato; laddove la civiltà del teatro conosce, pit che l’unità, la molteplicità
e le interrelazioni e la polivalenza del concreto e del materiale e il suo essere trama di relazioni. I diversi programmi di verità della cultura teatrale del Settecento non si escludono l’un l’altro, né è corretto indi-
viduarne il «più vero». Cost la civiltà di teatro nelle singole città è parte della cultura generale ed è anche la sua specifica cultura: sarà utile accettare la compresenza e la dialettica delle diverse verità e delle diverse logiche di studio, non per costruire separatezze o specialismi dell’erudizione ma per conoscere nella loro complessità fenomeni complessi. I discorsi di queste giornate dedicate alla civiltà teatrale del Settecento e l'Emilia, questo tema che accosta problematicamente il generale e il locale senza predeterminarne i rapporti, saranno
certo
testimonianza
di questa esigenza,
a
partire dal loro relazionarsi nella diversità degli ambiti e dei punti di vista.
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PARTE
PRIMA
LA CULTURA DEGLI UOMINI DI TEATRO
EUGENIA GERARDO
CASINI-ROPA GUCCINI
MARINA CRISTINA
CALORE VALENTI
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
Impostare un progetto di ricerca sul teatro in EmiliaRomagna nel Settecento ha in primo luogo richiesto delle scelte preliminari di campo. Lo studio di ambiti circoscritti comporta infatti sempre la necessità di evitare sia il rischio della generalizzazione incauta che quello della separatezza sterile dei risultati, ambedue appannaggio purtroppo frequente degli studi locali. Avendo interesse ad individuare, al di là dei prodotti letterari e degli spettacoli, il sistema di relazioni che il teatro — il fare e il pensare teatro — intratteneva con l’insieme della vita sociale e culturale dell’epoca nelle zone prese in esame, ci è parso essenziale occuparci degli uomini, della loro vita e della loro attività teatrale, attraverso un’indagine di tipo biografico. «Una capillare documentazione sulle vicende e le opere di drammaturghi, attori, teorici, impresari ecc.», avrebbe infatti potuto — auspicava il nostro progetto — «dare un importante contributo alla ricostruzione del tessuto connettivo della vita teatrale della regione, permettendo di indagarne le valenze artistiche e sociali, anche in rapporto alle contemporanee vicende della cultura italiana ed europea».
Per evitare fin dall’inizio la possibile dispersione delle
forze, la ricerca è stata circoscritta dal punto di vista tipoloQuesta relazione vuol essere un primo resoconto esemplificativo dei risultati del progetto di ricerca triennale «Notizie sugli uomini di teatro nel Settecento in Emilia Romagna», promosso dalla Regione nell’ambito del più vasto programma «Cultura e vita civile del Settecento in Emilia Romagna». Al progetto, coordinato da Eugenia Casini-Ropa, oltre agli estensori di questo scritto ha partecipato come ricercatrice Isa-
bella Quattromini; risultato della ricerca sono due volumi di biografie culturali (circa 250) e saggi storiografici, Il teatro della cultura e Il teatro della professione, în corso di pubblicazione presso l'editore Mucchi di Modena. Per quanto riguarda la stesura di questa relazione Eugenia Casini-Ropa ha scritto la patte introduttiva, Marina Calore la biografia di A.V. Fontanelli, Gerardo Guccini quella di A. Zaniboni e Cristina Valenti quella di G. Bianchi.
5)
E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
gico e da quello politico-geografico: al teatro drammatico, da un lato, poiché il campo del teatro in musica ci avrebbe portato a percorrere piste diverse, attraverso modi di produzione e atteggiamenti culturali particolari; ai territori allora appartenenti alle tre legazioni pontificie di Bologna, Ferrara e Ravenna e ai ducati Estensi, dall’altro, data la lo-
ro già nota omogeneità culturale nel XVIII secolo. Nonostante le limitazioni preliminari l’indagine si è subito rivelata complessa e difficoltosa sia per la mancanza quasi totale di studi di riferimento che per la prevedibile dispersione, eterogeneità e frammentarietà dei materiali documentari. Assai modesta si è dimostrata infatti l’utilità dei pochi repertori antichi e moderni esistenti, che offrono qualche indicazione soltanto sui letterati maggiori o sui comici di più larga popolarità extraterritoriale, senza aprire nessuno spiraglio su una realtà teatrale pur popolatissima di
nobili dilettanti e di compagnie itineranti. Lungo e difficile si è poi dimostrato lo spoglio, che si voleva minuzioso, delle biblioteche e degli archivi pubblici e privati della regione sulle tracce di cronache, epistolari, diarii, opere, atti ufficiali e di ogni altro documento a stampa e manoscritto da cui
trarre anche minime ma preziose informazioni. La scelta di non escludere a priori dall’indagine alcun tipo di documento, se ha dapprima complicato e reso più gravoso il lavoro dei ricercatori, ha però permesso in seguito di ricostruire in molti casi la trama complessa delle relazioni sociali, politiche, professionali, culturali, famigliari dei protagonisti grandi e piccoli della ricerca, e dunque di comprendere il significato e il peso che in rapporto ad esse assumeva la loro attività teatrale. Individuare le diverse tipologie e i modi diversi dell'impegno teatrale di ognuno, il loro correlarsi in ambiti di reciproca influenza e di organizzazione solidale, i rapporti che questi ambiti intrattenevano fra loro e con le altre diverse sfere di attività culturale, e con-
temporaneamente determinare la posizione che il teatro occupava nel reticolo della vita di relazione privata e pubblica, ci ha permesso di studiare realmente il teatro emiliano del Settecento nella cultura e non soltanto dalla cultura di cui fa parte. 36
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
Questo approccio ha dato come primo, quasi immediato risultato, la chiara riprova dell’esistenza di due mondi teatrali separati, pur se coesistenti e a volte intrecciati, governati da norme e consuetudini distinte e spesso contrastanti; li abbiamo chiamati teatro della cultura, ossia il teatro rigorosamente dilettantistico dei nobili e dellalta borghesia, e
teatro della professione, ossia quello lucrativo dei comici itineranti. I due ambiti (segnalati già in partenza dalla difformità del genere e della collocazione dei materiali che li riguardano e confermati poi da percorsi biografici che si incontrano solo per escludersi) pur mantenendo fra loro rapporti a diversi livelli, sono in realtà da considerarsi del tutto autonomi per cultura e modi produttivi. E se il primo, sul finire del secolo, tenderà ad imporre al secondo le proprie leggi, il mondo dei comici eserciterà su quello dei dilettanti solo un fascino ambiguo, frutto assai pi di una fatale attrazione fra opposti, che di un vero rapporto tra culture. Mettere a fuoco il teatro della cultura ha comportato l’evidenziazione di un sistema di relazioni complesso e diversificato, ma tuttavia profondamente omogeneo. La pratica teatrale è infatti rintracciabile, con manifestazioni diverse, in molti differenti ambiti della vita di relazione culturale
e sociale di stampo prettamente cittadinesco nei quali l’indagine biografica permette di addentrarsi: nei teatri, naturalmente, ma anche nei salotti, nei collegi, nelle accademie, nella Corte, nelle biblioteche, nel senato, nelle stamperie,
nei conventi e in altri luoghi ancora. I modi e la qualità del coinvolgimento personale sono altrettanto vari e diversificaLitio: I nobili pit agiati ed appassionati costruiscono teatri nelle proprie dimore e in essi organizzano spettacoli iin cui recitano con le proprie famiglie e i propri amici. Gli intellettuali aristocratici, ascritti sempre a diverse accademie letterarie, si dilettano spesso nel tradurre e nel comporre tragedie e commedie e a teorizzare sui «generi» e la forma poetica, non infrequentemente impegnandosi in lunghe e snervanti polemiche. Nelle accademie prettamente teatrali gli attori dilettanti si addestrano e organizzano spettacoli anche pubblici per il carnevale o particolari occasioni festive. Dil
E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
Nei collegi retti da vari ordini religiosi la gioventi nobile si esercita nell’arte oratoria attraverso la composizione e la recitazione teatrali e i pedagoghi teorizzano e praticano il teatro come un efficace mezzo educativo. Eruditi teatrofili collezionano quei testi drammatici a stampa che editori specializzati imprimono su commissione e in onore di altri notabili. Governanti e maggiorenti si preoccupano di dotare le città (anche le più piccole) di edifici teatrali alla cui erezione concorrono tutte le famiglie più in vista e per i quali gli architetti elaborano progetti e costruiscono scene. Diplomatici e burocrati intrecciano relazioni con stati esteri anche importando ed esportando testi teatrali. Alcuni aristocratici fungono da impresari e protettori per compagnie professionistiche. E abitudine diffusa, anche per chi non ritiene di impegnarsi personalmente più a fondo, scrivere e diffondere sonetti in lode di attrici, attori, autori, rappresentazioni
di successo. Tutti comunque frequentano e commentano il teatro, su cui scambiano spesso notizie e opinioni con corri-
spondenti anche molto lontani. In tanta varietà di intervento, che spazia dall’erudizione allo svago, dal filosofare salottiero all'impegno riformistico, dal narcisismo di classe alla sperimentazione estetica, gli elementi che omogeneizzano e caratterizzano questa ramificata realtà teatrale sono la incessante circuitazione strettamente interna delle idee e il rigoroso dilettantismo.
La diffusione del teatro tra l’aristocrazia è indubbiamente favorita, nelle città grandi e piccole della regione, da una serie di atteggiamenti culturali propri dell’epoca e del ceto: la poliedricità e il poligrafismo degli intellettuali e la loro passione per l’esercitazione letteraria, il gusto per l’associazione e l’organizzazione culturale, l’evergetismo dei maggiorenti che investono capitali in opere ed attività di autopromozione, il cauto riformismo etico, estetico e peda-
gogico, la vera e propria dilagante mania epistolare. Su questa base comune, l’uniformità del z2ilieu culturale e la sua
esclusività sono garantiti da una continua e intensa circolazione delle idee, che ha per canale proprio quella fitta rete di relazioni a molti livelli che connota una microsocietà di questo tipo, in cui il privato si fa pubblico e viceversa. 38
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
Il dilettantismo del teatro colto si oppone allora al professionismo dei comici come vessillo ben spiegato di una condizione sociale — economica e culturale — elitaria, che
praticando l’arte per puro diletto e solo all’interno della propria ristretta cerchia, rafforza l'egemonia della propria cultura. Ne fa fede la riprovazione più o meno intransigente, ma costante, verso chi intrattiene relazioni venali con i
teatranti di professione, che è invece ammesso lodare o anche frequentare per mecenatismo o per distrazione. Dall’entità della sua diffusione, dunque, la pratica colta del dilettantismo teatrale risulta costituire, nelle città prese in esame, uno dei topo; più frequentati e caratterizzanti della cultura media delle classi elevate, fino ad assumere il ruolo di vero e proprio status syzbol (uno tra gli altri), già di per sé rappresentativo della collocazione aristocratica di chi
la esercita. Ne consegue che, se il teatro — tenendo conto delle comprensibili differenze tra città di maggiori o minori dimensioni e vivacità culturale — è cosf radicato e diffuso nella società, la sua effettiva dimensione e valenza culturale
finirà per consistere più nella quantità che nella qualità, andrà cioè ricercata più nella norma che nell’eccezione. Vale a dire, parlando di uomini, che ci si rivela più utile e pertinente conoscere le tante vicende e le opere, anche se spesso esteticamente modeste, rientranti nella normale prassi teatrale, piuttosto che evidenziare le imprese dei pochissimi che sono passati alla storia, quella storia che congiunge tra loro le eccezioni e trascura la norma. Pier Jacopo Martello, Vincenzo
Monti, Francesco Albergati, Ludovico Antonio
Muratori — emiliani illustri — appartengono ad un mondo delle idee che, pur attraversandole, sfugge alle dimensioni regionali e si colloca al di sopra di quella pratica media di cui pure detta le norme. Ecco perché, volendo presentare alcuni esempi realmente significativi delle 120 biografie culturali di dilettanti nobili da noi ricostruite, proponiamo tre uomini, il reggiano Alfonso Vincenzo Fontanelli, il bolognese Antonio Zaniboni e il riminese Giovanni Bianchi (ma avremmo potuto scegliere molti altri al loro posto), il cui nome risulta forse no30
E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
to in altri ambiti, ma le cui attività teatrali hanno avuto fa-
ma assai breve e limitata. Li abbiamo volutamente scelti in rappresentanza delle tre aree pit connotate politicamente e culturalmente della regione e di.tre tipologie diffuse di intervento teatrale colto, tendendo a far trasparire in loro anche i modi del rapporto col teatro professionale. Cosî vediamo il marchese Fontanelli, brillante diplomatico e uomo politico, dedicarsi anche ad una avveduta promozione teatrale importando opere francesi, collezionando testi teatrali e aprendo ai giovani aristocratici la propria biblioteca, diffondendo la cultura teatrale attraverso le proprie innumerevoli relazioni diplomatiche e mondane. Osserviamo il conte Zaniboni, accademico e attore dilettante, traduttore dal francese e drammaturgo, praticare l’eclettismo proprio di tanti letterati del suo tempo nello sperimentare ogni genere di componimenti teatrali; e la sua compromissione col teatro dei comici consentirgli, è vero, di divenire autore di successo, ma valergli in cambio il velato ostracismo della cerchia più esclusiva della cultura bolognese. Scopriamo il medico Giovanni Bianchi, scienziato ed erudito poligrafo, infaticabile animatore di una propria scuola, incoraggiare in essa la pratica pedagogica del teatro teorizzando l’assoluta supremazia del dilettantismo, ma poi, travolto in età matura dal fascino di un’attrice, finire per comporre addirittura un trattato in onore dell’arte comica. Biografie non straordinarie per eventi od opere, ma che ci trasmettono il respiro del mondo culturale che nutrono e di cui si nutrono; figure paradigmatiche, pur nella loro reci-
proca diversità, perché rese tali modo di rapportarsi alla cultura epoca e della propria città, dalla die dell’esistenza del teatro della pensiero e della vita.
dalla «normalità» del loro e alla società della propria loro qualità di artefici mecultura ai diversi livelli del
Vincenzo Alfonso Fontanelli
L’Alzira di Voltaire tradotta per la prima volta in lingua italiana venne rappresentata nell’autunno del 1737 in un 40
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
teatrino improvvisato «nella deliziosa villa della Crocetta, feudo del signor Principe Ercolani» nei pressi di Medicina, terra del Bolognese '. Lo spettacolo, reso semnfai più suggestivo dall’ambientazione (la villa, posta al centro di vaste tenute, appariva quasi come una piccola corte) e più mondano del solito grazie al prestigio di cui godeva il casato degli Ercolani (il pa-
dre del marchese Alfonso era stato lungo tempo ambasciatore cesareo), non fu certo un episodio isolato, ma va collocato all’interno di un quadro complessivo offerto dall’intensa attività teatrale dilettantesca, bolognese e non, del Settecento. Anche il suo accurato allestimento, l’ottima preparazione e la padronanza scenica degli altolocati attori rientrano nella norma e sono elementi distintivi di tutti i teatri privati: nulla di particolare quindi per quanto riguarda le modalità rappresentative né tanto meno i criteri selettivi adottati nella composizione del pubblico invitato ad assistere. Il testo recitato nel 1737 tuttavia, a ben considerare, se-
gna una svolta nella scelta del repertorio, fattosi ormai ripetitivo e monotono, e il trapasso da una predilezione formale e superficiale accordata al teatro tragico francese fin dalla fine del XVII secolo, all'adesione anche ideologica al messaggio che tramite il teatro si poteva cogliere. La consapevolezza del valore innovativo della tragedia voltairiana, del resto, traspare dall’esigenza sentita di pubblicare immediatamente il testo tradotto corredato d’un ricco apparato documentario, costituito da una lettera dedicatoria a firma del
canonico Gioseffo Francia e da molti versi occasionali in lode dei principali interpreti: Marianne Ercolani contessa di Marsciano (Alzira), suo cugino il marchese Alfonso Ercolani (Gusmano), il marchese Alfonso Vincenzo Fontanelli
(Zamoro). Nella sua dedica inoltre il canonico Francia, in !1 La notizia, tratta dallo Zibaldone di Antonio Barilli, è riportata con qualche inesattezza in C. Ricci, I teatri di Bologna, Bologna, 1888, p. 448. La villa Ercola-
ni, sul Madesano nei pressi di Medicina, era costruzione di impianto cinquecentesco, turrita e imponente. 2 Alzira tragedia del Signor di Voltaire, s.n.t. Alla dedica del canonico Francia (pp. 3-6) fanno seguito sonetti di Pellegrino Saletti, Giampietro Zanotti, Ferdi-
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deroga alla prassi consolidata che voleva anonime le trasposizioni in prosa dei testi tragici francesi, rivelava l’identità del traduttore. Il marchese Fontanelli, appassionato Zamoro nella finzione scenica, «cavaliere ornatissimo d’ogni facoltà, che alla cavalleria attenga, e al dimostrarsi letterato e sapiente», non solo era stato un traduttore quanto mai fedele all'originale? ma anche un garante dell’attualità della pièce voltairiana: ritornato di fresco da una missione diplomatica a Parigi dove aveva avuto modo di conoscere personalmente Voltaire, aveva recato in patria l’Alzira, ne aveva curato la traduzione e favorito la diffusione attraverso la consueta rete distributiva dei teatri privati, autorizzando però anche la sua comparsa sui teatri pubblici. Quella traduzione, accolta subito a giusto titolo nel volume VII delle Opere varie trasportate dal franzese e recitate in Bologna, edite da Lelio Dalla Volpe ‘, venne infatti recitata quasi contemporaneamente nel 1738 a Modena dai convittori dell’elitario teatro del Collegio S. Carlo e a Venezia dai comici nel vasto teatro di S. Samuele. Ambedue gli organizzatori della rappresentazione in villa dell’ Alzira nel 1737, l’Ercolani e il Fontanelli, possono essere considerati tra i primi sinceri ammiratori del teatro voltairiano in Italia, ma mentre il marchese Ercolani si linando Caldari, Antonio Jachini, Pio Francesco Donadi, Pier Nicola Lapi e Giuseppe Manfredi. Tra tutti questi, presenze consuete nella produzione poetica oc-
casionale del tempo, si distinguono lo Zanotti e il Manfredi, personalità d’un certo rilievo, l’uno come autore drammatico e l’altro come regista ed istruttore di at-
tori, nella vicenda dei teatri privati bolognesi del XVIII secolo. 3 «Le sue traduzioni [...] sono accurate e fedeli, per quanto non abbiano il
pregio dell’eleganza», cfr. L. Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII. Saggio bibliografico, Parigi, 1925, pp. 14-15 e 287-88. Il Ferrari per primo, dopo un silenzio quasi secolare sul Fontanelli, metteva in luce i meriti della poliedrica personalità del.marchese. 4 Opere varie trasportate dal francese e recitate in Bologna, Bologna, 1724-1750, in 10 volumi. Il volume VII, che riunisce tre testi tragici, è senza data ma essa si ricava dall’igzprimatur. ? La recita modenese è segnalata in A. Gandini, Cronistoria dei teatri di Modena dal 1539 al 1871, Modena, 1873, p. 187, quella veneziana è documentata da una rara stampa (Venezia, 1738) corredata da una dedica firmata da Antonio Vi-
talba «detto Florindo Comici e servitore attuale di S.A.S. il Sig. Duca di Modena» (cfr. N. Mangini, Su/ teatro francese in Italia nel secolo XVIII, in «Convivium», XXXII (1964), p. 355). Il Vitalba recitava in quell’anno con la compagnia Imer.
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mitò a promuovere una serie di traduzioni (Zaîra, Semirami-
de) finalizzate a delle recite private e destinate consumo personale o limitato ad un ristretto predilezione del marchese Fontanelli per questo tro, grazie alla sua posizione di uomo di potere,
quindi a un gruppo‘, la tipo di teaguidò e de-
terminò, contributo non indifferente, le scelte di una intera
generazione di intellettuali estensi. Erede spirituale e continuatore del marchese G. Gioseffo Orsi (prova ne sia l’osmosi culturale tra ambiente bolognese ed estense, incentrata sul teatro), si pose anch’egli in un primo tempo come tramite diretto, quindi come mediatore delle punte più avanzate della cultura francese. Ottimo organizzatore di iniziative pur senza mai esporsi personalmente, Fontanelli, al pari del marchese Orsi, fece del teatro la manifestazione esteriore della sua disponibilità alle idee progressiste: riflessione questa che dovrebbe indurre a considerare con maggiore attenzione il dilettantismo teatrale settecentesco e a
ricercarne più in profondità le motivazioni. La vicenda biografica del marchese Fontanelli in effetti sembra procedere su due binari paralleli, l’uno palese (ma non per questo noto nei particolari), punteggiato da titoli prestigiosi ed incarichi di primo piano, l’altro solo intuibile
dagli effetti che produsse, ricostruibile in base a deduzioni e agli attestati di riconoscenza da parte di coloro che frequentarono il marchese nell’intimità: traît-d’union tra l'uno e l’altro, una ininterrotta presenza in campo teatrale. i Discendente da una delle famiglie reggiane più antiche e nobili, da sempre fedele agli Estensi, Alfonso Vincenzo Fontanelli (1706-1777) nacque a Reggio e fu tenuto a batte6 Alfonso Ercolani, figlio unico ed erede di Filippo, conte palatino, principe del S.R.I., ambasciatore cesareo a Venezia e consigliere di stato, calcò più volte
le scene dei teatrini bolognesi: nell’estate del 1744 è segnalato quale primo amoroso in casa Albergati e ancora nel 1757 declamava tragedie al fianco della moglie marchesa Locatelli. Intorno al 1750 aveva commissionato la traduzione della Zaira di Voltaire (Bologna, 1751) all'abate modenese Paolo Creponi e nel 1752 quella della Serziramzide al letterato bolognese Domenico Fabri. Marianne Ercolani era menzionata come attrice dilettante fin dal 1733 in una lettera di G. Gioseffo Orsi (da Modena 14 marzo 1733, in ms. B. 222, alla Biblioteca Comunale di Bologna) e il marito, conte Alessandro di Marsciano, aveva recitato in Modena al tea-
tro di corte già nel 1719.
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simo con gran pompa dal duca Rinaldo I. Venne educato presso il Collegio dei Nobili di Modena dal quale usci nel 1724. L’anno seguente, in compagnia di Domenico Vandelli, intraprese un lungo viaggio che nell’arco di un biennio lo portò a visitare l'Europa. Un secondo viaggio tra il 1728 e il 1730 gli fece conoscere le principali capitali d’Italia: Roma, Napoli, Firenze, Torino, Parma. Dopo il 1730, allorché fu creato gentiluomo di camera segreta, ebbero inizio le missioni diplomatiche, in Germania nel 1734, a Parigi dal
1735 al 1737, dove ottenne il privilegio di aggiungere i gigli
di Francia al suo blasone. Vennero quindi le responsabilità di governo, come colonnello del Reggimento della Mirandola (1740), governatore dei ducati di Massa e Carrara (1741),
commissario generale di guerra e membro della Giunta Governativa (1742-1748). Con il ritorno di Francesco III a Modena fu scelto per competenza tecnica e scientifica e per le doti organizzative? quale sovrintendente alla costruzione della gran strada dell’Abetone, all’ Arsenale, alle strade di Modena. Partendo per Milano, il duca gli conferi i titoli di consigliere intimo di Stato, capo del Magistrato della Guerra e membro della Reggenza. Già presidente, fin dalla sua istituzione, della Biblioteca Estense, dal 1760 venne nominato anche presidente dell’Università. Questo il politico, il diplomatico, l’elegante personaggio di corte: qualche cosa anzi della giovanile prestanza attorica gli rimase per tutta la vita dal momento che i contemporanei furono concordi nel rilevarne la signorilità dei modi, l’ottimo gusto, la bella voce suadente. L’uomo di cultura, il futuro illuminista, si era formato,
come si è detto, al Collegio S. Carlo dove studiò matematica, filosofia, lingue antiche e moderne e dove compi anche, come tanti altri nobili convittori, un serio apprendista? Tra le altre cose gli viene attribuita l’introduzione della coscrizione militare obbligatoria nello Stato Estense in luogo dell’ingaggio mercenario delle truppe. 8 «Studiò la Filosofia sotto il padre Parolini dell'Ordine de’ Minimi, e nella Matematica fu discepolo del celebre Domenico Vandelli. Diedesi eziandio nel tempo stesso alla coltura delle amene lettere, dell’erudizione, delle antichità, e sopra tutto allo studio delle Lingue non solo Francese, Tedesca, Spagnola, Inglese, ma Ebraica e Greca», cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca Modenese, Modena, 1781-1786, vol. II, pp. 331 ss.
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to teatrale: esperienza propedeutica questa per apprezzare il teatro sia a livello formale che contenutistico. Meno consueta fu l’esperienza diretta di realtà e culture differenti, in grado di stimolare uno spirito libero da pregiudizi. Quanto mai utile a questo riguardo risulta la lettura dei due taccuini d’appunti, ancora inediti, scritti durante il viaggio, a mezzo tra il diporto e l’apprendistato diplomatico, che dal maggio del 1725 al maggio del 1727 lo portò attraverso l’Europa?. | Essi sono autografi, è vero, di Domenico Vandelli («il signor marchese Alfonso Vincenzo Fontanelli ed io Domeni-
co Vandelli con un cameriere partimmo da Modena per fare un viaggio per l'Europa», questo il dimesso esordio), ma riflettono quasi certamente le impressioni riportate da ambedue i viaggiatori. Vi si trovano piacevoli descrizioni, acute riflessioni, lapidari e calzanti giudizi, ma larga parte è riservata alla relazione degli spettacoli teatrali, ovunque avidamente seguiti, alle accademie e alle conversazioni con i dotti. Anche quando i soggiorni lontano dalla patria si tramutarono in delicate missioni diplomatiche in lui non venne mai meno il desiderio di vedere, conoscere, imparare («pro-
cacciandosi ovunque l'amicizia de’ Letterati di maggior nome», osservava il suo biografo) !°. i L’uomo pubblico fu naturalmente pastor arcade, col nome di Semarco, e venne aggregato via via alle principali accademie: agli Intrepidi di Ferrara, ai Gelati di Bologna, ai Dissonanti di Modena, ai Muti di Reggio, ecc. Fu forse tra i promotori degli Ipocondriaci, sempre di Reggio, e favore? Descrizione di un viaggio, mss. Coll. Campori, 1801-2, alla Biblioteca Esten-
se di Modena. 10 La redazione dell’ampia biografia del Fontanelli nella Biblioteca Modenese, siglata C.C., spetta al conte Crispi, reggiano (cfr. Poesie del marchese A.V. Fontanelli trascritte dai suoi originali dal conte Achille Crispi coll’aggiunta di alcune brevi notizie intorno alla vita e agli scritti del medesimo, mss. Turri E. 36, alla Biblioteca
Municipale di Reggio) che cosî delinea il ritratto del defunto amico: «Egli era veramente dignissimo della stima e dell’amore di tutti quelli che sono saggi discernitori del vero merito, e le molteplici cognizioni, di cui era fornito in ogni genere di seria e di piacevole letteratura, la rara sua abilità in tutti gli esercizi cavallereschi, e nelle Belle Arti, e in quello del disegno singolarmente, l’eccellenza nel sostenere le Rappresentazioni teatrali, e nell’addestrare alle medesime i Giovani Cavalieri, l’avvenenza della persona, la piacevolezza del tratto e delle maniere lo
faceva rimirare finché visse come uno de’ più pregevoli ornamenti e di Reggio sua patria, e di Modena ove passò la maggior parte de’ suoi giorni».
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vole al loro contrapporsi al predominio culturale modenese, quasi certamente tra coloro che accordarono piena fiducia al giovane Agostino Paradisi. Il philosophe preferiva tuttavia radunare nella propria dimora fin dal 1749 «un’Accademia Storico-Filosofica composta di alcuni de’ più colti ingegni [...] nella quale si avessero ad esporre e trattare diversi
esperimenti colla libertà di argomentarvi contro, e finalmente di stabilirvi la più accertata opinione» !!. Contemporaneamente dava libero accesso alla sua biblioteca ad uno scelto gruppo di giovani. Della sua privata accademia e di coloro che la frequentarono, oltre al Paradisi, a Luigi Cerretti, a Ludovico Ricci *, a Ludovico Antonio Loschi, non
si sa nulla di preciso se non quanto riferisce il Loschi stesso nella dedica premessa alla traduzione del Figlio Naturale di Diderot !?, e che costituisce un sincero atto d’omaggio al marchese Fontanelli: «Se voi non eravate, dopo lunghi studi, io correva il rischio d’essere un erudito. Voi mi apriste la vostra biblioteca numerosa ed eletta, e mi riceveste a parte dei vostri ragionamenti. I vostri discorsi gravi e splendidi si aggirano sopra le utili facoltà, e spirano ardor di giustizia e benevolenza del Mondo; e il vostro silenzio persino, i vostri occhi, e tutti i vostri sembianti esprimono l’indole soave del vostr’animo e gli affetti più squisiti e delicati. A voi sono debitore d’una rivoluzione totale della mia mente e del mio cuore», e concludeva: «La Commedia pure che vi mando è tratta dall’original francese da voi posseduto». Dopo aver fatto conoscere in Italia il teatro di Voltaire, sostenuto le commedie di Goldoni, nel 1768 il marchese
Fontanelli, coerente sempre nel ricercare l'attualità del mes!l G. Tiraboschi, op. cit., vol. II, p. 333. Al marchese Fontanelli, cosi noto al suo tempo, cosî spesso ignorato oggi, è dedicato largo spazio nell’acuto saggio di
G. Armani, Aspetti della diffusione delle idee illuministiche nei territori estensi, in Reggio e i territori estensi dall’Antico Regime all’Età Napoleonica, a cura di M. Berengo e S. Romagnoli, Parma, 1979, vol. II, pp. 345 ss. 12 L. Pucci, Lodovico Ricci dall’arte del buongoverno alla finanza moderna, Milano, 1971. Questo studio, attraverso l'evoluzione del pensiero del Ricci, prende
in esame tutta secolo, che fu rivoluzionario: 13 I/ Figlio
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una generazione di intellettuali estensi, nata intorno alla metà del interprete del passaggio dal riformismo illuminato al giacobinismo intellettuali si noti, che frequentarono la casa del Fontanelli. Naturale ossieno le pruove della virti, commedia, Modena, 1768.
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
saggio teatrale, affidava al battagliero Loschi !‘ l’incarico di diffondere le due commedie di Diderot. E il discepolo si faceva portavoce del maestro affermando: «molto meglio il rendere italiano il Figlio naturale del sig. Diderot che scrivere una commedia io stesso». In effetti il Fontanelli compose ben poco di originale per il teatro, limitandosi ad interventi occasionali, modesti contributi a generi alla moda: un'azione accademica intitolata I/ Trionfo di Pompeo Magno, assieme a don Alfonso Varano di Camerino suo compa-
gno di corso al Collegio S. Carlo, recitata nel 1724 al teatro Ducale !, il testo per una cantata a cinque voci, S. Francesco di Paola, per le melomani corti d’oltralpe, il rimaneggiamento d’una festa teatrale su modello francese, Le Nozze
del Piacere e dell’Allegria, data al teatro Molza nel 1740 in onore di Teresa Cybo d’Este, un dramma per musica, l’Irene, rimasto inedito ed ora disperso !9. Tradusse invece molto, senza intenti letterari (solo quattro traduzioni erano in
versi), col preciso scopo di fornire testi nuovi e farli recitare per farli conoscere. Anche in quest'ambito tuttavia il suo apporto, se si esclude la menzione relativa all’ A/zira, sarebbe risultato a fatica individuabile poiché «alla maggior parte delle traduzioni da lui fatte comunemente per soddisfare alle richieste di nobili compagnie, che dilettavansi di recitarle, ei non pose in fronte il suo nome» !”. Ma l’editore bolognese Dalla Volpe pubblicando nel 1755 l’Oreste e Pilade
14 Alla traduzione fa seguito (pp. 101 ss.) una Lettera del Traduttore all’Autore, in cui il Loschi, dopo aver cost esordito: «Io non dissimulo la mia vanità: voglio che sappiate che io ci sono al Mondo, che sommamente vi ammiro tra i Filosofi», non esitava a rilevare alcune incongruenze nel testo diderotiano e prometteva di far uscire alle stampe al più presto anche la sua versione del più noto Padre di Famiglia, che non fu pubblicata a causa dell’inopinato abbandono degli Stati Estensi da parte del Loschi.
15 A. Gandini, op. cit., vol. II, p. 34. Prima tappa del menzionato viaggio del 1725 fu la visita a Ferrara all'amico Alfonso Varano il cui Giovanni di Giscala veniva recitato a Modena nel 1751 dai convittori del Collegio S. Carlo. 16 $. Francesco di Paola, azione sacra a 5 voci da camera da cantarsi in Bruna in-
nanzi al card. vescovo d’Olmuz, poesia del marchese Alfonso Fontanelli, Bruna 1734; Le Nozze del Piacere e dell’Allegria, festa teatrale da rappresentarsi in Modena nel teatro Molza il carnevale dell’anno 1740, Modena, s.a., musica di Pietro Pulli.
17 Cfr. G. Tiraboschi, op. cit, vol. II, p. 336.
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del La Grange !8 quasi in appendice alla conclusa collezione delle Opere varie trasportate dal franzese e recitate in Bologna, riconosceva apertamente il consistente contributo di un gruppo di «modenesi» capeggiati dal Fontanelli, nel campo delle traduzioni — e relative rappresentazioni esemplari — comprese negli ultimi volumi della raccolta. Al Fontanelli «cavaliere versatissimo in ogni genere di letteratura e massimamente di tutte le belle arti, e che fra
tanti suoi pregi possiede ancor quello del perfetto gusto e modo di recitare», spettavano le trasposizioni in prosa dell’ A/zira (tomo VII), del Maometto (tomo VIII), del Bruto (tomo IX) di Voltaire, nonché del Gustavo Wasa del Piron (tomo VIII) e del Maozzetto II del La Noue (tomo X). A
queste andrebbero aggiunte, stando all’autorevole testimonianza dell’estensore della sua biografia per la Biblioteca Modenese, le traduzioni de I/ Nicomede di Corneille (1733), — I Fratelli Nemici di Racine (1736), Il Poliuto di Corneille (1738), Il Mitridate di Racine, La Roma salvata e L’Olimpia
di Voltaire (1745), La Berenice di Racine e La Merope di Voltaire (1749) ed ancora del Cesare (la Morte di Cesare?) di Voltaire
(1752),
del Varrone
del Visconte
de la Grave
(1756) e del Conte di Warwick del La Harpe (1768), del-
le quali oggi si conserva ben poco !°. Sedici traduzioni dunque e forse l’elenco non è esaustivo; ma quel che più conta è la preponderanza dei testi voltairiani o meglio ancora la traduzione precoce
(la versione ad esempio del Maorzetto
seguiva di poco il noto scambio epistolare tra Voltaire e papa Lambertini) di alcune tragedie poco convenzionali e ideologicamente impegnate, che ponevano l’accento sulla relatività del concetto di «religione» come l’Alzira e il Maometto, e mettevano in dubbio la nozione di «stato», come il Catilina o la Roma salvata, il Bruto, La morte di Cesare.
18 Oreste e Pilade tragedia di Mons. De la Grange, s.n.t.; la data (14 novembre 1755) si ricava-dall’imprimatur. 19 Ciò che resta degli scritti inediti del Fontanelli si trova suddiviso in più miscellanee alla Biblioteca Estense di Modena: il cod. it. a K.1.18 comprende tra l’altro la traduzione in versi martelliani della Merope di Voltaire, il cod. it. a G. 6.17 quella in prosa del Catilina o la Roma salvata; nel cod. it. a. N.8.23 sono raccolte le sue Poesie, non autografe.
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Ma anche le altre traduzioni («fornite da i Sig.ri del Collegio dei Nobili di S. Carlo di Modena dopo averle essi esposte i primi e recitate nel loro teatro con un plauso e un esito pari al nobile e raro spirito loro e buon gusto») contenute negli ultimi quattro volumi delle Opere varie sono di autori «modenesi» (Francesco Boselli, Giuseppe Amorotti, Bernardo Belletti, i marchesi Diofebo Meli di Soragna e
Giuseppe Benincasa), legati al Collegio dei Nobili per il cui teatro (di Corte o del collegio stesso) il Fontanelli funse da
autorevole consulente nella selezione dei repertori. Qui accanto alle tragedie, dal 1751 fanno la loro comparsa le commedie di Goldoni, ma anche quelle dell’abate Chiari. Nel 1754 anzi Giovan Battista Vicini, poeta modenese, accademico Dissonante e storiografo di corte, si lanciava nella polemica sulla nuova commedia, tra Goldoni e Chiari, propendendo per quest’ultimo ma mantenendo intatta l'amicizia con il primo 2°. Fu però polemica di breve durata e senza strascichi poiché gli intellettuali, modenesi e non, continua-
rono a prediligere la tragedia, i suoi nobili sentimenti o se vogliamo l’esemplarità ed astrattezza delle sue situazioni, lasciando la commedia nelle mani di chi era di mestiere. Tuttavia scrivendo all'amico Albergati, Agostino Paradisi nel 1760 definiva il Fontanelli «ottimo conoscitore di teatro e per conseguenza estimatore grandissimo del nostro toscano Terenzio» (il corsivo è nostro), annunciando d’aver fatto
pervenire al marchese una copia dei versi composti da Voltaire in lode di Goldoni?!. La competenza del Fontanelli in campo teatrale è dunque indiscutibile ma sfocata, sicura ma difficilmente definibile se non con parametri tutti settecenteschi, lungimirante ma portata avanti con aristocratico distacco dalle reali esigenze del pubblico comune e rivolta sempre ad una ristretta ‘20 La polemica è riassunta in due operette, l’una intitolata La Commedia dell’Arte e la Maschera, due epistole in versi martelliani del sig. abate Giovan Battista Vicini al sig. abate Pietro Chiari, Venezia, s.a., l’altra Della vera Poesia teatrale. Epistole poetiche di alcuni letterati modanesi dirette al signor abate Pietro Chiari colle risposte del medesimo, Modena, s.a.
21 Lettera di A. Paradisi a F. Albergati da Reggio, 8 luglio 1760, in Archivio Albergati, Carteggio privato, s. IX, b. 271, all’Archivio di Stato di Bologna.
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cerchia di fruitori; quelli che a Modena e a Reggio si raccoglievano intorno alle istituzioni, come i collegi, o gravitavano intorno alla corte e che a Bologna si frammentavano in una miriade di teatrini privati. Gli uni e gli altri frequentatori presumibili dei teatri pubblici di cui fingono d’ignorare l’esistenza. Le tappe del suo iter teatrale sono «consuete»; meno consueti la compresenza del politico d’azione col letterato e l’intento che egli si prefisse di ottenere anche mediante il teatro. Dall’esordio sulle scene del collegio era passato alla recita nel teatro di villa, all’attività di consulente,
istruttore, fornitore di testi pronti per essere recitati o da far tradurre
(al Paradisi, al Loschi ad esempio), presenti
nella sua consistente ed aggiornata biblioteca 22. Nel 1761 la figlia del marchese Fontanelli, Lucrezia, sposava il conte e senatore bolognese Gianfrancesco Aldro-
vandi Marescotti, anch'egli attore dilettante fin dalla giovinezza. (E questa circolarità, il ricorrere non casuale dei me-
desimi nomi, di analoghe esperienze concomitanti, pur in ambiti differenti, che giustifica il puntiglio biografico, quasi al limite dell’aneddoto, necessario nel condurre una ricerca sul teatro del Settecento). Nel 1763 l’Aldrovandi Marescot-
ti ultimava la costruzione di una splendida villa suburbana ed inaugurava in autunno il teatrino stabile annesso, proprio con la recita dell’ A/zira, della quale furono interpreti lo stesso conte Gianffancesco, suo fratello Pietro e Lucrezia
Fontanelli. Anche negli anni seguenti, almeno per quanto ci è dato sapere attraverso le cronache cittadine *, nel teatro di villa di Camaldoli furono posti in scena testi già tradotti dal Fontanelli: il Mitridate di Racine (1764), l'Olimpia di
Voltaire (1773). Le stagioni teatrali di Camaldoli durarono ancora per qualche tempo (almeno fino al 1777) ma la lunga stagione del teatro aristocratico, autogestito, compiaciuto di 22 Poco dopo la morte del Fontanelli l’ingente patrimonio librario da lui posseduto venne posto in vendita, ma la prestigiosa raccolta di opere drammatiche passò per intero alla Biblioteca Estense. 23 Notizie si ricavano dal Diario del Galeati (ms. B. 89-90 alla Biblioteca Co-
munale di Bologna) e da alcune lettere di corrispondenti bolognesi dirette al marchese Albergati, cfr. M. Calore, I/ teatro in villa nel Settecento, in «Strenna Storica Bolognese», XXXIV (1984), pp. 88-89.
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Il teatro della cultura: tre figure paradismatiche
sé, perfetto in tutte le sue componenti, poteva dirsi conclusa. La simmetria dei due momenti (1737 e 1763) se da una
parte denota una situazione statica, dall’altra segna i confini di una parabola entro la quale è lecito ricercare un fermento ideologico innovatore.
Antonio Zaniboni
i
Il conte Antonio Zaniboni fu oratore e attore dilettante, poeta e drammaturgo dai molteplici interessi: oltre a tradurre numerose tragedie di autori francesi, e con particolare predilezione di Jean Galbert de Campistron che era quasi del tutto ignoto ai lettori italiani, compose drammi per musica per i teatri pubblici di Bologna e Venezia, oratorii ed «opere in prosa», sia d’argomento sacro ed «esemplari» che romanzesche e consone alle attitudini recitative dei comici dell’arte. A tali diversificate produzioni non corrisponde però un adeguato insieme di dati biografici. Fantuzzi” riporta su questo letterato solo poche notizie che la ricognizione diretta dei testi e d’altre fonti documentarie ha potu-
to arricchire di alcune informazioni supplementari, ma non in ogni caso connettive.
Antonio Zaniboni nacque a Bologna dal conte Bartolomeo Zaniboni. Nel 1717 fondò l’accademia dei Nascosti? di cui pochi anni dopo pubblicò Le Leggi 26. Intorno al 1724 è documentata la sua presenza a Carpi dove incrementò le attività dell'accademia degli Apparenti”. Zaniboni fu inolde, G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna, 1790, vol. VIII, pp. 3-5. 25 Ibidem, p. 253; ed anche M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, 1926-30, vol. IV, pp. 70-1. 26 Leggi dell’Accademia de’ Signori Nascosti di Bologna, col Catalogo degli Accademici viventi l’anno 1723, Bologna, 1724. 27 Cfr. G. Tiraboschi, op. cit., vol. I; M. Maylender, op. cit., vol. I, pp.
227-9. La fondazione dell’accademia degli Apparenti risale al XVI secolo. Dopo un periodo di abbandono l’istituzione venne ristabilita il 4 aprile 1723 dai gesuiti Andrea Rota e Giovanni Tedeschi e dal letterato carpigiano Francesco Maria Nasi che strinse con Zaniboni un duraturo sodalizio culturale, come attestano alcuni
suoi componimenti compresi fra le Poesie pubblicate da quest’ultimo nel 1725. Su Nasi v. G. Tiraboschi, op. cit., vol. III, p. 348.
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E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
tre principe dell’accademia dei Gelati, arcade con il significativo nome di Esterio, probabilmente riferito alla sua attività di traduttore, e membro dell’accademia degli Innestricati di Faenza come risulta unicamente da un suo sonetto compreso nelle Poesie 8. Mori il 6 agosto 1767. Nonostante l’attiva vita accademica, le ramificate rela-
zioni sociali, la quantità e la diffusione dei suoi testi dram-
matici, la fisionomia culturale di Antonio Zaniboni non vie-
ne definita dagli studi dell’epoca che, qualora lo citino, omettono d’esaminarne criticamente l’opera”. Probabil-
mente questa diffusa reticenza è dovuta al prevalere, nella produzione teatrale dell’aristocratico, di criteri compositivi funzionali che, al contrario della normativa di matrice ari-
stotelica, contemplavano l’uso della prosa nelle tragedie, la suddivisione in tre atti e il libero sviluppo romanzesco, e, inoltre, al disinibito esercizio della pratica letteraria anche a scopo di guadagno: «scrisse molte Prediche, Panegirici, Discorsi, per soggetti, che ne abbisognavano per sapere da sé compiere gl’impegni contratti, e ne traea non poco profitto» 50. La laconicità dei contemporanei e, di riflesso, della sto-
ria degli studi? non deve però far passare inosservato che Antonio Zaniboni fu, dopo il celebre e ben altrimenti indagato Pier Jacopo Martello, il più prolifico fra gli autori 28. Poesie, Bologna, 1725, p. 30. Il sonetto è indirizzato «Al Sig. Card. Giulio Piazza Vescovo di Faenza, e Protettore degli Accademici Innestricati». L’accademia è ignota al Maylender e non risulta da alcuna altra fonte. 29 A Zaniboni si riferiscono in diversi punti A. Macchiavelli, Serie cronologica dei drammi recitati su de’ Pubblici Teatri di Bologna...., Bologna, 1737; S. Quadrio, Della storia, e ragione d’ogni poesia, Milano, 1739-1752, t. II, p. 345, t. IV, pp. 119-120, t.V., pp. 360, 489, t.VII, p. 209; L. Allacci, Drammaturgia, Venezia, 1755, coll. 65, 116, 127, 198, 207, 249, 308, 375, 385, 541, 569, 631, 767, 816, 897, 940, 943.
30 G. Fantuzzi, op. cît, vol. VIII, p. 254. 31 La storia degli studi tratta quasi esclusivamente le traduzioni di quest’au-
tore di cui rileva la fedeltà agli originali. G. Meregazzi, Le tragedie di Pierre Corneille, nelle traduzioni e imitazioni italiane del secolo XVIII, Bergamo, 1906, pp. 61-4; L. Ferrari, op. ‘cît., Parigi, 1925, pp. ix, n. 1, x, 36-7, 46-7, 160-1, 179-180, 203-4, 225, 257-8, 262-3; A. De Carli, L’influence du Thédtre frangais à
Bologne de la fin du XII‘ siècle è la grande révolution, Torino, 1925, pp. 3-4; C. Vinti, Le traduzioni italiane del teatro comico francese dei secoli XVII e XVIII, Roma, 1981, pp. 413-5.
DE
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
drammatici attivi a Bologna lungo il primo quarto del XVIII secolo. Il dato non è accessorio e risulterà di per sé pregnante se consideriamo che lo scarto quantitativo fra le produzioni dei due letterati e quelle dei contemporanei, beninteso entro i limiti della legazione bolognese, non presenta passaggi graduali, bensi un brusco balzo. Per gli autori — che erano in genere nobili, religiosi o dottori universitari ? — la pratica teatrale rientrava in periodi festivi scissi dalle occupazioni abituali, ed anche l’impegnata composizione delle tragedie regolari a cui pure affidavano la loro fama letteraria, non implicava che spazi frammentari ritagliati nell'economia del tempo sociale. In tale quadro complessivo, Zaniboni e Martello, per quanto letterariamente distan-
ti, risultano accomunati dall’ampiezza dell’opera drammatica che indica in entrambi la propensione ad organizzare le attività teatrali in una continuità originale e difficile, data la mancanza di mecenati e l’indisponibilità dei comici di professione a pagare o, più radicalmente, a recitare dei testi scritti. Per acquisire una conoscenza più viva del meno noto fra questi autori, non sarà inutile delinearne una sorta di ritratto in parallelo, esaminando i suoi caratteri specifici in relazione a quelli del celebre Pier Jacopo Martello che non solo gli fu contemporaneo ’ ma, seppure con maggiore evidenza e prestigio personale, frequentò parte degli stessi ambienti culturali, quali l’arcadica Colonia Renia e la cerchia del marchese Gioseffo Orsi. Nel caso di Martello, la conti-
nuità dell’opera drammaturgica fu programmaticamente costruita con l’intento di definire la forma letteraria della tragedia italiana, nel caso di Zaniboni, fu piuttosto la conse-
32 Gli autori di professione — come ad esempio il bolognese Giovan Battista Neri (m. 1726) — si riferivano, per ragioni economiche, alle sole forme drammatiche per musica e costituivano all’epoca una categoria emarginata, oltre che dal dibattito letterario, anche dalle attività spettacolari condotte in altri settori sociali. Diverso era naturalmente l’atteggiamento verso i Poeti Cesarei quali Pietro Antonio Bernardoni, Apostolo Zeno e il celebre Metastasio. 33 Pit che le esistenze dei due letterati, risultano strettamente contemporanee le loro produzioni drammatiche. Martello (1665-1725) pubblicò le sue prime tragedie solo nel 1709, tre anni dopo Zaniboni esordî come autore teatrale con un dramma per musica rappresentato ed edito a Venezia.
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guenza d’un «eccedente diletto» «per il drammatico» ’ che lo portava a soddisfare le richieste di testi, da chiunque provenissero: impresari, comici, dilettanti o religiosi. Le opere del primo costituiscono un capitolo evidente della storia per generi del teatro italiano che esse stesse, del resto, avevano contribuito a riattuare in pratica dopo il secolo del barocco, interpretando ed applicando per prime alla materia letteraria le indicazioni teoriche di Crescimbeni, Muratori e Gravina *; i testi del secondo risultano invece come
esclusi dalla «storia» poiché appartennero integralmente al tempo del vivere sociale, delle abitudini recitative, dei gusti reali del pubblico, e cioè, in una sola espressione, alla vita materiale del teatro di cui, anche se sprovviste d’un tessuto connettivo biografico, ricostruiscono un quadro d'insieme articolato. Antonio Zaniboni, dopo aver pubblicato in giovane età una cantata d’argomento religioso ’ ed un estratto in versi delle prediche del p. Pietro Mazzarosa?”, esordî come autore teatrale con il dramma per musica Le Gare Generose 8 rappresentato l’anno 1712 nel teatro di S. Cassiano a Venezia. La dedicatoria del testo edito a Niccolò Pisani afferma
che l’opera è la «prima Poetica Fatica» di Zaniboni che la trasse dalla tragedia Arzzinius di Campistron, tradotta negli anni immediatamente precedenti dal marchese Gian Nic34 A. Macchiavelli, per rilevare la natura pressoché professionale dell’attività drammatica di Zaniboni, senza però offendere il-gentiluomo, escogitò quest’ingegnosa perifrasi: «[I]] co: Antonio Zaniboni [...] ba nel drammatico un eccedente diletto [...) e per quanto può coltiva le lettere e la poesia [...]» (il corsivo è nostro), op. cit., p. 32.
35 In Italia, al contrario che in Francia dove la critica normativa si esercitò su un repertorio tragico ampio e significativo, le osservazioni e quasi le ingiunzioni
dei teorici precedettero la rinascita della tragedia. Di particolare importanza, per cogliere la situazione della drammatica letteraria in relazione al teatro recitato, L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, Modena, 1706, vol. I, pp. 54-76. 36. Felsina Protetta dalla Beata Vergine, Bologna, 1706. 37 Compendio in rime delle Prediche del P. Pietro Mazzarosa Predicatore in S. Petronio, Bologna, 1708. Zaniboni redasse numerose altre composizioni di questo genere che attestano il suo attivo interesse per la retorica religiosa: Predicando con sommo zelo nella Chiesa di S. Domenico di Bologna il .... Padre Maestro Gio: Tomaso Bianchi ... Poetiche riflessioni, Bologna, 1720; Ristretto delle Prediche di D. Gio. Andrea Lavagna Predicatore in S. Pietro in Sonetti, Bologna, 1733; Poema per le Prediche fatte in S. Maggiore dal P. Carlo Chiaroviglio, Bologna, 1753. 38 Venezia, 1712.
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
colò Tanari? ad uso delle scene private. Lo stesso anno il letterato pubblicò la traduzione de La Mort de Pompée *° di Pierre Corneille. Nel 1715, dedicò al principe Ferdinando Gonzaga una traduzione in versi della Rodogune*! di cui, probabilmente, fu anche l’autore. La destinazione di quest’opera, rappresentata come Le Gare al teatro di S. Cassia-
no, documenta fin d’ora la continuità della committenza veneziana, ma soprattutto consente d’includere la traduzio-
ne in un filone scarsamente indagato di tragedie in versi endecasillabi e settenari che i comici rappresentarono a Venezia in seguito alla clamorosa affermazione della Merope (Modena 1714) del marchese Scipione Maffei‘. Nel 1717 Zaniboni pubblicò una terza traduzione da Pierre Corneille, IL Comodo *. L’edizione contiene preziose indicazioni
sulla pratica diretta del teatro da parte dell’aristocratico. «Presento a V.E. — scrive nella dedica al cardinale Agostino Cusano — il Comodo tragedia di Cornelio tradotta dal Francese ad uso del privato teatro della mia casa [...]». All’attività del proprio teatro e, più precisamente ai suoi impegni di attore, Zaniboni fa riferimento anche nella segnalazione «Al Cortese Lettore» che segue la dedica: «Se alcuna traduzione hà già meritato il tuo gentile Compatimento, lo è questa certamente, e per la brevità del Tempo, e per l'imbarazzo di chi traducendola dovea stancar la Memoria nell’imparar le Parti di varie tragedie». Nel teatro di Zaniboni si tennero dunque abitualmente rappresentazioni tragiche non menzionate dalle cronache. E probabile che le tragedie via via tradotte in questo contesto, abbiano finito per costituire un repertorio drammatico manoscritto e per-
sonale da cui Zaniboni stesso o il letterato Domenico Maria 39 1710. 40 logna, 41
La traduzione dell’Arzzizius venne pubblicata anonima dal Longhi nel Cfr. Ferrari, op. cit., pp. 38-9. La Morte di Pompeo, tragedia di Pietro Comelio Tradotta dal Franzese..., Bo1712. La Rodogunna, tragedia di Pietro Cornelio Tradotta nell’Idioma, e Verso Ita-
liano..., Venezia, 1715.
42 Cfr. Antigona. Tragedia rappresentata dà Comici nel Teatro di S. Salvatore di Venezia l’anno 1717, Venezia, 1717; l’autore, che si firma A.M.L., è il veneziano
Antonio Maria Lucchini; Giambattista Abati, Clotario. Tragedia recitata dè Comici in S. Samuele di Venezia, Venezia, 1723.
4 Bologna, 1717.
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Creta # trassero poi alcune opere da inviare anche simultaneamente alle stampe. Le prestazioni attoriche del nobile sono ricordate in un sonetto encomiastico e povero d’informazioni di Giuseppe Antonio Nuti che, riferendosi all’interpretazione del ruolo di Pirro, scrive: «Antonio [...] / Io
per tal non t'ammiro, anzi direi, / Per dar lode pix degna al tuo gran core, / Che in Pirro ravvisato esser non dei. / S’inganna chi lodando il tuo valore / Dice, che sembri Pirro, ò
pur che’l sei; / Che Pirro tu non sei, ma sei maggiore» ‘. Zaniboni continua nella risposta il consueto gioco di rifrazioni fra personaggio e interprete impostato dal mittente, e risponde non senza umorismo che se «d’aver vinta, e doma | [...] fins[e] l'Asia, e’l Greco regno intero / Sf male [...] fins[e], che oggi si rinoma / Pirro per [lui] senza l’onor primiero».
Nel 1718 Zaniboni tornò a comporre per i teatri pubblici e scrisse I/ Mago deluso dalla Magia * che, musicato dal Buini, andò in scena al teatro Formagliari. Gli impresari dedicarono l’opera al cardinale legato Curzio Origo, pregandolo di gradire l’offerta «di codesto Divertimento per Musica, dalla moderna penna del Sig. co: Antonio Zaniboni generosamente recatoci». Nell’avviso al «Lettor Benigno»,
l’autore prese invece le distanze dal testo: «non leggere — raccomanda
—
che nel Teatro codesto Libro, affine so-
lamente di accompagnare coll’occhio ciò, che udire dovrai coll’orecchio; poiché a parlarti sinceramente non ho preteso che di appagare le brame degl’Impresarj, quali hanno una simil cosa desiderato; né per essa pretendo io lode, né dei
tu darmi biasmo». La convenzionale protesta riflette i pregiudizi degli intellettuali nei riguardi delle forme drammatiche per musica, ma non implica certo la volontà di rinunciare a questa pratica letteraria. Comunque, nel 1719, Zaniboni, forse con l’intento di rafforzare la propria immagine cul44 Su Domenico Maria Creta non è pervenuto alcun dato biografico. Nel 1722 fece pubblicare una sua «opera eroica», Cesare trionfante in Egitto, che dedicò alla contessa Lucrezia Cassoli Zaniboni. A. Macchiavelli, op. cît., p. 33, lo
cita fra i collaboratori che gli «comunica[rono] moltissimi drammi». 45 Poesie, cit., p. 33.
46 Bologna, 1718.
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turale, pubblicò solo opere tradotte dal francese: l’Atenaide di Frangois-Joseph de La Grange-Chancel, l’Esopo in Corte di Boursault e l’Agarzenzone # che, nonostante sia detta nel frontespizio «tragedia tradotta‘del Franzese», è in realtà un libero rifacimento dell’Andromaca di J. Racine #8. I tre testi . sono rispettivamente dedicati al conte Alamanno Isolani, al marchese Gian Niccolò Tanari e al celebre marchese Giovan Gioseffo Orsi. Tutti i destinatari erano attori dilettanti ed appartenevano ad uno stesso ambito sociale e mondano: nel 1711, Isolani rappresentò con Tanari la Statira di Pradon nel palazzo Bentivoglio; in quegli stessi anni, Tanari tradusse insieme a Orsi e ad altri il Ciro di Charles de la Rue. Appare quindi probabile che con queste traduzioni opportunamente indirizzate, Zaniboni abbia inteso proporre la propria opera drammatica all’attenzione dei più influenti dilettanti dell’alta aristocrazia bolognese, oppure ringraziarli per una preferenza di già accordata. Particolare è il caso del marchese Orsi che, dato il suo prestigio di profondo conoscitore della letteratura italiana e il ruolo svolto nel promuovere la riforma tragica di Pier Jacopo Martello e di Scipione Maffei, avrebbe anche potuto rinvenire nell’ Agarzennone, classicamente diviso in cinque atti ma avvilito, secondo i canoni estetici dell’epoca, dall’uso della prosa, dei pregi formali tali da consentire una promozione culturale dell'autore. Dalla dedica della tragedia traspare la condizione socialmente e culturalmente subalterna di Zaniboni che,
comunque, frequentò assiduamente la cerchia del marchese: «Parrebbe inescusabile l’ardire, che io mi sono preso [di dedicarvi la presente traduzione], se l’onore, ed il vantaggio, che mi deste di godere in Patria dell’Erudite vostre Assemblee, e l’antica mia serviti, non facessero comparirmi me-
more almeno delle mie grandi obbligazioni, e delle vostre benignissime grazie [...]». Significativamente, Muratori, nelle Merzorie intorno alla vita del Marchese Gio. Gioseffo Orsi
(Modena
1735),
omette
d’includere
il letterato
47 Tutte edite a Bologna nel 1719. 48 Cfr. C. Ricci, op. cit., p. 409. Nel 1728 Isolani e Tanari presero parte alla rappresentazione della Rodoguna che si tenne nella villa detta La Carlina del senatore Antonio Bovio; cfr. ms. B 3378, Biblioteca Comunale di Bologna.
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nell’elenco dei partecipanti a queste «Erudite Assemblee» che comprende fra gli altri Pier Jacopo Martello, Eustachio Manfredi e il pittore Giampietro Zanotti, noto ai letterati per la tragedia Didone (Bologna 1718).
Presto, Zaniboni tornò ad evadere le richieste dell’im-
presariato musicale: nel 1721 i drammi Arsacide e Cleofile, rispettivamente musicati da Fortunato Chelleri e dal bolognese Giuseppe Maria Buini, vennero rappresentati al tea-
tro S. Moisé di Venezia e quivi pubblicati; nel 1722 Pithonessa sul monte Olimpo, con la musica dello stesso Buini, andò in scena al Marsigli Rossi di Bologna dove, l’anno seguente, vennero rappresentati ed editi Amor nato fra l’ombre e L’odio redivivo. Fantuzzi riporta senza corredarli d’alcuna notazione i titoli di tre drammi per musica non rinvenuti in altra sede: Le Gare Amorose (probabile corruzione de Le Gare Generose), L’Amante Ravveduto e 1’Anaglinda.
A partire dalla Virginia , la copiosa attività di tradutto-
re di Zaniboni è pressoché interamente dedicata a Jean Galbert de Campistron, per cui aveva mostrato una particolare predilezione fin dal suo esordio letterario. Alla Virginia seguirono, sempre condotte in prosa, il Tiridate, il Fozione e l’Andronico. Sole eccezioni la Santa Valeria e la Medea” di Pierre Corneille edite a Bologna nel 1723. Questo gruppo di traduzioni venne forse approntato per favorire la ripresa dell'accademia degli Apparenti di Carpi, i cui soci figurano con evidenza nelle vicende del teatro cittadino. Il 10 gennaio 1724, nel pieno di questa fioritura editoriale, il governatore di Carpi, Niccolò Lucchesini, scrisse al duca di
Modena: «Questo sig. co: Zaniboni come insigne letterato fa gran bene al paese con far rifiorire le lettere e risorgere l'accademia degli Apparenti di questa città»?. Tutte queste ultime traduzioni, ad esclusione forse della Santa Valeria
di cui non abbiamo rinvenuto copia, vennero edite e dedi4° Bologna, 1721. 20 Tutte edite a Bologna, rispettivamente nel 1723, 1726, 1729. 91 La Santa Valeria risulta unicamente da L. Allacci, op. cit., col. 940, che non dichiara il nome dell’autore francese. 22 Cfr. R. Benzi-M. Bizzoccoli, La dimensione teatrale a Carpi dal XIII al XIX secolo, Carpi, 1981, p. 36 n.
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
cate a vari nobili personaggi a cura di Domenico Maria Creta, che nel 1730 fece pubblicare un testo rappresentativo d’un settore non ancora esaminato della produzione drammatica di Antonio Zaniboni,«Le valorose azioni del principe Scanderbech. Più che un’«opera comica» come dichiara il frontespizio, Le valorose azioni sono una tragicommedia che alterna scene patetiche e scene comiche condotte da maschere e,
spesso, soltanto sceneggiate. Nella dedica all’abate Girolamo Venier il mittente s’augura che il religioso «gradirà questo sulle Scene d’Italia cosî applaudito componimento». La frase conferma che l’opera venne frequentemente rappresentata dai comici. Le valorose azioni o perlomeno il loro protagonista, che del resto preesisteva all'opera”, ebbero una vita scenica di lunga durata. Del 1795 è la notizia della rappresentazione d’uno Scander Beck al teatro S. Angelo di Venezia. Creta, nel 1720, aveva già fatto imprimere un’altra «opera in prosa» dello stesso autore, il Marco Gegano” che, nonostante il soggetto romano e l’assenza di personaggi comici, risulta distante dalle preoccupazioni storiciste e formali del genere tragico e, come Le valorose azioni riflette piuttosto nel linguaggio discontinuo e retorico e nelle secentesche «chiusette» a fine scena, una prassi recitativa di matrice comica. Nell’argomento leggiamo che il dramma «fu dall’Autore format[o] [...] aggiungendo all’Istoria Ro-
mana tutto l’Episodio, che richiedeasi, per farla comparire più grata su’ Teatri». E opportuno prospettare che queste «opere in prosa» potrebbero essere la punta emergente d’una piu vasta produzione destinata ai comici e lasciata intenzionalmente manoscritta dall’autore perché costituita da
prodotti culturalmente dequalificanti. Nel 1735 Creta fece pubblicare anonima la tragicommedia I/ Re Enzio in campo. E probabile che questo libero rifacimento in prosa ad 53 con la 54 55 56
Cfr. A. Salvi, Scanderberg, Firenze, 1718. Il dramma venne rappresentato musica di Antonio Vivaldi al teatro La Pergola di Firenze. Cfr. «La Gazzetta Urbana Veneta», n. 7, 1795. Marco Gegano, opera in prosa..., Bologna, 1720. Della tragicommedia I/ Re Enzio in campo abbiamo rinvenuto soltanto una
versione manoscritta per la stampa, ms. B 2591, Biblioteca Comunale di Bolo-
gna.
DI
E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
uso dei comici dell’omonima tragedia del gesuita Simone Maria Poggi sia opera, come tutti i testi dedicati ed editi da Creta, di Antonio Zaniboni che per non incorrere nelle critiche dei letterati si dissociò tramite il mittente dal genere proposto: «à il celebre Autore, che questa tragicomica rap-
presentazione à composta, ciò fatto per aderire più, che al proprio genio, alle suppliche di certi nuovi Comici [...]». Le ultime opere sia letterarie” che drammatiche di A. Zaniboni sono di carattere religioso. Nel 1734 pubblicò l’«opera sacra ed esemplare» Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Del 1752 è un «dialogismo» a quattro personaggi, commissionato dalla chiesa parrocchiale di S. Sigismondo in occasione della solenne distribuzione de «le croci a fanciulli della Dottrina Cristiana» 5. Il finale ripiegamento verso una produzione devota, destinata ad ambiti ristretti ed avvalorata da contenuti «esemplari» che ne compensavano sul piano della morale le carenze estetiche, non allontanò però Antonio Zaniboni dai teatri pubblici per cui, nel 1741, compose un ultimo dramma per musica”. L’attività drammatica di Zaniboni interessò i diversi settori della vita spettacolare dell’epoca (le accademie, i tea-
tri pubblici e privati) attraverso le forme che vi venivano prevalentemente rappresentate (il dramma per musica, la traduzione dal francese, i generi misti) e testimonia quindi la sostanziale unità culturale delle drammaturgie attuate, che richiedevano un fondo non specialistico di conoscenze letterarie, una diretta esperienza teatrale e una certa padronanza della retorica che consentisse, in assenza di caratteri
individuati, di articolare dialoghi e monologhi. Parallelamente, al diverso livello delle idee e del dibattito sul teatro,
la scelta di non pubblicare personalmente le opere destinate 2? A. Zaniboni, Compendio in Rime della Vita, e di alcuni miracoli di $. Ladi-
slao Re d'Ungheria, Bologna, 1738. 98_Il trionfo della Croce, dialogismo..., Bologna, 1752. 29 A. Zaniboni, Il Vincitor di sé stesso. Dramma per Musica recitato nel teatro
di Sant'Angiolo di Venezia l’anno 1741, Venezia, 1741. Nel 1735 il «divertimento per musica» I/ Mago Deluso dalla Magia, di cui abbiamo riferito il critico giudizio dell’autore, venne nuovamente rappresentato, con il mutato titolo di I/ Destino Trionfante,
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e La Magia Delusa, al Teatro Pubblico di Bologna.
Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
ai comici e la scarsa fortuna critica del letterato evidenziano la duplice azione censoria degli autori nei riguardi delle proprie opere e dei letterati colti nei riguardi degli autori. Giovanni Bianchi
Il riminese Giovanni Bianchi, medico e letterato, più noto col soprannome accademico di Janus Plancus, che egli stesso italianizzò in Giano Planco, è stato oggetto di molti studi critici e biografici che ne hanno esaurientemente ricostruito le vicende personali, le imprese scientifiche, i meriti accademici e, soprattutto, le feroci polemiche di cui fu al centro grazie ad un temperamento fiero e irriducibile e ad una inclinazione per le scienze cui si applicò con atteggiamenti spesso immodesti e irriverenti 0. Oggi il suo nome è legato ai molti scritti in materia di medicina, veterinaria, zoologia, astronomia, geografia fisica, epigrafia ed antiquaria, ma anche ad un breve trattatello In lode dell’Arte Comi-
ca, che non mancò di sollevare qualche clamore ®!. Fra le iniziative di cui fu al centro, si impongono la scuola che fondò nella sua stessa casa ad educazione della gioventi,
aperta alla pratica privata del recitare, e l'Accademia dei Lincei che volle ripristinare in patria e nel cui ambito pronunciò il discorso Ir lode dell'Arte Comica. Tutti i critici e i biografi che si sono diversamente occupati di Giovanni Bianchi vi hanno ravvisato l’eccezionale condensato di tutti i vizi e le virti della cultura accademica settecentesca. Cosf il suo carteggio è stato letto come «voce 60 Cfr. la bibliografia degli studi su Giovanni Bianchi in A. Fabi, voce «Bianchi, Giovanni», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. X (1968), pp. 104-112,
cui si rimanda anche per una più completa ricostruzione delle vicende biografiche e della produzione scientifica del riminese. Fra i più recenti contributi, si vedano inoltre M. Collina, I/ carteggio letterario di uno scienziato del Settecento (Janus Plancus), Firenze, 1957 e G.L. Masetti Zannini, Vicende accademiche del Settecento nelle carte inedite di Jano Planco, Roma, 1974 (estr. da «Accademie e Biblioteche d’Italia», a. XLII, n. 1-2, pp. 590-115).
61 La bibliografia a tutt'oggi più completa dei suoi scritti si trova in G.M.
Mazzuchelli, Gl Scrittori d’Italia, Brescia, 1760, vol. II, t. 2, pp. 1137-1148, 1154 (ma il Mazzuchelli non si avvide che Giovanni e Giovanni Simone Bianchi sono la stessa persona).
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viva e specchio fedele del secolo» ©, la poliedricità dei suoi studi e delle sue pubblicazioni è stata indicata come esempio di quella vena poligrafica che si nutriva di enciclopedismo e si compiaceva di molti vezzi eruditi: i numerosi pseudonimi ©, le troppe e spesso futili polemiche, le raccolte di reperti, le molte patenti accademiche. Allo stesso modo il suo interesse per il teatro è stato sempre interpretato all’in-
terno della norma accademica. Definito in più luoghi «filodrammatico e istitutore di filodrammatici», allo stesso am-
bito privato e dilettantesco si sono fatte risalire le recite della sua scuola e la lode dell’arte comica. Ma il privato delle pratiche di relazione, nella provincia pontificia del Settecento, corrisponde al pubblico della cultura partecipata come spettacolo, e il letterato di provincia guarda al particolare della propria realtà decentrata dal punto di vista generale della repubblica dei dotti. Cost l’esperienza teatrale di Giovanni Bianchi non è marginale ma, semmai, di frontiera.
Attraversa l’universo della cultura e se ne distanzia fornendone un angolo prospettico non scontato. Non si riferiranno, in questa sede, i dettagli di vicende già note al panorama non solo locale degli studi. Un breve profilo biografico servirà unicamente ad inserire nella complessità della figura di Giovanni Bianchi la particolarità del suo interesse per il teatro ed il luogo che tenne nella fitta rete di rapporti e.scambi culturali di cui egli si circondò. Nato a Rimini il 3 gennaio 1693, Giovanni Bianchi compi i primi studi presso il collegio dei Gesuiti. In seguito fu autodidatta e si applicò, in particolare, alla botanica, alla chimica, alla storia, alla filosofia e alle lingue classiche. Nel 62 Cfr. M. Collina, op. cit., p. 5. 6 Il Bianchi si valse di pseudonimi in particolare nel condurre le sue numerose polemiche. Cosf si chiamò Marco Chillenio rivolgendosi al chirurgo primario dell’ospedale di Rimini; Pier Paolo Lapi dalle Preci nella polemica contro il romano Antonio Celestino Cocchi; Pietro Chigi contro il medico G.B. Mazzacurati di Pesaro; Simone Cosmopolita nelle dispute letterarie che lo opposero a Girolamo Del Buono, bolognese, e a Domenico Vandelli, modenese. Janus Plancus si nominò per la prima volta per contrastare l’anatomista torinese, suo quasi omonimo, Giambattista Bianchi. Altri suoi pseudonimi furono Crisiteo Stilita (preso a prestito da Daniello Colonna, suo ex allievo) e G.B. Gismondi (nome di un altro suo allievo).
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
1717 si recò a Bologna dove, nel luglio 1719, conseguf la laurea in medicina. Fu poi a Padova e, in quell’università, si legò d’amicizia con Giambattista Morgagni e Antonio Vallisneri. Tornato a Rimini, vi si trattenne per un venten-
nio, se si eccettuano i parecchi viaggi, per lo pit di carattere erudito, che lo portarono nei maggiori centri culturali italiani, dove strinse importanti e durature amicizie con i più famosi scienziati e letterati del tempo, come attestato
dal suo voluminoso carteggio . A Rimini si dedicò all’esercizio della medicina e allo studio dell'anatomia e dei fenomeni naturali ‘* cui affiancò l'insegnamento della filosofia e delle altre «bonae artes», come egli stesso scrisse nella propria autobiografia *, facendo della sua casa un vero e proprio ateneo privato dove, unico docente, istruiva i giovani
non solo riminesi, oltre che in filosofia, anche in geometria, medicina, anatomia, botanica, storia naturale, astronomia,
lingue greca e latina, giurisprudenza e teologia morale, avvalendosi della propria fornitissima biblioteca e delle collezioni di reperti da lui stesso raccolte: un erbario, una collezione di archeologia e un museo di storia naturale. L’iniziativa ebbe vasto seguito, tanto più collocandosi in una fase particolarmente dissestata degli studi a Rimini, successiva 64 L’epistolario di Giovanni Bianchi, conservato presso la Biblioteca Comunale di Rimini, consta di 52 cartoni, appartenenti al Fondo Gambetti e compren-
denti le lettere autografe dei corrispondenti e i minutari di mano del Bianchi. Fra i corrispondenti più insigni figurano Francesco Algarotti, Carlo Innocenzo Frugoni, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Ludovico Antonio Muratori, Paolo Maria Paciaudi, Flaminio Scarselli, Bartolomeo Beccari, G. Cristoforo Amaduzzi e molti altri. Se ne veda la schedatura in G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle
Biblioteche d’Italia, vol. II, pp. 161-164. Fra le lettere pubblicate, cfr. in particolare Voltaire's
Correspondence,
edited by T. Besterman,
Ginevra,
1959, vol.
XLVI, pp. i92 ss. e XLVII, pp. 161-3, 233-5; A. Tambellini, Voltaire a Giano Planco, in «Biblioteca delle scuole classiche italiane», a. VI, s. II, n. 8, 15 gennaio 1894, pp. 117-9; Le /ettere di Ludovico Antonio Muratori al dottor Giovanni Bianchi, a cura di G.C. Battaglini, Rimini, 1879; G. Bilancioni, Carteggio inedito di Gian Battista Morgagni con Giovanni Bianchi, Bari, 1914.
65 È di questo periodo la sua più significativa opera di naturalista, ossia il De conchis minus notis liber, cui accessit specimen aestus reciproci Maris Superi ad littus portumque Arimini, Venezia, 1739.
66 L’autobiografia del Bianchi, pubblicata come anonima nei Memorabilia Italorum eruditione praestantium del Lami (Joannes Plancus, seu Janus Plancus, Aucto-
re Anonymo, t. I., Firenze, 1742, pp. 353-407), è conservata autografa presso la
Biblioteca Comunale di Rimini, ms. SC. MS.405. Di qui citiamo.
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alla partenza del Cardinal Davia — presso la cui accademia letteraria si era formato lo stesso Bianchi — e di Antonio Leprotti, noto medico e anatomista che era stato suo maestro e collaboratore ®?. Nel dotto consesso della sua scuola il Bianchi si accostò dapprima alla pratica del teatro come ad un'attività esclusivamente dilettantesca in cui il privilegio accordato all’aspetto letterario valeva in quanto polemica preclusione verso le scene pubbliche ed i generi in esse praticati. Di una recita almeno, che egli allesti con i suoi scolari nel carnevale del 1729, apprendiamo dall’autobiografia già ricordata, dove l'allestimento è annotato proprio per l'intento polemico che ne era alla base: «Quum multos auditores in Philosophia haberet, et inter hos egregios Adolescentes, Domi suae Bacchanaliorum tempore, Privato Theatro constructo, splendide per illos agi curavit Martelli Phemiam, non quidem ut Nobilissimo Doctissimoque Maffei displiceret, sed ut hanc Fabulam Meropi ejus quam putide agebant Cives et Mercatores quidam Ariminenses opponeret» ®8.
Non si trattava, quindi, di opporre un autore all’altro, ma di polemizzare con una pratica semi-pubblica del teatro — quella dei dilettanti riminesi, attivi fin dal secolo precedente — attraverso una pratica privatissima ed esclusivamente dotta dello stesso, che sola poteva valersi di un genere
drammaturgico,
la commedia
letteraria,
circoscritto
all’ambito delle dispute accademiche ed assimilabile alla vasta produzione satirica e parodistica del tempo che, ancor quando si valesse della forma drammatica, non era finalizzata in alcun modo alla rappresentazione scenica. L’iniziativa del Bianchi, per il suo trasparente sfondo polemico, non mancò di sollevare clamori e l'autobiografia 6? Col solito trionfalismo, Giovanni Bianchi riferiva del successo ottenuto
nella propria autobiografia: «postea tot Auditores [Plancus] habuit etiam ex finitimis Arimini locis, ut vix totidem in famosis Italiae Academijs Professor alius Publicus numeret» (p. 17). Fra i suoi allievi si ricordano oggi Giovanni Antonio Battarra, Giuseppe Garampi, Gioseff' Antonio Aldini, Michele Rosa, Giovanni Cristoforo Amaduzzi, Gaetano Marini, Pasquale Amati, insomma alcuni fra i più significativi rappresentanti della cultura non solo riminese della seconda metà del secolo. 68 Cfr. l’autobiografia cit., pp. 17-18.
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
ne riferiva col solito sussiego: «Huius Fabulae Actio ut splendidissima fuit, ut vel ipsum Episcopum spectatorem, et Nobilissimos quoscumque, Lectissimasque Feminas habuerit, tamen varias turbas excitavit inter vulgus Arimini et foris, de quibus more suo risit Plancus» 9°. Nel 1741 Giovanni Bianchi abbandonò l’insegnamento privato e, dietro richiesta del Granduca di Toscana, si recò a Siena dove ricopri la cattedra di Anatomia. Ma si inimicò ben presto l’intero ambiente accademico di quella città e fece affrettatamente ritorno in patria nel novembre del 1744%. Qui fu nominato in perpetuo medico ordinario della città per intercessione di Clemente XIV (il santarcangio-
lese Ganganelli) e gli fu raddoppiato lo stipendio. Socio di molte accademie, italiane e straniere (di Berlino, Lipsia, Siena, Modena, Firenze, Bologna, Cortona, Palermo, ecc.), nel novembre 1745 ripristinò 1’Accademia dei
Lincei accogliendola nella propria abitazione, pubblicandone le leggi in latino arcaico”! e nominandosi Lyrceorum restitutor perpetuus.
L’interesse del Bianchi per la scienza in senso lato informò l’attività della ripristinata accademia, che fu scientifica ed erudita, e circoscritta alla cerchia degli scolari del riminese e degli studiosi a lui più vicini, come testimoniano le dissertazioni che vi si tennero, raccolte in gran parte negli Acta Academiae Lynceorum”®, ma anche stampate o manoscritte e rimaste inedite”). 69 Cfr. Ibidem, p. 18. 70 Ostacolato nella pratica delle dissezioni cadaveriche, che egli eseguiva in accordo con i più moderni orientamenti della scienza medica, il Bianchi non esitò a tacciare di ignoranza i colleghi, ostentando la più assoluta competenza in ogni campo del sapere. Né gli giovò la pubblicazione, auctore anonymo, della propria autobiografia (cfr. nota 66). Lo scritto, immediatamente riconosciuto di penna del Bianchi, diede luogo a reazioni e polemiche vivacissime per il tono smaccatamente vanaglorioso e per gli attacchi feroci che rivolgeva ai professori dell’Università di Siena. 71 Cfr. «Novelle Letterarie di Firenze», VI, 1745, coll. 842-846.
72 Cfr. Acta Academiae Lynceorum A Planco Restitutae Anno MDCCXLV, ms.SC.MS.1183, alla Biblioteca Comunale di Rimini. Il grosso volume in folio,
di carte scritte 1r-3v, 10r-21v, contiene le Leggi e gli Atti dell’Accademia per il periodo compreso tra l’ultimo giorno di febbraio 1749 e il 18 aprile 1755, unico documentato. 73 Se ne è occupato G.L. Masetti Zannini, op. cit., pp. 61 ss. Sul ripristino
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Fu una imprevista vicenda biografica che interruppe la gravità delle sedute accademiche e indirizzò gli interessi del restitutor perpetuus verso più vaghi argomenti. Durante il carnevale del 1752 giunse a Rimini Antonia Cavallucci, attrice e cantante, che si trattenne in città per quasi sei mesi,
esibendosi sulle scene pubbliche e in accademie private. Il Bianchi se ne innamorò e quella passione, ostacolata dal pregiudizio epperò decisa a superarlo, ebbe esiti inconsueti nella produzione letteraria e nell’attività accademica dello scienziato. Plancus, da sempre ostile alla poesia, tanto da
vietare che si svolgessero tra i Lincei esercitazioni poetiche, che non riteneva in sintonia con il carattere altamente scientifico dell'accademia”, si diede a scrivere canzonette
in lode dell’attrice. Era consuetudine diffusa che letterati ed accademici di rispetto scrivessero a profusione sonetti e canzoni sulle grazie di attrici e cantanti e li facessero poi stampare, per lo più in fogli volanti, come omaggio galante, frutto di pause di disimpegno. Ma nel Bianchi la galanteria si coniugò con l’innata ambizione e, complice un sentimento da nobilitare di fronte all’universo letterario, quella produzione poetica fu resa pubblica dall’autore che la comunicò a Giovanni Lami perché ne accogliesse gli estratti nelle dell’Accademia dei Lincei da parte del Bianchi, cfr. B. Odescalchi, Merzorie istorico-critiche dell’Accademia de’ Lincei e del Principe F. Cesi, Roma, 1806, pp. 291-303; C. Giambelli, L'Accademia de’ Lincei, in «Nuova Antologia», a. XIV, s. II, vol. XIV, fasc. V, 1 marzo 1879, pp. 125-151; D. Carutti, Breve storia della accademia dei Lincei, Roma, 1883, pp. 99-103, 190 ss., 225-7 e, naturalmente, M. Maylender, op. cit., vol. III, pp. 433-4, 471, 477-81.
74 L’avversione del Bianchi per le esercitazioni poetiche (fossero esse accademie funebri o componimenti encomiastici) era ben nota agli accademici della sua cerchia. Il marchese mantovano Carlo Valenti, nell’inviargli copia dell’adunanza arcadica della Colonia Virgiliana in cui si celebrava la recuperata salute di Maria Teresa d'Austria, il 20 ottobre 1767 scriveva: «Io so bene che la poesia non è troppo di suo gusto, ma un monumento di gratitudine e di consolazione che questa Colonia ha voluto dare alla più gran Sovrana di questo secolo, non dovrebbe dispiacere neppure a lei [...]»; e il 13 novembre seguente: «Convengo anch'io, che la poesia non è quella applicazione adattata agli studi serii ed a chi si occupa in più profittevoli scienze, ma l’occasione nella quale siamo stati esiggeva da noi questa pubblica testimonianza del nostro zelo e della nostra consolazione [...]» (Carteggio Bianchi cit., fasc. «Valenti, march. Carlo», alle date). Accenti analoghi si trovano in molte lettere dove si riferisce al Bianchi di accademie poetiche celebrate in altre città o dove gli si inviano versi. Numerosi esempi in G.L. Masetti Zannini, op. cit., pp. 62-4.
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
«Novelle Letterarie di Firenze» ”.. L’argomento non sfiorava ancora la questione dell’arte
comica e l’infatuazione del Bianchi appariva legata agli svaghi del carnevale e al compiacimento per le glorie amorose. Era una tipologia ricorrente e assai nota. Ma Giovanni Bianchi intendeva caricare di esemplarità anche questa vicenda, come ogni altra della sua vita. Perciò volle affiancare a quelle prove poetiche, troppo facilmente assimilabili ad un filone galante e mondano assai praticato, una riflessione sull’arte comica che esigesse un contesto il più possibile dotto ed autorevole. L’11 febbraio 1752, ultimo venerdî di carnevale, indisse
un’adunanza solenne dei Lincei durante la quale «primum cantavit venuste Antonia Cavalluccia Caelestinia appellata, per saltia et comoedia celebris, deinde Plancus masculam dissertationem habuit de praestantia Artis Comicae»”. L’iniziativa era indubbiamente insolita e il Bianchi dovette temere di incorrere in accuse di leggerezza e futilità, cosf pensò bene di affiancare alla propria una dissertazione tenuta sei giorni dopo, dal nobile riminese Nicola Paci, che ebbe per argomento De praestantia musicae e che «erudita fuit et facunda»”, e un’altra, il 4 marzo seguente, in cui 75 Dell’intera vicenda si trova testimonianza nel carteggio fra i due. Cfr. Fondo Gambetti, Carteggio di Giovanni Bianchi, fasc. «Lami, Giovanni», Lettere da Firenze 15 e 29 gennaio 1752, 4 marzo e 21 aprile 1753, Biblioteca Comunale di Rimini. Il 15 gennaio 1752 Giovanni Lami si rallegrava con l’amico per le sue «galanti occupazioni» e il 29 dello stesso mese lo rassicurava di aver «inserita nelle Novelle la memoria della ristampa fatta della canzonetta consaputa, applicata a cotesta figlia di gioia, che [...] si fa tanto onore col canto in cotesto teatro». Il 4 marzo seguente, infine, si dispiaceva di non poter pubblicare, perché ricevutolo in ritardo, un articolo del Bianchi «toccante la canzone in lode dell’amabile Cavalluccia», con cui, aggiungeva il Lami, l’amico aveva «vettureggiato pel Reame d'Amore» durante il carnevale. Il titolo della poesia sarebbe bensi apparso nelle «Novelle», «perché almeno fosse cosf nota al mondo quest'altra impresa amorosa», quanto all’articolo, «replicare sopra un soggetto sf piccolo non pare[va] conveniente alle Novelle, né di soddisfazione comune». 76 Il Lami, conoscendo, per di più, l'indole vanagloriosa dell'amico, lo incoraggiava con ironia: «Il S.r Cav.re Guazzesi», aggiungeva nella lettera datata 4 marzo 1753 (di cui alla nota precedente), «arrivò qui iersera e sembra tocco d’invidia, che Ella per questa leggiadra Cavalluccia, che ha un portante mirabile, si incammini ancora al tempio della Gloria». : 7 Cfr. Acta, cit., c. 18v. 78 Ibidem, c. 19v. La complementarità delle due dissertazioni è dichiarata dal
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‘E Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
Francesco Fabbri trattò De Praestantia Academiae «et multa dixit de laudibus Planci, quod Institutor Huius Academiae sit seu Restitutor, et quod publice Scientias varias doceat gratis» ??.
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Il discorso Ir lode dell’Arte Comica fu espressamente dedicato alla Cavallucci, alla quale il restitutor perpetuus si rivolse infine con queste parole: «molto obbligo debbe avere a Voi la Città nostra, perché colla vostra gentilezza, e grazia, avete quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Cittadini [...] e avete di più col Canto, non solamente sulle Scene, ma anche per moltis-
sime Accademie di Nobili e di Cittadini di questa Città fatto conoscere il valor vostro» (p. 24) 8°. Il trattatello, lodando la Cavallucci, si prefiggeva il più ampio scopo di abbattere il pregiudizio legato al mestiere dei comici. A quel fine ripercorreva i topoî che la trattatistica del tempo aveva differentemente utilizzato: cercava esempi illustri tra i Greci e tra i Romani, ricordava come l’arte attorica non fosse che «lo Strumento, per cui e le Commedie, e le Tragedie si pongono in vista» (p. 5) e come concorresse, perciò, agli stessi fini edificanti delle «Tragedie o Commedie oneste, più atte a correggere piacevolmente il vizio, che ad eccitare Spirito di crudeltà, o di libidine alcuna nelle persone» (pp. 17-18); ricorreva all’autorità di S. Tommaso e di Sant'Antonino arcivescovo di Firenze (p. 18); portava l’esempio della «invitta e gloriosa Nazion Britannica» che non aveva avuto «difficoltà di far seppellire solennemente in Londra nella Cattedrale di Westminster
Bianchi stesso che, introducendo il proprio ragionamento sull’arte comica, premette: «Io dunque solamente di passaggio della utilità della Commedia, e della Tragedia, e de’ pregj della Musica, e del Ballo parlerò, e‘in quanto all’ Arte Comica servono, di quest’Arte questa sera appo Voi imprendendo principalmente a parlare, giacché de’ pregj dell’altre infiniti sono gli Autori rinomati, che ne hanno parlato, e de’ pregj della Musica fra otto giorni da altro [in nota: Il Sig. Cav. Niccolò Paci] nuovo, ed illustre Accademico in questo medesimo luogo particolarmente si parlerà». (Discorso, cit., pp. 4-5). 79 Ibidem. 80 Il discorso In lode dell’Arte Comica, riferito dettagliatamente negli Acta, cit., cc. 180-19v, fu pubblicato a Venezia presso il Pasquali nel 1752. Da questa edizione sono tratte le citazioni.
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[...] la valorosa e ricchissima non men che bella loro attrice Madamigella d’Oldfield» (pp. 18-19); citava gli illustri comici del passato, tenuti in grande onore da re e principi: Pier Maria Cecchini, Angelo Costantini e, fra i contempo-
ranei, i coniugi Riccoboni e Pompilio Miti che «dopo la morte della moglie s’è fatto prete, il che non avrebbe potuto fare, se la professione di Comico fosse disonorata» (p. 17). Ma l’argomento più forte fra quanti forni ai presenti investiva direttamente e ribaltava le abitudini di pensiero e di consumo teatrale della scelta cerchia cui si rivolgeva: se le tragedie e le commedie oneste venivano giudicate acconce alla lettura e alla rappresentazione privata «da Comunità d’Ordini Religiosi, e da Cavalieri,
e da Dame», perché si ri-
tenevano «infami i Comici, che le rappresent[avano] venalmente per sostentare cosf onestamente la vita; e subito di-
venlavano] onesti quei che le rappresent[avano] gratis?» (p. 19). L’ingenuità della domanda svelava un paradosso complesso e storicamente radicato. Se le canzonette dedicate all'attrice erano prove poetiche di portata assai effimera, da riferire necessariamente ad una vicenda personale di innamoramento, il discorso sull’arte comica corrisponde ad una riflessione di più ampia portata, che passa attraverso quella vicenda personale per inserirsi in un dibattito di interesse generale. L’infatuazione per l’attrice fu certamente, come è stato osservato, l’occasione esterna e contingente alla stesura del trattatello, ma anziché tradursi in un argomentare futile o disimpegnato, diede luogo, come esito pit significativo, ad una presa di posizione inconsueta nel dibattito sull’attore di ambito accademico, che risultò ardita in quanto riferi la difesa della dignità e legittimità della recitazione non alle scene private o dilettantesche, ma a quelle professionistiche, . delle quali la Cavallucci doveva fornire un esempio particolarmente illustre. Nell’ignorare i problemi più dibattuti dalla trattatistica sull’arte attorica del tempo — incentrata sui quesiti dell’espressione e della declamazione e, più in generale, sulla ridefinizione su basi scientifiche del linguaggio dell’attore — 69
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e nel porre come centrale, invece, la necessità di superare e ribaltare il pregiudizio infamante a carico dei comici (che proprio in quegli anni il padre Daniele Còncina riproponeva con rinnovato vigore), il Bianchi abbandonava il punto di vista che, pure, aveva polemicamente affermato attraverso le recite private e letterarie della sua scuola, e si distanziava anche, significativamente, dalla riflessione dei teorici, che
si ponevano come spettatori d’eccezione di un teatro di là da venire. Il Bianchi del trattato In lode dell’Arte Comica è il letterato che si fa spettatore di un teatro di largo consumo e prende posizione dalla parte del senso comune con un esito, perciò, paradossale: perché del discorso sull’attore si era ormai impadronita una teoresi paradossalmente distante dal teatro, ma che sempre più vi appariva connaturata. L'affermazione paradossale del senso comune ebbe esiti differenti: scatenò la condanna della Congregazione dell’Indice, fu diversamente interpretata e capita dalla cerchia degli intimi del Bianchi e suscitò l'ammirazione incondizionata di Voltaire, cui il Bianchi aveva inviato il trattatello per tramite del marchese Albergati 8. La proibizione dell’Indice fu comunicata al Bianchi dal cardinale Giuseppe Garampi, che l’aveva del resto ampiamente prevista: l’arte comica non poteva dirsi onorevole, né era lecito contrapporre alle Leggi Canoniche gli usi dell’Inghilterra protestante. Quanto a Pompilio Miti, egli aveva certo vestito l’abito religioso non in virtii dell’onestà della sua professione, ma in seguito a una particolare dispensa ecclesiastica e a un personale atto di allontanamento dall’infamia delle scene. «Quella lunga apostrofe alla commediante», poi, aveva «fatta gran specie». In seguito, il Bianchi si rivolse al Pontefice, su consiglio
dello stesso Garampi, ed ottenne che la proibizione non fosse pubblicata nel decreto dell’Indice, onde «non soggiacere a qualche impertinenza de’ suoi malevoli» ®2. 81 Cfr. Carteggio di Giovanni Bianchi, cit., fasc. «Albergati Capacelli, Francesco», Lettera 18 novembre 1761.
82 L’intera vicenda epistolare si trova in Carteggio Bianchi, cit., fasc. «Garampi, Giuseppe», Lettere 26 aprile, 6 maggio, 8 luglio, 12 agosto, 29 novembre, 16 dicembre 1752.
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Il teatro della cultura: tre figure paradiematiche
La Congregazione dell’Indice, non avvezza a leggere per «generi», aveva facilmente colto la materia spinosa di un trattatello accademico d’occasione. Non altrettanto avvenne fra i letterati della cerchia’ planchiana, che elogiarono, per lo più, l’erudizione dell’opera e sorrisero del sonnec-
chiare
amoroso
dell’Omero
cittadino,
facendo
rientrare
l’episodio nella vasta aneddotica degli amori suscitati dalle attrici. Solo i più attenti colsero qualche discrepanza fra. la. normalità del genere encomiastico, cui era solitamente affidata una trattazione a-problematica della materia, e l’arditezza dell’argomentazione 84. Alcuni si espressero con disappunto %.
Voltaire fu certamente l’ammiratore più insigne ed entusiasta: «Vous avez prononcé, Monsieur, l’éloge de l’art
dramatique, et je suis tenté de prononcer le vòtre», scriveva al riminese nel novembre 1761, e aggiungeva: «Je vois avec 83 Giovanni Lami ne pubblicò un estratto nelle «Novelle Letterarie di Firenze», 1752, col. 279; note genericamente elogiative apparvero nelle «Novelle Letterarie di Venezia», 1755, p. 58; nel «Giornale di Parigi», 1754, p. 213 e negli «Atti degli Eruditi di Lipsia», 1753, p. 184. Con toni particolarmente ammirati si pronunciò l’erudito ravennate Gioseffantonio Pinzi (cfr. Carteggio Bianchi, cit., fasc. «Pinzi, Gioseffantonio», Lettere 1 marzo e 26 aprile 1752, da Ravenna).
84 Paolo Maria Paciaudi giudicò il «Ragionamento sull’arte comica pieno di bellissime cose e di scelta e ben collocata erudizione», ma si rincrebbe che «a un
tale ottimo libro avesse data occasione [...] quella infame sgualdrina», che a sproposito era stata definita «valorosa», non essendo altro che «cortigiana svergognata» (cfr. Carteggio Bianchi, cit., fasc. «Paciaudi, Paolo Maria», Lettera 25 aprile
1752, da Napoli). 85 Particolarmente polemico fu Lodovico Coltellini che, dopo le prime dichiarazioni di stima (Lettere 15 febbraio, 28 aprile, 13 maggio 1752, da Firenze), il 3 maggio 1758 scriveva al Bianchi da Cortona: «ella [...] arrivò a profanare codesta illustre Accademia de’ Lincei, con quella sua Druda Cantatrice [...]»; e il 29 maggio precisava non essersi trattato di invidia da parte sua l’aver espresso quella nota di biasimo: «Lodo e lodai la sua Lezione sull’Arte Comica», scriveva, ma non si poteva non disapprovare la «bassa e vil cagione» che l’aveva dettata, ossia «lodare una bagasciuola, una puttanella dichiarata, che tali sono generalmente queste contrabbandiere, che millantano il nome di virtuose» (Carteggio Bianchi,
cit., al nome, alle date). Una lettera di Daniello Colonna da Polcenigo, 5 maggio 1752, riferisce inoltre di una vera e propria fronda accademica sorta nel riminese: «Mi rincresce assaissimo che per l'impegno che ebbe di proteggere quell’Attrice siasi suscitata in codest’ Accademia una specie di scisma», scriveva l’ex allievo del Bianchi, ed aggiungeva di aver avuto notizia della polemica iniziativa di un avversario del Bianchi che ne aveva tratto pretesto per farsi «Capo d’un’altra Accademia, facendo in quella sua recitare un lungo Panegirico [...] in lode dell’ Asino» (Carteggio Bianchi, cit., al nome, alla data).
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E. Casini-Ropa, M. Calore, G. Guccini, C. Valenti
plaisir que dans l’Italie, cette mère de tous les beaux arts, plusieurs personnes de la première considération, non seulement font des Tragédies et des Comédies, mais les représentent. M.r le Marquis Albergati a fait des imitateurs». Per Voltaire, com’è noto, il problema dell’arte tea-
trale e della sua riforma esigeva una radicale ridefinizione della collocazione sociale dell’attore, strettamente collegata alla funzione pedagogica ed edificante del teatro. Nella lettera al Bianchi insisté particolarmente su quest’ultimo punto per difendere la pratica delle recite gesuitiche contro gli attacchi dei Giansenisti. «Pour moi», concludeva, «j'ai en-
vie de faire afficher: on vous donnera Mardi un sermon en dialogue composé par le révérend père Goldoni». Nel 1769 fu insignito da papa Ganganelli della carica di «Archiatro Pontificio Onorario», che gli venne poi confermata da Pio VI Braschi. Mori il 3 dicembre 1775 e fu sepolto nella chiesa di S. Agostino. Ancora una polemica ne seguf la morte. Aurelio Bertola, suo celebre concittadino, allora ventiduenne, ricevutane la
notizia nel monastero di Monte Oliveto Maggiore nel Senese, dove si trovava, ne scrisse un breve necrologio in forma
di epistola che inviò alla «Gazzetta Universale» di Firenze, non mancando di suscitare critiche e polemiche a non finire. Ma il trattatello In lode dell’Arte Comica aveva già cessato di essere materia del contendere e la cultura accademica si confrontava all’interno della propria compattezza, marginalizzando quell’episodio di interferenza che aveva riletto i luoghi topici della trattatistica alla luce del senso co86 Cfr. Carteggio Bianchi, cit., fasc. «Voltaire, Franc. Arouet». La lettera non è autografa che nella chiusa e vi è annotato, di mano del Bianchi, «15 novembre incirca, 1761, Ginevra».
87 Inviatovi il 14 dicembre 1775, l’elogio apparve nella «Gazzetta Universale di Firenze» il 19 dello stesso mese (n..101, pp. 807-8), col titolo Lettera del P. de’ Giorgi Bertola all’Estensore della Gazzetta Universale. Una minuta del necrologio, di mano del Bertola, recante la dicitura «Elogio di Jano Planco, ossia Giovanni Bianchi», si trova in Collezioni Piancastelli, sez. «Carte Romagna», fasc. «Bertola, Aurelio», 64/1, Biblioteca Comunale di Forlf. Sulla polemica, cfr. A. Fabi,
Aurelio Bertola e le polemiche su Giovanni Bianchi, in Quaderni degli «Studi RoME: n. 6, Faenza 1972 (dove il necrologio, corredato di note, è riportato ale pp. 6-11).
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Il teatro della cultura: tre figure paradigmatiche
mune, per prendere le distanze da un costume teatrale chiuso e contento di sé, indicandone il paradosso e i pregiudizi. Un polemista anonimo volle ricordarsene e subito gli venne rimproverato che «avrébbe fatto meglio [...] a non rammentare mai le galanterie di Planco con la Sig. Cavallucci perché il pubblico non si sarebbe rammentato la ridicola figura, che faceva quel vecchio letterato, spacciando protezione ad una Donna di Teatro» 88.
88 Il necrologio del Bertola «mentre esalta gl’illustri meriti del defunto, non omette di accennarne ad un tempo modestamente i difetti» (P. Pozzetti, Notizie per l’elogio di Aurelio de’Giorgi Bertola, Rimino, 1799, p. 19). Proprio per questo
a Rimini suscitò non pochi risentimenti e diede luogo a numerose confutazioni, per lo più sotto forma di libelli satirici, cui seguirono relative risposte da parte dei sostenitori del Bertola. Particolare risonanza ebbero il Giudizio libero d’una lettera di giovinetto autore sopra la morte del Celebre Jano Planco d’Arimino (s.n.t.), a firma Ernesto Polidoro [cioè Francesco Ferrari, studioso riminese già discepolo del Bianchi], e la Correzione che il Padre de’ Giorgi Bertolla [sic] da per mano di Frate Mastiga alla di lui Lettera ... sul Ragguaglio della Morte dell’Insigne Letterato Monsignor Giovanni Bianchi suo Concittadino (s.n.t., recante l’indicazione «Siena, 10 gennaio 1776», certamente falsa rispetto al luogo), dove Frate Mastiga [ossia il canonico riminese Epifanio Brunelli] fingeva che il Bertola correggesse i giudizi contenuti nel suo elogio. È in questo secondo scritto che si fa cenno al legame del Planco con la Cavallucci. Contro entrambi i libelli si pronunciò un anonimo partigiano del Bertola [ma si tratta del senese Antonio Maria Borgognini], autore delle Riflessioni sopra le inriflessioni che si contengono in certi fogli anonimi contro ad un elogio di Giano Planco inserito nella Gazzetta Universale di Toscana (Lucca, 1776), cui si deve il giudizio citato (cfr. p. 24). Sull’intera vicenda cfr. A. Fabi, Aurelio Bertola..., cit.
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L'esperienza teatrale di Agostino Paradisi: fra traduzione e invenzione
E abbastanza noto come a ricuperare e riproporre in anni abbastanza recenti (poco dopo il 1960) la figura di Agostino Paradisi sia stato Franco Venturi, con un saggio che lo accreditava come un esponente non certo di primo piano o di punta, ma sicuramente vivace e interessante della cultura italiana dei Lumi, nell’età delle Riforme!. E direi che si
tratta di una valutazione ancora oggi decisamente accettabile, tutt'al più quando la si precisi alla luce dei molti scritti tuttora inediti (penso in particolare al Ragionamento sopra i costumi dei selvaggi americani nel rapporto della felicità, che si conserva proprio qui a Reggio; e ai carteggi, per ricordarne
solo alcuni, con uomini come Francesco Albergati Capacelli, Cesare Beccaria, Girolamo Lucchesini, Paolo Maria Pa-
ciaudi, Pellegrino Salandri, Giuseppe Antonio Taruffi, Francesco Maria Zanotti); e anche si rilevi quel molto di astrattamente, ingenuamente utopico che si può trovare nel
suo pensiero, e che traluce per esempio dalla Orazione inaugurale recitata in Modena
nell’anno MDCCLXXII?.
Come
s'intende, specialmente bene, dal passo che si fa seguire, in cui si celebra, con assoluto entusiasmo, la «filosofia»: Esulta il filosofo nel cammino, e la verità che sorride a’ suoi passi, gli schiude un campo vastissimo, tutto luce, tutto evidenza, tutto uti1 Cfr. F. Venturi, Ritratto di Agostino Paradisi, in «Rivista storica italiana», LXXIV (1962), 4, pp. 717-738. Questo «ritratto» era poi riproposto, in termini
essenziali, come «nota introduttiva» alle pagine del Paradisi raccolte dal Venturi ne La letteratura italiana. Storia e testi, Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1965, pp. 435-453. Si rinvia a questa «nota» anche per l’accurata bibliografia. Sempre da vedersi, come minuta ricostruzione delle vicende di vita e di cultura del Paradisi, G. Cavatorti, Agostino Paradisi, Villafranca, Rossi, 1907 (prima parte di una monografia rimasta incompleta, ferma al 1764). 2 Della Orazione nota il Venturi (cfr. Ritratto ecc., cit., p. 730) come essa re-
sti «ancor oggi uno dei manifesti minori del moto riformatore italiano».
o
M. Cerruti
lità, lo studio dell’uomo e degli umani doveri, dall’adempimento de’ quali unicamente la felicità dipende, quella felicità cui tanti sospirano di possedere, cui tanti perdono posseduta, non conosciuta rifiutano, vicina non sentono, non avvisano lontana, simulata non distinguono. I doveri
dell’uomo ne sono la base. Severo il sapiente gli annovera, li raccomanda. A traverso i piaceri calcola i mali e gl’incomodi; a traverso l’abbagliamento del lusso sente i gemiti della fraudata indigenza; a traverso delle abitudini che hanno pervertito l’uman cuore, riconosce quel naturale affetto, onde l’uomo patisce in sé stesso per l'altrui patimento, il senso di compassione. Dolente che o l’ingorda avarizia, o la spensierata mollezza, o la sorda ambizione, lo abbian represso e ammutolito, egli lo irrita, lo esercita, lo fomenta. Scosse le docili anime de’ giovani, sento-
no in tutta la loro energia le ragioni dell’umanità, sentono l’amor della patria, l’impazienza di esser utili, l’abborrimento di quell’orgoglio che disuguaglia gli uomini agguagliati dalla natura, e il piacer sommo de’ cuori generosi, il piacer di beneficare?.
Insomma: filosofia, virti, felicità, la ben nota triade costitutiva di un mito centrale nella cultura illuminata italiana di questi anni Settanta. Basti pensare per questo a I/ lettera-
to buon cittadino, fatto uscire a Roma di lf a poco dal veneziano Luigi Gonzaga di Castiglione e sostenuto con giovanile fervore dal Bertola poco più che ventenne sulle colonne del «Giornale letterario di Siena» nel 1776; ovvero, per la stessa pregnanza del titolo, al poemetto calusiano La ragione felice, composto non a caso sullo stesso principio degli anni Settanta‘. Non è questo comunque il luogo per ragionare più di tanto su quella che poté essere la qualità specifica dell’illuminismo di Agostino Paradisi. Se vi ho fatto cenno, se anzi ho ritenuto di cominciare da qui il mio intervento, è perché ad un primo impatto, a una prima considerazione dell’opera
3 Cfr. Orazione inaugurale recitata in Modena nell’anno MDCCLXXII. Si cita da AA.VV., Scelte prose italiane, Milano, Antonio Fontana, 1832, pp. 120-121.
4 Per il Gonzaga e il Bertola mi sia consentito rinviare a M. Cerruti, Aurelio De Giorgi Bertola tra «Aufklirung cattolica» e sperimentazioni neoclassiche, nel vol. miscell. L'arte dell’interpretare, Cuneo, L’Arciere, 1985, pp. 411-421; e per La ragione felice a Id., La ragione felice e altri miti del Settecento, Firenze, Olschki, 1973. Si può ancora ricordare che nell'estate del 1769 il Paradisi aveva stampato
sulla rivista curata da Elisabetta Caminer Turra «L'Europa letteraria» (t. VI, parte I, pp. 74-76) i versi intitolati, significativamente, La felicità della sapienza (vichiamati dal Venturi nel citato Ritratto).
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L'esperienza teatrale di Agostino Paradisi
complessiva di questo scrittore davvero non riesce facile situare certi testi, e in particolare l’insieme della produzione teatrale, e ancor più in particolare la cosa più nota, la tragedia che s'intitola G4 Epitidi, un’opera cost legata al teatro del Seicento e introdotta dall’inquietante esergo «g6Bos
xai tieos», «terrore e compassione», dicevo non riesce facile If per lf situare tutto questo entro una prospettiva di Lumi, e sia pure di Lumi se non proprio inquinati certo intri-
si di un’accentuata componente che definirei vetero-letteraria. Bene, penso che una soluzione di questa iniziale difficoltà si possa trovarla: non tanto, o meglio non solo guardando a quel che succede, nella nostra cultura, attorno al Paradisi, dove non è certo infrequente, in una stessa per-
sonalità, la compresenza, se si può dire cosî, di scelte in qualche modo riconducibili all’Illuminismo e di un gusto poetico-letterario per molti versi autonomo (si prenda un Cesarotti, o il giovane Fantoni dei maturi anni Settanta); ma, soprattutto, cercando di vedere più da vicino nella vicenda formativa di Agostino intorno ai suoi vent'anni, il che vuol dire fra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi Sessanta. Con tuttavia un’avvertenza: che una ricerca
come quella di cui sto segnalando l’opportunità non si può svolgere per ora se non in termini accentuatamente conget-
turali e procedendo per ampie zone d’ombra. E questo per il fatto che (nonostante la guida non trascurabile rappresentata dalla monografia paradisiana del Cavatorti, per altro incompiuta e apparsa circa ottant'anni fa) si dispone di conoscenze assai esigue sia sugli ambienti di cultura in cui il Paradisi si trovò a muoversi (la Roma del Collegio Nazareno, poi Reggio naturalmente, Modena, Bologna) sia intorno ad alcune personalità che esercitarono su di lui, a vario titolo, un’influenza saliente: voglio dire in particolare l’Algarotti degli ultimi anni, l’abate Taruffi, Francesco Albergati. Non ritengo però sia ora il caso, nell'economia di questo essenziale intervento, scendere nei dettagli entro la Bi/dung adolescenziale e più giovanile del Paradisi, che sino all’inizio del 1754 fu studente nel Collegio Nazareno di Ro12
M. Cerruti
ma. Mi limiterei a ricordare alcuni fatti, che avranno un
peso nella sua successiva esperienza, in particolare in quanto autore di teatro. E allora anzitutto la pratica scenica,
esercitata inizialmente come attore nel teatrino del Collegio: una pratica, e un gusto, che Agostino avrà modo di ricuperare di lf a qualche anno, sullo scorcio dei Cinquanta, e a Reggio, alla corte della principessa Maria Teresa Cybo d’Este (che sarà fra l’altro la dedicataria della Scelta di alcune eccellenti tragedie ecc., di cui dovrò dire fra poco), Maria Teresa che, come tante altre gran dame del tempo, pit o meno
regnanti, «l’accoglieva», come
ricorda il Cavatorti,
«lietamente, corisultandolo sulle tragedie che faceva rappresentare nel suo teatro di Rivalta, e talora affidandogli la stessa direzione dello spettacolo»6. E su questa linea di esperienze organizzative e registiche (non più di attore, sembra per insufficienza vocale) si inseriva, nel 1760, l’in-
carico assunto di ridar vita al teatro lirico di Reggio: un impegno, questo, che se da un lato lo poneva di fronte a concretè questioni di repertorio, e lo induceva a ricuperare in questa chiave testi primosettecenteschi, di Zeno e di Metastasio, da un altro lo faceva riflettere su cose teoriche come
il Saggio sull’opera in musica di Francesco Algarotti e occuparsi tecnicamente di musica, come attesta fra l’altro lo studio, avviato proprio allora, del clavicembalo”. Un altro fatto che val la pena di rilevare, sempre per questi anni assai giovanili, è l’esperienza di Arcadia, iniziata a Roma sui primi anni Cinquanta e in fondo non mai dimessa, o almeno non mai dimenticata. Il Paradisi fu arcade,
col nome di Falimbo Tinangense, e il suo gusto fu subito rivolto, come attestano i primi versi a stampa, La predicazio-
ne di Ninive del 1756*, all’Arcadia grande e solenne del Filicaia e del Guidi. Di qui il maturare di un prevalente pen? Notevole questo rilievo del Venturi sulla prima esperienza romana (Ritratto, cit., p. 717): «La tradizione letteraria che vi trovò lo modellò precocemente». 6 Cfr. G. Cavatorti, op. cit., p. 115. ? Ibidem, pp. 137 ss. 8 Cfr. La predicazione di Ninive. Versione poetica del libro di Giona. AI M.R. 07 Vincenzo Maria Giusti la Quaresima dell’Anno 1756, Reggio, per G. Davoio, 1756.
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chant per forme, toni, invenzioni distinti da una maestosità solenne e scandita, fra l’altro tutt'altro che rara nella poesia del medio Settecento (solo si pensi alle Rizze di un Crudeli)°. Una tendenza di gusto, insorta converrà ripetere negli anni romani, alla cui insegna fondamentalmente si configurano i Versi sciolti, fatti uscire a Bologna per cura dell’amico Taruffi nel 1762, e che in questi stessi anni intorno al 1760 si fa il criterio-guida secondo il quale, come avrò modo di chiarire più oltre, il Paradisi non solo lavora agli Epitidi, ma attende alla traduzione di alcune celebri tragedie francesi. Infine, terzo fatto da rilevarsi, e questo precisamente riferibile, come avvio, al ’59, l'amicizia e l’intenso scambio
intellettuale con l’ormai illustre Algarotti, che sei anni prima era rientrato in Italia e dal ’56 risiedeva in prevalenza a Bologna. Qui egli aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali (l'accademia degli Indomiti), presso i quali esercitava una notevole funzione di stimolo alla ricerca di nuove, più europee prospettive di cultura. Fra questi amici erano anche Francesco Albergati e Giuseppe Antonio Taruffi !°, i quali proprio tramite l’Algarotti entreranno in contatto col Paradisi (notevole fra l’altro che il Taruffi, il quale sembra conoscesse molto bene, oltre all’ovvio francese, l'inglese e il tedesco, figuri fra i più presenti, nell’epistolario, e più stimolanti corrispondenti di Melchior Cesarotti). Tornando all’Algarotti, pare che ogni tanto amasse fare qualche gita a Reggio, e appunto in occasione di una di queste avrebbe conosciuto di persona il Paradisi, si può pensare incuriosito da quel che se ne andava ormai dicendo fra Reg9 Ma si pensi anche al «trasporto» e al «furore» suscitati, nel 1772, nel giovane Alfieri dalla lettura, compiuta dall'abate Tommaso di Caluso, della «grandiosa ode del Guidi alla Fortuna»: cfr. V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1974, p. 128. 10 Sull’Albergati, oltre al sempre utile, ma ovviamente invecchiato E. Masi, La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati commediografo del secolo XVIII, Bologna, Zanichelli, 1878, si veda la «voce» a cura di A. Asor Rosa in Dizionario biografico degli Italiani, 1, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, pp. 624-627. Il Taruffi manca ancora di una considerazione specifica. Su di lui si veda comunque il ricordo di un attento contemporaneo, Giovanni Fantuzzi, in No-
tizie degli scrittori bolognesi, Bologna, 1789, vol. VII, pp. 95 ss. Non si dispone inoltre di uno studio specifico sugli ultimi anni italiani dell’ Algarotti.
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gio e Bologna come di giovane talento emergente. Sta di fatto che in breve, nel corso del 1759, e con un appassionamento tutto settecentesco, Agostino entrava anche lui nell’orbita di influenza, se si può dire cosf, del prestigioso Algarotti. Di qui, per ridurmi all’essenziale, l’idea di un poemetto filosofico sulle comete, lo studio della lingua inglese, la traduzione del poemetto I/ Messia del Pope (poi stampata fra i Versi sciolti tre anni dopo) e pit in genere, nei confronti del Pope, l'ammirazione crescente, la lettura
di Milton (circa il quale l’Algarotti gli aveva scritto: «Ella punto non si sgomenti di andare ad attingere ai fondi della poesia inglese e singolarmente del Miltono; e già ella avrà la mente fecondata di idee nobili, grandi e nuove»). Inoltre, la cauta attenzione rivolta a Shakespeare, di cui legge il Julius Caesar e Macbeth (quello stesso Macbeth che il quasi coetaneo Alessandro Verri tradurrà a Roma di lf a una decina d’anni), trovandovi cose belle ma anche «difetti troppi e troppo frequenti», per altro con questa riserva (dicevo prima di «cauta attenzione»): «mi do a credere che gli Inglesi vi troveranno entro certi vezzi, che non è dato trovare a co-
loro, i quali iniziati non sono ai misteri della loro lingua». Infine il grande incontro, qualcosa come una folgorazione, con Voltaire, e in particolare col Voltaire tragico !!. Qui si rende tuttavia opportuno un rilievo. Probabilmente le indicazioni dell’ Algarotti, che fra l’altro del Voltaire era amico personale, furono per questo riguardo determinanti. Ma non si può dimenticare (come gli studiosi della scuola storica hanno variamente illustrato) che l’interesse per il teatro tragico di Voltaire, e il pullulare di traduzioni,
parafrasi, imitazioni, specie in area veneto-emiliana (fra Verona, Padova, Bologna e Reggio appunto), costituisce uno
fra gli episodi di maggior rilievo nella storia della cultura e della sensibilità medio-settecentesca, su cui varrebbe la pena di ritornare con una indagine specifica. Per non uscire dall’ambito estense, basti pensare al gran lavoro del modenese, oggi credo fondamentalmente dimenticato, Paolo Emi-
lio Campi, o al reggiano, ma poi residente a Modena, Alfonso 1l Cfr. G. Cavatorti, op. cit., pp. 123 ss.
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Vincenzo Fontanelli, che di Voltaire tradusse ben sette tra-
gedie, fra cui il Cesare e il Maometto, oltre ad altre del Corneille (fra cui il Poliuto), di Racine e del La Harpe. Ma per questo sarà soprattutto illuminante pensare al Cesarotti, un
altro quasi coetaneo del Paradisi, che dopo essere stato sul principio degli anni Cinquanta, poco più che ventenne, un fervido traduttore di Eschilo, in chiave brazuoliano-graviniana, proprio negli anni che ora c’interessano, intorno al 1760, lavora sul Cesare e sul Maometto di Voltaire, la cui traduzione, fatta uscire a Venezia nel ’62, egli manderà poi, com’è noto, al celebre filosofo tramite il Goldoni. Inutile
dire che nella Scelta di alcune eccellenti tragedie questa esperienza cesarottiana sarà debitamente richiamata, anzi, nella
dedica proprio al Cesarotti della traduzione de L’Ines de Castro di Houdar de la Motte, ricordata dall’ Albergati, il traduttore, come esemplare: Voi Traduttore dell’Omero Celtico, e del Macometto, e del Cesare del Francese Sofocle avete saputo innalzarvi al merito sublime di egregio Autore, dando a quelle Opere colori, lumi, ed un’anima, che è tutta vostra, e corredandole di si copiose ed erudite Note e Dissertazioni, che ciò che vuole Quintiliano nel Traduttore, Voi lo avete voluto, ed otte-
nuto gloriosamente !2.
Interessante, e indicativo di un clima, che nel teatro
fatto costruire a Reggio dal vescovo per le recite dei collegiali e dei seminaristi, venisse fra l’altro rappresentato proprio il Maometto nella traduzione cesarottiana. Quanto al Paradisi, anche in vista di una rappresentazione nel medesimo teatro, ma non solo naturalmente per questo, egli s’impegnava, ancora nel ’59, nella traduzione de La morte di Cesare. E lo spettacolo avrebbe avuto un certo successo, come ricorda con fine humour il Cavatorti: ... benché fosse un po’ dispiaciuta (colpa anche, ammette il Paradisi, dell’angustia del teatro) la comparsa sulla scena del cadavere di Cesare, e la parte d’Antonio fosse recitata languidamente, e nonostante altri 12 Cfr. Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto italiano, Liegi [ma Modena], a spese degli Eredi di Bartolomeo Soliani, 1764-68, vol. III, p. 118.
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piccoli inconvenienti, i suoi concittadini gli applaudivano la sua traduzione del Cesare. Peccato, diceil nostro, che i Reggiani non sapessero, secondo la frase del Pope, piangere con lacrime romane: ma da Reggiani, e per di più del secolo XVIII, questo era da vero pretender troppo 13
Come ho prima accennato, l’ambizione del giovane traduttore mirava però a ben altro che all'eventuale consenso dei concittadini. Compiuta la traduzione, egli ne mandava infatti subito copia a Francesco Algarotti, che la trasmetteva a sua volta al Voltaire. E la risposta di quest’ultimo al proprio ammiratore reggiano era di congratulazioni molto cordiali, non senza benevoli accenni alla risorgente cultura italiana. Uno scritto, questo di Voltaire, molto amabile. Per il contenuto che andava al di là della traduzione del Cesare,
e, com’era nelle attese, promuoveva il Paradisi a interlocutore di rilievo, esso motivava l’ampio riscontro di quest’ultimo, riscontro che si risolveva in un’attenta e un po’ accorata valutazione dello stato presente delle lettere in Italia, con questi rilievi dedicati in particolare al teatro tragico. La tragédie doit son retablissement è Trissino et è Rucellai, mais c'est de Racine et de Voltaire qu'elle a tiré sa perfection. / Nous pouvons tout espérer de ce grand genie, qui a sgu charmer avec les monstres, qui dans l’irregularité méme a trouvé les moyens d’achever des chefs-d’oeuvre, M. Metastasio. Mais il a été malheureusement entrainé par les attraits de la musique: aimant mieux de chatouiller des oreilles efféminées que de faire la délice des esprits mAles et sérieux. / L’Italie compte à la vérité quelque tragédie fort semblable aux pièces de l’ancienne Grèce; mais elles sont comme certains habits et broderie, qui sont tombés déjà hors de mode: tout le monde en admire le travail, mais personne ne voudroit s’en habiller. La Mérope fait honneur è notre théatre: elle étoit digne de nostre approbation [...] Les coinnaisseurs trouveront beaucoup de mérite dans l'Ulisse de Lazzarini, mais pour les spectateurs il faudroit les choisir dans Athènes. / Ainsi, monsieur, il vaut mieux d’avouer notre pauvreté en fait de théatre, que d’étaler une richesse que nous n’avons pas. M. Maffei l’a fait malheureusement.
Il passo è molto ricco, e varrebbe la pena di un ampio commento. Fra l’altro si tratta della prima presa di posizio13 G. Cavatorti, op. cit., p. 135. Cfr. ibidem, passim, per le indicazioni che seguono, quando non si diano più precisi rinvii.
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ne esplicita del Paradisi sulla situazione della cultura e in
particolare del teatro in Italia, e per questo riguardo esso anticipa la notevole «lettera» Sopra lo stato presente delle scienze e delle arti în Italia pubblicata nel 1765 sulla «Minerva» e due anni dopo, in modo autonomo, a Venezia «appresso Antonio Graziosi». Si potranno rilevare, dello scritto a Voltaire che ho prima citato, accanto al discorso sulla «perfezione» raggiunta da quest’ultimo e da Racine, le perplessità sul Metastasio, l’idea della improponibilità scenica della tragedia grecizzante contemporanea, massimamente rappresentata dall’ Ulisse del Lazzarini, l’approbation circa la Merope del Maffei, che del resto aveva goduto ancora in anni recenti di grandissima fortuna. Nel Saggio sopra lo stato presente ecc. che ho appena ricordato, che seguiva di appena cinque anni la lettera al Voltaire, è notevole come venga
meno ogni accenno al Maffei e si propongano invece con alte lodi, come autori sfortunati presso un pubblico inadeguato e ineducato, il Conti e il Varano: I nostri Scrittori, egli è il vero, da molto tempo si sono dipartiti da que’ vizj, che fecero le delizie degli Antenati, ma pur ne rimane qualche orma tuttavia negli animi volgari; per la qual cosa colui, che espone Tragedie al Pubblico è costretto, se vuole conseguir plauso, di fare, non il meglio che si possa scrivere, ma il meglio, che da viziati uditori si possa comportare. Non è dunque da chiedere perché alcune veracemente auree Tragedie nate in questo secolo, o non si siano recitate, o sieno state accolte freddamente. Chi udî mai sulle Scene de’ pubblici Teatri quelle dell’ Abbate Conti, nelle quali si contiene epilogato quanto è di magnifico e di nobile ne’ caratteri Romani? Da quali comici si rappresentò il Giovanni di Cisgala [sic] del Signor D. Alfonso Varani, maraviglioso la-
voro per l’uso acconcio della Religione, per l’ingenuità temperato orrore, di che è sparso, e per la pompa dello e sincero, che mai da Italiano Tragico si adoperasse, rappresentarsi ai Tragici in avvenire, come modello di zione ‘°?
degli affetti, per stile, il pit colto, e che dovrebbe necessaria imita-
Quanto infine alla primazia fra i moderni autori di tragedie riconosciuta, ancora nella lettera al Voltaire, a quest’ultimo e a Racine, e in particolare alla passione per il tea14 Cfr. Sopra lo stato presente delle scienze e delle arti in Italia lettera di A.P. contro una lettera francese del signor D..., seconda edizione accresciuta di alcune osservazioni, Venezia, Antonio Graziosi, 1767, pp. 27-28.
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tro voltairiano che anima il Paradisi intorno al 1760, penso non sia il caso di spendervi ora troppe parole, perché un tale quadro di scelte fondamentalmente non si discosta, nella sua fenomenologia e nelle motivazioni, quale potesse esserne la consapevolezza del giovane aspirante drammaturgo, da una linea di pensiero largamente diffusa, e ormai ben nota, nella cultura italiana del tempo. In sostanza: se in genere il teatro francese del gran secolo appare preferibile, come modello, a quello antico e rinascimentale per il felice equilibrio che esso avrebbe raggiunto fra classicità di strut-
ture formali e variamente articolata modulazione di affetti e di passioni, la tragedia di Voltaire sembra aggiungere a questa qualità il pregio di una dimensione, e insieme di un’intenzionalità, nettamente filosofica, nel senso appunto contemporaneo, illuministico del termine. Come osservava del resto molto limpidamente lo stesso Paradisi nel Ragionamento premesso, nel ’64, alla sua traduzione di Macometto il Profeta o sia il Fanatismo (nel secondo tomo della Scelta di alcune eccellenti tragedie, che ho ormai più volte richiamato): Il Voltaire ha saputo meglio di ogni altro Poeta colpire in quel punto sottile, ove mettono capo l’utile, e il dilettevole. L’evidenza di che sparge le sue tragiche produzioni, le rende altrettanti quadri, ne’ quali con bella e appariscente forma l’uman cuore vedesi diramato ne’ suoi desi-
derj, e la virtù tutta luce e amabilità rapisce gli osservatori allettati dall'immagine sua, ove al contrario il vizio oscuro e deforme gli ributta, e si rende spiacevole a chi lo riguarda. E cosf dee seguire, quando la ragione ha nelle opere la natura per guida, e non edifica a modo de’ Ro-
manzieri sopra le sottilità dell'ingegno. Muovono essi veramente le lagrime, ma non avviene giammai che passino all’interno dell’anima a suscitarne i sentimenti della virtà, e la conoscenza dei doveri naturali !.
E però, credo, ormai il momento di dire qualcosa di
questa Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in
versi sciolti italiani, che rappresenta, a parte G% Epitidi i quali per altro entravano a far parte del terzo tomo dell’opera, il frutto complessivo dell'impegno del Paradisi come traduttore e insieme teorico di cose teatrali !6. L’opera 15 Cfr. Scelta ecc., cit., vol. II, p. 12.
16 Se si esclude una inedita tragedia Silio, composta a quanto informa il Cavatorti nel 1756, in martelliani.
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non è granché nota, perlopit mal citata, non facile a trovarsi nelle nostre biblioteche, e vale dunque la pena di una sintetica descrizione. Si tratta di una raccolta, come già lascia intendere il titolo, di traduzioni, articolata in tre tomi, i primi due apparsi nel 1764, il terzo già predisposto dai curatori nel ’65 ma uscito, per complicazioni editoriali, solo nel °68. Era stampata a Modena, «a spese degli Eredi di Bartolomeo Soliani Stampatori Ducali», ma con data di Liegi. Curatori, e autori di buona parte delle traduzioni, erano Agostino Paradisi (il quale si assunse un impegno più strettamente redazionale, di coordinamento dei materiali e simili) e Francesco Albergati. Il primo tomo contiene, nell’ordine, la Fedra di Racine tradotta da Albergati, il Po-
lieuto di Corneille per cura del Paradisi, l’Idorzeneo di Crébillon tradotto in collaborazione da entrambi, il Tarcre-
di di Voltaire tradotto dal Paradisi. Nel secondo troviamo il già citato Macometto, l’Ifigenia in Aulide raciniana tradotta dall’ Albergati, quella Morte di Cesare su cui il Paradisi aveva lavorato nel ’59, e la Sezzirazzide ancora di Voltaire, tradot-
ta dall’abate e professore di eloquenza, defunto di recente, Domenico Fabri. Il terzo tomo infine ospitava il Cirna di Corneille, curato dal conte Francesco Casali, l’Ines de Castro
già ricordata per la dedica dell’Albergati al Cesarotti, il Nicomede di Corneille ancora tradotto dal Paradisi, e due pièces originali, Gli Epitidi, e una «commedia in prosa», la prima credo dopo tanto tragediare, di Albergati: L’amzor fin-
to, e l'amor vero. Il carteggio fra i due, Paradisi e Albergati, per il tempo che precede l’uscita dell’opera, consente di seguire assai bene la vicenda e gli umori che vi concorsero. Non entro nei dettagli, anche per non interferire con quanto avrà, penso, modo di dire fra poco Roberta Turchi. Mi limito a riferire ” due affermazioni del Paradisi, l’una relativa alla mediocre «stima» che suol riservarsi, in Italia, al tra-
durre, l’altra alla qualità particolare dello «scrivere della scena». Dunque, in data 4 maggio 1763: 17 Il carteggio Albergati-Paradisi si trova conservato nel Fondo Albergati presso l'Archivio di Stato di Bologna e sarà pubblicato quanto prima per cura di Roberta Turchi. Cito dalla trascrizione di alcune lettere conservata presso la Biblioteca Municipale di Reggio Emilia.
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Le traduzioni son stimate vieppit colà [= cioè, nel Centroeuropa e in Inghilterra: ancora l’Algarotti!], che fra noi. Egli è di vero gran torto che si fa loro in Italia, ed io odo da molti sgridarmi perché traduco volentieri: ed egli è pure il mestier che ha fatto lungamente il Pope fra gl’Inglesi e Dryden: anzi l’ultimo è quasi più traduttore che altro, perché le migliori opere sue sono e la versione di Virgilio, e le sue favole, che se non tradotte, almeno sono per gran parte imitate dal Boccaccio, e tolte di peso.
E circa lo «scrivere della scena»: Lo scrivere della scena è quasi lo stesso che il dipingere sul teatro: pennellate grosse e preste fanno il caso, e chi si perdesse a miniare, non avrebbe di che far comparire il suo lavoro in distanza.
Ci si può chiedere che cosa inducesse il Paradisi a impegnarsi in questa avventura di lavoro a quattro mani, più che mai appunto avventurosa, faticosa, e non certo gravida di gratificazioni personali (non troppo, almeno). Tanto più se si considera che già sul principio del 1760 egli mette gi una prima stesura degli Epitidi, con l'intenzione di dare la tragedia alle stampe unitamente al Cesare tradotto, parendogli, son sue parole, «troppo scarso il nome che può derivare da una traduzione di una Tragedia Francese». Il fatto è che proprio allora — siamo, ripeto, nel 1760 — il Paradisi, assumendo l’incarico di ridar vita al teatro lirico di Reggio, ricuperava più attivamente, e quasi nel concreto di una
professione, quel gusto della pratica scenica, dell’organizzazione di uno spettacolo e della mise en scère, che già gli era stato consentaneo in passato, quando dirigeva per Maria Teresa gli spettacoli di Rivalta. E contemporaneamente, tramite il Taruffi e più indirettamente l’Algarotti, entrava in contatto e poi subito in amicizia con Francesco Albergati, anche questi esperto di lingua e cultura inglese (oltre che tedesca) e cultore appassionato di Voltaire, il quale si stava in quel momento occupando col massimo impegno del teatro che da poco aveva fondato nella propria villa di Zola, presso Bologna. Era, questo dell’Albergati, un impegno a più livelli: come organizzatore degli spettacoli, come regista, come attore, e anche come traduttore di testi da rappresentarsi, considerata la scarsità, riconosciuta — come s'è 86
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visto — anche dal Paradisi, di tragedie italiane che fosse davvero possibile mettere in scena. E infatti, quando i due si conoscono, Albergati ha appena finito di tradurre, per il teatro di Zola, la Fedra di Racirfe, quella stessa che aprirà,
quattro anni più tardi, il primo tomo della Scelta di alcune eccellenti tragedie. Naturale dunque che l’Albergati ricercasse la collaborazione del Paradisi, il quale a sua volta rispondeva col più vivo interesse. Di qui la decisione di ques’ultimo di rinviare per il momento la stampa degli Epitidi, che difatti, come ho già ricordato, appariranno solo nel ’68, inseriti nel terzo tomo della Scelta di alcune eccellenti tragedie,
e di dedicarsi a tempo pieno alla pratica del tradurre, esercitata ora con meno letterarie e più sceniche motivazioni,
con l’occhio rivolto più alla concreta messinscena che non al possibile libro stampato. Del resto quel perfezionamento, che pure gli stava a cuore, di una propria immagine di uomo di lettere raffinato e algarottianamente «filosofo», l'avrebbe ottenuto per altra via di lf a poco, nel ’62, con la
pubblicazione che ho prima ricordato, a cura del Taruffi, degli Sciolti. I tre tomi della Scelta di alcune eccellenti tragedie raccoglievano dunque il risultato di questo fervido impegno traduttorio, che occupa i due amici soprattutto sul principio degli anni Sessanta. La tempestività dell’edizione (i due primi tomi, si ricorderà, comparivano nel ’64) si spiega probabilmente col proposito di offrire alla società colta italiana interessata al teatro e cultrice a vario titolo di teatro quelli che gli autori dovettero considerare dei veri e propri materiali di lavoro, testi già «scelti», appunto, e predisposti per la scena, già scenicamente sperimentati, dunque agibili ulteriormente e da altri !8. I tre tomi del resto risultano forniti, 18 Che l’opera venisse incontro a una pratica scenica molto diffusa conferma questa notevole testimonianza di Alessandro Verri, che risale all’inizio del 1777: «Venendo il carnevale [...] nella più gran stanza di casa si costruf un beninteso teatro, di forma semicircolare con due porte laterali all’uso de’ Greci [...] Si scelsero le rappresentanze e furono L’indigente di Monsieur Mercier e la Zenobia di Crébillon tradotta dal Frugoni. [...] Nella Zenobia la Marchesa [= Margherita Boccapadule Gentili] faceva da Zenobia, io da Radamisto. [...] Io era vestito all’antica romana, precisamente come le statue de’ Cesari e coll’elmo esattamente
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fra una tragedia e l’altra, di un vario e anche complesso apparato (in forma di dediche, proemi, ragionamenti, osserva-
zioni del traduttore e simili) che se da un lato illustra con piacevole naturalezza, e forse con qualche compiacimento,
l’origine del tutto «pratica», per nulla libresca dell’opera, da un altro tocca specifiche questioni di ordine tecnico, come quella dei limiti di aderenza agli originali o l’altra relativa alla verisimiglianza, cioè in sostanza alla credibilità scenica delle ambientazioni. Specialmente indicative, per quest’ultimo riguardo, le paradisiane Osservazioni del traduttore che precedono il Tancredi. Vi si segnala fra l’altro come esemplare, sotto questo aspetto, la Sposa persiana del Goldoni (un autore caro non meno al Paradisi che all’ Albergati), ma soprattutto si insiste sul rilievo, anche entro tale prospettiva, dell’esperienza contiana, in termini risolutamente celebrativi che anticipano, d’un anno, quelli che già si sono incontrati nella «lettera» Sopra lo stato presente delle scienze e delle arti in Italia: Diasi lode al dotto Abbate Conti, che nelle sue quattro tragedie Romane, talmente si trasferisce ne’ costumi di quella libera gente, e di quella inarrivabil Metropoli, che all’uditore sembra aggirarvisi dentro !?.
Circa la questione dell’aderenza o, per valerci di un termine classico nella storia del tradurre, della «fedeltà» agli originali, la si trova affrontata in modo particolarmente esplicito (si vorrebbe dire: una volta per tutte) dal Paradisi nelle pagine A/ /eggitore che introducono al Polieuto, cioè, non a caso, pressoché sull’avvio del primo tomo. Inutile di-
re come si tratti, in questi anni maturi del secolo, di questione dibattutissima e variamente risolta: basti pensare, per non andar lontani, al Cesarotti traduttore non solo di Voltaire ma di Ossian e più tardi di Omero, o al Pepoli tra. duttore di Milton. La soluzione adottata e motivata dal Paradisi (che per esser più chiaro apriva questa sua traduzione antico, le mie positure ed ogni atto pure era regolato dai moti della pittura...». Cfr., per questo passo, M. Cerruti, Neoclassici e Giacobini, Milano, Silva, 1969,
pp. 61-62, e E. Raimondi, Le pietre del sogno, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 20. 19. Cfr. Scelta ecc., cit., vol. I, p. 322.
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L'esperienza teatrale di Agostino Paradisi
del Polieuto con l’esergo ciceroniano «Nec converti ut interpres, sed ut orator») era quella di una libertà ragionevole, orientata in genere nel senso del «nobilitare» (dunque pit accentuata nei confronti di quegli autori, come Corneille, che in qualche modo paressero abbisognarne, minore invece con originali, come Racine e soprattutto Voltaire, dallo stile già assai «nobile» ed elevato), e di quella tensione al grande, al grave, allo scandito, all’intenso, maturata, come s’è notato, sulla scorta dei Guidi e dei Filicaia, ma coltivata anche,
contemporaneamente a questo impegno di traduzione dai tragici francesi, con un vario esercizio in area di «profetica elocuzione», come lascia intendere una parafrasi, compiuta nel ’61, dell’Ecclesiaste (lavoro che evidentemente proseguiva La predicazione di Ninive). Ma si vedano le limpide spiegazioni fornite dal Paradisi «al leggitore» del Polieuto corneilliano: Se in questa Tragedia si scorgeranno alcune picciole variazioni, non se ne condanni il traduttore. Egli ha dovuto servire il genio di un secolo, che non può soffrir maniere tenui e popolari. La Religione, quando parla, non dee tener soltanto il piano e semplice linguaggio, che si converrebbe al catechismo; ma fa bisogno che si levi a stile enfatico, ed imiti quanto può le gravi maniere della profetica elocuzione. Gl’infimi Personaggi debbono essere anch'essi nobili nel favellare, giacché usano coi Grandi. Il Cornelio nella nascente eleganza Francese molto potea fare, non tutto. Noi nel meriggio della eloquenza e lindura Toscana nulla possiamo ommettere senza biasimo. Le altre versioni da me fatte mostrano quanto a cuore mi sia la fe-
deltà letterale: ma nel caso presente mi è stata forza cangiar d’opinio-. ne °°,
Libertà ragionevole dunque o, per usare un termine caro al Cesarotti, «giudiziosa», nonostante questa professione di «fedeltà letterale». Nel caso del Polieuto era comunque il Paradisi stesso a proporre alcuni esempi del proprio modo di intervenire sul testo originale. Cosî, dopo aver ulteriormente premesso, dopo quanto affermato nel passo che precede, che «i luoghi teologici sono, egli è vero, espressi con
20 Ibidem, vol. I, pp. 105 ss. Cost per le citazioni che immediatamente seguono.
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M. Cerruti
nuovo giro di parole; ma nondimeno rimangono nella sostanza gli stessi», egli offriva al lettore questo campione senza dubbio indicativo: Il est toujours tout juste, et tout bon: mais sa grace
ne descend pas toujours avec méme efficace (Corneille)
Ei sempre è giusto, e sempre ugual si regge
Ne l’infinita sua bontà: ma sempre La grazia, che è del Ciel libero dono Col medesimo ardore in noi non piove. (Traduzione)
«Talora», informa ancora il traduttore, «ho tralasciato
del tutto alcun sentimento poco dicevole alla gravità della tragedia, e niente necessario all’interesse della macchina». Cost risultano per esempio eliminate queste parole di Stratonica (atto I, scena 3): «Il est bon qu’un mari nous cache quelque chose | qu'il soit quelquefois libre, et ne s’abaisse pas / à nous rendre toujours compte de tous ses pas». Quando poi un passo, ritenuto «poco dicevole alla gravità della tragedia», proprio non si possa eliminarlo, pena la comprensione dell’insieme, allora entrerà in gioco il «nobilitare»: «Ne ho nobilitato alcun altro [= sentimento], che non poteva immettersi, e che però non sarebbesi tolerato di buon grado da’ retti censori». Infine le frequenti, anzi insistite informazioni sull’origine assolutamente non libresca, ma insieme pratica e mondana della Scelta. Questo a cominciare dall’esergo plautino che spavaldamente (nella prospettiva di un «pedante» cultore di lettere) introduce l’opera nel suo insieme: «Alieno uti nihil moror», che tradotto oggi con qualche scioltezza potrebbe suonare: non ci penso due volte a servirmi di quel che è di altri. A volte si tratta di notizie minime, come per esempio nel caso di questa giustificazione (fornita dall’ Albergati nella dedica, per altro per pit versi notevole, al Taruffi dell’Idomzeneo) del fatto che la tragedia di Crébillon sia stata tradotta addirittura in parte dall’uno e in parte dall’altro, per motivi di fretta: 90
L'esperienza teatrale di Agostino Paradisi
Per compiacere alle richieste d’alcune assai distinte Persone convenne intraprender la versione di questa Tragedia; la quale siccome bisognava fosse tradotta entro il tempo di circa due mesi, cosi ancora convenne dividerne fra l’amico e me la fatica?!.
Altre volte sono invece squarci assai ampi che si aprono sulle abitudini non solo teatrali ma di vita da cui le traduzioni della Scelta sarebbero insorte. Questo si trova soprattutto in certe pagine felicissime dell’ Albergati, che dei due è sicuramente il più incline a ricuperare e restituire la dimensione del privato e del vissuto. Si legga per esempio il Ragionamento premesso alla Fedra, che s'incontra, ancora si
vorrebbe pensare non a caso, ma con intenzione sottilmente emblematica, proprio all’inizio del primo tomo dell’opera: Or io [...] il pensiero rivolgo talora a’ que’ trattenimenti, che nulla in se anno [sic] di biasimevole. Fra questi il Teatro occupa quando la mia penna a tradurre, e quando la Persona mia stessa a salir sulla Scena: e massime in certa mia villa, non molto discosta dalla Città, di tempo in tempo facendo qualche dimora, espongo agli occhi del Pubblico alcune tragiche rappresentazioni; e dall’affollato vario concorso, e dal pianto degli spettatori mi compiaccio di veder quelle applaudite... 2.
E poco oltre, quando si ricorda la scelta proprio della Fedra, di questa tragedia «combattuta», cosi poco adatta a venir rappresentata per l’eccessività dei caratteri e degli eventi: La eletta leggiadra ed eccellente Compagnia di [...] Giovani, che si compiaccion di recitar meco nella mia villa, non esitò punto nella scelta di questa combattuta Tragedia; e siccome fra essi non avvi disuguaglianza di sesso, cost difficilmente accade, che nasca disparità d’opinione. Impresi a tradurla; ne feci la distribuzione delle parti; e al destinato tempo m’accinsi ad esporla. E inutile ch’io tenti descrivere la folla degli Ascoltanti, gli applausi ottenuti, e l'immancabile alternativa di compassione e di terrore, che in ognuna delle rappresentazioni vedevasi risvegliata.
Ma la densa verità di vita e di mondo che si poneva a monte delle traduzioni contenute nell’opera si trova massi21 Ibidem, vol. I, p. 213. 22 Ibidem, vol. I, pp. 8 ss. Cost per la citazione che segue.
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M. Cerruti
mamente restituita da una pagina del Proemzio composto ancora per il Polieuto da Agostino Paradisi: Se questa edizione presso i cortesi Leggitori verrà ben accolta essi ne debbono riferire il merito al valoroso Sig. Marchese Francesco Albergati. Egli, oltre l'aver somministrato del suo i materiali di un Volume, ha fatto ancor nascere le mie versioni, le quali io non avrei scritte, se non avessi saputo che egli dovea farle rappresentare. Le Muse Tragiche non hanno in Italia favoreggiatore pit fervido, e liberale di lui. Il suo villereccio palazzo di Zola è quasi ogni anno aperto agli spettacoli teatrali, e per esso servirono per la più parte le Tragedie, che abbiamo aunate in questi due volumi. Né luogo vi può essere più magnifico di quell’edifizio, che spira assai più della sontuosità Principesca, che della splendidezza di Cavaliero facoltoso; né pit abili attori, né più scelti uditori ponno altrove sperarsi. Tutto in Zola è grandioso, tutto è ottimo. Le stesse recite, quasi non sieno trattenimento bastevole, sono seguite da un lungo ballo, che empiendo il rimanente della notte offre un gentile divagamento allo spirito 23 ° .
Forse non solo per il gusto dei due traduttori di far conoscere anche qualcosa di proprio il terzo tomo, apparso come s’è detto nel 1768, terminava con la tragedia originale del Paradisi, G4 Epitidi, e con la «commedia in prosa» di Francesco Albergati L’azzor finto, e l'amor vero. E possibile, si vorrebbe ritenere, che con questa scelta che interveniva a modificare la struttura e la specificità stessa dell’opera (pensata, si ricorderà, come raccolta di sole traduzioni), i due
autori intendessero segnalare con elegante reticenza le due diverse vie su cui s'erano ormai incamminati, verso la metà
degli anni Sessanta, come scrittori di teatro. L’Albergati, pur fra varie incertezze e timidezze, verso quel tipo di commedia critico-realistica di ascendenza goldoniana (non a caso L’amor finto, e l’amor vero reca una dedica al Goldoni, che da non molto si era stabilito in Francia), e con intense
aperture in direzione del «flebile», che resta ancora da studiare, ma di cui già la più sensibile cultura teatrale del tardo Settecento avverti la vitalità e il rilievo (penso ora in particolare ai Ragionamenti del moderno teatro comico italiano e del suo restauratore Carlo Goldoni di Giovanni Gherar23 Ibidem, vol. I, p. 109.
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do De Rossi, usciti a Bassano nel 1794). Il Paradisi invece
esplorando la possibilità di un testo tragico in cui la sublimità antica, che sempre più fra questi anni Sessanta e i Settanta viene esercitando un fastino sottile, risultasse come
filtrata e resa meglio appetibile a uno spettatore contemporaneo dalla mediazione di autori recenti, che in modo specialmente felice e con sensibilità moderna parevano aver trattato — esser riusciti ancora a trattare — una materia greca o romana: i tradotti appunto Corneille, Crébillon, Racine, Voltaire, ma anche un Carlo De Dottori o il Metastasio. Fra l’altro, nella dedica, premessa con le altre prose che si son variamente richiamate alla traduzione del Polieuto, al
marchese Andrea Cortese, gentiluomo di camera del Duca di Modena, egli afferma esplicitamente (e si è nel ’64) di star proseguendo «la via del coturno» e di «tentar quel lauro, che pare [...] disdetto agl’Italiani»: Le mie liriche produzioni hanno trovato da sf gentili giudici [=i molti letterati di Modena, fra cui il più noto Cassiani] grazioso accoglimento. La mia tragedia degli Epitidi è stata letta nella lor dotta assemblea adunata in vostra Casa, ove le Muse hanno gradevole e perpetuo ricovero, e non essendo colà spiacciuta del tutto, se ne è ritornata a me con un fregio luminoso, e mi ha recato un valido incitamento a proseguir la via del coturno, e tentar quel lauro, che pare, non so per qual disavventura, disdetto agl’Italiani 24.
La disinvoltura nella pratica di traduttore acquisita nei confronti degli originali, la facilità nel muoversi fra mondi poetici assai diversi, il gusto di valersi dei testi della tradizione tragica pit recente a fini di spettacolo, e infine la più che probabile difficoltà a «inventare», tutto questo finiva però per giocare al Paradisi qualcosa come un brutto scherzo. La composizione degli Epitidi, iniziata come s’è visto nel ’60 e durata presumibilmente alcuni anni, si risolveva infatti in non più che una neppur troppo accorta contazzinatio di almeno tre testi di fondamentale riferimento: l’Aristodemo di Carlo De Dottori, di recente riproposto dal Maffei, la Iphigénie di Racine, il Derzofoonte del Metastasio: un
24 Ibidem, vol. I, p. 103.
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M. Cerruti
«lavoro di mosaico», come ha dimostrato con benevola e
però anche definitiva implacabilità il Cavatorti — in anni molto attenti, sia pur con tutti i limiti che non ignoriamo, alla questione delle fonti — «ih modo che se volessimo restituire ogni pezzo dove fu tratto, non ne resterebbe che poco o nulla» 5. Di qui certe immediate accuse, o almeno mormorazioni ,di plagio, l’imbarazzo degli amici, le mani avanti messe dal Paradisi, nella premessa A/ /eggitore del °68, circa i rapporti degli Epitidi con in particolare l’Aristodemo, e sempre in questa premessa l'ammissione, forse non solo di maniera, della «mediocrità» della tragedia. Siamo ormai alla fine degli anni Sessanta. Lasciata cadere l’idea, che era maturata subito dopo la prima stesura degli Epitidi, di una tragedia di argomento storico-nazionale, I vespri siciliani, il Paradisi non depone l’esercizio della poesia, ma limitandolo, su una linea già avviata con le ottave carnascialesche che s’intitolano I/ trionfo del Vello d’oro. Mascherata
rappresentata
a Reggio
il Carnevale
dell’anno
1762, a una pratica di versificazione prevalentemente giocosa e strettamente legata, e a volte anche in funzione delle abitudini di vita della società estense in questi ultimi anni dell’Antico Regime: cosi La contesa. Serenata da cantarsi nell’isola della Vasca presso Rivalta, del ’76, o, del ’79, Il Faraone. Poemetto giocoso. Maturava allora però anche la scelta, di cui l’orazione del ’72 da cui ho preso l’avvio può anche apparire una sorta di manifesto, di inoltrarsi, e con crescente determinazione, sul cammino della «filosofia»: incominciava insomma a meglio definirsi quell'immagine di Agostino Paradisi ricuperata dal Venturi una ventina d’anni fa. Si sa che sarebbe morto ancor giovane, neppure cinquantenne. Mi pare notevole, a segno della sensibile maturazione vissuta dalle élites fra alto-borghesi e nobiliari negli anni di crisi dell’ Antico Regime, che di lf a poco il figlio di
2° Cfr. G. Cavatorti, op. cit., p. 210 ss. 26 Sempre il Venturi ricorda, nel Ritratto cit., una recensione all'edizione luc-
chese dell’Encyclopédie pubblicata nel maggio del 1759: una maturazione dunque, senza dubbio, graduale.
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L'esperienza teatrale di Agostino Paradisi
Agostino, Giovanni Paradisi, scrivesse un non banale «sag-
gio politico», Delle cause principali della mendicità di Reggio, il cui manoscritto reca la data 14 marzo 1789”. TI
27 Ma già Venturi notava, art. cit., p. 738: «Le carte d’ufficio di Paradisi, tra il 1780 e il 1783, ci dimostrano lo zelo con il quale egli cercò di alimentare l’istruzione locale e con cui tentò [...] di far rivivere un centro di cultura universi-
taria a Reggio, facendo leva sulla necessità di educare sul posto un clero tutto animato da sentimenti anticuriali ed una classe dirigente tutta impregnata di scienze moderne, di filosofia e di giurisprudenza. Tre lustri più tardi, mutata la situazione, questi tentativi, queste aspirazioni si tradurranno in forme politiche. Dalla ribellione di Reggio contro Modena avrà inizio la repubblica Cispadana. E uno di coloro che parteciperanno al moto sarà Giovanni Paradisi, figlio di Agostino».
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ROBERTA
TURCHI
Amici per il teatro: Francesco Albergati Capacelli e Agostino, Paradisi
L’Archivio di Stato di Bologna e la Biblioteca Municipale «A. Panizzi» di Reggio Emilia conservano gran parte del carteggio tra Agostino Paradisi e Francesco Albergati Capacelli; si tratta di 197 lettere distribuite tra il 1760 ed il 1779. La busta 271 dell'Archivio Albergati, s. IX, raccoglie 154 lettere autografe del Paradisi (28 gennaio 1760-18 mar-
zo 1766), una parte delle quali (n. 80) fu donata in copia da Ettore Morini alla Biblioteca Municipale reggiana il 17 marzo 1908 (Mss. Regg. E 141). Il fondo manoscritti della
Biblioteca «Panizzi» ci tramanda alcune delle lettere inviate da Francesco Albergati Capacelli al suo amico reggiano: i Mss. Regg. E 140/1 raccolgono 40 lettere (Bologna 4 agosto 1760 - s.l.,, 5 maggio 1779), mentre alla collocazione Mss. ‘ Regg. B 448/6 risultano tre lettere scritte dal nobiluomo bolognese il 21 marzo 1761, il 25 febbraio 1762 e il 21 novembre 1770. La corrispondenza, particolarmente fitta tra il 1760 ed il 1766, è testimonianza di un sodalizio intellettuale sorretto ed alimentato dall’interesse per il teatro. La prima prova pubblica di questa amicizia è documentata dall’elogio dell’ Albergati redatto da Giuseppe Antonio Taruffi e premesso all'edizione bolognese dei Versi sciolti di Agostino Paradisi. Il Taruffi, che aveva istruito l’Albergati nelle lingue straniere, oltre a ricordare, in quella circostanza, la «facile alternazione» con cui il suo discepolo passava dal francese, all’inglese, al tedesco, non dimenticava
di
menzionare la traduzione della Fedra di Racine, rappresentata nell'estate del 1761 nel «magnifico palazzo di Zola»!. 1 «La Fedra da voi tradotta in verso sciolto, e spiritosamente rappresentata nel vostro magnifico palazzo di Zola gran parte ritenne delle originali bellezze, e produsse quell’impressione d’affetti, che l’incomparabile Racine eccitò tante vol. te sulle scene di Parigi [...]. E rivolgendo poi l'applicazione vostra alle lingue moderne, che si parlano dalle pulite nazioni, metodicamente le disponeste nella me-
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R. Turchi
La passione per il teatro del bolognese Albergati è nota; generata da un fecondo humus familiare e cittadino, lo indus-
se a costruire nella residenza estiva di Zola Predosa una sala privata, capace di trecento spettatori e a fondare e presiedere in Bologna il teatro accademico dei Ravvivati dal quale era esclusa la nobiltà e dove egli stesso recitava con la sua troupe, rinunciando al titolo nobiliare 2. L’attività teatrale, esercitata da lui nella veste di un dilettante di alto livello, lo portò a stabilire e a cercare rap-
porti con i pit illustri uomini del suo tempo. Il nome dell’Albergati compare nei Méroîres e nell’epistolario di Carlo Goldoni, nelle lettere di Vittorio Alfieri, nonché nei
volumi della Correspondance di Voltaire. La presenza, poi, nel suo cospicuo archivio privato, delle lettere della maggior parte degli autori drammatici, attivi nella seconda metà del Settecento, basta da sola per confermarci che l’Albergati fu punto di costante riferimento per quanti si dedicarono all’arte delle scene negli anni successivi all’esperienza goldoniana. Da Roma Giovan Gherardo De Rossi (1754-1827),
autore di commedie di costume e dei «ragionamenti» tenuti in Arcadia Del moderno teatro comico e del suo restauratore Carlo Goldoni, (Bassano, Remondini, 1794), discuteva con lui sul teatro lacrimoso?; con lui carteggiava il livornese Giovanni De Gamerra (1743-Vicenza 1803), impegnato a Napoli nel progetto di stabilimento di un «Teatro nazionale tragico e comico»; a lui Alessandro Pepoli (1757-1796) inviava i suoi Tentativi dell’Italia (Parma, dalla Stamperia Reale, 1783) e le sue tragedie scritte in concorrenza con quelle alfieriane (pensiamo al Dor Carlo, composto in antamoria, e la diversa sintassi sagacemente ne discerneste. Il vostro stil franzese ha meritato la gloriosa approvazione del chiarissimo signor di Voltaire, e la vostra bravura nel libero idioma inglese sarebbe ammirata dal non meno celebre signor Hume. I più difficili scrittori tedeschi vi sono familiarissimi: ed è cosa sorprendente il vedervi passar senza sconcio, e con facile alternazione dall’una all'altra di queste lingue», dalla lettera dedicatoria a Francesco Albergati Capacelli, composta da G.A. Taruffi e premessa ai Versi sciolti del signor Agostino Paradisi nobile reggiano, Bologna, a S. Tommaso d'Aquino, 1762, pp. vi-vi. ? Cfr. E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati Capacelli, Bologna, Zanichelli, 1878. 3 Cfr. Id., I drammi lagrimevoli, in Parrucche e sanculotti nel secolo XVIII, Mi-
lano, Treves, 1886, pp. 119-140.
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Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi
gonismo al Filippo e bollato dal distico: «Filippo, abbozzo sudicio qual sei / D’ogni pepoleo Carlo rider dei») ‘. L’Alfieri stesso vedeva realizzate nel teatro dell’ Albergati le condizioni per la messinscena delle sue tragedie; tant'è vero che gli inviò le note per la regia del Filippo? e rese omaggio al suo impegno interpretativo indirizzandogli una copia della prima redazione del Parere sull'arte comica in Italia, recentemente rinvenuta tra le carte della raccolta
Tognetti conservate presso la Biblioteca dell’ Archiginnasio di Bologna‘. Tra tanti non mancò chi, come Giacomo Casanova, fu
sarcastico nei confronti dell’ Albergati al punto di demolirlo in uno degli incontri avuti con Voltaire, nel 1760, al tempo
della sua visita a Ferney: — Connaissez-vous, me dit-il, le marquis Albergati Capacelli, séna-
teur de Bologne, et le comte Paradisi? 4 V. Alfieri, Filippo. Tragedia I, prima edizione a stampa, Siena, 1783. Esemplare con correzioni autografe dell’autore ‘conservato presso la Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze; Alf. postill. 2 (il distico contro il Pepoli è vergato sul frontespizio). Insieme al Filippo è rilegata, fra l’altro, La gelosia snaturata o sia D. Carlo infante di Spagna, tragedia del conte Alessandro Pepoli con tre lettere sopra le prime quattro tragedie del conte Alfieri, la prima delle quali è la proposta del conte Pepoli al Consigliere imperiale Sig. Raineri de’ Calzabigi, la seconda è la risposta dello stesso, e l’ultima la contro risposta del primo coll’offerta della presente tragedia, Napoli, 1784. A p. 188 del testo pepoliano, alla fine del quinto atto, annotava l’Alfieri di suo pugno: «Questo buon signore sopravvissuto di molti anni a questa, ed a tutte le altre opere sue, cessò interamente di vivere in Firenze il di 12 dicembre 1796. Dio l’abbia in gloria. Vittorio Alfieri gli perdona tutto il male che non gli ha potuto fare; e la posterità gli perdonerà tutto il male ch'egli ha fatto a se stesso; né dell’un né dell’altro si terrà conto». E pit sotto con altro inchiostro: «Qualch’anno dopo la di lui madre gli fece poi porre un mausoleo nella Chiesa di S.a Trinita in Firenze, la di cui Iscrizione meriterà d'esser letta, più assai che le di lui opere». Intorno al 1780, a Venezia, Alessandro Pepoli
fondò insieme con l’Albergati Capacelli e con Francesco Zacchiroli «un’accademia di declamazione teatrale, col titolo di Ardenti», le rappresentazioni si tenevano «a S. Sofia nel palazzo detto la Ca” d'Oro»; poco dopo, verso il 1785, lo stesso Pepoli stabili a S. Vitale, nel palazzo della famiglia Cavalli, un’altra Accademia teatrale detta dei Rinnovati; cfr. M. Battagia, Delle accademie veneziane. Dissertazione storica, Venezia, Picotti, 1826, pp. 100-102.
> Cfr. V. Alfieri, Lettera a F. Albergati Capacelli, 12 settembre 1795, in Epistolario, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1981, vol. II (1789-1798), pp. 172-173.
6 Cfr. R. Turchi, La primza redazione del «Parere sull'arte comica in Italia» di Vittorio Alfieri, in «Giornale storico della letteratura italiana», vol. CLX, fasc.
510, 1983, pp. 272-279.
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R. Turchi
— Je ne connais pas Paradisi, mais de vue et de réputation M.r Albergati [...].
— Le connaissez-vous? — Non, mais il m’envoie le théàtre de Goldoni, des saucissons de Bologne, la traduction de mon Tancrède, et il viendra me voir.
— Il ne viendra pas: il n’est pas si béte. — Comment béte? Il est vrai qu’il y a de la bétise à me venir voir. — Je parle d’Albergati. Il sait qu'il y perdrait, car il jouit de l’idée que peut-étre vous avez de lui. Il est sùr que s’îl vient, vouz verrez son rien ou son tout, et adieu illusion. C'est d’ailleurs un bon gentilhomme qui a six mille sequins de rente, et la théatromanie. Il est bon acteur, et auteur de comédies en prose, qui ne font pas rire. [...] — Le marquis Albergati est sans doute homme de lettres. — Il écrit bien dans sa langue qu’il sait; mais il ennuie le lecteur, parce qu’il n’est pas concis. Sa téte d’ailleurs est démeublée ”.
AI di là delle malignità velenose del Casanova, interessa notare come per Voltaire il nome dell’Albergati formasse un binomio inscindibile con quello del Paradisi. Sia attraverso l’Albergati medesimo, sia attraverso le lettere di Francesco Algarotti, Voltaire era a conoscenza delle traduzioni eseguite dal Paradisi del Cesare, del Tancredi e del Maometto, approntate per il teatro di Zola, e lui stesso il 4 dicembre 1758 aveva suggerito all’ Albergati le soluzioni da adottare per la rappresentazione della Serziramzide che si sarebbe tenuta nell’estate successiva. Il problema maggiore da un punto di vista registico e scenografico, era dato dalla presenza in scena dell’ombra di Nino e Voltaire veniva in soccorso alle difficoltà comunicando all’Albergati la propria esperienza. A Parigi l’effetto «terrible; quand tout est bien disposé» era stato conseguito sistemando «l’ombre dans un coin, au fond du théatre, elle montait par une estrade sans
qu’on la vît monter; elle était entourée d’une gaze noire: tout dépend de la manière dont sont placées les lumières»*. Nel primo atto, poi, gli raccomandava di non far udire i gemiti dell’ombra, dal momento che lo spazio ristretto di un ? J. Casanova, Histoire de ma vie, édition intégrale, Wiesbaden, Brockhaus,
1960, vol. VI, pp. 239-240.
8 Dalla lettera di Voltaire a F. Albergati Capacelli, aux Délices, 4 de décem-
bre 1758, in Voltaire, Correspondance, ed. Th. Bestermann, Paris, Gallimard, 1980, vol. V (janvier 1758-septembre 1760), p. 274.
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Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi
teatro privato avrebbe pregiudicato la verosimiglianza e lo | re sarebbe degenerato, inevitabilmente, nel ridico0°.
A parte la Serziramide, per la quale l’Albergati usufruf
della traduzione di Domenico Fabri !, le versioni delle tra-
gedie voltairiane, cioè del Tancredi, del Maometto, della Morte di Cesare, furono tutte approntate, come abbiamo detto, dal Paradisi. E l’Albergati non mancava di sollecitare l’amico affinché lo soccorresse con tempestività. L’8 giugno 1761, ad esempio, lo pregava di concludere rapidamente la traduzione del Maometto, giacché il testo doveva essere distribuito per tempo «a questi dilettanti, che pensano rappresentare tale opera nel venturo carnevale» !!. Poco prima,
il 26 aprile, gli aveva fatto sapere che «a decembre cominceremo lentamente e comodamente le nostre prove» 2. Sono precisazioni da non trascurare in un discorso sul teatro del Settecento; non sono puntigli o capricci di uno spirito bizzarro e pedante, poiché dietro questa scansione dei tempi c’è un modo di concepire la scena, c’è la distanza tra teatro pubblico e teatro privato, tra teatro di autore e teatro dei comici. La scelta dell’Albergati di tenere un proprio laboratorio di teatro non era tanto un omaggio ad un antico costume, familiare o cittadino che fosse, ma era radi-
cata a fondo nella questione teatrale del Settecento. Si collocava, cioè, all’interno di un vasto problema, già tracciato ? «Vous me demandez, Monsieur, si on doit entendre, au premier acte les gémissements de l’ombre de Nirus. Je vous répondrai que sans doute on les entendrait sur un théàtre grec cu romain; mais je n’ai pas osé le risquer sur la scène
de Paris, qui est plus remplie de petits-maîtres francais en talons rouges, que de héros antiques. Je ne conseillerais pas, non plus, qu’on hasardàt cette nouveauté
sur un petit théàtre resserré, qui ne laisse pas de place è l’illusion», ibiderz. 10 Domenico Fabri (Bologna 1710-1761), sacerdote, ebbe l’incarico da Benedetto XIV di insegnare retorica nel seminario di Bologna. Dal 1727 ottenne dal senato la cattedra di belle lettere; fu, negli ultimi anni della sua vita, secondo bi-
bliotecario della Biblioteca dell’Istituto. Fu autore di orazioni sacre, di lettere familiari, di rime per nozze e per monacazioni. Notizie in G. Fantuzzi, Notizie de-
gli scrittori bolognesi, Bologna, nella Stamperia di S. Tommaso d'Aquino, 1783, t. III, pp. 280-281.
1l 1761; 12 Regg.
Dalla lettera di F. Albergati Capacelli ad A. Paradisi, Bologna 8 giugno Biblioteca Municipale di Reggio Emilia (= BMRE), Mss. Regg. E 140/1. Dalla lettera dello stesso allo stesso, Bologna 26 aprile 1761; BMRE, Mss. E 140/1.
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nelle sue linee portanti da Scipione Maffei, nel 1723-1725, con la premessa alla raccolta del Teatro italiano, e destinato ad attraversare tutto il secolo XVIII, fino all’illuminismo, fino all’Alfieri, fino ai giacobini, fino a quando, cioè, ormai
in età napoleonica, non sarebbe stato imposto il Regolazzento imperiale dei teatri (8 giugno 1806). L’idea di Pietro Verri di una compagnia comica di stato, di un teatro protetto da un sovrano illuminato !, infatti,
si sarebbe compiuta soltanto nel 1807, quando a Parma, sotto il governo di Maria Luigia, si formò una compagnia ducale stabile, diretta da Romualdo Mascherpa, e contemporaneamente a Milano, per volontà di Eugenio Beauharnais, sorse la compagnia vicereale, celebre per avere a sua guida Salvatore Fabbrichesi !*. Durante tutto il Settecento, fatta eccezione per la parentesi giacobina, rimase vivo il dilemma tra teatri prezzolati e sale private. La crisi delle compagnie comiche, sempre più sprovviste degli eredi del grande patrimonio dell’arte (Antonio Sacchi, Cesare Darbes, Atanagio Zanoni furono, come si sa, tra le poche eccezioni) e la resistenza degli attori ad accettare un nuovo modello professionale e ad imparare i testi a memoria (cfr. I/ teatro comico del Goldoni) allontanarono dal teatro pubblico molti uomini colti e molti autori decisi a difendere le loro opere dalle manipolazioni dei comici. L’idea di un teatro di autore, all’interno del quale il testo drammatico fosse recitato correttamente, fosse rispettato nella sua integrità e fosse rappresentato secondo le intenzioni
dello
scrittore
(vedi le lettere
del Voltaire
e
dell’ Alfieri all’Albergati), con scene e con costumi storicizzati, favori il teatro privato. Esso garantiva la possibilità di programmare gli spettacoli, di prepararli con la cura neces13 Cfr. Lettera di Pietro ad Alessandro Verri, Milano, 19 agosto 1778, in
Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Seregni, Milano, Giuffrè, 1910-1942, vol. X, pp. 54-57. Si veda in proposito S. Romagnoli, Teatro e recitazione nel Settecento, in Orfeo in Arcadia. Studi sul teatro a Roma nel Settecento, a cura di G. Petrocchi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1984, pp. 25-38.
14 Sulla fondazione di compagnie stabili in età napoleonica si veda F. Doglio, Il teatro patriottico nel Risorgimento, saggio premesso al volume da lui curato Teatro e Risorgimento, Bologna, Cappelli, 1972, p. 17 e L. Sanguinetti, La compagnia
reale sarda (1820-1855), Bologna, Cappelli, 1963, pp. 7-25.
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saria, proprio perché ignorava le scadenze pressanti con il pubblico pagante e il vincolo dei contratti con gli impresari, di modo che il dilettante, al contrario dell’attore comico
professionista, poteva anche «divertirsi parecchi mesi per una sola commedia», come puntualizzava Carlo Goldoni riferendosi all'esperienza teatrale del napoletano barone di Liveri nella premessa del Filosofo inglese”. L’impresa, tuttavia, era costosa e richiedeva una grande disponibilità economica, tanto da dissuadere lo stesso Alfieri dal progetto di impiantare una propria compagnia. Nel teatro bolognese dell’ Albergati le rappresentazioni si avvicendavano con regolarità dal carnevale fino a maggio nei giorni stabiliti del lunedî e del giovedî, e riprendevano, dopo una breve pausa, nell’estate, durante il soggiorno in villa. Nel 1761, però, l'ammontare delle spese segnò un arresto nel ritmo delle recite. «Sono in necessità di farle una confidenza, che riguarda il mio divertimento di Zola — scriveva l’Albergati al Paradisi il 26 aprile 1761. Le accademie da me fatte nella scorsa Quaresima e le commedie
che ora si recitano da me in Bologna hanno sbilanciato alcun poco le mie misure economiche, onde per quest'anno tralascio assolutamente le tragedie di Zola. Per l’anno venturo non mancheranno: anzi lascio fuori le parti, distribuite come sono, e a decembre cominceranno lentamente e comodamente le nostre prove. Le commedie, che ora recito, si
fanno in casa di un cavaliere, il quale gentilmente dà il teatro, l'orchestra, l'illuminazione, e alcune altre piccole cose:
ma siccome la compagnia che recita è composta di due soli cavalieri, uno de’ quali non può spendere, cosi a me è toccata tutta la spesa di molte tele dipinte pel teatro, di tutto il bisognevole pel vestiario, massime di tre dame, in fine di tutti i regali che conviene compartire ai recitanti non nobili, ma artigiani» !0.
15 C. Goldoni, L’autore a chi legge, premessa a I/ filosofo inglese, in C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1941, vol. V, pp. 264-265.
16 Dalla lettera di F. Albergati Capacelli ad A. Paradisi, Bologna, 26 aprile 1761, cit.
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«Nemicissimo di convenienze cerimoniose e d’impicci in gravi affari» !”, l’Albergati si sottrasse agli incarichi pubblici per dividere il suo tempo tra gli studi, le piacevoli compagnie, i «teatri», le «recite» e gli «spettacoli». Nel 1767 fissò la dimora a Verona proprio per «troncare il filo d’ogni noiosa cura», per allontanarsi da quelle «cariche senatorie» che lo avrebbero voluto a Bologna come Gonfaloniere di giustizia per il terzo bimestre dell’anno !8. Il rifiuto degli impegni politici nasceva in lui, con tutta probabilità, dal distacco verso l’amministrazione pontificia, ma la critica dell’Albergati nei confronti dell'apparato statale non fu mai apertamente dichiarata (per lo meno da quanto ci risulta) e non si tradusse nella proposta di riforme come fu, invece, per i Verri e per il Beccaria che si trovarono ad agire in un ambiente diverso, in un terreno ben più favorevole ad accogliere le loro istanze innovatrici. Le vicende private indussero l’Albergati a concentrare il proprio interesse intorno al rinnovamento dei costumi; l’esperienza delle nozze contratte, appena diciannovenne, con la contessa Teresa Orsi per ubbidire alla volontà paterna e la lunga pratica avviata presso il pontefice Benedetto XIV per ottenere il divorzio !° furono episodi per lui decisivi. Da allora ricercò nel teatro e nella letteratura lo strumento per affermare il diritto dell'individuo di essere padrone di se stesso, di adottare un proprio stile di vita, di amare e di sposarsi secondo le proprie inclinazioni. Fu il tema del Saggio amico, una commedia dove si tratta, fra l’altro, dell'educazione femminile 2°, del Prigioniero, una pièce 17 Dalla lettera di F. Albergati Capacelli a Elisabetta Caminer, [s.l. e s.d., ma Verona, tra il 9 e il 22 aprile 1769], la n. 18 delle Lettere di F.A.C. alla Bettina
(Nov. 1768-Nov. 1771), pubblicate da R. Trovato in «Studi e problemi di critica testuale», vol. XXVIII, aprile 1984, p. 122. 18 Dalla lettera dello stesso alla stessa, Verona, 24 aprile 1769, ibiderz, p. 124.
19 Il matrimonio, celebrato il 18 febbraio 1748, fu annullato, con decreto pontificio, nel luglio 1751. La moglie fu costretta a ritirarsi in convento. Il fatto è narrato dallo stesso Albergati nella lettera alla Caminer da Verona, 2 maggio
1769, ibidem, pp. 127-129. Si vedano alle medesime pagine le note del Trovato e si consulti lo studio già citato del Masi.
20 Nel Saggio amico domina la figura della contessa Eleonora Ripoli, la quale rivendica il diritto delle donne di scegliere il proprio stato civile. Di fronte alla
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larmoyante che vinse nel 1773 il premio della Deputazione teatrale di Parma?!, di alcune delle Lettere capricciose, scrit-
te a quattro mani con lo Zacchiroli ?, nonché della corrispondenza privata con Elisabetta Caminer Turra, la celebre traduttrice veneziana che avrebbe desiderato sposare nonostante la diversità dello stato sociale: «Venghiamo alle leggi del mio paese, che vi accennai — le scriveva da Verona il
24 aprile 1769. Un cavaliere che sposi una donna non nobile resta degradato dalla nobiltà sf egli che tutta la sua discendenza. Che guai! che disordine! che danno! non è egli vero? Io non lo stimo un fico. Credetemi: denari, modi per farsi amare, talento atto ad occupar bene le ore, qualche luogo di delizia in villa, sufficiente casa in città, comodi
d’ogni genere compensano la grave perdita; e quando si può dare pranzi, cene, spettacoli, facilmente le genti si scordano
‘ del grave fallo, e benché la legge non cangisi, pure pochissimo si accorge della sua asprezza. Nulladimeno ciò che mi spaventa è il rumore che si eccita nel succedere tai matrimoni, e li parenti non mancano mai di vessare» ?.
In queste espressioni dell’ Albergati e in altre ricorrenti nelle lettere alla Caminer? è dato individuare aspirazioni
giovane Lucinda, innamorata di Valerio e decisa a chiudersi in convento qualora
il suo promesso preferisca a lei Chiara Pelarini, una «cantatrice», la nobildonna afferma con forza nuove massime di vita: «Le massime fondate sulla tirannia, sulla ingiustizia, non possono sostenersi, e agevolmente si abbattono. Si domanda
ad una misera fanciulla: Vuoi marito? Non signore. Dunque vuoi ritirarti dal mondo? Non signor; neppur questo. Ma non c’è mezzo... Come non c’è mezzo, direi allora? Non possiamo come voi altri uomini, viver libere; viver sagge, oneste, frequentando le civili conversazioni, intervenendo ai ben regolati spettacoli? [...]», da I/ saggio amico (II,7), in F. Albergati Capacelli, Opere, Venezia, Palese, 1783: te n1VE
21 Qui è protagonista Roberto Andolfi, figlio del marchese Eugenio. Il giovane si trova in carcere perché ama Doralice, figlia di un mercante, e vuole sposarla. Dopo varie peripezie la situazione si scioglie grazie all’intervento del principe, un vero e proprio deus ex machina che sistema felicemente le cose provvedendo «a dichiarar contessa Doralice,/Conte suo padre» (V, scena ultima), in F. Albergati Capacelli, Opere, cit., t. II. 22 Ibidem, tt. IX e X. 23 Dalle Lettere di F.A.C. alla Bettina ecc., cit., in «Studi e problemi di critica testuale», pp. 124-125. 24 «Sono padrone di me stesso; ho vent'anni di più; amore è che mi fa fare la scelta; lo spirito e il vero merito, come già dissi, sono che m’innamorano», dalla lettera da Verona, 9 maggio 1769, ibidem, p. 133. «Sî, cara ed amabile Bettina,
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comuni a tutta una generazione di illuminati uomini di cultura. Il desiderio di contrarre liberamente le nozze, di colti-
vare gli affetti domestici, di bandire «per sempre ogni ombra di galanteria» dal «menage quotidiano», di unifor-
marsi in tutto, senza escludere la funzionalità delle abita-
zioni e degli arredi 7, a un modello di vita non più nobiliare, ma che si potrebbe dire alto borghese, ebbe nelle pagine di Cesare Beccaria e di Pietro Verri meditata espressione. Il primo, dopo l’aspro screzio con i parenti a causa del matrimonio con Teresa Blasco, portò fin nelle pagine del Dei delitti e delle pene l’istanza di un rinnovato diritto di famiglia, che liberasse i figli dall’esercizio di una opprimente patria potestas 8, l’altro con il «Manoscritto» per Teresa ci ha lasciato la testimonianza di un’esperienza famigliare condotta con impegno «non inferiore a quell[o] impiegat[o] per le [...] vi desidero ardentemente tutta mia. Non sono un seduttore no. Sono un uomo onesto, sincero e innamorato [...]», dalla lettera da Verona, 24 maggio 1769, ibidem, p. 140. 25 Dalla lettera dello stesso alla stessa, Verona, 20 maggio 1769, ibidem, p. 138. 26 G. Barbarisi, Introduzione a P. Verri, «Manoscritto» per Teresa, Milano,
Serra e Riva editori, 1983, p. xx1. 27 Diceva l’Albergati alla Caminer illustrandole le qualità che avrebbe dovuto possedere la sua futura dimora a Venezia: «Un paio di camerette in casa d’oneste persone; un ottimo e pulitissimo letto per camera; altri pochi indispensabili mobili, come a dire careghe, tavolini, armari; buona situazione, e se si può, non lungi dal gloriosissimo S.t Angiolo, sarebbero il caso mio [...]», dalla lettera da Verona del 20 maggio 1769, in «Studi e problemi di critica testuale», cit., p. 138. Altrove e comunicava il tipo di vita a lui più congeniale: «Cara Bettina, parliamo un po” chiaro. Io in Venezia voglio fare vita tranquilla e ritirata. Non voglio nuotare assolutamente nel sangue nobile. Non voglio Casini. Non voglio addossarmi doveri di visite e di controvisite. Non voglio, come forestiere, soffrire presentazioni né attive né passive. Nel giorno molte saranno le ore che starò in casa, massime ne’ giorni caldi, e la sera avevo stabilito di passarla quasi sempre da voi [...]», dalla
lettera da Bologna del 25 luglio 1769, ibiderz, p. 159. Si veda su questo tema anche una testimonianza degli inizi del secolo: P.J. Martello, I/ vero parigino italiano (1718) in Scritti critici e satirici, 336-344.
a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp.
28 «Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi [...]. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi», C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, par. XXVI (Dello spirito di famiglia), a cura di F. Venturi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 56-57.
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battaglie pubbliche» 2°. AI pari di loro, lo stesso Albergati, per quanto sostenuto da una minore tensione intellettuale, fu animato dalla volontà «di calare nella vita quotidiana della famiglia i principî della‘ideologia, rompendo coi modelli del passato [...]» 39, Agostino Paradisi non mancò di allietare le giornate di Zola con le sue versioni e con la sua presenza. Il gruppo di tragedie voltairiane che tradusse per il teatro dell’ Albergati costituf il primo nucleo della Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto italiano (Liegi, [ma Modena], Soliani, 1764-1768, tt. 3). Nella lettera del 28 otto-
bre 1761 il senatore bolognese invitava l’amico reggiano a raccogliere in un volume il Cesare, il Maometto, il Tancredi insieme con la versione del Po/lieuto di Corneille destinata alle recite del carnevale 1762. Ma nell’autunno del ’61 l’Albergati mise mano all’Ifigeria di Racine? e il Paradisi pensò di ampliare la proposta originale includendo nel piano tutte le tragedie francesi che fossero servite alle scene del teatro di Zola”. L’Albergati accolse l’invito non senza esitazione: «Circa le mie traduzioni —
si scherniva il 22
aprile 1762 — non ho che soggiungere, fidandomi interamente di lei. E impossibile ch’io pensi mai a stamparle. Ho mille ragioni che mi tratterrebbero dal farlo, né so vedere pur una che mi vi inducesse. Sono fatte per mio uso, e pel ‘mio solo teatro, ove riuscendo passabilmente, quando sono 29 G. Barbarisi, Introduzione a P. Verri, «Manoscritto» per Teresa, cit., p. XIX.
30 Ibidem. 3 «Sarà molto vaga la raccolta di sue traduzioni. Il Cesare, il Macometto, il Tancredi, ed il Pollieuto la renderanno pregevolissima: io per altro gliene suggerirei altre due, e cosi sarebbe il tomo più ricco e copioso: la Zaira di Voltaire, e quella che, tempo fa, le dissi, che le avrei dato a tradurre in versi martelliani», BMRE, Mss. Regg. E 140/1. 32 «Legga, compatisca e corregga il primo atto dell’Ifigenia che le invio», dalla lettera di F. Albergati Capacelli ad A. Paradisi, Bologna, 23 novembre 1761, ibidem. 33 «[...] se ella pensasse mai di dare a luce questa sua versione, nel che non troverei ripugnanza, essendo molto migliore della Fedra, converrebbe riandarvi sopra di nuovo con diligenza maggiore, e con pit scrupolosa disamina rimondarla da que’ nei, che possono tuttavia rimanervi. Ma quanto al recitarsi pare a me che la presente correzione sia di vantaggio», dalla lettera di A. Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 19 aprile 1762, Archivio di Stato di Bologna (= ASBo), Archivio Albergati, s. IX, b. 271.
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rappresentate, hanno esse ottenuto alla mia fatica premio assai sufficiente». i pebi PREMA Alla fine le preghiere dell'amico, che si assumeva il compito di rivedere i testi, lo indussero ad acconsentire all'impresa. Era il modo per liberare l’iniziativa dai limiti della circolazione privata e spetta senza dubbio al Paradisi il merito di aver diffuso quei testi oltre i confini del teatro di Zola, non solo attraverso il progetto e la realizzazione della stampa, ma anche mediante la loro presenza sulla sce«na pubblica reggiana. Agli inizi del febbraio 1760, durante il carnevale, sottola direzione del medesimo Paradisi, gli studenti del seminario-collegio rappresentarono il Cesare del Voltaire, un testo particolarmente caro al traduttore per l'assunto antitirannico. La recita, confortata da successo di pubblico, non lasciò soddisfatto il Paradisi sia perché l’angustia della scena soffocava l’azione, sia perché i giovani in-
terpreti avevano compromesso l’esito finale della tragedia. Alla comparsa del cadavere di Cesare in scena «alcuni ragazzi che rappresentavano i plebei, [...] piangevano colla bocca ridente» ?. Nonostante tutto, però, un testo di impegno civile aveva sostituito la «vecchia produzione drammatica gesuitica» e le «azioni sceniche» composte dai medesimi insegnanti dei collegiali . Il teatro voltairiano era proposto dal Paradisi con la espressa volontà di istruir dilettando e di determinare un cambiamento nella direzione del gusto del pubblico reggiano, non educato agli spettacoli tragici. «Il nostro popolo — diceva all’Albergati — per non avere uso alla tragedia non ne ha idea giusta» ed ebbe modo di vedere confermato il suo giudizio allorché nel novembre 1763 fece rappresentare sulle scene pubbliche il Tarcred:: «La rappresentazione è costata lagrime a moltissimi, ed ha tenuto in attenzione più che alcun altra il popolo; nondimeno se ne è detto male per tutto, non si è chiesta la replica, e il Voltaire è stato poco men che fischiato. Eccole la relazione sincera senza parzialità. Alcuni uomini colti ne hanno conosciuto il 34 Lo stesso allo stesso, Reggio, 13 luglio 1760, ibiderz. 35 S. Davoli, Agostino Paradisi uomo di teatro, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di Sergio Romagnoli ed Elvira Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, vol. I, p. 250.
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pregio, ma son pochi: ed infiniti son quelli presso i quali il nome del traduttore è sommo difetto della tragedia» ?6. Se Voltaire costituî il modello tragico dell’Albergati e
del Paradisi, Goldoni fu il loro‘punto di riferimento per la
commedia, e si potrebbe affermare che il tragediografo francese e l’autore comico italiano siano i protettori ideali della Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi”. L’8 luglio 1760 Agostino Paradisi dichiarava all’ Albergati di aver ricevuto con «piacere grandissimo» «i versi del signor di Voltaire sopra il Goldoni», «sf per vedere esaltato da quel giudice inappellabile il Goldoni che venero sommamente, sf anche perché cosf verrà a formarsi oltremonte qualche concetto della nostra italiana commedia». Il 4 agosto, da Bologna, l’Albergati gli faceva pervenire «alcuni versi che il Goldoni ha composti in risposta al Voltaire», mentre lo metteva a parte del progetto delle commedie da recitare in un suo «casino posto in vicinanza della terra di Medicina». Si trattava della «Pamela zittella» del Goldoni e della «maritata del Chiari che è l’unica commedia buona di quest’autore, che in essa è riuscito perché non ha dovuto inventare i caratteri, ma solo seguir le tracce del Goldoni» 5. E mentre il Paradisi avrebbe desiderato che le commedie del Chiari fossero poste sotto sequestro «fra le nostre Alpi» per impedir loro di circolare fuori del territorio italiano (8 luglio 1760), l’Albergati si impegnava a persuadere Girolamo Medebach affinché rinunciasse a mettere in scena 36 Lettera di A. Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 13 novembre
1763, ASBo, Archivio Albergati, s. IX, b. 271. 37 A questo proposito si vedano: le Osservazioni del traduttore premesse a Il Tancredi, tragedia del sig.r di Voltaire tradotta dal signor Agostino Paradisi, dove si riportano, tra l’altro, i versi del philosophe in lode del Goldoni (Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi, cit., t. I, pp. 311-325); l’epistola dello stesso Paradisi Al signor di Voltaire, già stampata nella raccolta dei Versi sciolti del Paradisi (Bologna, 1762), e premessa alla versione della Morte di Cesare (ibidem, t. II, pp. 212-214); le dediche a Carlo Goldoni, da parte dell’ Albergati, della traduzione dell’Ifigenia di Racine (ibidem, t. II, pp. 105-107) e della commedia in un atto, L’amor finto e l'amor vero, frutto del medesimo Albergati (ibidem, t. III, pp. 401-402).
38 Lettera di Agostino Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 8 luglio
1760, ASBo, Archivio Albergati, s. IX, b. 271. 39 Lettera di F. Albergati Capacelli ad A. Paradisi, Bologna, 4 agosto 1760, BMRE, Mss. Regg. E 140/1.
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a Bologna i lavori dell’abate bresciano. «Nel nostro teatro Formagliari — scriveva il 22 aprile 1762 — abbiamo la compagnia comica del Meddebach, che cominciò domenica
sera le sue rappresentazioni. Il poeta di questa è il Chiari, ma io li ho persuasi, conoscendo anche il gusto del paese, a star lontano dalle commedie di lui, e tenersi alle commedie
che diconsi all'improvviso, giacché la truppa ne è capace [...] e a molte commedie del Goldoni, le quali oltre all’esser belle, possono essere da questi comici maestrevolmente recitate» ‘. Anche
a Reggio giungevano con prontezza sui
banchi del libraio «o romanzi, o commedie in versi martelliani o lettere critiche»#! e il ritmo monotono e facile del martelliano aveva «vinto nelle commedie l’animo del popolo», come annotava il Paradisi nella lettera all’Albergati dell’8 luglio 1760. Secondo la critica dei due amici emiliani il successo del Chiari era favorito da un pubblico incolto, pago di dilettare gli occhi, indifferente al testo, preso dalle scene di grande effetto, sensibile alle grazie delle attrici, incapace di apprezzare un’azione condotta in modo regolare:
«Se in oggi — leggiamo giano ameni to d’archi e
non vedesi la scena riempiuta di carri e cavalli nella premessa all’Idorzeneo — se non verdegboschetti, i quali si cangino tosto in un laberincolonne; se non torreggian per tutto mausolei,
colossi, obelischi; e se macchine di nuova invenzione con
giuochi maravigliosi non sieno regolatrici della danza e di quasi tutta l’azione [...] non può sperarsi giammai che quel genere di spettatori si appaghi, il quale autorevolmente dà il tono ai plausi e agli evviva» ‘2. Per questo il Paradisi, valendosi del prestigio di cui lo rivestivano le cariche pubbliche esercitate — nel 1760 era stato direttore degli spettacoli per la fiera, dal 1756 era segretario perpetuo dell’Accademia degli Ipocondriaci — de40 Lo stesso allo stesso, Bologna, 22 aprile 1762, ibiderz. 41 Dalla lettera di A. Paradisi a F. Algarotti, Reggio, 19 settembre 1760, in F. Algarotti, Opere. Edizione novissima, Venezia, Palese, 1794, vol. XIII, p. 311. XIII, p. 311. 4° F. Albergati Capacelli - A. Paradisi, Ragionamzento premesso a L’Idomeneo tragedia di mons.r Crébillon tradotta parte dal signor marchese Albergati Capacelli e pertesiser A. Paradisi, in Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi, ecc., cit.,
t.I, p.
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cise di rinnovare l’aria e di dar vita in Reggio ad una compagnia comica di giovani dilettanti che recitasse sotto la sua guida. «Sabato scorso — diceva all’Albergati il 28 gennaio 1763 — andò in scena l'Uomo di mondo del Goldoni con un successo affatto straordinario. Si è proseguito per la settimana, e sempre con piena di teatro, e del nostro che non è piccolo. Domenica si reciterà il Padre per amore la prima volta e ne spero bene» #. Erano dei testi scelti per non urtare il gusto del pubblico, abituato alle maschere o agli intrecci romanzeschi del Chiari, idonei, tuttavia, per avviare un
discorso di rinnovamento teatrale. Il nome e le opere del Goldoni, inoltre, furono intro-
dotti dal segretario anche all’interno dell’Accademia degli Ipocondriaci, di modo che, grazie all’iniziativa congiunta del Paradisi e dell’ Albergati, Bologna e Reggio acquistano sempre maggior rilievo nella storia della fortuna del commediografo veneziano e si propongono come centri alternativi a Modena, dove il Chiari aveva raccolto riconoscimenti uf-
| ficiali — nel 1755 Francesco III lo aveva fregiato del titolo di poeta di corte — ed era stato celebrato dai medesimi Accademici Dissonanti con epistole in versi martelliani raccolte con il titolo Della vera poesia teatrale (Modena, Soliani, HA). Quando durante il viaggio che si sarebbe dovuto concludere a Parigi, il Goldoni da Bologna si recò a Reggio (26 giugno 1762), l’entusiasmo del Paradisi fu grande, sia perché vedeva realizzato un suo antico desiderio, sia perché aveva modo di prendere congedo da un uomo tanto stimato prima della sua partenza verso la Francia. Oggi, nell’interpretazione della vicenda biografica goldoniana siamo disposti a mettere in risalto l’intima contradditorietà di quel viaggio senza ritorno; esso fu, al tempo stesso, la perdita della «scommessa con tutto il teatro (impresari, comici, pubblico, rivali polemisti)» e il «tentativo di ritrovare l’Europa, di allargare la dimensione del proprio impegno» “. I 43 Lettera di A. Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 28 gennaio 1763, ASBo, Archivio Albergati, s.1X, b. 271. È 44 M. Baratto, Go/doni vent'anni dopo, in L’interpretazione goldoniana, a cura
di N. Borsellino, Roma, Officina edizioni, 1982, p. 25 e p. 31.
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contemporanei, viceversa, valutarono quel viaggio e quel soggiorno, che s’era concluso con una sconfitta, come un evento del tutto positivo. «Mi è gratissima la nuova del Goldoni» — scriveva il Paradisi all’ Albergati il 23 settembre 1761. «Coloro che hanno senso italiano e genio nazionale debbono compiacersi oltre ogni limite di vedere sulle scene di Parigi un comico italiano, e i francesi dispregiatori del nostro teatro, costretti a valersi di uno de’ nostri autori. Me ne congratulo con chi a traverso le maldicenze ha saputo sostenere il merito di quel pittore fedele della natura e delle umane passioni» ‘. A questa chiave-di lettura delle cose indusse forse l’abituale riserbo del commediografo intorno alla sua persona, ma l’invito del Théatre italien e la presenza del Goldoni a Parigi per gli intellettuali italiani assunsero il significato del riscatto da uno stato di asservimento culturale, furono il se-
gno tangibile e prestigioso del ritorno dell’Italia nel circuito culturale europeo con una posizione di forza, l'ingresso in una città mitica dalla quale si irradiava il progetto illuministico di un teatro sostenuto dal principe. Lo stesso Pietro Verri scrisse sulle pagine del «Caffè»: «Gli abitatori di Parigi, quelli cioè che sono avvezzi ogni giorno a vedere sui loro teatri le più belle produzioni drammatiche, che gli uomini abbiano fatte, almeno dacché le memorie sono giunte a noi, essi ascoltano con applauso le commedie del valoroso nostro italiano [...]. Il soggiorno ch’egli ora fa, per sua gloria a Parigi, spero ché sia per esser fruttuoso all’Italia, alla quale manca ancora la vera arte de’ commedianti» ‘6. Il Goldoni, che non dimenticò una volta giunto in Francia l’amicizia dimostratagli da entrambi i suoi ammiratori emiliani — l’Albergati fu addirittura uno dei suoi corrispondenti privilegiati e presso di lui sfogò spesso l'amarezza 4 Lettera di A. Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 23 settembre 1761; ASBo, Archivio Albergati, s. IX, b. 271.
46 P. Verri, La commedia, in «Il Caffè», ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici, a cura di S. Romagnoli, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 44. Si veda
del Romagnoli il saggio I/ teatro e «Il Caffè» nel volume dello stesso La buona compagnia. Studi sulla letteratura italiana del Settecento, Milano, Angeli, 1983, pp. 158-177.
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Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi
del soggiorno parigino —, fu chiamato anche a giudicare le loro prove drammatiche. Il Paradisi nella breve sosta reggiana volle sottoporgli gli Epitidi ed ebbe l’invito a non inoltrare la tragedia sulle scene‘, all’Albergati giunse da Parigi una circostanziata critica alla commedia in un atto L'amor finto e l’amor vero: «La commedia è scritta perfettamente, con brio, con buona lingua, con eleganza; è comica,
è gentile, è anche istruttiva, ma credo che per piacere abbia necessità del merito e dell’abilità e del rango degli attori che l’hanno rappresentata, e difficilmente avrebbe la stessa sorte sopra un teatro pubblico, ed alle mani de’ comici mercenari. Ella potrebbe farne la prova, ma non ho cuore di consigliarla» ‘8. Il teatro privato, quindi, si conferma anche nelle parole del Goldoni come la dimensione adatta all’Albergati; mentre la prova sostenuta dal Paradisi in qualità di autore tragico ci rinsalda nel convincimento che a lui si addisse soprattutto l’impegno di diffusore e di organizzatore della cultura. Un ruolo che riassume in sé la funzione mediatrice dell’intellettuale del secondo Settecento, indispensabile per attuare un piano di rinnovamento sociale e civile. Quanto l’Albergati fu incline a sottrarsi agli incarichi pubblici, tanto il Paradisi fu impegnato nel piano di riforme promosse da Francesco III d’Este. E queste due impostazioni culturali, l’una propensa all’evasione, l’altra ad assumere responsabilità educative, emergono subito, fin dalle prime lettere del carteggio. L’8 luglio 1760 il Paradisi confidava all'amico di essere stato incaricato dalla nobiltà reggiana di assumere 47 «Sabato mattina a ora di pranzo mi venne recato l’avviso e la lettera sua, in cui veniva avvertito essere in Reggio il nostro celebre sig. Goldoni. Subitamente mi condussi alla posta ove il trovai che pranzava. Si volle egli poi gentilmente trattenere il dopopranzo, e la sera [...]. Conferii collo stesso la mia tragedia degli Epitidi parte originalmente, parte per estratto, e schiettamente conobbi, che egli non ne facea buon presagio sulla scena, e pur io mi disimpegnerò in Modena dalla promessa quasi data di farla rappresentare sopra il teatro. Capisco benissimo non è cosa da far colpo sulla scena, o almeno da fare impressione che piaccia [...]», dalla lettera di A. Paradisi a F. Albergati Capacelli, Reggio, 29 giugno 1762, ASBo, Archivio Albergati, s. IX, b. 271. 48. Dalla lettera di C. Goldoni a F. Albergati Capacelli, Fontainebleau, 22 ottobre 1765, in C. Goldoni, Tutte le opere, cit., vol. XIV, p. 356.
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R. Turchi
la direzione delle opere in musica per sollevare il teatro di Reggio dall’avvilimento in cui lo aveva trascinato un impresario; incarico apparentemente o realmente limitato e di ambito, se si vuole provinciale; eppure segno di un desiderio continuo di partecipazione e di convincimento che l’attività teatrale fosse un aspetto non trascurabile della società civile. Da parte sua, invece, l’Albergati, due anni più tardi, pareva voler prefigurare per il proprio futuro (e si protrarrà per lunghi decenni) un comportamento rinunciatario o per lo meno racchiuso dentro l’otiur letterario e i piccoli piaceri consolatorii diuna privata conversazione. Il 23 novembre 1761 scriveva, infatti, al Paradisi: «Io le assicuro che sono
abbattuto non poco, e se lo studio non mi sollevasseper una parte del giorno, e l’altra parte non fossi rallegrato da piacevole compagnia, soccomberei alla tristezza e allo spleen» ‘9.
49 Dalla lettera di F. Albergati Capacelli ad A. Paradisi, Bologna 23 novembre 1761, BMRE, Mss. Regg. E 140/1.
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GIOVANNA
GRONDA
Per una ricognizione
dei libretti di Pietro Pariati $
Chiunque si sia trovato ad indagare sulla librettistica settecentesca conosce le difficoltà per cosî dire intrinseche all’oggetto di indagine: dalla localizzazione centrifuga dei libretti alla loro omonimia e anonimia, emblematici e irridenti contrassegni della soggezione a una prassi variantistica che poggia tanto sulla ripetitività dei temi quanto sulla labile consistenza dello statuto d’autore del testo poetico. Il carattere irriducibilmente effimero di queste stampe documenta la loro diretta funzionalità alla musica e allo spettacolo e paradossalmente smentisce che se verba volant, scripta manent.
Nel 1982 Nino Pirrotta, descrivendo le alterazioni affatto peculiari del testo della Didone abbandonata rappresentata nel 1726 a Roma al teatro delle Dame, notava quanto fosse difficile «avere i vari libretti di un’opera riuniti in un sol punto per controllarne le differenze» !: se questa era, non più di tre anni fa, la situazione testuale di autori amati e studiati come il Metastasio, è facile immaginare quale sia il destino di librettisti ben meno celebri, seppure non meno operosi, come Pietro Pariati. Per il giovane letterato emiliano, nato a Reggio nel 1665, accademico Inquieto e arcade con il nome di Clealbo Mirtilio, i tre anni trascorsi tra il ‘97 e il ’99 nelle carceri di Rubiera e poi di Modena e l’esilio che li seguf, comminatogli dal duca Rinaldo I, sembrano segnare non solo l’allontanamento definitivo dalla città natale, ma una sorta di ostracismo e di damnatio memoriae, almeno nell’ambito del ducato, tale che, trasferitosi egli nel ’99 a Venezia e di lf nel 1713 a Vienna, rimarrà presso la Corte austriaca per il resto 1 N. Pirrotta, Metastasio e i teatri romani, in AA. VV., Le Muse galanti, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1985, p. 62.
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della sua vita e ivi morrà a sessantotto anni, nel 1733, senza che la sua intensa attività teatrale lasci in terra modenese alcuna traccia consistente ?.
Eppure sulla operosità del Pariati non possono esservi dubbi: autore di dieci libretti in proprio? e di quattordici in collaborazione con lo Zeno‘ (senza contare per entrambi i
rifacimenti), di tragedie in prosa‘, di intermezzi comici, di 2 In tutto il corso del Settecento solo un dramma musicale con libretto di Pariati entra nel repertorio della città natale: il Ciro, composto per il San Cassiano di Venezia nel carnevale 1709 con musica di T. Albinoni e rappresentato «nel teatro dell’illustrissimo pubblico di Reggio in occasione della fiera l’anno 1716», musicato da A. Lotti e stampato nello stesso anno dal reggiano Ippolito Vedrotti, Il libretto de Le feste di Iside, messo in scena a Reggio neni1795 con musica di $.. Nasolini, risale al Sesostri re d’Egitto che Pariati e Zeno avevano scritto e Francesco Gasparini musicato per lo stesso San Cassiano nel lontano carnevale 1709, ma in realtà èopera autonoma di Gaetano Rossi. 3 La distinzione fra i libretti composti da Pariati, quelli scritti in collaborazione con lo Zeno e quelli del solo Zenoè allo stato attuale delle ricerche ancora incerta, anche per la presenza di un gran numero di rifacimenti ad opera di uno solo dei due o di entrambi o di terzi. È noto del resto che mentre è raro manchi nei libretti settecenteschi l’indicazione di chi ha composto la musica, è frequente l’assenza dell’autore del testo poetico, e l'attribuzione è spesso dovuta a compilatori o studiosi posteriori in base a testimonianze indirette. Le prime indicazioni utili alla individuazione si leggono nell’epistolario dello Zeno: Lettere, a cura di]. Morelli, Venezia, Sansoni, 1785, voll. 6, nn. 82, 168, 435, 455, 479 (vedi infra, nota 7). Le compilazioni sette e ottocentesche concordano comunque nell’attribuire al solo Pariati i seguenti libretti: Sidorio (dramma per musica, Venezia, 1706), Ciro (dramma per musica, Venezia, 1709), Giustino (dramma per musica, Bologna, 1711), Teseo în Creta (dramma per musica, Vienna, 1715), I/ finto Policare (tragicommedia, Vienna, 1716), Cajo Marzio Coriolano (dramma per musica, Vienna, 1717), Archelao re di Cappadocia (tragicommedia, Vienna, 1722), Creso (tragicommedia, Vienna, 1723), Penelope (tragicommedia, Vienna, 1724). Ad essi
va aggiunto, in base alle indicazioni delle due stampe del libretto, l’Anfitrione (tragicommedia, Venezia, 1707 e Vienna, 1739), che alcuni repertori attribuiscono, non si capisce per quali ragioni, alla collaborazione Zeno-Pariati (vedi infra, nota 42).
4 Gli stessi repertori indicano come composti da Zeno e Pariati insieme: l’Artaserse, l Antioco, lAmbleto, e la Statira (rappresentati tutti a Venezia nel 1705), la Svanvita (Milano, 1707), il Flavio Anicio Olibrio, lAstarto, Il falso Tiberino e l’Enghelberta (messi in scena a Venezia nel 1708), la Zenobia in Palmira (Barcello- . na, 1709), il Sesostri re d'Egitto (Venezia, 1709), il Costantino (Venezia, 1711), il Don Chisciotte in Sierra Morena (Vienna, 1719) e l’Alessandro in Sidone (Vienna, 1721).
2 Pariati, che già nel 1711 compone il proprio Giustiro sulla base di un omonimo libretto secentesco di Nicolò Berengani, negli anni viennesi muta il nome ai propri libretti (Teseo în Creta diverrà nel 1727 Arianna e Teseo e più tardi con l'intervento di altri si intitolerà Arianna e anche I sacrifici di Creta), trasforma in melodrammi vecchi testi in prosa (cosî dalla tragedia bolognese Cajo Marzio Co-
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Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
feste e componimenti teatrali, di favole pastorali, cantate e serenate, di oratorî e versi per musica sacra, la sua produzione assomma a più di ottanta titoli che moltiplicati per una media di almeno tre rappresentazioni documentano una presenza sulla scena del teatro veramente considerevole.
La vastità e la varietà della produzione sembrano tuttavia avere, più che ostacolato, contribuito alla dispersione della sua opera, cosf come non giovò a fissarla il gran numero di compositori che musicarono i suoi testi: Francesco Gasparini,
Tommaso Albinoni, Antonio Lotti, Andrea Ste-
fano Fiorè, Carlo Francesco Pollaroli nelle prime rappresentazioni veneziane e milanesi; Fux, Conti, Caldara, Porsile, Reutter, Reinhardt in quelle viennesi; Porpora, Jommelli, Scarlatti, Galuppi, Hasse e Sarti nelle riprese sui teatri riolano deriva l’omonimo dramma musicato da Antonio Caldara nel 1717 e da La casta Penelope milanese la tragicommedia Pezelope messa in musica da Francesco Conti nel 1724). Ancora più numerosi sono i libretti scritti a due mani con lo Zeno e rielaborati con o senza mutamento del titolo: nel 1709 l’Enghe/berta veneziana dell’anno precedente viene rappresentata a Bologna e a Napoli come Enghe/berta o sia La forza dell'innocenza; nel 1715 la Svanvita sarà a Braunschweig il Regnero; nel 25 a Venezia Antioco si intitolerà Seleuco. Il Flavio Anicio Olibrio darà luogo a tre drammi per musica con titoli diversi: Ricizzero re dei Goti (Torino, 1722), Il trionfo di Flavio Olibrio (Venezia, 1726) e La tirannide debellata (Milano, 1736); Zenobia in Palmira diventerà L’amzore eroico (Venezia, 1725); Costantino muterà il nome in Massizziano (Venezia, 1731) e l’Astarto in Elisa regina di Tiro (Venezia, 1736). Con l’intervento di altri librettisti anche la Statira si trasformerà
per mano di Carlo De Pretis in Le regine di Macedonia (Napoli 1708) e il Sesostri re d'Egitto ne Le feste di Iside (Reggio Emilia, 1795: vedi nota 2). 6 Si tratta di tre testi teatrali in prosa: La casta Penelope (Milano, Ghisolfi,
1707, anni dopo trasformata, come si è visto, nella tragicommedia in versi Perelope, Vienna, 1724); il Cajo Marzio Coriolano (Bologna, Pissarri, 1707, nel 1717 dramma musicale viennese) e I/ Sesostri, tragedia di lieto fine (Venezia, Rossetti, 1716, seconda edizione Bologna, Longhi, 1722), derivata dal Sesostri re d’Egitto,
dramma con musica di Francesco Gasparini composto in collaborazione con lo Zeno per il San Cassiano nel 1709 e poi più volte rappresentato lungo il secolo con musica di diversi autori. In questi due ultimi casi a patrocinare la stampa del testo drammatico è Luigi Riccoboni, il celebre comico Lelio, attore e scrittore di teatro il quale nelle dediche e negli avvisi al lettore rivendica il merito di aver dato «alle stampe di furto» le due tragedie in prosa, «tenendo mezzo nascosto l’autore ... perché se bene mio parziale amico la sua delicatezza me l’avrebbe impedito». Nel caso del Sesostri, dopo che la versione in prosa del Pariati era stata rappresentata «con sommo applauso», lo stesso Riccoboni ritraspone «il bellissimo originale», cioè il melodramma, in endecasillabi sciolti «per uso della nostra scena», cioè della recitazione: I/ Sesostri tragedia consacrata a Sua Ecc. il Sig. Marchese Luigi Bentivoglio, Venezia, Gio. Battista Murari, 1715 (vedi infra nota 31). Non ho trovato traccia invece né del Regrero milanese del 1703 (vedi infra nota
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G. Gronda
d’Italia e d'Europa fin oltre la metà del Settecento. Anche la collaborazione con lo Zeno, intensa sia a Ve-
nezia nei primi tredici anni del secolo, sia negli altri tredici |
trascorsi insieme a Vienna (1718-1730), se contribuf in vita |
a procurargli lavoro e notorietà, finî post mortem con l’offuscarne il nome, rimasto in ombra rispetto a quello dell’erudito veneziano, di qualche anno pit giovane di lui, destinato a sopravvivergli fino al '50 e soprattutto ben più noto nella repubblica letteraria per la prestigiosa iniziativa del «Giornale de’ letterati d’Italia». Cosicché, se nei tomi 9 e 10 delle Poesie drammatiche dello Zeno, raccogliendo una decina di opere «composte insieme», Gaspare Gozzi avver:tiva l'opportunità di collocare sul frontespizio accanto a quello dello Zeno anche il nome del Pariati, non mancava di precisare nell’avviso A’ leggitori i limiti di tale collabora. zione: «I drammi ... non sono intera fatica del signor Apostolo Zeno; ma alternativamente vi impiegò una parte di suo studio il Signor Dottore Pietro Pariati da Reggio di Lombardia, anch’egli Poeta Cesareo. Facitura del primo è
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la tessitura e l’ordinazione di ciascun soggetto; e al verseg-
giare applicarono vicendevolmente l’uno e l’altro»?. Divi- |
7) né della Griselda, tragedia che secondo il Goldoni Pariati avrebbe composto in. | prosa dopo aver collaborato con lo Zeno alla stesura dell’omonimo dramma musicale (Venezia 1701: Mémoires, parte prima, capp. XXXVI e XXXVII). La Grisel
da del Pariati sarebbe divenuta «la pièce favorite» di Madame Colucci, l’attrice nota come la Romana, e Goldoni, incaricato a sua volta di versificare il testo, vi
apportò radicali mutamenti di struttura e, come dichiara nella prefazione al tomo | XIV dell’edizione Pasquali, si sarebbe in tal modo reso conto della ragione dei suoi difetti: «La prosa per se stessa non'è avvantaggiosa per le tragedie: lo stile di quella non era felice; si vedeva che il Pariati, uomo per altro di merito, aveva sagrificato il buon senso al cattivo uso de’ comici» (C. Goldoni, Tutte le opere, a cu: ra di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1935-1950, I, pp. 164-168 e 725; per l’attribuzione al Pariati del dramma in musica e della tragedia in prosa si vedano le note dell’Ortolani, pp. 1098-1099, e la nota al testo della Griselda goldoniana in nu i 1312-1313. Per altre testimonianze goldoniane sul Pariati vedi infra note e 52). ? Poesie drammatiche di Apostolo Zeno ... composte insieme con Pietro Pariati |
anch'egli Poeta Cesareo, tomo nono, Venezia MDCCXLIV presso Giambattista | Pasquali (idem il frontespizio del tomo decimo). Si è già detto (nota 3) della testi!
monianza diretta che l’epistolario dello Zeno offre a proposito della collaborazione con l’esule modenese: in una lettera al generale Visconti, datata da Venezia il 24 settembre 1703, Zeno dichiara che l’opera Regrero, composta l’anno prece-
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I
en o
Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
sione e assegnazione di compiti che, nonostante le intenzioni del Gozzi («Sarà cosa grata agli amatori di cosî fatto studio... sapere manifestamente quale sia il merito suo [di Zeno] in essi, senza defraudare dell’onor dovuto l’altro autore»), segnerà di fatto il destino critico del ‘negro’ Pariati
fino ai giorni nostri 8. dal Altra raccolta delle sue opere non fu fatta in vita oltre ai sonetti già segnalati dal Tiraboschi? e a pochi altri testi lirici cui fa cenno il Campanini !°. Miglior destino non gli dente, «è componimento felice della penna» del Pariati e che egli non vi ha «concorso che in approvarla ben degna di comparire sul regio teatro di Milano» (n. 82, I, p. 154: dell’opera, che non verrà rappresentata, non ho trovato altra trac-
cia). In due lettere scritte a Vienna nel febbraio e nel marzo 1722 Zeno insiste sul fatto che l’Archelao re di Cappadocia «è stato tutto parto ingegnoso» del Pariati (nn. 572 e 575, III, pp. 315-316 e 323-324); in altre riconosce un rapporto di più o meno stretta collaborazione: per la Svanvita (n. 168, I, pp. 418-419, vedi anche infra nota 39), per il Don Chisciotte in Sierra Morena («Al sig. Pariati se ne
deve il più della lode e del merito», n. 455, III, pp. 9-12), per l’Arzb/eto («opera tutta di mia invenzione, ma non tutta già da me verseggiata essendo meco concorso nel lavoro di essa il sig. Abate Pariati», n. 479, III, pp. 61-62), e ammette
di aver ricevuto «assistenza molta e sommamente giovevole per la buona riuscita» dell’Ifigenia in Aulide, suo primo dramma viennese (n. 435, II, pp. 444-445).
8 Almeno da quando il giudizio del Gozzi fu fatto proprio da Francesco Negri che nella sua lid Vita di Apostolo Zeno, discorrendo dei drammi composti dallo Zeno con il Pariati, scrive: «In sua compagnia molti e molti ne dettò con buona riuscita, partendo con esso lui l’utile, ma non la lode, giacché ‘questa quasi tutta ricadea sul Zeno, siccome quello che la scelta dell’argomento e l'economia della favola a sé addossava né dell’amichevole aiuto giovavasi che per la versificazione» (Venezia, Alvisopoli, 1816, p. 77). Una valutazione diametralmente opposta si trova però nel settecentesco Catalogo de’ drammi musicali fatti in Venezia conservato manoscritto alla Braidense (Racc. Dramm. 6007), dove a pro-
posito dell’ Artaserse rappresentato di Antonio Giannettini, si legge: Pariati da Regio ... Oltre questo, sunominati autori fra loro amici,
al Sant'Angelo nell’inverno 1705, con musica «Poesia di Apostolo Zeno Veneziano e Pietro molti altri drammi composti furono dalli due celebre il primo per il grave sentenzioso suo
scrivere e l’altro per l’invenzione e l’intrecci» (anno 1705, n. 394).
? Sei sonetti sono stampati nelle Poesie italiane di rimatori viventi non mai per l’addietro stampate, Venezia, Ertz, 1717, pp. 151-154, ed uno nella Scelta di sonetti curata da Teobaldo Ceva (Venezia, Occhi, 1740, p. 113) dove al Pariati, erroneamente indicato come genovese, l’antologista riconosce eccellenza poetica «ri-
guardo al carattere dello stile temperato». 10 Si tratta di un epitalamio (I/ fiume Parma pronubo a le felicissime nozze del Serenissimo Principe Odoardo Farnese con la Serenissima Principessa Dorotea Sofia di Moburgo), edito a Parma da Giuseppe Dall’Oglio e Ippolito Rosati nel 1690, e di tredici sonetti che, con il titolo Lamzenti poetici del dottor Pietro Pariati reggiano, poeta cesareo, da esso composti in occasione di sua prigionia nel forte di Rubiera, e tratti dagli originali, scritti di mano dell’autore ne’ muri di sua carcere, Naborre Campanini ha stampato in appendice alla sua monografia sul Pariati (Firenze, Sansoni, 19042, pp. 101-109).
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hanno riservato del resto neppure le ristampe novecentesche. Nel secondo volume dei Dramzzi per musica dal Rinuccini allo Zeno, curati da Andrea Della Corte per la UTET nel 1958, dei due libretti di. Zeno e Pariati il primo — l’Ambleto — è a tal punto costellato di errori di stampa e di trascrizione da averne guasto, oltre che la misura del verso, in più casi il senso stesso !!, il secondo non è né di Apostolo Zeno né di Pietro Pariati !2. Si deve probabilmente anche a questa disastrosa situazione testuale se la conoscenza storica e critica del Pariati è rimasta dal Tiraboschi (che ne raccolse nella Biblioteca Modenese 3 le prime notizie) ai giorni nostri ferma ai sommari
11 Un esempio per tutti: nel primo atto, scena terza dell’Amb/eto, Siffrido,
confidente del tiranno Fengone e in apparenza ligio ai suoi ordini, in realtà fedele al principe Ambleto che egli protegge dal pericolo di morte, si difende dalle accuse di Veremonda dichiarando: «Ciò che par fellonia sovente è fede». La principessa che lo ritiene un traditore ribatte: «Arte è d’anima rea finger virtude», e Siffrido risponde: «Mal si giudica il cor sol dall'esterno». Nel testo Della Corte (vol. II, p. 273) la battuta suona: «Ma si giudica il cor sol dall’esterno», con grave fraintendimento del senso. Casi analoghi sono frequenti e sempre a dispetto del testo settecentesco nel quale la lezione è corretta. 12 Nel caso del secondo libretto l'errore risale invece direttamente a Gaspare Gozzi, curatore come si è visto delle Poesie drammatiche dello Zeno. Nel tomo IX
della edizione veneziana egli non stampò infatti il testo del Dow Chisciotte in Sierra Morena, tragicommedia per musica da rappresentarsi nella cesarea corte per comando augustissimo nel carnevale dell’anno MDCCXIX, composto a Vienna dallo Zeno e dal Pariati e rappresentato con musica di Francesco Conti l’11 febbraio 1719 (cfr. la lettera n. 455 di Apostolo a Pier Caterino Zeno del 13 febbraio nonché il libretto stampato a Vienna da van Ghelen per l'occasione e A. Loewenberg, Axnals of Opera 1597-1940, Genève, Societas Bibliographica, 1955, I, col. 149), ma
raccolse e pubblicò il Don Chisciotte in corte alla Duchessa, opera serioridicola per musica del signor Abate Gio. Claudio Pasquini, rappresentata per la prima volta a Vienna il 6 febbraio 1727 con musica di Antonio Caldara e ristampata anche nel tomo IV (pp. 319-422) della «Biblioteca teatrale italiana» del Diodati, Lucca, Della Valle, 1762 (cfr. A. Loewenberg, Annals of Opera, cit., I, col. 156). Sull’esempio del Gozzi il testo del Pasquini venne accolto nelle edizioni successive dei drammi dello Zeno (Poesie drammatiche, Orléans, 1785-1786), fino appunto a quella di Della Corte. Ci si potrebbe stupire che catalogatori come il Sonneck e studiosi dello Zeno scrupolosi come il Fehr, pur sorpresi dalla sostituzione del titolo, non si siano accorti dello scambio dei due testi, se non si fosse pit volte notato che la verifica del testo dei libretti originali è pratica recente e non sistematica. 13 G. Tiraboschi, Biblioteca modenese e Notizie della vita e delle opere degli scrittori natti degli stati del serenissimo signor Duca di Modena..., Modena, Società Tipografica, 1783, IV, pp. 38-48, con un primo elenco di 19 testi del solo Pariati e di 14 opere composte in collaborazione con lo Zeno. A firma di A. Peretti è in-
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e generici giudizi limitativi di pochi manuali ottocenteschi e novecenteschi !4 e a una scrupolosa ma parziale documentazione biografica raccolta da Naborre Campanini, il cui in-
tento rivalutativo del ruolo del’librettista nell’ambito della riforma melodrammatica all’inizio del Settecento è ben sintetizzato nel titolo: Pariati, un precursore del Metastasio !5. Sono piuttosto musicologi o studiosi del teatro a fornirci più precise informazioni sulla produzione librettistica !9 del Pariati e a darci analisi puntuali di alcuni suoi componimenti nel contesto di ricerche sulla storia dell’opera !” o di indagini monografiche su Zeno, !8 su Fux, !° sulle feste teavece la nota sui meriti poetici del Pariati che si legge a p. 414 del vol. IV delle Notizie biografiche in continuazione della biblioteca modenese, Reggio, Torreggiani, 1835.
14 In particolare M. Landau, che nella Geschichte der Italienischen Literatur im achtzebnten Jahrbundert (Berlin, Felber, 1899) ne parla a proposito dello Zeno e della riforma melodrammatica e gli dedica un paragrafo nel capitolo sul dramma musicale (pp. 528-529) e G. Natali (I/ Settecento, Milano, Vallardi, 1964?, pp.
120-121), che ne dà sommari ragguagli e ne loda la «musicalità facile e piacevole» soprattutto nell’ Amzbleto e nel Don Chisciotte. 15 N. Campanini, Un precursore del Metastasio, Reggio Emilia, Bondavalli, 1883, pp. 247, con un’appendice di testi poetici e di documenti tratti dall’ Archivio di Stato di Modena e da archivi privati. Le due ristampe della seconda edizione (Firenze, Sansoni, 1901 e 1904) comprendono anche una Bibliografia (pp. 129-136) articolata in cinque sezioni: Dramzzi, drammi per musica, tragicommedie e favole pastorali di Pietro Pariati; Drammi per musica e tragicommedie di Pietro Pariati e Apostolo Zeno; Oratori e componimenti sacri; Feste teatrali; Componimenti teatrali e poetici, serenate, intermezzi, per un totale di 50 testi.
16 Rinvio per tutti all’ottocentesco Operz/exicon di F. Stieger, ristampato di recente da Schneider, Tutzing, 1980: l’elenco di 58 titoli che si legge alle pp. 698-699 del vol. IV è il repertorio pit ricco, anche se non esaustivo né privo di inesattezze, dei testi per musica di Pariati. 17 R.S. Freeman comprende il Ciro e il Teseo in Creta nella serie dei testi che analizza per rilevare i mutamenti della struttura drammatica avvenuti nell’opera in musica fra il 1675 e il 1725 (Opera without Drama. Currents of Change in Italian Opera, 1675-1725, Ann Arbor, Michigan, UMI, 1981, pp. 138-140; ma si vedano
anche altri accenni del volume alla figura del Pariati come librettista alla corte viennese e come collaboratore dello Zeno). 18 Si veda in particolare il sistematico studio di M. Fehr, Apostolo Zeno und seine Reform des Operntextes, Ziirich, Tschopp, 1912, pp. 142, che nell’accurato
elenco di tutte le opere drammatiche dello Zeno fissa a 15 quelle composte in collaborazione con il Pariati. Meno utili ai fini della conoscenza del librettista modenese sono i saggi di R. Giazotto, A. Zeno, P. Metastasio e la critica del ’700, stampati fra il 1946 e il 1947 sulla «Rivista musicale italiana» e poi raccolti in Poesia drammatica e pensiero critico nel Settecento, Torino, Bocca, 1952.
19 L'introduzione di E. Wellesz a J.J. Fux, Costanza e fortezza, festa teatrale in drei Akten, Dichtung von Pietro Pariati, Wien, Artaria e Leipzig, Breitkopf-
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trali viennesi del Metastasio 2°. Anche in questi ambiti disciplinari tuttavia la ricerca è solo all’inizio, e perfino la voce più recente che a firma di Wendy N. Gibney si legge nel New Grove si rivela piuttosto imprecisa e deludente, meno utile comunque di quella che nel 1960 Alberto Limentani stendeva per l’Erciclopedia dello Spettacolo ®:. Non è un caso del resto che a distanza di quasi trent'anni, nei due volumi dedicati al Libretto per musica attraverso i tempi, sia Ulderico Rolandi sia Patrick John Smith nominino il Pariati una sola volta, in modo del tutto generico come collaboratore dello Zeno”. Il Pariati non è un’eccezione: anche per altri librettisti suoi contemporanei, come Silvio Stampiglia (1653-1732), Antonio Salvi (1664-1724) e Girolamo Frigimelica Roberti (1665-1733), la bibliografia critica continua a limitarsi alle voci enciclopediche e ai repertori ?. Gli studi di librettistica fioriti nell'ultimo ventennio si sono infatti concentrati su quel repertorio operistico del secondo Settecento che è staHartel, 1910; i quattro volumi di J.H. van der Meer, Johann Josef Fux als Opernkomponist, Bilthoven, A.B. Creyghton, 1961, e O. Wessely, Pietro Pariatis Libretto zu Johann Joseph Fuxens «Costanza e fortezza», Graz, J.J. Fux Gesellschaft, 1969.
20 J. Joly dedica il primo capitolo della sua ampia ricerca sulle feste teatrali, composte da Metastasio per la corte asburgica, alla nozione di festa teatrale e alle esperienze di Sbarra, Minato e Pariati, identificando nel testo Costanza e fortezza
di quest’ultimo non pochi elementi anticipatori del gusto metastasiano sia sul piano dello spettacolo che su quello del contenuto celebrativo e del significato allegorico (Les fétes théatrales de Métastase à la cour de Vienne (1731-1767), ClermontFerrand, Faculté des Lettres et Sciences humaines, 1978, pp. 38-54).
21 Pietro Pariati in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, London, Macmillan, 1980, XIV, pp. 183-184, e in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1960, VII, coll. 1616-1618. 22 U. Rolandi, I/ libretto per musica attraverso i tempi, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1951, p. 78 («Negli ultimi anni di sua dimora a Vienna A. Zeno eb-
be un ottimo coadiutore in Pietro Pariati che scrisse altresi pregevoli libretti propri»; a p. 215 Pariati è annoverato, con Zeno, Metastasio, Goldoni, Scribe, Pa-
squini, Bertati e Romanelli, fra i librettisti «prolifici» che produssero più di 70 libretti). Altrettanto generico P.J. Smith, La decima musa, Firenze, Sansoni, 1981, p. 70: «Alcuni libretti di Zeno erano scritti in collaborazione con Pietro Pariati» e, parafrasando l’avviso ai lettori del Gozzi, «Zeno stabiliva il soggetto, la forma
e il contenuto dei suoi lavori, Pariati di quando in quando completava lo sfondo ambientale [?] del testo». 23 Ma sul librettista di Scarlatti si può leggere K. Leich, Girolamo Frigimelica-Robertis Libretti (1694-1708), Miinchen-Salzburg, Katzbichler, 1973.
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r siri 7
Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati.
to in questo stesso periodo ricuperato all’ascolto musicale e teatrale. Né poteva essere altrimenti. Solo esperti lettori di spartiti del primo Settecento potevano prestare attenzione alla dimensione letteraria e linguistica di testi la cui musica è affidata a manoscritti custoditi da conservatorî e biblioteche 24. Il destino critico di Pariati come degli altri librettisti di quel periodo dell’opera in musica è legato alla conoscenza e alla diffusione degli autori che li hanno musicati: i loro versi ricominceranno a cantare quando risuoneranno sulle
scene teatrali le note per accompagnare le quali essi sono stati scritti, proprio come è accaduto in questi anni recenti
per il Metastasio di Mozart e di Vivaldi o per i libretti italiani di Handel”. Per Pietro Pariati vale oggi tal quale la constatazione fatta da Wessely nel ’69: «Eine modernen Anforderungen entsprechende literarische Wiirdigung von Pariatis Libretti liegt noch nicht vor und muss der Romanistik vorbehalten bleiben»6. Ma perché gli studiosi di letteratura possano formularla, questa moderna valutazione critica, e decidere con conoscenza di causa se Pariati sia stato davvero solo un «poeta di mediocrissimo merito»? o, come ritiene lo Schaal?8, se appartenga ai migliori librettisti del XVIII secolo, e precisare quanto la sua lingua poetica sia condizionata da una parte dalla «Sucht nach prunkvollen Worten, ‘sonantia verba et antiqua’, nach einer ‘gravis et decora constructio’» e dall’altra sia «von unnétigem Schwulst gereinigt»??, per arrivare insomma ad un profilo più nitido e 24 Penso in particolare a R. Strohm che nel volume Die Italienische Oper im 18. Jabrbundert (Wilhelmshaven, Heinrichshofen’s Verlag, 1979) ripropone alla lettura un ricco e affascinante repertorio musicale che attende di essere eseguito e
riascoltato. 25 Considerazioni analoghe fa Cesare Questa a proposito del repertorio del primo Ottocento in I/ velo della principessa Eboli, in «Intersezioni», IV (1984), pp. 419-438.
26 O. Wessely, Pietro Pariatis Libretto zu Johann Joseph Fuxens «Costanza e fortezza», cit., p. 13, nota 55. 27 G. Corniani, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Tori-
no, UTET, 1855, IV, p. 269.
28 _R. Schaal, Pietro Pariati in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, KasselBasel-London, Barenreiter, 1962, X, col. 748.
29 E. Wellesz, introduzione a J.J. Fux, Costanza e fortezza, cit., p. XIII.
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ot damn
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convincente di questo Kammerdichter, ombra o sosia dello Zeno, è necessaria ancora più di un’operazione preliminare sia sul piano della recensione dei testi che in direzione di ricerche sul personaggio, certo non privo di interesse storico e culturale. Si tratta in primo luogo di riuscire a individuare da vicino le ragioni di un rapporto con lo Zeno?° che si configura assai più come un’amicizia anche intellettuale che come una semplice collaborazione professionale, e che comunque difficilmente può essere ridotto al binomio, suggerito dal Gozzi e del resto vago, di ideazione-versificazione dei drammi. Per far ciò tuttavia sono indispensabili indagini storiche che, muovendo dai documenti consultati cent'anni or sono
dal Campanini negli archivi modenesi, si estendano al soggiorno veneziano prima e a quello viennese poi. Testimo-
nianze anche indirette in questo senso non dovrebbero mancare nella ricca documentazione sulla vita cittadina e teatrale di Venezia nel primo decennio del secolo a partire dal significativo sonetto con cui Elena Riccoboni?! si duole della partenza del Pariati per Vienna e dai giudizi su di lui
30 La bibliografia recente sullo Zeno conta, oltre alle ricerche di carattere musicologico citate alle note 17, 18 e 24, i contributi di C. De Michelis, Le int ziative di riforma di Apostolo Zeno, in Letterati e lettori nel Settecento veneziano,
Firenze, Olschki, 1979, e di E. Sala Di Felice, Alla vigilia di Metastasio: Zeno, in Atti del convegno in occasione del II centenario della morte di Metastasio, Roma,
Accademia nazionale dei Lincei, 1985, pp. 79-109, e Zeno da Venezia a Vienna. Dal teatro impresariale al teatro di corte, in Atti del convegno «Il dramma musicale tra Venezia e Vienna fino al Metastasio», tenuto a Venezia nel settembre 1984 e in corso di stampa. Né il rapporto Zeno-Pariati né il Pariati stesso sono tuttavia oggetto di trattazione specifica. 31 Lo si legge con l’incipit «Italia, Italia de’ tuoi danni ognora / s’arma in pro . d’altro cielo ingiusto il Fato» in Rimze degli Arcadi, Roma, Rossi, 1716, II, p. 264, e nell’indice è elencato fra i sonetti di Mirtinda Parraside con il sottotitolo Per la partenza del Sig. Pietro Pariati Poeta di S.M.C.. Insieme agli altri versi d’elogio riprodotti dal Campanini (Ur precursore del Metastasio, cit., pp. 31-32) esso prova ad abundantiam l’ammirata simpatia che Elena-Flaminia nutriva per il Pariati e che il marito Luigi-Lelio mostrava di condividere con le sue iniziative teatrali ed editoriali cui si è fatto cenno alla nota 6, e documenta l’attiva presenza del giovane modenese negli ambienti teatrali veneziani di cui la compagnia dei Riccoboni, attori, autori e riformatori, era non piccola parte (cfr. C. Varese, Il Maffei, il Ba-
ruffaldi, Elena Balletti e il linguaggio teatrale del Settecento, e Luigi Riccoboni: un attore tra letteratura e teatro, in Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 217-239).
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Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
del Goldoni. Testimonianze rilevanti ci si può attendere anche da ricerche nella capitale asburgica: già Wessely accennava ai contatti del Pariati durante il soggiorno viennese con personaggi italiani non privi di interesse come l’astronomo e matematico Giovanni Giacomo Marinoni o il medico e bibliotecario Pio Niccolò Garelli. Le ricerche sulla figura e il ruolo del poeta cesareo sono destinate ad illuminare un’altra importante dimensione della presenza di Pariati a Vienna”. 4 Ma è soprattutto al periodo veneziano che va riportata,
io credo, la individuazione dei caratteri peculiari della personalità del Pariati. Negli anni della sua prima produzione teatrale la rivendicazione di libertà e di giustizia, si coniughi all’interesse per le saghe nordiche come nel perduto Regnero o si collochi più tradizionalmente sullo sfondo degli eroi romani come nella tragedia in prosa Cajo Marzio Coriolano, rinvia ad una tematica antitirannica la cui determinazione si nutre, oltre che di conoscenze storiche, di ben ma-
turati convincimenti ideologici e di dirette esperienze personali ?4. Sappiamo bene oggi quanto poco ‘neutrale’ e apolitica fosse l’erudizione antiquaria settecentesca. La sollecitudine con cui proprio a metà degli anni venti Apostolo . Zeno soddisfaceva da Vienna le richieste che il Conti, at-
traverso il tramite veneziano del fratello Pier Caterino, gli 32 Oltre agli accenni al Pariati che si leggono nei Mémotres (vedi supra nota 6), valore di consapevole ed esplicito omaggio va riconosciuto, io credo, alla collocazione del Pariati fra i tre autori dei cui testi Maccario dichiara di «aver bisogno» prima della partenza per le isole: «D’un Metastasio, d’un Apostolo Zeno, delle opere del Pariati e d’una raccolta di drammi vecchi e soprattutto di un buon rimario. Alle Smirne voglio lavorar di buon cuore. Farò dei libri stupendi». (L’impresario delle Smirne, V, II, in C. Goldoni, Tutte le opere, cit., VII, p. 544). 33 Se ne occupa W. Greisenegger, il cui contributo non fa parte di questi atti ma potrà leggersi, assieme a quelli di W. Spaggiari, R. Strohm, nel volume dedicato a Pietro Pariati da Reggio di Lombardia, a cura di G. Gronda, in corso di preparazione per questa stessa collana. 34 Sulle implicazioni ideologiche e storiche del modello, disegnato nei drammi viennesi dello Zeno, del sovrano che attraverso la capacità di autodominio realizza l’identificazione trono-giustizia si legga ciò che scrive E. Sala Di Felice in Zeno da Venezia a Vienna. Dal teatro impresariale al teatro di corte, cit., e si ri-
cordino le osservazioni della stessa autrice sull’«arbitro dei destini» come figura peculiare della drammaturgia «cesarea» (in Metastasio. Ideologia, drammaturgia, spettacolo, Milano, Angeli, 1983, pp. 149-168).
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rivolgeva da Parigi intorno alle opere e alle vicende di Giordano Bruno”, basta a far supporre che a cementare il vincolo di amicizia fra l’erudito veneziano e il dottore in legge esiliato dal ducato modenese non fosse solo il comune interesse per il teatro melodrammatico. Per ritornare al quale comunque si dovrà ripetere che anche per gli aspetti propriamente tecnici di quella che Da Ponte chiamava l’arte di «comporre un buon dramma», un confronto fra i libretti dello Zeno e quelli del Pariati è preliminare ad ogni ulteriore discorso critico. Il che torna a dire che occorre trovare i testi, gli originali ancora prima che i rifacimenti o le copie sottoposte a revisione altrui. E quanto appunto ho cercato di fare per questo convegno. Valendomi delle indicazioni in più casi complementari delle fonti e utilizzando il Catalogo dei libretti d’opera italiani stampati fino all'anno 1800 messo gentilmente a disposizio-
ne degli studiosi da Claudio Sartori e Mariangela Donà nell'Ufficio Ricerca Fondi Musicali ospitato nella biblioteca del Conservatorio di Milano, ho approntato un inventario delle testimonianze a stampa dei testi per musica rappresentati, attribuiti al Pariati o alla collaborazione Pariati-Zeno:
circa duecentocinquanta #. Un buon numero di essi, oltre ottanta, presenti alla Braidense di Milano nella raccolta drammatica Corniani-Algarotti, ho anche veduto di persona, e cosf ho fatto di quelli di altre biblioteche milanesi ed emiliane nonché della decina raccolti nel Conservatorio di Parma; i rimanenti, conservati in biblioteche italiane, anche
periferiche, e straniere (soprattutto — come è ovvio — in area austriaca, boema e tedesca ma anche a Copenhagen, Londra e negli Stati Uniti), sono da microfilmare e collazio-
nare. 35 La lunga lettera, nella quale Pier Caterino Zeno trascrive le ampie notizie storico-critico-bibliografiche sulla vità e l’opera di Giordano Bruno raccolte da Apostolo nella ben fornita biblioteca cesarea, era stata sollecitata dal Conti stesso, desideroso di verificare alla luce dei dati storici le congetture sue e dei suoi
interlocutori parigini sul ruolo svolto dal Nolano nella discussione filosofica europea. La si veda alle carte 565-566 del copialettere fiorentino Ashb. 1788 della Biblioteca Medicea Laurenziana: è datata 11 novembre 1724. 36 Sarà stampato come prima appendice del volume citato alla nota 33.
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Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
Lo scopo non è ovviamente quello di una loro edizione, bensf quello di una mappa dei luoghi teatrali di rappresentazione che permetta di valutare insieme il successo e la diffusione di questi drammi e il loro Fortleben attraverso performances e metamorfosi musicali e testuali, la cui casistica
pressoché infinita va da interventi cost minimi da passare inosservati, come l’omissione o l’aggiunta di alcuni versi a un’aria o a un recitativo, a rielaborazioni cosî radicali da
‘rendere quasi irriconoscibile l’originale. Per quanto all’inizio, gli studi sulla librettistica permettono già oggi di comprendere che i metodi ecdotici sperimentati sui testi letterari non possono essere estesi sic et simpliciter ad una tradizione testuale la cui caratteristica peculiare è la sistematica rielaborazione variantistica. Anche quando, di fronte ad una situazione particolarmente complessa e stratificata, l'editore di opere letterarie giunge ad accogliere redazioni multiple, corrispondenti a precise seppure diverse volontà dell’autore, il suo compito rimane pur sempre quello di fornire al lettore un testo definitivo almeno rispetto ad una data e di documentare nell’apparato eventuali varianti precedenti o successive. Al contrario ciò che interessa lo studioso del testo per musica settecentesco è proprio il suo processo di trasformazione, il suo percorso
sulle scene teatrali che per alcuni melodrammi può durare lungo tutto il secolo e che documenta sul piano linguistico come su quello musicale, scenografico e drammaturgico, il successo dell’opera, cioè la sua concreta utilizzazione teatro per teatro. Come scrive Piero Weiss in questo stesso volume, «l’impasticciamento era la condizione normale e natu-
rale di tutte le opere, buffe o serie, una volta superate felicemente le prime recite (o anche SE la prima recita)» ??.
Rispetto a questo processo la testimonianza di una qualsiasi delle singole rappresentazioni, e sia pure la prima (che non
37 P. Weiss, La diffusione del repertorio operistico nell'Italia del Settecento: il
caso dell’opera buffa, in questo volume, pp. 241-256. Dare conto di questo processo attraverso l’edizione di un testo come ad esempio l’Arianna e Teseo con le sue numerose performances è ciò che si proverà a fare nella seconda appendice al volume citato alla nota 33.
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coincide necessariamente con quella autorizzata dal librettista: vedi infra, nota 39), ha la stessa importanza che avrebbe la vista di una perla per chi volesse giudicare l’effetto di un intero collier. Il fenomeno è tanto più evidente per autori come il Pariati i cui testi, a differenza da quelli dello Zeno e del Metastasio, non sono stati raccolti in volume e sot-
tratti per questa via alla prassi abituale della rielaborazione attestata dalle stampe locali dei singoli libretti”. L’inventario raccolto consente comunque di fissare alcuni dati interessanti: premesso che — come era facile attendersi — ad essere pit spesso rappresentate sono le opere in musica composte a Venezia in collaborazione con lo Zeno, i testi dell’intero corpus che godettero di maggior favore sono il Sesostri re d’Egitto, eseguito per la prima volta al San Cassiano nel carnevale del 1709 con la musica di Francesco Gasparini, e l’Arianna e Teseo, composta dal solo Pariati. Il loro successo è documentato per il Sesostri da trenta rappresentazioni in sessant'anni, con musiche di ben quindici compositori diversi, da Antonio Bononcini (Milano 1716) a Galuppi (Venezia 1757), e da un numero altrettanto ampio per l’Arianna e Teseo, un testo che con il titolo I sacrifici di
Creta e la musica di Peter Winter compare sulle scene ancora nel 1792. Seguono i libretti dell’ Astarto, dell’ Ambleto, dell’Enghelberta, attestati rispettivamente da 23, 12 e 10
schede bibliografiche, e l’intermezzo comico Pimpinone, anch’esso ampiamente documentato. In tutti questi casi, e in particolare in quelli del Sesostri e dell’Arianna e Teseo, il corpus variantistico è, come si può immaginare, enorme, e fa supporre che Pariati avrebbe fatto suo ciò che Zeno scriveva nel ’13 a proposito della Merope, che gli pareva «il meno cattivo» dei suoi drammi, «se a
riguardo di non avervi io potuto assistere l’anno scorso, quando fu rappresentato in Venezia, non me lo avessero guasto, levandovi e aggiungendovi non che versi ma scene intere, e gran parte delle ariette, per accomodarlo al gusto 98 Del problema dimostra piena consapevolezza lo Zeno quando riflette sulla nuova edizione dei propri drammi intrapresa da Gaspare Gozzi (Lettere, cit., VI, n. 1226, pp. 286-287: A Gioseffantonio Pinzi, 27 febbraio 1744).
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de’ musici»; con la conclusione: «Ciò è stato cagione che non ho voluto che né meno in ziffra vi fosse posto il mio nome» ??,
E da credere tuttavia che Pariati, assai più dello Zeno e di Metastasio, fosse disposto a piegarsi alle esigenze della prassi esecutiva e soddisfacesse di buon grado alle richieste dello «spettacolo». Se a indurvelo fosse la precarietà economica e la necessità di commissioni frequenti o la maggiore intrinsechezza con /es gens du théître *°, attori e capocomici, è troppo presto per dirlo. La scarsità delle dichiarazioni programmatiche che possediamo di lui a fronte di quelle dell’epistolario zeniano e metastasiano non consentono, per ora, di documentare le sue idee metateatrali; tuttavia le af-
fermazioni che si leggono qua e là nelle prefazioni ai singoli libretti concorrono univocamente a presentarcelo come au39 A. Zeno, Lettere, cit., II, n. 310, p. 213. La lettera, indirizzata a Salvino Salvini a Firenze, è scritta dal Lazzaretto vecchio e datata 11 marzo 1713. Si è
gia accennato (note 3 e 7) al valore dell’epistolario zeniano come fonte di notizie sulla collaborazione
Pariati-Zeno;
esso
documenta
anche
le condizioni
di vita dell’esule reggiano a Venezia. Si legga in particolare la lettera con cui lo Zeno sollecita l’impresario milanese Piantanida a non «differire la riconoscenza dovuta alle fatiche» sue e del Pariati. Il testo illumina bene le condizioni di lavoro dei due librettisti («a di lei sola istanza quest'anno ho impiegate le debolezze della mia penna in tutto ciò ch’ella si è compiaciuta di comandarmi, ora raggiustando i già fatti drammi, ora componendone di nuovi, ed ultimamente impiegando anche il Sig. Pariati a concorrere meco in servirla ... Che il dramma non si sia costf recitato quest'anno, ben sa V.S. Ill'‘ma che non è stata né di lui colpa, né mia») e in particolare del Pariati («Le aggiungo in tutta confidenza che il Sig. Pariati è qui forestiere, e basta conoscerlo letterato per sapere ch’egli non è facoltoso: onde essendo bisognevole di mantenersi con quel tanto che si guadagna co’ suoi sudori, si assicuri V.S. Ill.ma che il differirglielo sarebbe un incomodarlo»). Non si sa se più ammirare il garbo con cui Zeno perora la causa sua e dell’amico («Pagata ch’ella abbia una volta l’opera da lei ordinata, non avrà più a pagarla») o la prudenza con cui si fa carico delle preoccupazioni dell’impresario («se a Lei ne toccherà di farla rappresentare: e toccando ad altri S.A.S. farà sempre ch’ella sottentri nelle nostre ragioni e che sia rimborsata con equità dello speso»; I, n. 168, pp. 418-419). 40 «L'autore per la necessità del teatro ha condotta l’azione al suo fine col mezo di qualche episodio necessario, ma non troppo discosto dal vero. Credimi in oltre, o cortese lettore, che chi la scrisse non si soggettò alle regole per compiacere altrui e per darle qualche vivezza, non essendone ignaro come altre composizioni di quel sublime ingegno han dimostrato». Segue l’assicurazione propiziatoria: «Il Coriolano fu scritto per gioco, potendosi assicurare che non vi stancò punto la mente». Con queste parole Luigi Riccoboni presentava ai lettori l’Argomento del Cajo Marzio Coriolano in prosa (Bologna, Pissari, 1707).
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G. Gronda
tore attento e sollecito dell’«amenità moderna dei teatri» ‘!. Cost nell’ Argorzento dell’ Anfitrione, dichiarato il suo debito di gratitudine a Plauto e a Molière, precisa: «Molte cose [rispetto ai modelli] ne ho levate per entro, molte alterate, molte aggiunte affine di accomodarmi al gusto e alla ne-
cessità della musica e della scena» ‘2. Parole da non leggersi . come concessione all’uso e abuso dei tempi, ma come dettate dalla convinzione che, dodici anni dopo, da Vienna, gli farà scrivere al marchese Rangone a proposito del Don Chisciotte in Sierra Morena: «Questa sorta di componimenti più
merita nell’essere rappresentata che nell’esser letta» 4. Il verosimile o anche il semplice possibile fanno aggio sul vero 41 La casta Penelope, Milano, Ghisolfi, s.d. ma 1707, p. 6: «In Omero dal quale si è fedelmente presa la tessitura se ne vede espressa l’istoria. Tutto il resto è finzione, ma però fondata sul verisimile, usata per servir alla. scena che seco porta la libertà d’allontanarsi dall’ordine del testo quando non somministra assai commodo per l’amenità moderna de’ teatri». In questo caso l’argomento è del Pariati che, quando diciassette anni dopo a Vienna trasformerà i tre atti in prosa nella tragicommedia per musica Penelope, ribadirà: «Lo sdegno e la persecuzione de’ numi avversi ... sono cose troppo note per averne a fare qui un inutile racconto ... Per altro la gelosia di Ulisse, gli amori di Telemaco e Argene, le nozze infra di loro già destinate, ... il farsi lo stesso Ulisse creder già morto per cimentare
l’amore e la fedeltà della moglie ed altre cose simili sono tutte somministrate dalla sola invenzione che le ha giudicate abbastanza verisimili ed opportune per dar più di vaghezza all’intreccio del componimento» (Vienna d'Austria, van Ghelen,
s.d. ma 1724, p. 2). 42 «Questo argomento, trattato latinamente da Plauto, diede motivo anche a me di tessere la presente tragicommedia che cosî ad imitazione di lui mi piacque denominarla adattandole la mezzanità di caratteri dello stile e la mescolanza del ridicolo con il grave... Creonte non è di mera invenzione. Si ha ch'egli allora fosse capo de’ Tebani. Mercurio e Sosia sono imitati da Plauto; e Cleanta mi è stata somministrata dal famoso Molière che su le scene franzesi fé pur comparire questo argomento medesimo; e potrei dire che da lui ho presa altresi l'invenzione del prologo, se non ci ricordasse la nota favola che per comandamento di Giove si prolungò quella notte in cui Ercole fu concepito da Alcmena» (Anfitrione, Venezia, Rossetti, s.d. ma 1707, pp. 7-8). L’intero passo ed altri riferimenti dotti sa-
ranno omessi nella stampa viennese, postuma di cinque anni alla morte del Pariati, in cui anche il testo del libretto apparirà rielaborato in vari punti (Wien, van Ghelen, s.d. ma 1739). Il fatto che la dedica della stampa veneziana all’ Altezza Serenissima Ernesto Augusto duca di Brunswick-Luneburgo sia esplicitamente firmata da Pietro Pariati, che il nome dello Zeno non appaia né in questa né in quella viennese, che la tragicommedia non sia raccolta nelle Poesie drammatiche, mi inducono ad attribuire questo testo al solo Pariati contro l'opinione di M. Fehr e della maggior parte dei cataloghi (ma O.G. Th. Sonneck, Library of Congress. Catalogue of Opera Librettos Printed before 1800, Washington, Government Printing Office, 1914, I, p. 116, avanza i primi dubbi). 43 Si legge in N. Campanini, Un precursore del Metastasio, cit., p. 84.
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O
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storico nella ideazione teatrale di Pariati*, e ciò vale per l’intreccio degli eventi quanto per la dinamica delle tensioni patetiche. Un confronto dei libretti scritti a quattro mani con lo Zeno e di quelli firmati singolarmente dai due suggerisce l'impressione che Pariati tenda a radicare nel conflitto degli affetti e delle volizioni gli ostacoli che lo Zeno individua nella trama dei rapporti di forza o nel groviglio delle circostanze avverse. Non solo tutti i personaggi messi in scena
sono funzionali almeno ad una tensione drammatica (l’ambizione del potere, la difesa della libertà, la pulsione amorosa, l'affetto paterno o materno, la gloria militare, la fedeltà
al trono), ma più d’uno di loro è portatore di passioni multiple che aumentano in numero e intensità le opposizioni e le alleanze e danno luogo a una rete di rapporti conflittuali le cui valenze tendono al massimo grado di saturazione. Il dispositivo della falsa identità e della successiva agnizione, cosf frequente in Zeno, è variato in Pariati dalla compresenza, per cosf dire introiettata, di pulsioni contrastanti come dovere-amore, norma etica-desiderio istintuale,
eccetera, con il risultato di caratteri teatrali più complessi e contraddittori, al limite dell’ambiguità. Tipica in questo senso la figura di Gerilda, madre di Ambleto, costretta ri-
luttante alle nozze con Fengone, il tiranno assassino del marito Orvendillo, la quale dopo aver evocato gli incubi not-
turni che la ossessionano: Ancora l’ombra vien di Orvendillo, il morto sposo, a turbar nel tuo letto i miei riposi.
«Quel che stringi — ei mi dice — è il carnefice mio. Queste ferite 44 Né solo per il Pariati, se nell’ Argorzento dell’ Antioco, uno dei primi drammi di argomento storico scritti in collaborazione con lo Zeno, al termine di una lunga attestazione di fonti storiche e di rinvii bibliografici si legge: «Se poi tutto ciò che in questo argomento contiensi non fu qual viene rappresentato, poté tuttavolta essere tale. Uno de’ privilegi della poesia è il confonder la favola con la storia e ’l fare in maniera che non si distingua il vero, perché sia creduto anche il falso» (Antioco, dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro di S. Cassiano l’autunno dell’anno 1705, Venezia, Rossetti, 1705, p. 10, ma lo si veda anche in A.
Zeno e P. Pariati, Poesie drammatiche, cit., X, p. 293).
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opre son del suo braccio; e se nol vieta il cielo, quel braccio istesso alza già il ferro, e in seno già lo vibra di Ambleto, il caro figlio. E tu, barbara madre, empia consorte,
e lo soffri? e lo abbracci? Oh Dio!» Da gli occhi si dilegua frattanto l’ombra col sonno, e sol vi resta il pianto.
E dopo aver dichiarato a Fengone stesso il suo desiderio di vendetta: Odi, Fengon. Son tua nimica, è vero. Bramo il tuo sangue: bramo la mia vendetta. Esser vorrei tuo inferno per dare a me più furie, a te più doglie; ma con tutto quest’odio io ti son moglie. Nel tuo sen, crudel, vorrei
vendicare il mio dolor: ma si oppone a’ sdegni miei quella fede che ti diede la virti, non mai l’amor.
i (I, scena prima)
Lo salva tuttavia ripetutamente dai pericoli che lo minacciano e, anche dopo essere stata ripudiata, è a tal punto intimamente e profondamente coinvolta dal legame con il tiranno e con il trono da essere disposta a tradire i congiurati che si battono a favore del figlio: (Fingerò. Forse il merto di svelar la congiura mi renderà scettro e marito).
(n
da) , scena seconda
Acutamente Ambleto, e lo spettatore con lui, quando la madre si giustifica con il fatto di essere ormai moglie di Fengone, le rimprovera di essere anzi più che sua moglie... sua amante.
(II, scena nona) ‘°
i 45 Ambleto, dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro Tron di S. Cassiano il carnovale dell’anno 1705, Venezia, Rossetti, 1705, pp. 13-14, 62, 42 (anche in A. Zeno - P. Pariati, Poesie drammatiche, cit., IX, pp. 1-100).
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Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
E un sistema di forze drammatiche che si avvale di un numero relativamente ridotto di attori (non più di sette in molti dei drammi), in questo realizzando una sorta di razio-
nale economia distributiva che elimina comparse non strettamente funzionali all’azione teatrale, ma tende poi a dissociare il personaggio in identità contraddittorie. Il che avviene attraverso la follia, come nell’esempio di Ambleto demente oggetto di riso e insieme lucido stratega della propria vendetta, o attraverso un duplice ordinedi fedeltà: spontanea (l’amore per il figlio o per l’erede perseguitato) e coatta (la fedeltà al nuovo sposo anche se è il tiranno, o alla parola data anche se estorta con l’inganno). L’attenzione alla compresenza e contaminazione di pas-
sioni diverse non è la fluttuazione patetica e la perplessità metastasiana, né ne preannuncia le forme, e rivela piuttosto nel Pariati una percezione grave e dolorosa dell’ambiguità dei comportamenti umani. Se la volontà di riforma teatrale dello Zeno si basa anche sul desiderio di porre ordine nel caos delle azioni umane proponendo modelli ideali di razionalità morale, nel suo collaboratore traspare piuttosto la percezione dello spessore ottuso e crudele degli interessi individuali, della forza dell’intrigo e dell’invidia. L’eredità, si
vorrebbe dire secentesca, del dottore in legge si accompagna al gusto già arcadico del letterato veneziano e non manca di determinare diversi livelli espressivi. Il fenomeno è evidente nell’ Amzbleto dove la follia parla il linguaggio immaginoso e allusivo della metafora, mentre la comunicazione teatrale è assicurata da una discorsività rapida ed esplicita.
L’estro linguistico del Pariati, l’uso di un registro francamente comico ha modo di rivelarsi anche meglio nella tragicommedia, un genere già tentato negli anni veneziani con | l’Anfitrione e che diventa una scelta costante della produzione viennese. I/ finto Policare, Archelao re di Cappadocia, Creso e Penelope — quattro dei sei libretti scritti tra il 14 e il 24 — sono appunto tragicommedie, e tragicommedie sono anche Dow Chisciotte in Sierra Morena e Alessandro in Si-
done, gli unici due testi che Pariati comporrà a Vienna insieme allo Zeno. La scelta.ubbidisce ad una distribuzione 133
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dei compiti fra i due poeti cesarei * e tien conto delle preferenze dello Zeno, il quale candidamente confessava di essere del tutto alieno dal genere comico #, ma essa riflette certo una disposizione istintiva congeniale del Pariati, che si era espressa perfino nella produzione prosastica. Si ricorderà infatti che, di contro alla tragedia Cajo Marzio Coriolano, nel 1707 il Pariati aveva scritto anche La casta Penelope, tragicommedia in prosa. È un genere di comico, quello del Pariati, che muove da
modelli classici e moderni di grande prestigio, Plauto, Cervantes e Molière, e, per quel che si può desumere dal Don Chisciotte in Sierra Morena, assume le forme della citazione,
anzi della parodia letteraria elevata al quadrato: «Egli è cosf noto e famoso il libro dell’istoria di Don Chisciotte della Mancia che sarebbe superfluo il dat qui l'argomento di questa Tragicommedia il cui viluppo è tutto da capo a piedi sopra lo stesso fondato. Dalla prima parte del medesimo è tratto non solamente quello che concerne le sue avventure di fantastica errante cavalleria, ma quello ancora che ne costituisce le parti serie, le quali in questo componimento si
46 «Minato had written the texts for all three branches [il comico, lo storico
e il mitologico] before his death in 1698, but later each of the three developed its own team of specialists: Pariati (later G.C. Pasquini) and Francesco Conti for the comical, Zeno (later Metastasio) and Caldara for the historical, Bernardoni (later Pariati) and Fux for the mythological» (R.S. Freeman, Opera without Drama, cit.,
p. 89). 47 «Non mi esibisco per il comico, poiché non ho vocazione; né mi dà l’animo di provarmici»: cos Zeno nella lettera indirizzata al marchese Giorgio Clerici e datata Venezia 22 gennaio 1717. Il testo è importante perché Zeno vi discorre minuziosamente delle condizioni alle quali può accettare «il fortunatissimo impiego» di poeta cesareo. Alla riserva sulla produzione comica segue la supplica di essere «dispensato da altri componimenti poetici fuori dei teatrali», con la protesta della propria incapacità di «reggere al doppio peso». Anche la sola fatica dei «componimenti seri» per il teatro imperiale gli parrebbe eccessiva se non sapesse «essere inveterato costume della cesarea munificenza il tenere nella sua corte due poeti, per poter supplire a vicenda alle molte occorrenze, e quando non mi fosse noto trovarsi presentemente al servizio dell’augustissimo padrone il sig. dr. Pietro Pariati, mio grande amico, e da me al maggior segno riverito e stimato, col quale ebbi la sorte di scrivere molti e molti drammi in Italia con ottima riuscita e di cui (quando ne stesse a me la elezione) non saprei scegliermi né compagno pit grato, né ingegno pi pronto per tale ufficio. E ben sa l’E.V. quanto a tali cose giovi la buona armonia e intelligenza, e quanto sia difficile ritrovarla in quelli di una medesima professione» (Lettere, cit., II, n. 412, pp. 402-403).
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Per una ricognizione dei libretti di Pietro Pariati
può dire che ne sono come l’episodio, là dove l’altre ne sono come la principale azione». La notorietà del soggetto nulla toglie al merito del librettista che rivendica non solo il mutamento di segno — da serio («l’episodio») a comico («la principale azione») — ma l’abilità della costruzione drammatica:
il rispetto delle tre unità
(«siccome
nella parte
dell'invenzione ha tutto il merito l’autore del libro, cosî in quella dell’ordine e della disposizione non si è durata poca fatica per ridurre a filo, e a una tal quale unità di luogo, di tempo e di favola, le disparate azioni che si sono dovute ammucchiare l’una sopra l’altra, per dar con la varietà e con la stravaganza di esse più divertimento e piacere») #8. Ha modo soprattutto di esplicarsi in questi testi il divertimento verbale, il gioco lessicale e ritmico, dal dialogo
precipitoso, ai limiti della sticomitia, al botta e risposta fulminante, al contrasto fra la concisione gnomica delle arie di Fernando, principe di Andalusia: Odio, vendetta, amore,
sdegno, ragion, dovere fan guerra nel mio core; qual vincerà, non so. Amo un crudele oggetto, tradisco la tua fede: l’alma il suo torto vede correggerlo non può.
(IV, scena sesta)
e la trivialità del duetto IGI0E.(nana fra la serva Maritorne e lo scudiero Sancio: Odimi: villan più sordido, villan più ruvido, villan più critico, villan più rustico, più detestabile, più bastonabile mai non vi fu.
Sentimi: più falsa femmina, più astuta femmina, più doppia femmina, più ardita femmina, pit insopportabile, più staffilabile mai non vi fu.
(II, scena ottava) 49
48 Don Chisciotte in Sierra Morena, tragicommedia per musica da rappresentarsi
nella cesarea corte per comando augustissimo nel camevale dell’anno 1719, Vienna
d'Austria, van Ghelen [s.d.], pp. 3-4. 49 Don Chisciotte in Sierra Morena, cit., pp. 65 e 35.
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Prevale il registro dell’opera buffa. Si riconosce qui, a più di vent'anni di distanza, il poeta giocoso degli intermezzi, colui che nel carnevale del 1708 a Venezia aveva scritto
per Francesco Gasparini i versi del Parpagnacco e per Tommaso Albinoni quelli del Pirzpizone, dando vita a due testi ‘ per musica che, con i titoli più vari, sarebbero stati cantati
negli intervalli dei drammi musicali più diversi sui teatri di tutta Europa. A ragione Strohm?° ha richiamato l’attenzio“ne su questi intermezzi: ad una data molto alta? — il metastasiano Impresario delle Canarie sarà eseguito per la prima volta a Napoli da li a quindici anni — essi presentano già quei connotati stilistici, metrici e linguistici che li caratterizzano come esemplari del loro genere. Per ciò che concerne più da vicino il Pariati, poeta per musica, essi ci documentano al meglio la sua sensibilità teatrale, comica e satirica, tanto lontana dall’aulica garbata compostezza del suo 4/ter ego Apostolo Zeno quanto anticipatrice della verve comica del suo ammiratore Carlo Goldoni”. 50 R. Strohm in Die Italienische Oper in 18. Jabrbundert, cit. analizza il Pimepinone del Pariati musicato da Telemann e presentato nell’estate del 1725 al teatro del Gansenmarkt di Amburgo (nel capitolo sugli Interzzezzi, pp. 121-124). Sulla diffusione di questi testi si vedano anche dello stesso autore i due volumi degli «Analecta Musicologica» 16, Italienische Opernaries des friiben Settecento (1720-1730), Koln, Arno Volk Verlag, 1976, e l’introduzione di M. Talbot all'edizione critica della partitura di T. Albinoni per il Pirzpinone nella collana «Recent Researches in the Music of the Baroque Era», Madison, Wisconsin, A-R. Editions, 1983. 51 Il settecentesco Catalogo de’ drammi musicali fatti in Venezia, cit. data
all’autunno 1706 la comparsa degli intermezzi sulla scena veneziana: «In quest’anno ebbero principio gl’Intermezzi in musica che fra gli atti de’ Drammi furono introdotti onde mischiata la lepidezza de’ primi con la serietà de’ secondi riuscir potesse più piacevole e più universale il divertimento. ... Tali Intermezzi comparvero da questo tempo all’incirca con qualche frequenza nelli teatri di S. Cassiano e S. Angiolo e più raramente in quelli di S. Mosè e di S. Samuele. Ma nel magnifico celebre teatro di S. Gio. Grisostomo mai furono ammessi, con la costante mira di mantenere in esso il più serio decoroso contegno», con l’interessante excursus storico sulle modificazioni del gusto teatrale dalla metà del Seicento in poi e la conseguente diversificazione del «ceto de’ cantanti ... in due classi, seri cioè e buffi» (anno 1706, n. 408).
92 Sulla esemplarità di questi testi del Pariati per gli Intermezzi goldoniani si vedano le note di G. Ortolani a La pupilla, Il filosofo, Il quartiere fortunato in C. Goldoni, Tutte le opere, cit., X, pp. 1224, 1233, 1245. Che Pariati fosse autore
caro e familiare al Goldoni fin da giovane è provato tra l’altro dal sonetto Competenze d'amor e sdegno nel petto d’Artemisia col suo Sesostri creduto Ossiride, ispirato dalla «famosa tragicommedia intitolata Sesostri»: lo si veda fra i componimenti giovanili raccolti nel vol. XIII di Tutte le opere, cit., pp. 16-17.
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L'ARCHITETTURA E LA SCENOGRAFIA du
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Il palchetto del Teatro di Reggio. Qualche nota sull'attività di Antonio Cugini
La parte del convegno dedicata all’architettura teatrale vede un primo intervento propriamente rivolto alla vita teatrale di due cittadine della Romagna, ovvero alle. forme dell’organizzazione impresariale e agli aspetti dell'ambiente culturale di due piccoli centri, Castel San Pietro e Budrio: due centri i quali, pur sensibili alle sollecitazioni provenienti dalle città vicine, seppero elaborare una conduzione atipica del fenomeno teatrale. La messa a punto di segnali particolari del rapporto tra comunità governativa e cittadinanza, della regolamentazione dell’attività di una serie di teatri, presente nella prima relazione, trova nelle due successive alcune corrispondenze significative. Inoltre, l'ispezione condotta sul teatro bresciano porta un interessante contributo alla conoscenza dell’attività imprenditoriale; essa mette in luce come la stessa équipe di pittori, decoratori, stuccatori, formatasi originariamente, venisse via via a ricostituirsi con gli stessi specialisti, chiamati uno dopo l’altro ogni qualvolta un archi-
tetto, avendo eseguito con eccellenza la costruzione di un teatro, veniva invitato altrove a prestare la sua opera.
L’attenzione è rivolta ad Antonio Cugini di Reggio!, all’architetto che nella ‘sua città costrui nel 1741 il Teatro 1 Antonio Cugini (Reggio Emilia 1678 c. - 1765) ricevette la prima impostazione nel disegno da Ferdinando Galli Bibiena, e, sempre secondo il Tiraboschi che redasse l’unica biografia che conosciamo, costruf, oltre al Teatro di Reggio, l’Armeria ducale e il nuovo Teatro di Modena, il Teatro Collegio di Parma e i Teatri di Brescia e di Padova. (Cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca Modenese, Modena,
1786, vol. VI, pp. 402-403).
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di Cittadella, il teatro che possiamo ancora in parte riconoscere, nonostante
le devastazioni dei successivi restauri,
nell’attuale Teatro Ariosto. Della considerazione in cui era tenuto il Cugini fanno fede i molti documenti che registrano, a partire dalla costruzione del teatro reggiano, la sua presenza come proget-
tista, o come collaboratore, negli ambienti di Brescia e di Padova, oltre che nella vicina Modena, e la sua attività, ne-
gli anni della piena maturità artistica, di «esperto» di costruzioni teatrali. Persino Bologna, che pur disponeva di rinomati architetti, di fronte al dibattuto progetto di Antonio Galli Bibiena per l’erigendo Teatro Comunale, dopo aver sentito il giudizio del Dotti e di altri artisti bolognesi, chiese proprio al Cugini di esprimere il suo parere. Le attente osservazioni espresse dettagliatamente sui disegni della pianta e dell’alzato, sull’uso improprio dei materiali da costruzione, sugli elementi sfavorevoli all’acustica, fanno della sua relazione di risposta un vivace documento sul modo del «fabbricar teatri» nel secolo XVIII ?. Lo spazio del convegno riservato all’attività dell’architetto reggiano a Brescia e a Padova trova appropriata intro-
duzione nel modellino del Teatro di Cittadella di Reggio, qui esposto come dispositivo protagonista: esso, proponen-
do infatti l’aspetto del teatro nel razione, avvenuta la sera del 29 chiave di lettura delle successive La città di Reggio’, che era tante istituzione civile (il Teatro
momento della sua inauguaprile del 1741, fornisce la realizzazioni del Cugini. stata privata di un’imporVecchio, luogo di incontro
2 Devo la segnalazione del documento reggiano (Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio Cassoli Guastavillani, filza n. 146) alla generosa collaborazione di Marinella Pigozzi; un’altra copia della relazione è registrata tra i documenti relativi alla costruzione del Teatro Comunale di Bologna da C. Ricci, I teatri di Bologna (ristampa anastatica Forni sull’esemplare di Bologna del 1888), p. 561, paragrafo v: Parere ms. di Giov. Ant. Cugini sulla pianta e spaccato del teatro. 3 Per una dettagliata informazione sulla vita teatrale a Reggio si fa rinvio ai due volumi Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze, Sansoni, 1980; per il Teatro di Cittadella e per le testimonianze documentarie ad
esso relative si rinvia al saggio della scrivente I luoghi teatrali nei secoli XVI-XVII in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. 72-96.
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Qualche nota sull'attività di Antonio Cugini
mondano dei cittadini e insieme il luogo dove il duca si compiaceva di comparire, era andato distrutto da un incendio), aveva sentito l’assillo di provvedere sollecitamente alla ricostruzione di un nuovo-ambiente: alla metà del secolo il Nuovo Teatro poteva offrire un luogo capace di venire incontro al crescente interesse della cittadinanza, ari-
stocratica e borghese, e di costituire un centro attivante la vita culturale della città. Costruito nel breve giro di undici mesi ‘, l'ampio edificio, autonomo
(ossia isolato dalle case
civili adiacenti), impose la propria presenza «specifica» nella città, tale da dare a Reggio «il teatro» quale altre città viciniori già vantavano. La resa puntuale nel modellino di tutti i tratti tipologici costitutivi l’aspetto originario del teatro muove dalla lettura di tre acqueforti settecentesche’, raffiguranti di esso, rispettivamente, l’esterno, la pianta e lo spaccato longitudinale (figg. 1, 2, 3): le stampe, che, incise appositamente da Carlo Manfredi per la pubblicazione memorativa, avevano contribuito a divulgare, in modo efficace e immediato, l’immagine del teatro, insieme con un prezioso disegno che fornisce l’immagine della decorazione del soffitto e con altri 4 I documenti relativi alla fabbrica del Teatro di Cittadella sono conservati nell’ Archivio di Stato di Reggio Emilia, Archivio del Comune, Acque Strade e Fabbriche, Disegni e carte riguardanti l’erezione del nuovo Teatro, 1740-1743.
> Le tre incisioni furono eseguite da Carlo Manfredi per corredare l’opuscolo che usci dai torchi del modenese Bartolomeo Soliani a un anno di distanza dall’inaugurazione del teatro, con il titolo Pianta, Esteriore e Spaccato del nuovo Teatro di Reggio di Lombardia, dedicato al governatore della città, il marchese Girolamo Lucchesini dallo stesso Manfredi; il carattere descrittivo della stampa e il valore esplicativo delle tre tavole contribuirono certamente a diffondere la conoscenza delle caratteristiche architettoniche di un teatro che in quel tempo fu senza dubbio uno dei più importanti della regione. Nella Raccolta di Disegni e Stampe dei Civici Musei di Reggio si conservano i disegni preparatori delle incisioni (catalogati rispettivamente: C 62, C 60, C 61); per la datazione dell’opuscolo si
veda E. Garbero, I luoghi teatrali, cit., p. 96, n. 62 e per ulteriori precisazioni sui disegni M. Pigozzi, Disegni di decorazione e di scenografia nelle collezioni pubbliche reggiane, Reggio Emilia, 1984 (Cataloghi dei Civici Musei, 9), schede nn. 7-9. Per le incisioni cfr. Z. Davoli, Le raccolte di stampe dei Civici Musei. 1. Stampe di autore e di interesse reggiano, Reggio Emilia, 1983 (Cataloghi dei Civici Musei, 6), schede nn. 29-31.
6 Il bozzetto del soffitto, facente parte della stessa raccolta di disegni e stampe reggiani (vedi nota precedente), C 69, è stato di recente attribuito, se pure ancora in maniera dubitativa, ma con convincente proposta, a Giovanni Antonio
Paglia, da M. Pigozzi, Disegni di decorazione, cit., scheda n. 10.
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documenti d’archivio resero possibile una soddisfacente visualizzazione dell'insieme ambientale. La sensibilità e l’abilità degli architetti che hanno costruito il modello, Sandro Galleri e Giorgio Berretti, seppero cogliere da questi documenti le particolarità architettoniche e decorative che fece-
ro del Cittadella un teatro eccezionale; la bella 72aguette in stucco e resine particolari, lo ripropone puntualmente con preziosità nella riduzione quasi miniaturizzata. A metà del Settecento la singolare bellezza dell’edificio reggiano aveva infatti ottenuto immediato ed unanime riconoscimento e mosso l’interesse delle comunità governative di altre città, anche lontane e di ricca tradizione artistica, le quali, intenzionate in quegli anni a costruire ex novo o a trasformare il vecchio teatro, come Brescia e Padova, non
tardarono a chiedere l’intervento dell’architetto reggiano. Per intendere la lezione innovatrice del Cugini sarà sufficiente passare in rapida rassegna le componenti caratterizzanti la sua prima opera, il teatro di Reggio, puntualmente leggibili nel manufatto moderno. Immaginando di seguire il percorso del pubblico che affluiva al teatro per assistere allo spettacolo inaugurale, potremo osservare l’ingresso (che allora si trovava sotto il portico), la facciata orientale, priva ancora del loggiato per l’accesso delle carrozze, ed entrando, l’atrio poligonale (fig. 4) provvisto di due passaggi differenziati, uno riservato al duca e alla sua corte per accedere
al palco, l’altro al pubblico per raggiungere la sala, e qui giunti ammirare l’inconsueto impaginato parietale dell’invaso caveale. Un'apposita apertura nel modello consente la visione della sala (fig. 5), della decorazione del soffitto, della lu-
meggiatura dei palchi, delle porte e delle «grate» divisorie dei palchi, nonché l’attrezzatura del palcoscenico: un insieme di elementi interessanti, sui quali l’occhio del visitatore si sofferma volentieri e la curiosità storica dello studioso può trovare spunti per ulteriori riflessioni. L’impianto architettonico dei palchi (che principalmente attrae l’attenzione perché inconsueto allo spettatore di oggi) trovava, nel momento in cui iniziò ad operare il Cugini, riferimenti illustri ormai consolidati: la vicina Bologna e 142
Qualche nota sull'attività di Antonio Cugini
la più lontana Genova offrivano entrambe lo stesso modello archetipico, e Verona l’interpretazione successiva. Andrea Seghizzi era stato l’autore della innovazione apportata un secolo prima alla sistemazione dei palchetti: una funzionale innovazione che mirava a migliorare la vista della scena non più sufficientemente garantita agli spettatori, i quali, dalla sistemazione sui gradoni degli apparati di sala cinquecenteschi, si erano venuti a trovare, con la costruzio-
ne dei palchetti, allogati dentro alle «cellette» allineate lungo i due lati della sala, e costretti in uno spazio limitante ulteriormente la visibilità; quella visibilità che il Seghizzi intese migliorare mediante sporgenze progressive dei palchi e mediante differenze di quota dei loro piani, a partire dal fondo verso la scena, conferendo agli ordini dei palchi congiuntamente un andamento assecondante la pendenza della platea e digradante verso la zona del boccascena. Con i teatri Formagliari (fig. 7)? e Malvezzi a Bologna e il Teatro Falcone (figg. 6, 6 bis) a Genova?*, l’architetto bolognese aveva cosf impostato, già nel Seicento, la forma che diede le mosse a una lunga serie di imitazioni: Francesco Bibiena su di essa creò la gemma del genere nel settecentesco Teatro Filarmonico? a Verona (fig. 8), e il Cugini da essa ebbe ? Per il disegno di Antonio Basoli, conservato a Bologna, nella Biblioteca dell’ Accademia di Belle Arti, Fondo Basoli, album n. 105, c. 82, cfr. D. Lenzi, I teatri, in L’Arte del Settecento emiliano. Architettura, Scenografia, Pittura di paesaggio (catalogo della mostra, Bologna, 1979), Bologna, 1980, p. 143, scheda n. 210.
8 L'architetto, scenografo, quadraturista bolognese, Giovanni Andrea Seghizzi, o Sighizzi (Bologna 1613 - post 1684), realizzò nella sua città due impor-
tanti edifici teatrali: nel 1640 il Guastavillani-Formagliari, e, a pochi anni di distanza il Malvezzi, inauguratosi nel marzo del 1653, e a Genova il Teatro Falco-
ne, apertosi dopo il suo restauro, nello stesso anno 1653. Per il primo teatro bolognese cfr. C. Ricci, I teatri di Bologna, cit., pp. 78-79, e per il Teatro Falcone di
Genova: R. Marchelli, Gli inizi del teatro pubblico italiano e Andrea Sighizzi, in «Commentari», VI (1955), f. II, pp. 117-126, il quale pubblica il disegno della pianta del teatro (lo stesso riportato in questo volume) dalla edizione di G. Craig, Books and Theatre, London and Toronto, 1925, p. 34, tav. 13 (come si legge nella nota 17 a p. 124 del saggio del Marchelli); la pianta, appositamente ridisegnata, è pubblicata in Fabrizio Carini Motta, Trattato sopra la struttura de’ teatri e scene, introduzione, note e piante di teatri dell’epoca di A. Craig, Milano, Il Polifilo,
1972, tav. 5. 9 Per la documentazione e le testimonianze iconografiche relative al Teatro Filarmonico di Verona si veda: F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I Teatri del Veneto. Verona, Vicenza, Belluno e il loro territorio, Venezia, 1985, vol. II, pp.
66-84.
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modo di cogliere le suggestioni di alta qualità formale per il suo Teatro di Cittadella. Una suggestiva differenza tuttavia distingueva nei due teatri lo sviluppo lineare dei palchetti: se la sporgenza di quelli dei teatri di Bologna e di Genova era determinata da una linea dentata a spigolo acuto, quella di Reggio era data invece dalla morbida forma lobata dei parapetti, entrambe chiaramente leggibili nel tracciato delle relative piante (fig. 6 e fig. 2). «Per tal via— scriveva l’Algarotti del teatro bolognese — meglio si affaccia in certo modo ogni palchetto alla scena, e l’uno non impedisce punto la vista dell’altro: massimamente se traforato sia l’assito che gli divide, ed ab-
bia sembianza di rastello, come praticato vedesi nel teatro Formagliari di Bologna che fu dal Sighizzi ordinato in tal forma» !°. Nel secolo dei grandi dibattiti teorici, il recupero dell'andamento digradante dei palchi apparve la soluzione più adatta a rispondere all’esigenza dei dettami prospettici, che con l’ampliarsi orizzontale della scena e il moltiplicarsi dei punti di fuga, proponevano nuovi quesiti; l'impianto cost articolato, abbassando il punto di vista di ciascun palchetto, diminuiva la divaricazione degli assi visivi, e permetteva che essi raggiungessero più agevolmente il punto di orizzonte della scena: il tutto mirava a portare il vantaggio di una migliore godibilità dello spettacolo a quella parte di pubblico allogata in posizione laterale, che risultava essere, da sempre, la più sacrificata. Guardando il Teatro di Cittadella possiamo riprendere l’osservazione fatta a suo tempo che a Reggio, nel momento della costruzione di un nuovo teatro, il ricordo del precedente ha sempre legato, in una continuità che non voleva essere soltanto visiva, al vecchio il nuovo edificio; cosî la
pianta a U del Teatro delle Commedie permane, come permangono i palchi in disposizione tangenziale all’asse della sala e le «grate» divisorie, quando altrove si erano ormai consolidate soluzioni altrimenti funzionali, come l’orienta-
mento dei palchi verso il palcoscenico e l'elaborazione della
10 Cfr. F. Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, 1763?, p. 79.
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Qualche nota sull'attività di Antonio Cugini
pianta della sala a ferro di cavallo o a campana, atte ‘ anch’esse a garantire una migliore visibilità a ogni ordine di posti. A noi, oggi, sembra che questo legame con le forme precedentemente conosciute abbia in qualche modo potuto predisporre la scelta dell'ormai sperimentato modello seghezziano: una scelta che, filtrata dall’interpretazione del Cugini attraverso l'esempio del Bibiena, apparve come una proposta del tutto nuova e inconsueta. Il Cugini, attento all'esperienza veronese del Bibiena, colse da questa la lezione più fantasiosa, ma, restringendone la portata, ossia diminuendo l’intensità del fastoso apparato propriamente dicevole a un pubblico di Accademici, adottò di essa quanto potesse apparire conveniente e gradevole al pubblico di una cittadina. Sebbene la pianta prescelta fosse ancora quella di tipo secentesco a forma di U, l’abilità dell’architetto seppe riscattare la soluzione ormai volta al disuso con un disegno armonico e dinamico insieme. L’immagine della pianta, delineando il profilo della sala nell’andamento dei palchi laterali, del palco ducale, di quello degli Anziani, dell’orchestra con una linea in continuo movimento, portata ad addolcire la rigidezza del perimetro, fornisce i primi elementi della interpretazione dello spazio. Tuttavia, la lettura dell'immagine di questo teatro (ripercorsa durante la realizzazione del modello ligneo) allontana quella del teatro bibienesco e lascia maggiore spazio all'esempio seghezziano, pit familiare, del resto, al pubblico aristocratico e borghese di Reggio Emilia. La nuova impostazione, che aveva contribuito a renderlo «consonante e armonioso», spiegherebbe il rapido favore che il Teatro di Cittadella incontrò subito: lo testimoniano il giudizio dei viaggiatori stranieri! e, la presenza in Francia di due disegni che lo raffigurano, collocati tra i primi di una serie eseguita (o fatta eseguire) dal francese Dumont
(forse attorno al 1742, quando questi compf la sua «campa11 J.J. de Lalande, Voyage en Italie, Paris, 1786, tomo II, p. 170. Annotazioni sul Teatro di Cittadella si possono leggere nelle memorie di J.M. Roland de la Platière, Lettres écrites de Suisse, d’Italie, de Sicile et de Malthe, Amsterdam, 1780, tomo II, p. 24, e di Ch. de Brosses, Viaggio in Italia, Bari, 1973, p. 641.
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gna di studio» delle sale teatrali italiane !°), e infine la sua immagine ritenuta ancora un modello valido da riproporre tra i più moderni d’Europa a un secolo di distanza, quando ormai radicali trasformazioni avevano reso l’aspetto del Teatro quasi inconfrontabile con quello originale !. Possiamo tuttavia supporre che, al di là degli accorgimenti tecnico-architettonici, a esaltare la particolare eleganza del locale settecentesco fosse soprattutto la componente cromatica, ovvero il complesso degli ornati più vari e colorati, che portavano all’insieme ambientale un considerevole contributo decorativo. Una équipe di pittori, alla quale Giovan Antonio Paglia (lo scenografo ufficiale della corte modenese) aggiungeva lustro e prestigio, provvide ad abbellire con garbate figure e fregi l'interno del teatro !*. I documenti d’archivio rivelano, in più occasioni, l’attenzione con la quale la committenza sceglieva e faceva eseguire le pitture che ornavano il soffitto, i parapetti e gli interni dei palchi. Le decorazioni seguivano un ordine che era stato preventivamente fissato per contratto e accettato dallo stesso Paglia: «che la prima e la seconda fila de’ palchi per il di dentro abbiano nel dipinto qualche distinzione», poiché nessun palco doveva recare lo stemma distintivo della famiglia proprietaria; soltanto il palco ducale e quelli di proscenio, a disposizione di Sua Altezza, dovevano essere decora-
ti «più vagamente — dice il documento — e nel soffitto vi sia qualche figura colorita ad arbitrio» !. Può concorrere alla visualizzazione della veste decorativa dell’interno del teatro reggiano un disegno che ebbi modo di trovare alla Bibliothèque de l’Opéra di Parigi; un di12 I due fogli fanno parte di una raccolta di disegni, che si pensa dovessero servire per illustrare le opere di Gabriel Pierre Martin Dumont, conservata a Parigi nella Bibliothèque de l’Opéra: «Plans de théatres » D 342; i fogli recano le segnature, rispettivamente: Redgio, «Coupe sur la longueur du théatre» (di cm. 50 x 67,5) alla pl. 17 e Redgio, «Plan du rez-de-chaussés du théAtre» (di cm. 68 x 51) alla pl. 18. 13 La pianta del Teatro di Cittadella, ridisegnata da Clément Contant, apparve in Parallèle des principaux théétres modernes de l'Europe et des machines théétrales frangaises, allemandes et anglaises, testo di Joseph de Filippi, Paris, 1860 (ora ristampa anastatica, B. Blom, 1978), tav. 90.
14 Cfr. nota n. 6. 15 Cfr. nota n. 4.
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Qualche nota sull’attività di Antonio Cugini
segno acquerellato con diverse tonalità di colori, dal giallo all’ocra, dal rosa all’azzurro, dal grigio all’oro, raffigurante una parte dell’impaginato degli ordini di palchi di una sala teatrale (fig. 9): una sezione soltanto, ma sufficiente a tra-
smettere la smagliante preziosità che distingueva i teatri settecenteschi. Il foglio reca,la data, 1749, e l’indicazione
dell’esecutore del disegno «Ange Strazza fecit», il cui cognome potrebbe connotarne l’origine emiliano-lombarda !6. Se immediato motivo di richiamo a prestare attenzione alla preziosa pittura furono la disposizione digradante e la forma lobata dei palchetti in essa rappresentati, a decretarne l'interesse furono certamente le segnature indicative: Redgio sul retro del foglio e Modena sulla cartella che contiene il disegno insieme con un altro in tutto simile, ma privo di data e di firma. Ricche di suggestioni attributive, le due indicazioni (Redgio e Modena) tra loro non corrispondenti, possono ugualmente condurre a riferimenti, sia pure in maniera indiretta, al Teatro di Cittadella e al Teatro di
Modena, al cui restauro il Cugini aveva dato il suo contributo. In via preliminare, in attesa cioè di ulteriori e approfondite verifiche, il disegno potrebbe essere considerato come un appunto memorativo di un pittore-decoratore in visita alla sua terra, o più propriamente di un relatore, sulla tipologia architettonica e decorativa in atto in Emilia, ovvero nelle città che in quel torno di tempo stavano fornendo interessanti spunti esemplari. La sua presenza in Francia (in tutto simile a quella dei disegni della raccolta Dumont) conferma che la lezione emiliana aveva varcato, ancora una volta, il confine italiano !.
16 Il foglio, conservato a Parigi nella Bibl. de l’Opéra, Cotes: Est / Salles, cartella Italie: Modena, di cm. 53,5 x 56, reca le annotazioni: «Ange strazza fecit
| anno 1749; Parterre; l’Eschele de six pieds». Il secondo disegno, in tutto simile al primo, ma privo di annotazioni, ha una colorazione più intensa e misura cm. 44,5 x 58; sul retro di entrambi la dizione «Redgio porf [portefeuille] 131».
17 Un secolo prima Gaspare Vigarani, l'architetto reggiano chiamato da Luigi XIV, aveva portato alla corte francese il modello del «teatro all’italiana»; per il re
di Francia Vigarani costruf nel Palazzo delle Tuileries la «Salle des machines» che contemplava per la sistemazione del pubblico una gradinata caveale e due ordini di palchi a balcone ad essa sovrastanti. Per alcune testimonianze sulla diffusione di questo modello si rinvia a E. Garbero Zorzi, I/ passaggio a Reggio Emilia di Ga-
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E. Garbero Zorzi
Si è voluto dar conto in questa occasione del documento (insieme con quelli presentati, anch'essi per la prima vol. ta, dagli altri relatori) perché ci è sembrato che esso fosse significativo di un passaggio della mai interrotta discussione sulla ubicazione e sulla forma dei palchetti e di una particolare espressione i cui tratti fisionomici che la denotano e qualificano sembrano oggi ascriverla più propriamente al gusto di una tendenza artistica in voga al momento. L’euforia della novità del palchetto «digradante» non durò a lungo ma solo il tempo per dar luogo a una manifestazione temporanea, che oggi potremmo intitolare, con facile traslato, «il
palco alla moda».
i
spare Vigarani, in Barocco romano e barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria,
a cura di M. Fagiolo e M.L. Madonna. Atti del I Corso Internazionale di Alta
Cultura «Bernini e l’universo barocco» (Roma 1-5 dicembre 1980), Roma 1984
pp. 228-233. 148
i
DARIO
BORZACCHINI
DANIELE
SERAGNOLI
Luoghi teatrali in Romagna: uso, gestione e organizzazione
Guardare teatro in Romagna ha, per noi, significato innanzitutto scegliere dove cercare, in quanto è ovvio che, se seguendo la strada dell’edificio teatrale le risultanze sarebbero state, nel migliore dei casi, di puro accrescimento documentario di una realtà già nota, almeno concettualmente, è altrettanto evidente come la mancanza di argini che incanalassero lo sguardo, ingenerando inevitabili confusioni, avrebbe presentato il rischio altrettanto grave di far trovare teatro anche là dove non c’era. Ecco perché si è reso necessario l’impiego di una locuzione come «luogo teatrale» per definire il nostro ambito di lavoro, non già per usare un insieme apparentemente più ampio, quanto per indicare ine-
quivocamente un metodo di indagine!. Su questa base è parso inoltre conveniente adottare preliminarmente un criterio d’ordine geopolitico: infatti essendo la Romagna luogo apparentemente dotato di grande omogeneità culturale, in seguito anche al lungo dominio pontificio, era lecito ipotizzare la medesima realtà estesa anche al teatro; non solo ma
la presenza di due importanti e agevoli arterie di comunicazione come la via S. Vitale e la via Emilia, che tagliano la regione da Bologna fino al mare, faceva presagire interscambi culturali, potenzialmente forieri di riscontri utili a colmare eventuali zone di silenzio nella documentazione. Si La parte introduttiva è curata da Dario Borzacchini, le schede su Castel San Pietro e Budrio sono di Daniele Seragnoli.
1 È opportuno rilevare come il concetto di «luogo teatrale», espresso probabilmente per la prima volta nel 1963, nell’ambito del C.N.R.S. francesce (cfr. Le lieu thégtral è la Renaissance, Paris, Editions du C.N.R.S., 1964, p. vm) e ampiamente poi ripreso in molti ed importanti ambiti di studio (cfr. per tutti L. Zorzi, Il teatro e la città, Torino, Einaudi, 1977, pp. 140-1), sia stato quasi sempre utilizzato semanticamente come diretto antecedente del termine «teatro», inteso come
punto di arrivo di' una parabola complessa il cui esito finale sarà la sala teatrale barocca o all’italiana.
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D. Borzacchini - D. Seragnoli
sono quindi privilegiati tutti quei centri abitati posti lungo queste due direttrici, o comunque abbastanza vicini da esserne influenzati. La seconda scelta, questa però quasi obbligata, ha riguardato la presenza e l’utilizzazione di archivi pubblici o privati. Una volta stabilito dove, si è posto il problema di cosa guardare. Il problema è però ancora irrimediabilmente aperto, in quanto se è vero che molti archivi hanno già raccolto i loro materiali teatrali sotto voci specifiche (Teatro, Spettacoli, Feste ecc.), è altrettanto nota la generale frammentarietà della documentazione per tutto il ‘700; di conseguenza, l’attenzione ad ogni possibile rimando, seppur troppo legata a scelte personali per poter costituirsi in metodo, si è comunque manifestata l’unica prassi utilizzabile. Ad ulteriore testimonianza, se mai ce ne fosse stato bisogno, dell’interesse suscitato nel ’700 dalle vicende teatrali, un
importante strumento di lavoro si è, comunque, in generale rivelata, la consultazione degli «atti delle adunanze comunali», molto spesso in grado di colmare, seppur parzialmente, ampi vuoti cronologici. Ed è proprio a partire dalle delibere comunali che si è potuta stabilire una griglia tipologica basata sui criteri gestionali dei vari teatri, in grado di offrire interessanti spunti di riflessione ed ulteriori stimoli alla ricerca.
Dai circa venti luoghi teatrali presi in esame ? è emersa, infatti, una situazione oltremodo variegata e complessa, difficilmente omologabile con le categorie usuali, se non a prezzo di semplicistiche generalizzazioni. Il primo dato che immediatamente salta agli occhi è la quasi totale assenza del professionismo attorico, proprio nel secolo della massima espansione di un teatro certamente da riformare, certamente da moralizzare, ma proprio per questo ormai istituzionalizzato. Ebbene in una condizione generale, storiograficamente accettata, di questo tipo, la Ro2 I luoghi presi in esame: S. Agata Bolognese, Crevalcore, Cento, Pieve di Cento, Budrio, Medicina, Massalombarda, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo, Ravenna, Castel San Pietro, Imola, Castelbolognese, Faenza, Brisighella, Forlî, Forlimpopoli, Bertinoro, Cesena, Rimini.
150
Luoghi teatrali in Romagna
magna — ma sarebbe auspicabile una verifica anche in altre situazioni geografiche — non ostante la presenza di luoghi teatrali quasi in ogni centro abitato, non offre documentazioni significative e continuative (a parte una netta minoranza di casi) di attività teatrali a livello professionistico. Inevitabile, a questo punto, superare due tipi di obiezioni: 1) la dichiarata frammentarietà della documentazione,
con i suoi salti cronologici, non consentirebbe generalizzazioni cosf drastiche;
2) anche in presenza di documentazione quantitativamente accettabile, non è detto che il mancato rinvenimento
di comici professionisti dipenda da una loro reale assenza, quanto da quelle «zone di silenzio» dei documenti, indizio,
molto spesso, di una «normalità» indegna della cronaca: in sostanza l’attività professionistica potrebbe essere talmente presente da non necessitare di memoria documentaria. Ambedue le obiezioni vengono però invalidate dalle risultanze archivistiche: in alcuni casi, infatti, (ad es. Forlf,
Lugo ed altri) i materiali consentono di parlare di presenze professionistiche numericamente significative e di delineare quadri cronologici sufficientemente precisi; nella maggior parte delle altre situazioni, invece, la massiccia presenza di delibere municipali che vietavano a compagnie di comici l’uso dei teatri, annulla, con buona approssimazione, l’ipotesi delle «zone di silenzio». Un caso piuttosto anomalo, ma per alcuni versi significativo, è quello relativo al comune di Castel S. Pietro, dove
il rifiuto generale di comici, viene per una volta interrotto per la contemporanea presenza di un evento eccezionale quale l’inaugurazione del nuovo teatro di Imola, cui si aggiungeva l'importante fiera di Senigallia, quasi a prefigurare una vocazione turistica del teatro, più appropriata forse ai nostri tempi. Infatti la decisione di consentire l’uso del teatro da parte di una compagnia di attori, per tutta la stagione estiva e con la costituzione di un vero e proprio cartellone, viene motivata, dalle autorità comunali con il presumibile grande transito di popolazione che i due eventi suaccennati avrebbero provocato e con la conseguente necessità di sano svago che inevitabilmente ne sarebbe emersa. 151
D. Borzacchini - D. Seragnoli
La propensione «turistica» del teatro non è tanto azzardata, se si pensa anche che la decisione di edificare il teatro di Lugo fu motivata con il «provvedere il paese di un comodo necessario non tanto all’onesto e virtuoso esercizio della gioventi, quanto ancora a l’uso di quelle compagnie, che all’occasione di Fiera sogliono qui presentarsi, e che danno un mirabile incalzo al maggior concorso de Forestieri»?. Si viene cosî a delineare un quadro che, da una parte tende a ridimensionare l’immagine di una cultura romagnola assolutamente omogenea, e dall’altra apre una serie di problematiche inerenti più specificamente la cultura teatrale, la più importante delle quali riguarda la gestione e l’uso che, di uno spazio chiamato teatro, indiscriminatamente presente, o a grah-voce richiesto là dove assente o insufficiente, si fa nelle varie realtà. Su questa base è stato possi‘ bile evidenziare tre grandi categorie sotto cui raggruppare i teatri romagnoli: fertilità o produttività, sterilità o improduttività, redditività o imprenditorialità, ognuna della quali ulteriormente specificabile in impresa pubblica, privata o mista‘.
Potremmo quindi definire «produttivi» quei teatri — per la maggior parte nati o per volontà precisa di qualche Accademia, che generalmente si incaricherà anche della gestione, o per la presenza di una combattiva società nobiliare, concorrenziale con l’emergente ceto borghese che si cerca di discriminare anche attraverso un uso privilegiato dei palchetti? — la cui attività è costante negli anni e ricorrente, solitamente nel periodo estivo ed in un tempo carnevalesco dai confini piuttosto indeterminati. In ogni caso, sia che si tratti di teatro accademico, quindi privato, sia che si
tratti di teatro pubblico, l'intervento finanziario della mu3 Archivio Storico Comunale di Lugo, Atti consiliari, libro XXVIII, p. 373, 6
settembre 1757. 4 Per produttività o improduttività, qui non si fa tanto riferimento a questio-
ni puramente monetarie — settore questo coperto invece dalla terza categoria —,
quanto al rapporto gestione/uso, in pratica cioè al consumo di teatro in termini spettacolari (professionistici o di dilettanti). ? E emblematico il caso di Forlî, dove, per cercare di mettere fine ad acerrime dispute, si decise di ricorrere prima a salomonici quanto inaccettati sorteggi,
poi a vere e proprie liste d’attesa.
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Luoghi teatrali in Romagna
nicipalità nella costruzione, ma ancor più nella manutenzione e nel funzionamento, è sempre presente, anche se non
sempre indolore ‘. Il teatro è quindi ormai una funzione importante e riconosciuta della società, è un momento di confronto con le
realtà geografiche circostanti,‘è un luogo di divertimento e di elevazione morale, ma non c’è ancora una netta divisione tra pubblico e scena, o meglio non c’è ancora la presenza di
un pubblico vero e proprio, presupposto indispensabile per un teatro teso al profitto; c'è una società che si osserva e si commenta,
ma
non
ancora
(o non
più) in contemplazio-
ne/celebrazione dei propri ideali civili. In termini percentuali i teatri «produttivi» rappresentano circa il 35-40 per cento, e svolgono una attività sia dilettantesca (Accademie, come si è detto, ma anche giovani cittadini
non coinvolti in particolari associazioni), sia, in qualche occasione particolare, professionistica, più spesso però, quest'ultima, legata alla musica o al teatro musicale, certamente più arduo da mettere in scena con le sole forze locali.
Emblematico è il caso degli Accademici della Sala, che pur ammettendo la possibilità di utilizzo di comici professionisti, nel caso di spettacoli in cui il numero o le attitudini dei componenti l’Accademia risultassero inadeguati, li sottopone a clausole cosî rigorose, per impedire una loro eventuale ingerenza negli affari artistici e organizzativi, da risultare vessatorie e comunque assolutamente scoraggianti.
Assai minore quantitativamente (dell'ordine del 10-15 per cento al massimo) la realtà imprenditoriale o comunque legata ad un profitto, che in verità non riguarda tanto — o non solo — come si potrebbe supporre, situazioni connesse a teatri «stabili», quanto a sale adibite a teatro solo occasionalmente e subito dopo smantellate e riportate alla funzione originaria. È il caso, ad es., di S. Agata Bolognese dove, tra l’altro, la mancanza di dilettanti locali, rendendo superflua una struttura teatrale permanente, favorisce altresi una
presenza continuativa e ben documentabile di comici pro6 Le serate erano infatti quasi sempre gratuite, o comunque con un ricavato ininfluente anche per la sola copertura delle spese.
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D. Borzacchini - D.'Seragnoli
fessionisti, tanto che si assiste ad una situazione paradossalmente inversa quando, nel 1788, dei dilettanti locali si vi-
dero negare il permesso di fare della sala un teatro vero e proprio in cui poter agire.
La situazione non è priva di risvolti anche teorici, perché si verrebbe prefigurando, e non solo come semplice ipotesi, uno scollamento assai netto fra teatro come edificio e chi nel teatro agisce o dovrebbe agire, fra contenitore e contenuto, non due facce di una stessa medaglia, ma linee
parallele di binari solo idealmente convergenti. La terza classe, quella che abbiamo chiamato dell’improduttività, è di gran lunga la più popolosa, potendo con-
tare su un buon 50-55 per cento. Esempi specifici, in questo caso, risultano assai poco significativi data la uniformità dei riscontri; è sufficiente rilevare come, in questi teatri, l’attività di spettacolo sia generalmente di scarsa o scarsissima entità, totalmente finanziata da denaro pubblico e in qualche caso addirittura equiparata o subordinata alle attività di beneficenza della comunità”. Si pone quindi un problema non irrilevante: perché mai, in realtà sociali certamente
non floride, certamente
non culturalmente avanzate, ci si preoccupa di costruire e poi di mantenere efficienti dei teatri in cui non succede nulla o quasi? Certo la mancanza di mezzi finanziari potrebbe essere un motivo valido, ma abbiamo visto come, in
altri casi, l'apertura di spazi teatrali ai comici professionisti risolvesse il problema, in termini economicamente anche vantaggiosi; e d’altra parte perché, se il problema è finanziario, non utilizzare in altri modi il teatro, magari ripor-
tandolo alle sue antiche funzioni originarie (sala di adunanze o pubblico ammasso ecc.)? Né ci si può appigliare alla mancanza di forze teatrali attoriche o drammaturgiche, perché fin troppo documentate sono le richieste di calcare le scene da parte della gioventii, e non c’è paese in cui il let? E questa, ad esempio, la situazione di Forlimpopoli, dove un certo quantitativo di denaro pubblico veniva speso ad anni alterni in beneficienza o nell’allestimento della commedia.
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Luoghi teatrali in Romagna
terato locale non si sia cimentato in abbondanti produzioni drammatiche. Evidentemente allora lo spettacolo non è il dato qualificante di questi teatri, in cui si manifesta ancor più netta-
mente quello scollamento tra contenitore e contenuto cui abbiamo fatto cenno più sopra E probabile che in qualche caso agiscano fenomeni di vischiosità culturale o peggio di gretto conservatorismo; come pure, in altri luoghi, situazioni di competitività campanilistiche, ma certamente queste motivazioni non rendono conto dell’ampiezza del fenomeno. Una spiegazione plausibile è che il teatro faccia ormai parte dell’immaginario collettivo. Del teatro (come edificio) non si può fare a meno, è una sorta di status sybol della vita cittadina che trapassa, apparentemente senza mediazioni, nella settecentesca provincia romagnola, ma senza le caratteristiche negative contro cui si scagliano utopisti e riformatori. Non ci sono attrici provocanti fonte di piacere ma soprattutto di scandalo; non ci sono palchetti maleodoranti fonte di privilegi e di litigi; non ci sono ariette accattivanti e gorgheggi stupefacenti; ed i giovani dilettanti che saltuariamente si riuniscono sui palcoscenici per istruirsi ed istruire con diletto, non sembrano molto lontani dalle teorizzazioni di un Francesco Milizia, forse troppo sbrigativamente condannato all’utopia.
Certo, non siamo di fronte ai magnifici e grandiosi edifici auspicati dal Milizia, molto più simili nell’essenza e nelle funzioni a moderni Beaubourg, monumenti pedagogici all’omogeneità culturale di una società ideale, ma le nostre piccole e provinciali comunità, non avevano forse bisogno di vertiginose altezze gotiche per i loro templi laici, il riconoscimento della funzione e l’attribuzione di senso c'erano già stati.
Paradossalmente si potrebbe concludere che la cultura teatrale non solo è indipendente dal consumo di teatro, ma ne sarebbe addirittura inversamente proporzionale; e non sarebbe allora inutile ripensare, in questo senso, le grandi categorie che hanno fondato e sviluppato gli studi teatrali. 155
pid
D. Borzacchini - D. Seragnoli
Due esempi «di frontiera»: Castel S. Pietro e Budrio
1. Il teatro di Castel S. Pietro fu costruito nel 1748. La decisione venne presa in seguito alla copertura dell'ingresso della porta maggiore di accesso al paese. Tale intervento aveva infatti consentito di ricavare un «altissimo vano», che
fu considerato «luogo opportuno [...] per formarvi un teatro onde divertire la popolazione»8.La seduta consiliare del 17 giugno informa: «avendo la Comunità di Castel San Pietro fatto nell’anno presente il piano sopra la porta del Castello dalla parte di sotto [...], e volendo la Comunità suddetta rendere tale fabbrica abitabile ed in bona sistema, e non
avendo il modo di ciò fare hanno risolto gli uomini che compongono la Comunità qui sottoscritta di lasciare a tale fine ed effetto il proprio onorario di Console dato a ciascheduno di lire trenta, e ciò s'intendono di dare una sola volta cadauno quando seranno estratti consoli incominciando questo nel presente primo semestre dell’anno corrente 1748, da pagarsi tale somma di lire trenta a semestre nelle mani del Signor Alfiere Lorenzo Grassi»?. Lo stesso Grassi fu artefice ed esecutore del progetto, e si occuperà della manutenzione del teatro anche negli anni successivi. Non bisogna però pensare ad una particolare munificenza da parte dei Consoli castellani. Il loro impegno è soltanto un anticipo di spesa. La stessa deliberazione del giugno ’48 infatti prosegue: «...si obbliga il suddetto [Grassi] a impiegare in detta fabbrica di genio e consenso di detta Comunità col dare alla medesima un conto esatto della spesa che farassi in fare tale lavoro. Terminata però tale fabbrica s’intendono e vogliono li signori Comunisti che dall’entrata che si ricaverà da tale sito essere rimborsati dalle dette lire trenta cadauno, incominciando a soddisfare a chi sarà il primo e cosî suseguitamente li altri sino a che serano tutti satisfatto 8 E.O. Cavazza, Memorie storiche, ms. (Biblioteca Universitaria di Bologna),
vol. III, c. 159. ? Archivio Storico Comunale di Castel S. Pietro (= ASCCaSP), Archivio pre-
napoleonico, Deliberazioni consiliari, vol. I, c. 27.
10 Ibidem.
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Luoghi teatrali in Romagna
«In breve tempo — precisa il cronista locale Ercole Ottavio Cavazza — fu formata una gran sala atta appunto a farvi rappresentazioni»!!. Questa fu, in effetti, la prima semplice sistemazione del locale: una grande sala con decorazioni a stucco. E difficile riconoscere consprecisione le istanze che indussero i governanti locali alla decisione di adattare un edificio a pubblici spettacoli. Abbiamo però notizia, per il primo cinquantennio del secolo, di una consolidata attività oratoria (attraverso nu-
.merose accademie letterarie), e di rappresentazioni drammatiche da parte delle comunità religiose locali !?. Per tutto il Settecento, anzi, è possibile cogliere attraverso le pagine del cronista Cavazza un connubio tra la Chiesa locale e il pubblico teatro (anche se in maniera non omogenea), oltre
al senso del forte dominio esercitato dalle autorità ecclesiastiche sullo svolgimento degli spettacoli. Dato questo che rientra nella norma, ma arricchito proprio dalla presenza dello sguardo di un cronista contemporaneo, assai più informato e abbondante di notizie particolari rispetto alla marginalità delle formule che possiamo leggere nelle deliberazioni consigliari, dove ci imbattiamo semplicemente in un generi-
co ed usuale riferimento alla «licenza» del potere ecclesiastico. E Cavazza, per esempio, che ci informa sulla sospensione delle commedie e delle feste da ballo nel carnevale del 1772, dovuta alla visita pastorale dell’arcivescovo Malvezzi,
sottolineando la dedizione dei castellani contro la disubbidienza dei budriesi. Ed è ancora lo stesso cronista che riporta la notizia delle feste per un triduo solenne del 1787, annotando la presenza di cantori bolognesi e di due orchestre, l'intervento di molti forestieri da Bologna e dalle Romagne, lo sparo di mortaretti e fuochi d'artificio, la rappresentazione di commedie recitate da una compagnia forestiera nel teatro della Comunità, e un’accademia musicale «che
sembrava un’ Arcadia» nel convento di S. Francesco 3. 11 E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, c. 159. 12 Cfr. E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, cc. 110, 115-116. 13 Cfr. E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, c. 265 e vol. IV, c. 169.
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D. Borzacchini - D. Seragnoli
Sappiamo che il teatro fu richiesto da parte di compagnie di dilettanti locali fin dai primi anni di apertura !*. Occorre però attendere gli anni Sessanta per superare il silenzio dei documenti e avere una documentazione sufficientemente utile e costante sui modi d’uso della sala e sulle attività del teatro castellano 5. Conviene appunto seguire la documentazione per ottenere almeno valide ipotesi, se non proprio testimonianze probanti. Un primo problema da porre in luce è la regolamentazione di accesso e utilizzo della sala da parte del pubblico; esigenza, questa, fortemente avvertita dai Consoli castellani
i quali, dopo aver investito denaro nella strutturazione del teatro, non sentirono sufficientemente garantita la propria diversità sociale. Nel ’48 la sala possiede una semplice platea con un loggiato superiore !6. Tale sistemazione non dovette però bastare a spartire il pubblico, tanto che nel ’59, scrive Cavazza, «per evitare le intemperanze che si com-
mettevano dalla plebaglia nella platea del teatro della Comunità in tempo di rappresentazioni, dovendosi le persone pulite framischiare con ogni sorta di persone, fra le quali vi erano ubriachi, pensò il console Grassi formare nel contorno del teatro una ringhiera alta, e con questa separare come si suol dire il grano da lolio» !?. Anche questa misura non fu tuttavia sufficiente. In seguito ad incidenti non meglio precisati, accaduti nel corso del carnevale del 1765, si giunse cosf alla decisione, nel giugno dello stesso anno, di delimitare ulteriormente lo spazio trasformando il perimetro della ringhiera in palchi chiusi, strettamente riservati alle famiglie dei consiglieri !8. Una serie di disposizioni dettate già 14 Cfr. ASCCaSP, Archivio prenapoleonico, Corrispondenze, b. 9, anno 1750. 15 Cfr. E.O. Cavazza, Memorie, cit., voll. III, IV e V oltre all’intera serie delle Deliberazioni consiliari e alle richieste conservate nelle buste delle Corrispondenze. 16 Cfr. Campione delle strade n° 5, 1770, del Comune di Castel S. Pietro e Villa Poggio presso l'Archivio Comunale, alle cc. 71-75 sono conservati una pian-
ta del paese, una pianta del teatro in scala 1:20 (in piedi bolognesi) acquarellata a quattro colori e con indicazione dei palchi, una pianta del teatro acquarellata a due colori e datata 1748, spaccato laterale e proscenio con spaccato in faccia (entrambi datati 1748 e firmati Gian Giacomo Dotti). 17 E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, cc. 186-187. 18 Cfr. ASCCaSP, Arcb. pren., Deliberazioni, cit., vol. I, c. 73.
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Luoghi teatrali in Romagna
nel mese di febbraio ci informano con chiarezza sulla normativa prevista per l’uso del teatro: i palchi, costruiti con «denari de’ Comunisti», saranno «perpetuamente» riservati al Console e ai consiglieri pro tempore; al loro interno potranno essere eventualmente ospitate soltanto persone
«benvolute dal Console»; se accompagnati da un consigliere avranno accesso cavalieri e senatori, oltre al medico, al chi-
rurgo e al maestro di scuola; una porzione di ringhiera «a mano manca sotto la finestra [...] separata mediante rastello» è riservata per dare «qualche comodo alli recitanti». Inoltre si precisa che il teatro non può essere accordato ad alcuno se non «coll’assenso ed approvazione legittima della Comunità la quale dovrà farsi fare la scrittura da quelli che chiederanno il teatro con que’ patti benvisi alla Comunità» !°.
Per problemi economici non si diede tuttavia inizio immediato alla trasformazione, voluta, ancora una volta, dal console Grassi. Una parte del Consiglio infatti si oppose alla nuova spesa. Superò l’ostacolo il console stesso, il quale, leggiamo in una deliberazione del 6 gennaio 1766, «per addimostrare l’animo grato verso questa Comunità si è offerto di farli [i palchi] del suo proprio, e cosf da tutti li signori Consilieri si è sommamente aggradito e compiaciuto» 29. Il teatro è dunque riconosciuto e accettato da alcuni come una necessità improrogabile. Altrettanto improrogabile è il se-
gno di distinzione e di separazione che dal teatro deve venire. I palchi furono costruiti poco alla volta in casa del console Grassi21, e finalmente collocati nel teatro — in due or-
dini — a partire dal 1769: «li 9 giugno — ci informa ancora il cronista Cavazza — la Comunità determinò ridurre ad esecuzione il progetto [...] pel teatro pubblico comunitativo [...] di distribuire la ringhiera in tanti palchi da assegnarsi alli consiglieri pro tempore secondo la loro anzianità ogni anno, ‘fu tutto ciò eseguito e fu la spesa di scudi settanta fatta dal Capitano e da alcuni Comunisti che vi rinunciaro19 ASCCaSP, Arch. pren., Corrispondenze, b. 9, anno 1765. 20 ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. I, c. 80. 21 Cfr. E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, c. 214.
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no il loro onorario di consolo» 2. Nello stesso anno furono anche eseguiti altri lavori per migliorare l'aspetto della sala. Vennero dipinti due teloni in luogo dell’unico semplice tendone esistente; di fronte al parapetto del palco centrale — destinato al Console pro terzpore — fu collocata una scritta in stile elegiaco ?. A partire da questa data, si può dire, Castel S. Pietro ha il suo teatro, nella forma pit acconcia. E possibile con ciò dare una risposta anche ai dubbi espressi sulle motivazioni che inducono alla creazione di un teatro: è sostanzialmente, come in numerosi altri luoghi, una necessità sociale;
deve servire da svago per la popolazione — come aveva scritto Cavazza — ma deve anche essere un facile contrassegno sociale per idetentori del potere. Per altro, ogni attività deve essere facilmente controllabile e sottoposta a disciplina. In questo senso si può forse comprendere l’uso prevalentemente interno che del teatro viene fatto. In genere la sala viene concessa gratuitamente alle diverse compagnie di dilettanti locali che ne fanno richiesta, salvo restando il di-
ritto di uso dei palchi superiori da parte delle famiglie dei «signori Comunisti». La situazione è però abbastanza variabile e tale da prefigurare un uso complesso. Possiamo ricavare le diverse tipologie dall’insieme delle deliberazioni consigliari. Agiscono a Castel S. Pietro varie compagnie di comici
dilettanti. A queste è demandata, soprattutto in tempo di carnevale, la maggior parte dell’attività teatrale. Alla concessione gratuita fa riscontro la possibilità di riscuotere un’offerta libera, per rimborso spese, dal pubblico. Nel 1776 tale cifra sarà fissata nella misura di due soldi per persona 4. E però probabile che in altre occasioni fosse previsto un vero prezzo d’ingresso come lascia intendere una deliberazione del 1766, prima cioè della sistemazione dei palchi, la quale impone «che li signori Comunisti per la solo lo22 E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, c. 240. 23 Cfr. E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. III, c. 240. 24 Cfr. ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. II, c. 64.
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Luoghi teatrali in Romagna
ro persona siano esenti dal pagamento dell’ingresso del teatro». La presenza di diverse compagnie — le più attive furono quelle di Giuseppe Castellari, Alessandro Alvisi e An‘tonio Roncovassaglia — determinò una forma di accesa concorrenza ed una vera e propria corsa, non priva di inci-
denti, nell’accaparramento del teatro. Nel 1786, dopo un ennesimo litigio, si decise l'alternanza nell’uso della sala. Misura, del resto, alla quale si era già fatto ricorso nell’ 81 quando il teatro era stato affidato a Castellari per tutta l’estate (quindi oltre il periodo consueto del carnevale), «fino alla solennità di tutti i Santi», salvaguardando tuttavia il diritto della Comunità «di riavere e valersi del teatro in tutti que’ giorni che non si faranno recita per consegnarlo a chiunque a lei sarà in grado se capiteranno genti che volessero dare divertimenti al paese»; ed «anco rapporto ad altri recitanti del paese che ne chiedessero il teatro del quale dovranno servirsi alternativamente co’ postulanti» ?°. Annotazione importante, questa, perché lascia intendere come il teatro non fosse esclusiva prerogativa dei dilettanti locali, e come la Comunità fosse disposta a concederlo — come in effetti farà sempre — a chi ne facesse richiesta motivata e lecita. Di fronte alle domande esterne mutano, è
evidente, i rapporti e gli effetti della concessione. È il caso del settembre 1770, anno in cui viene avanzata una supplica dalla compagnia di Girolamo Salsilli, presente in quel tempo ad Imola: il teatro viene accordato in affitto e con la conseguente possibilità di «riscuotere la mercede dalli intervenuti»; vengono accordati anche i palchi, tranne sette, oltre a quello centrale, che i consiglieri decidono di riservarsia
È il caso ancora del precedente 1769'in cui, in occasione del triduo per la santificazione di due Cappuccini, una compagnia di musici bolognesi, che godeva della protezione del Monsignore vicelegato, venne invitata a rappresentare la tragicommedia La vicenda del caso, in previsione soprattutto «del concorso che sarà [...] di popoli vicini». Il teatro 25 Cfr. ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. III, c. 26. 26 ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. II, c. 319. 27 Cfr. ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. I, c. 127.
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è accordato gratuitamente, ma con la possibilità di affitto dei palchi. Ed ancora una volta si fa valere un privilegio: il diritto di prelazione da parte dei consiglieri, «con discrezione anco nel prezzo» 8. L’evento, va ricordato, fu importante: vennero spediti avvisi a stampa nelle città vicine e vi fu un concorso di numerose famiglie nobili (Isolani, Guastavillani, Pepoli, Manzoni, Tozzoni e molte altre). Il teatro fu
per quella circostanza riverniciato — «affinché non disgusti l’occhio delli intervenuti» ? — ed il palco centrale venne riservato al gonfaloniere conte Giuseppe Malvasia, «stante che il medesimo non solo come tale ma anco come cavalier gentilissimo ha acordato [sic] che per questa volta solo si faccia un foro nel scenario e si vada in di lui casa per comodo di queste recite, quali finite si restituisca il tutto a primitivo stato» 9.
La pubblicità con la quale si propagandò lo spettacolo è giustificata dalla felicità stessa della collocazione di Castel S. Pietro: a poca distanza da Bologna e da Imola e lungo un'importante arteria di transito (la via Emilia). Condizio-
ne di non piccolo conto e tale da indurre Antonio Marchesi e compagni, «maestri bolognesi operanti e professori di musica»?!, a richiedere il teatro per l’intera estate 1782, «in
occasione — leggiamo sulla locandina — del passaggio de’ forestieri per le fiere di Sinigaglia e di Lugo, e dell’apertura del nuovo teatro d’Imola» 2. Il teatro fu concesso gratis, ivi compresi tutti i palchi, con la sola e consueta esclusione di quello centrale. E probabile che la Comunità nel prendere questa decisione facesse calcolo sugli abbondanti introiti che il passaggio e la sosta dei forestieri avrebbero in ogni caso comportato. Soprattutto considerando un arco di tempo prolungato (nella locandina sono annunciati 27 spettacoli, tra il 24 luglio e il primo giorno di settembre). In effetti siamo informati dal solito cronista Cavazza che almeno la prima rappresentazione — andò in scena L’italiana in Lon28 29 30 31 32
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ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. I, c. 113. Ibidem. Ibidem. ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. II, c. 331. La locandina è conservata in E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. IV, c. 125.
Luoghi teatrali in Romagna
dra di Domenico Cimarosa — ebbe un «incontro singolare» e che «vi concorsero molti signori forestieri quantunque il teatro piccolo» ?. Fin qui, almeno nelle distinzioni tipologiche di fondo, le vicende del teatro di Castel S. Pietro nel suo primo quarantennio di vita. Occorre tuttavia, per concludere, gettare uno sguardo, seppur rapido, sugli eventi dell’ultimo decennio. Il progressivo modificarsi della situazione politica trova un riscontro nei modi di gestione del teatro. I controlli si fanno più attenti. Nell'autunno del 1791, per esempio, il teatro viene concesso a Giovanni Tosani e compagni «col
patto che prima di fare tali pubbliche rappresentazioni debbano fare la prova in presenza della Comunità o di suo deputato per riconoscere se le rappresentazioni saranno fatte
a dovere». E il 2 gennaio 1793 viene emessa su tutto il territorio una notificazione dal cardinale Gioannetti mediante la quale, «considerando [...] la infelicità e le turbolenze di questi tempi, ne’ quali s’investe con pericolo non solo il temporale, ma principalmente lo spirituale, cioè la nostra Santa Religione», si prescrive l’abolizione dei divertimenti di carnevale, del teatro «d’ogni sorta», dei balli, dei festini (anche in occasione di matrimoni), e di «ogni altra
cosa dilettevole, che servendo di sollazzo e di allegria non è, né può essere conforme al tempo di penitenza». In cambio si propone che l’intero anno sia impiegato «in'orazioni e pubbliche e private», con la raccomandazione ai parroci di inculcare dall’altare la proibizione e di far rispettare il più fervido zelo e l’ubbidienza”. Ma il segno più incisivo ed emblematico è dato dal dibattito che si accende attorno al privilegio d’uso dei palchetti. Già dalla metà degli anni Ottanta vi erano stati diversi richiami da parte della Comunità per la salvaguardia dei diritti d’uso in base a quanto previsto dalle disposizioni iniziali (dell’84 è, per esempio, una delibera contro la con33 E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. IV, c. 124. 34 ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. IV, c. 38.
35 E.O. Cavazza, Memorie, cit., vol. V, c. 2.
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D. Borzacchini - D. Seragnoli
suetudine di concedere le chiavi a piacimento a «gente vile» che si avvale dei posti riservati con «disdoro alle famiglie più civili del paese») ?°. Il privilegio resterà ancora in vigore ed accompagnerà la serie di deliberazioni favorevoli con cui si accolgono le richieste dei comici locali fino al 1796. Agli inizi del ’97 tuttavia il beneficio esclusivo sembra ormai difficile da difendere. La Comunità risponde con l’unica arma possibile: tentando di salvare i propri diritti non attraverso la loro protezione, ma semplicemente negandoli ad altri. Per la prima volta si oppone un rifiuto alle richieste dei giovani del paese: viene dichiarata l’inagibilità del teatro e si adducono a pretesto l’angustia e la ripidità delle scale, oltre a ragioni di ordine pubblico. I dilettanti tuttavia non si scoraggiano. Su istanza di Antonio Roncovassaglia la magistratura invia a Castel S. Pietro l'architetto e accademico clementino Giovanni Bassani ad effettuare una perizia sui locali del teatro. La risposta è chiara e inequivocabile: il criterio di pericolosità dell’edificio non può essere considerato valido poiché tutti i teatri sono pericolosi. «Se questa sia risposta adeguata — leggiamo a commento nella delibera del 23 gennaio — giudicatelo voi cittadini senatori a cui spetta di deliberare». Esistevano oggettivamente ragioni di pubblica sicurezza dietro il rifiuto degli spettacoli e tali da giustificare il timore di incidenti nelle riunioni di folla. Ma la spia di un certo atteggiamento dei notabili castellani è probabilmente nella chiusa dell’indicata delibera: «Questo sia detto per unica vostra instruzione — si rivolgono ancora ai
‘cittadini senatori” — poiché noi siamo indifferenti alle vostre determinazioni; basta a noi di avervi prevenuto di ciò che può accadere. Quello che ci sta a cuore si è la quiete e il buon ordine del teatro, mentre delle ciurmaglie hanno determinato di voler entrare liberamente nei palchi giacché presentemente regna la eguaglianza» ??. Il teatro è monumento, è il simbolo di un modello civi-
le. La sua, da più parti, accorata difesa non è priva di significato: i giovani del paese continueranno ad usufruirne, i 36 ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. II, c. 264. 37 ASCCaSP, Arch. pren., Deliberazioni, cit., vol. IV, cc. 173 e 175-176.
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palchi continueranno a essere a disposizione dei consiglieri. Come se nulla fosse mutato, ovvero come se il Teatro fosse
valore per eccellenza. I documenti non ci consentono, per ora, di andare sl A Castel S. Pietro il teatro è, come altrove, parte di un ordine. È una necessità che richiede investimento non solo in denaro, ma in capacità intellettuale e in forza di coagulazione di un modello sociale. Continua ad esistere e a resistere negli anni, ma in realtà preesiste a se stesso: è tautologicamente inamovibile perché, come altrove, è utile. Non esiste, con ogni probabilità, un pensare teatro; esiste al contrario un agire concreto nel teatro e per il teatro attraverso forme esatte di produzione e di fruizione. È questa la sua ragionevolezza, la sua ragione d’essere tout court. E le necessità oggettive restano immutabili, non possono mutare, poiché legittimano — per il semplice fatto di essere — la propria quotidianità e la propria possibilità di produrre effetti duraturi e non occasionali. Oltre questo, si diceva, non è possibile andare. Possediamo, relativamente a Castel S. Pietro, una discreta ab-
bondanza di documentazione. Ma è proprio tale considerazione che in realtà induce a non nascondere un certo disagio di fronte a ciò che la (relativa) ricchezza di informazio-
ne non può mascherare: le zone d’ombra e di silenzio. Tanto più inquietanti quanto più quello che trapela impone di porre nuove domande. Ma il silenzio dei documenti ha in sé una validità non indifferente: l’invito implicito alla ragionevolezza del dubbio contro le verità accreditate e, soprattutto, l’invito a non trasformare le ovvie constatazioni del
senso logico in pericolose petizioni di principio.
2. Il 17 ottobre 1735 un capomastro di Budrio, tale Ignazio Panerai, rilasciò di fronte a un notaio e sotto giuramento — «ut de veritate pateat» — una lunga dichiarazione con la quale esponeva il risultato di una perizia sulle condizioni murarie del «teatro de’ Sgargi». La perizia era stata effettuata «ad instantiam» del concittadino Giuseppe Maria Boriani in qualità di potenziale acquirente della parte della 165.
î D. Borzacchini - D. Seragnoli
proprietà Sgargi entro la quale il teatro aveva sede ?8. «Sono benissimo informato — inizia Panerai — dello stato in cui presentemente trovasi il teatro de’ Sgargi posto nel castello di Budrio contado di Bologna, nella via detta la via Longa di S. Domenico, spettante presentemente alle si-
gnore Giugliana [sic] Giacoma Maria, Maddalena e Ginevra sorelle Sgargi eredi del fu signor Giovan Battista capitano Sgargi, in confina [sic] a levante d’una casa della Venerata Compagnia del Santissimo Sacramento con orto in parte, et in parte li beni del signor Vincenzo Suzzi come successore della fu signora Vincenza Sgargi di lui moglie, a ponente in parte le suddette signore eredi Sgargi et in parte li Padri de’ Servi di S. Lorenzo di Budrio, a mezzo di la via longa di S. Domenico, et a settentrione li beni delle nominate signore sorelle coeredi Sgargi...». Lo stato dell’edificio non era dei migliori: il capomastro non esita a definirlo «un sacco d’ossa [...] tutto da terra sino a coperto sconquassato», bisognoso di intervento imme-
diato pena la rovina totale, nell'eventualità soprattutto, con l’approssimarsi dell’inverno, di copiose nevicate. Non è tuttavia, questa, la prima perizia sull’edificio. Alla fine di gennaio dello stesso 1735 ne era stata effettuata una di carattere estimativo — «ad instanza di dette signore sorelle Sgargi e del signor Giuseppe Maria Boriani» — ad opera del pubblico perito di Bologna Giulio Damiano Calcina Levanti, il cui contenuto viene completamente confermato e condiviso nelle sue linee essenziali dal capomastro Panerai. In sostanza, considerando la rovina dell’edificio, la spe-
sa necessaria per il restauro murario e quella occorrente «per ridurre tal sito all’uso primiero di teatro», viene convalidata la stima originaria che aveva attribuito al fabbricato un valore di 650 lire, in moneta di Bologna, e fissato degli importi, rispettivamente, di 2057 lire per le riparazioni conservative e di 850 lire, «anzi forse più che meno», «se si vorranno poi accomodare gl’ornati di detto teatro, ponti, 38
. DAUMOT, È DO vg Cfr, anche per tutte le citazioni successive, Archivio Opera PiaMERO Bianchi di
Budrio, Eredità Boriani, busta 41 (Perizia del teatro).
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ed altre cose [...] in modo che venga rimesso detto sito ad uso di teatro». In verità Boriani non si accontentò di questa unica conferma. Abbiamo infatti altre tre perizie, redatte dallo stesso notaio, richieste ad altrettanti capomastri di Budrio e stese su carta il 18 ottobre (Giacomo Neri), il 2 novembre (Giovan Battista Torreggiani) e il 24 novembre (Giovanni Matteo Golinelli). Il contenuto di queste ulteriori dichiarazioni
è pressoché uguale a quanto già espresso da Panerai. Il teatro viene definito ancora un «sacco d’ossa» o, in alternativa, uno «sgolozzo»; persistono le preoccupazioni per un im-
minente crollo; è asserito più che ragionevole il prezzo stimato, anzi, si insiste, più vantaggioso per il venditore che per l'acquirente, «quando si trovi persona — sottolinea il capomastro Torreggiani — che voglia accomodarsi a pagarlo tal somma». Considerazioni, queste, che hanno un fondamento nelle ragioni esposte e nell’assai probabile eventualità, i quattro muratori sono concordi nell’affermarlo, che
gli investimenti necessari per il restauro ed il ripristino siano ben maggiori alle cifre stimate. Ma ancora di più per un’altra osservazione degna di riflessione: l'acquisto di un teatro a Budrio è giudicato investimento infruttifero. Ora, anche ammettendo che i quattro capomastri non fossero stati debitamente istruiti, per cosî dire, da una delle due parti in causa — per chiari motivi l’acquirente Boriani,
a favore del quale giocano tutte le relazioni — ed anche concedendo che l’uniformità di tono e l'uguaglianza costante della forma delle testimonianze sia dovuta allo «stile» notarile, non può non colpire proprio tale affermazione (convergenza forse di senso pratico), di presupposta improduttività economica con la quale si contrassegna negativamente
il teatro di Budrio: «... il medesimo sito ad uso di teatro — sono le parole di Ignazio Panerai — per se stesso è affatto innutile [sic], et infruttuoso, particolarmente per esser situato in un castello dove vi è poca gente, e la maggior parte sono poveri»; «... quando pure si trovi chi voglia applicare ad una cosa com'è tal teatro infruttuosa, e di niun utile affatto» (Neri); «... trattandosi massime di una cosa affatto in167
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fruttuosa, come è il detto teatro, non ricavandovisi alcuna entrata per essere detto castello poco popolato, e di gente la
la maggior parte povera, come ogn’uno può far fede» (Golinelli). Il teatro dunque, con sintomatica pragmaticità, è sentito — deve essere — una fonte economica garantita, seppure attraverso, data la particolare situazione locale, le connotazioni negative.
Perché dunque, è lecito chiedersi, Giuseppe Maria Boriani appare tanto interessato all'acquisto di un teatro in simili condizioni di degrado? Sappiamo infatti che il suo non è un interesse generico nei confronti del fabbricato: vuole fortemente i/ teatro, e lo avrà. E Budrio avrà, negli anni successivi, una sàla teatrale funzionante.
Prima di fornire una possibile risposta — ma, occorre anticipare, la documentazione superstite non è tale da consentire
risposte esaurienti
—
è utile gettare un rapido
sguardo alle precedenti vicende del teatro Sgargi, per comprendere soprattutto le ragioni della sua rovina. Il teatro era stato fatto costruire nel 1672 da Paolo Sgargi, per uso privato, nel proprio palazzo. In quel periodo era attivo a Budrio anche un altro teatro privato, di cui si è successivamente perduta memoria: quello di Giambattista Fracassati, dottore in diritto civile ed ecclesiastico, erudito, sacerdote secolare, che aveva fabbricato «un teatro da com-
medie per comodo della gioventi» ??. Paolo Sgargi non era originario di Budrio. Vi risiedeva però sicuramente dalla metà del secolo ‘. Sono noti suoi interventi sull’architettura religiosa‘!, ma poco o nulla conosciamo dell’attività svolta all’interno del suo teatro: per lo 3? D. Golinelli, Merzorie istoriche antiche e moderne di Budrio terra nel contado di Bologna, Bologna, Per Lelio della Volpe, 1720, p. 205. Cfr. anche F. Servetti Donati, Budrio casa nostra, Budrio, Montanari, 1977, pp. 91 e 400.
40 E del 29 dicembre 1654 un atto stipulato tra Paolo Sgargi e Filippo Maria Bertolotti. In esso Sgargi è detto di «Castro Butrij» (cfr. Archivio Opera Pia Bianchi, cit., Archivio Boriani, Atti notarili, n. 83). Era però originario della «Riccardina, villa un miglio distante da Budrio» (D. Golinelli, Memorie, cit., p. 192). 41 Cfr. D. Golinelli, Memorie, cit., p. 192. Notizie su Paolo Sgargi anche in G. Giordani, Indicazioni delle cose notabili di Budrio, Bologna, Nobili, 1835, e in F. Servetti Donati, Budrio, cit.
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più rappresentazioni non meglio definite, probabilmente feste da ballo e accademie offerte gratuitamente al pubblico ‘2. Alla sua morte, avvenuta nel 1691, il teatro passò in
eredità, con tutti i beni di famiglia, al figlio Giovan Battista, letterato e accademico Intrepido, descritto dagli storici
locali con i caratteri tipici déll’intellettualità di provincia del tempo #. Anche per questo secondo periodo abbiamo scarsissime notizie relative all’uso del teatro: sappiamo sol-
tanto che il 16 ottobre 1696 fu rappresentata «un’opera bellissima intitolata l’Incostanza costante, parto d’un ingegno del paese [Giuseppe Maria Cesari], ove vi concorsero molte dame e cavalieri» *. Troppo poco, è evidente, per poter anche semplicemente ipotizzare un utilizzo riservato e ristretto.
Giovan Battista Sgargi mori, in giovane età, il 12 dicembre 1724. Di nuovo il teatro fece parte dell’eredità ed entrò nel patrimonio lasciato alle già ricordate sorelle Sgargi, figlie di un fratello di Giovan Battista. Inizia da tale data, per assenza di idee sull’uso o per vera e propria impossibilità di funzione, il periodo di decadimento al quale fanno ripetutamente allusione, per memoria diretta, le perizie del 1735: «... essendo molti e molti anni, come ogn’un sa, che
dette signore eredi Sgargi non ricavano veruna entrata, e però non avendovi mai fatto, né facendovi alcuna spesa, detto sito, o sia teatro, sta sempre per rovinare in peggio» (capomastro Panerai); «... non vi hanno [le sorelle] (come ogn’un sa) fatta alcuna spesa, né risarcimento, e lo hanno
affatto negletto, non avendo dalla detta morte del signor capitano Sgargi fino al presente giorno ricavato alcun frutto o entrata» (capomastro Neri); «... si vede patentemente che
le dette signore sorelle eredi Sgargi non ricavano alcuna entrata da esso (come in fatti è vero), mentre sono molti e
42 È quanto sostenuto da F. Servetti Donati, Budrio, cit., p. 158. 4 Cfr. oltre a D. Golinelli, Mezzorie, cit., p. 193, G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna, Stamperia S. Tomaso d’Aquino, 1740, vol. VIII, Pi5.
44. Notizia in «Bologna», foglio settimanale per G. Monti (poi Sassi), alla data indicata. Su Giuseppe Maria Cesari cfr. G. Fantuzzi, Notizie, cit., vol. III, 1783, pirdazi
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molti anni che non vi si recita, e però è anche moltissimo a che non vi fanno alcuna spesa» (Torreggiani); ..tanto più che non essendo esercitato detto teatro per Toh e molti anni le dette signore sorelle Sgargi, che non ricavano veruna entrata, lo negligono affatto, onde sarà sempre per peggiorare e finalmente rovinare» (Golinelli). Si potrebbe forse dedurre da tali dichiarazioni, ma è un’ipotesi senza altra possibilità di verifica, che durante la precedente proprietà il teatro fornisse in qualche modo entrate sufficienti a giustificarne l'apertura. Resta il dato di fatto concreto: il mancato uso per numerosi anni. Ma anco-
ra non appare chiaro l'interessamento di Giuseppe Maria Boriani.
Intenti a i suoi? Istanze sociali (la necessità del teatro come luogo di riconoscimento civile)? Mentalità imprenditoriale (il calcolo di un possibile sfruttamento ben oltre l'incapacità dimostrata dalle eredi Sgargi)? Probabilmente le motivazioni economiche furono presenti nella determinazione dell’acquisto (le pessimistiche previsioni dei quattro capomastri non sembrano avere molta rilevanza, proprio per l’aspetto parziale delle loro dichiarazioni, dettate in ogni caso più dalla considerazione della situazione presente che da una vera e propria cognizione di causa). Motivazioni e ragioni tanto forti da legittimare una spesa complessiva di almeno 3557 lire, se non di pit, secondo la stima dei diversi periti. Purtroppo siamo ancora una volta troppo poco informa-
ti su Giuseppe Maria Boriani per poter indicare risposte di un certo significato. Lo troviamo semplicemente ricordato per gli apparati «molto vaghi, sontuosi e ricchi» che addobbarono la sua casa — ma anche il convento di S. Domenico — in occasione della festa di S. Pietro nel 1727 (solennità per la quale furono «modernate, ed abbellite molte case, risarcite molte strade, e reso sempre più delizioso e vago il detto castello» #. ‘Sappiamo però che Boriani acquistò il teatro in data 9 dicembre 1735 ad un prezzo addirittura superiore a quello ? «Bologna», cit., alla data 1 luglio 1727.
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fissato dalle perizie: 800 lire, che vennero equamente divise fra le tre sorelle eredi con altrettanti assegni di capitale fruttifero di 266 lire, 13 soldi, 4 denari ciascuno. La tratta-
tiva fu per la verità assai complessa e la vendita del teatro diede avvio ad una lunga sequenza di mercato di cui è possibile trovare traccia nei rogiti notarili fino al 1748, e che vede progressivamente accantonare l’edificio teatrale, facendo invece entrare in gioco attorno agli assegni di capitale fruttifero differenti e svariati personaggi, istituzioni e 0ggetti di scambio: terreni, ipoteche, legna da ardere, botti per il vino, il Sacro Monte di Pietà ecc. Come se la vendita
del teatro fosse l’atteso punto d’avvio per il risanamento di una situazione economica che vede coinvolti molteplici interessi locali. L'esatta comprensione del problema (ma per questo occorrerebbero anche i numerosi altri documenti citati nei rogiti notarili), darebbe forse un quadro sintomati-
co, se non di microstoria, almeno di uno spaccato di vita economica cittadina in un piccolo centro agricolo di metà Settecento ‘. Ma proprio tale complesso vortice di compravendite, di scambi e giochi di mercato indica forse, con maggiori 0 minori mediazioni, il segno del sostanziale interessamento da parte di Giuseppe Maria Boriani. Il cambio di proprietà non modifica tuttavia la condizione oggettiva. Per tutto il secolo il teatro resta nelle mani di privati. L'edificio apparterrà ai Boriani — da Giuseppe Maria al figlio Emilio Antonio, poi a Giuseppe Maria junior — fino al 1792, anno in cui l’ultimo rappresentante muore, lasciando tutti i beni in eredità all'Opera Pia Bianchi #. In quella data il valore del teatro è fissato in 2200 lire, oltre alle 400 lite di stima dei diversi scenari esistenti *. 46 Cfr. i rogiti datati 27 settembre 1737 e 3 aprile 1748 conservati nell’Archivio Opera Pia Bianchi, cit., Eredità Boriani, busta 41, nn. 997 e 1049. 47 Dieci anni dopo, nel 1802, il teatro verrà ceduto alla Partecipanza, diven-
tando il Teatro Consorziale, ancora oggi attivo. 48 Cfr. nella busta 43 dell’Eredità Boriani, presso il più volte citato Archivio Opera Pia Bianchi, l’Inventario legale dell'eredità di Giuseppe Maria Boriani morto il 12 ottobre 1792: tra i beni elencati, «un teatro pure esistente nella suddetta strada longa di S. Domenico», e «il scenario [sic] che in oggi ritrovasi come dote di detto teatro, consistente in diverse tele e rispettive giunte rappresentanti: sala, atrio, giardino» (p. 70).
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I
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La documentazione sull’attività effettivamente svolta nel corso del secolo è, a Budrio come in altri centri, estremamente lacunosa. Bisogna infatti attendere fino al 1765 per trovare menzionata la presenza del teatro nei libri dei Partiti della Comunità. Per avere cioè delle testimonianze ufficiali di un certo valore. A partire da questa data abbiamo a verbale decisioni e risoluzioni relative al teatro fino al 1792.
Il teatro resta dunque di proprietà privata ma — con ciò la situazione muta radicalmente — la sua gestione è, almeno dal ’65 in poi, sottoposta alla vigilanza e alla disciplina, oltre che all’organizzazione, del pubblico potere. Dall’insieme degli interventi messi a verbale possiamo ricavare una tipologia ben definita: da un lato costanti richieste di permesso per rappresentazioni in tempo di carnevale da parte di comici dilettanti locali (serzpre accordate),
dall’altro suppliche di capocomici professionisti (generalmente respinte). In mezzo, e come caso a parte, sporadiche ri-
chieste per la rappresentazione di opere in musica e pet spettacoli di burattini (accordate) 9. Appare cioè evidente a Budrio, come altrove, il tentativo, per altro ben riuscito, di attuare una manovra «protezionistica» nei confronti delle attività interne contro l’ingerenza e la presenza delle compagnie comiche professioniste. In tal senso va forse letta anche una risoluzione del 3 maggio 1788 con la quale i Congregati decidono che, al fine di evitare abusi, «gl’attestati o consensi da farsi a chi intende far rappresentanza nel teatro o altrove, o a favore di qualunque persona niuna eccettuata», dovranno da allora in poi essere approvati mediante votazione segreta e non dal semplice parere favorevole del console pro terzpore o, in sua vece, del segretario. Restano significativamente escluse dal provvedimento le richieste dei commercianti di canapa (la
49 Cfr. Archivio Storico Comunale di Budrio, Partiti della Comunità di Budrio dentro, dal 1760 al 1797, sedute del 12 agosto ’65, 7 gennaio ’72, 10 dicembre °75, 31 dicembre ’76, 20 luglio ’88, 1 ottobre ’88, 24 novembre ’88, 18 giugno ’89, 15 dicembre ’89, 23 marzo ’90, 18 settembre ’90, 10 febbraio ’91, 21 ottobre ’91, 4 gennaio ’92, 8 agosto ’92.
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Luoghi teatrali in Romagna
maggiore risorsa economica del territorio), dei notai (per
quel che concerne la spedizione di atti «fuori di Stato»), e dei «dilettanti di comica budriesi solamente in tempo di carnevale»: attestati, tutti, per i quali continua a valere il solo consenso consolare ?°. Cosî, viene per esempio negato il permesso di rappre-
sentare «opere e commedie» nella primavera 1790 al capocomico Antonio Capodagni (una cui precedente richiesta era già stata respinta anche nel 1788), nonostante la «supplica» sia inoltrata dal proprietario stesso del teatro, Giuseppe Maria Boriani?!. Dato questo che dovrebbe quanto meno stimolare domande sul rapporto proprietà privatagestione pubblica, soprattutto per l’aspetto economico del problema. Mentre non si esiterà ad accordare il permesso, ed è un caso unico, al capocomico Filippo Mengoni, presen-
tato da una lettera di raccomandazione del senatore Filippo Bentivoglio 2. Occorre sottolineare quel «solamente in tempo di carnevale» presente nella risoluzione del 1788: sintomo di una sostanziale «chiusura» rivolta sia all’interno, sia all’esterno.
All’interno perché con ciò si delimita il periodo di liceità delle rappresentazioni dei dilettanti; all’esterno perché l’uso del teatro concesso ai «comici» locali diventa il forte pretesto, 0 l’arma vera e propria, per respingere le richieste dei professionisti (di «tempo ‘non a proposito», oltre che di «scarsezza dell'annata» e di mancanza di numero legale, si parla per esempio nella motivazione del rifiuto opposto alla seconda richiesta di Antonio Capodagni). Esiste — sembra esistere — un forte legame tra l’organizzazione politica e sociale e l’organizzazione teatrale. Il teatro è utile, ma in senso etimologico: perché si può usare.
È utile ma non profittevole, non produce guadagno economico. Ma è utile anche perché esiste. Avvertiamo a Budrio i sintomi di una condizione comune ad altri piccoli centri 50 Cfr. Archivio Storico Comunale di Budrio, Partiti, cit., seduta del 3 maggio 1788, c. 147re v. 31 Cfr. seduta del 23 marzo 1790, cit., c. 12r. 52 Cfr. seduta del 21 ottobre 1791, cit., c. 20r.
LIS
D. Borzacchini - D. Seragnoli
situati nel territorio emiliano romagnolo sottoposto allo Stato della Chiesa. L’utilità del teatro si lega direttamente alla fruizione, alle possibilità di un vissuto quotidiano fortemente contestualizzato. Ed è una consapevolezza, questa,
che delimita concretamente l’agire ripiegandolo su se stesso. La classe consumatrice non avverte neppure l’esigenza, in tal senso, di progettare la propria molteplicità. Il teatro è sf statuto, è istituzione che si accetta e si accoglie, ma tra
imprenditorialità e produzione resta una zona di improduttività, anche economica, in cui, all’esterno ormai del discorso morale, si conferma la staticità ed il limite tautologico di
un gruppo sociale che riproduce e ricostruisce semplicemente se stesso € i propri significati.
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CARLO
ZANI
Antonio Cugini e i suoi collaboratori a Brescia: il «Novo Teatro» del 1742-45
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L'Accademia degli Erranti di Brescia, costituitasi nel
1619, decise, nel 1637, di edificare la propria sede nell’area di una fortificazione viscontea in disuso e donatagli dalla Repubblica Veneta cinque anni prima. I capomastri Giovan Battista e Teodoro Avanzo edificarono un «maestoso edificio» composto da un ampio e alto porticato preceduto da un monumentale scalone salendo il quale si accedeva ad un grande salone per le riunioni e per gli esercizi accademici. Sotto al porticato venne edificato nel 1664 il primo teatro pubblico bresciano sostituito poi nel 1710 da un’altra sala, sempre nello stesso luogo, progettata dall’architetto viadanese Francesco Pinolla. Il cedimento della volta del portico che sosteneva il pavimento della sala accademica, provocato dalla rottura di una chiave nel 1739, costrinse la Reggenza dell’Accademia a sospendere l’uso della sala stessa e ad incaricare due suoi membri, Faustino Avogadro e Lorenzo Zon, di sovrintendere alla costruzione di un nuovo
teatro «in quel sito, e di quella capacità, e struttura, che sarà creduto più convenevole»!. Il 21 agosto dello stesso anno venne presentata una supplica ai Deputati Pubblici | perché approvassero la demolizione della vecchia sala «ritirando il copertume sopra l’altra inferiore, che racchiude il teatro, la cui platea potrebbe provvisionalmente servire all’instantanee funzioni accademiche, fintanto che con l'esame, e consiglio di esperto architetto, che per tale oggetto sarà sollecitamente chiamato in questa città, venghi a stabilirsi, o la dilatazione dell’accennata sala inferiore, per Il presente intervento è il riassunto di un più ampio studio sulla storia architettonica e gestionale del Teatro Grande di Brescia in corso di pubblicazione. 1 Archivio Storico Civico di Brescia (d’ora in poi ASC), 1273, c. 60 r/v, 17 febbraio 1739.
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C. Zani
renderla commodamente capace, non meno al ricetto del teatro, che ad uso di tutte le accademiche funzioni, o con
l’erezione d’altra sala terranea corrispondente al dissegno a tal oggetto formato, e che si rassegna a pubblici riflessi» (fig. 10)?.
In questo primo progetto, redatto da un architetto locale da identificarsi probabilmente in Giovan Battista Marchetti e/o Antonio Corbellini, periti della Accademia’, era
prevista la realizzazione di una sala nel cortile della cavallerizza, posto davanti al porticato, con pianta a ferro di cavallo, mentre si proponeva che la sede del vecchio teatro venisse ridotta a sala accademica. Del progetto definitivo venne incaricato l’architetto e scenografo Pietro Righini, il quale giunse a Brescia prima del maggio del 1740, direttamente da Napoli, dove si dice partito per altri impegni di lavoro, appena conclusa la stagione di carnevale4. L’architetto visitava il 22 maggio il palazzo dell’Accademia e consigliava, in alternativa a quanto proposto, «la dilatazione della sala, ove presentemente esiste il teatro»; in tal modo «... avrebbe a facilitarsi, non solo il comodo di farvisi le Accademie, ma anche di rinovarsi un teatro più capace». Del
nuovo teatro venne anche eseguito un modello in legno, oggi perduto, realizzato da Domenico Savio ‘.
2 ASC, 1273, c. 61r/v.
3 Questi architetti eseguirono due distinte perizie sulla volta che venne giudicata pericolosa e non più riparabile (ASC, 1273, c. 62 r, 22 e 24 agosto 1739). L'attribuzione del primo progetto ai due architetti bresciani è dubitativa, anche se sembra ragionevole pensare che, in attesa di un esperto architetto teatrale e per la stesura di un disegno provvisorio e puramente indicativo (Copia della Pianta del Teatro nuovo di Brescia già presentata agl’Illmi SS.ri Deputati ..., Archivio di Stato Verona (d’ora in poi ASVR), fondo Bevilacqua, 86, Teatro), la Reggenza incaricasse dei tecnici di fiducia, come appunto Giovan Battista Marchetti e Anto-
nio Corbellini (questo per altro appaltatore dei lavori di costruzione del nuovo teatro nel 1742). La collocazione di questi documenti mi è stata gentilmente indicata dal dott. Paolo Rigoli di Verona a cui vanno i miei ringraziamenti. 4 ASC, 1273, c. 63 v. Nel documento non viene citato espressamente il nome
del Righini ma questo si può desumere da un altro documento del 26 febbraio 1742 (ibidem, c. 64 1). Per la partenza da Napoli vedi: F. Mancini, Scenografia napoletana dell'età Barocca, Napoli, 1964, p. 88. > Istanza presentata ai Reggenti dell’Accademia il 22 maggio 1740. ASC, I2/5ACt63' y.
6 ASC, fondo Teatro Grande, 2, c. 199, 4 luglio 1740.
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fi Antonio Cugini e i suoi collaboratori a Brescia
L’11 giugno 1740 vennero stesi i capitoli per l’erezione e la ripartizione delle spese della nuova sala, poi modificati il 25 agosto, ma, per difficoltà di applicazione degli stessi o forse per l'opposizione di parte degli accademici, contrari ad una coabitazione con l’apparato teatrale e favorevoli invece ad una soluzione confofme a quanto indicato nel 1739, i lavori non poterono essere iniziati e si dovette aspettare il 1742, quando il 26 febbraio furono approvati nuovi capitoli per la costruzione del teatro e redatto un nuovo disegno dello stesso ?. In questa versione la sala teatrale, di nuovo unificata con quella accademica, era collocata nel cortile della cavallerizza, come era stato indicato originariamente, mentre lo spazio occupato dal vecchio teatro veniva utilizzato come atrio e ridotto della nuova struttura. L’architetto Righini infatti sottolineava come «l’erezione d’una nuova sala verrebbe a riuscire assai dispendiosa e per conseguenza gravosa ad essa Accademia» mentre «ottimo ri-
piego sarebbe il formare un nuovo pit spazioso teatro» (fig. be 42).
Il nuovo modello del teatro venne esposto nella casa del bidello ed ogni famiglia pretendente ad un palco doveva visionarlo per poi indicare quello desiderato ?. Raccolte le prime somme la costruzione del teatro fu appaltata ad Antonio Corbellini e a Giovanbattista Colosio il 18 maggio del 1742. Sotto la direzione di Gaetano Bargnani e Camillo Tomasi, eletti dalla Reggenza, e di Fabrizio Suardi e Gero-
lamo Avogadro, in rappresentanza dei palchettisti !!, i lavori iniziarono rapidamente con la demolizione delle muraglie ? ASC, 1273, cc. 64 r-68 v. La polemica ipotizzata non trova riscontro in al-
cun documento, anche se può essere intuita dai successivi sviluppi della questione e da una nota contenuta nel documento citato, ove si precisa che i nuovi capitoli sostituivano i vecchi in quanto nell’applicazione degli stessi erano insorte «alcune difficoltà, che remoravano detta erezione» del teatro. 8 Ibidem, c. 64 r. Sono probabilmente dell’architetto Righini due dei quattro disegni conservati presso l’ASVR, fondo Bevilacqua, 86, Teatro, in quanto uno rappresenta una versione della sala molto vicina a quella realizzata e l’altro confronta la fattibilità del progetto di massima del 1739 con la sovrapposizione della vecchia proposta alla nuova. 9 ASC, 1273, cc. 69 r-70r, 7 marzo 1742. 10 ASC, 1273, c. 75 v. 11 ASC, 1273, c. 68 », 26 febbraio 1742.
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C. Zani
dell'antica cittadella viscontea e la successiva costruzione dei nuovi muri d’ambito. La morte del Righini, nel dicembre dello stesso anno, e ulteriori opposizioni di parecchi palchettisti rallentarono i lavori, che restarono sospesi sino all’aprile del 1744 ‘2. Allo scopo di riprendere e concludere rapidamente i lavori furono convocate due assemblee dei proprietari dei palchi il 2 marzo e il 15 aprile del 1744: al posto dei precedenti soprintendenti ai lavori ne vennero eletti altri sette: Giovanni Negroboni, Bartolomeo Martinengo P.V., Tito Covi, Marc’Antonio Martinengo Cesare-
sco, Luigi Martinengo P.V., Paolo Calini e Benedetto Fenaroli. In questa occasione si decise inoltre di «chiamar a suo tempo alla sovraintendenza delle opere, che occorreranno,
un proto de’ migliori che si potranno avere» !*. La nuova commissione alla fabbrica del teatro contattò l’architetto Antonio Cugini, molto noto per il successo riscosso pochi anni prima nella realizzazione del teatro di Cittadella. Il nuovo architetto modificò parzialmente il progetto del Righini e realizzò un invaso teatrale a forma di U con palchi a balconcino decrescenti verso l’arcoscenio. I palchi erano inoltre orientati verso il centro del palcoscenico con i balconcini aggettanti e raccordati alle pareti mediante due tratti perpendicolari (fig. 13). L'attribuzione del progetto di questo teatro ad Antonio Cugini, e non a Carlo Manfredi come tradizionalmente riportato dalle fonti ‘6, è fondata 12 La costruzione del nuovo teatro era «già ben incamminata»: per impedire che restasse «abbandonata del tutto [...] non solo con perdita del già speso, ma
anche con poco decoro del nome bresciano» vennero convocate le riunioni dei palchettisti del 2 marzo e del 15 aprile 1744. (ASC, 1273, cc. 76 r-78 rn).
13 Ibidem. 14 ASC, 1273, cc. 77 ve 78r.
15 Tra i disegni conservati presso l’ASVR uno rappresenta una sezione parziale di un teatro che per il numero di file coincide con quello realizzato: si distingue nettamente dagli altri per la tecnica esecutiva e si può attribuire al Cugini ipotizzando che si tratti dello schema costruttivo senza le indicazioni delle decorazioni (ASVR, fondo Bevilacqua, 86, Teatro). Potrebbe però anche trattarsi del disegno presentato nel 1785 ai palchettisti affinché facessero «levare tutte le cascate esteriori delli palchi» (ASC, 1272, cc. 42 v - 43). La forma del teatro è inol-
tre desumibile dal progetto di Giovanni Donegani presentato nel 1807 dove viene indicato a tratteggio l'andamento dei palchi da demolire. 16 Andrea Costa. Compendio storico della città di Brescia (sec. XVIII), a cura di U. Vaglia, Brescia, 1980.
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Antonio Cugini e i suoi collaboratori a Brescia
sui documenti conservati nell’archivio Negroboni a Verona: un membro di questa famiglia, Giovanni, era infatti uno dei soprintendenti ai lavori indicati nell'assemblea dei palchettisti del 15 aprile 1744! Nella «nota delli debiti che sono da pagarsi» per l’anno 1745, risulta un credito dell’architetto di L. 2.798 soldi 16 per sette mesi di onorario su un totale di 35.819 lire spese in quell’anno !8. La presenza di Cugini è inoltre confermata dall’espresso riferimento a lui fatto dai proprietari dei nove palchi centrali in ordine piano nell’occasione di alcune modifiche da apportarsi ai rispettivi sottopalchi e richieste il 10 aprile 1745, Per la decorazione del teatro e la realizzazione delle nuove scene, vennero interpellati gli artisti Innocente Bellavite, Giuseppe Orsoni, Pietro Orta e Giovanni Antonio Pa-
glia. La scelta, anche per l’interessamento di Cugini, che interpellò personalmente il pittore a Reggio, cadde su quest’ultimo: il 4 maggio 1745 fu firmato il contratto, sottoscritto da Giovanni Negroboni per la fabbrica del teatro. Il pittore reggiano si incaricava di eseguire la decorazione «della soffitta nella platea, e i palchi interni ed esterni del medesimo teatro [...] incluso l’ornamento dell’arme, che si
volessero entro i palchetti, non cosf lo scudo e i supporti dell’arme istesse...» per la cifra di centosettanta zecchini e con l’impegno di ottenere anche l’esecuzione delle scene ?0. Questo incarico venne affidato a Paglia il 14 giugno seguente, con contratto firmato da Marc’Antonio Martinengo, per
il prezzo di «zecchini trecentonovanta compreso in questo il lumeggiare aspettante al pittore ed il figurinista dovendo essere a suo carico pure questo...»?!. Per l'esecuzione delle figure fu scelto Giuseppe Rocchetti di Parma, buon amico di Paglia e di Cugini e con cui aveva già collaborato nella costruzione del teatro di Cittadella ?2. Delle scene realizzate 17 18 19 20 21 22
ASC, 1273, c. 78 r. ASVR, fondo Bevilacqua, 86, Teatro. ASC, fondo Teatro Grande, 1, filza A, n. 120. ASVR, fondo Bevilacqua, 86, Teatro. Ibidem. Cfr. Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze,
1980, vol. I.
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si è conservato solo l’inventario che elenca: «grand’atrio a tutto fondo, stanza a mezo teatro, giardino a tutto fondo
con prospetto che taglii in mezzo, galeria a tutto fondo, cortile a mezo teatro, tempio a mezo teatro, boscarecia a tutto fondo con prospetto che taglii in mezzo, carcere a mezzo teatro, salone o sia reggia a tutto fondo, gabinetto a mezo teatro, strada a mezo teatro, sei pezzi di padiglione con due piccoli, telone o sia sippario con li suoi paneggiamenti» 23.
Insieme al teatro vennero sistemati anche i locali di ingresso e quelli di servizio. Lo scalone di accesso alla demolita sala accademica venne rimosso e al suo posto realizzata la scalinata ancora -oggi esistente, con l’aggiunta, accanto al portone secentesco, di due porte laterali: poiché la loro forma con i timpani spezzati ricorda particolari architettonici dei disegni bibieneschi, esse possono per questo indizio essere attribuite all’architetto Cugini? che con questo intervento completò il suo incarico bresciano. Il teatro, rinnovato nelle decorazioni nel 1785, venne demolito nél 1808 e
sostituito con l'esistente progettato da Luigi Canonica e restaurato nel 1862-63 da Girolamo Magnani.
23 ASVR, fondo Bevilacqua, 86, Teatro. 24 Le due porte vennero aggiunte in occasione di questa ricostruzione del teatro probabilmente per accrescere il deflusso degli aumentati spettatori. La nuova facciata del teatro è ben visibile nella veduta di C.so Zanardelli (datata al 1750 ca. per la presenza, alle spalle dei portici, del muro meridionale della nuova sala teatrale) e in numerose incisioni settecentesche; cfr. I/ volto storico di Brescia, a
cura di G. Panazza e R. Stradiotti, vol. IV, pp. 256-259.
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il
RUGGERO
MASCHIO
Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
L’antica e gloriosa tradizione teatrale di Padova moltiplicò, nel corso dei secoli, un ricchissimo patrimonio di luoghi e strutture delegate allo spettacolo. Eppure oggi esiste nella città un solo edificio che possa qualificarsi con pertinenza e nella piena accezione del termine come teatro: il teatro Verdi. Ultimo superstite dei secoli passati, fu proget‘ tato e fruito fin dall’origine in funzione teatrale; codificato, pertanto, in termini precisi in ogni sua membratura e altresi dotato di attrezzature e servizi complementari e pertinenti
all’uso per il quale fu «inventato», e che tutt'ora mantiene. Il teatro è stato completamente ricostruito all’interno in seguito a ripetuti, necessari interventi di restauro e presenta
ancora nella facciata esterna (salvo la occlusione delle arcate), la soluzione proposta nel 1845 dal massimo architetto della Padova ottocentesca: Giuseppe Jappelli!. Il teatro 1 La facciata curvilinea in stile «eclettico» dello Jappelli, con le 11 arcate e «le statue dei quattro sommi poeti» è quanto rimane dell’intervento ottocentesco sull’antica fabbrica del Cugini. Si tratta, a dispetto dei lungimiranti progetti dell’autore del Caffè Pedrocchi, che anche in questo esempio aveva in animo «le magnifiche sorti e progressive» della città, di una soluzione di ripiego; di una capitolazione delusa ai desiderata miopi e di gretto utilitarismo dei committenti e alla carenza di fondi; come testimoniano molti documenti autografi tuttora conservati presso la Biblioteca Civica (d’ora in avanti BCP) e presso l'Archivio di Stato di Padova (d’ora in avanti ASP, b. 200). Cfr. ancora, tra le fonti: G. Stefani, in Il Teatro di Padova riedificato per opera dell’architetto Giuseppe Jappelli..., Padova, 1847, pp. 25-28; A. Sberti, I. Cabianca, in op. cît., pp. 15-18; B. Brunelli, I teatri
di Padova dalle origini alla fine del secolo XIX, Padova, 1921, pp. 424-425. Tra le varie versioni proposte dallo Jappelli per la facciata (i disegni autografi sono nella Raccolta Iconografica Padovana, Fondo Jappelli, BCP), sono interessanti quelle _ che tengono conto della praticità d’accesso delle carrozze al sottoportico, e che presentano, nei portici semicircolari, le varie proposte del repertorio «eclettico», con logge doriche, o corinzie, e decorazioni in ghisa simili a quelle del Pedrocchi o delle loggette laterali di Villa Torlonia a Roma, dove lo Jappelli lavorò. Cfr. BCP, Fondo Jappelli; N. Gallimberti, Giuseppe Jappelli, Padova, 1962, p. 34; R. Maschio, I luoghi teatrali, in Padova. Case e palazzi, Vicenza, 1977, p. 316. Rinnovato all’interno dall’architetto Achille Sfondrini ed inaugurato col nome di
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R. Maschio
Verdi è un edificio, tuttavia, che, pur occupando la stessa area di sedime e senza forzare i confini fisici dell'antica fabbrica da cui trasse le origini, mantiene pochi rapporti tipologici o architettonici con l’antecendente teatro Nuovo, suo diretto antenato — di cui intendiamo parlare — che fu costruito tra il 1748 e il 1750 su un progetto dell’architetto reggiano Antonio Cugini e realizzato dal padovano Giovanni Gloria. Se, a dispetto di tante alterne vicende e sopravvivendo all’inarrestabile macina del tempo, questo edificio è rimasto fino a noi, conservando immutate le sue funzioni, non è cosa trascurabile, ché tanti altri, e più famosi teatri padovani subirono radicali trasformazioni, furono volti ad
altro uso o vennero definitivamente distrutti.
Polo accentratore della vita cittadina laica, per eccellenza, già nel ’700, e, in particolare per la sua fortunata «reinvenzione» in epoca di sentimenti filogiacobini e massonici; impalcato come lussuoso e confortevole luogo di massa, dove il divertimento andava di passo con la personale esibizione; non a caso situato nel cuore della città, a costituire
l’«altro referente» rispetto al «collaudato», vivacissimo nucleo di «sapienza borghese» che era il Caffè Pedrocchi, il teatro Verdi impose la sua presenza, tra le varie strutture delegate allo spettacolo e al di là dei fatti contingenti della sua avventura, come specchio di cultura e di coscienza civiTeatro Verdi l’8 giugno 1884, il teatro fu semidistrutto da una bomba austriaca il 29 dicembre 1917; restaurato e ridipinto da G. Tommasi nel 1920, subi altri dan-
ni anche nell'ultimo conflitto. I più recenti restauri risalgono agli anni ’60. Cfr. ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 23, 48, 203, 204, 210, con una notevole mole di documenti, perizie, relazioni e disegni autografi, tra cui i dossiers progettuali completi degli architetti Andrea Scala ed Eugenio Maestri, convocati ai restauri. Vedi anche E. Caffi, I/ sipario del Teatro Nuovo di Padova dipinto da V. Gazzotto, Padova, 1856; U. Tegani, Uno storico teatro bombardato dagli Austriaci. Il Teatro Verdi di Padova, in «Noi e il mondo», 1928, pp. 358-360; L. Montobbio, L’incen-
dio al Verdi di Padova, in «Gazzettino Sera», 1947. Su Giuseppe Jappelli, per concludere, si vedano almeno le voci più recenti ed informate: L. Puppi, G. Jappelli. Invenzione e scienza, architetture e utopie tra Rivoluzione e Restaurazione, in
Padova. Case e palazzi, cit., pp. 223-269; B. Mazza, Jappelli e Padova, Padova,
1978; L. Puppi, Il caffè Pedrocchi di Padova, Vicenza, 1980; Jappelli e il suo tempo, Atti del convegno internazionale di studi (settembre 1977), Padova, 1982; I/ Caffè Pedrocchi in Padova. Un luogo per la società civile, Padova, 1984; BR.
Mazza-L. Puppi, Guida storica al Catfè Pedrocchi di Padova, catalogo della mostra, Padova, 1984.
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i PSR
:
Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
le. I rapporti con l’Università, col Palazzo del Comune, a pochi passi, con le residenze patrizie circostanti, le rivalità mai sopite con l’antico teatro Obizzi, diretto antagonista nella contesa per la patente di primo teatro della città, sono pagine di una storia di personaggi e di eventi che ha radici profonde nella memoria collettiva patavina e degli ospiti stranieri; che travalica, in qualche modo, la storia delle strutture edilizie, appena identificabili, per altro, nelle superstiti carte d’archivio, e diventa, invece, vicenda quotidiana di Padova e dei suoi protagonisti. Altri teatri di fama secolare — come il «privato» Obizzi — non ressero ai giochi e alle sorti alterne della fortuna, scomparendo, riassorbiti nella complessa evoluzione del tessuto urbano. Ma anche la loro memoria, quanto ci resta, è testimonianza dei valori di civiltà diverse nel tempo. E l’esito di generali e ineluttabili leggi di evoluzione che sanciscono l’anacronismo di certe «cose costruite» dagli uomini e le condannano all'oblio. Lo spectaculum, in effetti, il «teatro» in quanto alternativa di evasione, ma anche attività ludica che riflette, fedelmente specchiate, le circostanze, i modi, i costumi, in ogni
epoca, della vita d’ogni giorno, è quello che forse, più di qualunque altra forma d’arte, ha dato vita alle più differenti espressioni; talché sembra evidente il nesso che «mutando radicalmente il contenuto [debba] a fortiori mutare pure
il contenente»2.E come invaso contenitore l’edificio teatrale, in particolar modo, è condizionato fin dalla sua origine, rispetto ad altre strutture edilizie, da elementi di «mutabilità»; sia contingenti al proprio «corpo», in quanto che «realizzato l'involucro perimetrale e la copertura secondo i canoni dell’arte del costruire, il resto (palchi e impalcato), viene realizzato rapidamente e rapidamente “mascherato” (decorato) al pari degli apparati esterni», sia rispetto al circostante tessuto urbano. ? C. Perogalli, Presentazione, in G. Ricci, Teatri d’Italia, Milano, 1971, pp. 7-9; R. Maschio, in Padova. Case e palazzi, cit., p. 297.
3 P.L. Cervellati, Appunti sui criteri generali di restauro degli edifici teatrali, in Teatri storici in Emilia e Romagna, catalogo della mostra, Bologna, 1982, p. 23.
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R. Maschio
Il primo teatro stabile di Padova, ad esempio, lo Stallone situato in «strà Maggiore» (ora via Dante), all’estremità
nord-est del Capitaniato, presso Piazza dei Signori, fu eretto su un’area occupata da edifici di antichissima origine, adibiti a stalle per i pubblici ambasciatori e rappresentanti e ad acquartieramento delle guarnigioni prefettizie‘. Il 7 ottobre 1642 il capitanio Giorgio Contarini lo concesse, in stato di degrado, all'Accademia dei Disuniti, che intendeva
ricavarne un teatro. Anche se nulla sappiamo sull’architetto (molto probabilmente il veneziano G.B. Bertani) ed il progetto, affidatogli dagli Accademici, possiamo ipotizzare un | impianto delle tribune piuttosto all'avanguardia, con suddivisione in palchetti, invece delle consuete logge, dato che Pio Enea degli Obizzi, l’autore e regista della celebre Ermiona, sembra che vi possedesse un palco. La decadenza 4 Nella descrizione del palazzo del Capitanio, l’antica residenza dei Carraresi, Michele Savonarola intorno al 1446 fa menzione di alcuni «stabularia trecentum equos collocantia» (cfr. M. Savonarola, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, vol. XXVI, p. 49). È la più antica notizia che abbiamo dello Stallone, «l’amplissima stalla pubblica pei cavalli di gente d’armi, che di qua se ne passa alla Corte del Capitanio», (cfr. Deromzinazione delle contrade della Città di Padova, 1671, BCP, ms. 345, XII). Le stalle, come riferisce il capitano Pietro Morosini,
erano quasi in rovina nel 1611 e fu provveduto ad un restauro (Archivio di Stato di Venezia — d’ora in avanti ASV —, Collegio, V, Secreta: Relazioni, b. 43). Nel
1619 ne fecero scempio le milizie olandesi ivi alloggiate, bruciando porte, finestre, cavalletti, mangiatoie eccetera. La fabbrica fu in seguito adibita a deposito
di «nitro», cioè esplosivi e, durante la pestilenza del 1630-31, ebbe anche funzione di lazzaretto. . ? B. Brunelli, op. cit., pp. 84-87, a cui si rimanda per tutte le fonti archivisti che citate. Pio Enea degli Obizzi fu figura di primo piano nella storia del teatro padovano e della società del tempo. Dotto umanista ed elegante cavaliere, Accademico Ricovrato, Intrepido, Arcade, godeva della fiducia di Vittorio Amedeo I di Savoia, era intimo di Cosimo II de’ Medici e del Duca di Modena, per i quali svolgeva incarichi di ambasciatore. Fu tra i fondatori, a Padova, dell’ Accademia degli Oplosofisti, dove si distingueva petsonalmente nell’esercizio delle armi. Cultore d’arte, letteratura e splendido mecenate, amava circondarsi dei pi dotti ingegni e manifestò, fin da giovane, un buon talento di verseggiatore. Cfr. A. Bohm, Notizie sulla storia del teatro a Padova, Venezia, 1899, p. 43 ss.; A. Benacchio, Pio Enea degli Obizzi, in «Bollettino del Museo Civico di Padova», IV (1901), pp. 61-72, 95-102, 123-130; B. Brunelli, op. cit., pp. 72-77. La sua innata
passione per il teatro lo spinse ad organizzare nel 1636 il celebre spettacolotorneo: l’Ermziona, nel Prato della Valle — la più grande «piazza» di Padova e d’Italia, e «luogo teatrale» per eccellenza ed antichissima tradizione — in quel «tezon», o riparo pel bestiame, che nel XVIII secolo sarebbe poi diventato l’altro | teatro Stallone, o teatro Vacca, o di S. Leonino, di Padova. Tra le testimonianze
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Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
della sala cominciò, appunto, con l’apertura del teatro Obizzi (1652), che monopolizzava l'interesse del pubblico padovano. Lo Stallone rimase chiuso alcuni anni e, demolito l'impianto centrale, tornò alle sue originarie funzioni militari. In seguito, dopo una breve parentesi di fortuna, quando a un modesto restauro provvidero alcune compagnie di comici (1657), fu definitivamente abbandonato e ro-
dei primi tentativi di recupero funzionale dell’area del Prato, e precisamente nel settore di levante, presso la chiesa di S. Leonino, c’è la proposta del capitanio Pietro Morosini, del 15 settembre 1611, di sistemare il quartiere della cavalleria
di stanza in «un casamento antico che è sul Prado della Valle, di ragione dei reverendi di Mont’Ortone dell’ordine degli Heremitani osservanti» già altra volta adibito a stalle. E precisa che «quel luogo, per la maggior parte è un tezone di buona altezza, ed ha un orto congiunto dove si potrebbe crescere et aggrandire la fabbrica; ha una piccola e quasi derelitta capella, e vi sta ordinariamente un frate solo», cfr. ASV, Collegio, V, Secreta: Relazioni, b. 43. La fama dell’Ermziona, del
resto, (e si veda, per un interessante raffronto col teatro Tron a S. Cassiano, in Venezia, ricostruito e riaperto giusta nel 1634-36, l’interpretazione dell’Ivanovich. Vedi, appunto,
C. Ivanovich,
Minerva al tavolino, Venezia,
1688, pp.
389-391), schiuderà all’Obizzi le porte delle corti di Torino, Mantova, Bologna e Firenze, Modena e Ferrara, (cfr. G. Ricci, Teatri d’Italia, Milano, 1971, p. 85),
dove Pio Enea sarà, per altro, promotore dei restauri del pidi, a S. Lorenzo — già Roberto Obizzi, che l’aveva in va tentato di riportarlo alla prima versione aleottiana all’architetto Carlo Pasetti, che sarà presente, in seguito,
primo teatro degli Intrelocazione dal 1640, ave— affidandone i lavori anche alla ricostruzione
totale, dopo l’incendio del 1660, della «Sala grande delle Comedie» (giusta la de-
scrizione del torneo da parte del Tori, L’arzore riformato con le gare marine sedate, Ferrara, 1671). Cfr. C. Molinari, Per una storia di alcuni teatri ferraresi, in Teatri
storici, cit., pp. 114-118 e passîrz. L’impalcatura e la regia dell’Erzziona era stata affidata da Pio Enea al ferrarese Alfonso Rivarola, detto il Chenda (cfr. E. Povoledo, voce «Chenda A.», in Enciclopedia dello Spettacolo, vol. III, Roma, 1956), «Pittore, Architetto e Mecanico di rara teorica ed esperienza», che anche in que-
sta rappresentazione padovana dà prova di essere abilissimo ingegnere e di padroneggiare con assoluta sicurezza il patrimonio trattatistico e tutto il bagaglio di esperienze maturato dalla schiera degli architetti emiliani e ferraresi, nel rinnovamento della scenografia e degli impianti scenotecnici; ma rivela, altresi, una familiarità ed uno studio attento delle soluzioni dell’ Aleotti per il teatro Farnese di Parma, dal quale sembra mutuare non pochi elementi per l’allestimento dell’ Ermiona. E vale la pena, anche, di sottolineare la presenza di Alfonso Rivarola, nel
1638, accanto ad un altro dei più attivi architetti in Ferrara: Francesco Guitti, per il restauro dell’aleottiana Sala Grande, in Palazzo Ducale, che prese il nome, in seguito, di Sala Grande delle Comedie. (Cfr. C. Molinari, in Teatri storici, cit.,
pp. 114-115). La pratica già sperimentata nell’allestimento del Torneo Bonacossi e per la favola piscatoria, la Alcina Maga, di S. Martini, svoltisi entrambi nel 1631 nel Salone dei Giganti del Castello di Ferrara, doveva dare, nella struttura
di ben pi ampio respiro e maggiori dimensioni del Prato della Valle in Padova, esiti scenografici e spettacolari di grande effetto. (Cfr. E. Povoledo, voce «Ferrara», in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, 1975, p. 181). Per concludere, è suf-
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R. Maschio
vinò nell’incendio del 7 aprile 1777. Sui ruderi e sull'area circostante doveva sorgere, nel 1785, l’attuale palazzo Zigno”.
S’è accennato al teatro Obizzi, poi Nuovissimo, e vale la pena, a mio avviso, soffermarci anche su questo esempio di edificio teatrale padovano, nonostante che ben pochi elementi consentano di stabilire nell’orditura urbana della città i precedenti edili alla sua nascita, né, tantomeno, di ri-
conoscere le sue peculiarità strutturali, proprio per il fatto che la sua lunga storia precedette e seguf, poi, di pari passo l’origine e le vicende del teatro Nuovo di Antonio Cugini, e ° che importanti rapporti, diretti o indiretti, intercorsero tra i due teatri nel corso del diciottesimo secolo. Committente e promotore dell’impresa è Pio Enea degli Obizzi, la cui esperienza delle soluzioni più «moderne» (forse anche del teatro di Sabbioneta di Vincenzo Scamozzi) 8, e la padronanza indubbia dei materiali offerti dalla trattatistica contemporanea?, si concretizzavano in un’opera di promozione
ficiente scorrere la descrizione del Bartolini (cfr. N.E. Bartolini-G. Tonti, L’Ermiona, Padova, 1638), o le molte incisioni che l’illustrano, per renderci conto
della gran fantasia, degli esiti scenografici ed illusionistici e del gran numero di meccanismi di grande effetto (taluni, invero, ingegnosi e assai complicati), messi in opera per questa rappresentazione. Cfr. R. Maschio, in Padova. Case e palazzi, cit., p. 306.
6 B. Brunelli, op. cît., pp. 95-98. ? L. Olivato, Tradizionalismo, eversione ‘e rinnovamento tipologico nell'edilizia tra 700 e ’800, in Padova. Case e palazzi, cit., pp. 212-215. 8 Per questo «luogo teatrale», che costituisce l'emergenza architettonica più clamorosa di Sabbioneta, lo Scamozzi, staccandosi dai canoni del Serlio (il teorico bolognese dispiegava, infatti, tutta una gamma di gradazioni sociali nelle precise spartizioni dello spazio destinato al pubblico), prevede nel 1588 un palcoscenico, un loggiato e gradinate (con soluzione «a campana», come quelle del Buon-
talenti per il teatro degli Uffizi a Firenze), come sintesi degli esiti emersi dalle diverse teorie teatrali contemporanee: i canoni serliani riesumati nel disegno della sala e nello spazio scenico; Palladio o addirittura Vitruvio nel loggiato corinzio; la «scena urbana», che riassume i valori semiologici di quella «tragica» e «comica», tolta di peso dal Peruzzi. (Cfr. A. Puerari, Sabbioneta, Milano, 1955; P. Gazzola, Sabbioneta: proposte per la rinascita della città, in «Civiltà Mantovana», II, n. 7, pp. 1-38; G. Ricci, op. cît., p. 85; e, da ultimo, per la lettura, a nostro avviso pit obiettiva, P. Carpeggiani, Sabbioneta, Mantova, 1972 ed Id., Mantova, profilo di una città, Mantova, 1976, pp. 148-151. ? Per qualche supposizione, forse i due libri Dell’Architettura, del Viola Zani-
ni, o La prospettiva pratica del Cigoli, oppure il Trattato del Lomazzo; per non dire di Nicolò Sabbatini, la cui Pratica di Fabricar Scene e Machine ne’ Teatri, usciva
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Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
teatrale attiva ed informatissima, non solo in termini di spettacolo, ma altresi di progettazione architettonica e scenotecnica !°. L’autografo del Lazara, seguito dal Brunelli, fa risalire all’inverno del 1652 la costruzione del teatro Obizzi, eretto su un lotto di case abbattute, già di proprietà della famiglia !!. Si tratta di un complesso edilizio situato a poca distanza dal Duomo di Padova, tra le vie Marsala e S. Martino e Solferino, costituito da case per la servità, stalle e rimesse e dalla strada che separava queste costruzioni dal palazzo Obizzi. Pio Enea ampliò la proprietà acquistando un altro edificio da un certo G.B. Fichetti, e sull’area complessiva, risultata dalla demolizione di queste fabbriche, fece costruire il teatro, che venne inaugurato il 13 agosto 1652 !2. Non conosciamo il nome dell’architetto, e nessuna appena due anni dopo (e si presuppone, forse, una circolazione del manoscritto) la messa in scena dell’Erzziona. Cfr. R. Maschio, in Padova. Case e palazzi, cit., p. 305.
10 Accanto all’allestimento dell’Erzziona (e vedi alla n. 5), va segnalata pure la costruzione del piccolo teatro privato nel castello del Catajo, residenza estiva degli Obizzi, situato nei pressi di Padova; ma anche la presenza di Pio Enea come «macchinista», a fianco di Alfonso Rivarola nell’allestimento delle scene per il torneo Malvasia, recitato e combattuto alla fine del 1639 nel ricostruito Teatro della Sala di Bologna, ultima impresa del Chenda. (Cfr. D. Lenzi, scheda «Alfonso Rivarola, detto il Chenda», in L’arte del Settecento emiliano. Architettura, Sce-
nografia, Pittura di paesaggio, catalogo della mostra, Bologna, 1980, p. 280). 11 «Questo mese il March. Pio Enea Obizzo fece stabilire, cioè mettere in
coperto un Teatro per comedie dinanzi la sua Casa, havendo per tale effetto spianate alcune case ch’erano per mezo la med.a sua casa», G. Lazara, Annali di Padova dal 1651 al 1655, BCP, ms. B.P. 801, I, 1655, c. 82. La costruzione del tea. tro è fissata invece dal Gloria nel 1663 (cfr. A. Gloria, I/ territorio padovano, Pa-
dova, 1862-1867, p. 252), seguito dal Selvatico, che ne attribuisce l’iniziativa a Roberto Obizzi (cfr. P. Selvatico, Guida di Padova, Padova, 1842, p. 407). Di quest’avviso sono la Béhm, la Borgherini e il Ronchi (cfr. A. Bòhm, op. cit., p. 278; M. Borgherini, La vita privata a Padova nel secolo XVII, Venezia; 1917, p. 150; O. Ronchi, Guida storico-artistica di Padova e dintorni, Padova, 1922, p. 54),
mentre l’Arrigoni la fa risalire a poco prima della metà del secolo (cfr. R. Arrigoni, Notizie ed osservazioni intorno all’origine e al progresso dei teatri e delle rappresentazioni teatrali in Venezia e in altri paesi del Veneto, Venezia, 1840, p. 41).
12 Negli estimi del 1665 è valutato per una rendita di 200 ducati. Nel 1668, in un periodo di evidente decadenza, viene cosf descritto: «Un teatro dove si soleva recitar comedie, del quale non se ne cava utile nessuno». Nel 1694: «Un teatro nella Contrà della Man di Ferto, dove si fanno le Comedie, confina a Levante la Strada Commune, a Mezo giorno la Stalla, a Ponente la suddetta Casa, et a Tramontana la Piazzetta di raggione Obizzi, dal quale si può cavare ogni anno in circa Ducati tresento», ASP, Estizzo S. Urban, 1694, c. 247. E cfr. Archivio Teatro Verdi, b. 10.
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R. Maschio
fonte documentaria o iconografica, del resto, ci viene in aiuto per identificare l’assetto interno del teatro in questa prima edizione. Il ricchissimo fondo Obizzi è tutt’oggi con-
servato con gelosia presso il castello del Catajo e la sua consultazione è assolutamente negata dagli attuali proprietari. Si tratta di una raccolta straordinaria di documenti — giusta il catalogo stilato nei primi decenni del secolo dalla benemerita Erice Rigoni, ch’ebbe la fortuna, unica, forse, fra
tanti studiosi, di prenderne visione — che raccoglie progetti, perizie, disegni, relazioni riguardanti tutte le proprietà Obizzi, e quindi anche il teatro. E comunque probabile, rammentando i contatti e le preferenze dell’Obizzi per l’ambiente teatrale ferrarese, che, morto nel 1640 l’amico
Rivarola, fosse convocato il Pasetti all'impresa padovana, inaugurando quella fruttuosa collaborazione che si sarebbe concretizzata, poi, nel teatro Obizzi di Ferrara (1660). Ed è
da supporre che questo teatro anticipasse, nelle linee generali, la distribuzione delle logge e dei palchi dell’ex teatro degli Intrepidi, poi Obizzi, a Ferrara, dove Carlo Pasetti,
da ultimo, intervenne.
E da questi tipi di teatro, in cui sempre più frequenti sono le commistioni tra logge e palchetti indipendenti che garantiscono la privacy, anche per l’accesso posteriore e non più dalla sala, ma soprattutto perché si possono vendere o affittare, dalla ricerca di una soluzione più pratica delle esigenze tecniche di acustica o visibilità (le quali finiranno per forzare definitivamente la pianta ad U nello schema «a ferro di cavallo»), che nasceranno i teatri moderni, cioè i teatri
pubblici a pagamento. Anche se la costruzione del teatro Obizzi sembra apparentemente collegata ad un contesto di motivazioni
autocelebrative
e di esibizione
sfarzosa,
in
realtà la prevalenza di spettacoli buffoneschi (attestata dai documenti), più graditi al gusto popolare, e l’accertata presenza di una struttura teatrale «a palchetti» (che la famiglia Obizzi affittava con contratti triennali, serbando per sé i palchi migliori), sembrano indicare i modi di una gestione puramente speculativa !.. 13 Cfr. la documentazione relativa in B. Brunelli, op. cit., p. 101. Non è da
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Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
In breve, dopo una stagione di fasti e glorie protrattasi fino alla prima metà del diciottesimo secolo, l'apertura di nuovi teatri a Venezia e nelle altre città di terraferma, e so-
prattutto la costruzione del teatro Nuovo di Antonio Cugini avviarono il periodo di progressiva decadenza. Vetusto e bisognoso di restauri, il teatro Obizzi venne chiuso. Un lungo periodo di silenzio fu interrotto dai primi prudenti passi dell’improcrastinabile intervento del 1780, per iniziativa dell’ultimo discendente della famiglia, il marchese Tomaso Obizzi, il quale, alla sua morte (1803), lasciava in ere-
dità ogni bene: le proprietà del Catajo, di Ferrara e Padova, ivi compreso il teatro, ad Ercole III d’Este, duca di Modena !*. Alle labenti fortune del «Teatro Vecchio», ovvero «fu
degli Obizzi», come, ormai in pessime condizioni, veniva chiamato, ben difficilmente si poteva porre rimedio, e non furono sufficienti i solerti restauri (1820), curati da Giusep-
pe Jappelli ‘5. Nel 1824 l’architetto fu infatti convocato per credere, tuttavia, che i «palchetti» concessi in affitto dagli Obizzi, come sembra
dal rapporto del Prefetto del Dipartimento della Brenta al Direttore generale di Polizia di Milano (Archivio di Stato di Milano —
d’ora in avanti ASMi —),
l’unica fonte citata dal Brunelli, ma in data, si badi bene, 1811, potessero paragonarsi ad un allestimento tradizionale a palchi sovrapposti. Molto probabilmente, tenendo conto che un ambiente teatrale della metà del Seicento non doveva presentare variazioni notevoli rispetto ai modelli dei secoli precedenti, si trattava di logge chiuse, che in genere erano riservate alle dame o agli ospiti di maggior riguardo. La gran parte del pubblico occupava, invece, le panche di platea o, se c'erano, le gradinate laterali in legno, senza distinzione di posti. 14 L’intervento promosso da Tomaso Obizzi riguardava l'ampliamento del palcoscenico, ormai insufficiente alle esigenze operistiche e la costruzione di un atrio d’ingresso (nel giugno del 1780; come riferisce il Gennari), mentre nel 1787 verrà rinnovata anche la decorazione interna del teatro. Cfr. B. Brunelli, op. cit.,
pp. 237-238; 245, con tutti i riferimenti archivistici. 15 Chiuso ufficialmente dalla Prefettura di Padova che nel 1807 accertava in base ai referti di una commissione all’uopo nominata «la pericolosa e dubbia sus-
sistenza del tetto», il teatro era sottoposto ad un primo intervento di restauro nel 1820 da parte dell’architetto Giuseppe Jappelli; ma lo stato di degrado dell’edificio doveva essere tale da rendere necessario un ulteriore generale restauro, dele-
gato, nel 1824, ancora una volta allo Jappelli. Ci si sofferma sull’argomento, e lo _ richiameremo in seguito, perché potrebbe avere attinenza, in qualche modo, col tema del nostro discorso: il teatro di Antonio Cugini. Nella Raccolta iconografica della Biblioteca civica di Padova è conservato un fascicolo con alcune tavole (di mano dell’Ortolani, solerte aiuto dell’architetto; cfr. R. Maschio, in Padova. Case e palazzi, cit., pp. 311-313), che illustrano rispettivamente lo spaccato e la pianta del teatro Obizzi «antecedenti all’intervento japelliano». Si tratta di un paio di
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R. Maschio
una totale ricostruzione dell’edificio, la cui vita si protrasse fino al 1884, quando venne chiuso e trasformato in magazzino. Oggi, tornando alle sue originali «funzioni» di «luogo di spettacolo», è uno dei più noti cinematografi di Padova
16.
L’atto ufficiale di nascita del Teatro Nuovo di Padova è il ben noto documento del 12 maggio 1748: Addi 12 maggio 1748 Padova. Havendo li Nobb. SS.ri sottoscritti considerato quanto di decoro e commodo di questa Città risultarebbe dal stabilire in essa un Nobile Teatro, per la costruzione del quale non solo fosse concorsa la Nobiltà stessa, ma ancora fosse impiegata per l’annuale sua sussistenza e decorosa sua direzione. Perciò ad unico oggetto, che l’opera meriti l’universale approvazione, et aggradimento, hanno concordemente stabilito l’infrascritti Capitoli, ed hanno volontariamente assunte l’infrascritte obbligationi, da eseguirsi da essi inalterabilmente in ogni forma, e vincolo legale senza contradditione veruna. Si come ha conseguito l’universale applauso la idea delli Teatri di Mantova, Verona e Brescia; perciò sarà procurato il modello delli medesimi, e sarà eseguito quello, che sarà più adattato al sito destinato. Sarà formato il Teatro, e composto di Palchi 29, o 31 per cadaun ordine e d’intorno alla distribuzione de’ medesimi si osserveranno le regole infrascritte... !?.
disegni che, a nostro avviso, riflettono la situazione settecentesca del teatro, co-
me, del resto, attesta la nota: «In questa Tavola si rappresenta lo Stato dell’antico Teatro appositamente rilevato onde appoggiare gli strumenti dei calcoli per la Demolizione...», con la distribuzione dei palchi (30), ordinata su uno schema ancora incerto tra la soluzione «a campana» e quella «a ferro di cavallo» — giusta la razionale proposta dello Jappelli — e, in ogni modo, testimone di una situazione obsoleta che risulta anche dall’esiguo dispiegamento di attrezzature d’ingresso (un semplice atrio, all'evidenza, preceduto da un portico), e di servizio. 16 Il progetto jappelliano (e i lavori si protrassero fino al 1825), riguardò una sopraelevazione della fabbrica, la riforma dei locali di servizio, e soprattutto una soluzione funzionale, in ossequio ai canoni più moderni dell’acustica e della scenotecnica teatrale, dello schema a cinque ordini dei palchi, correggendo la spezzettatura del vecchio dispiegamento in un perfetto semiellisse che ordinava i registri dei palchetti secondo un tracciato omogeneo, progettato con precisione matematica. Nel prospetto esterno era previsto un poderoso avancorpo, che legava i tre ingressi col motivo degli archi, e il vestibolo, ovale ed ampio, come, poi, nel Pedrocchi, doveva essere coronato da un timpano, «classico», o «japelliano», se si
vuole, come quello realizzato per il pubblico Macello di Padova (ora istituto Pietro Selvatico). Cfr. BCP, Raccolta Iconografica Padovana, Fondo Jappelli, X, 1496-1499.
17 ASP, Archivio Teatro Verdi, I, b. 64; ibidem, b. 63. E cfr. B. Brunelli, op. cit., pp. 147-150.
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Pa T.-
Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
Il testo del documento è firmato da Giovanni Andrea Frigimelica Roberti, Galeazzo Mussato, Francesco Papafava; i tre «Cavalieri» deputati a sovraintendere alla fabbrica nuova, e si riporta qui parzialmente per quanto riguarda il nostro discorso, ché il seguito concerne — ed è l’argomento principale dell'atto — una serie di norme specifiche e di disposizioni puntuali riguardanti l’atto di possesso, la gestione o l'eventuale cessione in affitto dei singoli palchi a cui ogni famiglia degli aderenti all’impresa aveva, per contratto, automaticamente diritto !8. Le ragioni addotte di «decoro» e «comodo» per la città, non valgono a-giustificare i veri intenti speculativi di questa iniziativa. Di fatto, sebbene nei primi decenni del Settecento, nonostante l’attività teatrale non subisca restrizioni effettive, dato che le leggi suntuarie emanate dalla Serenissima sembrano, nel loro contraddittorio accavallarsi, quotidianamente violate, un certo clima di cautela par circolare tra i bilanci delle famiglie nobili che avevano preteso e s’erano accollato il privilegio (e l'onere) di gestire teatri privati (si rivedano, al proposito, le vicende del teatro Obizzi). Nel generale e pervicace intento di dilatare oltre le stagioni autunnali, estive o del carnevale le occasioni di divertimento vennero dissipate tali fortune da giungere, per i problemi finanziari, alla chiusura di diversi teatri e al ridimensionamento delle iniziative impresariali. La crisi dell’attività promozionale è evidente nello stesso sistema di conduzione dei teatri, che vede la gestione diretta da parte dei singoli proprietari essere in genere sostituita da quella impresariale o dalla formula societaria. Svanito l’antico lustro di mecenatismo, l’aura fastosa d’au-
18 Sembra che dall’elenco degli aderenti all’iniziativa non manchi alcuna delle più cospicue famiglie di Padova, compresi — tra gli ospiti — i Magnifici Rettori pro tempore dell’Università, sia per nobiltà che per censo. E palese, comunque, l'intenzione di monopolizzare l’attività teatrale padovana nello stesso «Atto» costitutivo della «Nobile Società del Teatro Nuovo»: «Tutte quelle Nobili Famiglie, che di presente hanno Palcho [nel Teatro Obizzi], e che saranno in nota per tenerlo in questo nuovo
Teatro, tutte lo haveranno nell’ordine, e numero,
che ora possedono, uniformandosi alla strotura dello stesso, e pagandolo a tenore della qualità delli Palchi, quella quota, che sarà qui sotto prefissa...». ASP, Archivio Teatro Verdi, I, b. 64.
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R. Maschio
| tocelebrazione, anche l’iniziativa teatrale delle grandi famiglie patrizie diventa, in definitiva, spettacolo pubblico a pagamento, sempre più connotato come impresa commerciale
che coinvolge interessi e capitali e mira alla concreta distribuzione di utili !9. Dal documento del 1748 si possono trarre alcune considerazioni che sembrano opportune, anche a giustificare la sin troppo lunga disamina degli «antecedenti» del Teatro Nuovo. Le ragioni di «decoro» e «comodo» addotte ad evidente critica della vetustà dell’antico teatro Obizzi e della sua inadeguatezza alle nuove esigenze di spettacolo sembrano plausibili se si considera che effettivamente a Padova l’unica emergenza teatrale disponibile, alla data, era stata
sino allora nelle mani di un singolo privato. Per di più, come s’è visto, gestita con criteri non adeguati ai tempi e par-
ticolarmente degradata. L’iniziativa di costituire una nuova società dev'essere allora sembrata opportuna, maturando, forse, in un ristretto cenacolo patrizio, con un’ottica impresariale scaltrita e cosciente che se al buon esito dell’impresa era necessario un credito finanziario illimitato, per contro le prospettive di rendita sarebbero state quanto mai lusinghiere. Ma altre «ragioni», come vedremo al termine del nostro discorso, stanno alle origini del Teatro Nuovo di Padova. Nel frattempo, a dispetto delle satire locali che chiamavano il nuovo progetto «il teatro dell’invidia fabbricato dalla superbia» ?°, l'adesione della nobiltà sembra unanime: i nomi che compaiono nell’atto di costituzione degli Orsato, Polcastro, Oddi, Vigodarzere, Zabarella, Zacco, Capodilista, Dondi Orologio, Capodivacca, Papafava, Mussato, Trevisan, Camposampiero, Maldura, Sambonifacio, Sala, De Cumani, Dottori, eccetera?!, che son poi ricorrenti an-
che nelle cariche più alte della gestione della cosa pubblica, attestano che il fior fiore della società patavina, e perciò i rappresentanti dell’opinione pubblica, erano concordi 1? Cfr. N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano, 1974, pp. 92-93. 20 Cfr. Magagnotti, Merzorie padovane, Padova, s.d., in BCP, ms. B.P. 547, Mem. III, cent. III, alla data 1748.
21 ASP., Archivio Teatro Verdi, I, b. 230.
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Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
nell’intraprendere l’avventura, e ne costituivano la garanzia più concreta ?2, In stridente contrasto con la precaria situazione politica,
col
clima
generalizzato
di recessione
economica,
l’«affare-teatro» sembra anche a Padova aprire un’area appetibile dove cimentarsi per rimpinguare esausti patrimoni. E del resto, solo le capacità di pressione ed influenza di un sodalizio composto dai più bei nomi dell’aristocrazia avrebbero potuto aver ragione degli ostacoli finanziari e legislativi, per ottenere il necessario nu/la-osta da parte delle autorità, ma anche delle difficoltà notevoli, di ordine logistico,
che l’onere di costruire un nuovo teatro nel cuore della città avrebbe comportato ?.. 22 I commenti che circolavano, comunque, nell’aneddotica locale, suscitati dall’imponenza di tale avventura, sono raccolti dal Magagnotti, e riflettono la perplessità e lo stupore della cittadinanza, che si chiedeva come «In tempi cotanto calamitosi, si potesse trovare tanto soldo e tanto coragio per la fabbrica dispendiosa di un teatro, mentre l’antico Obizzi non poteva sussistere per mancan-
za de’ concorrenti [frequentatori]», cfr. Magagnotti, op. cit., in BCP, ms. B.P. 547, Mem. III, cent. III, alla data 1748. 23 A Venezia esistevano nel corso del XVIII secolo ben sette teatri funzionanti: rispettivamente il teatro S. Angelo per le opere drammatiche; il S. Moisè per l’opera buffa; il S. Benedetto, il S. Luca, il S. Samuele e il S. Cassiano per la
commedia dell’arte; e il S. Giovanni Crisostomo per il melodramma e le tragicommedie. Questo in forza delle ferree disposizioni emanate dalla Magistratura alle Pompe. Ma nonostante che in terraferma la richiesta di «spettacolo» e la sontuosità degli apparati celebrativi, dinastici e teatrali avesse dimensioni più provinciali rispetto alla situazione veneziana, l’organo di governo era costantemente attento a vagliare con severità l’indice del lusso periferico. Tuttavia, pur con un’apparente rigidità legislativa, la Serenissima sembra, in genere, tollerante e flessibile nei confronti delle varie aristocrazie locali. Sono due linee di atteggiamento in apparente contrasto, che, da un lato vorrebbero fornire un'immagine di sobrietà e rettitudine, grazie alla probità delle istituzioni, dall’altro non nascondono la necessità di mascherare sotto la magnificenza e gli orpelli del teatro, assunti a metafora della grandezza e del potere della «Repubblica ideale», la decadenza sociale, la debolezza economica, l’ormai imbelle capacità politica e milita-
re. Alla fine del secolo, comunque, anche la Magistratura alle Pompe finirà per capitolare; e proprio a Venezia, che finirà per avere il suo ottavo teatro: La Fenice, quando irreversibili si manifestano i sintomi della fine imminente. Cfr. M.V. Facchinelli, I/ teatro e la cerimonia, in Le alternative del Barocco, Architettura e condizione urbana a Brescia nella prima metà del Settecento, catalogo della mostra, Brescia, 1981, pp. 243-245; M. Brusatin, Il Teatro, in Venezia nel Settecento. Stato, Architettura, Territorio, Torino, 1980, pp. 24 ss.; N. Mangini, op. cît., pp. 91-182; E. Garbero Zorzi, in I teatri pubblici di Venezia (sec. XVII-XVIII), catalogo della mostra, Venezia, 1971; L. Zorzi, I/ teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, 1977, pp. 237-291; Id., Figurazione pittorica e figurazione teatrale, in
Storia dell'Arte, vol. I, Torino, Einaudi, 1979, pp. 438 ss.
193
in
R. Maschio
Nel testo del 1748 non si accenna all’apertura di un concorso per il progetto, né vi è traccia di un qualsiasi bando nelle carte della Società, scrupolosamente ordinate in diciassette tomi da Andrea Dorighello, notaio e cancelliere della Compagnia”. Si sottolinea invece l’«universale applauso» conseguito dall’«idea delli Teatri di Mantova, Verona e Brescia», e si indica chiaramente che «sarà procurato il modello delli medesimi, e sarà eseguito quello che sarà più adatto al sito destinato».
Non sono da trascurare, forse,
motivi di antagonismo serpeggianti tra i circoli più colti di terraferma, con una sorta di «gara» tra Verona, Padova, Mantova, Brescia, nel campo teatrale, dove Padova, all’evi-
denza, finiva per occupare l’ultimo posto. Ma, probabilmente, è giusto credere che ancora una volta la «febbre tea-
trale» sia stata anche per Padova una ragione, vecchia di secoli, di riscossa morale e culturale nei confronti della Dominante. Non a Venezia, quindi, programmaticamente si
guarda, ma ai più evidenti esempi offerti in terraferma dalla vasta cerchia di quegli operatori che si raccoglievano attorno al nome principe dei Bibiena. Parlare dei Bibiena e dei loro discepoli — il Cugini è tra questi il più attivo, proprio in quegli anni, nell’area padana — significa, e non è il caso di sottolinearlo, spaziare su una mappa geografica di relazioni culturali e di presenze operative che si estende a tutta l'Europa: Architetti, quadraturisti, stuccatori, scenografi, frescanti e fintanto mobilieri ed
impalcatori di apparati fittizi diffondono a partire dall’area culturale emiliana e bolognese la lezione bibienesca nell’Italia settentrionale, aprendo un fitto dialogo, alquanto stimolante, con le maestranze locali. Lo scambio di esperienze 24 ASP, Archivio Teatro Verdi, «Catastico di tutte le carte di ragione della Compagnia delli Nobili Signori Interessati nel Nuovo Teatro di Padova, contenuta in tomi 17 et indice alfabetico relativo. Opera di Andrea Dorighello Notaio e Cancelliere della detta Compagnia (1548-1797)», I, Catastico. 25 Cfr. F. Amendolagine-D. Parmigiani, «Aller retour »: influenze e presenze esterne fra le inquietudini e nostalgie dell’architettura bresciana del Settecento, in Le
alternative del Barocco, cit., pp. 209-210. La bibliografia sui Bibiena è sterminata e non è il caso di farne, qui, riferimento. Sulla grande civiltà architettonicofigurativa emiliana e la vicenda complessa della sua evoluzione e diffusione, si veda, infine, L'arte del Settecento emiliano, Architettura, Scenografia, Pittura di pae-
194
Antonio Cugini e il Teatro Nuovo di Padova
progettuali e pratiche riflette il discorso ampio, fatto di viaggi, incontri, diatribe, convergenze, che lega i cenacoli culturali delle rispettive regioni: lo Studio di Padova e l’Accademia Clementina, gli Erranti di Brescia e l’Accademia Filarmonica di Verona. La trama dei rapporti intercorsi, per esempio, tra la committenza bresciana e la cerchia dei Bibiena, può essere fissata ben prima del progetto del Teatro Grande (1742-1743), per il quale giunge a Brescia l’allievo di Ferdinando Bibiena, Antonio Cugini, interpellato probabilmente sull’onda della fama del suo geniale progetto del Teatro di Cittadella di Reggio Emilia (1740), affidatogli da Francesco III di Modena *. Sul Teatro Grande di Brescia non è il casaggio, catalogo della mostra, Bologna, 1980, e, per il tema teatrale, Teatri storici in Emilia Romagna, catalogo della mostra, Bologna, 1982. 26 Il teatro pubblico, detto di Cittadella, fu eretto in sostituzione dell’antica Sala delle Commedie, distrutta dall'incendio del 6-7 marzo 1740, dall’architetto Cugini, sull’area già occupata dalla macina e stalle ducali, presso la cittadella di Reggio. Il lavoro, che costò circa 4.000 scudi, si svolse in un clima febbrile e con la massima cooperazione di autorità e maestranze, tanto che in 7 mesi la fabbrica era compiuta e il teatro veniva inaugurato nella fiera del 1741, con le decorazioni e scenografie di Giovanni Antonio Paglia. Cfr. G. Tiraboschi, Notizie de’ pittori, scultori, incisori ed architetti natii degli stati del ... Duca di Modena, Modena, 1786, pp. 190-191; l’unica voce attendibile nella esigua bibliografia che riguarda il Cugini. Il Tiraboschi riferisce che Antonio Cugini, nato intorno al 1678 da umile famiglia, fu avviato al mestiere di falegname e cominciò da autodidatta a studiare il
disegno. Discepolo di Ferdinando Bibiena, dovette la sua fama soprattutto all’attività di costruttore di teatri, e su suoi progetti furono costruiti l’armeria ducale e il teatro di corte di Modena (circa 1730). A lui si deve la sistemazione dell’organo della chiesa della Ghiara a Reggio, e sappiamo che, come architetto di corte di
Francesco III di Modena, intervenne nel giugno del 1756 nel dibattito apertosi a Bologna intorno ai progetti di Antonio Bibiena per il nuovo teatro civico. Non sono da trascurare anche i suoi rapporti con i Gesuiti per quanto riguarda il loro Collegio di Parma. Cfr. D. Lenzi, scheda «Antonio Cugini», in L'arte del Settecento emiliano, cit., p. 257. Il Tiraboschi si sofferma in una particolareggiata descrizione del teatro di Reggio e riporta altresi un commento del cronista Bernardino Ruspaggiari, secondo il quale il progetto del nostro doveva essere stato tratto dal
disegno di Francesco Bibiena per il Teatro Filarmonico di Verona, cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca Modenese, Modena, 1781-1786, vol. VI, pp. 402-403. Per ulteriore bibliografia sul teatro di Cittadella cfr. G. Crocioni, I teatri di Reggio
nell'Emilia, Reggio Emilia, 1907, pp. 39-73; O. Rombaldi, Profilo della storia del teatro in Reggio Emilia dal 1568 al 1857, in Il teatro a Reggio Emilia, Reggio Emilia, 1957, pp. 85-86; Gli spazi teatrali a Reggio Emilia, mostra documentaria, Reggio Emilia, 1974; D. Lenzi, scheda «Antonio Cugini», in L’arte del Settecento emiliano, cit., p. 120; E. Garbero, I luoghi teatrali nei secoli XVI-XVIII, in Teatro a
Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, vol. I, pp. 71-96.
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R. Maschio
so di soffermarsi, ché ampiamente, e con dovizia di informazioni, se ne parla in questi atti, se non per sottolineare come il progetto del Cugini fosse poi eseguito dal bolognese Carlo Manfredi, legato al Nostro da stretti rapporti. E il Manfredi, infatti, a firmare nel 1742 le incisioni riproducenti la pianta, l’esterno e lo spaccato del Teatro di Reggio e a confermare l’esistenza di un trattato del Cugini sull’acustica dei teatri, lasciato inedito ed oggi, purtroppo, perduto ??. Dall’area emiliana proviene inoltre quel Giovanni Antonio Paglia, reggiano come il Cugini, col quale spesso collabora o è in concorrenza, e i cui disegni sembrano essere preferiti per i lavori di ricostruzione del Teatro Filarmonico di Verona (1749), e che ritroveremo scenografo a Padova,
appunto per il Teatro Nuovo 8. i Il Teatro Ducale di Mantova”? è l’altro clamoroso esempio a cui guarda la committenza patavina: vale a dire quella fabbrica che Ferdinando Carlo Gonzaga affidò nel 1706 alla realizzazione di Ferdinando Galli Bibiena (architetto uf-
ficiale di corte, a Mantova, fin dal 1701), e che, deposto nel 1708 il principe dagli Austriaci, fu realizzato dal disce27 F. Amendolagine-D. Parmigiani, in Le alternative del Barocco, cit., p. 212, e sul disegno del Manfredi cfr. Pianta, Esteriore e Spaccato del Nuovo Teatro di Reggio di Lombardia, Modena, per Bartolomeo Soliani, s.d.
28 Anche questo «Pittore ed Architetto teatrale», morto il 6 gennaio 1765, giusta il Tiraboschi, emerge appena da un materiale bibliografico quanto mai scarno; «...fu sovente e con sua molta lode impiegato nel dipinger le Scene pe’ Teatri di Reggio, di Padova e di Torino [...] grande inventore, valorosissimo disegnatore, buon pittore, ma debole nel chiaroscuro, e mancante di quella forza tanto necessaria nelle Opere Teatrali», cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca Modenese, cit., vol. VI, p. 505. 2° Voci ben pit autorevoli della nostra si sono profuse sulla grande tradizione
teatrale mantovana. Tra i maestri operanti nella città già nel 1650 sono da annoverare Giovanni e Ludovico Ottavio Burnacini; Gaspare Vigarani, per gli interventi nel Teatro Ducale; Pietro Panni, nel 1654, «sopraintendente e prefetto del teatro». E non occorre sottolineare, poi, una personalità come Fabrizio Carini Motta, il quale, nel 1671, assume la carica di «soprastante alle fabbriche e prefetto dei Teatri», dopo la ricostruzione (1668) del vecchio Teatro dei Comici e il progetto del Teatro Fedeli (1669), come egli stesso dichiara in calce al Trattato;
cfr. F. Carini Motta, Trattato sopra la struttura de’ theatri, e scene che è nostri giorni si costumano, e delle regole per far quelli con proporzione secondo l'insegnamento della pratica nostra comune, Guastalla, 1676, ed. Milano, 1972, p. 45; E.A. Craig, Introduzione alla riedizione del Trattato, cit., Milano, 1972, passim; E. Marani-C. Perina, Mantova. Le Arti, Mantova, 1965, vol. III, pp. 212-213.
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polo del Bibiena Andrea Galluzzi nel 1732. Il Teatro fu costruito nel’medesimo sito dove già sorgeva quel «Teatro della Comedia», progettato verso il 1591-1592 per la messa in scena del Pastor Fido, al quale ancora si lavorava nel 1596, forse da quell’ Antonio Maria Viani che fu a lungo «Prefetto delle fabbriche ducali» ?°. La forma di questo edificio, che ha molte consonanze col Teatro dei Comici del Carini, ove si osservi la sequenza dei palchi,è rilevabile in un disegno, attribuito all'ingegnere camerale Giuseppe Bianchi, e vi si nota una pianta ad U dei palchi, a cinque ordini, come attestano molti documenti, divergente verso la scena, iche si'esteride a grande profondità sn Nel 1732, oltre al Teatro Ducale di Mantova, due altre prestigiosissime fabbriche venivano inaugurate: il 13 gennaio il Teatro Argentina di Roma e il 6 gennaio il celebre Teatro Filarmonico di Verona. Quest’ultimo era il corona-
mento di un’idea a lungo accarezzata (aprile 1712) dalla lungimiranza di una figura come quella di Scipione Maffei, presidente del sodalizio e massimo esponente della vita culturale cittadina ?. Non è il caso di soffermarsi sulla lunga
30 P. Carpeggiani, Teatri e apparati scenici alla corte dei Gonzaga tra Cinque e Seicento, in «Bollettino del Centro Internazionale di Studi A. Palladio», XVII (1975), pp. 107-110, con tutte le fonti ivi riportate. Sul Galluzzi cfr. E. Marani, I Bibiena, Milano, 1975, pp. 67-68, n. 3. 31 Archivio di Stato di Mantova (d’ora in avanti ASM), Fondo Gonzaga, b.
3170. E possibile restituire lo schema distributivo del Teatro dei Comici del Carini Motta sulla scorta del rilievo e di un inventario redatti da Giovanni Cadioli nel 1755. Nella pianta è rilevabile la distribuzione ad U divergente dei cinque ordini di palchi, «tutti tramezzati», con uno schema assai simile a quello della figura XI del Trattato. Cfr. P. Carpeggiani, Mantova, profilo di una città, cit., p. 109. 32 L’intenzione di costruire un teatro a Verona risale, tuttavia, agli inizi i del Seicento, allorché il sodalizio dei Filarmonici decise di avviare la nuova fabbrica
dell’Accademia. Fra i molti progetti fu scelto quello presentato da Domenico Curtoni (1604) (Archivio dell’ Accademia Filarmonica, reg. IX, c. 175), ed è forse quello menzionato dal Maffei che ne sottolinea, però, la forma «all’uso antico», (cfr. S. Maffei, Verona Illustrata, Verona, 1732, III-IV, p. 180). L’opera non avrà
seguito, forse proprio perché quel modello non era più consono e adeguato al gusto evoluto dei tempi, quando ormai il Chenda (1639) proponeva nel Teatro Scala di Bologna il primo prototipo di «teatro all'italiana», dove palchetti indipendenti diventavano accessibili dal retro (e non pi dalla sala), ed erano raccordati da corridoi di disimpegno (cfr. G. Ricci, op. cit., p. 110). Questa nuova struttura che il Seghizzi mise a punto a Bologna nel 1641 nel Teatro Formagliari, con la sporgenza scalare dei palchi (e «In tal guisa meglio si affaccia ogni palchetto alla
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vicenda della costruzione che, iniziata nel 1716, fu portata a termine solo nel 1732 (nel 1728 Antonio Paglia vi colla-
borava, con Francesco, per allestire meccanismi e scene), né sulla lunga genesi che dall’Hoftheater di Vienna (1704) attraverso il primo progetto, non eseguito, per il teatro di Nancy, di quattro anni dopo, condusse Francesco Bibiena a sigillare nel Filarmonico di Verona uno dei suoi capolavori». Sarà importante, per un raffronto con le piante del Nuovo di Padova, l’esigua documentazione che ci rimane di questo teatro, distrutto da un incendio nel 1749 e ricostrui- ‘ to, con alcune modifiche, dallo stesso Antonio Paglia. Si tratta dei disegni del pittore lorenese Giuseppe Chamant, di un’incisione di Francesco Zucchi, sui rilievi dell’Avesani
del 1731, e del ben noto acquerello, già attribuito al Bibiena, che riproduce una veduta della sala teatrale. Per tornare al Teatro Nuovo, dunque, appare evidente che alla data 1748 si presentava ai Sopraintendenti alla fabbrica di Padova una serie di «esempi» oltremodo qualificati; un ventaglio di concrete emergenze architettoniche fissate nel territorio circostante dal pi fertile e aggiornato discorso culturale. Ma quanto più articolata sembra la panoramica delle «proposte» disponibili, le possibilità di scelta, le tentazioni di incertezze e dubbi, tanto pi risoluto appare il proposito di convocare proprio Antonio Cugini a Padova. Di
fatto, però, si tratta di una decisione maturata dopo un vaglio ponderato e attento delle «ipotesi di lavoro», che comscena», come commenta l’Algarotti; cfr. F. Algarotti, Saggio sopra l’opera in musi-
ca, in Opere del Conte Algarotti, Livorno, 1764, vol. II, pp. 320-321), sarà perfezionata e diffusa dai Bibiena e avrà nel Filarmonico di Verona uno dei migliori esempi (cfr. N. Gemi Zanolli, Considerazioni sulla genesi del teatro Filarmonico, in L'Accademia Filarmonica di Verona e il suo teatro, Verona, 1982, pp. 41-60). 33 Cfr. N. Gemi Zanolli, op. cit., pp. 50-57. 34 I disegni del pittore lorenese, che passò almeno otto anni in Italia assieme a Francesco, sono conservati al Cooper Ewitt Museum of Design di New York, e illustrano la pianta, il soffitto, il boccascena e lo spaccato del Filarmonico di Verona. Nella Biblioteca dell’Accademia Filarmonica di questa città è conservata l’incisione di Francesco Zucchi, con spaccati longitudinali e trasversali, piante e una veduta esterna. Alla Royal Library del castello di Windsor, infine, appartiene la bella veduta della sala teatrale tracciata a penna e acquarello, già attribuita a Francesco Bibiena, e, forse, dello Chamant. Cfr. D. Lenzi, in L'arte del Settecento
emiliano, cit., schede 167-170, pp. 113-116.
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portò solerti pellegrinaggi da parte dei Sopraintendenti per ottenere una precisa documentazione, la più circostanziata possibile. Il preludio alla fabbrica vede infatti una serie di viaggi, attestati dai documenti d’archivio, che condussero Sopraintendenti e collaboratori a Reggio, Mantova, Verona, Brescia, ma anche a Torino, per prendere contatti, di-
scutere, acquistare disegni, coll’assistenza tecnica di due esperti padovani: Giovanni Gloria e Sante Benato, «tagliapiera», che, come vedremo, saranno i veri esecutori del progetto. Antonio Cugini, nel frattempo, veniva a Padova, forse a prendere visione del lotto da edificare e per i preliminari al cantiere”. Le operazioni sembrano avvenire in un’atmosfera febbrile; dopo incalzanti contrattazioni vengono acquistate alcune case in contrada di S. Nicolò, onde demolirle per ricavare l’area necessaria ’, mentre si provvedeva con sollecitu35 ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 229, «Quaderno della Fabbrica del nuovo Teatro, (1748-1760), segnato A. Libro intitolato scosso e speso per il Teatro. Comincia 1 luglio 1748, intitolato Mussato perché venuto da esso nobile Sig. fu uno
de’ Fabricieri». «5 luglio 1748. Spesi in viaggio di Mantova e Reggio con il Sig. Co. Frigimelica, e li due proti Gloria e Benato [...] L. 1058...». «AI Sig. Antonio
Cugini per suo Viaggio, L. 132». Ibidem, b. 223, «Per spese diverse SS. di Cassa L. 48,1, contate al Sig. Gio. Battista Zaborra per spese dallo stesso fatte per avere le piante delli Teatri di Reggio, e Turino, come da polizza n. 13». Il Teatro Regio di Torino, varie volte modificato e totalmente distrutto da un incendio nel 1936, fu eretto nel 1738 da Benedetto Alfieri a conclusione della lunghissima ala
delle Segreterie della Reggia. Il completamento dei vari bracci del «Palazzo Nuovo», che aveva incorporato, senza demolirle, ma adattandole alle nuove strutture varie parti dell’antico Palazzo del Vescovo, fu di lenta gestazione, e venne completato solo sotto Carlo Emanuele III. Per il suo lavoro l’Alfieri si valse di una
serie di disegni lasciati nel 1722 da Filippo Juvarra. Cfr. M. Bernardi, Torino, Torino, 1965, pp. 88-91. Pianta e spaccato frontale del teatro sono rilevabili in C. Morelli, Pianta e spaccato del nuovo Teatro di Imola, Roma, 1780.
36 ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 229 «Libro scosso e speso, 1748-1752»: «1748, 5 luglio, Devo per contante al Sig. Don Marco Viero a conto dell’acquisto della Casa in Borgo Livello L. 719,4. / 1748, 8 luglio, Instrumento di livello debito de Nob. Sig. Fabbricieri et a credito del R. D. Marco Viero di una Casa in Borgo Livello per annui d. 28, affrancabili con d. 834. / Pagati al Sig. re Gio. Maria Revese per sloggiar dalla Casa L. 248, et dono per danni ducati 22 [sic]. /
AI Sig. Robelli per stimar la Casa comperata dalli Sig. Cumani, L. 66. Per dazzio di due instromenti et Nodaro L. 68,4». Ibiderz, n. 2-4, Catastico, c. 134, «Instru-
mento di Livello è debito de Nob. Sig. Fabbricieri et à credito della Nob. Sig. Isabella Lia Cumani [Lia, non Bia, come legge erroneamente il Brunelli] di due Case in contrà di S. Nicolò per fondo alla costruzione del Teatro per d. 2838,4,8 oltre d. 461,1,2 per l’importare della proprietà compensata per li suoi due palchi, con decreti e polizze annesse».
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dine all’acquisto dei primi materiali indispensabili ??. I lavori durarono almeno due anni e mezzo, e il teatro fu ufficial-
mente inaugurato il 12 giugno 17518. A quanto risulta dalle polizze di pagamento e dalle ricevute autografe dell’architetto, sembrerebbe che Antonio Cugini non si sia limitato a presentare un progetto, lasciandone l’esecuzione ad altri, ma abbia seguito personalmente i lavori, almeno nelle prime e più importanti fasi’. Il progetto del Cugini poteva essere verificato sinora solo sui due ben noti disegni della Raccolta Iconografica Padovana‘, non datati né firmati, ma da riferirsi ad anni im-
mediatamente seguenti alla costruzione. Le due tavole, come abbiamo avuto modo di scrivere, rappresentano la pianta e il profilo del «nuovo Teatro fabbricato in Padova nel 37 ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 223. «1748, 30 luglio, per spese diverse SS. di Cassa L. 148 contate a d. Piero Brandolese per esser stato in Venezia assieme
con d. Giovanni Gloria per la provvisione del legname come da polizza n. 167». 38 ASP, Archivio Teatro Verdi, I; B. Brunelli, op. cit., p. 150. Riportiamo la nota complessiva delle spese: ASP, Archivio Teatro Verdi, 5, c. 272. «Li Nobb. Sigg. Fabbricieri del Nuovo Teatro di Padova. / L’infrascrittte quantità di denaro da essi spese per l'edificazione del medesimo come in Quaderno segnato A alle seguenti rubriche: / Per spese de Materiali L. 18.551,19 / Per spese de Murari L. 26.996,15 / Per spese de tagliapietra L. 7.496,17 / Per Piero Brandolese e sue maestranze L. 7.670,15 / Per spese di legnami L. 31.693,17 / Per Giovanni Gloria e sue maestranze L. 30.104 / Per spese di ferramenta L. 15.615,14 / Per spese di fabro L. 6.283 / Per spese di colori L. 3.173,8 / Per spese di pittori L: 6.187,13 / Per spese di scenario L. 8.855 / Per Sig. Cugini Architetto L. 5.148 / Per spese diverse L. 30.362,7 / Per livelli L. 1.848,2 / [totale] L. 199.987,7»
39 ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 14, c. 37: «Spese diverse D.D. per riporto dell’appiedi summa L. 35.510,7. Da queste si levano l’infrascritte partite pagate al Cugini Architetto ne tempi infrascritti: / 1748, 18 ottobre L. 1188 / 1749, 18 gennaio L. 1188 / 1749, 19 aprile L. 1188/ 1749, 24 luglio L. 1188/ 1749, 14 agosto L. 396 / L. 5.148 Per Sig. Cugini Architetto». ASP, Archivio Teatro Verdi, 15. «Devo avere per l’onorario di me qui sotto scrito per l'assistenza prestata nel quarto trimestre alla Fabrica del Nuovo Teatro di Padova dal di 15 Aprile a tutto li 15 Luglio 1749 à trenta e sei filippi il mese sono filippi... 108. / Antonio Cugini affermo / Dal Sig. Marino Lanza ho ricevuto io qui sottoscrito il saldo della detta Poliza in filippi cento e otto. /Antonio Cugini affermo». Dai documenti risulta inoltre che l’éguipe di maestranze che lavorava agli ordini di Giovanni Glo-
ria era di circa 25 persone, giusta le polizze di pagamento, ivi compresi i due figli ‘ di Giovanni, Domenico e Rinaldo, che sappiamo aver seguito il mestiere del pa-
dre. ASP, Archivio Teatro Verdi, 15: «Adi 12 aprile 1749. Notta di giornate di lavoro consumate per il nuovo Teatro ciove dalli 9 aprile sino tutto li 12 deto: Giornate di me sotoscritto S. 20 / Giornate di Domenico Gloria S. 14 / Giornate di Rinaldo Gloria S. 12 / [...] Io Zuanne Gloria». 40 BCP, Raccolta Iconografica Padovana, X, 1494-1495.
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1750», secondo le didascalie, e non recano altra indicazione oltre alla scala di rilevamento. Lo spaccato mostra 4 ordini di 29 palchi ciascuno, disposti ad U, senza sostanziali va-
rianti rispetto allo schema del Teatro di Cittadella a Reggio, e un quinto ordine a logge destinato in un primo tempo ai servitori che accompagnavano i nobili a teatro e trasformato in un registro di palchi nel 1786. Subito ai lati dell’ingresso si articolano le scale in pietra di accesso ai palchi, e cinque registri di quinte e scenari spartiscono il vasto palcoscenico, mentre nella platea, come attestano le fonti, vi erano 250 posti a sedere. Pianta e spaccato della fabbrica sono incompleti e non mostrano l’ampio salone a colonne, o atrio, che precedeva il teatro, in cui si aprivano alcune botteghe (destinate evidententemente al servizio di rinfresco degli ospiti), e sopra il quale, al primo piano, era stata ricavata la sala da gioco ‘!. Ora, dopo una fortunata ricerca d’archivio, sono emersi altri documenti che consentono una lettura completa del monumento. Si tratta di alcune tavole a penna ed acquerello, non firmate, ma con sicurezza di mano di Giovanni Gloria e riflettenti lo stato originario del progetto del Cugini,
che raffigurano, sulla scala di 60 piedi padovani, la sezione trasversale, la sezione frontale e la facciata del teatro. Un
ulteriore disegno, autografo del Gloria come attesta il documento stesso, ritrovato tra le carte di Andrea Dorighello, notaio ufficiale della Compagnia, illustra la pianta completa dell’edificio *. 41 Cfr. R. Maschio, in Padova, Case e palazzi, cit., p. 314. Dalla storiografia locale e dai vari cronisti citiamo: «Ha un magnifico Atrio con convenienti e molto comode Botteghe: ha stanze ad uso del gioco, belle e nobili scale di pietra; comodi anditi e comodissimi palchetti», cfr. P. Brandolese, Pitture, Sculture, Archi-
tetture ed altre cose notabili di Padova, Padova, 1795, p. 179. Cfr. anche G. B. Rossetti, Descrizione delle pitture, sculture ed architetture di Padova, Padova, 1776, p. 313, che attribuisce, erroneamente, solo al Gloria la paternità del teatro, e J.J. de Lalande, Voyage er Italie, Ginevra, 1790,vol. VII, pp. 125-126. Gli scenari principali erano di Giovan Antonio Paglia. Cfr. B. Brunelli, op. cit., p. 151. 3 42 ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 341. Una nota a margine della pianta atte-
sta che il disegno è autografo di Giovanni Gloria, ed è presentato al notaio il 29 marzo 1787. ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 7, c. 88: «In Christi Nom. Amen,
l’anno della Sua salvifera nascita 1787, ind. 5 giorno di giovedî 13 del mese di Xcembre in Padova in contrà del Pozzo dipinto in Casa dell’infr. Cons.te in una
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Il corpo di fabbrica presenta una distribuzione di locali alquanto complessa, e sono vani di cui ignoriamo la funzione 4; sviluppandosi, in ogni caso, su uno schema asimmetrico che si affaccia sul fronte strada con quel porticato semi-
circolare che sarà la sua precipua caratteristica, conservata anche dopo l’intervento ottocentesco di Giuseppe Jappelli. L’ampio vestibolo ad otto colonne funge da ingresso alla sala teatrale, con un adeguato ridotto al piano superiore. La facciata non presenta elementi di particolare rilievo: ha un ingresso ad arco, con coronamento bugnato, come le finestre
laterali, e il portico si regge su 11 pilastri e 4 colonne in corrispondenza dell’androne d’ingresso ‘*. Nello spaccato di Camara superior riguarda la Sudd. Stradda essendo presenti li detti [...] Bozzetto, qu. Antonio fa il Cogo in d. Contrà et D. Paulo Sindò qu. Gio. Batta fa il Manuale [...], testi [...]. Ove e nel qual luoco Cons. e avanti di me Nod. Canll. e i
testi suddetti a me notti, il Sig. S. Andrea Ciotto qu. Antonio da me Nod. e testi sud. benissimo conosciuto e dal med. fatto vedere il presente disegno della pianta del Nuovo teatro di Pad. presentato a me Nod. e Cancell. della Compagnia de Nob. Sig. interesati nel Nuovo Teatro sud. li 29 Marzo 1787 dal Nob. S. Co. Francesco Pappafava Conven.te [...], e dallo stesso diligentemente osservato nella forma e misura e tutte le particolarità del medesimo contenute. Dichiara esser stato fatto il presente disegno di proprio pugno e Mano del qu. Gio. Gloria, fu quello formò ed eresse il Teatro Med., e ciò per la perfetta cognizione che conserva tuttavia della mano dell’istesso, per aver molto tempo con essa dissegnato; pronto giurare ovunque occorresse esser tale la verità [...]. Andrea Dorighello Nod. Ca.ll di d. Nob. Compagnia». Lo stile grafico degli altri disegni, e il fatto che fossero conservati in un’unica cartella, autorizza a credere che siano della
stessa mano e facciano parte di un unico dossier di materiale illustrativo da riferirsi, forse, ad una controversia sorta nel corso di lavori di perfezionamento che il teatro subf nel 1786 (altri interventi erano avvenuti nella cavea e nel boccascena nel 1783). Si trattò di modifiche di rilievo nella pianta dell’emiciclo, con l’eliminazione di gran parte degli apparati decorativi dei palchi, la ricostruzione dell’arco scenico ed il restauro del tetto. Lo stesso Gloria faceva parte della commissione incaricata di vagliare i progetti proposti, tra i quali fu scelto quello del veneziano Bernardino Maccaruzzi. Cfr. ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 117. Riportiamo dalle fonti locali: «31 Agosto 1786 [...]. Levati i prospetti di tutti i palchetti, i quali sporgevano in fuori, saranno in buona foggia costruiti», cfr. G. Gennari, Notizie giornaliere di quanto avvenne specialmente in Padova dall'anno 1739 all’anno 1800, ms. 551-552, Biblioteca del Seminario di Padova (BSP), 43 Si tratta forse di locali di servizio ricavati da quella «Casa Vecchia», a quanto pare inglobata nella struttura edilizia, e alla quale si riferiscono alcuni lavori le cui polizze furono pagate dal settembre 1749 al febbraio 1750. ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 15.
44 Un disegno autografo di Giovanni Gloria consente di rilevare le proporzioni del portico. Si tratta di una pianta datata 1751, 27 maggio, presentata come supporto ad un atto notarile, perché, «... rilevandosi la ristrettezza della Pubblica
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fronte e di profilo del teatro si può notare altresî la pesante decorazione (a stucco?) dell’ordine superiore dei palchi ed il
raccordo «a conchiglia» del soffitto col boccascena. Non è chiaro se il Cugini intendesse ottenere con questa soluzione particolari effetti acustici, ma sappiamo che l’apparato venne demolito nel 1786, quanto anche il loggione fu trasformato in una sequenza di palchi. L’assoluta mancanza, all’esterno, di effetti decorativi non può che ribadire le ragioni di un edificio costruito in termini, vorremmo dire, «essenziali», estremamente funzionali, dove, salvo il mini-
mo indispensabile a salvaguardare i concetti di «decoro» dell’epoca, ogni spazio, ogni vano era calibrato in ragione dei costi, dell’uso, della rendita. Le tavole dell’ Archivio di Padova, in definitiva, confer-
mano e completano i dati forniti dai due disegni della Raccolta Iconografica Padovana, con l’autorità autografa del costruttore del teatro e la fedeltà a quello che fu il progetto di Antonio Cugini. Un raffronto con i disegni noti dei teatri di Brescia, Verona, Mantova, Reggio %, permette di os-
servare che la struttura scalare dei palchi, dall'alto al basso,
strada davanti il med.mo [teatro] incapace di dar cambio a due Carrozze, occor-
rendo terreno per ampliarla è stata fatta ricerca al Signor Dottor Antonio et Signori Fratelli Zanolini quella porzione di terreno che nel disegno fatto dal ditto Zuane Gloria è dimostrata, et è segnata A nella figura in quello espressa et circonscritta con la linea rossa [...]; al che sono concorsi detti Zanolini venerando anco gli eccitamenti datigli da sua Eccellenza Capitanio Francesco Tiepolo V.e Podestà, coll’oggetto restino impediti li sconcerti, impegni et disordini che potevano nella ristrettezza di sud.tta stradda emergere...». ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 4, c. 154. Il che significa che la fabbrica del nuovo Teatro godeva di tali attenzioni e protezione da parte delle massime autorità cittadine da poter disporre, se necessarie, anche modifiche dell’assetto viario. L'operazione tuttavia non avrà seguito, e solo nel 1798, come risulta dal rilievo del perito Francesco Salvagnini (cfr. R. Maschio, in Padova. Case e palazzi, cit., fig. 409) si acquistarono per demolirli una casa e parte dell’orto di proprietà Brunelli Bonetti e un muro di Casa Barbaro, onde allargare la strada. ASP, Archivio Teatro Verdi, b. 5, c. 59.
4 Per il teatro di Cittadella si vedano nella Raccolta Stampe e Disegni dei Civici Musei di Reggio Emilia la pianta (C 62), l’esteriore (C 60) e lo spaccato (C 61). Per il Teatro di Brescia le varie tavole conservate nell’ Archivio di Stato di Verona, nel Fondo Bevilacqua. Per Verona i disegni di New York o le note incisioni dello Zucchi conservate nella Biblioteca dell’ Accademia Filarmonica ed i disegni ad acquerello eseguiti da G.P.M. Dumont nel 1740 (Biblioteca dell’Opéra di Parigi). Per Mantova la pianta di G. Bianchi, presso l’Archivio di Stato di Mantova, Fondo Gonzaga, b. 3170.
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verso il boccascena, presente nel Teatro di Cittadella e nel Filarmonico, è meno evidente nella fabbrica padovana e sopravvive, invece, sebbene meno accentuata, la sporgenza dei palchi. I lavori dell’86 provvederanno ad eliminarla, e poiché tale riassetto comprese anche una completa sistemazione del tetto, vien da pensare che l’intera struttura del teatro, a causa di un’ inaugurazione affrettata, abbia sofferto di notevoli lacune. Rispetto a Padova il modello che Francesco Bibiena aveva sigillato nel 1729 a Verona sembra dilatare la pianta ad U dell’emiciclo con più vaste proporzioni, benché con un numero inferiore di palchi, mentre il
solo teatro di Brescia sembra essere paragonabile, nello
schema distributivo, al Teatro Nuovo. Anche la sistemazione dell’atrio e degli spazi destinati alle attrezzature sceniche non pare discostarsi alquanto dall’impalcatura teatrale realizzata da Antonio Cugini a Reggio Emilia, che, a ben vedere, costituisce il vero modello del teatro padovano. Alcune osservazioni infine sono da riservare ai due esecutori materiali del progetto del Nuovo: Giovanni Gloria e il «tagliapiera» Sante Benato. Di proposito ne parliamo solo in calce al nostro discorso, perché è proprio la loro presenza accanto a quel conte Giovanni Andrea Frigimelica Roberti che, tra i «Sopraintendenti alla Fabbrica», appare il vero motore dell’iniziativa, a saldare l’anello di conclusione della vicenda del Teatro Nuovo. Il loro nome non può che richia-
mare quello ben più famoso del conte Girolamo Frigimelica, architetto dilettante, accademico Ricovrato, amico del Poleni, autore dei progetti per la Biblioteca Universitaria di Padova, per la chiesa di S. Maria del Pianto, detta del Torresino, per il Santo Stefano di Rovigo e il S. Gaetano di Vicenza, per la sistemazione del parco, delle scuderie e del belvedere della Villa Pisani a Stra. In una parola, figura dominante, col vescovo Giorgio Cornaro e col Poleni, della vita culturale padovana tra Sei e Settecento. È col Frigimelica che trova fondazione, sotto l’egida del Cornaro,
quell’ Accademia dove si studiava disegno, architettura, nella tradizione classica del Palladio (ma anche in quella baroc! ca di un Maderno e un Borromini), e dove si radunavano artisti ed operatori, come gli scultori Bonazza, il Muttoni,
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Antonio Fumiani. Discepoli e coscienziosi collaboratori del Frigimelica furono, per l'appunto, il Gloria e il Benato, coinvolti spesso nei progetti dell’architetto dilettante, come il cantiere del Duomo e quello della chiesa di S. Antonio, dopo l’incendio del 1749, villa Pisani o la chiesa del Torresino ‘. Lo studio professionale del Frigimelica, nel suo palazzo di via dei Tadi, era la fucina dove si formarono i vari
scolari — tra questi il Gloria e il Benato — che non risultarono dei semplici esecutori ma, specie dopo la morte del maestro, artisti autonomi di sperimentato valore. Lo prova-
no lavori come il progetto del Gloria per la cupola maggiore del Santo, favorevolmente giudicato da Giovanni Poleni, il suo baldacchino per l’altar maggiore, o la chiesa di S. Lucia in Padova, realizzata da Sante Benato.
Ma tanto basti, e giova invece far mente locale alla formazione giovanile del Frigimelica, nel collegio dei nobili di Parma, e alla sua frequentazione della corte di Modena. È qui che sarà accolto per il suo talento di versificatore come «poeta cesareo» da Ercole III, e dove muore nel 1732. Una tradizione di rapporti ben consolidata, quindi, con l’ambiente emiliano. E da ricordare, inoltre, la sua passione innata per il teatro, tanto che egli stesso scrisse e fece rappresentare non poche tragedie e commedie, per esempio nel teatro Obizzi o nel S. Giovanni Crisostomo di Venezia ‘. Ebbene, Girolamo Frigimelica sposò Maddalena Falier, e tra i vari figli che ebbero troviamo proprio quel Giovanni 46 Non è il caso di riportare qui i molti studi sul Frigimelica e la sua scuola, con i vari saggi di C. Semenzato, del Bresciani Alvarez, del Brusatin eccetera, ma si segnalano invece due recenti tesi di laurea, di particolare interesse, discusse presso l’Università di Padova, rispettivamente di B.M. Tognolo, Girolamo Frigimelica, architetto dilettante padovano tra ’600 e ’700, anno acc. 1978-79, e di R. Michelotto, Un artefice del Settecento a Padova. Giovanni Gloria (1693-1763), anno acc. 1981-82: entrambe ricche di notevoli documenti archivistici e con bibliografia aggiornata. Vedi inoltre B.M. Tognolo, Documenti inediti per la biografia di Girolamo Frigimelica, in «Padova e la sua provincia», 4 (1980), pp. 3-9 e Id., Nuovi contributi sulla formazione e sulle esperienze romane di Girolamo Frigimelica,
in «Bollettino del Museo civico di Padova», LXVIII (1979), pp. 69-93. 47. Per citarne solo alcune: l’Ottone, Venezia, 1694; Il Ciclope, tragedia satirica in musica, al teatro Obizzi, Padova, 1695; Irene, Venezia, 1695; Il Pastpre Anfiso, Venezia, 1695; Ercole in cielo, Venezia, 1696; La fortuna per dote, Venezia, 1704; Il Dafni, Venezia, 1705; Alessandro in Susa, Venezia, 1708, eccetera.
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R. Maschio
Andrea Frigimelica Roberti che sarà il principale fautore della fabbrica del Teatro Nuovo *. E possibile allora, e per concludere, giustificare la convocazione a Padova degli allievi dei Bibiena, Antonio Cugini e Giovanni Antonio Paglia, ed è evidente che Giovanni Andrea Frigimelica non poteva affidare i lavori che ai vecchi collaboratori del padre, nei quali riponeva la massima fiducia, Giovanni Gloria e Sante Benato. Un’ipotesi, infine, non peregrina, è anche
quella che non sia stata soltanto la prospettiva di una proficua operazione impresariale a stimolare la passione per il teatro di Giovanni Andrea; ché questa sembra quasi trasmessa dal padre, e che forse proprio alla memoria di Girolamo Frigimelica egli intendesse dedicare, come monumento celebrativo, il più bel teatro di Padova.
48 A. Berti, Famiglie di Padova, 1850, BCP, ms. B.P. 2129; Albero genealogico della famiglia Frigimelica, ibidem, ms. B.P. 1619.
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MARINELLA
PIGOZZI
I Bibiena a Reggio: dalla scenotecnica alla scenografia. Prassi, teoria, traduzione ”
Reggio Emilia 1696, carnevale: «Reso da Reggiani nell’anno antecedente più elegante e regolare il teatro, come dissi a suo luogo, vi si poté recitarvi sulle scene diverse Commedie da dilettanti, essendosi qui fatto un allegrissimo Carnevale anche per la circostanza che allora era venuta a questi stati la novella Sposa del nostro Duca Rinaldo I, Carlotta Felicita» !; la principessa di Brunswick Liineburg era nipote di Ernesto Augusto di Hannover, elettore del Sacro romano Impero, nella cui orbita politica gli Este volevano entrare. «Presentandosi poi tempo di Fiera, in cui era per portarsi in città nostra la Duchessa, si preparò una bellissima Opera dalla Comunità, et condusse a tal effetto non solo i primi musici d’Italia, ma ancora i più bravi Pittori, et furono i fratelli Ferdinando, e Francesco Galli detti Bibieni da Bologna, et ridussero il teatro alla forma, ch’ora si trova al-
longando il Prospetto con un Gabbione di legno, che portava fuori 8 braccia. Riuscî l’opera bellissima, e gradita a’ Ser.mi che qui si portarono, prolongandosi la fiera 15 gior-
1 P. Fantuzzi, Cronaca Teatrale, ms. sec. XIX, BMRE
(= Biblioteca Munici-
pale di Reggio Emilia), Racc. dram. Curti n. 5, c. 59; cfr. inoltre [D.G. Pellicellil, Continuazione delle Cronache di Reggio Lepido dall'anno 1510 fino all'anno 1700 composte da Domenico Giuseppe Pellicelli sacerdote cittadino reggiano in aggiunta alla Storia di Fulvio Azzari, ms. sec. XVIII, BMRE, Mss. Regg. C 53, c.
423. In Modena la comunità aveva festeggiato le nozze del duca con una macchina per fuochi artificiali ideata da Benedetto Bacchini; firma l’incisione a corredo della Spiegatione e Descritione (Modena, Soliani, 1696), Cesare Alexandre Louvan Palliot; cfr. G. Campori, Gl’intagliatori di stampe e gli Estensi, in «Atti e Memorie delle Deputazioni di Storia patria dell'Emilia», VII (1882), pp. 18-19. Inoltre presso il Collegio dei Nobili, oltre all’‘accademico tributo’ teatrale di Pallade Pronuba (Modena, Soliani, 1696), si era svolto un banchetto (Descrizione degli ornamenti della tavola nuziale dei Serenissimi sposi Rinaldo I ... e Carlotta Felicita de Serenissimi Duchi di Brunswich, Modena, Soliani, 1696).
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M. Pigozzi
ni frequentata da gran numero di Forestieri, Cavaglieri, e Principi, che incogniti qui si portarono» ?. i Con connotazioni sociali, economiche, culturali, oltre
che storiche, Domenico Giuseppe Pellicelli sottolinea l’importanza attribuita all’occasione di spettacolo e l’interesse con cui essa venne agita dalla Comunità e vissuta ben oltre i limiti cittadini. Ma già il 24 marzo 1696 Antonio Dionisio Novi aveva comunicato ai deputati degli Anziani al teatro la volontà del Duca di far operare come scenografi i fratelli Bibiena, per l’occasione richiesti alla corte di Parma. Il carattere anche dinastico dell’occasione viene riconosciuto da‘gli stessi Anziani, allorché firmano la dedica del dramma prescelto, A/mzansorre in Alimena, a Rinaldo I, «in attestato del comun nostro ‘giubilo ne’ di lei Serenissimi Sponsali»; Carlo Francesco Pollaroli musicò il libretto del veneziano Giovanni Matteo Giannini; di Gaspare Pellicciari (Pellizzari) gli abiti‘. Nel libretto, edito in Reggio dal Vedrotti, le mutazioni di scena sono cosf precisate: Prologo
Imeneo, Fecondità, Po Fiume.
Nuvolosa, sopra di cui sarà Imeneo, che aurà a piedi la Sterilità: Allo scoppio d’un fulmine precipiterà questa, e quegli pian piano scenderà a terra con la Nuvolosa. [Imeneo] Lancia la Face per aria: sparisce la Nuvolosa, e
2 [D.G. Pellicelli], op. cît., c. 423.
3 ASRE (= Archivio di Stato di Reggio Emilia), Archivio del Comune, Teatro e feste pubbliche (= T.F.P.), b. 2209, alla data. Vittorio Nironi ricorda il disap-
punto di Giovan Battista Vigarani, deputato al teatro, alla ingiunta nomina dei Bibiena; cfr. V. Nironi, «Almarsorre in Alimena», una tappa importante nella storia
del teatro reggiano, in «Il Pescatore Reggiano», 1968, p. 9. Per l’elenco delle spese e i mandati di pagamento agli artisti ed artigiani impegnati nello spettacolo e per l’Inventario delli telloni ed altre robbe serventi a’ uso di teatro che al presente si trovano nel med. teatro, doppo la Recita del Dramma, cfr. ASRE, Archivio del Comune, T.F.P., b. 2209. Vedasi anche il Conto Generale trascritto da Leone Parisetti
presso l’ASMo (= Archivio di Stato di Modena), Archivio per materie, Spettacoli
Pubblici, b. 8. 4 Per le altre sedi di rappresentazione del dramma, cfr. M. Pigozzi, Appunti e note su Ferdinando e sulla prima attività di Francesco Galli Bibiena a Reggio Emilia,
in «Musei Ferraresi», 9/10 (1979/80), p. 125, nota 4. Per il Giannini e il Pellicciari, cfr. F.S. Quadrio, Della Storia e della Ragione d'ogni poesia, Milano, 1743-1744, vol. III, parte seconda, pp. 477, 550. I teatri veneziani sono, ancora
sul finire del Seicento, il più frequentato punto di riferimento per la scelta degli spettacoli reggiani.
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I Bibiena a Reggio
Atto I,
si vede la Reggia della Fecondità, in cui è la stessa Deità che dorme. 1, Spiaggia di mare da una parte, col Porto e navi in lontano; Dall’altra parte, Boschetto ameno. 7, Appartamenti Reali in Corte. 14, Piazza preparata per la solennità delle nozze, con machi-
na, ed un trono laterale, Il primo atto si conclude con il re che sale sul trono, mentre Alindare e Seriffa «Ascendono su la macchina»; si ha quindi il «Precipizio» di questa. Atto II,
1, Alindare grida di sotto le ruine, Elbendauro torna indietro avendo finto partire. = 2, Giardino delizioso con Vasi di Fiori, e Statue.
9, Strada Spaziosa della città addobbata con Popolo. Alindare da Moro sopra un Elefante, Seriffa, Re, Accompagnamenti di Mori, Spagnoli, e di Guardie. 11, Gabinetto corrispondente a gli Appartamenti di Alvin-
do in Corte, Sedie, Tavolino con apparato da scrivere: cestello di fiori. Atto III,
1, Cortile interno della Corte unito alle Prigioni Reali. 3, Prigione con Tavolino, e da Scrivere. 8, Deliziosa di Lauri con Fonti, detta Poggio reale in Corte
IVA Salon Reale?.
Già si sono riferite all’atto II, scena 11 dello spettacolo la Stanza con Gabinetti e all'atto III, scena 8 il Giardino con
spalliere di lauri e fontane (figg. 31, 32)°. Entrambe le incisioni, con altre, sono state collegate da Mercedes Viale Ferrero all’Esione e all’Endimione, drammi per musica che si rappresenteranno in Torino, nel teatro Regio nel 1699. Ma l’Endimione, si ricorda, era già stata allestita a Lodi nel > Per il libretto: BMRE, Racc. dram. Curti 143/17. Furono interpreti del dramma: Almansorre / Giovan Francesco Grossi; Alindare / Francesco de Grandis; Seriffa / Barbara Riccioni; Elbendauro / Giovan Battista Franceschini; Teo-
rilla /Maria Domenica Pini; Alvindo / Domenico Cecchi; Gelbo / Giuseppe Marsigli; Ergillo / Anna Abbati. Nel prologo: Imeneo / Giovan Battista Sacchi; Fecondità / Anna Ferretti; Po / Bartolomeo Lodesani. «Le scene, machine, ed altre Operazioni tutte del Drama, sono ingegnose applicazioni del sig. Ferdinando, e Francesco Galli, detti Bibieni, Virtuosi del Serenissimo di Parma», precisa il libretto (p. 10).
6 M. Pigozzi, Appunti e note su Ferdinando e sulla prima attività di Francesco Galli Bibiena a Reggio Emilia, cit., p. 122, tavv. 2, 4; In forma di festa, catalogo
mostra a cura di M. Pigozzi, Reggio Emilia, 1985, schede 10-11, pp. 39-40.
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M. Pigozzi
1692, sempre con scene di Ferdinando Bibiena. Pietro Giovanni Abati, aiutante di Ferdinando in Reggio, sarà in Torino il reale esecutore delle scene, essendo il Bibiena, idea-
tore delle stesse, impegnato in Napoli quale scenografo de Gl’Inganni Felici, e del Cesare în Alessandria”. Le tavole ricordate sono sempre state inserite dagli studiosi di problemi bibieneschi nella raccolta di incisioni Varie opere di Prospettiva, la cui prima edizione, che riunisce interventi anche precedenti, Ferdinando Bibiena darà alle stampe già nel 1701; infatti il frontespizio della raccolta, disegnato da Giuseppe Antonio Caccioli (1672-1740), precisa: Varie opere di Prospettiva inventate / da Ferdinando Galli d.o il Bibiena Bolognese Pittore, / et Architetto dell’A.SS.ma del Sig.re Duca di Parma raccolte da / Pietro Abbati, et intagliate da Carlo Antonio Buffagnotti / Le diede in luce e stampo’ Giacomo Camillo Mercati |in Bologna l’anno 1701 (fig.
33): Per il raro frontespizio sinora di solito si faceva riferimento all’esemplare del Metropolitan Museum, pubblicato da Hyatt Mayor o a quello del Museo Teatrale alla Scala, entrambi con data abrasa 8; e diverse erano state le supposizioni sia in relazione all’anno di edizione, sia in relazione al
numero delle stampe della raccolta?. Mal interpretata, 1707 e non 1701, era inoltre la data nell’unico integro esemplare del frontespizio della prima edizione che al momento attuale degli studi si conosca, quello reso noto da Marcus Sopher !°. Poiché si ritiene definita la collocazione cronologica della prima, ma per più casi riassuntiva, edizione, 1701 ap-
? M. Viale Ferrero, La scenografia dalle origini al 1936. Storia del Teatro Regio di Torino, Torino, 1980, pp. 74 e ss. 8 A. Hyatt Mayor, The Bibiena family, New York, 1945, p. 34, tav. 1; I Bibiena. Disegni e incisioni nelle collezioni del Museo Teatrale alla Scala, a cura di M. Monteverdi, Milano, 1975, p. 23, tav. 6.
? Cfr. La scenografia, a cura di D. Lenzi in L'arte del Settecento Emiliano. Architettura, Scenografia, Pittura di paesaggio, catalogo mostra 1979, Bologna, 1980, pp. 163-166, nn. 229-237, con la bibliografia ivi ricordata. 10 M.S. Sopher, Seventeenth-Century Italian Prints, Stanford California, 1978, p. 52, tav. 81.
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LA la
I Bibiena a Reggio
punto, per quanto riguarda il numero delle incisioni di essa è utile ricordare che nel 1704 il bolognese Pellegrino Antonio Orlandi nel suo Abcedario Pittorico scrive di «Architetture diverse di Ferdinando Galli, detto il Bibiena, intagliate da Carlo Buffagnotti in Bologna, divise in 60 fol. In oggi s'attendono le regole da stamparsi da lui». Ma nella successiva edizione del 1719, ricordata come già edita L’Architettura Civile (Parma 1711), l’Orlandi scrive di «Architetture e
Prospettive da Camera, e da Teatro intagliate in fol. 71, presso il Lunghi stampatore in Bologna» !!. In seguito, ma sempre nel Settecento, Marcello Oretti annota che Ferdi-
nando «Diede parimenti alla luce altro libro di Architetture, prospettive e scene per teatri, le quali in tutto sono fogli 71» !2. Da ciò si può quindi desumere che Varie opere di Prospettiva ebbero presso il Lunghi (Longhi) una seconda edizione, ricca di 71 fogli, edizione e numero che possiamo considerare definitivi, sulla scorta di quanto scrive Oretti. Benché né questi né Orlandi precisino la data, se essa è da considerarsi con certezza anteriore al 10 agosto 1718, allorché il carmelitano Orlandi firma la dedica a «Monsieur Pierre Crozat» della seconda edizione de l’Abcedario, che uscirà nel 1719, è verosimile ritenerla posteriore al 1717,
allorché nei primi mesi dell’anno Ferdinando ritorna in Bologna dopo essersi congedato, per motivi di salute, dalla corte viennese di Carlo VI e dal novembre dello stesso an-
11 P.A. Orlandi, Abcedario Pittorico, Bologna, 1704’, p. 400; 1719”, p. 464. Inoltre, già nel 1704, Orlandi scriveva di Ferdinando: «Bramoso d’imparare la
quadratura, non assaggiò appena i principi di quella sotto Mauro Aldobrandini, e sotto Giulio Trogli, che giorno, e notte da se studiando, ben presto superò ogni difficoltà col’essere ricercato da Vari Principi d’Italia in ispezie dal Serenissimo di Parma, al servigio del quale vive salariato Pittore. Nella feracità, nella vaghezza, e nella celerità delle prospettive, e dell’opere sceniche non ha pari» (p. 149). 12 M. Oretti, Notizie de’ professori del disegno, ms. B 132, Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, tomo X, c. 8. È sempre l’Oretti a ricordarci, di Francesco Bibiena, «L'Architettura maestra dell’Arti, che la compongono, e contiene la Geometria, l’Architettura, con tutti i suoi ordini, con piante di Pallazzi
di ciascuni ordine, l’architettura de’ Teatri, e di quelli fatti da lui; la prospettiva de’ medesimi, e la meccanica, e vi si tratta ancora del sotto in su, con insegna-
menti per l’agrimensura, libro circa di cento carte, è disegnato con maestria, e diligenza tale, che non si può desiderar cosa migliore, e più bella» (ibiderz, cc. 22-23).
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M. Pigozzi
no diventa membro dell’Accademia Clementina !. Poiché 71 sono le incisioni attualmente conservate presso il Museo Teatrale alla Scala di Milano, la raccolta scaligera si configura non solo come la più ricca e varia nel formato e nei temi, ma anche come la più rispondente alla seconda edizione bolognese. Vari sono i soggetti e i formati; a quelli per scene (28) e a quelli per gli apparati funebri farnesiani del 1695, occorre aggiungere i sott’in su (15), i particolari architettonici (17), i fregi (2), le decorazioni di facciata e di cortile (7).
Fermando la nostra attenzione sui fogli di scena, tutti paradigmatici del nuovo pensiero scenografico di Ferdinando, si ritiene che possano riferirsi sia a spettacoli diversificati nel tempo e ‘nei luoghi, sia a spettacoli simili iterati in. luoghi diversi, offrendosi essi come tavole di repertorio riunite con intenti esemplificativi di una dotazione teatrale. Sempre allo spettacolo reggiano, Almansorre in Alimena, atto II, scena 2, si ritiene inoltre riconducibile il disegno di Ferdinando con Pianta per una scena di bosco, ora a Monacott, Una sola macchina celeste è ricordata nel libretto, e nel
prologo, tale da non interferire nell’azione drammatica degli attori. Anche in Reggio quindi i Bibiena proseguono nella loro opera razionalizzatrice della struttura e della dinamica scenica dell’opera in musica, iniziata da Ferdinando col
13 Nell’occasione della II edizione si ristamparono probabilmente anche i Disegni delle scene che si / rappresentano l’anno corrente nel Regio Teatro di / Torino invenzioni di Ferdinando Bibiena, Architetto e Pittore / del ser.mo Sig.r Duca di Parma poste in opra, dipinte / dedicate da me Pietro Giovanni Abbati all’ Altezza | Reale di Carlo Emanuele di Savoia / Principe di Piemonte Re di Cipro. / Carlo Antonio Buffagnotti intagliò. Come Mercedes Viale Ferrero ha dimostrato, le incisioni, le undici determinanti il numero di 71 (?), sono da riferirsi agli spettacoli torinesi
del 1699 (Esione ed Endimione), anche se non solo ad essi, come si è suggerito, ma la dedica conferma che di esse si ebbe una tiratura dopo il 1715, allorché diventa principe di Piemonte Carlo Emanuele di Savoia, «il cui nome compare nel frontespizio ma meno inchiostrato del resto dell’incisione e con una grafia più incerta, come avviene quando per correggere un rame lo si erade e si interviene sopra con nuova morsura» (F. Mancini, M. T. Muraro, E. Povoledo, Illusione e pra-
tica teatrale, catalogo mostra, Venezia, 1975, n. 43, p. 92). 14 Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, vol, 432 II, f. 89 0; cfr. In forma di festa, cit., scheda 12, p. 40, con la bibliografia ivi citata. :
22
a
Ùeo PO
I Bibiena a Reggio
Didio Giuliano in Piacenza (1687; figg. 34, 35, 36), nel rinnovato teatro di corte di Ranuccio II, in linea con la riforma poetica che si apprestavano a condurre Apostolo Zeno (1668-1750) e il reggiano Pietro Pariati (1665-1733) !.. Le cronache del tempo, inesistenti i documenti in Archivio, non aiutano ad avvallare la proposta presenza reggiana di Ferdinando già nel 1688, quale interprete, anche in Reggio, delle scene di Hierone tiranno di Siracusa, il dramma per musica di Bernardo Sabadini su libretto di Aurelio Aureli, rappresentato con certezza nell’aprile 1688 in Piacenza presso la corte farnesiana !. La rappresentazione dello spettacolo anche in Reggio è stata suggerita da chi scrive per la presenza del libretto nella Raccolta drammatica di Enrico Curti presso la Biblioteca Municipale di Reggio Emilia, ove si trovano riuniti solo testi di spettacoli rappresentati in Reggio, se pure talora editi per altre sedi e occasioni (e sarebbe il caso del libretto in esame stampato a Parma nel 1688); di taluni spettacoli può mancare nella Racco/ta il riferimento testuale, ma non si registrano altri casi di 15 Per il libretto dello spettacolo e le incisioni: Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, n. 4899, BB. C I 4899. Già l’anno precedente, 1686, aveva visto il fratello di Ferdinando, Francesco Galli Bibiena, operoso in Modena per le
scene dello spettacolo inaugurante il nuovo teatro di corte, assieme a Marcantonio Chiarini, Antonio di Antonio Ricino, Tommaso Aldobrandini, Pietro Senau ed altri; cfr. ASMo, Archivio per materie, Spettacoli Pubblici, b. 8/a: Robbe proviste per il teatrino, cc. 67,73. Inoltre nello stesso 1687, sempre nel nuovo teatro Ducale di Piacenza, Ferdinando cura le scene di Zezone / Il Tiranno di Lotto Lotti, per musica di Bernardo Sabadini. Le 14 mutazioni di scena non sono accompagnate da alcuna macchina. Ancora nell’87, ma in Parma, si rappresenta con scene dello stesso l'Olimpia placata. L'assenza, o comunque il ridimensionamento, dell’uso delle meraviglie meccaniche caratterizza tutti gli spettacoli rappresen-
tati tra Parma e Piacenza prima e dopo il 1690, allorché l'occasione degli sponsali di Odoardo Farnese con Dorotea Sofia di Neuburg viene celebrata con spettacoli per più aspetti ormai eccezionali (cfr. C. Molinari, La nozze degli dei, Roma, 1968, pp. 202-211). Di questo nuovo stile Ferdinando si fa interprete anche al di fuori della corte farnesiana, per esempio in Modena (1691, teatro Fontanelli, L’Inganno scoperto per vendetta, libretto di Francesco Silvani per musica di Perti); in Lodi (1692, Endimione). A Torino, nel 1694, le 7 macchine richieste dal libretto de I/ riso nato fra il Pianto sono situate nel prologo, negli intermezzi, e alla fine dello spettacolo, cosî come solo alla fine de La Finta pazzia di Ulisse (1696, Venezia) cala sul palcoscenico la macchina di Pallade che porge ad Ulisse la spada gemmata. 16 Nello stesso anno Ferdinando curò in Parma le scene per Teseo in Atene, e
in Piacenza quelle di Ercole Trionfante con musica di Sabadini e testo di Aureli.
25605)
M. Pigozzi
presenze letterarie non legate alla messa in scena reggiana. In proposito contradditorio è anche Prospero Fantuzzi nella sua Cronaca Teatrale; egli infatti ricorda per il 1688 L’A/cibiade; più esattamente, lo registra per la fiera del 1694, precisando: «Pongo in questa Fiera sebben dubbioso dell’anno, ma con certezza della recita L’A/cibiade, Opera in musica»; quindi aggiunge: «L’A/cibiade mettilo all'anno 1688» !8. Sicuramente in tale anno vi fu spettacolo, essendosi richiesta al duca di Mantova la cantante Maria Maddalena Musi, «a recitar» in Reggio in occasione dello spettacolo di fiera!9. Ritornando alla innovativa prassi scenografica di Ferdinando e alla di lui orgogliosa consapevolezza, nell’edizione parmense de L'Architettura Civile (1711) egli precisa: «La prospettiva de’ Teatri, e Scene, è tutta la mia invenzione, avendola ritrovata per la gran quantità ne ho fatto per tutte le principali Città d’Italia, avendo prima praticata la forma di tutti gli altri, e nel fine di detta Prospettiva, pongo anche quelle, acciò se ne possa servire chi vuole. Ma per le scene colli punti accidentali, e vedute per angolo, fin’ora non praticate da alcuno, sono positivamente tutte mie, co-
me pure quelle vedute nel mezzo, avendo introdotto il modo di servirsi degli angoli, che facilita molto, e riesce più comodo dell’altre regole» ?°. Relazionata con la pendenza la 17 BMRE, Racc. dram. Curti n. 5, c. 59. 18 Dello spettacolo, al momento attuale degli studi, si conoscono il libretto di
Aureli stampato in Modena nel 1685, con la dedica a Francesco II firmata da Carlo Bertini, e quello stampato in Venezia nel 1680, in occasione della rappresentazione nel teatro Grimani in onore di Ferdinando Carlo, duca di Mantova. L'edizione modenese si diversifica da quella veneziana solo nel prologo di Flora e di Zefiro che cantano le lodi del duca d’Este; la musica del prologo manca nello SO di Marcantonio Ziani conservato presso la BEMo (= Biblioteca Estense i Modena), Mus. F. 1300. 19 Cfr. G. Cosentino, La Mignatta: Maria Maddalena Musi, cantatrice bolognese famosa, 1669-1761, Bologna, 1930, pp. 25, 112; ricordano il fatto anche L. Bianconi-Th. Walker, Production, Consumption and Political Function of Seventeenth-Century Opera, in «Early Music History», IV (1984), p. 230, nota 59. Per gli altri interventi di Ferdinando in Reggio, cfr. In forma di festa, cit., scheda
11, p. 40. 20 L'Architettura Civile... In Parma, per Paolo Monti, MDCCXI,
in folio, Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, 17.1.19. Ferdinando firma la dedica a Carlo VI, ancora Carlo III nel frontespizio, il 2 maggio 1711 e aggiunge: «Questo libro fu fatto da me, anni sono, ma perché non ho mai avuto tempo per
214
I Bibiena a Reggio
larghezza del palcoscenico, ricordato che lo scenografo deve «prima intendere, e la prospettiva, e l’architettura», reso omaggio al «virtuoso» Paradossi, in particolare alla «Scena fatta da lui nel Teatro grande del Serenissimo di Parma», e a quella in Bologna, nel teatro Casali, Ferdinando già con le «scene vedute per angolo» fa entrare nella rappresentazione lo spazio reale (figg. 37, 38). Ancora egli scrive: «Restavi l’altra maniera di Scene non mai insegnata, né praticata prima d’ora, quale ho ritrovata, praticata ed insegnata io con sommo compatimento in tutti li teatri, e città principali d’Italia, e anche fuori d’Italia [...] ma questa si cava dalla pianta reale, ridotta in prospettiva». Con l’«Operazione 69», ovvero «Altra forma per disegnare le Scene di nuova invenzione, che appariscono grandi a misura di ciò si desidera», aggiunta nell’edizione bolognese delle Direzioni / Della Prospettiva Teorica / Corrispondenti a quelle dell’Architettura / Istruzione / A’ Giovani Studenti di Pittura,
e
Architettura
/ Nell’Accademia
Clementina
|
Dell’Istituto delle Scienze / ... /In Bologna / Nella Stamperia di Lelio Dalla Volpe, 1732, egli acquisisce allo spazio rappresentato tutto lo spazio reale, adattando «la prospettiva, all'invenzione, e non quella alla prospettiva» (fig. 39)?!. Trasferendo inoltre sulle scene l’esperienza reale della «soda architettura» delle vie bolognesi e il sistema paratattico già individuato dall’architetto Agostino Barelli nelle strutture del San Bartolomeo per i teatini bolognesi, egli si svincola dal carattere illusionistico e metafotico dello spazio scenico barocco, ponendosi inoltre in posizione critica nei confronti di quegli scenografi «che si servono di due punti della veduta uno sopra l’altro»; «e pure questa forma è praticata in una delle principali città d’Italia» ??. terminarlo ho risoluto pubblicarlo, con isperanza di supplire in breve, se a Dio piacerà, a quello manca ... L’intaglio de’ Rami non è riuscito, secondo m’ero pro-
posto, poiché costretto a valermi di più incisori, e d’alcuni in specie poco versati nell’ Architetture, e Prospettiva, sono diversi errori e particolarmente nell’imitare li Disegni, e grazie delle membrature delle cornici, che appena ravviso per miei, non avendo potuto assistere alle operazioni, a causa della frequenza de’ viaggi». 21 In forma di festa, cit., scheda 17, p. 42, con la bibliografia ivi citata. 22 «Operazione 70», nell’edizione 1711, «Operazione 71» nelle Direzioni / Della Prospettiva Teorica..., tav. 51, fig. 4.
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M. Pigozzi
Configurando le sue pagine, già nell’edizione parmense del 1711, come un manuale completo, benché agile, e ade-
guato a tutte le esigenze, anche tecniche, del pittore di scene, egli non tralascia di scrivere Delle Direzioni dell’ombre, e de’ lumi, e Della Meccanica, o Arte di muovere, e trasportar Pesi. E conclude: «Penso, per quanto sia grande l’imperfezione del povero mio talento, avere abbastanza servito al vostro utile, coll’unirvi materie a se connesse, ma dagli Autori separatamente trattate a segno, che il cercarle in essi porta seco molto di spesa, e fatica». Il libretto dell’ Alzmzarsorre ricorda anche Francesco Galli Bibiena in Reggio nel 1696, reduce dalle prime esperienze romane, ma il suo nome non compare nei mandati di pagamento. In Reggio ritornerà già nel 1698 per le «scene nuove
di sua invenzione» richieste dal libretto di Ulisse sconosciuto in Itaca, dramma per musica di Carlo Francesco Pollaroli; è
quindi ricordato quale «Ingegnere delle scene» di Tito Manlio, musica di Antonio Giannettini, rappresentato in Reggio in occasione della fiera del 17012. Ancora, è citato nel li-
bretto del dramma giocoso I Rivali Generosi (1710), poesia di Apostolo Zeno per musica di Clemente Monari, assieme all’allievo Pellegrino Spaggiari, il probabile realizzatore delle scene, essendo in questo periodo, e sino all’aprile 1713, il Bibiena documentato a Vienna *; lo Spaggiari risulta essere il primo reggiano allievo dei Bibiena ad operare nel teatro della Comunità”. A Francesco Bibiena si affidano ancora le scene de I/ Tartaro nella Cina (1715); de Il Ciro (1716), il
solo spettacolo di Pariati, vivente l’autore, rappresentato in
23 Per i libretti BMRE, Racc. dram. Curti 143/20; 144/3. ta 3 F. Hadamowsky, Die Familie Galli-Bibiena in Wien, Wien, 1962, pp. 11,
di Francesco Saverio Quadrio (op. cit., 1744, p. 546) scrive Pellegrino Spaggiari «Allievo de’ Fratelli Bibbieni, più volte fu eletto in sua patria a dipinger le Scene per que’ Drammi, che si venivano ivi rappresentando. Inventò anche, e dipinse le scene in Milano nel 1728 per la Didone Abbandonata». Per la sua produzione scenografica e quadraturistica, cfr. Ix forma di festa, cit., schede 24-26, pp. 46-47; per l’elenco degli spettacoli di cui in Reggio fu scenografo, cfr. A. Loy, L’8 troppo, Reggio Emilia, 1985.
216
I Bibiena a Reggio
Reggio; de La Conquista / del /Vello d’oro (1717), per musica di Antonio Bononcini; di Didone Abbandonata (1725) > musica di Nicola Porpora.
Eccezionale risulta nel contesto reggiano, ma anche bibienesco, lo spettacolo di fiera del 1717, alla presenza dei duchi d’Este, per la ricchezza delle apparizioni e degli interventi divini, l’impiego di masse corali, la complessità della macchina finale con la mutabile Reggia del Sole, simbolo apologetico delle virti dinastiche e dai caratteri tipologici ancora tardo seicenteschi, elementi probabilmente imputa-
bili alla volontà del reggiano Flaminio Parisetti, autore del testo per l’occasione *° (fig. 40). Infatti la produzione sceno-
grafica di Ferdinando e di Francesco Bibiena, ricca di consapevolezze architettoniche, quadraturistiche, pittoriche, oltre che delle forme scenografiche precedenti e contemporanee,
testimonia come
essi non solo elaborino in modo
nuovo l’organizzazione spaziale tridimensionale, la struttura dinamica e prospettica delle scene, e il soggettivo rapporto visivo con queste del pubblico eterogeneo presente in sala, rifiutando la ripartizione simmetrica secentesca e il suo illusionismo metaforico, ma si facciano anche, e molto presto, interpreti di una nuova dinamica scenica del melodramma, con ritmi di successione delle mutazioni ridotte, omolo-
ghe o contrapposte, più realistici e quindi più logici, con una riduzione della «meraviglia» meccanica, o comunque con una diversa collocazione della stessa nel prologo, negli intermezzi e alla fine dello spettacolo, tale da non interferire con l’area praticabile dell'attore e con la sua azione drammatica”.
26 Cfr. L. Lindgren, Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro», in questi atti. Per il disegno: Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga, inv. 316; cfr. In forma di festa, cit., scheda 20, p. 43, con la bibliografia ivi ricordata. 27 Già lo Zanotti nel 1739 scriveva: «E stato Ferdinando Bibiena, ne’ può da alcuno negarsi, il ritrovatore di quelle maravigliose, e magnifiche scene, che giornalmente si veggano su i moderni teatri d’Europa, ne di ciò solo, che all’architettura, e pittura riguarda, ma della maniera ancora ond’ora si muovono, e cambiano, e sf prestamente, che quasi l’occhio non sen’avvede» (G. P. Zanotti, Storia
dell’Accademia Clementina di Bologna, Bologna, 1739, p. 210); cfr. F. S. Quadrio, op. cit., 1744, p. 543.
20,
M. Pigozzi
La presenza dei Bibiena in Reggio si rivela ricca di conseguenze importanti e significative non solo sul piano effimero della scenografia, ma anche su quello dell’architettura teatrale e della decorazione per la ripresa in forme stabili dei modelli bibieneschi e l'elaborazione di cui essi furono oggetto durante tutta la prima metà del Settecento, e oltre, da parte dei reggiani collaboratori dei Bibiena, che in qualità di architetti, decoratori, scenografi troveremo ricercati e attivi non solo nella città natale. Distrutto da un incendio il teatro delle Commedie, ai
cui restauri Ferdinando e Francesco avevano contribuito nel 1696, come è noto, di Antonio Cugini (1677-1765) è
l'ideazione del nuovo, e subito famoso, teatro di Cittadella,
inaugurato il 21 aprile 1741; di Giovanni Antonio Paglia (11765) sono la decorazione del soffitto del teatro e le quadrature per il ridotto, entrambi, il Cugini e il Paglia allievi dei Bibiena e a metà del secolo XVIII protagonisti in più sedi dell’architettura teatrale e della scenografia, essi stessi tramite in Verona, Brescia, Padova della diffusione della tradizione bolognese e bibienesca, al pari dei componenti diretti della famiglia Galli 8. Come già scritto, di Paglia sono anche le scene dello spettacolo inaugurale del teatro di Cittadella, Vologeso Re dei Parti, musica di Pietro Pulli, libretto rielaborato da Guido Eustachio Luccarelli ??. I disegni al Paglia riferibili rimandano ad analoghe soluzioni di Francesco Bibiena, con il quale Giovanni Antonio in più occasioni ebbe a collaborare direttamente in Verona, ma, come già per i fogli attribuibili a Pellegrino Spaggiari, l’impianto strutturale della scena tende a dilatarsi, svitalizzato 28 Per le architetture del teatro, cfr. E. Garbero, I luoghi teatrali nei secoli XVI-XVII, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze; 1980, vol. I, pp. 71-96; si leggano inoltre i contributi di Elvira Garbero,
Carlo Zani e Ruggero Maschio in questi atti. Per la decorazione del soffitto del teatro, ideata dal Paglia, ma secondo moduli bibieneschi, cfr. In forma di festa, cit., scheda 39, pp. 51-52. 29 Trattasi infatti di Lucio Vero, dramma per musica di Apostolo Zeno, già rappresentato in Reggio, nel teatro delle Commedie, nel 1730, sempre con scene del Paglia; cfr. G. E. Luccarelli, Del Dramma per Musica / Intitolato / Vologeso / Re de’ Parti, Ferrara, s.a. [ma 1741], vol. II, pp. 103-169. Per gli spettacoli che vedono il Paglia scenografo, cfr. A. Loy, op. cit.
218
Sit
I Bibiena a Reggio
di stimoli prospettici, mentre le traforate architetture si arricchiscono di elementi decorativi rococò e neomanieristici e le funzioni dei vari ambienti meglio si precisano, rivelando essi, lo Spaggiari e il Paglia soprattutto, la conoscenza anche delle esperienze di Pietro Righini e di Filippo Juvarra, già in direzione della scena quadro, pur privilegiando sempre l’aspetto architettonico ° (figg. 41, 42). Di particolare interesse si ritiene inoltre l'intervento di Giovanni Battista Fassetti (1686-post
della S.S. prattutto arabescati il disegno tadella?!. Dellamano
1772) nell’oratorio
Trinità in San Filippo Neri (figg. 43, 44, 45); sogli angeli in volo nel doppio soffitto dai trafori ricordano oltre che analoghi esempi bibieneschi, del Paglia per il perduto soffitto del teatro di CitGirolamo Tiraboschi scrive il Fassetti allievo del modenese,
del Bezzi veneziano, di Girolamo
Massarini, di Orazio Talami e di Francesco Bibiena; «questi il condusse seco a Bologna, gli donò la sua amicizia, se ne servì moltissimo nei teatri, e il Fassetti divenne uno de’
migliori Pittori non solamente della nostra Lombardia, ma ancor di Bologna, come il Bigari e il Civoli, avanzatissimi in
età affermarono al sig. cav. Francesco Fontanesi, che studiava allora il disegno in quella città» ?. Fassetti inoltre nel 1738 interviene con Antonio Jolli nei restauri del soffitto e dei palchi del teatro delle Commedie, rivelandosi ancora
30. Cfr. In forma di festa, cit., schede 23-26; 39-47, pp. 45-47, 51-59. 31 Secondo Prospero Fontanesi, mentre «Le pitture del Volto, nel sotto in su traforato, con angeli» sono del Fassetti, le «Pitture della prima Volta dell’Oratorio» sono da riferirsi al quadraturista Mattia Benedetti, pure reggiano (Descrizione delle pitture e sculture esistenti nelle chiese della città di Reggio di Lombardia, ms. sec. XVIII, in BMRE, Mss. Regg. C 280; Idem, Elenco de’ Pittori, Scultori, Plastici ed Architetti Reggiani e delle loro opere, in ASRE, Biblioteca Malaguzzi, D.
c.7). Angelo Baldi, riprendendo Girolamo Tiraboschi, a proposito di Mattia Benedetti, fratello di Ludovico, precisa: «Dipinse nel 1701 la volta di S. Antonio in Brescia, la volta della Cappella maggiore della chiesa delle Bianche in Reggio e la prima detta dell’Oratorio di S. Filippo pure in Reggio, oltre vari ornamenti in case private» in Artisti reggiani, cioè pittori, scultori, architetti menzionati da Girolamo Tiraboschi e da Enrico Manzini, nonché nelle memorie sulle chiese di Reggio,
ms. sec. XIX, in BMRE, Mss. Regg. C 233, c. 4. E naturalmente G. Tiraboschi, Notizie de’ pittori, scultori, incisori e architetti natii degli Stati del Serenissimo Duca di Modena, Modena, 1786, p. 115. 32 G. Tiraboschi, op. cit., p. 200.
240
M. Pigozzi
una volta il teatro di Reggio il più importante cantiere culturale della città. Esiste inoltre tuttora nel palazzo al numero 7 di corso Garibaldi, a concludere il vano unico dello scalone, un inte-
ressante, e sinora sconosciuto, esempio di soffitto a doppia volta, traforata la prima secondo i canoni esemplificati prima da Ferdinando Bibiena in Sant’ Antonio Abate a Parma,
quindi da Antonio Bibiena nella chiesa parrocchiale di Villa Pasquali (1765-67) e in quella di Sabbioneta”; la seconda affrescata a cielo con figure allegoriche, 1’Ascesa di Ercole in Olimpo(?), mentre decorazioni architettoniche ricoprono i quattro lati del vano rettangolare, replicando l’architettura reale delle pareti della scala” (figg. 46, 47). Partito lo Spaggiari per la Francia al seguito del duca di Vendòme (1733), a Lisbona sino al terremoto del 1755 Francesco Zinani, uno
dei reggiani allievi di Ferdinando Bibiena, a Bologna e altrove con Francesco Bibiena Giovan Battista Fassetti, so-
vente itineranti fra il Veneto e il Piemonte, la Liguria e la Lombardia Giovanni Antonio Paglia, Antonio Cugini e Gaspare Bazzani, alcuni fra gli esempi più qualificanti la vivace situazione artistica reggiana e la vitalità della committenza privata nel sec. XVIII si devono ascrivere a Prospero
Zanichelli. In particolare si vogliono qui ricordare, oltre che le note quadrature in palazzo Gabbi Tirelli (fig. 48), quelle in palazzo Malaspina-Fontanesi di recente riferitegli, e quelle nei palazzi Parisetti e Masdoni”. Per questi ultimi due interventi non si hanno ancora elementi di riferimento certi, ma i caratteri stilistici e tipologici riconducono alla
33 Cfr. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, inv. 4954, per il disegno della Sezione longitudinale della chiesa di S. Antonio Abate, recentemente riproposto da Bruno Adorni alla mostra L’arte del Settecento Emiliano. Architettura, Sce-
nografia, Pittura di paesaggio, catalogo mostra 1979, Bologna, 1980, tav. 74, pp. 56-57, con la precedente bibliografia ivi ricordata; ed Anna Maria Matteucci, ibidem, pp. 83-84, tav. 116, per la chiesa di Villa Pasquali.
34 Per i passaggi di proprietà del palazzo, non ricordato nelle guide di Reggio, cfr. V. Nironi, Le case di Reggio nel Settecento, Reggio Emilia, 1978, p. 154; ivi si fa riferimento sia all’Estizzo case di Reggio dell’anno 1717 (BMRE, Mss.
Regg. E 155), sia all’Indice numerico ed alfabetico case di Reggio, 1786, conservato presso l’Archivio di Stato. 35 Cfr. In forma di festa, cit., schede 50-59, pp, 59-64.
220
I Bibiena a Reggio
sua produzione di decoratore quadraturista, ove trasparente è il magistero dei Bibiena, soprattutto di Francesco, benché sulla formazione di Zanichelli tacciano le fonti sinora conosciute. «Se il naturale malinconico e non troppo felice non l’avesse impedito, egli avrebbe acquistato maggior fama, e più certamente di qualunque altro del suo tempo. La vera e soda intelligenza del chiaro scuro fu il principale oggetto del suo studio» *. Ed è ancora uno scenografo e decoratore reggiano, Gaspare Bazzani (1701-1780) ad intervenire, secondo Girola-
mo Tiraboschi, col reggiano Giuseppe Davolio (d’ Avolio) in Genova nell’oratorio di San Filippo, con il contributo del bolognese Giacomo Antonio Boni per le figure; ma soprattutto «Le più magnifiche scene che siansi vedute nel teatro di Reggio tra il 1750 e ’1 1760, quando esso era uno de’ più rinomati d’Italia, furono opera del Bazzani, che in molte di
esse ebbe a compagno il Tarabusi» ”?. Di Gaspare Bazzani si ripropone il Gran Tempio di Marte per l’atto I, scena 1 del dramma Lucio Papirio, musica di Baldassarre Galuppi, detto Buranello, su libretto di Salvi? (fig. 49). Se bibienesca è
la matrice strutturale, la piantazione scenica vi appare snellita e concentrata; è ridotto il numero dei laterali; la stessa
collocazione centrale della statua equestre di Marte accentua la dilatazione in orizzontale delle ariose architetture, ri-
solte con telari traforati e su fondale. Mutando ancora le scene
a vista, risultava determinante
alla dinamica dello
spettacolo alternare scene lunghe a scene corte, collocando i telari sui binari del palcoscenico secondo una pianta accidentata. La tendenza alla concentrazione dell’impianto scenico è documentata, oltre che dalle piante di alcune scene per gli spettacoli con Giovanni Antonio Paglia scenografo (figg. 50, 51, 52, 53, 54), anche dagli inventari degli scenari per La clemenza di Tito e per Demetrio di Pietro Metastasio,
36 G. Tiraboschi, op. cit., p. 358.
37 38 bliche 61, p.
Ibidem, p. 105. Cfr. M. Pigozzi, Disegni di decorazione e di scenografia nelle collezioni pubreggiane, Reggio Emilia, 1984, p. 32, n. 96; In forma di festa, cit., scheda 65.
221
M. Pigozzi
rappresentati per la fiera del 1759 e del 1760, con scene «tutte nuove, d’Invenzione del sig. Cavaliere Antonio Galli Bibiena, Primo Architetto, ed Ingegnere Teatrale delle M.M. Imperiali», ultimo grande interprete della tradizione scenografica bolognese, o più precisamente bibienesca, essendo ancora a queste date l’una identificabile nell’altra??.
3° Per la partitura del Derzetrio, cfr. BEMo, Mus. F. 1589. Per gli inventari degli scenari: ASRE, Archivio del Comune, T.F.P., bb. 2209-2210; per i libretti:
BMRE, Racc. dram. Curti 147/8 e 147/11; cfr. ancora In forma di festa, cit., schede 62-65, pp. 65-66.
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GIOVANNA
BOTTI
Il «Medo» di Pietro Righini: lo spettacolo fra tradizione bibienesca e scena-quadro
La considerazione per l’opera scenografica di Pietro Righini viene sempre più aumentando, man mano che emerge la consapevolezza della non uniformità di sviluppo della vicenda scenografica tra tardo barocco, linea rococò e scenaquadro. Cresce la considerazione, ma pare non aumentare la conoscenza della sua opera, tuttora demandata quasi esclusivamente al gruppo di scene per il Medo, spettacolo su testo di Carlo Innocenzo Frugoni e musiche di Leonardo Vinci, andato in scena nel 1728 al Teatro Ducale di Parma!. Queste scene sono conosciute attraverso la serie di dise-
gni conservati al Teatro dell’Opéra di Parigi, le incisioni di Jacopo Vezzani, in controparte rispetto a questi, e le inci-
sioni successive di Martin Engelbrecht, a loro volta in controparte rispetto a quelle del Vezzani da cui derivano. Solo
1 Medo | Dramma Per Musica / Di Comante Eginetico [nome arcadico di Carlo Innocenzo Frugoni] / Pastor Arcade / Da Rappresentarsi nel nuovo Ducal / Teatro di Parma la Primavera / dell’anno 1728 / Dedicato / All’Altezza Serenissima / D° / Enrichetta / D’Este / Duchessa Regnante di / Parma, e Piacenza & c / In Parma MDCCXXVIII / Per gli Eredi di Paolo Monti: Stamp. Duc. - Con lic. de’ Sup. - in 8°. Segue l’elenco dei personaggi e dei relativi interpreti. Musica di Leonardo Vinci, Pro-Vice Maestro della Real Cappella di Napoli. Scene di Pietro Righini; balli di Francesco Massimiliano Pagnini; vestiario di Natale Canziani. Il dramma è stato naturalmente studiato prevalentemente nell’ambito degli studi frugoniani. Si veda per tutti il fondamentale C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana, Genova, 1920. Più specificamente rivolto al Medo è G. Marchesi, Due
momenti iniziali della librettistica di Frugoni. «Il trionfo di Camilla» (1725) - «Medo» (1728), in Atti del convegno sul Settecento parmense, Parma, 1969, pp. 301-312. Sull’evento, oltre alla bibliografia righiniana cui si farà cenno in seguito, si vedano P. E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici in Parma dall'anno 1628 all'anno 1883, Parma, 1884, ristampa anastatica Bologna, 1969; L. Balestrieri, Feste e spettacoli alla Corte dei Farnese, Parma, 1909, nuova edizio-
ne Parma, 1981; G. Allegri Tassoni, La scenografia, in I teatri di Parma «dal Farnese al Regio», a cura di I. Allodi, Parma, 1969, pp. 229-246.
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G. Botti
per una scena, quella finale della Reggia Magnifica, possiamo contare su altre. versioni a disegno2.Le immagini, conosciute ed analizzate da diverso tempo soprattutto nella versione di Engelbrecht prima e di Vezzani successivamente (anche se solo da circa vent’anni è sicura la loro attribuzione al Medo), vantano già una bibliografia cospicua ed autorevole, da Tintelnot a Viale Ferrero, da Mancini a Rava, da Mancini-
Muraro-Povoledo a Lenzi?. 2 La serie delle otto scene è completa nelle incisioni di Jacopo Vezzani, contemporanee all’evento, e nella versione di Martin Engelbrecht, Theatralische Veranderungen Vergestellt in einer Zu Mayland gehaltenen Oper, Augsburg [1735]. La serie di disegni a penna, pennello, acquarellati in grigio, della Bibliothèque de l Opéra di Parigi (sui cui problemi di attribuzione «di mano» non mi pare sia il caso qui di intervenire), manca dei Bagni, della Grotta d’Incanti e dell’ Anteriore di un Serraglio di Fiere. Della Reggia Magnifica si vedano i due disegni al Royal Institute of British Architets (B1/14 e B1/14 A), sulla cui bibliografia si veda la scheda di D. Lenzi, in L’arte del Settecento emiliano. Architettura, Scenografia, Pittura di paesaggio, catalogo della mostra 1979, Bologna, 1980, p. 189. Disegni riconducibili a queste scene, anche se di pit incerta attribuzione, sono quello conservato al Musée du Louvre (Inv. 8270) e quello del Royal Institute of British Architets
(A 1/10), il quale, sia pur con notevoli differenze di composizione, pare richiamare in maniera abbastanza evidente la struttura della metà destra della scena. Nel testo le scene hanno una numerazione progressiva da 55 a 62. Le tre versioni (i disegni conservati alla Bibliothèque de l’Opéra, le stampe dalle incisioni di Vezzani e le stampe dalle incisioni di Engelbrecht) sono indicate rispettivamente con a), b), c). Le stampe di Vezzani e Engelbrecht utilizzate per le riproduzioni sono quelle conservate, rispettivamente; all’ Archivio del Teatro Regio di Parma e al Theater-Museum di Monaco di Baviera. Quando, nell’analisi delle scene, si danno indicazioni di orientamento, ci si riferisce sempre alla destra o alla sinistra dei disegni della Bibliothèque de l’Opéra e delle stampe di Engelbrecht, che danno lo stesso verso. 3 H. Tintelnot, Barocktheater und Barocke Kunst, Berlino, 1939; M. Viale Ferrero, Scene e scenografi del 700, in Tempi e aspetti della scenografia, Torino, 1954; Idem, La scenografia del 700 e i fratelli Galliari, Torino, 1963; Idem, Filippo Juvarra scenografo e architetto teatrale, Torino, 1970; C. E. Rava, Scenografia del Museo Teatrale alla Scala, Venezia, 1965; F. Mancini - M. T. Muraro - E. Povoledo, Illusione e pratica teatrale, Venezia, 1975; D. Lenzi, Introduzione alla sezione
scenografica e schede relative a Righini, in L’arte del Settecento emiliano. Architettura, Scenografia, Pittura di paesaggio, cit., pp. 189-191 (la scheda biografica di Righini nel medesimo volume è di M. Pigozzi). Naturalmente la bibliografia su Righini, anche prescindendo da quella attribuzionistica, è pit vasta di questa citata, che è quella in cui vengono prese in esame le scenografie per il Medo. Cito solo, per l’attività napoletana, F. Mancini, Appunti per una storia della scenografia napoletana del Settecento. L’epoca d’oro: Pietro Righini e Vincenzo Re, in «Napoli Nobilissima», vol. II, fasc. II, luglio-agosto 1962, pp. 59-68; Idem, Scenografia napoletana dell'età barocca, Napoli, 1964; e per l’attività reggiana, M. Pigozzi, Scenografia e scenografi dal Rinascimento al Settecento, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, vol. I, Firenze, 1980, pp. 159-179.
224
ne ci
Il «Medo» di Pietro Righini
Non molto pertanto mi pare di poter aggiungere sul piano dell’immagine, che è quello su cui si sofferma prevalentemente la bibliografia. E forse solo il caso di fare qualche puntualizzazione. Cominciamo col rapporto coi Bibiena; con Ferdinando, cui Righini nel 1727 succede nella carica di architetto teatrale presso il Duca di Parma, ma anche con gli altri componenti della famiglia, in un rapporto di prestiti reciproci che va al di là delle differenze stilistiche. Righini, si è scritto spesso ‘, non ignora la veduta per angolo, praticata da tempo ma teorizzata da Ferdinando nel 1711; ma se ne fa interprete moderato e come non convinto. Come a dire: professarsi, a parole e nei fatti, allievi di Ferdinando Bibiena,
era, in quella prima metà del Settecento, un passo obbligato, tale era la novità del messaggio bibienesco, ma anche una sorta di carta di credito per ottenere incarichi — e Righini ne ebbe, e di importanti, dallo spettacolo inaugurale del Regio Ducal Teatro di Milano nel 1717 allo spettacolo inaugurale del S. Carlo di Napoli nel 1737 —, ma nel lavoro concreto le differenze sono poi tante da riconoscere malamente una linea di continuità. E se una continuità si vuole riconoscere, argomenta ad esempio Mercedes Viale Ferrero, sarà semmai col Ferdinando giovane delle Terzze Reali del Favore degli dei, spettacolo a Parma del 1690 (quando peraltro Righini aveva sette anni), in cui non c’è traccia di prospettiva per angolo’. In realtà, mi pare, la lezione di Ferdinando, e di Ferdinando maturo, è per Righini meno strumentale e gioca un ruolo fondamentale, sia pure come polo di una dialettica che tende a superarla. Ferdinando Bibiena, secondo Franco
4 Si veda ad esempio F. Mancini, Scenografia napoletana dell’età barocca, cit., p. 93. Si veda anche M. Viale Ferrero, La scenografia del 700 e i fratelli Galliari,
cit., pp. 14-15, che tuttavia affronta il problema del rapporto tra Righini e FerdiAIA Bibiena da una angolatura particolare, come è riportato in seguito, ossia
ipotizzando una sorta di «scavalcamento» del periodo della prospettiva per angolo, da parte di Righini, per andare a ricongiungersi al Ferdinando del 1690. 5 M. Viale Ferrero, Scere e scenografi del 700, cit., pp. 85-86, e La scenografia del 700 e i fratelli Galliari, cit., pp. 14-15.
225
G. Botti
Ruffini$, si contrappone consapevolmente alla scenografia e alla scenotecnica secentesche con una serie di opposizioni che lo portano a ribaltare, almeno sul piano «astratto» delle intenzioni e della teoria, i termini dell’immagine scenica barocca. Alla concavità della scena precedente, la scena per angolo contrappone la pratica della convessità, alla centripeta profondità contrappone gli ostacoli visivi delle strutture architettoniche in mezzo al palco e perciò un moto centrifugo, alla scena metaforica e totalizzante contrappone “una scena che, avendo i punti di fuga fuori dal proprio quadro, si pone come metonimia, come frazione di spazio che suppone, fuori, la propria continuazione. In questo quadro di riferimento, mi pare che Righini, assai meno «programmatico» di Bibiena, voglia cogliere alcuni dei dati della sua teoria e delle sue novità, senza entrare nel gioco della opposizione, forse perché lo sente troppo rivoluzionario o troppo meccanico. Ad esempio, coglie appieno il discorso del rifiuto della concavità, ed anzi lo coglie in modo molto radicale, ma ad essa non contrappone l’opposto della convessità bensi il termine medio dell’appiattimento. Non ci sono sporgenze violente nelle scene di Righini, cost come non ci sono le vertiginose profondità della scenografia secentesca. Cosi, usa con abbondanza gli spezzati in mezzo al palco, con cui interrompe gli assi visivi, ma quasi mai per proporre
delle diagonali che guidino lo sguardo fuori dal quadro. Cosf, infine, Righini pratica sia pur con moderazione la figurazione per angolo, come nella Galeria (fig. 57), ma produce spazi non metonimicamente incompleti e invece fortemente concentrati, riquadrati da una cornice che enfatizza ciò che contiene e spinge a non ricercare null’altro al di fuori. In questo, tuttavia, rispetto all’eredità bibienesca, si fa maggiormente sentire in Righini la lezione altrettanto innovatrice di Filippo Juvarra. Anche Juvarra, infatti, quando Righini lo accosta — nel 1723 a Torino se non addirittura nel corso del soggiorno di Juvarra a Parma nel 1716 —’, prati6 F. Ruffini, Per una epistemologia del teatro del 700: lo spazio scenico in Ferdinando Galli Bibiena, in «Biblioteca Teatrale», n. 3 (1972), pp. 1-18. ? ‘Si veda, sia per l’arrivo di Righini a Torino che per quello di Juvarra a Par-
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Il «Medo» di Pietro Righini.
ca la visione per angolo, ma con una asistematicità che lo allontana dalla linea di Bibiena. E dalla pratica più libera di Juvarra, anziché dalla programmaticità insistita di Bibiena, viene forse a Righini quello spigolo non esasperato che qui troviamo nella Galeria, col doppio pilastro centrale che avanza a spartire lo spazio e cogli archi che da un lato lo legano ai due telari di proscenio e dall’altro agli elementi contigui del colonnato. È una soluzione, questa, che troviamo tante volte nei «pensie-
ri» scenografici di Juvarra8.Anche se, ancora una volta, Righini in qualche modo ammorbidisce il modello, stemperando la verticalità e l’aggetto delle immagini juvarriane, producendo una scena molto più distesa in orizzontalità e meno violenta nelle spinte in avanti, in profondità o in altezza. Cosî come da Juvarra probabilmente vengono le preferenze di Righini per le linee curve?, e la figurazione di ambienti a pianta centrale, come nei Bagni (fig. 58) o nella Reggia Magnifica (fig. 62). Ma qui occorre insistere su una considerazione. La scelta delle linee curve e degli ambienti a pianta circolare non è solo né forse prevalentemente una scelta di gusto, dettata magari — almeno per quanto riguarda il primo elemento — dall’approdo ad una sensibilità rococò, ma piuttosto una valenza strutturante. Proprio perché Righini opta per l’appiattimento della prospettiva, la linea curva e le piante circolari degli ambienti consentono una chiusura dello spazio scenico che impedisce proprio struttu-
ma, M. Viale Ferrero, Filippo Juvarra scenografo e architetto teatrale, cit., pp. 63 e
65. Sia chiaro che non siamo in grado di stabilire se Righini nel 1716 fosse a Parma, visto che nel 1717 lavora a Milano. Sappiamo tuttavia che a Parma era già attivo come apparatore, come risulta dalla Descrizione del sontuoso apparato e
delle altre sacre funzioni fatte nella chiesa de” RR. PP. Cappuccini di Parma, in occasione di celebrarsi il solenne ottavario per la Canonizzazione del loro San Felice da Cantalice, Parma, 1713, in cui si legge che a Pietro Righini, «Parmeggiano, eccellente Pittore di Architetture», vengono commissionati gli apparati. 8 Si veda M. Viale Ferrero, Filippo Juvarra scenografo e architetto teatrale, cit., che resta ad oggi il più importante studio su Juvarra scenografo. ? Si veda ad esempio F. Mancini, Scenografia napoletana dell'età barocca, cit., p. 88. Ma sulla ascendenza juvarriana di diverse soluzioni stilistiche e di immagine di Righini insiste anche M. Viale Ferrero in vari punti delle opere citate.
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ITE E
G. Botti
ralmente lo sfondamento prospettico. Nell’ Anteriore di un Serraglio di Fiere (fig. 61), ad esempio, o nella Reggia, due scene che, come vedremo, hanno e devono avere per ragioni scenotecniche
una
struttura
simile, il fondale chiude
omologamente lo spazio rappresentante e lo spazio rappresentato, fingendo una parete che chiude la profondità non eccessiva della scena e quella altrettanto negata della prospettiva. La scena «corta» scelta da Righini rende ragione anche, per questa via strutturale e non di immagine, del rifiuto della visione per angolo ortodossa e fortemente pronunciata: uno scorcio troppo violento lo avrebbe costretto ad allungare la profondità anche spaziale, oltreché visiva, della scena. Ma anche quando il fondale sia, come nell’ Arco Trionfale (fig. 55)-e nell’ Atrio della Reggia (fig. 56), un paesaggio, che in quanto tale dovrebbe invitare alla profondità, la scelta di Righini è ancora quella di negarcela, di sfumare e di appiattire il disegno, rifiutando ad esempio gli elementi strutturanti che scandiscono la profondità stessa come i filari di alberi o la regolarità degli elementi architettonici, cosf cari invece ai Bibiena. Si ha come la sensazione, insom-
ma, che anche in questi casi Righini voglia chiudere insieme spazio della rappresentazione e spazio rappresentato, facendo vedere un fondale che sia dichiaratamente tale, che non
tenti nemmeno l’illusione di rappresentare la lontananza, che sia un limite allo sfondamento non con la chiusura degli assi visivi ma con una specie di «opacità» che non si lascia attraversare. Non si spiegherebbe altrimenti quel disegno cosî tenue, appena accennato, assolutamente piatto e senza
canali visivi: un fondale che in nessun caso, agli occhi dello spettatore, poteva sembrare altro che un fondale !°. Resta da chiedersi il perché di questo voluto appiattimento della scena e dell’impatto visivo. Certo ci sarà l'emergere di un nuovo gusto di spettacolo, che predilige
10 Evidentemente c’è ‘anche una ragione «tematica» per questo sfumare del disegno sul fondale, ed è il fatto che queste due scene rappresentano degli esterni, e perciò i paesaggi sullo sfondo possono essere velati dalle brume e dalla lontananza. Ma mi pare che l’effetto sia troppo macroscopico per non avere soprattutto una funzione strutturante e programmatica.
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i. Il «Medo» di Pietro Righini
una recitazione tutta in proscenio, come sottolineano Tintelnot e sulla sua scia Viale Ferrero !!, che è causa, o forse
effetto, della costruzione di teatri più piccoli e raccolti !?. Forse ci sarà, anche in questo caso, l’eco di suggestioni juvarriane, nei cui «pensieri» scenografici sempre Viale Ferrero vede un disinteresse per la profondità 3, che tuttavia è probabilmente più dovuto alla natura stessa di questi disegni, al loro essere pivi immagini che progetti, con un prevalere perciò del dato figurativo e d’atmosfera a discapito della precisione e del dettaglio progettuale. Tuttavia, mi pare che ci sia una maniera peculiare al Righini, una sua ricerca continua, troppo insistita per non es-
sere consapevolmente perseguita, dell’appiattimento prospettico e dell’azzeramento delle spinte. Già si è sottolineato come, rispetto agli esempi di Ferdinando Bibiena e di Juvarra, Righini riduca per quanto gli è possibile sporgenze, scorci, slanci verso l’alto. E in generale è possibile sostenere che quasi non ci sono spinte in queste scene di Righini. Non ci sono certo spinte in alto, non ci sono in profondità,
non ci sono se non modestamente in avanti o verso i lati. O
11 H. Tintelnot, Barocktheater und Barocke Kunst, cit., p. 92; M. Viale Ferrero, La scenografia del 700 e i fratelli Galliari, cit., p. 16.
12 Ma occorrerebbe insistere maggiormente sull’aspetto acustico del fenome. no, imposto dalla prevalenza sempre crescente accordata al teatro musicale. E ciò che sottolinea ad esempio P. Petrobelli, Lo spazio e l’azione scenica nell'opera seria settecentesca, in Illusione e pratica teatrale, cit., p. 27, che si basa anche su un punto del trattato di Fabrizio Carini Motta: «Condizione essenziale quindi è che il cantante faccia sfoggio della propria bravura nell’ottima posizione acustica di tutto il palcoscenico, e cioè sul proscenio, il cui arco ha la funzione di diffondere
nella sala il suono prodotto appunto in quel punto. Il momento di congiunzione tra le due concezioni dello spettacolo operistico è segnato da un passo del Trattato sopra la struttura de’ teatri e scene di F. Carini Motta (1676): “... So che alcuni diranno che venendo li recitanti nel sodetto sito [= dall'occhio della scena al principio dell’orchestra] vengono fuori della scena, e per conseguenza lontani da quello in che fingono essere, ma per essere uditi dall’uditorio è meglio far questo, per minor male, che stare dentro la scena, e non essere uditi”. Ne deriva che lo spazio scenico per l’azione nell’opera settecentesca è estremamente limitato, ed è appunto la zona che corrisponde al proscenio, quella acusticamente più appropriata. Questo spiega anche perché, in un’opera seria, difficilmente compaiono in una stessa scena pit di tre personaggi contemporaneamente». 13 La studiosa ritorna più volte, nel corso dei suoi lavori, su questo punto. Si veda ad esempio Filippo Juvarra scenografo e architetto teatrale, cit., p. 30, e La scenografia del 700 e i fratelli Galliari, cit., p. 5.
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G. Botti
almeno, non ci sono spinte volumetriche: l’immagine è tutta risolta come su una superficie, o al più su una serie di superfici successive !4. Ma è da notare che questi strati sono pochi — in genere tre —, e che sono inconsuetamente rav-
vicinati tra loro, come vedremo meglio in seguito. Il che ci riporta al problema della scena «corta» di Righini. Mi pare che il tentativo di Righini sia quello di chiudere la scena da ogni lato, di farne una sorta di scatola, ma tanto
poco profonda da limitarne per quanto è possibile la consueta forma trapezoidale. Pur senza forzare i termini della questione, è allora possibile vedere in queste scene di Righini! un programmatico rigetto dell’illusionismo e del macchinismo della scena barocca e anche bibienesca, una sorta
di manifesto coùtro il meraviglioso tecnico e il grandioso, espresso esattamente col rifiuto per ciò che a questo meraviglioso è stato di supporto: gli sfondamenti e la moltiplicazione dei piani prospettici. Il meraviglioso di Righini è semmai figurativo, di decorazione, perché il suo interesse è molto più a una resa di immagine, perfettamente chiusa ed autonoma, che alla progressione e alla complicazione di uno spazio che si rincorre. Questo dato della perimetrazione si ritrova in tutte e
otto le scene della serie. Quando la figurazione è centrale e simmetrica, come nelle prime due scene, l'Arco (fig. 55) e l’Atrio (fig. 56), la funzione di chiudere lo spazio, come si è
visto, è demandata ad un fondale molto piatto e molto ravvicinato. Quando la costruzione è asimmetrica — una asim-
14 Su questa costruzione «a strati» della scena righiniana hanno insistito soprattutto H. Tintelnot, Barocktheater und Barocke Kunst, cit., p. 92 e M. Viale Ferrero, La scenografia del 700 e i fratelli Galliari, cit., p. 15. 19 Occorre naturalmente insistere sul fatto che anche in questo intervento, come in genere in tutti quelli dedicati a Righini, si generalizzano forse indebitamente i connotati di queste scene per il Medo (che sono solo un momento sia pure importante della sua produzione scenografica), per qualificare l’intero percorso righiniano, che invece, per quanto ne sappiamo ad oggi, avrebbe potuto svolgersi, prima e dopo, anche lungo direttrici RAR Altra questione è invece, naturalmente, quella della persistenza della lezione righiniana, che è affidata, a partire dalla generazione successiva di scenografi, alla circolazione delle immagini: e allora quelle che sono entrate nel circuito culturale sono state certo queste di cui ci stiamo occupando.
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BIS sia
Il «Medo» di Pietro Righini
metria peraltro mai molto pronunciata —, la funzione di chiusura è assunta da un evidentissimo effetto-cornice che racchiude e stringe la scena. Quando addirittura i due effetti non siano compresenti, come nei Bagri (fig. 58), o nelle due scene finali del Serraglio (fig. 61) e della Reggia (fig. 62).
E evidente che una scena ih tal modo impostata risulta più «moderna» dei modelli stessi che rielabora — e «moderna», qui, è un aggettivo che non necessariamente assume
una connotazione positiva. Perché è chiaro che questo bloccare la scena, questo impedire all’occhio di correre verso il fondo o di andare a ricongiungere le linee trasversali al di fuori del quadro, determina una assolutizzazione della scena da un lato, ed un suo porsi come meccanismo di disattivazione dello spettatore dall’altro. Lo spettatore secentesco è uno spettatore estremamente attivizzato, a cui si richiede un lavoro per ricostruire l’immagine, per ricongiungere le linee della prospettiva, per seguire i canali visivi. Anzi, come sottolinea Pierre Charpentrat, l’attività richiesta allo spettatore secentesco è un vero percorso, e il suo punto di vista è quello «del pellegrino» !6. A questo percorso dello spettatore servono appunto le spinte prodotte dalla prospettiva, gli scorci violenti, le fughe verso l’infinito, la moltiplicazione degli accessi in profondità. Nemmeno l’introduzione della visione per angolo disattiva lo spettatore, che anzi è invitato ad una maggiore attività proprio dalla metonimicità della scena, dal suo presupporre un completamento fuori da sé, che è lo spettatore a dover individuare. Senza contare che la asimmetria e la moltiplicazione degli assi che si spingono in profondità determinano una complicazione prospettica che non permette una visione passiva. Già lo spettatore di Juvarra è uno spettatore cui si offre
un’immagine più che un percorso, un’atmosfera più che un procedimento. Righini, proprio in virtà delle continue «riduzioni» che opera rispetto agli spunti bibieneschi e juvar-
16 P. Charpentrat, Thédtre et architecture baroque, in Jourées internationales d’étude du baroque, Montauban, 1967, p. 115.
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G. Botti
riani che utilizza, porta al massimo questo processo di passivizzazione dello spettatore. L’eliminazione delle spinte, la distensione in orizzontalità, l’appiattimento prospettico, l'abbondante uso di traforati e principali che riempiono visivamente il palco in un gioco di superfici più che di volumi, la sistematica frustrazione di qualsiasi tentativo da parte dell’occhio di percorrere qualcuno dei diversi canali visivi che sembrerebbero aprirsi verso la profondità e che invece subito si richiudono, la chiusura quasi brutale dello spazio rappresentato e dello spazio della scena con fondali il più possibile «opachi», la rigida e costrittiva chiusura della scena con un effetto di cornice che impedisce ogni fuga laterale e spesso anche verso l’alto: tutte queste caratteristiche, che evidentemente
si sostengono
reciprocamente,
determinano
una
macchina scenografica immobile, una scena come bloccata nella sua fissità di oggetto da guardare senza pretendere di entrare dentro al suo gioco di immagine e di plasticità. E forse, la ragione principale della larga diffusione dei modelli righiniani fin verso la fine del secolo è proprio la qualità del rapporto che questa scena instaura con lo spettatore, che va nella medesima direzione verso cui tenderà la
scena-quadro, e più in generale verso la modalità dello tacolo tardo-settecentesco, verso cioè uno spettacolo pre più staccato dallo spettatore, sempre più isolato sua dimensione di quadro di immagine e di quadro di ne offerto alla contemplazione passiva del pubblico. .
spetsemnella azio-
Certo, troviamo anche delle precise rispondenze icono-
grafiche, di riprese di immagini righiniane in epoche successive, ad esempio soprattutto il Serraglio (fig. 61), che ha co-. stituito una tipologia citatissima per tanti «carceri» successi-
vi, fino a delle riprese quasi letterali come in Antonio Bibiena (fig. 63). Oppure ancora, nel motivo dell'Arco di
17 Si veda la scena attribuita a Ferdinando Antonio Bibiena, presumibilmente per Talestri Regina delle Amazzoni, a Dresda nel 1763. Ma non è solo a livello di immagine che questo modello si perpetua. In un documento conservato presso l'Archivio di Stato di Parma (Computisteria farnesiana e borbonica, R.D. Collegio
dei Nobili, b. 363, doc. 113, s.d. [ma 1787) si legge di un «restauro di quattro
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Il «Medo» di Pietro Righini
trionfo isolato nel paesaggio, che ritroviamo, pur con differenti insistenze di decorazione, in Fabrizio Galliari e in Giuseppe Bibiena (fig. 64) !8, Ma non sono tanto le rispondenze figurative, più o meno puntuali, che possono dare il segno della fecondità del modello righiniano. Queste riprese di immagine sono numerose,e diffuse, in considerazione anche della doppia edizione delle incisioni, tanto che alcune di queste scene sono entrate «in repertorio» inaugurando delle vere e proprie tipologie nuove. Ma è più importante l’altra eredità che Righini lascia alle generazioni successive, che è questione non di immagine ma di tipologia spaziale.La scena corta e chiusa, molto ingombra e piena, dentro cui sia possibile immaginare una scarsissima praticabilità da parte degli attori, sarà uno dei primi esempi di un filone che percorrerà tutto il secolo parallelamente ad altri filoni, come ad esempio quello del monumentalismo della tradizione bibienesca, ma che alla fine
risulterà vincente nella vicenda della scenografia successiva. Righini, anche quando raffigura degli esterni, in realtà sembra sempre costruire spazi interni — e in questo la lezione di Juvarra è fondamentale e prevalente su ogni altra suggestione. La scena secentesca, coi suoi sfondamenti sul
scenari per la tragedia [presumibilmente il Serse di Bettinelli] e ballo per il presen-
te Carnevale 1787» presso il teatrino del Collegio dei Nobili: le quattro scene sono la Sala Regia del Bibiena, il Bosco del Rocchetti, la Prigione del Righini e la Deliziosa del Paglia. Naturalmente non possiamo stabilire se la Prigione di questo documento sia l’Anteriore di un Serraglio di Fiere per il Medo. Tuttavia possiamo supporlo, sia perché nel 1787 Righini era morto da 45 anni e perciò si trattava comunque di una scena «storica» conservata per la sua peculiarità nei magazzini teatrali del Duca di Parma (sono numerosi i documenti d’archivio che testimoniano
dei prestiti di scenografie che i teatri ducali facevano al teatrino del Collegio dei Nobili), sia perché già la replica bibienesca nel 1763 ha mutato titolo e perciò
soggetto: Recinto destinato alla custodia dei prigionieri con varie carceri separate per li‘ medesimi. È comunque da sottolineare la longevità anche fisica, oltre che di immagine, di questa scenografia (sempre che sia la medesima del Medo), ancora utilizzata, seppur dopo «restauro», quasi sessanta anni dopo la sua costruzione. Il discorso, poi, sarebbe da approfondire per quella Sala Regia del Bibiena, per indivi-
duare almeno a quale scena, e a quale membro della famiglia, ci si riferisca. 18 Di Galliari si veda il Luogo presso le mura per il Nitteti del 1758 (cfr.M Viale Ferrero, La scenografia del 700 e 1 fratelli Galliari, cit., pp. 30 e 37). A Giu: seppe Bibiena è invece attribuito un Giardino con chioschi, conservato al Museo Teatrale alla Scala.
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fondo, presuppone sempre l’infinito, l’illimitato, anche quando raffiguri un interno. La stessa prospettiva per angolo di Bibiena, col suo sfondamento ai lati, presuppone anch’essa una porzione di spazio che sta fuori e quindi esplicitamente nega la delimitazione del quadro e la sua chiusura. La scatola delimitata che ci offre Righini, come già si diceva, chiude definitivamente lo spazio e ne fa un luogo che deve essere riempito. Non tanto di personaggi, evidentemente, quanto di presenze architettoniche, di addobbi e di decorazioni rococò che, eliminando il vuoto, e
giocando sulla sovrapposizione di strati successivi, ancora una volta elidano la profondità. Questa «abitabilità» della scena, deputata a togliere volume anziché a crearlo e che porterà Righini, nelle prove napoletane, ad usare mobili ed arredi veri !?, non viene contraddetta neanche le due volte
che compaiono delle macchine, nella prima (fig. 55) e nella seconda scena (fig. 56). In entrambi questi casi, nel primo presumibilmente e nel secondo evidentemente ?°, la macchina (un carro che cala dall’alto e una barca) viene fatta giocare dietro al principale che costituisce l'elemento architettonico della scena, su un terzo piano di profondità quindi, come a toglierle plasticità e perciò volume. E in generale è da notare come quasi sempre i piani prospettici, o meglio i sottili strati che si sovrappongono quasi frontalmente per appiattire la profondità, non siano più di tre: il proscenio, gli spezzati o i principali delle architetture che sempre attraversano il palco, e lo spazio pit interno, solo occasionalmente abitato da altre architetture, dalle mac-
19 Si veda F. Mancini, Appunti per una storia della scenografia napoletana del Settecento. L'epoca d’oro: Pietro Righini e Vincenzo Re, cit., con le descrizioni e le fonti ivi segnalate. Lo stesso Mancini ritorna sul problema in Scenografia napoletana dell’epoca barocca, cit., pp. 83-108. 20 Nell’ Atrio nella Reggia la barca si vede dietro il piano delle architetture. Per l'Arco Trionfale la collocazione in questa posizione del carro che scende è ipotizzabile, oltre che per ragioni di opportunità scenotecnica (nascondere il più possibile l’artificio dell'apparizione), anche in coerenza a ciò che dice il libretto secondo il quale: «Dall’orizonte scende il carro magico di Enotea». F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, Illusione e pratica teatrale, cit., nella ricostruzione della pianta di questa scena, ipotizzano invece che la macchina scenda davanti all’ Arco.
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a a
SE
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chine o dai personaggi (come nella scena della Grotta d’Incanti) (fig. 59) 1. Ed è chiaro che questa uniformità di struttura risponde ad esigenze scenotecniche, perché rende più agevoli le mutazioni, ma è anche evidente che questa successione di piani, i cui assi visivi solo raramente e solo di poco differiscono, accorcia la profondità della scena anche quando, con le macchine ad esempio, la anima di movimento e di presenze. Un caso a parte è l’ultima scena, quella Reggia Magnifica (fig. 62), che ci presenta l’unicos sia pur non sconvolgente, sfondamento in profondità, con la scala praticabile sul fondo, e che costituisce anche l’unico esempio di sfruttamento della profondità per il gioco degli attori, con Asteria che, appunto, entra scendendo dalla scala. Ma l’ultima scena, si
sa, doveva per tradizione costituire l'esplosione finale, l’estremo colpo di teatro, e quindi di necessità doveva essere sorprendente e dunque inconsueta. Questa Reggia, che costituirà un modello spesso citato, leggermente asimmetrica e con uno spazio di praticabilità, dietro ai principali delle colonne, maggiore che nelle altre scene, è per noi interessante tuttavia soprattutto per il problema scenotecnico che pone. Sulla scenotecnica di questo spettacolo si sono soffermati Mancini-Muraro-Povoledo ?, ipotizzando le diverse piante ed esemplificando sul cambiamento dall’Arco (fig. 55) all’ Atrio (fig. 56), in cui l’omologia di struttura e la perfetta frontalità rendevano più agevole l’interpretazione: il principale dell’Atrio è in tiro in soffitta e cala a coprire l'Arco, che viene rimosso contemporaneamente alle sfuggite degli alberi. E questo cambio esaurisce il primo atto.
21 Si veda ancora una volta il libretto: «Antinoo va a celarsi nel sotterraneo dell’antro». 22 F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, Illusione e pratica teatrale, cit., pp. 102-104. L’analisi degli studiosi, tuttavia, proprio dal punto di vista scenotecnico, per quanto riguarda la ricostruzione delle piante e anche per il riconoscimento
di quel rapporto di omologia delle scene a due a due, che qui ipotizzo, risulta falsata dal fatto di utilizzare indifferentemente versioni di Vezzani e versioni di Engelbrecht, col risultato quindi di avere alcune scene in controparte rispetto alle altre.
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Ma più in generale mi pare si possa osservare che un rapporto di omologia strutturale lega le scene a due a due. Il cambio del secondo atto è quello tra la Galeria (fig. 57) e i Bagni (fig. 58): e anche questo pare risolvibile con un meccanismo analogo a quello del primo: calano i due principali successivi in cui sono articolati i Bagri, entrano gli spezzati laterali con le statue e quello centrale con la fontana, e salgono i telari laterali, il principale o forse i due principali traforati, oltre naturalmente al cambio dei fondali ?. Il terzo atto presenta invece quattro scene e dunque tre mutazio-
ni. Ma anche in questo caso il rapporto è due a due con analogia di struttura. Se si astrae dalla decorazione, l’analogia costruttiva è evidente tra la Grotta d’Incanti (fig. 59) e il Corpo di Guardia Reale (fig. 60): un telaro sulla destra (al-
beri e torrione), una sfuggita sulla sinistra (alberi e, probabilmente, telaro coi due emipilastri), spezzato con archi e cancellata che scende assieme ad un fondale molto ravvicinato che serve a coprire i forati della grotta e gli accessori che potranno perciò essere rimossi al riparo dagli occhi del pubblico 24. Tra il Corpo di Guardia e il Serraglio (fig. 61) c’è un mutamento di tipologia — torna la frontalità e tornano i principali, oltre ai due telari di proscenio —, ma il meccanismo della sostituzione non dovrebbe discostarsi troppo da quelli precedenti, col calare dei principali tenuti in tiro e la rimozione degli spezzati. Quello che crea qualche problema è il cambio successivo, tra il Serraglio e la Reggia (fig. 62), soprattutto perché
23 Dico due principali perché mi pare abbastanza evidente che le coppie di pilastri, laterali rispetto a quella centrale, sono collocate in un piano successivo rispetto appunto a quella centrale. 24 Anche in questo caso ipotizzo una pianta leggermente differente da quella proposta da F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, indicando come possibile, nel Corpo. di Guardia, un telaro coi due emipilastri sulla sinistra, anche se mi rendo conto del fatto che questo corpo non proietta alcuna ombra e perciò non sembrerebbe staccato dalle architetture contigue. Tuttavia, da un lato mi pare difficile ipotizzare, per converso, che tutta l’architettura tranne il torrione si risolva in un unico traforato, visto il vuoto che inevitabilmente questa soluzione avrebbe dovuto comportare da quella parte, determinando anche problemi di sfori. E dall’altro, mi pare strano che Righini rinunci, per questa volta sola e in maniera cosf eclatante, al riquadro laterale delle sue scene.
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deve avvenire d’incanto, al solo battere di Enotea col piede al suolo. Ma il problema è forse più apparente che reale, almeno se si ipotizza che i due troni ai lati della scala non siano praticabili (del resto non c’è traccia nel libretto di una
loro utilizzazione). La diversità tra le due scene è di addobbo e di atmosfera, mentre invece strutturalmente sono del tutto coincidenti, costituendosi la Reggia con una coppia di telari di proscenio che si sovrappone a quella del Serraglio, e con due principali molto ravvicinati, esattamente come la scena precedente. La scala praticabile, dalla quale scende Asteria col seguito, assieme alla balconata e al fondale, era naturalmente già predisposta dietro al fondale del Serraglio, la cui profondità è infatti minore. Questo, ripeto, solo escludendo la praticabilità dei troni, ammettendo la quale sarebbe invece necessario ipotizzare che tutta la scena, o almeno la parte di essa che inizia dal secondo principale, fosse già apprestata dietro al fondale precedente. Ed è un’ipotesi, questa, che la profondità del palcoscenico del Teatro Ducale, cospicua almeno in relazione alla larghezza del boccascena, rendeva tecnicamente praticabile ?. Ma questa ipotesi renderebbe difficilmente comprensibile l’evidentissima omologia di struttura anche compositiva (ripeto, prescindendo dalla decorazione e guardando solo alle linee di forza della composizione) tra questa scena e la precedente: si noti soprattutto la leggera asimmetria, con lo scorcio più accentuato a sinistra e più disteso a destra, e l’effetto di raddoppiamento della cornice (una cornice dentro un’altra cornice)
presente in entrambe le scene. Essendo quella della Reggia la scena finale, deputata quindi alla sorpresa e allo spaesamento dello spettatore per effetto del meraviglioso e dell’inconsueto, la logica avrebbe voluto, ove non fossero sussistiti impedimenti di natura 25 Si vedano P. Donati, Cronologia del Ducale Teatro di Parma, Parma, 1902, e Descrizione della città di Parma, Parma, 1824; P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici in Parma dall'anno 1628 all'anno 1883, cit. La
larghezza della sala era m. 9,90 e la larghezza del proscenio era quasi uguale. Anche la lunghezza del palco era quasi uguale a quella della platea, che era di m. 21. Si veda la pianta del teatro, da cui è possibile notare l'ampiezza del palcoscenico, in V. Gandolfi, I Teatro Famese di Parma, Parma, 1980, p. 170.
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scenotecnica, una figurazione completamente differente dalla precedente. Ma, come si diceva, a Righini era già forse sufficiente, come colpo di teatro finale, oltre al meraviglioso della decorazione e al tripudio rococò delle forme, quello sfondamento in profondità, che, per un'unica volta, «buca» l’opacità per le altre volte impermeabile delle pareti della sua scatola scenica.
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NET id
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PIERO
WEISS
La diffusione del repertorio operistico nell'Italia del Settecento: il caso dell’opera buffa FT}
Sul principio del 1768, in una lettera da Vienna, Leopold Mozart rivelava al suo padron di casa a Salisburgo quella che gli sembrava un’idea magistrale per far fare carriera al figlio dodicenne: gli avrebbe fatto scrivere nientemeno che un’opera! Mica però un’opera seria, ché queste oggi non si usano più, né si ap-
prezzano; bensi un’opera buffa. Ma non una piccolina [e qui sembra che Leopoldo volesse alludere ai ben noti e popolarissimi intermezzi comici, ch’erano in circolazione da tanto tempo], bensf una che duri le sue bra-
ve due ore e mezzo o anche tre. Del resto per le opere serie qui non ci sarebbero nemmeno i cantanti; persino l’A/ceste di Gluck, ch’è un’opera triste [trauerige opera], l’han dovuta far eseguire da puri cantanti d’opera buffa. [...] Mentre per le opere buffe ci sono qui dei soggetti primari: il Sig. Garibaldi, il Sig. Carattoli, Sig. Poggi, Sig. Laschi5 Sig. Pollini, la Sig.ra Bernasconi, Sig.ra Eberhardi, Sig.ra Baglioni. Che ne pensa Lei: la fama d’aver scritto pel teatro di Vienna non è forse il miglior modo di ottenere non solo l'approvazione dei tedeschi ma anche quella degli ita-
liani?
Lasciamo questa domanda del sempre speranzoso Leopoldo senza risposta, ad echeggiare attraverso i secoli sopra un accordo di dominante. Tanto, l’esito di quest’ennesima sua speculazione è anche troppo noto: La finta serplice, d’ignoto autore (il Coltellini la dava per sua, ma venne accolta in fin di secolo fra i drammi giocosi di Goldoni e del resto era già stata musicata senza successo due anni prima a Venezia
da un certo Perillo), La finta semplice venne tenuta a battesimo non a Vienna bensi a Salisburgo e un anno dopo, da cantanti che si chiamarono Meissner Braunhofer Hornung e
1 Mozart, Briefe und Aufzeichnungen, a cura di W.A. Bauer e O.E. Deutsch, 7 voll., Kassel, 1962-75, vol. I, p. 258. Lettera terminata il 3 febbraio 1768.
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cosî via. Altro che Poggi Laschi Baglioni Carattoli! Ma non è per dir di Mozart che vi ho letto quel passo. Invece l’ho scelto perché è una delle pit eloquenti fra le tante testimonianze dell’epoca, tutte un po’ tardive, del trionfo dell’opera buffa nell'Europa del secondo Settecento: come pure della promozione ad una certa dignità dei suoi migliori cantanti, i quali tuttavia non arriveranno mai a rivaleggiare con le stelle dell’opera seria, né in prestigio, né (ch’è la stessa cosa) per quanto concerne la paga. Serve pure a completare, questo passo di Leopold Mozart, e a correggere un’altra valida testimonianza, anch’essa del ’68 e anch’essa di un acuto osservatore tedesco, il compositore e critico Johann Adam Hiller: Ognuno sa che oggigiorno [l’opera buffa] rappresenta il gusto dominante, almeno in Italia. [...] Per non aver l’aria di essersi dimenticati del
tutto dell’opera seria, gli italiani odierni usano inserire nelle loro opere buffe un paio di parti serie [qui anche Hiller avrà pensato agli intermezzi, poiché le parti serie nelle opere buffe erano esistite da sempre], e queste ci farebbero sbadigliare quanto le altre ci han fatto ridere se non cantassero un po’ meglio. I cantanti d’opera buffa son per lo più mediocri o addirittura cattivi, e se in Italia le cose vanno avanti di questo passo sarà segno che i cantanti buoni non ci son più in abbondanza o che fra poco scarseggeranno. L’opera buffa non è dunque la miglior scuola di canto; in compenso lo è diventata, e di lunga, per i nostri odierni compositori. Infatti le sinfonie, i concerti, i trii, le sonate, tutto oggidi prende in prestito qualche cosa del suo stile; né vi sarebbe motivo di lagnarsene, se soltanto fosse sempre possibile di evitare le volgarità e il
cattivo gusto 2.
Hiller scriveva da Lipsia, che proprio allora, e per merito suo, era diventata la sorgente di un nuovo genere teatrale, il Singspiel. Poche e povere saranno state le esecuzioni d’opera buffa da quelle parti, specie se confrontate con quelle serie della corte di Dresda; mentre alla corte viennese, come abbiamo già visto, le cose andavano diversamente. Sicché le sue osservazioni sui cantanti vanno prese con un grano di sale. Non cosf per contro l’astutissimo commento
2 Wochentliche Nachrichten und Anmerkungen, die Musik betretfend, HE 8 (22 agosto 1768), p. 62.
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Il caso dell’opera buffa
sull’influenza dello stile buffo sulle nascenti forme strumentali dell’epoca che verrà denominata «classica». Ed è questo ancora un indizio del ruolo dominante dell’opera buffa nella formazione del nuovo gusto. Come e quando era assurta l’opera buffa italiana ad una posizione tanto eminente? E quali erano state le tappe della sua ascesa? Retrocediamo di qualche anno. Nel 1756, in una lettera che è diventata famosa, un viaggiatore francese, certo Josse de Villeneuve, stimava che durante il carnevale
in tutta la penisola si allestissero pi di cinquanta opere: «et plus de cent si vous y comprenez les Burlette, ou opéras-
comiques»?. Secondo il suo calcolo, dunque, l’opera buffa, in fatto di popolarità, avrebbe già raggiunto quella seria nel °56. Ma prendiamo un’altra misura. Nelle città dove le opere si davano una per volta e non tutti gli anni, la scelta, generalmente fatta da una commissione di nobili o patrizi, doveva evidentemente tentare di riflettere l’ultima moda. Ebbene, da non molto è stata pubblicata un’ottima cronistoria dell’opera a Perugia nel ’700; non completa, dato che si attiene strettamente ai documenti reperibili, ma ciò nondimeno rappresentativa‘. Ecco cosa vi si dava, al teatro del Pavone, verso la metà del secolo: nel ’38 Ciro riconosciuto e Olimpiade, nel °43 Astianatte, nel ’46 Adriano în Siria, nel
°49 Ezio, nel ’51 Vologeso, nel ’52 I/ baron Zuffre. Orbene, non occorre aver studiato musicologia per accorgersi che qui, ad un tratto, siamo piombati dal rango di re e imperatori a quello modesto di barone. Si tratta infatti, sotto nuova veste, d’una delle primissime opere buffe a godere d’un successo nazionale e internazionale: si tratta cioè de La /ibertà nociva, che aveva visto la luce al Teatro Valle di Roma
nel carnevale del 1740, musicata da Rinaldo di Capua (sul problema del poeta ritornerò pi tardi), e che portò già in quell'occasione il profetico sottotitolo (adottato più tardi da tanti libretti buffi) di «dramma giocoso». Di chi fosse la 3 Cit. in H. Bédarida, L’Opera italien jugé par un amateur francais en 1756, in
Mélanges de musicologie offerts àM. Lionel de la Laurencie, Parigi, 1933, p. 190. 4 B. Brumana e M. Pascale, I/ teatro musicale a Perugia nel Settecento: una cronologia dei libretti, in «Esercizi», VI (1983), pp. 71-134.
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musica nel ’52, a Perugia, non ci è dato di sapere, anche se il libretto continua a dichiararne Rinaldo il compositore. Constatiamo intanto che dopo una breve ricaduta (nel ’53 Sesostri re d'Egitto) i perugini si godettero senz’altre interruzioni per i prossimi dieci anni I/ mondo della luna, Le nozze di Dorina, La buona figliuola e Il signor dottore, tutti drammi giocosi goldoniani, e anche questo è un indizio significativo. Gli anni cinquanta son dunque quelli del trionfo dell’opera buffa in Italia; e gli anni sessanta, grosso mz0do,
quelli del suo trionfo all’estero. Volendo ora passar lo spartiacque del 1750 per veder com'era fatto l’altro versante del monte, quello dell’ascesa al potere dell’opera buffa, subito le cose si aggrovigliano; ed è questo, manco a .dirlo, il tema che mi sono proposto io di trattar qui, oggi. Occuparsi di quel lato della storia dell’opera buffa vuol dire ancora sempre svolgere lavoro da pioniere ed esporre i propri risultati ad ogni sorta di messe a punto e correzioni se non addirittura di smentite. Segnaliamo in partenza quella ch'è senz'altro la più grossa lacuna nel materiale disponibile per tale lavoro: l’assenza d’una cronistoria del Teatro Valle di Roma negli anni ’30, che sono quelli cruciali per la diffusione dell’opera buffa. E un vuoto che bisognerà assolutamente colmare prima di poter stendere un resoconto definitivo del fenomeno, che intanto dovrà basarsi, per questo verso, su congetture più o meno
fondate. Prima del 1730, come tutti sanno, l’opera buffa fiorisce a Napoli. Lî, da una ventina d’anni, si è andata accumulan-
do una fitta esperienza teatrale alla quale si sono associati, specialmente a cominciare dagli anni ’20, dei compositori di primissimo rango. I «teatrini», cioè quello dei Fiorentini, quello Nuovo e quello della Pace, hanno tanto da fare che attirano già presto cantanti dall’al di là dei confini del Regno. -Taluni, per esempio Domenico Francescone alias lo Lucchesino, arrivano e poi scompaiono. Altri invece vengono, e continueranno a venire anche in seguito, per fare il loro tirocinio nelle opere buffe napoletane e poi dedicarsi invece alle opere serie: e saranno le sorelle Aschieri oppure la Maddalena Gerardini, romane; o anche un musico come il
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Il caso dell’opera buffa
Manzuoli, fiorentino, che però aveva già debuttato in pa-
tria nelle parti di garzoncello e ora proprio a Napoli compirà l’ascesa dall’opera buffa a quella seria. Pochi, anzi pochissimi, per contro i cantanti buffi, tanto forestieri che indigeni, che da Napoli si sposteranno verso il nord col dif-
fondersi dell’opera buffa. Gigacchino Corrado, il dio dei cantanti buffi a Napoli (che del resto è bolognese di nascita), compare una sola stagione a Venezia, nel ’24-’25 al S.
Cassiano, per far degli intermezzi, tra l’altro quelli della Didone, ruolo sostenuto anche qui dalla Bulgarelli. Poi non si farà più vedere al nord di Napoli. Gli altri casi si contano sulle dita. Anna Isola, genovese, fa il garzone Taccolino, bergamasco, ne Lo cicisbeo coffeato (Ruberto-Mariani) ai Fiorentini nell’autunno del ’28 e in seguito si farà sentire con il Gaggiotti negli intermezzi allestiti dalla compagnia Mingotti in Germania.
Nel ’44-’45 parteciperà ai primi
trionfi dell’opera buffa al S. Cassiano di Venezia, in una compagnia di primissima forza; e sarà l’unica fra tutti che avrà mai cantato a Napoli! Cosî pure la Elisabetta Ronchetti, bolognese, nella stagione seguente, al medesimo teatro: sarà anch’essa l’unica di quella compagnia ad aver avuto una breve esperienza napoletana; del resto, entrerà presto nell’altro campo, quello cioè dell’opera seria. Siamo agli sgoccioli. Ancora due soli casi, uno brillante ma di nessuna conseguenza per la storia della diffusione dell’opera buffa; l’altro quanto mai misterioso, ma forse di una certa importanza. Il caso «brillante» è quello di Girolamo Piani, virtuoso della Real Cappella di Napoli dal 1729 in poi, basso buffo principale ai Fiorentini e, dopo, accanto al Corrado, al Nuovo. Nella stagione ’50-’51 farà uno strappo alle sue abitudini e andrà a Venezia, anche lui al S. Cassiano; e Goldoni, con Galuppi, gli scriverà I/ mondo alla roversa e, con Cocchi, La mascherata e Le donne vendicate. Ma sarà anche tutto, e Piani se ne andrà a casa per mai pi tornare.
Il caso «misterioso» è questo: durante il carnevale del 1729 arriva a Roma una compagnia completa di napoletani addetti al teatro dei Fiorentini: vi son compresi il poeta, il compositore e la maggior parte dei cantanti. Il poeta, Ber245
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nardo Saddumene, è uno dei «grandi» dell’opera buffa; il compositore, Giovanni Fischetti, uno dei piccoli. I cantanti son quel che sono, ma vi si nota fra gli altri Simone de Falco che recita in napoletano e risale ai buoni vecchi tempi, esperto nelle parti di vecchia, che, com'è noto, richiedevan
la voce di tenore. E fra le reclute romane c’è da notare un giovane tenore, Francesco Tolve, che farà carriera nelle opere serie. La compagnia si esibisce al Capranica, caso as-
solutamente unico negli annali di quel teatro, che di lf a poco ospiterà due nuovi divi, Farinelli e Metastasio, e non si
abbasserà più a simili inezie fino alla metà del secolo, quando anch'esso si arrenderà alla nuova moda delle opere buffe. Scrive Saddumene nella Prefazione de La Costanza, la
prima delle due «tommedie per musica» che presenta ai romani (l’altra s'intitola La somziglianza): Eccoti ò Leggitore una Commedia Civile Drammatica, secondo lo Stile di quelle del Celebre Moneglia: Ma tu vedi, che rappresentar si deve in una Città, ove più, che in ogn’altro luogo, il più sano discernimento delle cose si ammira; onde conviene, ch’io teco mi protesti, che non pretendo da te esigger quelle lodi, e quelle ammirazioni per essa, che alle Traggedie, è Drammi Eroici convengonsi; peroché il mio oggetto, e mira in questa si fatta sorte di Sceneggiare, non fi, che solo il divertir per poche ore la tua mente dalle domestiche cure, colla piacevolezza di alcuni lepidi avvenimenti, che a guisa di Controscene, il viluppo d’una ben rappresentata Favola circondano: Se mai con ciò avverrà, ch’io sodisfi al tuo genio, sarà mia somma ventura; ma se per mia disgrazia, non mi riuscisse, e ti fossero tediose le mie fatiche, impiegate con tutto lo spirito a ben servirti, io ti supplico a compatirmi, sul riflesso, che a me non è ancor ben noto il costume di un Paese, che per esser formato di tanta varietà di Nazioni, difficil cosa è il compiacere a tutti, e vivi contento?.
Secondo me questa è l’opera buffa napoletana che per la prima volta fa capolino fuori di Napoli. E (come il Prologo dei Pagliacci) chiede: «Si può?». Con quanta accortezza e quanta astuzia Saddumene evoca l’illustre precedente del Moniglia! Rimontiamo di un’altra settantina d’anni (ma che sia destino di questa mia
© La Costanza, Commedia per musica, Roma, Girolamo Mainardi, 1729, p. 5.
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Il caso dell’opera buffa
relazione di muoversi alla rovescia?): siamo nella Firenze
del granduca Ferdinando II. Ed ecco Giovann’Andrea Moniglia, tessitore di spettacolosi divertimenti di corte ed accademici. Tesse drammi musicali, civili rusticali, civili, civili musicali e, meticoloso cruscante, vi appende delle lunghe noiose «Dichiarazioni» dei «Proverbi, e Vocaboli mal proferiti, e stroppiati da i Contadini de i Villaggi intorno Firenze» da lui posti in bocca a quei personaggi appunto perché «l’osservare il Costume del Personaggio che si introduce tanto nel parlare, che nell’operazioni è il maggior obbligo che sia imposto dalle buone regole della Poetica a quei tali che di ben comporre s’industriano, onde loro la più difficile fatica risulta». E si dichiara seguace non dell'Antica Commedia, né, fra le Nuove, di quella licenziosa di Plauto; ben-
sf favoreggia «la gentil Purità, ed espression del Costume di Terenzio»6.Altrettanto ligio a Terenzio si dichiara il poeta del Trespolo tutore di Stradella, Giovan Cosimo Villifranchi, che con Moniglia tien fornito il teatro di Pratolino di divertimenti musicali. Infatti, L’Ipocondriaco, ch’è del 1695, l'avrebbe volentieri intitolato Heautontimorumenos,
«per fare a Terenzio quel ch’egli fece a Menandro, togliendoli [sic] il titolo senza toccargli il suggetto». E aggiunge: «Sarò tacciato, perché essendomi commesso un Drama giocoso, io l’abbia fondato su l’Ipocondria»?. (E, aggiungo io,
vogliate notare quell’uso secentesco del termine «dramma giocoso»: conosco un articolo americano che considera tale
termine coniatura di Goldoni e ne spiega tutta l’importanza; e un altro che lo attribuisce a Da Ponte, che l’avrebbe confezionato apposta per il Don Giovanni. Mi astengo da citazioni.)
Orbene, fra questi lontani, eruditi seguaci di Terenzio e
quella buona pasta d’uomo ch’era Bernardo Saddumene, poeta istintivo, brioso e librettista per giunta del primo capolavoro di Vinci arrivato fino a noi in forma pressoché completa, cioè de Li zite ngalera che sono del ’22, ci sta un 6 Delle poesie drammatiche di Giovann’Andrea Moniglia Accademico della Crusca parte prima, Firenze, Vincenzio Vangelisti, 1689, pp. x-X1. ? L’Ipocondriaco drama per musica rappresentato nella villa di Pratolino, Firen-
ze, Gio: Filippo Cecchi, 1695, «L'Autore a chi legge».
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mare, che dico, un oceano di differenza. Ma allora com’ha fatto, Saddumene, a Roma, a comporre una «Commedia
Civile Drammatica, secondo lo Stile di quelle del Celebre Moneglia»? Molto semplice: ha rimesso in piedi, raffazzonando un po’, Li zite ngalera! I personaggi li ha suddivisi in parti toscane e parti napoletane; ha cambiato qualche nome — non tutti: il Capitano si chiama ancora sempre Federico, e Ciccariello e Rapisto sono quelli di prima; ma Belluccia è divenuta Costanza, vestita da uomo anche qui, e Ciomma, che adesso si chiama Clarice, se ne innamora un’altra volta,
purtroppo. E ai Fiorentini Ciomma diceva al barbiere del villaggio: Và, dille, ch’è no sgrato... Nèò, no le dî accossi. Sà comme le vuò dî? Mm'ha ditto Ciommettella, Ca tu la faje mori.
E al Capranica invece dice: Va, digli ch'è un ingrato... No, ferma, non partir!
Sai come dei tu dir? Ch’io son troppo infelice, Ei troppo caro.
(La metrica è alquanto diversa, per cui escludo che a Roma sian state usate le note di Vinci.) E Belluccia travestita da
uomo cantava: Sò sciore Senz’addore, Arvolo sicco, asciutto; E Ciomma vò no frutto, Chio no le pozzo dà.
Mentre Costanza cosf si esprime: Son giardiniero, è ver; Ho rose, ed ho viole: Ma il frutto ch’ella vuole Aver da me non può.
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-i
Il caso dell’opera buffa
(Altro che la gentil purità di Terenzio! Specie se si ricorda che, a Roma, le donne non montavano in scena e che quindi la parte di Costanza fu sostenuta da un certo Mattia Mariotti, detto Giannottino.) Meneca, la brutta vecchia de Li zite ngalera, ora si chiama Giulia, ma sbraita come prima —
anzi esattamente come prima, ,dato che il ruolo viene assegnato allo stesso cantante, l’instancabile de Falco. E il Capitano Federico fa anche qui da deus ex machina alla fine e i qui pro quo vengon appianati e tutti si sposano felicemente. Ma dev'essere anche un caso unico, questo, del trasferimento di due opere buffe napoletane8 a Roma assieme a quasi tutto il loro personale. Il procedimento pi comune sarà stato ad un tempo più semplice e più complicato. Più semplice perché chi arriverà da Napoli d’ora in poi sarà solo il compositore, con o senza la partitura d’un’opera buffa; più complicato perché adesso, se c’era una partitura già fatta, bisognava non solo adattare il libretto ma anche la musica ad uso di una compagnia romana; e se non c’era, biso-
gnava crearla di sana pianta. A questo punto ci troviamo nella zona grigia delle congetture. Ci dev’esser stato a Roma, negli anni ’30, un fiorir dell’opera buffa pari a quello di Napoli. Dice Goldoni nei Méwotres: «L’Opéra Comique a eu son principe à Naples et è Rome, mais il n’étoit pas connu en Lombardie, ni dans l’Etat de Venise»?, riferendosi appunto agli anni ’30. Il teatro Valle, a Roma, era stato fondato da Camillo di Giuliano Capranica ed inaugurato il 7 gennaio 1727 con una tragedia di Simone Antonio Pratoli intitolata Matilde. Il repertorio comprenderà altri suoi drammi e commedie in prosa, e accoglierà in seguito pure le burlette, ossia opere buffe !°. Sappiamo che sotto lo pseudonimo di Pratoli si nasconde un frate francescano, certo Co-
simo Antonio Pelli, autore delle seguenti commedie in 3 at-
8 Anche La somiglianza, l’altra opera presentata da Saddumene al Capranica, è rifacimento: si tratta de Lo Sirzzzele, già eseguito al Nuovo di Napoli nell’autunno 1724 con la musica di Antonio Orefice. ? C. Goldoni, Opere complete, a cura di G. Ortolani e altri, vol. XXXVI, Venezia, 1936, p. 178.
10 Cfr. A. Rava, I teatri di Roma, Roma, 1953, pp. 13-22.
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ti e in prosa: I/ frate onorato (Roma 1728), Il podestà di Malmantile (Lucca 1732), La vedova e La commedia in commedia (ambedue Lucca 1734). Claudio Sartori, nel suo catalo-
go dei libretti d’opera italiani, lo fa anche autore di Madama Ciana, non so in base a quale documentazione; un’opera
scenica di quel titolo si presentò a Roma al teatro della Pace nel carnevale del 1731. Orbene, La commedia in comme-
dia e Madama Ciana, trasformate in libretti giocosi, formeranno con La libertà nociva (anch’essa tradotta da una commedia preesistente) il nucleo romano della prima ondata di
opere buffe che investirà l’Italia settentrionale e poi l’Europa. A queste si aggiungono opere napoletane «italianizzate» probabilmente tutte a Roma, anche se, come nel caso nota-
bile dell’Orazio di Auletta e Palomba, le prove, cioè i libretti, non si son sempre rinvenute. Fra quelli rinvenuti invece spicca La finta cameriera, rifacimento romano del Gismondo
di Gaetano Latilla e Gennarantonio Federico, presentato ai Fiorentini nell’estate del ’37 e poi, sotto la nuova veste, al
Valle nella primavera del ’38. E un caso paradigmatico, quello della Finta cameriera, e ne farò largo uso fra breve. Ma prima di procedere occorre segnalare alcuni punti oscuri, tuttora trascurati e non ancora chiariti. Il primo è quello dell’identità del poeta o dei poeti addetti al Valle, responsabili dell'adattamento delle commedie in prosa e dei libretti napoletani. Secondo quasi tutti i testi moderni, questa funzione sarebbe stata svolta da un Giovanni Gualberto Barlocci, che con ciò risulterebbe esser stato il librettista di
press’a poco tutta quella prima ondata di opere buffe. Sennonché mancano le prove. I libretti originali non portano alcun nome
d’autore. Qualche attribuzione al Barlocci si
trova nei cataloghi di Allacci e Groppo, che tuttavia non vanno d’accordo sulle opere da attribuirgli; il resto delle attribuzioni è d’origine novecentesca.
Un'altra questione, più importante, nasce dalla constatazione che i cantanti che accompagneranno le nuove opere buffe nel nord dell’Italia non solo non saranno napoletani ma non saranno neppure (con una notevole eccezione) quelli romani del Valle. Troveremo soprattutto dei toscani e degli emiliani, mentre i compositori (nota bene!) continueran250
Il caso dell’opera buffa
no ad essere napoletani. Ora, come ci si spiega la presenza al nord di compagnie bell’e pronte a ricevere e a diffondere le opere buffe provenienti da Napoli e Roma? In parte (e questo, comunque, ce lo saremmo potuto immaginare) si tratterà di buffi, bassi e soprani agguerriti, da tempo protagonisti d’intermezzi comici (e che riprenderanno spesso, anche più tardi, il loro vecchio mestiere quando se ne presenterà l’OCCASIONE). Ma non è tutto qui. A Firenze, a partire dal 1717, ebbe inizio, con musiche non si sa di chi, un revival dei drammi rusticali civili di
Moniglia e Villifranchi al teatro di via del Cocomero !!. Ebbene, lf nel 1730 fra i cantanti dello Speziale in villa del Villifranchi troviamo per la prima volta Pietro Pertici in un ruolo buffo (cinque anni prima aveva sostenuto una parte secondaria nel Lucio Papirio alla Pergola). Si tratterà di uno.
dei più importanti propagatori della nuova opera buffa. L’anno seguente canta nella Serva nobile del Moniglia. E da quello stesso anno in poi, sempre al Cocomero, interverrà in una curiosa serie di opere buffe vere e proprie (cioè non rusticali arcaiche, ma «moderne») musicate e probabilmente
allestite da Giovanni Chinzer, l’enigmatico «Maestro di Cappella Fiorentino, Professore di tromba, privilegiato da S.M. Cesarea e da tutto il Sacro Romano Impero». E il bello è che fra queste opere del ben poco eminente professore di tromba noi troviamo la prima edizione che si conosca di quel perfettissimo libretto buffo della nouvelle vague che è La commedia in'commedia — ben sette anni prima della versione che, musicata da Rinaldo e andata in scena al tea-
tro Valle, conquisterà tanti teatri del nord. Ecco dunque un altro mistero. Che nesso c’era fra la prassi romana e quella fiorentina nel campo dell’opera buffa? Tra Firenze e Bologna almeno sappiamo ch’esistevano antichi legami per quanto concerneva il repertorio «rusticale». Non che Bologna fosse rimasta solamente passiva, in
11 Le notizie sul repertorio fiorentino che qui seguono son desunte da R.L. Weaver e N.W. Weaver, A Chronology of Music in the Florentine Theater, 1590-1750, Detroit, 1978.
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"a
fatto di scherzi musicali. Semmai già nel Seicento sì profila» va lf uno sviluppo dell’opera buffa dialettale più simile a quello che si attuò poi a Napoli che non a quello, erudito ed ufficiale, del dramma rusticale fiorentino. Basta però scor rere il bel libro di Corrado Ricci su I teatri dî Bologna per rendersi conto dei guai in cui incorsero gli allestitori dì tali «scherzi giocosi». Col Padre Inquisitore infatti non sì scher. zava, anche se nel 1696 «quello promise che la sera seguente si ripigliasse la recita [appena sospesa de G/'inganni amo. rosi scoperti în villa dell’Aldrovandini al teatro Formagliari], risecate alcune parole, che havevano doppio senso». (Ma | proprio G/’inganni amorosi godettero, come ì drammi rusti» cali a Firenze, di una riviviscenza periodica: e fino al ‘47, quando già l’opera buffa alla moderna triontava sulle scene! Si vede che per i bolognesi Gl'inganni avevan acquistato il carattere inviolabile di un monumento patrio.) Pure a Bologna fiorf, solo soletto, quell'altro propugnatore di «diverti menti per musica», Giuseppe Maria Buini. Devo menzio» narli più o meno tutti, questi casi, per quanto isolatì essì siano, perché la nuova opera buffa, una volta iniziato il suo cammino, accoglierà di tutto fra quanto andrà trovando via via sulla sua strada. E le opere fiorentine e bolognesi saran» no affluenti, non meno degli intermezzi, del grande fiume
dell’opera buffa nazionale. Passando ora a quello che più propriamente, dato ìl titolo di questa relazione, ne dovrebbe essere il tema principale, cioè alla diffusione di questo nuovo repertorio dall'Italia meridionale e centrale verso il nord, le difficoltà sì dileguano come per incanto, grazie ai ben noti sussidi bibliografici disponibili (Sartori, Wiel, Weaver, Ricci, Gandinì ecc.) Esiste del resto un famoso studio di Frank Walker dedicato a nient'altro che all’itinerario d’una sola opera buffa, il sopraccitato Orazio di Auletta e Palomba !*. Veramente il sot12 C. Ricci, I teatri dî Bologna nei secolì XVII e XVII, Bologna, 1888, p. 377, 13 T. Wiel, I teatri musicali veneziani del Settecento, Venezia, 1897; A. Gandìni, Cronistoria dei teatrî di Modena dal 1539 al 1871, Modena, 1873, 3 voll. è vedi le due note precedenti. 14 F, Walker, Orazio: The History of a Pasticcio, în «The Musical Quarter
ly», XXXVIII (1952), pp. 369-383. 252
Il caso dell’opera buffa
totitolo, «The History of a Pasticcio», rivela un altro scopo,
quello cioè di dimostrare come, man mano che l’opera passò di città in città e di teatro in teatro, essa mutò
d’aspetto a tal segno che finf col diventare un’altra cosa, cioè un pasticcio. E qui, semmai, vi è un difettuccio, in un lavoro che peraltro è accuratissimo e anche spiritoso. Il difetto, secondo me, sta nella conclusione, dove Walker di-
chiara che «the truth seems to be» che queste prime opere buffe eran segnatamente esposte a tali interventi. A me sembra invece che avrebbe potuto generalizzare più arditamente e dire senz'altro che l’«impasticciamento» era la condizione normale e naturale di tutte le opere, buffe e serie, una volta superate felicemente le prime recite (o anche solo la prima recita). Opere «d’autore» non se ne conoscevano, o se si conoscevano eran quelle di Lully in Francia, incise in rame. Ma torniamo all’Orazio e seguiamo i suoi viaggi con l’aiuto di Walker, Sartori e altri. Dopo la prima al Teatro Nuovo di Napoli nel carnevale del ’37 ci dev’esser stata la solita trasformazione al Valle di Roma; soltanto (come ho già notato), un libretto, una prova, non c’è. L’Orazio ri-
compare invece al Cocomero di Firenze nel ’40 e poi di nuovo
nel ’42. Nell’autunno del ’43 è a Venezia, al S.
Moisè, nel carnevale seguente al Falcone di Genova. Intanto da Venezia parte per i paesi di lingua tedesca con la compagnia Mingotti: nel ‘45 infatti lo troviamo a Graz Lipsia Amburgo. Nell’estate del ’46 compare al Regio Ducale di Milano e Walker ci informa che a questo punto solo undici dei trentaquattro pezzi di Auletta sono rimasti nel libretto. Nel ’47 l’Orazio è al Formagliari di Bologna, e l’anno seguente qui, a Reggio, al Teatro del Pubblico. E nello stesso 1748 l’opera vien data al teatro di S.M. Britannica a Londra, come pure a Vienna e Copenhagen. Nel ’49 arriva (assai malconcio) al Real Ducale di Parma e al Teatro del Sole a Pesaro. Nel ’49 è pure a Bruxelles e non sorprenderebbe affatto di apprendere che lf fu messo in scena dall’impresario Eustachio Bambini (è un’indagine da farsi), poiché nella non troppo lontana Strasburgo, in quello stesso anno, il Bambini inscena La libertà nociva con dei cantanti che fra poco diventeranno assai famosi con il nome di Bouffons. E 253
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infatti tre anni dopo, e precisamente il 19 settembre 1752, la compagnia Bambini mette in scena all'Opéra di Parigi l’Orazio, ridotto ad intermezzo, per non dire in frantumi, col titolo di I/ maestro di musica. E chi volesse scorrere la partitura di quest’ultima incarnazione dell’Orazio non avrebbe che da stendere il braccio, per cosî dire, poiché si trova in tutte le biblioteche musicali, fra gli opera omnia di Pergolesi editi a Roma nel 1940-42 dagli Amici della Musica da Camera. I tanto celebri Bouffons non lo erano invece affatto, in
Italia, né prima né dopo la spettacolosa Querelle (sulla quale fra parentesi vorrei ma non devo dilungarmi perché non fa parte del mio tema e poi il tempo stringe). E chi allora furonoi celebri cantanti i cui nomi si possono associare alla diffusione delle prime opere buffe entro il Paese? Un nome l’ho già fatto, quello di Pietro Pertici, fiorentino, che con la moglie Caterina Brogi cantò anche negli intermezzi al S. Angelo di Venezia nel ’41 e ’42, prima ancora dell’arrivo sulla laguna dell’opera buffa propriamente detta. Lo ritroveremo in tutti i ruoli principali delle opere buffe, a Firenze, Venezia e altrove, e anche all’estero, persino a Londra.
Però spetta a un altro basso buffo l’onore di esser considerato il Gioacchino Corrado del nord, colui cioè
che vera-
mente creò tutti i primi ruoli. E quest'altro fu Francesco Baglioni, la notevole eccezione a cui alludevo quando spiegavo che i cantanti del Valle non furono quelli che accompagnarono le nuove opere sulla via del trionfo. Veramente la piazza di Firenze la trovò già occupata, non solo da Pertici ma poi anche da un altro famosissimo buffo fiorentino, Filippo Laschi (e forse vi ricorderete che Leopold Mozart lo menzionò nella sua lettera), sicché Baglioni a Firenze non
risulta che abbia mai cantato. Ma ora che ho citato questi tre nomi permettetemi di tracciare l’itinerario d’un’altra opera, La finta cameriera, per illustrare il rapporto cantanti /opera buffa negli anni cruciali prima dello spartiacque del 1750. La finta cameriera nasce a Napoli col nome de I/ Gismondo nel ’37. La parte di Don Vincenzone, scimunito,
maleducato promesso sposo della graziosa e sfortunata Or254
Il caso dell’opera buffa
solina (che invece ama Gismondo), viene creata dall’a noi già noto Girolamo Piani, Virtuoso della Real Cappella. A
Roma pochi mesi dopo Don Vincenzone diventa (e resterà per sempre) Don Calascione, ruolo sostenuto da Francesco Baglioni al Teatro Valle. Orsolina d’ora innanzi si chiamerà Erosmina, suo padre (altro scimunito) resterà Pancrazio come prima, mentre Gismondo, ch'è poi la finta cameriera (ruolo di soprano: a Napoli donna, a Roma evirato), si chiamerà Giocondo. Ecco adesso le prime tappe dell’opera cosf trasformata. Faenza, fiera di san Pietro, 1741: il Don Calascione è Francesco Baglioni. Modena, Teatro Rangone, stesso anno, primavera: il Don Calascione è sempre Baglioni, mentre gli altri cantanti son tutti nuovi. Ma attenti a Filindo, fratello di Calascione: la parte è sostenuta da Anna Querzoli, fiorentina, che entro due anni avrà sposato Filippo Laschi. Queste parentele fan parte della storia dell’opera buffa (nel mondo dell’opera seria viceversa i primi uomini per definizione non si sposano mai). Firenze, Teatro Colet-
ti, primavera del ’42: mancano i nomi dei cantanti e non si capisce troppo chi vi partecipa (al Cocomero ci son le opere serie); peccato: è la prima opera buffa romano-napoletana ad arrivare a Firenze. A Siena intanto La finta cameriera
l'hanno già data, portata lf (in via del tutto eccezionale) da un altro buffo del Valle, certo Cesare Fratesanti, che ripete la parte di Pancrazio da lui creata quattro anni prima. Chi cantasse nell’esecuzione al S. Agostino di Genova in quella stessa stagione non mi risulta. Al Formagliari a Bologna, invece, nel carnevale seguente ritroviamo Baglioni e a lui si accompagnano nomi che ormai si troveranno sul cartellone dei migliori teatri: Eugenia Mellini bolognese, Costanza Rossignoli romana, con la quale Baglioni canta anche negli intermezzi e che poi sposerà il grande Carattoli (vedi la lettera di Leopold Mozart), Giuseppe Ristorini bolognese, Gaspera Becheroni fiorentina, che canterà anche lei col Gaggiotti negli intermezzi in Germania, Maria Angiola Paganini fiorentina che creerà le prime opere buffe di Goldoni a Venezia. Nella primavera del ’43, ecco La finta cameriera a Livorno e contemporaneamente, per la Sensa, al S. Angelo di Venezia (ed è la prima delle nuove opere buffe ad arriva255
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re sulla laguna). A Venezia ritroviamo Baglioni con Ristorini e la Rossignoli. A Livorno invece chi fa il Don Calascione è Pietro Pertici; sua moglie fa la servetta e Maria Angiola Paganini (il gliuommero qui si sta complicando) è la finta cameriera. Baglioni torna a far il Don Calascione a Vicenza nello stesso anno, con a fianco la Mellini, la Rossignoli e
Ristorini. Al S. Moisè di Venezia nel carnevale seguente, per contro, è Filippo Laschi a sostener la parte, con sua moglie Anna Querzoli nel ruolo di Erosmina e Maria Angiola Paganini di nuovo in quello della finta cameriera. Son già due i teatri veneziani che hanno allestito l’opera, entro pochi mesi. Il teatro Tron di S. Cassiano non se la dà per vinta; nel carnevale del ’45 riunisce una compagnia imbattibile e diventa il terzo teatro a presentare la fortunata opera. E con chi? Con Eugenia Mellini, Anna Querzoli, Anna Isola,
Pietro Pertici, Filippo Laschi, Francesco Baglioni. E la nazionale dell’opera buffa, sono tutti lf! Ma poi si separeranno e ricombineranno e moltiplicheranno; e continueranno a viaggiare di città in città, con La finta cameriera, La libertà nociva, Madama Ciana, La commedia in commedia, Il marchese Sgrana, L’Orazio, La finta Frascatana, L’Origille, La
maestra, soddisfacendo alla sempre crescente richiesta del pubblico e dei teatri italiani e dell’estero. E canteranno le musiche di Latilla Rinaldo Leo Auletta Palella Cocchi, na-
poletani tutti; ma presto vi si aggiungeranno quelle di Galuppi Scolari Bertoni e si arriverà al 1750 e non vi saranno più misteri da chiarire nella storia dell’opera buffa, divenuta davvero nazionale in tutti i sensi della parola. Povero Hiller, che non senti mai cantare quelle nuove stelle! E povero piccolo Wolfgang Amadé, che tanto si affaticò, e invano, per far eseguire la sua Finta semplice da La-
schi Carattoli e la Baglioni (una delle sei figlie di Francesco). Fortuna, però, che quei grandi buffi si sposarono e misero su famiglia. E fu cosf che la figlia di Laschi poté creare la Contessa nelle Nozze di Figaro e il figlio di Baglioni Don Ottavio nel Don Giovanni. Sicché, dato che qui si è trattato di opere buffe, ecco il lieto fine.
256
PAOLO
FABBRI
Struttura del repertorio operistico reggiano nel Settecento I. Dalla fine del Seicento al 1760 FT)
Il radicarsi del teatro musicale a Reggio aveva conosciuto nel Seicento tre fasi organizzative sufficientemente distinte!. In un primo tempo — a ridosso della metà del secolo — singole iniziative private impresariali o di compagnie itineranti fanno approdare in città saltuariamente tanto partiture romane dell’epoca barberiniana, quanto recenti successi dei teatri pubblici veneziani. Poi — negli anni ’60 inoltrati, fino al 1674 — è soprattutto l’oligarchia municipale a farsi promotrice di spettacoli consumati in proprio in una sala teatrale che la documentazione iconografica superstite suggerisce di considerare preclusa all’accesso autenticamente pubblico, priva com'era di posti disponibili alla libera vendita serale: tutti erano invece di proprietà dell’aristocrazia locale che occupava cosi indifferentemente platea e palchi, costituendo
un uditorio omogeneo
e selezionato,
analogo a quelli di corte o di ambienti accademici. A Reggio però si verifica una particolarità assai significativa: la sala teatrale e la sua attività spettacolare non sono infatti espressione di un sodalizio intellettuale, né risultano promosse dalla corte modenese che, sotto la reggenza della vedova di Alfonso IV, Laura Martinozzi (1662-1674), conobbe un fervore di pratiche devozionali piuttosto che di ini1 Per questa delineazione delle vicende teatrali reggiane sia consentito rinviare a P. Fabbri, I/ municipio e la corte: il teatro per musica tra Reggio e Modena nel secondo Seicento, in Alessandro Stradella e Modena, a cura di C. Gianturco, Modena, Teatro Comunale, 1985, pp. 160-184, e naturalmente ai contributi ivi utiliz-
zati, primi fra tutti i seguenti: L. Bianconi - Th. Walker, Dalla «Finta pazza» alla «Veremonda»: storie di Febiarmonici, in «Rivista italiana di musicologia», X (1975), pp. 379-454 (specie le pp. 401 e 405); L. Bianconi - Th. Walker, Production, Consumption and Political Function of Seventeenth-Century Opera, in «Early Music History», IV (1984), pp. 209-296 (specie le pp. 228-234 e 274-285); A. Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVII, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, vol. I, Firenze, Sansoni, 1980, pp. 297-133.
257
P. Fabbri
ziative teatrali. Tra Reggio e Modena dunque per il momento non intercorre lo stesso rapporto che s’instaura tra Parma e Piacenza, città che si avvicendavano nel ruolo di
sede della corte. Per questo la concomitanza tra l’apertura del teatro e lo svolgimento della fiera commerciale (un binomio sistematico a partire dal 1674, e prima solo sporadico, ma comunque precedente ogni altro simile abbinamento, nel panorama del teatro musicale italiano finora noto) può spiegarsi in questa fase forse più che altro in termini di rappresentanza, di lustro supplementare a decoro di una manifestazione il cui carattere economico e municipale è di segno assai diverso dalle solennità e dalle ricorrenze dinastiche ed accademiche abitualmente mòtivanti le manifestazioni teatrali di corte o collettive. Piuttosto che a Modena o alla limitrofa corte farnesiana, per organizzare i propri spettacoli l'aristocrazia reggiana
si rivolge autonomamente ai prodotti di area veneziana e dei suoi teatri pubblici. Da qui provengono le partiture messe in scena (di Cavalli e Cesti), di consolidato ed ubiquo successo come quelle del Giasone e della Dori, ma anche recenti come l’Argia ripresa a Venezia nel 1669 ed a Reggio nel 16712. In qualche caso il tramite fra Venezia e Reggio poté essere costituito dall'ambiente bolognese, che in anti-
cipo su quest’ultimo presentò ad esempio I/ Giasore (1651) e La Dori (1667: a Reggio l’anno successivo): da qui era venuta inizialmente la compagnia che nel 1648 aveva presentato La finta pazza con lo stesso Francesco Sacrati e forse. Carlo Righenzi ed Isabella Trevisani. Dal 1674 in avanti si registra un radicale mutamento nei rapporti tra la capitale del ducato e Reggio, la cui vita teatrale diventa da allora oggetto d’interessata attenzione da parte di Francesco II, ormai maggiorenne e duca a pieno titolo, e ben presto manifestante «un genio particolare 2 D'ora in avanti, per ogni notizia relativa agli spettacoli reggiani, si rimanda
tacitamente a P. Fabbri - R. Verti, Due secoli di teatro per musica a Reggio Emilia. Repertorio cronologico 1645-1857, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale «R. Valli», 1986.
258
Il repertorio operistico reggiano. I
all’attioni sceniche virtuose et eroiche», come scriveva il primo gennaio 1676 Leone Parisetti?. A partire dal 1674 non c’è stagione reggiana i cui libretti non esibiscano la dedica al sovrano di turno (Francesco II per quelli fino al 1692, Rinaldo I nei successivi dal 1696 in poi), mentre nel 1675 si provvede significativamente a dotare del palco ducale il teatro reggiano, che ne era sprovvisto. S'inizia qui un ciclo che si addentra nel Settecento fin verso gli anni ’30, durante il quale il teatro di Reggio perde d’autonomia per divenire appendice della corte modenese. Non solo il duca presenziava regolarmente alle stagioni allestite in tempo di fiera, ma alcuni degli spettacoli inscenati a Reggio trovavano la loro motivazione anzitutto in particolari occasioni dinastiche: come l’«opera» recitata nel marzo 1684 per il compleanno di Francesco II o le manifestazioni progettate nel carnevale 1696 quale omaggio nuziale alla duchessa Carlotta Felicita da poco moglie di Rinaldo I. Ugualmente, i casi della corte si riflettono in modo diretto sulla vita teatrale reggiana: l'abbandono coatto dello stato da parte di Rinaldo I nel 1702 e per la durata della guerra di successione spagnuola impone una sospensione anche al teatro di Reggio, che riprende le proprie stagioni musicali solo nel 1710; negli anni ’20 il trasferimento in area reggiana del principe ereditario Francesco e di sua moglie Carlotta induce non solo a confermare l’alto livello produttivo del teatro cittadino, ma ad incrementarlo con l’apertura in Cittadella di una sala teatrale di corte (1722) ospitante anche 3 MOas (= Modena, Archivio di stato), Archivio per materie: Spettacoli pubblici (Progetti e spese per teatri e rappresentazioni), fascicolo riferentesi agli anni 1584-1767. Con questa lettera Parisetti offriva al duca «di farle godere ogni anno due o tre drammi musicali a mie proprie spese, mentre S.A. si degnasse honorarmi per ciaschedun drama del regalo ha fatto a suoi sig.ri musici per il Ciro con insieme la spesa fatta in teatro, che è certiss.o ascesa alla somma di più di cento sessanta doppie. Hora, per far conoscere chiaramente a S.A.S. un gran suo vantaggio, m’obligherò di farle rapresentar ogn’anno i sopracennati drami con un regalo di solo cento doppie per ciascun drama, e di fare tutta la spesa che occorrà nel teatro del mio, lasciando sempre il tutto a benefitio d’esso teatro, che con tal modo verrà S.A. a ridur lo stesso suo teatro in istato moderno e perfetto senza altro dispendio, del qual teatro supplica S.A. con ogni dovuto ossequio a concedermene la custodia con quel stipendio e titolo che pit le piacerà, perché con tal impiego levarassi di bocca a gl’Aristarchi ch’io mi sia fatto mercenario».
259
P. Fabbri
rappresentazioni
cantate
(come
L’erigma
disciolto,
dato
nell’autunno 1723 con musiche di Antonio Tonelli e Allegro Allegri)‘ e con l’istituzione al teatro del Pubblico, accanto a quella di fiera, di un’ulteriore stagione in tempo di carnevale (1727 e 1729), nonché col diretto patrocinio di determinate stagioni (1723) e col «prestito» di cantanti al proprio personale servizio (la Sabadini nel 1723 e 1733, la Bulgarelli nel 1726, la Cosmi e Mengoni nel 1727, ancora
Mengoni, la Cotti e Tosi nel 1730, e quest’ultimo di nuovo nel 1733), e soprattutto con l’influenzare culturalmente il tipo di repertorio, come poi si dirà. Il patrocinio ducale significava anzitutto la parziale copertura finanziaria degli allestimenti, che perdevano cosf
quegli originali ‘caratteri prima d’iniziative imprenditoriali private e poi di manifestazioni municipali collettive affini a quelle accademiche, per assumere i connotati di attività in parte sovvenzionata da contributi locali ma soprattutto
dell’autorità centrale dello stato, e in parte finanziata dai proventi tipici della sala pubblica, cioè gli incassi serali derivati dai biglietti venduti, da palchi e sedili affittati, dalle
vendite di libretti e rinfreschi, forse dal giuoco d’azzardo. Contemporaneamente all’affermarsi della tutela ducale è caratteristica di questa fase della storia del teatro reggiano il suo adeguamento alla struttura delle sale pubbliche: il che conferma ulteriormente, in concreto, il ridimensionamento del peso dell’aristocrazia locale, come più tardi — nel nuovo edificio teatrale — l’eliminazione dei blasoni familiari ‘ dai parapetti dei palchi ribadirà. Nelle piante dell’epoca questo fenomeno è documentato dalla perdita di nominatività delle panche di platea, ridotte ad anonimi sedili numerati prima, e poi eliminati del tutto, in modo da dar luogo all’assetto tipico dei teatri a pagamento: giri di palchetti sovrapposti, di proprietà, nei quali se ne sta appartato il pubblico di maggior riguardo (altolocato non solo metaforicamente), ed uno spazio indifferenziato ed anonimo — la pla-
4 REm
(=Reggio
Emilia, Biblioteca municipale «A. Panizzi»), Raccolta
drammatica Curti n. 145/2.
260
Il repertorio operistico reggiano. I
tea — disponibile per gli spettatori estemporanei e di rango inferiore. Ora sf che opera e fiera — difatti adesso sempre abbinate — svolgevano un ruolo di reciproco vantaggio, fungendo da vicendevole allettamento per convogliare in città sempre più forestieri, nella speranza che mercanti ed acquirenti divenissero anche spettatori, e viceversa. L’inopinato ingaggio della celeberrima Margherita Salicola Suini, nel 1697, secondo il governatore di Reggio doveva considerarsi per certo «un bel colpo che può per indubitato credersi che farà cadere a questa fiera con la nobiltà della Lombardia anco quella dell’Adria e di Toscana»5, mentre il 15 maggio 1717 Pier Francesco Mengoni scriveva da Bologna a Pompeo Martirelli di Fano: «L’opera di Reggio ha incontrato a meraviglia, e vi concorre un mondo di forestieri», il 2 giugno aggiungendo che «Reggio ha un concorso che mai più il simile, e faranno un grandissimo guadagno, e benché terminata la fiera, ogni sera fanno ottocento biglietti in circa, cosa che fa stordire». L’ipoteca ducale sulle stagioni reggiane si traduceva anche in ingerenze e condizionamenti: lo si vede ad esempio nell’autorevole consiglio dato nel 1696 direttamente da Rinaldo alla municipalità reggiana che preparava la riapertura della sua sala rinnovata, affinché essa si rimettesse all’esperienza del suo favorito, il marchese Decio Fontanelli che da poco più di un decennio aveva riattivato a Modena il vecchio teatro Valentini”. L’anno successivo era ancora il duca in persona a fare insistenti pressioni sul governatore di Reggio perché nella compagnia di canto da ingaggiare per la fiera fosse inclusa la citata Salicola, a dispetto di tutte le complicazioni anche diplomatiche createsi attorno al suo caso. 5 A. Ademollo, Le cantanti italiane celebri del secolo decimottavo. Margherita Salicola, in «Nuova antologia», CVII (1889), n. 23, pp. 524-553 (specie le pp.
537-539). 6 Fano, Archivio di stato, AAC II 1 (miscellanea), n. 4. Nella seconda lettera, poco prima del passo citato, Mengoni aveva scritto: «il Pesciatino è abile da far da donna, avendo recitato da donna a Roma, e l’estate passata recitò da huomo a Reggio». 7 REas (= Reggio Emilia, Archivio di stato), Archivio comunale: Recapiti alle riformagioni, n. 373 (1696-1697), 63.
8 Vedi nota 5.
261
P. Fabbri
Pit in generale, comunque, protetti della corte modenese o suoi diretti dipendenti figurano numerosi in questo periodo nei cartelloni di Reggio. Il fenomeno è vistoso per i cantanti (come poco pit sotto l’accluso elenco dimostrerà), ma riguarda anche strumentisti («il secondo cembalista Domenico Bratti, il tiorbista Simone Ascani, i due trombetti»? ingaggiati per lo spettacolo del 1683) e coreografi come Le Vesque (dal 1710). CANTANTI
STAGIONI
Antonio Pietro Galli «Cottini» Giovan Francesco Grossi «Siface» Marcantonio Origoni Francesca Sarti Cottini Francesco De Grandis
1681, 1681, 1681, 1683, 1685,
1683, 1692, 1698, 1699 1696 1684 1692 1696; 11698; 16994 1701,
Wa
07151723
Giuseppe Galloni Bartolomeo Monaci «Montalcino»
1687 1687
Francesco Antonio Borosini Giovan Battista Franceschini
1692, 1699, 1701 16M AMO 1713
Giovan Battista Ruberti Margherita Salicola Suini Luigi Albarelli Andrea Franci
169731701, 617101719 1698, 1699, 1701 1697, 1698, 1699, 1700, 1701 1699
Vienna Mellini
7015 171271717
Geminiano Raimondini Francesco Guizzardi Barbara Ricci Diamante Scarabelli Caterina Sabadini
1710 945 dela 1712/13 1723\ 17353
Marianna Benti Bulgarelli
1726
Maria Maddalena Pieri Anna Cosmi Luca Mengoni Maria Teresa Cotti Andrea Tosi
1726 1727 1727501730 1730 1730, 1733
Né mancano
IO TL L08
MW1471725
casi di compositori praticamente imposti
da Modena a Reggio, come Domenico Gabrielli di cui si dà il Clearco in Negroponte nel 1689, quando cioè il violoncelli? A. Cavicchi, op. cit., p. 114.
262
Il repertorio operistico reggiano. I
sta bolognese figurava «trattenuto dal serenissimo signor duca padrone», secondo quanto specificato nel relativo libretto, oppure come il maestro della cappella ducale Antonio Gianettini che firma quel Tito Manlio del 1701 il cui cast è formato da cantanti tutti alle sue dipendenze, o anche Antonio Bononcini che ricopri più tardi la medesima carica e che a Reggio si presentò più volte in veste di unico autore (1717: La conquista del vello d’oro), coautore (1720: Niro) o maestro al cembalo direttore (1723: Mitridate Eupatore).
Grazie all’insorgere di questo interessamento della corte, consistenti tracce della vita teatrale reggiana dalla fine \ del Seicento si possono cost individuare negli archivi modenesi, sotto forma in prevalenza di incartamenti amministrativi (concernenti ad esempio le stagioni del 1683, 1684,
1696 !! e poi parecchie altre nel corso del Settecento !’) e di partiture che andarono ad impinguare la collezione estense. Delle opere rappresentate a Reggio, la biblioteca modenese oggi possiede l’Ottaviano in Sicilia di Ballarotti (Mus. F. 1543), la Tullia superba e il Sardanapalo di Freschi (Mus. F.
395 e 396), il Clearco in Negroponte di Gabrielli (Mus. F. 424), Il carceriere di se medesimo di Melani (Mus. F. 730), l’Alcibiade di Marcantonio Ziani (Mus. F. 1300), l’Ezio e
Le fortune di Rodope e Damira di Pietro Antonio Ziani (Mus. F. 1554 e 1301). E se per alcune di esse si potrebbe anche ipotizzare una provenienza veneziana, nel caso almeno dell’opera di Ballarotti l’origine reggiana è certa, dato che essa ebbe a Reggio la sua «prima» e finora unica rappre-
sentazione nota. Ai nuovi rapporti tra Modena e Reggio sono certo da imputare ora anche i diversi orientamenti del repertorio di quest’ultima. E pur vero che il mercato veneziano costitui10 Ibidem, pp. 111-118 e Bianconi-Walker, Production, cit. 11 Per la stagione 1684 cfr. MOas, Archivio per materie: Spettacoli pubblici (Teatri in Modena e nel ducato), fascicolo Documenti ex archivio Valdrighi; per quella del 1696 cfr. invece la fonte modenese segnalata in A. Cavicchi, op. cit., pp. 116-118, e descritta in Bianconi-Walker, Production, cit. 12 Li si vedano nella posizione archivistica segnalata nella nota 3 e ancora a MOas, Archivio per materie: Spettacoli pubblici (Teatri in Modena e nel ducato), busta 8 b, passirz.
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P. Fabbri
va ancora per il momento la più importante fonte di approvvigionamento, da cui Reggio poté far giungere partiture di Ziani, Freschi, Cesti e Pollarolo, in qualche caso an-
che con ragguardevole tempestività: si pensi al Sardanapalo del 1679 replicato a Reggio nel 1681 col titolo di L’onor vindicato, alla Tullia superba (1678) o al Tullo Ostilio (1685)
comparsi a Reggio rispettivamente nel 1679 e nel 1686 (quest’ultimo come A/ba soggiogata dai romani), o addirittura a L'innocenza risorta ovvero Etio che nel carnevale 1683 veniva data al S. Cassiano e pochi mesi dopo a Reggio col
titolo I/ talamo preservato dalla fedeltà d’Eudossa. E a volte era ancora l’ambiente bolognese ad anticipare qualche titolo: L’Orontea nel 1665 e 1669, Le fortune di Rodope e Damira nel 1658 e 1670, L’Odoacre nel 1680.
Adesso però non solo si aggiungevano apporti extra veneziani, come il fiorentino La calma fra le tempeste (teatro
del Cocomero, 1681: Reggio, 1684), o La Floridea (1677) e L’Anagilde (1685), entrambe provenienti dall’area lombarda (rispettivamente a Milano nel 1668-1670, a Brescia, Pavia e
Milano nel 1684), ma per la prima volta anche un contributo modenese, I/ Girello di Acciaiuoli, giunto a Reggio nel 1676, un anno dopo essere comparso nella capitale. Tuttavia il dato più appariscente di questi decenni tra Sei e Settecento è la tendenziale scomparsa (dagli anni ’90 e poi pressoché regolarmente dal principio del nuovo secolo) proprio di tali riprese da altre «piazze» teatrali più o meno illustri e attive, in favore di «prime» assolute appositamente commissionate ad autori d’ambito locale come il bergamasco Ballarotti, o attivi in zona come i citati Gianettini
e Bononcini, o bolognesi quali Monari, Piscotti, Capelli, ma più tardi indifferentemente anche d’ambiente romano (Gasparini), veneziano (Lotti, Vivaldi), napoletano (Porpo-
ra), oppure dipendenti da cotti quali la sabauda (Fiorè) e la medicea (Orlandini). All’orgoglio per quegli allestimenti interamente nuovi non si poteva però associare di certo quello per il ruolo giocato dal teatro reggiano nel panorama operistico italiano dell’epoca, dato che di tutti quegli allestimenti pochissimi sembrano aver conosciuto un minimo di diffusione: L’Ey264
Il repertorio operistico reggiano. I
mene di Gasparini (1714) ripresentata al Real palazzo di Napoli nell'autunno 1715 (con Margherita Durastanti, già protagonista er titre a Reggio, nel ruolo di Laodicea) e poi al teatro Ducale di Milano nel carnevale 1719; Didone abbandonata di Porpora (1725) poi presente in qualche teatro tedesco (Amburgo, autunno 1731; Braunschweig, 1734) e forse a Parma nel carnevale 1745; Siroe re di Persia di Vival-
di (1727), però in un circuito ben più provinciale (Ancona, teatro della Fenice, estate 1738; Ferrara, teatro Bonacossi,
carnevale 1739, con la stessa Anna Cosmi di Reggio). Pur essendo di per sé illustri, in questi anni lestagioni reggiane si dimostrano pressoché ininfluenti sul repertorio operistico contemporaneo, poco partecipandovi se non per quanto at-
teneva alle più generali tendenze di gusto. Tutto diverso è invece il caso degli intermezzi comici che in questa prima metà del Settecento accompagnarono spesso anche a Reggio gli spettacoli in musica. Evidentemente dotati di una propria circolazione del tutto autonoma dal contesto entro cui venivano inseriti, essi infatti non
ottemperano alle considerazioni fin qui svolte: mai — o quasi — ! si tratta di «prime» assolute, e la ripresa reggiana s'inserisce solitamente in una serie più o meno nutrita di repliche altrove. A volte l’approdo a Reggio di un certo testo dovette dipendere dalla presenza di un interprete che l’aveva in repertorio magari fin dal suo debutto: cosî, la Polacchina fu Mirena a Reggio nel 1714 come al teatro napoletano di S. Bartolomeo nell’autunno 1699 quando quelle scene buffe erano ancora inserite nel Cesare în Alessandria di Aldrovandini !*, il veterano Giovan Battista Cavana nel 1715 13 È il caso de L'a/fier fanfarone forse di Gasparini recitato a Reggio nel 1714 e poi replicato a: Venezia, S. Angelo, autunno 1716, con Rosa Mignatti e Lucrezio Borsari;
Vicenza,
teatro
di Piazza
1719;
Praga,
autunno
1730;
Graz,
Tummel-Platz, carnevale 1737. Per la compilazione di questo, cost come degli elenchi analoghi che seguiranno, sono state usate le fonti seguenti: R. Strohm, Italienische Opernarien des friiben Settecento (1720-1730), in «Analecta musicologica», XVI (1976), n. 2, pp. 142 ss.; F. Piperno, Buffe e buffi (considerazioni sulla
professionalità degli interpreti di scene buffe ed intermezzi), in «Rivista italiana di musicologia», XVIII (1982), pp. 240-284; C. Sartori, Primzo tentativo di catalogo unico dei libretti italiani a stampa fino all'anno 1800, in copia fotostatica (1973 ss.)
14 F. Piperno, op. cît., p. 260.
265
P. Fabbri
porterà a Reggio La preziosa ridicola che aveva tenuto a battesimo al Capranica di Roma nel carnevale 1712 e che poi farà conoscere anche a Modena al teatro Molza nell’estate 17175; tanto al S. Cassiano di Venezia nell’autunno 1729
che a Reggio nel 1732 Antonia Bertelli cantò nel Matrizzonio per forza di Buini!6. In altri casi fu il favore universalmente suscitato a consigliare di porre in scena anche a Reggio testi fortunatissimi quali i seguenti: L’impresario delle Canarie di Pietro Metastasio 1724 carnevale Napoli, S. Bartolomeo, musica di Domenico Sarro: con Gioacchino Corrado e Santa Marchesini 1725 carnevale
1729 carnevale i 1731 carnevale 1733 carnevale 1735 autunno
1739 inverno? 1741 carnevale 1742 carnevale 1744 1746 carnevale 1749
Venezia, S. Cassiano: idem Bologna i Milano, Ducale, musica di D. Sarro: con Antonio Lottini e S. Marchesini ’ Venezia, S. Moisè i Reggio, Pubblico: con Lucrezio Borsari e Antonia Bertelli Lucca: con A. Lottini e Anna Faini El Pardo (Spagna): con Tommaso Garofolini e $. Marchesini Bergamo Venezia, S. Angelo, musica di Leonardo Leo: con Pietro Pertici e Caterina Brogi idem Bologna Pisa, Pubblico: con Costantino Compassi e A. Faini Parma: con Caterina e Pietro Pertici
15 Di quest'opera si conoscono le seguenti recite: carnevale 1712, Roma, Capranica (Madama Dulcinea e il cuoco del sig. Marchese del Bosco), con Giovan Battista Cavana e Giacinto Fontana detto Farfallino; 1715, Reggio; carnevale 1716, Napoli, S. Bartolomeo, con Gioacchino Corrado e Santa Marchesini; estate 1717, Modena, Molza, con G.B. Cavana e S. Marchesini; estate 1718, Bologna, Formagliari e Padova, Obizzi, con Antonia Maccari e Matteo Lucchini; carnevale 1719, Venezia, S. Angelo, con Rosa Ungarelli e Antonio Ristorini; fiera 1720, Recanati, con Giuseppe Galletti e Cosimo Ermini; estate 1728, Firenze, Cocomero, con Antonio Lottini e S. Marchesini; carnevale 1744, ibidem, con Anna Faini e Costantino Compassi; carnevale 1750, Venezia, S. Cassiano, con Annunziata Garrani e C. Compassi.
16 Esso fu recitato nel 1731 in ambiente bolognese anche dagli accademici Candidi Uniti: v. C. Ricci, I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII. Storia aneddotica, Bologna, 1888, p. 346.
266
ì \A
i
Il repertorio operistico reggiano. I
ascensione
1752 primavera
Venezia, S. Cassiano: con C. Compassi e Annunziata Garrani Ravenna, Comunitativo: con Antonia Cavaluzzi e Matteo Bevilacqua
Il giocatore di Antonio Salvi
1719 carnevale
Verona (Bacocco e Serpilla): con Rosa Ungarelli e Antonio Ristorini Venezia, S. Angelo (I/ marito giocatore e la moglie bacchettona): idem Modena (ide)
1720
Firenze (I/ marito giocatore): con R. Ungarelli e A.
1715 primavera
autunno
Ristorini
1
1721 carnevale
Venezia, S. Angelo (I/ marito giocatore e la moglie bacchettona): idem
1722
Miinchen, Corte (ide): con R. Ungarelli e A. Ri-
Roma, Alibert (Serpilla e Bacocco) autunno
1723 primavera estate
1724 primavera
storini Genova, Falcone (ide): idem
Faenza, Remoti (I/ giocatore): con Margherita e Cosimo Ermini Parma, Corte (idem): con R. Ungarelli e A. Ristori-
ni 1725 carnevale estate autunno
Bologna, Formagliari (iderz) Pistoia, Risvegliati (Il marito giocatore e la moglie bacchettona): con R. Ungarelli e A. Ristorini Napoli, S. Bartolomeo (Serpilla e Bacocco)
Perugia (ider)
1726 1727
autunno
1728 1729 1730
autunno estate ascensione
1752
1733 carnevale
Venezia, S. Angelo (I/ marito giocatore e la moglie bacchettona): con R. Ungarelli e A. Ristorini Bruxelles, La Monnaie (Serpi/la e Bacocco): idem
Parigi, Académie royale (idem): idem Venezia, S. Samuele (ide): idem Trieste (idem) Venezia (idem) Reggio, Pubblico (I/ giocatore): con Antonia Bertelli e Lucrezio Borsari
Londra (iderz)
i
1736 1739
Venezia (Serpilla e Bacocco)
1740 autunno 1748 carnevale
Lucca (I/ giocatore): con Antonio Lottini e ? Bologna, Pubblico (I/ Bacocco o sia Il giuocatore):
L152 1753 carnevale
con Elisabetta Lori e Giovanni Micheli Potsdam (I/ giocatore) Parigi, Opéra (idem): con Anna Tonelli e Pietro Manelli Roma,
Capranica (I/ marito giocatore): con Giovan
Battista Persichini e Pietro Bracchi
267
P. Fabbri
La serva padrona di Gennarantonio Federico 1732 1733
estate estate
1738 carnevale
1740 carnevale
Firenze, Cocomero,
musica di Luca Antonio Pre-
dieri: con Anna Faini e ? Napoli, S. Bartolomeo, musica di Giovan Battista Pergolesi: con Laura Monti e Gioacchino Corrado Parma, Ducale, idem: con Francesca Fabiani e Domenico Cricchi Roma, Valle, musica di Gaetano Latilla Lucca, musica di G.B. Pergolesi: con F. Fabiani e Antonio Lottini
autunno 1735 carnevale 1739
1741 carnevale primavera
1742 autunno 1744 carnevale 1745
1747 primavera
17951
Roma, Valle: con Cesare Fratesanti e Benedetto Lapis Bologna (o forse S. Giovanni in Persiceto) Modena, Molza: con F. Fabiani e D. Cricchi Venezia, S. Samuele: con M.G. Magagnoli e D. Cricchi
Venezia, S. Angelo: idem primavera
1748
Venezia, S. Angelo: con D. Cricchi e Maria Magagnoli
carnevale
Rimini, Pubblico: con Giovanna Falconetti e Alessandro Catani Firenze, Cocomero: con Caterina Brogi e Pietro Pertici Bologna, Formagliari: con Elisabetta Boccabianchi e M. Bevilacqua Venezia, S. Angelo: con M.G. Magagnoli e D. Cricchi Padova, Dilettanti: con Elisabetta Lori e Giovanni Micheli
Trento, teatro di Sua Altezza Romana: con Luigi Peruzzi e Petronio Manella Reggio, Pubblico: con Angiola Bonori e Nicola Setaro Forlì, Pubblico
Proprio l’elevato livello produttivo culminato nelle stagioni degli anni 20 del Settecento pone in maggior risalto lo scadimento di quelle del decennio successivo, con la scomparsa dell’opera in tempo di fiera negli anni 17301733 e il teatro aperto solo a carnevale per ospitare spettacoli provenienti dall'ambiente bolognese (Azzore e gelosia di Buini, dato nel 1729 d’autunno al teatro degli Accademici Candidi Uniti di S. Giovanni in Persiceto sempre con Cecilia Bellisani, e già replicato nell’autunno 1731 al Formaglia268
apri
Il repertorio operistico reggiano. I
ri di Bologna ugualmente con Paola Corvi) o comunque precedentemente collaudati (l’Alessandro nell’Indie di Vinci dato a Roma, teatro delle Dame, nel carnevale 1730, e poi a Livorno, teatro di S. Sebastiano, in quello successivo, e forse a Firenze, teatro di via del Cocomero, l’anno dopo). Nel
periodo 1734-1738 era rimasto poi del tutto musicalmente inattivo dapprima a causa dellé vicende belliche legate alla guerra di successione polacca e alla connessa occupazione del ducato da parte delle truppe francesi (1733-1736), poi per i riflessi delle difficoltà che accompagnarono la morte di Rinaldo I in un momento cos delicato. Il progressivo ritorno alla normalità, con Francesco III finalmente sul trono (dal 1737), vide la ripresa delle consue-
tudini teatrali per la fiera 1739, con l’allestimento del metastasiano Derzetrio di Hasse da qualche anno circolante per vari teatri padani (carnevale 1732: Venezia, S. Giovanni Grisostomo; carnevale 1733: Verona, Filarmonico e forse Firenze, Pergola; carnevale 1737: Venezia, S. Cassiano e Ferrara, Bonacossi e Rimini, Pubblico). Segno indiscutibile
di questa volontà ricostruttiva finf per essere, materialmente, l’immediata edificazione del nuovo teatro Pubblico do-
po la distruzione accidentale di quello vecchio e la sua inaugurazione per la fiera del 1741 con un’opera (il Lucio Vero di Zeno rivisto da un letterato di corte) fatta musicare appositamente al napoletano Pietro Pulli, che già dal 1738 aveva servito il nuovo duca in più d’un’occasione, e cantata da una compagnia d’eccezione.
Ad intralciare questa ripresa furono di nuovo le congiunture militari: stavolta quelle della terza guerra di successione, con l’occupazione austriaca del ducato nel periodo 1742-1749 ed il sovrano in temporaneo esilio in quanto filofrancese, già alto ufficiale delle armate borboniche e marito di una Borbone d'Orléans !”. Stavolta però la vita teatrale-musicale non conobbe un’interruzione, dato che la con-
17 Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 66-67 e S.J. Woolf, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia. Dal primo Settecento all'Unità, vol. III, Torino, Einaudi, 1973, pp. 15-16, 85-86 e SHE
269
P. Fabbri
dotta abbastanza blanda della campagna permise un po’ in tutte le città emiliano-romagnole lungo la via Emilia sedi d’acquartieramenti lo svolgimento di pratiche spettacolari anche non ordinarie, spesso variamente «austriacanti». Per la fiera del 1743 ad esempio anche Reggio ospitò quel Demofoonte che un protetto del principe Melzi, Gluck allora a Milano, aveva musicato per il teatro Ducale della capitale lombarda e poi diffuso in altre città emiliane occupate dagli imperiali: Bologna, teatro Marsigli Rossi, carnevale 1743 e poi Ferrara, teatro Bonacossi, carnevale 1745 (in tutte le re-
cite nel cast figura Felice Novelli, a volte come Matusio oppure come Demofoonte
stesso). Direttore dell’esecuzione
come maestro al cembalo ed autore di alcune nuove arie era quel Francesco Maggiore, napoletano, coautore di un Demetrio dato in «prima» a Graz nel 1742 e negli anni 1742-1745 operante in vari centri padani (1742: Bologna e Udine; 1743: Ferrara; 1744: Rovigo; 1745: Bologna e Ve-
nezia) !8 soprattutto al seguito delle truppe austriache, come a Rimini nel carnevale 1744 quando fu chiamato a dirigere il metastasiano Siroe di Hasse patrocinato da alcuni alti ufficiali imperiali, ed anche a comporre la cantata La pace consolata (su testodiGoldoni) commissionatagli dal loro ge-
nerale principe Lobkowitz per solennizzare le nozze dell’arciduchessa d’Austria, e poi impiegato a Faenza dai medesimi nel carnevale 1745 quale responsabile di un «pasticcio» sulla Merope. Ancora ad un musicista della Lombardia asburgica, Giovan Battista Lampugnani, si devono tanto
l’opera della fiera reggiana del 1748 (I/ gran Tamerlano) che la Serenata per lo felicissimo giorno natalizio dell’imperiale
real maestà di Maria Teresa d’Austria sempre augusta su testo di Frugoni e «rappresentata nel teatro di Reggio nel maggio dell’anno MpccxLvII in occasione di un pubblico ballo dato alla nobiltà da sua eccellenza il sig. conte Cristiani consigliere intimo di stato di S.M. e suo gran cancelliere per la Lombardia austriaca, ed amministratore generale degli stati di Modena ecc.», come si può leggere nel relativo libretto. 18 J.L. Jackman, Francesco Maggiore, in The New Growe Dictionary of Music and Musicians, London, Macmillan, 1980, vol. XI, pp. 491-492.
270
Il repertorio operistico reggiano. I
Negli ultimi due carnevali dell'occupazione austriaca (1748 e 1749), che furono anche gli unici per i quali sono testimoniate stagioni musicali al teatro di Reggio, per la prima volta s’inscenarono drammi giocosi, che fino a quel momento non vi avevano mai ottenuto cittadinanza alcuna. Dopo una decina di altre esecuzioni un po’ dappertutto a partire dalla «prima» napoletana del 1737!, nel 1748 si diede l’Orazio di Auletta — con La serva padrona a mo’ d’intermezzo —, che poi continuò a rimanere ancora per un poco in repertorio: fu ridato infatti nel 1749 a Parma (sempre con Nicola Setaro) e Pesaro, nel carnevale 1754 a Ravenna (ancora con Bartoli e Zannoni), ed infine a Trieste
nel 1756. Le precedenti numerose riprese dovettero fornire materia al «pasticcio» Madama Ciana giunto a Reggio nel 1749 esso pure ormai a conclusione del suo ciclo ?0. Quella della fiera 1750, che segna il deciso ritorno all'opera seria e la chiusura per il momento del capitolo comico, fu la prima stagione organizzata dopo il reinsediamento al governo del duca titolare. Da qui in avanti, per circa un quindicennio, si restaureranno criteri produttivi già tipici delle stagioni più illustri del teatro reggiano, quelle cioè dell’epoca di Rinaldo o dell’inaugurazione del teatro nuovo: si riconferma il legame tra opera e fiera a lustro e vantaggio reciproci (ribadito ad esempio nel 1759 dai 2532 biglietti d’entrata e 1554 biglietti di sedili venduti globalmente a forestieri, per un introito di quasi 30.000 lire modenesi: più di un sesto di quello totale, e la seconda voce in entrata, superata solo dal contributo elargito dalla corte
19 Altre recite si ebbero successivamente a: Firenze, Cocomero, autunno 1740? e autunno 1742?; Venezia, S. Moisè, autunno 1743; Firenze, Cocomero, autunno 1745?; Milano, Ducale, estate 17462; Bologna, Formagliari, estate 1747;
Londra, Woodfall, 1748; Venezia, 1748; Parma, Ducale, 1749 (l'interprete della parte di Colagianni fu lo stesso che a Reggio); Pesaro, Sole, carnevale 1749; Ra-
venna, Comunitativo, carnevale 1754 (Leandro e Lamberto furono gli stessi di Reggio); Trieste, 1756.
20 Esso infatti consta delle seguenti recite: Malta, inverno 1742; Venezia, S. Cassiano, autunno 1744; Milano, Ducale, primavera 1745; Livorno, autunno 1748; Torino, 1748; Bologna, Formagliari, carnevale 1749; Monaco di Baviera 1749; Parma, 1751.
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P. Fabbri
modenese)21; gli spettacoli inscenati sono quasi esclusivamente «prime» assolute (uniche eccezioni: La clemenza di Tito del 1759, ripresa da Venezia, S. Moisè, carnevale
1757, e l’Ezio di Pescetti, proveniente dal S. Giovanni Grisostomo dove era stato dato nel carnevale 1747) che però di rado, come era già successo, superano quella prima esecuzione, in pratica restando fuori repertorio; nei cartelloni
reggiani ricompaiono artisti di corte o che godevano di una qualche protezione ducale. CANTANTI
STAGIONI
Vittoria Tesi Tramontini Caterina Bassi
1741 1749
Domenico Panzacchi Caterina Aschieri ©’ Livia Segantini Giuseppe Ciacchi
1750 B/51 17/53 1754
BALLERINI
m.lle Grognet
1741
Anna e Vincenzo Sabbatini Anna Casoli Antonio Tassoni
1750417531757 1755 1755
Camilla Paganini
1758
Al rinnovato interessamento ducale corrisposero anche stavolta ripercussioni evidenti pure sul repertorio, concretatesi anzitutto nella scomparsa del genere comico dopo la fugace apparizione dei carnevali 1748-1749, per far spazio unicamente all’aulica opera seria, in particolare nella varietà metastasiana. La preponderanza del poeta cesareo in questi anni è schiacciante: le stagioni dal 1750. al 1764 registrano per dodici volte il suo nome, su un totale di 17 titoli. Una simile superiorità del genere serio risalta poi ancor pit se si pensa che nei teatri pubblici delle altre città emiliane e romagnole, per non parlare di quelli veneziani, i drammi giocosi comparivano assiduamente dagli anni ’40 e ’50, spesso maggioritariamente. 21 REas, Archivio comunale:
1759.
AI
i Teatro e feste pubbliche, 2 (1755-1802), anno
c
Il repertorio operistico reggiano. I
Su scelte metastasiane cosf massicce dovettero influire congiuntamente il nuovo corso della politica estera ducale, dopo la pace di Aquisgrana orientata verso la corte asburgica e fervente di zelo filo-imperiale, e quegli ideali teatrali di matrice francese esibiti dai duchi con la partecipazione diretta a tragedie del gran secolo recitate nel teatrino di corte in Cittadella, e manifestati da Francesco III in conversazio-
ni ad esempio con Charles de Brosses nel 1740 di passaggio per Modena: «la struttura dei [...] poemi lirici [francesi], misti di recitativi, di arie, di cori, di duetti e balletti, era
per la varietà dello spettacolo e della musica, largamente da preferirsi alla interminabile monotonia dei poemi italiani, i quali hanno soltanto lunghe scene a recitativo invariabilmente concluse da un’aria»?. Di tali propensioni avevano dato eloquenti testimonianze le stagioni reggiane successive a quel Niro che nel 1720 aveva accompagnato le feste per le nozze del principe ereditario (il relativo libretto lo si poté leggere eccezionalmente, per questa ragione, in un’edizione bilingue italo-francese). Si può vederlo ad esempio nella preferenza accordata a testi di poeti teatrali sensibili agli ideali tragici: nel 1723 il Mitridate Eupatore di Frigimelica Roberti scandito nei cinque classici atti, nel 1725 la «tragedia» Didone abbandonata di Metastasio, nel 1726 L’Andromaca di Antonio Salvi tratta da Racine, nel 1730 e 1733 drammi di Zeno e Metastasio. E non meno indicativa, an-
che fuori dal campo musicale, era la contemporanea apparizione a stampa di tragedie dedicate al principe ereditario, quali Derzetrio il macedone di Lorenzo Sassi (Parma, eredi di Giovan Battista Pescatori, 1723) e I/ Meerzet di Decio
Arlotti (Reggio, Vedrotti, 1728). Significativamente, lo stesso ritardo di Reggio nell’accogliere il genere comico lo si può riscontrare nei cartelloni del teatro di Parma, esso pure impostato su di un gusto essenzialmente aulico e gallicizzante negli anni ’50. Coinvolto in alcuni di quegli allestimenti reggiani, non per nulla Agostino Paradisi più tardi scriverà ad Albergati (primo febbraio 1769): «nel nostro 22 Ch. de Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, ed. moderna in traduzione italiana, Bari, Laterza, 1973, p. 637.
273
P. Fabbri
teatro italiano il solo Metastasio ha saputo conseguire» «quella forza che ammiriamo nel teatro francese» ??. Proprio la tensione verso una più severa e classicheggiante poetica del melodramma portò contemporaneamente alla messa al bando anche degli intermezzi comici, dal 1750 in poi sostituiti sistematicamente dai balli, perdipii spesso ispirati a evidenti criteri di omogeneità e plausibilità per meglio inserirli nella vicenda cantata come sue naturali e necessarie prosecuzioni, e non già come dilettevole diversivo. Esemplari in questo senso furono quelli che nella fiera 1752 accompagnarono la Didone abbandonata di Perez, ideati da Pierre Aubry: alla fine del primo atto seguf «il ballo rappresentante una specie di trionfo di Nettuno, correlativo alla scena», mentre dopo il secondo ci fu quello «di marinari allegri per l’imminente imbarco d’Enea»?. Qualche anno-dopo era a Reggio Antoine Pitrot, in veste sia di esecutore che di coreografo dei balli de La Nitteti (1757) e de L’Antigono (1758). In quest’ultima opera il primo balletto rappresentò «Ulisse nell’isola di Circe, ballo pantomimo ed allegorico», ed il secondo «l'adorazione della gran pagoda della China, con le loro stravaganti formalità» ?. Un apposito libretto stampato a parte (Reggio, Joseph Davolio [1758]), a carattere esplicativo — una pratica poi assai contrastata da alcuni teorici —, evidenziava fin dal titolo il loro carattere di Ba//ets pantomimes et allegoriques, precedenti quelle sue realizzazioni del 1759 alla Comédie italienne che
hanno fatto parlare di Pitrot come di un precursore del balletto d’azione di Noverre (le cui Lettres sur la danse, lo si ricordi, usciranno nel 1760). E sempre in questo ambito di
riforma coreografica in senso pantomimico non si dimentichi che in quegli spettacoli reggiani degli anni ’50 troviamo impegnati danzatori quali Gasparo Angiolini (nei citati balli di Aubry per la Didone abbandonata del 1752) e Onorato
23 S. Davoli, Agostino Paradisi uomo di teatro, in Teatro a Reggio Emilia, cit., p. 251.
24 Queste didascalie sono leggibili nel relativo libretto, un esemplare del quale è a REm, Raccolta drammatica Curti n. 147/1. 25 Ibidem, n. 147/71.
274
Il repertorio operistico reggiano. I
Viganò nei balli pure di Aubry per I/ Solizzaro (1756), di Pitrot per La Nitteti (1757) e di Francesco Salomoni per La clemenza di Tito (1759): tutte esperienze che dovettero con-
tribuire al suo inserimento tra i «professori di [...] grido» del «ballo rappresentativo» moderno segnalati da Arteaga %, e destinate a fruttificare in prospettiva con suo figlio Salvatore":
26 S. Arteaga; Le rivoluzioni del teatro musicale italiano, vol. III, Bologna, Trenti, 1788, p. 25.
27 Accanto a questi nomi di professionisti della danza tutti tesi a far rivivere il classico ideale pantomimico, è curioso trovare nel 1755 (reclutati per i balli dell’ Artaserse) il celeberrimo Truffaldino Antonio Sacco insieme con la sorella Adriana, più Libera Sacco, tutti reduci dal Portogallo lasciato in tutta fretta a seguito dell’inattività teatrale imposta dal terremoto di Lisbona, e sicuramente in caccia di scritture qualunque pur di riprendere le fila della loro carriera italiana interrotta per la disgraziata avventura portoghese.
215
ROBERTO
VERTI
Struttura del repertorio operistico reggiano
nel Settecento II. Dal 1760 all’età repubblicana ”
Negli ultimi quarant'anni del Settecento il repertorio operistico reggiano, pur riconfermando alcune costanti risalenti agli anni del ducato di Rinaldo e consolidate durante il primo periodo di permanenza al potere di Francesco III, conosce il mutamento d’indirizzo più profondo e sostanziale della sua storia. Permane in quest’epoca, sia pure tra alterne fortune, la reciproca interdipendenza d’interessi economici tra commercio e produzione musicale legata alla massiccia affluenza di forestieri in occasione delle annuali fiere di maggio, e viene ribadito senza eccezioni il peculiare destino delle opere commissionate per il teatro di Reggio, destinate a rimanere lettera morta all'indomani della prima rappresentazione !. Muta in parte il rapporto con Modena,
dalla quale la politica teatrale reggiana parzialmente si svincola a partire dalla concessione di una maggiore autonomia accordata da Francesco III nel 17602, rientrando tuttavia
appieno nell’orbita della capitale in circostanze di particolare rilevanza politica ed economica, come nel caso della «prima» del Montezuma di Anfossi, voluta per sostenere la «fiera grossa» del 1776 alla presenza degli arciduchi di Milano e direttamente gestita da Modena. Muta, soprattutto, il quadro d’insieme del teatro reggiano, che tra il 1761 e il 1798 conoscerà solo cinque opere «nuove» di contro all’impressionante sequenza di «prime» che ebbe luogo tra il 1750 e il 1759 all'indomani dell’occupazione austriaca; ab-
1 Per quanto attiene alle vicende dell’opera in Reggio nella prima metà abbondante del secolo si veda in questo volume il contributo di Paolo Fabbri, Strut tura del repertorio operistico reggiano nel Settecento. I. Dalla fine del Seicento al 1760.
2 Cfr. S. Davoli, Agostino Paradisi uomo di teatro, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, vol. I, p. 255.
2I7
R. Verti
bandonati gli ultimi retaggi di attitudini cortesi, il teatro di Reggio si avvicina ancor più al modello del teatro pubblico veneziano con l’inizio di un’era d’assoluto predominio del dramma giocoso (1765-1784), nella quale il citato Montez4ma appare come un evento affatto isolato. La grande stagione metastasiana della vice--capitale ducale si chiude con la fiera del' 1764, intrecciandosi intimamente coi prodromi del capitolo comico. C 1760
I filosofo di campagna Le nozze
Goldoni-Galuppi Goldoni-Galuppi
Comica Comica
F F F F F
Il Demetrio Il Demofoonte* Alessandro nelle Indie* La baronessa riconosciuta Ezio
Metastasio-Ponzo Metastasio-Piccinni Metastasio-Traetta Goldoni-Piccinni Metastasio-Pescetti
Seria Seria Seria Comica Seria
1760 1761 1762 1763 1764
[C = carnevale; F = fiera; * = «prima assoluta»]
Gli allestimenti delle quattro opere su soggetto metastasiano rappresentate in questi anni sono curati secondo la precedente tradizione reggiana dell’opera seria, nel duplice obiettivo di mantenere un elevato interesse per la fiera e nel contempo dare lustro all’autorevolezza del duca. A Francesco III, che assiste personalmente alla rappresentazione del Derzofoonte (1761) «assieme all’Infante duca di
Parma», sono invariabilmente dedicati i libretti di queste stagioni, mentre è significativo che il nome del duca, recuperato per il solo Montezurza (1776), scompaia dai frontespizi dei libretti reggiani a partire dal 1765, sostituito perlopiù da quello della principessa ereditaria Maria Teresa Cybo d’Este che, separata dal marito Ercole (succeduto a Francesco III nel 1780), teneva corte a Reggio. Lo scorcio del ciclo metastasiano vede sulle scene reggiane cantanti affermati come Angelo Monani, detto «Manzoletto» (Derzetrio, 1760; Derzofoonte, 1761; Alessandro nelle Indie, 1762), e il celebre castrato Giovanni Manzoli (Demofoonte, Alessandro nelle Indie), già a Parma nel 1754 ed ora chiamato a Reggio per la «prima» dell’ Alessandro di Traetta, il quale ritorna all’opera seria convenzionale dopo 278
Il repertorio operistico reggiano. II
il tentativo riformatore perseguito alla corte parmense negli anni 1758-1760 d’intesa con Du Tillot e Frugoni. Manzoli,
che di lf a poco sarebbe stato chiamato a Bologna per l'inaugurazione del nuovo Teatro Comunale con Il trionfo di Clelia di Gluck, si trovò a collaborare nell’ Alessandro anche con Francesca e Caterina Gabrielli, quest’ultima al servizio del duca di Parma e reduce dalla «creazione» presso quella corte dei ruoli femminili protagonisti nelle traettiane Ippolito e Aricia e I Tindaridi. La presenza reggiana di Manzoli si chiude con l’interpretazione del ruolo di Ezio nell'omonimo dramma di Pescetti (1764)?. i I legami con la vicina corte parmense di questi anni s'inquadrano nell’impiego consueto del teatro come strumento di distensione nella politica estera ducale. La qualità delle compagnie di canto e in ispecie lo sfarzo scenico giocano come simbolo di prestigio: Il Derzetrio si vale delle scene di Antonio Galli Bibiena e dei balli di Du Jardins, nei quali spicca Onorato Viganò, presente a Reggio fin dal 1756; nel Demofoonte, con le scene del reggiano Giovanni Paglia ricompare come direttore e inventore dei balli Francesco Salomoni; in Alessandro nelle Indie, ancora con le sce-
ne del Paglia, i balli sono diretti da Pierre Alloard, mentre per l’Ezio, affidati nuovamente i balli a Salomoni, si recuperano le scene di Raimondo Compagnini già impiegate per questo soggetto nella fiera 1754. ‘_—L’insieme rassicurante dei cartelloni di queste quattro stagioni di fiera nasconde disagi che non tardarono a ripercuotersi sul repertorio operistico reggiano degli anni a venire (nel 1765 e nel 1766 compaiono sulla scena di Cittadella solo mediocri compagnie d’opera comica di giro, e dal 1765 al 1767 la stagione di fiera viene interrotta per tre anni). 3 Giovanni Manzoli avrebbe dovuto cantare anche nella stagione di fiera del 1760, come si deduce da alcuni documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Modena, Cancelleria Ducale, Carteggio di referendari consiglieri cancellieri e segretari, busta 97, Carteggio di Alessandro Frosini 1758-1761, lettere in data 27 febbraio 1760, 19 marzo 1760, 22 marzo 1760, 23 marzo 1760, 26 marzo 1760, 12
maggio 1760. Per notizie particolareggiate sui cartelloni operistici reggiani d’ora in avanti si rimanda tacitamente a P. Fabbri - R. Verti, Due secoli di teatro per musica a Reggio Emilia. Repertorio cronologico 1645-1857, Reggio Emilia, Edizio-
ni del Teatro Municipale «R. Valli», 1986.
279
R. Verti
Già sul finire degli anni ’50 un diffuso malcontento per la qualità degli spettacoli destinati a supportare la fiera percorre il Pubblico reggiano e la corte modenese. Nel 1761 il ritardo nella rappresentazione della «prima» del Derzofoonte crea seri problemi per la riuscita commerciale della fiera, e in seguito, diminuito l’afflusso dei forestieri nel 1762 e 1763, e intervenuta la carestia nel 1764, si completa il saldo negativo di questi anni, chiuso con le perentorie lagnanze di Francesco III in merito alla rappresentazione dell’Ezio,
dalle quali si salva il solo Manzoli‘. La ripresa dell’Ezio — un soggetto musicato in almeno quindici differenti versioni e circolato soprattutto in forma di «pasticcio» — fu forse suggerita dallo stesso Manzoli, già interprete del ruolo di Ezio a Venezia nel 1759 e in seguito protagonista della versione di Gassmann a Roma nel 1770; verosimilmente anche a Reggio il dramma fu eseguito come «pasticcio», poco prima di passare al teatro londinese di Haymarket il 24 novembre 1764 con arie di Pescetti, J. Ch. Bach, Galuppi, de Majo, Vento?. Agli imbarazzi dell’establisbment ducale nella gestione dell’opera seria nei primi anni ’60 vanno aggiunti altri elementi che conducono a una più precisa definizione della particolare congiuntura nella quale si determinò l’affermazione del dramma giocoso. Uscito dalla crisi finanziaria della prima parte del secolo e dalle conseguenze della guerra di successione austriaca, alla metà del Settecento l’assolutismo
ducale è pronto a intraprendere la strada del riformismo e della collaborazione con i circoli intellettuali. Per volontà di Francesco III nel 1752 viene fondata l'università reggiana, e pochi anni più tardi sulla scena culturale estense sempre più rivolta verso la Francia e la teorizzazione illuminista compare la vivacissima personalità del giovane aristocratico Agostino Paradisi, corrispondente, tra gli altri, di Voltaire,
4 Cfr. O. Rombaldi, Rapporti politico-amministrativi tra Modena e Reggio nella vita teatrale, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. 264-265.
? Cfr. per il cammino dell’opera C. Sartori, Primo tentativo di un catalogo unico dei libretti d'opera, a cura dell'Ufficio Ricerca Fondi Musicali di Milano, 1973 ss., alla voce «Ezio».
280
I
Il repertorio operistico reggiano. II
Albergati e Goldoni‘. Al Paradisi si deve l’importazione a Reggio delle pièces goldoniane, iniziata con la rappresentazione de I/ giuocatore al teatro del Seminario nel 1758. Di lf in avanti, per una ventina d’anni, il teatro del Collegio
ospitò ripetutamente i testi di Goldoni, che per opera del Paradisi apparvero anche sulle scene musicali a partire dal carnevale 1760, quando con I/ filosofo di campagna e Le nozze il binomio Goldoni-Galuppi inaugura la grande stagione comica dell’opera reggiana. Opere su libretto di Goldoni rappresentate in Reggio: — C 1760. filosofo di campagna . Le nozze F 1763 . La baronessa
riconosciuta
Galuppi Galuppi
(titoli alternativi:
C 1766. C 1767 F 1768
La Cecchina; La buona figliola) Piccinni La cascina Scolari Ilmercato di Malmantile Fischietti La straniera riconosciuta (altro titolo: La calamita de’ cuori) Galuppi
F 1770 C 1773.
Le nozze (cfr. 1760) L’amore artigiano
Galuppi Gassmann
Attribuzioni dubbie e rifacimenti di testi goldoniani: C 1775. F 1778.
L'amore in musica (dubbia?) Boroni Le gelosie villane (libretto di Grandi, rifaci-
F 1779
La vendemmia (libretto di Bertati, parzial-
mento de I/ feudatario) mente basato sull'omonimo di Goldoni)
C 1783. C 1786
Sarti Gazzaniga
La vendemmia (cfr. 1779) Gazzaniga I pretendenti delusi, o sia Tra i due litiganti il terzo gode (rifacimento di Giovanni Battista
Lorenzi da Le nozze; probabilmente rappreGC 1793. A 1798.
sentata anche in C 1783) Sarti Levendemmie (cfr. 1779; 1783) . Gazzaniga Ladonnadi genio volubile (libretto di Bertati
da una commedia goldoniana*)
Portogallo
[A = autunno] 6 Sull’esperienza teatrale del Paradisi cfr. S. Davoli, Agostino Paradisi uomo
di teatro, in Teatro a Reggio Emilia, cit., pp. 247-262, e Antonio D’Orrico, Il teatro reggiano del Settecento: dal modello ducale all’utopia giacobina, ibidem, pp. 228-233.
? Cfr. C. Goldoni, Opere complete, a cura di G. Ortolani, Municipio di Venezia, Venezia, 1882, vol. XXXII, pp. 143-144.
8 Cfr. A. Loewenberg, Annals of Opera, London, John Calder, 19783, col. 527
281
R. Verti
Nominato Sopraintendente agli spettacoli, Paradisi apre finalmente il teatro di Cittadella al dramma giocoso, in passato inscenato in sole due occasioni in coda all'occupazione austriaca”. Lo stesso Paradisi peraltro ebbe qualche parte di rilievo nelle produzioni serie delle stagioni di fiera 1760 e 1761, se è vero che sull’onda delle lamentele per la scarsa qualità delle stagioni precedenti egli ebbe l’incarico di rielaborare i libretti del Derzetrio e del Derzofoonte, compito che ritenne di dover onorare rifacendosi idealmente al progetto riformatore dello Zeno e soprattutto — anche per quanto concerneva la questione dell’omogeneità dei soggetti dei balli con quello del dramma — ai recenti insegnamenti del Saggio sopra l’opera in musica dell’ Algarotti. L'impatto goldoniano del 1760 nori bastò a mutare il «sentimento universale» che per il decoro della stagione di fiera fosse opportuno mettere in scena un dramma in musica. La gestazione del cartel-
lo di fiera 1760 fu alquanto travagliata; al Derzetrio di Ponzo e alla formazione del cast si giunse dopo una lunga trattativa con il colonnello Basili, già recatosi nel mese di marzo a Bologna per riunire «una buona compagnia d’opera buffa» e più tardi costretto a prendere atto delle volontà ducali in favore dell’opera seria; lo stesso Francesco III, in occasione della
fiera dell’anno successivo, si adoperò per ottenere (senza soddisfazione) un’opera di Johann Christian Bach, che già aveva assistito nel 1760 all’ultima recita del Demetrio e poteva evidentemente godere delle attenzioni del duca in virti dei rapporti di quest’ultimo, governatore della Lombardia, con Milano, patria adottiva del compositore !°. ? Cfr. P. Fabbri, Struttura del repertorio operistico reggiano nel Settecento. I. Dalla fine del Seicento al 1760, cit., p. 271.
10 I problemi relativi alla scelta dell’opera e del cast per la fiera 1760 sono ampiamente illustrati da una serie di documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Modena, Cancelleria Ducale, Carteggio di referendari consiglieri cancellieri e segretari, busta 97, Carteggio di Alessandro Frosini 1758-1761, lettere dell’anno 1760 in data 10, 17, 27 febbraio; 2, 5, 8, 9, 12, 16, 19, 22, 23, 26, 29, 30 marzo; 2, 9, 13, 20, 27, 30 aprile; 4, 12 maggio (cfr. anche nota 3). Presso il Civico Mu-
seo Bibliografico Musicale di Bologna (con segnatura I. 24, 78) è conservata una lettera di Johann Christian Bach a padre Giovanni Battista Martini, che testimonia la presenza di Bach a Reggio per il Derzetrio: «Molto Riv.do Padre, mio Sig.re e Pad.ne Cole.mo / Confesso ancor io, che merito ogni rimprovero per parte di V.R., ma ciò non ostante spero che questa mia mancanza non mi metterà in
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Il repertorio operistico reggiano. II
L'interesse da tempo Paradisi ha dato luogo a prospettica nell’analisi del senza di Goldoni a Reggio
dedicato alla figura di Agostino qualche involontaria distorsione teatro musicale reggiano. La preappare assai più significativa per quanto attiene alla fervida attività del teatro del Seminario
di quanto non lo sia nell’ambito dell’opera in musica. Vero è che le sei opere su libretto goldoniano rappresentate in Cittadella dal 1760 al 1768 costituiscono un episodio di tutto rispetto, ma è altrettanto chiaro che il dramma giocoso di Goldoni giunge a Reggio con sensibile ritardo, non solo, ed è ovvio, su Venezia, dove esso dominava la scena teatrale da oltre un decennio, ma anche sulla vicina Bologna e sul limitrofo ducato parmense, «piazze» aperte all’importazione dei libretti goldoniani dalla metà degli anni ’50, e soprattutto nei confronti della capitale modenese, che già nel 1755 conobbe Arcifanfano re dei matti (Galuppi) e Lo speziale (Pallavicini e Fischietti, rappresentata con un cast di prim'ordine nel quale figuravano tra gli altri Francesco, Giovanna e Clementina Baglioni), nel 1756 Le virtuose ridicole, Le pescatrici e Il mondo alla roversa (tutte di Galuppi, disgrazia Sua, mercé la Bonta di V.R., ed anche quelle scuse che ragionevolmente potrò addurre. Li miei affari sono stati molti, ma questo non è tutto: Speravo di venire a Bologna, e questo di settimana in settimana, sino che questa mia Speranza è svanita. E vero che la Settimana Scorsa sono stato a Reggio, ma ero tanto pressato che non mi fermai che una notte soltanto p. sentire l’ultima Recita dell'Opera, e subito me n’andiedi a Parma ove pure due sole notte mi trattenni e
poi mi ritornai a Milano, essendo questo stato un viaggio di solo 6 giorni. Fui obligato d’andare per posta per fare pi presto, a causa che i miei affari mi rendono Scarso il tempo. L’unico motivo di fare questo viaggio fu, di Sentire due personaggi che cantavano a Reggio, ed i quali pure reciteranno il Carnovale venturo a Turino, ed essendo io fermato per quello Teatro, cosî mi fi molto utile ad in-
formarmi della virti di questi due Personaggi. Non viddi ancora il Sig.r Fioroni per farci la Sua ambasciata, ma subito che lo vedrò non mancherò d’ubidirla R.V. Le Composizioni copierò subito che il tempo mi sarà opportuno, e le trasmetterò per essere revisti da V.R. La Primavera ventura non passerà come la scorsa, men-
tre sono risoluto 4 tutto costo di andare a Bologna per starci qualche mese ed approfitarmi de documenti di V.R. se pure Ella me lo accorda come Spero. Il Sig.r Cavaliere m’impone a riverirLa ed io con tutto l’ossequio mi dico / Di V.R. / Mi-
lano li 17 Giugno 1760 / umil.mo dev.mo ed oblig.mo serv.re / Giov. Christ. Bach». Sulle premure del duca affinché Johann Christian Bach fosse prescelto per
la fiera 1761 si sofferma una lettera di Alessandro Frosini al Capponi (Carteggio, cit., in data 4 [gennaio] 1761), cortesemente segnalataci da Paolo Da Col. Ne trascriviamo il frammento in questione: «Colla Posta di domani farò sapere verso a Reggio a chi hà la direzzione dell’Opera per la prossima Fiera, La premura di
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R. Verti
con Angela, Lavinia e Giuseppe Guadagni), nel 1758 Il filosofo di campagna e Le nozze (di Galuppi, nel 1760 a Reggio con diversa compagnia), nel 1759 I/ mercato di Malmantile (Fischietti) e La conversazione (Scolari), nel 1760 La calami-
ta dei cuori (Galuppi), Il ritorno da Londra (Fischietti) e Gli uccellatori (Gassmann)!!. Lo scarto nell’acquisizione del teatro in musica goldoniano corrisponde al ritardo nell’introduzione dei soggetti comici, che a Reggio s’impongono solo quando i più importanti circuiti teatrali italiani ne hanno fatto da tempo una
realtà consolidata. Vien da credere — e qui si riconferma l’importanza dell’opera paradisiana — che senza lo stimolo dell’intellettuale reggiano la vice-capitale estense avrebbe ulteriormente procrastinato l’allineamento con le più aggiornate tendenze del gusto. In termini assai più netti che in passato, l’ibrida natura della politica teatrale reggiana vira in questi anni verso le forme organizzative e di repertorio del teatro pubblico, accoglie attraverso l’esperienza comica le compagnie itineranti e intraprende un dialogo più serrato con l’esterno. Le compagnie di canto per i drammi giocosi goldoniani vengono assoldate di norma sul mercato bolognese, come S.A.S., che sia prescelto per Compositore della Musica il Maestro di Cappella Gio. Cristiano Bach». Ancora al medesimo destinatario, in data 11 [gennaio] 1761, Frosini scrive: «Includo pure una Polizza dei Direttori dell'Opera di Reggio, colla risposta relativa alla premura dell’A.S. a favore del noto Mastro di Cappella, che hò fatto loro sapere nei precisi termini spiegatimi da V.S. Ill ma». Non avendo ottenuto la possibilità di avere un’opera di Bach per la stagione imminente, il duca premette (ma ancora senza successo) per rimandare l’ingaggio di Bach all'anno successivo, e non mancarono tentativi poco corretti nei confronti del prescelto Piccinni per indurlo a desistere dall’accettazione del contratto (lettera di Frosini, ibidem, 18 [gennaio] 1761): «Farò sapere agl’associati nell’Impresa dell'Opera di Reggio, che l’A.S. Li mette in Libertà di proseguire, e concludere il trattato introdotto col Mastro di Cappella Piccini per l'Opera di quest'anno: con che però venga da Loro scelto il Mastro di Cappella Bach per quella dell’anno venturo. Avendo però avuta occasione nei giorni passati di parlare con uno di d.d. associati, gl’hò insinuato, che potendo convenientemente schivare di concludere col nominato Mastro di Cappella Piccini per la differenza, che potrebbe insorgere nella dimanda del suo onorario, Lo faccino, per poter prendere fin di quest’Anno il proposto Mastro di Cappella Bach; ed Egli mi hà assicurato, che qualora ne trovino un’onesto motivo, Lo faranno». 11 Cfr. A. Gandini, Cronistoria dei teatri di Modena dal 1539 al 1871, Mode-
na, Tipografia Sociale, 1873 (rist. anast., Bologna, Forni, 1969), pp. 102-105.
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Il repertorio operistico reggiano. II
avviene per I/ filosofo di campagna e Le nozze nel 1760, o per La baronessa riconosciuta, ossia La buona figliola, che nella versione musicata da Piccinni giunge a Reggio nel 1763 sull’onda del repentino e vistoso successo guadagnato a Roma nel 1760. Ancora legata all'ambiente bolognese è la compagnia scelta per I/ mercato di Malmantile (1767), ripresa quando il successo italiano e internazionale dell’opera di Fischietti si va esaurendo. La compagnia goldoniana più prestigiosa viene scritturata dall’impresario Francesco Guatelli per la fiera 1770 (La schiava riconosciuta di Piccinni e Le nozze di Galuppi): vi cantano Giuseppe Pasqualini (già a Reggio per La baronessa riconosciuta e Il mercato di Malmantile) e, reduci dalla vicina stagione di carnevale, Giovanna e Costanza Baglioni, artefici della «prima» veneziana de I/ mercato di Malmantile (e di molti successi nelle repliche, un po’ dovunque), appartenenti alla celebre famiglia bolognese di cantanti che ebbe come capostipite Francesco Baglioni, aggregato alla compagnia veneziana di Girolamo Medebach !?. La poetica del quotidiano nella configurazione dei «tipi» sociali e il ritmo imposto alla scena da Goldoni passano in usufrutto negli anni ’70 all’attivissimo Giovanni Bertati, principale librettista comico del teatro San Moisè di Venezia dal 1771 al 1791. La massiccia presenza dei suoi libretti a Reggio negli ultimi trent'anni del Settecento, se certo trova una motivazione parziale nell’acquisita affinità del pubblico di Cittadella coi meccanismi drammaturgici assimilati nella lezione di Goldoni, si deve per gran parte alla persistenza della centralità veneziana nelle scelte operistiche reggiane (per ciò che riguarda i luoghi di produzione delle «prime» assolute delle opere date a Reggio, dal 1760 al 1797 le opere prodotte a Venezia assommano a circa due terzi del totale; limitando il confronto alla stagione migliore del dramma giocoso — 1760-1784 — il rapporto è all’incirca paritario, ma sono praticamente assenti casi di «importazio-
12 Cfr. S. Hansell, Francesco Baglioni, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, London, Macmillan, 1980, vol. II, pp. 17-18.
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ne» diretta delle compagnie, che anche in questo periodo provengono soprattutto dalla piazza bolognese) !?. Opere su libretto di Giovanni Bertati:
F 1772. C 1773. F 1773.
F 1774 C 1776 G.17/1 EIA F 1778
Il Calandrano Gazzaniga La locanda (probabilmente rappresentata anche in F 1772) Gazzaniga L'anello incantato Bertoni L’inimico delle donne Galuppi L'isola di Alcina Gazzaniga I filosofi immaginari Astaritta Lavillanella incostante Astaritta Il geloso în cimento Anfossi 0 L'avaro Anfossi Il marchese tulipano
Caruso
Ilcuriosò indiscreto
Anfossi
F 1779 C 1781
La vendemmia (da Goldoni) I/matrimonio per inganno
Gazzaniga Anfossi
C F C C
La vendemmia (da Goldoni, cfr. 1779) Ilvecchio geloso La statua matematica Don Giovanni Gli amanti alla prova Icapriccio drammatico Don Giovanni (cfr. 1789) Le vendemmie (da Goldoni, cfr. 1779; 1783) Il/matrimonio segreto
Gazzaniga Alessandri Valentini Gazzaniga Caruso Valentini Gazzaniga Gazzaniga Cimarosa
1783. 1783 1785 1789
C 1792. C F E A
1793 1797. 1798 1798.
I/ matrimonio segreto
Cimarosa
La donnadi genio volubile (cfr. nota 8)
Portogallo
[E = estate]
Le opere composte su libretto di Bertati nella maggior parte dei casi vengono rappresentate molto tempestivamen-
te, e si giovano dello stimolo che la presenza in città di Maria Teresa Cybo d’Este pare offrire al teatro reggiano. Nel 1770, con la rappresentazione de I/ trionfo della pace al cospetto della principessa ereditaria, ha fine la tradizione delle mascherate !, e nello stesso anno Giovanna e Costanza
13 Per i luoghi delle «prime» assolute cfr. C. Sartori, Prizzo catalogo, cit., e A. Loewenberg, Annals of Opera, cit. 14 Cfr. S. Cantore, Le mascherate camevalesche, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, p. 63.
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Il repertorio operistico reggiano. II
Baglioni contribuiscono ad accrescere il pregio delle stagioni di carnevale e di fiera, allestite di concerto con la corte modenese che provvede a fare eseguire L’olandese in Italia di Giovan Marco Rutini, al servizio del duca negli anni 1766-1774. L’astratto di Piccinni (fiera 1772) segue di un anno la «prima» veneziana, e fa conoscere ai reggiani Matteo Babbini, che canta nel ruolo di Giocondo poco prima di presentarsi in autunno, nelle medesime vesti, al teatro Formagliari di Bologna. Molti fra i maggiori successi di questi anni giungono sulle scene di Reggio: L’isola di Alcina di Gazzaniga, replicata a Modena nell’estate del 1774, ha già percorso in due anni i circuiti più importanti dell’Italia settentrionale e della Toscana, e lo stesso vale per I/ geloso în cimento di Anfossi, cantata nel carnevale 1776 da Geltrude
Flavis a due anni di distanza dalla «prima» veneziana e in seguito rimasta in repertorio in Italia e all’estero almeno fino al 1793. La frascatana di Paisiello, uno dei drammi gio-
cosi più rappresentati nell’ultimo quarto del secolo fino ai primi anni dell’Ottocento, si dà a Reggio per la fiera 1775 con una compagnia formata a Bologna all'indomani delle rappresentazioni di Venezia (autunno 1774) e Firenze (pri-
mavera 1775), anticipando la produzione milanese nell’au| tunno dello stesso anno dedicata al duca di Modena, governatore della Lombardia. Il passaggio dal repertorio serio a quello comico non influisce sul legame tra opera e fiera, e anche il dramma giocoso, seppur meno dispendioso, deve tuttavia essere sostenuto dai contributi governativi. Nel marzo 1775, in riferimento alla fiera imminente, la «Società di cittadini reggiani» che ha ottenuto l’appalto del teatro chiede «il medesimo prodotto» già concesso negli ultimi anni «agli impresari dell’opera buffa», vale a dire la metà della tassa di «bracciatura», «persuasi che i mercanti vi si adattaranno di buon animo atteso che si fa migliore la loro condizione per la maggior affluenza e concorso de forestieri, che v’arriverebbero, quando vi fosse una conveniente compagnia» !. Un 15 Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie: Spettacoli pubblici, busta 86, Casino di Reggio, lettera del 13 marzo 1775.
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riferimento al compenso derivante dall’appalto dei giuochi e alla metà della tassa di «bracciatura» compare anche in una lettera di Maria Teresa Cybo d’Este, che il 16 novembre 1779 scrive da Reggio al conte Marchisio di Varese e tratteggia in termini drammatici la situazione «ambientale» del teatro di Cittadella, avvertendo «quanto incomodo, e freddo, massime in tempo d’inverno, sia questo Teatro Pubblico, di maniera, che non basta tante volte molta spesa, e molta diligenza per ripararlo, e ne succede, che il pit delle volte io sono quasi la sola spettatrice all’opera» !. La principessa ereditaria ricorda di avere «premuto più volte» per fare costruire un piccolo teatro per l'inverno, e supplica il conte di intervenire a questo proposito presso il duca, proponendo di «commettere l’affare all’Ing. Bolognini» !. Il supporto governativo agli impresari d’opera buffa conosce qualche momento di crisi sul finire dél secolo, quando all’impresario Zerbini, reduce da reiterate vertenze con ballerini e musici !8, Ercole III intende negare la consueta «bracciatura» per l’appalto di fiera 1792, proponendo «tutt'al più» 2000 lire straordinarie a patto che vengano allestite nuove scene da lasciarsi in dote al teatro !. Si tratta tuttavia di crisi temporanee, e la struttura della gestione finanziaria delle stagioni d’opera non si altera in seguito all'istituzione di un governo repubblicano a partire dal 1796. I carteggi tra il Sopraintendente e la Commissione agli spettacoli in Reggio, e tra quest’ultima e il Comitato di Governo,
sono in questi anni intensi e concitati. In essi
permangono i temi conduttori dell’organizzazione operistica d’epoca ducale, non ultima l’applicazione del tradizionale escamzotage al fine di ridurre le spese consistente nel pagamento all’impresa di un sussidio partito al cinquanta per 16 Ibidem, minuta del 16 novembre 1779.
17 Per le perizie sulle condizioni della fabbrica del teatro compiute dallo stesso ingegnere ducale Ludovico Bolognini nel 1784, cfr. Elvira Garbero, I luoghi teatrali nei secoli XVI-XVII, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, p. 91.
18 Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie: Spettacoli pubblici, busta 7, Ristretto delle polizze, passirz. 19 Ibidem, Spettacoli pubblici, busta 8, Casino di Reggio, nota del duca al
Consiglio di economia, 15 marzo 1792.
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Il repertorio operistico reggiano. II
cento tra Reggio e Modena in caso di appalto valido per entrambi i teatri?°, e si ribadisce ancora il motivo finanziario che spesso costrinse alla scelta del repertorio comico, come è esplicitamente dichiarato anche in una lettera del 7 aprile 1797, nella quale la Commissione reggiana chiede contributi al Comitato di Governo per la stagione di fiera, allorché si sarebbe data «l’opera buffa» per «carenza di denaro»?!. Per tutto l’arco dei quarant'anni qui considerati, il medesimo rapporto nella spesa per gli allestimenti tra opera seria, comica e tragedie o commedie si riflette sulle spese vive sostenute dal pubblico pagante per assistere agli spettacoli. Una precisa definizione di tale rapporto si può dedurre dal «Piano teatrale risguardante il pagamento de’ palchi per le opere serie fuori del tempo di fiera, le opere buffe e le commedie» progettato sul finire del 1795 e sottoscritto da alcuni «Condeputati del Pubblico» ??:
opera seria
opera buffa
commedie e tragedie
Palchi di 220930%
Proprietari
4
2
ordine 4° ordine
Non proprietari
5 3
Ze 3 le 3
1
2 36 lire
«Prodotto sperabile»: Proprietari (34)
136
Liberi (37)
185
129 e 3
74
4° ordine Totale
75 37e 3 BICHIRE55
20 128
68
34
[costi espressi in zecchini]
20 Ibidem, Comitato di governo, 1796-1797. Sopraintendente agli spettacoli in Modena e Commissione degli spettacoli in Reggio, passim. 21 Ibidem, lettera della Commissione di Reggio al Comitato di governo, 7 aprile 1797. 22 Ibidem, Spettacoli pubblici, busta 86, Casino di Reggio, 3 settembre 1795. È conservata anche una ricca documentazione in merito alle pretese di indennizzo avanzate dagli impresari in seguito alla presentazione del «Piano».
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La longevità del capitolo comico nella storia operistica reggiana trova una giustificazione anche in particolari contingenze di ordine economico-finanziario. L'economia dei ducati dell'Emilia occidentale, nonostante l’applicazione reiterata di misure per il contenimento della crisi, non è propriamente florida, un diffuso malcontento dilaga tra le classi agraria e manifatturiera, e il fenomeno del pauperismo monta giungendo a toccare nel 1787 quasi un terzo della popolazione modenese, e un numero ancor maggiore di cittadini reggiani? (sul fronte del teatro d’opera, in questo periodo i soggetti comici dominano anche nel vicino ducato di Parma, mentre diverso è il caso di Modena, che séguita a coltivare il repertorio serio accanto a quello gioco-
so e semiserio). © . La fastosa messa in scena del Montezuma di Anfossi in occasione della «fiera grossa» del 1776, abitualmente considerata come il momento decisivo per il ritorno dell’opera seria in Reggio, in realtà interruppe solo momentaneamente
il predominio dei soggetti buffi; per ritrovare un’opera seria dopo il 1776 occorre andare all’allestimento del Giulio Sabino, il maggiore successo in questo genere di Giuseppe Sarti, rappresentato per la fiera 1784. La fiera del 1776 era destinata a rilanciare il commercio reggiano dopo anni di crisi. Il dramma giocoso non era sufficiente allo scopo (opinione che, come si è visto, non sarebbe mutata a vent’anni
di distanza), e la corte estense, che gestî direttamente quest'operazione di «rilancio d’immagine», attraverso il Sopraintendente agli spettacoli Andrea Cortese affidò l’incarico di curare l'adattamento del soggetto e la messinscena ad Agostino Paradisi, trasferitosi quattro anni prima a Modena in qualità di docente della locale università 4. Alla formazione del cast vocale (se non già alla scelta di Anfossi per la commissione della «prima») dovette partecipare con alcuni suggerimenti lo stesso futuro interprete del ruolo protagoni23 Cfr. A. Biondi, I ducati dell'Emilia occidentale nel periodo dell’antico regime, in Storia dell'Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna, University Press, 1977, pp. 57-61. 24 Cfr. S. Davoli, Agostino Paradisi, cit., p. 256.
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PI TR
Il repertorio operistico reggiano. II
sta, Giusto Ferdinando Tenducci, famoso castrato al culmi-
ne di una popolarità internazionale in buona parte giocata nei teatri londinesi. A fianco di Tenducci, amico di Mozart e noto per gli adattamenti dell’Orfeo gluckiano, oltre a Rosina Baglioni cantò il tenore Giuseppe Tibaldi, al servizio del duca di Modena e già impegnato nella «prima» viennese dell’ A/ceste di Gluck (1767) nonché nel mozartiano
Ascanio in Alba rappresentato a Milano nel 1771. Chiusa la parentesi del Montezuzza, si ristabiliscono prontamente le consuetudini. Sulla scena librettistica, s'è detto, dilaga Bertati, mentre in misura assai minore, ma degna di rilievo, compaiono i testi di Giuseppe Petrosellini, Filippo Livigni e Giuseppe Palomba. Quanto alle musiche, ‘esaurita la diffusione delle partiture di Piccinni e di Galuppi, a partire dai primi anni ’70 si afferma Giuseppe Gazzaniga (con una decina di titoli: da La locanda e Il Calandrano, 1772, alla terza ripresa de Le vendemmie,
1793), mentre
le opere di Pasquale Anfossi sono costantemente in repertorio dal 1775 (L’incognita perseguitata) al 1783 (I viaggiatori felici), e Giovanni Paisiello, dopo un’isolata apparizione nel 1769 (Le nozze disturbate), ottiene un vigoroso rilancio con
la diffusissima Frascatana (1775), rimanendo rappresentato costantemente fino al 1806. Una discreta presenza nel repertorio reggiano ebbero pure le opere di Luigi Caruso e di Pietro Alessandro Guglielmi. Ma il compositore più rappresentato negli ultimi quarant’anni del Settecento è Domenico Cimarosa, del quale, dal 1782 al 1800, tra «prime» assolute, «prime» cittadine e riprese, si contano ben sedici opere. Presente inizialmente con i soli soggetti comici, Cimarosa incarna per oltre un decennio la figura dell’autore di 25 Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie: Spettacoli pubblici, busta 86, lettera da Milano, 14 febbraio 1776, con progetto di Tenducci. In coda alla
fiera Tenducci cantò La Contesa, cantata composta da Anfossi su testo di Agostino Paradisi: cfr. S. Davoli, op. cit. p. 256. La notizia è riportata anche dalla gazzetta modenese «Il Messaggiere de’ successi più osservabili nell'Europa e in altri luoghi», n. 23, 5 giugno 1776. Altre notizie (avvisi) per il Montezuma sono pubblicati nei nn. 20 (15 giugno 1776) e 22 (29 giugno 1776: annuncia la presenza dell’Infante duca di Parma).
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R. Verti
Opere di Domenico Cimarosa rappresentate in Reggio fino al 1800: C 1782 L'italiana in Londra Petrosellini F C C C C C
1782. 1783. 1784 1785 1787 1789
I/convito L'’italiana in Londra (cfr. 1782) Giannina e Bernardone Giannina e Bernardone (cfr. 1784) I due supposti conti L’impresario in angustie
Livigni Petrosellini Livigni Livigni Anelli Diodati
C 1790.
L'italiana în Londra (cfr. 1782; 1783)
Petrosellini
F 1791 F 1794
I due baroni di Roccazzurra Icredulo deluso Il Cajo Mario*
Palomba Diodati Roccaforte
i
C 1797
Attilio Regolo* (1° assoluta, attribuzione dubbia)
F 1797.
Ilmatrimonio segreto
(2da Metastasio) Bertati
E 1798
I/matrimonio segreto (cfr. 1797)
Bertati
A 1798
La ballerina amante
F 1800
G4Oraziei
Casini e/o Palomba Sografi
Curiazi*
>
[* = serie]
sicuro successo. L'’italiana in Londra e Giannina e Bernardo-
ne, replicate più volte a Reggio, sono molto diffuse in Italia e all’estero (la seconda ebbe almeno una cinquantina di allestimenti fino all’età napoleonica, e rimase in repertorio fino ai primi anni dell’Ottocento), cosf come I due baroni di Roccazzurra (1790).
Dopo i fasti della fiera «grossa», il teatro musicale di Reggio acquisisce un nuovo vigore. Alla presenza degli arciduchi di Milano Ferdinando d'Austria e Maria Beatrice d’Este viene rappresentata per la fiera del 1778 la prima opera di Sarti apparsa sulle scene reggiane: Le gelosie villane
su testo del Grandi, rifacimento del Feudatario goldoniano. Le partiture di Sarti saranno in seguito oggetto di una particolare attenzione, con i drammi giocosi (I pretendenti delusi, 1786; Fra i due litiganti il terzo gode, 1783; Le gelosie vil-
lane, 1793) rappresentati nelle stagioni di carnevale e affidati alle compagnie comiche di giro (ma un dramma giocoso, Idalide, destinato alla fiera 1786, può vantare in virtù
del maggiore rango della stagione la presenza nel cast del so-
292
Il repertorio operistico reggiano. II
pranista Girolamo Crescentini, reduce dalla sconfitta subita l’anno precedente a Londra nel confronto con Giusto Ferdinando Tenducci 2), mentre i drammi seri, a testimonianza dell’autorevolezza raggiunta dal faentino, sono prescelti per siglare il ritorno del genere drammatico a Reggio in occasione delle fiere 1784 e 1785. ,
Il Giulio Sabino, già scelto per l'apertura del nuovo teatro di Imola nell’estate 1782, si dà nel 1784 per le scene di Francesco Fontanesi, richiamato dopo dieci anni di pausa a dare nuovo prestigio all'opera reggiana in coincidenza con la presenza di Sarti (sue saranno anche le scene del Medorte, 1784, e di Idalide, 1785). Cantano nel Medonte, entram-
bi all’apice della carriera, Brigida Giorgi Banti e Giovanni Ansani, quest’ultimo grande interprete nel ruolo protagonista in molti teatri italiani e più tardi ancora invitato a cantare in due tra i ruoli più interessanti del nuovo repertorio drammatico: l’eroe eponimo nel Pirro di Paisiello (1792) e Arsace ne La vendetta di Nino di Alessio Prati (1793) ??.
La determinazione delle scelte di repertorio si deve in alcuni casi a particolari contingenze strutturali dell’apparato distributivo o a eventi celebrativi occasionali. Quanto al
primo caso, merita senz’altro futuri approfondimenti la questione della circolazione del repertorio e delle compagnie tra i molti centri italiani, maggiori e minori, nei quali era attiva una fiera commerciale. Il rapporto di Reggio con la fiera di Senigallia, che, non limitandosi al commercio della seta, negli anni ’50 e ’60 aveva condotto a frequenti scambi di compagnie operistiche #, si limita nel tardo Settecento ad alcune compresenze di titoli (con diverso cast) o di singoli cantanti: analogie dovute nella maggior parte dei casi non già a un filo diretto Reggio-Senigallia, bensi alla circuitazione delle compagnie di canto, che spesso risultano
26 Cfr. A. Hériot, The Castrati in Opera, London 1956, trad. it., I castrati nel teatro d’opera, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 141-145.
27 Ansani dovette saltare qualche recita per un infortunio alla voce: cfr. «Il Messaggiere», cit., n. 20, 18 maggio 1785. 28 Cfr. A. Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVIII, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, p. 130.
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=
R. Verti
presenti in stagioni contigue sia nei ducati emiliani, sia nella zona romagnolo-marchigiana, precipuamente battuta dalle compagnie afferenti all'ambiente bolognese ??. Finora sconosciuta, e interessante benché non costituisca un fenome-
no molto vistoso, è la connessione che in qualche caso è possibile rilevare tra le fiere di Reggio e di Padova (la prima iniziava il 29 aprile, la seconda il 13 giugno): degli interpreti del Medonte reggiano (1785), Giovanni Ansani e Caterina Lorenzini passarono negli stessi ruoli a Padova per la fiera dell’anno successivo, mentre Brigida Giorgi Banti si trasferi a Padova appena concluse le recite reggiane nello stesso anno, per cantare come prima donna nell’Ifigenia in Aulide di Tarchi:°. (Il legame tra le gestioni delle stagioni di fiera in Reggio, Padovae Senigallia — spesso esplicitatosi nella stipulazione di contratti unici per i diversi teatri — prosegue nell'Ottocento, ed è testimoniato in più luoghi dagli Annali del Teatro di Reggio compilati da Carlo Ritorni tra il 1824 e il 1840). Altre volte sarà la presenza degli arciduchi Ferdinando d’Austria e Maria Beatrice d’Este a influire sul repertorio: è il caso del Derzofoonte di Tarchi (un recupero metastasiano che si commenta da sé), giunto a Reggio per la fiera del 1787 direttamente da Crema, dove era stato prodotto in «prima» assoluta e dedicato agli arciduchi milanesi nell’au-
29 Molto utile per l’analisi della circolazione del repertorio, delle compagnie e dei cantanti (nonché delle compagnie di commedia) è l'«Indice de’ teatrali spettacoli», un almanacco pubblicato dal 1764 al 1823 — con ampie lacune dopo il 1800 — in forma di annuario dei cartelloni teatrali italiani (compresi i centri minori e periferici) e stranieri (solo per i centri più importanti, e di norma per le città nelle quali era attivo un teatro d’opera italiano). Una descrizione dell’almanacco, con una tavola di riferimento per l'ubicazione degli esemplari superstiti, è data da Roberto Verti, The «Indice de’ teatrali spettacoli», Milan, Venice, Rome
1764-1823: Preliminary Research on a Source for the History ot Italian Opera, in «Periodica Musica», III (1985), pp. 1-7. Quanto alla circolazione dei cantanti tra Reggio e Senigallia, dall’«Indice» si deducono i casi seguenti: Domenico Madrigali e Antonio Rossi (con la stessa opera, La vera costanza di Anfossi, ma a un anno
di distanza: Senigallia 1776-Reggio 1777); Brigida Giorgi Banti (fiere 1785); Anna Nava (fiere 1790); Susanna Contini (fiere 1791); Caterina Zappi (nel 1797, in autunno a Reggio, in fiera a Senigallia). 30 «Indice de’ teatrali spettacoli», cit., annata Primavera 1785-Carnevale 1786, pp. 147, 165; Primavera 1786-Carnevale 1787, pp. 128-129.
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Il repertorio operistico reggiano. Il
tunno precedente (del cast originario si conservano il primo uomo Domenico Bruni e la prima donna Cecilia Giuliani) 1. Nel corso degli anni ’80, aperta l’era della convivenza dei generi comico e serio, il respiro del teatro reggiano perde in parte la sintonia col «nuovo» che era stata propria del decennio precedente. Ciò nonostante, non mancano in que-
sti anni tracce di un’ancor viva capacità di raccogliere puntualmente gli stimoli del gusto corrente. Con un ritardo di tre anni sulle due «prime», una compagnia di giro canta nel carnevale 1789 il Don Giovanni di Gazzaniga e L’impresario în angustie di Cimarosa, due farse in un atto diffusissime in tutta Europa e abitualmente circolanti in accoppiata, l’una servendo da second’atto all’altra; similmente, la ripresa del Don Giovanni nel carnevale 1792 ha luogo unitamente alla rappresentazione de I/ capriccio drammatico di Valentini, opera con la quale il Don Giovanni circola in alternativa all’Impresario cimarosiano ??. Salvo occasioni di particolare rilevanza, all'indomani delle «prime» i drammi giocosi affidano la loro permanenza nel repertorio a compagnie specializzate. Una sottocategoria
di questo vasto fenomeno è quella delle compagnie teatrali di commedia dedite all’opera, dotate di uno stato personale formato da cantanti e attori (e spesso, per l'esecuzione degli intermezzi
giocosi, da attori-cantanti).
Alcune
di queste
compagnie — circolanti nei circuiti della Lombardia, del Veneto, della Romagna e Marche e nei ducati emiliani — ottennero a Reggio appalti operistici. Nel 1779 (in autunno, stagione affidata di consueto, e non solo a Reggio, ai comici) la compagnia di Antonio Brambilla rappresentò L'isola 31 «Indice», cit., Primavera 1786-Carnevale 1787, pp. 32-35. Avvisi sul cast e in merito alla presenza in Reggio degli arciduchi di Milano in «Il Messaggiere», nn. 18 (2 maggio 1787) e 23 (6 giugno 1787). 32 Cfr. C. Sartori, Primo catalogo, cit., voci «Don Giovanni», «Convitato di pietra», «Impresario in angustie», «Capriccio drammatico»; A. Loewenberg, Axnals of Opera, cit., coll. 433-434, 441-442; «Indice de’ teatrali spettacoli», a parti-
re dal 1787, passim. Un caso analogo, testimoniato dallo stesso «Indice», è quello della circolazione in accoppiata de La Frascatana di Paisiello e Il geloso in cimento di Anfossi, rappresentate per la prima volta nell’autunno 1774 al teatro San Samuele di Venezia (ma a Reggio giunte separatamente: la prima per la fiera 1775,
la seconda nel carnevale 1776).
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R. Verti
d’amore a Parma, trasferendo l’«azione giocosa» di Sacchini a Reggio nel carnevale successivo con i balli diretti e danzati dallo stesso Brambilla. Pi rivelante è il caso della compagnia Mazzotti-Malipiero, attiva nei circuiti dell’Italia settentrionale almeno dal 1790 e formata in parte da cantantiattori. Il capocomico ottenne l’appalto del carnevale reggiano 1793 #, nel quale la compagnia presentò tre titoli impegnativi: Le gelosie villane di Sarti, Le vendemmie di Gazzaniga e Le astuzie amorose di Paér. Il cast proveniva direttamente da Parma, dove nell’autunno precedente aveva messo in scena gli stessi soggetti e, ciò che più conta, la «prima» assoluta dell’opera di Ferdinando Paér (a quel tempo al servizio della corte parmense), musicata su libretto di Antonio Brambilla. L’opera sarebbe passata poco più tardi a Piacenza per la stagione di primavera *. Il ritorno dell’opera seria favorisce di contro la circolazione a Reggio di quello che si potrebbe definire lo star system dell’epoca. Matteo Babbini ritorna nel 1778 (Catone în Utica di Andreozzi) e sarà protagonista degli anni repubblicani; Domenico Mombelli e Luisa Laschi Mombelli, la prima Contessa delle Nozze di Figaro e Zerlina nella «prima» viennese del Don Giovanni mozartiano, cantano nel 1789
(Enea e Lavinia di Guglielmi); Giovanni Ansani è il protagonista del Pirro di Paisiello (1792, con Domenico Bruni e Francesca Sansoni) e de La vendetta di Nino di Alessio Prati (1793, con Teresa Saporiti); Luigi Marchesi canta nel ruolo di Ramiro ne I/ conte di Saldagna di Zingarelli (1795), l’autore della fortunatissima Giulietta e Romeo, che dà inizio nel 1796 alla sua più che trentennale permanenza in reper33 Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie: Spettacoli pubblici, busta 7, lettera di Bartolomeo Scapinelli al conte Sanseverino, «vice-Sopraintendente
de’ teatri e spettacoli de’ Ser. Stati», del 28 ottobre 1792. 34 Cfr. P. Fabbri - R. Verti, Due secoli di teatro per musica a Reggio Emilia, cit.; P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici in Parma dall'anno 1628 all'anno 1883, Parma, 1884 (rist. anast., Bologna, Forni, 1969), pp. 44, 90; «Indice», cit., Primavera 1792-Carnevale 1793, pp. 141-143, 157-158, e Prima-
vera 1793-Carnevale 1794, pp. 130-131. Nell’annata 1792-1793 dell’«Indice» (pp. n.n., sezione «Stato Personale delle compagnie comiche italiane e toscane», voce «Luigi Mazzotti-Malipiero») la composizione della compagnia, con Gaetano Salfili, Arlecchino, impegnato come «altro primo buffo» nelle opere citate.
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Il repertorio operistico reggiano. II
torio giungendo a Reggio pochi mesi dopo la prima scaligera, accompagnata dai «creatori» dei due ruoli protagonisti: Giuseppina Grassini e Girolamo Crescentini (quest’ultimo già impegnato nel 1794 nel Cajo Mario cimarosiano con Giacomo David). Oltre che nei confronti dei pit celebri ca-
strati — Crescentini e Marchesi su tutti con il tenore Giacomo David a gareggiare con loro in agilità —, Reggio manifesta un incondizionato favore per gli interpreti di quella nuova figura del tenore sobrio, espressivo ed esperto della scena incarnata da Giovanni Ansani e da Matteo Babbini. La fortuna dei compositori dell’estrema scuola napoletana è evidente: al Gazzaniga comico, a Cimarosa e a Paisiello si affiancano Giovanni Valentini, Prati, Tarchi e Zingarelli, mentre un'attenzione non secondaria viene riservata, tra i
non napoletani (di Sarti s'è detto), a Sebastiano Nasolini, «veneziano» richiestissimo dai migliori soprani dell’epoca e prontamente rappresentato nel carnevale 1795 con Le feste d’Iside, andata in scena per la prima volta a Firenze l’anno prima su libretto di Gaetano Rossi derivato da Zeno e Pariati.
Chiusa almeno temporaneamente la partita con il potere ducale, Reggio repubblicana accoglie soggetti cari al teatro patriottico come Gli Orazi e î Curiazi (1800), già molto diffuso dopo la «prima» veneziana del 1797 e passato attraverso il filtro bolognese, con Teresa Bertinotti, Domenico Mombelli e Gustavo Lazzarini. Nell'autunno del 1797 si riprende I/ re Teodoro, importante produzione viennese di Paisiello del lontano 1784; di quest'opera, conosciuta da Mozart in occasione della «prima» viennese, si era già dato il solo finale il 30 marzo 1788, eseguito «nell’ Accademia Filarmonica da’ Sigg. Dilettanti di Reggio». I dilettanti, tema di punta dell’elaborazione teorica sul «teatro patriottico» in epoca rivoluzionaria, sono rappresentati dal reggiano Giovanni Casali, che fa eseguire una sua cantata con cori La
morte di Decio nel carnevale 1799. I problemi del nuovo governo repubblicano non sono pochi: l’opera seria, vista anche la necessità di mantenere il buon livello qualitativo degli ultimi anni, costa troppo, e per la fiera 1797 si ripiega sul comico, sia pure con uno tra i 291
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più alti esempi del genere, I/ matrimonio segreto cimarosiano. Due prime assolute hanno luogo nel carnevale 1797 e
nella fiera 1798. Della prima, un Attilio Regolo su testo di derivazione metastasiana, si sono perdute le musiche, attribuite a Cimarosa (ma verosimilmente montate secondo la tradizione del pastiche). Nell'opera, messa in scena in occa-
sione del «Congresso centumvirale» del 27 dicembre 1796, cantò Adriana Ferraresi del Bene, la prima Fiordiligi nel Cosi fan tutte mozartiano, e nonostante il rilievo dell’evento la partitura seguf il destino comune a tante «prime» reggiane settecentesche, rimanendo lettera morta dopo la prima rappresentazione. Un destino seguito anche dal Tirzoleone di Nasolini (1798, su libretto di Sografi), presente a dirigere l'orchestra alla «prima»; l’opera, sebbene vantasse in testa al cartello le voci di Matteo Babbini e di Elisabetta Gafforini, «non incontrò il pubblico favore», e venne sostituita
dal Pigmalione di Cimador, riedizione dell’omonimo mé/odrame di Rousseau nella versione italiana di Sografi . Babbini, moderno tipo di tenore eroico acclamato per le straordinarie doti teatrali, fu particolarmente affezionato al Pigmalione, che ottenne cosî una notevole circolazione. La dif-
fusione di un soggetto d’opera (in questo caso una sorta di cantata scenica) attraverso la figura di un interprete di cartello si affianca qui alla funzione svolta dal più modesto ma laboriosissimo circuito «minore», che pure forni qualche apporto alla fortuna di questa antesignana della «scena lirica» romantica (è infatti Elena Salfili, aggregata alla citata compagnia Mazzotti-Malipiero, a cantare Pigrzalione insieme a
Giuseppe Tassini a Viadana, autunno 1793) 56. Articolato in una moltitudine di realtà tra esse interagenti o operanti in modo parallelo, il teatro musicale reggiano, con la convivenza variamente funzionale del serio e del
comico, dei casts di cartello e delle compagnie buffe itine-
35 Cfr. G. Morelli-E. Surian, Pigrzalione a Venezia, in Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di M.T. Muraro, Firenze, Olschki, 1981, pp. 147-168.
36 Giuseppe Tassini e Elena Salfili danno Pigrzalione come intermezzo per le commedie recitate dalla compagnia Antonio Brambilla: cfr. «Indice», cit., Primavera 1793-Carnevale 1794, pp. 178-180.
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Il repertorio operistico reggiano. II
ranti, pare rispecchiare con sufficiente approssimazione, e talora in modo esemplare, lo stato del repertorio operistico tardo-settecentesco nell’Italia settentrionale. Non mette conto d'’illustrare qui, neppur per scorcio, quale sia stata l'evoluzione successiva dell’opera reggiana, compito già da altri affrontato in maniera esauriente’. Basti osservare che la stagione delle «prime» assolute, di fatto chiusa da tempo salvo eventi sporadici, spinge la sua ultima propaggine sino al 1802, con le rappresentazioni in quaresima e carnevale de La Zaira di Federici, e séguita pure la presenza di celebrati interpreti del canto, da Luigi Marchesi, Giacomo David, Adelaide Malanotte, Lorenza Correa, Carolina Bassi sino ai rossiniani Domenico Donzelli, Nicola Tacchinardi, Teresa Belloc, Marianna Pisaroni, Rosa Mariani. La Reggio
restaurata sarà oggetto degli interessi preziosi di Carlo Ritorni e della critica acuta di Stendhal, ma è ormai storia di una nuova era, interrotta dall’incendio dell’antico teatro di
Cittadella la notte tra il 21 e il 22 aprile 1851, e ripresa fino ai nostri tempi con la storia moderna del Teatro Municipale.
37 Cfr. P. Fabbri, I/ melodramma tra metastasiani e romantici, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. II, pp. 111-125.
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SERGIO
DURANTE
Cantanti per Reggio (1696-1717):
note sul rapporto di dipendenza
L’importanza del cantante nel meccanismo operistico è stata riconosciuta ampiamente e sotto diversi punti di vista: è risaputo che i testi musicali pervenutici costituiscono soltanto lo scheletro dell’esecuzione, arricchita dai cantanti con abbellimenti e passi (più o meno improvvisati) che venivano rinnovati di sera in sera; ad un altro livello, la stessa
struttura formale dell’aria col «da capo» è funzionale alla prestazione del cantante che ripeteva la prima sezione variandola; inoltre, la struttura intera di un’opera rivela e rispecchia le gerarchie e gli equilibri teatrali: ad ogni cantante competono arie (od anche «scene») in numero proporzionale al suo rango. Tutto ciò è ben noto, come note sono le posizioni fortemente negative tenute in proposito dai critici
letterari settecenteschi, da Gravina in poi. In questo clima di latente o aperta conflittualità teorica si innesteranno a partire dal terzo decennio del secolo nuove polemiche intese a denunciare un mutamento del gusto in senso sempre più marcatamente tecnico-virtuosistico. Mi riferisco in par-
ticolare alle Opinioni de’ cantori antichi e modemi (1723) di | Pierfrancesco Tosi ed all’ Avviso ai compositori ed ai cantanti (1727) di Giuseppe Riva, ma già il Teatro alla Moda di Benedetto Marcello (1720) aveva posto indirettamente la questione. La polemica contro il «nuovo perfido ed infettato gusto»! è una selva nella quale in questa sede non è necessario inoltrarsi, se non per ricordare che essa rinvia ad un altro ordine di problemi. Infatti, se è vero che i cantanti so1 Espressione usata dal contralto Gaetano Berenstadt în una lettera al maestro, Francesco Antonio Pistocchi, recentemente ripubblicata nell’eccellente studio di L. Lindgren, La carriera di Gaetano Berenstadt, contralto evirato (ca.
1690-1735) in «Rivista italiana di musicologia», XIX (1984), pp. 36-112, in particolare pp. 66-67.
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dr
S. Durante
no i principali responsabili di un gusto nuovo — sono dunque produttori e non solo riproduttori — dobbiamo affrontare allora un problema, sociale ancor prima che estetico, di notevole portata e conseguenze. Mettere a fuoco il «cambiamento di gusto» percepito intorno agli anni venti comporta un’indagine preliminare sulla natura del rapporto di dipendenza dei cantanti rispetto all’aristocrazia, la classe cioè alla quale era storicamente affidata la legittimazione del gusto. Si badi bene: non si tratta di rispondere con un sf o con un no alla domanda ipotetica, se fossero i cantanti emancipati dall’aristocrazia nel 1720. Piuttosto, bisognerà soppesare criticamente le tensioni del sistema per capire cosa comportava, in termini economici non meno che dal punto di vista delle consuetudini e della mentalità, campari-
re in teatro come virtupsì «del Gran Principe di Toscana» o «del Serenissimo di Modena». La questione è di importanza generale per i teatri italiami del primo Settecento, ma lo è in particolare per Reggio. Ho Lita dA«campioni» statistici relativi al mercato operistico reggiano dal 1696 al 1701 e dal 1710 al 1717. Il-primo periodo va dalla riapertura del teatro con
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Alimena all’interruzionee delle attività conse-
guente alle vicende “della guerra:di successione spagnola. Considerando i-cantanti dal punto di vista puramente qualitggivo, sarebbe sufficiente rilevare la presenza a Reggio dei più celebri ed®abili virtuosi del tempp. Come a suo tempo scrisse Adriano Cavicchi?, i nomi di Luigi Albarelli, Domenico Cecchi, Maria Domenica Pini, Margherita Salicola, Matteo Sassano, Giovanni Francesco Grossi, compongono il Parnaso musicale a cavallo dei due secoli. Va inoltre sot-
tolineato l’alto livello delle compagnie nel loro insieme: personaggi comeilbasso Giovanni Battista Cattivelli, il tenore Giuseppe Marsigli o il soprano Antonio Romolo Ferrini, meno noti, erano tuttavia altamente stimati al loro tempo?. ? Cfr. A. Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVIII, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, vol. I, Firenze, Sansoni, 1980, pp. 97-133, in particolare p. 118.
3 Su questi cantanti si vedano gli schizzi biografici di Olivo Penna nel Catalogo degli aggregati dell’Accademia Filarmonica di Bologna, ms. 244, 1 e 2 dell’ar-
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Cantanti per Reggio (1696-1717)
In questa sede interessa però considerare il «mercato del lavoro» in quanto tale, prescindendo dal valore dei singoli individui. Si tratta dunque di 34 cantanti, tutti identificati nei libretti, per un totale di 57 presenze. La completezza dell’informazione fornita dai libretti è significativa al confronto con altre piazze teatrali. A Venezia ad esempio, i nomi dei cantanti erano spesso tr'alasciati, specialmente nei teatri minori, ed un analogo disinteresse per l’identità dei virtuosi è manifesto nella maggior parte dei libretti veronesi per il teatro dei Temperati. Si può supporre che l’indicazione degli interpreti intendesse rendere lustro tanto ai cantanti quanto — e forse specialmente — ai loro protettori. Comunque sia, nelle sette opere considerate, il teatro di
Reggio utilizza cantanti associati alle corti in 48 casi su un totale di 57 presenze. In percentuale, questo significa che la città contava all’84,2% su questo tipo di reclutamento; si arriva quasi al 100% escludendo dal conteggio i ruoli minori*. Un termine di paragone può essere costituito dal mercato veneziano nel primo quarto del secolo, con una percentuale del 44,9% appena (ma sarebbe più vicina alla cifra di Reggio se si considerassero solo i teatri principali ). La maggior parte di quelle 48 presenze sono associate alla corte del principe «naturale» (Modena, 27), seguita da Mantova (10) e dal principe Ferdinando de’ Medici (8). Altri contributi hanno carattere occasionale (Real Cappella di Napoli, corte Cesarea e Savoia con una presenza ciascuna).
Si è parlato, a proposito di questo regime di scambi, di un vero e proprio «circuito ducale», aperto ad est verso i maggiori teatri veneziani. In questo microsistema, i virtuosi chivio dell’Accademia Filarmonica di Bologna, ristampato anastaticamente come numero I della serie «Monumenti» dell’ Accademia stessa, ma erroneamente attri-
buito dalla curatrice Anne Schnoebelen a Giovanni Battista Martini. 4 Sono stati utilizzati i dati provenienti dai libretti delle seguenti opere rappresentate a Reggio: A/mansorre in Alimena (1696), Oreste in Sparta (1697), L'enigma disciolto (1698), L’Ulisse sconosciuto in Itaca (1698), La caduta dei decemviri (1699), Odio padre d’amore (1700), Tito Manlio (1701).
? Si veda in proposito S. Durante, Alcune considerazioni sui cantanti di teatro del primo Settecento e la loro formazione in Antonio Vivaldi. Teatro musicale, cultura e società, a cura di L. Bianconi e G. Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 427-481.
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comparirebbero nella veste di pedine, spostate ad arbitrio ed a seconda delle convenienze politiche dei loro padroni. In realtà, la presunta passività dei cantanti rispetto al processo non è mai stata verificata, anche a causa della scarsezza di fonti che descrivano esplicitamente il rapporto del virtuoso con la corte. Un raro documento che fornisce qualche lume in proposito è il contratto proposto alla cantante fiorentina Clarice Gigli da Ferdinando Carlo duca di Mantova. Dato che il documento è già stato pubblicato anche se non discusso $, lo riassumo qui schematicamente, riportando per intero solo ipassi salienti ed aggiungendo i commenti necessari. i Il duca propone alla Gigli non una, ma quattro formule contrattuali diverse, lasciando alla cantante la scelta definitiva. Ovviamente, quanto maggiori sono i benefici economici, tanto minore è l'autonomia concessa.
I. Si propone l’«attual servizio» con stipendio di 300 doppie l’anno e l’abitazione, pit i benefici dotali per due sorelle. In cambio la cantante ha l’obbligo di risiedere a Mantova e di non accettare impegni in alcun teatro «ma ... restare alla sola ed autorevole disposizione dell’ Altezza Serenissima con andar a recitar dove Ella comanderà». Con questo tipo di accordo — che, si noti, è il primo ad essere proposto e forse il prediletto dall’offerente — si configura esattamente il ruolo del cantante-pedina. II. In alternativa si propone uno stipendio di 200 doppie annue e vitto di casa «lasciando alla stessa [Gigli] libertà di ricevere impegni di recite con la permissione assoluta di Sua Altezza che benignamente assentirà [corsivo mio], ancora portarsi
a Venezia a recitare etiam nel teatro de Signori
Grimani adempito che abbino alle debite convenienze coll’ Altezza Serenissima per le cose già passate...». Sono aggiunti benefici per i parenti. La seconda formula è un po’ oscura riguardo alle «debite convenienze». E evidente però 6 Una prima volta nello studio di G. Cavalcaselle, Tipi di scritture teatrali attraverso luoghi e tempi diversi, contributo storico-giuridico allo studio della natura contrattuale delle scritture teatrali, Roma, Athenaeum,
1919, sez. II, pp. 12-13;
successivamente nello studio citato alla nota precedente, pp. 437-438, nota 14.
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Cantanti per Reggio (1696-1717)
che la cantante hatotale libertà di movimento, pur figurando come serva di Sua Altezza. III. Secondo la terza formula, la Gigli riceve 100 doppie annue e può abitare a Firenze (sua patria), ma «coll’obbligo di essere dedicata di serva di Sua Altezza Serenissima», la-
sciandola libera «d’andar a recitare, anco ne teatri de’ Signori Grimani, adempito che habbino però alle convenienze di Sua Altezza come sopra». Qui il rapporto con la corte è ridotto alla pura apparenza. 7 Nei tre casi si configura la funzione del cantante come «strumento di prestigio e propaganda culturale per lo Stato»; tuttavia, dalla prima alla terza formula il rapporto di dipendenza cambia interamente. A noi non interessa sapere che scelta abbia fatto la Gigli (dal documento non appare), quanto conoscere quale fosse l’arco delle possibilità, ovvero delle consuetudini, in un rapporto di serviti. IV. La quarta proposta non è altro che un pressante invito ad accettare una delle precedenti. Vi si stabilisce che, ove la Gigli non accetti alcuna delle formule, «Sua Altezza risolve a continuargli la sua benignissima protezione, correndo però l’obbligo ... di non ricevere servizio di qualsiasi principe anche ... naturale, né di andar a recitare ... a Venezia in alcun teatro [in altre parole: divieto di lavoro!], protestandosi Sua Altezza che, contravenendo ... a gli ordini che gl’impone, incorrerà ... nella sua giusta indignazione». Insomma, si tratta di offerte che non si possono rifiutare, ma che descrivono una notevole variabilità nella condi-
zione del sottomesso. Sarebbe rischioso attribuire un valore generale ad un solo documento, ma pare chiaro che il «virtuoso di Sua Altezza Serenessima» dei libretti d’opera è ormai ben lontano dal cantante di corte, nel senso in cui si poteva riconoscere un’Adriana Baroni od anche un Baldassarre Ferri. Il potere aristocratico è sempre in sella, ma deve sapersi accontentare delle apparenze (e pagarle profumatamente); il professionista teatrale è formalmente dipenden7 Come viene chiarificato da L. Bianconi-Th. Walker, Production, Consump-
tion and Political Function of Seventeenth-Century Opera, in «Early Music History», IV (1984), pp. 209-296, in particolare pp. 281-282.
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te, ma le sue possibilità di scelta si ampliano a misura dell'espansione del mercato operistico. Torniamo a Reggio. Dopo l’interruzione dell’attività operistica per sette anni a seguito delle vicende collegate alla guerra di successione spagnola, la situazione dei cantanti non si riproduce uguale al passato. Su un campione di sette produzioni, equivalente al precedente, riscontriamo significative novità. Innanzitutto un notevole avvicendamento ge-
nerazionale: compaiono le nuove stars come Giovanna Albertini («la Reggiana»), Margherita Durastanti, Giovanni Paita, Francesco Bernardi, Faustina Bordoni. Ma interessa
soprattutto notare il drastico calo dei cantanti associati alle corti. Dall'’84,2% del primo periodo, si passa ora al 31,8%. Inoltre, molti cantanti «indipendenti» compaiono in ruoli di protagonista (la Durastanti, la Albertini, il Senesino). E difficile stabilire se si tratti di un fenomeno transitorio o di una tendenza di lungo periodo. Di certo comunque, con la caduta dei Gonzaga e, dopo pochi anni, la morte di Ferdinando de’ Medici, ha fine anche il cosiddetto «circuito ducale». Gli eventi della guerra di successione forse contribuirono ad accentuare una tendenza in atto: i teatri diventano sempre più pubblici in quanto uno dei perni del meccanismo,
il cantante, è sempre meno possesso privato
dell’aristocrazia. Vorrei avviarmi alla conclusione presentando un estratto da un altro singolare documento (questa volta inedito), la
relazione di un incidente teatrale occorso nel 1712 a Pavia?. Il contralto Francesco Braganti solleva un putiferio e provoca
un duello (sventato come
di consueto
all’ultimo
momento) perché vuole cantare a suo modo un'aria allegra: 8 Questo secondo campione è basato sui dati provenienti dai libretti delle seguenti opere rappresentate a Reggio: I rivali generosi (1710), La virtà trionfante dell’inganno (1712), Il trionfo di Camilla (1713), L’Eumene (1714), Il tartaro nella Cina (1715), Il Ciro (1716), La conquista del vello d’oro (1717). Ringrazio l’amico
Lowell Lindgren che ha cortesemente messo a mia disposizione i dati sulle rappresentazioni reggiane in suo possesso. ? Il documento è conservato a Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 76, n.
13 (provenienza Ubaldo Zanetti), c. lr.
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cioè la vuole cantar lenta! Tutto nasce un lunedî sera, quando uno dei conti Mezzabarba, «molto intelligente di musica, disse al detto musico sumissa voce: “pit allegra”; al che
il Braganti lasciando di cantare rispose impertinentemente assai forte: “va detta cosî poffare Dio”, e proseguf l’aria sempre più adagio, onde, nel tempo istesso trovandosi in scena ... la Rosaura Mazzanti, virtuosa fiorentina protetta, e raccomandata all’Illustrissima ... contessa Felicita Mezzabarba, fu alla medesima comandato, che passeggiasse per il palco, né stesse a sentir l’aria, che cantava il masico Braganti».
Non val la pena di inoltrarsi nella vertenza fra Braganti e i Mezzabarba. Il passo riportato contiene tutti gli elementi a noi utili: un cantante disobbediente in nome della propria competenza professionale (vera o presunta, è secondario), una cantante obbediente per consuetudine, ed urra fa-
miglia offesa ed imbarazzata, che rappresenta un ceto abituato a comandare e non più ascoltato. Vi si potrebbe vedere lo scenario in scala ridotta per la propagazione di quel «nuovo gusto» del quak si diceva all’inizio, un gusto fondato, ancor prima che sull’agilità delle voci, sulla possibilità effettiva di operare delle scelte relativamente autonome. Braganti decideva nel 1712 di cantar lento; di lf a pochi anni Faustina Bordoni, la «musa nuovissima» !°, avrebbe deciso di puntare tutto sull’aspetto virtuosistico. La definizione dei tempi e delle modalità secondo le quali il nuovo gusto si fece strada dovrà comunque tenere in debito conto i mutevoli rapporti fra protettori e protetti, che cosî significativamente si alterano a Reggio fra 1696 e Lite.
L’elemento di continuità era costituito dal perdurante interesse per i migliori e più dispendiosi cantanti, che rendevano la breve stagione reggiana una delle più prestigiose d’Italia.
10 Cosi Vincenzo Martinelli, Lettere famziliari e critiche, Londra, Nourse, 1758, p. 360, nella lettera al sig. conte di Buckinghamshire Sulla origine delle opere in musica.
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LINDGREN
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro» (Reggio Emilia 1717)
La fama di Antonio Bononcini, fin dalla morte, avvenuta nel 1726, si è retta soprattutto su due opere: uno Stabat mater, celebrato per la sua splendida doppia fuga!, e I/ trionfo di Camilla, reputato il dramma per musica di maggior successo fra tutti quelli andati in scena intorno al 17002. Esse stanno agli estremi opposti della gamma stilistico-musicale, visto che Cazzi/la dà voce agli umori baldanzosi e ai toni suadenti degli anni a venire più che al pathos severo e al preziosismo contrappuntistico del passato; e non per nulla la stessa Carzi/la è stata da taluno considerata un’antesignana delle opere di Cimarosa? oppure un punto d’abbrivo dello stile napoletano di Vinci e della sua cerchia‘. Ma quest’opera è sempre stata attribuita ad Antonio per errore ?, giacché tutte le fonti indicano nel fratello maggiore Giovanni il vero autore; del resto, Antonio lavorò insieme con Giovanni fino a 35 anni, e non è dunque sor-
prendente che certe sue opere rivelino alcuni dei tratti progressivi presenti nelle opere del fratello. Tali tratti mancano Traduzione dall'inglese di Alessandro Roccatagliati. 1 Se ne vedano le analisi in Giuseppe Paolucci, Arte practica di contrappunto, Venezia, Castro, 1776, vol. II, pp. 15-45, e in Siegfried Dehn, Analysen dreier Fugen aus Joh. Seb. Bach's Wobhl-temperirten Clavier und einer Vocal-Doppelfuge A.M. Bononcini’s, Leipzig, Peters, 1858, pp. 8-11 e 31-37. 2 Cfr. Lowell Lindgren, I trionfi di «Camilla», in «Studi musicali», VI (1977), pp. 89-159, e «Carzilla» and «The Beggar's Opera», in «Philological Quarterly», 59
(1980), pp. 44-61.
3 Cfr. Ludwig Kéchel, Johann Josef Fux, Vienna, Hòlder, 1872, p. 67. 4 Cfr. Edward O.D. Downes, The Neapolitan Tradition in Opera, in Report of the Eighth Congress of the International Musicological Society, New York 1961, Kassel, Barenreiter, 1961, vol. I, p. 279. 5 L’errore risale a Giovanni Carlo Bonlini, Le glorie della poesia e della musica contenute nell’esatta notizia de’ teatri della città di Venezia, Venezia, Buonarigo, 1731, p. 131; e lo si ritrova ancora in Carlo Frajese, Antonio Maria Bononcini, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XII, Roma, 1970, pp. 346-348.
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invece nel solenne Sabat water, ripreso modernamente a Siena nel 19586, indi pubblicato e registrato su disco a Londra nel 1977 in occasione del terzo centenario della nascita del compositore. Intorno al primo centenario, Padre Martini — che forse si basava proprio soprattutto, se non esclusivamente, sopra
lo Stabat mater, di cui la sua biblioteca (oggi nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna) conserva un esem-
plare manoscritto — cosf giudicava lo stile di Antonio: Abbenché non abbia data alle stampe alcuna delle sue opere, fece però sentire nelle sue coraposizioni un stile cosf elevato, cosî vivace, cosf artificioso, e dilettevole, che si rese distinto sopra la maggior parte
de’ compositori su’ principio del presente secolo, tuttoché di uomini insigni 8.
ebbondante
Non v’è dubbio che, al dotto Martini, lo stile di Antonio
apparisse «vivace» in quanto «elevato» e, parimenti, «dilettevole» in quanto «artificioso». Qui tratteggeremo la carriera di Antonio Bononcini e i caratteri delle opere ch'egli scrisse per Vienna, per poi confrontarle con i drammi per musica composti in fine di carriera, esaminandone uno particolarmente significativo: La conquista del vello d’oro, composto per Reggio nel 1717. Saremo cost in grado di valutare se le sue opere profane presentino o meno, al pari dello St4bat mater, quello «stile elevato» che avrebbe fatto di lui, nel
6 Cfr. C. Frajese, Antonio Maria Bononcini, cit., p. 347, e Gino Roncaglia, Antonio Maria Bononcini e il suo «Stabat Mater», in Musicisti lombardi ed emiliani, Firenze, Olschki, 1958 («Chigiana», XV), pp. 117-125.
? L'edizione è a cura di Peter Smith (Sevenoaks, Kent, Novello, 1974), mentre la registrazione del 1977 è diretta da George Guest per le matrici della Decca Record Company (Argo ZRG 850, 1978). Il lavoro di Smith si basa esclusivamente sul manoscritto DD. 187 del Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna. Smith non conosceva
il manoscritto
(erroneamente
attribuito ad Antonio
Maria Pacchioni) conservato a Modena, Biblioteca Estense, Mus. F. 843, pit particolareggiato: ad esempio, vi sono riportate le indicazioni di tempo dei numeri 8,9 e 10: Sostenuto, Andante e Affettuoso. 8 [Giambattista Martini], Scrittori e professori di musica modenesi, in Bologna,
Civico Museo Bibliografico Musicale, H. 61, c. 130. Il giudizio di Martini fu pubblicato per la prima volta in Girolamo Tiraboschi, Biblioteca modenese, vol. VI (Supplemento ... con una appendice de’ professori di musica), Modena, La Società Tipografica, 1786, pp. 575-576.
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Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
primo Settecento, un musicista «distinto sopra parte de’ compositori». La madre di Antonio morì quand’egli aveva giorni di vita, e il padre, maestro di cappella scomparve appena un anno e mezzo più tardi’.
la maggior
solo undici a Modena, Il fratello,
di sette anni più anziano, si ritrovò capo famiglia: ai quat-
tro Bononcini superstiti fu concessa l’assistenza del duca di Modena Francesco II (11694) !°. Giovanni ed Antonio Ma-
ria frequentarono la schola cantorum di San Petronio a Bologna,
ove
il loro
maestro,
Giovanni
Paolo
Colonna,
senz'altro trasmise loro il gusto del contrappunto «accademico» !!. Nel 1693 il quindicenne Antonio compose la sua prima opera a noi nota, un Laudate pueri per «canto solo con violoncello obbligato» piuttosto florido !?, e suonò il violoncello in almeno uno degli eventi musicali promossi dal legato papale a Bologna, il cardinale Benedetto Pamphili 5. Il fratello Giovanni si era trasferito a Roma nel 1692, e
là Antonio lo raggiunse prima del novembre 1696, allorché prese parte ad alcune esibizioni dell’associazione romana
? Cfr. Gino Roncaglia, Di insigni musicisti modenesi (documenti inediti), II: Su la famiglia dei Bononcini, in «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie modenesi», serie 7, VI (1930), pp. 14-16.
10 Una lettera del 6 aprile 1690, in cui Giovanni Bononcini fa presenti al duca i propri oneri finanziari, è riportata in Gino Roncaglia, L.A. Muratori: la musica e il maggior compositore modenese del suo tempo, in «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie modenesi», serie 7, VIII (1933), pp.
298-299. Gli altri due componenti della famiglia erano la matrigna Barbara Tosatti e il fratellastro Giovanni Maria, detto Angelo. 11 Nella dedica delle sue Sinforie op. 3 (Bologna, Monti, 1685) il quindicenne Giovanni esprimeva profonda gratitudine pet le cure e gli insegnamenti quasi paterni che il Colonna gli riservava: «...et a credito della sua affettuosa disciplina comprovano esser agevoli anche all’età più tenera le difficili materie del Contrapunto». La dedica si legge in Claudio Sartori, Bibliografia della musica strumentale stampata in Italia fino al 1700, Firenze, Olschki, 1952, p. 518.
12 La partitura manoscritta, datata 19 febbraio 1693, si conserva a Bologna, Basilica di San Petronio, Lib. B. 3. Un Laudate Pueri piuttosto simile per «alto solo con violoncello obligato del sig. Bononcini» è a Wiesentheid (RFT), nella biblioteca musicale dei conti Schénborn-Wiesentheid, ms. 440; potrebbe però trattarsi di un’opera di Giovanni e non di Antonio. 13 Cfr. Lina Montalto, Un mecenate in Roma barocca: il cardinale Benedetto Pamphili (1653-1730), Firenze, Sansoni, 1955, p. 332. Il Bononcini di cui si valse il cardinale sarà stato Antonio, poiché all’epoca (maggio 1693) Giovanni risiedeva a Roma.
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dei musici, l'Accademia di Santa Cecilia !*. Essendo en-
trambi violoncellisti, è impossibile desumere dalle contabilità, ove queste diano il solo cognome, quale dei due fratelli Bononcini suonasse effettivamente !. E probabile che Antonio si guadagnasse di che vivere come strumentista, poiché risulta ch’egli componesse molto poco in quei primi anni di carriera !6. Certo egli dovette suonare spesso nelle chiese e nei salotti romani, ed ebbe modo di familiarizzarsi col magistero contrappuntistico corelliano. Nel 1698 Giovanni entrò al servizio dell’imperatore, e Antonio lo raggiunse a Vienna prima del 1702, quando i due si esibirono insieme alla corte di Sofia Carlotta a Berlino ”. A quanto pare !8, Antonio fu assunto dalla regina Sofia, ed è possibile
14 Cfr. Alberto Cametti, La Società del Centesimo presso la Congregazione di Santa Cecilia (1688), in Annuario della R. Accademia di Santa Cecilia, 1920-21, Roma, Manuzio,
1921, p. 5.
15 E il caso, per esempio, dei pagamenti registrati per il periodo 1694-1698 in Hans Joachim Marx, Die Musik am Hofe Pietro Kardinal Ottobonis unter Arcangelo Corelli, in «Analecta Musicologica», V (1968), ai nn. 72, 75, 82, 85, 88, 128.
16 Egli scrisse musica per una cantata a due voci di Giovan Battista Andriani, La fama eroica per la gloria immortale dell’antichissima e nobilissima casa Cornara in persona del cardinal Giorgio Vivente, Roma, Komarek, 1698, ma ne rimane
solo il libretto. Durante il periodo romano egli scrisse probabilmente anche «Clori, da te sol chiedo», una serenata a tre voci a lui attribuita nel ms.590 della colle-
zione Santini conservata nella Biblioteca del Seminario vescovile di Miinster. Manoscritti della stessa serenata sono anche a Parigi: Bibliothèque Nationale, Rés. Vma. ms. 945, cc. 32-56 («dal s.r Bononcini»),
e Conservatoire, D. 15164,
‘cc. 1-28 («del sig.r Giovanni [!] Bononcini»). Alcune delle sue cantate per voce sola potrebbero risalire anch’esse allo stesso periodo.
17 Si veda il resoconto autobiografico di Georg Philipp Telemann in Johann Mattheson, Grundlage einer Ebren-Pforte (1740), a cura di Max Schneider, Berlin,
Liepmannssohn, 1910, p. 359; riportato anche da Curt Sachs, Musik und Oper am Kurbrandenburgischen Hof, Berlin, Bard, 1910, p. 111. 18 Cfr. la traduzione sommaria della lettera del 27 novembre 1703 (Firenze, Archivio di Stato, Medici 2700, ins. III) in Hermine Kiihn-Steinhausen, Der
Briefwechsel der Kurfirstin Anna Maria Luise von der Pfalz, in «Diisseldorfer Jahrbuch: .Beitrige zur Geschichte des Niederrheins»,: XL (1938), p. 74. Nel passo che ci interessa Anna Maria scrive: «Sento che la Regina di Prussia avesse preso al servizio il fratello di Bononcini che è a Vienna». In una lettera del 27 maggio 1702 la regina riferisce di aver preso al proprio servizio «le gargon de Bononcini», cioè il cantante Antonio Tosi (cfr. Briefe der Konigin Sophie Charlotte von Preussen und der Kurfirstin Sophie von Hannover an hannoversche Diplomaten, a cura di Richard Doebner, Leipzig, Hirzel, 1905, p. 11). Anna Maria potrebbe
aver confuso il «garcon» con il «fratello», nel qual caso può darsi che Antonio non rimanesse al servizio della regina.
bI7
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
che egli si stabilisse a Berlino fino alla morte della sovrana (1 febbraio 1705).
Tre mesi dopo, il 5 maggio 1705, scomparve anche l’imperatore Leopoldo, e gli successe il figlio Giuseppe. Giovanni Bononcini era il musicista prediletto del nuovo sovrano ‘° e senz'altro aiutò il fratello ad ottenere una posizione di spicco all’interno del nuovo establishment musicale. Iniziò cosf per il ventottenne Antonio la seconda fase della sua carriera, sei anni durante i quali egli produsse non meno di 24 opere profane per la corte viennese: tredici cantate riccamente
strumentate 2°, sei serenate
celebrative,
quattro
oratorii in due parti e un dramma per musica in tre atti?!. Di tutte queste composizioni viennesi sopravvivono le par-
titure, eccezion fatta per la primissima, un oratorio che fu dato per celebrare la conquista di Barcellona da parte del fratello minore dell’imperatore, Carlo, pretendente austriaco al trono spagnolo. In un resoconto a stampa a pro-
posito della sua opera seguente, Antonio viene definito Kapellmeister di re Carlo ?2, cosicché non sorprende certo che tre delle serenate composte in seguito siano state scritte in onore del re . Ma la sua musica dovette risultare gradita anche all’imperatore Giuseppe, che nel 1710 lo nominò «compositore imperiale» e gli commissionò il suo primo dramma per musica 4; la nomina fu considerata retroattiva, 19 Cfr. Lowell Lindgren, Giovanni Bononcini, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, London, Macmillan, 1980, vol. III, p. 30. La sua paga
ammontava al doppio di quella di tutti gli altri musicisti, stando alla tabella che riporta Adolf Koczirz, Exzerpte aus den Hofmusikakten des Wiener Hofkammerarchivs, in «Studien zur Musikwissenschaft», I (1913), pp. 286-287. 20 Cfr. l’esauriente disamina di queste cantate in Lawrence Bennett, The Italian Cantata in Vienna, c. 1700 - c. 1711, Ann Arbor, Michigan, University Microfilms International, 1980.
21 Se ne trova l’elenco in The New Grove Dictionary, vol. III, pp. 34-35. 22 Wienerisches Diarium, n. 311, citato in Wilfrid Scheib, Die Entwicklung der Musikberichterstattung im Wienerischen Diarium von 1703 - 1780, mit besonde-
rer Beriicksichtigung der Wiener Oper, dissertazione, Vienna, 1950, p. 66. 23 La Fortuna, il Valore e la Giustitia (testo anonimo, 1706), La conquista del-
le Spagne di Scipione Africano il Giovane (Paolo del Nero, 1707) e La presa di Tebe (Silvio Stampiglia, 1708). Le prime due vennero scritte per l'onomastico di Carlo, l’ultima per il suo genetliaco. 24 Si tratta del Tigrane, re d’Armenia (libretto di Pietro Antonio Bernardoni). La nuova qualifica di Antonio è specificata nel frontespizio delle edizioni in lin-
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a decorrere da tutto il 1707, e da tale data il suo congruo compenso fu pari a quello dei Kapellmeister imperiali ??. Le composizioni di Antonio per la corte viennese si volgono decisamente allo stile «elevato», il che le distingue nettamente dalle opere degli altri italiani allora operanti in Vienna. E una caratteristica, questa, ben documentata in un recente studio sulla produzione di cantate nella Vienna degli anni del soggiorno di Antonio ?°. Al pari delle cantate, anche le serenate, gli oratorii e il dramma per musica palesano una scrittura a trame serrate, ricca di artifici contrappuntistici. I brani strumentali, che procedono perlopit col passo armonico svelto di un Corelli e non con l'andamento
più tardigrado di un Vivaldi, ostentano episodi fugati e costrutti basati sull’uso copioso della progressione ??. Le arie sono di preferenza in minore e in molti casi evidenziano quegli artifici — ritmi puntati, condotta melodica spigolosa, armonie cromatiche — che procurano l’enfatizzazione del pathos 8. L’intensificazione affettiva è spesso corroborata dagli interventi del violino e/o dei legni che, interagendo dialogicamente con la voce, incentivano nel contempo la propulsione ritmica ??. Tale moto propulsivo a volte scavalca
gua tedesca dei libretti del Tigrane (1710) e de L’interciso (1711), cioè Der Tigra-
ne, Kònig in Armenien e Der Zergliederte. 2 Circa il suo salario, cfr. A. Koczirz, Exzerpte aus den Hofmusikakten, cit. p. 286; per quanto concerne quello dei Kapellmeister, cfr. L. Kéchel, Johann Josef Fux, cit., p. 357. Quanto al primo pagamento retroattivo di Antonio, si veda
Herwig Knaus, Die Musiker in den geheimen kaiserlichen Kammerzahlamtsrechnungsbichern (1669, 1705-1711), in «Anzeiger der phil.-hist. Klasse der Osterreichischen Akademie der Wissenschaften», CVI/2 (1969), p. 32. 26 Cfr. L. Bennett, The Italian Cantata, cit. 27 Cfr. l’analisi e gli esempi relativi in Egon Wellesz, Die Opern und Oratorien in Wien von 1660-1708, in «Studien zur Musikwissenschaft», VI (1919), pp. 1DO-19:
28 Cfr. le osservazioni di Arnold Schering, Geschichte des Oratoriums, Leipzig, Breitkopf und Hartel, 1911, pp. 209-210, che in parte costituiscono una replica a quelle di Ferd. Graf Laurencin, Oratorien-Componisten des 18. Jahrbunderts, in Otto Wangemann, Geschichte des Oratoriums, Demmin, Frantz, 1882, pp. 269-290.
2° Cfr. l’esempio in Hellmuth Christian Wolff, Italian Opera, 1700-1750, in Opera and Church Music, 1630-1750, a cura di Anthony Lewis e Nigel Fortune,
New Oxford History of Music, vol. V, London, Oxford University Press, 1975, pp. 83-86 (trad. it. Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 106-108).
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Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
addirittura le suddivisioni formali dell’aria «da capo»°. La
sezione di mezzo dell’aria col «da capo» non risulta mai banale; in effetti, essa è spesso di ampiezza pari alla sezione principale ed è dotata spesso di un proprio ritornello mediano?! In breve, le composizioni vfennesi di Antonio risultano straordinariamente curate nei particolari, più adatte all’uditorio ristretto ed attento di un concerto da camera che al pubblico rumoroso d’un teatro d’opera. Di gusto conservatore e gelosamente esclusiva, la corte viennese dovette essere la cornice ideale per le musiche di Antonio. Poco meno di due anni dopo la morte dell’imperatore Giuseppe, avvenuta il 17 aprile del 1711, il successore Carlo decise di licenziare i due Bononcini ”?. I fratelli rientrarono allora in Italia, ormai passata, in gran parte, sotto il do-
minio austriaco a seguito della guerra di successione spagnola. Napoli e Milano erano governate dagli austriaci, mentre sia il duca di Savoia, Vittorio Amedeo, che quello
di Modena e Reggio, Rinaldo, erano rientrati in possesso dei loro dominii grazie alle truppe imperiali”. Rinaldo era stato intimo dell’imperatore Giuseppe, anche in virtù del fatto che le loro mogli erano sorelle. Nel 1713 la vedova di Giuseppe si rivolse a Rinaldo perché promettesse ad Antonio il posto di maestro di cappella alla corte modenese, ovemai si rendesse vacante. Rinaldo acconsentì a questa ma non all’altra richiesta della cognata, quella di riconoscere ad Antonio, fino a che l’incarico non fosse divenuto effettivo,
30 Questo straripamento si presenta con maggiore frequenza, nel corpus delle sue composizioni viennesi, all’interno de L’interciso (1711), l’ultima in ordine cronologico. Fra di esse solo I/ trionfo della grazia, overo La conversione di Maddalena (1707) contiene un numero significativo di arie che prescindono dalla forma col «da capo»; ciò si deve al fatto che il libretto, scritto da Benedetto Pamphili nel 1685 a Roma, era «antiquato». 31 Le sezioni intermedie più ampie si trovano nella Conquista delle Spagne di Scipione Africano il Giovane (1707); esempi paragonabili si vedono tra le cantate (cfr. L. Bennett, The Italian Cantata, cit., p. 383).
32 La documentazione relativa è pubblicata in L. Kéchel, Johann Josef Fux, CIS, pe; 315-322.
33 Si veda, ad esempio, Charles W. Ingrao, In Quest and Crisis: Emperor Jo-
seph I and the Habsburg Monarchy, West Lafayette, Indiana, Purdue University Press, 1979, cap. IV.
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la qualifica ufficiale di suo «attual servitore» #. Cionondimeno Antonio si stabili a Modena con la moglie *; egli era senz'altro consapevole di dover cercare lavoro in altre città, visto che Rinaldo non era mai stato amante della buona musica ed era ormai nient'altro che un vedovo cinquantot-
tenne fastidioso e lunatico ?. Antonio aveva allora 36 anni, un’età che gli sarà parsa la soglia dell’oblio, considerato che ambo i suoi genitori ed i suoi protettori illustri degli anni precedenti — il duca Francesco II, la regina Sofia Carlotta e l’imperatore Giuseppe — erano tutti scomparsi nel fiore dei loro trent'anni. E invece si trovò ad intraprendere una carriera del tutto nuova. Poiché nessuno dei suoi lavori viennesi era mai stato sentito al di fuori della corte imperiale ??, in Italia lo conoscevano soltanto i diplomatici austriaci. Tuttavia i rappresentanti imperiali, sebbene egli avesse scritto per Vienna un solo dramma per musica, dovevano avere gran fiducia nelle sue capacità, se gli commissionarono ben presto tre drammi per Napoli e Milano (cfr. appendice 1). Essi dovettero riscuote-
34 La documentazione è pubblicata e discussa in Lowell Lindgren, A Bibliographic Scrutiny ot Dramatic Works Set by Giovanni and His Brother Antonio Maria Bononcini, Ann Arbor, Michigan, University Microfilms International, 1974, pp. 133-136.
35 I nomi dei cinque figli nati a Modena dal 1715 al 1722 sono riportati in G. Roncaglia, Di insigni musicisti modenesi, cit., p. 18. La moglie di Antonio, Eleonora Sutterin, era forse parente di quella Cunigonda Sutterin che cantò come soprano in molte delle opere che i Bononcini scrissero per Vienna (cfr. L. Lindgren, A Bibliographic Scrutiny, cit., pp. 977 e 1049, e L. Kéchel, Johann Josef Fux, cit., p. 360). Gottfried Heinrich Stélzel riferì nella sua autobiografia (pub-
blicata in J. Mattheson, Grundlage einer Ebren-Pforte, cit., p. 345) di aver fatto la conoscenza di,Antonio Bononcini a Roma nel 1714; invece il Bononcini in questione dovette essere Giovanni o il fratellastro Giovanni Maria, che nel 1714 risiedevano entrambi a Roma.
36 Circa la riduzione dell’organico musicale di corte operata da Rinaldo dopo il 1707, cfr. Elisabeth Jeannette Luin, Antonio Giannettini e la musica a Modena
alla fine del secolo XVII, in «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie modenesi», serie 7, VII (1931), pp. 216-219, e Gino Roncaglia, La musica alla Corte Estense dal 1707 alla costituzione del Regno d’Italia, in «Deputazione di Storia Patria per le antiche provincie modenesi. Atti e memorie», serie
10, I (1966), pp. 259-261.
37 Ancora oggi le fonti delle sue partiture viennesi su testi drammatici sono conservate soltanto nelle biblioteche di Vienna, Dresda e Meiningen; vedine l'elenco in The New Grove Dictionary, vol. III, pp. 34-35.
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re successo, visto che di lf a poco Antonio approdò ai teatri del circuito commerciale: il Pubblico a Reggio, il S. Giovanni Grisostomo a Venezia, il Pace a Roma. Di fatto, i sei
anni dal 1715 al 1721 furono i più attivi nella carriera di Antonio, anni in cui egli scrisse dieci drammi per i teatri delle cinque città suddette e diresse vari allestimenti teatrali a Modena”. Si conservano le partiture complete di quattro di queste opere e singole arie di cinque delle restanti sei”, dimodoché i caratteri stilistici sono facilmente indivi-
duabili e si possono comparare con quelli del periodo viennese. L’unica partitura superstite d’una sua opera reggiana è il manoscritto de La conquista del vello d’oro, tanto rappresentativa dello stile teatrale dell’ultimo Bononcini da poterla considerare esemplare. L’ouverture è in pratica un brillante concerto in Re maggiore per violino e oboe solisti, di netto profilo vivaldiano. Essa dichiara dunque, fin dall’esordio, che lo «stile elevato» e «artificioso» delle sue musiche viennesi s’è dileguato. Il pathos che tanto spesso le caratterizzava lascia il posto ad un fare «galante» che si fonda su movimenti veloci (nei due terzi del totale delle arie), sulle tonalità maggiori (tre volte su quattro) e sulla relativa brevità delle sezioni centrali, contrastanti, nelle onnipresenti arie col «da capo» (l’estensione della sezione di mezzo è solitamente la metà rispetto alla sezione principale). Come mostra l'esempio 1, le linee vocali perdono in spigolosità per farsi armoniose e distendersi in frasi di tre o quattro battute, privilegiando l’uso di sincopi seducenti anziché la tormentosità dei ritmi puntati. Gli strumenti acuti raddoppiano la voce o la assecondano per terze soavemente parallele, mentre la viola sola sorregge la melodia con un «basso»
28 Oltre alle opere elencate nell’appendice 1 Antonio compose un’«introduzione per musica al balletto», I/ trionfo dell'aquila e del giglio (Modena, giugno 1720), di cui non rimane nessuna partitura. Con tutta probabilità egli non sedette al cembalo in nessuna delle nove opere modenesi del periodo 1717-1721 di cui gli viene attribuita la direzione in Vincenzo Tardini, I teatri di Modena, Modena, Forghieri, Pellequi e C., 1902, vol. III, pp. 1129, 1111, 918, 949, 1408, 1031, 1283, 1138, 1360.
3? Cfr. appendice 1.
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destituito di ogni melodiosità. Poiché l’accompagnamento non è mai contrappuntistico, l'interesse musicale è concentrato sulla parte vocale di Giasone, impersonato da Francesco Bernardi, il Senesino, che era, nel 1717, il castrato con
la più alta quotazione di mercato. La musica «galante» di Bononcini s’attaglia a meraviglia alle parole spensierate di Giasone che esorta la pristina amante Isifile a non «sospirar» per via del «nuovo affetto» ch’egli nutre per Medea. Cionondimeno Isifile «sospira» in stile rococò fino alla fine dell’opera, quando si degna di accettare un altro amante con l’aria riportata nell'esempio 2. L’accompagnamento musicale è, in questo caso, perfin lezioso, tanto che i violini
paiono quasi irridere allo scioglimento dei patemi amorosi di Isifile. Il personaggio fu portato.in scena da quel fenomeno che era la diciassettenne Faustina Bordoni, e il libretto è
predisposto col chiaro intento di metterla in primo piano. Sorprendentemente, il tono gaio della partitura coinvolge la stessa musica destinata
a Medea, la formidabile maliarda.
Nella Conquista ella inclina più a mettere il broncio che ad infuriarsi sul serio, persino quando Giasone confessa di preferirla ad Isifile soltanto perché da lei dipende la conquista del vello d’oro. In tal frangente i due cantano il duetto di cui all'esempio 3; simili duetti dialoganti, accompagnati dal solo basso continuo, competevano per solito ai personaggi comici. Invece nella Conquista il brano è attribuito a personaggi di rango regale, a conclusione dell’atto II, ove di solito trovavan posto gli «a solo» virtuosistici con accompagna-
menti fastosi. Gli spunti frivoli e persino comici di cui si è detto non erano affatto consueti alle opere serie che all’epoca costituivano il repertorio abituale dei teatri. Ad esempio, gli altri drammi tardi di Antonio, al pari del Tito Manlio di Vivaldi (Mantova 1719) o del Bajazet di Gasparini (Reggio 1719), mettono in scena forze diametralmente opposte: nell’aperto conflitto fra le relazioni amorose dei protagonisti e i loro imperativi dinastici la tensione drammatica viene condotta più e più volte al punto di rottura. Dal canto suo, la Corquista, mantenendosi complessivamente su un registro per lo più giocoso, non è rappresentativa, almeno per questo
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es
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
aspetto, degli altri drammi di Antonio dello stesso periodo. Troviamo nell'esempio 4 una dimostrazione efficace di tale atmosfera giocosa: Giasone si rivolge alternativamente a Medea e ad Isifile ma ai suoi versi, che pure manifestano sconcerto, dà una veste canora armoniosa e suadente e vi-
vace, ad onta dell’indicazione agogica Affettuoso. Lo sposo destinato ad Isifile è il fratello di Medea, Absirto, che risul-
ta essere il personaggio più svenevole dell’opera. Come mostra l'esempio 5, i suoi canti d’amore sono oltremodo languidi, e di sicuro ciò non incentiva la tensione drammatica. Gli altri tre personaggi, Aeto padre di Medea e Ifite e Peleo compagni di Giasone, suscitano conflittualità opponendosi agli obiettivi dei quattro protagonisti. Ma Peleo, che ama Medea, viene informato per due volte da messaggeri di essere stato scelto dalla dea Teti per suo consorte, cosicché egli può combinare ben poco, se non riflettere sul ruolo che gli assegna il destino: esser padre del più grande eroe del mondo, Achille. Il suo carattere riflessivo trova espressione simbolica nei procedimenti contrappuntistici
che, come mostra l’esempio 6, segnano la sua parte. Questi procedimenti, al pari della predestinazione del personaggio, suonano estranei rispetto al tessuto ond’è tagliato il resto dell’opera, col risultato di non contribuire affatto, ancora una volta, all’incremento della tensione drammatica. Il suo
compagno Ifite, invaghito di Isifile, tenta di strappare a Giasone il comando degli Argonauti; Medea vanifica però il suo disegno, e l’esempio 7 ci mostra la sua reazione rabbiosa. La sua collera viene amplificata per mezzo di figurazioni in stile concertante negli archi, al pari di quanto avviene per il furore di Aeto, come si può riscontrare all'esempio 8. Tuttavia queste formule, che hanno scarso significato intrinseco, si discostano di molto da quell’intricato contrappuntismo melodico che dava sostegno agli umori delle partiture viennesi di Antonio. In effetti Bononcini si valse di queste formule frequentemente, anche in arie di stile concertante prive di carica drammatica, come ad esempio in un'aria di Ifite con tiorba concertante o in quella con mandolino cantata da Peleo. Si è cosî data una risposta al quesito posto in apertura: 319
L. Lindgren
nell’ultima parte della sua carriera Antonio scrisse musica che era «vivace» pur se non «elevata», «dilettevole» ma non «artificiosa». Gli elementi di stile galante che andavano germogliando nel Trionfo di Camilla del fratello Giovanni sbocciano, fino a spampanarsi, nella sua Conquista del vello d’oro, opera di un autore che dunque qui non pare stilisticamente «distinto sopra la maggior parte de’ compositori» attivi all’inizio del Settecento. Certo, le fogge «galanti» di un siffatto addobbo musicale alla moda sono tagliate su misura per ben rivestire la carenza di tensione drammatica dell’intreccio. L’adattatore del libretto, anonimo ma probabilmente reggiano, dovette essere assai imbarazzato per la scarsità
delle peripezie e degli sconvolgimenti affettivi, tanto da scusarsene, alla fine dell’«Argomento», e da proclamare che
il suo unico intento era stato di far sf che l’opera «agevolmente, e senza fatica alcuna, renda soddisfatto l’occhio, e
dilettato l’orecchio» #. Gli occhi del pubblico furono certamente soddisfatti, poiché le scene e le macchine erano «tutte di nuova Invenzione del Sig. Francesco Bibbiena, Architetto, ed Ingegniere di Sua Maestà Cesarea, e Cattolica». Fra gli elementi visivi, vere e proprie meraviglie: «colonnati trasparenti», «una conchiglia ... tirata da Tritoni», una scena «orrida di mostri, in cui discende un corpo di nubi», un drago che «vola, prende il Vello d’Oro fra le Zampe» e «si trasforma in un Amorino», «un globo di Nubi, che dilatan-
dosi appoco appoco, viene a formare la parte esteriore della Reggia del Sole: Si apre poi questa, e fa vedere la parte interiore della medesima Reggia tutta luminosa; e nel mezzo scopresi l’istessa Deità del Sole, che si avanza sopra il suo Carro»‘!. 40 Esemplari
del libretto:
Reggio
Emilia,
Biblioteca
Municipale,
Racc.
Dramm. E. Curti 144/14; Modena, Biblioteca Estense, 83. H.8/5; Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, libretto 621; Firenze, Biblioteca Marucelliana, Melodr. 2261/1; Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Racc. Dramm. 4141; Venezia, Fondazione Giorgio Cini; Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vitto-
rio Emanuele II (tre esemplari); Washington, D.C., Library of Congress, Schatz 1207.
41 Si conservano alcuni disegni di interni ed esterni della Reggia del Sole, riprodotti da Marinella Pigozzi (che li assegna alla messa in scena della Conquista) in Scenografia e scenografi dal Rinascimento al Settecento, in Teatro a Reggio Emilia,
320
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
Effetti magici di tal fatta potevano ben adattarsi solo alle favole mitologiche colme di interventi soprannaturali. I soggetti mitologici, di cui andava ghiotta la librettistica secentesca, erano passati di moda intorno al 1700. Parecchi libretti del Seicento sviluppano episodi della mitica vita di Giasone, ma solo uno ha lo stesso intreccio della Conquista
del 1717. Ne è autore Flaminio Parisetti, un reggiano, probabilmente imparentato con quel Leone Parisetti che fu impresario del Teatro Pubblico di Reggio dagli anni ’60 fino alla morte, nel 1700 #2. Vi sono prove che Flaminio entrò a servizio presso il duca Antonio Ulrico di BrunswickWolfenbiittel nel 16894, e sei dei suoi drammi vennero
rappresentati nei teatri del duca nel 1691 e nel 1692 #. La morte, avvenuta forse in giovane età nel 1693, troncò le
sue eventuali aspirazioni letterarie, e la sua figura è oggi praticamente dimenticata #. A quanto pare La conquista fu
il primo dei suoi libretti, ‘ e però vide le scene soltanto nel
a cura di Sergio Romagnoli ed Elvira Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, vol. I, pp. 166-167 e fig. 50?. Le didascalie sceniche dell’edizione 1717 e quelle dell’edizione torinese. del 1745 sono messe a confronto in Mercedes Viale Ferrero, La scenografia dalle origini al 1936, vol. III della Storia del Teatro Regio di Torino, Torino, Cassa di Risparmio, 1980, pp. 166-168. 42 Tre libretti — datati rispettivamente 1668, 1671 e 1674 — che recano una sua dedica vengono elencati da G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, cit., IV, 1783, p. 51. I suoi «libri delle spese» degli ultimi due decenni di attività sono citati in Adriano Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVIII, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, p. 111, e in Lorenzo Bianconi e Thomas Walker, Production, Consumption and Political Function of Seventeenth-Century Opera, in
«Early Music History», IV (1984), pp. 228-234 e 283-284. Altro membro della famiglia fu Vincenzo
Maria Parisetti, attivo nell’ultimo decennio del secolo; i
suoi Scherzi poetici, Bologna, Peri, 1694, furono musicati da Francesco Maria Barbieri per l'apertura dell’Accademia di Belle Lettere di Reggio.
43 Cfr. la dedica per La Libussa (1692), citata nell’appendice 2. 44 Cfr. appendice 2 e Friedrich Chrysander, Geschichte der BraunschweigWolfenbiittelschen Capelle und Oper vom sechszebnten bis zum achtzebnten Jahrhundert, in «Jahrbiicher fiir musikalische Wissenschaft», I (1863), nn. 41-44, 47 e 49.
45 La data di morte è citata in G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, cit., VI,
1786, p. 158.
46 Cfr. la dedica riportata in appendice 2 e le considerazioni relative in Gus-
tav Friedrich Schmidt, Die frbdeutsche Oper und die musikdramatische Kunst Georg Kaspar Schurmann's, Regensburg, Bosse, 1933, vol. I, pp. 42 e 206-207.
Sulla base di questa dedica Schmidt giunge alla conclusione che proprio Parisetti — unico librettista italiano che lavorasse alla corte di Brunswick-Wolfenbiittel all’epoca della nascita di Elisabetta — dovette essere l’autore di Giasone. Ovvia-
321
L. Lindgren
1707. Quell’anno la figlia del duca, Elisabetta Cristina, si
fidanzò con re Carlo di Spagna, il fratello dell’imperatore Giuseppe. Poiché l’imperatore d’Austria era a capo dell’«Ordine del Toson d’oro», il libretto di Parisetti faceva proprio al caso, nel 1707, del teatro di Braunschweig; e al-
trettanto dicasi per Reggio nel 1717, visto che nel 1712 l’imperatore Carlo aveva conferito al duca Rinaldo l’onorificenza dell’«Ordine». Nel 1717 il revisore anonimo del libretto di Parisetti si appoggiò sui personaggi, i rapporti, gli eventi dell'originale, eliminò tuttavia tutti i personaggi comici e anche alcuni interventi divini e divertissements, principeschi, e infine riscrisse l’intero testo. Ne risultò un’opera affatto singolare negli annali delle produzioni di fiera reggiane del diciottesimo secolo. Lo scenografo e i cantanti «di grido», al solito, furono forestieri, ma il librettista, il revisore e il musicista tutti di Reggio o di Modena. Il soggetto fu prescelto espressamente per rendere omaggio al loro duca; ma, basato com’era su un modello semiserio secentesco, esso risulta straordinariamen-
te leggero se lo si compara con le opere serie coeve. Come si è osservato, la musica di Bononcini sottolinea la vena
amena del testo per mezzo di una scrittura spiccatamente melodiosa e tendenzialmente concertante. Essa avrà deliziato le orecchie del pubblico reggiano, visto che Antonio fu scritturato di nuovo sia nel 1720 che nel 1723, come si de-
sume dall’appendice 1. Nino, l’opera composta per la stagione di fiera 1720, fu inscenata con grande spiegamento di mezzi, soprattutto perché costituì parte dei festeggiamenti del giugno di quell’anno per il matrimonio dell’erede di Rinaldo, Francesco, con la figlia del reggente di Francia, Carlotta Aglae #7. I mente ricerche ulteriori potrebbero portare a stabilire una diversa paternità per il libretto del Giasore del 1707 o, parimenti, un diverso modello testuale per La
conquista del 1717. 47 Le scene erano dell’innovativo Pietro Righini (cfr. M. Pigozzi, Scenografia e scenografi, cit., p. 168), e il libretto venne stampato in due edizioni. L'edizione
pubblicata a Modena, a differenza da quella di Reggio, comprende una traduzione francese del testo e una licenza, a fine libretto, in onore degli sposi. (Esempla-
ri dell'edizione modenese: Reggio, Biblioteca Municipale, Racc. Dramm. E. Cur-
IRR
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
tre atti del Niro furono musicati da «anziani maestri»: Giovanni Maria Capelli, Francesco Gasparini e Antonio Bononcini, nati rispettivamente nel 1648, nel 1661 e nel 1677. La loro musica era comunque nel moderno stile «galante» #, al pari di quella che si,può ritrovare in due opere scritte per le stagioni di fiera precedenti, La conquista di Bononcini del 1717 e I/ Bajazet di Gasparini del 1719.
L'allestimento del Niro dovette assurgere a rinomanza europea, poiché un anno più tardi Johann Mattheson, elencando «die allerberiihmtesten und galantesten Componisten in Europa» ?, sorprendentemente collocava in capo alla lista i tre autori dell’opera. Un viaggiatore inglese, dal canto suo, diede alle stampe le sue impressioni su quell'evento e mise in risalto il comportamento piuttosto urtante del pubblico reggiano: There was a fine Opera at Reggio, as there is always at the Time of the Fair; and is generally esteem’d the best in Ita/y: The newmarry’d Princess of Modena (already mention’d) then made her first Appearance there. The Opera-House at Reggio was the most noisy one I ever heard; the Company went from Box to Box to visit one another; others were
ti 145/1; Modena, Biblioteca Estense, 70.1.25/8; Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, libretto 769; Milano, Biblioteca Teatrale Livia Simoni, TI.R.904; Roma, Conservatorio di Santa Cecilia, G. Libretto. Carvalhaes. 10980). Uno studio recente sulla capricciosa principessa: Corrado Barigazzi, Carlotta d'Orléans, in «Reggio Storia», da II/5-6 (dicembre 1979) a VI/2 (giugno 1983).
48 Il manoscritto citato nell’app. 1 contiene anche sei arie di Capelli e quattro di Gasparini. Le arie del Niro che vi si ritrovano appartengono a tre dei sei personaggi dell’opera: Zomira (Faustina Bordoni, soprano), Nino (Gaetano Orsini, contralto) e Atalo (Francesco Borosini, contralto). Il manoscritto riporta anche il duetto fra Zomira e Nino; come nella Conquista (cfr. es. 3), l’unico duetto
dell’opera chiude l’atto II ed è accompagnato dal solo basso continuo. 4 La partitura del Bajazet che si conserva a Vienna, Osterreichische Nationalbibliothek, ms. 17251, è stata pubblicata in edizione anastatica nella collana Italian Opera, 1640-1770, a cura di Howard Mayer Brown, New York, Garland Publishing, 1978. La stesura di questa partitura e di quella della Conquista di Bononcini fu opera del medesimo copista. Bajazet e altre opere comprese nella citata Italian Opera, 1640-1770 (compresa la Griselda di Antonio Bononcini, Milano, 1718) vengono analizzate in Reinhard Strohm, Die italienische Oper im 18. Jahrhundert, Wilhelmshaven, Heinrichshofen, 1979. 50 Johann Mattheson, Das forschende Orchestre, Hamburg, Schiller, 1721, p. 276.
323
L. Lindgren
si orti
playing at Cards; and minded the Opera no more (though Faustina sang) than if it had been... a Sermon?!.
Francesco e Carlotta si stabilirono a Reggio, e la principessa manifestò la sua predilezione per le tragedie francesi facendone rappresentare alcune nel 1722 e 17232. Per il carnevale del 1723 ella patrocinò l'allestimento del Mizridate Eupatore, che ha uno dei libretti pit tragici fra quelli italiani del periodo. In effetti quest'opera e La conquista hanno caratteristiche drammatiche diametralmente opposte. Antonio avrà selezionato, adattato e composto per il Mitridate” musiche stilisticamente prossime a quelle dei suoi drammi viennesi ‘e allo Stabat mater, opera che potrebbe risalire proprio a questo periodo. Dopotutto, stando ad una sua lettera del 1723 a Benedetto Marcello *, era questo lo - stile che gli infondeva un «indicibile contento». Ciononostante Antonio, compositore «severo» per riconoscimento
unanime, fu dotato anche di un pungente senso dell’umorismo, e dobbiamo esser grati alla città di Reggio per avergli commissionato un’opera, La conquista del vello d’oro, ove
egli mise in bella evidenza il suo gusto «emilianamente» spiritoso.
91 Edward Wright, Sorze Observations Made in Travelling through France, Italy, &c. in the Years 1720, 1721 and 1722, London, Ward and Wicksteed, 1730,
vol. II, p. 30: «Si diede a Reggio una bella opera, come sempre in tempo di fiera; in Italia si ritiene ch’essa sia la migliore di tutte. La principessa di Modena, da poco sposata (di lei già si è parlato), vi fece proprio in quella occasione la sua prima uscita pubblica. Al teatro di Reggio c’era una confusione che mai m’era accaduto d’ascoltarne una simile; gli spettatori si spostavano di palco in palco per rendersi visita; altri giocavano a carte e tutti seguivano l’opera (sebbene cantasse la Faustina) con la stessa attenzione che avrebbero prestato... ad una predica». 52 Cfr. C. Barigazzi, Carlotta d'Orléans, cit., in «Reggio Storia», III/3-4 (agosto 1980), p. 42. 3 Gli allestimenti noti del Mitridate sono solo tre: Venezia 1707 (con musica di Alessandro Scarlatti), Milano 1717 (di compositore ignoto) e Reggio 1723. I testi delle arie originali vennero in gran parte sostituiti nell’edizione del 1717. Su questa si basa la versione del 1723: i testi di 14 delle 36 arie sono identici. Poiché Antonio operò per il teatro di Milano nel 1716 e nel 1718, è possibile ch'egli abbia collaborato, come compositore o come arrangiatore, all’allestimento del Mitridate nel febbraio 1717. 54 Lettera del 10 dicembre
1723, pubblicata in Benedetto Marcello, Estro
poetico-armonico, Venezia, Lovisa, 1724, vol. II, p. 3.
324
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
APPENDICE 1 Opere in musica composte o dirette da Antonio Maria Bononcini
(Modena 1677 - Modena 1726)
1710 lug. Vienna
PI
Tigrane, re d’Armenia (testo: Bernardoni; opera nuova) A
partitura: Wien, Gesellschaft der Musikfreunde, ms. Q.1201 partitura: Meiningen, Staatliche Museen, ms. Ed. 115c. 1715 nov. Napoli
I veri amici (Silvani e Lalli, 1713)
1715 dic. Milano
Il tiranno eroe (Cassani, 1711)
19 arie: Dresden, Sachsische Landesbibliothek, ms. 2209.F.5 1716 feb. Milano
Il Sesostri, re d'Egitto (Zeno e Pariati, 1710)
partitura: Dresden, Sachsische Landesbibliothek, ms. 2209.F.4 arie: Praha, Archiv StAtnî Konservatorfe v Praze, ms. 399
1716 ott. Modena
1716 ott. Modena
L'enigma disciolto (Neri, 1698) «La Musica sarà diretta dal Sig. Antonio Bononcini Modonese» Lucio Vero (Zeno, 1700)
«La Musica sarà diretta dal Sig. Antonio Bononcini Modonese» 1717 apr. Reggio
La conquista del vello d’oro 1690; cfr. appendice2)
partitura:
Wien,
(Parisetti,
Osterreichische
circa
Nationalbi-
bliothek, ms. 18264 15 arie: Dresden, Sachsische Landesbibliothek, ms. 2209.F.6 1 aria: Cambridge, Fitzwilliam Museum, ms.
30.F.26 1718 feb. Venezia
Astianatte (Salvi, 1701)
2 arie: Wolfenbiittel,
Herzog August Biblio-
thek, Cod. Guelf. 301
325
L. Lindgren
1718 dic. Milano
Griselda (Zeno, 1701)
partitura: Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, ms. 2185
partitura: Wien, Gesellschaft der Musikfreunde, ms. Q.1205 1720 mag. Reggio
Nino (Zanelli, nuova), atto III (I: Capelli; II: Gasparini)
3 arie: Paris, Bibliothèque Nationale, Conservatoire, ms. X.111B 1721 gen. Roma
Merope (Zeno, 1712)
8 arie: Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Rés. 192
1721 mag. Napoli
Endimione (Lemene, 1693)
15 arie: Milano, Collezione Natale Gallini, ms. 1 aria: Napoli, Conservatorio di Musica San Pietro a Majella, Cantate 69 1 aria: Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 2222
1721 ott. Napoli
Rosiclea 1700)
in Dania
(Silvani,
Oracolo
in sogno,
partitura: Monte Cassino, Biblioteca dell’ Abbazia, ms. 124.B.15 2 arie: Napoli, Conservatorio di Musica, ms. 2ZINRZ
1 aria: Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 2222 1 aria: Roma, Conservatorio di Santa Cecilia, ms. A 3704 1721 dic. Modena
(nominato maestro di cappella alla corte estense)
1723 gen. Reggio
Mitridate Eupatore (Frigimelica Roberti, 1707) «La direzione del Drama sarà appoggiata al Sig. Antonio Bononcini, Maestro di Cappella del Serenissimo Sig. Duca di Modena»
APPENDICE 2 Libretti di Flaminio Parisetti (Reggio 16??-Reggio 1693) e rappresentazioni postume di un libretto probabilmente suo
326
Antonio Maria Bononcini e «La conquista del vello d’oro»
| 1691 Wolfenbiittel
La grotta di Salzdabl (musica: Jean Sigismond Cousser) ded. di «FI. Parisetti» (24 aprile) al duca Antonio Ulerico
1691 Braunschweig
Gl’inganni di Cupido (Giuseppe Fedrizzi) «da Flaminio Parisetti Gentilhuomo della Corte»
ded. di «Flaminio Guglielmo
1691 Braunschweig
Parisetti» al duca Giorgio
Il re pastore overo Il Basilio in Arcadia (Gio. Battista Alveri) % «da Flaminio Parisetti, Gentilhuomo della Corte»
ded. di «Flaminio Augusto
1691 Braunschweig
1692 Wolfenbiittel
Parisetti» al duca Ernesto
L’Istone (Gio. Battista Alveri) «da Flaminio Parisetti, Gentilhuomo di Camera» ded. di «Flamminio Parisetti» al duca Antonio Ulerico Gl’amori innocenti (Clemente Monari)
«da Flaminio Parisetti, Gentilhuomo di Camera» ded. di «FI. Parisetti» alla duchessa Elisabetta Giuliana 1692 Wolfenbiittel
La Libussa (Clemente Monari) «da Flaminio Parisetti, G. d. C. del Duca Ant.
Ulerico» ded. di «F. de Parisetti» (1 dicembre) al duca Augusto Guglielmo: «Il continuato honore, che doppo tre anni mi corre di prestare gl’atti del mio riverentiss.mo ossequio al Ser.mo Sig.re Duca Padre...» 1693 Reggio
(muore il 19 settembre, parrocchia di S. Prospero)
1707 Braunschweig
Giasone overo Il conquisto del vello d’oro (Georg Caspar Schirmann?)
ded. anon. alla principessa Elisabetta Cristina (28
agosto
1691-1750):
«L’autor
di questo
Drama, doppo l’haver presso finito, quando seco pensava a chi dedicar quel suo in questa lingua primo lavore, si sentiva oppresso d’un profondo letargo, e sognando ricevea comando di dedicarlo alla Prencipessa Spagnuola Thesibela:
327
L. Lindgren
essendo doppo turbato di questo sogno pit volte, se n’affliggeva, mentre voleva far rappresentar suo Drama in quel tempo, quando la Serenissima casa dei Guelfi al primo parto della
7 f i
Prencipessa Ludovisa attenta se ne prometteva dolce frutto, e pure considerando quel suo sogno come qualche cosa estraordinaria si risolveva d’aspettar l’esplicatione del Cielo, e di tralasciar fin tanto la rappresentatione di quel suo Drama. La morte di colui doppo seguita l’haverebbe sepolto fra ruine se’l Cielo non l’havesse destinato a più granduso Serenissima Prencipessa, mentre che la Maestà del Potentissimo Re di Spagna Carro Terzo ... vostra Alt.za Ser.ma ... elegge ad esser la Regal di lui sposa, il grand nome d’ELISABETH per anagramma sul esplicatione di quel sogno ond’è ben giusto d’offrirla con humil Rispetto quel tributo, ch’avanti’l suo nascer l’era già destinato...»
1717 Reggio
La conquista del vello d’oro (cfr. appendice 1)
1720 Hamburg
Jason oder Die Eroberung des Guldenen Flisses (pasticcio)
partitura: Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, ms. 4240: almeno due delle arie di questo pasticcio sono anche nella Conquista (Reggio 1717): cfr. Reinhard Strohm, Italienische Opernarien des friben Settecento (1720-1730), «Analecta Musicologica», XVI, : Kéln, Volk, 1976, vol. II, pp. 276-277 1738 London
La conquista del vello d’oro (Gio. Battista Pescetti)
partitura: London, British Library, ms. Egerton 2488 1745 Torino
La conquista del vello d’oro (Giuseppe Sordella)
N.B. I testi delle edizioni del 1738 e del 1745 si basano su quello dell’edizione reggiana del 1717.
328
A
È La conquista del vello d’oro (Reggio 1717). Esemp i musicali* EsempIo
1
G iasone , «Se nuovo affetto», atto I, scena 13
EseMPIO
2
Isifile, «Più non temer ch io finga», III, Té
9°
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I * Gli esempi sono tratti dal manoscritto conservato presso la Osterreichische Nationalb ibliothek, Vienna, Musiksammlung, Mus. Hs. 18264.
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Esempio 5: Absirto, «Nel mio partire», I, 7
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ROSSELLI
Geografia politica del teatro d’opera nell'Emilia Romagna del tardo Settecento
Nell’Italia del Settecento, tagliata in undici staterelli, esisteva il concetto di regione, ma condizionato dal fatto politico. Più facile era parlare della Romagna, inserita da secoli nelle Legazioni dello Stato Pontificio, che non dell’Emilia, divisa tra i ducati di Parma e di Modena; per molti aspetti, poi, il sentimento intimo dell’aristocrazia e del «ceto civile» andava alle singole città, non ancora immemori dell’antica indipendenza comunale. Nel mondo del teatro lirico prevaleva una geografia alquanto diversa. Infatti l’Italia si presentava già come una cultura e un mercato teatrale abbastanza unificato, almeno
l’Italia settentrionale e centrale fino a Roma, con l’importantissima aggiunta di Napoli (e con molte succursali fuori della penisola, specie presso le corti). Entro quell’area circo-
lavano opere e artisti, anche se talvolta intralciati da dogane e polizie. C'erano sf circuiti regionali, come ad esempio quello che da Venezia si spingeva verso le città della Terraferma e magari un po’ più oltre, fino ad Ancona e Ferrara, lungo il quale circolavano le opere veneziane di Vivaldi e altri!. Però tali circuiti si sovrapponevano, senza sostituirli, sia al circuito pan-italiano sia ad altri più ristretti. La gente del mestiere, purché «virtuosa», passava senza troppa difficoltà dall’uno all’altro. Per quel che è dell'Emilia Romagna, conviene rifarsi alla frase di Sergio Romagnoli secondo cui la storia della civiltà teatrale italiana deve partire «da quella ampia zona civile che si stende dalle Prealpi all’Appennino lungo il corso del Po e dei suoi affluenti...»?. Tale zona 1 L. Bianconi, Condizione sociale e intellettuale del musicista di teatro ai tempi di Vivaldi, in Antonio Vivaldi. Teatro musicale, cultura e società, a cura di L. Bian-
coni e G. Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 371-388 in particolare p. 385. 2 S. Romagnoli, I/ teatro e una città, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, Firenze, Sansoni, 1980, vol. I, pp. vm-1x.
335
J]. Rosselli
comprende la Lombardia, l'Emilia Romagna, il Veneto lungo la linea Verona-Padova-Venezia, e la parte settentrionale
delle Marche (specie di prolungamento, sotto il profilo musicale-teatrale, della Romagna), insomma quello che sarebbe stato poi il Regno d’Italia napoleonico. Non si può naturalmente pronunziare a favore di questa zona nessuna esclusiva; in essa però sembra effettivamente più intensa che al-
trove l’attività teatrale, anche grazie alla molteplicità delle corti e delle città e alla relativa facilità degli scambi, per non parlare di motivi d’indole o di cultura, più profondi ma anche più problematici. Fondamentale, rispetto a questa zona ma anche all’intera penisola, la parte di Bologna nel traffico operistico. Senza essere la capitale dell’insegnamento musicale o la sede della produzione teatrale più intensa (funzioni svolte da Napoli e Venezia), la Bologna settecentesca fungeva da centro e da mercato al mestiere canoro; quindi divenne anche il primo grosso centro dell’agenzia teatrale, centro che solo nel corso dell'Ottocento si sarebbe spostato verso Milano. Già all’inizio del Settecento, durante la guerra di successione di Spagna, un impresario di Modena si senti ordinare dal generale francese «d’andare a Bologna a combinare un’opera in musica da eseguirsi sul Teatro Fontanelli»: si trattava senz'altro di trovare i cantanti, e probabilmente anche lo spartito‘.Se occorreva riportarsi su Bologna anche da una città capitale come Modena, tanto più dipendeva da essa una città di minori pretese quale Faenza: per inaugurare il nuovo teatro (1788) il gruppo misto di nobili e cittadini che gestiva la stagione si rivolse a Roma (capitale dello Stato) per trovare il compositore,al cardinale legato di Ravenna per le molte autorizzazioni ufficiali, ma a Bologna per quasi tutto il resto, specie per cantanti, ballerini e suonatori, ser-
vendosi del vestiarista teatrale bolognese (doppiato di impresario e agente) Luigi Becchetti e di un medico dilettan3 J. Rosselli, Agenti teatrali nel mondo dell’opera lirica italiana dell'Ottocento, in «Rivista Italiana di Musicologia», XVII (1982), pp. 134-154. 4 Accadde nel 1704: cfr. A. Gandini, Cronistoria dei Teatri di Modena, Modena, Tipografia sociale, 1873, vol. I, p. 89.
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Geografia politica del teatro d'opera
te, e intrattenendo con essi una fitta e ansiosa corrispondenza?. Dove abbiamo notizie abbastanza precise su alcune carriere impresariali (cioè nel tardo Settecento e nel primo Ottocento), troviamo circuiti regionali che collegavano alcune città dell'Emilia con altre di zone adiacenti. Angelo Bentivoglio, agente bolognese e impresario del Teatro Ducale di Parma quasi ininterrottamente dal 1781 al 1799 (quindi collaboratore di Paér, allora compositore di corte), gesti al-
tre stagioni a Modena e Reggio ma anche a Verona*. Vi sono diversi esempi di impresari attivi a Parma, Piacenza e Cremona, oppure a Modena e Mantova”. Gli impresari Antonio Zardon e Paolo Zancla, entrambi attivi soprattutto a Venezia
e Trieste e in diverse città venete,
si spinsero
all’occasione fino a Piacenza, Reggio e Cremona. Un altro circuito è illustrato dalla carriera di impresari come Osea Francia, ebreo faentino attivo tra il 1788 e il 1824, soprattutto nella propria città e alla importante fiera estiva di Senigallia ma anche a Bologna, Modena, Reggio e Parma, con una breve punta a Firenze, oppure come Luigi Antonini, il quale tra il 1802 e il 1810 gesti stagioni a Bologna, Mode> Carte dell’impresa di Faenza, Biblioteca Comunale, Forlî. Collezione Pian-
castelli 130.
6 Per la documentazione di queste e altre notizie sulle carriere impresariali vedi J. Rosselli, Elenco provvisorio degli impresari e agenti teatrali italiani, in consultazione presso la Società Italiana di Musicologia (Bologna), l’Istituto di Studi Verdiani (Parma), il Museo Teatrale alla Scala (Milano), e l’Istituto.di Bibliografia Musicale (Roma).
? Giovanni Bassi cremonese, impresario a Parma in alcune stagioni dal 1797 al 1806, a Cremona dal 1818; Gaetano e Francesco Montignani, impresari a Cremona (1800-02), Parma (1801, 1819), Piacenza (1818) e a Pavia e Verona (1819);
Francesco Rambaldi parmigiano, attivo dal 1803 al 1834, specie a Parma, Piacenza e Bologna ma anche, all’occasione, a Cremona, Mantova e Senigallia (gesti almeno una stagione al Valle di Roma e chiese una volta l’appalto del San Carlo di Napoli); Vincenzo Zanchi, a Bergamo nel 1810, a Piacenza e Cremona nel 1817;
il mercante Romanati, impresario di Parma, Reggio e Mantova nel 1761; Francesco Guatelli mantovano, impresario di Modena (Teatro di Corte) e di Reggio nel 1768-70.
8 Antonio Zardon, detto Trevisani, impresario a Reggio nel carnevale 1773 ma attivo soprattutto a Padova dal 1777 al 1791 (poi di nuovo nel 1810) e a Trieste dal 1778 al 1797; Paolo Zancla siciliano, impresario tra il 1809 e il 1821 a Cremona, Trieste, Piacenza, Verona, Venezia (dove dette la prima opera di Donizetti) e Mantova.
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]. Rosselli
na, Faenza, Senigallia e Macerata: circuito essenzialmente tra Emilia Romagna e Marche. S’intende che il sistema produttivo poteva anche all’occasione far capo a impresari del tutto locali, probabilmente provenienti da famiglie addette a mestieri connessi con il teatro quali la scenografia (rappresentata nell'impresa di Reggio dalla dinastia dei Paglia), il vestiario e la tipografia. Gli esempi che abbiamo fatto sono in gran parte desunti da un periodo tardo, ma nelle strutture del mondo operistico italiano, insieme complesse e tenaci, cosf lenta era l’evoluzione, e cosî fitti e sostanziali gli
elementi di continuità, che non è troppo azzardato ipotizzare una geografia teatrale poco diversa anche nella prima metà del secolo.’ All’interno della zona si manifestava la rivalità tra la capitale e quella che vorremmo chiamare l’anticapitale, forma specializzata della solita rivalità tra campanili vicini. Ognuno dei ducati infatti possedeva una città importante quasi quanto la capitale: Piacenza nello stato parmense e Reggio in quello modenese. Il lato «anticapitale» della Reggio settecentesca si palesò in almeno tre episodi: a due riprese l’erede al trono o la sua consorte si sistemò a Reggio, influendo cosf sull’andamento delle stagioni teatrali, talvolta in polemica con le autorità modenesi; quasi alla fine del secolo, nel 1791, sul conto d’un impresario del teatro di Reggio, bolognese, corse la voce che avesse parlato male dei reggiani, e questo bastò a provocare tumulti sanguinosi al punto da culminare nell’assassinio del comandante della guardia (modenese) e praticamente nello stato d’assedio?. I due soggiorni principeschi servono più che altro a dimostrare che (come ha scritto Odoardo
Rombaldi)
«teatro del Principe e
della Corte e non solo della Comunità o del Pubblico fu quello di Reggio fin dal tempo della sua fondazione» !, insomma che a determinare le manifestazioni teatrali, fosse
pure in chiave di sfida a Modena più o meno aperta, era ? Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. vm-rx, 267; G. Crocioni, I teatri di Reggio nell'Emilia, Reggio Emilia, Cooperativa Lavoranti Tipografi, 1907, pp. 51.54.
10 O. Rombaldi, Rapporti politico-amministrativi tra Modena e Reggio nella vita teatrale, in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. 263-271 in particolare p. 263.
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VOR
Geografia politica del teatro d’opera
l'influenza della famiglia regnante. L’ultimo episodio lascia perplessi, dato che ci deve semmai colpire la rarità, nella vita teatrale di quell’Italia campanilistica, di insofferenze verso i «forestieri»; si può ipotizzare un legame tra l’episodio e le tensioni politiche provocate dalla rivoluzione francese, però tale legame non è ancora dimostrato. A Piacenza, il cui Settecento teatrale è stato studiato meno di quello di altre città importanti della zona, si ha l’impressione d’una qualche disponibilità per simili manifestazioni da «anticapitale», che si sarebbero poi palesate al tempo della duchessa Maria Luigia. i Importante, dunque, nel determinare il come e il quanto della produzione operistica, la presenza d’una corte, non solo a Parma e Modena e ogni tanto a Piacenza e Reggio,
ma anche a Bologna, Ferrara e Ravenna, in ognuna delle quali il cardinale legato fungeva praticamente da sovrano per quel che riguardava la vita teatrale. Tale presenza imponeva innanzitutto una dose abbastanza regolare d’opera seria, almeno dall’affermarsi del genere metastasiano verso il 1724-30 fino al 1770 circa, dopodiché questo entrava un po’ ovunque in crisi a favore dell’opera buffa o semiseria e del ballo; richiedeva in forma spiccata un ordinamento gerarchico degli spettatori e della sala, come al Ducale di Parma, dove veniva proibito nel 1779 alle «persone venali» di «accendere in palco un lume pendente, permettendo S.A.R. che goda tal distinzione solamente il ceto nobile e civile» !!; e faceva affluire in teatro una turba di «esenti», cioè di fun-
zionari e ufficiali e dei loro «familiari» (cancellieri, maggiordomi, segretari, anche cuochi e fornitori, per non parlare della servitù in livrea pullulante al loggione e nei corridoi), i quali o non pagavano nulla o godevano di prezzi ridotti: abbastanza futili, a quanto pare, i tentativi intrapresi ogni tanto dalle autorità per contenere questa marea, se al vecchio Ducale di Parma (annesso al palazzo) ancora nel 1794 la gente varcava la porta di comunicazione «annunciando titoli che esigono la riverenza dell’impresario» e senza paga11 P.E. Ferrari, Spettacoli drammatico-musicali e coreografici in Parma, Parma, Battei, 1884, pp. 85-86.
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J. Rosselli
re ‘2, e infatti gli esenti erano un aspetto del tutto integrale del teatro di rappresentanza come immagine della gerarchia imperante.
In tali condizioni l’allestimento d’una stagione lirica, specie se si trattava di opera seria, richiedeva un qualche appoggio finanziario. C’era il monopolio del giuoco d’azzardo, generalmente affidato all’impresario del teatro e limitato per legge al ridotto dello stesso; questo può aver rivestito una certa importanza, specie a Parma e a Modena, senza
però toccare neppur lontanamente le somme che avrebbe poi fruttato durante il periodo napoleonico. C’era ogni tanto una sovvenzione governativa, anche se la grande stagione della «dote» avrebbe dovuto aspettare fino alla prima metà dell'Ottocento. Intanto la finanza e l’influenza monarchica potevano estendersi oltre i teatri denominati di corte. Il duca di Modena, ad esempio, dava di tanto in tan-
to un «regalo» all'impresa del teatro pubblico di Modena e di Reggio per compensare perdite dovute ai molti esenti o per incoraggiare l’opera seria; a Modena capitale perfino un teatro di proprietà d’una famiglia nobile come il Rangone (ex-Fontanelli, ex-Valentini) in apparenza simile ai teatri semi-commerciali di Venezia, finiva per assimilarsi ad un teatro regio o regio-comunale (essendovi a Modena anche un Teatro di Corte, il Rangone divenne il Teatro Comunale (Vecchio), ma con notevole presenza e influenza ducale). A Bologna, città ovviamente più grande e meno dominata dalla corte, vi erano teatri di proprietà di singole famiglie (il Formagliari, poi Zagnoni; il Malvezzi fino al 1745; il Marsigli-Rossi),
però il Comunale
(1763)
accusava
anch'esso
qualche caratteristica d’un teatro regio, come il dipendere da un ente governativo (l’Assunteria di Camera) oltre che
dal municipio (Senato). Per trovare teatri di tipo «sociale», cioè di proprietà d’un gruppo di persone generalmente nobili, occorrerebbe senza dubbio guardare la storia dei teatri 12 P.E. Ferrari, Spettacoli in Parma, cit., pp. 85, 91; G. Cosentino, I/ Teatro Marsigli-Rossi, Bologna, Garagnano, 1900, pp. 143-147; A. Gandini, Teatri di Modena, cit., vol. I, p. 118; Piano degli esenti, ed esenzioni da darsi nel Pubblico Nuovo Teatro ... 1763, Archivio di Stato, Bologna, Assunteria di Camera, Diversorum t. 128.
340
Geografia politica del teatro d’opera
di alcuni centri meno importanti, quali Carpi o Imola, storia ancora poco nota: fa esempio un teatro dal nome significativo, il Teatro dei Condomini di Senigallia, fondato nel
1752 da cinque famiglie nobili le quali rivendettero palchi ad altre!. Ma mancando, nej teatri delle città principali, una dote governativa regolare e sufficiente, ed essendo generalmente evitata come pericolosamente dispendiosa la gestione diretta, occorreva l'appoggio d’un gruppo produttore disposto a prendere in appalto la stagione d’opera seria e a far fronte a perdite quasi sicure. È In alcuni grandi teatri italiani del Settecento tali gruppi di produttori erano costituiti esclusivamente da nobili, come le società che ressero il Regio di Torino e (fino al 1788) la Scala di Milano. Nelle città principali dell'Emilia Romagna troviamo piuttosto gruppi misti di nobili e cittadini agiati, formati per allestire una o più stagioni di carattere particolarmente impegnativo anziché per mandare avanti una regolare serie di stagioni con scopi immutabili. Nessun gran cambiamento lungo l’arco del tempo nella terminologia, dai «SS.ri interessati in esso dramma» a Reggio nella stagione di fiera del 1683, alla «società dell’impresari» (sempre a Reggio, fiera 1753), alla «Compagnia degli Uniti» (autunno 1759) e all’«Unione del dramma il Derzofoonte»
(fiera 1761) !*. E forse non cambiò molto neanche la struttura delle varie società o «unioni». Guardiamone una, ben
documentata, quella di Faenza del 1788. Per l’apertura del nuovo teatro, manifestazione importantissima nella vita della città, la «Società impresaria dell’opera da rappresentarsi» venne costituita da 46 caratisti tra nobili e cittadini, ognuno dei quali aveva un’azione da 20 zecchini. A dirigere l'impresa era una deputazione di quattro persone (non si sa se elette dai caratisti), i conti Francesco Conti e Lodovico Laderchi, e due cittadini, G.B. 13 G. Radiciotti, Teatro, musica e musicisti in Sinigaglia, Milano, Ricordi, 1893, pp. 21-30. Esempi classici di teatri «sociali» furono il Teatro Nuovo (poi Verdi) di Padova (1748) e la Fenice di Venezia (1792). 14 A. Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVIII, e M. Zarotti, Documenti d'archivio (1610-1802), in Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. 112, 126, 297-308.
341
ss
J. Rosselli
Bertoni e Vincenzo Caldesi; non solo i deputati ma alcuni altri caratisti (e alcune mogli di caratisti) erano attivissimi nel preparare la stagione. Non vi era teoricamente nessun
impresario di mestiere, però il Caldesi (deputato addetto alla firma dei contratti) fu più tardi impresario all’ Argentina di Roma, e uno dei caratisti, Osea Francia, l’anno dopo la
stagione di apertura sarebbe diventato impresario dello stesso teatro di Faenza. I due nobili erano anche garanti finanziari della stagione, e come membri dell’ Accademia dei Remoti (proprietaria dell’antico teatro ormai sostituito) avevano svolto una parte di primo piano nel finanziare la costruzione del teatro ottenendo dal comune due grossi prestiti oltre all’usufrutto del «dazio e privativa de’ stracci» e d’un’imposta straordinaria sui banchi di vendita del mercato. Due nobili accademici erano anche deputati del teatro, cioè soprintendenti governativi. Notiamo che i Conti, i Laderchi, i Milzetti che dirigevano questa manifestazione,
fonte di prestigio per la città ma gravosa per la parte più povera della popolazione, erano tutti coinvolti in quel movimento illuminista faentino, massonico e neoclassicheggiante, che è stato mirabilmente illustrato dalla mostra del
Settecento Emiliano nel 1979”. Nel far gravare il teatro sulle imposte indirette, i nobili e possidenti faentini non si comportarono diversamente da quelli di Reggio, i quali per finanziare la costruzione del Teatro di Cittadella nel 1740 fecero sf che «s’accrebbe il dazio del sale ai poveretti» !5. Dall’esempio faentino si può desumere che, quando appare su documenti del Settecento il nome d’un nobile o d’un impresario di mestiere come responsabile d’una stagione lirica, il fatto non è di per sé concludente: infatti il nobile può aver agito per conto d’una società mista, mentre l’impresario di mestiere può essere stato un esecutore o di-
rettore di scena anziché un imprenditore in proprio. Per saperne di più occorrerebbe guardare i contratti d'impresa ed 15 Carte dell’impresa di Faenza, Bibl. Comunale, Forlf, Coll. Piancastelli 130. 3-10, 39-79, 119, 126, 180, 184, 212; G. Pasolini-Zanelli, Il Teatro di Faenza dal 1788 al 1888, Faenza, Conti, 1888, pp. 8-11, 16-27, 35-44.
16 G. Crocioni, I teatri di Reggio, cit., pp. 42-43.
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o ©
Geografia politica del teatro d’opera
eventualmente la corrispondenza. Dove esistono notizie abbastanza abbondanti, come per Reggio, si può supporre che l’impresa individuale predominasse nelle stagioni d’opera buffa, meno costosa e che offriva qualche possibilità di ricavare un utile, mentre l’«unione» prevaleva trattandosi d’opera seria. Vediamo, ad esempio, un colonnello Nicola Basili o De Basili agire, a quanto sembra, come rappresentante d’un’impresa in società nel 1753 e 1759, ma come unico impresario della stagione d’opera buffa per la fiera del 1760!. Al Ducale di Parma, fra il tardo Settecento e il primo Ottocento, a gestire diverse stagioni d’opera buffa furono impresari pochissimo noti, alcuni dei quali erano sposati con la prima donna della stagione: si trattava di troupes di famiglia, probabilmente non molto diverse dalle compagnie di prosa, ognuna diretta da un capocomico, di livello canoro modesto ma non per questo inefficaci interpreti del dramma buffo. L’impresa individuale di mestiere, nata a Venezia coi primi teatri pubblici del Seicento, ebbe sempre una sua parte da svolgere, anche in Emilia Romagna, ma si ha l'impressione che nel Settecento questa parte rimanesse abbastanza subordinata, sia in senso gerarchico (perché l’opera buffa era considerata genere minore) sia in senso istituzionale (perché l’impresario agiva spesso per conto di «unioni» formate da pezzi grossi locali).
Quando invece troviamo in un teatro importante l’impresa affidata alla «società dei cantanti e ballerini», o alla «società dei suonatori», come al Comunale di Bologna nel 1809, 1811 e 1815-16 !8, questo è un indizio di tempi diffi-
cili: si tratta d’un espediente generalmente adottato per assicurare l'apertura del teatro in mancanza di normali impresari, e quindi per dar lavoro agli artisti. Infatti quegli anni dell’ultimo periodo napoleonico e del primo dopoguerra furono anni di crisi economica. Solo dopo questo periodo si vide l'affermarsi di alcuni impresari di mestiere relativa17 Teatro a Reggio Emilia, cit., vol. I, pp. 128-129, 302, 304.
18 Due secoli di vita musicale. Storia del Teatro Comunale di Bologna, a cura di L. Trezzini, Bologna, Alfa, 1966, vol. II, pp. 18-19, 21.
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Geografia politica del teatro d'opera
mente indipendenti (tra i quali il più attivo in Emilia Romagna sarebbe stato Alessandro Lanari), mentre nel corso dell'Ottocento il tipo d’impresa locale mista, con concorso di nobili e cittadini e di qualche impresario di mestiere, e limitata generalmente ad una sola stagione, sarebbe andata scomparendo se non in città minori. Nelle città di qualche importanza sarebbe ricomparsa solo per far fronte alla crisi del teatro lirico che si accompagnò alla lunga crisi economica del tardo Ottocento, durante la quale molti teatri d’opera dovettero di nuovo vivere alla giornata.
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FRANCO
PIPERNO
Impresariato collettivo e strategie teatrali.
Sul sistema produttivo dello spettacolo operistico settecentesco
A voler sintetizzare in pochi punti la natura, la realtà e le finalità produttive del teatro d’opera settecentesco si dovrà ricorrere ai seguenti concetti: il teatro d’ opera nel corso del "700 divenne sempre più un'istituzione civica stabile, profondamente legata tanto alla struttura urbana della città quanto alla sua economia ed alle sue consuetudini sociali; il complesso macchinario che ne garantisce il funziona-
mento venne strategicamente e finanziariamente gestito da società di cittadini perlopiù aristocratici (coll’ausilio di sovvenzioni governative) spesso giovantisi dell'esperienza professionale di un impresario; il repertorio allestito nei teatri settecenteschi conosce una tripartizione di generi: l’opera seria rappresenta lo spettacolo pit lussuoso e prestigioso ed è riservata ai teatri più importanti per le stagioni più rappresentative e frequentate, il ballo è il genere più spettacolare e di maggior gradimento da parte del pubblico, l’opera buffa è il genere di maggior successo e diffusione ma di minor pregnanza etica e culturale!. Nelle pagine che seguono tenterò di illustrare i punti appena esposti riportando e commentando alcune testimonianze giornalistiche del tempo al fine di entrare nel vivo della realtà operativa del teatro d’opera settecentesco. La maggioranza delle testimonianze qui appresso discusse esula dai limiti geografici che caratterizzano questo convegno’; 1 Una rassegna e disamina di questi ed altri aspetti della produzione operistica nel XVIII secolo si leggerà nel mio contributo al vol. II della Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G. Pastelli, Torino EDT/Musica,
di prossima
pubblicazione. ? Come si avrà modo di notare, tutte le testimonianze citate per esteso sono tratte da un periodico fiorentino, «La Gazzetta toscana», stampato a Firenze a
345
F. Piperno
ho tuttavia la presunzione di ritenere che quanto esse ci comunicano sia la spia di tendenze e situazioni verificabili, sia pur con diversa intensità, in tutta l’Italia operistica del >
700.
[Documento 1: da «La Gazzetta toscana», IV, Firenze 1769, n. 9 del 4 aprile 1769, p. 33].
Una compagnia di Cavalieri si è unita insieme non per speranza di guadagno, ma per solo divertimento a fine di metter sul teatro di via della Pergola un’Opera strepitosa, che dee avere il suo principio il di 27. di marzo, e dopo 24. Rappresentazioni terminate verso il 5 di Maggio. La direzione di questa impresa è stata confidata al Sig. Giuseppe Compstoff, il quale ha già fermato per comporre in nuova musica l’Iperzzestra del Sig. Abate Pietro Metastasio Poeta Cesareo il Sig. Misvilchec ? abile Maestro di Cappella Tedesco, per primo Soprano il Sig. Solzi‘, per Tenore il Sig. Antonio Raaf, e per prima Donna la Sig. Taiber?, quali sono già arrivati in Firenze. Per i balli il detto Direttore ha fermato per figurare quaranta ballerini, e spera d’avere i rinomati Sigg. Viganau‘, e Gennariello. Il numero dei sonatori, e le decorazioni corrispondono al merito dei Professori, che vi devono operare, e alla generosità dei Signori che danno la festa, per godere della quale non sarà cresciuto né il prezzo degli Appalti, né quello del Biglietto serale”.
Una testimonianza di questo tenore offre svariati motivi di interesse e di riflessione. Innanzitutto merita di essere rilevata la mancanza di un fine di lucro nell’iniziativa della partire dal 1766. La preferenza per questo foglio è stata determinata solo dal fatto che, allo stato attuale delle mie ricerche sulla presenza della musica nei giornali settecenteschi, «La Gazzetta toscana» è quello che mi ha offerto le pagine più ricche, esplicite e stimolanti relativamente al tema di questa relazione. «La Gazzetta toscana» è un foglio filogovernativo e filoimperiale tendente a porre sotto una luce positiva qualsiasi iniziativa che coinvolga anche marginalmente la corte granducale di Toscana. L'inserimento stabile e profondo delle attività operistiche nelle consuetudini della società fiorentina, la frequente partecipazione in esse dei medesimi sovrani (come spettatori e come finanziatori), la natura «regia» e fortemente rappresentativa del teatro di via della Pergola, spingono sovente il cronista a magnificare ed eccessivamente indorare gli eventi operistici fiorentini; tenuto conto di questo, le testimonianze qui appresso citate risulteranno comunque ap-
prezzabili per la larghezza e precisione dei particolari e per l’esplicita menzione di tendenze di gusto e di costume, di abitudini d’ascolto e di preferenze contenutistiche. 3 Josef Myslivegek. 4 Adamo Solzi. > Elisabetta Taiiber. 6 Onorato Viganò. ? Cfr. libretto a Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale.
346
=
Impresariato collettivo e strategie teatrali
summenzionata «compagnia di Cavalieri»; è questa una ca-
ratteristica propria dell’impresariato collettivo fin dalle sue origini: fu cosf fin dalla metà del ’600 per i consessi accademici che ressero le sorti della Pergola a Firenze, del teatro dei Risvegliati a Pistoia, del Novissimo a Venezia o per i nobili cittadini che gestirono il teatro di Reggio Emilia, il Formagliari ed il Malvezzi a Bologna. Mancanza di un fine di lucro in questi casi non significa cortese ed autocelebrativa munificenza bensi cognizione della necessità sociale dell’intrattenimento operistico («per solo divertimento» è il movente della società di Cavalieri fiorentini menzionato nel documento 1) unitamente alla nozione della sua dispendiosità, che la collettività dell’impresariato consente di affrontare con rischi ed oneri assai più contenuti. I documenti amministrativi citati da Corrado Ricci a proposito dei teatri bolognesi riportano esempi espliciti di ripartizione fra oltre trenta soci dei saldi negativi (mai, apparentemente, degli utili) risultanti alla chiusura dei bilanci delle stagioni operistiche?. In sintesi si potrà dire che, data la necessità sociale dello spettacolo operistico, l’impresariato collettivo è un criterio gestionale che consente di affrontare con sufficiente accortezza gli elevati costi di produzione di una stagione di opere ed i frequenti passivi che ne conseguono. Questo tipo di gestione viene promossa e condotta perlopiù dal medesimo ceto sociale al quale gli esiti dell’operato della stessa sono per solito rivolti; viene cosî a stabilirsi uno stato di cointeressamento finanziario ed una comunanza di intenti e di scelte operative fra produttori e fruitori che riduce fortemente le possibilità ed i rischi di mancato «incontro», di disapprovazione e di fallimento. Una compagnia di Cavalieri e Cittadini è un delegato della società cittadina alla conduzione del teatro in quanto servizio pubblico e civico. Che il teatro dell’opera collettivamente gestito sia il fiore all’oc8 Sul teatro di Reggio Emilia cfr. A. Cavicchi, Musica e melodramma nei secoli XVI-XVIII, in Teatro a Reggio Emilia, a cura di S. Romagnoli e E. Garbero, vol. I, Firenze, Sansoni, 1980, pp. 97-133 in particolare p. 110; per il caso dei teatri
bolognesi cfr. C. Ricci, I teatri di Bologna, Bologna, Monti, 1888, pp. 95, 100, 125, 128, 374 e altrove.
? Cfr. C. Ricci, op. cit., appendice I-III.
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F. Piperno
chiello di una società urbana, il suo preferito luogo d’incontro e d’intrattenimento è facilmente desumibile da qualsiasi delle storie teatrali municipalistiche oggi a disposizione; altrettanto verificabile è la componente socialmente elevata dei ceti impegnati in prima persona nella gestione e nella fruizione delle iniziative operistiche cittadine. Nel testo giornalistico riportato quale documento 1 ciò si evince dalla generica ma esplicita dizione «compagnia di Cavalieri» (più oltre detti «Signori»); in un documento romano del 1761 l'appartenenza al ceto aristocratico dei membri che costitui-
scono la società deputata alla conduzione del teatro Argentina viene sentita come imprescindibile in quanto viene «riconosciuto per esperienza che le rappresentazioni delli Drammi et opere in musica nelli teatri di quest’alma città di Roma non siano mai riuscite con magnificenza, e pompa, se non allorquando si è presa la briga della Direzione di essi con qualche cavaliere» !°. Torniamo al documento 1 per rilevare come la società di Cavalieri affidi al signor Giuseppe Compstoff la direzione dell’impresa. Ciò consente di verificare come le società fossero la mente e la borsa dello spettacolo teatrale mentre l'operato professionale dell’impresario ne rappresentasse il braccio. L’impresario nel corso del ’700 tende a perdere i tratti di avventuroso speculatore aduso a rischiare integralmente del suo nel promuovere e gestire attività teatrali, per assumere quelli di un esperto professionista, profondo conoscitore del mondo dello spettacolo operistico (dal quale spesso proviene). Il suo operato è ora rispettato ed apprez-
zato, e non di rado egli viene accomunato agli autori ed esecutori negli encomii per la riuscita di uno spettacolo: «il sig. Mienci, impresario [del Comunale di Bologna], non ha tralasciato alcuna cosa senza risparmio» !!; a Firenze, teatro di via del Cocomero, nel 1771 Orfeo e Euridice di Gluck ebbe grande successo «con lode di quell’Impresario che straordinariamente in questa stagione ci fa godere d’uno spettacolo I0 Cfr. M. Rinaldi, Tre secoli di storia del Teatro Argentina, vol. I, Firenze, Olschki, 1978, p. 140.
1! Cfr. «Bologna», n. 20 del 15 maggio 1770. La segnalazione è di Roberto Verti).
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Impresariato collettivo e strategie teatrali
tanto magnifico, quanto dilettevole» !2. L’impresario è talora un amministratore del denaro altrui (quello di una società o dei proprietari di un teatro), ma non di rado anch'egli è economicamente coinvolto nelle imprese: a Roma, per garantire la solvibilità dei debiti ed il pagamento dei salarii delle maestranze, l’impresario doveva essere abbastanza facoltoso per poter versare un deposito cautelativo di 3.000 scudi prima di assumere l’impresa !. In ogni caso sembra di poter affermare che all’impresario settecentesco vengono riconosciuti una dignità ed un ruolo sociale precedentemente estranei alla sua figura professionale ed alle sue funzioni; piuttosto che perseguirlo legalmente in caso di fallimento, come pi di una volta si verificò nel secondo ’600, ora lo si aiuta finanziariamente in segno di riconoscenza ed apprezzamento per il lavoro svolto e le occasioni di svago create; mi sembra in tal senso singificativo quanto accadde a Siena nel settembre 1775: [Documento 2: da «La Gazzetta toscana», X, Firenze 1775, n. 39 del 30 settembre 1775, p. 155]. Ieri sera terminarono le Opere in musica ottimamente rappresentate in
questo Teatro grande da abilissimi soggetti, e decorate di balli eseguiti da eccellenti Professori. Lo spettacolo ha incontrato giustamente l’applauso universale non solo dei Paesani, ma ancora dei Forestieri concorsi a goderlo, non essendosi dal sig. Antonio Perellino, e Compagni Impresarj risparmiato alcuna cosa per renderlo piacevole insieme e magnifico. Le gravi spese a tale oggetto fatte dà detti Impresarj hanno ai medesimi cagionato un rilevante scapito, ma attese le fatiche fatte da detto Perellino, e le premure, che si è dato di ben servire questo Pubblico, nel tempo appunto, che non si credeva pit possibile avere Opere serie nella passata stagione, un numero di Cavalieri, hanno ricompensato detto Perellino, regalandoli generosamente una somma corrispondente alla sua
rata dello scapito sofferto.
12 Cfr. «La Gazzetta toscana», VI, Firenze 1771, n. 37 del 14 settembre
1771, p. 145.
13 Ad esempio, da due documenti citati da Mario Rinaldi (op. cit., p. 103) emerge il ruolo prevalentemente amministrativo dell’impresario Luigi Bernardo Salvioni relativamente al capitale investito dalla società appaltatrice del teatro Argentina.
14 Cfr. M. Rinaldi, op. cit., p. 91.
349
F. Piperno
Un'ultima considerazione suggerita dalla testimonianza giornalistica riportata quale documento 1 riguarda le strategie operative dell’impresario. L'elenco delle persone «fermate» dal Compstoff esprime una significativa gerarchia di valori che vede al primo posto il compositore della musica, indi le prime parti vocali (con il tenore equiparato nell’importanza all’evirato ed alla prima donna) ed infine i ballerini. Nella realtà produttiva dell’opera del secondo ’700 uno. degli aspetti più interessanti è dato dal nuovo ruolo del compositore, il cui operato smette di essere anonimo e secondario per farsi protagonistico e decisivo nei destini di una produzione operistica; circa il nuovo ruolo del compositore mi sembrano assai esplicite delle testimonianze come le seguenti: [Documento 3: da «La Gazzetta toscana», VIII, Firenze 1773, n. 5 del 30 gennaio 1773, p. 171.
Un numeroso concorso ebbe la sera di mercoledì il Teatro dell'Opera, che ammirò con gran piacere il talento, l’abilità del sig. Francesco Bianchi allievo del famoso Jumella, e attualmente Maestro di Cappella Cremonese, poiché con una musica fatta apposta per la nuova Commedia intitolata «il Gran Cm» fece egli risaltare il merito degli attori, e specialmente del Signor Vincenzo Coselli primo soprano, e del Sig. Pietro Tibaldi tenore, e fu tanto l’incontro, che più volte l’udienza fece, ed al Maestro di Capella, ed ai cantori quel giusto applauso che meritavano. [Documento 4: da «La Gazzetta toscana», vol. IX, Firenze 1774, n. 24 dell’11 aprile 1774, p. 94].
L’eccellente musica del celebre Sig. D. Giovanni Paisiello Maestro di Cappella Napoletano ! eseguita bravamente dai sigg. Attori rende sempre più frequentato questo nostro Teatro di Via del Cocomero ove in gran numero concorre la Nobiltà, la Cittadinanza, ed i forestieri per godere questo plausibile spettacolo.
Da queste parole risulta evidente come, sia nel genere serio che nel genere comico, il compositore possa essere considerato l'oggetto principale delle attenzioni del pubblico e l’artefice primo del successo di uno spettacolo operistico. È 15 Si tratta de L'innocente fortunata; cfr. libretto a Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale.
350
Impresariato collettivo e strategie teatrali
possibile anche venire a conoscenza di quali specifiche porzioni dell’apporto professionale ed artistico del compositore riescano, generalmente, soprattutto gradite al pubblico: precisamente le scene lugubri e gli erserzbles nelle opere serie, i finali d’atto in quelle buffe. Ad esempio, per quel che concerne l’opera seria, nella musica di Giuseppe Giordani per l’Epponina (1779) «vi è profondità, e buon gusto, e una novità di cose non sf recentemente ascoltate. Il Duo, il Rondò
[...], e la scena della carcere sono tre pezzi che sorprendono anche gli animi più prevenuti»! la musica di Giuseppe Sarti per il Giulio Sabino «è cosî profonda, piena di gusto, e di novità che sorprese i numerosi spettatori, specialmente il duo, il terzetto, il rondò della prima Donna, e dell’abilissi-
mo primo Soprano, e la scena lugubre del terz’ Atto» !”. Per quel che riguarda l’opera buffa basti menzionare,
nelle
Astuzie amorose di Paisiello, «il nuovo gusto e profondità dell’armonica composizione, e particolarmente nel secondo finale» !8, e ne I contrattempi la «musica del celebre Maestro Giuseppe Sarti, essendo stimata per uno dei suoi capi di opera. Vi è in essa un estro e una novità sorprendente, e il primo finale incontrò tanto il genio dei numerosi ascoltatori che fu fatto ripetere interamente in mezzo ai continui eloDiD.a
Restando in tema di strategie operative è lecito chiedersi come agisse l’impresario circa la scelta del compositore e della partitura. È un dato di fatto che nel corso del ’700 la prassi della reintonazione del medesimo libretto conosce una decadenza irreversibile a tutto vantaggio della circolazione di partiture già composte o dell’incremento di nuove produzioni; tutto ciò è fenomeno complementare alla nuova centralità del compositore nei meccanismi produttivi dello spettacolo operistico. All’epoca delle testimonianze qui riportate un mezzo atto ad orientare le scelte dell’impresario è costituito innanzitutto dall’Indice de’ teatrali spettacoli, un 16 Cfr. «La Gazzetta toscana», XIV, Firenze 1779, n. 43 del 23 ottobre
1779, p. 169.
17 Cfr. ibidem, XVI, Firenze 1781, n. 43 del 27 ottobre 1781, p. 109. 18 Cfr. ibidem, XII, Firenze 1777, n. 26 del 28 giugno 1777, p. 102.
19 Cfr. ibidem, XVI, cit., n. 22 del 2 aprile 1781, p. 86.
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F. Piperno
organo d’informazione stampato a Milano e poi a Venezia ed a Roma che circolò fra il 1764 ed il 1823 ad uso e consumo degli operatori del settore fornendo informazioni particolareggiate sulle stagioni operistiche italiane ed estere, sulle compagnie di canto e di ballo, sui compositori in attività 2°. Ma accanto a questro strumento di lavoro di estremo interesse, anche le semplici recensioni giornalistiche che appaiono sulle gazzette, sui diarii, sugli avvisi e sui giornali letterarii di varie città, province e stati italiani dovevano essere fonti d’informazione preziose per l’impresario oltre che significativi supporti pubblicitarii dello spettacolo operistico; ad esempio nella «Gazzetta toscana» del 22 marzo
1777 viene annunciato che la terza opera della ventura stagione primaverile sarà «il Socrate Immaginario musica del Sig. Giovanni Paisiello, che tanto questa quanto il libretto hanno fatto strepito grande su i Teatri di Napoli come si è letto ne’ pubblici fogli» ?!. Torniamo alle strutture e strategie complessive dello spettacolo operistico, sulle quali ecco due altre testimonianze significative sempre riferentisi al teatro fiorentino di via della Pergola: [Documento 5: da «La Gazzetta toscana», II, Firenze 1767, n. 6 del 7 febbraio 1767, p. 25].
Non è abbastanza credibile la moltitudine del popolo di ogni genere e condizione, che la sera del primo Febbraio si trovò nel gran Teatro di Via della Pergola sorpreso spettatore della nuova Opera intitolata Ifigenia in Tauride. Questa è riuscita cosi felicemente che ha superato quell’idea, che se ne era anticipatamente concepita e a dire il vero la novità del gusto, che anima la festa in tutte le sue parti, merita l’incomodo
dei Forestieri più lontani, come ha meritata l'ammirazione di quelli, che hanno avuto il piacere di trovarvisi. Per quel che riguarda la musica basta dire, che questa è una delle pit spiritose produzioni del Sig. Tommaso Traietta famoso Maestro di Cappella, eseguita dall’incomparabile Signor Giovanni Manzuoli e dall’eccellente Sig. Giacomo Veroli, [...]. Oltre al pregio intrinseco dell'Opera, che consiste specialmente nella bellezza della musica, e nell’abilità dei professori che la esprimono, si è am20 Cfr. 1764-1823. «Periodica 21 Cfr.
552
R. Verti, The «Indice de’ teatrali spettacoli», Milan, Venice, Rome A Preliminary Research on a Source for the History of Italian Opera, in Musica», III, 1985. «La Gazzetta toscana», XII, cit., n. 12, p. 46.
Impresariato collettivo e strategie teatrali
mirata la magnificenza del vestiario, la decenza delle molte comparse, e la vaghezza dei cori, e dei balli, che interrompendo la serietà dell’azione teatrale la rendevano pit viva, e brillante. [Documento 6: da «La Gazzetta toscana», IX, Firenze 1774, n. 39 del
24 settembre 1774, p. 153].
È Il nuovo Impresario di via della Pergola coll’apertura che fece venerdî sera 16. del corr. di quel Teatro diede uno spettacolo cosf sontuoso che ha meritato anco nelle susseguenti recite d’avere un rispettabile concorso di persone di ogni ceto. È nota per tutto la gran’abilità del Sig. Giuseppe Aprile al servizio di S.M. Siciliana, e l’ansietà dei Fiorentini di
sentire questo Professore è stata pienamente sodisfatta dalla sua elegante, e quasi prodigiosa maniera di cantare, unendosi a questo la sig. Angiola Gagliani detta la Mantovana, che sorprende pur essa specialmente per la sua bella voce, ed il molte altre volte lodato Tenore sig. Arcangelo Cortoni. [...] Il sig. Pietro Guglielmi noto Maestro di Cappella espressamente chiamato a scriverne la musica ebbe reiterati applausi, non solo nella prima, ma anco nella seconda recita, e gran risalto faceva al canto la copiosa orchestra notabilmente accresciuta di tutte le qualità di strumenti compresivi i Clarinetti e corni da caccia al servizio di Milord Cowper. Se il Vestiario per gli Attori e gran numero di comparse adattato all'Opera, intitolata TAMAsS KAULIKAN nell’Indie poesia del Sig. Cigna Santi Torinese, è d’una ricca e vaga invenzione, non meno vago e ricco è quello per i Balli diretti, ed eseguiti colla solita grandiosa maniera dal Sig. Antonio Pitrot nei quali oltre la brava sua Compagna Sig. Anna Favier vi eseguiscono diversi brillanti padedi molti altri abili Professori, essendo in tutto i Ballerini più di quaranta ai quali aggiunte le comparse a piedi, e a cavallo con abiti adattati al programma de’ Balli rendono un colpo d’occhio assai bello all’udienza.
Innanzitutto credo che, circa l’importanza equivalente di cantanti e compositori, queste recensioni si esprimano in
termini assai espliciti; ma la loro lettura è significativa anche per altri motivi. Confrontandole, si noterà ad esempio come i sette anni che intercorrono fra di esse consentano al ballo di passare da una funzione meramente interludica, esornativa e diversiva a quella di momento assai significativo dello spettacolo, meritevole di un più ampio soffermarsi del cronista con laudative menzioni degli interpreti e del coreografo. Del resto dalla metà degli anni ’70 diversi giornali, e fra questi anche la «Gazzetta toscana», registrano il
crescente favore del pubblico per il ballo e per i suoi interpreti (Le Picq, Pitrot, Favier, Alovar, Anichini, Viganò ecc.) e non tralasciano di riportarne gli argomenti, di segnalarne i 355
IF, Piperno
momenti salienti, di menzionare gli interpreti più meritevoli; non di rado nel recensire uno spettacolo teatrale con mu-
sica il cronista si dilunga ed abbonda in particolari più nel ‘parlare del ballo che dell’opera in cui esso è inserito. Si leggano le seguenti descrizioni di balli di Antonio Pitrot e di ‘Onorato Viganò: [Documento 7: da «La Gazzetta toscana», XI, Firenze 1776, n. 52 del 28 dicembre 1776, p. 207; teatro di via del Cocomero a Firenze].
Il primo ballo d’invenzione del Sig. Antonio Pitrot che prima di ogni al-
_ tro ha portato fra gl’Italiani il gusto delle grandiose e magnifiche Danze Francesi, dipinge all'idea di chi lo mira co’ pit vivaci colori la tragedia d’Elettra. [...] Il mentovato Sig. Antonio Pitrot ha spiegato in questo ballo tutta l'estensione del suo genio, e fa chiaramente conoscere anco a suoi emuli fino a qual punto possegga l’arte difficile della danza e del regolare l’eroiche pantomimiche rappresentanze, che sorprendono a un tempo lo spettatore, e gli mostrano coi più vivi sentimenti dell’allegrezza, e del dolore i fatti più grandiosi delle Greche e Romane vicende. La Prima Ballerina Sig. Teresa Stefani Magni che eseguisce la parte di Cli-tennestra ripiena di maestà, e decenza seconda a maraviglia l'intenzione del gran maestro inventore, dimodoché non meno del medesimo ha riportati i maggiori applausi. [Documento 8: da «La Gazzetta toscana», XII, Firenze 1777, n. 43 del 25 ottobre 1777, p. 171].
Venerdi sera fu nel Teatro di via del Cocomero esposto sulle scene un nuovo ballo d’invenzione del Sig. Onorato Viganò rappresentante una Vendemmia. Evvi fra le vendemmiatrici una pastorella che fa vari scherzi e insolenze a compagni, con le quali risveglia l’idea delle burle che far si sogliono in questo tempo autunnale. La Musica è tutta analoga all’operazione espressiva, e vivace e l'esecuzione di tutto il ballo è di un gusto totalmente nuovo che diletta, rallegra e non secca, ed in specie una contraddanza in fine del medesimo con certi fischi e figure bizzarre di una briosa e non più veduta invenzione.
Desidero concludere questo excurcus giornalisticodocumentario citando un’ultima testimonianza dalla «Gazzetta toscana» riferentesi ad uno spettacolo buffo: [Documento 9: da «La Gazzetta toscana», XI, Firenze 1776, n. 46 del 16 novembre 1776, p. 181].
In detta sera fu posto in scena nel Teatro di via della Pergola l’accennato giocoso Dramma «L'Amore Artigiano» nel quale la Sig. Caterina Ri-
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Impresariato collettivo e strategie teatrali
storini prima buffa fece risaltare l’abilità sua nel possesso del Teatro,. buona maniera di cantare, e perfetta intonazione, lontana assai da certi voli superflui, e poco grati all'orecchio di chi ascolta, onde incontrò l’universale applauso e ammirazione. Il Sig. Giovacchino Caribaldi vi fa anch’esso una decente comparsa, e vie più ammirasi in esso il gran cantore, e maggior risalto farebbe se la musica non fosse ridotta alquanti tuoni più bassa. La detta musica del Sig. Floriano Gasmann già al servizio di S.M. Imp. è analoga al carattere di ciò che rappresentasi nel libretto, e solo perde al confronto dell'armonia dell’inimitabil Paisiello superiore presentemente ad ogni altro.
Da quanto appena riportato emergono alcuni elementi di notevole interesse. Innanzitutto conviene rilevare come, a
partire dall’ultimo terzo del XVIII secolo, gli interpreti buffi iniziino ad esser circondati da esplicita ammirazione e plauso non meno di quelli serii; il successo che essi riscuotono non è soltanto frutto di lazzi e buffonerie o conseguenza della bontà della musica o della vis corzica del libretto, ma sembra fondarsi su notevoli doti interpretative e tecniche che poco hanno da invidiare a quelle espresse dai cantanti dell’opera seria. Ad esempio di Anna Zampieri viene detto «che unisce tutti i lazi e il possesso Teatrale di una bravissima attrice scherzosa, ad un solido fondamento di musica»?, Rachele D’Orta viene definita «brava attrice, e canta-
trice che possiede il pregio di una perfetta intonazione» ?, Marianna Santoro «non ha ingannata la pubblica aspettativa per la sua agilità, portamento di voce, ed espressione» ?. In secondo luogo va osservato come l’estensore della su riportata recensione esprima un convinto giudizio sulla superiorità di Paisiello rispetto a Gassmann. In questo va rico| nosciuto uno dei significati principali dei giornali settecenteschi che sogliono lasciare spazio a rubriche e cronache teatrali: la possibilità di esprimere opinioni e quindi di suscitare nei lettori curiosità ed interessi, non poco contribuendo ad incrementare i movimenti e la circolazione del repertorio operistico e dei suoi interpreti all’interno del 22 Cfr. «La Gazzetta toscana», XI, Firenze 1776, n. 37 del 24 settembre
1776, p. 145.
23 Cfr. ibidem, XII, cit., n. 22 del 31 giugno 1777, p. 86. 24 Cfr. ibidem, XII, cit., n. 36 del 31 settembre 1777, p. 143.
399
È anonimatopa ai erano relegati nella prima metà del ’700, si avviino ad essere oggetto primario di interesse da
| parte del pubblico, individualità riconosciute in grado di garantire sicuro richiamo e probabile successo alla produzione operistica.
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GIULIANA
FERRARI
PAOLA
MECARELLI
PAOLA
MELLONI
L'organizzazione teatrale parmense
all’epoca del Du Tillot: i rapporti fra la corte e gli impresari
Guillaume Du Tillot, già «Intendant des MenusPlaisirs» durante le campagne di don Filippo sia a Milano che a Chambéry !, giunto nel 1749 alla corte di Parma, vie-
ne incaricato nel 1753 della Direzione Generale dei Reali Teatri di Parma e Piacenza. Inizia la sua «riforma teatrale» tentando di instaurare nel teatro di Parma quell’«ordine, regola, quiete è» che si addicevano al decoroe al rispetto dovuti ad un teatro di corte, «quel rispetto, che in ogni tempo, e circostanza esiggono gli istessi nostri Teatri, come parte indivisibile dei nostri Reali Palazzi», come sosteneva
don Filippo di Borbone in un editto emanato nell’agosto del 1752’. L’analisi dei documenti indica che Parma non faceva eccezione a quella che secondo le testimonianze di numerosi viaggiatori, cronisti, letterati, era la situazione generale dei teatri italiani per quanto riguardava la mancanza di disciplina del pubblico, il malcostume degli spettatori, i disordini che si verificavano ‘. Una testimonianza significativa in questo senso è in un
documento? datato Parma, 3 giugno 1749, dove il presidente della Reale Ducale Camera, Antonio Francia, lamenta di-
sordini gravi verificatisi a teatro e sollecita immediati provvedimenti: «Non tanto dall’Impresario dell'Opera, quanto 1 U. Benassi, Ur ministro riformatore del secolo XVIII, in «Archivio Storico per le Province Parmensi», n.s., XV (1915), p. 335. 2 H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Paris, Champion, 1928,
vel..1i) p'453
3 Archivio di Stato di Parma (= A.S.Pr.), Fondo Teatri di Parma e Piacenza
(=T.P.P.), b.1.
4 Cfr. H. Bédarida, op. cit., vol. II, p. 455. 5 A.S.Pr., T.P.P., b. 1. Il motivo centrale del documento è dato dai «disordini gravi» verificatisi a teatro durante l’opera, da parte dell’«udienza popolare»;
non dimentichiamo che questo, e in genere gli altri documenti qui esaminati, riflettono l’ottica della corte.
do:
G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
dalla maggior parte della Nobiltà mi è stato rappresentato il disordine, che nacque l’altra sera in Teatro per parte dell’Udienza popolare, che alzò grida, e fece strepiti tali, sino a battere co’ bastoni le Careghe e romperne alcune con tanto incomodo de Cantanti, e de Suonatori che erano in
istato di terminare intempestivamente la Recita e produrre un disgusto, e increscimento alla nobile Udienza cosî estera,
che nazionale». Nel 1755 Du Tillot emana un regolamento sul buon ordine del teatro del quale porta vivace testimonianza nella sua Cronaca lo Sgavetti*, che ricorda i termini del regolamento dell’Intendente: silenzio, niente cappello, niente spada, salvo agli ufficiali di servizio, niente visite da un palchetto all’altro. Il Buon Dio, suggerisce Sgavetti, non avrebbe chiesto di più in una chiesa. E se Goldoni scrive nei suoi Mér0tres? di essere rimasto incantato dalla rappresentazione della compagnia francese del Delisle e stupito del silenzio che regnava nella sala, durante un suo soggiorno a Parma nel 1756, i regolamenti, le grida, gli editti emessi in questi anni ci mostrano quanto anche a Parma
prevalessero fino ad allora suppergiù gli stessi comportamenti già stigmatizzati dai viaggiatori del 700 negli altri teatri italiani. Si trattava quindi di tutelare il teatro inteso come casa del principe e, insieme, di riorganizzare a livello amministrativo il sistema teatrale per ottenere un duplice risultato: di risanamento economico della gestione teatrale e di prestigio e promozione culturale. Occorreva dunque instaurare 6 Il cronista di Parma, Sgavetti, nella sua Cronaca in tredici tomi che si conserva manoscritta ed inedita all’ Archivio di Stato di Parma, cosi scrive in data 19 novembre 1755: «anno affisso l’aviso questa matina del modo si dovrano conte-
nere la Nobiltà ed altri che si portarono à Teatro per le Opere, e Comedie starasi con tale rispetto, e riverenza, che io credo si contenterebe Iddio di essere rispetato cosî nella Sua Chiesa, cioè che niuno parli, niuno porti il capelo, niuno con spada salvo quelli di Ufizio della Corte e Nobiltà, non ametendo visita fra un palchetto al’altro». ; ? Cfr. C. Goldoni, Memorie, trad. di E. Levi, Torino, Einaudi, 1967 (tit. or., Mémoires de M. Goldoni, pour servir à l’histoire de sa vie, et è celle de son théùtre,
dédiés au Roi), vol. II, xxx1, pp. 378-79. Cfr. anche U. Benassi, op. cit., pp. 282-83; A. Equini, C.I. Frugoni alle Corti dei Farnesi e dei Borboni, Milano, San-
dron, s.d., pp. 49 ss.; P. Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Sette-
cento, Torino, E.D.T., 1984, p. 56.
358
I rapporti fra la corte e gli impresari
una funzione di controllo, supervisione e mediazione all’interno del rapporto teatro di corte/teatro impresariale: quella funzione appunto che il Du Tillot esercitò nel suo ruolo di direttore generale dei teatri. Del resto, la trattatistica del tempo, e în primzis France-
sco Algarotti, in stretta relaziohe con Du Tillot e l'Abate Frugoni, nominato revisore degli spettacoli teatrali nel 17548, aveva individuato anche a livello teorico i nodi della
questione. Du Tillot sembra ritenere con Algarotti che la riforma del teatro e la rigenerazione in senso classicistico del teatro in musica siano possibili in una corte come quella di Parma dove l’autorità del principe non soggiace troppo ai vincoli e ai condizionamenti, economici e non, propri del teatro impresariale. In questo senso la stessa organizzazione
teatrale si collega con la «riforma del teatro» auspicata dall’ Algarotti, e in parte realizzata dalla corte di Parma con Du Tillot. Nel suo saggio Sopra l’opera in musica? Algarotti individua alcuni temi cruciali per intendere il significato dell’organizzazione teatrale a Parma all’epoca del Du Tillot: i nessi stretti tra ripristino dell’ordine a teatro, dell’organizzazione teatrale e della riforma. «Al presente il Teatro è in mano d’impresarj, che non altro cercano se non trar guadagno — scriveva Algarotti — e come mutar potriano [le cose], salvo se nella Corte di un qualche Principe caro alle 8 A.S.Pr., Decreti e Rescritti
(= Decr. e Rescr.), 1754: «L’Abate Carlo Frugoni
Umilissimo Servo ed Oratore di V.A.R. desiderando l’attuale Oratore d’impie-
garsi ed esercitarsi nel Reale suo Servigio, supplica per essere graziosamente promosso all’Impiego, ed esercizio di Revisore di tutte le Teatrali Rappresentazioni, che presente la R. sua Familia, e Corte si daranno al Pubblico, e per Compositore di quelle, che espressamente verranno ordinate, e dirette a suoi piaceri con quell’Onorario, che alla Sovrana Sua Munificenza piacerà di assegnargli non per altro merito, che per quello di essere col più profondo e fedele ossequio attaccato alla Real Sua Persona». Il memoriale è in data 2 febbraio 1754; don Filippo accorda al Frugoni l’impiego richiesto in data 25 febbraio. ? L’opera dell’Algarotti era stata pubblicata a Berlino nel 1755 senza il nome dell’autore ed era dedicata al barone Svertz, direttore dei teatri del re di Prussia.
Sappiamo che tramite il Bettinelli, incontrato in un viaggio in Germania, l’Algarotti aveva inviato al Frugoni una copia manoscritta del suo Saggio. Il 3 febbraio 1756 il Frugoni, nel ringraziarlo, gli richiedeva degli esemplari del libro per il conte di Rochechouart e per il Du Tillot. Cfr. H. Bédarida, op. cit., vol. II, p.
463. Si veda la lettera di ringraziamento del Frugoni in Opere del Conte Algarotti, Venezia, 1794, vol. XIII, pp. 62-63, lettera del 23 marzo 1756.
359
G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
Muse presiedesse al Teatro un abile Direttore, in cui al buon volere fosse giunta la possa? Allora solamente saranno i virtuosi sotto regola e governo, e noi potremo sperare a’
giorni nostri di veder quello che a’ tempi de’ Cesari, e de’ Pericli vedeano Roma, ed Atene» !°. E Du Tillot sembra
perfettamente in sintonia con quell’«abile Direttore», al cui «buon volere» si unisce il potere, capace quindi, almeno su di un piano di organizzazione e programmazione teorica,
non sempre di compiuta riuscita, di svolgere quella funzione di emanazione della corte come intendente generale e direttore dei teatri. Scopo della nostra relazione è di esaminare il rapporto fra teatro di corte/direzione generale dei teatri da una parte e teatro impresariale dall’altra, e al tempo stesso di valutare l’incidenza di quel fattore non sempre precisamente definibile di «mediazione teatrale» !! a vario titolo impersonata da corrispondenti, agenti teatrali e simili, con i quali il Du Tillot intratteneva una fitta corrispondenza. Quale in definitiva la funzione del Du Tillot sul versante della riforma teatrale che riguarda più propriamente l’organizzazione teatrale nelle sue complesse componenti !2? Cercheremo una risposta esaminando in particolare i contratti stipulati dal Du Tillot con l’impresa Soldati-Gualazzi nel 1751, con l’impresa Raimondi nel 1752 e con la compagnia RomenatiMagnanego e Pellegri (1758-1763) !. 10 F, Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica (1763), rist. anast., S. Giovanni in Persiceto-Bologna, F.A.R.A.P., 1975.
11 Cfr. J. Rosselli, Agenti teatrali nel mondo dell’opera lirica italiana dell’Ottocento, in «Rivista Italiana di Musicologia», XVIII (1982), pp. 134-154.
12 I documenti su cui si è basata questa nostra indagine sono stati raccolti nel corso di una ricerca sul teatro d’opera in Emilia Romagna nel Settecento, effettuata sotto la guida di Renato Di Benedetto (che vivamente ringraziamo) e coordinata da Lorenzo Bianconi e Claudio Gallico nell’ambito del programma di ricerca su «Cultura e vita civile del Settecento in Emilia Romagna» promosso dalla Regione Emilia Romagna. In particolare, il gruppo di ricercatori composto da Rossella Campari, Giuliana Ferrari, Paola Mecarelli e Paola Melloni ha proceduto allo spoglio archivistico di alcuni fondi dell'Archivio di Stato di Parma, e precisamente il Fondo Teatri di Parma e Piacenza e le Carte Du Tillot - Teatro (G. Ferrari), la Computisteria Farnesiana e Borbonica, il Carteggio Borbonico interno e il Car-
teggio Borbonico estero - Italia settentrionale (R. Campari, P. Mecarelli, P. Mello-
13 Si conservano
360
due documenti
all’A.S.Pr.
relativi all'impresa Soldati-
I rapporti fra la corte e gli impresari
E in seguito allo scioglimento del primo contratto e alla rinuncia del successivo impresario, il Raimondi, che Du Til-
lot nel 1753 avoca a sé l’impresa dei teatri. Da questa data si occupa della chiamata delle varie compagnie, della stipula dei contratti, degli stipendi, dei costumi, delle scene anche
tramite la collaborazione dei numerosi corrispondenti francesi. In questo contesto si situano i contatti con la compa-
gnia di Jean Philippe Delisle nel 1755 4. Questi contratti di appalto vengono sottoposti a una serie di patti e condizioni tali da garantire, come vedremo, alla corte, tramite il Du Tillot e i Cavalieri direttori dei Teatri col ruolo di «garanti», una funzione di costante sorveglianza; si avverte in questi documenti la vigile presenza del ministro attento in ogni occasione a tutelare gli interessi della corte, ad accrescerne le risorse economiche, il prestigio, il decoro pur nelle concessioni, che, talvolta, è tenuto a fare agli impresari. In questi contratti, insieme ad alcune richieste costanti da par-
te degli impresari e ad alcuni obblighi imposti dalla corte, sono significative le varianti, le modifiche, le controversie su alcuni specifici punti. Costante è la richiesta di uno spazio: lo spazio proprio della rappresentazione, la consegna del teatro con tutti li suoi «attrezzi, utensigli, comodi...» ‘5, lo spazio per i festoni Gualazzi, Carte Du Tillot - Teatro (= C.D.T. - Teatro), b. 88, il primo in data 18 aprile 1751 da Parma e il secondo Resureri di tutti li patti, e condizioni, sotto de’ quali si sono incaricati li Signori Michelangelo Soldati, e Giuseppe Gualazzi dell’Impresa de Reali Ducali Teatri durante il presente triennio, ch’ebbe il suo principio nel
giorno primo di luglio del 1751, per il quale si rimanda all’appendice documentaria (Doc. 1). Si conserva inoltre il contratto con Alberto Raimondi, Parma, 5 luglio
1752 (A.S.Pr., T.P.P., b. 1), cfr. app. doc. 2. Diversi sono poi i documenti che si riferiscono alla compagnia Romenati-Magnanego e Pellegri; di questi contratti si pubblica il più completo, cfr. app. doc. 3. 14 Esistono nell’A.S.Pr. numerosi documenti che si riferiscono a questa compagnia francese che inizia le sue rappresentazioni a Colorno il 17 agosto 1755. Si trova inoltre una convenzione, in francese, con la quale il direttore della troupe,
J.P. Delisle, si offre di rimanere ancora a Parma fino alla pasqua del 1756, a determinati patti e condizioni. Sulla compagnia del coreografo Delisle alla corte di Parma è in corso di stampa un saggio di G. Ferrari; cfr. anche I. Quattromini, I/ teatro della villeggiatura, in Musica e spettacolo a Parma nel Settecento, atti del convegno di studi, Parma, 18-20 ottobre 1979, Parma 1984, pp. 85-103.
15 A.S.Pr., T.P.P., b. 1; ci si riferisce al contratto con la compagnia Romenati-Magnanego e Pellegri (1757); cfr. app. doc. 3.
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G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
da ballo durante il carnevale ‘6, il Ridotto per i giochi d’azzardo e lo spazio annesso al teatro: il Casino pure per esercitarvi i giochi d'azzardo e luoghi specifici per le decorazioni teatrali, per preparare e restaurare le scene; a Parma nel 1752 l’impresario Raimondi chiede espressamente uno spazio per l’architetto teatrale e i suoi pittori”. Per quanto attiene alla consegna del teatro, le clausole sono precise: «Dovranno Igli impresari] ricevere in consegna ed a stima di pratico ingegnere, capomastro falegname teatrale tutti li capitali spettanti al sodetto teatro comprendendovi quelli ancora, che possono essere stati spostati fuori di esso, e tratte-
nuti in altro luogo, e saranno tenuti di restituirli [...] nella stessa condizione, e valore» !8. Ma la consegna del teatro comporta un’altra clausola a cui si obbligano gli impresari: «Sono tenuti restaurare e conservare a loro spese li stabili, e fabbricato interiore del teatro medesimo, ed in quella parte, che si renderà necessaria, o comoda alle teatrali funzioni, poiché trattandosi di un accidente, che esigesse un considerabile dispendio per un essenziale riparo di imminente grave ruina, dovrà l’Intendente Generale darne il conveniente
provvedimento» !°. Connesse alle richieste degli spazi sono le clausole relative al fezpo: ogni contratto ha una sua durata, di uno, tre, cinque, sei anni; il contratto può prevedere
una proroga in determinate circostanze (come nel caso che il carnevale sia sospeso o annullato), può stabilire un dato numero di rappresentazioni in determinati periodi dell’anno, in determinati luoghi e circostanze. Nel 1751 gli impresari Soldati, Gualazzi e soci si obbligano a fare rappresentare nel Teatro di Parma, nel carnevale di ogni anno «una buona opera in musica composta di soggetti di grido, e di buoni e numerosi ballerini», ma già l’anno successivo il nuovo contratto stipulato dal Du Tillot «con un migliore e più vantaggioso regolamento» con l’impresa Raimondi prevede la messinscena di «una o due opere 16 Ibidem. 17 Cfr. contratto con Alberto Raimondi, A.S.Pr., T.P.P., b. 1; app. doc. 2.
18 Cfr. contratto con l'impresa Soldati-Gualazzi del 18 aprile 1751; app. doc. 1. 19 Ibidem; app. doc. 1.
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musicali secondo richiederà il breve o lungo corso del Carnevale, delle migliori e delle pit belle che oggidî saranno possibile». I contratti stipulati con la compagnia RomenatiMagnanego-Pellegri prevedono l’obbligo di far rappresentare due opere serie in musica per il carnevale precisando «una cioè di uno spartito vecchio, e la seconda di nuova composizione». Di norma poi gli impresari si obbligano a dare, sempre nel carnevale, dodici feste da ballo, e per queste viene costantemente richiesto l’uso della maschera per attrarre il maggior numero possibile di forestieri. Si obbli-
gano inoltre a far rappresentare nel teatro di Parma, nella primavera o nell’estate di ogni anno, commedie da una buona compagnia di comici di Venezia per cinquanta recite almeno e parimenti a mandare una volta alla settimana la compagnia di comici a Colorno o a Sala, residenze estive della corte, se ne saranno richiesti. Quanto a Piacenza, nel caso che si faccia la fiera, gli im-
presari si impegnano a far rappresentare nel Teatro Ducale, nella primavera di ogni anno, «un’opera sontuosa in musica». In un progetto dell’opera della fiera di Piacenza, del 1751, gli esibitori del progetto assicurano di porre in scena l’opera nel giorno di apertura della fiera e di «farne ventidue Recite siccome il costume, ed anche di più se loro piacesse non oltrepassando però il numero di trenta». Quanto agli allestimenti delle opere, gli impresari si obbligano a far rappresentare l’opera in musica con decorazioni tali da incontrare il «benigno gradimento di S.A.R.» e, insieme, a «lasciare tutto ciò che di nuovo faranno per ade-
rire li scenari alli drammi»?!. Inoltre gli impresari si obbligano a pagare Lire 10.000 moneta di Parma in più, rispetto
all’annua pensione convenuta, se le decorazioni od altro non fossero di piena soddisfazione di S.A.R. Successivamente, a partire dal 1755, con la compagnia francese Delisle, lo scenario e gli abiti per i cantanti e i ballerini sono a 20 U. Benassi, op. cit., pp. 348-49. Si veda il Progetto per l’Opera in tempo della Fiera in Piacenza di quest'anno 1751 del 6 febbraio 1751, A.S.Pr., T.P.P., b. 1;
cfr. app. doc. 4. 21 Cfr. contratto del 1751 con l’impresa Soldati-Gualazzi, app. doc. 1.
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carico dell’Intendenza Generale. Questa concede, «beninte-
so nello stato in cui si trovano», e lasciando quindi sempre ai conduttori dell’impresa le spese di manutenzione, gli scenari corrispondenti ai drammi da rappresentarsi; inoltre si precisa che i conduttori dovranno aggiungere due scene nuove secondo le richieste dell’Intendenza, scene che reste-
ranno «a beneficio ed in proprietà dell’Intendenza Generale». Quanto al vestiario, questo viene pure concesso «in
uso» e non può quindi essere alterato senza la previa autorizzazione dell’Intendenza. Inoltre il conduttore dovrà farsi carico ogni anno di due abiti nuovi per i virtuosi cantanti «a genio e gusto» dell’Intendenza, abiti che resteranno «a beneficio ed in proprietà» dell’Intendenza stessa. Per quanto attiene agli utili del teatro, i conti delle entrate e delle spese mostrano costanti perdite solo in parte bilanciate da alcuni utili: il pagamento del biglietto d’ingresso, la vendita e affitto dei palchetti oltre, come vedremo, l’appalto dei giochi d’azzardo. Ma gli impresari riescono con difficoltà a far rispettare le clausole dei contratti, che cioè «tutti senza alcuna riserva ed esenzione debbano pagare l’ingresso del teatro e la pensione dei palchi», abolendo quindi ogni precedente uso e privilegio. Il pagamento dei palchetti costituisce motivo di ricorrenti controversie fra vecchi e nuovi possessori. Abbiamo rintracciato numerose testimonianze di questi contrasti 2, e lo stesso don Filippo è costretto nel 1752 ad intervenire con l'emanazione di un editto per l'inosservanza delle grida che erano state precedentemente pubblicate. In tale editto comanda che «qualsivoglia persona, si dell’uno che dell’altro sesso, niuna eccettuata, benché sia de nostri attuali servitori, e dipen-
denti della nostra Corte, la quale intenda di intervenire alle funzioni, che di tempo in tempo si rappresenteranno ne sodetti nostri Teatri, siano queste o musicali, o comiche, o di
altra sorta, non possa avere in essi l’ingresso senza essere prima provveduta del biglietto, che ordinariamente suole dispensarsi dall’Impresario, lasciandolo nell’atto di entrare ZACfroA.SiPr T.P.Ps bbr 2
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I rapporti fra la corte e gli impresari
in Teatro in mano del Portinaro [...]». Aggiunge poi che la giustizia della Corte non può lasciar correre una cosa «che
porta seco un notabile pregiudicio all’imprese de nostri Teatri». Quanto ai palchi, per i quali era stato emanato un precedente decreto relativo al loro affitto, «siamo costretti — prosegue don Filippo — a dimostrare adesso il dispiacere che di sovente proviamo nell’udire la morosità di alcuni che doppo averne di tempo in tempo goduto l’uso, fanno perdere innumerabili giornate agli agenti dell’impresario per riscuoterne li già passati affitti onde per togliere affatto anche questo cosf notabile pregiudicio, comandiamo, che da ognuno prima che giungano al loro termine le musicali, o comiche rappresentazioni, sia puntualmente pagato in mano de sodetti agenti l’intero affitto»; in caso diverso, saranno accolti i ricorsi dell’impresario. Nei vari contratti viene ribadito che chiunque voglia godere del divertimento delle opere deve assolutamente pagare, eccetio una lista di esentati che deve essere compilata dall’Intendenza. Di volta in volta sono precisati i palchi che devono essere messi a disposizione della corte reale. Ma se la corte tutela la legittima richiesta dell’impresario relativa al pagamento dei biglietti e ai palchi, non accorda invece la richiesta degli impresari ? di poter liberamente fissare il prezzo d’ingresso, platea e palchi, «tanto per li forastieri, che per i terrieri, ed altri dello stato in relazione a quelle leggi che si praticano in tempo di fiera per gli ingressi e palchi a Reggio». Ma la richiesta più pressante da parte degli impresari è quella della privativa dei giochi d’azzardo, la sola che sembra permettere di pareggiare i bilanci. Questo appalto costituiva una delle maggiori forme di introito, a volte il maggior incentivo per l’impresario ad assumere l'impresa del teatro, caratterizzata dalle forti spese per realizzare soprattutto l’opera seria in musica. Anche per Parma vale quanto dice Rosselli? l’argo23 Cfr. contratto con la compagnia Romenati-Magnanego e Pellegri, app. doc. 3. 24 Cfr. J. Rosselli, Governi, appaltatori e giochi d'azzardo, in «Rivista storica Italiana», XVIII (1981), pp. 346-383.
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mento forse pit forte a favore dell’appalto dei giochi da parte della corte era il sostegno che ne derivava all'impresa del teatro e all’opera in musica in particolare. La stessa pensione o annuo affitto che a Parma gli impresari sono tenuti a pagare, oggetto di innumerevoli contrasti con la corte, è, di fatto, messa in relazione con la privativa dei giochi. Cosi, nel contratto col Raimondi del 1752, l’impresario si obbliga a pagare ogni anno la pensione di Lire 40.500 moneta di Parma, e questo a titolo di pensione ed in corrispondenza della privativa dei giochi. E gli impresari, nel sollecitarla, richiedono anche la promulgazione da parte della corte di grida sui giochi d’azzardo, severissime nei confronti dei contravventori. Nel 1751 richiedono che «tutti i giochi di zara, bassetta, faraone ed altri, tanto sulla Fiera che in città, ed in Teatro, e cosf tutte le loterie della città, della
Fiera, e del Teatro, ed inoltre le bottiglierie del Teatro e della Fiera annessa» siano privative degli interessati per tutto il tempo della fiera e delle recite. Con l’impresariato parmense siamo quindi di fronte ad un sistema in cui sono presenti contemporaneamente,
se
pure su diversi livelli, le forze economiche e politiche del ducato: la corte come destinatario-produttore, il Du Tillot come intermediario fra la corte e l’impresario, quando non sia impresario egli stesso, e il conduttore relegato al ruolo di «mercenario», tramite una concessione d’appalto che comunque non gli consente un ampio potere decisionale nei
confronti dell’intera organizzazione. Si tratta effettivamente di un impresariato «misto», ma con sfumature diverse rispetto alla consueta accezione del termine. Infatti se precedentemente l’aggettivo «misto» era applicato a soluzioni organizzative nelle quali l’impresario si occupava della gestione del teatro, ma il principe ne risultava di fatto il sovvenzionatore, per quanto riguarda Parma assistiamo, invece, ad un meccanismo imprenditoriale: la corte come «proprietario» dell’impresa, l’Intendenza Generale che gestisce la produzione, gli impresari che organizzano tale produzione. Fortemente limitata nelle sue possibili prerogative sembra la funzione che la corte di Parma, tra366
sie
I rapporti fra la corte e gli impresari
mite il suo Direttore generale, i Cavalieri direttori”, i revisori degli spettacoli, affida agli impresari che le si affiancano nell’organizzazione teatrale. Una spia vivace della funzione strumentale in cui la corte vede l’impresario la ritroviamo in una Memoria del 29 luglio 1765 del nuovo direttore dei teatri, il conte Sanvitale 26. A seguito della morte di don Filippo si considera «se convenga dare qualche alleggerimento al nuovo
Sovrano», e, dopo varie considerazioni
sui comportamenti tenuti in relazione ai lutti di corte, in materia di rappresentazioni teatrali si scrive: «Si propone, di far disdire tutte le fatte scritture, ma di tenere segretamente provveduto tutto ciò, che può bisognare a un comico musicale picciolo spettacolo per il venturo Carnevale, che non faccia torto alla Regia Economia, e che diverta il Reale Sovrano [...] facendo fare la figura d’impresaro, che ne addimandi la permissione, a qualche testa di legno».
25 Nelle Carte Moreau de Saint-Méry, bb. 24-26 in A.S.Pr., si trova un importante documento relativo alla Società dei Cavalieri (1761). Già nel contratto del Raimondi (1752) risulta la presenza del conte Ferdinando Scotti e del marchese Marsilio Paveri Fontana in qualità di cavalieri garanti del contratto e dell’impresa (cfr. app. doc. 2). In un altro documento, senza data, in C.D.T.-Teatro, due cavalieri chiedono sia loro accordato «il carattere di Cavaglieri Protettori della Teatrale Impresa». Scopo dei due cavalieri, viene ribadito nel documento, sarà «che la nuova condotta sortisca in ogni opportunità un felice, e plausibile effetto» e che soprattutto «vieppit brillanti si rendano tanto in Parma; quanto in Piacenza le Teatrali rappresentazioni, e per quanto sarà possibile si conservi, e si accresca il piacere a Reali Sovrani, e di conseguenza si mantenga l’antico decoro, e l’usata venerazione de Teatri medesimi, come parte indivisibile della Real Casa». Rilevante è anche un’altra osservazione dei due cavalieri: «Ma siccome dalla sola privativa de Giuochi, e dallo presentaneo sperimentato picciolo introito de Teatri non è possibile lo sperare nemeno il modo di aumentare li Capitali indispensabili de Scenarj; e molto meno di riaquistare, se non a forza de gravissime spese, il Grido, e la Fama già nell’uno, e nell’altro Teatro scematisi; cosi colla dovuta Mo-
derazione rappresentano Essi due Cavaglieri non esservi luogo di obbligare l’Impresa al pagamento di veruna Pensione». Cfr., per la Società dei Cavalieri, app. doc. 5. 26 Con sovrano rescritto il 3 luglio 1763 il conte Jacopo Antonio Sanvitale viene nominato Direttore generale dei Reali Teatri e Spettacoli. Cfr. Merzoria del Sanvitale, 29 luglio 1765, in C.D.T. - Teatro.
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APPENDICE DOCUMENTARIA (a cura di Giuliana Ferrari)
poc. 1: contratto stipulato fra il Du Tillot e l’impresa Soldati-Gualazzi, Parma 18 aprile 1751 (A.S.Pr., C.D.T. - Teatro, b. 88)
Essendosi presentati tra gli altri Concorrenti all'impresa de R.D. Teatri di Parma, e di Piacenza li Signori Michel Angelo Soldati, e Giuseppe Gualazzi e suoi compagni, ed avendo li medesimi rese più accettabili le loro Oblazioni sotto la dignità del Sig. Giuseppe Antonio Muzzi, è venuto in determinazione l’Ill mo D. Guglielmo du Tillot Intendente Generale della R. Casa, di accordare ad Essi la sodetta Impresa per un triennio continuo da principiarsi il giorno dieciotto del corrente aprile 1751 rispetto al Teatro di Parma, e rispetto a quello di Piacenza il primo di Giugno prossimo venturo anno sodetto con li seguenti Patti, e Condizioni. î Primo: Saranno obbligati li sodetti Impresarj di far rappresentare nel Teatro di Parma nel Carnevale d’ogn’anno una buona opera in Musica composta di Soggetti di Grido, e di buoni, e numerosi Ballarini, e con decorazioni tali, che abbiano da incontrare il benignissimo gradimento di S.A.R. Così pure si obbligano di dare nel Carnevale sodetto dodeci feste da ballo, e queste interpollatamente, e in quelle sere, che più piacerà alli Reali Sovrani, confidando essi che in tale circostanza sia concesso l’uso della maschera come in addietro si è pratticato e queste saranno fatte dagl’Impresarj colla maggiore possibile proprietà.
Secondo: Si obbligano li sodetti Impresarj di fare rappresentare in detto Teatro di Parma, o nella Primavera, o nell’Estate d’ogn’anno una Comedia da buona Compagnia de’ Comici di Venezia per cinquanta Recite almeno e si obbligano parimenti di mandare una volta la settimana detta Compagnia di Comici, o a Colorno, o a Sala, sempreche ne saranno comandati a proprie loro spese, e solo sarà a carico dell’Intendente Generale di far somministrare a detta Compagnia il Coperto con Letti. Terzo: Saranno tenuti li sodetti Impresarj a ristaurare, e conservare a loro spese li stabili, e fabbricato interiore dello Teatro medesimo, ed in quella Parte, che si renderà, o necessaria, o comoda alle Teatrali
funzioni poiche trattandosi di un accidente che esigesse un considerabile dispendio ed un esenziale reparo da imminente grave ruina, sarà l’Intendenza Generale obbligata alla dovuta provvidenza. Quarto: Dovranno ricevere in consegna ed a stima di pratico Ingegnere, e capomastro Falegname Teatrale tutti li Capitali spettanti al sodetto Teatro comprendendovi quelli ancora, che possono essere stati trasportati fuori di esso, e trattenuti in altro luogo; e saranno tenuti di restituirli nel fine del sodetto triennio nella stessa condizione, e valore, e di più saranno obbligati di lasciarvi tutto quello, che vi potrà sopravanzare, dovendo essi d’anno in anno farne di nuovo per adattare li Scenarj alli Drammi, che accaderà rappresentarsi; al qual fine s’in-
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Irapportifra la corte egli impresari
tende che sia loro concesso il luogo capace da formare ed eseguire le necessarie decorazioni, secondo ne è sempre stato l’uso in servigio d’ogni Teatro. Quinto: Dovranno li sodetti Impresarj far rappresentare nel R.D. Teatro di Piacenza nella Primavera d’ogni anno sempreche però si faccia la Fiera, un’opera sontuosa in musica, ed osservare in quella congiontura tutte le condizioni, e promesse che si sono spiegate nell’antecedente terzo capitolo relativo al Teatro di Parma, al rispetto e risarcimento e conservazione de’ Stabili come dei fabbricati; come pare di uniformarsi al quarto capitolo nel ricevere mantenere, e restituire li Capitali di quello di Piacenza ed aver l’uso ed il comodo per la costruzione delle decorazioni. Sesto: Saranno obbligati li medesimi Impresarj di lasciare a libera disposizione della R. Corte l’uso di cinque Palchi nell’ordine al Piano del Teatro di Parma, sette nell’ordine primo, fuori di quelli, che sono occupati da Reali Padroni, ed altri sette nell’ordine secondo, e questi tutti gratis, e senza che abbiano a pretendere pagamento veruno, avvertendo che nell’accennato ordine Primo de Palchi due altri sempre dovranno stare a disposizione de Signori Ambasciatori da quali però ne esigerano la consueta pensione. Di più s’obbligano li Sodetti Impresarj di lasciare nella Platea due File di sedili, al’Ingresso libero del Teatro per quelle Persone della R. Familia, le quali preventivamente alle opportune rappresentazioni saranno nominate, e date in nota dal prefato Intendente Generale. Rispetto poi al Teatro di Piacenza ogni volta che la R. Corte colà passasse a soggiornare in tempo della Fiera, dovranno li sodetti Impresarj accettare quelle disposizioni sopra de’ Palchi, che allora dall’accennato Intendente Generale saranno loro comunicate. Settimo: A contemplazione di questa Impresa resta dal nominato Sig. Intendente Generale, mediante l’autorità concessagli da S.A.R. alli sodetti Impresarj, e Compagni accordata la Privativa de Giochi proibiti da esercitarsi a loro piacimento per tutto il triennio sodetto ne medesimi due Reali Teatri secondo il solito praticato sin’ora, e non altrimenti. Ottavo: In seguito di che si obbligano li riferiti Impresarj di pagare ogn’anno a titolo di pensione alla Cassa dell’Intendenza Generale Lire ventimila in contanti moneta di Parma, e queste di semestre in semestre, ovvero in fine d’ogn’anno come pit piacerà al sodetto Intendente Generale. Nono: Essendo gia arrivata la compagnia de’ Comici di Venezia ad istanza del Sig. Felice Antonio Simoni, e cosf prima che fosse stabilita la presente nuova Impresa, saranno tenuti li suddetti nuovi conduttori di assumere in se il già convenuto carico rispetto alla detta Compagnia de’ Comici rilevando il predetto Sig. Simoni da qualunque obbligo di contratto fatto con detta Compagnia, ed in oltre di rimborsarlo prontamente di quelle spese, che giustificherà d’aver fatto per l’arrivo della medesima.
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Decimo ed ultimo: Per la dovuta ed esatta osservazione degli accennati capitoli, dichiarano le Parti, che la presente scrittura abbia a valere, ed effettivamente abbia la stessa, vigore come se fosse rogata da pubblico Notaro, in provva di che obbligano li soddetti Impresarj e Compagni se stessi, e loro Beni per l’indennità della stabilita Impresa, e danno per sigurtà il Sig. Giuseppe Antonio Murri Parmigiano il quale spontaneamente seco loro obbliga ise stesso, e suoi beni realmente personalmente ed in solidoni. Parma 18 aprile 1751.
Doc. 2: contratto stipulato fra il Du Tillot e l'impresa A. Raimondi, Parma, 5 luglio 1752 (A.S.Pr., T.P.P., b. 1)
Parma 5 luglio 1752 Avendo l’Ill.mo Sig. Guglielmo Du Tillot Intendente Generale della Casa di S.A.R., e parimenti Direttore Generale di tutti li suoi Teatri di Parma, e di Piacenza, giusti motivi di volere terminata l’Impresa de Teatri medesimi, e questa di rinovare con un migliore, e più vantaggioso
regolamento: ed essendosi esibito il Sig. Alberto Raimondi di assumere, ed esercitare attualmente la detta nuova Impresa, sottomettendosi alli Patti, e Condizioni, che si diranno in appresso, è venuto in sentimento
l’accennato Sig. Intendente, e Direttore Generale di concludere seco il Contratto, e stipularlo colli seguenti Capitoli, li quali sebbene restano estesi per la presente privata scrittura, si dichiarano però le Parti, che debba questa avere la stessa forza, e vigore, come se fosse un pubblico, e rogato Instrumento. Primo: adunque si obbliga il sodetto Sig. Raimondi di fare rappresentare nel Teatro di Parma, e cosi nel Carnevale d’ogn’anno della Locazione ad essolui accordata di sei anni consecutivi da cominciarsi nel giorno sesto del corrente Luglio, una, o due opere musicali, secondo
richiederà il breve, o lungo corso del Carnevale; ed ognuna delle migliori, e delle più belle, che oggidi gli saranno possibile, promettendo Egli di non mancare dal canto suo a quanto gli sarà permesso per compiacere, e servire fedelmente al Genio venerato di S.A.R.; e della Sua Real Casa. Secondo: si obbliga di far recitare nello stesso Teatro di Parma, e cosi nella Primavera, o nell’Estate d’ogn’anno della sodetta locazione, una
delle migliori Compagnie Comiche, che gli potrà riuscire di avere di Venezia, e di eccettuare in detto tempo il numero di dieci recite per il privato Teatro della medesima A.S., o in Colorno o in Sala, ed in quei giorni, e con quella ripartizione, che gli verrà prescritto, riportandosi per li viaggi, e per il restante a quanto è stato in passato praticato. Terzo: si obbliga di far rappresentare nel Teatro di Piacenza un’opera musicale non minore di quelle, che farà rappresentare nel Teatro di Parma: questo però semprecché si faccia in detta Città la solita Fiera;
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giacché altrimenti succedendo, s'intende di non essere a tale obbligazione soggetto. Quarto: si obbliga di pagare ogn’anno di detta Locazione Lire quarantamile, e cinquecento Moneta di Parma, e cosi la metà di sei mesi in sei mesi anticipatamente, e queste a titolo di Pensione, ed in corrispon-
denza della Privativa, della quale si parlerà appresso. Quinto: si dichiara il mentovato Sig: Raimondi, che ogni qualvolta Egli scorgesse, che in capo alli due primi anni dell’accennata Locazione non potesse più reggere, ne sostenere la sodetta Impresa per cagione delle spese maggiori de proventi d’essi Teatri, possa, e debba essere in libertà di rinunciarla, e dimetterla, e conseguentemente di pretendere dall’Impresario successore il compenso di que’ Capitali, che gli saranno occorsi di fare in aumento di quelli, che di presente Egli riceve di ragione de Teatri medesimi e li quali dovrà opportunamente restituire a norma dell’Inventario dell’anno prossimo scorso 1751. Sesto: per reciproca corrisponsione poi dell’incarco, al quale si sottomette il sodetto Sig. Impresario, e delle gravi spese, che esiggerà l’osservanza delle assunte obbligazioni, gli accorda, e gli concede il Sig. Intendente, e Direttore Generale, previa la piena facoltà compartitagli da S.A.R. la Privativa de Giuochi proibiti del Faraone, Biribisso, ed altri ancora della stessa natura, con la libertà di esercitarli a suo arbitrio, e piacimento nel corso della sodetta Locazione, o ne sodetti Teatri di Parma, e di Piacenza, o in altro sito, che abbia relazione a medesimi, anzi per l’esatto, ed intero pacifico godimento d’essa Privativa sarà lecito allo stesso Sig. Impresario di implorare coll’intercessione dello stesso Sig. Intendente, e Direttore Generale, dalla clemenza di S.A.R. la grazia della rinovazione della Grida specialmente a questo effetto promulgatasi nell’anno scorso 1751. Settimo: sarà dal medesimo Sig. Intendente e Direttore Generale fatto consegnare al sodetto Raimondi Impresario il Casino esistente dietro il Teatro di Parma, accioché possa sull’esempio di quello di Piacenza avere il comodo di esercitarvi liberamente la sodetta Privativa, e di
far godere al Teatro quegli altri, per mancanza de quali si rendevano negli anni passati assai malagevoli le Teatrali Funzioni. Ottavo: Promette per ultimo il mentovato Sig. Intendente, e Direttore Generale di far dare tanto in Parma, quanto in Piacenza li soliti siti capaci, e necessarj da poter costruere li nuovi occorrenti scenari], e ri-
spetto a quelli di Piacenza vi farà aggiungere gli alloggi per l’Architetto Teatrale, e suoi Pittori.
Per convalidare pertanto li sopradetti Capitoli, e per dar loro quell’autoramento che può credersi necessario alla loro esatta, ed immancabile osservanza, si sottoscriveranno le Parti nella reciproca forma, che si vedrà abbasso. E siccome con Lettere scritte dal sodetto Sig. Intendente, e Direttore Generale alli Signori Conte Ferdinando Scotti, e
Marchese Marsilio Paveri per ordine di S.A.R., restano questi eletti Direttori de sodetti Regio-Ducali Teatri, salva però ad Essolui la direzione di già conferitagli dalla prefata A.S. e ciò per il pit lodevole Regolamen-
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SILT OCAIVA ERE Vr RIA FUR] GibenanP Messe PMellogi to de Teatri medesimi cosî il contratto stipulato colla presente privata scrittura tra l’ennonciato Sig. Intendente, e Direttore Generale, ed il prefato Sig. Alberto Raimondi, li nominati due Cavaglieri si obbligano di garantire, come di fatti lo garantiscono nella più valida forma, nell’altro esemplare detta presente sudetta scrittura, alla quale si riportano. Guglielmo Du Tillot Intendente e Direttore Generale come sopra affermo, ed approvo. Si fa avvertenza, che non si è fatta menzione alcuna della destina-
zione de Palchi de Regio-Ducali Teatri, ne della Riserva di quelli del Reale servigio, ed assegnati alli Ministri, e Persone della Real Corte, e come leggevasi nel contratto della scaduta Impresa posciaché essendosi per questa parte cangiata nel prossimo scorso Carnevale la disposizione de Palchi medesimi, e stabilito per sovrano decreto il godimento, e l’affitto dei Palchi stessi a favore de nominati nell’ultimo Rollo dell’anno sodetto
1751, il Sig. .Impresario accennato
si è pienamente
rimesso
all’istesso venerato decreto, e lascia all’autorità del Sig. Intendente e Direttore Generale l’assegnazione di quelli, che ancora si trovano, o sono per divenire vacanti. E si dichiara per totale conclusione, e manutenzione del presente nuovo Contratto, che insorgendo nel decorso dell’Impresa qualche difficoltà sopra d’alcuno de’ suoi capitoli, che si tenesse per non bene spiegato, si debba incontinenti riportare alla spiegazione di quelli dell’antecedente rogato Instrumento. Du Tillot confermo.
DOC. 3: contratto stipulato fra il Du Tillot e la Compagnia RomenatiMagnanego e Pellegri (A.S.Pr., T.P.P., b. 1) Essendo piaciuto alla Regia Intendenza di fare un affitto de Giuocchi esercibili privativamente in tutto l’anno, ed ogni tempo del medesimo nelli Teatri di questa Città di Parma, e luoghi annessi ai medesimi, de Giuocchi dissi di qualunque specie, e qualità benché cadenti sotto qualunque pit rigorosa censura delle Gride proibitive de Giuocchi, si pubblicate, che di pubblicarsi, non ché degli altri Giuocchi della Piazza, Campagna, e questi tutti nel modo stesso con cui li gode, e li fa esercire il presentaneo Condutore; ed essendosi afferita all’affitto sodetto gli infrascritti Signori Romenati, Magnanego, e Pellegri col’aver fatto il loro progetto alle mani di S.E. il Sig. Intendente Generale, e Ministro delle finanze Don Guglielmo Duttilot; quindi è, che essendo state riconosciute dalla prelibata E.S. pit vantaggiose le massime su tale proposito progetate dalli sopra accenati offerenti a’ fronte di altre che erano state fate alla R. Intendenza predetta da altre persone, per ciò il medesimo Sig. Intendente Generale anche colla Reale approvazione del Serenissimo Sig. Infante da esso lui all’infrascritto effetto riportata è venuto come viene a deliberare, e concedere come delibera, e concede alli precitati
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Bat
Trapportifra lacortee gli impresari
Signori Romenati, Magnanego, e Pellegri in affitto i Giuocchi tutti sovra mentuati nel modo, e forma, sotto li seguenti patti, condizioni ed obbligazioni cioè Primo: Avrà il suo cominciamento l’affitto sodetto il primo d’agosto dell’anno prossimo venturo 1758 e durerà per un quinquennio continovo, e cosi a’ tutto luglio 1763. Secondo: Saranno obbligati detti Signori Conduttori far rappresentare nel Carnevale d’ogni anno durante detto quinquennio due Opere serie in musica, una di uno spartito vecchio, e l’altra di nova composizione, e queste a’ tutte loro spese, salvo quanto qui entro. Terzo: Si dovrano dalla Reale Intendenza consegnare mediante un esato distinto inventario alli detti Signori Conduttori, tutti gli attrezzi utensigli, comodi, ridotti, camere anesse, quant'altro gode il presentaneo Conduttore di mediato, o immediato serviggio, e aderenza del Regio Teatro. Quarto: Chiunque vorrà godere del divertimento delle opere sf serie, che buffe, o comedie, o altro spetacolo, che verà rappresentato ne’ precitati Teatri durante il detto quinquennio, dovrà absolutamente pagare e tutto il ricavato del’entrata, Platea, e palchi, botteghini, o altro sarà a totale, e particolare comodo, e proffito de detti Conduttori e non saranno esenti senonsé queli, che si spiegano nella notta separata, che viene rimessa dalla Reale Intendenza alli detti Condutori per loro corrispondente contegno. Quinto: Sarà è carico della Reale Intendenza somministrare alli detti Conduttori il scenario e vestiario tanto de cantanti quanto de ballerini, e comparse occorente per le opere, e adattati ai drammi e caratteri delle medesime, il tutto nella corrispondente perffezione, e tante volte quante occorerano farsi le rappresentanze delle medesime. Sesto: Per una tal quale riconoscenza del’accenata somministrazione di
scenario, e vestiario come sopra, pagheranno i Conduttori alla Reale Intendenza Lire diecimille contanti di Parma ogn’anno, ne’ termini, che si fisserano qui entro per l’infrascritta pensione. Settimo: Per l’orchestra, che dovrà servire nelle opere de rispettivi carnovali si formerà una notta delli individui de quali dovrà esser composta, e se le fisserà il prezzo per passare indi su ciò di concerto tra l’Intendenza Generale, e detti Conduttori nella maniera più conveniente, à carico de quali Conduttori resterà il pagamento della medesima, e come verà praticato nel prossimo Carnovale con il presentaneo Conduttore. Ottavo: Sarà in libertà delli detti Conduttori la scielta dei cantanti, e di tutti gli inservienti alli Teatri sodetti, col’obbligo però a detti Conduttori di preventivamente comunicare le loro idee alla Reale Intendenza, e per averne l’approvazione. Nono: Si accorda alli detti Conduttori la privativa de Giuocchi per tut-
to l’anno, ed in qualunque tempo del medesimo durante il presente affitto del Teatro, Piazza e Campagna sovra espresati ne’ modi, e termini, che li gode, e godere deve il presente Condutore, e sotto li patti
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G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
espressi, ed enunziate delle rispettive gride sovra ciò veglianti, cosiché però le gride sodette [...] non debbano né diminuire in alcuna
partela presente concessione, restando per altro sempre ferma la generale proibizione de sodetti Giuocchi in qualsivoglia luogo, e tempo come al’ presente, [...] la piena osservanza della quale dovrà essere dalla Reale Intendenza pienamente garantita. Decimo: Sarà a carico della Reale Intendenza di somministrare ai Conduttori per le opere de rispettivi Carnovali li ballerini, e ballerine, senza che i Conduttori pensare debbano ad alcuna spesa, onorario, stipendio, o altro peso per i medesimi, mentre questi saranno a spesa, e carico [...] della Reale Intendenza sodetta.
Undicesimo: Sarà lecito alli Conduttori far rappresentare fra’ l’anno, e fuori del tempo del Carnovale Opere buffe, Comedie, ed altri divertimenti, e spetacoli, nelli Teatri sodetti, e di dare nel tempo del Carno-
vale oltre le Opere, di quando in quando, e quando ad’essi piacerà i festoni da ballo, ‘col’comodo della maschera, ed a tale oggetto per rendere più luminoso il Teatro col maggiore concorso dovrasi pubblicare una concessione della maschera per il Teatro sodetto alla sera in tempo di Carnovale. Dodicesimo: Saranno tenuti i Conduttori pagare ogni anno alla Reale Intendenza è titolo di pensione Lire cinquantamille correnti di Parma, e queste in due ratte eguali la mettà cioè alla fine di dicembre, e l’altra mettà alla fine di Carnovale durante detto quinquennio, o sua proroga qualora venisse a seguire giusto il caso di cui, e come qui dentro, cominciando a fare il primo pagamento alla fine di dicembre dell’anno 1758 e cosf seguitando. Tredicesimo: Nel caso che la Reale Intendenza venisse in sentimento di licenziare tutta la truppa de ballerini, che presentemente serve alla R.A.$S., in questo caso sarà à carico delli Conduttori la provista, e pagamento de ballerini occorenti per le Opere di Carnovale, quali dovranno essere dodici cioè una copia seria una di mezzo carattere, e li altri otto figuranti ed’ in tale caso resteranno i detti Conduttori libri, ed esentati dal pagamento della detta annua pensione delle Lire cinquanta mille sovra citate, restando per sempre à carico della Reale Intendenza anche in questo caso la somministrazione del Vestiario nel modo sovra espresso. Quattordicesimo: Nel caso poscia, che piacesse alla Reale Intendenza ritenere al Regio Servigio quattro, o sei de migliori presentanei ballerini dovrano li Conduttori paghare l’annua pensione di solo Lite quaranta mille ne’ termini, e ratte sovra divisate, ed in oltre saranno te-
nuti detti Conduttori somministrare a’ proprie loro spese sei ballerini figuranti, restando sempre à carico della Reale Intendenza anche in questo caso la soministrazione del Vestiario come sopra. Quindicesimo: Absentandosi in qualunque tempo la Reale Corte dalli Stati di Parma, il presente contrato si avrà immediatamente per risoluto, e caducato.
Sedicesimo: Nel caso, che per ordine Sovrano, o per qualunque altro contingibile avenimento, che derivasse da fatto di Principe, venisse
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Trapportifra la corte egli impresari
interotto il Carnovale, o sei settimane prima della sua scadenza, o nel di lui corso, resteranno i Conduttori esentati dal’obbligo delle due opere del Carnovale in cui accadesse la detta interocione, e dal pagamento delle Lire dieci mille come sopra fissate in riconoscenza del Vestiario, e Scenario, ma dovranno ciò nonostante pagare l’annua pensione delle Lire cinquanta mille, e continuerano detti Conduttori nell’esercizio, e godimento delli rifferiti Giuocchi, ed in oltre in questo caso, si accorda a’ favore de Conduttori la proroga di un anno oltre l’accennato quinquennio sotto i medesimi obblighi, patti, e condizioni sovra fissate. Diciassettesimo: Il presente contrato, comecché riguarda ad un effetto privato della R.A.S., e, di seguenti non rimane sogetto ad alcuna formalità di asta, non potrà già mai in verun tempo durante il detto quinquenio o proroga succenata essere sogetto ad’ alcuna alteratione per qualunque aumento, che potesse venire offerito alla Reale Intendenza ne’ anche sotto pretesto di [...] ma dovrà mai sempre in qualunque caso sortire la piena e totale sua fermezza a’ norma del sovra convenuto. Diciottesimo: Per la piena, e totale osservanza di tutto quanto sopra
non solo li detti Signori Romenati, Magnanego, e Pellegri si obbligano frà se stessi realmente personalmente principalmente, ed in solidoni, ma anche anno dato, e danno per sigurtà il Sig. Antonio Fontanino figlio del fu abbitante in Parma nella Vicinanza di San Pietro, quale si è obbligato anch’esso realmente principalmente personalmente ed in solidoni coli detti Signori Condutori in forma sotto le dovute rinoncie ed obbligazione de beni, ed per ogni miglior modo.
DOC. 4: progetto per l’opera durante la fiera di Piacenza, Parma 6 genNalol/5bLi(AS'ProgleP! Pi bd).
PROGETTO
PER L'OPERA IN TEMPO
DELLA FIERA DI PIACENZA
Gli interessati faranno rappresentare nel R.D. Teatro di Corte in Piacenza nel tempo destinato della Fiera un Opera in Musica in quella forma, e con quelle decorazioni, che saranno opportune, e convenevoli: a tale effetto si concederà ai medesimi interessati da chi si spetta di formare una tale rappresentazione, e di poterla eseguire a grado loro, giusta l’idea che ne avranno. Condizioni che si ricercano Primo: Il Teatro cogl’annessi, e connessi e colle dote di scene, Ridotti,
ed altro a lui spettante in piena libertà, ed insieme il Casino unito a detto Teatro intieramente disoccupato in tutto il tempo delle recite,
ed anche un sito opportuno nella Cittadella per comodo de Pittori, o
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VA
G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
d’altri Operaj, se abbisognasse. La consegna delle quali cose si farà in tempo debito per farne le convenevoli disposizioni. . Secondo: Tutti i Palchi del medesimo Teatro colla pensione ad essi, che nelle ultime Fiere fu posta, la quale debba cadere sopra tutti indistintamente eccetto quelli della R. Corte destinati e sono: il Palco Reale della Corona, il Palco sopra esso, il doppio Palco nell’ordine (nobile) il lobbione de paggi. Quando poi la R.A.S. volesse qualche altro dei Palchi, si dovrà individuarlo anticipatamente, e corrispondere la sua Pensione. Terzo: Tutti senza riserva, ed esenzione dovranno per ordine particolare di S.A.R. pagare l’ingresso del Teatro, e la Pensione sudetta dei Palchi, togliendo ogn’uso introdotto de’ privilegi all'incontrario, che se la R.A.S. ordinasse qualche numero de esenti, dovranno questi individuarsi, e farne la corrispondenza a norma de’ Palchi. La clemenza di S.A.R. inoltre permetterà che si custodisca di comune intelligenza col Sig. Intendente il transito privativo dal Palazzo al Teatro, quando la R.A.S. si determinasse di onorare il Teatro della R.S. Persona: diversamente dovrà esso transito rimanere chiuso, senza che altri ne possa fare alcun’ uso. Quarto: Tutti i Giuochi di Zara, Bassetta, Faraone, ed altri, tanto sulla Fiera che in città, e in Teatro, e così tutte le Lotterie della Città, e della Fiera, e del Teatro, e inoltre le bottiglierie del Teatro e della
Fiera saranno privative degl’interessati in tutto il tempo della Fiera, e delle recite, permettendosi però che nei siti lontani dalla Fiera in città, possano introdursi i Giuochi permessi, ed affittati ultimamente dalla Reale Camera di Piacenza, che sono giuocchi di Bisotta ed altri non proibiti, ed espressi nell’affitto mentovato. Quinto: Ogni provista d’Operaj d’artefici ed in fine di tutto ciò, che spetterà all'esecuzione dell'Opera, sarà in libera disposizione degl’Interessati, al di cui carico sarà il porre in scena l’opera nel giorno dell’aprimento destinato alla Fiera, e farne ventidue recite, siccome è il costume, ed anche di più se loro piacesse, non oltrepassando però il numero di trenta, in cui dovranno godere dei sopranotati privilegi. Sesto: Quando per suprema volontà, o per alcuno impensato accidente venisse tolta, o sospesa l'Opera, o la Fiera, si bonificheranno agl’interessati quelle spese di scene, che resti in accrescimento al Teatro, delle quali ne sarà fatto una giusta perizia. Settimo ed ultimo: Il Sig. Intendente passerà agli interessati il presente progetto munito della Reale approvazione, ed Egli in seguito lo convaliderà degl’ordini opportuni e corrispondenti alla di lui veneratissima carica. Ed infine dal Ministro sarà munito delle valide forme, e assistito dalla sua autorità per sicurezza, e indennizazione degl’Interessati. Parma 6 gennaio 1751 Io Guido Riviera come esibitore del presente progetto, ed uno degl’interessati, mi obbligo all'adempimento di tutto ciò che contiene
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Irapporti fra la corte egli impresari
esso progetto anche a nome degli interessati assenti, in vigore della particolare delegazione in me da essi fatta nella nostra privata Scrittura di Società. Io Francesco Goin qui presente, come uno degl’interessati mi obbli-
go, a quanto sopra. Io Guido Ghilardoni qui presente, come uno degl’interessati, m’obbligo a quanto sopra. Parma 6 febbraio 1751
Il presente progetto rimane approvato da S.A.R.
Conte Caracciolo
Si concede il R. Teatro richiesto con tutti annessi, e connessi, e
tutt'altro dipendente dall’Intendenza Generale
Guglielmo Du Tillot.
Doc. 5: costituzione della Società dei Cavalieri, 1761, copia (A.S.Pr., Carte Moreau de Saint-Méry, bb. 24-26) PER LA SOCIETÀ DE’ CAVALIERI DELLA NUOVA DIREZIONE DI QUESTO R. DUCAL TEATRO 1761 Si è stabilita una società di Cavalieri, sotto il titolo di Cavalieri Direttori per la Direzione di questo Regio Ducal Teatro, che avrà il suo principio li 6 Aprile anno corrente 1761, e da continuarsi per sei anni consecutivi con le condizioni, regole, e patti susseguenti approvati, accettati, e sottoscritti dai medesimi.
Primo: Sarà la Società divisa in carati giusta la lista, che segue de’ Cavalieri caratanti; ed il carato regolato in cinquanta zecchini gigliati, che sarà la somma di zecchini, e questi dovranno essere incassati entro di tutto il Mese di Marzo venturo. Nota dei Cavalieri Associati
Signori Conte Montanari Conte Cantelli De Ralvo
}
Marchese Bergonzi Conte Giacomo Sanvitale Conte Del Verme Abbate Condillac D. Guglielmo Du Tillot Marchese Piazza Marchese di Soragna Cavalier di Rohan Conte Alessandro Sanvitale Conte Leonardo Malaspina Marchese Calcagnini
Carati
Zecchini
e 2 2) 2 2 2 12 2
600 100 100 100 100 100 600 100
2
100
2 2
100 100
2 2
100 100
DA
G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
D’Antoine Marchese Bevilacqua Marchese Manara } Conte Trigona Marchese Cusani } Marchese Rosa Conte Volpari De Negro Totale
2 2 2
100 100 100
2
100
2 100 Beb e e 58 2900
Secondo: Tutto il denaro entrerà in Cassa delli Cavalieri Direttori della stessa, come si vedrà nella distribuzione delle rispettive Incombenze,
e se ne somministrerà a quei Cavalieri a carico de’ quali sarà il provvedere le [...] de’ Giuochi, dandone agli espressi Direttori della Cassa li Conti alla fine d’ogni mese. Terzo: Gli altri Cavalieri Direttori, che saranno incaricati di provincie diverse, che richiederanno continue spese; come per le Scene, Onorarj, de’ Virtuosi, Operaj, Artefici riceveranno sopra li loro bisogni firmati da essi loro il denaro occorrente, e ne daranno similmente l’impiego alli espressi Cavalieri Direttori della Cassa alla fine d’ogni mese. Quarto: Tutti li Giuochi di ragione di questa Impresa meno quelli attinenti al Teatro, potranno essere affittati. Quinto: L’inventario degli Abiti Teatrali, compresi li berettoni di ogni qualità, Cimieri, Capelli, Piume verrà fatto, e descritto distintamente sf per il numero, che per la qualità, e cosî con distinzione di tutte le quadriglie di abiti, classi, e caratteri; il di lui essere, stato, e qualità sarà riconosciuto da periti scielti da ambi le parti interessate; cioè per chi deve consegnarlo, e riceverlo; e dovrà essere restituito nello estesso numero, qualità, e maniera.
Sesto: Lo stesso si pratticherà per quello riguarda le macchine, ordegni, scenario, attrezzi, corde, mobiglie, utensigli, capitali ecc. Settimo: Cavalieri incaricati della Cassa Signori Ottavo:
Marchese Piazza Conte Trigona Cavalieri per la Direzione della Musica, Scielta di Virtuosi, Coristi, ed Orchestra
Composizioni,
Conte Montanari
Signori
Marchese Piazza Monsieur Du Tillot
Nono: Cavalieri per la Direzione del Scenario, Poema, Vestiario, e Balli
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Irapporti fra la corteegli impresari
Signori
Marchese Monsieur Marchese Marchese
Manara De Kailo Calcagnini Malaspina
Decimo: Cavalieri per la Direzione dell'Economia di Pigioni di case, illuminazioni, operarj, spese serali comparse, carrozze, legna, carbone, manuanti ecc. D’Antoine
Signori
Conte Trigona Marchese Cusani De Negro
s
Undicesimo: Cavalieri per la Direzione dell'Economia della Porta
Signori
Conte Cantelli Conte Volpari Marchese Dalla Rosa
Ogni sera li suddetti Cavalieri Direttori sigilleranno la cassetta e la faranno trasferire alla Cassa; veniendole raccomandata ogni assistenza acciò nessuno entri senza pagare indispensabilmente e senza biglietto, e che li Portinari si tenghino alle Porte sino alla fine dell'Opera. Dodicesimo: Cavalieri Direttori assistenti alli Giuochi Conte Montanari Conte Cantelli De Negro
Signori
Conte Volpari Marchese di Soragna Marchese Cusani Marchese Rosa
Marchese Calcagnini Tredicesimo: Che nessuno possa prendere impegno di protezione, bensi
possa suggerire qualunque soggetto di abilità. Quattordicesimo: Che i stranieri possino accompagnare le Dame nelle loro rispettive loggie prendendo però un biglietto. Quindicesimo: Che ognuno anco degl’Interessati abbia assolutamente a prendere il suo biglietto d’entrata, e platea. Sedicesimo: Che nelle rispettive incombenze addossate alli Signori deputati ognuno possa prendere qualunque Soggetto per gli Virtuosi, ballarini, o Artefici, che sarà del piacere della deputaneria di quella Provincia.
Sb;
G. Ferrari - P. Mecarelli - P. Melloni
Diciassettesimo: Che tutti i Periti nelle loro rispettive arti, abbino a visitare il Teatro, acciocché venghi riparato .inel bisognevole, o restituito dopo spirato il tempo della Società nello stesso buono stato. Diciottesimo: Che nessuno possi rifiutare quelle incombenze che verranno assegnate secondo l’abilità, ed il genio. Diciannovesimo: Non importerà, che chiunque della Società entri in due deputanerie. Ventesimo: Verrà tassato dalla Società il prezzo di paoli sei per il biglietto de’ forastieri, e paoli [...] per li terrieri. Ventunesimo: Dopo l’Opera di Primavera si farà un Inventario generale ed esatto di tutto il Vestiario per esaminare, e riconoscere in quale stato ritroverassi in conseguenza di quello si sarà fatto in detta Opera, o pure se la Società giudicherà a proposito si diferirà sino alla Quaresima.
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Ventiduesimo: Converrà che la Società dii un conto generale alla fine dell’anno alli Cavalieri Direttori della Cassa, acciò per comune soddisfazione se ne vedi il risultato. Ventitreesimo: Siccome interverranno nel corpo de’ suonatori, che compongono l’orchestra gli virtuosi di Camera di S.A.R., si praticherà con gli medesimi della Società de’ Cavalieri Direttori quell’istessa gratificazione, che sinora è stata praticata dalle altre Imprese Teatrali essendo la somma di [...] per ogni rappresentazione, la quale si passerà alla Cassa della R. Intendenza. Soggetti che si conserveranno Il sig. Pio Quazza Il macchinista con il soldo di 1600 Il capo marangone Pietro Parmegiano che va d’accordo con il detto macchinista per il regolamento delle decorazioni, macchine ecc. Il sarto teatrale Giovanni Betti. Il piumista con il soldo annuo di 2000 Il Sig. Carmanini di Bologna aveva una recognizione annua di zecchini 30 per la continua corrispondenza, e carteggio con gli Virtuosi, e Ballarini, che si fermavano per questo R. Ducal Teatro.
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EZIO
RAIMONDI
Conclusioni
E difficile proporre un’appendice a una conclusione che c’è già stata, ma se non altro si può aggiungere un ringrazia-
mento e assumere un ultimo ruolo. Il ringraziamento è a tutto il pubblico che in fondo è stato attore e spettatore e, da un certo punto di vista, ha quindi realizzato in concreto il tòpos algarottiano del libro-spettatore. Lo ringrazio ancora perché questa sua partecipazione è segno di un reale interesse, quasi un altro modo per verificare la fascinazione musicale e teatrale. Quanto al mio ruolo, è difficile dire in
quale veste devo parlare. Io vorrei parlare un poco proprio da spettatore. Ho preso tanti appunti unicamente per dimo-
strare la mia parte, per cercare alla lettera di imparare, identificandomi con il curioso che si pone sempre sul confine delle proprie competenze partendo dall’ipotesi che gli altri possiedano argomenti più interessanti. Questa volta non sono stato affatto punito nella mia aspettativa, anzi ho dovuto — per cosi dire — aumentare le mie considerazioni di partenza. È vero, ma io non li ho presi in quel modo, che fin dall’inizio è stato mosso qualche rimprovero ai cosiddetti storici della letteratura di cui, sul piano delle divisioni accademiche, io rappresento una delle tante figure ramificate. Una volta, Walter Benjamin affermò che non c’è dialettica se non c’è inquietudine: ora, io ho ascoltato queste straordinarie —
nel loro articolarsi —
relazioni, comunicazioni,
controproposte con l’inquietudine del curioso che, secondo il dettame di Benjamin, portava necessariamente ad una prospettiva dialettica. La prima considerazione che fa un curioso, quando sta per uscire di qui e si chiede: «Che cosa ho imparato, che cosa ho messo in chiaro?», è: in aree di questa natura non si può dare specializzazione che non giochi contemporanea381
E. Raimondi
mente su alcune ipotesi generali, e l'operazione è tanto più complessa in quanto in molti casi gli strumenti non preesistono ma si determinano soltanto attraverso una ricerca. In qualche circostanza, dunque, le nostre ipotesi mancano ancora di verifiche attendibili. Bianconi, in precedenza, all’interno di una specie di introduzione generale mascherata che considero un poco il controcanto alle battute iniziali di Cruciani, diceva che ci si deve muovere tra empiria ed accattonaggio. Egli si riferiva ad un gruppo determinato, ma ho la sensazione che il principio valga per tutti e certamente per noi storici della letteratura. A questo proposito, anzi, mi veniva a mente un detto di Einstein, non il musicologo
ma proprio lo scienziato, che amava dire che lo scienziato è sempre opportunista, attinge dappertutto non appena trova qualcosa di interessante. Aggiusterei allora la formula dell'amico Bianconi, modificandola in «empiria ed opportunismo», laddove per opportunismo si intende la capacità di raccogliere tutto ciò che può produrre un certo fine e un certo ampliamento della nostra conoscenza e anche della nostra sensibilità. Alla parola «empiria» aggiungerei poi un piccolo aggettivo, sul quale penso che Bianconi senz'altro concorderà, e parlerei di «delicata empiria» nell’accezione goethiana, proprio perché Goethe intendeva che, interrogando i fatti, noi avremmo trovato dentro i fatti le strutture e, probabilmente, le strutture delle strutture. Quando, poco fa, dicevo della prospettiva dialettica che, almeno per un curioso come me, esce da un convegno di questa natura, non intendevo riferirmi soltanto al tòpos. del dialogo e del confronto, che non sarebbe sufficiente, ma intendevo proprio alludere ad un gioco prospettico di parti che — convergendo e qualche volta anche divergendo — ci portano però a identificare un fenomeno nella sua ampiezza. Non c’è dubbio che quello che noi chiamiamo teatro, anche rispetto a un secolo come il Settecento, si identifica in certa misura con la città leibniziana che deve essere percorsa pezzo per pezzo sommando tutte le prospettive per riuscire alla fine ad ottenere un’immagine comunque provvisoria. Cruciani, all’inizio, affermava che di fronte a un
oggetto di questa natura le discipline per cosî dire egemoni 382
Conclusioni
non esistono più. Esiste un sistema di punti di vista che si integrano con altri punti di vista. Esiste, è stato poi ripetuto da altri, una serie di dominanti che devono però giocare le une sulle altre per poter arrivare a determinati effetti e risultati. Continuando per questa strada, ecco allora che si torna nuovamente ad una battuta dello stesso Cruciani, se-
condo cui proprio quando ci muoviamo verso un oggetto complesso occorre cercare di far ricorso a mezzi complessi e riproporre in primo piano il rapporto problemi-fatti, nel senso, se si può dire cosf, che a questioni generali vanno sempre giustapposte realtà particolari. Mentre ascoltavo queste proposizioni, che poi sono ritornate più volte da altre parti, mi rendevo conto che, nel momento in cui si identificava una trama di fatti specifici, si trattava anche di definire degli statuti più generali, e mi veniva fatto di considerare come più volte sia riemerso nei nostri discorsi il profilo di vecchi studi del tardo Ottocento, quando non addirittura quello di grandi repertori del Settecento. Da una parte, le ricerche del Campanini o quelle del Cavatorti; dall’altra, per entrare nelle mie zone, il vecchio Corrado Ricci — com'è stato ribadito anche oggi — e poi, più indietro, Quadrio, Muratori, Tiraboschi. In fondo, per quanto possa sembrare strano, si disegnava di nuovo un'ipotesi,
che non è un'ipotesi di ripetizione ma di sviluppo, a differenza di quel che qualcuno ha pensato quando, presentando anche di recente certi progetti di storie letterarie, si è spaventato al nome del Tiraboschi, non intendendo che si tratta di reinterpretare tutto e riprospettarlo iin una luce nuova. È comunque un fatto caratteristico che tutto il convegno abbia preso le mosse dalle questioni dirette, dagli sguardi tangibili e concreti da cui si può arrivare poi a quegli sguardi pit generali che giustamente però Bianconi deprecava quando esistono in proprio, senza essere prima passati attraverso questo altro piano. In realtà noi ci troviamo in una nuova fase di studi positivi, non voglio dire positivistici, che hanno bisogno però di essere organizzati secondo ragioni e morfologie interne: ecco la delicata empiria goethiana ed ecco anche il senso della nostra presenza di oggi, alla luce della necessità di reinterpretare quelle acquisizioni 383
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E. Raimondi
settecentesche. Quando si è ricordato Geografia e storia della letteratura italiana di Dionisotti, in fondo si aveva già in mente che il Tiraboschi per un verso ma soprattutto il Lanzi nella sua Storia dell’arte avevano approntato proprio un modello di questa natura:
un modello, per cosî dire, di
scuole ed ambiti regionali e nello stesso tempo un’analisi di ordine più vasto, già interna — in qualche misura — ad una logica enciclopedica. Se non vado errato, Cruciani a un certo punto della sua introduzione era arrivato proprio da quella parte. Un curioso come me deve certamente riconoscere che il fatto teatrale si è ampliato rispetto a quelle che erano le sue abitudini di lettore di un testo scritto, non recitato e cantato, e intanto ha inteso ormai che occorre resti-
tuire, per quanto è possibile ma si tratta comunque di un’operazione complessa, la realtà dell'evento. E insomma necessario restituirlo davvero alla storia, ricostruendo fin
dove è possibile lo scenario della comunità entro cui quell’evento, quel fatto, quel testo era immerso. In precedenza Bianconi ha giustamente ricordato che con ogni probabilità non possiamo parlare del teatro settecentesco (e non soltanto a livello musicale) senza dare spazio a quell’ipotesi critica definita «estetica della ricezione», con il corollario dei diversi orizzonti di attesa cui dà luogo, che sola consente di cogliere la realtà teatrale in quanto operazione collettiva. Cruciani ha anche segnalato come le vicende locali siano percorse da certi grandi momenti di tensione evidente o nascosta, al di fuori dei quali non intenderemmo nemmeno la realtà volta a volta pacifica o turbata da contrasti di varia natura cosf come si definisce nei singoli luoghi. Reggio, nella fattispecie, è una costellazione che in qualche caso è andata verso Parma e in altri, scendendo verso Bologna, ha poi attraversato la Romagna (e penso a quando, ahimé in altri tempi, andavo ricostruendo in un itinerario personale di felice e inconsapevole ciclista la mappa dei teatri romagnoli), poi via via Venezia, Firenze, Roma, Napoli. In linea ge-
nerale, dunque, si comprende bene come pit ci si muove in luoghi particolari e più ci s'imbatte in una serie continua di irradiazioni, in un sistema di relazioni continuamente mos384
Conclusioni
so, con individui e statuti profondamente diversi. Da curioso annotatore direi che le istituzioni, vale a dire — in questo caso — proprio le pietre, le immagini concrete, gli statuti e certe funzioni (si pensi all’impresario definito via via con diverse facce e in rapporto a diversi momenti anche della vita cittadina) si sono spesso compenetrati nell’universo composito del teatro. Oltre all’impresario, d’altronde, ci
siamo imbattuti anche nell'uomo colto che recita, nel professionista dagli statuti ambigui fino a quello straordinario, ma non sorprendente, dello spione (o diplomatico o veicolo ambiguo); poi, di tanto in tanto, sono riemersi personaggi in parte noti che riassumevano una figura più piena, in altri casi — almeno per qualcuno di noi e anche per me tra questi — veri e propri fantasmi che hanno preso di nuovo vita e, in questo contesto, sono divenuti sintomi di qualche fenomeno concreto. C’è una storia che si cala dentro a una città e a determinate istituzioni, ci sono personaggi che escono, che fuggono, che abbandonano quella città e questi e quelle insieme costituiscono poi un tessuto di tradizioni, tanto che persino le cose nascoste ci consentono di ritrovare la coerenza di una certa tradizione. In precedenza, ad esempio, non c'eravamo ancora staccati da un personaggio
pieno come il Pariati e, complice la musica del Bononcini e qualche altro mediatore anonimo, ecco il Parisetti riportarci un po’ indietro; cosf come non si è potuto ignorare, perché si tratta di una di quelle figure che restano nel teatrino della memoria,
quel cantante che a Pavia, nel 1712, canta
l’arietta più lenta e diviene per cost dire il sintomo di una tensione fra ragioni del passato e ragioni del nuovo. Pit volte, anche se non mi è possibile procedere con l'ordine che vorrei, è emersa dalla screziata articolazione degli interventi, piena di conflitti ma nello stesso tempo anche di convergenze, una doppia operazione. Da una parte, il tentativo di definire delle situazioni, delle realtà, delle strutture calate poi in individui e in comportamenti, quindi — in una battuta — la ricerca di qualcosa di stabile; dall’altra, l'emergere di un dato che proviene dalle cose, il biso-
gno di accertare come ciò che si definisce stabile tende contemporaneamente a mutare. E a mutare non solo in riferi385
E. Raimondi
mento alle ragioni tecniche di questa o di quella componente del fatto teatrale (penso al problema della tecnica di recitazione) ma anche a riguardo dei fatti scenografici o del diverso coinvolgimento delle istituzioni cittadine nella costruzione del teatro: e mi tornano alla mente le polemiche e i conflitti che caratterizzarono il caso bolognese che, d’altro canto, è abbastanza tipico. Nello stesso tempo, però, sono emerse anche inquietu-
dini di diversa natura e il fatto non stupisce perché se a un certo punto, al di là delle vecchie formule, dobbiamo arrivare a una storia del gusto ampia, comprensiva di tutte le esperienze che definiscono una sensibilità collettiva, non c'è dubbio che il gusto è il luogo d’incontro tra un contenuto di consuetudini collettive e certe ragioni individuali. Si è detto che il cantante muta in parte il proprio statuto (e a ciò vanno forse ricondotti alcuni fatti di biografia pratica) e diviene cosî portatore di esperienze più alte, più significative. Anche le memorie dei nostri scrittori settecenteschi lasciano più volte uno spazio aperto in questa direzione, ma
probabilmente c’è anche altro. I letterati che ci siamo ostinati a leggere come meri scrittori risultano, almeno in quel secolo cosî ricco d'impegno dove la parola «riforma» assume tante scansioni anche prima della grande avventura illuministica (mi riferisco naturalmente all’Ercyclopédie), pieni di interessi concreti, hanno l’idea viva del recitare, del muovere uno spazio teatrale, tanto da occuparsi perfino delle luci. Come dimenticare la battuta impagabile del Paradisi che si lamenta dei suoi giovani collaboratori che nel coro, ahimé,
piangevano con le bocche ridenti e quindi erano venuti meno al criterio della verosimiglianza. Insomma, anche questi personaggi che si muovono dalla letteratura verso il teatro vivono concretamente la trasformazione della propria identità di scrittori. Quello che si percepisce nel mutare dello statuto del cantante, in qualche modo si riproduce sicuramente anche in un personaggio come l’Albergati che ha una protesta molto evidente, benché espressa poi solo in certe forme, contro un tipo determinato di establishment. La generazione che intorno al 1750, e penso ancoraal caso bolognese, con qualche appendice, comincia a dichiara386
10 Conclusioni
re i propri voleri, pur senza essere una generazione di negatori, è una generazione di inquieti che introducono anche nei loro rapporti concreti questa inquietudine. Si allarga anche la realtà e la possibilità di scrittori che si negano all’ordine costituito della famiglia: un poco l’Albergati, poi Alessandro Verri sono già stati ricordati, ma penso anche all’Alfieri. Da diverse parti, attraverso nuove esperienze, si tende ad evadere da quelli che sono schemi dati e, si badi bene, se usassi ancora la cartina di tornasole dei miei scrittori,
dovrei notare che anche le risposte che forniscono sia di fronte al teatro di parola in quanto tale, sia di fronte alla musica, le scelte stesse che più di una volta essi compiono, sono indicative proprio di questi nuovi fermenti, che in parte si rivelano e in parte rimangono ancora nascosti. Da
questo punto di vista ha ragione il sociologo Elias quando dice, proprio parlando di una civiltà di corte, che anche in quel caso — seppure in termini marginali e periferici — dentro al sistema dobbiamo poi via via vedere quelli che sono i momenti di squilibrio, le indicazioni che cominciano gradualmente ad emergere se si guarda agli uomini e alle avventure della loro sensibilità. E solo, si badi bene, applicando una griglia ermeneutica simile a quella approntata in questo convegno, è forse possibile un’operazione di tal genere. Certo, non saremmo stati in grado di leggere i nostri scrittori, quelli che si sono citati, senza questi riferimenti,
senza questa griglia o, come ha detto qualcuno, senza queste piste aperte. Sarebbe rimasto ancora un discorso astratto, sarebbe stato un piccolo sistema o sottosistema estraneo a quel sistema dei sistemi che è in questo caso l’entità che per indizi e per assaggi abbiamo tentato di interpretare. Al contrario, ne è uscita — se io non vado errato — una sorta
di carta con tanti lucidi sovrapposti che, nel loro insieme, rimandano ad una realtà complessa, quasi a un teatro, dove esistono tanti ordini di palchi e ognuno poi deve stare da una parte, ma un poco percorrere anche gli altri. Com'è intuibile, io continuo a fare lo storico della letteratura che,
dal suo palco, cerca di partecipare dei punti di vista spesso più elevati che caratterizzano altri palchi. E perfino la tecnica settecentesca di aggiustamento della visibilità potrebbe 387
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E. Raimondi
venire assunta come metafora dell’operazione che le nostre singole competenze debbono compiere per arrivare a questo dialogo non privo di tensioni. Non soltanto Cruciani, ma anche chi parlava di scenografia ci ha invitati in qualche occasione a meditare sul problema dello spazio, a non fermarci unicamente su alcuni dati. Ci ha, insomma, stimolati a rivedere il processo della parola nel contesto di quell’irripetibile realtà che è uno spazio abitato da qualcuno che ascolta. Qui, e mi avvio a concludere, sarebbe straordinariamente affascinante, se ne avessi
la capacità memorativa, ricomporre tutte le fila, tutte le trame di personaggi e di situazioni che sono rimbalzate di continuo nel giro delle tre giornate di convegno. Non è una formula semplicemente convenzionale, destinata alla sfumatura dorata della clausola, quella che chiama'in causa un «sistema di relazioni». Abbiamo tentato e talora siamo stati costretti, ognuno in compagnia dei suoi oggetti, nella sua delicata empiria, a riconoscere una trama di relazioni e solo cosf è risultato possibile far riemergere, anche se di sbieco, ‘ certi personaggi. Impresari ed altro, presenze di questa o di quella natura che fanno circolare libri, costumi, idee. Nel
dialogo tra Bologna e Reggio ha acquisito nuovo spessore una figura come quella del Taruffi che poi, guarda caso, poco più tardi si sarebbe trovata a Roma a dare l’ultimo elogio del Metastasio e a salutare l’avvento dell’Alfieri fresco fresco della sua prima nazionale privata. E Taruffi è anche lui uno dei personaggi frequentato più volte da Venturi. Cosî, Cerruti ricordava Paradisi proprio perché un personaggio di quel genere era uso a viaggiare per l'Europa (nel suo caso Vienna, Varsavia, la Germania), portando poi nelle proprie tradizioni cittadine prospettive di straordinaria apertura internazionale. Quando si utilizza per casi come questi il termine «provincia», ci si riferisce per definizione ad una provincia europea e l’Emilia per molte parti tiene più fede di altri luoghi (o con pit costanza) proprio a questo tipo di paradigma. Per parte mia, ho in mente certi dibattiti d’ Accademia, con l’Albergati e anche il vecchio Zanotti come protagonisti (in ombra ancora l’Algarotti), dove si discorre di teatro, di morale, di romanzo. 388
Cruciani, proprio all’inizio
Conclusioni
(poi vi è tornato pi volte) ha accennato alla relazione che lega nuove esperienze teatrali e nuove esperienze romanze-
sche. A parte le continue migrazioni tematiche e cronologiche, non si tratta di un fatto casuale poiché quell’elemento borghese, sia pure alto-borghese, quella liberazione dei sentimenti che si affermano nell’arco del Settecento hanno certamente nel romanzo una delle loro parti di forza. Che per esempio a Bologna, poco dopo il ’50, si possa discorrere del romanzo europeo e si leggano i tedeschi non meno degli spagnoli, gli inglesi non meno dei francesi, è indicativo di una dimensione colta che si proietta anche dentro il teatro, portandovi ovvî problemi di trasformazione, nei comportamenti, nella morale, nel gusto (inteso in quel senso lato che è proprio dell’accezione settecentesca). Voglio dire insomma che si apre a questo punto uno spazio grandissimo che, oltre ad arricchire le prospettive dei competenti, si proietta anche in una storia generale, se di essa deve far parte in modo concreto e materiale la cultura con tutte le sue istituzioni. E difficile, per uno storico della letteratura, porsi il
problema della socialità della parola senza entrare sino in fondo nell’universo teatrale, dove si troverà alla fine coin-
volto in operazioni d’altra natura rispetto alla propria competenza. Esiste però una questione che va evidentemente affrontata, anche per riportare i fatti alla loro misura più autentica. Abbiamo scoperto che l’intellettuale eminente di un luogo non domina necessariamente tutte le situazioni: anzi,
qualche volta, prende determinate posizioni proprio perché non può intervenire. Si deve quindi evitare di creare una serie di realtà speculari, perché ancora una volta si tratta di realtà complesse e talora contraddittorie, che hanno ritmi diversi, ed anche i cosiddetti intellettuali sono all’interno di
queste realtà e di questa dimensione. Ad un certo punto si è delineato e, pian piano, affermato il ruolo del ballo e del balletto. A partire dalla metà del secolo anche questo tipo di espressione, con la sua composizione articolata tra mimi-
ca corporea musica e coreografia, assume certo una parte importante nella storia dello spettacolo. Si torni d’altra parte a quanto affermava Cruciani sottolineando che in fondo 389
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poi l'attore professionista e l’attore dilettante, che a un certo punto entra in gara con il professionista, trasmettono un linguaggio autonomo che è il linguaggio del corpo in concorrenza o in integrazione con quello della parola. Personalmente ho la sensazione che noi in quanto storici della letteratura abbiamo studiato troppo poco l’incidenza di queste esperienze nella trasformazione di determinati fatti di parola. Allo stesso modo, è abbastanza probabile, ma affido ai
competenti lo sviluppo di questa affermazione, che certe volte la storia della coreografia moderna passi molto di più attraverso il balletto, che dalla metà del secolo fiorisce, che
non attraverso il melodramma. In questo senso, forse esiste anche qualche piccolo indizio: in primo luogo, certo, l’arrivo della grande moda francese, come abbiamo sentito dal signor Pitrot. Ma se penso a certi giornali che escono a Bologna per pochi anni, ad esempio al cosiddetto «Journal des journaux», osservo che, non appena viene pubblicata in Francia la grande opera di Noverre sulla danza, è recensita a Bologna; ed è indubitabile che ci siano dietro anche ballerini ed altri «specialisti» che quindi trasmettono alla lettera le loro esperienze di cultura. Quando poi dico Noverre, non
c'è dubbio che mi riferisco a Diderot, poiché è senz'altro vero che tutto il discorso pantomimico di Diderot si correla a quello di Noverre, dando vita ad un flusso di informazio-
ni e riflessioni che allarga sempre più il campo di quelle che possono sembrare le semplici proposizioni tecniche. Si dà dunque un sistema di relazioni all’interno del quale ci si può muovere forse non a piacere ma piuttosto con inquietudine e che tuttavia può aprire una prospettiva straordinariamente importante. Intanto, io sono arrivato al-
la fine, il curioso torna nel suo palchetto e non può accendere la luce perché valgono ancora le regole che si sono premesse. Il curioso vorrebbe concludere limitandosi ad osservare che è stata disegnata una mappa o, più propriamente, che gli intendenti hanno disegnato una mappa e quella mappa, al di là della sua configurazione grafica, porta ad una serie di conseguenze. Si tratta di un insieme in movimento da cui scaturisce il problema dell’intersecarsi di diversi fenomeni di sensibilità e di linguaggio che ad un certo punto, 390
Conclusioni
però, entrano a far parte di un’istituzione. Questa istituzione, il teatro, è a sua volta una sorta di microsistema sociale che si definisce attraverso proprie leggi, ma che riflette anche altro. Le inquietudini si appagano, ma nello stesso tempo tornano a parlare. Il curioso ha imparato una quantità di cose e se poi sia in grado o ne di metterle a frutto, questo dipende solo dal fatto che istituzionalmente egli finisce nella propria curiosità. Per i competenti, invece, che molto ci
hanno insegnato e qualcosa sicuramente hanno anche appreso, questa mappa crescerà e probabilmente verrà aggiun-
to qualche ordine di palchi al teatro in cui metaforicamente si dispiega. L'importante è che poi gli sguardi si incrocino e dalle dissonanze nasca infine il senso di un grande problema comune, di un fenomeno umano interpretato nelle sue
strutture e nella sua mobilità visibile ed invisibile.
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Fig. 15. Francesco Bibiena, Soffitto, proscenio e sala del Teatro Filarmonico, disegno di G. Chamant
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16. Francesco Zucchi - Saverio Avesani, Spaccato longitudinale e trasversale, pianta e veduta este del Teatro Filarmonico nel 1731, Verona, Biblioteca dell’ Accademia Filarmonica
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Fic. 17. Giuseppe Filosi, Spaccato del Teatro Filarmonico prima dell'incendio del 1 749, Verona, Museo
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Fic. 18. Francesco Bibiena, Sala dell’Hoftheater di Vienna, incisione di I. A. Pfeffel e di C. Engelbrecht. Monaco, Theatermuseum.
FiG. 19. Francesco Bibiena, Sala del Teatro di Nancy. Primo progetto. Nancy, Musée Historique ] rain.
Fic. 20. Francesco Bibiena, Sala del Teatro di Nancy. Progetto definitivo. Lisbona, Museu Nacion Arte Antiga.
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